"La protesta si spegnerà. Nessuno vuole la guerra"
Il parere di Aaron David Miller, esperto di Medio Oriente
di Francesco Semprini
Aaron David Miller
NEW YORK - Aaron David Miller è tra i massimi esperti di Medio Oriente del Woodrow Wilson International Center for Scholars, negoziatore di fama internazionale e consigliere per segretari di Stato repubblicani e democratici.
- C'è il rischio dell'escalation verso un conflitto?
«Dipende. Se le violenze non registreranno un'ulteriore inasprimento oggi e non si allargheranno alla Cisgiordania e a Gerusalemme, la protesta si andrà spegnendo e questo passerà alla storia come uno dei tanti scontri sanguinari tra israeliani e palestinesi. Del resto le violenze sono una costante del confronto tra i due popoli».
- Non crede che Hamas farà il possibile per dar fuoco alle polveri? «Non credo che Hamas abbia voglia e forza di iniziare una guerra contro Israele, e Israele non vuole infilarsi in una situazione conflittuale come quella del 2014».
- Nessuna conseguenza in questo caso?
«La principale conseguenza della decisione di Trump è di respiro più ampio. Ovvero per quanto il presidente Usa si professi promotore di un nuovo piano di pace, non ci sono elementi alle condizioni attuali per far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo e negoziare la soluzione dei due Stati. Il processo rimane ostaggio dello status quo».
- Crede che gli Usa chiederanno nuove elezioni a Gaza, le stesse che Hamas evita puntualmente dal 2011? «Non credo lo facciano, non ci sono le condizioni per avere elezioni in questo momento a Gaza».
- Quanto sta accadendo a Gerusalemme e Gaza crede avrà ripercussioni sull'intera regione, ad esempio con l'Iran?
«Non penso, o meglio non direttamente. C'è già in atto un confronto tra Iran, Siria e Israele ed è sotto gli occhi di tutti. Teheran userà la questione dell'ambasciata come strumento per la propaganda, potrebbe accrescersi il rischio di azioni terroristiche da parte di formazioni sciite contro obiettivi Usa o israeliani. Ma non credo ci saranno conseguenze dirette, credo che il confronto tra israeliani e palestinesi sfugga a dinamiche più ampie. Certo il percorso verso la pace è più tortuoso oggi di ieri».
(La Stampa, 15 maggio 2018)
«Il grande giorno» di Gerusalemme
Abbiamo riportato solo in parte il titolo di questo articolo. Sul giornale il titolo continua con un ma .... E un elemento retorico ben conosciuto che quando due dichiarazioni sono collegate da un ma, laccento voluto da chi parla cade sulla seconda, non sulla prima. E dopo il ma nel titolo si dice: ... a Gaza è rivolta: strage di palestinesi. Ecco dove il titolista vuol far cadere lattenzione del lettore. E per meglio far capire le sue intenzioni, nel sottotitolo aggiunge: Esplode la rabbia per lapertura dellambasciata americana: oltre 50 morti e più di 2.700 feriti. Tutto questo non corrisponde al punto centrale sottolineato dallarticolista. Per chi legge soltanto i titoli degli articoli a cui non riserva grande attenzione (e sono molti), limpressione che ne può trarre è che per Gerusalemme Il grande giorno è quello in cui si fa strage di palestinesi. NsI
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Fare storia: il popolo ebraico è specializzato in questo soggetto specialmente quando si tratta di Gerusalemme. David, Salomone, i babilonesi, gli antichi romani, i greci, e poi di nuovo gli ebrei. La lotta è stata dura per il popolo ebraico. Ma ieri è stato un altro grande giorno per l'antichissimo popolo di Israele e la sua capitale dove tutto è successo. E, nonostante il palcoscenico fosse girevole e l'attenzione collettiva si spostasse spesso sul confine con Gaza dove ci sono stati 55 morti e più di 2.700 feriti (il vicino Egitto ha aperto i suoi ospedali per curarli e gli Emirati hanno sbloccato 5 milioni di dollari), ieri il quartiere modesto e lievemente remoto di Talpiot ha fatto storia. Qui si trova l'ex consolato degli Stati Uniti, da ieri Ambasciata Americana a Gerusalemme. A dicembre Trump l'ha stabilito, solo cinque mesi dopo l'ha realizzato, come ha detto il suo genero Jared Kushner, con puntualità e coraggio inedito.
Ivanka Trump ha scoperto la nuova insegna blu con lo stemma e il nome del presidente Trump inciso per i posteri nella pietra di Gerusalemme. Con lei il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, un vero alter ego del presidente. Per Israele è stato un momento fondamentale, una specie di nozze d'oro nutrite di reciproco entusiasmo con il Paese il cui presidente Truman riconobbe lo Stato d'Israele 70 anni fa, 11 minuti dopo che Ben Gurion l'ebbe proclamato. «E poi si pentì di averci messo troppo» come ha detto emozionato aprendo la cerimonia David Friedman, l'ambasciatore americano. Netanyahu ha riconosciuto l'impegno di Friedman stesso nel realizzare quello che per lui, ha detto, era un sogno da vent'anni: essere il primo ambasciatore degli Usa a Gerusalemme.
È stata una parata di gioia di fronte a 800 ospiti seduti in un teatro costruito per l'occasione, 250 membri della delegazione americana, personaggi di primaria importanza come Jared Kushner, consigliere di Trump e marito di Ivanka; c'era anche il vice segretario di Stato John Sullivan, l'incaricato per il Medio Oriente Jason Greenblatt, molti membri del Senato e del Congresso, parecchi democratici fra cui Joseph Lieberman, e naturalmente da parte israeliana oltre a Netanyahu anche il presidente della Repubblica Reuven Rivlin, membri della Knesset, del governo, dell'opposizione, del rabbinato e anche del mondo cristiano che è stato un grande alleato del passaggio nella Città Santa.
Il punto di Netanyahu e degli altri israeliani è stata la storicità del momento, il riconoscimento di una verità indiscutibile, negata pretestuosamente o ignorata per motivi opportunistici ( cosa che anche ieri parte dell'Ue ha seguitato a fare) e invece scolpita per sempre nella storia ebraica: Bibi ha ricordato quando sulla stessa altura dove sorge il consolato, ora ambasciata, correva a tre anni col fratello di sei anni Yoni, ed era proibito allontanarsi per paura degli agguati o dei rapimenti. Ecco, ha detto, invece adesso è qui l'Ambasciata del Paese più amico del mondo, e ha ringraziato Trump. Il suo discorso di due minuti ha indicato il significato che il presidente vuole dare alla sua mossa: da una parte un segnale di amicizia immortale, di realizzazione dovuta di una promessa; dall'altra l'apertura di una fase in cui si renda possibile una pace coi palestinesi basata sulla realtà, e sui vantaggi di cui i palestinesi potrebbero godere. Kushner è tornato su questo punto, parlando di valori condivisi, specie quello della libertà; presto è probabile che gli Usa presentino il piano di cui si parla da tempo e di cui Abu Mazen al momento non vuol sentir parlare.
Nel frattempo, a Gaza la situazione ha raggiunto il calore bianco: Hamas ha mobilitato non i centomila che aveva annunciato, ma circa 50mila persone, anche donne e bambini, spingendoli al confine con Israele. L'intenzione fin dall'inizio è stata quella di provocare scontri definiti dall'esercito «molto violenti» per penetrare oltre il filo spinato, cosa che sarebbe ovviamente foriera di attentati e violenze sul terreno israeliano, nelle case, per le strade, nei kibbutz. I drappelli d'attacco erano formati almeno per il 50 per cento, secondo l'esercito, da membri di Hamas, e si sono avvicinati con cesoie, armi, bombe molotov mentre venivano bruciati copertoni per coprire i gruppi col fumo. L'esercito li ha fermati, e purtroppo i morti che Hamas cercava per contrastare l'effetto internazionale del riconoscimento di Gerusalemme toccano un numero molto elevato.
(il Giornale, 15 maggio 2018)
Lo Stato ebraico compie 70 anni. Un sogno in guerra perenne contro terrore e antisemitismo
L'anniversario. Fin dall'inizio lo Stato ebraico vive sotto minaccia
David Ben Gurion Primo premier d'Israele
I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di quelli arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi di questi villaggi arabi, e io non vi biasimo, perché i libri di geografia non esistono più
Moshe Dayan Eroe della 'Guerra dei sei giorni'
Posso affermare che le vittorie dei Davide sui Golia erano cosa rara nel mio Paese, anche in tempi biblici, e più rare ancora sono in un universo di carri armati e cannoni
Ariel Sharon Premier d'Israele dal 2001 al 2006
lsraele potrà anche avere il diritto di processare altri, ma certamente nessuno ha il diritto di portare il popolo ebraico e lo Stato di Israele davanti a un tribunale internazionale
di Francesco Perfetti
Non è stata certamente casuale la scelta della data del 14 maggio per attuare il trasferimento, voluto da Donald Trump, dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Non è stata casuale perché esattamente settanta anni prima, il 14 maggio 1948, al termine del mandato britannico, David Ben Gurion annunciò al mondo la nascita dello Stato d'Israele. Si trattava di un avvenimento la cui portata è riassunta bene nelle parole di un grande studioso, Jacob L. Talmon, storico del pensiero e della politica contemporanea: «Non occorre essere un sionista impegnato per riconoscere che la fondazione dello Stato di Israele è stata la realizzazione più straordinaria e costruttiva del popolo ebraico inteso come entità unitaria negli ultimi duemila anni della sua storia e uno dei grandi eventi della storia universale».
Il processo che aveva portato a quella nascita era stato lungo e laborioso. Aveva avuto inizio sul finire del secolo diciannovesimo con la pubblicazione da parte di Teodoro Herzl del saggio Lo Stato ebraico dove si parlava esplicitamente della creazione di uno Stato per gli ebrei. C'era stata, poi, all'inizio del 1917, ancora in piena guerra mondiale, la Dichiarazione Balfour con la quale il governo britannico, in vista della fine e della conseguente spartizione dell'Impero Ottomano, affermava di guardare con favore alla creazione di un «focolare nazionale ebraico» in Palestina. E tale dichiarazione era stata inclusa nel preambolo del Mandato della Società delle Nazioni affidato alla Gran Bretagna nel 1922. Poi, sul finire del 1947, c'era stata da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni unite l'approvazione della risoluzione 181 che prevedeva la spartizione del territorio mandatario in due Stati, uno ebraico e uno palestinese, con la trasformazione di Gerusalemme in un corpus separatum sotto l'amministrazione dell'Onu. Quel giorno di settanta anni fa, dunque, il 14 maggio 1948 era stato finalmente realizzato un sogno: la nascita dello Stato di Israele. Un giorno di festa per gli ebrei, che però si ritrovarono subito in guerra con i Paesi arabi che non volevano riconoscere la situazione. Alla prima guerra arabo-israeliana del 1948, ne seguirono altre: quella del 1956 in occasione della nazionalizzazione del canale di Suez, quella dei «sei giorni» del 1967, quella detta «del Kippur> del 1973. Per non parlare delle continue «intifada» nei territori palestinesi occupati dopo quest'ultima guerra, che, a partire dal 1987, hanno compromesso il processo di pacificazione e sono costate migliaia di vittime.
La vita di Israele non è stata, e non è, facile. Il paese, inossidabile amico dell'Occidente, è costretto alla difensiva contro rigurgiti di antisemitismo e manifestazioni di terrorismo. Lo spostamento dell'ambasciata americana proprio nel giorno dell'anniversario della nascita dello Stato di Israele, al di là del valore simbolico che esso comporta, significa pure il consolidamento di quel rapporto privilegiato fra Israele e Stati Uniti che è servito a garantire la difesa degli interessi dell'Occidente in tutta l'area mediterranea e medio-orientale. Trump non poteva rinunciare a una promessa fatta in campagna elettorale: una promessa tanto più importante e impegnativa perché implica una rettifica della politica estera del suo predecessore legata alla disastrosa stagione delle cosiddette «primavere arabe».
E Israele non può che festeggiare, in uno spirito di consolidata amicizia, l'avvenimento del 14 maggio. Anche se, oggi come settant'anni or sono, la festa viene rovinata dal sangue.
(Nazione-Carlino-Giorno, 15 maggio 2018)
"Grazie all'America la realtà ha vinto sulla propaganda"
Il generale israeliano: «Riconosciuta finalmente una storia di tremila anni»
di Fiamma Nirenstein
Il generale Yossi Kuperwasser
GERUSALEMME - Il generale Yossi Kuperwasser è stato il capo del settore ricerche dell'Intelligence Militare dell'Esercito israeliano e il Direttore Generale del Ministero per gli Affari Strategici.
Oggi senior ricercatore del Jerusalem Center for Public Affairs, la sua fama internazionale conduce esperti e politici di tutto il mondo a consultarlo su ogni soggetto legato alle strategie antiterroristiche nel mondo. Gli abbiamo chiesto un parere, nel giorno in cui gli Usa riconoscono Gerusalemme capitale dello Stato d'Israele.
- Colonnello, perché in definitiva è così importante, così fondamentale che l'ambasciata americana sia stata trasferita a Gerusalemme? Non erano già ottimi i rapporti con Trump? Non vi sentivate abbastanza sicuri della vostra capitale? «Noi non abbiamo mai avuto nessun'altra capitale dall'inizio della storia di Israele, anzi dall'inizio della storia ebraica: Gerusalemme è la nostra capitale da 3000 anni, siamo solo tornati a casa. Ed è così evidente, così testimoniato in mille pietre e libri che proprio per questa evidenza negata abbiamo sofferto: a nessun altro popolo è mai stato negato il diritto di decidere quale sia la sua capitale. Oggi finalmente ci sentiamo soddisfatti».
- E adesso cos'è accaduto? «Adesso la realtà restituisce alla storia il suo ruolo, gli Stati Uniti hanno portato la questione sul palcoscenico della realtà, e questo ci riempie di un quieto senso di soddisfazione di cui siamo ovviamente molto grati al presidente Trump».
- In realtà non è stato Trump a promettere per primo che Gerusalemme sarebbe stata riconosciuta: la decisione è del 1995, quando Clinton era presidente. Poi tutti i presidenti americani, Bush, Obama, hanno promesso e non hanno mantenuto. Perché? «Perché i palestinesi insieme al mondo arabo hanno fortificato con la propaganda la loro narrativa, che si è giovata dall'immensa menzogna che gli ebrei si siano inventati il loro rapporto storico con Gerusalemme, ciò che naturalmente è ridicolo. L'altro aspetto è la minaccia di una rivoluzione gigantesca, una guerra per Gerusalemme come luogo santo per l'islam. Non è accaduto, e non accadrà. Le dinamiche nel mondo arabo sono cambiate, e così i rapporti di Israele con buona parte di esso».
- Che cosa porta questo riconoscimento che prima non c'era?
«Una cosa fondamentale per ogni sviluppo politico positivo: un senso di realtà. Gerusalemme è la capitale dello Stato d'Israele e non potrebbe esser diversamente».
- I palestinesi vogliono che sia la loro capitale.
«No, questo è solo un punto del loro no allo Stato ebraico. Gerusalemme è per loro il simbolo della negazione della nostra presenza complessiva qui».
- Ma gli arabi abitano parte di Gerusalemme.
«Certo, lo sappiamo bene e si deve onorare questa realtà: Trump peraltro ha detto che il riconoscimento non nega affatto uno sviluppo futuro che porti al tavolo di pace e stabilisca poi gli accomodamenti sulla base anche di questa realtà».
(il Giornale, 15 maggio 2018)
L'ambasciata Usa a Gerusalemme provoca cinquantacinque morti. Ed è solo l'inizio
I terroristi sono infuriati: prova che gli Usa fanno bene. E Trump ha ragione
di Glauco Maggi
La nuova sede del primo ambasciatore Usa a Gerusalemme, David Friedman, è un fatto trumpiano. E la decisione è storicamente inattaccabile: quindi in senso tecnico più facile di altre, ma con un effetto politico eclatante: ha mostrato con nettezza chi è a favore della difesa del diritto di Israele di essere uno stato, e di difendersi, e chi da sempre ciurla nel manico. Avevano fatto tutti finta, per anni, di non sapere che c'è una legge passata nel Congresso americano nel 1995 (il Jerusalem Embassy Act), votata da una larghissima maggioranza bipartisan e firmata da Bill Clinton, che «imponeva» il trasloco dell'ambasciata Usa nella capitale Gerusalemme. Ma lo stesso Clinton, e poi i successori George Bush e Barack Obama, hanno preferito, semestre dopo semestre, fare ricorso al paragrafo della legge che consentiva il rinvio per motivi di sicurezza. Cioè in eterno, visto che con l'Iran che minaccia di «distruggere Israele» - e addirittura lo bombarda dalla Siria - nessun momento sarebbe mai buono per dare allo Stato ebraico la sua capitale.
Antisemitismo
Trump sostiene che l'attuazione della legge del 1995 non crea alcun problema, perché l'America favorisce il dialogo e rispetterà ciò che le due parti concorderanno se riprenderanno i colloqui di pace. Ma il messaggio politico, come quello lanciato con l'abbandono del patto nucleare iraniano, è netto e manicheo: l'America si schiera, e offre quella leadership che Obama aveva abbandonato, con il «guidare da dietro» e con la «pazienza strategica». Anche quando proclamano, a parole, equidistanza tra lo stato ebraico e i palestinesi, molti nell'Unione Europea, e la maggioranza degli Stati alle Nazioni Unite, flirtano apertamente con la attuale rappresentanza politica della Palestina.
Quella di Hamas, che da tempo detta la linea estremista al presidente palestinese Abu Mazen (in carica perpetua senza elezioni da un decennio). E Hamas vuol dire Iran, che attraverso la propria Guardia repubblicana e gli alleati Hezbollah che sovvenziona e addestra, ha il controllo del Libano del sud e di una fetta crescente del territorio siriano. A Damasco, il presidente Bashar Al Assad è ancora al potere grazie all'appoggio iraniano, e volentieri offre basi di lancio di missili contro Israele, come è successo giorni fa, scatenando la legittima risposta dell'esercito israeliano. In nome della difesa dei palestinesi, anche il turco Erdogan ha attaccato la mossa di Trump, dicendo che gli «Usa non possono più fare i broker della pace tra le due parti». E per la Organizzazione della Cooperazione Islamica, che conta 57 nazioni, il trasloco «è una decisione illegale». Contrari anche Ue, Francia e Gran Bretagna. Trump ha messo insomma d'accordo, anzi allo scoperto, l'antiebraismo e l'antisemitismo globali.
Promesse
La cerimonia dello spostamento dell'ambasciata, però, ha pure confermato un fatto che irrita i liberal: Trump mantiene le promesse. Per tutta la campagna elettorale, nello scetticismo domestico e internazionale, aveva detto che l'avrebbe fatto, e ieri è successo. Come aveva detto che avrebbe ritirato gli Usa dall'Accordo di Parigi sul clima. O che avrebbe stracciato il patto nucleare di Obama - «personale», non di Stato, in quanto non è mai stato sottoposto alla ratifica nel Congresso statunitense - con l'ayatollah di Teheran. O che avrebbe tagliato le tasse agli utili delle aziende e ai redditi delle famiglie. O che avrebbe deregolamentato massicciamente l'attività dei ministeri. E quanto all'impegno preso di stroncare le velleità nucleari della Corea del Nord, minacciando «fuoco e fiamme» se Kim Jong-un si fosse «avvicinato» alla realizzazione di missili atomici in grado di colpire l'America? Il caso non è ancora chiuso, perché Trump e Kim si vedranno faccia a faccia il 12 giugno a Singapore per finalizzare la denuclearizzazione della penisola, ma che la Corea del Nord abbia invitato la stampa occidentale, il 23 maggio, ad assistere allo smantellamento del sito di Punggye-ri per i test nucleari non è un passo da niente, anzi. È un ennesimo fatto, non il blabla a cui ci aveva abituato la diplomazia pre Trump.
(Libero, 15 maggio 2018)
Dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele
di David Ben Gurion - 14 Maggio 1948 / 5 Iyar 5708
David Ben Gurion
«In ERETZ ISRAEL è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri. Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica. Spinti da questo attaccamento storico e tradizionale, gli ebrei aspirarono in ogni successiva generazione a tornare e stabilirsi nella loro antica patria; e nelle ultime generazioni ritornarono in massa. Pionieri, ma'apilim e difensori fecero fiorire i deserti, rivivere la loro lingua ebraica, costruirono villaggi e città e crearono una comunità in crescita, che controllava la propria economia e la propria cultura, amante della pace e in grado di difendersi, portando i vantaggi del progresso a tutti gli abitanti del paese e aspirando all'indipendenza nazionale.
Nell'anno 5657 (1897), alla chiamata del precursore della concezione d'uno Stato ebraico Theodor Herzl, fu indetto il primo congresso sionista che proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo paese. Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, dava sanzione internazionale al legame storico tra il popolo ebraico ed Eretz Israel [Terra d'Israele] e al diritto del popolo ebraico di ricostruire il suo focolare nazionale. La Shoà [catastrofe] che si è abbattuta recentemente sul popolo ebraico, in cui milioni di ebrei in Europa sono stati massacrati, ha dimostrato concretamente la necessità di risolvere il problema del popolo ebraico privo di patria e di indipendenza, con la rinascita dello Stato ebraico in Eretz Israel che spalancherà le porte della patria a ogni ebreo e conferirà al popolo ebraico la posizione di membro a diritti uguali nella famiglia delle nazioni. I sopravvissuti all'Olocausto nazista in Europa, così come gli ebrei di altri paesi, non hanno cessato di emigrare in Eretz Israel, nonostante le difficoltà, gli impedimenti e i pericoli e non hanno smesso di rivendicare il loro diritto a una vita di dignità, libertà e onesto lavoro nella patria del loro popolo.
Durante la seconda guerra mondiale, la comunità ebraica di questo paese diede il suo pieno contributo alla lotta dei popoli amanti della libertà e della pace contro le forze della malvagità nazista e, col sangue dei suoi soldati e il suo sforzo bellico, si guadagnò il diritto di essere annoverata fra i popoli che fondarono le Nazioni Unite. Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che esigeva la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel. L'Assemblea Generale chiedeva che gli abitanti di Eretz Israel compissero loro stessi i passi necessari da parte loro alla messa in atto della risoluzione. Questo riconoscimento delle Nazioni Unite del diritto del popolo ebraico a fondare il proprio Stato è irrevocabile. Questo diritto è il diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano. Decidiamo che, con effetto dal momento della fine del Mandato, stanotte, giorno di sabato 6 di Iyar 5708, 15 maggio 1948, fino a quando saranno regolarmente stabilite le autorità dello Stato elette secondo la Costituzione che sarà adottata dall'Assemblea costituente eletta non più tardi del 1 ottobre 1948, il Consiglio del Popolo opererà come provvisorio Consiglio di Stato, e il suo organo esecutivo, l'Amministrazione del Popolo, sarà il Governo provvisorio dello Stato ebraico che sarà chiamato Israele.
Lo Stato d'Israele sarà aperto per l'immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d'Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato d'Israele sarà pronto a collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle Nazioni Unite per l'applicazione della risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947 e compirà passi per realizzare l'unità economica di tutte le parti di Eretz Israel. Facciamo appello alle Nazioni Unite affinché assistano il popolo ebraico nella costruzione del suo Stato e accolgano lo Stato ebraico nella famiglia delle nazioni.
Facciamo appello - nel mezzo dell'attacco che ci viene sferrato contro da mesi - ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti. Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra. Lo Stato d'Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero. Facciamo appello al popolo ebraico dovunque nella Diaspora affinché si raccolga intorno alla comunità ebraica di Eretz Israel e la sostenga nello sforzo dell'immigrazione e della costruzione e la assista nella grande impresa per la realizzazione dell'antica aspirazione: la redenzione di Israele.
Confidando nella Rocca di Israele, noi firmiamo questa Dichiarazione in questa sessione del Consiglio di Stato provvisorio, sul suolo della patria, nella città' di Tel Aviv, oggi, vigilia di sabato Iyar 5708, 14 maggio 1948.»
(ebreieisraele.forumfree.it, 15 maggio 2018)
Ivanka Trump inaugura sede ambasciata Usa e ribadisce: "Gerusalemme capitale"
"A nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti d'America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell'ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d'Israele". Con queste parole Ivanka Trump, figlia del presidente Donald Trump, celebra il trasferimento dell'ambasciata a stelle e strisce da Tel Aviv a Gerusalemme, dopo che il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha fatto cadere il drappo che celava una parte dell'edificio.
(la Repubblica, 15 maggio 2018)
"Manifestazioni pacifiche? Ma figuriamoci!"
"Conosco le Forze di Difesa israeliane e mi ero già fatto un'idea, ma volevo vedere di persona, guardare negli occhi i soldati al confine e sentire da loro cosa pensano di questa situazione"
"Mettiti questi - mi ha ingiunto un ufficiale senza tanti complimenti, porgendomi un elmetto e un giubbotto in kevlar - e tieni la testa bassa". Le favole di Hamas sulle "proteste pacifiche" vanno in pezzi non appena ci si scontra con la realtà.
Le sei settimane della "grande marcia del ritorno" giungono all'apice. L'obiettivo dichiarato è quello di violare il confine e "tornare" (fare irruzione) in Israele. Ma il vero obiettivo è attirare l'attenzione internazionale scontrandosi con l'esercito israeliano sotto le mentite spoglie di una protesta nonviolenta e dipingendo le vittime come vittime della ferocia delle Forze di Difesa israeliane. Il loro uso di scudi umani è così cinico che vengono offerti incentivi monetari per ogni infortunio o decesso. L'obiettivo dichiarato, e concreto, delle Forze di Difesa israeliane dell'IDF è invece quello di difendere il confine, cercare di ridurre al minimo gli scontri e le vittime ed evitare l'escalation. Relativamente parlando, entrambe le parti raggiungono i rispettivi obiettivi, ma Hamas vince alla grande sul piano dell'immagine poiché è facile ingannare e manipolare l'opinione pubblica....
(israele.net, 15 maggio 2018)
Golda Meir: la leonessa d'Israele
Golda Meir
Il giorno 5 del mese di yiar 5708 ci sono 37 firme a sottoscrivere la Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele. Le donne sono due soltanto: Rachel Kagan Cohen (nata Lubersky) e Golda Meyerson Meir (nata Mabovitch). Rachel Cohen, forse ingiustamente, è ricordata soltanto dagli specialisti di storia del sionismo per il suo impegno nella WIZO e poi nella costruzione del welfare israeliano. Golda Meir, molti anni prima di Margareth Roberts Thatcher, fu una vera iron Jady della politica internazionale e terza a ricoprire la carica di primo ministro di uno Stato.
Con un temperamento che la rendeva capace di fredda e meditata aggressività (la chiamarono "leonessa"), e nonostante un vita personale tempestosa (ma il mondo ebraico intuì qualcosa molti anni dopo la sua morte), Golda sapeva commuoversi e intenerirsi. Dunque una personalità da vera "madre di Israele", di tutto un popolo: tanto più quando come troppo spesso è accaduto nella storia breve dello Stato ebraico c'era da scegliere soltanto tra il ricorso alle armi e la sopravvivenza, in piena consapevolezza del fatto che guerra significava esporre al combattimento tutti i più giovani, fianco a fianco con i veterani.
Golda Meir fu impegnata in ruoli decisivi nelle quattro guerre che Israele dovette affrontare tra il 1948 e il 1973. Ed era primo ministro nella Guerra di Kippur 5734. Israele dovette fronteggiare avversari spietati. Stati sovrani ben organizzati, che non esitavano a servirsi anche dei gruppi estremisti che il mondo ha imparato a conoscere. Ciò che oggi accade in Siria dimostra molto bene quale genere di nemico Israele abbia avuto al confine nord-orientale, cioè l'altopiano del Golan e il Monte Hermon. Nella primavera del 1973 lo Stato di Israele si apprestava a festeggiare i suoi 25 anni. Euforia e preoccupazioni avrebbero segnato le celebrazioni per quel primo quarto di secolo.
Non era lo Stato Ebraico che noi oggi conosciamo. Gli ebrei residenti erano meno di tre milioni. Israele era sotto pressione continua per il ricatto petrolifero che il mondo arabo faceva pesare sulle economie di mercato, nessuna esclusa. Il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel settembre 1972 aveva dimostrato che gli ebrei non godevano della simpatia universale, i giochi erano proseguiti fino alla conclusione, e senza ripensamenti. La Shoah era ben nascosta nella nebbia di un passato troppo recente e sostanzialmente rimosso. Molti criminali nazisti, poco più che cinquantenni, circolavano liberamente. Il 1973 fu l'anno che consegnò alla storia Golda Meir: con le sue contraddizioni, le sue incertezze, la volontà ferrea. L'esito sanguinoso della Guerra di Kìppur, una mezza sconfitta più ancora che una mezza vittoria bloccata dalle grandi potenze della Guerra Fredda, indusse Golda Meir alle dimissioni. Il governo passò nelle mani della destra laica e nazionalista. Con il vecchio leader di quella destra -Menachem Begin - il presidente Anwar el-Sadat stipulò il trattato di pace che restituiva il Sinai all'Egitto e che avrebbe definitivamente cambiato la geografia politica del Medio Oriente, come anche la natura stessa del conflitto.
Ma quell'anno speciale di Golda Meir fu segnato anche da un incontro che oggi ricordano in pochi.
Le conseguenze profonde si videro molto tempo dopo, con la visita di Giovanni Paolo II al Tempio Maggiore di Roma. Il 14 gennaio del 1973 il Giornale Radio della Santa Sede rubava uno scoop alla stampa italiana, annunciando che l'indomani - 15 gennaio - la Signora Golda Meir, Primo ministro di Israele, si sarebbe recata in visita nella Città del Vaticano per un colloquio con Paolo VI, Sommo Pontefice allora regnante. Lei raccontò poi al quotidiano Maariv che dopo le critiche del papa per la presunta "durezza" di Israele, aveva subito replicato così: "Vostra Santità sa qual è stato il primo ricordo della mia vita? Un pogrom a Kiev.". Golda si fermava a Roma di ritorno dal Congresso dell'Internazionale Socialista che si era appena concluso a Parigi. Ma il primo impegno che decise di onorare fu l'incontro con il personale dell'Ambasciata di Israele, dove allora lavoravano anche ragazze e ragazzi della Comunità ebraica romana.
Questa sua istintiva capacità di comunicare contemporaneamente energia incontenibile (aveva 75 anni) e simpatia immediata le aveva consentito successi straordinari. Percorrendo gli USA in lungo e in largo nel gennaio del 1948, si dedicò ad una campagna di raccolta fondi per il nascente Stato ebraico, allora praticamente disarmato. Superò la somma di 50 milioni di dollari, equivalenti ad alcuni miliardi di Euro attuali.
Le armi furono acquistate in Cecoslovacchia, allora già chiusa nella sfera di influenza dell'Unione Sovietica. Una fornitura risolutiva, che non sarebbe stata neppure immaginabile se da ambasciatrice a Mosca non avesse personalmente convinto Stalin. L'Unione Sovietica avrebbe dovuto sostenere Israele, per arginare le manovre imperialistiche dell'Occidente filoarabo nel Mediterraneo. Vicenda vera, che suona naturalmente incredibile nel 2018. Golda Meir morì a Gerusalemme nel 1978. Aveva 80 anni.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Gerusalemme, gli Usa aprono l'ambasciata tra le proteste
lvanka e Kushner oggi alla cerimonia. Città blindata. Hamas: ci ribelleremo
L'annuncio
Il 6 dicembre arriva l'annuncio ufficiale del presidente Usa Donald Trump, dello spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme
Le reazioni
Insorgono i palestinesi, chiedono l'intervento delle Nazioni Unite. Francia e Regno Unito dichiarano di non appoggiare la decisione. Netanyahu definisce «storico» l'annuncio
di Rolla Scolari
Sorridente, con indosso un soprabito e occhiali da aviatore, Ivanka Trump è arrivata ieri in Israele. Assieme al marito e consigliere presidenziale Jared Kushner, la «first daughter» è l'invitato d'onore della cerimonia che marca oggi l'apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme. Il presidente Donald Trump ha annunciato il trasferimento a dicembre, sollevando la contrarietà dei palestinesi, ma anche di gran parte della comunità internazionale, dagli alleati europei ai Paesi arabi.
Con l'arrivo della delegazione americana in Israele, di cui fanno parte anche il vice segretario di Stato John Sullivan e il segretario del Tesoro Steven Mnuchin, si aprono giorni di incertezza in Medio Oriente, in cui si mescolano le celebrazioni per il 70o anniversario della fondazione dello Stato d'Israele, con la rabbia dei palestinesi che domani celebrano il giorno della «nakba» (catastrofe in arabo) per ricordare le 700rnila persone costrette tra il 1948 e il 1949 a lasciare i propri villaggi. Già ieri in occasione delle commemorazioni per la riunificazione di Gerusalemme sotto il controllo israeliano dopo la guerra del '67 sono sorte tensioni. La polizia israeliana è intervenuta quando un gruppo di fedeli ebrei si è scontrato con musulmani, dopo aver violato le regole di accesso alla Spianata delle moschee.
Le misure di sicurezza
E mentre ieri il governo israeliano organizzava una serata di gala, l'esercito rafforzava la sua presenza nell'area attorno a Gaza. La manifestazione prevista oggi nella Striscia potrebbe attirare 100mila persone. Hamas, il movimento islamista che controlla Gaza, ha utilizzato tutti i canali per mobilitare la popolazione a partecipare ai cortei che rappresentano il culmine di sette settimane di protesta a ridosso del confine: la «marcia del ritorno» (verso le terre da cui i palestinesi sono stati allontanati nel '48, oggi in Israele). Il governo israeliano accusa Hamas di strumentalizzare e infiltrare la protesta con le sue milizie. Da fine marzo, 42 palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano, che teme che la folla possa abbattere la barriera di separazione ed entrare in Israele.
L'ambasciata Usa sarà ospitata in una sede del consolato a Gerusalemme, nel quartiere residenziale e defilato di Arnona. Per ora, soltanto l'ambasciatore David Friedman e il suo staff si trasferiranno, la maggior parte dei servizi resterà a Tel Aviv. Il premier Benjamin Netanyahu ieri ha ringraziato Trump per aver «fatto la storia» ed esortato i diplomatici presenti a «spostare le proprie ambasciate a Gerusalemme, perché avvicina la pace». Per il consigliere per la Sicurezza nazionale americano John Bolton il trasferimento equivale a «riconoscere la realtà», e «riconoscere la realtà significa rafforzare le possibilità per la pace». Uno dei leader palestinesi, Saeb Erekat, ha chiesto invece ai diplomatici stranieri di non partecipare alle celebrazioni per l'apertura dell'ambasciata, una «flagrante violazione delle leggi internazionali».
(La Stampa, 14 maggio 2018)
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Gerusalemme dà il benvenuto a Ivanka e all'ambasciata Usa
di Davide Frattini
GAZA - «L'anno prossimo a Gerusalemme» urla dal palco Netta Barzilai e questa volta l'invocazione millenaria del popolo ebraico è rivolta ai 200 milioni di spettatori che hanno seguito in diretta la finale dell'Eurovision. Perché con la vittoria di sabato sera la cantante porta nel 2019 la sfida internazionale «in una Gerusalemme che sarà diversa», commenta David Horowitz, direttore del giornale digitale Times of Israel.
Diversa perché oggi gli americani inaugurano l'ambasciata nel quartiere residenziale di Arnona (anche se all'inizio il trasloco da Tel Aviv sarà parziale). Diversa perché il governo di Benjamin Netanyahu ha voluto celebrare la giornata - ieri - che ricorda la conquista delle aree arabe nel 1967 con la decisione ( da 560 milioni di dollari) «di consolidare la nostra sovranità su tutti i quartieri»: una teleferica lunga quasi un chilometro e mezzo che porti dalla parte ovest alla Città Vecchia; investimenti per rafforzare la presenza ebraica nelle zone orientali; fondi alle scuole arabe per spingerle ad adottare il curriculum israeliano; apertura di nuove cliniche sempre per gli abitanti arabi. «Abbiamo sognato di ritornare per ricostruirla ed è esattamente quello che stiamo pianificando», proclama il premier. Che ha accolto Jared Kushner e la moglie Ivanka Trump assieme al resto della delegazione americana. Ieri sera il ministero degli Esteri ha ospitato il gala per l'apertura della sede diplomatica Usa a Gerusalemme: Invitati 86 ambasciatori: in 32 hanno accettato, tra loro quattro rappresentati di Paesi Ue (Repubblica Ceca, Ungheria, Austria, Romania). Il resto dell'Europa e del mondo continua a considerare lo status di Gerusalemme - che anche i palestinesi vorrebbero come capitale di un loro futuro Stato - da definire attraverso un accordo di pace.
A Gaza i fondamentalisti di Hamas stanno preparando i cortei da mandare nelle stesse ore delle celebrazioni di oggi contro la barriera innalzata dagli israeliani. Attraverso i social media sono state distribuite mappe con le strade da seguire per muoversi tra i villaggi dall'altra parte, alcuni gruppi sono stati addestrati a trinciare i reticolati.
L'esercito israeliano schiera i tiratori scelti come nelle scorse sei settimane (i palestinesi uccisi sono già 42), ma questa volta gli ufficiali temono che sul confine possano premere fino a mezzo milione di persone. Brigate aggiuntive sono state schierate ad anello per bloccare eventuali infiltrati. Tra il filo spinato e primi kibbutz ci sono poche centinaia di metri.
(Corriere della Sera, 14 maggio 2018)
La Gerusalemme israeliana è una nuova Vienna delle fedi
I 70 anni di esistenza di Israele e i 50 anni in cui Gerusalemme è stata la sua capitale unita, sono una lezione storica su come in Medio Oriente si possa e si debba esercitare la libertà religiosa. L'intervento di Giulio Meotti, giornalista de Il Foglio e autore del libro "Israele. L'ultimo Stato europeo".
di Giulio Meotti
"Sebbene sia sacra a tutte e tre le religioni monoteistiche, oggi Gerusalemme sembra piuttosto l'equivalente moderno della Vienna del 1683: una città fortificata sulla frontiera della civiltà occidentale", ha scritto Niall Ferguson nel libro Civilization. Non c'è commento più adatto in riferimento al trasferimento odierno dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Ferguson intende dire che, se cade Israele, è come se fosse caduta Vienna nel 1683, quando i musulmani arrivarono alle sue porte e ne furono respinti.
L'assalto a Israele - alla sua storia, ai suoi confini, alla sua esistenza, ai suoi cittadini - è oggi parte di un più vasto attacco all'Occidente, alla democrazia, alla tradizione morale e culturale cresciuta nella felice interazione di Gerusalemme, Atene e Roma. Per questo Israele è oggi la singola questione più importante che definisce il paesaggio morale e politico del nostro tempo. E Gerusalemme è il fronte più fragile ed esposto di questo assalto.
Nel 2016 e nel 2017, l'Unesco, l'agenzia Onu per la cultura, la scienza e l'educazione, ha lanciato un messaggio poderoso e terrificante, qualcosa che non aveva precedenti dalla Seconda guerra mondiale: la Città Vecchia di Gerusalemme, il cuore dell'Ebraismo da più di tremila anni e la sede del Cristianesimo da duemila anni, non è mai stata ebraica. Per questo la decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele è importante, perché lancia al mondo arabo-islamico il messaggio che l'unicità di quella città santa non è negoziabile e che soltanto sotto la sovranità israeliana quella città ha goduto di tolleranza e rispetto per tutte e tre le religioni.
I cristiani dovrebbero essere grati a Israele per consentire non soltanto la fede cristiana a Gerusalemme, a Qumran, a Masada, a Beersheva, a Betlemme, sul fiume Giordano, a Gerico, a Cafarnao, Megiddo, Nazareth, a Tel Dan e in un centinaio di altri luoghi biblici in Israele, ma anche perché Israele è l'unico Paese mediorientale in cui i cristiani crescono di numero.
Dal 1948 al 1967, quando Gerusalemme fu divisa, non soltanto agli ebrei fu negato l'accesso ai loro luoghi santi, quel Muro del pianto che per duemila anni era stata l'unica traccia della millenaria presenza ebraica in quella terra. Non soltanto le tombe e le sinagoghe ebraiche furono distrutte. Ma anche i cristiani furono vessati dalle autorità giordane. C'erano dei limiti sul numero di pellegrini cristiani ammessi nella Città Vecchia e a Betlemme durante Natale e Pasqua. Le organizzazioni di beneficenza e le istituzioni religiose cristiane non potevano acquistare proprietà immobiliari a Gerusalemme o possedere proprietà vicino ai luoghi santi. E le scuole cristiane erano soggette a severi controlli. Dovevano insegnare in arabo, chiudere di venerdì, il giorno santo musulmano e insegnare a tutti gli studenti il Corano. Allo stesso tempo, non gli fu permesso di insegnare materiale religioso ai non cristiani.
Israele è l'unico custode di Gerusalemme che si sia dimostrato affidabile e responsabile. La storia insegna che il migliore destino di una città mista, città difficili da gestire come Gerusalemme, è quello di essere garantito soltanto dagli ebrei e per due motivi. Il primo è che il pluralismo religioso funziona soltanto in una democrazia ed Israele è l'unico Paese democratico del Medio Oriente. La seconda è che il rispetto delle minoranze non è esattamente oggi una qualità del mondo arabo-islamico.
Oggi Gerusalemme non è una città perfetta, ci sono tensioni e conflitti irrisolti, ma è almeno una delle poche del Medio Oriente da cui i cristiani non devono fuggire, come dalla irachena Mosul, come dall'egiziana Minya, come dalla siriana Maaloula. Gerusalemme è anche una delle poche città mediorientali dove le chiese non sono mai state profanate. Per questo i 70 anni di esistenza di Israele e i 50 anni in cui Gerusalemme è stata la sua capitale unita sono una lezione storica su come in Medio Oriente si possa e si debba esercitare la libertà religiosa.
(formiche.net, 14 maggio 2018)
70 buone ragioni per celebrare (e amare) lo Stato di Israele
A settant'anni dalla nascita del Paese che ha dato una patria al popolo ebraico, l'intellettuale francese di Bernard-Henry Lévy racconta tutti i suoi pregi.
di Bernard-Henry Lévy
E pluribus unum... 102 origini diverse... In altre parole, la prima nazione multietnica che funziona veramente. La prima repubblica "alla Rousseau" dove un bel mattino si sia detto: "Facciamo un Contratto". E il Contratto fu! Paese rifugio. Paese promessa. Paese «di troppo» per un popolo di troppo. Se il mondo tornasse ad essere inabitabile per altre Mireille Knoll (l'ottantacinquenne ebrea uccisa in aprile a Parigi, ndt), questo Paese così prezioso continuerebbe ad esistere.
Democrazia
La democrazia è difficile? Lenta? Ha bisogno di tempo? In Israele, una notte, il 14 maggio 1948, fu sufficiente. Per fare una democrazia, occorre una cultura democratica? Cultura che di Israele i pionieri russi, o centro-europei, o tedeschi, o arabi non avevano. Eppure..
Miracolo israeliano. Prodigio di un legame sociale che poggiava sul nulla. Meraviglia di una lingua morta, reinventata e ravvivata. Nessuna democrazia, si dice ancora, resiste allo stato d'eccezione della guerra. Salvo Israele.
Terrorismo
Il terrorismo, in Israele, non esiste da sette giorni (come negli Stati Uniti del Patriot Act) o da sette anni (come nella Francia del 1961), ma da settant'anni, e le sue istituzioni reggono. Sì, sono settant'anni che Israele vive, come dice il versetto, «sulla propria spada»: e lo spirito di libertà vi continua a soffiare. Settant'anni di vita senza aver conosciuto una giornata di pace: e nessuno, né ebreo né arabo, cambierebbe Paese.
Atene, non Sparta.
E diritto di critica
Irriverenza della stampa, implacabile con i dirigenti. Intransigenza della giustizia che, quando un primo ministro sbaglia, mette il primo ministro in prigione.
Uno scrittore ribelle, David Grossman, orgoglio del Paese. Un altro: Amos Oz. Un altro: Avraham B. Yehoshua.
Esiste un altro luogo del mondo in cui il famoso «diritto di criticare Israele» sia esercitato meglio che in Israele? Esiste una Ong più accanita di «Breaking the Silence» nel denunciare l'«uso sproporzionato della forza»? Una democrazia dove una minoranza ostile al principio guida del Paese «il sionismo» goda di tutti i propri diritti civili? Un Paese che tolleri, in tempo di guerra, che una città come Kufr Manda solidarizzi con il nemico?
Gli arabi e i militari
L'arabo, seconda lingua ufficiale del Paese. Un numero di deputati arabi inimmaginabile in Francia. Un giudice, arabo, che siede alla Corte suprema. E, alla Corte suprema, una donna, Esther Hayut, eletta presidente per la terza volta.
Il «muro», in Cisgiordania, sconfina nel villaggio palestinese di Beit Jala? La Corte ordina di spostare il muro. Esso rovina, a Bil'in, gli ulivi? Si ripiantano gli ulivi.
Una «sbavatura» dei militari? Viene sottoposta a giudizio. Un ordine inappropriato? Viene rifiutato. Un'operazione non conforme alla «purezza delle armi»? E' possibile questo si è visto ricorrere alla giustizia. E i centri di terapia dove, in tempo di guerra, si curano i feriti del campo avverso. E i dispensari del Golan, gli unici dove, nel settore, trovano asilo le vittime siriane di Bashar. E, sempre per i siriani, gli ospedali fraterni di Safed, Kiryat Shmona e Nahariya. E il villaggio di Jubata-al-Khashab, nella provincia di Quneitra, ricostruito grazie a fondi privati e pubblici israeliani.
Operazioni umanitarie
E le operazioni umanitarie di Tsahal. Esiste un esercito che, per le popolazioni, effettui missioni umanitarie così numerose? In Messico, dopo il sisma del 2017.. In Nepal, o a Haiti, o in Turchia, dopo i terremoti del 2015, 2010, 1999... Nel Mediterraneo, quando l'Unità 669, nel 2003, vola in soccorso di dieci marine turchi in balia di un tifone... In Sierra Leone, dove Tsahal è il primo a correre in aiuto delle migliaia di contadini trascinati da un torrente di fango... E tutte le Ong che scavano pozzi in Africa o inviano pompieri a Porto Rico.
La scienza israeliana. I robot dell'ospedale Hadassah. Le ricerche più avanzate su alzheimer, parkinson, terapia cellulare o chirurgia del cervello.
Saggezza e studio. Saperi profani e talmudici.
La bellezza di Tel Aviv e la pietra bianca di Gerusalemme. E Haifa, la cosmopolita. E Jaffa, con i suoi fortini di nobile pietra ocra. E i paesaggi di sassi del Negev, dove si sente l'impronta lasciata da altri occhi, secoli prima di noi. E i megaliti, come solcati dal dito di Dio. E i deserti in alta quota. E i mari più bassi del mare. E il kibbutz, vicino a Tiberiade, dove Sartre capì il senso del versetto: «La tua discendenza sarà come la sabbia del mare». Di fatto, terra o sabbia? Un'altra Babele o un regno di nuovo tipo? Davvero Stato banale, o ritorno a Giacobbe, soprannominato Israele perché lottò con l'angelo?
Paese ammirevole
Non è la natura che, in Israele, è generosa con gli uomini, ma sono gli uomini ad esserlo con la natura.
Israele è una delle imprese più rischiose, ma anche più belle, che il popolo ebreo abbia dovuto affrontare. Per tale impegno, si attirerà il biasimo di Samuele al popolo che si assoggettava a Saul, o rimarrà discepolo di Mosè? Da Paese appassionante, si trasformerà in Paese ammirevole, o sublime? E cosa ci dice dell'Umano e del suo segreto?
Buon compleanno, Israele.
(Corriere della Sera, 14 maggio 2018 - trad. Daniela Maggioni)
Quello spirito di Israele fatto di sangue e genio adesso vive nei bambini
Il boom della natalità è il vero smacco per chi, da Hitler all'Iran, sogna di distruggerci. Mentre l'Europa resta con le culle vuote, qui la media è di tre figli per famiglia
di Fiamma Nirenstein
Chi vuole festeggiare Israele in questo compleanno, deve smetterla di abbeverarsi agli stereotipi dell'ordine mondiale ancora radicato nella Guerra fredda; di immaginare il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, imbevendosi dei sensi colpa del colonialismo europeo, dell'orrore per la guerra mondiale. Il popolo ebraico non ha niente a che fare con queste colpe. Mai è stato colonialista, mai ha condotto guerre di conquista. È stato solo aggredito, soggiogato, massacrato fino all'avvento dello Stato di Israele. Poi, si è difeso vittoriosamente perché la sua determinazione a vivere era definitiva ed eroica. Quello che in realtà non gli si può perdonare è che si sia svegliato, abbia cominciato a camminare e abbia preso la direzione della sua casa, Israele, Gerusalemme, senza chiedere il permesso a nessuno.
Si chiama «autodeterminazione», è permessa a tutti fuorché al popolo ebraico. Mentre scriviamo Israele è probabilmente di fronte al peggiore fra i tanti pericoli di distruzione cui ha dovuto, dalla nascita, far fronte: quello della presenza dell'Iran armato in Siria, sul suo confine, fiancheggiato dalla Russia e servito nei suoi scopi di distruzione dagli Hezbollah, armati con centinaia di migliaia di missili. I palestinesi indeboliti dai loro molteplici rifiuti a trattare una pace che rispettasse il diritto di Israele a esistere, sono ormai un rischio minore, anche se l'uso continuo e crudele del terrorismo li porta ogni giorno alle cronache.
L'odio teologico degli ayatollah invece cuoce nell'ombra, prepara missili balistici, non abbandona l'ambizione atomica e ormai incredibile a dirsi, ha le sue forze militari di stanza fino sul bordo del Golan al Nord di Israele. Per gli ayatollah Israele deve essere distrutta fino nella sua «radice ammarcita» come dicono, e l'eco di questo odio si ripercuote in tutto il mondo musulmano, fino in Europa, e un nuovo antisemitismo genocida minaccia il fiorente, avanzato Stato degli ebrei.
Ma non è dei pericoli strategici né dell'antisemitismo europeo, in incredibile crescita, che parleremo qui. Parleremo dell'impasto magico con cui in 70 anni questo piccolo Paese ce l'ha fatta a costruire una società democratica e insieme forte, tecnologicamente la seconda dopo gli Usa.
Le famiglie in gita spiegano ai bambini cos'è quel fiore e quell'albero, l'acqua è venerata quando, rara, scorre dalla terra con amore. Siamo tornati, sembrano dire a ogni passo, dopo secoli di esilio, dopo che siamo rimasti in balia dei più disparati poteri e delle più abbiette follie. Adesso siamo qui, noi coltiviamo, costruiamo, camminiamo dove vogliamo, segniamo il giardino di casa, inventiamo. Chi non capisce che questo è lo spirito di Israele, chi non sa che gli ebrei sono felici semplicemente perché hanno una terra di nuovo, da quando nel 70 dopo Cristo Gerusalemme fu incendiata e i romani chiamarono casa loro «Palestina», non capisce di cosa stiamo parlando.
Quando si arriva all'aeroporto Ben Gurion, subito salta agli occhi la seconda icona dell'indipendenza ebraica: Israele è il Paese dei bambini, e tanto più questo salta agli occhi degli europei, ormai quasi privi di figli. Il tasso di natalità qui supera i tre bimbi per famiglia: non ci si può credere, in Israele ci sono bambini ovunque, di tutti i colori e dimensioni, bambini che corrono, piangono, ridono, urlano, danno noia, cantano, sorridono adorabili ... bambini che spingono passeggini con dentro altri bambini; bambini piccolissimi per mano alle mamme già con la pancia; bambini nel port-enfant attaccato sul petto del padre.
Non c'è centro acquisti dove orde di creature scalpitanti non si accalchino in speciali jamburee. Non si tratta di famiglie religiose: la laica Tel Aviv è in questo come la pia Gerusalemme: un giardino d'infanzia. È questa la rivincita storica del popolo ebraico. Si chiamano David, Yehuda, Itay, Benjamin, Mordechai, Shira, Dvora, Yael, Hana, Aìvigail, Miriam. Come nella Bibbia. Così si chiamarono i miei nonni e i miei zii quando Hitler pensava di averci sterminati tutti.
(il Giornale, 14 maggio 2018)
Bravo Trump sull'Iran, ora continui
Bret Stephells su come piegare Teheran nelle sue mire espansionistiche
Scrive il New York Times (8/5)
"Di tutti gli argomenti dell'Amministrazione Trump per onorare l'accordo nucleare con l'Iran, nessuno era più risibile dell'idea che abbiamo dato la nostra parola come paese", scrive Bret Stephens. "Nostra? L'Amministrazione Obama si rifiutò di sottoporre l'accordo al Congresso come un trattato, sapendo che non avrebbe mai avuto i due terzi del Senato per andare avanti. Solo il 21 per cento degli americani ha approvato l'accordo nel momento in cui è andato in porto, contro il 49 per cento che non lo ha fatto, secondo un sondaggio del Pew. L'accordo 'passò' sulla base di un ostruzionismo democratico di 42 voti, contro l'opposizione bipartisan e maggioritaria. L'allentamento delle sanzioni ha fornito a Teheran ulteriori mezzi finanziari con cui finanziare le sue depredazioni in Siria e le sue milizie nello Yemen, in Libano e altrove. Qualsiasi tentativo di contrastare l'Iran sul terreno in questi luoghi significherebbe combattere le stesse forze che stiamo effettivamente alimentando. Perché non basta interrompere l'alimentazione? Gli apologeti rispondono che il prezzo è degno di essere pagato perché l'Iran ha sospeso gran parte della sua produzione di combustibile nucleare per i prossimi anni. Gli apologeti sostengono anche che, con la decisione di Trump, Teheran ricomincerà semplicemente le sue attività di arricchimento su scala industriale. Forse lo farà, forzando una crisi che potrebbe finire con strike degli Stati Uniti o degli israeliani sui siti nucleari dell'Iran. Ma ciò che il regime vuole è una rinegoziazione, non una resa dei conti.
L'economia iraniana è appesa a un filo: il Wall Street Journal di domenica riportava di 'centinaia di recenti scoppi di disordini sindacali in Iran, un'indicazione di approfondimento della discordia sui problemi economici della nazione'. Questa settimana, il rial ha raggiunto un minimo storico di 67.800 dollari; un membro del parlamento iraniano ha stimato 30 miliardi di dollari di deflussi di capitali negli ultimi mesi. Sono soldi veri per un paese il cui prodotto interno lordo corrisponde a quello di Boston. Il regime potrebbe calcolare che una strategia di confronto con l'occidente potrebbe suscitare fervori nazionalisti. Ma dovrebbe procedere con cautela: gli iraniani sono già furiosi perché il loro governo ha sperperato i proventi dell'accordo sul nucleare per sostenere il regime di Assad. Le condizioni che hanno portato al cosiddetto movimento verde del 2009 ci sono ancora una volta. Tutto ciò significa che l'Amministrazione è in una posizione di forza per negoziare un accordo fattibile. L'obiettivo è mettere i governanti iraniani in una scelta fondamentale. Possono scegliere di avere un'economia funzionante, senza sanzioni e aperta agli investimenti, al prezzo di rinunciare, in modo verificabile e irreversibile, a un'opzione nucleare e abbandonare il loro sostegno ai terroristi. Oppure possono perseguire le loro ambizioni nucleari a costo della rovina economica e della possibile guerra. Ma non hanno più diritto al dolcissimo accordo di Barack Obama. La coraggiosa decisione di ritirarsi dall'accordo nucleare chiarirà la posta in gioco per Teheran".
(Il Foglio, 14 maggio 2018)
Anniversario dell'unificazione di Gerusalemme
Migliaia di israeliani in piazza a Gerusalemme per l'anniversario dell'Unificazione, avvenuta con la guerra dei sei giorni nel 1967.Tra ingenti misure di sicurezza, il corteo si è districato tra zone palestinesi, passando attorno alle mura della Città vecchia. Una manifestazione quest'anno festosa ma allo stesso tempo blindata per il trasferimento dell'ambasciata americana. "Finalmente Israele ha ripreso il controllo, dando l'opportunità a migliaia di persone da tutto il mondo di venire a pregare qui e vedersi questa magnifica città".
(euronews, 13 maggio 2018)
Eurovision 2018, Israele in festa per Netta
Il premier israeliano candida Gerusalemme per il 2019
di Paolo Travisi
Le polemiche, anche molto aspre, le hanno portato fortuna. Netta Barzilai ha conquistato gli spettatori del mondo, il loro televoto, è stato fondamentale per scalare la vetta dell'Eurovision 2018. La sua "Toy", un inno alla libertà femminile, ha attraversato pubblici di età e nazioni diverse. Ed è a loro che Netta ha rivolto il suo ringraziamento. "Grazie per celebrare la diversità" ha detto subito dopo la proclamazione della vittoria. Diversità che la vincitrice mostra nell'abbigliamento (un kimono giapponese), nel testo non banale (donne usate dagli uomini come giocattoli) e nella sua carriera. Fino ad oggi non ha pubblicato neanche un album. Segni che i tempi cambiano, basta il sostegno del web.
Per Israele, al di là degli appelli anti-israeliani al boicottaggio, la vittoria di questa giovane cantante fuori dagli schemi, è stata una notte di festa. Balli e canti per le strade delle città. A Tel Aviv il municipio ha illuminato la facciata con la scritta Toy. E già si pensa al 2019, quando l'Eurovision farà tappa presumibilmente a Gerusalemme. Lo ha detto Netta dall'Arena di Lisbona, lo ha ripetuto persino il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha telefonato alla cantante ed entrando in una riunione di gabinetto, ha mimato la danza del pollo (come Netta all'Eurovision).
Eppure in Israele la situazione è piuttosto delicata. Nelle ore scorse è stato bombardato un tunnel a Gaza, mentre sta per aprire a Gerusalemme l'ambasciata degli Stati Uniti, nel 70o anniversario della nascita di Israele. Si tratta in realtà di un trasferimento, da Tel Aviv alla Città Santa, deciso dal Presidente americano Trump, che potrebbe scatenare reazioni violente. Ma il premier Netanyahu, in conferenza stampa, nonostante le tensioni crescenti, non ha rinunciato a fare gli auguri alla città candidata per l'evento musicale nel 2019. Tra l'altro non è la prima volta. Israele infatti, ha già vinto l'Eurovision tre volte, nel 1978, nel 1979 e nel 1998. E due di queste si sono svolte a Gerusalemme.
(Il Messaggero, 13 maggio 2018)
Lunga vita a Israele. Un esempìo per ogni nazione
Lettera a La Verità
Il 14 maggio ricorre il settantesimo anniversario della nascita dello Stato di Israele, Paese che ammiro. Una nazione che, fondata dopo notevoli tribolazioni, ha collezionato rimarchevoli successi: è dotata di una democrazia piena e vitale, di una società dinamica, libera e tollerante, è ricca di cultura, ha fatto fiorire terre desertiche ed è all'avanguardia in numerosi campi della scienza e della tecnologia. Tutto questo nonostante abbia dovuto combattere più volte per difendere la sua stessa esistenza, sia costantemente alle prese con la violenza del terrorismo, venga minacciata da nemici fanatici e, per di più, si veda calunniata da chi, mentendo sapendo di mentire, la addita come un Paese razzista, oppressore e imperialista. Lunga vita a Israele! Che il Signore conceda per sempre ai suoi abitanti prosperità e una pace duratura.
Michele Cocchi
(La Verità, 13 maggio 2018)
Quattro paesi Ue si inchinano a Trump: sì all'inaugurazione dell'ambasciata a Gerusalemme
Austria, Romania, Repubblica Ceca e Ungheria manderanno loro diplomatici alla cerimonia. L'unione europea è contraria
Trump mentre fa l'annuncio su Gerusalemme
L'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme non è altro che una provocazione che Trump e Netanyahu hanno scientemente studiato per umiliare le speranze di una pace giusta con i Palestinesi, mentre il loro punto di vista è diverso: il più forte impone e il più debole subisce.
Ma adesso è accaduto un ulteriore fatto spiacevole: Austria, Romania, Repubblica Ceca e Ungheria parteciperanno all'inaugurazione della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme. I quattro paesi fanno parte della lista di 33 ambasciatori e incaricati d'affari presenti alla cerimonia e diffusa dal ministero degli affari esteri israeliano.
La linea dell'Ue è quella che riconosce Gerusalemme capitale di due Stati, e quindi di opposizione alla scelta di Trump di riconoscere la città capitale di Israele.
Intanto Ivanka Trump e il marito Jared Kushner sono arrivati a Tel Aviv per la cerimonia d'inaugurazione dell'ambasciata americana. Lo riportano i media israeliani. Con la figlia del presidente sono arrivati anche il ministro del Tesoro Steven Mnuchin e il vice segretario di stato John Sullivan.
(globalist, 13 maggio 2018)
Raid israeliano al confine con la Striscia. «Distrutto il nono tunnel di Hamas»
Alta tensione a Gaza. Lesercito chiude lunico valico commerciale ancora aperto. Domani è prevista l'apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme
di Massimo Lomonaco
TEL AVIV - Alla vigilia dell'apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme di domani, si riaccende la tensione anche nel sud di Israele, al confine con la Striscia. Ieri sera, in un raid aereo, l'aviazione israeliana ha distrutto con 9 missili un tunnel di Hamas, il nono scoperto in un anno, che correva proprio accanto al valico di confine di Erez che da Israele immette nella Striscia. Secondo fonti locali di Gaza non sono riportate vittime. Una galleria sotterranea - ha spiegato il portavoce militare Jonathan Conricus - posta sul terreno del cosiddetto «perimetro di sicurezza» a poca distanza da un kibbutz in territorio israeliano e che l'esercito teneva d'occhio da mesi.
Ieri sera l'aviazione è entrata in azione dopo che avanzate tecnologie sono state usate per tracciare l'esatta collocazione del tunnel prima che questi superasse la barriera di sicurezza con Israele.
Secondo Conricus, Hamas ha deciso di trasformare i recinti di confine attorno a Gaza «in una zona di combattimento». Hamas, ha detto il ministro della difesa Avigdor Lieberman, mentre diffonde slogan che vuole una tregua «nella pratica continua a costruire tunnel del terrore nel territorio dello stato di Israele». «Non abbocchiamo - ha concluso - a questo bluff».
Con l'obiettivo di prevenire quello che considera «una settimana di violente proteste dei palestinesi» in coincidenza con l'apertura dell'ambasciata Usa, l'esercito ha aumentato le proprie forze dispiegando altre tre brigate di fanteria: due al confine con Gaza e una in Cisgiordania.
Ieri l'esercito ha anche annunciato la chiusura del valico commerciale di Kerem Shalom, l'unico dal quale passano le merci da e per la Striscia. La decisione è stata presa con il nuovo assalto - il secondo in due settimane - alla parte del valico dove, durante la manifestazione di venerdì, centinaia di manifestanti palestinesi hanno provocato ingenti danni stimati in 9 milioni di dollari.
Con la costruzione del nuovo tunnel vicino al valico di Erez e con la devastazione di venerdì a Kerem Shalom, secondo Conricus, Hamas «sta in effetti uccidendo Gaza e colpendo le infrastrutture umanitarie. Il valico di Kerem Shalom è adesso inutilizzabile».
Ieri mattina ufficiali dell'esercito che hanno visitato l'area del valico hanno detto, secondo i media, di «essere rimasti attoniti dalla devastazione e dalle distruzioni lasciate dai palestinesi». «Hanno fatto - ha aggiunto uno dei militari - un disastro a loro stessi».
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 maggio 2018)
Niente da fare per Meta e Moro, l'Eurovision è di Israele
La serata finale di Lisbona
di Renato Franco
Netta Barzilai
LISBONA - Vince Israele, Ermal Meta e Fabrizio Moro si devono accontentare del quinto posto. Niente da fare: l'Eurovision Song Contest prende la strada di Tel Aviv. Le speranze italiane erano nelle mani e nelle voci dei vincitori dell'ultimo Sanremo, il mitologico animale cantante Meta-Moro, con la loro Non mi avete fatto niente. Ma la vittoria all'Eurovision è una chimera che aspettiamo da 28 anni - l'ultima volta fu Toto Cutugno (il brano Insieme: 1992 )- e che abbiamo festeggiato solo in due occasioni - l'altra nel 1964 con Gigliola Cinguetti (Non ho l'età). A condannare Ermal Meta e Fabrizio Moro è stato il voto delle giurie nazionali (molto basso), mentre al televoto i due si sono classificati terzi, complice forse anche il messaggio molto europeo del loro brano.
Vince una delle favorite, l'israeliana Netta Barzilai, un'altra che ha scelto la strada dell'impegno nella sua canzone. L'israeliana si è presentata con kimono e trucco orientale stile geisha per il suo brano contro la donna oggetto (Toy). In una scaletta che è un orologio svizzero anche quest'anno c'è stato l'imprevisto: nel 2017 un uomo era salito sul palco, era avvolto in una bandiera, ma aveva dimenticato le mutande; questa volta l'imbucato ha pensato bene di fregare il microfono alla cantante inglese lasciandola senza parole.
L'Eurovision è quanto di più globale e locale si possa immaginare, le differenze tra i Paesi, anestetizzate dalla lingua ( quasi tutti i cantanti scelgono l'inglese), rimangono nei look (se ti vesti sfogliando Vogue Polonia si vede) e nei suoni (le radici culturali in molti casi sono ancora più forti dell'omologazione al Canone Unico Sonoro del pop inglese). Quest'anno la festa è stata un po' meno kitsch (batte tutti il cantante ucraino uscito tipo vampiro da una bara a forma di pianoforte), mentre al solito molto tecnologica (ci mancherebbe, 21 milioni di euro la spesa per far funzionare tutto).
(Corriere della Sera, 13 maggio 2018)
Elezioni in Libano. La vittoria di Hezbollah e i rischi per Israele
Lettera al Giornale
Dopo dieci anni in Libano si sono tenute elezioni politiche. Due i dati di rilievo. Ha votato solo il 49 per cento degli aventi diritto, cosa che evidenzia disaffezione sia verso la classe politica, sia verso le soluzioni da questa proposte all'endemica crisi del Paese. E poi la vittoria di Hezbollah. Il partito di Dio, peraltro già alla guida del Paese, ha ottenuto insieme ai suoi alleati cristiani maroniti del presidente Aoun e a piccole formazioni sunnite, oltre la metà dei 128 deputati. La vittoria della coalizione a trazione Hezbollah, impegnato militarmente in Siria a fianco di Russia e Iran nel sostegno ad Assad e forte di una milizia armata di circa 40mila uomini, è un ulteriore elemento di tensione in Libano e in tutta l'area. Se prima la minaccia Hezbollah contro Israele poteva partire solo dal Sud del Libano, oggi può partire (insieme a quella iraniana), anche dal Golan siriano. Cosa potrebbe accadere qualora Israele valutasse un lancio di missili dal Sud del Libano non una attività condotta dal gruppo terroristico, ma un atto ostile condotto da un altro Stato sovrano?
Rocco Bruno
(il Giornale, 13 maggio 2018)
Theodor Herzl, il profeta laico. Più che ebreo fu sionista
di Giacomo Kahn
Theodor Herzl
Tra le figure fondamentali nella storia dello Stato di Israele, Theodor Herzl occupa uno spazio veramente speciale: è il fondatore del sionismo, il sognatore dietro il quale si sarebbe realizzata l'utopia di uno stato degli ebrei che lui - moderno Mosè - non avrebbe però mai visto. A differenza del profeta Mosè, Herzl era un ebreo molto 'tiepido' che sentiva il giudaismo come un ricordo, un'ancestrale tradizione da contrapporre al nuovo modello culturale tedesco. La condizione di emarginazione e di persecuzione degli ebrei europei soggetti a violente campagne antisemite tra fine '800 e primi del '900 è per Herzl una questione che va risolta con urgenza, non escludendo agli inizi della sua formazione culturale persino l'idea che l'assimilazione fosse la soluzione che consentisse l'integrazione all'interno della società. "Io, che non mi convertirei mai - scrive in una lettera al Barone Friedrich Leitenberger - sono tuttavia favorevole alla conversione. Il problema per me è chiuso. Mi angustia invece grandemente per mio figlio Hans. Mi chiedo se ho il diritto di amareggiargli l'esistenza e di intristirgliela, come è stata amareggiata e intristita la mia. Spero che cresca troppo orgoglioso per abiurare la fede, anche se è evidente che ne ricaverà ben poco. Ne consegue che bisognerebbe battezzare i bambini ebrei prima che si debbano assumere la responsabilità dei loro atti, prima che siano in grado di reagire opponendosi e prima che la conversione possa assumere l'aspetto di un cedimento. È necessario che si confondano in mezzo alla folla". Un'idea, quella della conversione del popolo ebraico, che Herzl abbandonerà nel 1895, con l'inizio dell'Affaire Dreyfus. Assistendo alla virulenta campagna antisemita che da Dreyfus passa ad incolpare tutti gli ebrei, Herzl si convince che la soluzione del problema della condizione ebraica non è nella realtà esterna, ma in un'idea tutta interna, nel raggiungimento di un ideale: uno stato per gli ebrei. Un progetto utopistico se non addirittura velleitario, forse addirittura folle, come lo stesso Herzl lo definì scrivendo, con una certa dose di autoironia, al Cancelliere Bismarck: "Il primo impulso di ogni essere ragionevole dovrebbe essere quello di mandarmi in osservazione in un ospedale psichiatrico".
L'idea sionista, di uno stato per gli ebrei - fosse anche l'Uganda in Africa - diventa per Herzl lo scopo e l'impegno della sua intera vita. Già appena due anni dopo, nel 1897, dà vita a Ginevra al primo Congresso sionista e inizia un forsennato giro diplomatico per l'Europa, incontrando Capi di stato, monarchi, finanziatori e sostenitori del progetto per dare vita allo stato degli ebrei. Ma c'era una contraddizione esistenziale nella vita che Herzl conduceva - e che espresse con lucida chiarezza, mentre incontrava i maggiori monarchi - , per sopravvivere continuava tuttavia a rimanere un 'semplice' dipendente del giornale Neue Freie Presse: "Tremo al pensiero di essere licenziato; non oso prendermi le ferie di cui la mia salute avrebbe tanto bisogno perché per sei settimane, tutte spese al servizio attivo del sionismo, non mi sono seduto alla mia scrivania. Così ancora una volta, ritorno oggi in ufficio, dopo essere stato un libero e potente signore a Basilea ed entro nella stanza del mio padrone Bacher come un umile e rispettoso impiegato che torna dalle vacanze".
Theodor Herzl morì prematuramente il 3 luglio 1904, ma il seme che aveva gettato non si era inaridito, la speranza che aveva aperto nei cuori di milioni di ebrei afflitti e dolenti, non si era dissolta. Lo testimonia la cronaca del suo funerale, scritta dal giornalista Stefan Zweig: "D'un tratto da tutte le stazioni della città con tutti i treni della notte e del giorno da tutti i paesi giunsero in folla ebrei occidentali e orientali, russi e turchi. Accorrevano da tutte le provincie e le borgate, con lo spavento della notizia ancora sul volto: si intuiva chiaramente quello che le troppe dispute e le troppe parole avevano nascosto, che scendeva nella tomba il capo di un grande movimento. Fu un corteo senza fine: Vienna si accorse che non era morto soltanto un mediocre scrittore e poeta, ma uno di quei plasmatori d'idee che si ergono vittoriosi su di un paese e su di un popolo soltanto a lunghissimi intervalli. Al cimitero si verifìcò un tumulto perché troppi si strinsero improvvisamente intorno alla bara piangendo, gemendo, urlando con una selvaggia esplosione disperata; ogni ordine era infranto per una specie di lutto elementare ed estatico, quale io mai vidi a un funerale né prima né dopo di quel giorno. Da quell'inaudito dolore, erompente dal profondo di un intero popolo, potei per la prima volta misurare quanta passione, quanta speranza quest'uomo solo e solitario avesse lanciato nel mondo con la forza del suo pensiero".
Theodor Herzl oggi riposa, secondo le sue volontà testamentarie, a Gerusalemme. Nel 1950, la sua salma fu traslata dal cimitero ebraico di Vienna nello Stato di Israele, dove fu accolta con tutti gli onori militari e con un corteo tra due ali di folla, e poi seppellita in cima ad un monte che porta il suo nome.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
«Se anche il sale diventa insipido, con che gli si darà sapore?»
"Or molta gente andava con lui; ed egli, rivoltosi alla folla disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa per vedere se ha abbastanza per poterla finire? Perché non succeda che, quando ne abbia posto le fondamenta e non la possa finire, tutti quelli che la vedranno comincino a beffarsi di lui, dicendo: "Quest'uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto terminare". Oppure, qual è il re che, partendo per muovere guerra a un altro re, non si sieda prima a esaminare se con diecimila uomini può affrontare colui che gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un'ambasciata e chiede di trattare la pace. Così dunque ognuno di voi, che non rinunzia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo. Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda»."
Dal Vangelo di Luca, cap. 14
Concerto al Quirinale per i 70 anni dalla nascita dello Stato di Israele
Organizzato dalla Presidenza della Repubblica e dall'ambasciata dello Stato ebraico. Protagonista il violinista Shlomo Mintz.
Uno dei più grandi violinisti in attività, l'israeliano Shlomo Mintz, sarà il protagonista del concerto che si terrà domenica al Quirinale: un evento organizzato dalla Presidenza della Repubblica e dall'Ambasciata di Israele per celebrare i 70 anni della nascita dello Stato
israeliano. Il tradizionale concerto della domenica nella Cappella Paolina si terrà nel pomeriggio, alle 17, e sarà eseguito da Shlomo Mintz, accompagnato al pianoforte da Roberto Prosseda. L'indipendenza di Israele fu proclamata da David Ben Gurion il 14 maggio del 1948.
(la Repubblica, 12 maggio 2018)
Pubblicati foto e video del Panzir distrutto da Israele in Siria
L'ufficio stampa dell'Esercito di difesa di Israele ha pubblicato il video con i missili Spike NLOS, in cui si vede l'attacco al Panzir in Siria. In seguito all'impatto sul mezzo iraniano sono morte tre persone, ci sono stati due feriti. In precedenza, le forze armate israeliane hanno riferito che nella notte di giovedì l'aviazione del paese ha inferto attacchi contro la Siria in risposta al fuoco di terra. Tra gli obiettivi c'erano decine di oggetti d'interesse iraniani delle formazioni "Al-Quds", l'esercito israeliano ha detto che ha avvertito la controparte russa della loro azione.
Gli esperti hanno osservato in precedenza, che il missile israeliano è riuscito a distruggere il mezzo perché non era in stato di allerta. Il complesso missilistico russo Panzir è stato progettato per copertura media per attacchi civili e militari, con mezzi di attacco aereo, il complesso è in grado di esercitare una protezione complessiva da minacce di terra e di mare.
(Sputnik Italia, 12 maggio 2018)
Israeliani innamorati di Genova: «È una città che dovete conoscere»
Genova conquista le prime pagine israeliane. «La città italiana che dovete conoscere» scrive il quotidiano Yedioth Ahronoth.
Una carrellata di immagini che ritraggono Spianata Castelletto, il Porto Antico e torre degli Embriaci fa da cornice all'intervista che i due inviati giornalisti (Michaela Hazani e Shiri Hadar) hanno riservato ad Adì Nataf, designer navale israeliano che risiede da otto anni a Genova.
Un modo per approfondire il legame che - le due amministrazioni comunali di Genova e Tel Aviv - stanno sempre più intessendo, in ottica prossimo volo diretto concesso da IsrAir Airlines.
(Genova Post, 12 maggio 2018)
«Il no di Trump smaschera l'Iran. Ora Roma isoli i soci del terrore»
L'ambasciatore di Israele: «Gli Usa fanno bene a reagire alle bugie di Rouhani sul nucleare L'Italia è con noi, ma deve sapere che fare affari con Teheran significa finanziare i jihadisti» .
Questo Paese sta violando le risoluzioni dell'Onu e ha destabilizzato la regione supportando miliziani in Yemen, Libano e Siria.
Le prove di cui Netanyahu ha parlato al mondo sono state messe a disposizione delle potenze occidentali proprio in questi giorni
di Daniele Capezzone
Ofer Sachs, Ambasciatore di Israele in Italia
L'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, ha accettato di concedere alla Verità una,prima intervista a tutto campo dopo le decisioni di Donald Trump e la recente conferenza di Benjamin Netanyahu sull'Iran.
- Ambasciatore, come valuta il ritiro di Trump dall'Iran Deal?
«Trump ha preso la decisione giusta. L'accordo, basandosi su una lunga serie di inganni e ambiguità da parte di Teheran, non aveva alcuna possibilità di stabilizzare la regione. Il Jcpoa (Joint comprehensive plan of action, l'accordo sul nucleare iraniano, ndr) non è stato in grado di affrontare la minaccia posta dall'Iran nella sua interezza: il programma balistico, ad esempio, non ne faceva parte. L'Iran ha ripetutamente violato la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che intende evitare l'acquisizione da parte di Teheran delle capacità balistica necessaria per le testate nucleari. Inoltre non possiamo ignorare che l'Iran sta continuando a destabilizzare l'intera regione, come gli ultimi eventi dimostrano: il supporto agli Houthi in Yemen e a Hezbollah in Libano, e la presenza di oltre 80.000 operativi in Siria. Il fatto che le sanzioni americane avranno un impatto nell'immediato, considerato il già precario stato di salute dell'economia iraniana, crediamo possa rappresentare un'occasione per riaffrontare opportunamente le sfide poste da Teheran, come sarebbe dovuto essere in principio».
- Una settimana fa, Netanyahu ha mostrato nuove prove sul programma nucleare militare dell'Iran. Le avete già condivise con I Paesi alleati? «Le informazioni mostrate da Netanyahu erano principalmente rivolte a sconfessare le bugie iraniane di fronte al mondo intero. Come ha già detto il primo ministro, Israele è intenzionata a condividere con i propri alleati il materiale in proprio possesso. Proprio alcuni giorni fa alcune potenze occidentali hanno preso visione delle evidenti prove che dimostrano come Teheran non abbia mai cessato di ambire a un arsenale atomico».
- Alla luce di tutto questo, come giudica le relazioni tra Teheran e Roma, su cui gli ultimi governi italiani hanno molto insistito, anche offrendo una rischiosa garanzia pubblica (attraverso íl veicolo Invitalia) agli investimenti in Iran? «Italia e Iran hanno cooperazioni in molti campi da diversi anni, dalla cultura all'economia. Consideriamo l'interesse italiano in Iran oggi, non diversamente da quello di altre potenze industriali, principalmente basato su presunte nuove possibilità economiche. Le ultime decisioni su Invitalia vanno intese in questa direzione. Ci sono però delle evidenze che dimostrano chiaramente il legame tra le attività dell'Iran nella regione, le preoccupazioni per la sua agenda nucleare e molte delle attività economiche che si svolgono in quel Paese. Riteniamo quindi che le sanzioni economiche rimangano gli strumenti diplomatici più efficaci a cui la comunità internazionale può ricorrere. A tal proposito, ci aspettiamo che l'Italia giochi un ruolo positivo. Più della metà del sistema economico iraniano è controllato dalle guardie rivoluzionarie, presenti in ogni settore. Un normale imprenditore italiano può firmare quindi un accordo economico con una controparte iraniana, senza neanche sapere che indirettamente sta finanziando il terrorismo internazionale. Questa purtroppo è la grande differenza tra l'investire in uno Stato di diritto e un regime dove lo Stato di diritto non esiste».
- Ambasciatore, fuori dalle cautele diplomatiche, cosa pensa dei recenti attacchi occidentali contro postazioni iraniane in Siria, alcuni addebitati proprio a Israele?
«La guerra civile siriana bussa alla porta dell'Europa da diversi anni. Quasi otto anni in cui ogni morale è stata superata, diretta conseguenza dell'inconsistente politica occidentale nella regione. Più di 500.000 persone hanno perso la vita, molte di più sono ferite e milioni sono stati costretti a fuggire per trovare un luogo sicuro. Riguardo a Israele, noi ci sentiamo in obbligo di fare tutto quanto nelle nostre possibilità per difendere i nostri civili. Il discorso della Siria è connesso a quanto finora sostenuto sull'Iran, che sta usando cinicamente la guerra civile per le proprie ambizioni radicali. Quando Teheran usa la Siria come base operativa per lanciare attacchi, Israele ha il diritto di reagire e far rispettare alcune precise linee rosse: nessuna presenza iraniana vicino ai confini israeliani, nessuna presenza di armi sofisticate in grado di mettere a rischio le città israeliane, nessun trasferimento di simili armi al gruppo terroristico di Hezbollah in Libano. Nelle scorse settimane l'Iran ha utilizzato il territorio siriano per attaccare due volte Israele, la nostra reazione dimostra la fermezza con cui intendiamo difendere i nostri cittadini».
- Sembra che la questione iraniana stia avvicinando Israele e il mondo arabo, in particolare Israele e Arabia Saudita.
«L'Iran è un problema dell'intera regione. Condividiamo con molti Paesi arabi moderati la preoccupazione per le mire espansionistiche del regime di Teheran. C'è ancora un lungo processo verso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo, ma significativi progressi sono ormai evidenti».
- L'Isis e le forze jihadiste, largamente sconfitte in Iraq e Siria, potrebbero spingere i loro militanti ad azioni solitarie e disperate nelle nostre capitali?
«I fatti dimostrano che l'Isis sta perdendo terreno in Siria e in Iraq. Ciononostante la causa e le spinte che hanno portato alla nascita dello Stato islamico sono ancora vive e incombenti, esponendo il ventre molle delle potenze occidentali alla minaccia dei lupi solitari e di altre tecniche terroristiche. L'unico modo per sconfiggere tutto questo è attraverso la cooperazione, lo scambio di informazioni, e la reale comprensione che il fenomeno non è solamente una questione mediorientale, ma presente nel nostro stesso cortile di casa. Per parte nostra, come è noto, ogni volta che Israele è in possesso di informazioni rilevanti, è disponibile alla condivisione e alla cooperazione con i propri partner».
- Spostiamoci in Nord Africa, dove il Marocco ha appena rotto le relazioni diplomatiche con l'Iran. Che scenari prevede per la Libia?
«Monitoriamo con attenzione quanto succede in Nord Africa. È inutile ribadire che la stabilità della Libia è fondamentale per l'Europa e per l'intera regione. Sosteniamo l'impegno dell'Italia e degli alleati nella difficile stabilizzazione del Paese».
- Si è parlato molto di armi chimiche. Ma che valutazione fa di un altro incubo, quello delle armi batteriologiche?
«Siamo seriamente preoccupati da una simile eventualità. Abbiamo tutti assistito alle strazianti immagini provenienti da Ghouta. Ritengo che il rischio sia estremamente serio e per questo è necessario trovare nuovi strumenti di deterrenza».
- Come sono le relazioni tra Italia e Israele oggi?
«Tra Italia e Israele esistono ottime relazioni in ogni settore con un alto interscambio commerciale, intensi flussi turistici e cooperazioni in ambito accademico, scientifico e della difesa. Israele vede l'Italia come un importante partner e una voce molto autorevole in Europa. Ci piacerebbe vedere le relazioni continuare ad approfondirsi per molti anni a venire».
- Rompiamo il protocollo, se posso permettermi. Dia un suggerimento amichevole al centrodestra, ai grillini, al centrosinistra.
«Non voglio entrare ovviamente in questioni di politica interna. Abbiamo profonda stima del presidente Sergio Mattarella e siamo disponibili a lavorare con il prossimo governo - indipendentemente dalla sua connotazione politica - per migliorare e approfondire le già ottime relazioni tra Roma e Gerusalemme».
(La Verità, 12 maggio 2018)
Israele: "Sradicheremo la presenza iraniana dalla Siria"
GERUSALEMME - Con i raid contro obiettivi iraniani in Siria giovedì scorso, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno fatto sapere di aver condotto la più ampia operazione militare dalla guerra del 1973. Lo Stato ebraico ha reso noto di aver colpito più di 50 obiettivi e di essere pronto a un nuovo confronto con gli iraniani. Nel bombardamento, gli israeliani avrebbero lanciato circa 60 missili, partiti da 28 caccia F-15 ed F-16. L'attacco è giunto in risposta al lancio di circa 20 missili contro obiettivi israeliani nelle alture del Golan da parte della Forza al Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana (Pasdaran), avvenuto intorno alla mezzanotte locale (circa le 23:00 in Italia). Gerusalemme ha reso noto che alcuni razzi iraniani sono stati intercettati dal sistema di difesa aerea "Iron Dome", mentre altri sono caduti in territorio siriano.
(Agenzia Nova, 12 maggio 2018)
Ora Putin volta le spalle al generale Suleimani per placare Netanyahu
Putin e i generali iraniani non vanno d'accordo sul futuro della Siria. Russia e Iran divergono sul futuro della Siria del presidente Assad e Israele lavora su questa spaccatura strategica.
di Daniele Raineri
Il generale iraniano Qassem Suleimani
ROMA - La Siria del presidente Bashar el Assad può prendere due forme nel futuro prossimo. Una è la forma che più piace al generale iraniano Qassem Suleimani, architetto della politica di sicurezza dell'Iran in medio oriente e capo delle operazioni esterne dei pasdaran che a partire dal 2012 ha letteralmente salvato Assad dalle conseguenze della guerra civile. La Siria secondo questa dottrina dovrebbe diventare una parte sempre più attiva e combattiva della Muqawama, che è la parola araba che indica la "Resistenza", quindi quel vasto assortimento di forze militari sparse fra Libano, Siria e Iraq che riconoscono l'Iran come guida e che hanno come obiettivo la vittoria contro Israele e la sua conseguente dissoluzione. Sarebbe uno stato-guarnigione dell'Iran. In questo caso continuerebbero a succedere episodi di guerra come quello avvenuto mercoledì notte, quando i soldati di Suleimani hanno sparato venti razzi dalle alture del Golan contro Israele e gli israeliani hanno reagito con un bombardamento massiccio che ha causato danni agli iraniani in tutta la Siria.
La seconda forma è quella a cui puntano i russi: una Siria finalmente stabilizzata, che potrebbe impiegare le sue (non molte) risorse per appaltare i lavori di ricostruzione a Mosca e magari anche la ricostituzione del suo esercito, un tempo molto forte e ora logorato dalla guerra civile. Sarebbe uno stato-cliente della Russia. In questa sua seconda forma la Siria non seguirebbe l'avventurismo iraniano, si rifiuterebbe di fare da rampa di lancio per operazioni contro Israele e inoltre concederebbe agli alleati di Mosca l'uso di basi importanti sulla riva del Mediterraneo e in mezzo al medio oriente. Infine, ed è un punto importante, questa Siria sarebbe meno attaccata alla dinastia Assad.
Se prima o poi il rais fosse rimpiazzato con una transizione morbida, i russi non ne farebbero un dramma.
Ecco, ci sono segni importanti che Israele, dopo non avere ottenuto quasi nulla in più di un anno di richieste di attenzioni e di negoziati, stia riuscendo ad accordarsi con il presidente russo Vladimir Putin per una Siria che sia molto meno a immagine e somiglianza del generale iraniano Suleimani e più simile al secondo modello, anche se è un processo che potrebbe richiedere anni. Ieri il ministro della Difesa Avigdor Lieberman in visita alle alture del Golan che affacciano sulla Siria si è rivolto direttamente al presidente Assad: "Caccia gli iraniani! Non ti stanno aiutando. Fanno soltanto danni e la loro presenza porta soltanto problemi". Poche ore prima era uscita una notizia che è un altro segno: la Russia ha detto - secondo il quotidiano Izvestia - che non sta più parlando con il governo siriano a proposito di una fornitura di missili S- 300 come si era detto poche settimane fa e pensa anche che non ci sia bisogno di mandarne. Gli S-300 sono un sistema di difesa che renderebbe i raid israeliani contro gli iraniani in Siria molto più difficili. Gli S-300 sono anche un termometro politico di quello che pensa la Russia. Quando vuole sedurre o tranquillizzare un alleato mediorientale, Mosca annuncia subito un'imminente fornitura di S-300, quando c'è freddezza ritira la promessa. Ma il segno più chiaro di tutti è stato il tempo passato - dieci ore - dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu assieme al presidente russo Vladimir Putin a Mosca durante la parata per la Vittoria, poche ore prima del bombardamento massiccio contro gli iraniani in Siria. Teheran ieri ha rilasciato un comunicato velenoso e vago contro chi "non dice nulla e non critica i raid israeliani in Siria".
Israele punta dunque a mettere in crisi il modello Suleimani. E pensare che fu proprio il generale iraniano, con due viaggi a Mosca nel luglio e nel settembre 2015, a convincere i russi che l'intervento in Siria per salvare Assad era fattibile. Gli iraniani ci avrebbero messo i soldati al suolo (milizie irregolari perlopiù), i russi gli elicotteri e gli aerei. La combinazione si era rivelata efficacissima (oltre che brutale) e aveva portato alla conquista di Aleppo in pochi mesi. A novembre 2015 Putin era andato a Teheran in visita ufficiale e aveva regalato alla Guida Suprema Ali Khamenei una copia preziosissima del Corano risalente al Settimo secolo, come suggello della partnership in Siria. Allora la presenza degli iraniani era ancora indispensabile nella guerra civile. Ma più si va avanti nella stabilizzazione del paese, e più Israele minaccia di incrementare i bombardamenti (al punto di minacciare di colpire il presidente Assad) e più gli uomini di Suleimani per la Russia diventano un problema invece che un aiuto.
(Il Foglio, 12 maggio 2018)
Quando è necessario fare la voce grossa
A differenza dei paesi europei (che temono solo di perdere i loro affari e credono che atteggiamenti accomodanti possano placare l'aggressore) in Medio Oriente nessuno si fa illusioni sull'Iran e sulle sue intenzioni
Per tutti coloro che dubitavano della logica dietro la decisione del presidente americano Donald Trump di ritirarsi dall'accordo nucleare con l'Iran, le notizie sul tentativo di Teheran di lanciare razzi contro il territorio israeliano hanno ancora una volta messo in luce la vera natura e le ambizioni di Teheran.
Sulla scia dell'annuncio di Trump, criticato da tanti governi, era logico aspettarsi che l'Iran cogliesse l'occasione per atteggiarsi a paese vittima e pacifico, con l'obiettivo di portare dalla propria parte tutta la comunità internazionale. Invece, gli iraniani hanno scelto proprio questo momento per cercare di colpire Israele. Dopo che un raid israeliano preventivo ha sventato il loro primo tentativo, hanno aspettato meno di 48 ore per provarci di nuovo e nella tarda sera di mercoledì hanno sparato 20 missili verso le alture del Golan israeliane....
(israele.net, 12 maggio 2018)
Trent'anni dopo, ecco la rivincita di Netanyahu
L'ambasciata Usa a Gerusalemme s'inaugura con il premier all'apice del successo politico
di Fiamma Nirenstein
Gerusalemme vibra di gioia in queste ore, e anche Netanyahu. Si preparano fuochi d'artificio sulla città di David, le strade sono ornate di fiori, il consolato americano si sta trasformando in ambasciata. Benjamin Netanyahu oltre al fragore della solita battaglia che lo accompagna da quando nel 1967 tornò dagli Stati Uniti a 18 anni per arruolarsi nelle unità speciali in una guerra di difesa da cui non si è mai più, in un modo o nell'altro, riposato, sente però adesso anche il respiro dell'apprezzamento, del pensiero positivo, del sorriso che il mondo nega al suo Paese anche quando ha ragione da vendere nella difesa dei suoi cittadini. Adesso non è così: persino l'Ue, dopo che Israele ha risposto all'incursione iraniana, ha riconosciuto il suo diritto a difendersi. Trump ha strappato il patto con l'Iran contro cui Netanyahu si è battuto solo contro tutti per trent'anni; l'Europa non vuole, ma dà molti segni nei discorsi di Macron e Merkel di cominciare a capire che non bastano i proventi degli affari per renderlo potabile. Il viaggio di Netanyahu a Mosca lo ha visto accanto a Putin mentre l'orchestra dell'Armata rossa suonava Hatikva, l'inno nazionale israeliano. Il fatto che la stessa notte di martedì, al ritorno, Bibi abbia colpito 50 postazioni militari iraniane sul territorio di Assad protetto dai russi, significa che le ragioni di Israele non vengono ignorate, e che Putin forse capisce che il suo alleato iraniano in questa fase porta più problemi che vantaggi.
Netanyahu in questi mesi è stato addentato dai giudici e dalla polizia fino a trovare tre «testimoni di giustizia» nel suo stesso ufficio, sua moglie Sara è a sua volte interrogata per supposte malefatte. Bibi certamente è un personaggio assertivo, anche brusco. La sua fantasia è colorata, molto espressiva, e nutrita di letture. Il ministro degli Esteri della Tanzania Augustine Philip Mahiga dice che l'intelligente lettura dell'Africa post-ideologica che esce dalla Guerra Fredda ha portato Bibi nei primi posti dell'interesse africano. Così con l'India e con la Cina, col Sud America: Netanyahu ha stretto buoni rapporti col mondo, tanto che una delle solite mozioni presentate all'Unesco con la sicurezza che una votazione automatica avrebbe di nuovo sottratto Gerusalemme al retaggio ebraico, è stata bloccata. Netanyahu ha spostalo l'accento da un'affannosa ricerca di accordo coi palestinesi che dicono sempre «no» alla ricerca di comuni interessi con i Paesi arabi sunniti moderati. E così i sauditi hanno aperto i cieli agli aerei israeliani che ora possono volare in India dalla via breve; l'Egitto condivide la lotta contro il terrorismo, il Bahrain dichiara che Israele fa bene a difendersi. I voti per Bibi e il suo Likud toccano ora i 42 seggi. L'economia va forte, Netanyahu ha vinto anche la sua battaglia economica (è un economista laureato) per il libero mercato e ha portato il Pil a essere più alto di quelli europei.
È logico che un primo ministro eletto quattro volte sia coperto d'accuse: la più sbagliata è che odi i palestinesi. Il suo atteggiamento non è guerrafondaio. C'è da aspettarsi che cerchi l'occasione di lasciare anche qui un segno positivo. A Bibi è stato riconosciuto di aver capito, come Churchill con Hitler, il vero pericolo mentre tutti lo negavano. Una scelta che può salvare il mondo. È la festa dell'ambasciata a Gerusalemme, la festa di Netanyahu.
(il Giornale, 12 maggio 2018)
Nel cuore (rosa) di Israele
Il filantropo ebreo canadese Sylvan Adams ha portato tre tappe della corsa nel suo Paese, per mostrare la normalità e «il vero volto di una nazione che vuole unire, senza violenza». Missione riuscita: pochi controlli e folla entusiasta nella Città Santa come a Haifa, Eilat e Tel Aviv.
di Massimo Lopes Pegna
Benjamin Netanyahu e Sylvan Adams
Sylvan Adams è ovunque. Come una pallina da flipper rimbalza dalla pista ciclabile intitolata a Gino Bartali nel bosco di Haruvit, nella campagna fuori Gerusalemme, al palco della partenza e di arrivo della Città Santa, per replicare a Haifa, Tel Aviv, Be'er Sheva ed Eilat. Ovunque Adams è il filantropo ebreo canadese, appassionato di biciclette, che due anni fa è emigrato in Israele. Si è innamorato del suo nuovo Paese e ha creduto che comprare le tre tappe del Giro d'Italia - esborso 20 milioni di euro (tutti di tasca sua) - fosse un'idea meravigliosa: al di là del ciclismo. In una settimana ha ripetuto il suo pensiero come uno slogan monotono davanti a qualunque microfono gli si parasse davanti: "Le immagini del Giro entreranno nelle case di un miliardo di spettatori. Un'occasione imperdibile per Israele di mostrare il suo vero volto. Non più militari, sparatorie, violenze: una nazione libera, democratica, pluralista, innovativa, calorosa e sicura», In Israele, Adams è ormai popolare come un vip della televisione. Senza troppa anticamera, si era presentato dal premier Benjamin Netanyahu per illustrargli il progetto e avere la sua benedizione. Ottenuta in pochi minuti di colloquio. Dopo che Bibi aveva compreso che cosa fosse il Giro d'Italia e quale ritorno di immagine straordinario avrebbe avuto Israele. Si è persino lasciato convincere a salire su una bici per girare un simpatico spot: virale e ben visibile ad amici e nemici. Esattamente ciò che voleva. Per mesi se n'è interessato in prima persona, per poi delegare tutto a cinque dei suoi ministri. Non molti Paesi coinvolgono le massime cariche dello Stato per un evento sportivo.
Alla partenza della cronometro, a Gerusalemme, Netanyahu ha preferito non farsi vedere («Motivi di sicurezza», aveva rivelato uno dei diecimila agenti vestiti di nero) al via del primo corridore, ma un paio d'ore in anticipo sull'ora X era sbucato improvvisamente alla Torre di David, a un passo dalla porta di Jaffa, per congratularsi con la prima e unica squadra israeliana (la Israel Cycling Academy) a partecipare a un grande Giro. Nonostante gli incidenti ai confini con la Striscia di Gaza, la crisi con l'Iran e i frequenti impegni telefonici con Donald Trump e il leader australiano, ha scelto una strada distensiva: «Siamo emozionati per questa gara. In particolare ci felicitiamo che siano venuti ciclisti da tutto il mondo, incluso quello arabo. Questo è un messaggio molto importante per Gerusalemme, la nostra città: la città della pace».
Una città intasata di turisti, con poliziotti che ti scrutano con scarso interesse agli accessi chiave delle zone sante. Ogni giorno trascorso a Gerusalemme è stato un momento normale. «È sempre cosi: una normale normalità», suggeriva una studentessa con i capelli ricci e biondi. Pare che ci sia nell'aria un ottimismo contagioso: voglia di vivere e di fare. Per le strade, un numero pazzesco di ragazzi e bambini. La meglio gioventù che sorride energica, pronta a fronteggiare il presente e a mordere il futuro, con la forza che proviene dal passato. Quello antico dei luoghi religiosi della Città Vecchia, come il Muro del Pianto. ma soprattutto quello più recente. Qui nessuno è autorizzato a dimenticare, come fosse una medicina amara da mandare giù per aiutare a capire la storia. Visitare Yad Vashem, il Santuario della Shoah, che ricostruisce fedelmente più di ogni altro posto l'orrore dei campi di sterminio è un'esperienza dolorosa ma mistica. Mentre, non troppo lontano, nel centro della città, Beit Ha'arn, la Casa del Popolo, è il teatro dove nel 1961 venne condannato a morte (per impiccagione) il cervello della Soluzione Finale, Adolf Eichmann, catturato dal Mossad in Argentina. Fu il primo processo pubblico all'olocausto, la prima volta in cui sfilarono i testimoni della tragedia e rivelarono al mondo dettagli spaventosi.
Alle transenne, lungo il saliscendi della cronometro di Gerusalemme, c'era la gente delle grandi occasioni. Una folla oceanica replicata alla partenza da Haifa e all'arrivo di Tel Aviv. Mentre le spettacolari immagini dell'attraversamento del deserto del Negev sembravano adatte a un documentario di National Geographic. Per un Paese in cui il ciclismo è uno sport giovane, ma in crescita, e prevalentemente appassionato alla mountain bike, un successo da tappe mitiche come lo Zoncolan o lo Stelvio. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ex capitano dei paracadutisti ferito in Libano, l'aveva previsto. Ci aveva detto alla vigilia dello storico debutto: «Lo sport è capace di unire la gente. Qui possiamo avere idee opposte, ma tutti vengono e pregano assieme. In un chilometro quadrato, a pochi metri da dove la tappa del Giro inizia e finisce, c'è il più alto numero di moschee, chiese e sinagoghe di qualsiasi altro posto nel mondo. E ne andiamo fieri. La nostra filosofia è unire, includere, proprio quello che insegna lo sport. Ve ne accorgerete: a vedere verrà la cittadinanza compatta al di là delle differenze culturali». E cosi è stato.
Anche a Haifa, la città più multietnica d'Israele: ebrei e arabi assieme, gomito a gomito, senza turbolenze. Anzi. Si sono mobilitate decine di club di ciclismo, nomi in arabo e in ebraico. Quello più azzeccato: "No drop", non si molla, ma la "r" è poco visibile e allora sembra "no dop",cioè, non ci si dopa. L'affresco più bello è quello che i corridori hanno pitturato al traguardo sul lungomare di Tel Aviv. che poteva essere Miami (per i grattacieli) o Lido di Camaiore (per il numero di spettatori): migliaia di braccia protese sulla strada, con in mano uno smartphone, che ondeggiavano in una ola naturale.
Si sono mobilitati in prima persona anche gli eroi dello sport. Gal Fridman è l'unico olimpionico di questa giovane nazione (fondata il 14 maggio 1948): primi Giochi a Helsinki del 1952. Ci sono voluti 52 anni per arrivare al primo oro: Fridman, appunto. Atene 2004, windsurf. Non è mai più accaduto. Oggi è sempre una celebrità, anche se ha preferito rifugiarsi in un kibbutz fra Haifa e Tel Aviv. La tappa ha sfiorato la sua casa modesta e lui, che dopo essere sceso dalla tavola è salito con un certo successo su una mountain bike (campione nazionale dilettanti di secondo livello), si è mescolato con gli altri spettatori per vedere sfilare i corridori. «Giro in Israele sarà una spinta irripetibile per aiutare tanti giovani a cominciare con la bicicletta», ci ha detto.
A un caffè di Jaffa, la zona antica di Tel Aviv che cozza con la modernità di una città che pensa, dicono, più al divertimento che alla spiritualità, si è fatto vedere Tal Brody, ex capitano del Maccabi Tel Aviv. È l'altro monumento d'Israele. Ebreo americano del New Jersey, sollecitato dall'ex ministro Moshe Dayan rinunciò alla Nba (era stato la scelta assoluta no 12 dei Baltimore Bullets al draft del 1965) per venire a giocare a basket qui. Nel 1977, grazie anche a lui, il Maccabi conquistò la prima Coppa dei Campioni della sua storia, battendo il Cska di Mosca in una minuscola palestra in Belgio e in finale (di un punto) la Mobilgirgi Varese a Belgrado. Ma fu il trionfo sulla squadra sovietica a essere celebrato come un grande miracolo: qui è mitologico come Italia-Germania 4-3, come fosse una vendetta contro i Pogrom dei cosacchi di due secoli fa o "Davide che batte Golia", come scrisse il quotidiano Maariv. Brody pronunciò una frase che è stata paragonata a quella di Neil Armstrong quando posò il primo piede sulla luna: «Anachnu a mapà. Siamo sulla carta geografica, non solo nel basket: e ci resteremo». A noi ha detto: "Mi venne spontanea. Avevamo un intero Paese alle nostre spalle. Il nostro allenatore Klein, il cui padre era morto ad Auschwitz, prima della partita ci disse: "Se vincerete avrete gloria per tutta la vita. Nessuno ci dirà mai più che dobbiamo arrenderci». Dopo tanti anni, Brody si fa ancora travolgere dall'emozione: «Questo è il posto più normale e sicuro del Pianeta», dice.
Ecco il concetto che si ripete: normalità. Al di là della politica, su cui si possono avere punti di vista molto differenti. Israele vuole cancellare dall'immaginario della gente l'idea di una nazione militarizzata che impugna i mitra e li usa contro gli inermi. Anche per questo, Netanyahu ha abbracciato la Corsa Rosa: mandare in giro per il mondo il vero volto d'Israele, democratico e cordiale. Non solo marketing turistico, un invito a visitarlo per capire. O come ha riferito Adams sul traguardo conclusivo di Eilat: «Si è visto il cuore d'Israele: è stata una magia».
(SportWeek, 12 maggio 2018)
Il compleanno di Israele, il trasloco americano e i timori del giorno dopo
Tra sicurezza e allerta, tutto è pronto (anche le frecce) per l'apertura dell'ambasciata Usa a Gerusalemme
di Rolla Scolari
MILANO - Le basse case in pietra bianca lasciano spazio a condomini moderni tra le strade tranquille e poco trafficate del quartiere Arnona. E' in quest'area di Gerusalemme, non particolarmente chic né popolare, che lunedì si sposterà da Tel Aviv parte dello staff dell'ambasciata americana. L'area si trova a sud della città vecchia, a meno di cinque minuti di automobile dalle sue mura, sulla via verso Betlemme e la Cisgiordania palestinesi. Agli abitanti di Gerusalemme occorre avere una ragione per recarsi nel quartiere di Arnona, un'area residenziale senza nulla di particolarmente attrattivo, a parte la vista a est sul deserto della Giudea. Da pochi giorni, però, i nuovi cartelli stradali in ebraico, arabo e inglese puntano verso questa tranquilla zona i timori della comunità internazionale.
Il sindaco della città, Nir Barkat, ha aiutato gli operai a issare la nuova segnaletica che indica la strada per raggiungere l'ambasciata degli Stati Uniti nella Gerusalemme contesa. Il presidente Donald Trump ha annunciato - in una prima storica - il trasferimento della sede a dicembre. Lunedì avverrà un trasloco, per ora simbolico, cui parteciperanno le alte cariche dello stato d'Israele, il presidente Reuven Rivlin e il premier Benjamin Netanyahu, e da parte americana il vicesegretario di Stato John Sullivan, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il genero di Trump, che ha avuto per mesi in mano il dossier mediorientale, Jared Kushner. Si sposteranno per ora soltanto l'ambasciatore David Friedman e il suo staff, mentre gran parte dei servizi diplomatici resterà nella sede di Tel Aviv: un massiccio edificio blindato lungo HaYarkon Street, il lungomare della città.
La sezione consolare del quartiere di Arnona, sorta nel 2010, in cui apriranno i nuovi uffici diplomatici americani, è invece una sede secondaria, fortificata ma defilata. Il principale sito del consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme è quello nel cuore della parte ovest della città, su Agron Street: l'antica casa in stile arabo di un missionario luterano tedesco a pochi metri dalla città vecchia. Per i numeri del corpo diplomatico americano, il consolato di Agron è già stretto. Il più recente compound del quartiere Arnona garantisce spazio, maggiore sicurezza, discrezione, e la disponibilità di un terreno adiacente pronto per la costruzione di nuovi edifici. Il calmo quartiere lontano dal centro congestionato dal traffico è infatti più controllabile; la controversa mossa del trasferimento dell'ambasciata avviene in una zona defilata, non nel cuore della città protagonista di un decennale conflitto, anche se, come hanno già sottolineato i quotidiani americani, il compound è parzialmente situato in quella terra di nessuno, contesa, che rappresentava il confine tra Israele e la Giordania prima della guerra del 1967.
Il giorno del trasloco dell'ambasciata americana è stato scelto appositamente il 14 maggio, settantesimo anniversario della nascita dello stato d'Israele. Il 15, i palestinesi marcano il giorno della "nakba", catastrofe in arabo, ricordando le migliaia di persone costrette durante la guerra tra il 1948 e il 1949 a lasciare i propri villaggi e le proprie case senza più farvi ritorno. Esercito e forze di sicurezza israeliani sono in allerta soprattutto attorno a Gaza. Per la settima settimana, ieri, manifestanti hanno protestato bruciando copertoni lungo la barriera che separa la Striscia da Israele. E per lunedì è prevista un'altra marcia del "ritorno" verso le terre da cui i palestinesi sono stati allontanati nel 1948, oggi in Israele, oltre la barriera. Israele accusa il movimento Hamas che controlla Gaza di aver strumentalizzato le manifestazioni. Da fine marzo, 40 palestinesi sono rimasti uccisi negli scontri, che con il passare delle settimane sono scesi di intensità, assieme alle proteste. Le preoccupazioni che la situazione possa degenerare tra lunedì e martedì restano alte, anche se l'ondata di violenza temuta dopo l'annuncio di Trump non c'è stata, né nei Territori palestinesi né nei paesi arabi. Se i vicini di casa, molti formalmente nemici, hanno condannato la decisione, da diverse nazioni, soprattutto del Golfo, arrivano segnali di apertura nei confronti di Israele. In un'intervista all'Atlantic, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha detto - la prima volta per un leader saudita- che sia israeliani sia palestinesi hanno diritto a un loro stato, mentre il piccolo Bahrein in queste ore ha parlato-anche qui è una prima assoluta in favore del diritto di Israele a difendersi dopo il lancio di razzi iraniani dalla Siria.
(Il Foglio, 12 maggio 2018)
Scontro Israele-Iran nella notte sul Golan.
20 i razzi contro stato ebraico, 50 contro postazioni Teheran. Macron e Merkel lanciano un appello per la distensione
Si aggrava la situazione tra Israele e Iran sulle Alture del Golan in quello che è stato definito il primo attacco diretto di Teheran a Israele. La notte scorsa l'esercito israeliano ha colpito circa 50 postazioni iraniane in Siria dopo che la forza Al-Quds di Teheran ha lanciato 20 razzi verso postazioni israeliane di prima linea sulle Alture. Missili in parte intercettati dal sistema di difesa israeliano Iron Dome e che hanno fatto scattare nella zona le sirene di allarme. L'esercito ha definito la risposta di Israele "il maggior attacco aereo compiuto negli ultimi anni".
"Gli ordini dell'attacco sono stati impartiti dal generale iraniano Qassem Suleimani", ha precisato il portavoce militare Jonathan Conricus, aggiungendo che Israele ha informato la Russia dell'attacco aereo in Siria. Sulle Alture del Golan alla popolazione è stato detto di essere attenta alle informazioni che giungono dalle forze militari.
Secondo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani, sono almeno 23 per le persone uccise nei raid. L'ong, che ha sede in Gran Bretagna, dispone di una vasta rete di informatori in Siria.
Israele ha lanciato circa 70 missili nell'attacco della scorsa notte in territorio siriano, sostiene il ministero della Difesa russo, secondo cui "nell'attacco sono stati usati 28 jet israeliani F15 ed F16, che hanno lanciato contro diverse zone della Siria circa 60 missili aria-terra, inoltre - sempre secondo Mosca - dal territorio israeliano sono stati lanciati oltre dieci missili tattici terra-terra".
Il presidente francese, Emmanuel Macron, e la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, hanno avuto oggi un colloquio ad Aquisgrana, in margine alla trilaterale con l'Ucraina. Secondo quanto riferisce a Parigi una fonte dell'Eliseo, "i due leader hanno espresso preoccupazione dopo i raid israeliani in Siria di questa notte ed hanno lanciato un appello alla distensione".
(L'HuffPost, 11 maggio 2018)
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E' guerra Israele-Iran in Siria. Raid dopo i razzi di Teheran
Missili sul Golan e Netanyahu risponde con la più pesante operazione da decenni: «Linea rossa superata»
Solo l'inizio
Israele si prepara già
«a un secondo scontro»
La Casa Bianca
Sosteniamo il diritto
di Israele a difendersi
Macron e Merkel
De-escalation necessaria.
È questione di guerra o pace
di Fiamma Nirenstein
Kassem Suleimani, il mitologico generale delle Forze Quds che guida l'espansione imperialistica dell'Iran e la sua acquisizione di missili balistici circondato da fama e da paura, in queste ore probabilmente si pone domande molto difficili sul seguito della breve guerra del Golan. Per la prima volta nella storia, con tracotanza estrema, dalla Siria la Guardia Rivoluzionaria ha firmato un attacco di razzi contro l'odiata Israele. Suleimani aveva promesso una vendetta per l'attacco alla base militare T4 da cui l'Iran aveva lanciato su Israele un sofisticato drone armato ricevendone una risposta che aveva distrutto la base e ucciso sette dei suoi uomini. E l'ha fatto, e forse non per caso, il giorno dopo la cancellazione del patto sul nucleare da parte di Trump, che sta anche per riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Una guasconata a più dimensioni, che però non ha funzionato: l'Iran adirato, odiatore, che ha minacciato una furiosa risposta a Trump e la solita distruzione di Israele, spara 20 razzi russi, di cui 16 non riescono a passare il confine e a entrare in Israele, mentre lo scudo di difesa ne blocca tre nel cielo. La risposta di Israele arriva poco dopo, la mezzanotte ed è la «maggiore operazione aerea degli ultimi anni», dice il portavoce militare israeliano Jonathan Conricus.
Benjamin Netanyahu è atterrato da mezz'ora di ritorno da una giornata storica a Mosca in compagnia di Putin che gli ha fatto grande onore, come a dire a Trump: non credere di essere l'unico a possedere una leva su Israele. Inno israeliano accanto a quello russo, memorie dell'eroica resistenza russa di fronte al nazifascismo e anche, in particolare, degli ebrei che hanno servito nell'esercito sovietico. Per tre ore, poi, i due leader hanno discusso da soli della situazione in Siria, e se l'immaginazione può esprimersi liberamente, Netanyahu deve aver ripetuto la sua non ingerenza nella presenza russa da quelle parti, ma la totale determinazione a impedire che l'Iran vi stanzi le sue forze militari in Siria e la preoccupazione che dalla Russia possano pervenire armi decisive per Assad, legato all'Iran e agli Hezbollah. Non è dato sapere se Netanyahu gli ha annunciato l'intenzione di muoversi militarmente al bisogno ma possiamo pensare che, se non ha ricevuto una luce verde, non ne ha ricevuta peraltro neppure una rossa.
Appena il primo ministro è tornato e il Gabinetto si è riunito, è stato dato il via a un'operazione che come ha detto il ministro della Difesa Liberman, dimostra che «se da noi c'è la pioggia, da loro c'è l'alluvione». Per Netanyahu «l'Iran ha oltrepassato una linea rossa. Non permetteremo a Teheran di acquartierarsi in Siria».
Ventotto fra F15 e F16 hanno colpito intorno ai sessanta obiettivi, disegnando una mappa quasi completa delle basi militari iraniane. Non si sa il numero di morti, ma si sa che fra loro c'è qualche iraniano. Un colpo cui gli ayatollah dovranno pensare bene prima di dar seguito ai loro attacchi a Israele, perché ha dimostrato che i servizi di Israele hanno una conoscenza particolareggiata di tutte le postazioni in Siria, e che da tempo hanno preparato delle azioni definitive.
Certamente la «vendetta» iraniana non porterà al regime lustro e onore. Per quanto si possa adornarla, la verità affiora nei social media e nelle radio e tv clandestine. Il regime versa in una situazione di debolezza, contestato dalla popolazione oppressa e impoverita, condita dalla delusione di essere affondati dopo tanto tempo passato, con la gestione Obama, sulla cresta dell'onda.
Gli iraniani non seppelliranno tuttavia il loro odio per Israele, e ci si può aspettare che ci sia un seguito all'attacco di ieri. L'Iran non intende farsi scalzare dalla Siria, la sua migliore piattaforma di espansione mediorientale: ma dovrà pensare nuove strategie. Privi di qualsiasi remora morale, come dimostrano gli spaventosi.
(il Giornale, 11 maggio 2018)
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Rifugi, riservisti e sirene anti-aeree. Lo Stato ebraico pronto alla guerra
L'esercito ordina ai sindaci di aprire i bunker Rafforzati i sistemi di difesa al confine
1 milione
I rifugi anti-bombardamenti presenti in Israele, molti convertiti nella quotidianità in palestre e sale musicali
470 chilometri
La lunghezza di tutto lo Stato di Israele da Nord a Sud, poco più della distanza tra Torino e Venezia
di Rolla Scolari
In Israele il segnale che la costante tensione regionale è andata oltre il livello di guardia è l'ordine dell'esercito ai sindaci di aprire i rifugi antimissile. Le sirene nel Nord, alcune collegate alla voce registrata che avverte i residenti - Tzeva Adom, in ebraico colore rosso, allarme rosso - sono partite poco dopo la mezzanotte di giovedì. Gli abitanti di alcune comunità sono restati nei rifugi fino alle due del mattino. Postazioni militari iraniane in Siria hanno lanciato venti missili contro una base israeliana. Alcuni sono stati intercettati, altri sono caduti in territorio siriano.
In seguito all'annuncio, martedì, del presidente americano Donald Trump sull'uscita degli Stati Uniti dall'accordo internazionale sul nucleare iraniano, Israele è entrato in allerta. Sono ormai mesi che l'establishment militare teme, con il rafforzarsi dell'Iran nella vicina Siria, un possibile attacco. I vertici militari hanno chiesto ai riservisti di tenersi pronti e rafforzato il dispiegamento di batterie del sistema di difesa anti-missilistico Iron Dome nella regione settentrionale del Golan.
Benché i raid israeliani sulla Siria, in risposta al lancio di razzi iraniani, siano stati i più aggressivi in decenni, la leadership politica d'Israele punta a mantenere in casa il business as usual. Il Paese d'altronde è abituato a passare nel giro di poche ore dalla quotidianità all'emergenza bellica. Scuole, uffici, negozi al Nord sono rimasti aperti ieri, nonostante l'attacco notturno e l'allerta ovunque. Gli abitanti delle zone più a rischio - quelli lungo i confini con il Sud del Libano, roccaforte delle milizie sciite di Hezbollah, e con la Siria in guerra, e le comunità rurali del Sud, attorno a Gaza - conoscono le procedure in caso d'attacco. I siti Internet e i social network di esercito e municipalità forniscono i tempi d'impatto dei missili. A seconda della posizione geografica di città e villaggi - Israele da Nord a Sud è lungo appena 4 70 chilometri, poco più della distanza tra Torino e Venezia - per trovare rifugio si ha a disposizione da pochi minuti a pochi secondi. Assieme alle sirene, un sistema di sms gestito dallo Stato attraverso le compagnie telefoniche avverte i cittadini in tempo reale di minacce imminenti.
Oltre ai rifugi anti-bomba, sarebbe obbligatorio avere in casa una stanza con muri e porte rinforzate, senza finestre. Contando questi «bunker» familiari, Israele avrebbe circa un milione di rifugi, molti dei quali, come documentato da un servizio fotografico del «Guardian» qualche anno fa, convertiti nella quotidianità in palestre domestiche, sale musicali o di danza.
L'infrastruttura di difesa civile è stata potenziata dopo la guerra del 2006 contro Hezbollah, che in 34 giorni di conflitto ha lanciato centinaia di razzi Katiuscia sul Nord. Da allora, l'ospedale Ichilov di Tel Aviv ha costruito quattro piani sotterranei, normalmente usati come parcheggio, che possono ospitare mille letti, e dispongono di forniture d'ossigeno, acqua potabile, elettricità, di generatori capaci di operare una settimana. Il Rambam Medicai Center di Haifa, al Nord, è più grande: in meno di 48 ore può trasferire quasi 2.000 pazienti nel suo sottosuolo. E il parcheggio sotterraneo del teatro Habima di Tel Aviv, in caso di attacco chimico, biologico o missilistico può essere convertito in un rifugio pubblico per migliaia di cittadini.
(La Stampa, 11 maggio 2018)
Israele ha capito
Articolo OTTIMO!
di Jacques Schuster
Bisogna dirlo chiaramente: la politica europea in Medio Oriente è penosa e indegna di una potenziale forza come l'Unione europea. Di fronte a un focolare mediorientale sempre più minaccioso, l'unica cosa che viene in mente agli europei è di lamentarsi per l'annuncio americano dell'abbandono dell'accordo nucleare e invitare Iran e Israele alla moderazione. L'Europa, questo gigante economico, questo nano politico, questa nullità militare, non ha fatto niente per arginare il pericolo reale che si profila ormai da anni: la graduale acquisizione di potere da parte di Teheran in Siria e Libano, con i più moderni missili a corto e medio raggio, con un esercito enorme di combattenti propri e di Hezbollah, con armi potenti di tutti i generi. L'Europa, i tedeschi, i francesi, gli inglesi guardano da anni a questa zona, ma restano senza parole e sono privi di idee. Quali sono i principi basilari della politica tedesca in Iran? Non c'è risposta a questa domanda. Nel migliore dei casi, si liquida il tutto con aride parole, dicendo che Berlino aderisce all'accordo nucleare. E' questa la politica di uno stato che fa pressioni per partecipare al Consiglio di sicurezza?
Purtroppo, le cose procedono come sempre: senza avere nessuna reale idea politica, gli europei si riempiono la bocca di umanistica donchisciotteria e non si rendono conto di assomigliare ancora una volta al prode Sancho Panza, che osserva crisi e conflitti da lontano. Che Trump abbia rotto l'accordo nucleare, dipende anche da loro, gli europei. Se nella firma dell'accordo si fossero preoccupati di come rispondere all'aggressiva avanzata dell'Iran in Medio Oriente, avrebbero reso più difficile al presidente degli Stati Uniti Donald Trump spazzare dal tavolo tutti gli accordi. Loro invece invitano tutti alla generale de-escalation, senza ammettere che è Israele, con la sua sobria strategia e il suo tempestivo attacco militare, che contribuisce alla vera de-escalation, cercando di indebolire il regime di terrore iraniano e intimidire i suoi scagnozzi.
Solo Israele - a differenza degli Stati Uniti e dell'Unione europea - ha una chiara politica sull'Iran: vuole impedire l'espansione militare di Teheran verso il Mediterraneo. Lo fa per interesse personale. Se l'Europa avesse il senso del pericolo e di quella che è la situazione sul terreno, si accorgerebbe che Israele serve anche gli interessi europei. Ma per questo occorre avere ampiezza di vedute, cosa che all'Europa manca.
(Die Welt, 11 maggio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Quello che gli europei e gli israeliani di sinistra aggiungono a tutto questos è che il "pericolo-Iran" è una fissazione personale di Netanyahu, sintomo di grettezza e smania di potere. Chissà se qualcuno arriverà a sospettare che sia stato proprio lui a invitare gli iraniani a mandare i missili sul Golan. Una fascista mente diabolica sarebbe capace di tutto. M.C.
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Israele-Iran: è guerra sul territorio siriano
Inizia l'operazione 'House of cards'
È stata soprannominata 'House of cards' l'operazione lanciata da Israele durante le prime ore di giovedì 10 maggio in Siria contro le postazioni iraniane, in reazione all'invio di 20 missili sparati alle basi militari israeliane del nord dalla forza al-Quds del corpo della Guardia rivoluzionaria iraniana dalla Siria meridionale. Israele si aspettava un attacco, dopo l'annuncio da parte di Donald Trump dell'uscita degli Usa dall'accordo sul nucleare dell'Iran, tanto che erano stati aperti i rifugi antimissilistici nelle località israeliane del Golan. Alcuni dei missili sparati dalla Siria sono stati abbattuti dal sistema di difesa Iron Dome.
L'operazione aerea in Siria più grande in 40 anni
Come riporta il Times of Israel, durante le due ore precedenti all'alba, i caccia F-15 e F-16 israeliani hanno eluso "dozzine di missili" e lanciato "molte dozzine" di bombe su oltre 50 bersagli iraniani in tutta la Siria mentre l'aviazione israeliana effettuava una vasta campagna per cercare di distruggere la presenza militare iraniana nel paese. Sono stati hanno presi di mira i centri di intelligence dell'IRGC, depositi di armi, impianti di stoccaggio, posti di osservazione e centri logistici in Siria, così come il lanciarazzi che ha effettuato l'attacco iniziale, ha detto l'esercito.
La missione - la più grande campagna aerea portata avanti da Israele in Siria in oltre 40 anni - ha avuto "un grande successo", ha detto giovedì un alto ufficiale dell'aviazione, avvertendo però che Israele ritiene che le forze iraniane in Siria siano ancora in possesso di missili di superficie che potrebbero essere di nuovo sparati contro Israele.
"Sono state colpite quasi tutte le infrastrutture iraniane in Siria", ha annunciato il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman.
"Abbiamo usato molte dozzine di bombe. Le condizioni meteorologiche erano limitanti, i cieli erano pieni, il che richiedeva coordinamento e sincronizzazione, mentre dozzine di missili venivano sparati contro i nostri aerei: questa era una missione complicata ", ha detto un ufficiale dell'aeronautica al Times of Israel. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato di non aver subito perdite, né a terra né in aria, e che nessun missile sparato dalla Siria ha avuto un impatto nel territorio israeliano.
"Tutti i nostri aerei sono tornati a casa sani e salvi", ha detto l'esercito ieri. Lo stesso non si può dire a febbraio, durante un altro scontro tra forze israeliane, siriane e iraniane, in cui un caccia F-16 era stato abbattuto, schiantandosi in un campo nel nord di Israele, dopo l'espulsione del pilota e del navigatore.
Pronti a tutto
Le autorità dello Stato ebraico hanno negato di volere un'escalation ma hanno sottolineato di essere pronte a rispondere duramente in caso di attacco. I jet hanno colpito "quasi tutte le infrastrutture iraniane in Siria", ha annunciato il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, avvertendo l'Iran di "ricordarsi il detto: se piove su di noi, su di loro ci sarà la tempesta".
"Israele ha trasmesso un chiaro messaggio ai suoi nemici e all'Iran", gli ha fatto eco il presidente della Knesset su Twitter, aggiungendo che "le regole del gioco sono cambiate": "Non tollereremo alcuna minaccia per la sicurezza dei nostri cittadini e non accetteremo il trinceramento delle forze iraniane nemiche a breve distanza dalle nostre comunità di confine". "Spero che abbiamo chiuso con questo episodio e tutti abbiano capito", ha aggiunto Lieberman.
(Bet Magazine Mosaico, 10 maggio 2018)
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Ministro della Difesa israeliano: i paesi del Golfo formino un "asse dei moderati" contro l'Iran
GERUSALEMME - Gli Stati del Golfo "escano allo scoperto" per formare "un asse dei moderati" contro la minaccia iraniana. È quanto affermato oggi dal ministro della Difesa iraniano, Avigdor Liberman, durante il suo intervento al Centro interdisciplinare di Herzliya (Idc), sobborgo a nord di Tel Aviv. Nel discorso, Lieberman ha chiesto chi abbia sostenuto la decisione degli Stati Uniti di recedere dall'accordo sul programma nucleare iraniano (Jcpoa), annunciata l'8 maggio scorso dal presidente degli Usa, Donald Trump. La risposta di Lieberman è stata: "Israele, l'Arabia Saudita e gli Stati del Golfo". Pertanto, ha proseguito il ministro della Difesa israeliano, "è tempo per questi Stati moderati di uscire allo scoperto e iniziare a parlare apertamente". Per Lieberman, "proprio come vi è un asse del male" che sarebbe guidato dall'Iran, "è tempo che in Medio Oriente vi sia un asse di paesi moderati".
(Agenzia Nova, 10 maggio 2018)
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Scontro Iran-Israele. Danon chiede risposte al Consiglio di Sicurezza
Il rappresentante permanente israeliano all'ONU chiede una condanna dell'aggressione iraniana, ma Teheran si difende
di Giulia Pozzi
Il rappresentante permanente di Israele all'ONU Danny Danon
Nella notte, i jet israeliani in Siria hanno puntato obiettivo iraniani, a poche ore da quello che Israele ha denunciato come un tentativo fallito, da parte dell'Iran, di attaccare le forze di Tel Aviv sulle alture del Golan. A poche ore dall'addio USA all'accordo sul nucleare, il conflitto nascosto tra Iran e Israele in Siria sembra affiorare in superficie.
A pochi giorni dall'annuncio dell'addio degli Stati Uniti all'accordo sul nucleare iraniano deciso dall'amministrazione di Donald Trump, la situazione mediorientale sembra farsi ogni ora sempre più infuocata. Soprattutto, per quel che riguarda quella guerra senza fine, che dura ormai da 7 anni, che ha polverizzato la Siria e sconvolto gli equilibri geopolitici della regione. Questa notte, proprio in Siria i jet israeliani hanno puntato obiettivi iraniani, a poche ore da quello che Israele ha denunciato come il tentativo fallito, da parte dell'Iran, di attaccare le forze di Tel Aviv sulla alture del Golan.
L'attacco israeliano - che gli ufficiali sostengono abbia inflitto un duro colpo alla capacità militare iraniana nell'area - sembra aver rinfocolato le tensioni degli ultimi giorni, seguite all'annuncio ufficiale di Trump. Annuncio che, naturalmente, sembra essere stato una risposta alle pressioni di Israele, da sempre contrario all'accordo, nonostante molti analisti abbiano sostenuto la sua centralità nell'impedire che le tensioni tra Teheran e Tel Aviv si esasperassero.
Anche perché, proprio Iran e Israele sono stati, rigorosamente su fronti opposti, i protagonisti (nascosti) di quella che, da guerra civile siriana che fu, si è presto trasformata in guerra per procura. Fino ad oggi, però, tale contrapposizione è rimasta comunque adombrata dalle complesse dinamiche del conflitto, e non si è mai palesata apertamente. Fino a quando, perlomeno, nella notte le forze iraniane non hanno sparato 20 missili contro il territorio delle alture del Golan controllato da Israele, secondo quanto riferito dal portavoce dell'esercito di Tel Aviv. I razzi sono stati tutti intercettati, o sono caduti a poca distanza in territorio siriano, ma tanto è bastato per mettere in allarme le forze israeliane su una possibile escalation mediorientale manovrata dall'Iran.
Che cosa sta accadendo? Difficile rispondere. Il punto di vista iraniano è rappresentato da Press TV, che, citando l'agenzia siriana SANA, ha sostenuto che la pioggia di razzi iraniani è stata lanciata a sua volta in risposta a "un precedente bombardamento israeliano della provincia di Quneitra". SANA ha poi aggiunto che le difese aeree siriane stavano "affrontando una nuova ondata di razzi di aggressione israeliani abbattendoli uno dopo l'altro". Citando una fonte militare, tuttavia, ha specificato che il lancio di missili israeliani ha colpito un sito radar siriano e un magazzino di munizioni.
Il governo israeliano (che Press Tv chiama eloquentemente "regime") ha subito attaccato il lancio di missili iraniano verso i territori occupati delle alture del Golan. Avigdor Lieberman, ministro israeliano per gli Affari militari, ha dichiarato che Tel Aviv ha colpito target iraniani in Siria in risposta all'attacco di Teheran. Nel frattempo, il rappresentante permanente di Israele all'ONU Danny Danon ha indirizzato una lettera al Consiglio di Sicurezza e al Segretario Generale, chiedendo di condannare gli atti di aggressione iraniani. "Israele considera il governo iraniano, insieme con il regime siriano, direttamente responsabili di questo attacco, e continueremo a difendere vigorosamente i nostri cittadini da qualsiasi aggressione", si legge nella nota. "Israele non è interessata a una escalation, ma in determinate circostanze non permetteremo all'Iran di stabilire una presenza militare in Siria, il cui obiettivo sia attaccare Israele e deteriorare la già fragile situazione nella regione", ha proseguito l'ambasciatore Danon. "Questo sfrontato attacco alla nostra sovranità non cade nel vuoto", ha promesso. "Abbiamo più volte allertato a proposito dell'allarmante coinvolgimento dell'Iran in Siria, e questo atto di aggressione costituisce purtroppo la realizzazione di questi allarmi".
Per queste ragioni, ha proseguito, "chiedo al Consiglio di Sicurezza di condannare immediatamente questo attacco e chiedere che l'Iran rimuova dalla Siria la sua presenza militare, che non solo minaccia Israele, ma anche la stabilità della nostra intera regione", ha scritto Danon. "La comunità internazionale non deve transigere pigramente mentre un regime tirannico attacca una nazione sovrana e continua a minacciare la stessa esistenza di un membro delle Nazioni Unite", ha concluso.
Parole forti, che danno un'idea della portata della crisi e delle sue conseguenze potenziali. Durante il consueto briefing con la stampa, su domanda dei giornalisti il portavoce del Segretario Generale ha dichiarato genericamente che Antonio Guterres richiama entrambe le parti al dialogo. Ora si attende una eventuale risposta in sede di Consiglio di Sicurezza, che però, visti i precedenti sulla Siria, difficilmente potrà essere unitaria.
(La Voce di New York, 10 maggio 2018)
Una sola terra per una sola lingua
Lo Stato d'Israele esiste anche grazie all'uso della lingua ebraica e questo grazie alla caparbietà di un giovane scrittore: Eliezer Ben Yehuda.
Eliezer Ben Yehuda
Il linguaggio è per noi facoltà essenziale, quasi scontata: è rappresentazione del mondo che ci ospita, è convenzione e presupposto stesso del pensiero, dal momento che ad ogni concetto corrispondono una o più parole. Sarebbe poi interessante capire come le lingue nascano o rinascano, quali siano le differenze tra l'italiano e l'inglese, o tra l'ebraico e il francese. A tal proposito penso spesso a Eliezer Ben Yehuda che, un po' come Manzoni, intese la lingua come condizione di unità e indipendenza politica e come essenza della cultura di un popolo. È così che lo immagino, chino sui libri, pronto a restituire all'ebraico da secoli letto durante le preghiere, la linfa per tornare a vivere e a parlare. È stato lui il padre dell'ebraico moderno, colui che inventò o ricreò parole che nella Torah erano quasi del tutto assenti, e che oggi leggiamo sui giornali: la pistola, il gelato, la bambola o concetti astratti come l'identità. Fu però già con l'Haskalah, il movimento illuminista ebraico, che alcuni intellettuali pensarono all'ebraico biblico come lingua franca per le comunità ebraiche di tutta Europa. Non era compito affatto facile, e tra i romanzieri vi fu chi importò parole dalle lingue contemporanee, in particolare dal tedesco.
Nel 1879 fu poi pubblicato sul mensile viennese della comunità ebraica, Hashahar ("L'Alba"), un articolo che poneva, già dal titolo, Una domanda importante, e il cui autore era un giovane studente che si firmava con lo pseudonimo di Eliezer Ben Yehuda. Questo era nato come Eliezer Perlman e pensava che per rendere il sionismo realtà, sarebbe stato necessario agli ebrei ottenere una sola terra e parlare un'unica lingua. L'idea non venne ben accolta: utilizzare l'ebraico nella quotidianità era blasfemo sia per chi si era trasferito in Palestina sia per chi risiedeva ancora in Europa. Nacque poi il primo figlio di Eliezer dalla moglie Deborah, da lui definita come "la prima madre ebraica in duemila anni", che decise insieme al marito che il bambino avrebbe dovuto ascoltare solo parole in ebraico, neppure la ninnananna in russo era ammessa. Tale vicenda ricorda quella descritta da Amos Oz in Una storia di amore e di tenebra, dove i genitori, per motivi politici e identitari, decidono di parlare con il piccolo Amos solo in ebraico, seppur conoscessero entrambi altri dieci idiomi.
Ben Yehuda si convinse poi che all'ebraico mancava uno strumento fondamentale per diventare lingua a tutti gli effetti: un dizionario. Decise dunque che ne avrebbe creato uno, un'impresa colossale che consisteva nell'individuare la parola di cui l'ebraico aveva bisogno e cercarla nel bacino bimillenario della letteratura ebraica o, laddove non la trovasse, prenderla in prestito dalla lingua araba. Il primo dizionario vide la luce nel 1908 a Berlino ma fu solo nel 1922 che l'amministrazione britannica riconobbe l'ebraico tra le lingue ufficiali del paese. È singolare pensare alla forza che le parole esercitano nel tempo, essendo esse allo stesso tempo condizione perché uno Stato esista ma anche obiettivo da raggiungere.
A settant'anni dalla fondazione dello Stato di Israele possiamo dire che Ben Yehuda meriti almeno il titolo di nonno, perché pur non essendo stato presente alla sua nascita è stato tra coloro che l'hanno resa possibile, e ciò per mezzo della lingua.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Consiglio sicurezza nazionale Iran: "Nessun coinvolgimento nei missili lanciati su Israele"
BEIRUT - Teheran "non ha nulla a che fare con i missili lanciati nella notte di mercoledì su Israele dalla Siria". Lo ha detto oggi il vice presidente del Consiglio per la sicurezza nazionale dell'Iran, Abu al Fadl Hassan al Baiji, secondo quanto riporta l'emittente del movimento sciita libanese Hezbollah "Al Manar". Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno bombardato nella notte posizioni iraniane nel sud della Siria, colpendo la regione prospiciente le alture del Golan e la base militare di Kiswah, nelle vicinanze di Damasco. Il bombardamento, terrestre e aereo, è giunto in risposta al lancio di circa 20 missili contro obiettivi israeliani nelle alture del Golan da parte della Forza al Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana, avvenuto intorno alla mezzanotte locale (circa le 23:00 in Italia). Secondo le Forze armate israeliane, alcuni razzi iraniani sono stati intercettati dal sistema di difesa aerea "Iron Dome", mentre altri sono caduti in territorio siriano. Tra gli obiettivi colpiti dalle Idf, tutti appartenenti al reparto iraniano, siti dell'intelligence, basi militari e logistiche, tra cui l'installazione di Kiswah, depositi di armi presso l'aeroporto internazionale di Damasco, sistemi radar e punti di osservazione.
(Agenzia Nova, 10 maggio 2018)
La fine dell'intesa con Teheran è la rivincita di Netanyahu
Da 25 anni il premier punta il dito contro la "minaccia maggiore" Richiamati i riservisti per la presenza di milizie sciite in Siria .
di Rolla Scolari
Sono passati soltanto due mesi da quando la stampa internazionale si interrogava sulla tenuta di Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano è stato ascoltato dalla polizia su diversi casi di presunta corruzione, e per giorni si è parlato di testimoni che avrebbero potuto affossare la sua lunga carriera.
All'indomani dell'annuncio di Donald Trump sull'uscita degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano, il quotidiano «Washington Post» parla di «momento Netanyahu», ribaltando la posizione del primo ministro. Il presidente americano in un unico discorso martedì ha realizzato quello che da anni predica Bibi Netanyahu: la fine dell'intesa internazionale sul programma atomico iraniano, il ritorno delle sanzioni americane contro Teheran. E fra pochi giorni, il 14 maggio, gli Stati Uniti sposteranno ufficialmente la loro ambasciata a Gerusalemme, in un'altra spinta al potere del primo ministro. Così, mentre il governo israeliano richiama i riservisti, attiva il sistema di difesa Iron Dome e apre i rifugi anti-missile al Nord per timore di attacchi iraniani, le carte dei giudici finiscono in secondo piano.
Anche il quotidiano israeliano della sinistra, «Haaretz», parla di «un momento determinante» per la carriera di Netanyahu, leader della destra. È da 25 anni, da quando era ancora un deputato in ascesa, che Bibi insiste sulla questione nucleare iraniana come «minaccia maggiore» per Israele rispetto a quella posta dai Paesi arabi formalmente nemici. Fino al 2012, un possibile attacco israeliano alle installazioni nucleari in Iran è stato a lungo temuto dalle cancellerie internazionali. Per anni, i suoi detrattori hanno definito quella del premier «un'ossessione», che avrebbe poi prodotto l'esplicito scontro con l'ex presidente americano Barack Obama, promotore nel 2015 dell'intesa con Teheran.
Eppure, la situazione regionale e gli ultimi sviluppi della guerra in Siria hanno portato gran parte del pubblico e della politica israeliani a non ritenere quella di Netanyahu per l'Iran atomico soltanto «un'ossessione». Le milizie iraniane, alleate del regime di Bashar elAssad, si muovono liberamente su parte del territorio siriano, e l'establishment militare israeliano teme da mesi che la Siria possa diventare una postazione per attaccare il vicino Nord di Israele. Da qui, i presunti raid israeliani a postazioni iraniane oltre il confine, come accaduto poche ore fa vicino a Damasco, la settimana scorsa nei pressi di Hama, e un mese fa a Homs. Il premier Netanyahu, ieri in visita a Mosca, ha parlato con il presidente Vladimir Putin proprio di «coordinamento militare» sulla Siria.
La questione iraniana è ormai al centro dell'agenda politica di maggioranza e opposizione in Israele da anni: è difficile trovare un leader politico nel Paese che non abbia utilizzato la retorica del premier. Il rivale laburista Avi Gabbay ha detto pochi giorni fa che Israele non permetterà mai a Teheran di dotarsi dell'arma atomica. E il suo predecessore Isaac Herzog ha attaccato già nel 2015 l'accordo con l'Iran, dicendo che avrebbe portato soltanto caos in Medio Oriente.
Eppure, se politici e soldati concordano sulla minaccia rappresentata da un Iran sempre più in espansione, soprattutto dopo la vittoria elettorale dell'alleato Hezbollah in Libano, tra i vertici militari esistono divergenze sui destini dell'accordo. Non tutti i generali sostengono il premier: c'è chi avrebbe mantenuto, in assenza di alternative, l'intesa intatta, come provano le recenti parole del capo di Stato maggiore, Gadi Eisenkot, secondo il quale «con tutti i suoi difetti» il deal nucleare «funziona e sta posticipando la realizzazione della visione nucleare iraniana di 10-15 anni».
(La Stampa, 10 maggio 2018)
Netanyahu vola alla parata di Putin. Gerusalemme vuole isolare Teheran
Il piano di Bibi per dare il colpo di grazia al nemico
di Mirko Molteni
Netanyahu partecipa alla parata militare sulla Piazza Rossa di Mosca
L'invitato d'eccezione alla parata militare tenutasi ieri sulla Piazza Rossa di Mosca per celebrare la vittoria sul nazismo era il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accolto dal presidente russo Vladimir Putin poche ore dopo che gli Usa si erano ritirati dal trattato antinucleare con l'Iran e che gli stessi israeliani avevano colpito con missili i militari di Teheran distanza in Siria. Russia e Israele non hanno problemi diretti fra loro e le relazioni sono buone da anni, complice il fatto che nello Stato ebraico è aumentata la proporzione, e l'influenza, di cittadini ebrei di origine russa. Netanyahu si portava dietro come assistente il ministro dell'Ambiente Zeev Elkin, russofono e uomo di fiducia nei contatti col Cremlino. Divide i due paesi l'appoggio russo a Iran e Siria, anche in termini di armi, tantopiù che gli israeliani temono i missili antiaerei dati ad Assad. Stringendo la mano a «Bibi», Putin ha ammesso che «la situazione è complessa, guardiamo a soluzioni per normalizzare il conflitto». E Netanyahu, come un vecchio amico gli ha detto: «Apprezzo molto l'opportunità di discutere con te e ragionare insieme». Il presidente ebraico ha fatto il parallelo fra il nazismo e l'Iran che «vuole distruggere lo Stato d'Israele», ringraziando i russi per il sanguinoso contributo alla sconfitta di Hitler, ma mettendoli in guardia.
Per ora il risultato più importante è stato discutere un coordinamento fra militari israeliani e russi nella regione siriana, per evitare incidenti. Finora, nei raid israeliani sulla Siria, sono state colpite basi iraniane ed evitate le guarnigioni russe. Israele da giorni ripete che il problema maggiore è «se Assad permetta ai militari iraniani di attaccarci dal suo territorio». Segnale a Damasco, e a Mosca, che magari si potrebbe anche lasciare Assad in sella, a patto che dia il benservito ai pasdaran. Il citato ministro Elkin ha confermato che «abbiamo trasmesso ai russi tutto il nostro dossier sul nucleare iraniano», quello che il premier ha rivelato fin dal 1o maggio attribuendo a Teheran un piano per 5 bombe atomiche. I sorrisi fra Putin e Netanyahu fanno temere all'Iran l'isolamento. È eccessivo pensare che i russi denuncino il patto, avendo essi stessi contribuito a terminare la centrale atomica iraniana di Busher, nonché avendo venduto al regime degli ayatollah i missili antiaerei con cui difendersi da aerei israeliani in raid sui centri nucleari. Ciò non toglie che Netanyahu confidi in Putin come mediatore, per abbinare alla minaccia militare una pressione diplomatica a cui gli iraniani potrebbero dar peso. Alla Russia preme non aver problemi sul suo versante meridionale, né con Israele, né con un Iran nucleare, che, per quanto amico, potrebbe rivelarsi, in futuro, imprevedibile. E né con l'Arabia Saudita, anti-iraniana, ma anche prezioso partner di Mosca nel consultarsi e definire di anno in anno le politiche produttive del petrolio.
(Libero, 10 maggio 2018)
Killing Bashar El Assad
Per la prima volta in Israele si parla di dare la caccia al dittatore siriano come se fosse il leader di un gruppo terrorista (filoiraniano). Sta alla Russia salvare il rais.
"Se Assad permetterà all'Iran di usare la Siria come una base operativa per operazioni contro Israele sarà la sua fine".
Israele ha tracciato una linea rossa: chi è interessato alla sopravvivenza del rais siriano elimini la minaccia iraniana ravvicinata.
I giornali israeliani parlano di rappresaglie iraniane, del richiamo di riservisti, del rinnovo delle scorte di sangue, dell'apertura dei rifugi.
Assad vive da anni nel terrore di finire nella lista dei possibili bersagli delle operazioni israeliane. Il ricordo della spia amica di suo padre.
di Daniele Raineri
Lunedì in un'intervista al giornale Yedioth Ahronoth il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, ha detto che "se il presidente siriano Bashar el Assad permetterà all'Iran di usare la Siria come una base operativa avanzata per operazioni contro Israele allora sarà la sua fine. Rovesceremo il suo regime". Alla domanda specifica se Israele avesse l'intenzione specifica di uccidere Assad, Steinitz ha risposto con un versetto biblico che dice "il suo sangue ricadrà sul suo capo", che si usa per indicare chi è causa della propria rovina. "Assad non può starsene tranquillamente seduto nel suo palazzo intento a riabilitare il suo regime e lasciare che la Siria sia trasformata in una base per attacchi contro Israele. E' semplice". Tuttavia ha anche aggiunto che questa è una sua dichiarazione personale e non è la linea politica del governo. Il problema per Assad è che Israele non confermerà mai se le parole del suo ministro sono una linea politica che potrebbe entrare in vigore oppure no. Ha cominciato a colpire la Siria nel gennaio 2013 con raid aerei mai dichiarati per contrastare il gruppo libanese Hezbollah e i suoi sponsor iraniani e ancora oggi non commenta questo tipo di operazioni nel paese confinante, quindi è difficile credere che dichiarerebbe in anticipo la designazione di Assad come possibile bersaglio di un'operazione. Quello che è certo è che stiamo assistendo a una progressiva libanizzazione della Siria in questo senso: la dottrina militare israeliana dice che in caso di futura guerra contro Hezbollah non sarà più fatta distinzione tra il gruppo armato e l'esercito libanese come nel 2006, questa volta sarebbero entrambi considerati possibili bersagli. Lo stesso vale per la Siria, che come il Libano ospita grandi contingenti ostili a Israele. Se il governo di Damasco accetta forze iraniane sul suo territorio, deve aspettarsi una ritorsione militare e questo vale anche per i vertici politico-militari, si suppone. Da anni il capo del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, vive in stato di clandestinità nel timore di operazioni israeliane per eliminarlo. Se Steinitz, che è stato ministro dell'intelligence in un precedente governo, dice che Assad si sta attirando su di sé la designazione di bersaglio allora vuol dire che è un'opzione che è stata considerata. Non sfugge che Steinitz menzioni esplicitamente Assad "seduto tranquillamente nel suo palazzo" sul monte Qassioun che affaccia sulla capitale Damasco. Specificare la posizione del presidente siriano aggiunge un sapore più intimidatorio alle parole. Del resto, se Israele minaccia apertamente di porre fine alla tenuta dell'establishment assadista a Damasco quale modo più spiccio e punitivo che mirare direttamente al capo? La minaccia contro un capo di stato è inaudita, ma non sono più tempi normali come prima del 2011, quando Israele e Siria negoziavano la pace tramite i buoni uffici della Turchia e del presidente Erdogan, che ascoltava in diretta entrambe le parti al telefono e riferiva le risposte. Oggi Erdogan, Assad e il governo di Israele sono al centro di uno schema distruttivo in cui qualcuno dovrà giocoforza pagare per la vittoria degli altri.
Per ora tutto questo è soltanto teoria, ma c'è da considerare che Assad vive da anni nel terrore di finire nella lista dei possibili bersagli delle operazioni israeliane. L'esperto israeliano Ronen Bergman racconta come reagì Assad quando i servizi segreti israeliani assassinarono il capo militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, nel parcheggio di un edificio dell'intelligence siriana a Damasco. Gli agenti israeliani erano riusciti a sostituire la ruota di scorta attaccata dietro al fuoristrada Pajero di Mughniyeh con una copia identica costruita da loro che conteneva telecamere e una carica esplosiva. Quando videro che Mughniyeh si avvicinava alla macchina da solo, fecero esplodere la finta ruota di scorta. Assad tentò in tutti i modi di evitare che la notizia che il capo militare di Hezbollah era stato ucciso a Damasco trapelasse, per non dover ammettere pubblicamente la sua complicità. Quindi chiese al Partito di Dio di dire che l'uccisione era avvenuta a Beirut, in Libano, e anche di trasportare la carcassa del veicolo laggiù. Voleva mettere la massima distanza possibile tra sé e i bersagli dell'intelligence israeliana.
Assad è cresciuto ascoltando la storia di Eli Cohen, la spia israeliana che parlava un arabo perfetto e fece carriera nei ranghi del regime del padre Hafez al Assad fino a diventare consigliere del ministro della Difesa - prima di essere scoperto durante una comunicazione radio e impiccato nel 1965. Circola anche una foto, la cui accuratezza non è confermata, di Cohen sulle alture del Golan in compagnia di Hafez. L'agente riuscì a scoprire che la Siria aveva preparato non una bensì tre linee di difesa sulle alture del Golan e con la scusa che i soldati siriani dovevano trovare in qualche modo riparo dal sole chiese e ottenne che fossero piantati alberi vicino ogni posizione, e in questo modo le rese identificabili dai ricognitori aerei. Fu grazie alle sue informazioni molto dettagliate e agli schemi che aveva disegnato che, quando arrivò il momento della guerra, gli israeliani conquistarono il Golan. In questo contesto il figlio Bashar è convinto oggi che gli israeliani ascoltino qualsiasi conversazione tra apparecchi elettronici in Siria-telefonate, messaggini, mail-e quindi ha creato un sistema militare clandestino che riceve ordini soltanto via corrieri in motocicletta. Si capisce l'effetto che fanno le parole pronunciate lunedì dal ministro Steinitz.
Da tempo Israele combatte una guerra d'intelligence in Siria. Ieri i due missili che hanno colpito a sud di Damasco vicino una base che ospita forze iraniane (Israele non ha commentato, come al solito) avrebbero distrutto - ma non c'è una conferma definitiva - due veicoli e questo vorrebbe dire che la qualità e la rapidità delle informazioni è alta. Lunedì il sito Damasco Adesso che simpatizza con il governo siriano aveva scritto che otto soldati sono stati uccisi dall'esplosione del loro veicolo mentre viaggiavano nel sud del paese. Sono tecnici e militari in servizio con la 150esima divisione, che si occupa di gestire il sistema di contraerea missilistica S- 200 - la stessa divisione a febbraio riuscì ad abbattere un aereo F-16 israeliano. Non c'è un'attribuzione chiara di responsabilità per queste morti, ma qui è il succo di queste operazioni. Meno si sa, più la paranoia cresce. C'è anche una serie mai chiarita di uccisioni ai danni di alti ufficiali iraniani - almeno otto - che erano stati schierati in diverse parti della Siria, a nord, al centro e a sud e che fu fatta passare per una semplice coincidenza sfortunata nel corso della guerra civile a dispetto del fatto che i conti non tornassero: nell'autunno 2015 morirono troppi ufficiali rispetto ai soldati semplici. E allora la questione non era ancora vissuta da Israele con la stessa urgenza di oggi. Adesso i quotidiani parlano di possibili rappresaglie iraniane contro Israele, del richiamo di una parte dei riservisti, del rinnovo delle scorte di sangue, dell'apertura dei rifugi per i civili in caso di attacco, il fatto che ieri le scuole vicino le alture del Golan non siano state chiuse è diventato una notizia.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha riassunto così la situazione: "Nei mesi scorsi le Guardie della Rivoluzione iraniane hanno trasferito armi avanzate in Siria per attaccarci sia sul campo di battaglia sia sul fronte domestico, inclusi droni armati, missili terra-terra e batterie antiaeree che minacciano i jet della nostra forza aerea".
In questo schema pericoloso - se Assad continua a lasciar fare agli iraniani tutto quello che vogliono sarà la sua fine - Steinitz lascia aperto un varco molto importante: la Russia se vuole può fermare tutto. "Che il primo ministro stia andando in Russia è una cosa eccellente (l'intervista è di lunedì, Netanyahu è stato a Mosca ieri ndr). Ha ingaggiato un dialogo senza precedenti con Putin. La Russia è una superpotenza importante con cui abbiamo molti interessi in comune. A volte ci sono anche conflitti di interessi - il riferimento è alla presenza dell'Iran in Siria - ma di solito gli interessi convergono. Tutti dovrebbero comprendere, tuttavia, che certe cose per noi sono una linea rossa da non attraversare. Se qualcuno è interessato alla sopravvivenza di Assad, dovrebbero dirgli di prevenire attacchi con missili e droni contro Israele". Ecco qui la condizione, più chiara di così non si poteva proporre ai russi: se qualcuno è interessato alla sopravvivenza di Assad, deve bloccare gli iraniani che vogliono usare la Siria come una postazione di lancio per le loro operazioni. La folla che un mese fa strepitava contro l'Amministrazione americana perché parlava di un raid punitivo ma non definitivo contro il presidente siriano dopo un massacro con armi chimiche questa volta non si dà nemmeno pena di ascoltare, non si accorge di quello che succede in chiaro. E' il destino della guerra civile in Siria, che produce fatti accertati e molto lineari che restano invisibili e produce anche complottismi senza senso che fanno subito il giro del mondo.
(Il Foglio, 10 maggio 2018)
Antisemitismo, fenomeno duro a morire
Lettera a La Gazzetta del Mezzogiorno
Antisemitismo, che brutta parola. Antisemitismo (niente a che fare con la critica alla politica dello stato di Israele, del quale si stanno per ricordare i 70 anni di vita) è quella ragazza che pensa che il 25 aprile si festeggi la Liberazione... dagli ebrei (bestemmia doppia contro i partigiani e contro le vittime della Shoah). Antisemitismo ma più che altro una colossale caduta di stile quella del presidente palestinese Abu Mazen che dava agli ebrei la «colpa» della Shoah. Qui è probabilmente il risultato di contrasti interni al fronte arabo. Antisemitismo è anche chi ti dice «Li avesse ammazzati tutti Hitler». Antisemitismo è... continui ciascuno dei lettori.
Gabriele Plrè Bari
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 10 maggio 2018)
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Mazal tov (Buona fortuna)
di Federico Lo Buono (18 anni)
ROMA - E' di alcune settimane fa la notizia di un' aggressione avvenuta a Berlino ai danni di due giovani ebrei , qualche tempo prima una anziana israeliana di 85 anni era stata prima pugnalata e poi data alle fiamme a Parigi , insomma l'antisemitismo ancora una volta torna ad alzare la testa, annusare l'aria e dare la caccia agli Ebrei. Molti giustificano questa recrudescenza mefitica con ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania, in sostanza costoro sostengono che Israele, portando avanti una politica di aggressione e segregazione nei confronti dei Palestinesi attraverso il suo esercito e la sua classe politica, non dovrebbe poi lamentarsi delle conseguenze. Tuttavia credo che sia quanto meno singolare collegare le due cose visto che la persecuzione Ebraica ha origini molto più antiche, mai sentito parlare degli Egiziani, di Mosè e della fuga del suo popolo attraverso il Mar Rosso, o di un certo tedesco con i baffetti ed idee orrende per la testa e tramandate con dovizia ai posteri, come per esempio che tutti gli Ebrei siano ricchi.
Ora in Israele vivono, sul filo del rasoio, otto milioni e mezzo di Ebrei e non penso proprio che siano tutti abbienti, ci saranno panettieri, ci saranno elettricisti, sono addirittura convinto che ci siano dei disoccupati e dei poveri, o vogliamo pensare che siano tutti dei tycoon della finanza? I pregiudizi sono duri a morire e certamente vedere da un lato chi lancia pietre e dall'atro i carri armati non aiuta la causa di Israele, ma anche essere circondati da un miliardo e mezzo di persone che a cui non sei simpatico, per usare un eufemismo, o che addirittura non riconoscono la tua stessa esistenza come l'Iran, la Siria, il Libano, l'Arabia Saudita ed altri ancora non è una passeggiata. Probabilmente a qualcuno di questi Paesi la "causa Palestinese" è più utile nella sua massima tragicità che nella sua pacifica soluzione e di conseguenza pur se la pace e i due Stati sarebbero la soluzione migliore risulta evidente, che a qualcuno la cosa non va e in questo caso, purtroppo, la guerra diventa necessaria specialmente se in gioco c'è la tua stessa sopravvivenza.
Ci vuole poco a dispensare saggezza quando non è il tuo destino in gioco e spesso capita che qualche governo Europeo faccia mancare il suo sostegno all'unica democrazia medio orientale, in genere sono le stesse che in passato si sono distinte come campioni del colonialismo più feroce. Le atrocità e le ingiustizie in un conflitto esisteranno sempre perché la guerra è la peggiore delle sventure, ma, ci scommetto, non sarà Israele a deporre per prima le armi perché vorrebbe dire la sua fine, mi auguro con tutto il cuore che coloro che hanno in mano il destino dei Palestinesi approdino a più miti consigli e ad un più sano realismo, non fosse altro che per la straordinaria resistenza, forza e tenacia che il popolo ebraico ha dimostrato di avere da qualche migliaio di anni a questa parte.
(askanews, 10 maggio 2018)
1948-2018: la deterrenza rimane la prima arma di difesa
Non è cambiata la strategia dell'esercito israeliano: attaccare prima di essere attaccati. Quello che è cambiato è l'arsenale di Israele, altamente tecnologico.
di Mario Del Monte
Il mitico carro armato Merkava
La dottrina militare israeliana, la strategia di fondo a cui si conforma l'intero apparato bellico del paese, è basata interamente sulla mancanza di profondità geografica dello Stato Ebraico. Per compensare la scarsità di territorio a disposizione lo Stato Maggiore israeliano conta soprattutto sulla deterrenza, sulla guerra preventiva in caso di minaccia incombente e sull'alta qualità del proprio arsenale. Questa strategia era già stata immaginata nel 1948 dal primo Premier Ben Gurion ma ci sono voluti molti anni per affinarla e massimizzare l'efficienza. Fin dai primi anni di vita dello Stato d'Israele era chiaro che le armi tedesche, inglesi e cecoslovacche rimediate con fortuna durante la Guerra d'Indipendenza non avrebbero garantito la sopravvivenza della nazione di fronte agli eserciti nemici. La necessità di trovare un partner affidabile fu ovviata con una collaborazione con la Francia che terminò bruscamente a causa dell'embargo del 1967, in piena guerra dei Sei Giorni. Subentrarono gli Stati Uniti d'America, ancora oggi il più importante partner militare israeliano, con cui Gerusalemme si garantì una notevole superiorità tecnologica sugli Stati Arabi rivali che gli permise di vincere l'ennesima guerra da una condizione di svantaggio.
Il 1967 fu un anno determinante anche per la decisione di avviare una produzione militare locale: da questo progetto nasce infatti la punta di diamante dell'IDF, il carro armato Merkavà. Entrato in servizio nel 1978, con già quattro varianti presenti nell'arsenale israeliano il Merkavà è diventato famoso per la sua durabilità e per le performance su campi di battaglia completamente diversi. Dal primo impiego nella guerra del Libano del 1982 a oggi molti dei successi militari israeliani sono stati accompagnati dalle cannonate di questo tipo di carro armato.
L'affermazione del Merkavà ha portato i vertici dello Stato Ebraico a credere sempre di più nella produzione locale e a incrementare progressivamente il budget destinato alle spese militari. Da questo circolo virtuoso sono nate diverse industrie belliche come IAI, IMI, Rafael ed Elbit Systems da cui l'IDF acquista tecnologia prodotta in base alle necessità. Le stesse industrie ne beneficiano dato che una volta esibite in battaglia queste tecnologie vengono esportate in tutto il mondo. Oggi l'esercito israeliano si dota quasi completamente di armamenti prodotti da industrie nazionali: la pistola Jericho ed il fucile d'assalto Tavor hanno rimpiazzato le armi americane, gli UAV ed altri sofisticati sistemi di sorveglianza sono perlopiù prodotti dalla IAI, l'agenzia aerospaziale, mentre i sistemi missilistici sono quasi totalmente prodotti dalla Rafael, Iron Dome compreso.
L'aeronautica militare invece ha preso una direzione completamente opposta in termini di produzione. Nonostante sia considerato il settore più importante per la dottrina militare israeliana, l'aviazione dispone quasi esclusivamente di velivoli americani. A differenza degli altri paesi, Israele ha una relazione particolare con gli Stati Uniti per quanto riguarda le tecnologie belliche: la Israeli Air Force è l'unica forza militare a cui è permesso di modificare i velivoli a proprio piacimento senza il consenso di Washington, a patto che le modifiche vengano poi rivendute agli Stati Uniti. Questa speciale collaborazione nel campo della reverse engineering ha portato recentemente alla presentazione del nuovo jet Adir, un F-35 con sensori e contromisure elettroniche made in Israel.
Nel 2013 un ufficiale israeliano ha dichiarato che il prossimo passo tecnologico che Israele ha intenzione di compiere è quello di rimpiazzare i piloti della IAF con un esercito di droni in grado di portare a termine autonomamente qualsiasi missione. La stima è che questo obiettivo possa essere raggiunto entro i prossimi venti anni. Probabilmente riderà di gusto chi nel 1948 vide nascere "Israel1 ". il primo velivolo militare israeliano nato dall'assemblaggio del motore recuperato da un caccia egiziano abbattuto, pezzi di ricambio acquistati in Cecoslovacchia e frammenti presi da vecchi aerei inglesi abbandonati.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Perché Putin non reagisce agli attacchi di Israele contro l'Iran
Israele continua a colpire in Siria, Paese alleato della Russia e in cui Vladimir Putin ha investito soldi, uomini e buona parte della sua politica estera. L'ultimo attacco, quello di stanotte, ha visto bersagliata dai jet israeliani una base a sud di Damasco considerata un deposito di missili iraniani o di Hezbollah. Le notizie sono ancora poche e contraddittorie. Ma Israele non ha negato di aver realizzato il raid. E anche questa volta, ci sono stati dei morti.
Dopo questo radi, la domanda che tutti iniziano a porsi è perché Putin non reagisce. Israele, così come l'Occidente nell'ormai noto attacco alle basi siriane ritenute coinvolte nel presunto arsenale chimico di Bashar al Assad, colpisce ormai da mesi in territorio siriano. Prima con cautela. Adesso quasi a voler dimostrare di poter agire indisturbato. E ci si domanda perché Mosca, alleato fondamentale di Damasco, non attivi più i suoi sistemi di difesa aerea né tuoni, come faceva prima, contro i recenti raid di Tel Aviv.
La questione in realtà è molto più profonda di quanto possa sembrare. E la Russia, in particolare Putin, si trova a dover affrontare un momento estremamente delicato in cui si innescano strategie e rapporti internazionali potenzialmente conflittuali. È un tempo di scelte che la guerra al terrorismo aveva rimandato, ma che adesso, con la fine dello Stato islamico, stanno lentamente tornando a galla. E Mosca deve decidere, controvoglia, da che parte stare.
I raid israeliani hanno uno scopo preciso nei confronti della strategia russa. Come scrivemmo su questa testata, l'obiettivo è costringere il Cremlino a prendere posizione. E questa posizione, evidentemente, è o con Israele o con l'Iran. Tertium non datur, specialmente se a essere colpita è la Siria, Paese alleato e perno della strategia mediorientale di Mosca.
Una scelta difficile
Dal punto di vista russo, è chiaro che scegliere è quanto di più difficile e indesiderato. Israele è un partner storico e un Paese con cui non vuole avere conflitti. Moltissimi cittadini israeliani sono di origine russa. I rapporti economici fra i due Stati sono ottimi. E in Medio Oriente, avere un amico a Tel Aviv fa sempre molto comodo. E la Russia non vuole diventare l'automatico alleato dei nemici di Israele, anche per una questione di immagine.
Dall'altro lato, l'Iran è stato e rimane un partner imprescindibile nella guerra al fianco della Siria. Le forze iraniane e quelle legate all'Iran, cioè tutta la galassia di milizie sciite presenti in Siria, costituisce l'architrave per la vittoria definitiva di Assad sui ribelli. Senza Teheran non ci sarebbe stata alcuna vittoria. E il blocco di Astana, con il coinvolgimento della Turchia, è un simbolo di quest'asse fra Iran e Russia in cui si intrecciano anche importanti e fruttuosi rapporti economici. Specialmente in chiave anti americana e con uno sguardo all'espansione cinese.
L'obiettivo di Benjamin Netanyahu è chiarissimo: spaccare l'asse fra Putin e Hassan Rohani. Un asse che, va ricordato, non è necessariamente un'alleanza a tutto tondo. Sbaglia chi crede che Iran e Siria abbiano interessi del tutto sovrapponibili. Per l'Iran, la Siria è una pedina fondamentale nell'espansione della sua politica verso il Mediterraneo. Per la Russia, la Siria è un avamposto nel Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale.
Ma a Mosca, l'idea che la Siria sia sottoposta al controllo iraniano, non è un qualcosa che attragga particolarmente. Soprattutto perché questo significa, a medio e lungo termine, avere continuamente il rischio di una guerra regionale con Israele e l'Arabia Saudita. Guerra che metterebbe in pericolo il governo di Damasco e, di conseguenza, un alleato russo.
L'incontro e la possibile soluzione
Oggi, l'incontro fra Putin e Netanyahu a Mosca, in occasione della giornata della Vittoria, potrebbe essere molto utile per capire come si evolverà la capacità di risposta della Russia. Il premier israeliano ha ribadito, poco prima di partire per la capitale russa, l'importanza di un "coordinamento continuo" tra l'esercito israeliano e quello russo sullo sfondo degli eventi in Siria. Ed ha anche ringraziato Putin per "la possibilità di discutere i modi per rimuovere le minacce regionali".
Il presidente russo tergiversa. Sa che qualsiasi reazione può comportare conseguenze molto gravi sulla sua strategia siriana. Se decidesse di imporre un ombrello totale sulla Siria, scatenerebbe l'ira di Israele. Ma è anche possibile che, lasciando che gli aerei israeliani colpiscano le basi iraniane in Siria, peggiori i rapporti con Teheran.
L'unica soluzione, almeno per il momento, sembra essere quella che il Cremlino si impegni a fare in modo che gli iraniani, le milizie di Hezbollah e le altre forze sciite, si allontanino dal confine israeliano. Ma può imporre questa decisione all'Iran dopo l'annuncio di Donald Trump sul nucleare e l'ennesimo raid di Israele? Intanto, Putin incassa. Ma il timore è che appaia come un pugile formidabile nell'incassare ma mai deciso a dare il colpo del k.o.
(Gli occhi della guerra, 10 maggio 2018)
Attacco missilistico israeliano vicino a Damasco
Uccisi almeno nove miliziani sciiti
ROMA - Israele ha nuovamente colpito questa notte con un attacco missilistico un'area vicino a Damasco, in Siria, uccidendo almeno nove miliziani sciiti, probabilmente iraniani. "Nove combattenti appartenenti alle Guardie rivoluzionarie iraniane o milizie sciite filo-iraniane sono stati uccisi" nel settore Kiswa, ha detto il direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Rami Abdel Rahman. I missili hanno preso di mira un "deposito di armi appartenente alle guardie rivoluzionarie iraniane", che combattono a fianco delle forze del presidente Bashar al Assad.
L'agenzia siriana Sana ha scritto che l'esercito siriano ha intercettato nella notte due missili israeliani diretti in un'area vicina alla capitale Damasco. "La difesa antiaerea ha intercettato due missili israeliani lanciati contro l'area di Kiswe e li ha distrutti". L'agenzia ha riferito di "esplosioni" in questo settore, mentre la televisione siriana ha diffuso immagini di incendi. Non è la prima volta che questo settore a sud-ovest di Damasco viene preso di mira da Israele, che in passato aveva già bombardato posizioni militari, incluso un deposito di armi a dicembre.
(askanews, 9 maggio 2018)
Israele, venti di guerra. Rifugi antiaerei riaperti
Il governo: bunker sulle alture del Golan
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Più diretto e duro di così non avrebbe potuto essere, senza giri di parole ha cancellato l'accordo con l'Iran, con il ritorno totale delle sanzioni, la definizione di quel Paese come di un centro di terrore imperialista, in cui persiste il disegno atomico, la forza distruttiva in Medio Oriente e nel mondo. Netanyahu ha invitato l'Iran a restare tranquillo, dato che seguitano a arrivare notizie di un'intensa preparazione di missili al Nord in Siria nelle basi iraniane. Ieri sera ha fatto aprire tutti i rifugi antimissile sul Golan. Vista da Israele, la decisione di Trump è la conclusione di una battaglia infinita che Netanyahu si è sobbarcato, in cui è stato vituperato e trattato da guerrafondaio.
Vista dal Medioriente intero è una rivoluzione, una svolta che induce tutti a prepararsi alla difesa o all'attacco o al ripensamento. È un gesto di rottura che ristabilisce una leadership americana e affossa una vacca sacra del liberalismo obamiano. Anche l'Europa ne uscirà trasformata, costretta a risparmiare qualche sorriso coi dittatori.
Gli Stati Uniti l'hanno sancito dando ragione a Netanyahu: l'Iran è un Paese pericoloso. E anche Trump è stato coerente con la sua definizione del «peggiore accordo mai concluso». Germania, Inghilterra, Francia, coi dovuti distinguo, erano arrivati alla conclusione che «si deve essere più duri con l'Iran»: non è poco, gli sviluppi non potranno non tenere conto del giudizio Usa.
L'annuncio di Trump ha molte letture: l'Iran è in stato di choc, si sente in pericolo e quindi mostra i denti. Non si aspettava che l'accordo, che era stato una panacea, potesse venire travolto. I vantaggi erano stati moltissimi: intanto con la fine delle sanzioni l'acquisto del petrolio aveva riportato le compagnie globali a rimpinguare la banca centrale: adesso si prospetta un durissimo colpo all'economia. Poi i 5+1 avevano restaurato una sorta di fiducia internazionale in un regime feroce e autoritario, adesso le donne, i dissidenti, i disoccupati potranno invadere le piazze con una maggiore speranza di ottenere un cambio di regime.
Trump ha dichiarato loro il proprio sostegno, e questo è un fatto rivoluzionario. L'accordo aveva anche lasciato aperta la porta all'arricchimento nucleare fra sette anni, alla fine del trattato: una prospettiva testimoniata concretamente dalle carte archiviate mostrate dal governo israeliano. Dall'accordo in avanti l'Iran ha potuto migliorare la sua produzione balistica; spingersi come indispensabile alleato della Siria sostenuto dall'alto dai russi e dal basso dagli Hezbollah, così da costruirsi un confine per minacciare dal Nord Israele. Trump gli ha rovinato l'ascesa militare in Siria, Libano, Irak, Yemen e soprattutto la prospettiva di distruggere Israele. Ha distrutto la scalata del mondo sciita e la minaccia del mondo sunnita.
Questa parte del Medioriente vedrà nella messa all'angolo del suo nemico una prospettiva di maggiore equilibrio, e forse anche di un ripensamento russo del ruolo del suo alleato. Putin sa che la contestazione dell'Iran non implica necessariamente la perdita della presa sulla Siria. Oggi il suo incontro con Netanyahu a Mosca avrà molti argomenti. E il 14 il passaggio dell'ambasciata Usa a Gerusalemme. Il mondo sta cambiando.
(il Giornale, 9 maggio 2018)
Aspettative bruciate
L'euforia del 2015 è lontana. Svanisce il mondo immaginato da Obama, Iran e Unione europea. Delle grandi attese sul deal nucleare non resta nulla.
di Daniele Raineri
ROMA - Quando nel luglio 2015 l'Iran e sei potenze mondiali firmarono l'accordo sul nucleare per una durata teorica di quindici anni c'erano aspettative enormi. Il primo ministro iraniano, Hassan Rohani, disse che il paese aveva voltato una pagina della sua storia, la gente scese nelle piazze a festeggiare e ci furono caroselli di macchine nella capitale Teheran. Due anni prima Rohani era stato "eletto" proprio con il mandato popolare di limitare il potere dei falchi che non volevano compromessi con la comunità internazionale - "eletto", s'intende, in un sistema bloccato in cui la politica è fatalmente sottomessa al potere della classe religiosa - e di arrivare a un accordo con l'America, e come prima cosa aveva detto che per il paese era cominciata "una nuova èra". L'idea portante dell'accordo firmato due anni più tardi era questa: finalmente si presentava la grande occasione di normalizzazione per l'Iran, che grazie al congelamento della ricerca sul nucleare non sarebbe più stato trattato come uno stato paria dalla comunità internazionale, si sarebbe integrato nell'economia mondiale con tutte le sue enormi risorse energetiche, si sarebbe aperto al mondo e forse avrebbe dimenticato-o perlomeno allentato-la cupa militarizzazione della società. Tutte queste cose non erano ben viste dall'ala più falca della politica iraniana, legata ai Guardiani della Rivoluzione, ma c'era stata una campagna di persuasione da parte della fazione meno dura per dire che i vantaggi avrebbero fatto dimenticare tutto il resto almeno fino al 2030. Si dice che Rohani per convincere la Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, della bontà del deal atomico abbia organizzato una presentazione privata di tre ore a base di Power Point. Le slide disegnavano un futuro nero da evitare a tutti i costi: "In dieci anni se le sanzioni continueranno l'Iran diventerà come il Bangladesh".
E infatti Khamenei dopo l'accordo aveva lodato pubblicamente "la nostra squadra di negoziatori". Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che in quei giorni era asceso allo status di rockstar della diplomazia internazionale, si fece un selfie trionfale assieme ai giornalisti iraniani sull'aereo che lo riportava a casa da Vienna. Il suo omologo americano, John Kerry, si presentò ai giornalisti sul suo aereo imbracciando una delle stampelle come fosse un mitra, era caduto qualche giorno prima mentre si allenava in bicicletta e c'era chi aveva temuto che tutto sarebbe saltato a causa di quella caduta.
Anche dall'altro lato si festeggiava. L'accordo con l'Iran era il traguardo storico che l'Amministrazione Obama aveva puntato fin dall'inizio dei due mandati e a cui aveva lavorato a lungo. Tutti gli altri dossier internazionali erano stati trascurati, incluso quello siriano. Molti commentatori si erano accorti che Washington era riluttante a prendere decisioni che riguardavano la Siria proprio per non interferire con i negoziati - che per molto tempo erano stati segreti - con l'Iran, che è un alleato strategico del presidente siriano Bashar el Assad. La lunga neutralità rispetto alla catastrofe in Siria potrebbe essere stata una scelta spiegata dalla volontà di raggiungere a tutti i costi un deal atomico con Teheran. E per quanto riguarda l'Unione europea, la voglia di arrivare a un accordo era ancora più alta anche per motivi economici. Un anno dopo la fine delle sanzioni gli scambi commerciali tra Europa e Iran erano già cresciuti dell'ottanta per cento.
Com'è finita l'abbiamo visto ieri. Gli iraniani sono molto scontenti perché i soldi non sono stati investiti abbastanza nell'economia del paese e la povertà è peggiore rispetto a tre anni fa. La Siria, trascurata a favore del deal, è diventata la questione che definirà il primo quarto di questo secolo ed è diventata il campo di una battaglia per ora poco visibile tra Iran e Israele. Gli europei che speravano di fare affari in Iran ora dovranno fare i conti con le sanzioni americane che tornano, come ha detto il presidente americano Trump, "in full effect". La comunità internazionale deve fare i conti con una situazione tutt'altro che risolta o più pacifica. La resa dei conti contro i sostenitori del deal sarà cruenta. L'Amministrazione Obama è stata rimpiazzata e quindi sarà una faccenda relativamente indolore, ma Rohani è stato rieletto nel 2017 e in pratica è all'inizio del suo secondo mandato. Le sue aspirazioni a diventare Guida suprema sono distrutte e la fazione dei duri si prepara a prendere ancora di più il controllo della linea politica del paese.
(Il Foglio, 9 maggio 2018)
Israele si prepara al confronto diretto
Gli scenari possibili
di Roberto Bongiorni
Israele la sua linea rossa, anzi le sue linee rosse, le ha tracciate da tempo: nessun trasferimento di armi sofisticate agli Hezbollah libanesi, nessuna base iraniana in Siria capace di minacciare la sua sicurezza nazionale, e nessuna presenza di milizie filo-iraniane vicino al confine tra Siria e Israele.
Ogni volta che ha ritenuto fossero state superate, ha reagito con raid aerei in Siria. Dal 2013 ve ne sarebbero stati almeno 100. I risultati, tuttavia, non sembrano esser stati entusiasmanti finora, anche se negli ultimi mesi i raid sono stati diretti proprio contro basi aeree siriane utilizzate dai militari iraniani.
L'uscita degli Stati Uniti dall'intesa sul nucleare iraniano, che Israele tante volte ha sollecitato a meno che non venisse radicalmente cambiata, rischia ora di provocare un'escalation militare tra Teheran e Gerusalemme sul territorio siriano. Israele ha sempre minacciato di aprire un confronto militare con l'Iran se dovesse proseguire le attività nucleari, a sua detta «pericolose e clandestine». Meglio una guerra ora che dopo, sembra essere la linea che prevale nella bellicosa retorica di Gerusalemme. Eppure è difficile che Israele decida subito di colpire con i suoi caccia gli impianti iraniani. Per eliminare la minaccia nucleare sarebbe necessaria una campagna militare di vaste proporzioni, capace di provocare un conflitto regionale in cui gli Hezbollah libanesi verrebbero probabilmente risucchiati. Gerusalemme ha ribadito che una nuova guerra con il Partito di Dio non è più una questione di se, ma di quando. Eppure sembra che tutte le parti coinvolte vogliano posticipare il più possibile il quando.
(Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2018)
Nella testa di Bibi
''L'idea di Netanyahu come custode dello stato ebraico risuona in molti israeliani". Due libri fanno luce su Netanyahu
di Giulio Meotti
ROMA - Quando alcuni giorni fa il leader palestinese Abu Mazen ha tenuto un discorso a Ramallah in cui spiegava che l'Olocausto non era stato causato dall'antisemitismo ma dal "comportamento sociale degli ebrei", attirandosi le condanne della comunità internazionale e persino del New York Times, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha pensato: "Ve lo avevo detto che non avevamo un partner con cui fare la pace". Poche ore prima, in una spettacolare diretta televisiva, Netanyahu aveva mostrato al mondo il risultato di una operazione clandestina del Mossad, il servizio segreto israeliano. Un archivio immenso di file e dati rubati dal programma atomico dei mullah. Netanyahu anche allora aveva pensato: "Ve lo avevo detto che gli iraniani mentivano al mondo mentre firmavano l'accordo nucleare". E ora che quell'accordo è messo in discussione a Washington, gli occhi sono puntati su di lui, Benjamin Netanyahu, che il deal aveva sempre osteggiato.
Un giornalista israeliano, Anshel Pfeffer, è "entrato" dentro la testa di Bibi firmandone una biografia, "Bibi. The turbulent life and times of Benjamin Netanyahu". L'autore non nasconde la sua antipatia per il premier israeliano. Pfeffer scrive per Haaretz, il giornale della sinistra israeliana. Ma il libro è un documento prezioso per decifrare uno dei politici che hanno fatto la recente storia e, certamente, quella di Israele.
Ancora un anno al potere, infatti, e Netanyahu, sempre se sopravviverà agli scandali che lo inseguono da due anni, supererà David Ben Gurion, il patriarca e fondatore dello stato, come primo ministro più longevo nella storia israeliana. Il segreto del successo di Netanyahu? Lo ha spiegato Tom Segev, un altro editorialista di Haaretz: "Gli israeliani vogliono sapere quanto vale lo shekel (la moneta israeliana, ndr) e che non ci siano bombe sotto la loro auto". Netanyahu è stato un maestro nel dare loro entrambe le cose.
In economia, Benjamin Netanyahu ha inanellato un successo dietro l'altro, privatizzando una economia corporativa, arricchendo gli israeliani (quando Netanyahu ha sostituito Ehud Olmert il reddito pro capite era di 27 mila dollari, oggi è 37 mila), allacciando rapporti con i giganti asiatici (l'India da ultima) e l'Africa, scansando la crisi economica che ha colpito gli altri paesi occidentali. In sicurezza, mai un azzardo. Per "Bibi", il costo di un eventuale errore per Israele è sempre superiore agli eventuali benefici. Secondo uno studio citato nel libro di Pfeffer e realizzato da Nehemia Gershuni-Aylho, Netanyahu ha avuto come premier il minor numero di vittime di guerra e di attacchi terroristici.
"Netanyahu non è un guerrafondaio" scrive Pfeffer. "E' avverso al rischio di lanciare guerre". La pace con i palestinesi? Auspicabile ma non necessaria per la sopravvivenza di Israele. Anzi, nel caso di land for peace la metterebbe persino in discussione, la sua esistenza. Bibi, scrive Pfeffer, ha in mente per Israele "una società ibrida di paure antiche e speranze high-tech, una combinazione di tribalismo e globalismo, proprio come lo stesso Netanyahu''. Il premier vede "Israele dietro alte mura e che comunica con la sua anima gemella a seimila miglia di distanza", ovvero gli Stati Uniti.
Dello stesso avviso un'altra biografia appena uscita, "The resistible rise of Benjamin Netanyahu'' dello storico Neill Lochery, docente allo University College di Londra, in cui spiega che "per Netanyahu è tutta questione di sopravvivenza". Quella di Israele e della propria politica. "L'idea di Netanyahu come custode di Israele, che protegge il paese dagli attacchi fisici e politici, risuona in molti israeliani profondamente sospettosi nei confronti dei palestinesi, degli arabi e del resto del mondo".
Per essere il primo ministro di Israele, pensa Bibi e scrive Pfeffer, "bisogna avere una conoscenza della storia, una visione per il futuro e la forza d'animo di resistere a pressioni insopportabili. Lo stato ebraico esiste da settant'anni, ma per Netanyahu la sua esistenza rimane precaria come la dinastia degli Asmonei, costantemente minacciati dall'Impero romano. Una mossa sbagliata e gli israeliani nel XXI secolo potrebbero affrontare un destino simile agli ebrei d'Europa nell'Olocausto".
E' il grande lascito dell'immobilismo di Netanyahu: essere riuscito a impiantare nella testa degli israeliani l'idea che il conflitto non se ne andrà mai via, che devono imparare a gestirlo e mai a risolverlo con formule illusorie, che devono essere forti e che alla fine prevarranno con il "muro di ferro". Nel suo discorso di accettazione del Premio Israele a fine aprile, lo scrittore David Grossman si è lamentato che il suo paese è una fortezza, ma non ancora una casa. Per Netanyahu è meglio una fortezza sicura di una casa che brucia.
(Il Foglio, 9 maggio 2018)
La cultura ebraica premia Magris «uomo dell'anno»
di Severino Colombo
Claudio Magris
Per l'impegno e la carriera nel mondo della cultura. Nasce su queste solide basi il riconoscimento di «Uomo dell'anno 2018» allo scrittore e germanista Claudio Magris, tra i più importanti intellettuali italiani del Novecento, da 50 anni firma del «Corriere». L'onorificenza è stata conferita a Magris (Trieste, 1939) dall'Associazione Amici del Museo d'arte di Tel Aviv (Amata onlus). L'evento si è svolto ieri sera a Palazzo Parigi a Milano dopo una breve lectio magistralis tenuta dallo stesso Magris che, come ricorda Marina Gersony sul sito ufficiale della comunità ebraica di Milano (mosaico-cem.it), è stato «tra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all'interno della letteratura mitteleuropea». Alla serata, in occasione del 70o anniversario della fondazione dello Stato di Israele, hanno preso parte rappresentanti delle istituzioni e esponenti della cultura; assente il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, che ha inviato un videomessaggio. L'associazione Amata onlus, presieduta da Anna Sikos, sceglie ogni anno una personalità che si sia distinta nei campi della conoscenza e della cultura; in precedenza erano stati premiati, tra gli altri, Maurizio Cattelan, Umberto Eco, Daniel Lìbeskìnd, Zubin Mehta, Amos Oz ed Elie Wiesel. In collaborazione con il Museo d'arte di Tel Aviv (fondato dal primo sindaco della città, Meir Dizengoff), Amata onlus promuove attività per il dialogo e la comprensione tra i popoli attraverso le arti. La serata ha rinnovato il legame tra le città gemellate di Milano e Tel Aviv.
(Corriere della Sera, 9 maggio 2018)
Giro d'Italia, la protesta contro il via da Israele
CATANIA - Quasi non li vedi, perché sopraffatti dalle decine di migliaia di tifosi che accompagnano festosi il gruppo alla partenza da Catania, dal Duomo alla via Etnea. Sono una trentina di manifestanti, con bandiere e striscioni pro-Palestina e contro Israele. Al loro fianco ci sono due mezzi pesanti della Polizia che li sorvegliano per impedire qualsiasi tipo di ostruzione al regolare svolgimento della quarta tappa del Giro d'Italia: i manifestanti avrebbero voluto occupare la sede stradale.
Striscioni
Dopo la Grande Partenza della corsa da Gerusalemme e le successive tappe a Tel Aviv e Eilat, nella prima giornata italiana in terra siciliana c'è stata la protesta di un gruppo di sostenitori dei palestinesi. Slogan contro Israele e centinaia di volantini lanciati al passaggio dei corridori della Israel Academy. Uno di loro, Guy Niv, ha poi dichiarato: «Le proteste ci motivano di più». Esposti striscioni contro Israele e l'Italia. Bandiere palestinesi sono state sventolate anche nella zona del traguardo di Caltagirone.
(La Gazzetta dello Sport, 9 maggio 2018)
Israele annuncia il trasferimento dell'ambasciata del Paraguay a Gerusalemme
ASUNCION - Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshonm, ha annunciato oggi che anche il Paraguay, in linea con quanto annunciato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump lo scorso dicembre, trasferirà la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo ha fatto attraverso un messaggio rilasciato via Twitter nel quale oltre a rivelare la decisione del governo di Assunzione, anticipa che il presidente Horacio Cartes viaggerà in Israele prima della fine di maggio proprio con il proposito di inaugurare l'ambasciata. "Ultime notizie! Il Paraguay aprirà la sua ambasciata a Gerusalemme prima della fine di maggio". Inizia così il tweet di Nahshonm. Il portavoce israeliano ha quindi ringraziato il governo di Assunzione e sottolineato i progressi nella accettazione internazionale del riconoscimento della antica città biblica come capitale. "Ottime notizie riguardanti il riconoscimento internazionale di Gerusalemme come capitale. Grazie Paraguay per l'amicizia dimostrata!", conclude il messaggio.
(Agenzia Nova, 8 maggio 2018)
Agricoltura: Confagri incontra un ministro israeliano, benefici dalla collaborazione
ROMA - "Quello dell'agricoltura israeliana e della stretta inter-relazione tra mondo produttivo e ricerca scientifica, è un modello da perseguire. L'agricoltura israeliana ha sempre puntato fortemente sull'innovazione per superare i gap strutturali. La razionalizzazione dell'acqua e l'uso di impianti di irrigazione a goccia, le coltivazioni idroponiche senza suolo, la solarizzazione del terreno, il riutilizzo delle acque reflue anche urbane, la fecondazione artificiale delle vacche da latte, sono alcune delle principali iniziative nate o comunque progredite in Israele, grazie alla ricerca, permettendo al settore primario di fare un salto di qualità". Ad affermarlo in una nota è il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti al termine della visita in Israele di una delegazione dell'Organizzazione, su invito di Israel Export Institute e dell'Ambasciata d'Israele a Roma in occasione di Agritech 2018, 20a edizione della mostra internazionale sulle tecnologie agricole e sull'innovazione in campo agroalimentare.
Agritech è una delle manifestazioni fieristiche più importanti nel panorama internazionale e una vetrina fondamentale sull'agricoltura del Mediterraneo.
"In questi anni -osserva Massimiliano Giansanti- abbiamo consolidato un'importante cooperazione con Israele. Dallo scambio di conoscenze e dalla collaborazione tra le nostre agricolture possono nascere importanti benefici".
(Adnkronos, 8 maggio 2018)
Israele e l'allarme Iran: «Vuole vendicarsi. L'attacco è imminente»
Netanyahu avverte: guerra con la Siria se Assad non frena Teheran
di Fiamma Nirenstein
L'Iran pianifica di attuare in tempi brevi la sua vendetta dopo gli attacchi delle ultime settimane alle sue postazioni militari in Siria e di lanciare missili sul nord d'Israele. La provenienza militare segreta rende molto affidabili le informazioni affidate a un canale televisivo. Schiere di missili terra-terra vengono armati per colpire soprattutto, sembra, strutture militari, e la cura ne è probabilmente affidata a Hezbollah o a altri amici intimi, presenti in forza, della Repubblica degli Ayatollah. Questo per potere, dopo il colpo, negare la responsabilità di Teheran in prima persona: ma il comando dell'operazione è in prima persona delle «Guardie della Rivoluzione», l'intraprendente braccio armato dell'Iran più deciso a una politica espansionistica.
Il capo della forza speciale in loco è Ali Ajiazade, agli ordini dello stratega principe della conquista iraniana del Medio Oriente, il generale della «Forza Quds» Qasem Suleimani. I precedenti dell'operazione di guerra sono nell'operazione israeliana su territorio siriano quando sono state rase al suolo due strutture importanti per il disegno egemonico iraniano. Poi, due settimane fa, vicino a Homs, è stata distrutta la grossa base di missili a lunga gittata sempre operata dagli iraniani, e ci sono stati altri morti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto subito di essere determinato a prevenire una presenza iraniana in Siria anche a prezzo di un conflitto diretto, concetto ribadito in queste ore dal ministro dell'Energia Yuval Steinitz, secondo cui Israele potrebbe eliminare il presidente siriano Bashar al-Assad «se consentirà all'Iran di trasformare la Siria in una base militare per attaccarci». Perché Israele parla così? Le ragioni sono due: gli iraniani sono molto preoccupati per la scadenza del 12 maggio che vedrà una decisione di Trump sul mantenimento o meno dell'accordo nucleare, e possono stare meditando azioni di deterrenza molto aggressive. Israele vuole dissuaderli. In secondo luogo, Netanyahu domani avrà a Mosca un incontro fatale con Putin, e sta dispiegando le sue carte. Bibi va in Russia con volto particolarmente amichevole: assisterà alla parata dell'Armata Rossa in ricordo della vittoria su Hitler, e Israele è fra i pochissimi Paesi ad aver costruito sul suo territorio un monumento (a Herzlya) in cui si ricordano i 20 milioni di morti sovietici e il loro eroico contributo alla vittoria sul nazifascismo. Putin venne nel 2012 all'inaugurazione. Da allora Netanyahu e Putin hanno avuto rapporti cordiali: adesso l'alleato iraniano di Putin, coi suoi Hezbollah, minaccia tutta l'area, avendo al centro il suo odio inveterato per Israele. Putin si sentirà ripetere da Netanyahu che siamo sull'orlo di una vera guerra con conseguenze incommensurabili se non viene posto un blocco alla presenza iraniana sul confine dello Stato Ebraico, e gli verrà chiesto di nuovo di non vendere al regime siriano il sistema antimissile S300, uno dei più strategicamente definitivi: se l'Iran lo controllasse, per Israele sarebbe molto dura. Non solo Israele è in una situazione problematica anche a causa, oltre che della Siria, del Libano, dell'Irak e dello Yemen mentre l'Arabia Saudita, l'Egitto, la Giordania e persino il Marocco denunciano come distruttiva di ogni equilibrio la presenza imperialista iraniana. Putin aveva calcolato tutto questo quando ha permesso all'Iran di penetrare in forze in Siria, creandogli così letteralmente un confine con Israele? Probabilmente anche lui oggi è interessato a mettere un freno agli ayatollah e a Qasem Sulemani, non ha interesse a un conflitto diretto con Trump così schierato contro l'Iran.
Intanto mentre si avvicina il 12 di maggio, si approssima anche la giornata in cui, il 14, verrà trasferita l'ambasciata a Gerusalemme: oltre a un momento di gioia, per Israele si preparano molta tensione e pericolo di attacchi terroristici da parte palestinese.
(il Giornale, 8 maggio 2018)
Cyberguerra, tra Israele e Iran la battaglia è già cominciata
Attacchi informatici e laboratori segreti. Gli hacker ingannano i siriani con un falso raid
di Francesco Bussoletti
DUBAI - La guerra tra Israele e l'Iran è già cominciata, passa dai pc e si combatte in tutto il mondo. Lo conferma il secondo presunto raid Usa-Gran Bretagna-Francia in Siria, che non è mai avvenuto. Ma che è stato registrato dai radar di Damasco, i quali hanno attivato le difese anti-aeree. Fonti militari internazionali affermano, infatti, che qualcuno - si guarda a Usa e Stato ebraico - abbia lanciato un'azione di cyberwarfare contro il centro di riporto e controllo di Damasco. La struttura che riceve tutte le informazioni legate alla protezione dello spazio aereo nazionale e le smista alle unità competenti.
Il messaggio
La sua compromissione avrebbe generato un falso positivo su un attacco e attivato i sistemi di difesa aerea. Ciò per due obiettivi: saggiare le cyber-difese di Bashar Assad legate soprattutto alla difesa aerea e i tempi di risposta; lanciare un messaggio a Damasco: attenzione alle vostre azioni e al sostegno all'Iran, possiamo colpirvi in qualunque momento e in silenzio. Intanto, Teheran nelle ultime settimane ha schierato il suo esercito informatico per condurre operazioni di cyberwarfare contro Israele. È la risposta alla recentissima conferenza stampa del primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha presentato una serie di documenti secondo i quali la Repubblica islamica continua a sviluppare in segreto il suo programma nucleare bellico, nonostante il Jcpoa. L'Iran sta impiegando alcuni gruppi hacker: le Advanced Persistent Threats (Apt) Ajax Security Team, Chafer, Infy, Apt33 e 34. L'obiettivo è condurre azioni di cyber-spionaggio (vedi l'operazione Saffron Rose) e infiltrazione per danneggiare le infrastrutture vitali dello Stato ebraico. Per farlo utilizzano attacchi cibernetici tipo «spear phishing». Vengono inviate e-mail a soggetti specifici con vari tipi di esca - da offerte di lavoro a finti documenti di interesse ad altro - affinché siano aperte. Queste, in realtà, contengono link a programmi malevoli (malware), che una volta scaricati e installati permettono all'aggressore di assumere da remoto il controllo del computer della vittima. Poi, progressivamente, gli hacker cercano di arrivare ai network, il loro obiettivo finale. Negli ultimi tempi, gli «incidenti» in Israele causati da formazioni facenti capo all'Iran si sono moltiplicati, anche se senza successo. E ci si attende che il trend aumenti.
Lo Stato ebraico, però, contrappone un «cyber army» multiforme. In campo ci sono circa 8200 esperti delle Idf (Israel Defense Forces), che si addestrano in una base high-tech nel Sud; gli specialisti del Mossad e quelli della neo-costituita unità di combattimento cyber dell'agenzia per la sicurezza interna, lo Shabak (ShinBet). Si chiama Shabacking Team ed è nata nel 2017. A loro si uniscono figure dei settori privato e accademico. Ciò ha garantito un'efficiente protezione dei sistemi vitali del Paese e ottime capacità offensive cibernetiche. Lo dimostrano alcuni cyber attacchi che la Repubblica islamica ha subito recentemente e che non sono ufficialmente stati attribuiti. Ma che diverse fonti ritengono siano opera dello Stato ebraico. Tra questi, quello agli switches Cisco (3500), avvenuto solo pochi giorni fa. In Iran ci sono due organismi che proteggono la nazione dalle minacce del cyberspazio: il «Joint Cyber Army», braccio cibernetico dell'intelligence di Teheran, e il Cyber Defense Command (Gharargah-e Defa-e Saiberi). La struttura è posta sotto la supervisione della «Passive Civil Defense Organization», subdivisione del Comando congiunto delle forze armate.
Difesa debole
Le capacità difensive della nazione, contrariamente a quelle offensive, sono però medie. Lo confermano diversi episodi avvenuti nel corso degli ultimi anni: partendo dall'attacco col virus Stuxnet alle centrifughe a Natanz del 2006 fino agli «incidenti» degli switches, tutte operazioni riuscite. Inoltre, lo stesso capo della «cyber polizia» di Teheran, il generale Kamal Hadianfar, ha ammesso che la nazione nel 2017 ha subito 296 cyber aggressioni gravi contro le infrastrutture vitali. Senza contare che in più occasioni esperti del settore sono morti misteriosamente. Vedi il caso di Mojtaba Ahmadi, comandante del quartier generale della «Cyber War», ucciso nel 2013 da ignoti.
(La Stampa, 8 maggio 2018)
Trump non parteciperà all'inaugurazione dell'ambasciata a Gerusalemme
La delegazione attesa lunedì sarà guidata dal vice-segretario di Stato, John Sullivan. In città compaiono i primi cartelli che indicano la sede.
GERUSALEMME - Il presidente americano Donald Trump non sarà presente all'inaugurazione dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme in programma per il 14maggio prossimo, lo stesso giorno in cui Israele celebrerà i 70anni della nascita dello Stato. Lo ha fatto sapere ieri la Casa Bianca. In dicembre Trump aveva annunciato lo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv; riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, e nelle scorse settimane aveva detto che stava valutando l'ipotesi di andare a Gerusalemme per l'evento.
La delegazione presidenziale attesa lunedì prossimo sarà guidata dal vicesegretario di Stato, John Sullivan, e comprenderà il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, il genero Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, la figlia Ivanka, che fa parte del suo staff di collaboratori. La delegazione statunitense dovrebbe essere composta da circa 250 persone, tra cui una quarantina di politici. Ieri anche il Paraguay ha fatto sapere di essere intenzionato ad aprire la sua ambasciata a Gerusalemme, come in precedenza deciso dal Guatemala. Anche la Repubblica Ceca si è espressa in questo senso, ma ha precisato che la realizzazione avverrà in maniera graduale. Intanto, ieri a Gerusalemme sono stati collocati i primi cartelli stradali - in ebraico, arabo e inglese - che indicano la nuova ambasciata americana in città. La sede, in attesa della costruzione del nuovo edificio, sarà ospitata nell'attuale consolato americano ad Arnona, nella parte occidentale.
Alla posa di uno dei tre cartelli ha partecipato il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat. «Gerusalemme è la capitale eterna del popolo ebraico - ha detto - e il mondo sta cominciando a riconoscere questo fatto».
(Avvenire, 8 maggio 2018)
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Riportiamo, a integrazione, un'altra notizia presente sul giornale online della Federazione delle Associazioni Italia-Israele.
Trump chiederà ad Israele di abbandonare quattro quartieri a Gerusalemme est
di David Sinai
L'amministrazione Trump chiederà a Israele di ritirarsi da quattro quartieri arabi a Gerusalemme est, che probabilmente diventeranno la capitale di un futuro stato palestinese, i funzionari Usa hanno detto al ministro della difesa Avigdor Liberman durante la sua visita a Washington la scorsa settimana.
Il trasferimento del controllo sui quartieri - Jebl Mukabar, Isawiya, Shuafat e Abu Dis - è stato presentato a Liberman come solo un pezzo del più ampio piano di pace su cui l'amministrazione ha lavorato nel corso dell'ultimo anno. Israele, da quanto trapelato, accetterà il piano di Trump.
Questa notizia, se fosse confermata, rovinerebbe alquanto i festeggiamenti per il trasferimento dellAmbasciata USA a Gerusalemme. In realtà, la notizia è tratta da un articolo del Jerusalem Post categoricamente smentito da funzionari USA. M.C.
«La strada in Israele per nonno Gino Bartalì»
Nel 2013 è stato dichiarato «Giusto tra le Nazioni» per aver salvato centinaia di ebrei. Il Fondo nazionale ebraico ha realizzato un percorso ciclabile intitolato al campione. A inaugurarlo la nipote Gioia, nella foresta di Haruvit strappata alla desertificazione.
Un seme nel deserto. Cresciuto nel nome di Gino Bartali. E sbocciato con la bella stagione del Giro d'Italia. È incredibile quante storie ci possano essere dietro la nascita di una pista ciclabile. E quanta storia. Cominciamo però dalla geografia: siamo nella foresta di Haruvit, un ambiente strappato alla desertificazione, a 40 chilometri da Gerusalemme. Qui il Fondo nazionale ebraico (KKL) ha ricavato un percorso ciclabile sterrato di dodici chilometri, tecnico quindi divertente, ma di media difficoltà. E ha pensato di intitolarlo a Gino Bartali.
Nel suo nome è partito il Giro d'Italia da Gerusalemme. E nel suo nome pedaleranno i ragazzi e gli appassionati israeliani, che sono sempre più numerosi. «Cosa direi di mio nonno ai più giovani? Semplicemente - racconta Gioia Bartali, figlia di Andrea e nipote di Ginettaccio- che è stato un uomo di grandi valori. Che in un momento difficilissimo ha fatto delle scelte e si è messo dalla parte dei più deboli, dimostrando grande coraggio. Rappresenta un esempio, un punto di riferimento solido che oggi è difficile da trovare, nello sport ma non solo. Per il nonno la pratica sportiva doveva essere una scuola di vita. E ci dobbiamo impegnare a tramandare i suoi valori in ogni modo, perché fanno parte di noi».
Qui bisogna riavvolgere un attimo il nastro, per chi ancora non sa quale sia il legame tra Israele e Bartali, il «postino» riconosciuto nel 2013 come «Giusto tra le Nazioni» per aver contribuito a salvare diverse centinaia di ebrei italiani dalla deportazione nei campi di concentramento. Il campione di Ponte a Ema, che aveva già vinto il Giro e il Tour prima della Seconda guerra mondiale, accettò subito la proposta del cardinale Elia Dalla Costa, a sua volta ricordato nel Giardino dei Giusti, di far parte di una rete segreta. Alla quale mancava un «messaggero» che recapitasse i documenti falsi in grado di salvare gli ebrei, altrimenti destinati alla deportazione nei campi di concentramento. Bartali si prese il rischio, nascose i documenti nel telaio della sua bicicletta da corsa e pedalò a testa alta per salvare tante vite. Non solo: nascose anche alcune persone nella cantina di una casa di sua proprietà: proprio la testimonianza di un bambino di allora, Giorgio Goldenberg, raccolta dal giornalista fiorentino Adam Smulevich, si è rivelata decisiva per il riconoscimento ufficiale. «Non voglio - si schermiva Gino - essere ricordato come un eroe. Andare in bicicletta era il mio mestiere e lo dovevo fare: l'ho messo a disposizione di chi in quel momento aveva bisogno».
È bello che la pista nata in Israele non sia una semplice passeggiata cicloturistica, ma una sorta di strada bianca nella foresta, che un po' farà sentire chi ci pedala più vicino al ciclismo dei pionieri. Conferma Gioia: «Si valorizza la memoria di Gino in un approccio diretto con la natura. Ho aderito subito a questo progetto del KKL. Anche per onorare la memoria di mio padre Andrea, che è sempre stato in prima linea nella custodia e nella diffusione dell'immagine del nonno».
Il KKL è presente anche in Italia, come Onlus, che si occupa di raccogliere fondi a favore del verde in Israele. Un Paese in cui il verde non è certo così scontato: «Eppure - spiega Sergio Castelbolognese, presidente di KKL Italia - abbiamo piantato 250 milioni di alberi. Combattiamo il deserto per migliorare l'ecologia di Israele, del quale si ha generalmente un'impressione molto sbagliata. Ed esportare pace con gli alberi è una cosa molto intelligente. Il Fondo nazionale ebraico si occupa di ricerca e di sviluppo anche legata all'acqua e aiuta molti Paesi africani: è una pace di alberi». E tra quegli alberi lontani adesso c'è anche il profilo inconfondibile di Ginettaccio. Un uomo di pace. Forte come un tronco, cresciuto controvento.
(Buone Notizie, 8 maggio 2018)
Sylvan Adams: «Grazie al Giro d'Italia un miliardo di persone ha visto un'altra Israele»
Il mecenate che ha voluto a tutti i costi la Corsa Rosa: «Voglio trasformare questa regione in una sorta di Amsterdam per le bici in Medio Oriente»
di Lorenzo Cremonesi
Sylvan Adams è un ricco uomo d'affari ebreo-canadese che si è speso per portare le tre tappe del Giro in Israele
«Un successo totale, strepitoso. Sono felice per la fantastica riuscita delle tre tappe del Giro in Israele. Lo speravo con tutte le mie forze. Ma sinceramente è andata meglio delle più rosee aspettative». Sylvan Adams è chiaramente un entusiasta, una di quelle persone baciate dalla buona sorte che hanno il dono di trasformare il loro ottimismo in energia creativa e trascinante. Suo padre Marcel Adams, il miliardario ebreo-canadese da giovane sfuggito miracolosamente all'Olocausto nel suo villaggio natale in Romania, gli aveva lasciato una fortuna con le sue imprese edilizie e le proprietà immobiliari accumulate tra il Quebec e le province orientali del nuovo Paese d'adozione. E lui, Sylvan, si era dato da fare per sfruttarle al meglio. «Per 15 anni a Montreal, dopo il mio matrimonio, ho avuto poco tempo per lo sport. Mi sono concentrato sul lavoro e nel far crescere i miei quattro figli. La bici l'ho scoperta per caso quasi quarantenne. Ne acquistai un modello da corsa per 800 euro. Mi fa sorridere pensare che oggi con quella cifra non potrei neppure comprare una delle ruote in lega di quella che uso in Israele», ricorda.
Ciclista appassionato, al suo 57esimo compleanno nel 2016 trasferendo la residenza a Tel Aviv aveva già deciso che avrebbe fatto di tutto per sviluppare questo sport anche nella nuova patria, tanto da aver investito ingenti capitali personali per portare il Giro in Israele. «Intendo trasformare questa regione in una sorta di novella Amsterdam per le bici del Medio Oriente».
- Ci tolga subito una curiosità. Tra gli appassionati delle due ruote in Israele si racconta di una mitica palestra privata, costruita nel suo super attico affacciato sul lungomare di Tel Aviv, dove la pressione può essere artificialmente modificata e l'ossigeno rarefatto a simulare le condizioni di allenamento in bici, anche a 4 mila metri di quota. Leggende metropolitane o realtà?
«Assolutamente vero. Vi pedalo quando posso. Purtroppo in questo periodo ho poco tempo. Ci sto solo poche ore alla settimana. Ma l'ho messa a disposizione dei fuoriclasse della nostra Israel Cycling Academy. Devono allenarsi in vista delle gare all'estero, sogno di poterli mandare al meglio delle grandi competizioni internazionali».
- Quali sono i suoi parametri per affermare che il capitolo israeliano del Giro è stato un successo?
«Circa 840 milioni di spettatori televisivi seguirono le prime tappe del Giro l'anno scorso. Oggi gli indici di ascolto superano il miliardo. Ciò significa che nel mondo hanno visto un Paese diverso da quello delle consuete cronache politiche, non di guerra, ma di pace, di belle strade, panorami unici, gente allegra che ama la bici. Se il Giro è anche una vetrina del turismo italiano, come del resto il Tour lo è per la Francia, allora anche il turismo israeliano ne trarrà benefici. Inoltre gli organizzatori italiani sono entusiasti, dicono che è stato unico, impagabile. La partenza a Gerusalemme è stata bellissima, l'arrivo sul lungomare di Tel Aviv semplicemente perfetto, la tappa nel Negev esotica, affascinante il finale nel golfo di Eilat. E non sono mancati i drammi con i cambi di maglia rosa: il Giro ha offerto il meglio di se stesso».
- Ma cosa risponde a chi accusa il Giro di aver ignorato la questione palestinese, il problema dell'occupazione, i giovani arabi morti nelle recenti proteste di Gaza? Mentre si correva in bici, a pochi chilometri c'era chi soffriva. Cosa dice a chi avrebbe voluto cancellare le tappe israeliane?
«È un cliché dire che sport e politica non si devono mischiare. E io non sono un politico, sono un cittadino israeliano convinto che in verità lo sport può unire, aiuta la coesistenza pacifica. Però ho le mie convinzioni personali. E tra queste c'è anche quella per cui i palestinesi hanno cattivi leader che vogliono guerra e violenza. Solo pochi giorni fa il presidente palestinese ha diffuso concetti carichi di odio e antisemitismo. Israele si è ritirato da Gaza già 14 anni fa. Ma proprio da Gaza continuano a predicare e sperare nella nostra distruzione».
- Cosa direbbe se un gruppo ciclistico palestinese volesse partecipare alle gare in Israele?
«Li accoglierei a braccia aperte. Sarebbero più che benvenuti. Cercherei di aiutarli. Tanti non sanno che già ci sono ciclisti arabi israeliani e persino palestinesi della Cisgiordania che vengono ad allenarsi con noi. Ho visto le proteste contro il Giro tra i pacifisti europei. Ma a loro chiedo: perché quasi non dite nulla contro ciò che avviene in Siria? Perché non protestate con la stessa determinazione contro la repressione della dittatura siriana ai danni dei civili che si ribellano?».
(Corriere della Sera, 8 maggio 2018)
Israele, il demone. La pantomima di Torino
Abbiamo già dato conto di come all'Università di Torino, il Dipartimento di Giurisprudenza, abbia aperto le porte, nel contesto dell'ennesimo convegno contro Israele, (ormai si tratta di una vera e propria catena di montaggio) a Richard Falk. Falk, professore di legge internazionale all'Università di Princeton, e per sei anni relatore speciale alle Nazioni Unite per la "situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967" (definizione ONU che assegna di fatto i territori contesi della Cisgiordania ai palestinesi in assoluto spregio del loro effettivo statuto), è anche un attivista di estrema sinistra che non ha mai fatto mistero della sua persuasione che il principale agente del male nel mondo siano gli USA, seguiti a ruota da Israele. In questo, gode della compagnia di un altro e più celebre accademico, Noam Chomsky.
di Niram Ferretti e Emanuel Segre Amar
L'aula universitaria in cui si è potuto assistere alla demonizzazione dello Stato di Israele.
Come Chomsky, anche Falk ha un debole per le figure sinistre e i regimi antidemocratici. Si ricorda ancora ciò che scrisse di Khomeini nel 1979, in un pezzo apparso sul New York Times in cui incoraggiava l'allora presidente Jimmy Carter ad abbracciare la rivoluzione islamica.
"Il ritratto di Khomeini come un fanatico reazionario portatore di grossolani pregiudizi è sicuramente falso", scriveva all'epoca. Sempre nello stesso articolo aggiungeva che "I suoi consiglieri più stretti sono individui moderati e progressisti i quali condividono un rilevante storia di dedizione ai diritti umani".
Più recentemente, Falk ebbe a definire gli attentati islamici di Boston una diretta conseguenza del "progetto di dominazione globale americano". Non c'è dunque da meravigliarsi se lo si trova a fare parte della setta dei cospirazionisti, i quali vedono nell'11 settembre una messinscena orchestrata dagli Stati Uniti con la complicità del Mossad.
Ed è Israele, la seconda grande bestia nera di questo estremista, che Steven Plaut in un suo memorabile pezzo su Frontpage Magazine del 2009, definì "Il maestro americano dell'inversione orwelliana".
Per Falk, se è possibile, Israele è anche peggio degli Stati Uniti. Non ha avuto infatti alcuna remora ad accusare lo Stato ebraico di praticare politiche naziste nei confronti dei palestinesi riproponendo uno degli stigmi più ferocemente antiebraici contro gli israeliani, quello di associarli ai loro carnefici. "E' una esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi con la storia dei crimini collettivi nazisti? Io non penso", scrisse.
L'esaltazione estremistica di Falk non gli ha impedito di affermare che Israele coltivi tendenze genocidiarie e che "l'indifferenza della comunità internazionale" alla situazione di emergenza a Gaza sia peggiore a quella che essa ebbe nei confronti del Ruwanda. Naturalmente, Israele ha preso le contromisure nei suoi confronti. Dal 2008 gli è stato revocato l'ingresso nel paese.
Il radicalismo di Falk è tale che nel 2017, persino l'ONU fece rimuovere dal proprio sito il rapporto per l'ESCWA (Commissione delle Nazioni Unite per gli affari Economici e Sociali dell'Asia Occidentale) a cui aveva collaborato e in cui Israele veniva definito uno Stato in cui si praticherebbe l'apartheid. Questo essendo il cavallo di battaglia di Falk, o meglio, la sua ossessione.
All'Università di Torino, tutte queste sono ottime credenziali per invitarlo a parlare davanti agli studenti. Il rapporto per l'ESCWA è stato persino tradotto in italiano a cura del collettivo Progetto Palestina, con amorevole prefazione del menestrello ebreo del palestinismo italiano, l'attore Moni Ovadia.
Già nel marzo del 2017 nell'Università di Torino si "dibatté", o meglio si accusò Israele di apartheid, e di nuovo nel gennaio di quest'anno (con l'intervento, tra gli altri, di due sudafricani di cui uno attivista del BDS).
Ma giovedì 3 maggio, per Richard Falk e sua moglie Hilal Elver insieme a una serie di docenti "esperti" si è addirittura concessa l'aula magna, attirando gli studenti di Giurisprudenza con la possibilità di ottenere 3 nuovi crediti (senza che vi fosse nemmeno un minimo controllo sulla loro effettiva presenza) .
Falk ha così potuto raccontare che ebrei e palestinesi appartengono a diversi "gruppi razziali", e i secondi non avrebbero il "diritto di nazionalità" (ci sono 1,600,000 arabi israeliani in Israele), che i palestinesi di Gerusalemme Est sono "discriminati" (sono tutti residenti permanenti dotati di passaporto giordano a cui pochissimi sono disposti a rinunciare) mentre i 460,000 arabi abitanti nella West Bank sarebbero vittime di tutti gli atti inumani contemplati dalle Convenzioni escluso al momento quello di genocidio (questo è riservato a Gaza).
Peccato che la maggioranza dei palestinesi abitanti in Cisgiordania dimori nelle aree A e B, la prima interamente sotto la supervisione dall'Autorità Palestinese, la seconda amministrata civilmente dall'Autorità Palestinese ma ad amministrazione congiunta relativamente alla sicurezza. Che Falk voglia affermare che l'Autorità Palestinese commetta crimini contro il proprio stesso popolo? Giammai.
Si è poi appreso che i rifugiati nei paesi limitrofi e in giro per il mondo, non potendo tornare nelle loro case a differenza degli ebrei della diaspora, dimostrano quanto siano giustificate le accuse di apartheid. Naturalmente, non viene detto che ad oggi, grazie alla prassi dell'UNRWA di estendere lo statuto di rifugiati a tutti i discendenti dei profughi del 1948 che oggi ammontano a più di cinque milioni, il loro ingresso in massa in Israele, secondo i desiderata dell'OLP, di Hamas, dell'Autorità Palestinese e, ovviamente, del docente di Princeton, sancirebbe la fine di Israele come stato a maggioranza ebraica. A questo scopo è necessario che i palestinesi esercitino tutta la possibile pressione, in quali forme esatte, Falk non lo specifica, ma ogni buon intenditor saprà cogliere ciò che è sottinteso.
Il convegno è stato aperto con le parole di Eliana Ochse che già il 17 gennaio illustrò, allora agli studenti di un altro dipartimento, il significato dell'apartheid (in afrikaan: separazione) e come venne applicato in Sudafrica; la relatrice si è però, ancora una volta, dichiarata non esperta di politica internazionale, pur essendo convinta che "la situazione in Israele sia ancor più complessa". Si è quindi proseguito parlando di "gruppi razziali" a studenti ai quali si dovrebbe insegnare che il concetto di "razza" non è in rapporto ai gruppi umani, scientificamente applicabile; ma l'inganno doveva continuare perché la maggior parte non poteva sapere che in Israele, a differenza del Sudafrica, le scuole, gli ospedali, i teatri, i servizi pubblici sono aperti a tutti, indipendentemente dalla loro etnia, così come gli stipendi e le garanzie sindacali sono uguali per tutti i lavoratori, e non esistono professioni precluse ai non ebrei. Persino l'IDF consente ai cittadini arabi israeliani, dietro loro esplicita richiesta, di potere servire nell'esercito. Ma tutto ciò, i fatti, e non la fiction, sbriciolerebbe all'istante la favola nera di Israele come versione ebraica del Sudafrica razzista.
La favola nera si è poi arricchita di ulteriori capitoli, fermo restando il posto d'onore dato all'apartheid, persino "peggiore di quello dei sudafricani", liberati dal "giogo colonialista" di cui invece sarebbero vittime i palestinesi. L'apartheid, è il cuore pulsante del crimine che Israele perpetuerebbe senza sosta, la soggiogazione ebraica su quella araba. E' questo l'acme onirico di una macchina di diffamazione che nel suo eccesso tracima nel caricaturale, sfocia nel grottesco, investe ogni cosa, fa dell'ebraico, lingua ufficiale dello Stato insieme all'arabo, uno strumento di soggiogazione. Tutto è apartheid per Richard Falk, esso è categoria riassuntiva, principio metafisico. Il resto è accessorio, dettaglio ornamentale, glossa.
Raramente, in un'aula universitaria che non fosse localizzata a Gaza, a Ramallah o a Teheran, si è potuto assistere a una demonizzazione così pervasiva e accanita nei confronti di Israele. Alfred Rosenberg o Joseph Goebbels non avrebbero potuto fare meglio. Purtroppo non erano disponibili.
(Italia Israele Today, 7 maggio 2018)
I leader arabi sono stufi dei palestinesi
Li vedono come un «ostacolo noioso» nella strada del dialogo con Israele
scrive il Wall Street Journal (2/4)
"All'apparenza, nella striscia di Gaza, era tutto come al solito" ha scritto sul Wall Street Journal Walter Russell Mead. "Hamas aveva spinto migliaia di persone al confine con Israele, per iniziare una campagna di protesta di sei settimane in vista del settantesimo anniversario dell'indipendenza di Israele, o, come lo chiamano i palestinesi, la `nakba', ossia la `catastrofe'. Questa protesta, secondo il leader di Hamas Ismail Haniyeh, avrebbe segnato `l'inizio del ritorno dei palestinesi in tutta la Palestina'. Non è andata così. Sono stati tirati sassi, appiccati incendi e sparati proiettili. Quando il fumo si è diradato, però, i confini erano ancora al loro posto, e quindici palestinesi giacevano per terra esanimi, cui se ne sono aggiunti altri tre più tardi. Mentre le famiglie vivevano il loro lutto privato, controversie familiari si riaffacciavano sulla scena. Le solite persone hanno denunciato Israele nei soliti modi, cui hanno risposto i soliti difensori usando i soliti argomenti.
Quello che sta succedendo a Gaza oggi, però, non è tutto come al solito. Nel medio oriente si stanno muovendo delle tettoniche a placche, dato che il mondo arabo sunnita sta facendo i conti con il fallimento della primavera araba e la sconfitta dei propri uomini in Siria, per mano dei contingenti sostenuti dall'Iran. In tempi più felici, i nazionalisti panarabi come Gamal Abdel Nasser, e figure minori come Saddam Hussein, sognavano di creare uno stato unito panarabo che potesse confrontarsi da pari con le altre potenze mondiali. Quando il nazionalismo finì il suo carburante, però, molti si rivolsero ai movimenti sunniti islamisti.
Anche questi, col tempo, hanno fallito e oggi gli stati arabi cercano la protezione di Israele e degli Stati Uniti contro l'ascesa dell'Iran e dell'irriducibile Turchia neo ottomana. La protezione americana cui si appoggiano gli arabi non può però essere data per scontata, come dimostra l'apparente determinazione del presidente Trump di ritirare al più presto le truppe americane dalla Siria. In queste circostanze, l'accesso privilegiato di Israele a Washington fa di Gerusalemme una pedina ancora più importante nei calcoli degli arabi. Forse, soltanto Israele può tenere gli Stati Uniti impegnati nella regione.
E' alla luce di questo rovescio che la vecchia alleanza palestinese con le nazioni arabe si è indebolita. Molti leader arabi ora vedono la richieste palestinesi come un ostacolo sconveniente per la necessaria alleanza strategica con Israele. Gli screzi tra i palestinesi e gli altri arabi non sono nulla di nuovo. Ma il collasso del nazionalismo arabo e il fallimento del radicalismo sunnita hanno indebolito le forze politiche che prima costituivano il supporto panarabo alla causa palestinese. Con milioni di nuovi rifugiati arabi in Siria e le crescenti minacce all'indipendenza araba da parte di potenti stati vicini, porre la Palestina tra le proprie priorità è un lusso che molti arabi sentono di non potersi più permettere".
(Il Foglio, 7 maggio 2018)
Le tre condizioni di Trump per aggiustare l'accordo sul nucleare iraniano sono ormai imperative
Che cosa detta lo straordinario colpo del Mossad
di Malcolm Lowe*
Ciò che i vari apologeti dell'accordo sul nucleare iraniano non sono riusciti a cogliere è una semplice distinzione: la differenza tra sospetti e conferme. L'Aiea, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, ha basato le proprie valutazioni su "oltre un migliaio di pagine" di documenti: ne abbiamo ormai un centinaio di migliaia.
Queste centomila pagine sono di fatto delle confessioni firmate dal regime iraniano che non ha rinunciato all'intento di costruire ordigni atomici e di sistemarli su missili di propria fabbricazione. Le menti ristrette degli apologeti sono semplicemente incapaci di cogliere la portata storica della scoperta fatta dal Mossad.
L'immagine del premier israeliano Benjamin Netanyahu in piedi davanti a un enorme archivio costituito da uno scaffale con i classificatori e da un pannello contenente i CD simboleggia forse il più grande colpo nella storia dello spionaggio: l'acquisizione da parte del Mossad dell'archivio del programma iraniano per lo sviluppo di armi nucleari. Un'impresa che ricorda le informazioni fornite riguardo all'Operazione Overlord - il nome in codice dello sbarco degli Alleati in Normandia alla fine della Seconda guerra mondiale - da parte di Elyesa Bazna, agente segreto ad Ankara e di Paul Fidrmuc che operava a Lisbona.
La Germania nazista non riuscì ad agire in base a tali informazioni riguardanti il luogo in cui sarebbe avvenuto il D-Day. Piuttosto, fu vittima di false informazioni fornite da una presunta spia che lavorava per gli Alleati. L'analogia con questo fallimento è offerta dall'attuale calca di politici e di cosiddetti esperti che affermano che il colpo del Mossad non dice nulla di nuovo e si limita a dimostrare che l'accordo è più giustificato che mai. In particolare essi sostengono che prima che l'accordo fosse sottoscritto l'Aiea, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, già era a conoscenza fin nei minimi dettagli di ciò che rivelano le nuove informazioni.
Ciò che i vari apologeti dell'accordo sul nucleare iraniano non sono riusciti a cogliere è una semplice distinzione: la differenza tra sospetti e conferme. L'Aiea ha basato le proprie valutazioni su "oltre un migliaio di pagine" di documenti: ne abbiamo ormai un centinaio di migliaia.
Queste centomila pagine sono di fatto delle confessioni firmate dal regime iraniano che non ha rinunciato all'intento di costruire ordigni atomici e di sistemarli su missili di propria fabbricazione. Le menti ristrette degli apologeti sono semplicemente incapaci di cogliere la portata storica della scoperta fatta dal Mossad.
Oltre a Netanyahu, la persona più importante che ha compreso la portata dell'azione è il presidente Trump. Nel febbraio 2018, Trump ha informato i tre paesi europei coinvolti nell'accordo sul nucleare iraniano dei difetti che avrebbe voluto correggere per continuare a certificare l'accordo. Come riportato allora dalla Reuters:
"Trump ravvisa tre difetti nell'accordo: l'incapacità di affrontare la questione del programma sui missili balistici dell'Iran; i termini in base ai quali gli ispettori delle Nazioni Unite possono visitare i siti nucleati iraniani considerati sospetti; e le cosiddette "sunset clauses", le clausole che prevedono che i vincoli imposti al programma nucleare iraniano dall'accordo scadano dopo 10 anni. Trump vuole che le tre condizioni siano inasprite, se gli Stati Uniti non usciranno dall'accordo".
Il colpo del Mossad ha trasformato le tre proposte di Trump in tre imperativi, non solo per gli europei, ma anche per i due paesi coinvolti nell'accordo: la Russia e la Cina. (La Russia, in particolare, deve capire che le grandi città russe sono nel raggio d'azione dei missili iraniani.) In altre parole, se l'accordo dovesse sopravvivere, le "sunset clauses" dovranno essere cancellate, l'Aiea dovrà avere la libertà di ispezionare qualsiasi cosa desideri e la capacità dei missili a lungo raggio dovrà essere ridotta. E questo perché il Mossad ci ha fornito un centinaio di migliaia di confessioni firmate che il regime iraniano riprenderà e completerà i piani per dotarsi di missili in grado di trasportare testate nucleari non appena l'accordo glielo consentirà - anzi, lo autorizzerà - a farlo.
* Studioso gallese specialista di filosofia greca, di Nuovo Testamento e di relazioni ebraico-cristiane. Ha familiarità con la realtà israeliana dal 1970.
(Gatestone Institute, 7 maggio 2018 - trad. Angelita La Spada)
"A 70 anni dalla nascita dello Stato d'Israele"
Il convegno "A 70 anni dalla nascita dello Stato d'Israele", che si è svolto ieri a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi, per iniziativa dell'Associazione Italia-Israele di Firenze, ha avuto pieno successo. Non solo la Sala Luca Giordano era gremita di pubblico ma tutti i presenti hanno seguito i lavori con grande partecipazione fino alla fine. Merito dei relatori, che hanno svolto interventi che sono stati, a giudizio di tutti i presenti, di alto livello, facendo sì che il convegno fosse un vero momento di riflessione e di approfondimento.
Questo è stato vero fin dagli interventi iniziali dell'Ambasciatore Ofer Sachs, del Presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani, del Sindaco Alessio Falorni a nome della Città metropolitana di Firenze, di Ida Zatelli a nome dell'Università di Firenze, del Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze. La Presidente dell'UCEI Noemi Di Segni ha inviato da Gerusalemme un testo denso di contenuti. E poi le due ampie relazioni di Claudio Vercelli e di Carlo Batori, rispettivamente sui nodi fondamentali della storia d'Israele e sulle relazioni tra l'Italia e lo Stato ebraico. Infine la tavola rotonda coordinata da Stefano Folli, con gli interventi di Sergio Della Pergola, Luciano Bozzo, Luigi Compagna. Il convegno si è chiuso con il canto di speranza del popolo ebraico, Hatikvà.
Valentino Baldacci
Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze
('Associazione Italia-Israele di Firenze, 7 maggio 2018)
Giro d' Italia e Israele: il profumo di una scommessa vinta
di Gloria Romano
"Shalom" è una parola ebraica che se tradotta in italiano sa rispecchiarsi in tante e diverse traduzioni. Un saluto prima di tutto, un modo per dire di stare bene o ancora per esprimere il concetto di completezza e prosperità.
Tra i tanti significati però, "Shalom" indica anche e soprattutto la Pace.
Una Pace che lo Stato di Israele (ahimè) conosce a malapena, colpa della sua storia travagliata e i tanti disordini vicino ai confini che lo delimitano, che di fatto lo costringono a una perenne instabilità.
Era questa la preoccupazione principale seguita all' annuncio che il Giro d' Italia numero 101 sarebbe partito proprio sulle strade del territorio israeliano. Paura mescolata all' angoscia di esporre gli atleti e tutta la carovana rosa a rischi troppo elevati. Poi è seguita immancabile la polemica: si diceva che alla sicurezza collettiva, gli organizzatori avessero preferito un assegno (si parla di circa 16 milioni di Euro versati sui conti di RCS e Gazzetta dello Sport).
Perché Israele è un Paese in tensione costante, in cui il piacere del turismo è spesso messo in secondo piano da immagini di violenze e scontri. Sembrava impensabile potesse ospitare ben tre tappe di uno degli eventi ciclistici più famosi al mondo.
Da Gerusalemme, vicino al Mar Morto, a Eilat, sul Mar Rosso, passando da Tel Aviv e attraversando lo stato da Nord a Sud. Nessuno dei Grandi Giri, nemmeno il Tour de France, si era mai spostato al di fuori dei classici confini europei.
Una scommessa, costata molto cara ad Israele e dal risultato imprevedibile. Una scommessa che il Giro d' Italia ha deciso di accettare, nonostante il malcontento generale, le polemiche e i malumori.
Ma pur sempre una scommessa vinta.
Il risultato è da record, e lo si è potuto constatare già durante le primissime fasi del crono prologo di Gerusalemme di venerdì scorso: un successo di pubblico pazzesco, da fare invidia persino a quello nostrano.
Il Giro, giunto all' edizione numero 101, ha portato in Israele un evento sportivo che in termini di organizzazione logistica non ha precedenti nella storia del Paese. In breve la più grande e più seguita competizione che abbia mai interessato il suo territorio, come affermato dal capo del Governo Netanyahu.
L' Italia che insegna ai cittadini israeliani a scendere in strada, ad abbracciare il passaggio dei corridori con quello spirito di festa che poi è l'anima del ciclismo stesso. Il pubblico ha risposto all'invito invadendo il percorso, anche a costo di fare la coda per acquistare un cappellino rosa o recarsi nel deserto per applaudire il gruppo.
Questa è di certo il messaggio più bello lanciato da questa nuova e bellissima accoppiata. L'insegnamento che la gente che vive in terra di conflitti è forse quella che più di tutti è alla ricerca di un semplice motivo di svago. Anche solo per un attimo, perché oggi la carovana rosa è ritornata in Italia e molto probabilmente da domani in Israele si tornerà a parlare solo di scontri e violenze.
Eppure resta il ricordo felice di una festa rosa che ha saputo riportare la serenità anche negli angoli più remoti del deserto.
La scommessa è vinta e le polemiche dimenticate.
Shalom.
(Azzurri di gloria, 7 maggio 2018)
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Giro d'Italia, Israele oltre le barriere: la scommessa è stata vinta
Il direttore della Gazzetta dello Sport ha scelto quattro scatti di questa storica "Grande Partenza": dai luoghi santi di Gerusalemme fino a Tel Aviv tra muri di folla e anche nel deserto è sbocciato un messaggio d'amore.
di Andrea Monti
Cartolina 1
L'amore per il Giro a Midreshet Ben Gurion
DA MIDRESHET BEN GURION "Alla mattina mi sveglio e vedo alberi, come in Svizzera e in Scandinavia: li abbiamo piantati noi, uno per uno". David Ben Gurion riposa in eterno accanto alla moglie Paula su uno sperone affacciato all'oasi di Ein Avdat, un profondo avvallamento nell'immane scenario del Negev. Siamo all'estremo limite del kibbutz di Sde Boker dove il padre di Israele - l'uomo che il 14 maggio 1948 diede al suo popolo la nuova terra promessa - aveva scelto di trascorrere gli ultimi anni contemplando il sogno realizzato: un deserto che fiorisce e si colora di verde grazie al lavoro dell'uomo. Proprio lì, a Midreshet Ben Gurion, hanno scelto di vivere anche Shirly Rimon, maggiore dell'aereonautica militare, responsabile del museo di Be'er Sheva, con i suoi figli. Li incontriamo sul ciglio della strada per Eilat e ci consegnano una memorabile cartolina di questo storica tre giorni del Giro. Qui non ci sono le grandi folle che ci hanno accompagnato sinora. Quattro anime solitarie nella pietraia. Sotto l'occhio vigile della madre e della figlia Rony, avvolta in una bandiera israeliana, Edo e Smir scalpitano sui sandali in attesa dei corridori: sul petto, con un pennello rosa, hanno tatuato "I love Giro". E "love" è un cuore all'altezza del cuore. "Siete venuti qui a vedere chi siamo, a portarci uno spettacolo e una gioia che non scorderemo mai. Grazie Italia!", scandisce Shirly. Nel suo sorriso, l'alfa e l'omega di questo viaggio rosa.
Cartolina 2
Tom Dumoulin e le mura di Gerusalemme
DA GERUSALEMME Partenza e arrivo dalla porta di Giaffa, via d'ingresso alla città vecchia, il fazzoletto di terra che racchiude i luoghi santi delle tre grandi religioni. E, insieme, quasi tutte le passioni e le contraddizioni del mondo in cui viviamo. A quelli che hanno chiesto che cosa ci andavamo a fare, a quelli che hanno cercato e cercheranno di buttarla in politica, risponde la parola più gettonata tra gli spettatori che invadono le strade: "Shalom". Che in ebraico è un saluto, ma vuol pur sempre dire "pace". Lo sport ha saputo pedalare con levità su strade intrise di storia e di dolori in nome di un valore che va oltre le barriere. Credo abbia vinto largamente la scommessa. Alla presentazione delle squadre, nella piazza del municipio intasata di gente entusiasta, l'applauso più intenso è andato, insieme con la Israel Cycling Academy, a due formazioni sponsorizzate dagli arabi: Bahrain-Merida e Uae-Team Emirates. Che cosa cambia un battito di mani nel mare dell'odio? Molto per chi lo vuole sentire.
Cartolina 3
Tutta Israele corre con i protagonisti del Giro
DALL'ALTA GALILEA Lo Zoncolan d'Israele è una collina aspra e coperta di abeti, un angolo di Dolomiti incastonato tra Haifa e Tel Aviv. Sul Monte Carmel, luogo mistico di immenso fascino, abitava il profeta Elia, è nato l'ordine dei Carmelitani e i primi coloni d'Israele hanno imparato a vinificare sulle terre acquistate dai Rothschild. Il Giro d'Italia c'è passato facendosi largo tra due ali di folla. Mancavano gli alpini e il tasso alcolico ne ha risentito, ma il tifo ha riportato i più esperti girini al Veneto e al Friuli. Per la cronaca, ha vinto Viviani che di nome fa Elia. Come il profeta.
Cartolina 4
Elia Viviani con Giacomo, uno dei figli di Michele Scarponi
DA TEL AVIV A proposito di Viviani: una delle fortune riservate al direttore della Gazzetta è quella, ogni tanto, di vedere le cose dal palco. E qui l'immagine è doppiamente indimenticabile. Elia che sale sul palco tenendo per mano il piccolo Giacomo, uno dei due gemelli di Michele Scarponi, un po' intimorito dall'ovazione e dalla commozione generale. Davanti a lui, una folla compatta e urlante occupa uno spiazzo lungo almeno 400 metri e largo 100. Non abbiamo perso tempo a contarli. Erano tanti, tantissimi. Legati da un magico filo rosa. Domani, dalla Sicilia, è un altro giorno. E altre immagini troveranno posto nella storia del ciclismo. Ma questa parte dell'album è preziosa come la scena di un matrimonio ben riuscito. Shalom, vecchio Giro. E altri cento di questi azzardi.
(La Gazzetta dello Sport, 7 maggio 2018)
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Giro d'Italia 2018, quando il deserto si colora di rosa
Percorsi 229 km in uno scenario unico: cinque ore di festosa avventura tra vento, sabbia e picchi di 34 gradi, conclusa alla grande a Eilat con il fantastico bis di Viviani
di Gaia Piccardi
C'è questo canadese con la stella di David sulla schiena, Guillaume Boivin, che con coraggio va a prendersi il primo traguardo volante a Sde Boker, storico kibbutz fondato nel '52. Qui accanto c'è la tomba di David Ben Gurion e davanti, a perdita d'occhio, si srotola il deserto del Negev, la miniera di arenaria che il padre fondatore di Israele avrebbe voluto trasformare in una fertile distesa di campi coltivati. Pare il compendio di quest'avventura da pionieri che il Giro 2018 si è regalato in Medio Oriente: un corridore della Israel Cycling Academy solo al comando dentro la visione del primo ministro che ha cambiato la storia del Paese, da ieri dipinta un po' di rosa. «Questa per noi era una manifestazione di vitale importanza dice Daniel Benaim, ceo della società israeliana che ha prodotto le tre tappe extra europee del Giro . Un passaggio fondamentale per lo sport e per la pace. Il messaggio è lanciato».
Be'er Sheva, mentre Boivin vola via insieme ai due compagni di fuga made in Italy (Frapporti e Barbin), è alle spalle. La Route 40 corre triste, solitaria y final verso il Mar Rosso, destinazione Eilat e il divertimentificio degli albergoni all inclusive. È una primizia assoluta. In Oman, ad Abu Dhabi, a Dubai si pedala da anni ma questo è il Giro, perbacco, il Giro con la kippah che osa sfidare 229 chilometri di deserto (solo la decima tappa, da Penne a Gualdo Tadino, sarà più lunga) con i fucili spianati dell'esercito israeliano a protezione, cinque ore di vento e sabbia in faccia ciucciando borracce e maltodestrine sotto un cielo di piombo con una temperatura oscillante tra i 29 e i 34 gradi. Tutto, tranne che banale.
L'Israele verde delle piantagioni di datteri e pompelmi, nel nulla di Sde Boker, è già un ricordo. L'orizzonte è ocra, il ventaccio sfuma i contorni delle cose, gli arbusti di questo Far East bilingue vagano in un moto perpetuo. Eppure, adesso che il gruppo ha finalmente deciso di braccare i fuggiaschi, non siamo soli. Ai lati della strada, fantasmi vestiti di rosa, si materializzano bambini dai kibbutz, gruppi di cicloamatori, cammelli al pascolo (i cartelli in arabo e ebraico avvertono: attenzione all'attraversamento improvviso), curiosi imbandierati arrivati chissà come e da dove, forse dalle baracche che si intravvedono in lontananza. Al km 77, Mitzpe Ramon ci accoglie con la sua torre di guardia. Doveva diventare una meta eco-turistica per tutte le stagioni, è rimasto l'ultimo avamposto prima del Grande Niente. «Il piacere che ho provato in questa tappa? - esclamerà Thibaut Pinot all'arrivo -. Pari a zero. Lunare e interminabile». Ha ragione, il bambino d'oro di Francia. Il suo bello, in fondo.
Giù, a rotta di collo, verso la punta del triangolo scaleno d'Israele. Il territorio si restringe, i confini si avvicinano. Il cellulare emette due bing in rapida successione. Il gestore telefonico, festoso, annuncia le nuove tariffe: benvenuto in Egitto, benvenuto in Giordania. Ecco la processione delle ammiraglie appostate a bordo strada: punto di rifornimento per le povere gole asciutte dei ciclisti. Precipitando verso il mare tornano, timide e a ciuffi spelacchiati, le palme. A Eilat, a questo punto, mancano una cinquantina di chilometri. La roccia si arrende alla forza dell'acqua: spuntano piccole fattorie, distese di pannelli solari, un carcere, accampamenti militari (la route 40 è costellata di giovanissime soldatesse), l'aeroporto dei charter da tutta Europa: la barriera corallina, così, non l'avete mai vista. Spunta, anche, sullo stradone dei ristoranti e dei resort low cost, il solito naso affilato di Elia Viviani. Ci ha preso gusto, lo sprinter de noantri. Arma il pedale, scarica con un pestone tutta la sua potenza, svernicia Sasha Modolo e Sam Bennett come sabato a Tel Aviv.
La terza tappa e il deserto del Negev finiscono insieme, con un tuffo dentro le onde del Mar Rosso. Il Giro torna a casa, Israele ha vinto la sua scommessa nonostante a Gaza si continui a morire. Sono state prove tecniche di normalità, nel cuore del problema. Da Gerusalemme a Eilat, a pedali. Centosettantacinque uomini in bicicletta. La realtà è sempre più semplice di come ce la raccontiamo.
(Corriere della Sera, 7 maggio 2018)
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Quella capacità del Giro d'Italia di unire centro e periferie
Seicento giornalisti in Israele, ma non per guerre, tregue o attentati: lo sport, quello italiano, è stato al centro dell'attenzione: «L'evento più entusiasmante»
di Davide Frattini
Come le centomila viti che tengono insieme la pista del velodromo appena inaugurato a Tel Aviv anche gli israeliani a volte si sentono avvitati alla situazione: HaMatsav chiamano in ebraico il ciclo senza fine di guerre e tregue. Eppure per la prima volta i seicento giornalisti sbarcati all'aeroporto non erano qui per HaMatsav.
Perché commenta Melanie Lidman sul giornale digitale Times of Israel «non avevano alcun interesse verso le vicende politiche o militari. Qualcuno potrà obiettare che questo è un aspetto negativo. Rispondo con quello che è successo: lo sport è stato al centro dell'attenzione. Per tre giorni siamo stati trasportati in un altro Paese».
Yedioth Ahronoth, il quotidiano più letto, dedica tutta la prima pagina «all'evento più entusiasmante cui gli israeliani abbiano mai assistito» e titola: «Siamo sulla mappa!». Come a dire: il mondo ci ha potuto conoscere per ragioni diverse. Così sperano al ministero del Turismo, dove calcolano che queste tre tappe permetteranno di raggiungere quest'anno il record di cinque milioni di visitatori e sono convinti si parlerà di un'epoca pre-Giro e di una post. Anche la polverosa, isolata, quasi dimenticata Beer Sheva ha avuto la sua gloria globale in diretta televisiva, i tifosi a ritmare le pedalate con i colpi sui tamburi, i ciclisti che attraversano le strade sconosciute perfino a tanti israeliani: considerano la città in mezzo al deserto del Negev troppo vicina alla Striscia di Gaza dominata da Hamas dove venerdì sono proseguite le proteste dei palestinesi e troppo lontana dal resto della nazione.
Il Giro è riuscito a unire il centro alla periferia, le metropoli ai villaggi, Tel Aviv che non dorme mai alla sonnecchiosa Be'er Sheva. Ha attraversato le sabbie rosse che David Ben-Gurion prometteva di riuscire a far fiorire e che ieri si sono colorate delle maglie, quando i velocisti sono schizzati per conquistare il traguardo volante di Sde Boker, il kibbutz dove il fondatore di Israele si autopensionò e dove ogni sera al tramonto le antilopi del deserto riposano sulla lapide che porta il suo nome.
(Corriere della Sera, 7 maggio 2018)
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Israele saluta il Giro d'Italia. Tre giorni di sport e passione
di Adam Smulevich
È Elia Viviani il re del deserto, il vincitore della terza tappa israeliana del Giro d'Italia da Beersheva a Eilat. Quasi 230 chilometri, interamente pedalati nel Negev. L'emozionante epilogo di una tre giorni di grande sport e passione popolare che resterà nella storia della corsa.
La risposta del pubblico israeliano è stata infatti straordinaria, oltre ogni più rosea previsione. Entusiasmo in ogni città attraversata dal Giro, scattato nella tarda mattinata di venerdì con la cronometro individuale di Gerusalemme. Tanti occhi puntati sui beniamini di casa, i corridori della Israel Cycling Academy che si sono già distinti per combattività (in particolare grazie al canadese Guillaume Boivin, per due frazioni di fila in fuga da lontano). Ma dal primo all'ultimo del gruppo, per ciascuno c'è stato un applauso e un incoraggiamento. Tom Dumoulin, vincitore della crono, ha scaldato i cuori con il suo sorriso sul podio e le sue dichiarazioni.
"Il pubblico di Gerusalemme mi ha aiutato, ho amato queste strade. Una folla incredibile per un paese che non ha una così solida tradizione ciclistica" ha detto il campione olandese, vincitore in carica del Giro. E lo stesso è accaduto con Viviani, trionfatore anche ieri a Tel Aviv con uno sprint maestoso.
Sottolinea Sylvan Adams, presidente del comitato onorario della Grande Partenza: "Mi inorgoglisce il fatto che tanti miei connazionali si siano riversati per le strade di Israele per incitare tutti i corridori. Un impatto molto positivo, tanto che sono arrivate parole di ammirazione dall'organizzazione italiana della corsa. Ogni cosa è andata al meglio, compresa la copertura mediatica estremamente significativa in tutto il mondo".
Entusiasmo condiviso dai due ciclisti israeliani in corsa, Guy Sagiv e Guy Niv. "Quando sono partito ho sentito tremare il terreno. Tutta la folla ha tifato per me, dall'inizio alla fine. È stata - dice Sagiv - una sensazione mai provata prima".
"Ogni volta che ho avuto dolore o provato stanchezza, mi sono guardato attorno. Il tifo ai due lati del percorso - ha confermato Niv - mi ha aiutato a spingere ancora di più".
Dichiara Noemi Di Segni, presidente UCEI: "Siamo quasi in arrivo ad Eilat, all'ultima tappa del Giro che ha animato in questi giorni le arterie più importanti di Israele, riempiendo il nostro cuore di orgoglio per quello che questa importantissima iniziativa rappresenta per Israele e tutti coloro che hanno desiderato condividerne le ragioni.
È la migliore risposta convinta e determinata che si poteva dare a tutti coloro che esplicitamente, subliminalmente, o collaborando tacitamente, rifiutano di accettare Israele e ne delegittimano la stessa esistenza. Una risposta che parte da Israele assieme a tutte le istituzioni italiane e squadre di ogni parte del mondo che hanno creduto in questo progetto, l'hanno sostenuto ed hanno declinato ogni invito a desistere".
(moked, 7 maggio 2018)
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Album fotografico del Giro d'Italia in Israele
Le prime tre tappe si sono corse fra palme, antiche rovine e panorami notevoli nel deserto del Negev
si è corsa oggi l'ultima delle tre tappe israeliane del Giro d'Italia 2018: 226 chilometri quasi interamente tra il vento e il caldo del deserto del Negev da Be'er Sheva a Eilat, città sul Mar Rosso al confine con l'Egitto. Ha vinto in volata il veronese Elia Viviani, che al traguardo ha preceduto Sacha Modolo e Sam Bennett. Le tre tappe israeliane sono state caratterizzate dal gran caldo, ma anche dai tanti spettatori assiepati lungo il percorso e dal paesaggio inusuale per un Giro d'Italia. La prima tappa in Israele, corsa a Gerusalemme, è stata vinta dal detentore dell'ultima edizione, l'olandese Tom Dumoulin, che ha subito indossato la maglia rosa da leader della classifica generale. Il giorno dopo, però, al termine della seconda tappa tra le città di Haifa e Tel Aviv, Dumoulin ha dovuto lasciarla all'australiano Rohan Dennis. La tappa l'ha vinta in volata Viviani, che oggi ha ottenuto la sua seconda vittoria di fila.
Al termine delle tre tappe in Israele il Giro si sposterà in Sicilia, dove da martedì si correranno tre tappe, le cui partenze sono in programma a Catania, Agrigento e Caltanissetta. La gara si sposterà poi verso nord percorrendo la Calabria con una tappa che si svolgerà interamente lungo la costa tirrenica, per poi arrivare in Campania. Da lì attraverserà l'Appennino centrale passando per le salite del Gran Sasso. Dall'Abruzzo i corridori percorreranno Umbria ed Emilia-Romagna in tre tappe. Una volta nel Nord Est, il Giro entrerà nella sua fase decisiva, con l'arrivo in salita sul Monte Zoncolan previsto per il 19 maggio, alla quattordicesima tappa.
(il Post, 6 maggio 2018)
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Giro d'Italia: Israele 'conquistato' dai ciclisti
Il Giro d'Italia fa irruzione oggi sulla stampa israeliana con titoli entusiasti e con grandi fotografie su tutte le prime pagine. I ciclisti, stabilisce Maariv, "hanno conquistato Israele. In decine di migliaia lungo le strade per incoraggiarli". Yediot Ahronot, sulla stessa linea, scrive che "il Giro d'Italia ha portato Israele all'attenzione del mondo" e aggiunge che malgrado gli ingorghi stradali che ieri fra Haifa e Tel Aviv hanno accompagnato la manifestazione "gli israeliani si sono innamorati di questa prestigiosa gara". Per Israel Ha-Yom, gli stessi ciclisti sono rimasti stupefatti dalla calorosa accoglienza dei tifosi e sono giunti alla conclusione che "qua c'è un pubblico pazzesco". Voci di dissenso giungono invece dai giornali degli ebrei ortodossi che con titoli indignati rimproverano il governo per la "infrazione di massa della santità del riposo sabbatico" da parte degli agenti di polizia, dei municipi attraversati dalla tappa di ieri e dei mezzi di comunicazione locali.
(ANSA, 6 maggio 2018)
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Giro d'Italia 2018: Israele 'vive' in tre tappe la corsa per la maglia rosa
di Ilaria Myr
Dopo mesi di dubbi e polemiche, ha finalmente preso il via, venerdì 4 maggio, da Gerusalemme il Giro d'Italia 2018, che vede tre tappe in Israele, per poi spostarsi in Italia. Si tratta della prima edizione, su 101, che parte da fuori Europa (fuori dall'Italia sono ormai più di vent'anni che accade ad anni alterni), nonché la prima a cui partecipa un team israeliano.
Della decisione di iniziarlo nello Stato ebraico si era parlato molto, e anche della possibilità che fosse spostato, con l'esplosione degli scontri in Cisgiordania e a Gerusalemme dopo l'annuncio di Trump di volere spostare l'ambasciata a Gerusalemme. Gli organizzatori avevano però ribadito fin dall'inizio la volontà di partire da Gerusalemme, dedicando la prima tappa a Gino Bartali. L'annuncio ufficiale, con tanto di taglio di nastro, è arrivato l'11 febbraio alla BIT a Milano, dove il vicedirettore della Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi aveva dichiarato «Siamo molto felici che la tappa israeliana di apertura della 101esima edizione del Giro d'Italia sia dedicata al ciclista italiano. Parlare di Bartali, per noi della Gazzetta, è come parlare di casa nostra».
Le tre tappe del Giro d'Italia in Israele
La prima tappa è partita da Gerusalemme venerdì 4 maggio alle ore 13.50 locali (12.50 italiane) e ha visto trionfare l'olandese Tom Dumoulin.
«Siamo molto emozionati per questa gara. E in particolare ci felicitiamo che siano venuti ciclisti da tutto il mondo, incluso quello arabo. Questo è un messaggio molto importante per Gerusalemme, la nostra città, città della pace» ha detto il premier Benyamin Netanyahu congratulandosi anche con la squadra israeliana al suo esordio «in una competizione che per la prima volta esce dall'Europa ed è qui in Israele».
La seconda tappa, da Haifa a Tel Aviv - 132 km - ha visto primeggiare l'italiano Elia Viviani: i corridori sono passati, fra l'altro, da Acco e Cesarea.
La terza tappa, da Beer-Sheva a Eilat, vede i ciclisti attraversare il deserto del Negev per 229 km.
Il Giro e la sensazione di essere in Europa
I media e l'opinione pubblica israeliani stanno vivendo con entusiasmo lo svolgimento del Giro sul loro territorio. Molto eloquente, a questo proposito, un articolo del Times of Israel intitolato "Con i riflettori sulle biciclette, il Giro d'Italia offre una pausa molto desiderata dalla realtà". Nell'articolo, la giornalista Melanie Lidman racconta: "Per poche ore venerdì pomeriggio (il 4 maggio. ndr) il Giro d'Italia ci ha trasportato in un posto completamente diverso. Fra la folla di spettatori della prima tappa del Giro, potevi essere perdonato del fatto di pensare che eri in Europa".
"Certo, era noioso che le strade fossero chiuse, tappando i gerosolimitani in casa per un giorno intero - continua la giornalista -. Ed è ancora più scocciante quando le maggiori autostrade sono chiuse di sabato e l'entrata a Eilat è chiusa di domenica".
Inoltre, come in tante altre occasioni legate al conflitto, il paese è stato assalito da giornalisti e fotiografi. Ma per la prima volta, sottolinea la Lidman "più di 600 giornalisti sono venuti a seguire la gara e, sinceramente, non hanno alcun interesse per la situazione politica. Sono qui per la gara. Per la prima volta il centro è lo sport".
(Bet Magazine Mosaico, 6 maggio 2018)
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Giro d'Italia: due sanremesi in Israele nel sogno di Fabio Aru
Un biglietto staccato d'euforia con gli zaini pronti da settimane
di Veronica Senatore
I corridori lungo il tratto desertico della terza tappa, da Be'er Sheva a Eilat
SANREMO - Da qualche ora è partita la terza tappa del Giro d'Italia. Dopo Gerusalemme e Tel Aviv, la carovana rosa sta attraversando il cuore del deserto israeliano. Da Be'er Sheva, la città dove Abramo osò piantare nella sabbia un vigneto e la sua stessa casa, nel pomeriggio i corridori giungeranno sulle rive del Mar Rosso, nel luogo del leggendario incontro fra Re Salomone e la regina di Saba, Eilat. 229 km tra funghi di pietra e ponti naturali, con l'insidia del Makhtesh Ramon: uno dei più maestosi crateri del mondo. Ammirare lo snodarsi del serpentone sarà un colpo d'occhio mozzafiato. Per sportivi, addetti ai lavori e anche curiosi locali e turisti. I media stimano che la 101esima edizione della grande corsa a tappe, la prima con partenza al di fuori dei confini europei, abbia richiamato nella Terra Promessa più di 10mila persone. Tra questi, due sanremesi.
Andrea Baldizzone e Luca Bruna, entrambi classe 1986, sono partiti lo scorso 2 maggio alla volta della Città Santa. Un biglietto staccato d'euforia con gli zaini pronti da settimane. «Siamo due appassionati di ciclismo da sempre, come potevamo perdere un simile evento? - raccontano a Riviera24.it dalla loro stanza di albergo a Tel Aviv -. Ci conosciamo fin da ragazzini e insieme abbiamo seguito innumerevoli tappe del Giro d'Italia e del Tour de France, alcuni anni fa siamo anche andati a Firenze per il Mondiale. Quando abbiamo saputo che l'edizione 2018 del Giro si sarebbe tenuta a Gerusalemme, non ci abbiamo pensato due volte a organizzare il viaggio. Ci siamo detti, perché non unire il lato sportivo a quello turistico? Siamo anche due appassionati viaggiatori e Israele era una meta che ci ronzava in testa da un po'».
Non a caso, per Israele ospitare la grande partenza del Giro d'Italia, avvenuta il 4 maggio a pochi metri dal Santo Sepolcro, il Muro del Pianto e la Spianata delle moschee, è stata (e qui citiamo le parole della direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo, Avital Kotzer Adari) "un' opportunità straordinaria per far conoscere agli italiani, e non solo, il nostro Paese", che per l'occasione è stato trasformato in un inaudito contenitore di eventi, con strade e locali vestiti a festa. «Siamo stati accolti da una macchina organizzativa caldissima - proseguono i due amici -. Sinceramente non ce lo aspettavamo. In concomitanza alle prime due tappe, ovunque abbiamo trovato musica, party, palloncini e striscioni rosa. In giro, poi, tantissima gente, soprattutto israeliani, adulti e giovanissimi che si divertivano a fare le foto con i corridori. Con alcuni abbiamo anche stretto amicizia e parlando abbiamo scoperto che, nonostante le varie polemiche che sono sorte, la manifestazione era molto attesa fra la gente sotto diversi punti di vista».
E in effetti, in un momento storicamente complesso come quello attuale, lo scatto della crono individuale di apertura alle 13.50 di venerdì scorso ha avuto per Israele l'effetto benefico e galvanizzante di una mini Olimpiade. Gli aeroporti nazionali hanno visto sbarcare un esercito pacifico di circa 2000 uomini tra ciclisti, allenatori, tecnici e meccanici, più i 600 giornalisti e le 70 troupe televisive accreditate e arrivate da ogni parte del mondo. Il tutto nel mese in cui Israele festeggia i 70 anni dalla sua fondazione (il prossimo 15 maggio), e con un investimento da parte del Governo di 7,5 milioni in aggiunta ai 20 messi a disposizione dal magnate ebreo-canadese Sylvan Adams.
(Riviera24, 6 maggio 2018)
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Un lampo azzurro. Viviani si consacra nel delirio di Tel Aviv
di Luca Gialanella
TEL AVIV - La volata finisce tra migliaia di mani che battono, esultano, non si fermano mai. Il terreno vibra, è il cuore di Tel Aviv che non smette di battere. E dov'è Elia, dov'è la gioia irrefrenabile dell'olimpionico? Il veronese quasi non si vede più, anzi no, eccolo lì il nuovo profeta di Israele, è una delle tessere di questo mosaico umano che ondeggia di gioia e trasforma il lungomare di Tel Aviv nello stadio del cuore del ciclismo. Che spettacolo, che amore per il Giro d'Italia. Elia Viviani, il gigante di Rio 2016, vince lo sprint su strada più importante della carriera, e anche lui si commuove. Per l'emozione e per i brividi che hanno dato decine e decine di migliaia di persone, in tutta la tappa.
Casual
Gerusalemme è stato l'inizio, le mura della Città Vecchia, l'atmosfera mistica che avvolge venerdì la cronometro inaugurale del Giro 101: qui la nuova era della corsa Gazzetta si fonde con la storia millenaria della civiltà. Ieri a Tel Aviv le radici di questo sport centenario affascinano i giovani che vivono tra start-up e movida nella città più cool di Israele. La top model Bar Refaeli è casual sul palco, come se avesse appena lasciato gli ombrelloni di paglia sulla spiaggia: in jeans e maglia rosa, dà la casacca di leader all'australiano Rohan Dennis, che la strappa a Dumoulin grazie al successo sul traguardo volante che gli porta 3" di abbuono (ne aveva due di ritardo). Spiritualità, tradizioni, futuro: è la chiave vincente che accompagna questa indimenticabile Grande Partenza. E l'ambasciatore italiano, Gianluigi Benedetti, non se ne perde una scena.
Esaltazione
Il cuore di Israele è Haifa, la città esempio di convivenza tra ebrei e musulmani: in migliaia al via davanti allo stadio, non prima di essere passati al metal detector. La passione di Israele per il ciclismo è la fuga del canadese Boivin, che insegue e raggiunge Davide Ballerini e Lars Bak, e li stacca tra l'entusiasmo folcloristico (131 km di attacco). Il calore di Israele sono i tifosi a torso nudo che a piedi incitano Boivin sulla salita di Zikhron Ya'aqov, o che gli corrono vicino in bici: un tifo genuino, che rimanda ad anni in cui non c'erano transenne a bordo strada e veder passare i corridori era la festa del paese. L'entusiasmo di Israele sono i cavalcavia sulla superstrada verso Tel Aviv stracolmi di gente, i bambini con le bandierine in mano, i poliziotti che faticano a tenere a freno questa passione per la bici. E gli ultimi dieci chilometri sono un crescendo che porta verso l'acuto nell'arena del lungomare. Credeteci: ci ha emozionato vedere queste scene a 2700 chilometri dall'Italia, dalle tradizioni del ciclismo. All'estero, solo l'Olanda è inarrivabile per le persone sulle strade. Ma scene come quelle di ieri a Tel Aviv entrano di diritto nell'album dei giorni più belli nella storia del Giro: come essere nello stadio naturale dello Zoncolan o tra «gli indiani» che attendono i corridori sul crinale del Colle delle Finestre, tra lo sterrato.
Status
Con la volata di Tel Aviv, Viviani chiude il cerchio della sua maturazione. Genova 2015 al Giro, poi Rio 2016 nell'omnium su pista e adesso un'altra città di mare, con uno status da primo della classe. A 29 anni avrà perso la spensieratezza, ma sta diventando implacabile, grazie alla QuickStep Floors che si trasforma in un trampolino verso il successo. Settimo sigillo nel 2018, 56 in totale: non aveva altra scelta che vincere, il profeta Elia, e non ha sbagliato. Jakub Mareczko, 24 anni, l'italiano più vincente delle ultime tre stagioni, ha cercato il colpo a sorpresa ai 300 metri, in maniera un po' inusuale, lui che è bravissimo ad appiattirsi sul manubrio per spuntare negli ultimi 50 metri. Una «fucilata» tutta a sinistra, ma Viviani, che si era perso con Sabatini dopo un gran lavoro di Stybar, gli salta a ruota e si gode l'estasi del trionfo, prima delle lacrime. Il Giro lo riabbraccia dopo tre anni ed è il palcoscenico perfetto per il veronese che ha ridato all'Italia un oro olimpico al maschile dopo 20 anni. Lui, simbolo di un movimento che nei velodromi è tornato protagonista, pioniere che ha lanciato la generazione di Ganna e Consonni e convinto tanti giovani ad abbracciare la pista. L'ultima doppietta italiana al Giro era stata a Lugano 2015, in Svizzera (guarda caso, ancora estero): Modolo su Nizzolo.
Deserto
Oggi il viaggio rosa di Israele si chiude con la tappa più temuta: l'attraversamento del Negev, «il deserto scolpito», prima dell'arrivo a Eilat, sul mar Rosso, dove Israele, Egitto e Giordania sono racchiuse in un fazzoletto. Si parte da Be'er Sheva, la città dei sette pozzi, fondata da Abramo. E poi, dopo il traguardo volante di Sde Boker, dove c'è il kibbutz casa di Ben Gurion, uno dei padri della patria, ecco il deserto: 130 km. Arido, sassoso, senza alberi, la terra è dura, eppure da qui arriva il 50% delle esportazioni agricole di Israele grazie a tecnologie d'avanguardia; c'è anche la strada del vino, con i vigneti bagnati da acqua desalinizzata. Ci sono accampamenti di beduini; bisogna attraversare Mitzpe Ramon, il più grande cratere al mondo, lungo 40 km e profondo mezzo chilometro, e qui vivono anche gli stambecchi. Sarà una lotta per la sopravvivenza di 229 chilometri, con temperature di quasi 40 gradi e venti di traverso. Attenzione ai ventagli: se il gruppo si spezza, Eilat e il mare sono un miraggio. È una tappa temuta da Fabio Aru, che non si può permettere di perdere altro tempo dopo i 50" della crono. Ieri il sardo è stato attentissimo in corsa, ben protetto da Marco Marcato, la sua guida: emblematico il momento in cui il padovano è sfilato alla destra del sardo, gli ha toccato la schiena e l'ha portato in testa, fuori da una situazione critica. Chris Froome, da parte sua, avrà al fianco passisti abituati alla lotta come Puccio, Kiryienka e Knees: «Sto recuperando dalla botta della crono, non è nulla di particolare, la strada è ancora molto lunga». Sì, oggi sarà un giorno lungo.
(La Gazzetta dello Sport, 6 maggio 2018)
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In Israele c'è tanto azzurro. Viviani fa suo il primo sprint
Volata vincente del campione di Rio, secondo Mareczko, italiano di origini polacche. L'australiano Dennis in rosa .
di Pier Augusto Stagi
Bar Refaeli veste in rosa Rohan Dennis
A Tel Aviv, nella città dei piaceri e della movida, si divertono un sacco Elia Viviani e Rohan Dennis. Sono loro i volti di questo Giro 101 che scalpita e freme.
Nella città gaudente, sono loro a godere: l'azzurro regala subito una vittoria di tappa all'Italia e l'australiano, che nella crono di Gerusalemme aveva masticato amaro, gustato il sapore della rosa fin quando non è arrivato come un bolide l'ultimo corridore, Tom Dumoulin, si prende una bella rivincita. Soprattutto si prende la maglia rosa. Ma abbiate pazienza, e andiamo con ordine.
Un anno fa, in tutto il Giro, l'Italia del pedale ha raccolto solo uno straccio di vittoria. In verità è una vittoria di peso, perché ottenuta da Vincenzo Nibali nel tappone più spettacolare: quello dello Stelvio. Quest'anno andiamo subito a segno. Prima volata e prima vittoria, con il nostro velocista principe: Elia Viviani, che sul traguardo di Tel A viv, alla fine dei 167 km della tappa partita da Haifa, supera nettamente l'azzurro d'origine polacca Jakub Mareczko. Per Viviani tappa e maglia, visto che grazie agli abbuoni finali, e a quelli parziali raccolti lungo la tappa, veste anche la maglia ciclamino della classifica a punti che sogna di poter indossare anche a Roma. Per il veronese si tratta del secondo successo in carriera al Giro d'Italia dopo la Albenga-Genova del 2015.
Sul traguardo Tel Aviv, gremitissimo di pubblico, è proprio Mareczko a provare il colpo a sorpresa. Il 24enne scatta sulla sinistra, quando al traguardo mancano 250 metri. Elia Viviani, che è a ruota dell'irlandese Sam Bennett, è abile e pronto a prendergli immediatamente la ruota e a superarlo a velocità doppia. I battuti Mareczko e Bennett.
Nella città che non dorme, è sveglissimo il 27enne australiano di Adelaide Rohan Dennis, il quale dopo aver accarezzato il sogno rosa nella crono di apertura per un paio d'ore, si prende la rivincita. Il colpo gli riesce quando al traguardo mancano una sessantina di chilometri, e con i tre secondi di abbuono del traguardo volante di Cesarea, dopo 105.3 km (davanti a Elia Viviani e al belga Jurgen Roelandts), sfila all'olandese la maglia per un solo secondo.
«A Gerusalemme non sono riuscito a vincere la crono - ha detto Dennis, ex primatista dell'ora -, ma sapevo che ero dietro solo di due secondi. Anzi, per la precisione di 1.3 secondi. Così ci siamo organizzati con la squadra, per tentare nel secondo sprint. Alla fine è stata quasi una sfida tra uomini di classifica. In realtà non ero convintissimo di provare il traguardo volante, ma il mio team ha insistito e mi ha spronato a provarci. Cosa posso dire? È davvero speciale per me vestire la maglia rosa».
Da queste parti c'è un detto: a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e a Tel Aviv ci si diverte. Viviani e Dennis si sono divertiti un sacco. Oggi terza tappa, l'ultima in Israele. Si va da Be'er Sheva a Eilat, 229 km di percorso leggermente ondulato. Vento permettendo, tappa per corridori veloci: come Elia Viviani. Forse possiamo divertirci ancora un po'.
(il Giornale, 6 maggio 2018)
La sfida Israele-Iran e gli interessi italiani
di Alessandro Orsini
L'Italia spera che Trump, chiamato a decidere entro il 12 maggio, non stracci gli accordi con l'Iran. Nessuno può prevedere il futuro, ma il presente non è rassicurante. Alcuni giorni fa, Netanyahu ha denunciato il tentativo segreto dell'Iran di costruire sei bombe atomiche. Teheran ha smentito, ma Trump ha immediatamente rilanciato la denuncia: "Netanyahu dimostra che avevo ragione al cento per cento". È chiaro che il premier israeliano sta cercando di aiutare Trump a ritirarsi dagli accordi ed è noto che iniziative pubbliche così eclatanti vengono sempre concordate tra governi alleati. Il caso dell'Iran pone una sfida importante e difficile alla diplomazia italiana. La sfida è importante perché 11talia è da poco tornata a essere il principale partner commerciale dell1ran in Europa. I dati Eurostat dicono che. nel 2011 l'interscambio commerciale Iran-Italia era pari a 7 miliardi di euro per poi precipitare a 1,3 miliardi nel 2013, a causa delle sanzioni contro Teheran scattate nel 2012. La sfida è difficile perché gli interessi strategici dell'Italia sono in contrasto con quelli di Israele, di cui Trump è il grande protettore.
Cerchiamo di capire il campo di forze in cui si muovono gli interessi italiani.
Israele considera l'Iran un nemico mortale. A molti italiani un simile timore sembra incomprensibile, ma diventa razionale se acquisiamo un'informazione fondamentale sul modo in cui funziona la mente degli statisti. I capi di Stato hanno una percezione del tempo molto diversa rispetto a quella delle persone comuni, le quali sono chiamate a elaborare strategie di breve periodo per sopravvivere: l'acquisto della casa o l'educazione dei figli sono problemi che iniziano e finiscono nel volgere di vent'anni. I capi di Stato, invece, sono consapevoli che le loro scelte possono ripercuotersi nei secoli. Netanyahu è atterrito dall'Iran perché non percepisce il tempo in base alla durata della sua vita biologica, bensì in base alla vita politica dello Stato che guida. Nella sua mente, lo Stato d'Israele continuerà a esistere anche tra duecento anni e vuole assicurarsi che nessun Paese del mondo potrà mai trovarsi nella condizione di distruggerlo. Pensare a un attacco dell'Iran contro Israele appare irrealistico, oggi. Tuttavia, potrebbe accadere tra cent'anni, soprattutto se il regime di Teheran riuscisse a costruire la bomba atomica. Le conseguenze di questo modo di percepire il tempo sono due. La prima, nel medio periodo, è che Netanyahu cerca di spingere gli Stati Uniti a una guerra contro l'Iran, nella speranza che il regime iraniano venga abbattuto come quello di Saddam Hussein. Sarebbe il trionfo strategico di Netanyahu, il quale otterrebbe il massimo risultato senza dispendio di soldati. La seconda conseguenza, di breve periodo, è che Netanyahu opera affinché Trump si ritiri dagli accordi voluti da Obama per impoverire l'Iran con le sanzioni. Credere che Netanyahu operi in questo modo perché è un uomo "malvagio" significa essere privi di una concezione realistica della politica internazionale. Per comprendere le mosse di Netanyahu, dobbiamo tornare al modo in cui i capi di Stato percepiscono il tempo. L'Iran, diventando sempre più povero, produrrà meno missili, che peraltro fornisce anche ad Hamas, e dovrà rallentare la sua ascesa in Siria, verso i confini israeliani. In tal modo, anche quando Netanyahu sarà trapassato, rimarrà nella condizione di non poter attaccare Israele, ma di essere attaccato.
Tuttavia, il ragionamento strategico di Netanyahu non si confronta con due problemi fondamentali. Il primo è che gli Stati Uniti non sono onnipotenti e potrebbero perdere un'eventuale guerra con l'Iran oppure non vincerla: in Vietnam hanno perso e in Siria non hanno vinto. Inoltre, l'Iran è un Paese che oggi gode della protezione di Putin, il quale si batterebbe con ogni forza per difenderlo dagli americani. Il secondo problema è che le sanzioni non sempre scoraggiano i governi dalla costruzione della bomba atomica, come dimostra il caso della Corea del Nord. La guida suprema dell'Iran, percependo il tempo come Netanyahu, potrebbe temere per la vita del suo Stato e seguire le orme di Kim Jong-un. Francia e Germania stanno operando affinché Trump non si ritiri dagli accordi con l'Iran. Manca il sostegno dell'Italia, diretta interessata, ma priva di un governo forte e stabile.
(Il Messaggero, 6 maggio 2018)
"Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito"
Poi Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco, un uomo di nome Zaccheo, che era capo dei pubblicani ed era ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse innanzi, e per vederlo montò su un sicomoro, perché doveva passare per quella via. Quando Gesù arrivò in quel luogo, alzò gli occhi e gli disse: "Zaccheo, scendi presto, perché oggi debbo venire a casa tua". Ed egli s'affrettò a scendere e l'accolse con gioia. Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: è andato ad alloggiare da un peccatore! Ma Zaccheo, fattosi avanti, disse al Signore: "Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo". Gesù gli disse: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo: perché il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito".
Dal Vangelo di Luca, cap. 19
Etiopia-Israele - Accordi di cooperazione nei settori della salute, dell'istruzione e dell'energia
ADDIS ABEBA - I governi di Etiopia e Israele hanno firmato una serie di accordi di cooperazione nei settori della salute, dell'istruzione e dell'energia. Gli accordi, secondo quanto riferisce un comunicato del ministero degli Esteri etiope, sono stati siglati in occasione di un business forum congiunto al quale ha preso parte il presidente israeliano Reuven Rivlin, in visita ad Addis Abeba. La visita di Rivlin è iniziata mercoledì scorso quando è stato ricevuto dall'omologo etiope Mulatu Teshome. Al centro dei colloqui ci sono state le principali questioni bilaterali, in particolare nei settori del commercio, degli investimenti, dell'agricoltura, della scienza e della tecnologia. Nel corso dell'incontro il presidente Teshome ha sottolineato la necessità di sfruttare appieno il potenziale non sfruttato della cooperazione bilaterale nei settori delle scienze, della tecnologia, dell'istruzione e della sanità. Il presidente Rivlin, da parte sua, ha promesso il costante impegno del suo paese nel sostenere le riforme avviate dal governo etiope per assicurare pace e prosperità nel paese africano. Il volume degli scambi commerciali tra i due paesi ha superato i 160 milioni di dollari nell'ultimo anno.
(Agenzia Nova, 6 maggio 2018)
Siria, incontro mercoledì a Mosca tra Putin e Netanyahu
"Per discutere gli sviluppi regionali"
ROMA - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu incontrerà mercoledì prossimo a Mosca il presidente russo Vladimir Putin "per discutere gli sviluppi regionali". E' quanto si legge in un comunicato diffuso oggi dall'ufficio del premier e riportato dai media israeliani.
Si tratta del primo incontro tra Netanyahu e Putin dopo che Mosca ha accusato Israele per l'attacco missilistico messo a segno all'inizio di aprile contro l'aeroporto militare T-4, nei pressi della città siriana di Homs; sarà invece l'ottavo faccia a faccia tra i due leader degli ultimi due anni.
In un'intervista concessa due giorni fa al quotidiano russo Kommersant, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha invitato la Russia a rispettare "i nostri interessi di sicurezza", sottolineando che Israele ha sempre tenuto in considerazione gli interessi russi in Siria. Israele "non interferirà negli affari interni siriani", ha aggiunto Lieberman, ma "quello che noi non consentiremo è che l'Iran trasformi la Siria in una testa di ponte avanzata contro di noi".
(askanews, 5 maggio 2018)
Bibbia: ennesima scoperta rivelerebbe la veridicità del Testo Sacro
Un importante scoperta archeologica dimostrerebbe che alcuni personaggi della Bibbia sono realmente esistiti.
Gli archeologi sono convinti di aver trovato la prova che dimostri che re David di Israele è un personaggio storico. Da moltissimi anni è aperto un dibattito sull'esistenza del mitico re, poiché non esiste nessuna prova reale che dimostri che è esistito oltre alla citazione nella Bibbia. La prova sarebbe quella che è stato scoperto un antico palazzo che secondo gli studiosi sarebbe appartenuto al re David. Ma andiamo a vedere insieme la notizia.
È veramente il palazzo del re David?
Gli archeologi e gli studiosi della Bibbia sono convinti di aver fatto una scoperta molto importante, poiché sono certi di aver trovato, in Israele, un'antica città una volta appartenuta al re David, il personaggio di cui ci parla la Bibbia.
La scoperta sarebbe di fondamentale importanza poiché dimostrerebbe che il re biblico è esistito. Da secoli imperversa un dibattito mondiale sull'esistenza di questo re tanto famoso. Da dieci anni, una squadra di archeologi sta scavando a Tel Eton, sulle colline di Hebron in Israele e recentemente ha portato alla luce quelle che sembrano essere delle antiche rovine di un antico castello. Questo enorme edificio, con quattro camere da letto, risale al X secolo avanti Cristo secondo quanto rivelato dalla datazione al carbonio. Sono stati dissotterrati centinaia di manufatti tra cui una vasta gamma di vasi di ceramica, molti oggetti di metallo e resti botanici. Inoltre sono state ritrovate molte punte di frecce, che sarebbero la prova della battaglia che ha accompagnato la conquista del sito da parte degli Assiri.
Il re David è veramente esistito?
Il professore Avraham Faust, che dirige la squadra, afferma che la costruzione di questo grande palazzo in cima a questa enorme tumulo, simile ad una collina, era stata effettuata nello stesso periodo in cui vi era stata un'enorme crescita della città. Nello stesso tempo dimostrerebbe che un grande evento stava accadendo nello stesso periodo, cioè l'istituzione del primo monarca. Il dottor Faust ha dichiarato in un'intervista che la sua squadra non ha trovato, però, l'esistenza di manufatti riconducibili all'esistenza del re, ma nello stesso tempo, la scoperta mostra perfettamente i segni di una trasformazione sociale che sicuramente si potrebbero associare a un cambiamento dalla cultura cananea a quella giudaica. In quel periodo si stava infatti diffondendo il Regno di David e questo edificio faceva parte degli eventi citati nella Bibbia. Come sempre non ci resta che attendere il parere degli esperti.
(Blasting News, 5 maggio 2018)
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Scoperta vicino a Gerusalemme quella che potrebbe essere la città perduta di re Davide
di Noemi Penna
In volo con il drone sul sito archeologico di Tel Eton
Esiste davvero la città perduta di re Davide? Gli archeologi sostengono di aver trovato vicino a Gerusalemme le rovine di un villaggio risalente al mille avanti Cristo che avrebbe legami con la storia biblica.
Davide, re d'Israele, è una figura importante per tutte le religioni abramitiche: nell'ebraismo, da David della tribù di Giuda discende il Messia; nel cristianesimo è un antenato di Giuseppe, padre putativo di Gesù: nell'islamismo, invece, è considerato un profeta.
Le sue vicende sono raccontate nel primo e nel secondo libro di Samuele, nel primo libro dei Re e nel primo libro delle Cronache. Ma anche se alcuni lo considerano una figura leggendaria paragonabile a re Artù, c'è chi sostiene di aver trovato dei plausibili legami alla storia raccontata nella Bibbia.
Lo scavo, guidato da Avraham Faust della Bar-Ilan University, ha riportato alla luce a Tel Eton, nella Giudea Shefelah, non lontano da Lachish, un tumulo artificiale costituito su fondamenta antiche, ovvero quella che si pensa essere Eglon, la città appartenente alla tribù di Giuda citata nella sacre scritture.
La datazione al radiocarbonio eseguita sulla pavimentazione e dei frammenti di fondamenta di un'abitazione dimostra che la città risale all'incirca allo stesso periodo in cui è vissuto re Davide.
«Come gli stessi archeologi ammettono, non è la prova dell'esistenza di Davide. E' la Bibbia ad attribuire a Davide e Salomone la formazione di un regno nella terra di Canaan, non l'archeologia», tiene a ricordare Francesca Stavrakopoulou dell'University of Exeter. Ma il professor Faust non ha dubbi sulle coincidenze evidenziate. «Fino a 25 anni fa nessuno dubitava che Davide fosse una figura storica». In ogni caso la scoperta ha portato alla luce quella che sembra essere una tipica casa israelita, comune nell'antico Israele ma rara altrove che «indicherebbe l'influenza del regno di Davide».
Ora, «a meno che non si trovino iscrizioni e consistenti riferimenti a re Davide risalenti al decimo secolo avanti Cristo, tutto questo rimarrà solo una leggenda». Ma la ricerca continua, così come gli scavi, che sono visitabili su appuntamento.
(La Stampa, 6 maggio 2018)
Settanta anni di agricoltura: dal deserto ai giardini
Si è passati dai trattori alle tecnologie computerizzate che consentono di coltivare anche su muri verticali. Oggi si produce il 90% del fabbisogno alimentare.
di Mila Fiordalisi
Determinazione, ingegno, passione. Sono questi i "fertilizzanti" che hanno letteralmente trasformato in appena 70 anni il territorio di Israele. Sorprendente, ai limiti dell'immaginabile, persino il pensiero che un territorio tanto difficile per la sua natura desertica e la scarsità di risorse idriche avrebbe potuto evolversi al punto da far balzare il Paese nelle classifiche internazionali annoverandolo fra le best practice mondiali nel settore dell'agricoltura. E a giudicare dai numeri - quelli relativi alla superficie coltivata e al business - e dalle innovazioni tecnologiche "brevettate" in particolare nell'ultimo decennio, la storia è destinata a riservare ancora molte sorprese.
Dal 1948 ad oggi - stando ai dati pubblicati sul sito Internet dell'Ambasciata d'Israele in Italia - la superficie coltivata totale è aumentata di 2,6 volte fino a raggiungere circa 440.000 ettari e nell'ultimo mezzo secolo il numero di insediamenti agricoli è cresciuto da 400 a 750. Ancora: Israele è in grado di produrre oltre il 90% del proprio fabbisogno alimentare dando lavoro a quasi 3 milioni di persone. Ma soprattutto Israele è considerato la "serra d'Europa" grazie alle esportazioni di frutta e verdura - in particolare agrumi ma anche meloni, fragole, kiwi, mango, e avocadi e poi pomodori, cetrioli, peperoni - nonché di fiori, in pole position rose a gambo lungo e garofani. Persino il pomodoro Pachino, fra le eccellenze italiane, deve i suoi natali all'ingegno israeliano: era il 1989 quando Hazera Genetics, azienda biotech israeliana portava in Sicilia attraverso l'allora Comes Spa (poi Cois 94 Spa) la varietà di pomodoro a grappolo Rita e il ciliegina Naomi, divenuto poi il famoso pomodoro di Pachino, il comune del Siracusano che lo ha fatto proprio.
Se il passato ha già dato prova di grande innovazione è sul futuro che si riversano ambizioni ancor più all'avanguardia. Laddove non si può coltivare in "orizzontale" perché non sfruttare le "altezze"? Questa un'altra delle geniali idee degli israeliani già messa in pratica e mostrata al grande pubblico in occasione dell'Expo 2015. All'interno del padiglione "Fields of tomorrow" è stato realizzato un vero e proprio campo "verticale", una parete vegetale alta 70 metri in grado di autoalimentarsi attraverso un innovativo sistema di irrigazione cosiddetto a goccia che modula le necessità idriche tenendo conto della diversità delle singole piante, della temperatura e dei livelli di umidità esterni, delle stagioni e dell'alternarsi giorno-notte.
I campi verticali rappresentano solo una delle novità made in Israele. Le soluzioni di nuova generazione pronte a sbarcare sul mercato saranno annunciate in occasione dell'Agritech Israel, una della più importanti Fiere mondiali dedicate all'innovazione in agricoltura in programma dall'8 al 10 maggio prossimo a Tel Aviv. "L'agricoltura nelle regioni aride e semi-aride" il tema scelto per l'edizione 2018, un'edizione "speciale", visto che quest'anno cade il ventennale della Fiera.
I riflettori sono puntati sulle iniziative ed i progetti portati avanti dalle grandi aziende del comparto affiancate dai team dei centri di ricerca e delle università: è sulla cooperazione pubblico-privato che si gioca infatti sempre più la partita dell'innovazione in agricoltura che vede fra l'altro il proliferare di un ampio numero di startup finanziate dallo Stato e dai venture capitalist. Stando alle rilevazioni di Start-Up Nation Centrai ammontano a 460 le agritech company israeliane, il 25% fondato negli ultimi cinque anni e il 50% negli ultimi dieci. E nei soli primi sei mesi del 2017 in Israele è aumentato del 7% il valore degli investimenti in tecnologie per l'agricoltura.
L'agritech è inoltre considerato - insieme con l'industria portuale - il settore più promettente nelle politiche di interscambio tra Italia e Israele. "Israele è uno dei leader mondiali nell'ambito delle tecnologie agricole - si legge nel report 'Il business italiano in Israele' a cura di Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (Srm) -. Il fatturato esportato del settore è stimato in circa 4 miliardi di dollari all'anno. E negli anni scorsi, sono stati investiti circa 90-100 milioni di dollari ogni anno in attività di ricerca e sviluppo, rendendo Israele leader mondiale nell'allocazione di fondi in questo particolare settore".
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Netanyahu carica l'lsrael Academy «Siete come David contro Golia»
Il premier ha fatto visita al team israeliano. Per le strade tante maglie azzurre e cappelli Ferrari
di Massimo Lopes Pegna
GERUSALEMME - Le immagini della Città Santa dall'elicottero tolgono il respiro. Proprio quelle che Governo e organizzatori avevano in mente di mandare in giro per il mondo. Un evento storico per il Giro, ma soprattutto per Israele: uno spot pubblicitario senza precedenti, che per almeno tre ore è entrato nelle case di un miliardo di persone. Ciclismo e Gerusalemme: con la speranza di essere un richiamo turistico straordinario. E un coinvolgimento dello Stato mai visto prima in altri Paesi. Nonostante le numerose grane di questi giorni, il premier Benjamin Netanyahu non ha resistito all'opportunità di farsi vedere. Dicono che per motivi di sicurezza abbia evitato la partenza del primo corridore, l'italiano Fabio Sabatini, e di presenziare sul palco delle autorità all'arrivo. Invece, un paio d'ore prima del via, accompagnato dalla moglie Sarah, si è presentato alla Torre di David, luogo mistico a un passo dalla porta di Jaffa, per salutare i ragazzi della Israel Cycling Academy, la prima e unica squadra locale a partire in un grande Giro.
Emozione
Al principio un discorso distensivo rivolto alla platea internazionale: «Siamo emozionati per questa gara. In particolare ci felicitiamo che siano venuti ciclisti da tutto il mondo, incluso quello arabo. Questo è un messaggio molto importante per Gerusalemme, la nostra città: la città della pace». Ha stretto le mani a tutti, anche al nostro Kristian Sbaragli, unico italiano del team. Poi si è guardato intorno, ha indicato la torre di David, e ha ordinato di andare là fuori, su queste strade, a emulare ciò che fece proprio quel grande re contro Golia: «Perché David siete voi, ricordatelo!». E ha aggiunto: «L'intero Paese è con voi: sarebbe bello che tutti insieme potessimo spingervi. È davvero un momento importante per Israele e il nostro sport». Raccontava Tsadok Wecheskelu, portavoce della squadra: «Il premier si è intrattenuto con Guy Niv, uno dei nostri due ragazzi che fino a un anno fa non era mai salito su una bici da strada in gara: ha voluto vedere il computerino per controllare la sua potenza massima». Perché pare che fuori dai tavoli ufficiali, Bibi sia persino simpatico. Il benefattore del ciclismo israeliano e della Ica, il canadese Sylvan Adams, aggiungeva: «L'ho incontrato molte volte in questi ultimi mesi, sempre informato sui progressi del progetto. Mi ha detto che non poteva rimanere per la corsa: aveva un pomeriggio intenso con impegni telefonici con il ministro australiano e altri capi di Stato». A fare le sue veci c'erano il ministro del turismo Yariv Levin e della cultura e sport, Miri Regev, e naturalmente il padrone di casa, il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat.
Folla
Ma la vera festa era per le strade. Transenne zeppe di gente alla partenza e all'arrivo: incuriositi dalla novità di un'esperienza forse irripetibile. Ricardo e Diana Goodman, emigrati da Bogotà quindici anni fa, avevano viaggiato da Eilat e ci torneranno domani al seguito della Corsa: «Tifiamo per Lopez», Ma non sapevano che fosse caduto durante l'allenamento della mattinata. Kfir Dror di 14 anni era lì al suo posto di sentinella con la maglia della Nazionale italiana, arrivato da Tel Aviv con il suo papà: «Sono tifoso di Buffon, De Rossi e Nibali», diceva. Accanto a lui un altro bambino con il cappellino Ferrari e la voglia un giorno di inforcare la bici. Tanti sono venuti con la divisa delle loro società, quasi tutte di mountain bike: «Ma un'occasione così quando ricapita? Forse mai più», si chiedeva e si rispondeva Guy, che abita fra Haifa e Tel Aviv e si era fatto oltre due ore di macchina. Per cinque volte era andato in Europa a seguire il Tour de France ed era felice di assistere a questo momento memorabile per il suo Paese: «Una festa». Il gruppo di olandesi, che davanti al podio si sgolava per Dumoulin, vive qui in Israele: venuti dalla Galilea, il nord, scommettendo sulla vittoria del loro eroe.
Il futuro
Sul palco, tronfio e orgoglioso, il sindaco Barkat abbracciava la prima maglia rosa di questo Giro 101: ha preteso che la Corsa partisse da Gerusalemme e ha vinto. Ora pensa alla politica nazionale e a un seggio alla Knesset, il Parlamento. L'altro giorno confessava che anche l'operazione Giro, ora andata a buon fine, potrebbe fargli guadagnare qualche voto. Intanto, come fosse un sipario, calava l'oscurità e lo Shabbat: Gerusalemme saluta, passa e chiude.
(La Gazzetta dello Sport, 5 maggio 2018)
Abu Mazen: «Mi scuso se ho offeso gli ebrei» Ma Israele non ci crede
Il dietrofront del presidente Anp. Riconfermato alla guida dell'Olp
GERUSALEMME - Il presidente palestinese Abu Mazen si è scusato per le parole inaccettabili sugli ebrei pronunciate il 30 aprile a Ramallah (Cirgiordania), in un discordo trasmesso in direttaTv, durante la riunione del Consiglio nazionale palestinese (l'organo legislativo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina). «Se qualcuno è rimasto offeso dalla mia dichiarazione, in particolare qualcuno di fede ebraica, mi scuso», ha detto ieri Abu Mazen (82 anni). «Ribadisco il mio totale rispetto per la religione ebraica, così come per le altre religioni monoteiste ha aggiunto -. Voglio anche ribadire la nostra condanna dell'Olocausto come il peggior crimine della storia, ed esprimere la nostra solidarietà con le sue vittime». Il leader dell'Anp ha quindi stigmatizzato «l' antisemitismo in tutte le sue forme». Frasi che contrastano con evidenza quelle pronunciate solo pochi giorni fa, quando il presidente aveva negato il legame tra gli ebrei e la terra di Israele, sostenendo che se «sono stati massacrati periodicamente nei secoli» è a causa dei loro «comportamenti sociali, legati alle attività bancarie e all'usura», e non certamente per la loro identità religiosa. Quelle dichiarazioni hanno suscitato un'ondata di forte indignazione in Israele e in tutto il mondo. E difficilmente verranno cancellate da un disinvolto dietrofront. Anche perché non è la prima volta che Abu Mazen utilizza espressioni discutibili contro il popolo ebraico. In gennaio, sempre durante i lavori dell'Olp, aveva definito Israele un «progetto coloniale che nulla ha a che fare con l'ebraismo». A marzo aveva dato del «figlio di un cane» all'ambasciatore americano in Israele, David Friedman, ebreo praticante, perché «colono figlio di coloni».
I toni di Abu Mazen si sono inaspriti a partire dal dicembre scorso, in seguito alla decisione del presidente americano Donald Trump di spostare l' ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconosciuta di fatto come capitale di Israele. E i picchi hanno conciso con le riunioni in sede Olp, a suggerire l'evidente ricerca di legittimazione da parte di un presidente fortemente indebolito nel suo ruolo. Ieri l'Olp lo ha riconfermato a capo del Comitato esecutivo (con l'opposizione di Hamas, che non ha riconosciuto gli esiti della riunione). Ma il "risultato" non attenua la gravità delle posizioni espresse. «È un patetico negazionista. Questo è quello che dovrebbe essere considerato», ha detto il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman. «Le sue scuse non sono accettate».
(Avvenire, 5 maggio 2018)
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"Le parole di Mahmoud Abbas esempio tipico di antisemitismo"
di Daniel Reichel
Too little, too late, dicono gli inglesi. Così suonano le scuse diffuse in queste ore dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas dopo le sue recenti e vergognose dichiarazioni antisemite. Abbas, in un discorso pubblico, è arrivato a sostenere che i "comportamenti sociali" tenuti dagli ebrei, come "l'usura, le banche e cose del genere" siano state la causa della Shoah. Affermazioni duramente condannate da Israele ma anche a livello internazionale. "In qualità di presidente dell'International Holocaust Remembrance Alliance(IHRA), sono rimasto costernato e molto preoccupato dai commenti espressi dal presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, il 2 maggio, in cui ha usato stereotipi antisemiti", ha affermato l'ambasciatore Sandro De Bernardin, capo delegazione dell'IHRA, sottolineando come "fare accuse mendaci sugli ebrei che controllano l'economia è un esempio tipico degli stereotipi antisemiti denunciati nella definizione di antisemitismo dell'IHRA. I tentativi di incolpare gli ebrei di aver causato il proprio genocidio sono un chiaro caso di distorsione della Shoah, come indicato nella Working Definition of Holocaust Denial and Distortion". L'ambasciatore De Bernardin ha invitato la comunità internazionale a difendere la terribile verità della Shoah "contro coloro che la negano. Dobbiamo rafforzare l'impegno morale dei nostri popoli, e l'impegno politico dei nostri governi, per garantire che le generazioni future possano comprendere le cause della Shoah e riflettere sulle sue conseguenze".
A distanza di 48 ore dal discorso antisemita, Abbas ha cercato di fare retromarcia: "se le persone sono state offese dalla mia dichiarazione, - ha detto il leader palestinese - specialmente le persone di fede ebraica, mi scuso con loro. Vorrei assicurare a tutti che non era mia intenzione farlo e ribadire il mio pieno rispetto per la fede ebraica e per le altre fedi monoteiste". "Vorrei anche ribadire la nostra ferma condanna della Shoah, come il crimine più odioso della storia, ed esprimere il nostro cordoglio alle sue vittime", ha aggiunto. Parole che però per il ministro della Difesa Avigdor Lieberman risultano oramai inutili: "Abbas è un patetico negazionista che ha scritto la sua tesi di dottorato sulla negazione della Shoah e in seguito ha persino pubblicato un libro sulla negazione della Shoah. È così che dovrebbe essere trattato e le sue scuse non sono accettate".
(moked, 4 maggio 2018)
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Abu Mazen, la Shoah, i nemici della società libera e i loro complici
Lettera al direttore del Foglio
Secondo Abu Mazen la Shoah è stata colpa anche degli ebrei. Ma di che cosa sono colpevoli secondo il leader palestinese? Di essere ebrei. Se non si fossero ostinati a sopravvivere a persecuzioni, conversioni forzate, pogrom, deportazioni e massacri nel corso dei secoli non ci sarebbe stata nessuna Shoah.
Giuliano Cazzola
Ieri come oggi, per gli antisemiti, per gli anti israeliani, essere ebrei è una provocazione inaccettabile e in alcuni casi l'unico modo per essere ebrei è quello di non dare fastidio, di non essere se stessi, di non indossare una kippah. Come ha ricordato la scorsa settimana il nostro Giulio Meotti, secondo un sondaggio dell'Unione europea già oggi il 49 per cento degli ebrei svedesi nasconde il copricapo, come il 36 per cento di quelli di Bruxelles e il 40 per cento degli ebrei di Francia. Le parole di Abu Mazen non potevano arrivare in un momento migliore: mai come oggi la libertà dell'occidente si misura anche attraverso la libertà che ha ogni ebreo di poter essere se stesso senza doversi nascondere. E chi ascolta senza indignarsi parole come quelle di Abu Mazen non è solo distratto. E' molto peggio: è un complice dei nemici della società libera.
(Il Foglio, 5 maggio 2018)
Fondo nascosto e superficie pubblica
In due soli giorni Mahmoud Abbas è riuscito a dare una rivelazione completa di sé:
nel giorno 1 ha rivelato il fondo nascosto del suo animo genuinamente antisemita;
nel giorno 2 ha esposto la superficie pubblica del suo animo radicalmente menzognero.
Lieberman auspica che i sistemi anti-missile russi non siano usati contro i caccia israeliani
GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha auspicato che i sistemi di difesa missilistica russi dispiegati in Siria non vengano usati contro i caccia di Gerusalemme. In un'intervista al quotidiano russo "Kommersant" pubblicata ieri, Lieberman ha affermato: "Abbiamo relazioni normali con la Russia e teniamo in considerazione i loro interessi". Il ministro della Difesa ha auspicato che Mosca "prenda in considerazione gli interessi israeliani nel Medio Oriente".
Lieberman ha citato anche le minacce che Teheran proclama contro Israele, affermando che "sfortunatamente non vediamo una reazione inequivocabile dall'Europa occidentale o dalla Russia, che è molto attenta a ricordare quanto avvenuto durante la Seconda guerra mondiale". Inoltre, Lieberman ha ribadito che Israele "non sta cercando alcun confronto con la Russia". Per questo, "negli ultimi anni è stato creato un dialogo aperto, chiaro e trasparente con la Russia, sia quando le nostre opinioni sono compatibili, sia quando sono incompatibili&quost;, ha detto Lieberman. Infine, il ministro della Difesa ha ricordato che lo Stato ebraico non interferirà negli affari interni della Siria, "ma non tollererà il tentativo dell'Iran di trasformare la Siria in un avamposto contro Israele".
(Agenzia Nova, 4 maggio 2018)
Israele, 70 anni di diplomazia internazionale: dall'isolamento alla partnership
Dai difficili e incerti inizi diplomatici del 1948 agli accordi strategici, economici e militari degli anni 2000
di Daniele Toscano
La diplomazia israeliana ha attraversato diverse fasi e oggi si presenta profondamente rinnovata rispetto al 1948. A seguito della proclamazione dell'indipendenza, giunsero presto i riconoscimenti delle superpotenze dell'epoca, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, interessati ad avere un avamposto in Medio Oriente. Entrambe però non diedero un appoggio incondizionato allo Stato ebraico. Mosca virò presto sui paesi arabi, cavalcando l'onda del terzomondismo; a Washington perdurò circa due decenni lo scontro tra amministrazioni più o meno favorevoli a sostenere Israele e un Dipartimento di Stato costantemente scettico su questa opzione. L'appoggio internazionale a Israele arrivò da altre aree del mondo. L'immediato riconoscimento dato dal Guatemala allo Stato ebraico costituì la base per un effetto domino presso altri Paesi dell'America latina; il Brasile fu tra i primi paesi ad accodarsi. In Europa occidentale, Francia e Regno Unito guardarono con interesse e opportunismo a Israele, come avvenne nella crisi di Suez del 1956. Da est, invece, giunsero molte tensioni dai satelliti dell'URSS, inclusa la Cecoslovacchia, che pure aveva fornito un significativo sostegno militare nella guerra del '48.
In breve, i primi anni di vita di Israele furono contraddistinti da un sostanziale isolamento, che il governo israeliano cercò di combattere coltivando relazioni con 11 paesi africani, latinoamericani ed europei. Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, una prima svolta. Gli Stati Uniti confermarono definitivamente la scelta israeliana dopo vari tentennamenti (fino al 1966 avevano persino venduto armamenti ai regimi arabi moderati). Il presidente americano Lyndon Johnson vedeva in Israele un alleato prezioso per i suoi scopi politici in Medio Oriente. Era l'inizio di una special relationship che si sarebbe consolidata ulteriormente con Nixon, eletto presidente nel 1968. L'Unione Sovietica, tra gli artefici delle tensioni delle settimane precedenti, confermava invece il proprio sostegno ai popoli arabi. Il 9 giugno, un vertice dei paesi socialisti a Mosca decise la rottura dei rapporti diplomatici con Israele. Parallelamente, si concretizzò una solidarietà terzomondista fedele al mondo arabo. Anche il continente africano fu così coinvolto dalle vicende mediorientali: qui, negli anni precedenti, Israele aveva contribuito alla formazione dei reparti militari di molti Paesi (Uganda, Etiopia, Sudafrica, Costa d'Avorio, Ghana, Repubblica Democratica del Congo), si era aperto ai mercati locali e aveva condiviso con essi le tecnologie agricole dell'epoca. Tra il '67 e il '73 vi fu un arresto di questi processi e la rottura delle relazioni diplomatiche. Questo ampio spettro di Paesi schierati sulle medesime posizioni portò anche a nuovi equilibri di forza in seno alle Nazioni Unite; la Risoluzione 3379 del 1975 giunse persino a definire il sionismo una forma di razzismo.
Solo negli anni '90, dopo il crollo del comunismo e la dissoluzione dell'URSS, c'è stata un'inversione di tendenza, che ha coinvolto tutti quei paesi fortemente ostili a Israele: tra questi anche la Cina con cui, dopo decenni di reciproca diffidenza, nel 1992 sono iniziate le relazioni diplomatiche, cresciute gradualmente fino ad una stretta collaborazione in ambito economico e militare. Dalla normalizzazione Israele è passato a forme di collaborazione molto elevate con diversi paesi, soprattutto nelle innovazioni tecnologiche, in agricoltura, nella gestione dell'acqua. Accordi economici, equilibri geo-strategici e relazioni culturali sono continuamente curati da Gerusalemme in quasi tutte le aree del mondo. Non sempre si tratta di realtà favorevoli: alcuni Paesi hanno un atteggiamento opportunistico, ma offrono delle potenzialità notevoli, specialmente sotto il profilo economico.
I lunghi viaggi che il premier Netanyahu ha compiuto in vari paesi africani, in Cina, in India, in Australia e altrove dimostrano questo rinnovato approccio alla politica estera e il moltiplicarsi degli attori con cui Israele intrattiene oggi rapporti, non ultimo le relazioni diplomatico/religiose (non sempre facili) con lo Stato del Vaticano. Restano molti ostacoli, ma se è stato possibile persino raggiungere accordi di pace con Egitto e Giordania o avvicinarsi all'Arabia Saudita, acerrimi nemici della prima ora, si può essere fiduciosi per i progressi dei prossimi 70 anni.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Le serie (gran successo) israeliane che prestano la realtà alla finzione
La narrazione in TV conquistata da ostaggi e Mossad
di Rolla Scolari
Agli israeliani non piace che Israele sia dipinto soltanto come luogo di conflitto, terra di esercito in perpetua emergenza, e di servizi segreti in continua allerta. L'immagine che il paese preferisce proiettare è quella di una quotidiana e concreta normalizzazione, dei sobborghi high-tech di Tel Aviv, la Start-up Nation dei garage e dei caffè giovani a due passi da una spiaggia sempre più ambita dai turisti, nonostante la costante minaccia di possibili scontri regionali e la realtà del conflitto israelo-palestinese. Eppure sono i soldati, gli ostaggi, gli agenti del Mossad e dello Shin Bet, le operazioni segrete per catturare membri di Hamas in Cisgiordania, o la misteriosa scomparsa di un ministro iraniano a essere al centro delle serie tv israeliane più conosciute nel mondo. La produzione televisiva e cinematografica non è certo interamente incentrata su operazioni militari e di intelligence, ma molti prodotti culturali esportati oggi via grande o piccolo schermo riguardano l'antica narrativa della sopravvivenza di una regione al centro dell'instabilità. L'esordio israeliano sul mercato internazionale racconta uno dei grandi incubi di Israele: il sequestro e la prigionia dei suoi soldati. Le avventure dell'agente della Cia Carrie Mathison in "Homeland" sono arrivate ormai alla settima stagione. La serie americana è basata sull'originale israeliano "Hatufim", "Prigionieri di Guerra": tre soldati tornati a casa dopo 17 anni di prigionia.
La storia di alcuni membri delle unità speciali Mista'arvim, agenti formati per infiltrarsi nelle comunità palestinesi, è alla base della trama di "Fauda" (caos in arabo). la serie israeliana comperata da Netlifx che, benché abbia suscitato controversie, è stata un successo in Israele e all'estero. Il comandante Doron e la sua squadra, i cui membri parlano perfettamente arabo e fingono di essere palestinesi, sono sulle tracce di un comandante di Hamas, all'origine di diversi attentati. Il giornalista Avi Issacharoff, che per anni ha seguito il conflitto israelo-palestinese e ha scritto e prodotto "Fauda", collabora ora con Netflix per la creazione di una nuova serie su un'operazione congiunta tra Mossad e servizi segreti americani, per uccidere uno dei più pericolosi terroristi al mondo.
Israele è un luogo in cui questo tipo di fiction è fin troppo concreto. Tra il 2010 e il 2012, quando "Hatufim" lasciava incollati allo schermo gli israeliani, il paese stava vivendo un dramma che ha toccato tutte le famiglie in una nazione in cui il servizio militare riguarda uomini e donne: il soldato Gilad Shalit era stato rapito nel 2006 lungo la barriera che separa Israele dalla Striscia di Gaza, e soltanto nel 2011, nel quadro di uno scambio di prigionieri con Hamas, il ragazzo è tornato a casa. E su una storia vera di spie e operazioni segrete è basato il copione di "False Flag", serie israeliana comperata dalla Fox e già andata in onda in centinaia di paesi. Bandiera falsa è, nel gergo delle intelligence, un'operazione segreta portata a termine e siglata sotto un'altra bandiera, per confondere e attribuire a un'altra nazione le colpe. La serie racconta la storia di cinque (apparentemente) comuni cittadini israeliani che si svegliano una mattina con la fotografia dei loro passaporti sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo, in seguito al rapimento di un ministro iraniano a Mosca. L'origine della trama non è fiction, è la realtà di un medio oriente intricato e perennemente inquieto che si presta alla sceneggiatura: nel 2010, in un hotel di Dubai, fu assassinato Mahmoud al Mabhouh, comandante delle Brigate Izz ad Din al Qassam, braccio armato di Hamas. La polizia degli Emirati accusò il Mossad, e pubblicò le fotografie di passaporti europei e australiani utilizzati da chi aveva condotto l'operazione. Se questo è il grado di realismo, il presunto raid di una notte del Mossad a Teheran - svelato dal premier Benjamin Netanyahu e definito "uno dei più grandi risultati dell'intelligence" - e la mezza tonnellata di documenti sul nucleare rubati agli ayatollah si prestano certo a diventare materiale da copione.
Gideon Raff, uno dei creatori di "Homeland", che ha aperto la strada internazionale alle serie israeliane, sta lavorando a un film incentrato su una particolarissima operazione del Mossad negli anni 80. Red Sea Diving Resort ha tra gli attori protagonisti Chris Evans e racconta la storia di un villaggio vacanze - con animatori, istruttori di sub e wind-surf, cuochi, camerieri e turisti veri - servito dal 1981 al 1985 da copertura per i servizi segreti israeliani. L'obiettivo: missioni via terra attraverso il Sudan per raggiungere i campi profughi dove vivevano migliaia di rifugiati della guerra civile in Etiopia, e trasferire gli ebrei etiopi, via mare o a bordo di piccoli aerei, in Israele.
(Il Foglio, 4 maggio 2018)
Giro d'Italia, il grande abbraccio di Gerusalemme
Il benvenuto del premier Netanyahu: «Felici che il mondo sia venuto qui»
di Francesco Battistini
Gli era appena morto il figlio in guerra. E non sapendo più come liberarsi di quell'incubo, a un certo punto lo scrittore David Grossman si mise a camminare. E a muoversi. E ad andare in bici. L'aveva imparato dalla mamma protagonista di «At the end of this Land», una donna che non vuole starsene ferma in casa ad aspettare cattive notizie sul suo ragazzo militare. Grossman si spostò, dunque. Uscì di casa. E arrivò alla fine di questa terra, nel punto più a Nord al limitare del Libano, e per settimane non pensò ad altro che ad andare, andare, andare Il giro d'Israele, da Gerusalemme alla Galilea. Perché l'aveva fatto? «Per staccarmi da tutto rispose . Dalla politica, dall'occupazione, dalla volgarità. Per ubriacarmi di fatica. Per rimuovere il legame fra me e questa terra. E in definitiva, per salvarmi».
Qualcuno con cui correre. Gerusalemme s'è scelta gli italiani. Come fa da anni con le maratone non competitive, coi motori che fanno passerella, col calcio che conta poco. L'importante è muoversi. La bici al posto di Bibi (Netanyahu), Aru Fabio invece d'Abu Mazen. Endorfine senza confine. Perché non si può pensare sempre e soltanto alla Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, per un giorno va bene anche l'Edizione 101 del Giro d'Italia.
Qualche capo di Hamas ci ha provato a mettere un apostrofo nero nella corsa in rosa; qualche israeliano della destra religiosa, a esigere il rispetto dello shabat; qualche «ciclista per la Palestina», a trovarsi sotto il Muro che a Betlemme taglia le case. Ma i diecimila uomini della sicurezza, alla fine, han fatto meno del temuto: ci sarà un motivo per cui la più paralizzata delle città si sia presa un sindaco come Nir Barkat, uno che ha fatto la Parigi-Dakar e non si sa quante maratone di New York, che definisce Gerusalemme «un brand» e che, se gli domandano perché il Giro non tocchi anche la parte Est (araba), glissa e dice «è solo una questione tecnica, le strade sono poco asfaltate»?
Cartoline del primo giorno: il ponte ad arpa di Calatrava rosato come le pietre al tramonto, i ciclisti a registrarsi sotto il municipio traforato dai proiettili del '67, Oliviero Toscani a scattare le facce da Giro come qualche anno fa ritraeva la razza umana, qui vicino, dietro le case palestinesi sfollate dall'esercito Sport matters because it does not matter, scriveva il poeta Mick Imlah sui rugbisti morti in guerra, lo sport è importante proprio perché non è importante: basta una futile parata a far intuire che nella città eterna c'è posto per tutti, che il Monte del Tempio non è un percorso da scalatori della propaganda, che una fuga di gruppo non cancella il diritto al ritorno d'un popolo.
«Siamo felici siano venuti anche i ciclisti del mondo arabo», è soddisfatto il premier Netanyahu: venuti dal Bahrain e dagli Emirati, sfidando governi che nemmeno riconoscono Israele. Nessuno s'illude e si sa che tutte le guerre portano a Gerusalemme, come ripeteva il vecchio re Abdallah di Giordania: una tappa non è un tappo alla situazione e anche ieri, mentre qui si correva, a Gaza si sparava. L'insolito venerdì della festa di alcuni era il sesto venerdì della rabbia di altri. «Il circo dello sport se ne va e adesso arriva il clown», scrivono i blogger palestinesi. Dove il riferimento sarebbe a Trump, atteso fra dieci giorni a inaugurare l'ambasciata americana. In sella, si torna a correre.
(Corriere della Sera, 4 maggio 2018)
Giro d'Italia, il racconto dal Veneto a Gerusalemme nel ricordo di Gino Bartali
di Paola Farina
Il popolo veneto ha sempre amato molto il ciclismo e la sua velocità. La velocità del cavallo nacque nel deserto, dove lo zoccolo affonda e lo slancio rimane impigliato nella sabbia; la velocità della bicicletta, per i veneti nacque nelle stradine sterrate venete, dove la ruota affondava e lo slancio rimaneva impigliato nella terra, terra di fatica e di sudore come sport di fatica e sudore è il ciclismo. Gino Bartali entrò nell'anima dei veneti, più di quanto entrò Coppi, reputato dai veneti troppo "comunista" mentre a Gino Bartali veniva riconosciuta una valenza cattolica ed è proprio in Terra nostra che firmava la maggior parte degli autografi.
Gino Bartali, nominato «Giusto tra le nazioni» già nel 2013, per aver contribuito a salvare circa 800 cittadini italiani ebrei è dal 3 maggio anche Cittadino d'Onorario di Israele. Lo Yad Vashem ha la possibilità di conferire, in casi eccezionali, una cittadinanza onoraria in vita o alla memoria. Per usare le parole del portavoce dello Yad Vashem, Sammy Allen "si tratta di una procedura molto rara che è usata con il contagocce".
Per il giro d'Italia sono giunti in Israele 363 metri cubi di materiale per le 22 squadre, 880 biciclette e 2.800 ruote. Due occasioni per festeggiare questa partenza: l'onorificenza a Bartali e i primi 70 anni di vita di Israele.
Il giro comincia oggi, 4 maggio, partenza prevista alle ore 13:50 di Gerusalemme (12:50 in Italia), ultimo a prendere il via alle 16:00 ora italiana.
E' un percorso senza precedenti, tra misticismo e tecnologia, scienza e religioni, bellezze naturali, contestata dai Bds e dagli odiatori di Israele, ma ha dato prova di grande resistenza all'odio. Traspare quindi "il ciclista fiero" e magnificamente allenato, uomo e velocista e la velocità è una tecnica ma anche un distillato alchemico dei movimenti che appassiona i tifosi.
Buona partenza Giro d'Italia.
LE TAPPE
- 4 maggio partenza da Gerusalemme 9,7 km (Prima Tappa)
Situata sulle colline della Giudea, Gerusalemme è la capitale dello stato d'Israele, la sede del governo e il centro storico, nazionale e spirituale per gli ebrei sin da quando Re Davide, nel 1003 a.C. ne fece la capitale del suo regno e il centro religioso del popolo ebraico. Circa quaranta anni dopo, infatti, suo figlio Salomone costruì il Tempio (massimo luogo d'incontro nazionale e religioso del Popolo d'Israele), trasformando la città nella prospera capitale di un impero che si estendeva dall'Eufrate all'Egitto. Da allora, pressoché tutti gli eventi della storia del Mediterraneo e dell'area mediorientale hanno in qualche modo coinvolto la città di Gerusalemme: dalla conquista babilonese di Nabuccodonosor (586 a.C.) a quella persiana, dalla fase di "ellenizzazione" alla conquista romana fino al dominio Bizantino. La conquista araba, dal 636 d.C. fu l'inizio della dominazione musulmana che, con l'interruzione del periodo del Dominio Crociato, dal 1099 al 1187, durò fino al Protettorato Britannico alla fine della seconda Guerra Mondiale. E' divisa in quattro quartieri: ebraico, musulmano, armeno e cristiano.
- 5 maggio Haifa-Tel Aviv 167 km (seconda tappa)
Tel Aviv - Situata sulla costa mediterranea è la seconda città d'Israele dopo Gerusalemme. E' il centro culturale, commerciale e finanziario del paese, dove hanno sede la maggior parte delle organizzazioni sindacali e di categoria, la borsa valori, i maggiori quotidiani e periodici, a Ramat Gan, poco lontano la Borsa Diamanti ed il mio caffè preferito, quello dove trovo i miei ragazzi novantenni tripolini. Tel Aviv è la prima città completamente ebraica nei tempi moderni, fondata nel 1909 da 60 famiglie alla periferia dell'antica cittadina di Giaffa con cui si fuse nel 1950. Nel 1948, durante l'occupazione di Gerusalemme da parte della Giordania, Tel Aviv divenne la capitale provvisoria del paese; per questo motivo (ma mi azzardo a dire e non solo... nota di Paola Farina) hanno sede molte ambasciate straniere e molti uffici governativi Ora è la "capitale di plastica", mentre quella politica e di cuore è a Gerusalemme. Due squadre di calcio sono attive nella Premier League israeliana con il Maccabi calcio Tel Aviv e Hapoel Tel Aviv e non dimentichiamo la splendida Maccabi Tel Aviv pallacanestro che detiene una cinquantina di titoli israeliani ed ha vinto sei volte la Coppa europea. Vita, movida, qualche flash di trasgressione, gallerie, caffè e bar . Lungomare stupendo e centro città caotico.
Haifa - E' situata nel nord del paese sul Mar Mediterraneo alle pendici del Monte Carmelo e funge da centro amministrativo del nord d'Israele. Si suddivide in tre quartieri principali. Nella città bassa, a livello del mare, si trova il porto che con i suoi fondali profondi è un centro di scambi e commerci internazionali, e ha sede uno tra i maggiori centri industriali del paese.
Risalendo la collina del Carmelo si entra nel quartiere di Hadar Carmel, il centro commerciale e finanziario della città e antica area residenziale, dove hanno sede il municipio e le Università di Haifa e il Technion. Quest'ultimo ha 19 dipartimenti accademici, 60 centri di ricerca, 12 ospedali universitari affiliati, i suoi laureati hanno avuto un ruolo strategico nella fondazione dello stato di Israele e sono richiesti da tutto il mondo: Technion di Haifa nella top 10 delle università con maggior numero di Premi Nobel (fonte Times Higher Education)
- 6 maggio Be'er Sheva - Eilat km 229 (Terza Tappa)
Be'er Sheva - Situata nel Negev settentrionale, è il crocevia delle principali arterie di comunicazione che collegano le coste del Mediterraneo con il Mar Morto e con il Mar Rosso attraverso il deserto meridionale. Be'er Sheva è una città moderna, costruita su un antico sito che risale al periodo dei patriarchi, sede della prestigiosa Università Ben Gurion, ma anche luogo di ritrovo e di scambi commerciali per le popolazioni nomade del deserto del Negev. E' anche detta città dei setti pozzi. Dalla sua fondazione nel 1948 è cresciuta molto, buona parte della popolazione è formata da ebrei espulsi dai paesi arabi e da altri provenienti dalla Russia, dall'Etiopia. Be'er Sheva è circondata da numerose città satellite tra cui alcuni a predominanza ebraica come Omer, Lehavim e Meitar, e le città beduine di Rahat, Tel al-Sabi e Lakiya.
Eilat - La città più meridionale del paese, funge da sbocco sul Mar Rosso e sull'oceano Indiano, adiacente al villaggio egiziano di Taba e a sud, alla cittadina giordana di Aqaba Attraverso il suo porto, costruito su un luogo dove era situato un antico porto del regno di Re Salomone, passano i traffici diretti da Israele verso l'Africa e L'Estremo Oriente. Questa zona, con alle spalle il deserto del Negev, è caratterizzata da un clima con temperature che non scendono mai di sotto ai 21 gradi, nemmeno in inverno. I fondali marini sono ricchissimi di straordinari scenari subacquei che hanno favorito un intenso sviluppo turistico. Citata nell'Antico Testamento con il nome di Ezion Geber, assunse importanza ai tempi del Regno di Israele, e in particolare sotto il regno di Salomone (970 - 928 a.C.), quando fu usata come porto per i commerci verso la penisola arabica e il Corno d'Africa, anche grazie alle vicine miniere di rame di Timna. Fu importante centro militare in epoca romana con il nome di Aelana. Sede di un importante porto israeliano è centro turistico-climatico di ottimo livello, anche grazie alle caratteristiche subtropicali del Mar Rosso e al clima umido.
(VicenzaPiù, 4 maggio 2018)
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Il messaggio di Gerusalemme vestita di rosa e ricca di orgoglio
Il via che farà storia
di Gaia Piccardi
GERUSALEMME - Guy Niv veniva al mondo in Galilea mentre il suo Stato compiva quarantasei anni. Adesso che ne ha 24 ( e Israele 70) se ne sta lì, imbambolato davanti alla folla di Safra Square, giovane profeta del ciclismo con la donna dei desideri da una parte, la super-modella connazionale Bar Rafaeli, e il trofeo dei sogni dall'altra: «Sono cresciuto guardando il Giro d'Italia. Oggi corro il Giro d'Italia. Quasi mi mancano le parole. Definirla una favola è poco ... ».
Sa tutto di storia contemporanea in avanzamento veloce in questa Gerusalemme rovente e vestita di rosa, dalle primule delle aiuole alla segnaletica ad uso e consumo dei corridori, transennata per chilometri e congestionata dal traffico dopo la chiusura dei 9. 700 metri d'asfalto della crono di oggi. Perché sì, è tutto vero: il Giro scatta sotto le mura antiche, specchiandosi nella bellezza architettonica della Cupola della Roccia, grazie alla visione di Sylvan Adams, imprenditore canadese di origini israeliane, il primo a proporre al primo ministro Benjamin Netanyahu la corsa rosa come regalo per i settant'anni del Paese. Il ciclismo in ragione del business e magari, un giorno, come balsamo taumaturgico per le pene di un luogo tormentato, ma anche perfetto per le due ruote. «Sono felice che una potenziale audience di un milione di persone possa vedere i panorami della mia terra - sorride in mondovisione sua bionditudine Bar Refaeli, appena sbarcata da un atollo delle Maldive-. Succede così raramente di parlare di Israele come meta turistica o sede di un grande evento sportivo. Spero che il Giro possa davvero cambiare la percezione del mondo nei nostri confronti».
Il messaggio di Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv, Be'er Sheva e Eilat che pedalano per tre tappe prima del ritorno in patria, tra le zagare di una Sicilia in fiore ( da martedì, dopo il giorno di riposo che servirà a trasferire la carovana su quattro voli charter), sarà più potente di qualsiasi accordo diplomatico. Nell'anomalia di un fazzoletto triangolare impregnato di religiosità e rabbia atavica c'è forse una normalità, che la Israel Cycling Academy dell'ex soldato Guy Niv vuole incarnare, su cui si può (perlomeno) immaginare di costruire un futuro di pace. «Solo pochi anni fa tutto questo sarebbe stato impensabile» trasecola Ran Margaliot, manager 30enne del team locale che ha la missione di traghettare un manipolo di corridori (c'è anche l'italiano Kristian Sbaragli) fino alla Vuelta 2019 e al Tour 2020. Il primo velodromo del Medio Oriente è appena stato inaugurato a Tel Aviv (sempre grazie ai soldi di Adams), la cultura della bici muove i primi passi con autorevolezza: «Serve un salto di coscienza. Ci aspetta un'impresa simile a quella di Davide contro Golia» chiosa Margaliot con una citazione biblica.
Il Jerusalem Post in prima pagina parla di orgoglio, ed è lo stesso sentimento che anima un Giro d'Italia mai così intrepido e pionieristico, che al di là dello stratosferico budget per 406 dei suoi 3.562,9 km di corsa (si parla di 12/15 milioni di dollari messi sul piatto da mister Adams: difficile dire di no) piazza la bandierina sulla prima partenza extra europea di una grande corsa, alla faccia dei cuginastri del Tour e degli amici della Vuelta, verdi d'invidia.
Gli occhi scuri di Fabio Sabatini, toscano di Pescia e veterano della Quìck Step, oggi alle 13.50 locali saranno i primi a fissare la telecamera (67 disseminate lungo il percorso della crono solo per garantire la sicurezza) da sotto il caschetto aerodinamico. Tom Dumoulin, campione in carica olandese con seri propositi di fare il bis, chiuderà la conta dei 176 girini alle 16,45 quando allo shabbat, la festa del riposo ebraico, mancherà poco. Un'ora prima del tramonto dalle colline di Gerusalemme si alzerà il suono di un corno. Il Giro 2018, scelta la sua prima storica maglia rosa, starà già pedalando altrove, a nord, verso la città portuale di Haifa, sede di partenza della seconda tappa israeliana. Perché la storia, questa storia, non aspetta nessuno.
(Corriere della Sera, 4 maggio 2018)
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I significati simbolici del giro in Israele
Lettere ad Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
sono felice che il Giro d'Italia partirà da Gerusalemme. Così Israele potrà mostrare a tantissima gente non solo la sua capacità organizzativa, ma non le pare strano fare iniziare il Giro d'Italia in un Paese che non è l'Italia?
Valerio De Masi
Ho avuto il piacere di parlare con Gino Bartali. Era una persona aperta, affabile e gradevole. Ero rimasto impressionato dalla sua modestia!
Giovanni Marceddu
Cari lettori,
far partire il Giro d'Italia da Israele è una scelta carica di significati simbolici, per una serie di motivi. Dà uno slancio internazionale a una competizione che negli ultimi tempi era scivolata troppo sotto il Tour de France, con cui si deve confrontare. Tiene Israele dentro il circuito europeo e mediterraneo dello sport, com'è giusto che sia, senza di per sé esprimere un giudizio sulla politica del suo governo. Rappresenta un segnale per la comunità ebraica italiana ed europea, giustamente inquieta per le tensioni in Medio Oriente e per l'immigrazione islamica incontrollata in Occidente. Apre una finestra ai nostri sportivi: conosco poco il mondo del ciclismo, ma posso assicurarle che i nostri calciatori - tranne rare eccezioni - hanno una mentalità da provincia, non sanno l'inglese, non hanno capito l'importanza della comunicazione nello sport moderno. E offre l'occasione per ricordare la splendida figura di Gino Bartali.
Aveva già vinto il Giro (due volte) e il Tour, quando l'Italia fu investita dalla tempesta della guerra. L'arcivescovo di Firenze, Elia Dalla Costa, Giusto tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei, aveva bisogno di qualcuno che potesse andare in bicicletta da Firenze ad Assisi, dove nel convento di clausura delle clarisse di San Quirico erano nascosti ebrei in attesa di documenti falsi. Bartali era perfetto. Il cardinale gli chiese di nascondere le carte nella canna della bicicletta e di portarle alla madre superiora, Maria Giuseppina Biviglia. Lui chiese solo: «Se mi beccano cosa mi fanno?». Dalla Costa rispose: «Ti fucilano sul posto». Gino Bartali partì. Vi assicuro, cari lettori, che né l'arcivescovo di Firenze, né la madre superiora, né tantomeno il cattolicissimo Gino Bartali erano bolscevichi. Sono donne e uomini che, dovendo prendere una decisione, presero quella giusta. Sono donne e uomini come loro che ti fanno sentire orgoglioso di essere italiano; anche se non devono rimuovere la vergogna dei troppi connazionali che collaborarono con i nazisti nella caccia agli ebrei.
(Corriere della Sera, 4 maggio 2018)
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Provocazioni e nuovi timori. Ma la corsa porta sorrisi
Israele è sotto assedio, però non sembra: nell'aria c'è un ottimismo che contagia tutti.
Gerusalemme - Il centro commerciale Mamilla
GERUSALEMME - La Città Vecchia è intasata di turisti, i poliziotti ti scrutano negli accessi chiave ai luoghi santi, spesso con scarso interesse. I caffè di King George, la via principale del centro, sono affollati. Sulla spianata poco sopra il Muro del Pianto, un gruppo di ragazzi canta l'Hatikvah, l'inno nazionale, e applaude. È un giorno qualunque di Gerusalemme. Sorridono tutti. Sembra che ci sia nell'aria un ottimismo virale: voglia di vivere e di fare. «Una normale normalità, suggerisce una studentessa con i capelli ricci e biondi. Ciò che coglie di sorpresa chi viene da fuori: la normalità, appunto.
Negazionismo
Come se l'ultima scaramuccia fra palestinesi e israeliani, fortunatamente soltanto verbale, fosse roba esclusivamente da titoli sui giornali. Stavolta il moderato Abu Mazen, da Ramallah, l'ha detta grossa: «I'Olocausto gli ebrei se lo sono cercati». Non è la prima volta che scivola in una sorta di negazionismo, lui che si vanta di aver discusso una tesi all'università in Russia sulla storia di quei tempi. Il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, gli ha risposto per le rime: «Una volta negazionista, negazionista per sempre». Da marzo, il confine con la Striscia (di Gaza) è una polveriera, con un bilancio di 40 morti e 5mila feriti. La minaccia nucleare dell'Iran non si dissolve, soprattutto adesso, dopo che Netanyahu si è presentato in tv con 55 mila pagine soffiate dal Mossad a Teheran in cui, pare, ci siano le prove dell'esistenza di 5 ordigni atomici potenti almeno come quella che colpi Hiroshima. E il 14 maggio, giorno del 70o compleanno d'Israele, gli Usa potrebbero trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, giusto per arroventare ulteriormente gli animi.
Opportunità
Israele è un Paese assediato, ma non sembra. Oggi la Città Santa si coccolerà il Giro, che diventa un'arma strategica. Quando al Governo hanno capito l'impatto e l'importanza della corsa, non si sono lasciati sfuggire l'occasione. Per tre giorni sarà il modo di portare nelle case di quasi un miliardo di persone nel mondo un'immagine diversa di Israele: un veicolo di marketing pazzesco. ll filantropo ebreo canadese, Sylvan Adams, che sponsorizza la squadra della Israel Cycling Academy e ha contribuito di tasca propria a portare qua il Giro, dice che lo ha fatto per il bene del suo nuovo Paese: «Quando uno dei nostri ragazzi andrà in fuga, i telecronisti in un'ora pronunceranno cento volte il nome di Israele. Sarà uno spot stupendo per questa Nazione: libera, aperta, sicura e democratica». Può sembrare strano, ma Israele non fa propaganda. Questa sarà l'eccezione. Netanyahu è salito su una bici in una pubblicità che ha fatto il giro del mondo. E nonostante l'inasprirsi di una situazione già calda, oggi sarà alla partenza della cronometro. Mentre alla conferenza stampa dell'altro ieri sono venuti a parlare addirittura cinque ministri. Come se le tre tappe fossero opportunità imperdibili per lanciare un messaggio di pace.
(La Gazzetta dello Sport, 4 maggio 2018)
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Garantisce Barkat. «Il Giro una vetrina per Gerusalemme»
Il sindaco atleta. Ha corso cinque maratone e partecipato alla Dakar. «Lo sport e la città formano una miscela super»
«Da ragazzo mi spostavo solo in bici, anche fino a Tel Aviv»
«Organizzare eventi come questo è strategico per il futuro»
«La nostra città è tra le più sicure al mondo: negli Usa è peggio»
di Massimo Lopes Pegna
Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme
Nir Barkat porta a termine la maratona di Gerusalemme
GERUSALEMME - Il municipio non è antico come il resto che lo circonda. Palazzina moderna e senza pretese artistiche che si affaccia su Safar Square, il luogo di presentazione delle squadre. L'ufficio modesto al piano Shesh, sesto. Nir Barkat, al termine del secondo e ultimo mandato da sindaco, è soprattutto un uomo del fare: ha portato in alto la sua città, dove è nato e cresciuto, e ora ha ambizioni di politica nazionale. Per dare l'esempio, ha rifiutato lo stipendio (guadagna appena uno shekel l'anno, una manciata di centesimi) e il Giro è solo l'ultimo dei suoi colpi di mano per promuovere Gerusalemme.
- Dunque, lo sport come veicolo pubblicitario.
«Amo lo sport. I miei genitori erano giocatori di basket, mamma è andata pure in nazionale. Ho corso 5 maratone, vado in bici, ho partecipato alla Parigi Dakar. La prima idea da organizzatore è stata una maratona: a marzo abbiamo avuto 35 mila iscritti, un'enormità. Ho fatto sfilare per le strade auto di Formula l. E per il Giro abbiamo ottenuto che cominciasse da qui: Gerusalemme è un brand straordinario. Associare lo sport alla città è una miscela fenomenale».
- Quando portò qui la Maratona disse: «Yerushalayim Tatzlia'ah», Gerusalemme avrà successo. In che senso?
«Per capire, dobbiamo partire dai tempi in cui i nostri antenati tornarono dopo centinaia di anni di schiavitù in Egitto. Il territorio era diviso fra le 12 tribù: ognuna aveva la sua parte.
Invece, Gerusalemme apparteneva a tutte. Non ci sono né padroni di casa né ospiti. Quindi se qualcosa ha successo qui, è come se lo avesse in tutto il mondo. Possiamo avere idee differenti, ma tutti vengono e pregano assieme. In un chilometro quadrato, a pochi metri da dove la tappa del Giro inizia e finisce, c'è il più alto numero di moschee, chiese e sinagoghe di qualsiasi altro posto nel mondo. E ne andiamo fieri. La nostra filosofia è unire e includere e si sposa perfettamente con l'idea dello sport. Organizzare eventi di questa portata è strategico per il futuro».
- Il Giro fa parte di questa filosofia?
«Assolutamente. La comunità ciclistica è contenta di me, perché ogni volta che mi chiedono di organizzare una gara rispondo sempre di sì. Mi hanno fatto incontrare i leader della corsa e ho detto che avrei dato una mano. Ho sollecitato l'aiuto del Governo e abbiamo progettato il bellissimo percorso. Dopo aver benedetto la prima maratona e tante altre iniziative culturali è stato naturale buttarsi in questa nuova avventura».
- E ospitare la prima tappa era prioritario.
«Sì, perché si corre interamente in città ed è una vetrina imperdibile per mettere in mostra ciò che possiamo offrire».
- Che cosa sapeva lei di ciclismo?
«Quando ero ragazzo mi spostavo solo in bici, anche da Gerusalemme a Tel Aviv. Grazie al ciclismo mi sono finanziato la luna di miele. Con la mia futura moglie volevamo andare in Inghilterra, ma non potevamo permettercelo. Così mi iscrissi a una gara per studenti all'università e la vinsi: in palio c'era un biglietto per Londra».
- È diventato famoso per aver salvato la vita a una persona pugnalata da un terrorista.
«È accaduto proprio dove c'è il traguardo. Tre anni fa sono in auto e mi accorgo che un uomo brandisce un coltello, la mia guardia del corpo estrae la pistola e intima all'aggressore di buttarlo. Nel frattempo lo immobilizzo. Poi realizzo che aveva già ferito un passante, ma in modo lieve. Undici anni prima avevo salvato una donna dopo l'esplosione di una bomba su un autobus con 8 morti. Sanguinava dall'arteria della coscia e fermai l'emorragia tappando il foro con un dito. Ero stato ufficiale dei parà in Libano nel 1980 e nella prima Intifada, avevo una certa esperienza di combattimenti».
- Ha detto che Gerusalemme è aperta a tutti, senza distinzione di religione, etnia e colori della pelle. Perché è rimasta esclusa dalla tappa la parte Est?
«La decisione è stata esclusivamente tecnica, seguendo le esigenze dei corridori e del Giro. Nella zona antica, le strade sono ruvide, non adatte a una cronometro. Per altri eventi, abbiamo incluso quella fetta di città. La maratona va a sud, nord, est, ovest. Nient'altro ha influito sulla scelta».
- Garantisce sulla sicurezza?
«Gerusalemme è una delle città più sicure al mondo. Alcuni mesi fa ero a Washington al Congresso: la capitale degli Usa ha 15 omicidi ogni 100 mila abitanti ogni anno. Gerusalemme, uno. Abbiamo la miglior polizia e secret service. Le dico solo che ogni volta che vado negli Stati Uniti prego di tornare a casa sano e salvo».
(La Gazzetta dello Sport, 4 maggio 2018)
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E' proprio GiroMania. Le lacrime di Lopez e l'orgoglio di Sagiv
In 3000 hanno ballato e urlato di gioia. Il campione israeliano della crono: «Realizzati tutti i miei sogni»
di Luca Gialanella
GERUSALEMME - Nella sera di Gerusalemme, il rosa è anche in cielo. E sembra abbracciare quelle tremila persone di Safra Square, la piazza del comune, che non vogliono andar via. Si chiama «GiroMania». Ballano, si dimenano, urlano di gioia. È la presentazione delle ventidue squadre, ma si trasforma in un festival rock.
Musica
Volano i palloncini rosa, le ballerine portano l'infinito, il simbolo (matematico) del Giro d'Italia, sulla passerella dalle quali si alzano tante mani, a ritmo di musica. E il termometro dell'applauso sale al massimo quando la lsrael Cycling Academy apre la sfilata. È la prima formazione professionistica di questa nazione, punto di partenza di un progetto che, dallo sport, si espanderà all'ambito sociale e urbano. Un'idea nata tre anni fa in un caffè della Giudea tra Sylan Adams, il mecenate canadese presidente onorario della Grande Partenza, e Ran Margaliot, l'ex professionista diventato manager del team. Guy Sagiv, 23 anni, campione nazionale della cronometro, con la scritta «Ambasciatore di pace» sulla schiena, è il primo dei suoi e infiamma la piazza: «Da bambino, avevo un sogno: diventare professionista. Il secondo sogno era correre un grande giro. E ora che inizia nel mio Paese, si è realizzato tutto».
Top
E poi arriva lei, Bar Refaeli, la top-model simbolo di Israele. «Shalom a tutti. È un vero onore far parte della GiroMania». E in italiano: «Amore infinito». E ancora: «Are you ready Jerusalem?». Sì, Gerusalemme è pronta. Baci al pubblico. Il Giro è bellezza. Il cuore rosa si muove a ondate. Spuntano cartelli curiosi: «Vogliamo piste ciclabili». E una bandiera della Sardegna con i quattro mori: il tifo per Aru non ha confini.
Atleti emozionati
I corridori sono all'ombra, in un giardinetto. Beppe Martinelli, direttore sportivo dell'Astana, non sbaglia la valutazione: «Non ero mai venuto qui. Siamo andati al Santo Sepolcro e Lopez, che è molto religioso, si è emozionato. Il Giro ti fa capire che il ciclismo può andare dappertutto». Esteban Chaves, sorriso rigoglioso: «We are dreamers (noi siamo sognatori, ndr), e allora Grazie Gerusalemme». È uno dei corridori più applauditi dal pubblico. Fino all'arrivo di Chris Froome, gli occhi lucidi. Con la gente che salta dietro le transenne e si arrampica sui pilastri per poter scattare una foto: «Questo è un sogno che si realizza». Sì, è proprio GiroMania.
(La Gazzetta dello Sport, 4 maggio 2018)
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Bar Refaeli: «Scendiamo in strada, Israele vuole vivere la normalità»
«Per una settimana niente politica. Ammiro i corridori, io non riuscirei mai a restare per ore concentrata in sella».
di Antonino Morici
Uno dei «sorrisi da knockout» di Bar Refaeli
GERUSALEMME - Safra Square non sarà come la spiaggia di Finolhu ma casa e sempre casa anche per una super modella-attrice-presentatrice avvezza a platee globali. Così, quando la piazza della Municipalità alza il livello dei decibel, Bar Refaeli attiva uno dei suoi sorrisi da knockout. È appena tornata in patria dalle Maldive. Non potrebbe essere più bella.
Per Israele
Il volto della madrina della Grande partenza è lo stesso che 7 milioni di utenti social guardano più o meno ogni giorno, ed è anche quello che a un certo punto la Southwest Airlines aveva scelto per colorare le carlinghe degli aerei. Tre volte sul numero di Sports Illustrated dedicato ai costumi, dal 2013 alla guida della versione locale di X Factor, la ragazza israeliana diventata star planetaria esordisce sul palco onorando lo slogan della Corsa: «Che spettacolo! Ora capisco perché il Giro è Amore Infinito». Bar, 32 anni, parla con la Gazzetta di tutto ciò che ruota attorno a questo evento. «Nel mio lavoro ho sempre cercato di fare il bene del mio Paese chiedendo di realizzare i servizi fotografici qui, e non altrove. Perché la nostra terra nasconde paesaggi fantastici e molti non li hanno mai visti. Forse non tutti i miei connazionali comprendono la portata di quello che sta accadendo - dice la Refaeli, che negli ultimi anni ha finanziato la nascita di due startup e sostenuto diversi ospedali infantili -. Quasi un miliardo di persone vedrà le immagini in tv e questa è senza dubbio la cosa migliore che potesse accadere».
Patria e famiglia
La top proclamata «modella dell'anno» nel 2000 non nasconde le sue radici. Il marito Adi Ezra, imprenditore israeliano sposato nel 2015, la segue durante i suoi spostamenti nel dietro palco. La madre Tzipi Levine, anche lei modella negli anni 70, non la lascia mai, tantomeno durante le interviste. Ed è lei che aiuta a ricordare il primo filo che ha unito le loro vite all'Italia. «Milano è stato l'inizio di tutto: il primo servizio fotografico all'estero. Adoro anche Roma, la pasta e l'atmosfera che si respira in certe città è unica».
Quando il discorso vira sui problemi che tengono Israele sulle prime pagine gli occhi blu si stringono. «Il Giro ci aiuterà a mettere la politica in secondo piano: per una settimana non discuteremo più di certe vicende. Abbiamo bisogno di vivere. E sono felice perché la gente vedrà finalmente la normalità di Israele. Vedrete: è sicuro ed è divertente stare qui». Bar è conosciuta anche per aver espresso spesso opinioni scomode su molti temi, per aver «aggirato» il servizio di leva (obbligatorio per uomini e donne) e per essere finita addirittura in manette, arrestata per evasione fiscale e rilasciata dopo 12 ore. Ma quando si tratta di difendere l'immagine della stella di David non risparmia fendenti, magari su Twitter. Roger Waters, che invitava i musicisti a boicottare Israele nelle loro tournée, ne sa qualcosa.
L'ambiente
«Mi aspetto un sacco di persone in strada, anche se credo che la gente impazzirà per il traffico! Forse non tutti hanno compreso quanto sia importante, quindi mi auguro di vedere più gente possibile sulle strade. Importante per i giovani». Il tema dell'ambiente è uno dei più sensibili per la Refaeli, attivista e testimonial della mobilità «green». «A Tel Aviv e a Gerusalemme vedo sempre più persone in bici. E il Giro aiuterà il processo di crescita. Lo sport è molto importante, lo considero una terapia per la mente e per l'anima e spero che le mie figlie, Elle e Liv, abbiano la mia stessa passione. Mi alleno tutti i giorni. Amo il basket e il tennis. Il ciclismo lo guardo a volte in tv: quello che ammiro dei corridori è la capacità di restare così concentrati per tante ore in bici. Io non potrei mai farlo».
(La Gazzetta dello Sport, 4 maggio 2018)
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Giro d'Italia: Israele, quel museo che racconta storie di bici e di «salite»
Alon Wolf è riuscito a realizzare in cinque anni il sogno di allestire il primo museo dedicato al ciclismo di Israele
di Davide Frattini
Alon Wolf
HEREV LEET - I primi abitanti sono arrivati da queste parti alla fine della Seconda guerra mondiale, quando qua attorno erano solo paludi e dune verso il mare. Avevano deciso di «trasformare le loro spade in vomero d'aratri» - il nome del villaggio riprende il versetto biblico di Isaia - perché dopo essere stati soldati ebrei nell'esercito britannico sognavano di colorare l'ocra tormentato dal sole della nuova patria con un po' del verde di quella originaria.
Gli agrumeti e i campi coltivati non sono bastati ad assorbire tutta la sabbia, ancora s'infiltra ovunque e vela le biciclette appese alle pareti o disposte sul pavimento in cemento di quello che una volta era un enorme pollaio. L'allevamento dei tacchini resta la principale risorsa di questo moshav nel centro di Israele, a pochi chilometri dalla costa e dalla strada sul Mediterraneo tra Haifa e Tel Aviv dove passa la seconda tappa del Giro d'Italia.
Il glo-glo dei volatili copre a tratti la voce di Alon Wolf mentre racconta come in cinque anni sia riuscito a realizzare il sogno di allestire il primo museo dedicato al ciclismo del Paese. Da dodici è arrivato a collezionarne quasi centoquaranta, pezzi d'antiquariato come un biciclo prodotto a Bristol nel 1880 («è il tesoro della collezione») o un mezzo tedesco vecchio un paio di secoli con i cerchi in legno. «Ogni bicicletta dice porta con sé due storie: di chi ne ha consumato la sella e di come io sono riuscito a scovarla».
Anche nella spazzatura dov'era stato gettato uno dei modelli usati da Jacques Esclassan, che ha corso per la Peugeot tra il 1972-1979 ed è riuscito a conquistare la maglia verde dei velocisti al Tour de France. Non è l'unico cimelio appartenuto a un campione: nella sezione «sportiva» ci sono pure Eddy Mercks, Freddy Maertens e un telaio che Alon è sicuro «sia stato costruito per Mario Cipollini».
La storia raccontata dal museo è anche quella di un Paese nato e cresciuto con l'immigrazione, l'aliyah, parola simbolica per un ciclista visto che in ebraico significa «salita»: la Bianchi del 1960 appartenuta ad Amos Levy, che è stato allenatore della nazionale israeliana, e prima di arrivare dall'Egitto «aveva vinto la Coppa Re Faruq». O i trofei conquistati da Yitzhak Ben David e Henry Ohayon, gli unici israeliani ad aver partecipato all'Olimpiade di Roma nel 1960. Altre bici sono attraccate o atterrate con i loro proprietari dalla Germania, dall'Europa orientale, dall'Iran. A volte residuati delle tante guerre combattute dagli israeliani come quella trovata in un villaggio arabo sulle alture del Golan, catturate ai siriani cinquantuno anni fa.
Alon è appena arrivato dalla pedalata mattutina. I parenti restano allevatori e contadini, lui ha preferito diventare allenatore di ciclocross (per trovare gli sterrati adatti deve solo uscire di casa) e adesso sta guidando una squadra femminile. «Inforco le biciclette storiche solo per occasioni speciali come un giro attorno al lago di Tiberiade. La gente mi ferma, è incuriosita. Così il prossimo progetto è attraversare il Paese con un rimorchio e far diventare il museo itinerante. Le mie due ruote non possono restare ferme».
(Corriere della Sera, 4 maggio 2018)
L' Occidente e la cecità su Abu Mazen
di Fiamma Nirenstein
II Medio Oriente, come la punta dell'Everest, fuoriesce sempre da un mare di nuvole. Sono le nuvole di bugie di cui l'Europa e gli Stati Uniti coprono, per non vederlo, un panorama carico di violenza, di odio anticristiano e antiebraico. Solo un calore rovente e inconsueto di verità può farle svanire: questo è accaduto nei giorni scorsi, abbagliando l'opinione pubblica. Due episodi hanno provocato il cambiamento di panorama, e costringono l'Occidente a correre a comprare gli occhiali da sole: le rivelazioni del primo ministro israeliano Netanyahu, dopo che il Mossad ha sottratto all'Iran, che li aveva religiosamente catalogati, 100mila file sull'arricchimento dell'uranio e li ha trasportati miracolosamente in Israele; e le dichiarazioni antisemite, ignoranti, antistoriche di Abu Mazen.
Così adesso tutto il mondo è costretto a sapere: l'Iran ha mentito sostenendo di non aver perseguito la bomba atomica e ha continuato a nascondere le scelte, le strutture, le decisioni sulla bomba (mezza tonnellata di carte!) anche dopo aver firmato nel 2015 l'accordo coi P5+1. II gentilissimo Zarif, ministro degli Esteri, insieme al «riformista» Rouhani, sorridendo molto a Obama e alla Mogherini, hanno nascosto tutto per un decennio: lo scopo dell'Iran era ed è il perseguimento dell'atomica, così da affermare il regno dell'islam nel mondo. E chi lo voleva sapere, come Netanyahu che ha seguitato a ripeterlo senza paura, lo sapeva.
Così come chi voleva sapere chi è veramente il «moderato» Abu Mazen, bastava leggesse quello che ha detto e fatto in questi anni: solo ora c'è chi si accorge che è un antisemita di stampo classico, che ritiene gli ebrei feccia dell'umanità, e li accusa di aver causato la Shoah col loro odioso comportamento.
In realtà abbiamo scritto mille volte dell'antisemitismo di Abu Mazen connesso alla sua delegittimazione di Israele: tutto è già nella tesi negazionista che fece a Mosca, da studente, nel 1982 e via nei suoi discorsi e scritti. Quanto all'Iran, la sua cultura implica la menzogna per la vittoria dell'islam e i segni erano chiari. Anche un cieco li avrebbe visti. L'importante è che tutti ormai sanno per certo che l'Iran mente, e che anche l'Europa si avvii a chiedere un vero cambiamento dell'accordo, mentre Trump valuta se recedere. Perché un'altra verità, ancora più fastidiosa, si è rivelata con la prestigiosa operazione del Mossad come con le deiezioni di Abu Mazen: la predisposizione dell'Occidente alla sindrome di Chamberlain, in cui un'élite priva di senso della realtà si autodiscredita sospendendo un giudizio giusto sulla realtà e rischia la sicurezza nazionale.
(il Giornale, 4 maggio 2018)
C'è voluto Abu Mazen per dimostrare che la pace non è possibile
Quando persino il New York Times scrive che Abu Mazen ha perso ogni credibilità come interlocutore di pace, vuol dire che qualcosa comincia a cambiare.
Quando mercoledì scorso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esortato la comunità internazionale a "condannare le gravi espressioni antisemite di Abu Mazen", il mondo ha risposto con rara solerzia. Le condanne sono piovute non solo da parte dei governi di Germania, Francia, Gran Bretagna, Canada, Lituania, ma anche da ambienti molto più improbabili: l'inviato delle Nazioni Unite in Medio Oriente, il capo della politica estera dell'Unione Europea, il principale gruppo di pressione pro-palestinese in Germania, persino il capo dell'Unesco, l'agenzia culturale delle Nazioni Unite che Israele sta abbandonando a causa del suo noto pregiudizio anti-israeliano....
(israele.net, 3 maggio 2018)
Il blitz perfetto del Mossad in Iran. In una notte rubati i segreti nucleari
Svelatala la missione con cui gli 007 israeliani hanno messo le mani sull'archivio di Teheran
Mezza tonnellata di documenti e fotografie, una montagna di materiale cartaceo da trasportare dall'Iran a Israele, due Paesi a un passo dalla guerra, con i Guardiani della rivoluzione che avevano fiutato l'operazione ed erano alle calcagna degli agenti del Mossad. È questo l'aspetto più spettacolare, da film di spionaggio della Guerra fredda, del colpo che ha permesso ai servizi israeliani di mettere le mani sull'archivio segreto del programma nucleare iraniano. Una mole di dati che dimostrano, secondo il premier Benjamin Netanyahu, come l'Iran abbia mentito alla comunità internazionale e quindi non possa essere creduto neppure ora.
Fin dal 2015, dalla firma dell'accordo sul nucleare che ha portato alla fine della maggior parte delle sanzioni occidentali, il Mossad era in azione a Teheran per trovare qualcosa che gli ispettori dell'Aiea non avevano mai trovato. La «pistola fumante» delle ambizioni atomiche degli ayatollah. Netanyahu l'ha mostrata al pubblico lunedì, in una presentazione ad alto impatto mediatico. Ma le decine di slide che scorrevano sui teleschermi di tutto il mondo erano il frutto di una missione al limite che si è conclusa in una notte ad altissima tensione.
Nel febbraio del 2016 le spie israeliane individuano un magazzino nel sobborgo di Shorabad, a Sud di Teheran, una zona industriale. Il magazzino è dimesso, sembra abbandonato, ma dentro c'è un tesoro. I «55 mila file» che documentano la storia del programma nucleare iraniano. L'edificio viene posto sotto sorveglianza continua e il Mossad deve chiedere rinforzi ed espandere la sua rete di agenti. Gli iraniani hanno già spostato l'archivio più volte, possono farlo di nuovo, non lo si deve perdere d'occhio neppure un minuto.
Nel gennaio di quest'anno un fonte interna rivela che nel magazzino ci sono alcune «casseforti speciali». È il momento di agire. La squadra del Mossad fa irruzione, in piena notte, prende tutti i documenti dalle casseforti e li trasferisce in un edificio sicuro. Sono decine di migliaia di file cartacei che pesano «più di mezza tonnellata», molto ingombranti. Bisogna farli uscire dall'Iran senza dare nell'occhio e già questa è un'operazione complessa. Nei piani doveva svolgersi in più fasi, ma appena arrivati nell'edificio sicuro gli 007 si rendono conto che i Servizi dei Pasdaran, un corpo d'élite fondato da Ali Khamenei nel 2009, si sono insospettiti e li stanno seguendo.
Si tratta di scappare portandosi via una carico che occupa almeno un furgoncino, a giudicare dai file mostrati da Netanyahu in tv, con gli agenti segreti braccati dalle Guardie rivoluzionarie come nel film «Argo». «Li avevamo alle calcagna», ha rivelato una delle spie alla tv Hadashot. Non ha spiegato come sono riusciti a seminarli, ma il ministro dell'Intelligence Israel Katz ha precisato che si è trattato di un'operazione «senza precedenti nella storia di Israele», un Paese che, a cominciare da Entebbe, ha vissuto molti momenti di questo tipo: «Quando ho conosciuto i dettagli non potevo credere che avessero potuto farcela», ha commentato.
A non poterci credere sono anche gli iraniani. Tutto il corpo dei Servizi dei Pasdaran è sotto inchiesta. Secondo media del Golfo, come Channel 10, è già scattata un'ondata di arresti e i responsabili delle sorveglianza del magazzino «rischiano la fucilazione». I documenti rubati e lo show di Netanyahu hanno convinto in maniera definitiva, salvo sorprese, il presidente americano Trump a ritirarsi dall'accordo sul nucleare. Ma l'Intelligence israeliana punta ora a convincere un altro attore fondamentale, l'Aiea. Se anche l'Onu concluderà che l'Iran ha barato allora l'intesa sarà seppellita del tutto. E lo scontro fra Israele e la Repubblica islamica andrà al calor bianco.
(La Stampa, 3 maggio 2018)
L'inquieto maggio in Israele e i pericoli nella regione
In Medio Oriente quando la corda si tende il rischio che scoppi improvvisamente una guerra è alto. Troppo alto perché il mondo resti tranquillo a guardare.
di Paolo Mieli
Attenzione al maggio israeliano. Già domani saremo probabilmente costretti ad assistere al sesto venerdì consecutivo di incidenti lungo la frontiera tra Gaza e Israele. Gli scontri - che hanno già provocato oltre quaranta morti e cinquemila feriti (per i quali le Nazioni Unite hanno stigmatizzato l'«uso eccessivo della forza» da parte di Israele) - si protrarranno fino alla metà del mese di maggio quando, nel «giorno della Nakba» (in arabo «catastrofe», «cataclisma»), potrebbero trasformarsi in qualcosa di più impegnativo. I palestinesi chiamano queste manifestazioni «Grande marcia del ritorno», indetta in ricordo dell'uccisione, nel 1976, di sei loro connazionali che avevano protestato per la confisca di terre. Una «festa pacifica per non dimenticare» la definisce il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, funestata però, a suo dire, da «cecchini israeliani». Israele risponde sostenendo che l'ottanta per cento degli uccisi lungo la frontiera erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici». Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata. Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l'altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro «funzioni sociali», vale a dire «usura, attività bancaria e simili». Ha aggiunto infine che lo Stato ebraico è un «prodotto coloniale» e in quanto tale meriterebbe di far la fine che hanno fatto tutte le entità simili. In che tempi? Il generale Abdolrahim Mousavi - dal fronte iraniano - pochi giorni fa ha detto che la distruzione di Israele dovrebbe essere realizzata «entro un massimo di 25 anni». «Entro un massimo», si noti bene.
Ma tutto deve essere ben visibile fin da adesso. Questo mese di maggio dovrebbe chiarire all'intero mondo arabo che è giunto il momento di vendicare la Nakba. Il 14 maggio cadranno i settant'anni dalla fondazione di Israele avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) che stabiliva dovessero nascere in quella regione due Stati, uno ebraico ( che nacque) e l'altro palestinese ( che non nacque). Quel giorno, nell'ambito della ricorrenza, l'ambasciata degli Stati Uniti verrà trasferita a Gerusalemme, in seguito ad una decisione, dal fortissimo impatto simbolico, presa dal presidente americano Donald Trump nelle settimane immediatamente successive alla sua elezione (l'impegno lo aveva preso nel corso della campagna elettorale). Il 15 maggio, il giorno successivo, cadrà l'anniversario dei settant'anni della Nakba: in quella data l'intero mondo arabo ricorda la fuga dalla Palestina a cui furono costretti centinaia di migliaia di palestinesi, al termine della prima guerra arabo- israeliana (1948-1949). Negli ultimi anni anche importanti storici dello Stato ebraico, primo tra tutti Benny Morris, hanno riconosciuto le colpe del proprio Paese a danno dei palestinesi, gravissime colpe. Qualche altro storico ancor più radicale, come l'ex militante del Partito comunista israeliano Ilan Pappé, ha denunciato atti di vera e propria «pulizia etnica» commessi in quei frangenti dai propri connazionali. E stato più volte riesaminato - e non solo da Morris e Pappé - il massacro di Deir Yassin in cui, il 9 aprile 1948, furono uccisi da formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e banda Stern, oltre cento palestinesi (forse duecento, forse più, secondo fonti arabe). Due personalità che all'epoca erano al comando dell'Irgun e della banda Stern e che successivamente sarebbero state elette alla guida del governo israeliano, Menachem Begin e Itzhak Shamir, si sono giustificate dell'atto sanguinoso sostenendo che la conquista di quel villaggio era indispensabile per aprire la via di collegamento tra la costa e Gerusalemme e che, nelle ore precedenti all'attacco, loro stessi si premurarono di esortare la popolazione «non combattente» di Deir Yassin ad abbandonare le proprie case. Ma è un fatto che lo stesso capo del nuovo Stato, David Ben Gurion, condannò l'accaduto.
Vale la pena altresì di ricordare che Israele fu immediatamente riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica. Che il Paese ai suoi primi giorni di vita fu attaccato da milizie egiziane, libanesi, irachene, siriane, corpi di volontari provenienti da Arabia Saudita, Libia, Yemen e dalla Legione araba di Glubb Pascià (il generale inglese John Bagot Glubb che, per conto di re Husayn, guidò fino al '56 l'esercito giordano). Alla fine del conflitto, nel '49, Israele riuscì ad allargare i propri confini rispetto a quelli decisi dall'Onu e firmò armistizi separati con gli aggressori. Armistizi, non la pace; l'esercito del Cairo continuò a «presidiare» Gaza, quello di Amman la Cisgiordania. Per diciotto anni: fino alla «guerra dei sei giorni» (giugno 1967) al termine della quale Israele occupò quei «territori» sui quali doveva e dovrebbe ancora nascere lo Stato palestinese. Per quasi venti anni, in altre parole, lo Stato di Palestina non nacque per una decisione dei Paesi arabi che scelsero di utilizzare le terre assegnate al popolo palestinese dalle Nazioni Unite, come aree militari da cui doveva partire l'attacco definitivo per rigettare in mare l'«entità sionista».
Ora si può avere l'impressione che i «venerdì di sangue» susseguitisi dal 30 marzo lungo le frontiere di Gaza, più che a ricordare la Nakba servano a distrarre Israele da un'altra partita che si giocherà anch'essa nel mese di maggio: quella con l'Iran. Qui la scadenza è di poco anticipata rispetto alla doppia ricorrenza del 14 e 15: due o tre giorni prima, il 12 maggio, Donald Trump renderà nota l'intenzione di non onorare ( con ogni probabilità) l'accordo con Teheran voluto dal suo predecessore assieme all'Europa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha preparato il terreno per una denuncia di quel patto, rivelando come la sua intelligence sia entrata in possesso di cinquantacinquemila documenti che proverebbero le menzogne dell'Iran tuttora impegnato, a dispetto di quanto concordato, nel proprio piano nucleare (il Paese di Ali Khamenei sarebbe in procinto di mettere a punto cinque ordigni di potenza equivalente a quello che nell'agosto del 1945 provocò la distruzione di Hiroshima). Ad un tempo, nella notte di domenica 29 aprile, l'esercito israeliano avrebbe provocato - usiamo il condizionale perché l'azione non è stata rivendicata - un'esplosione ad una base militare in Siria nei pressi di Rama. La base, come l'aeroporto militare siriano di Tayfur bombardato dagli israeliani il 9 aprile, sarebbe a disposizione dei pasdaran iraniani e un tal genere di bombardamenti sarebbero stati effettuati da Israele per rendere più difficile ai militari provenienti da Teheran di mettere «radici in Siria» ( e questo intento Netanyahu l'ha annunciato ufficialmente). Radici che però sono state già parzialmente messe, se è vero che nel Paese di Assad sono presenti oltre ottantamila miliziani sciiti pronti a riversarsi su Israele dalle alture del Golan. Tutto appare pericolosamente in bilico. E i precedenti ci dicono che in quella regione quando la corda si tende fino a questo punto, il rischio che scoppi all'improvviso una guerra è alto. Troppo alto perché il mondo se ne resti tranquillo a guardare.
(Corriere della Sera, 3 maggio 2018)
"Abbas? Negazionista antisemita"
Condanna unanime, e non poteva essere altrimenti, per i nuovi veleni antisemiti pronunciati dal leader palestinese Mahmoud Abbas.
"Era un negazionista della Shoah ed è rimasto tale", il commento del Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu rispetto alle affermazioni del leader dell'Anp in un discorso al Consiglio nazionale palestinese, in cui ha sostenuto che la Shoah sarebbe stata causata dai "comportamenti sociali" tenuti dagli ebrei, come "l'usura, le banche e cose del genere". "Abbas ha pronunciato un altro discorso antisemita", ha affermato Netanyahu, aggiungendo che "con estrema ignoranza e sfacciataggine, ha detto che gli ebrei europei sono stati perseguitati e assassinati non per essere ebrei ma perché davano prestiti con un tasso di interesse". Come ha sottolineato il premier, questo discorso di Abbas non stupisce visti i pregressi: nel gennaio scorso era arrivato ad affermare che "il colonialismo ha creato Israele per svolgere una certa funzione. Si tratta di un progetto coloniale che non ha nulla a che fare con l'ebraismo, ma piuttosto ha utilizzato gli ebrei come strumento sotto lo slogan della Terra Promessa".
"Quello che abbiamo sentito da Mahmoud Abbas è terribile. È tornato alle idee espresse decenni fa, e anche allora erano terribili. Ha dimenticato molte cose, e ha detto esattamente le cose che lo hanno portato ad essere accusato anni fa di antisemitismo e di essere un negazionista della Shoah", la risposta d'Israele affidata al presidente Reuven Rivlin. Quelle parole del presidente palestinese suonavano come le ultime di un leader oramai in decadenza e privo di potere: dopo 13 anni alla guida dell'Anp, nove dei quali senza una nomina democratica, un ultimo sussulto all'insegna della demagogia più becera.
Il bilancio di questa decade alla guida dei palestinesi nei Territori per Abbas, a conti fatti, non può che essere desolante: la pace con Israele è lontana; la desiderata, almeno a parole, soluzione dei due Stati è sempre più evanescente; il rappacificamento con movimento terroristico di Hamas e il tentativo di riguadagnare consenso a Gaza sono praticamente falliti. E i palestinesi in tutto questo non hanno migliorato di molto le proprie condizioni. Mahmoud Abbas si prepara a lasciare il palcoscenico e lo fa, scrivono diversi analisti, senza prendersi la responsabilità dei suoi fallimenti, e accusando Israele di tutto (anche di non essere quello che è, la Terra santa per gli ebrei).
Eppure Abbas aveva un'opportunità per lasciare il segno. "Quasi dieci anni fa, negli ultimi mesi della sua presidenza, Ehud Olmert offrì al Presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas praticamente tutto ciò che i palestinesi apparentemente cercavano da Israele" ricordava sul Times Of Israel il direttore David Horovitz. "Olmert offrì ad Abbas ciò che rappresentava il 100% della Cisgiordania con scambi di terre uno contro uno che consentivano ad Israele di estendere la sovranità a tre grandi blocchi di insediamenti e ai palestinesi andava una compensazione con territori all'interno degli attuali confini sovrani di Israele". Olmert si disse anche favorevole a trovare una soluzione giusta e concordata alla questione dei rifugiati, includendo un fondo di compensazione. Abbas rifiutò. E lì si concluse di fatto la sua storia.
Ora quello che rimane del presidente dell'Anp sono le tesi negazioniste e cospirazioniste riproposte nelle scorse settimane che ne qualificano il valore.
(moked, 3 maggio 2018)
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Abu Mazen antisemita. «Ebrei causa della Shoah coi loro comportamenti»
Il leader dell'Autorità Palestinese a Ramallah incita all'odio. È stretto tra Israele e Hamas
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Ci sono storie che non si vorrebbero raccontare perché l'imbarazzo supera l'interesse e perché contengono una gran dose di ripetitività. È il caso dell'esplosione antisemita di Abu Mazen, che era già stata preceduta da un'uscita analoga un paio di mesi fa, e che come un treno ansimante bofonchia l'anima vera del capo dell'Autonomia Palestinese sin dai tempi in cui nel 1983, all'università di Mosca, scrisse una tesi che negava la Shoah, riduceva il numero dei morti da 6 milioni a uno, addossava la responsabilità agli ebrei stessi, anzi, al sionismo: accusava gli ebrei di essersi accordati con i nazisti perché li perseguitassero, così da metterli in fuga dalla Germania e andassero a colonizzare la Palestina; e gli ebrei, diabolici, avevano fatto questo accordo coi nazisti in modo che il sionismo potesse fiorire, compensati da una fantasmagorica, mai vista, ricompensa in denaro. Un pasticcio concettuale e storico basato sull'ignoranza. Ma al fondo c'è un odio evidentissimo, che lunedì ha messo fuori la testa in un discorso al Consiglio Nazionale Palestinese a Ramallah, e forse c'è anche il desiderio di cancellare la sfera storia, quella di Amin al Husseìnì, il leader palestinese che fu alleato di Hitler contro gli ebrei. Lui, sì, era nazista.
Abu Mazen lunedì a Ramallah ne ha dette tante e tutte disgustose, con due punti focali. Il primo «gli ebrei sono stati massacrati fin dall'undicesimo secolo fino all'Olocausto ogni 10-15 anni. Ma perché questo è accaduto? Non per via della loro religione, ma per il loro comportamento sociale legato a banche e usura». Ovvero, gli ebrei hanno causato la Shoah a causa della loro rivoltante brama di denaro. È un classico: il denaro è il tratto distintivo degli ebrei ( oltre al naso, sempre nelle caricature in stile nazista sulla stampa palestinese). Ma basta guardare le foto delle donne, dei bambini, dei vecchi nei campi di concentramento o nelle fucilazioni, o rastrellati in tutta Europa per ritrovare la verità di un popolo intero, soprattutto povero, perseguitato in tutta Europa. Ma Abu Mazen ha la stessa posizione che prese Adolf Eichmann, l'architetto della soluzione finale, in un famoso dialogo del 1957 in cui sosteneva che la Shoah era stata la risposta obbligata a un «sofisticato piano di morte messo in piedi dagli ebrei, o noi o loro».
Il secondo punto è l'altro classico, stavolta alla Arafat: il sionismo era in combutta con quei poteri occidentali che vollero colonizzare tramite gli ebrei il mondo arabo. Non c'entra nulla la religione, né la storia ebraica. Cioè: «La storia di una nazione, della fondazione di Israele non è degli ebrei ma dei poteri coloniali. I leader europei volevano creare una presenza straniera per indurre conflitto e divisione fra gli stati arabi. Agli ebrei di tornare a casa non gliene importava niente». E i sionisti si allearono ai colonialisti anche trattando la fuoriuscita degli ebrei dalla Germania perché così avrebbero sospinto l'emigrazione. Strana logica: volevano una patria tanto da vendere tutti i loro fratelli o non gliene importava? Abu Mazen ha continuato a delirare citando un libro di Arthur Koestler in cui racconta la conversione del popolo Khazaro, del nord Europa, all'ebraismo e dice: vedete gli ashkenaziti sono ebrei finti (come Ben Gurion, per capirci). Troppo ridicolo. Di fatto tutti i testi raccontano come il popolo ebraico fosse già una nazione in Israele dal 1.312 avanti Cristo; il suo orgoglio nazionale fu già fastidioso per Babilonesi, Romani, Greci come il suo incessante anelare il ritorno a casa.
Se ci chiediamo perché Abu Mazen ha avuto una deiezione così incontinente, la risposta è in due eventi: il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme e le manifestazioni di Hamas a Gaza. Sono due sfide cui il rais risponde con un atteggiamento furioso per mantenere la leadership sul mondo palestinese, fra una predisposizione evidente all'incitamento antisemita connesso alla scelta del terrorismo, e un'apparenza di disponibilità al dialogo e alla trattativa. Sempre, per altro, smentita dai continui rifiuti di cui è fatta la politica palestinese dai tempi di Arafat.
(il Giornale, 3 maggio 2018)
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Per il palestinese moderato Hitler non aveva tutti i torti
Il presidente Abu Mazen afferma: la Shoah è stata causata dagli ebrei «usurai e banchieri». Si ispira al Gran Mufti che istituì le SS islamiche.
di Carlo Panella
Le inqualificabili battute antisemite pronunciate dal leader palestinese Abu Mazen hanno un lungo, terribile retroterra che purtroppo i media e molti politici europei si rifiutano di vedere, anche se data da ormai un secolo, segna tutta la dirigenza palestinese dal 1919 a oggi ed è la causa principale dell'impossibilità di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Conflitto che non si risolve proprio perché la componente palestinese non lotta contro «gli israeliani» ma proprio contro gli ebrei, in un delirio di antisemitismo che ha pochi pari al mondo.
Veniamo dunque alla concezione degli ebrei che ha Abu Mazen, in un condensato raccapricciante dei principali capisaldi di un antisemitismo che ben prima di essere europeo è stato - per 1.400 anni - patrimonio arabo-islamico: «Comportamenti sociali come le attività bancarie, l'usura e cose del genere, da parte degli ebrei sono all'origine delle violenze e dei massacri di cui sono stati vittime, Olocausto compreso. Dall'XI secolo sino all'Olocausto avvenuto in Germania, quegli ebrei - che si erano trasferiti nell'Europa occidentale e orientale - sono stati soggetti a massacri ogni 10-15 anni. Ma perché questo è accaduto? Loro dicono perché sono ebrei. Tre libri scritti da ebrei sono prova che le ostilità contro gli ebrei non sono causate dalla loro religione, ma piuttosto dalla loro funzione sociale, connessa a banche e interessi bancari».
Va detto che queste convinzioni sono ben radicate in un Abu Mazen che si è laureato nell'università Patrice Lumumba di Mosca con una tesi raccapricciante: «L'altra verità, la relazione segreta tra il nazismo e il sionismo».
Laurea sovietica
In questa opera indegna, omogenea all'antisemitismo staliniano che ha caratterizzato l'Urss, Abu Mazen sosteneva la tesi aberrante che alcuni membri del movimenti sionista avevano concordato con i nazisti la «produzione» del massimo di vittime tra gli ebrei per convincere l'opinione pubblica mondiale della necessità di creare lo Stato d'Israele. Non basta, Abu Mazen in questa tesi, pubblicata in un libro nel 1984, negò il numero di 6 milioni di ebrei vittime della camere a gas naziste, citando il negazionista e antisemita francese Robert Faurisson.
Il dramma è che queste parole e queste tesi segnano una continuità perfetta e assoluta con tutta la tradizione antisemita del movimento palestinese che si alleò con Hitler. È impressionante infatti l'assonanza totale delle parole di Abu Mazen con quelle pronunciate da Muhammad Amin al-Husayni, il filonazista Gran Muftì di Gerusalemme dalla fascista Radio Bari il 17 giugno 1943: «Una mentalità di eccessivo egoismo, di smodata ambizione e di speculazione su tutte le risorse mondiali caratterizza gli ebrei. Questa mentalità che si è consolidata coi secoli ha fatto degli ebrei una piaga generale, una disgrazia cronica per il mondo. Si sono arricchiti provocando la povertà dei popoli, si sono impadroniti del benessere a scapito del mondo, tessendo complotti e intrighi».
Il Gran Muftì di Gerusalemme, leader palestinese dal 1920 al 1956 (e oltre), fu ricevuto con tutti gli onori tre volte da Hitler, organizzò in Bosnia le SS islamiche.
Affinità col nazismo
Il 21 gennaio 1944, il Gran Muftì così si rivolse alle truppe: «La Germania nazista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice «vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani. Vi sono inoltre considerevoli punti comuni tra i principi islamici e quelli del nazismo: nei concetti di lotta, di cameratismo, nell'idea di comando (Führerprinzip) e in quella di ordine. Tutto ciò porta le nostre ideologie a incontrarsi e facilita la nostra cooperazione». Come si vede, una perfetta continuità ideologica
(Libero, 3 maggio 2018)
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Il suicidio politico di Abu Mazen
Estratto da un articolo di Umberto De Giovannangeli
Novanta minuti per consumare, nel peggiore dei modi, una sconfitta, personale e collettiva. Quella di un presidente senza un futuro e di una causa, pur giusta
non è vero: sbagliata e truffaldina (ndr)
, che è precipitata agli ultimi gradini dell'agenda internazionale. Dell'oceanico intervento di Mahmoud Abbas, presidente "ibernato" dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), la parte dedicata alla "questione ebraica" occupa lo spazio temporale di una manciata di minuti, sufficienti, però, per mettere una pietra tombale sugli altri temi affrontati da Abbas. Una improvvida scivolata, si è detto e scritto, che ha dato nuovi argomenti ai falchi che governano Israele per sostenere non solo che il capo dei palestinesi ha confermato di non essere un interlocutore di pace minimamente affidabile, ma ha svelato il suo vero volto, quello di un politico "negazionista e antisemita" della peggior risma.
Ma quello di Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, è più di un autogol. È un suicidio politico. Detto questo, c'è una domanda che attende ancora una risposta sensata: cosa ha spinto un leader "moderato", incapace di infiammare gli animi, disposto per natura al compromesso, a sparare considerazioni che neanche un jihadista negazionista avrebbe saputo dire peggio?
HhuffPost ha avuto modo di parlare con alcuni dei partecipanti al meeting di Ramallah, personalità di primo piano della dirigenza palestinese. Sgomento e sorpresa: sono i sentimenti che fanno da comun denominatore alle riflessioni del giorno dopo a Ramallah. Primo retroscena: nessuno degli esponenti della dirigenza palestinese, neanche i più stretti collaboratori di Abbas, era al corrente di quei passaggi.
Secondo retroscena: il presidente dell'Anp non si era consultato con alcuno dei leader arabi per definire una linea condivisa per rilanciare la "questione palestinese" all'interno di uno scenario regionale sempre più destabilizzato. Certo, "Mahmud il moderato" ha mantenuto la barra diritta sul punto cardine della sua strategia negoziale: quello di un accordo fondato sulla soluzione "a due Stati". Ma questo, da solo, non può bastare per riaprire uno spiraglio a un negoziato finito da tempo su un binario morto. Ecco allora l'essenza del dramma consumatosi a Ramallah: la disperazione politica di un leader che più che guardare a un futuro che non lo vedrà protagonista, sembra tracciare il bilancio di una storia che non ha dato i frutti desiderati.
Abu Mazen si è espresso "in una maniera che può essere definita solo come antisemita e negazionista della Shoah". Lo ha detto il ministero degli Affari esteri israeliano sul discorso del presidente palestinese tenuto all'assemblea del Consiglio dell'Olp. Affermazioni che il ministero ha detto di respingere "con disgusto" e che "accusano gli ebrei del desiderio di distruggere se stessi". Dichiarazioni - ha continuato - che "usano stereotipi e accuse proprie del lessico del classico antisemitismo". E qui il cerchio si chiude.
Le prime a essere spiazzate e tramortite sono le "colombe" israeliane, espressione di una parte, minoritaria certo ma non marginale, della società israeliana, che non ha mai smesso di battersi per il dialogo e che non ha mai fatto mancare una voce critica rispetto alla politica colonizzatrice della destra al governo.
Durante il discorso al Consiglio palestinese trasmesso in tv, Abu Mazen aveva ricordato come in Europa gli ebrei siano stati periodicamente massacrati nei secoli, fino alla Shoah. "Ma perché questo è accaduto?", si è chiesto. "Loro dicono: 'È perché siamo ebrei'. Bene - ha continuato Abu Mazen, citato dai media -, vi porterò tre ebrei, con tre libri, che dicono che l'odio verso gli ebrei non è causato dalla loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali. È un problema differente".
Ma il leader palestinese non si è fermato qui. Ha anche definito lo Stato ebraico un "prodotto coloniale" britannico, negando l'esistenza di una relazione fra gli ebrei e la terra di Israele. E, secondo la Bbc, ha negato che gli ebrei di ceppo askenazita, quello diffuso in Europa orientale e Germania, siano semiti.
Non è la prima volta che Abu Mazen esprime opinioni sull'Olocausto che suscitano polemica. Una dissertazione studentesca che l'attuale leader scrisse all'inizio degli anni Ottanta sosteneva che c'era stata una "relazione segreta tra nazismo e sionismo" prima della guerra e sembrava mettere in discussione il bilancio delle vittime dell'Olocausto, ufficialmente riconosciuto pari a 6 milioni.
L'inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente Jason Greenblatt ha qualificato le affermazioni del presidente dell'Anp "terribilmente deplorevoli, terribilmente allarmanti, terribilmente scoraggianti" e si è appellato su Twitter per una "condanna incondizionata di queste affermazioni". L'ambasciatore americano in Israele David Friedman, anch'egli ebreo, ha dichiarato che il presidente Abbas è "precipitato nel punto più basso mai toccato". In una nota ufficiale, il presidente della Knesset, il Parlamento israeliano, Yuli Edelstein ha affermato che Abbas "apparirà nei libri di storia come un negazionista, un provocatore razzista". Abu Mazen dice che gli ebrei che prestano denaro hanno provocato l'Olocausto - ha twittato il viceministro per gli Affari diplomatici Michael Oren - ora c'è un partner per la pace". La Anti Defamation League (Adl), che svolge una campagna contro l'antisemitismo nel mondo, per bocca del ceo Jonathan Greenblatt, ha liquidato le dichiarazioni del leader palestinese come "asserzioni antistoriche e pseudo-accademiche".
Ma quello che dà maggiormente conto di questo suicidio politico in diretta tv, è il silenzio dell'Israele del dialogo. Un silenzio fatto di rabbia, di incredulità, di chi si sente tradito, peggio, colpito alle spalle da un leader palestinese che mai era stato accostato a posizioni antisemite. C'è chi nega commenti ufficiali, perché "un regalo così ai nemici della pace non era stato mai fatto"; altri sperano, senza però crederci più di tanto, che "i palestinesi non seguano Abu Mazen sulla via del suicidio politico e che accelerino il ricambio ai vertici".
Dopo innumerevoli insistenze, c'è chi si pronuncia: "Se Abu Mazen voleva riportare sui media internazionali la questione palestinese, beh, ha scelto davvero il modo peggiore", annota Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare nelle fila laburiste. "Un leader politico non può scendere a questi livelli, tracimando considerazioni pseudo-storiche alla David Irging - prosegue la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan -. Cosa dovevano aggiungere quelle affermazioni sconsiderate alle ragioni che motivano la lotta dei palestinesi per un proprio Stato? Non hanno aggiunto nulla, ma hanno sottratto tanto. E questo è qualcosa di imperdonabile. È del tutto legittimo criticare l'occupazione dei Territori, l'assedio a Gaza, gli atti unilaterali che hanno reso impraticabile la soluzione a due Stati - prosegue Yael Dayan - ma tutto questo non c'entra nulla con il più becero antisemitismo, che mette sotto accusa Israele non per quel che fa ma per ciò che è". [...]
(Fonte: L'HuffPost, 2 maggio 2018)
Il Re è nudo.
Due israeliani nella squadra che partecipa al Giro
La Israel Cycling Academy
La mossa, all'ultimo, ha un po' spiazzato tutti. Invece di un israeliano e basta, come annunciato per mesi, la Academy in questo Giro schiera due atleti di casa. Guy Niv e Guy Sagiv, amici nella vita ma rivali per settimane nella rincorsa di questo ambitissimo traguardo, corrono dunque insieme. Ed è un grande successo per il movimento ciclistico locale, ancora lontano dagli standard europei ma a livelli sempre più incoraggianti proprio grazie all'innesto di professionalità della Academy.
"Sarebbe fantastico se entrambi arrivassero a Roma" fanno sapere dal team, che in questo Giro ha scelto per il resto un assetto multinazionale. L'australiano Zak Dempster, il lettone Krists Neilands, lo spagnolo Ruben Plaza, il belga Ben Herrnans, il canadese Guillaume Boivin e un italiano, l'empolese Kristian Sbaragli. Due israeliani per la Acaderny, che punta a una vittoria di tappa o in alternativa a un piazzamento tra le prime dieci della classifica finale. Obiettivi ambiziosi, ma la squadra ci proverà in tutti i modi, E la combattività veemente delle prime corse di primavera, con tante fughe da lontano, lascia ben sperare.
C'è l'esperienza di Plaza, 38 anni, che in carriera può vantare successi di tappa alla Vuelta e al Tour de France e che al Giro proverà a completare il trittico di affermazioni nelle grandi corse a tappa internazionali. O la freschezza arrembante di Neilands, 24 anni in agosto, protagonista poche settimane fa di uno scatto sulla salita conclusiva del Poggio nella Milano-Sanremo. Senza il controscatto vincente di Vincenzo Nibali, che ha poi fatto il giro del mondo, molto probabilmente oggi nell'albo d'oro della classica di inizio stagione ci sarebbe lui.
Grandi speranze anche per Sbaragli, vincitore in passato di una tappa alla Vuelta. Il suo regno sono le volate e, pur a confronto con grandi interpreti della specialità, cercherà in questo Giro di aggiudicarsi uno sprint. A partire da quelli (molto probabili, se non andranno in porto fughe) di Tel Aviv, nella seconda tappa, e di Eilat, nella terza. Kristian, non nuovo a esperienze fuori dall'Europa, si sente un po' ambasciatore d'Italia ad honorem in questo gruppo multietnico. "Bello essere qui, bello esserci con così tante nazionalità rappresentate. È un messaggio globale quello che lancia questa squadra" ci aveva raccontato in novembre a margine della presentazione ufficiale del team nel corso di una cerimonia svoltasi al Centro Peres per la Pace (il cui logo è presente sulle maglie). C'è tanta Italia in questo tentativo della Academy di imporsi ad alto livello. Su tutti un marchio che, per gli addetti ai lavori, non ha bisogno di tante presentazioni: De Rosa. "Con il progetto Israel Cycling Academy saremo ambasciatori di un messaggio di pace nel mondo, che viaggerà su biciclette De Rosa" concorda Cristiano, erede di una leggendaria storia familiare al servizio di tanti campioni del passato tra cui Eddy Mercxx, il mitico "Cannibale".
"E una squadra particolare, per i valori che rappresenta e per il fatto che avrà tanti occhi puntati in queste tre settimane di corsa. Ma oltre ad essere la squadra del dialogo, come alcuni hanno efficacemente scritto - riflette Cristiano - c'è del potenziale tecnico significativo che sono sicuro emergerà.
Ron Baron, co-proprietario della Academy, non sta nella pelle: "Il nostro sogno, il sogno di un team giovane, è diventato realtà. E il fatto di esserci a questo Giro con due corridori israeliani è un segnale forte. A chi in Israele sogna di ripercorrerne le tracce. Ma anche al mondo. Il messaggio è che, con il duro lavoro, anche i sogni più azzardati possono diventare realtà".
(Pagine ebraiche, maggio 2018)
Gioia: "Orgogliosa di un nonno così"
di Gioia Bartali
Gioia Bartali
Mio nonno, Gino Bartali, diceva che la cosa a cui teneva di più era lasciare il buon esempio ai propri figli e nipoti. Sembrerebbe scontato ma non è così, perché mio nonno il buon esempio non l'ha lasciato solo a noi ma a tutti quelli che hanno avuto la fortuna e il privilegio di viverlo, di ascoltarlo e magari di vederlo correre in bicicletta. Inizia così la sua storia, non importi come la si racconti, l'importante è che ci lasci qualcosa di buono o magari su cui riflettere. Lo rivedo in qualche filmato in bianco e nero e mi trovo a pensare a cosa stesse provando mentre spingeva forte su quei pedali, il viso avvolto in una smorfia che sa di polvere e fatica, al limite delle forze, deciso a non mollare, spinto solamente dalla sua grande forza e dalla sua tenacia per raggiungere la vetta più alta. Parlo di lui e mi commuovo, come se fossi qui davanti a me, come se lui per primo mi stesse ascoltando".
La verità è che Gino Bartali è un uomo che si racconta da solo, non ha bisogno di grandi premesse, basta ricordare le sue imprese straordinarie da campione, tre Giri D'Italia, due Tour De France, quattro Milano-Sanremo. E postino della pace per salvare 800 ebrei con i suoi viaggi silenziosi verso Assisi, la sua epica vittoria al Tour De France del '48 che scongiurò una guerra civile in Italia dopo l'attentato a Palmiro Togliatti, la medaglia d'oro al valor civile conseguita nel 2005.
Sono molto orgogliosa di lui, per il suo altruismo, la sua generosità e per il suo coraggio, ma soprattutto gli sono grata per essere stato mio nonno. I suoi occhi così celesti, buoni, i suoi modi sempre gentili rendevano armoniosa e serena la casa, insomma, la sua presenza ci faceva sentire bene. Ricordo il suo timbro di voce come se mi stesse parlando ancora, la sua semplicità si racchiudeva in quell'uomo buono, generoso e disponibile con tutti. Un uomo dalla grande fede, mai tradita, anche nei periodi del fascismo. Toscanaccio doc, detto anche "Ginettaccio" per quel suo carattere un po' spigoloso, lo scopro dolcissimo e premuroso nelle centinaia di lettere e cartoline scritte a mia nonna dal '38 fino alla fine degli anni '50. Lettere in cui il Ginettaccio campione ormai affermato si trasforma in un inedito fidanzato e marito innamorato, padre amorevole e cristiano devoto.
Pensieri d'amore che hanno trasformato semplici fogli in autentiche poesie: "Ogni tuo piccolo sacrificio ne merita da me in cambio uno più grande" così scriveva a mia nonna e lei, da moglie esemplare, ha conservato i suoi scritti con cura decidendo di donarli a mio padre poco prima che ci lasciasse nel 2014. Oggi essere la nipote di Gino Bartali mi ha dato la consapevolezza di aver avuto il privilegio di condividere una parte della mia vita con un nonno straordinario, campione nello sport ma soprattutto nella vita. Con l'augurio che il suo esempio sia da guida per tutte le generazioni future.
(Pagine Ebraiche, maggio 2018)
Quei soliti cattivi maestri che avvelenano l'Università di Torino
Giovedì 3 maggio l'Università di Torino, con la partecipazione del Dipartimento di Giurisprudenza (al quale appartiene il magnifico rettore Ajani) e la collaborazione anche di insegnanti del Dipartimento Culture, Politica e Società (CPS), spalancherà ancora una volta la propria aula magna presso il Campus Einaudi ad una giornata dedicata alla diffamazione di Israele ed alla esaltazione della "lotta palestinese".
di Emanuel Segre Amar
Già nel 1938, quando professori e studenti ebrei furono allontanati dalle scuole e dalle università italiane, a Torino l'Università volle andare oltre le direttive delle leggi razziste impedendo al professore Alessandro Terracini non soltanto di continuare la propria opera di insegnante, come imposto dalle leggi, ma addirittura anche solo "consultare" i libri che egli stesso aveva donato in precedenza alla biblioteca universitaria.
Oggi lo zelo dell'Università di Torino certo non impedisce a docenti ebrei di insegnarvi o accedervi: dopotutto, con la fine del fascismo sono decadute anche le leggi razziali, ma apparecchia convegni squisitamente anti-israeliani nei quali ogni tanto scappano anche parole tipiche dell'antisemitismo classico, convegni nei quali si ode una sola voce che su Israele racconta un perenne romanzo criminale.
Andremo dunque ad ascoltare quanto solo apparentemente si deve a Progetto Palestina, organizzatore ufficiale, dal momento che gli studenti che si iscriveranno avranno diritto a 2 crediti, il che appalesa la complicità del Dipartimento di Giurisprudenza.
Verrà presentato il "rapporto ESCWA (ONU)", ed allora è opportuno ricordare che il segretario generale di codesto ente, che si chiama Mohamed Ali Alhakim, presenta nel suo curriculum 37 anni di attività governative ed imprenditoriali in Iraq.
La sigla ESCWA significa "Attività economiche e sociali in Asia occidentale", e comprende tra i suoi stati membri solo 18 paesi, non tutti asiatici (lo sono solo quelli della penisola arabica), ma tutti rigorosamente islamici. Quando si dice l'imparzialità.
Stella del convegno sarà sicuramente il primo oratore della giornata, Richard Falk, un professore statunitense di estrema sinistra, di origini ebraiche, noto per tesi complottiste e un virulento accanimento anti-israeliano; basti qui ricordare l'accusa di colpevolezza da lui mossa agli USA ed ai suoi presunti complici per gli attentati dell'11/9; Falk è stato accusato di antisemitismo perfino dal governo inglese di Cameron, accusa giustificata, tra l'altro, dalla pubblicazione sul suo profilo di un'orribile vignetta raffigurante un cane con una parrucca ebraica e pettorale USA che urina su uno scheletro. Non per nulla perfino Human Rights Watch ha finito per espellerlo dalla organizzazione con la quale collaborava. Sono ottime credenziali per l'ateneo piemontese. Un simile personaggio non può che offrire agli studenti una visione oggettivamente fondata su Israele.
Nell'occasione il Dipartimento di Giurisprudenza, dopo aver ascoltato la sua lectio magistralis, sarà deliziato da una seconda lectio magistralis presentata, nella sessione pomeridiana, da sua moglie Hilal Elver.
Numerosi i "professori" italiani che faranno da cornice a questi due ospiti:
Ugo Mattei ha al suo attivo, tra le altre gesta, l'interruzione dell'attività di vice sindaco nel comune di Chieri (Torino) a seguito delle polemiche innescate dall'aver egli invitato Tony Negri, storico ideologo delle Brigate Rosse.
Chantal Meloni, conosciuta anche come "Chantal di Gaza" per l'ossequiosa sollecitudine con cui propaga la vulgata di Hamas, dopo che il giudice Richard Goldstone dichiarò, a proposito del suo noto rapporto a seguito del conflitto a Gaza del 2009, che "se avessi saputo quello che so adesso non lo avrei scritto", ha continuato a sostenere le falsità di tale rapporto.
Rosita Di Peri, insegnante del dipartimento Culture, Politica e Società che già si distinse nello scorso mese di gennaio per l'organizzazione di un altro convegno sull'apartheid ("in Sudafrica e in Israele") con la partecipazione, tra gli altri, del professore sudafricano Salim Vally, attivista BDS. Insomma, un vero e proprio parterre de roi dell'antisionismo.
Non mancherà la questione delle acque, che tanto interessa un'altra insegnante dell'ateneo torinese, Alessandra Quarta, anch'essa del Dipartimento di Giurisprudenza, ma che mantiene collegamenti stretti con il dipartimento PCS. Non è difficile immaginare quale versione equilibrata e fondata verrà data della realtà israelo-palestinese.
Dal parterre mancherà il professor Angelo D'Orsi, collega e sodale dei professori torinesi che parleranno giovedì; eppure il Magnifico Rettore Ajani, impossibilitato a partecipare lo scorso mercoledì ad una trasmissione su radio 1, propose alla RAI, per la sua sostituzione, proprio il suo nome (fonte RAI).
Non è che l'ennesima infornata di quella vera e propria fabbrica dell'odio anti-israeliano che è diventata l'Università di Torino, nello specifico nel Dipartimento di Culture, Politica e Società a cui si è associato il Dipartimento di Giurisprudenza. Tutto questo accade nel silenzio totale di quei professori dello stesso ateneo che ricoprono anche incarichi istituzionali, perfino in enti ebraici, ma che si guardano bene dal denunciare questo scempio culturale. Preferiscono infatti guardare altrove.
(Italia Israele Today, 2 maggio 2018)
In Israele batte un cuore rosa
«Sembrava impossibile. Ora un Paese è salito in bici». Febbre da Giro: ritorno da 300 milioni, passaggi tv ogni ora, record di praticanti. Caldo: a Tel Aviv ci sono 37 gradi.
di Massimo Lopes Pegna
Gerusalemme - Mamilla Avenue
GERUSALEMME- Prima della Guerra dei Sei giorni del '67, Mamilla Avenue, che s'incastra fra partenza e arrivo della tappa a cronometro che venerdì aprirà il Giro 101, era rimasta nella terra di nessuno: né Israele né Giordania. «Poi, 15 anni fa, qualcuno si è reso conto dell'errore e oggi è una delle vie dello struscio e dello shopping di Gerusalemme: uno dei tanti esempi di un Paese che avanza nel futuro", dice Lenny Engelhardt, che venerdì scorso ha vinto proprio qui la 70 km della Gran Fondo New York. «È stata la prova generale per annunciare che siamo pronti a far muovere il Giro d'Italia", dice con un pizzico di emozione, lui ex tifoso di Lance Armstrong e ora di Vincenzo Nibali. Aggiunge: «Strade sigillate, poliziotti preparatissimi, tutto è andato alla perfezione".
Amante
E in cima al gruppo, a pedalare per una manciata di chilometri, c'era il sindaco della città, Nir Barkat, fervente amante della bicicletta, che ha dato una spallata determinante al buon esito di questo progetto. Ora, dietro alla
Il sindaco Nir Barkat (primo a sinistra) pedala per le vie di Gerusalemme
Corsa Rosa, c'è un intero Paese che spinge. L'altro giorno il premier Benjamin Netanyahu, per trainare il movimento di una Nazione ormai da tempo sui pedali, si è fatto riprendere su una bici
assieme alla prima (e per ora unica) squadra professionistica israeliana, la Israel Cycling Academy, che abbia mai partecipato a una gara tanto importante. Tutto virale e ben visibile ad amici e nemici. In televisione, il Giro passa almeno una volta all'ora, con lunghi spot che sabato sera prendevano di mira chi guardava Inter-Juve: telecronaca rigorosamente in ebraico. La copertura mediatica è massiccia, come spiega Jonathan Serrano di 124, canale israeliano internazionale: «Da giorni sono impegnato quotidianamente a realizzare servizi sul Giro". E anche lui conferma: «È l'occasione ghiotta per Israele di promuovere se stesso, organizzando una grande manifestazione. Perché l'europeo di judo dello scorso fine settimana e gli Europei del basket dell'anno passato non valgono certo Giro o Tour de France".
File
All'aeroporto di Tel Aviv ci sono file privilegiate per gli accreditati. Su King David, che strappa a un passo da Namilla, poco dopo la partenza dalla storica porta di Jaffa, ci sono già le transenne. Entrando in città, issati su dei pennoni, sono legate decine di stendardi a tinte rosa che informano dell'evento. La scritta è in ebraico: «Giro d'Italia e d'Israele". Con la foto di un corridore che sembra pedalare su una mountain bike.
Netanyahu si fa fotografare insieme alla prima squadra professionistica israeliana
Perché quello è il tipo di ciclismo che qui tira di più. Il direttore del turismo, Hamir Halevi, si vantava - ma senza alcuna arroganza - di aver contribuito a costruire 1200 chilometri di sentieri per mountain bike: «Dal Golan a Eilat, tutta la lunghezza del Paese". Ma ciò che più gli preme è far sapere al mondo che Israele è ora un Paese per due ruote. «Per esempio, Tel Aviv è una città a misura di biker: chi fa il pendolare in bici, quando arriva in ufficio potrà farsi la doccia", racconta entusiasta. Spiega: «Oltre duecento milioni di persone in quasi 200 nazioni vedranno il Giro. Qui abbiamo tempo buono tutto l'anno, ideale per fare turismo su un sellino. E magari qualche squadra può pensare di venire ad allenarsi da noi". Insomma, la Corsa Rosa come straordinario veicolo di marketing: costato venti milioni di dollari, sborsati per gran parte dal filantropo canadese Sylvan Adams. «Ma contiamo in un impatto economico a breve termine di quasi 30 milioni e nel lungo periodo di circa 300", rivela Halevi. E c'è in ballo la crescita di uno sport che negli ultimi cinque anni ha più che decuplicato i numeri di iscritti: «Dal 2013 siamo passati da 1000 a 15000 membri, di cui 1500 bambini, e da 350 competitor a 3000", dice fiero Yaron Dor, presidente della federazione. A Rio per la prima volta c'era un israeliano con l'élite della mountain bike.
Futuro
Israele freme. È un Paese orientato al futuro, ma che si sostiene grazie alla forza del suo passato. Non solo quello remoto dei luoghi santi e religiosi della Città Vecchia, ma soprattutto quelli sacri alla nuova Nazione che ha appena compiuto 70 anni di esistenza. Le ruote di Aru, Froome e tutti gli altri sfioreranno le pietre miliari della rimembranza. Nessuno può e deve dimenticare. Yad Vashem è il santuario dell'Olocausto, che ricostruisce fedelmente più di ogni altro luogo l'orrore dei campi di sterminio. Mentre, non troppo lontano, nel centro della città, Beit Ha'Am, la Casa del Popolo, è il teatro dove nel 1961 si tenne il processo al cervello della Soluzione Finale, Adolph Eichmann, catturato dal Mossad in Argentina. Fu il primo processo pubblico alla Shoah, l'Olocausto, prima volta in cui sfilarono i testimoni della tragedia e rivelarono al Mondo dettagli spaventosi. Perché quello di Norimberga fu un procedimento militare e l'Olocausto divenne quasi un argomento secondario. Ma ora c'è il presente, con la voglia di vestire abiti diversi da quelli militari e di restare al di fuori della cronache quotidiane dei tg che sconvolgono chi guarda da lontano. Dice l'ambasciatore italiano a Tel Aviv, Gianluigi Benedetti: «Non sarebbe giusto, e sarebbe un errore, mescolare sport e politica". E racconta: «La comunità italiana aspetta gioiosa questo evento. Fin dal giorno dell'annuncio sono rimasto in contatto con Rcs Sport. Sta per andare in porto un progetto che all'inizio sembrava impossibile".
Festa
E invece venerdì succederà. Con i corridori concentrati sulla gara e preoccupati per il caldo eccessivo: a Tel Aviv c'erano 37 gradi. «Vedrete, sarà una festa bellissima", promette Lenny che ha imparato l'italiano per leggere i libri del ciclismo. Tutti emozionati, come fosse il debutto al grande ballo.
(La Gazzetta dello Sport, 1 maggio 2018)
A 70 anni dalla nascita dello Stato d'Israele
Domenica 6 maggio 2018 dalle ore 9:30 alle ore 13:30 nella Sala Luca Giordano di Palazzo Medici Riccardi a Firenze si terrà il convegno "A 70 anni dalla nascita dello Stato d'Israele".
Il convegno è organizzato dall'Associazione Italia-Israele di Firenze e dall'Ambasciata d'Israele in Italia. Col patrocinio di Comune e Città Metropolitana di Firenze, Consiglio Regionale della Regione Toscana, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità Ebraica di Firenze, Università degli Studi di Firenze e Fondazione Spadolini Nuova Antologia.
L'Associazione Italia-Israele di Firenze, in collaborazione con l'Ambasciata dello Stato d'Israele, intende ricordare quell'evento tramite una riflessione sulla storia di settanta anni, che permetta di far emergere come - partendo da grandi difficoltà iniziali - Israele sia diventato uno dei Paesi più avanzati al mondo nel campo della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica, raggiungendo un alto livello di prosperità economica e di coesione sociale.
Interverranno, tra gli altri, Ofer Sachs, Ambasciatore di Israele in Italia, Stefano Folli, giornalista de La Repubblica, Noemi Di Segni, presidente UCEI e Sergio Della Pergola dell'Università Ebraica di Gerusalemme.
Per confermare la presenza e potersi accreditare, inviare una mail a:
firenze.assitaliaisraele@gmail.com.
Comunicato stampa Guido Calosi
Addetto Stampa dell'Associazione Italia-Israele di Firenze
(Associazione Italia-Israele di Firenze, 2 maggio 2018)
Abbas il negazionista: "Furono gli ebrei a causare l'Olocausto, non l'antisemitismo"
"L'Olocausto non è stato causato dall'antisemitismo ma dal comportamento sociale degli ebrei". È quanto ha dichiarato il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas lunedì 30 aprile durante una sessione speciale del Consiglio nazionale palestinese (NPC), in cui ha elargito ai partecipanti una "lezione di storia" - come da lui definita - durante la quale ha cercato di dimostrare che l'antico legame di 3000 anni di ebrei con Israele è falso. Lo riporta, fra gli altri, il Times of Israel.
Abbas ha spiegato che la sua storia è stata sostenuta da tre punti fatti da scrittori e storici ebrei: il primo è la teoria antisemita che gli ebrei ashkenaziti non erano discendenti degli antichi israeliti. Riferendosi al libro scritto da Arthur Kessler, La tredicesima tribù, in cui si afferma che gli ebrei ashkenaziti discendono dai Khazar, Abbas ha detto che gli ebrei europei non avevano "alcun legame storico" con la terra di Israele, e che l'Olocausto non è stato il risultato dell'antisemitismo, ma piuttosto del "comportamento sociale, [dell'imposizione] di interessi e affari finanziari".
Abbas ha anche affermato che Israele è stato un progetto europeo sin dall'inizio, spiegando che funzionari europei come Lord Arthur Balfour della Gran Bretagna avevano limitato l'immigrazione di ebrei nei loro paesi, promuovendo allo stesso tempo l'immigrazione ebraica sulla terra di Israele.
"Coloro che volevano uno stato ebraico non erano ebrei", ha detto, ripetendo una dichiarazione rilasciata a gennaio quando dichiarò che lo stato di Israele era stato un progetto coloniale che non aveva nulla a che fare con l'ebraismo "e mirava solo a salvaguardare gli interessi europei. In questa occasione, aveva anche detto che gli ebrei europei avevano scelto, durante l'Olocausto, di subire "morti e massacri" piuttosto che emigrare in Palestina sotto mandato britannico.
Tuttavia, lunedì, Abbas ha detto che Adolf Hitler, il cui regime nazista era responsabile della morte di 6 milioni di ebrei durante l'Olocausto, ha facilitato l'immigrazione di ebrei in Israele firmando un accordo con la Banca Anglo Palestinese (ora Bank Leumi) per il quale gli ebrei che emigravano in Palestina sotto mandato britannico potevano trasferire, tramite la banca, tutti i loro beni.
Abbas il negazionista
Queste non sono certo le prime dichiarazioni di questo tipo fatte dal presidente palestinese, che ha una lunga storia di negazione dell'Olocausto. La sua tesi di dottorato era intitolata "Dall'altro lato: il rapporto segreto tra nazismo e sionismo" ed è stato accusato nel passato di negare la portata dell'Olocausto. La tesi sosteneva che la cifra di sei milioni di vittime dell'Olocausto sarebbe stata enormemente esagerata e che i leader sionisti avrebbero collaborato con i nazisti.
(Bet Magazine Mosaico, 2 maggio 2018)
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Ministro dell'Istruzione israeliano: Abbas è "intriso di antisemitismo"
GERUSALEMME - Alcuni ministri israeliani hanno condannato oggi le dichiarazioni del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, secondo cui l'Olocausto sarebbe stato causato dal "comportamento" degli ebrei europei. Oggi il ministro dell'Istruzione israeliano, Naftali Bennett, ha affermato: "Abbas è intriso di antisemitismo e razzismo dalla testa ai piedi". Il leader del partito Casa ebraica ha aggiunto che Abbas "prosegue la tradizione dei suoi predecessori, il gran muftì di Gerusalemme era amico di Hitler e l'ex presidente palestinese Yasser Arafat era un assassino di massa degli ebrei". Bennett ha aggiunto: "Abbas infonde il veleno dell'antisemitismo nelle menti della prossima generazione. La pace verrà dal basso e non da un'Autorità palestinese corrotta e antisemita". Lo scorso primo maggio, durante la riunione del Consiglio nazionale palestinese a Ramallah, Abbas ha affermato che l'Olocausto non è stato provocato dall'antisemitismo, ma dal comportamento degli ebrei, dai loro interessi e da questioni finanziarie. Sulla questione è intervenuto anche il presidente della Knesset, il parlamento israeliano, Yuli Edelstein, definendo Abbas una "persona piccola e irrilevante" che "nei suoi ultimi giorni come capo dell'Anp sta rivelando ciò che pensa veramente dello Stato di Israele e degli ebrei". Inoltre, Edelstein ha aggiunto: "L'uomo, che finanzia famiglie di terroristi che ci massacrano, sarà ricordato nei libri di storia come un negazionista dell'Olocausto, un razzista e un istigatore".
(Agenzia Nova, 2 maggio 2018)
E ora in Israele c'è chi vuole Netanyahu premio Nobel per la pace
di Anna Pedri
In Israele c'è chi vorrebbe insignire il premier Benjamin Netanyahu del premio Nobel per la Pace. Dopotutto, dicono, se l'hanno dato al presidente americano Obama che per la pace non ha fatto nulla, non c'è motivo per non darlo a Netanyahu. Ad avere l'idea è stato un attivista del Likud, il partito di Netanyahu, Lior Harari, che ha scritto una lettera in cui chiede che il premier dello stato ebraico venga messo in lizza per ricevere il premio.
"Il primo ministro Benjamin Netanyahu merita di essere insignito del Nobel per la pace per il suo successo nel risvegliare il mondo alla minaccia di un Iran nucleare", scrive Harari, affermando di essere consapevole che la maggior parte dei vincitori del Nobel israeliano non ha sostenuto politicamente Netanyahu. Tuttavia, la questione nucleare iraniana unisce politicamente gli israeliani, e questo basta secondo lui per fargli meritare il premio.
In una dichiarazione al Jerusalem Post Harari ha affermato: "Credo che tutti debbano ringraziare Netanyahu per aver rivelato la trama di un paese che minaccia l'intero mondo illuminato. Se qualcuno avesse rivelato i piani dei nazisti e fermato l'Olocausto, avrebbero meritato il premio". E a chi gli fa notare che questi presunti file in cui viene svelata l'attività nucleare di Teheran sono stati divulgati dal Mossad, l'attivista del Likud fa notare che è Netanyahu ad avere piena autorità sui servizi di intelligence e che è Bibi ad aver reso la lotta contro il nucleare iraniano uno dei cavalli di battaglia della sua carriera politica fin dal 1996, facendo in modo che anche "il mondo arabo si svegliasse e capisse che problema avevano".
In Israele non tutti hanno preso bene la proposta del Nobel per la pace a Netanyahu. C'è chi, come i parlamentari arabi, ha dichiarato che dare a Netanyahu il Nobel per la pace sarebbe "come se la polizia avesse rilasciato un certificato di merito al ladro del quartiere". Qualcuno si spinge a dire persino che proprio il fatto che il premier non abbia mai fatto alcun passo verso la pace con i palestinesi sia alla base della sua sopravvivenza, non solo politica, in Israele.
(Il Primato Nazionale, 2 maggio 2018)
Le reazioni derisorie al discorso di Netanyahu dimostrano che il mondo rifiuta di aprire gli occhi
L'Iran non vìola l'accordo perché va tutto a suo vantaggio, ma Israele ha dimostrato la doppiezza e le vere intenzioni dell'Iran che i negoziatori non vogliono vedere
Le reazioni in gran parte derisorie, negli ambienti internazionali e in particolare tra le nazioni che hanno negoziato la capitolazione nucleare del 2015 con l'Iran, alla valanga di prove illustrata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lunedì sera circa il programma per armi nucleari iraniano, non fanno che sottolineare la loro incompetenza, il loro fallimento, la loro ipocrisia e la gravità della minaccia iraniana in atto, che loro non sono stati capaci di disinnescare.
Mostrando lo stupefacente bottino ottenuto dal Mossad di documenti iraniani sulle armi nucleari, Netanyahu non ha mai detto che Israele aveva trovato la prova o la "pistola fumante" che l'Iran ha violato i termini dell'accordo del gruppo P5 + 1 con gli ayatollah del 2015. I critici che ironizzano sul fatto che non ha prodotto la "pistola fumante" post-2015 semplicemente non colgono il punto della questione, per lo più deliberatamente come è loro solito....
(israele.net, 1 maggio 2018)
I matrimoni si fanno per evitare gli adulteri
L'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri dell'Unione europea
Il capo della politica estera dell'Unione Europea, Federica Mogherini, una delle cheerleader dell'accordo con l'Iran del 2015, ha dichiarato lunedì sera che l'accordo "è stato messo in atto proprio perché non c'era fiducia tra le parti, altrimenti non avremmo avuto bisogno di un accordo sul nucleare da mettere in atto". Perspicace osservazione.
Parabola
I due stavano insieme da un po' di tempo. Lui diceva sempre che le voleva bene; e che non aveva mai avuto altre donne; e che le sarebbe stato fedele per tutta la vita. Lei però non riusciva a crederci del tutto. Avrebbe voluto, perché lui a lei piaceva, ma non riusciva ad essere proprio completamente sicura: la fiducia continuava a scarseggiare. Alla fine capì che c'era bisogno della protettiva garanzia di un accordo formale. E lui accettò: si sposarono. Lei ne fu pienamente soddisfatta e si tranquillizzò. Sì, è vero, dopo il matrimonio da diverse parti le arrivavano voci che il passato del ragazzo non era stato proprio così limpido come le aveva raccontato e che non c'era da fidarsi nemmeno per il futuro, ma lei non ci badava. Fino a che qualcuno arrivò a farle nomi, cognomi, fatti e descrizioni di rapporti sessuali avuti dal ragazzo con altre donne prima del matrimonio. Anche questo però non riuscì a demolire la fiducia della ragazza: qualunque cosa fosse avvenuta nel passato - diceva - ormai era stato messo in atto il matrimonio. E quando il matrimonio c'è, anche la fiducia c'è, perché i matrimoni si fanno proprio quando non c'è fiducia tra le parti. M.C.
(Notizie su Israele, 2 maggio 2018)
déjà vu
di Dario Calimani
Di fronte ai fenomeni di antisemitismo che stanno crescendo di frequenza e di intensità in tutta Europa - l'Italia non è da meno - non si è più autorizzati a minimizzare. E non è più lecito fare sottili distinzioni, strumentalmente politiche, fra antisemitismo di destra e antisemitismo islamico di matrice anti-israeliana. Il risultato dell'antisemitismo è lo stesso, e il pericolo non cambia. Non si tratta soltanto degli attentati all'incolumità fisica degli ebrei, degli attacchi a chi in Francia porta la kippah e degli omicidi dei quali la polizia francese non ama riconoscere il carattere antisemita. Si tratta anche di una criminalizzazione dell'ebreo in quanto tale che sta facendo respirare nuovamente l'aria mefitica dell'anteguerra. Le curve dei campi di calcio non sono fenomeni isolati e isolabili. Destra neofascista, sinistra terzomondista ed estremismo islamico stanno unendo le forze per far sentire l'ebreo estraneo in Europa. Un terribile déjà vu.
Considerato il contesto generale, non è il caso di minimizzare troppo l'antisemitismo dei gruppuscoli ai cortei del 25 aprile e gli sbandamenti ideologici dell'ANPI. I gruppuscoli fanno propaganda e diffondono odio, e l'ANPI revisiona traballante i propri ideali originari e li adatta al momento politico e a situazioni che con la lotta per la liberazione dal nazifascismo non hanno nulla a che fare. Una attualizzazione della storia che ha dell'immorale.
Sdrammatizzare è un atto di irresponsabilità. È giunto il momento, per le istituzioni ebraiche, di fare congiuntamente il punto della situazione, e non per diffondere inutile allarmismo, ma per garantire consapevolezza e saggia cautela. La storia non ci darà una seconda chance.
(moked, 1 maggio 2018)
A Riga i rabbini europei discutono delle leggi contro la circoncisione e le norme alimentari
di Ilaria Myr
Nonostante l'annullamento della proposta di legge in Islanda che avrebbe vietato la circoncisione sia stato accolto con gioia, il benvenuto, gli ebrei europei devono stare comunque in guardia contro i futuri tentativi politici di limitare la pratica del rituale ebraico. È quanto ha dichiarato il capo della Conferenza dei rabbini europei (CER) martedì 1 maggio, in corso questa settimana a Riga, in Lettonia. Vi partecipano 50 rabbini da tutta Europa, come riporta il sito Algemeiner.
La legge fallita in Islanda
"Siamo felici che il governo islandese, così come i membri del suo parlamento, abbiano compreso che tale legislazione sarebbe un banale divieto per le comunità ebraiche esistenti o future in Islanda", ha dichiarato il rabbino Pinchas Goldschmidt, il rabbino capo di Mosca che sta attualmente ricoprendo la carica di presidente di CER".
A seguito di una protesta internazionale contro la proposta islandese di vietare la circoncisione - un requisito religioso rigoroso per entrambi i maschi ebrei e musulmani - la commissione per gli affari giudiziari e l'istruzione del parlamento del Paese ha votato la scorsa settimana per respingere il disegno di legge. "Per come la vediamo, questa iniziativa legislativa è stata sepolta in commissione e speriamo che resti sepolta", ha osservato Goldschmidt.
Il no alla circoncisione forte in Danimarca
Il presidente del CER ha anche indicato la Danimarca come una preoccupazione per quanto riguarda la circoncisione. A gennaio, gli attivisti per il divieto hanno lanciato una petizione pubblica che ora conta solo 5.000 firme in meno delle 50.000 necessarie per forzare un voto sulla circoncisione nel parlamento danese.
Sondaggi di opinione hanno rilevato che quasi i tre quarti dei danesi sostengono il divieto della circoncisione dei ragazzi, mentre l'Associazione medica danese ha chiesto che la pratica sia illegale sotto i 18 anni.
Il rabbino Goldschmidt ha affermato che lo slancio per la legislazione islandese è arrivato dalla Danimarca. Gli attivisti danesi anti-circoncisione "volevano creare un precedente, e pensavano che sarebbe stato più facile approvare una legge in Islanda, perché ci sono molto pochi ebrei o musulmani che vivono lì", ha detto.
"Avremo a che fare con questo movimento, che è particolarmente forte nei paesi scandinavi", ha detto Goldschmidt.
La battaglia per le leggi religiose sul cibo
Altre battaglie in Europa che comportano l'osservanza rituale si sono cristallizzate attorno al massacro degli animali per la carne, con l'ansia in crescita che un numero maggiore di paesi vieti sia i prodotti kosher che i prodotti halal.
La ricerca del CER ha evidenziato la situazione in Portogallo, dove il governo ha spinto verso definizioni di "kosher" e "halal" che contraddicono sia la legge religiosa ebraica che quella musulmana. La Shechita - il metodo ebraico di macellazione umana degli animali destinati al consumo umano - è nel frattempo illegale in diversi paesi, tra cui la Danimarca, alcune parti del Belgio e la Svizzera, dove la pratica è stata vietata nel 1893.
Antisemitismo in Europa
Nel raduno di CER a Riga si discuterà anche dell'aumento dell'antisemitismo in tutta Europa. La capitale lettone fu a sua volta il luogo di una grande controversia a marzo, quando centinaia di persone, compresi i bambini, si unirono ai veterani sopravvissuti di due divisioni lettoni delle SS naziste per la loro annuale "Giornata della Memoria". La marcia è l'unico evento pubblico in Europa che onora coloro che hanno servito con le SS, l'ala militare e di sicurezza separata del partito nazista il cui leader, Heinrich Himmler, ha concepito e attuato la Shoah.
"Ogni persona onesta dovrebbe essere turbata da una marcia di veterani delle SS", ha detto Goldschmidt.
(Bet Magazine Mosaico, 1 maggio 2018)
Netanyahu svela i segreti nucleari dell'Iran: "Ecco le prove, sta preparando le armi"
Il premier israeliano Netanyahu mostra l'archivio segreto dell'Iran, scovato dagli 007 israeliani. Vi sarebbero le prove (video, foto e documenti) sul fatto che Teheran sta preparando le armi nucleari ed ha ingannato il mondo intero
di Raffaello Binelli
Nel corso di una conferenza stampa in diretta tv il premier israeliano Benjamin Netanyahu smaschera Teheran: "Ecco le prove del programma iraniano di creare l'arma nucleare".
E spiega che l'archivio segreto è stato scovato, nascosto in quello che dall'esterno sembrava un normale edificio, dagli 007 israeliani. L'obiettivo iraniano, svela Netanyahu, era quello di produrre e installare l'equivalente di cinque bombe di Hiroshima su un solo missile balistico. I documenti, secondo il capo del governo israeliano, mostrano come l'Iran abbia ingannato la comunità internazionale sul suo programma nucleare.
"L'Iran ha mentito sulla natura del suo programma nucleare e ha "intensificato gli sforzi" per nasconderlo dopo aver firmato l'accordo. Israele ha rinvenuto 55mila files di informazioni che "incriminano" l'Iran con una operazione d'intelligence. Netanyahu fa sapere che i files sono stati trasferiti in una "località altamente segreta in Iran", della quale è stata mostrata un'immagine.
Netanyahu ha mostrato "55mila documenti e altri 55mila file su cd, copia esatta degli originali provenienti dagli archivi segreti del programma nucleare iraniano", di cui il governo israeliano è entrato in possesso "alcune settimane fa". Un programma, ha aggiunto, che "l'Iran nasconde da anni alla comunità internazionale. L'Iran ha mentito, molte volte". Il premier ha definito i documenti "incriminanti" e ha mostrato video, foto e anche mappe.
Poi, dopo aver aggiunto che gli Stati Uniti hanno garantito l'autenticità dell'archivio segreto ottenuto da Israele, ha annunciato che i documenti verranno mostrato all'agenzia Onu per l'energia atomica e ad altri paesi.
Le informazioni che Netanyahu ha mostrato al mondo sono state condivise con Trump: i due leader, ha fatto sapere la Casa Bianca, si sono parlati domenica al telefono per discutere l'attuale situazione in Medio Oriente. In particolare hanno "discusso delle continue minacce e sfide affrontate dalla regione, specialmente i problemi posti dalle attività destabilizzanti del regime iraniano".
La conferenza stampa del premier arriva dopo che nella notte raid aerei hanno preso di mira obiettivi militari nella provincia siriana di Hama e a nord dell'aeroporto di Aleppo, facendo decine di morti tra cui diversi militari iraniani. L'attacco non è stato rivendicato ma si pensa a Israele: secondo il quotidiano Haaretz l'obiettivo erano missili terra-terra che le forze iraniane in Siria si preparavano ad utilizzare per vendicare l'attacco, anche quello attribuito allo Stato ebraico, alla base T-4 nel quale morirono il 19 aprile scorso 7 consiglieri militari di Teheran.
Il tema dell'accordo sul nucleare iraniano è all'ordine del giorno, in attesa del 12 maggio, quando l'amministrazione americana dovrà certificare il rispetto delle condizioni da parte di Teheran o riattivare le sanzioni contro la Repubblica islamica, come ampiamente atteso data l'opposizione feroce di Trump all'intesa. Posizione condivisa con due dei principali protagonisti della regione, Israele e Arabia Saudita, visitati nei giorni scorsi dal neo-segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha usato parole molto dure contro l'Iran, accusato di destabilizzare la regione.
(il Giornale, 1 maggio 2018)
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Netanyahu: "L'Iran ha mentito sul nucleare, preparavano cinque bombe come Hiroshima"
Il premier israeliano annuncia di essere in possesso di dossier segreti. Trump: "Dimostrazione che ho ragione al 100%". Vola il prezzo del petrolio
L'Iran mente e progetta di realizzare almeno cinque bombe atomiche, potenti come quelle sganciate su Hiroshima: grazie ad una spericolata operazione di intelligence Israele è riuscito a venire in possesso dell'archivio segreto relativo ai progetti nucleari militari dell'Iran ed è adesso in grado di esporre «tutte le sue menzogne» alla comunità internazionale. Il premier Benyamin Netanyahu si rivolge alla nazione, con discorso in diretta a reti unificate al termine di una giornata di grande tensione. Iniziata con un misterioso attacco notturno a due basi missilistiche in Siria, attribuito da alcune fonti ad Israele, e da una seduta straordinaria ed urgente del Consiglio di difesa del governo nel ministero della difesa di Tel Aviv.
Con una regia molto accurata, immagini e slides, Netanyahu ha mostrato agli israeliani scaffali carichi di dossier ed armadi pieni di cd. «Alcune settimane fa - ha rivelato - Israele ha ottenuto mezza tonnellata di documenti iraniani, che erano custoditi in un magazzino alla periferia di Teheran, la cui esistenza l'Iran aveva tenuta nascosta. Ci sono 55 mila documenti e 183 cd. Queste sono copie dell'archivio, mentre gli originali sono adesso in mani sicure», scandisce dal microfono parlando di «uno dei successi di intelligence più grandi della nostra storia». Sui dettagli della formidabile operazione non ha tuttavia fornito altri elementi. Tranne il fatto di averli condivisi tutti con l'alleato più fedele, gli Stati Uniti d'America di Donald Trump.
Il premier ha invece spiegato che dall'esame del contenuto di quella sterminata documentazione gli esperti hanno potuto ricostruire in tutte le sue ramificazioni il cosiddetto Progetto Amad. «Era un progetto segreto - ha spiegato - che comprendeva piani elaborati per la progettazione, la costruzione e la prova di ordigni atomici». In questo contesto Netanyahu ha citato, per smentirle, anche le dichiarazioni del ministro degli esteri Jawad Zarif secondo cui Teheran non ha ambizioni a dotarsi di ordigni atomici. «Ma l'Iran mente alla grande», ha stigmatizzato il premier.
Scopo del Progetto Amad, elaborato negli anni 1999-2003, era di produrre armi atomiche, ha affermato Netanyahu. «Si trattava di progettare, produrre e poi provare cinque ordigni nucleari molto più potenti di quelli lanciati su Hiroshima». Il progetto, ha aggiunto, studiava anche il sistema per montarli su missili balistici, ed includeva anche la produzione di testate e di centrifughe. Quel progetto non è mai stato abbandonato, ha concluso il premier parlando ancora una volta di menzogne e spigando che è stato solo sostituito il nome ma sono rimasti il capo-progetto ed il personale.
L'accordo e gli Usa
Le parole di Netanyahu arrivano in vista del 12 maggio prossimo, data entro cui gli Stati Uniti dovranno decidere se continuare a lasciare congelate le sanzioni contro Teheran che furono rimosse dal gennaio 2016, quando entrò in vigore l'accordo sul nucleare.
Trump ha minacciato di ritirare gli Usa dalla storica intesa e di tornare a imporre sanzioni draconiane. I partner Ue hanno difeso l'intesa e l'Agenzia internazionale per l'energia atomica ha ripetutamente detto che Teheran sta rispettando gli accordi presi.
Trump: avevo ragione
«Quello che è successo oggi e che è accaduto di recente mostra che ho avuto ragione al 100%» sono state le parole di Trump, che ha definito una «situazione non accettabile» quella relativa al programma iraniano. «L'avrete visto, io l'ho visto in parte», ha aggiunto riferendosi all'intervento di Netanyahu. Sull'imminente scadenza di una sua decisione sull'accordo, ha ripetuto: «Vedremo cosa succede. Non vi dico cosa farò ma in molti credono di saperlo».
Intanto, dopo le accuse del premier israeliano, vola il prezzo del petrolio che si attesta a quasi 70 dollari al barile.
La fiducia minata
La storia del programma nucleare iraniano è contrassegnata da diversi episodi sospetti che hanno contribuito a minare la fiducia della comunità internazionale sulle reali intenzioni di Teheran. Nel 2003, in particolare, l'Aiea venne a conoscenza di migliaia di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio già installate nell'impianto di Natanz solo grazie a informazioni raccolte dai Mojaheddin del Popolo, il principale gruppo armato di opposizione al regime iraniano. Ciò nonostante Teheran fosse obbligata a fornire ogni informazione sulle sue attività come firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp).
Anche l'esistenza dell'impianto di Fordow, situato sotto una montagna a una trentina di chilometri da Qom, venne rivelata nel settembre del 2009, molto tempo dopo l'avvio della sua realizzazione.
(La Stampa, 1 maggio 2018)
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Netanyahu: «Teheran ha mentito. Vuole cinque atomiche»
ll premier in diretta svela le prove trafugate dal Mossad: «Bombe potenti come Hiroshima». L'attacco nella notte: colpita una base in Siria: uccisi altri 17 iraniani. L'accordo dei 5+1 traballa.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Su un palcoscenico su cui erano state poste le copie dell'archivio atomico che,
con mitologica abilità, il Mossad ha trafugato da Teheran e ha trasportato a Gerusalemme, 55mila pagine e 183 dischetti, mezza tonnellata di materiali, Benjamin Netanyahu ha ieri sferrato uno spettacolare fendente contro l'Iran. «In questi materiali - ha detto in inglese perché il mondo capisse bene - c'è il programma segreto, sempre negato, per costruire l'atomica iraniana». Certo, in linea di massima tutti sanno che l'Iran aveva seguitato a arricchire l'uranio per i 20 anni in cui ha seguitato a negarlo: ma nessuno aveva mai visto, nero su bianco, come il piano conservato in archivio nel distretto di Shorabad mettesse in fila, proprio mentre sia Khamenei sia Zarif dichiaravano di non aver intenzione di costruire I'atomica, tutte le sue tappe: dalle centrifughe ai mezzi balistici di trasporto, all'espansione della gittata dei missili, all'integrazione delle testate con i missili («Puntavano ad avere cinque bombe potenti come Hiroshima»), al piano di sperimentazione nucleare per il quale erano state identificate tre zone in Iran. Si chiamava progetto Amad ed era diretto da Mohser Fahrizadeh. E questo nome, ha fatto notare Netnayahu, è oggi di nuovo nel progetto di sviluppo energetico Spnn. In una parola, Bibi ha ripetuto: l'Iran mente, ha mentito, mentirà. E adesso che il mondo sta riconsiderando l'accordo, sa come questo sia avvenuto.
Ieri mattina intanto, persino i sismografi hanno vibrato. È di ieri notte un'incursione misteriosa, attribuita da fonti svariate a Israele. L'obiettivo: depositi d'armi nei dintorni della città siriana di Hama; si parla di una «palla di fuoco» gigantesca, di 26 morti e 60 feriti, e fra i morti ci sarebbero 17 membri della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Sono loro i gestori della ennesima base militare costruita in Siria con l'appoggio russo e il sostegno di Hezbollah per mantenere al potere Bashar Assad. Si sa che Israele ha usato i suoi jet e i suoi missili in più di 200 operazioni per impedire che l'Iran e gli Hezbollah situino basi in Siria. Israele ha giurato che lo impedirà: l'8 aprile, dopo che l'Iran aveva compiuto la provocazione del drone, aveva distrutto la base T4, destinata a droni e altre armi e gestita dalle milizie degli Ayatollah, facendo 7 morti.
L'Iran appare confuso, certo l'ultima sventola di Netaynahu non gli chiarisce le idee: mancano due settimane al momento in cui, il 12 maggio Donald Trump farà sapere al mondo se ha deciso di annullare l'accordo dei 5+1, e di tornare alle sanzioni. Una decisione che balena fatale per il regime degli ayatollah, dove la crisi economica è rampante e la frattura interna pesante tra Rohani e le Guardie della Rivoluzione. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo l'ha detto chiaramente nel suo giro che si è concluso ieri in Giordania, dopo una visita all'Arabia saudita e una a Israele: «Cancelleremo l'accordo se non si riesce a trasformarlo».
E qui diventa fondamentale l'incontro, programmato in queste ore, fra il presidente francese Macron e il presidente iraniano Rohani. Macron, che ha visitato Trump nei giorni scorsi seguito a ruota da Angela Merkel, ha decisamente cambiato la sua posizione di duro critico della scelta abolizionista di Trump. Sono quattro i pilastri, ha detto, che devono sorreggerne una nuova versione: l'abbandono della posizione di conquista imperialista in Medio Oriente; il divieto di costruire e usare missili balistici e veicoli in grado di trasportare armi atomiche; la cancellazione della clausola di «sunset», quella che consentirebbe di riprendere l'arricchimento dell'uranio dopo 10 anni; e le norme di accesso alle agenzie addette per verificare che il trattato sia veramente osservato.
Israele ha detto la sua. Queste due settimane di maggio sono piene di punti interrogativi: il 12 l'appuntamento con la decisione di Trump, il 14 l'anniversario dello Stato Ebraico in cui gli Usa trasporteranno l'ambasciata a Gerusalemme, il 15 il giorno della Nakba, ovvero il disastro come lo chiamano i palestinesi. Sul confine di Gaza un drappello di tre terroristi che ha cercato di penetrare in Israele è stato fermato col fuoco. Tutto il Paese potrebbe essere scosso dalla furia di dimostrazioni, mentre gli americani presentano il loro piano di pace, di cui si sa poco. Gli inviati di Trump cercano di convincere Abu Mazen a ascoltare le proposte che lui stesso ha definito: «Un prezzo che Israele dovrà pur pagare». È probabile che sull'onda delle vicende coreane, Trump speri di diventare un candidato sorprendente eppure ovvio al premio Nobel per la Pace.
(il Giornale, 1 maggio 2018)
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L'Iran ha mentito, continua a mentire e Israele ha le prove
Netanyahu mostra al mondo i clamorosi documenti sottratti dai servizi israeliani all'archivio nucleare segreto di Teheran
Netanyahu: Stasera vi mostreremo i file segreti nucleari dell'Iran. Come sapete, i leader iraniani hanno ripetutamente negato di aver mai perseguito armi nucleari. Potete ascoltare la Guida Suprema dell'Iran, Ali Khamenei: "[Khamenei] Sottolineo che la Repubblica Islamica non ha mai cercato armi nucleari". Potete ascoltare il presidente iraniano Hassan Rouhani: "[Rouhani] Armi nucleari e altre armi di distruzione di massa non hanno posto nella dottrina di difesa e di sicurezza dell'Iran e sono in contraddizione con le nostre fondamentali convinzioni religiose ed etiche". La stessa cosa è stata ripetuta dal ministro degli esteri iraniano Javad Zarif: "[Zarif] Non abbiamo nessun programma di sviluppo di armi nucleari. In ogni caso, consideriamo le armi nucleari sia irrazionali che immorali". Ebbene, stasera sono qui per dirvi una cosa: l'Iran ha mentito. E alla grande.
(israele.net, 1 maggio 2018)
Mattis: gli Usa "non hanno niente a che fare" con gli ultimi raid in Siria
WASHINGTON - Gli Stati Uniti "non hanno niente a che fare" con l'attacco missilistico che ha colpito alcuni obiettivi militari in Siria nella notte tra il 29 e il 30 aprile. Lo ha detto oggi ai giornalisti il segretario alla Difesa, Usa James Mattis. "Non abbiamo avuto nulla a che fare con il raid della scorsa notte", ha detto il capo del Pentagono. Due basi usate da militari in Siria, una ad Hama e l'altra Aleppo, sono state centrate da numerosi missili. Colpi seguiti da un'esplosione che è sembrata un piccolo sisma, scala 2,2. Nessuno ha rivendicato l'operazione, ma i sospetti sono ricaduti sugli israeliani. In precedenza, infatti, Israele ha bombardato strutture militari in Siria, motivando le proprie azioni con la necessità di impedire al movimento libanese Hezbollah e ai Pasdaran iraniani di colpire lo Stato ebraico dal territorio siriano. Nell'incursione sarebbero morti 40 militari, tra questi numerosi iraniani. Perdite tuttavia smentite da Teheran. Il governo siriano, da parte sua, non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sul raid.
(Agenzia Nova, 1 maggio 2018)
Da Israele a Roma il giro fa la storia
Partirà venerdì da Gerusalemme l'edizione 101 della Corsa Rosa: dopo 21 tappe l'arrivo a fine mese nella Capitale. Riflettori puntati soprattutto su Froome e Aru.
di Francesca Monzone
Louis Meintjes, corridore sudafricano, è stato il primo a sbarcare a Tel Aviv
ROMA - Arriva un Giro speciale, un Giro davvero santo e mozzafiato. Tutto è pronto per la corsa rosa 2018 che partirà venerdì da Gerusalemme, la città Santa, per concludersi il 27 maggio a Roma, altra città Santa. Sarà una delle edizioni più belle, passerà alla storia per la partenza fuori l'Europa (da Israele) dove la carovana rosa correrà tre tappe prima di sbarcare in Sicilia. Ieri, il sudafricano Louis Meintjes, corridore del Team Dimension Data, è stato il primo a sbarcare a Tel Aviv, un giorno d'anticipo sui grandi favoriti, da Aru a Froome. Il sardo vuole arrivare a Roma con la maglia rosa indosso ma che per farlo dovrà sfidare tanti campioni. Tornerà l'olandese Dumoulin della Sunweb, vincitore lo scorso anno e che, più forte che mai, vuole scrivere di nuovo il suo nome nel libro di questa corsa. Per la prima volta vedremo correre al Giro Chris Froome, il britannico della Sky al centro di polemiche per una vicenda di doping. Froome durante la Vuelta dello scorso anno è stato trovato positivo al Salbutamolo ma, in attesa di un verdetto da parte della Federazione Internazionale, può continuare a correre. Torna anche Esteban Chavez, il colombiano della Mitchelton Schott che nel 2016 arrivò secondo alle spalle di Vincenzo Nibali.
Gli italiani
Tra i giovanissimi di talento c'è Miguel Angel Lopez, il piccolo fenomeno dell'Astana, La Francia punterà tutto su Thibaut Pinot della FDJ, vincitore pochi giorni fa al Tours of Alps. Gli italiani in gara saranno tanti e tutti vogliono far bene perché vincere in casa è sempre una grande emozione. La Quick Step Floors, famosa per i suoi straordinari velocisti, schiera Elia Viviani, il corridore veneto che dopo l'assenza dello scorso anno vuole dimostrare di essere il più forte negli arrivi in volata. Ci sarà anche Formolo della Bora Hansgrohe.
Le wild card
Al via le quattro formazioni professional che correranno grazie alle wild card: le italiane Wilier Triestina, Androni Giocattoli, Bardiani CFS e la Israel Cycling Academy. La formazione israeliana è al suo esordio in un grande giro e schiererà otto corridori provenienti da altrettanti paesi. Come abbiamo detto si partirà il 4 maggio da Gerusalemme con una cronometro individuale nella città vecchia, correndo sotto le Mura e poi verso Jaffa. Dopo due tappe per i velocisti, che dovranno vedersela con paesaggi desertici e alte temperature (ieri c'erano 37 gradi), si rientrerà in Italia ripartendo dall'Etna. I chilometri da percorrere nelle 21 tappe saranno 3563,9 con il passaggio in 16 regioni italiane che regaleranno agli appassionati delle cartoline uniche. La prima tappa italiana sarà in Sicilia dove avremo tre frazioni e si arriverà di nuovo sull'Etna per la sesta tappa che sarà il primo arrivo in salita e ci sarà una prima selezione importante. Gli arrivi in salita in totale saranno 8 con 39 GPM e dopo l'Etna ci sarà Montevergine e il Gran Sasso d'Italia nella nona tappa e poi il terribile arrivo sullo Zoncolan per la tappa numero 14. La cima Coppi sarà il Colle delle Finestre, tappa numero diciannove, dove con i suoi 2178 metri di dislivello sarà la cima più alta. Dopo la crono di Gerusalemme ci sarà quella di Rovereto, molto tecnica è adatta ad esperti delle corse contro il tempo. A Roma la corsa rosa arriverà il 27 maggio, un percorso finale in circuito di 11,8 chilometri da ripetere 10 volte nel centro della Città Eterna.
(Il Messaggero, 1 maggio 2018)
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Bar Refaeli la madrina in Israele
Bar Refaeli, madrina israeliana del Giro d'Italia
Venerdì scatta da Gerusalemme, con una cronometro di 9,7 km, la 101' edizione del Giro d'Italia: conclusione a Roma dopo 21 tappe e 3562,9 km. La novità è la scelta della famosissima modella israeliana Bar Refaeli, ex di Leonardo di Caprio, come madrina delle tre tappe in Israele: lei è il volto per eccellenza di questo Paese nel mondo. Sarà protagonista della presentazione delle squadre e della crono di apertura. E venerdì è annunciata la presenza del primo ministro Benjamin Netanyahu e dei suoi principali ministri, come Turismo, Cultura e Sport, che hanno sostenuto la candidatura israeliana.
OGGI - Si completa l'arrivo dei 176 corridori delle 22 squadre. Alle 16 si presenta la Israel Cycling Academy, unico team Professional del Paese, in gara al Giro con due israeliani e l'italiano Kristian Sbaragli.
DOMANI - Esami medici per tutti i corridori da parte della Fondazione antidoping dell'Uci. E la giornata dedicata a Gino Bartali, «Giusto tra le Nazioni». Alle 10 inaugurazione a Haruvit, 50 km da Gerusalemme, della pista ciclabile di 14 km che porta il suo nome: l'ha realizzata il KKL Italia, l'ente nazionale ebraico per l'ambiente. Alle 15, cerimonia al museo Yad Vashem dell'Olocausto, dove c'è il muro che lo ricorda: Bartali sarà ufficialmente nominato «cittadino onorario di Israele».
GIOVEDÌ - Alle 17, a Safra Square, davanti al Municipio, presentazione delle squadre.
VENERDÌ - Alle 13.50 (ora israeliana: le 12.50 in Italia) partenza del primo corridore nella crono di apertura del Giro. Ore 17: arrivo dell'ultimo corridore. Diretta integrale della crono su Rai 2.