Notizie 16-30 maggio 2018
Gerusalemme, causa di guerra o luogo di pace?
I bambini sono l'avvenire di questa terra dilaniata da conflitti etnici e religiosi. Nella città sacra, alle scuole elementari, un terzo dei piccoli sono arabi, un terzo sono ebrei ultraortodossi e un terzo è rappresentato da «tutti gli altri». Gerusalemme, spiega il corrispondente del Corriere da Israele, è il laboratorio del futuro. Qui si fanno le prove per il Paese di domani.
di Davide Frattini
GERUSALEMME - Per lo stipendio di uno shekel l'anno, un quarto di euro simbolico, il sindaco è anche salito sulle scale ad appendere i cartelli agli incroci. Nir Barkat, che guida Gerusalemme da un decennio e prima della politica è diventato milionario come pioniere dei software antivirus, ha voluto piazzare di persona le indicazioni per raggiungere la nuova ambasciata americana nel quartiere di Arnona, sobborgo elegante e un po' noioso. Le strade verso il futuro restano più incerte.
Perché - come ha scritto Eshkol Nevo sul Corriere della Sera - «non sono sicuro che Donald Trump sappia di cosa parla quando parla di Gerusalemme. Gerusalemme può rappresentare l'inizio della risoluzione del conflitto, se ricorderemo che non è solo nostra. Potrebbe anche diventare il fiammifero che innesca l'ordigno esplosivo, se ci crogioleremo nelle dichiarazioni di un presidente americano non particolarmente saggio e dimenticheremo che non lui, ma noi e i nostri figli, dobbiamo vivere da queste parti».
Da queste parti lo scrittore è cresciuto: «la Città Vecchia era ancora il luogo dove passeggiavo con i miei genitori. Senza timori. Vedevo persone che vivevano, si vestivano, parlavano, in modo diverso. Non ricordo che allora l'arabo fosse una lingua minacciosa». Nato due anni dopo la morte del nonno che da primo ministro aveva ordinato di andare avanti, di catturare le zone controllate dai giordani. È così che Yitzthak Yifat si ritrova con il naso rivolto all'insù, lo sguardo commosso verso le pietre più contese tra le pietre contese di Gerusalemme. Tiene l'elmetto tra le mani, assieme ai commilitoni ha battagliato per i vicoli stretti, ha risalito la Via Dolorosa, svoltato a sinistra sotto gli spari dei cecchini arabi appostati sui tetti, è tra i primi israeliani ad arrivare davanti al Muro del Pianto: è il 7 giugno del 1967, i macigni incastrati uno sopra l'altro sostengono da un paio di millenni la speranza e la volontà degli ebrei di tornare a pregare qui. Sorreggono anche la Spianata delle Moschee, il terzo luogo più sacro per i musulmani.
Moshe Dayan osserva la scena con il binocolo, attraverso la lente destra - sull'occhio sinistro porta una benda nera - è convinto di poter scrutare il destino, la radio militare gracchia la sua voce ai comandanti, la bandiera israeliana appena issata va tirata giù, «non vorrete mica incendiare il Medio Oriente». Perché il generale donnaiolo, nominato ministro della Difesa poco prima della Guerra dei Sei Giorni, «vedeva dentro le mura», ricorda Uzi Narkis, uno degli ufficiali che ha combattuto con lui, «un mosaico minaccioso di infiniti conflitti religiosi».
Cinquantuno anni dopo, il governo di Benjamin Netanyahu celebra quella conquista con la decisione (da 560 milioni di dollari) «dl consolidare la nostra sovranità su tutti i quartieri»: una teleferica lunga quasi un chilometro e mezzo che porti dalla parte ovest alla Città Vecchia; investimenti per rafforzare la presenza ebraica nelle aree orientali; fondi alle scuole arabe per spingerle ad adottare il curriculum israeliano; apertura di nuove cliniche sempre per gli abitanti palestinesi; interventi per provare a rallentare il degrado di quella che è la metropoli più povera del Paese. «Abbiamo sognato di ritornare per ricostruirla ed è esattamente quello che stiamo pianificando», proclama il premier israeliano.
Il compito di realizzare questa visione potrebbe essere affidato a Zeev Elkin, il ministro per le Questioni e l'Eredità di Gerusalemme, che in ottobre punta a diventare il nuovo sindaco, visto che Barkat ha deciso di non ricandidarsi per il terzo mandato e di provare a prendersi il posto di Netanyahu, alla guida della destra e di Israele. Ebreo praticante, Immigrato dall'Ucraina quando ancora era un pezzo di Unione Sovietica, deve affrontare i problemi della città che gli israeliani hanno dichiarato capitale «unica e indivisibile» nel 1980, una decisione non riconosciuta da gran parte della diplomazia internazionale, presidenti americani compresi fino al ribaltamento voluto da Trump.
Chi siederà nel palazzo del municipio costruito attorno a piazza Safra - vista sulle mura costruite dal sultano Sollmano e su una complessità unica al mondo - non potrà non tenere conto della crescita della popolazione palestinese: dal 25 per cento degli abitanti nel 1967, al 38 per cento. È citando questi numeri che Elkin descrive Gerusalemme - in un'intervista ad Haaretz, il quotidiano della sinistra israeliana che ha perso lettori quanto i laburisti elettori - come «il laboratorio del futuro». «Ormai le classi di prima elementare nel resto del Paese si stanno avvicinando a quella che è la situazione già esistente a Gerusalemme: un terzo bambini arabi, un terzo ultraortodossi e un terzo tutti gli altri», spiega. Quindi i dilemmi che la metropoli sta fronteggiando adesso - ragiona - sono gli stessi che Israele dovrà sostenere fra venti o trent'anni.
È più probabile che la campagna elettorale si concentri sulla lotta tra ebrei religiosi e laici. Quelli che il devoto Elkin chiama «tutti gli altri» sono preoccupati: il potere degli ultraortodossi di decidere della loro vita quotidiana - ristoranti aperti o chiusi per lo Shabbat, interi quartieri esclusi ai non praticanti - potrebbe solo crescere dopo il voto. Per queste ragioni lo scrittore Etgar Keret riesce almeno a trovare un elemento positivo nel trasloco dell'ambasciata: «Noi abitanti di Tel Aviv saremo costretti a salire più spesso a Gerusalemme dove richiedere i visti d'ingresso per gli Stati Uniti. Da laici bilanceremo la presenza sempre più numerosa degli ultraortodossi. E questo incontro potrebbe anche aiutare la convivenza, il conoscersi e riconoscersi, tra due delle tante tribù di Israele».
Keret sa di cosa parla quando parla di tribù allargate con tutte le loro diversità: «Mia sorella si chiama Dana, vuol dire giudice. Mio fratello Nimrod, colui che ha costruito la Torre di Babele, un ribelle», ha raccontato. Dana è ultraortodossa, ha undici figli, non legge i giornali, vive a Gerusalemme. Per poter regalare i suoi libri illustrati ai nipoti Etgar ha dovuto chiedere che gli stampassero un'edizione speciale censurata: cancellata la televisione o gli altri riferimenti a quella vita moderna evitata come il peccato dagli haredim, la sorella parla soprattutto yiddish, la lingua arrivata con le comunità dell'Europa orientale. ll fratello è tra i fondatori di Anarchici antl-muro. il gruppo pacifista radicale che partecipa alle proteste contro la barriera di sicurezza costruita dagli israeliani durante gli anni della seconda intifada per fermare gli attentatori suicidi, gli arabi denunciano sia stata innalzata espropriando le loro terre. I blocchi di cemento alti nove metri passano anche vicino alle case nelle aree orientali, tagliano i quartieri che i palestinesi sognano ancora di dichiarare come capitale di un loro Stato.
(Corriere della Sera - 7, 31 maggio 2018)
Le startup israeliane presentano le proprie innovazioni tecnologiche con il Gruppo DigiTouch
A giugno Milano diventa teatro dell'innovazione internazionale con l'evento "Tech Innovation: Israeli's startups meet Italian companies" del Ministero dell'Economia Israeliano
di Caterina Varpi
Mercoledì 13 giugno, Milano ospiterà una selezione di startup israeliane, che presenteranno le proprie eccellenze tecnologiche a un pubblico di aziende retail ed e-commerce. Inserito nel roadshow di incontri pianificati in primavera in Europa dal Ministero dell'Economia Israeliano, l'evento dal titolo "Tech Innovation: Israeli's startups meet Italian companies" è organizzato in partnership con il Gruppo DigiTouch.
Con il contributo dell'Istituto Israeliano di esportazione e cooperazione internazionale (Ieici), costantemente impegnato nello scouting di tecnologie e prodotti innovativi, sono state selezionate le startup israeliane più all'avanguardia nelle soluzioni di Online Social Commerce, Data & Analytics, AR/VR, Retail Automation, Supply Chain Tech, AI & Voice recognition e di altre innovation tech che possono offrire alle aziende del mondo retail degli asset strategici per emergere in un mercato altamente competitivo. Le startup ad oggi confermate sono: Bllush Visuals, BrandGuard, Bringoz Technologies, Dynamic Yield, EyeCue (Qlone), KonnecTo, Personalics, Syte, Viewbix e Weezmo.
L'evento prevedrà due momenti, accompagnati da occasioni di networking e di confronto. Si aprirà con una conferenza plenaria in cui interverranno Natalie Gutman-Chen, Consigliere per gli Affari Commerciali del Ministero dell'Economia Israeliano, le spoke person di ogni singola startup che racconteranno in breve l'innovazione tecnologica sviluppata, e Paolo Mardegan, Ceo del Gruppo DigiTouch. L'evento proseguirà con un'agenda di incontri one to one che permetteranno alle startup di incontrare singolarmente le aziende e mostrare come la propria tecnologia possa applicarsi alla singola azienda.
«Siamo molto lieti di poter collaborare con il Ministero dell'Economia Israeliano nella realizzazione di questo evento, che raccoglie alcune delle maggiori eccellenze tecnologiche a supporto dei brand del retail e dell'ecommerce. Si tratta infatti di un progetto che ben si inserisce nel percorso intrapreso dal nostro Gruppo di posizionamento sul mercato come punto di riferimento per le aziende appartenenti a questi due settori che, intravedendo la possibilità di portare un efficientamento dei processi e un incremento del proprio business, si mostrano particolarmente aperti all'introduzione di soluzioni tecnologiche innovative. Inoltre, il nostro Gruppo coltiva da tempo un forte interesse nei confronti del mondo delle startup, manifestato sia attraverso investimenti diretti che mediante l'attivazione di un progetto di co-working, che permette a diverse startup di inserirsi nei nostri uffici, in un contesto di scambio e di collaborazione reciproca», afferma Paolo Mardegan, Ceo, Gruppo DigiTouch.
L'evento è su invito e si svolgerà dalle 9.00 alle 17.00 presso il Bianca Maria Palace Hotel, viale Bianca Maria, 4 a Milano.
(Engage, 31 maggio 2018)
Nei vicoli di Napoli ebraica. Un'identità di frontiera tra odio e amore secolari
I racconti di Pierpaolo Plnhas Punturello. La capacità di essere ortodossi ma tolleranti è un grande dono che fa la città all'ebraismo
di Ariela Piattelli
NAPOLI - In Via Cappella Vecchia, a Napoli, si incontrano le voci degli ebrei partenopei. C'è una Sinagoga dell'800, in uno scomodo vicolo di antiquari in pieno centro, che guarda alla piazza dei Martiri e al mare. Un itinerario lungo i percorsi, che definiscono l'identità dei «figli» di una città che li ha accolti ma anche respinti: Napoli, Via Cappella Vecchia 31 (Belforte Editore) è il libro di Pierpaolo Pinhas Punturello, giovane rabbino e studioso, che in nove racconti compone un ritratto dell'ebraismo partenopeo facendo «dialogare» i personaggi con i luoghi.
«Ho scritto questo libro - spiega Punturello - per raccontare il mondo nel quale sono cresciuto. E si tratta di un mondo che sta scomparendo, così volevo lasciarne il segno. Ho fatto camminare i personaggi per le strade di Napoli, tenendo in mente che anche le norme che regolano la nostra esistenza di ebrei fanno capo a quella che noi definiamo "Halachà", ovvero legge, che è cammino, cammino di vicinanza o distanza». Gli ebrei sono lì da un secolo e mezzo, prima sono arrivati gli ashkenaziti, poi da Roma, dal Nord Italia, dall'Europa dell'Est, dalla Turchia e anche da Salonicco. E se tra le due Guerre se ne contavano 2.000
oggi ne sono rimasti 150. Ciò che caratterizza la loro identità è la totale integrazione nella città: «L'identità napoletana non lascia molto spazio, è invasiva - continua il rabbino - gli ebrei sono quindi figli di Napoli. Chi parlava turco o ladino in casa, nel giro di una generazione parla il dialetto napoletano».
Nella Napoli di Punturello non ci sono posti che rimandano soltanto all'ebraismo, come non ci sono luoghi da dove esso ne è escluso. «C'è tutta Napoli in questi racconti, perché gli ebrei hanno vissuto ovunque in questa città che è un golfo, un utero enorme di accoglienza, di espulsioni, di repulsioni e di amore».
Partenze e arrivi
C'è un ragazzo, Massimo, che nel racconto 15 dicembre 1939 sta per lasciare Napoli, a causa delle infami leggi razziali: prima di imbarcarsi su una nave diretta negli Stati Uniti, scende in taxi la collina del Vomero che guarda la città dall'alto, e intanto i suoi pensieri si mescolano alle strade nelle quali è cresciuto, e si chiede perché deve lasciarli, e perché questi luoghi restino indifferenti all'ingiustizia subita: «Massimo è uno dei personaggi più napoletani del libro. Ebreo vomerese, è un «figlio» di Napoli, ama e odia la sua città, che lo «caccia via».
Prima di raggiungere Cappella Vecchia, passa per le strade che collegano due parti delle città, attraversando mondi economicamente e socialmente diversi e panorami da togliere il fiato come quello di Via Tasso, o la ricchezza del quartiere Chiaia, «il rione Beltà» come lo definiva ironicamente Matilde Serao. «Napoli è una sirena, ti invade,
per poter rimanere ebreo a volte la devi lasciare. Così vivi sempre una sensazione di abbandono». Nel racconto Un bimbo libero c'è la città che accoglie in tutta la sua bellezza il primo segno di rinascita dell'ebraismo dopo la tragedia della guerra. Le voci degli ebrei napoletani, assieme a quelle della Brigata ebraica, questa volta salgono per i vicoli del Vomero per annunciare «È nato il primo bambino ebreo libero!»: «Il protagonista è un neonato che deve essere circonciso. Il primo "Brith Milà" (circoncisione) in Europa dopo la guerra infatti avviene a Napoli. Volevo raccontare la speranza, la Napoli che sa sempre riprendersi, sapersi sedere sulle macerie e ricominciare: è un elemento napoletano ma anche molto ebraico. La capacità identitaria di saper ridere, di essere ortodossi ma tolleranti, è un grande dono che fa Napoli all'ebraismo».
Identità di confine
I percorsi dei personaggi nella città compongono «identità di confine», come le chiama l'autore. «Sono confini che noi ebrei sappiamo anche superare. Napoli è una città di mare, di arrivi e partenze, e gli ebrei qui arrivano e partono, anche da se stessi. Sono sempre mobili». E se Lontano si svolge tutto all'interno della Sinagoga di Cappella Vecchia, in Il dolore e La ricerca i personaggi, protagonisti di drammi identitari, percorrono la città passando per la bella e benestante collina di Posillipo, fino ad arrivare nei tuguri, nei quartieri di Giugliano, descritti in Gomorra, e nel centro della movida metropolitana. In Havdalà il giovane protagonista supera i confini di Napoli, e arriva a Roma: «Sono tutte identità di confine. Napoli è un paradigma, quindi se ci domandiamo quale sarà il destino degli ebrei napoletani dobbiamo chiederci anche quale sarà quello degli ebrei italiani, che si muovono tra più mondi. Il nostro valore sono i confini con i quali ci incontriamo».
(La Stampa, 31 maggio 2018)
Il Kuwait difende Gaza all'ONU
Al Consiglio di sicurezza dell'ONU Il Kuwait ha bloccato una proposta degli Stati Uniti per adottare una dichiarazione che condanni il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro Israele, la peggiore esplosione di violenza dalla guerra del 2014.
Ambasciatrice USA Nikki Haley:"Le azioni di Hamas dimostrano la falsità dell'idea che il popolo di Gaza richieda protezione internazionale. Il popolo di Gaza non ha bisogno di protezione esterna. Il popolo di Gaza ha bisogno di essere protetto da Hamas" .
Al tiro di un centinaio di razzi da Gaza Israele ha risposto con incursioni aeree su Gaza. ''I responsabili di questa escalation, ispirata dall'Iran - ha detto il premier Benyamin Netanyahu - sono il regime di Hamas, assieme con la Jihad islamica e le altre organizzazioni terroristiche''.
Nel sud di Israele intanto i villaggi di confine sono tornati nel frattempo alla normalita'. Evidenti anche i danni alle abitazioni provocate dagli aerei israeliani su Gaza.
(euronews, 30 maggio 2018)
A Bruxelles non c'è più un solo ebreo che indossi la kippah in strada (rabbino capo compreso)
di Giulio Meotti
ROMA - "Cerchi qualcuno che indossi la kippah e che acconsenta a passeggiare con te e una telecamera? Buona fortuna!". Questa frase, pronunciata da un membro della comunità ebraica di Bruxelles, riassume bene l'esperienza di Natacha Mann, una nota giornalista dell'emittente belga Rtbf che stava preparando un servizio sull'antisemitismo nel paese (dove ieri c'è stato un attentato a Liegi). "Volevamo percorrere le strade della capitale con una persona che mostrasse quotidianamente il proprio ebraismo" ha scritto la giornalista sul sito di Rtbf. "Volevamo vedere se queste paure fossero giustificate". Ma dopo tre settimane di ricerca, Mann ha dovuto rinunciare. La comunità ebraica di Bruxelles è talmente spaventata che non un solo ebreo letteralmente ha accettato di indossare pubblicamente il più semplice e discreto dei simboli ebraici. Prima Mann ha contattato un paio di rabbini. Dopo aver scoperto il quartiere di Bruxelles in cui si sarebbe girata la scena, questi si sono rifiutati. Allora ha chiesto al rabbino capo, Albert Guigui. "Nel 2001 è stato attaccato ad Anderlecht e oggi è uno di quelli che non indossano più la kippah. All'inizio, Guigui aveva accettato di farlo per il nostro servizio, ma poi è ritornato sulla sua decisione. Il servizio di sicurezza lo ha dissuaso". Mann allora è andata da altri responsabili della comunità ebraica. A uno ha chiesto: "Ti lamenti alla polizia quando senti insulti antisemiti?". E il rappresentante della comunità le ha risposto: "Ti lamenti alla polizia quando gli uomini ti fischiano per strada?". Alla fine, anche lui ha rifiutato. Allora, Mann ha chiesto a Joel Rubinfeld, il presidente della Lega belga contro l'antisemitismo, che normalmente non indossa la kippah, ma che per l'occasione aveva accettato di farsi filmare, a patto che fosse scortato da un agente di sicurezza in contatto con la polizia. Troppo complicato. Così, il servizio di Natacha Mann è andato in onda senza la scena della kippah. Intanto due gruppi di manifestanti filopalestinesi interrompevano un concerto a Bruxelles di un'orchestra americana a causa della presenza di Hélène Grimaud, nota pianista francese di origini ebraiche, al grido di "Palestina". In Francia, usciva invece un sondaggio Ipof. "Il sionismo è una cospirazione ebraica per manipolare le società occidentali a vantaggio degli ebrei". A questa tesi crede oggi il 53 per cento dei francesi.
Cronache dell'antisemitismo europeo. O della judéophobie, la dernière vague, come la chiama nel suo nuovo libro-appena pubblicato da Fayard - Pierre-André Taguieff, uno dei massimi studiosi francesi. "Abbiamo assistito alla lenta ricostruzione di una visione antiebraica del mondo", scrive Taguieff. "Gli ebrei sarebbero un popolo-carnefice". Secondo l'autore, "l'insicurezza fisica percepita dagli ebrei è accompagnata da insicurezza culturale". Si tratta di una nuova cornice ideologica che accomuna le strade di Bruxelles e i sermoni di Hamas a Gaza, da dove ieri sono state lanciate decine di missili alla volta del territorio israeliano.
Taguieff cita la frase di Khalil Koka, uno dei fondatori di Hamas: "'Dio ha radunato gli ebrei in Palestina non per offrire loro una patria, ma per scavare le loro tombe e liberare il mondo dalla loro presenza inquinante'. E' questo desiderio di sterminio che costituisce la passione trainante dell'antisionismo. Gli ebrei non sono più demonizzati come 'semiti', ma come 'sionisti', non più come una 'razza' nemica, ma come un popolo 'razzista'. E nella loro lotta contro gli ebrei, questo permette di presentarsi come 'antirazzisti' o 'antifascisti'. La retorica antirazzista è al servizio della giudeofobia". E ha arruolato la più grande arma di dissuasione e di distrazione di massa: l'accusa di "islamofobia".
(Il Foglio, 30 maggio 2018)
Gaza, tregua tra Israele e Hamas dopo i venti di guerra
di Aldo Baquis
TEL AVIV - Dopo 24 ore di fuoco a Gaza e nel Neghev occidentale, Israele e Hamas sono tornati tacitamente oggi alle intese verbali per un cessate il fuoco che erano in vigore dall'estate 2014, al termine cioè dell'Operazione Margine Protettivo. Nella nottata, per cinque ore consecutive, i razzi ed i colpi di mortaio palestinesi sono piovuti sui villaggi israeliani di confine, intercettati quando ritenuti pericolosi dalle batterie di difesa Iron Dome.
In parallelo, l'aviazione israeliana ha colpito con insistenza una ventina di obiettivi militari di Hamas e della Jihad islamica nella Striscia. Intanto serrati contatti con le due parti dell'intelligence egiziana hanno calmato la situazione e gradualmente il fuoco è cessato. Poi sia i dirigenti israeliani sia quelli di Hamas e della Jihad islamica sono stati impegnati a valutare le ripercussioni della fiammata di violenza, la più grave dal 2014. Gli uni e gli altri si sono infine detti convinti di aver rafforzato il proprio deterrente.
Il premier Benyamin Netanyahu ha convocato il Consiglio di difesa del suo governo e ha affermato che gli scontri di ieri - iniziati con il lancio da Gaza di 25 colpi di mortaio della Jihad islamica - sono stati ispirati dall'Iran. Alla stampa estera una fonte militare israeliana ha rivelato che sono stati sparati razzi e colpi di mortaio 'Made in Iran'. "Il coinvolgimento iraniano a Gaza è molto profondo", ha insistito.
Nei giorni scorsi, in un'intervista televisiva, il leader locale di Hamas Yihya Sinwar aveva ringraziato il generale iraniano Qassem Suleimani per gli aiuti ricevuti. Netanyahu ha comunque addossato la responsabilità dell'escalation "al regime di Hamas". Se tornasse a mettere alla prova Israele, ha avvertito, "pagherà un prezzo ancora più duro".
La tensione resta comunque alta perché il 5 giugno, anniversario della guerra dei sei giorni (1967), Hamas minaccia di lanciare masse di dimostranti sul confine con Israele. A Gaza intanto i gruppi armati palestinesi hanno diffuso filmati in cui hanno esaltato il comportamento dei loro miliziani impegnati a lanciare razzi e mortai verso Israele. I combattimenti di ieri sono stati denominati 'Fedeltà ai martiri', ossia agli oltre 100 palestinesi uccisi nelle ultime settimane sul confine dal fuoco israeliano.
"Abbiamo fissato nuovi rapporti di forza sul terreno", hanno esultato. Così, se al confine della Striscia si è ristabilito un equilibrio precario, Israele è tornato a dedicare la sua attenzione a quello che considera il pericolo principale: l'espandersi della presenza militare iraniana in Siria.
La questione è stata discussa al telefono dal premier Benyamin Netanyahu con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Domani a Mosca il ministro della Difesa Avigdor Lieberman tornerà sull'argomento con l'omologo Sergey Shoygu. L'obiettivo di Israele è ottenere che le forze iraniane siano costrette da Russia e Usa a lasciare la Siria.
(ANSAmed, 30 maggio 2018)
Netanyahu: inflitto un "duro colpo" ai gruppi palestinesi
Le Forze di sicurezza israeliane (Idf) hanno inflitto "il più duro colpo da anni" ai gruppi armati palestinesi nella Striscia di Gaza. Lo ha detto oggi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in una dichiarazione dopo il presunto accordo di cessate il fuoco raggiunto con Hamas. "Una cosa è chiara. Quando ci mettono alla prova, ne pagano immediatamente il prezzo", ha detto il capo del governo israeliano. "Se continueranno a testarci, pagheranno un prezzo ancora più alto", ha aggiunto Netanyahu in una dichiarazione pubblicata dal suo ufficio. Nelle scorse ore sono stati lanciati oltre 180 razzi da Gaza contro la parte meridionale di Israele, cosa che ha portato lo Stato ebraico a bombardare 65 obiettivi palestinesi nella Striscia. Secondo il quotidiano "Jerusalem Post" si tratta del più grave scontro dalla guerra di Gaza del 2014. "Le Idf hanno reagito con forza, da ieri, al lancio di missili dalla Striscia di Gaza attaccando dozzine di obiettivi terroristici: è il colpo più duro che gli abbiamo inflitto da anni", ha detto ancora Netanyahu, accusando l'Iran di aver istigato Hamas e il Jihad islamico ad attaccare Israele.
(Agenzia Nova, 30 maggio 2018)
A Gerusalemme, Rav Bahbout di Venezia porta alla Knesset la questione 'conversioni'
di Redazione
Lunedì 28 maggio il rabbino capo di Venezia Scialom Bahbout si è recato alla Knesset per protestare contro il rifiuto del Rabbinato capo di riconoscere la sua corte rabbinica ortodossa e le sue conversioni all'ebraismo. Lo riporta il Times of Israel, che dedica alla vicenda un lungo articolo. In particolare, Bahbout contesta il rifiuto da parte dell'autorità religiosa statale della conversione ortodossa di una donna avvenuta sotto la sua tutela due anni fa.
La sua testimonianza è arrivata durante una riunione del comitato che ha visto anche il rabbinato capo annunciare di aver formulato linee guida ufficiali sul riconoscimento dei tribunali rabbinici all'estero, dopo aver consultato i gruppi ortodossi della diaspora, ma non ha rilasciato pubblicamente i criteri fino a quando non è stato ufficialmente approvato dal Rabbinato capo Consiglio.
Il rabbino capo di Venezia - nominato quattro anni fa nella città veneta dopo avere svolto lo stesso ruolo a Napoli e precedentemente av beit din al tribunale rabbinico di Roma -, ha dichiarato al Comitato per l'Immigrazione, l'Assorbimento e gli Affari della Diaspora di aver rianimato il defunto tribunale rabbinico veneziano con quella che ha definito una "decisione necessaria", dopo aver appreso che gli ebrei locali non erano disposti a recarsi a Roma o a Milano per chiedere il divorzio religioso (ghet) o risolvere controversie finanziarie, e per rendere le conversioni all'ebraismo accessibili nella regione settentrionale dell'Italia.
L'autorità del corpo veneziano e dei suoi convertiti non è però stata riconosciuta dal Rabbinato Capo, come hanno fatto sapere le autorità religiose di stato israeliane durante l'accesa udienza parlamentare di lunedì.
Il motivo ufficiale per l'affronto, dato dal direttore generale del capo Rabbinato, Moshe Dagan, è il seguente: "Sebbene la statura religiosa di Bahbout non fosse in discussione, secondo le regole israeliane di Rabbinato, non si possono formare nuovi tribunali rabbinici quando ne esistono già di altri nelle vicinanze, vale a dire a Milano e Roma, rispettivamente a circa 300 e 600 chilometri di distanza".
Secondo quanto riportato da Dagan, Bahbout aveva chiesto il permesso al rabbinato di Israele di formare un tribunale rabbinico a Venezia, ma fu respinto, proprio a causa della vicinanza con le autorità rabbiniche romane e milanesi, ha detto Dagan.
Dagan ha anche affermato che Bahbout ha infranto le regole quando formava il tribunale e accettava dei convertiti che erano stati allontanati dai tribunali rabbinici di Milano e Roma, anche se dovevano convertirsi nel tribunale più vicino a loro.
Dal canto suo, il rabbino capo veneziano ha detto che i suoi inviti al rabbino capo sefardita di Israele a visitare la vecchia comunità ebraica di centinaia di anni e ad osservare, da vicino, i suoi bisogni religiosi, sono sempre rimasti senza risposta. E il suo collega Margalit ha affermato che una recente lettera del capo rabbinato di Israele aveva nuovamente negato la loro richiesta di riconoscimento, citando le "vicine" autorità di Roma e Milano. Le sentenze e le conversazioni religiose di Bahbout furono accettate dalle autorità israeliane quando furono prese a Roma, ma non a Venezia, ha osservato Margalit.
Un affronto religioso o confusione burocratica?
Al centro della discussione di lunedì è stato il caso di una donna che si è trasferita a Venezia da Napoli per convertirsi, dopo anni di studio, ma a cui in seguito è stato impedito di trasferirsi nello Stato di Israele.
"Questa è una donna che osserva tutti i comandamenti, al 100 percento", ha detto Bahbout. Un anno fa, dopo aver completato il processo, alla donna fu negato il permesso di immigrare nello stato ebraico con quello che i rabbini veneziani videro come un rifiuto della loro conversione religiosa da parte del Rabbinato, mentre l'Agenzia ebraica ribatteva che a monte c'era un ostacolo burocratico derivante da direttive interne del ministero dell'interno. La spiegazione data alla donna, disse Margalit, era che "la corte rabbinica che la convertì non fu riconosciuta. Punto".
Ma un rappresentante dell'Agenzia ebraica ha dichiarato che la donna non era stata rifiutata per motivi di ebraicità, ma perché non aveva rispettato le linee guida interne del ministero degli Interni - approvate dai rappresentanti ortodossi, conservatori e riformatori - che richiedono che i nuovi convertiti rimangano per almeno nove mesi nella comunità dove sono stati convertiti. I documenti mostravano che ora viveva a Verona, rendendola inammissibile, ha detto l'Agenzia ebraica. Bahbout sostenne che viveva a Venezia, spingendo Yehuda Sharaf dell'Agenzia Ebraica a impegnarsi a rivisitare il caso se il rabbino capo di Venezia avesse presentato un documento sulla sua residenza.
Le linee guida del Rabbinato
Sempre lunedì, il capo del Rabbinato Dagan ha detto al gruppo che i criteri tanto attesi per il riconoscimento dei tribunali rabbinici all'estero sono stati finalizzati, anche con la consultazione di sei gruppi ortodossi all'estero, incluso il Consiglio rabbinico d'America e le organizzazioni europee. Si aspetta ora un voto finale da parte del Consiglio del rabbinato, a data da destinarsi.
Durante la riunione alla Knesset, però, Dagan non ha voluto rivelare gli standard fino a quando non si è svolto il voto rabbinico finale, nonostante le proteste dei parlamentari della Knesset che hanno fatto appello alla trasparenza.
Le linee guida riguardano solo i tribunali rabbinici all'estero, non specifici rabbini, ha sottolineato Dagan, mentre i criteri per i rabbini riconosciuti ai fini della conversione sono da avanzare separatamente.
Nel dicembre 2016, i due rabbini principali di Israele hanno nominato un comitato per definire le linee guida per il riconoscimento da parte del rabbinato sia dei tribunali rabbinici che dei rabbini, contattando cinque rabbini per il compito: Aharon Katz, Shlomo Shapira e Yitzhak Elmaliach, Yitzhak Ralbag e Yehuda Deri, anziano fratello di Aryeh Deri dello Shas.
Elmaliach ha prestato servizio nel tribunale che a luglio ha annullato una conversione eseguita dal rabbino di New York Haskel Lookstein, il rabbino che ha anche convertito Ivanka Trump, la figlia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, prima di sposarsi.
Il Rabbinato aveva pubblicato una lista nel mese di aprile 2016 di oltre 100 rabbini dagli Stati Uniti e 19 altri paesi di cui accetta l'autorità sulle conversioni ebraiche, specificando però che la lista "non era esaustiva" e includeva semplicemente rabbini la cui autorità era stata accettata in passato. La lettera diceva anche che non c'era alcuna garanzia che i rabbini avrebbero ottenuto la fiducia anche in futuro.
"Il Rabbinato dominato da ultra-ortodossi non ha mai riconosciuto rabbini o conversioni non ortodossi e negli ultimi anni ha messo in discussione le credenziali di alcuni dei principali rabbini liberali ortodossi - scrive il Times of Israel -. Nel luglio 2017, ITIM ha pubblicato una "lista nera" interna di Rabbinato di circa 160 rabbini, provenienti da 24 paesi, compresi gli Stati Uniti e il Canada, tra cui diversi eminenti leader americani ortodossi, di cui il capo Rabbinato non si fida per confermare l'identità ebraica degli immigrati. Rabbini erano sulla lista. Il capo Rabbinato in seguito disse che la lista era stata fraintesa e non era una lista nera".
(Bet Magazine Mosaico, 30 maggio 2018)
Pioggia di razzi e raid. A Gaza è scontro fra jihadisti e Israele
I colpi sparati dalla Striscia su Sderot e nel Negev. La risposta dell'aviazione. Gerusalemme: armi iraniane. Lieberrnan: costruiremo una barriera sottomarina con sensori anti-attacchi.
di Giordano Stabile
Il più intenso lancio di colpi di mortaio e razzi, e la più massiccia rappresaglia israeliana, «dal 2014». Al confine fra la Striscia di Gaza e Israele ieri si è combattuta una battaglia che ha rischiato di essere il preludio di una nuova offensiva come quella di quattro anni fa, che costò la vita a 2.300 palestinesi e 73 israeliani. Alla fine della giornata non si sono contate vittime, anche se ci sono stati numerosi feriti. l'Egitto ha ripreso la sua mediazione con le fazioni palestinesi e cercato di stoppare il botta e risposta. Ma la situazione resta in bilico e dalle manifestazioni al confine- con 112 palestinesi uccisi dal fuoco israeliano dal 30 marzo - si sta passando al confronto militare aperto.
Prima ancora dell'alba la Jihad islamica ha cominciato a prendere di mira le cittadine israeliane a ridosso della Striscia. Colpi di mitragliatrice verso Sderot, poi mortai in azione sulle località nel Negev: Eshkol, Shaar Hanegev e Sdot. Sei proiettili superano la barriera di difesa Iron Dome, forse perché diretti verso zone non abitate, ma uno finisce nel giardino di un asilo a Eshkol. E' un attacco annunciato, perché già due giorni fa il gruppo islamista aveva minacciato ritorsioni per l'uccisione di tre suoi miliziani in un raid. Ma anche Hamas parla di risposta «all'aggressione israeliana».
La reazione dell'aviazione israeliana è immediata. Gli F- 16 colpiscono postazioni militari, depositi di munizioni, imbarcazioni, comandi della Jihad islamica, ma anche di Hamas. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman precisa che i gruppi jihadisti «hanno pagato un prezzo molto alto». Ma la battaglia non finisce lì. Nel primo pomeriggio partono nuove raffiche di mortai e razzi, le sirene suonano per mezz'ora filata in tutto il Sud di Israele, mentre le esplosioni dei proiettili intercettati dall'Iran Dome scuotono il cielo.
Alcuni colpi di mortaio oltrepassano la barriera e le schegge feriscono tre civili a Sderot, poi tre soldati al ridosso del confine, altre dieci persone sono ricoverate sotto choc. Parte la seconda ondata di cacciabombardieri. Vengono distrutti due «tunnel di Hamas» vicino al valico di Kerem Shalom e Rafah e colpiti «oltre 35 obiettivi». Un portavoce militare precisa che i razzi lanciati dalla Jihad islamica sono «made in Iran» e che quella «è un'organizzazione terroristica che ha radici nell'ideologia iraniana».
È l'Egitto invece a cercare di prevenire l'escalation. I suoi emissari, fanno sapere i palestinesi, sono in contatto con Hamas, la Jihad islamica e Israele.
A sera la battaglia aerea si placa ma la Marina israeliana intercetta un peschereccio che cercava di forzare il blocco per unirsi a una flottiglia internazionale ora al largo di Cipro. Diciassette attivisti vengono arrestati. È un nuovo fronte. Anche perché Israele teme infiltrazioni di commando a bordo di gommoni, come quello che nel 2014 riuscì quasi ad attaccare il kibbutz di Zikim. Da allora Hamas ha addestrato 1.500 combattenti delle sue «unità navali», tanto che Lieberman ha annunciato la costruzione di una «barriera sottomarina unica al mondo nel suo genere», dotata di sensori sofisticati per individuare ogni movimento sospetto.
(La Stampa, 30 maggio 2018)
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Gaza-Israele: razzi e raid. Resta soltanto la guerra
Ordigni di Hamas intercettati dal sistema antimissile poi i bombardamenti aerei.
di Fabio Scuto
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IRON DOME
Il sistema di difesa israeliano è divenuto ancora più avanzato: ora anticipa di 15 secondi, con il suono delle sirene, l'arrivo dei colpi ed è in grado di neutralizzare anche i colpi di mortaio (che ieri sono stati 25).
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GERUSALEMME - E' stato un altro giorno di guerra nella Striscia di Gaza e nelle zone israeliane che la circondano. Gli abitanti delle aree agricole ma anche delle cittadine come Sderot, Ashdod, Ofakim, sono stati svegliati dalle sirene di allarme pochi attimi prima che, i mortai sparati da Gaza, venissero intercettati dalla batteria "IronDome''.Ed è andata avanti così per tutta la giornata. Le sirene hanno suonato decine di volte per allertare i residenti che hanno finito per passare la giornata nei rifugi anti-bomba. Oltre 60 i colpi sparati dalla Striscia e trenta gli obiettivi colpiti dai raid dei caccia con la Stella di Davide. Una scheggia di un missile è caduta nel giardino di un asilo a Sderot, per fortuna chiuso a quell'ora del mattino. Tre soldati e due civili sono stati comunque feriti lievemente. Il premier Benjamin Netanyahu promette fermezza contro chiunque minacci Israele, questa fiammata militare non finirà qui. Per il ministro dell'Intelligence Israel Katz "siamo nel punto più vicino allo scoppio della guerra dal 2014". "Non vogliamo la guerra e nemmeno loro", ha detto Katz, "ma abbiamo le nostre linee rosse". La maggior parte dei proiettili sparati da Gaza - fa sapere l'Idf - è stata distrutta dall'Iron Dome, altri non sono stati intercettati perché destinati a cadere in zone agricole o disabitate.
I colpi di mortaio sparati contro le comunità israeliane che si affacciano sull'enclave rappresentano il primo incidente del genere dalla fine di marzo, quando sono iniziate le manifestazioni di massa palestinesi lungo la Barriera di sicurezza che separa il confine. Durante questo periodo, Hamas si è astenuto dal lanciare missili e ha proibito ad altre organizzazioni nella Striscia di effettuare attacchi per non danneggiare la narrativa di una lotta popolare contro i cecchini israeliani. E ha sostenuto la sua tattica nonostante il fatto che circa 100 palestinesi siano stati uccisi e migliaia feriti dal fuoco dell'esercito israeliano. Tuttavia, un cambiamento si è verificato negli ultimi giorni. Domenica l'Idf ha risposto all'esplosione di una carica piazzata vicino alla Barriera sul confine. Un carro armato dell'esercito ha sparato e ucciso tre miliziani della Jihad islamica che erano vicini a un avamposto di Hamas lungo quel tratto della Barriera.
Negli anni dalla terribile "guerra dei 51 giorni" nel 2014, ci sono stati diversi momenti di escalation. I funzionari dell'intelligence israeliana sostenevano che Hamas non aveva il pieno controllo su Gaza e i razzi sparati dimostravano le sue difficoltà ad imporsi sulle fazioni palestinesi più piccole. Ma ora le circostanze sono diverse. Hamas ha dimostrato il suo fermo controllo sulla Striscia negli ultimi mesi e ha diretto le manifestazioni sul confine israeliano come desiderava, decidendo il tasso di violenza. Per gli islamisti restano due scelte: la guerra con Israele, ma le sue conseguenze intimoriscono Hamas, oppure altre manifestazioni al confine che spingeranno Israele a rispondere. Lo scopriremo venerdì.
Ieri sera gli Usa hanno chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza Onu. L'incontro è previsto per oggi pomeriggio. "Gli attacchi da Gaza sono i più importanti dal 2014" e hanno colpito "installazioni civili, tra cui un asilo", ha denunciato l'ambasciatrice Nikki Haley, "il Consiglio di sicurezza dovrebbe essere indignato e rispondere a questo ultimo episodio di violenza contro innocenti civili israeliani".
(il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2018)
Viaggio a Gerusalemme, la chiave della pace
Dedicato a Gerusalemme il numero del settimanale 7 in edicola domani. La giornalista Rossella Tercatin racconterà la città da una prospettiva ebraica. Spiega il direttore Beppe Severgnini sul Corriere: "Non abbiamo proposto un dibattito; abbiamo chiesto di raccontarci la città che abitano e che amano. Cos'è, per voi, Gerusalemme? Le risposte sono dirette e sincere".
Laboratorio
Un cristiano. un musulmano e un'ebrea parlano della città più contesa al mondo
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Il reportage
Il corrispondente del Corriere da Israele racconta le prove per il Paese di domani
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di Beppe Severgnini
Trent'anni fa, primavera. Avevo trentun anni, una moglie, niente figli, molto entusiasmo e notevole energia. Ero appena rientrato da Londra, dov'ero stato corrispondente tra il 1984 e il 1988. Il direttore mi ha mandato a chiamare e mi ha detto: «Adesso vai un mese o due in Israele». Due mesi in Israele? Ma ne so poco o nulla! Risposta: «Appunto. Così impari».
In Israele non ero mai stato, ed era in corso la prima intifada (rivolta palestinese). Ma a un direttore come Indro Montanelli si obbediva volentieri, anche perché aveva l'abitudine di spiegare le decisioni. «Vedi, se vuoi diventare un giornalista in grado di muoversi nel mondo, devi passare un po' di tempo in America, in Russia, in Cina e in Medio Oriente. Di uno di questi posti, magari, diventerai un esperto. Ma anche gli altri ti serviranno. Resta un mese in Israele e ti sarà utile per tutta la vita. Ciao e buon viaggio. Ti aiuterà Dan Segre, oggi lo chiamo».
Così sono andato. Mi sono fermato a Gerusalemme, all'hotel American Colony, dove ho conosciuto colleghi di larghe vedute, verso il Medio Oriente e verso le note-spese; ho viaggiato da Eilat al Golan, da Gaza a Hebron, da Beer Sheva a Haifa; ho ascoltato a lungo Dan Segre, il nostro corrispondente, e grazie a lui ho incontrato Shimon Peres e Amos Oz; ho parlato con soldati e kibbutznikim, con coloni israeliani e ragazzi palestinesi; ho evitato qualche sassata. Non sono diventato un esperto, ma qualcosa ho capito. Una cosa su tutte: si tratta di luoghi complicati. Vanno trattati con cautela e rispetto.
Sono tornato in Israele altre volte, da allora: anche pochi mesi fa. Non sono diventato un esperto, come Montanelli aveva pronosticato. Lo trovo un Paese affascinante. Ma quando accadono tragedie come a Gaza - 62 morti e migliaia di feriti tra i manifestanti - cerco di capire. Mi sembra di poter dire che Gaza sia una prigione a cielo aperto. Che Israele non possa tenerla in quelle condizioni, né reagire come ha fatto. Che l'Egitto non collabori. Che Hamas cerchi martiri, non soluzioni. Che la dirigenza palestinese sia catastrofica a Gaza, e inetta in Cisgiordania. Che Donald Trump sia stato provocatorio, quando ha trasferito l'ambasciata Usa a Gerusalemme.
Al centro di tutto sta proprio Gerusalemme. Se il futuro della città non verrà chiarito, la pace non arriverà mai. Abbiamo chiesto a Davide Frattini, il corrispondente del Corriere, di introdurre la questione; e a tre residenti di raccontare il rapporto con la città. Un monsignore cristiano, un libraio musulmano, una giornalista ebrea. Pierbattista Pizzaballa è amministratore apostolico del Patriarcato latino, dopo essere stato per dodici anni Custode di Terra Santa. Il palestinese Mahmoud Muna ha aperto una libreria a Gerusalemme Est, dopo aver studiato in Inghilterra. Rossella Tercatin si è trasferita da Milano a Gerusalemme, s'è sposata e sta lanciando una startup giornalistica, Pressources. Non abbiamo proposto un dibattito; abbiamo chiesto di raccontarci la città che abitano e che amano. Cos'è, per voi, Gerusalemme? Le risposte sono dirette e sincere: leggetele con attenzione.
Rossella, sul suo profilo Twitter, si presenta con un insegnamento tratto da Pirkei Avot (Etica dei Padri): «Chi è saggio? Chi impara da ogni essere umano». Aggiungo questo, dalla stessa fonte: «Non giudicare gli altri, finché non ti sei trovato al loro posto». Che dite? Mi sembrano buoni consigli, non solo a Gerusalemme.
(Corriere della Sera, 30 maggio 2018)
Abramovich il più ricco d'Israele. Vivrà a casa di Wonder Woman
L'oligarca compra la villa dell' attrice Gadot, per 10 anni non pagherà tasse
di Davide Frattini
TEL AVIV - A Neve Tzedek la famiglia Chelouche si trasferì 134 anni fa per fuggire dall'«aria malsana» del porto di Jaffa. Adesso nel quartiere più costoso di Tel Aviv s'insedia un altro super ricco che ha bisogno di allontanarsi da un'atmosfera soffocante.
Il jet privato di Roman Abramovich è atterrato lunedì mattina e ad accoglierlo c'erano i funzionari del ministero degli Interni con la carta d'identità già pronta. L'oligarca russo vale 9,1 miliardi di dollari e così da due giorni è l'uomo più ricco del Paese, posizione 139 al mondo. Di origine ebraica, ha potuto chiedere e ottenere la cittadinanza attraverso la legge del Ritorno, la rapidità delle pratiche burocratiche ha però insospettito i giornalisti locali: o il proprietario del Chelsea ha iniziato la procedura in segreto qualche mese fa o il governo ha elargito un favore a questo neo immigrato di lusso. Che dovrebbe abitare nella proprietà acquistata per 24 milioni di euro dal marito dell'attrice Gal Gadot-Wonder Woman. La preferenza sarebbe andata alla villa costruita dagli Chelouche nel 1883, ma Abramovich non è riuscito a raggiungere un accordo per trasferirsi dove hanno vissuto i primi ebrei ad aver lasciato la cittadina araba sul Mediterraneo.
Il miliardario avrebbe scelto il trasloco in Israele perché le autorità britanniche stanno ritardando la concessione del visto di residenza a Londra. Dove l'aereo di Abramovich non si è visto dal primo di aprile: il patron non ha potuto assistere dieci giorni fa alla vittoria per 1 a o del suo Chelsea contro il Manchester United nella finale della Coppa d'Inghilterra.
Abramovich e altri 700 oligarchi che hanno fatto di Londra il centro finanziario dei loro imperi non sono più benvenuti da quando il governo di Theresa May ha deciso di punire Mosca per il tentato omicidio in marzo della ex spia doppiogiochista Sergei Skripal e della figlia Yulia. Vladimir Putin ha smentito che i servizi segreti russi siano coinvolti, lo scontro diplomatico ha comunque complicato la vita miliardaria di Abramovich. È considerato molto vicino al Cremlino: è stato uno dei primi sostenitori di Putin e - ricostruisce il quotidiano Guardian - sarebbe stato ricambiato con la proprietà o le partecipazioni in quelle che una volta erano imprese di Stato sovietiche, nel suo caso soprattutto petrolio e miniere.
In questi anni ha rafforzato il legame con Israele attraverso la beneficenza, tra donazioni agli ospedali (oltre 50 milioni di euro) e a un centro di ricerca universitario sulle nanotecnologie (altri 25 milioni). A Tel Aviv trova l'amico e socio in affari Lev Leviev che controlla un colosso nel mercato dei diamanti e dell'edilizia: «La cittadinanza israeliana è diventata per gli oligarchi - commenta Anshel Pfeffer sul giornale Haaretz - una sorta di assicurazione per i giorni in cui dovessero uscire dalle grazie di Putin». Ottengono anche vantaggi fiscali: per i primi dieci anni l'esenzione dal pagare le tasse sui guadagni all'estero e la garanzia di non dover rivelare come siano stati ottenuti.
Il governo di Benjamin Netanyahu acquisisce questo nuovo cittadino speciale mentre sta cercando di coltivare un rapporto ancora più stretto con lo Zar. Avigdor Liberman, il ministro della Difesa e immigrato negli anni Novanta da un'ex Repubblica sovietica, è volato ieri a Mosca per discutere della situazione in Siria: gli israeliani sembrano aver convinto i russi che la presenza militare iraniana è nociva per tutti. I raid di Tsahal per impedire agli ayatollah di arroccarsi dall'altra parte del confine rischiano di mettere in pericolo l'obiettivo di Putin: garantire la permanenza di Bashar Assad al potere.
(Corriere della Sera, 30 maggio 2018)
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Abramovich sbarca in Israele. Chelsea, e ora?
L'oligarca può mollare la Premier e fare calcio in un Paese amico: mercato Blues e Conte alla finestra.
di Iacopo landiorio
E ora che succederà? Cosa deciderà alla fine Roman Abramovich, 51 anni da Saratov? Il magnate russo proprietario del Chelsea dal 2003 l'altro ieri ha ottenuto la cittadinanza israeliana e la residenza a Tel Aviv, grazie alle sue origini familiari. Il padre Arkady e la mamma Irina erano di Tauragé, Lituania, e di famiglia ebrea. Così che la scorsa settimana Abramovich ha fatto visita all'ambasciata israeliana a Mosca, si è messo in fila come un comune cittadino e ha richiesto la cittadinanza di Gerusalemme in base alla Legge del Ritorno in vigore in Israele, che permette ai discendenti ebraici di farne richiesta. Ha ottenuto la cittadinanza e il certificato di «nuovo rimpatriato» lunedì con un raid di appena 3 ore all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, aprendo pure un conto in banca e sottoscrivendo un'assicurazione medica.
Guerra
Ma cosa cambia questo? Intanto che, come confermato ieri da un portavoce di Downing Street (il governo inglese), come ogni cittadino israeliano (anche se con doppio passaporto, visto che resta valido pure quello russo) Abramovich potrà viaggiare senza problemi nel Regno Unito e rimanere per periodi successivi di 6 mesi alla volta senza necessità di visto. Visto di soggiorno che, invece, tardava ad essere rinnovato in quanto solo cittadino russo. E qui si apre un panorama da Guerra Fredda. Rispetto al 2003, quando Abramovich sbarcò a Londra, la situazione politica è cambiata. Il premier Theresa May ha deciso per la non benevolenza verso gli oligarchi russi sbarcati in Gran Bretagna. In particolare dopo il caso dell'avvelenamento dell'ex spia Serghiei Skripal, lo scorso 4 marzo, avvenuto a Salisbury, e dopo l'affaire Litvinenko in passato. Insomma il ritardo nel concedere un nuovo pass al magnate (da quasi 9 miliardi di euro di patrimonio, n. 11 fra i ricchi russi) è stato visto come un monito politico verso gli amici di Putin e un messaggio in codice di Londra al Cremlino.
Fulham
Inoltre pare che il Council of Fulham, il consiglio di circoscrizione dove sorge Stamford Bridge, stia trovando sempre nuovi ostacoli all'ampliamento dello stadio del Chelsea. Insomma, le cose per Roman a Londra non girano per il verso giusto. Ed ecco che lo sbarco di Abramovich in Israele non è cosa da poco. Intanto perché a Tel Aviv è il benvenuto, avendo in passato già investito lì: nella Storedot, azienda tecnologica, nella Anyclip di video e nella Driveway produttrice di smartphone. Inoltre in questi anni Abramovich ha fatto donazioni in Israele per 50 milioni di euro presso gli ospedali e 30 alla Tel Aviv University. E ha comprato nel 2015 il Varsano Hotel a Neve Tzedek, già di proprietà dell'attrice Gal Gadot (Fast & Furious). Insomma per il governo di Netanyahu Abramovich è un amico e uomo da proteggere. Inoltre per i «nuovi rimpatriati» come lui dal '08 esiste un'esenzione dalle tasse per 10 anni per tutti i profitti fatti all' estero. Una bella sanatoria con ricchi incassi in prospettiva.
Beitar?
E qui potrebbe maturare in Abramovich la volontà di mollare Londra e il Chelsea. Non tanto per una difficoltà di gestione, in quanto, come visto, può viaggiare in Inghilterra quando e come vuole col passaporto israeliano e Marina Granovskaia, il suo fido braccio destro, può continuare a operare come fatto finora. Vendere i Blues allora può essere una ritorsione politica contro la May e il suo governo, magari sollecitata dallo stesso Putin. E in Israele sarebbero ben contenti di mollare un club di Ligat Al, la prima serie, ad Abramovich. Magari proprio quel Beitar Gerusalemme, vicino alla destra sionista, più anti-araba e ai limiti del razzismo. In tutto questo Conte aspetta di sapere che ne sarà di lui e della prossima stagione.
(La Gazzetta dello Sport, 30 maggio 2018)
La difesa tedesca sogna i droni israeliani
La proposta di un accordo con Israele per l'acquisto di velivoli da combattimento è destinata a far discutere
900 milioni di euro per l'acquisto di droni da combattimento: è questa la proposta che il ministero della Difesa tedesca ha fatto al Parlamento tedesco. Ora la spesa sarà vagliata dalla commissione bilancio del Bundestag che deciderà se bocciarla o approvarla.
La notizia è stata riportata dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung ed è destinata a far discutere in Europa e non solo. Sarebbe infatti la prima volta che le forze armate tedesche si dotano di uno strumento simile, un drone del tipo Heron Tp. Non si conoscono, per ora, dettagli sul fatto che l'uso di una simile arma potrebbe essere contraria ai diritti umani: come si legge nel documento del ministero della Difesa, "la valutazione in dettaglio circa la conformità al diritto internazionale, la costituzionalità e l'eticità" sarà presa in un secondo momento.
L'accordo con la Israel Aerospace Industries che produce i velivoli a controllo remoto, poi, arriverebbe in un momento storico complesso: da settimane sono in corso dimostrazioni sulla linea di demarcazione fra la Striscia di Gaza ed Israele e centinaia di palestinesi sono stati feriti dal fuoco di militari israeliani o intossicati dai loro gas lacrimogeni. Israele, poi, è sotto attacco dalla comunità internazionale per l'accordo stipulato con il presidente Usa Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
Se la spesa verrà approvata dal Parlamento tedesco, il drone di provenienza israeliana dovrebbe essere consegnato entro nove anni e potrebbe essere in grado di trasportare armi.
(globalist, 29 maggio 2018)
Il giallo dei ladri delle cipolle, in Israele si indaga su una singolare catena di furti
GERUSALEMME - Giallo sul furto di cipolle in Israele. Anche ieri diversi quintali di cipolle appena raccolte sono stati rubati dai campi del nord, spingendo le autorità locali a chiedere al governo di intervenire con urgenza per individuare i ladri di questi bulbi. Un episodio che si collega ad altri analoghi. Una catena di furti definiti un'epidemia di crimini agricoli. I coltivatori della regione sono allarmati. L'ultimo bottino ha fruttato agli Arsenio Lupin circa 20 quintali di cipolle già inscatolate e pronte ad essere inviate ai diversi rivenditori ieri mattina. «Il crimine agricolo è diventata una calamità nazionale» ha affermato Ofer Gershowitz, direttore di Galil Golan, societa' locale che fa parte di una ONG che promuove lo sviluppo della regione della Galilea. Gershowitz ha affermato che questa ondata di furti di prodotti agricoli avviene ogni giorno, così come si verificano incendi di veicoli e macchinari agricoli: secondo il direttore della società, questi atti sarebbero riconducibili a ragioni nazionalistiche, ma non esclude che vi sia anche l'obiettivo di trarne profitti.
(Il Messaggero, 29 maggio 2018)
EcoMotion 2018, Israele guarda al futuro
Tel Aviv ospita la fiera dedicata alle nuove tecnologie e ai numerosi sistemi in grado di aumentare la sicurezza sulle strade
Guida autonoma, auto interconnesse ed eye tracking sono solo alcune delle tecnologie che abbiamo toccato con mano alla EcoMotion 2018 di Tel Aviv.
Più di 600 le startup coinvolte in un settore che negli ultimi anni ha visto numerose aziende investire ingenti capitali, da Nvidia a Terragenic.
Tecnologia al sicuro?
Di pari passo con le nuove soluzioni tecnologiche arrivano anche le aziende di cybersecurity.
Più sistemi elettronici connessi a software significa potenziali vulnerabilità, per questo motivo saranno sempre più presenti a queste fiere aziende che producono specifici "antivirus".
Tecnologia per le competizioni
Non solo software ed accessori per la vita quotidiana ma anche sistemi dedicati alle competizioni.
E' il caso di Griiip, azienda Israeliana che realizza veicoli racing unendo la propria esperienza tecnologica a quella tecnica di Aprilia.
Nel loro stand il prototipo esposto possiede un sistema che avverte quasi istantaneamente i piloti di eventuali incidenti tramite un segnale acustico nel casco ed una spia sul volante.
Il futuro è vicino oppure no? Scopriamolo con il nostro Masterpilot!
(Automoto.it, 29 maggio 2018)
Russia-Israele: accordo su truppe siriane alla frontiera del Golan
di Italo Cosentino
Israele ha accettato la proposta russa di schierare ai suoi confini settentrionali le truppe governative siriane secondo quanto riportano tanto la stampa israeliana che la stampa russa.
"Secondo fonti politiche di alto livello, è stato raggiunto un accordo tra Israele e Russia sul confine settentrionale. L'accordo prevede che l'esercito del presidente siriano Assad prenda posizione al confine con Israele, in cambio i russi promettono che non vi sarà alcuna presenza iraniana o degli Hezbollah nei pressi della frontiera" - avrebbe comunicato una fonte del governo di Israele citata anche dal secondo canale della TV israeliana.
La "terra di nessuno" al confine israelo-siriano lungo la linea di demarcazione fissata al termine della guerra del Kippur del 1973, rientra nella zona di distensione, istituita nel 2017 in seguito agli accordi siglati da Russia, USA e Giordania a margine del G20 di Amburgo. L'accordo riconosceva a Mosca un ruolo di "garante" della sicurezza nella zona. La Russia renderebbe dunque effettivo questo ruolo di garanzia, assicurando ad Israele l'allontanamento delle truppe iraniane e di quelle del movimento sciita libanese Hezbollah.
Il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov aveva affermato lunedì 28 maggio che sul confine sud della Siria devono esserci solo forze governative del paese e nessun'altra forza.
In contemporanea il ministero della difesa della Federazione russa ha reso noto che si terrà una riunione operativa tra i ministri della difesa dei due paesi. L'incontro si terrà nella sede del ministero della Difesa a Mosca.
Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman incontrerà giovedì 31 maggio a Mosca il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu. "Lieberman e Shoigu si sono sentiti al telefono alla fine della scorsa settimana. Durante la conversazione, Shoigu ha invitato Lieberman a un incontro personale giovedì al ministero della Difesa russo a Mosca" si legge nella nota.
(Sicurezza Internazionale, 29 maggio 2018)
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Il negoziato segreto tra Iran e Israele con la regia di Vladimir Putin
di Lorenzo Vita
Qualcosa si muove tra Iran e Israele per quanto riguarda il sud della Siria, dove l'esercito di Damasco si prepara all'avanzata finale su Dar'a.
Una prima notizia è particolarmente interessante sia per l'oggetto ma anche per il mezzo di comunicazione con cui è stata data. Il quotidiano online Elaph, di proprietà saudita, ha scritto che Iran e Israele hanno avuto "negoziati indiretti" proprio per regolarsi sull'avanzata dell'esercito siriano.
Queste trattative, non a caso "rivelate" dalla stessa testata su cui venne intervistato per la prima volta il generale Gadi Eisenkott, comandante dell'esercito israeliano, sarebbero avvenute in Giordania. Usiamo il condizionale, poiché chiaramente non vi sono conferme.
Secondo le fonti citate dal quotidiano, e riprese dai media israeliani, le trattative sarebbero avvenute in un albergo di Amman, la capitale della Giordania. La scena sembra essere stata più o meno questa: una stanza era occupata da vertici della Difesa israeliana e del Mossad, un'altra stanza occupata ambasciatore iraniano in Giordania e alti ufficiali iraniani. Un mediatore giordano faceva la spola da una stanza all'altra.
Cosa si è deciso nella trattativa
A detta delle fonti, gli iraniani si sono impegnati a non partecipare ai combattimenti durante l'avanzata dell'esercito siriano contro la roccaforte ribelle di Dar'a. Dall'altro lato, Israele ha confermato che non interverrà negli scontri. A condizione che sul campo non vi siano neanche Hezbollah e le milizie sciite collegate all'Iran.
Inoltre, sembra che Iran e Israele si siano anche accordati per un'assenza delle forze sciite in tutta l'area vicino alla linea del cessate il fuoco tra Israele e Siria. In sostanza, gli iraniani non saranno più nei pressi delle Alture del Golan. Un compromesso arrivato anche in maniera rapida e che sembra abbia sorpreso anche i rappresentanti israeliani.
Il ruolo della Giordania
Il ruolo della Giordania, in questo frangente, sembra essere fondamentale. Amman e Tel Aviv hanno un accordo militare che implica il supporto israeliano in caso di minacce nei confronti del territorio giordano. E questo implica che i due governi parlino costantemente e che i collegamenti militari non siano mai interrotti. Inoltre, non va dimenticato che il regno hashemita è alleato delle forze occidentali e collabora attivamente con Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Ma alla Giordania interessa non essere coinvolta in guerra. Il Paese è già sensibile a quanto avviene al di là del confine con la Siria. E tra terrorismo, profughi e instabilità, preferisce mantenere una posizione certamente affine all'Occidente ma non in aperto contrasto con l'Iran. Almeno non quanto i sauditi.
La de-escalation zone nel sud della Siria vede il coinvolgimento diretto di Russia, Stati Uniti e Giordania. Un funzionario giordano ha auspicato oggi a Reuters che la Russia faccia rispettare l'accordo di cessate il fuoco all'esercito siriano. "La zona di de-escalation ha prodotto il cessate il fuoco che ha avuto il migliore risultato in tutta la Siria. Le parti dell'accordo sono tutte impegnate a preservarlo".
Le parole di Lavrov
Mentre usciva la notizia di questo presunto accordo tra Iran e Israele, ecco arrivare le parole del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov: "Alla fine, solo le forze governative siriane devono rimanere ai confini della Siria con Israele".
Le dichiarazioni di Lavrov in conferenza stampa sono molto significative. Esse rappresentano chiaramente la strategia russa in Siria. Il sostegno alle forze di Assad resta invariato. Mosca vuole che la Siria riprenda il controllo di tutte le aree ancora occupate delle forze ribelli. E non vuole ostacoli.
La strategia di Putin per fermare Israele
Gli ostacoli sono rappresentati dalle forze occidentali, in particolare dalla base Usa di Al Tanf, ma soprattutto dal conflitto fra Iran e Israele. I bombardamenti israeliani in territorio siriano sono, per la Russia, un problema. E per farli cessare, l'unica soluzione sembra essere l'allontanamento delle forze sciite dal confine con Israele. Vladimir Putin, come rivelato da Haaretz, sembra aver raggiunto questa decisione dopo l'incontro con Benjamin Netanyahu a Mosca.
E l'incontro di giovedì fra il ministro della Difesa Avigdor Lieberman e il suo omologo russo Sergei Shoigu a Mosca, sembra andare incontro alle esigenze di un accordo fra forze israeliane e russe.
L'unico modo per fermare l'escalation militare di Israele è evitare che le truppe iraniane, di Hezbollah e delle milizie sciite siano vicino al territorio israeliano. La de-escalation zone, del resto, serviva anche agli Stati Uniti come garanzia. Israele ha sfruttato la presenza delle forze legate a Teheran per colpire la Siria. Ma la presenza delle forze governative chiaramente esclude che a Tel Aviv possano decidere di bombardare. Sarebbe una mossa azzardata e del tutto inaccettabile.
Le ultime mosse di Israele
Le ultime dichiarazioni israeliane sulla volontà di operare in tutto il territorio siriano sono apparse come un voler alzare i toni dello scontro. Ma la soluzione di compromesso non è mai stata abbandonata. Per la Russia, questa è l'unica soluzione percorribile per salvare la Siria dalle rappresaglie israeliane e pensare alla pace.
L'Iran ne uscirebbe sicuramente indebolito ma comunque da vincitore della guerra di Assad contro il terrorismo. Gli attacchi israeliani e l'assedio politico ed economico degli Stati Uniti rischiavano di veder crollare tutto quanto di buono costruito in anni di guerra.
E Israele osserverebbe soddisfatto l'allontanamento delle milizie sciite e delle forze Quds dal suo confine. Del resto, l'ha ricordato oggi lo stesso Netanyahu: "Quando si parla di Siria, la nostra posizione è chiara: non c'è spazio per una presenza iraniana in nessun luogo". Ma è probabile che Mosca li riporti su più miti consigli, almeno fino a quando non sarà chiaro l'esito della guerra e il futuro della Siria.
(Gli occhi della guerra, 29 maggio 2018)
Da Gaza 27 colpi di mortaio sul sud di Israele. Netanyahu convoca riunione di sicurezza
Secondo i media palestinesi, l'esercito israeliano avrebbe già risposto attaccando obiettivi di Hamas. Israele non conferma.
Risuonano ancora le sirene d'allarme antimissile nelle comunità israeliane attorno alla Striscia di Gaza. È la seconda volta oggi e la radio militare israeliana riporta che è stata avvertita un'esplosione. Questa mattina dalla Striscia sono stati esplosi contro Israele almeno 27 colpi di mortaio (e non 25 come riferito in precedenza), la maggior parte dei quali intercettati da Iron Dome. Uno non intercettato è caduto nel cortile di un asilo israeliano, ma senza provocare vittime. Secondo la radio militare israeliana, si tratta dell'attacco palestinese più consistente nella zona negli ultimi anni. A Eskhol, Shaar Hanegev e Sdot Negev sono risuonate le sirene d'allarme mentre i ragazzi si recavano a scuola e i residenti sono andati nei rifugi.
Intanto, dalla Striscia di Gaza è arrivata la notizia che l'esercito israeliano sta attaccando nella zona orientale. Una decina di missili sarebbero stati sparati da velivoli dell'aviazione israeliana contro imprecisati obiettivi palestinesi nei rioni di Zaitun e Sajaya a Gaza City, secondo quanto riferiscono mezzi di comunicazione locali. Finora non si ha notizia di vittime. In Israele non c'è ancora conferma ufficiale.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione speciale del gabinetto di sicurezza per decidere come rispondere ai razzi lanciati da Gaza. All'incontro parteciperà anche il ministro dell'Intelligence, Yisrael Katz, che ha annullato la sua partecipazione alla Conferenza dell'associazione degli avvocati a Eilat. Nei giorni scorsi la Jihad Islamica aveva minacciato ritorsioni dopo che colpi di artiglieria contro una sua postazione nella Striscia di Gaza avevano ucciso tre miliziani.
"A seguito di segnalazioni di sirene emesse questa mattina - fanno sapere in un tweet le Forze di Difesa Israeliane (Idf) - una serie di razzi sono stati identificati dalla Striscia di Gaza in un certo numero di luoghi in Israele, sono state fatte diverse intercettazioni, i dettagli sono in fase di controllo". Questa mattina presto, l'Idf aveva detto che le sue sirene avevano iniziato a suonare in diverse località israeliane.
(L'HuffPost, 29 maggio 2018)
L'Inno all'Europa di Federica Mogherini
Davanti ai ministri degli Esteri dell'Unione Europea riuniti a Bruxelles, ha parlato anche Federica Mogherini, rappresentante europea per gli Affari esteri. E ha detto:
«Ho piena fiducia nelle istituzioni italiane, a cominciare dal presidente Mattarella, che è il garante di una Costituzione meravigliosa e solida. Quindi, sono fiduciosa che le istituzioni e il Presidente mostreranno sempre di servire gli interessi dei cittadini italiani, che coincidono con il rafforzamento dell'Unione europea».
Gli interessi degli italiani coincidono con il rafforzamento dellUnione europea, dice colei che ne è lAlto rappresentante per gli Affari esteri. A lei allora, come responsabile dei rapporti con l'estero, si potrebbe chiedere: coincidono con tale rafforzamento anche gli interessi dei cittadini israeliani? La domanda potrebbe essere rivolta anche agli amici seri di Israele, quelli che scrivono cose serie su giornali seri. Giova a Israele il rafforzamento dellUnione europea? Che differenza cè tra UE e ONU quanto a gradimento di Israele? M.C.
(Notizie su Israele, 29 maggio 2018)
Israele denuncia: lUnione Europea finanzia i nostri boicottatori
di Rocco Schiavone
"Lo Stato di Israele si aspetta che l'Unione europea agisca con piena trasparenza e sveli la portata del suo aiuto finanziario alle organizzazioni che hanno legami con il terrorismo e promuovono i boicottaggi contro Israele". Il siluro a Federica Mogherini promana dal ministero degli Affari strategici di Gerusalemme ed è contenuto in un rapporto inviato in maniera segreta venerdì alla Commissione europea. È stato rivelato ieri da Israel Hayom che adesso ne chiede conto ai Paesi dell'Unione. Magari perché fermino la Mogherini e la Ue dal proseguire questo tipo di finanziamenti contro chi incita all'odio e al terrorismo, in violazione delle stesse regole europee. La cosa è stata riportata anche dalla Associated Press, per la cronaca.
Sono una dozzina le Ong finite nel mirino dello Stato ebraico. Diplomatica la prima reazione dalla Commissione: "Siamo, naturalmente, lieti di esaminare tutte le informazioni pertinenti ricevute relative alle attività finanziate dall'Ue: denaro proveniente dal bilancio dell'Ue può essere speso solo per lo scopo per il quale è stato contratto, in base a regole rigorose di trasparenza ed è soggetto a ampi requisiti di monitoraggio".
Ma le prove del dossier segreto sembrano schiaccianti: le Ong anti-israeliane hanno ricevuto un totale di 5 milioni di euro (5,9 milioni di dollari) solo nel 2016. A questi soldi si aggiungono i finanziamenti indiretti altrettanto consistenti. Una delle Organizzazioni non governative accusate da Israele è la Norwegian People's Aid, che ha ricevuto oltre 1,7 milioni di euro nel 2016. Proprio il dipartimento di giustizia americano a proposito di questa organizzazione norvegese ha rivelato di averle imposto un patteggiamento giudiziario per chiudere un'accusa di "avere fornito formazione e consulenza di esperti o assistenza ad Hamas", cioè un gruppo terroristico, almeno per gli Stati Uniti. Oltre che per qualunque mente razionale nell'Occidente. La stessa organizzazione ha ammesso di aver svolto analogo ruolo con il Fronte popolare di liberazione della Palestina e con emissari dell'Iran e ha deciso di pagare 5,2 milioni di dollari per chiudere la cosa. Altri gruppi individuati nel rapporto di venerdì sono l'organizzazione britannica War on Want, il gruppo olandese anti-guerra Pax, e alcuni gruppi palestinesi, tra cui Pngo Net, che funge da ombrello per coordinare la cosiddetta "società civile palestinese". Poi c'è il famigerato Centro palestinese per Human Rights. Nel rapporto si parla anche dei finanziamenti indiretti europei a Al-Haq, che ha legami con il Fplp e ricopre un ruolo chiave nella campagna per delegittimare Israele.
Last but not least, l'organizzazione Mossawa che si oppone all'esistenza di Israele come Stato ebraico, incoraggia l'insubordinazione militare, si oppone ai simboli di Stato di Israele, a partire dalla bandiera con la sua stella di David, che secondo la sua logica distorta sarebbe "solo per gli ebrei". Ebbene questi signori dalla Ue negli ultimi cinque anni avrebbero ricevuto oltre 5 milioni e mezzo di euro.
(L'Opinione, 29 maggio 2018)
«Ottant'anni dalle leggi razziali»: un incontro a Savona nella Sala Rossa del Comune
È organizzato dal Soroptimist Club
SAVONA - «Ottant'anni dalle leggi razziali". E' il titolo dell'incontro, che si preannuncia denso di contenuti, organizzato dal Soroptimist Club di Savona, nella Sala Rossa del Comune, giovedì 31 maggio, alle ore 16. Siederanno al tavolo dei relatori il magistrato savonese Fiorenza Giorgi insieme alla professoressa Giosiana Carrara e al Rabbino Giuseppe Momigliano, per commemorare l'ottantesimo anniversario della promulgazione delle Leggi razziali che, emanate nei primi mesi del 1938, sancivano una cruenta deriva politica e sociale e davano il via a una serie di inaudite sofferenze per gli ebrei. «Oggi si inorridisce pensando che il regime fascista teorizzava che gli italiani fossero ''ariani'' ma non bisogna abbassare la guardia per evitare che l'antisemitismo torni a conquistare nuovi adepti. Ben vengano quindi iniziative come questa, voluta fortemente dal Soroptimist, da sempre in prima fila nella difesa dei Diritti Umani, nella lotta per la pace nel mondo, nella creazione di progetti volti all'accettazione delle diversità» spiegano gli organizzatori. L'ingresso è libero nel limite dei posti disponibili.
Il Soroptimist International
Il Soroptimist International è una libera associazione mondiale di donne qualificate in professioni diverse, unite da ideali comuni e dal principio del «servizio» verso le comunità locali, nazionali ed internazionali. L'associazione femminile opera, attraverso progetti, per la promozione dei diritti umani, l'avanzamento della condizione femminile e l'accettazione delle diversità. Nato negli Usa, ad Oakland, nel 1921, il Soroptimist International è oggi diffuso in 125 Paesi e conta oltre 3000 Club, per un totale di circa 100.000 socie. Ciascuna Socia rappresenta nel proprio Club una differente categoria professionale per favorire un'ampia circolazione delle idee fra persone con percorsi lavorativi e background culturali diversi.
I Club locali sono raggruppati in Unioni nazionali. Le Unioni sono raggruppate in quattro Federazioni: Americhe, Europa, Gran Bretagna e Irlanda, Sud-Ovest Pacifico. La Federazione Europea comprende più di 1200 Club in 57 Paesi (raggruppati in 26 Unioni, 55 Single Club in Europa, 31 Single Club in Africa, 1 Single Club nei Caraibi).
Le Federazioni fanno capo al Soroptimist International al cui vertice è la Presidente Internazionale. Il primo Club in Italia fu fondato a Milano nel 1928. L'Unione Italiana si è costituita nel 1950 e conta, nel 2016, 149 Club con circa 6000 Socie. Il Club di Savona è stato fondato nel 1976.
(La Stampa - Savona, 29 maggio 2018)
Morto a 92 anni Alberto Mieli, tra ultimi sopravvissuti ai lager
Il cordoglio della Comunità ebraica di Roma
ROMA - E' morto a Roma Alberto Mieli, uno degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Nato a Roma il 22 dicembre 1925, viene cacciato dalle scuole a causa delle leggi razziali: catturato dai fascisti e dalla Gestapo, è stato deportato a Auschwitz Birkenau non ancora ventenne, dopo esser passato per il campo di Fossoli.
Da tutti conosciuto come "Zi Pucchio", Mieli negli ultimi è stato uno dei testimoni più attivi a nel raccontare la Shoah in Italia. Nel 2015 è stato insignito dell'Università di Foggia della laurea honoris causa in Filologia, letteratura e storia.
"Tra gli ultimi sopravvissuti degli orrori dei campi di sterminio è stato un testimone pieno di umanità e dignità con grande forza di riscatto. La Comunità partecipa intensamente al dolore per la perdita unendosi al lutto della famiglia che ha fedelmente sostenuto la trasmissione della storia", afferma in una nota il Rabbino Capo Riccardo Di Segni.
"La Comunità Ebraica di Roma piange un grande uomo", dice la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello: "Pur soffrendo terribilmente, è stato capace di essere guida e riferimento per i più giovani dedicando la sua vita a tramandare la memoria a testimoniare gli orrori della Shoah senza perdere l'ironia e il sorriso. Ci stringiamo intorno alla sua famiglia in questo momento di grande dolore".
(askanews, 29 maggio 2018)
Abramovich cacciato da Londra chiede il passaporto in Israele
Il miliardario russo Roman Abramovich, l'unidicesimo uomo più ricco di Russia, da venti anni residente in Gran Bretagna dove ha comprato la squadra di calcio Chelsea, è volato a Tel Aviv per prendere il passaporto israeliano, sostengono i media locali, secondo i quali il miliardario è atterrato oggi col proprio aereo privato, proveniente da Mosca. Alcuni media affermano che all'aeroporto ha ricevuto la carta d'identità israeliana, anche se il ministero degli interni dello Stato ebraico non lo ha ancora confermato. All'origine della sua intenzione di stabilirsi in Israele, è stato aggiunto, vi è la decisione della Gran Bretagna di non rinnovare il suo permesso di soggiorno. L'oligarca, 51 anni, ha già compiuto numerose visite in Israele, nel 2015 ha comprato un hotel a Tel Aviv che ha trasformato in sua dimora, se qui si trasferisse diverrebbe l'uomo più ricco del Paese.
Dietro il visto non rinnovato dal Regno Unito, Paese in cui Abramovich ha stabilito la sua vita e molti dei suoi interessi, la crisi fra Londra e Mosca dopo l'avvelenamento dell'ex spia russa Sergei Skripal, ora cittadino britannico, e di sua figlia Yulia, ancora cittadina russa anche lei assieme al padre avvelenata con un agente chimico il 4 marzo scorso. Crisi diplomatica che si è tradotta nella cacciata di 23 diplomatici russi dal Regno Unito e in occasione della quale Londra ha trovato l'appoggio degli Stati Uniti e degli alleati europei.
Abramovich senza visto valido non ha potuto presenziare alla finale di FA cup a Wembley dove il suo Chelsea ha battuto il Manchester United 1-0.
Secondo l'emittente televisiva Canale 10, che ha citato la agenzia parastatale israeliana per la immigrazione 'Nativ', «Roman Abramovic si è presentato all'ambasciata di Israele a Mosca, come chiunque altro, e ha chiesto il permesso di immigrare in Israele. I documenti - ha aggiunto Nativ - sono stati esaminati sulla base della "Legge del ritorno" ed egli ha quindi ricevuto l'autorizzazione a ricevere lo status di immigrato in Israele».
Il passaporto israeliano, comunque, gli permetterebbe di tornare a Londra anche senza visto per pochi giorni, mentre in Israele per dieci anni non pagherebbe tasse su profitti conseguiti all'estero.
(Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2018)
Gerusalemme-Roma, itinerario rosa. "Grazie, orgogliosi di voi"
di Adam Smulevich
La stanchezza sul volto, con quasi quattromila chilometri pedalati in poche settimane. Ma anche la soddisfazione per aver concluso una piccola grande impresa.
I corridori della Israel Cycling Academy, la squadra israeliana che ha corso il Giro d'Italia, la cui 101esima edizione si è conclusa ieri a Roma, varcano compatti l'ingresso dei giardini del Tempio Maggiore della capitale dove ad aspettarli, un'ora dopo la fine dell'ultima tappa e poche ore prima della partenza dell'aereo che riporterà la squadra nel quartier generale di Girona in Spagna, c'è un rinfresco organizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con il supporto di Comunità ebraica romana e Fondazione Museo della Shoah e con l'adesione dell'ambasciata israeliana.
"Ci vuole coraggio nell'immaginare questa incredibile avventura. Un viaggio nella storia, un filo invisibile che ha unito le due città" dice il maskil Cesare Efrati, da cui è nata l'idea di questa serata, nel ripercorrere questo straordinario itinerario rosa da Gerusalemme a Roma.
"Avete provato come lo sport possa educare alla Memoria e unire le persone. Questo Giro, anche grazie alla figura di Gino Bartali, è stato speciale e ha unito Memoria e futuro, Gerusalemme a Roma" dice la Presidente UCEI Noemi Di Segni, rivolgendosi alla squadra.
"Grazie per le emozioni che ci avete dato, oggi e negli scorsi giorni. Mi auguro che questo miracolo possa perpetuarsi nel tempo" afferma la Presidente della Comunità romana Ruth Dureghello.
"Ho avuto il privilegio di avere un nonno come Gino Bartali, un grande esempio umano. Emozionante che si sia corso anche nel suo nome" dice la nipote Gioia in collegamento telefonico (un'aula della scuola ebraica, annuncia poi Dureghello, sarà dedicata alla sua memoria).
Grande l'orgoglio di Sylvan Adams, presidente onorario della Grande Partenza e co-proprietario della Academy. Al suo fianco ci sono Ron Baron, l'altro proprietario, il general manager Ran Margaliot, una delegazione della squadra protagonista al Giro. C'è Guy Sagiv, primo israeliano a concludere una grande corsa a tappe. E ci sono Ben Hermans, Guillaume Boivin, Zak Dempster e Krists Neilands.
"Grazie, grazie di cuore. Essere qui stasera, al termine di settimane così significative per tutti noi, è davvero speciale" spiega Adams.
"Ci avete fatto il più bel regalo per i 70 anni di Israele. E sono certo che sia soltanto l'inizio" commenta orgoglioso l'ambasciatore israeliano Ofer Sachs.
A rivolgere un ringraziamento sono anche il rabbino capo Riccardo Di Segni, che augura di "rivederci presto" e il presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia, che esprime "orgoglio, grande orgoglio".
Il Maestro Claudio Di Segni intona la Hatikwa, l'inno dello Stato di Israele. E poi tutti alla Casina dei Vallati, per un ultimo abbraccio davanti alle litografie (esposte fino al prossimo 3 giugno) che la pittrice Eva Fischer ha dedicato alla bicicletta. Quindici opere che, come spiega il figlio Alan David, parlano anche la lingua dell'impegno (artistico e non solo) e della Memoria.
(moked, 28 maggio 2018)
L'occidente perdona tutto ai palestinesi
La loro miseria è auto inflitta. Ma la colpa ricade sempre su Israele. Il mistero del medio oriente è rappresentato dall'esenzione per troppo tempo concessa ai palestinesi, da un ordinario giudizio morale. Perché nulla è richiesto ai palestinesi, tutto è loro perdonato, mentre tutto è imposto agli israeliani, e nulla è loro condonato?"
Scrive il New York Times (16/5)
Nel 1970, Israele istituì una zona industriale lungo il confine con la Striscia di Gaza (all'epoca, lo Stato ebraico entrò in possesso della Striscia, in conseguenza della Guerra dei sei giorni che deflagrò all'indomani dell'aggressione dell'Egitto di Nasser, che fino al 1967 quel territorio possedeva, ndt), allo scopo di promuovere la cooperazione con la Striscia, creando posti di lavoro a favore dei palestinesi. E' stata smantellata nel 2004 dopo innumerevoli attacchi terroristici, che hanno provocato 11 vittime fra gli israeliani". Così Bret Stephens. "Nel 2005 donatori ebrei americani hanno sborsato oltre 14 milioni di dollari, a favore dei proprietari delle serre che coloravano la Striscia, fino allo sgombero unilaterale disposto da Sharon. I palestinesi hanno devastato decine di queste serre il giorno successivo all'abbandono dei coloni israeliani. Nel 2007 Hamas ha assunto il controllo di Gaza al termine di un sanguinoso colpo di stato ai danni della fazione rivale del Fatah. Da allora, Hamas, Jihad islamica e altri gruppi terroristici che infestano la Striscia di Gaza, hanno sparato quasi 10.000 razzi e colpi di mortaio all'indirizzo di Israele: tutto mentre allo stesso tempo denunciavano il 'blocco economico' consistente nel rifiuto dello stato ebraico di alimentare le fauci che intendevano azzannarlo (anche l'Egitto e la stessa Autorità palestinese praticano una più intensa forma di blocco economico, senza subire alcuna censura internazionale). Nel 2014 Israele ha scoperto che Hamas ha costruito 32 tunnel sotto il confine di Gaza. Costo stimato: 90 milioni di dollari.
Questo spiega appieno la miseria imperante a Gaza. Questo ci conduce al grottesco spettacolo a cui si assiste lungo il confine di Gaza da alcune settimane a questa parte: in cui migliaia di palestinesi cercano di forzare il confine e di penetrare in Israele. Si noti il persistere dello schema già proposto: si invoca la distruzione di Israele, salvo implorare pietà e aiuto qualora il piano non dovesse funzionare. Il mondo chiede ora a Gerusalemme di rendere conto di ogni proiettile sparato nei confronti dei facinorosi, senza offrire alcuna soluzione praticabile alla crisi. Ma dov'era l'indignazione quando Hamas costringeva i palestinesi a muovere verso la recinzione, malgrado le ripetute esortazioni di Israele a desistere da questo piano? Nessuno si scandalizza nell'apprendere che gli organizzatori hanno letteralmente spinto le donne in cima ai disordini perché, come riportato, "i soldati israeliani non sparano a donne e bambini"? O che gli organizzatori hanno dotato di tenaglie e tronchesi bambini di appena 7 anni? O che i disordini sono cessati quando Israele ha avvisato i leader di Hamas, che preferiscono nascondersi negli ospedali di Gaza, che la loro vita era minacciata? Ovunque nel mondo, questo comportamento sarebbe stato stigmatizzato e condannato come autolesionista, vile e cinico. Il mistero del medio oriente è rappresentato dall'esenzione per troppo tempo concessa ai palestinesi, da un ordinario giudizio morale. Perché nulla è richiesto ai palestinesi, tutto è loro perdonato, mentre tutto è imposto agli israeliani, e nulla è loro condonato?".
(Il Foglio, 28 maggio 2018)
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I media fanno il gioco di Hamas. Chi aprirebbe la porta di casa a 40 mila invasati?
Alan Dershouiitz denuda la "strategia del bambino morto" da parte palestinese e come i crimini dei terroristi siano condonati in occidente
Scrive il Jerusalem Post (18/5)
Se questa fosse stata la prima volta che Hamas provoca deliberatamente Israele costringendolo ad azioni di autodifesa che causano la morte non voluta di alcuni civili di Gaza, i mass-media potrebbero essere scusati per aver fatto il gioco di Hamas". Così scrive l'avvocato americano Alan Dershowitz. "in realtà, l'ultima provocazione di Hamas - far sì che 40.000 abitanti di Gaza cercassero di abbattere la recinzione di confine ed entrassero in Israele con bombe molotov e altre armi, più o meno improvvisate - fa parte di una costante tattica di Hamas che ho definito la 'strategia del bambino morto'. L'obiettivo di Hamas è quello di costringere Israele a uccidere il maggior numero possibile di abitanti di Gaza in modo che i titoli della stampa inizino sempre e per lo più si fermino al conteggio del corpi. Hamas manda intenzionalmente donne e bambini in prima linea, mentre i suoi combattenti si nascondono dietro questi scudi umani.
Da tempo gli stessi capi di Hamas hanno ammesso questa tattica. Già nel 2008 Fathi Hammad, membro di Hamas nel Consiglio legislativo palestinese, dichiarava: "Per il popolo palestinese, la morte è diventata un'industria in cui eccellono le donne, così come tutte le persone che vivono in questa terra. Gli anziani eccellono in questo, così come i mujahedin e i bambini. Questo è il motivo per cui hanno formato scudi umani di donne, bambini, anziani e mujahedin: per sfidare la macchina da bombardamento sionista". Hamas ha usato questa tattica per provocare diverse guerre con Israele, nelle quali i suoi combattenti lanciavano razzi a partire da zone civili, compresi ospedali, scuole e moschee. Quando Israele rispondeva, faceva del suo meglio per evitare vittime civili lanciando volantini di avvertimento, avvisando per telefono i residenti dei potenziali bersagli, lanciando rumorose bombe non letali sui tetti delle case utilizzate dai terroristi come rampe lanciarazzi e magazzini di esplosivi. Inevitabilmente, nonostante tutte queste misure, dei civili sono rimasti uccisi e i mass-media hanno puntualmente incolpato Israele di quelle morti senza tenere in alcun conto tutte le precauzioni adottate. Lo stesso è accaduto quando Hamas ha costruito tunnel per infiltrazioni terroristiche utilizzati per sequestrare cittadini israeliani. Gli ingressi di questi tunnel erano spesso posizionati in aree civili, incluse scuole e moschee.
Usare i propri civili come scudi umani mentre si prendono di mira i civili israeliani costituisce un doppio crimine di guerra. Eppure, la maggior parte dei mass-media e degli organismi internazionali si concentra sulla reazione di Israele a questi crimini di guerra, anziché sui crimini stessi di Hamas. La crudele realtà è che ogni volta che Israele uccide accidentalmente un civile di Gaza, Israele perde. E ogni volta che Israele uccide un civile di Gaza, Hamas vince. Hamas trae vantaggio da ogni morte che Israele causa accidentalmente. Per questo Hamas esorta donne e bambini a farsi martiri. Parlare di 'strategia del bambino morto' può sembrare crudele: infatti è una strategia crudele.
Ma non si deve accusare chi la descrive e denuncia. Si deve accusare chi la utilizza cinicamente. E si devono accusare i massmedia che fanno il gioco di coloro che la utilizzano, quando si limitano a riportare il conteggio dei corpi e non la deliberata tattica di Hamas che porta a quel risultato. E' vero che Gaza è in una situazione disperata ed è ferita. Ma è una ferita autoinflitta. Quando Israele pose fine all'occupazione della Striscia di Gaza sgomberando fino all'ultimo soldato e colono, Gaza avrebbe potuto diventare una Singapore del Mediterraneo. E' una bella zona, con un grande litorale. Ha ricevuto una quantità di denaro e di altri aiuti dall'Europa e da tante agenzie mondiali. Israele lasciò a Gaza serre e attrezzature agricole. Ma invece di usare queste risorse per nutrire, dare una casa e dare un'istruzione ai suoi abitanti, Hamas ha costruito un'infinità di armi, razzi, tunnel terroristici. Ha letteralmente gettato dai tetti i dissenzienti e ha assassinato i membri dell'Autorità palestinese che erano disposti a riconoscere Israele e negoziare con esso. Hamas respinge la soluzione a due stati e qualsiasi soluzione che lasci in vita Israele. La sua unica soluzione è la violenza, e gli eventi di questi giorni al confine sono una manifestazione di quella violenza.
Quale paese al mondo permetterebbe a 40.000 fanatici invasati, votati alla sua distruzione, di abbattere una recinzione di confine e dare l'assalto ai suoi cittadini che vivono pacificamente nei pressi del confine? Nessuno, ovviamente. Israele avrebbe potuto fare di più per ridurre il numero di vittime tra coloro che cercavano di infrangere la recinzione di confine? Non lo so, ma non lo sanno nemmeno le legioni di generali da poltrona che in questi giorni condannano Israele per le misure che ha adottato per prevenire la terrificante catastrofe che si sarebbe avuta tra i residenti di villaggi e kibbutz vicini al confine se l'irruzione fosse riuscita.
Una cosa è perfettamente chiara: Hamas continuerà a usare la 'strategia del bambino morto' fino a quando gli converrà, cioè fino a quando i mass-media continueranno a denunciare le morti come hanno fatto finora. Molti mass-media si rendono corresponsabili di queste morti perché la loro sbilanciata denuncia unilaterale incoraggia Hamas a continuare a mandare donne e bambini innocenti in prima linea. Forse Israele potrebbe fare meglio, nel difendere i suoi civili. Ma è sicuro che i mass-media potrebbero fare molto meglio riportando in modo accurato e corretto la strategia di Hamas che si traduce in tante morti innocenti".
(Il Foglio, 28 maggio 2018)
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I media e le fake news di Hamas
Il portavoce dell'esercito israeliano espone la sua versione
Scrive il Wall Street Journal (20/5)
Il movimento terroristico di Hamas ha un "modus operandi semplice: mentire", e alcuni media internazionali sono caduti nelle sue bugie, riportando quanto accaduto a Gaza nelle scorse settimane. A sostenerlo, in un editoriale pubblicato dal Wall Street Journal, il portavoce dell'esercito israeliano Ronen Manelis, che ricorda qual è l'obiettivo ultimo di Hamas: "delegittimare e distruggere Israele". Obiettivo, scrive Manelis, che Hamas ha sostenuto anche durante le manifestazioni tenutesi al confine con il territorio israeliano. "Dietro le quinte c'era un piano che minacciava il confine di Israele e i civili - si legge nell'editoriale -. Hamas ha fornito a civili innocenti, tra cui donne e bambini, trasporti gratuiti da tutta la Striscia di Gaza per portarli fino al confine. Hamas li ha assunti come extra, pagando 14 dollari a persona o 100 dollari a famiglia per la partecipazione, e 500 dollari a chi è rimasto ferito. Hamas ha costretto tutti i suoi comandanti e miliziani a recarsi al confine vestiti da civili, ciascuno di loro doveva fungere da direttore di un'area". Il movimento ha quindi diretto le proteste e il suo obiettivo era quello di infiltrare i suoi miliziani in territorio israeliano. "L'Idf aveva informazioni di intelligence precise secondo cui i violenti disordini mascheravano un piano di infiltrazione di massa in Israele per compiere un massacro contro i civili israeliani. Hamas l'ha definita una 'protesta pacifica', e gran parte del mondo ci è semplicemente cascato". Lo stesso gruppo terroristico, scrive Manelis, ha poi smentito se stesso, e di fatto confessato il suo vero intento: "Il 13 maggio Mahmoud Al-Zahar, cofondatore di Hamas, ha detto in un'intervista ad al Jazeera: 'Quando parliamo di 'resistenza pacifica', inganniamo il pubblico". "L'idea che questa sia stata una protesta pacifica è la più grande menzogna di tutte, perché i principi di base necessari per una protesta in una democrazia come gli Stati Uniti o Israele non esistono a Gaza - ricorda il portavoce dell'esercito. Sotto il controllo di Hamas non vi è libertà di parola, di riunione, di religione e di stampa. Non ci può essere una protesta pacifica a Gaza, solo incontri organizzati, approvati e finanziati da Hamas. Chiamare quanto accaduto una protesta non è una fake news, è semplicemente un falso".
Falso in cui, prosegue Manelis, sono caduti diversi media, facendo un favore alla propaganda di Hamas - che ha confermato che 50 dei 62 morti negli scontri della scorsa settimana erano suoi agenti. "Se per vincere la guerra di propaganda internazionale devo mentire come fa Hamas, allora preferisco dire la verità e perdere - scrive l'ufficiale di Tsahal -. L'Idf vincerà dove è importante farlo, ovvero nel proteggere i nostri civili dal terrorismo. I soldati dell'esercito israeliano hanno vinto questa settimana garantendo la sicurezza delle famiglie israeliane e impedendo a Hamas di raggiungere gli obiettivi dichiarati. Più che la menzogna, la vera differenza tra me e Abu Zuhri (portavoce di Hamas) è che lui va a dormire ogni notte sognando la distruzione del mio paese e la morte dei miei figli. Io invece vado a dormire la notte sperando in una vita migliore per i suoi figli e per i miei. E questa è la verità".
(Il Foglio, 28 maggio 2018)
Cade un tabù. Il principe William visiterà lo Stato ebraico
di Giordano Stabile
Una visita storica, la prima di questo tipo». A definire così il primo viaggio ufficiale in Israele di un reale d'Inghilterra è il premier Benjamin Netanyahu, che pure quest'anno ha battuto il record di eventi storici, da quelli ameni come la prima volta del Giro d'Italia a quelli ad altissima tensione come il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Il reale inglese in questione è il Duca di Cambridge, principe William, secondo in linea di successione al trono.
William comincerà il suo tour in Medio Oriente in Giordania, ad Amman, il 24 giugno. Poi visiterà il sito archeologico greco-romano di Jerash, e il 25 sarà in Israele, a Tel Aviv. Seguirà poi una tappa in Cisgiordania a Ramallah. I dettagli sono ancora scarni. Non è specificato se William sarà accompagnato dalla moglie Kate e chi incontrerà, anche se sono probabili colloqui con Re Abdullah di Giordania, Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen.
L'aggettivo «storico» è comunque adeguato, perché è la prima visita di un reale inglese dalla nascita di Israele, 70 anni fa, in quello che una volta era un «mandato britannico». Lo Stato ebraico è sorto sull'impulso della «dichiarazione» dell'allora ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour, del 1917, ma gli ultimi anni del mandato furono segnati da scontri durissimi fra i gruppi indipendentisti ebrei e le forze di sicurezza inglesi. Da allora, in effetti, i reali hanno compiuto molte visite nei Paesi arabi ma mai una ufficiale nello Stato ebraico. Il principe Carlo ha compiuto due viaggi privati, per i funerali di Yitzhak Rabin nel 1995 e di Shimon Peres nel 2016. In quell'occasione andò anche sulla tomba di sua nonna, la principessa Alice di Battenberg, sepolta al convento di Santa Maria Maddalena sul Monte degli Ulivi.
Netanyahu ha promesso che William sarà accolto «con il più grande entusiasmo e affetto», mentre Abu Mazen ha auspicato che la visita possa «contribuire a rafforzare l'amicizia fra in nostri due popoli». Sulla questione palestinese e su Gerusalemme Londra ha posizioni più equidistanti rispetto all'Amministrazione Trump ma i rapporti fra Gran Bretagna e Israele sono più stretti che mai, soprattutto quelli economici. Oltre 400 aziende britanniche operano nello Stato ebraico e gli scambi commerciali l'anno scorso hanno superato quota 7 miliardi di dollari, in crescita del 25 per cento.
(La Stampa, 28 maggio 2018)
L'Arte della Guerra - Già in guerra gli F-35 israeliani
«Stiamo volando con gli F-35 su tutto il Medio Oriente e abbiamo già attaccato due volte su due differenti fronti»: lo ha annunciato il 22 maggio il generale Amikam Norkin, comandante della Forza aerea israeliana, alla conferenza sulla «superiorità aerea» in svolgimento a Herzliya (un sobborgo di Tel Aviv) con la partecipazione dei massimi rappresentanti delle aeronautiche di 20 paesi, Italia compresa.
(Global Research, 27 maggio 2018)
Giro d'Italia, quelle proteste e violenze che inquinano lo sport
di Marco Pasqua
Cosa c'entrano i blitz e gli insulti degli anti-israeliani, con il Giro d'Italia? Che c'entra la bandiera palestinese con un ponte intitolato a Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta alla retata del 16 ottobre 1943? La risposta dovrebbe già essere implicita nella domanda se non fosse che una sparuta minoranza di cittadini ha inteso macchiare questa competizione ciclistica con rivendicazioni che con lo sport non hanno nulla a che vedere. Sul "banco degli imputati" di questo esercito di cosiddetti filopalestinesi c'è Israele: il pretesto, in questo caso, è stato offerto dalla partenza del Giro da Gerusalemme. Da qui, discendono le manifestazioni nelle varie città italiane attraversate, in questi giorni, dalla gara: danneggiamenti, scritte offensive contro i cittadini israeliani (con tanto di invito a boicottare i loro prodotti), minacce di veri e proprio attacchi contro il Ghetto romano, persino olio e chiodi lasciati sul tracciato (è successo a Torino). Il tutto preceduto da vertici per la sicurezza, neanche si trattasse di un G20. E' sempre lecito manifestare il proprio dissenso, ma questo non si può tradurre in aggressioni (quattro turisti spintonati e insultati, ieri, a Roma, dagli antagonisti pro-Pal, perché definiti "di destra") e tentativi di bloccare la corsa con un'invasione del tracciato (solo l' intervento della polizia, con fermi e denunce, ha impedito che la situazione degenerasse). Ricordano, queste proteste scomposte, quegli slogan antisemiti che, spesso, macchiano il mondo del calcio e le curve.
(Il Messaggero, 27 maggio 2018)
Provocazioni antisemite, sit-in notturno degli studenti ebrei a Roma
Il simbolo dello Stato d'Israele per difendere la memoria delle vittime della Shoah. Così, nella notte tra sabato e domenica, alcune bandiere e manifesti con la Stella di David sono comparsi in alcuni luoghi di Roma, tra cui il ponte intitolato a Settimia Spizzichino. L'iniziativa è del Movimento Culturale Studenti Ebrei, che sul ponte ha messo in piedi un sit-in notturno con uno striscione: "La storia non si cancella".
Dopo la provocazione antisemita - recita una nota del Movimento - al ponte dedicato a Settimia Spizzichino, unica sopravvissuta donna alla deportazione del 16 ottobre 1943, era doveroso per noi, nipoti della Shoah, scendere per le vie di Roma e attaccare dei manifesti che invocano alla pace per contrastare l'antisemitismo di ieri e di oggi. Non ci facciamo intimidire", concludono. Il gesto dei giovani studenti ebrei è una risposta pacifica al blitz che si era svolto nella notte tra mercoledì e giovedì, quando un gruppo di attivisti "pro Pal" si era recato proprio sul ponte Settimia Spizzichino esponendo bandiere palestinesi ed uno striscione con la scritta "il giro è sporco di sangue", alludendo alla prima tappa del Giro d'Italia che si è tenuta proprio a Gerusalemme. Un'iniziativa che piega anche un evento di sport come il Giro alla propaganda antiebraica, e organizzata in un luogo importante per la memoria dell'Olocausto. Per questo aveva suscitato le critiche di alcuni esponenti politici e l'indignazione della presidente della Comunità Ebraica Ruth Dureghello. L'altra notte è arrivata anche la presa di posizione dei giovani.
(Il Tempo, 27 maggio 2018)
L'ennesima battaglia della guerra d'indipendenza
Dagli sproloqui di Abu Mazen alle minacce di Hamas, fino al kibbutz Nahal Oz costretto a valutare se sgomberare i civili.
In una settimana zeppa di notizie da prima pagina (l'ambasciata americana a Gerusalemme, i violenti scontri al confine di Gaza, persino la vittoria della cantante israeliana all'Eurovision), anche ai lettori più attenti può essere sfuggito un dettaglio relativo ai timori di Israele alla vigilia degli annunciati assalti al confine di Gaza. Dato che Hamas aveva avvertito che i palestinesi avrebbero sfondato la recinzione, fatto irruzione in territorio israeliano e "messo fine al progetto sionista", gli israeliani che vivono nei pressi di quel confine avevano concretissimi motivi di preoccupazione. "Almeno una delle comunità più vicine al confine, il kibbutz Nahal Oz - si leggeva in quei giorni in un articolo - ha considerato la possibilità, come forma di precauzione, di sgomberare i residenti prima delle sommosse, stando a quanto riferito dalla portavoce Yael Raz-Lahiani"....
(israele.net, 27 maggio 2018)
Inaugurata in Francia la prima mostra internazionale dedicata all'ebraismo del Nord Europa
La Comunità ebraica di Vercelli ha prestato il Sefer Torah del 1250 il più antico esistente al mondo. L'esposizione racconta la storia, il culto, la vita degli ebrei nord europei durante il medioevo
Il Museo di Antichità di Rouen, in Normandia, ospiterà dal 25 maggio al 16 settembre 2018, la mostra Savants & Croyants. Les Juifs d'Europe du Nord au Moyen-Âge e organizzata dalla Reunion des Musées Metropolitains Rouen Normandie. Un'esposizione importante, forse la prima in Francia ed in Europa a detta degli organizzatori, che racconta la storia, il culto, la vita degli ebrei nord-europei durante il medioevo, intento perseguito in Europa attraverso prestiti internazionali di altissimo livello. Il comitato scientifico ha voluto infatti includere nella mostra il più antico Sefer Torah esistente al mondo, ritrovato a Biella e di proprietà della Comunità Ebraica di Vercelli, datato grazie a puntuali analisi chimiche e paleografiche al 1250 circa. Sono passati alcuni anni dalla sua identificazione alla Sinagoga di Biella, anni in cui la Presidente della Comunità, Rossella Bottini Treves si è attivata per assicurarne la conservazione e il restauro, in accordo con il rabbino di riferimento, Rav Elia Richetti congiuntamente al sofer rav Amedeo Spagnoletto, che hanno verificato l'opportunità del suo restauro. Questo intervento, condotto da rav Spagnoletto, ha avuto una durata di un anno e mezzo circa e ha portato alla restituzione, il 6 marzo 2016, di un rotolo sacro nuovamente kasher ed adeguato all'uso liturgico. Nel 2016, questo importante momento della vita ebraica internazionale, è stato celebrato con la cerimonia dell' Haknasat Sefer Torah presso la Sinagoga di Biella-Piazzo, alla presenza di Rabbini, istituzioni, di tutta la Comunità e della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia che ha supportato il restauro.
La mostra francese, occasione preziosa non solo per studiosi ma anche per ricercatori, raccoglie insieme al Sefer Torah opere che provengono, oltre che dall'Italia, dalla Statsbibliothek di Berlino, dal Jüdisches Museum di Colonia, dall'University Library di Cambridge, dal British Museum e dal Victoria and Albert Museum di Londra, dalla Bodleian Library di Oxford, e da molti altri enti e, ovviamente, dalle maggiori organizzazioni storiche di Francia (ad esempio il Muées d'art et d'histoire du Judaisme e la Bibliothèque nationale de France di Parigi e le Musée di Cluny). La cornice è quella del Museo di Antichità di Rouen, aperto nel 1834, dedicato, nella sua sezione più antica, alle opere del medioevo e del rinascimento francese e considerato uno dei più ricchi musei di antichità francesi. La città stessa, Rouen, racconta ancora oggi il medioevo europeo e, percorrendo la Rue des Juifs, si giunge al Palazzo di Giustizia al di sotto del quale si trova la Maison sublime, il più antico monumento ebraico europeo. Costruito intorno al 1100 circa, l'edificio è stato scoperto durante la ristrutturazione del Palazzo di Giustizia del 1976 e da allora ancora si dibatte sulla sua natura: poteva essere una residenza privata, una sinagoga, oppure una scuola rabbinica. A testimoniare la sua proprietà da parte della comunità di ebrei che occupava quella zona di Rouen sono i graffiti in ebraico, ancora visibili. Il monumento, oggetto di attenzione di studiosi, archeologi e ricercatori, è stato visitato negli anni solo sporadicamente e sarà riaperto temporaneamente al pubblico nell'autunno 2018. Da qui l'idea della mostra al Museo di Antichità, coloro che la visiteranno troveranno il Sefer Torah sotto il nome di "roleau liturgique de la Torah", nella sezione dedicata al culto ebraico, al posto d'onore al termine dell'esposizione. Contestualizzato in un percorso volto alla scoperta dell'ebraismo medievale, il Sefer Torah sarà sicuramente oggetto di nuove attenzioni e studi, soprattutto in relazione alla sua provenienza. È infatti possibile che sia stato prodotto all'interno di una comunità askenazita della Francia del Nord del XIII secolo e che si sia in seguito spostato nel XIV secolo verso gli insediamenti ebraici di Biella e Vercelli, a seguito delle espulsioni degli ebrei, iniziate nel 1306 e culminate con la cacciata ufficiale del 1394. Il 1300 fu infatti un periodo di svolta negativa dell'ebraismo europeo: gli ebrei furono confinati, perseguitati, esiliati con l'acuirsi delle ondate di epidemie a loro attribuite, delle crisi sociali e religiose e dei ribaltamenti politici dovuti alla ricerca di consenso ed equilibrio da parte dei vari governi in via di definizione e centralizzazione. È proprio nel XIV secolo che si consolida lo stereotipo antisemita già assodato nel secolo precedente con le interdizioni e le speciali norme, anche distintive, alle quali gli ebrei dovevano aderire. Proprio il nord Italia, in quel periodo ha iniziato a dare ospitalità ed insediamento agli ebrei scacciati dalla Germania, dalla Francia e dalla Spagna, nonché dall'Italia meridionale. Forse è in questo contesto che possiamo fissare l'arrivo del Sefer Torah presso i gruppi ebraici del territorio compreso tra Vercelli e Biella, in seno alle presenze ebraiche testimoniate dai documenti a partire dal Quattrocento, dove gli ebrei con le loro attività creditizie e la gestione dei banchi di prestito "concessi dal ducato dei Savoia", operavano nei territori tra Vercelli, Biella con i relativi scambi e introduzioni di preziosi manufatti cultuali.
Il Sefer Torah ha avuto un lungo viaggio e ad ora non ci è dato conoscere quali siano state le sue tappe e la sua storia, ma certamente sempre nelle nostre due comunità ebraiche askenazites e utilizzato per il culto negli ultimi decenni presso la Sinagoga del Piazzo di Biella, ovvero nel quartiere medievale della città.
Nel 2017, quando ormai il sacro rotolo era balzato agli onori della cronaca mondiale, rav Spagnoletto lo ha presentato al World Congress of Jewish Studies di Gerusalemme con un intervento dal titolo "The Sefer Torah of Biella XIII century. The discovery and restoration of one of the most ancient Torah scrolls still in use in a Synagogue".
Oggi, la mostra di Rouen, dove il Sefer è protagonista come testimone di una tradizione ebraica antica ed universale. In questo ambito il rotolo è anche simbolo delle Comunità Ebraiche italiane, in primo luogo di quella di Vercelli, dove da anni Rossella Treves sta perseguendo la riqualificazione del patrimonio religioso e culturale ebraico in senso ampio, volgendo lo sguardo verso il retaggio europeo per allargare gli orizzonti della sua Comunità.
(VercelliOggi.it, 27 maggio 2018)
«Ecco, Egli viene con le nuvole e ogni occhio lo vedrà»
Giovanni, alle sette chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che sono davanti al suo trono e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. A lui che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti del Dio e Padre suo, a lui sia la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, egli viene con le nuvole e ogni occhio lo vedrà; lo vedranno anche quelli che lo trafissero, e tutte le tribù della terra faranno cordoglio per lui. Sì, amen.
«Io sono lalfa e lomega», dice il Signore Dio, «colui che è, che era e che viene, lOnnipotente».
Dal libro dellApocalisse, cap. 1
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Raid israeliano a Gaza. Colpite basi militari di Hamas
di Adir Amon
L'unità del portavoce dell'IDF ha comunicato che l'aviazione israeliana ha colpito alcuni bersagli strategici di Hamas in un campo militare nella parte meridionale della Striscia di Gaza nella notte tarda di sabato .
I diversi obiettivi sono stati presi di mira in risposta a una infiltrazione di quattro palestinesi che hanno danneggiato le infrastrutture di sicurezza e si sono incuneati in territorio israeliano. "L'IDF reagirà ogni volta - si legge in una nota - che si verificheranno tentativi dell'organizzazione terrorista di Hamas di colpire le infrastrutture di sicurezza nel territorio israeliano, minacciando la sicurezza di residenti e soldati".
Sempre sabato un aquilone incendiario, lanciato dalla Striscia di Gaza, ha provocato un incendio nella foresta di Kissufim, nel sud di Israele, in cui le squadre antincendio sono arrivate sul posto.
(Italia Israele Today, 27 maggio 2018)
Bambini dimenticati in auto: la app che avvisa i genitori
Arriva da Israele: dopo due minuti un avviso sul cellulare del conducente
L'ultimo caso è avvenuto qualche giorno fa a San Pietro a Grado, vicino Pisa. Un uomo di 44 anni ha dimenticato la figlia di un anno in auto, dove si era addormentata durante il tragitto fino all'asilo nido. Il papà è poi andato al lavoro, lasciando la piccola nella vettura, per diverse ore al sole. Per lei non c'è stato nulla da fare.
Lo stress e la fretta rappresentano un mix micidiale che può portare i genitori ad avere queste tragiche dimenticanze. Ma oggi simili tragedie possono essere evitate grazie a delle app, che inviano un avviso ai genitori nel caso in cui i piccoli rimangano in auto.
Una delle ultime uscite viene da Israele e utilizza un sensore installato sotto il seggiolino dell'auto, identificandolo attraverso il peso. Se il bambino non viene tolto dopo due minuti dall'arresto dell'auto, il sistema si attiva inviando un allert a un apposito centro di emergenza. Contemporaneamente, viene inviato un messaggio al cellulare del conducente. Il centro di emergenza cercherà di contattare il genitore e il numero di un altro contatto indicato. In caso di irreperibilità del genitore, le unità di soccorso vengono spedite alla posizione del veicolo, nel più breve tempo possibile.
(In Terris, 27 maggio 2018)
Giro d'Italia - Storico Sagiv: Israele arriva fino in fondo
Mai un israeliano aveva portato a termine un grande giro. A Guy Sagiv manca solo la tappa odierna per entrare nella storia. Il 23enne della Israel Cycling Academy, uno dei quattro team invitati al Giro che ha vissuto le prime tre tappe in Israele, è 143o a 5.15'42" da Froome. Miglior risultato: 35o nella 2' frazione, Haifa-Tel Aviv.
(La Gazzetta dello Sport, 27 maggio 2018)
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Ultima tappa. Dalla carbonara ai carciofi alla giudìa
Tutto il gusto della cucina romana: la coda alla vaccinara e la pasta alla gricia, i supplì e l'Amatriciana.
di Andrea Grignaffini
Siamo giunti ormai alla fine di questo lungo viaggio che oggi si conclude a Roma, il luogo in cui si riallaccia l'intera storia del mondo, la città eterna in cui gli atleti con le loro biciclette sfiorano le dirompenti strade della capitale. Roma è terra di arte, politica, religione ma anche di gastronomia ed è grazie al De re Coquinaria, scritto dal gastronomo Marco Gavio Apicio, se oggi ne conosciamo la storia. Una storia che come tutte evolve e a volte viene banalmente dimenticata e ci si scorda così dell'influenza ebraica. A Roma la comunità ebraica ha radici antiche, risalenti al II secolo a.e. e a volte ci si dimentica della fine del Rinascimento e del cuoco segreto dei papi, Bartolomeo Scappi, nel cui ricettario comparve per la prima volta la ricetta della coda alla vaccinara, la regina del quinto quarto. E se parliamo di quinto quarto, quel che rimane della bestia vaccina o ovina dopo che sono state vendute le parti pregiate, non possiamo non nominare la coratella, il termine romano con cui si indicano le interiora di agnello o abbacchio, servite con i carciofi. Tra i piatti romani più conosciuti ci sono però i primi di pasta in tutte le loro varianti, pasta alla carbonara, alla gricia, cacio e pepe e anche all'Amatriciana la cui ricetta proviene da Amatrice ma che come le altre rappresenta uno dei baluardi della cucina romana.E se siete alla ricerca di un alto standard dei primi della tradizione potete provare quelli di Roscioli, un locale versatile che funge da gastronomia, ristorante e wine bar.
Influenza ebraica
Se si parla della cucina ebraico-romanesca i croccanti carciofi alla giudìa fritti nell'olio si dice siano nati grazie dalla mescolanza con le genti spagnole affluite nel ghetto in epoca rinascimentale. Un'altra ricetta tipica in cui il protagonista è questo ortaggio spinoso è il carciofo alla romana, cotto in tegame, con un ripieno di aglio, prezzemolo e mentuccia. Qui si friggono anche i supplì, polpette di riso allungate, con riso bollito condito con sugo di carne e per l'assaggio di un classico supplì Sforno vale la destinazione.
Qui troverete anche le varianti più golose sul tema: quello alla porchetta e Frascati ne è un'ottima sintesi. Stefano Callegari sforna ottime pizze come la Greenwich, condita con mozzarella, blue Stilton e riduzione di Porto. A lui si deve la creazione di quel fenomeno dello street food romano che si chiama Trapizzino, una sorta di tasca a forma di triangolo fatta con la pasta della tradizionale pizza bianca romana e farcita in mille modi differenti, ma soprattutto con i grandi classici della cucina romana. Ai piedi del Pincio a Piazza del Popolo termina la corsa, e a noi non resta che ammirare il volto più spettacolare dell'Urbe dai tavoli di Imàgo, all'ultimo piano dell'Hotel Hassler, spaziando dall'Altare della Patria, al Pantheon, fino a San Pietro, dove la cucina di Francesco Apreda non farà terminare il nostro viaggio ma lo farà invece proseguire intorno a tutto il mondo.
(La Gazzetta dello Sport, 27 maggio 2018)
Siria. Usa: reagiremo se ci sarà un'offensiva di Damasco nel sud
Nella regione tra Daraa e le Alture del Golan controllate da Israele
BEIRUT - Gli Stati Uniti hanno avvertito il regime siriano che sono pronti ad adottare "misure decise ed appropriate" per impedire un'eventuale offensiva contro le forze ribelli nel sud della Siria verso il confine con la Giordania e le Alture del Golan occupate da Israele. L'area in questione, tra la città di Daraa e le Alture del Golan, è teatro di un confronto tra l'Iran e Israele, che accusano i Guardiani della Rivoluzione iraniani, alleati del regime siriano, di cercare di allestire proprie basi per minacciare le forze israeliane. Lo scorso anno gli Usa, la Russia e la Giordania hanno raggiunto un accordo per inserire Daraa in una zona di 'de-escalation', ma recentemente aerei governativi hanno lanciato volantini sul territorio controllato dai ribelli in cui annunciano una imminente offensiva.
(ANSAmed, 26 maggio 2018)
Israele accusa: "La Ue appoggia ong che hanno legami col terrorismo"
Israele accusa l'Unione europea di sostenere le ong che hanno legami col terrorismo o sono coinvolte nel boicottaggio contro lo stato ebraico. Le accuse sono contenute in uno studio pubblicato dal ministero israeliano degli Affari strategici. "Questo studio solleva anche la questione che il denaro dei contribuenti europei sia usato per sostenere legami con organizzazioni terroristiche", afferma il ministero. Ammonterebbero a oltre 5 milioni di euro i fondi elargiti dalla Ue a ong coinvolte in campagne che puntano a delegittimare o boicottare Israele. Tra queste, la Norwegian People's Aid, che ha ricevuto dalla Ue 1,76 milioni di euro, sanzionata in aprile dalle autorità Usa per legami con Hamas e il Fronte popolare di liberazione della Palestina, entrambe classificate dall'Unione europea come organizzazioni terroristiche. Un'altra ong accusata di attività anti israeliane è l'irlandese Trocaire, che nel 2016 ha ricevuto dalla Ue 520mila euro. Ma l'organizzazione sul proprio sito ha respinto le accuse israeliane, negando di sostenere il boicottaggio dello Stato ebraico.
(Secolo dItalia, 26 maggio 2018)
Lugano - Swiss Israel Day 2018
Zaifman lo scienziato, Cassis il politico, Betzalel la cantante - Grande attesa per l'evento di domani
Swiss Israel Day 2018
Celebrating Science and Innovation for Peace
Domenica 27 maggio, ore 17
Palazzo dei congressi di Lugano
Evento organizzato dall'ASI Ticino presieduta dal dr. Adrian Weiss
Da Israele:
professor Daniel Zaifman
Presidente dell'Istituto Weizmann delle Scienze
Situato a Rehovot, Israele, è uno dei centri di ricerca più prestigiosi al mondo,
con oltre 2000 tecnologie brevettate.
Ospite d'onore
On. Ignazio Cassis
Consigliere Federale, capo del Dipartimento degli Affari Esteri
Intrattenimento musicale
Einat Betzalel
cantante israeliana e solista dell'Orchestra sinfonica "L'Orchestre Festival" presso l'Opera di Berna
Seguirà un ricco aperitivo con degustazione di vini israeliani
(ticinolive.ch, 26 maggio 2018)
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Passano dalle banche malesi i soldi per i gruppi jihadisti
L'allerta della comunità internazionale su come Hamas e Isis sfruttano i canali del sistema finanziario della Malaysia. Un omicidio riapre la pista. Knala Lumpur non ha relazioni con Israele e già nel 2013 il premier promise aiuti a Gaza.
di Rolla Scolari
Fadi al-Batsh, l'ingegnere ucciso in Malaysia, non sarebbe stato coinvolto soltanto nel programma di sviluppo di droni e razzi per il movimento palestinese Hamas, ma anche in colloqui con i nordcoreani sul contrabbando di armi verso Gaza, come rivelato dal «New York Times», Per Kuala Lumpur e per Hamas, all'origine dell'assassinio di aprile ci sarebbe Israele, intervenuto per bloccare una relazione pericolosa tra Pyongyang e Gaza, controllata dal gruppo islamista.
Benché la presenza di Hamas nel Paese asiatico non sia una novità, l'uccisione di al-Batsh, che ha esposto una più vasta rete di legami internazionali del movimento, sarebbe stato un allarme per la comunità internazionale politica e finanziaria, spiega Jonathan Schanzer, ex funzionario del Dipartimento del Tesoro americano, esperto di finanziamento del terrorismo.
Fonti di intelligence occidentale rivelano come l'episodio abbia rinnovato controlli internazionali sul sistema finanziario malese, innescati già dall'arresto, sempre ad aprile, di una cellula di Isis che pianificava attacchi in Malaysia.
Il capo dell'anti-terrorismo malese, Ayob Khan Mydin Pitchay, al Counter-Terrorism Financing Summit di novembre nella capitale ha spiegato come dal 2016 venti membri di Isis siano stati fermati perché coinvolti «nel finanziamento di attività terroristiche» e invio di denaro in Siria e Filippine.
Gli arresti sollevano preoccupazioni su possibili attività in Malaysia di altri elementi del jihadismo internazionale. In passato, attori terroristici avevano già sondato l'attrattiva del crocevia malese: nel 2000 si tenne a Kuala Lumpur un incontro dei vertici di al-Qaeda nel quale sarebbero stati pianificati l'attentato al cacciatorpediniere statunitense Uss Cole in Yemen, e 1'11 settembre.
La Malaysia, spiega Matthew Levitt, specialista di terrorismo al Washington Institute far Near East Policy, è per Hamas un luogo ideale prima di tutto perché il governo non lo considera un movimento terroristico, come fanno Stati Uniti e Unione europea; poi perché è facile aprirvi commerci o conti in banca, non richiede un visto d'entrata, ci sono buone università, è all'avanguardia nelle tecnologie, l'economia è solida, è ben connesso tra Est e Ovest, è una società islamica. Il gruppo è inoltre in difficoltà: «Il blocco israeliano ed egiziano su Gaza rende il contrabbando quasi impossibile, quindi Hamas deve produrre da solo armi, e per farlo deve agire all'estero, perché in casa mancano i soldi per studi e tecnologie».
A dicembre è stato ucciso in Tunisia un altro suo ingegnere: si occupava di sviluppo di droni. In Malaysia, Hamas opera da diverso tempo: nel 2014, Israele arrestò Majdi Mafarja, che ammise d'essere stato addestrato nel Paese in crittografia e hackeraggio informatico. La stampa israeliana rivelò i viaggi di due alti funzionari del gruppo, Maan Khatib e Radwan al-Atrash. La presenza del movimento è sostenuta dal governo, che non ha relazioni diplomatiche con Israele. L'ex premier Najib Razak - una nuova amministrazione si è insediata dopo il voto di maggio - ha visitato Gaza nel 2013, e promesso sostegno finanziario.
La Malaysia è sempre stata esplicita nel suo sostegno ai palestinesi, elargendo per esempio borse di studio, spiega Zachary Abuza, professore al National War College di Washington, esperto di sicurezza nel Sud-Est asiatico.
Dopo i fatti di aprile, la preoccupazione della Malaysia, alleato della comunità internazionale nella lotta contro lo Stato islamico che minaccia il Paese, «dovrebbe probabilmente essere quella dei legami finanziari che possono essere tracciati tra Hamas e le banche malesi - ha scritto Jonathan Schanzer -. Con la connessione Malaysia-Hamas sempre più esposta, è difficile immaginare uno scenario dove sanzioni americane» - a singoli individui o piccole istituzioni, non al Paese - «possano non essere prese in considerazione».
(La Stampa, 26 maggio 2018)
Il terrorismo pubblicitario dei mass-media
di Fulvio Canetti
Il terrorismo di Hamas contro Israele, funziona grazie all'appoggio pubblicitario dei mass-media, che si rendono, volutamente, corresponsabili di questo crimine. Non mi riferisco solo agli striscioni antisemiti appesi sui ponti di Roma, ma soprattutto ai giornaloni di spessore, come Repubblica, Avvenire, Osservatore Romano, Manifesto, coadiuvati dai programmi televisivi della TV di Stato italiana. L'informazione che trasmettono queste fonti in sintesi, è questo:'' una Palestina libera, che altro non è che morte agli ebrei''. Tutte queste menzogne nate per sdoganare il terrorismo palestinese, sono un insulto alla giustizia, di cui questi volenterosi signori della più alta santità, si fanno promotori. Il problema è gravissimo e i timori per un futuro di pace sono percepibili da tutti coloro che amano la libertà. Cosa fare? Rintuzzare di sicuro le loro menzogne, non arrendersi mai e credere nelle Scritture, da cui risulta chiaro che combattere Israele significa combattere D-o.
(Inviato dall'autore, 26 maggio 2018)
"Quella bambina non l'ha uccisa Israele". Hamas smentisce i media asserviti
Il caso diventato virale sui nostri giornali e tv
di Giulio Meotti
ROMA - "Layla al Ghandour è il volto del massacro di Gaza", aveva titolato al Jazeera, infiammando la rabbia del mondo arabo-islamico. La foto della bambina palestinese di otto mesi morta il 14 maggio al confine con Israele ha fatto subito il giro di tutti i media occidentali, Corriere della Sera compreso che l'aveva messa in prima pagina. Nessuno aveva resistito: "Strage a Gaza, anche una neonata", un'agenzia di stampa. "Una bambina muore nella nube di Gaza", scandiva il Los Angeles Times. "Una bambina di Gaza muore, è nato un simbolo" riferiva il New York Times nel servizio di Declan Walsh. "Orrore: bambina uccisa nella repressione israeliana" proseguiva l'Huffington Post. "Il volto angelico di una bambina di otto mesi uccisa dal gas a Gaza", ammoniva il Mirror. Ansamed: "59 morti, fra cui una bambina di otto mesi uccisa dal gas". "Una madre stringe la figlia di otto mesi uccisa dai soldati israeliani", il titolo del Daily Mail. "Il bilancio delle proteste di Gaza sale a 61, bambina muore per lacrimogeni", riportava il Washington Post. Dalla Rai alle tv europee, nei desk room era tutto un dire: "Hanno ucciso pure una bambina". E Abu Mazen, il presidente "moderato" dell'Autorità palestinese, si è fatto fotografare in ospedale mentre sfoglia la stampa araba con una vignetta in prima pagina, dove un soldato israeliano asfissia una bambina palestinese. I paragoni non potevano mancare con Aylan Kurdi, il bambino morto annegato su una spiaggia turca, e Omran Daqneesh, ricoperto di sangue e polvere ad Aleppo. Anche il funerale orchestrato da Hamas per Layla a Gaza ha fatto il giro del mondo. Sulla Rai, Massimo Gramellini ha paragonato la foto di Layla a "un quadro di Caravaggio".
Soltanto che ieri il ministero della Salute sotto la guida di Hamas a Gaza ha dichiarato di aver rimosso il nome della bambina dalla lista delle persone rimaste uccise negli scontri con le truppe israeliane. E' lo stesso ministero che, una settimana prima, aveva detto che Layla era "morta per inalazione di gas lacrimogeni". Il portavoce del ministero, il dottor Ashraf al Qidra, ha detto che un'indagine è stata effettuata e che "Layla al Ghandour non è elencata tra i martiri."
Eppure, i media avrebbero potuto essere fin dall'inizio più cauti, visto che un medico di Gaza aveva dichiarato il giorno dopo all'Associated Press che la bambina aveva una malattia preesistente e di non credere che la sua morte fosse stata causata dai gas israeliani. Ma i giornali erano eccitati dal sangue e dai morti, non un dubbio su quei genitori palestinesi che portavano i bambini (in questo caso con una malattia cardiaca) a uno scontro in cui sanno che ci saranno i gas lacrimogeni e il fumo di pneumatici bruciati. Nessuno voleva dubitare della verità stabilita da "fonti mediche palestinesi", quando si sa quanta libertà e trasparenza ci siano in quella regione. Ma Layla non era più una bambina, un essere umano, ma un simbolo politico, una causa. L'avvocato americano Alan Dershowitz ha scritto sul Jerusalem Post: "Hamas trae vantaggio da ogni morte che Israele causa accidentalmente. Per questo Hamas esorta donne e bambini a farsi martiri. Parlare di 'strategia del bambino morto' può sembrare crudele: infatti è una strategia crudele. Si deve accusare chi la utilizza cinicamente. E si devono accusare i mass-media che fanno il gioco di coloro che la utilizzano, quando si limitano a riportare il conteggio dei corpi e non la deliberata tattica di Hamas che porta a quel risultato".
Israele è stato trasformato in un "babykiller", da quegli stessi media che hanno glissato sui bambini israeliani di Sderot, di Sbarro, di Maalot, i Fogel, gli Hatuel, le vittime del terrore palestinese. Per loro non c'è Caravaggio. Il prossimo World Press Photo è già pronto per Haitham Imad, il fotografo che ha immortalato Layla fra le braccia della madre. "C'è una guerra e noi non siamo neppure sul campo di battaglia", ha detto tre giorni fa Michel Oren, vice ministro israeliano per la Diplomazia, a proposito dei media. Il giornalismo ha svolto un ruolo centrale nell'attacco di quel lunedì al legittimo diritto di Israele di difendere i propri confini e cittadini. I media faranno ammenda ora che nuove informazioni sono venute alla luce? Ci vuole coraggio per ammettere di aver sbagliato.
(Il Foglio, 26 maggio 2018)
Ripetiamo in bellordine lelenco dei titoli riportati:
"Strage a Gaza, anche una neonata"
"Una bambina muore nella nube di Gaza"
"Una bambina di Gaza muore, è nato un simbolo"
"Orrore: bambina uccisa nella repressione israeliana"
"Il volto angelico di una bambina di otto mesi uccisa dal gas a Gaza"
"59 morti, fra cui una bambina di otto mesi uccisa dal gas"
"Una madre stringe la figlia di otto mesi uccisa dai soldati israeliani"
"Il bilancio delle proteste di Gaza sale a 61, bambina muore per lacrimogeni"
"Hanno ucciso pure una bambina".
I giornalisti non hanno voluto privarsi della ghiottoneria di un titolo che presenta gli ebrei (no, solo gli israeliani...) come perfidi uccisori di piccoli bambini indifesi. Voluptas accusandi. M.C.
Le inquietudini di Israele di fronte all'imminente uscita di scena di Abu Mazen
Le condizioni di salute del presidente palestinese pongono all'establishment israeliano molti interrogativi sulla successione in seno all'Autorità Palestinese e il futuro dei rapporti con il mondo arabo
di Marco Orioles
Con le croniche condizioni di salute dell'ottuagenario presidente palestinese Abu Mazen, che ha subito tre interventi chirurgici nell'arco di poche settimane, è attualmente ospedalizzato con uno stato febbrile, un'infezione all'orecchio e una possibile polmonite, l'establishment israeliano comincia a porsi degli interrogativi sulla successione in seno all'Autorità Palestinese e sul futuro delle relazioni tra israeliani ed arabi.
Ad esplorare i possibili scenari di un post-Abbas ci ha pensato il quotidiano on line Al Monitor in un lungo articolo uscito questa settimana in cui sono state consultate varie personalità del governo di Gerusalemme e dei suoi apparati di sicurezza. Tutte le figure interpellate manifestano la consapevolezza che "stiamo vivendo i giorni finali della sua leadership", come ha spiegato un funzionario della Difesa. Altri esponenti dei servizi di sicurezza si sbilanciano e, basandosi su rapporti di intelligence, parlano della concreta possibilità di una definitiva uscita di scena di Abu Mazen in un periodo compreso tra pochi mesi e due anni.
Su quali scenari si apriranno dopo, tuttavia, Israele brancola letteralmente nel buio. Dei cinque ministri sentiti da al Monitor, nessuno si è sbilanciato su nomi di personalità che possano subentrare ad Abu Mazen. Niente a che vedere, insomma, con quanto accaduto nel 2004 alla morte dello storico presidente dell'OLP Yasser Arafat: allora il nome del successore era fuori discussione. Oggi, invece, domina l'incertezza e, necessariamente, la preoccupazione per la possibilità di una guerra per il potere interna alle istituzioni palestinesi e, soprattutto, per l'eventualità che Hamas approfitti del vuoto di potere per prendere il controllo anche della West Bank.
Buona parte della responsabilità di questa situazione viene attribuita allo stesso Abbas, il quale non si è preoccupato minimamente di assicurare un ordinato trasferimento di potere. Ad esempio, l'uomo apparentemente più papabile al momento, il capo delle forze di sicurezza Majid Faraj, non occupa alcuna posizione in seno all'OLP. Altri nomi che circolano, ma sempre circonfusi da un'aura di incertezza, sono quelli di Mahmoud al-Aloul, che nel 2017 è stato il numero 2 di Abbas, dell'attuale primo ministro Rami Hamdallah, e dell'ex premier Salam Fayyad, che aveva costruito una relazione ben oliata con l'amministrazione Obama. Ma anche su questi nomi nessuno se la sente di sbilanciarsi.
Tale situazione preoccupa molto gli apparati di sicurezza israeliani, per due ordini di motivi. Il primo è la possibilità niente affatto remota che Hamas cerchi di scalare il potere. Il secondo è che, venendo meno Abbas, la rodata collaborazione tra israeliani e palestinesi nel campo della sicurezza non sarebbe più garantita.
La leadership militare, in particolare lo Shin Bet, teme di dover rimpiangere questo rapporto cooperativo che ha dimostrato di funzionare negli anni. Personalità come il capo di Stato maggiore Gadi Eizenkot sono consapevoli che l'Autorità Palestinese sotto Abu Mazen ha collaborato lealmente con Israele nel contrasto al terrorismo. Il presidente, soprattutto, ha impedito all'ala militare di Fatah, Tanzim, di cedere alla tentazione della violenza. Si deve senz'altro ad Abu Mazen ad esempio se l'ondata di attacchi all'arma bianca che ha colpito Israele nei due anni passati è rimasta tutto sommato limitata. "Solo le chiare istruzioni di Abbas", ha spiegato ad Al Monitor un alto funzionario della difesa, "hanno tenuto la maggior parte dei palestinesi al di fuori del circolo della violenza".
L'alta considerazione in cui Abu Mazen è tenuto dall'establishment militare stride però con l'opinione che del presidente palestinese hanno i principali esponenti politici israeliani, che fanno a gara nel prendere di mira Abbas con attacchi al vetriolo. Un'offensiva retorica costante che vede come indiscusso protagonista il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma che ha contagiato anche una figura moderata come il ministro dell'energia Yuval Steinitz.
Dalla compagine di governo guidata da Benjamin Netanyahu non sono mancate nemmeno accuse, rivolte ad Abu Mazen, di appoggiare il terrorismo o addirittura di coordinare attacchi terroristici contro Israele. La leadership politica di Israele d'altro canto non ha mai smesso di biasimare Abbas per condotte discutibili come il sostegno finanziario alle famiglie degli autori di attentati contro Israele o lo stipendio mensile assicurato alle persone che sono sottoposte a regime carcerario in Israele. Non vi è dubbio, insomma, che quando arriverà il momento della dipartita di Abbas, saranno ben pochi nel mondo politico israeliano a rimpiangerlo.
Israele attende dunque il momento dell'uscita di scena di Abbas con sentimenti ambivalenti. Vi è una palese contraddizione tra l'atteggiamento degli apparati militari, che considerano preziosa la collaborazione di Abu Mazen, e quello della sfera politica, che ha una pessima considerazione di Abbas. Vi è però una preoccupazione comune a entrambi i mondi, ed è che, alla morte di Abbas, Hamas tenterà un colpo di mano per prendere le redini del potere in tutti i territori palestinesi.
Una soluzione per evitare questo scenario infausto ci sarebbe e porta il nome di Marwan Barghouti. Sebbene stia scontando cinque ergastoli in un carcere israeliano per aver organizzato attacchi terroristici durante la seconda intifada (2000-2005), l'esponente di Fatah gode di notevole popolarità tra i palestinesi, che vedrebbero di buon occhio la sua ascesa alla guida dell'AP.
Se presenta il vantaggio di ostacolare eventuali colpi di mano di Hamas e di mantenere il potere in seno all'OLP, la soluzione Barghouti è tuttavia estremamente improbabile. È pressoché impossibile infatti che l'attuale governo israeliano assuma la decisione di scarcerarlo per permettergli di assumere il potere. E siccome la sinistra israeliana sta da tempo attraversando una fase di crisi, ecco che anche questa carta è senz'altro da escludere per il post-Abbas, almeno nel breve-medio termine.
Si preannunciano dunque tempi difficili per le relazioni tra israeliani e palestinesi, che del resto - come dimostra la reazione dei secondi alla decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico - sono da tempo alquanto ballerine.
(formiche.net, 26 maggio 2018)
Stavolta l'ho fatto! E nessuno mi ha visto ...
Sul lungomare di Tel Aviv ogni sabato mattina in centinaia si riuniscono per ballare insieme. Tra bravi e meno bravi
di Claudio Coen
Era tempo che desideravo fare una cosa in Israele. Lanciarmi nei balli folcloristici locali.
Ogni volta guardavo gli israeliani riunirsi per ballare con la radio e altoparlanti a palla sul lungomare di Tel Aviv, tutti sabati mattina dalle 11 alle 15 tra Gordon e la Marina. Perché non l'ho mai fatto? Semplice! Mi vergogno a morte, con tutti gli italiani che girano a Tel Aviv, tra moglie, figli, nipoti, parenti ed amici, mi avrebbero preso in giro a lungo.
Questa volta a Tel Aviv, ai primi di febbraio, ero solo, c'erano pochi turisti in giro. Soprattutto niente italiani. Mia moglie invece era a Londra, da mia figlia. Mi soffermo davanti ai ballerini che si muovevano con grande capacità ed armonia, anche perché hanno delle vere e proprie scuole di ballo, sia a Tel Aviv che a Gerusalemme, e da quanto ho capito provano anche dalle due alle tre volte a settimana. Anche io in palestra faccio Macumba, danze con tanti stili coreografici difficili, salsa, cha-cha-cha, e tante altre che il mio maestro ballerino varia continuamente, all'incirca ogni minuto. Pensando di avere esperienza a sufficienza, decido di entrare nella zona transennata, il pubblico era fuori ad osservare, i ballerini si muovevano velocemente alternando balli di coppia e singoli.
Prima di entrare però, non fidandomi degli spioni che potevano essere appostati da qualche parte, decido di dare un'ultima occhiata ad eventuali romani curiosi. Niente, nemmeno l'ombra, tutto il pubblico era rigorosamente israeliano.
La paura di essere visto dagli italiani nei dintorni mi fa decidere di fare un'ultima verifica. Quindi faccio una corsa fino alla spiaggia di Frishman per capire se ci fosse qualcuno che avrebbe potuto riconoscermi e riportare la notizia, ai figli o a mia moglie, o peggio ancora ai miei fratelli. Niente, incredibile nessun romano in vista sia a nord che sud del lungomare. Nessun viso conosciuto a distanza di un chilometro. E' il mio momento, decido di entrare, ora o mai più. Entro superando il pubblico e i cordoni della sicurezza.
La giornata era meravigliosa, pieno sole, la temperatura era abbastanza alta per essere mezzogiorno di una giornata invernale. Faceva caldo, sulla spiaggia i lettini e ombrelloni erano aperti come in piena estate. Tutti naturalmente vestivano camicie a manica corta.
Entro con grande scioltezza consapevole della mia esperienza, mi metto in mezzo alla mischia, e ballo.
In quel momento il disk jockey, che sta dietro la radio, mette una sequenza di canzoni dove tutti i ballerini dovevano alzare le mani in alto, avanzare prima con una gamba avanti, incrociando l'altra a sinistra, poi un altro passo avanti incrociando l'altra gamba a destra, poi girarsi completamente di 360 gradi, prima da sinistra verso destra, e poi da destra verso sinistra.
Non ho mai visto balli più sconclusionati di quelli. Non li ho visti nemmeno quando sono stato in Kenia, tra i Masai, nemmeno loro hanno quella coreografia con tutte quelle giravolte. Comunque riesco a tenere il passo, anche se incerto e sicuramente fuori tempo.
La canzone è lunga, quasi non finisce mai, una leggera perla di sudore mi gocciola sulla fronte. Il disk jockey, appena terminata la canzone, ne mette subito un'altra, senza nemmeno una pausa di riposo. Tutti continuano a ballare, ma questa volta la coreografia è completamente capovolta, la rotazione completa di 360 gradi parte al contrario, da destra verso sinistra, e poi da sinistra verso destra, e poi di nuovo dei salti con i passi avanti incrociati. Mi stavo distraendo. Con tutti quei salti, per un momento ho pensato di stare in una esercitazione militare dove tutti dovevano evitare le mine poste a terra, invece per le rotazioni ho pensato che dovevano servire per vedere se arrivavano i nemici da tutte le direzioni.
Nel frattempo, la goccia che avevo si era moltiplicata e trasformata in un rivolo di sudore, una partiva dalla nuca verso il collo posteriore, altre tre invece partivano dalla fronte e mi rigavano il viso.
Mentre tutto ruotava intorno a me, con il sole a picco, ho cominciato ad avere le idee poco chiare. Le gambe si muovevano in maniera scoordinata rispetto a tutti gli altri, mentre giravo da tutte
le parti ho cominciato a vedere i grattacieli che spiccavano dal mare, i lettini li vedevo distintamente posizionati sulla strada della pista ciclabile, mentre per me gli ombrelloni erano aperti con il palo rivolto verso l'alto e il telo aperto che posava sulla spiaggia, perfettamente capovolti.
Intanto una goccia di sudore si era piantata su un occhio annebbiandomi la vista, un'altra era scesa sull'orecchio e si era piazzata sul condotto uditivo esterno. In pratica, non vedevo benissimo, e sentivo distorto, nel frattempo ho cominciato avere un affanno che mi lasciava senza respiro. Gli israeliani di tutte le età, compresa la vecchietta vicino a me, invece, non avevano nessun segno di affaticamento. Dopo un po', ho avuto la sensazione, non di ballare, ma di barcollare. In un attimo di lucidità decido di ritirarmi prima di andare a finire a terra con le gambe incrociate.
L'esperienza era terminata. L'esercitazione militare? Finita. Ma soprattutto mentre ero l'unico che usciva dalla zona ballo, davo un'ultima occhiata per vedere se c'erano italiani. Non mi è sembrato di vederli.
Però sai che ti dico? Preferisco raccontarlo io a tutti, piuttosto che loro.
Semmai qualcuno mi avesse visto.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Il "nuovo antisemitismo"
Coincide con l'antisionismo o con l'antisemitismo dei musulmani? Entrambe le cose, e se ne parla molto soprattutto in Francia e in Germania
Nelle ultime settimane molte prime pagine dei giornali francesi e tedeschi sono state dedicate all'antisemitismo: o meglio, a un "nuovo antisemitismo" che starebbe crescendo in Europa e che sarebbe una forma rinnovata di ostilità nei confronti degli ebrei, diversa da quella classica a cui siamo abituati a pensare, cioè quella in qualche modo collegata alle idee della Germania nazista.
In Francia e in Germania il dibattito è nato da una serie di recenti episodi, anche violenti, che hanno coinvolto persone di religione ebraica, e ha preso diverse declinazioni con molta poca chiarezza, però, sulla definizione e sul significato delle espressioni usate. Dal punto di vista storico e teorico, è complicato tracciare i confini del nuovo antisemitismo, confini che spesso nel dibattito giornalistico, nella percezione diffusa e nella politica si sono totalmente persi, generando conclusioni orientate, ambigue o definitive. Va detto subito che negli ultimi anni c'è stata invece ben poca discussione sul fatto che il nuovo antisemitismo non sia più solo un problema del mondo ebraico, ma di tutti e tutte.
Perché se ne parla
Lo scorso 22 aprile la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva denunciato l'emersione in Germania di «un'altra forma di antisemitismo», portata avanti da alcuni rifugiati «di origine araba». Queste dichiarazioni erano state fatte dopo l'aggressione avvenuta a Berlino contro un ragazzo che per dimostrare quanto fosse pericoloso mostrarsi ebrei di questi tempi portava la kippa (l'aggressione era stata filmata e il video era circolato molto online). L'aggressore era un siriano che si era consegnato alla polizia e che viveva in un centro per richiedenti asilo. Dopo l'episodio, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei di Germania aveva sconsigliato di portare la kippa per le strade delle grandi città, invito che era stato molto criticato dal presidente dell'Associazione europea degli ebrei. Mercoledì 25 aprile c'era stata comunque una grande manifestazione contro il nuovo antisemitismo di matrice islamica a Berlino, a Colonia e a Francoforte.
In Germania si è parlato di antisemitismo anche a causa di un altro episodio: l'assegnazione del premio Echo, un concorso musicale molto famoso, ai rapper Kollegah e Farid Band per il loro ultimo disco "Jung, brutal, gutaussehend 3". In una canzone, i rapper dicono che i loro corpi sono scolpiti meglio di quelli dei detenuti di Auschwitz e dicono di voler far di nuovo l'Olocausto. Da quando il premio è stato consegnato, diversi altri vincitori hanno restituito il loro per protesta e il presidente dell'associazione che in Germania rappresenta i professionisti del settore ha annunciato le sue dimissioni dal comitato etico della manifestazione. Il 25 aprile, infine, l'associazione federale dell'industria musicale tedesca ha cancellato il concorso.
In Francia, invece, il 4 aprile del 2017 una donna ebrea di 65 anni, Sarah Halimi, era stata uccisa e gettata da una finestra di Parigi da un uomo al grido di "Allahu Akbar". Dopo circa un anno, lo scorso marzo, i giudici hanno riconosciuto la circostanza aggravante dell'antisemitismo. Il 23 marzo, nell'undicesimo arrondissement di Parigi, Mireille Knoll, donna di 85 anni superstite dell'Olocausto, è stata trovata nella sua casa carbonizzata e pugnalata. L'indagine è ancora in corso, ma i due sospettati sono indagati per omicidio a sfondo antisemita. Dopo l'episodio diverse migliaia di persone hanno partecipato a una marcia bianca contro l'antisemitismo, durante la quale il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Francis Kalifat, aveva chiesto che né La France insoumise (movimento di sinistra radicale guidato da Jean-Luc Mélenchon) né il Front national di Marine Le Pen vi prendessero parte («La sovrarappresentazione degli antisemiti tanto all'estrema sinistra che all'estrema destra rende questi due partiti inaccettabili»).
Questi due recenti episodi, uniti all'omicidio di Ilan Halimi nel 2006 (un ragazzo ebreo francese nato in Marocco, rapito e torturato per tre settimane), alla sparatoria in una scuola ebraica di Tolosa nel 2012 (quattro morti) e all'attentato all'Hyper Cacher del 2015 (altri quattro morti), ha messo in moto una serie di proteste nel paese e ha dato forza al dibattito sul "nuovo antisemitismo".
Il nuovo antisemitismo
Diversi esperti e accademici con i termini "neo-antisemitismo" o "nuovo antisemitismo" definiscono una nuova ondata di antisemitismo, quindi di avversione etnica verso gli ebrei, che soprattutto nell'Europa occidentale ha preso forza dopo alcuni avvenimenti storici: la Seconda intifada, cioè la rivolta palestinese iniziata in seguito a una provocazione dell'allora capo dell'opposizione israeliana Ariel Sharon, che il 28 settembre del 2000 passeggiò nella Spianata delle Moschee, un luogo dove solitamente gli ebrei non vanno; il fallimento degli accordi di Oslo, con i quali gli israeliani riconobbero all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) il diritto di governare su alcuni dei territori occupati e l'OLP da parte sua riconobbe il diritto di Israele a esistere rinunciando formalmente all'uso della violenza; e infine l'attacco alle Torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, compiuti da miliziani di al Qaida.
Dina Porat, a capo del Kantor Center dell'Università di Tel Aviv e storica dell'ente nazionale per la memoria della shoah di Israele, ha fatto riferimento al nuovo antisemitismo definendolo come una specie di «atmosfera» molto diffusa, legata all'ascesa dell'estrema destra, alle posizioni antisemite classiche dell'islam radicale e al discorso antisionista della sinistra, inteso come opposizione al riconoscimento di uno Stato nazionale ebraico.
In un intervento di qualche tempo fa, Porat ha spiegato che le differenze tra l'antisemitismo del Ventesimo secolo e il nuovo antisemitismo «sono la data d'inizio, le aree geografiche di violenza e gli attori sociali». Dal punto di vista storico il nuovo antisemitismo è iniziato nell'ottobre del 2000 in Medio Oriente con la seconda Intifada; dal punto di vista geografico «si esprime soprattutto nel mondo democratico in Europa occidentale e in Nord America, mentre prima era concentrato in Russia, America latina e paesi arabi». E anche gli obiettivi sono diversi: mentre prima, cioè dagli anni Novanta, «gli attacchi erano almeno al 60 per cento violazioni di cimiteri, dall'inizio del 2000 gli attacchi si sono rivolti alle sinagoghe e dal 2003 in poi le violenze si sono rivolte verso le persone, anche se continuano sporadiche violenze contro le sinagoghe». Un ultimo cambiamento ha a che fare con l'identità degli assalitori: nella metà degli anni Novanta erano aderenti a movimenti dell'estrema destra (che continuano ancora oggi), ora sono anche immigrati musulmani di prima e di seconda generazione. A questo si aggiunge la retorica contro Israele di alcuni esponenti dell'estrema sinistra.
Nuovo antisemitismo e antisionismo
A livello politico internazionale l'OSCE, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, negli ultimi quindici anni si è occupata molto della questione del moderno antisemitismo e in buona parte delle conferenze che ha organizzato sul tema, come quella di Vienna nel 2003 e quella di Berlino nel 2004, ha lavorato proprio sulla definizione dell'espressione e sulle sue più recenti manifestazioni. Nella Dichiarazione di Berlino del 2004 si sottolinea che gli sviluppi politici in Medio Oriente non giustificano mai l'antisemitismo e che alcune manifestazioni di antisemitismo possono includere come obiettivo lo stato d'Israele, percepito come collettività ebraica. Si dice anche, però, che un atteggiamento critico verso Israele simile a quelli rivolti a qualsiasi altro paese non può essere definito antisemitismo. Eppure questa sovrapposizione è molto diffusa.
Nel 2016 Jonathan Sacks, massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa del Regno Unito, in una conferenza organizzata al Parlamento europeo di Bruxelles disse: «Oggi è in corso una terza fase storica dell'antisemitismo, mascherata da antisionismo». Per Sacks il nuovo antisemitismo è diverso dai due precedenti per il pretesto che ne sta alla base: «Nel Medioevo gli ebrei erano odiati per la loro religione, nel XIX secolo e all'inizio del XX per la loro razza. Oggi invece per il loro Stato nazione, Israele». Questo fa sì che «gli antisemiti neghino di esserlo».
Il nuovo antisemitismo, secondo molti, si identificherebbe necessariamente e in modo automatico con l'antisionismo. L'antisionismo sarebbe di conseguenza la parola "nuovo" che sta accanto alla parola "antisemitismo": una forma di razzismo contro gli ebrei che utilizza argomentazioni politiche, cioè antisioniste. In una lettera pubblicata sul Foglio, l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scriveva:
«Ciò che mi pare più che mai attuale è l'accento che ho posto sulla necessità di una battaglia ininterrotta e conseguente contro l'antisemitismo in qualsiasi sua veste e forma. E ho in particolare sempre inteso come non separabile da quella aberrazione storica anche l'ideologia dell'antisionismo, vero e proprio travestimento dell'antisemitismo, al cui rifiuto si rende formale ossequio, ma che in realtà si esprime negando le ragioni storiche della nascita stessa dello Stato di Israele, e quindi della sua vita indipendente e della sua sicurezza».
I rischi di questa associazione automatica sono però molti, sia da una parte che dall'altra. Gli antisionisti effettivamente antisemiti equiparano, semplificando, ogni ebreo a un israeliano e ogni israeliano a un colonizzatore di palestinesi, strumentalizzando la questione politica per mascherare un antisemitismo di fondo. Dall'altra parte, però, il rischio è non considerare fondate, tacciandole come antisemite, le ragioni di un'opposizione alle espressioni più radicali e nazionaliste del sionismo, inteso come forma di colonialismo, di negazione dell'autodeterminazione del popolo palestinese praticato attraverso l'assedio militare della Cisgiordania e di Gaza. Significa sostenere che l'ostilità verso Israele e l'ostilità verso gli ebrei siano la stessa cosa, confondendo lo stato ebraico con il popolo ebraico e mettendo al centro dell'identità ebraica un'entità politica.
Brian Klug, docente di filosofia a Oxford, in un lungo articolo di qualche anno fa si chiedeva: perché quando a superare la linea di quella coincidenza sono i sostenitori dei palestinesi diventano automaticamente degli antisemiti, mentre quando a superarla sono i sostenitori di Israele non diventano immediatamente dei razzisti o degli islamofobi? Per smontare l'automatismo dell'associazione, proponeva un'ipotesi: se Israele fosse quello che è oggi dal punto di vista dell'occupazione e dei confini ma non dal punto di vista dell'identità religiosa, e si chiamasse "Christiania", l'ostilità nei suoi confronti sarebbe qualitativamente diversa? Brian Klug rispondeva di no, non negando che continuino a esistere attacchi antisemiti, ma il fatto che sia in atto una "guerra contro gli ebrei". «Quando ogni antisionista diventa un antisemita, non sappiamo più come riconoscere la cosa reale e il concetto di antisemitismo perde il suo significato».
Lo scorso gennaio Neve Gordon, accademico israeliano che ha insegnato in diverse prestigiose università, ha scritto un articolo per la London Review of Books (tradotto qui) sul nuovo antisemitismo, sottolineando a sua volta la fondamentale distinzione che spesso si perde nel dibattito, quella tra critica allo stato di Israele e antisemitismo:
«La logica del "nuovo antisemitismo" può essere formulata come un sillogismo: 1) l'antisemitismo è odio verso gli ebrei; 2) essere ebrei vuol dire essere sionisti; 3) di conseguenza l'antisionismo è antisemitismo. L'errore riguarda la seconda proposizione. Le affermazioni secondo cui il sionismo si identifica con l'ebraismo, o che una simile equazione possa essere fatta tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, sono false. Molti ebrei non sono sionisti. E il sionismo ha molte caratteristiche che non sono in nessun modo insite o caratteristiche dell'ebraicità, ma piuttosto sono emerse dalle ideologie nazionaliste e del colonialismo di insediamento durante gli ultimi trecento anni. La critica del sionismo o di Israele non è necessariamente il prodotto di un'animosità verso gli ebrei; al contrario, l'odio verso gli ebrei non implica necessariamente l'antisionismo».
Neve Gordon sostiene che sia possibile essere sia sionisti che antisemiti: e fa riferimento alle affermazioni dei suprematisti bianchi negli USA o dei politici dell'estrema destra in tutta Europa, che professano «la propria ammirazione per il sionismo e per l'etnocrazia "bianca" dello Stato di Israele, pur esprimendo chiaramente le proprie opinioni antisemite in altre occasioni. Tre cose che attraggono questi antisemiti verso Israele sono: primo, il carattere etnocratico dello Stato; secondo, un'islamofobia che ritengono Israele condivida con loro; terzo, le politiche assolutamente dure di Israele verso i migranti non bianchi dall'Africa». Gordon ammette che in alcuni casi l'antisionismo si sovrapponga in parte all'antisemitismo, ma pensa anche che questo non dica poi molto «dato che una grande varietà di opinioni e di ideologie possono coincidere con l'antisemitismo». E ancora:
«Un esempio singolare ma molto efficace del "nuovo antisemitismo" ha avuto luogo nel 2005 durante il ritiro di Israele da Gaza. Quando sono arrivati i soldati per evacuare gli ottomila coloni che vivevano nella zona, alcuni di questi hanno protestato mettendo sui vestiti stelle gialle e insistendo che "non sarebbero andati come pecore al macello".
Shaul Magid, il titolare della cattedra di "Studi ebraici" all'Università dell'Indiana, sottolinea che così facendo i coloni hanno dato dell'antisemita al governo e all'esercito israeliani. Ai loro occhi il governo ed i soldati meritavano di essere chiamati antisemiti non perché odiassero gli ebrei, ma perché stavano mettendo in atto una politica antisionista, danneggiando il progetto di fondazione del cosiddetto "Grande Israele".
Questa rappresentazione della decolonizzazione come antisemita è la chiave per una corretta comprensione di quello che è in gioco quando la gente viene accusata del "nuovo antisemitismo".
C'è una certa ironia in questo. Storicamente la lotta contro l'antisemitismo ha inteso promuovere pari diritti e l'emancipazione degli ebrei. Quelli che denunciano il "nuovo antisemitismo" desiderano legittimare la discriminazione e la sottomissione dei palestinesi. Nel primo caso qualcuno che desidera opprimere, dominare e sterminare gli ebrei è bollato come antisemita; nel secondo, chi vuole partecipare alla lotta per la liberazione dal dominio coloniale è bollato come antisemita. In questo modo, ha osservato Judith Butler (filosofa femminista, ndr) "un desiderio di giustizia" è "ridefinito come antisemitismo"».
Gordon conclude dicendo che il governo israeliano «ha bisogno» del nuovo antisemitismo «per giustificare le sue azioni e per proteggerle dalla condanna interna ed internazionale. L'antisemitismo è effettivamente utilizzato come un'arma, non solo per soffocare il discorso - "non importa se l'accusa è vera", scrive Butler, il suo intento è "causare sofferenza, provocare vergogna, e ridurre l'accusato al silenzio" - ma anche per sopprimere una politica per la liberazione».
Il punto è quindi come combattere l'antisemitismo senza promuovere l'ingiustizia o l'espropriazione nei territori palestinesi. E dice: «C'è una via d'uscita dal dilemma. Possiamo opporci a due ingiustizie in una volta. Possiamo condannare i discorsi di odio e i crimini contro gli ebrei, (
) o l'antisemitismo dei partiti politici di estrema destra europei, e allo stesso tempo denunciare il progetto coloniale di Israele e appoggiare i palestinesi nella loro lotta per l'autodeterminazione. Ma per portare avanti questi compiti congiuntamente, bisogna prima rifiutare l'equazione tra antisemitismo e antisionismo». Cioè, la strumentalizzazione alle critiche contro alcune politiche dello stato di Israele. L'operazione però andrebbe fatta specularmente: molti antisemiti considerano ogni ebreo, in quanto tale, un sionista, colpevole o comunque responsabile per ragioni etniche di quello che fa Israele.
Nuovo antisemitismo e antisemitismo musulmano
Lo scorso 21 aprile in Francia, dopo gli ultimi episodi di violenza, più di 300 persone hanno reagito firmando un "manifesto contro il nuovo antisemitismo" pubblicato sul quotidiano Le Parisien: è stato sottoscritto da Philippe Val, ex direttore di Charlie Hebdo, dall'ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, dall'ex primo ministro socialista Manuel Valls, da altri due ex primi ministri, dall'ex sindaco di Parigi Bertrand Delanoe, da politici sia di destra che di sinistra, da rappresentanti di diverse religioni e da intellettuali e artisti come Gérard Depardieu, Charles Aznavour, Françoise Hardy, Alain Finkielkraut o Bernard-Henri Lévy.
Il manifesto sostiene la recente pubblicazione di un libro collettivo intitolato "Il nuovo antisemitismo in Francia" e fa riferimento a una serie di dati e numeri del ministero dell'Interno francese: dall'inizio del 2000 gli ebrei francesi hanno assistito a un aumento degli atti antisemiti. Nonostante nel 2017 ci siano stati meno episodi rispetto al 2016, quelli che si sono verificati sono stati di natura più violenta. L'aumento della violenza farebbe parte di ciò che i firmatari del manifesto chiamano un "nuovo antisemitismo", portato avanti non dall'estrema destra ma dai migranti musulmani. Il manifesto denuncia il mancato riconoscimento di questo "antisemitismo musulmano" e vale la pena leggerlo tutto, per capire poi le critiche che sono state fatte:
«L'antisemitismo non è affare degli ebrei, è affare di tutti. I francesi, la cui maturità democratica è stata misurata dopo ogni attacco islamista, stanno vivendo un tragico paradosso. Il loro paese è diventato teatro di un antisemitismo mortale. Questo terrore si diffonde, provocando sia la condanna popolare che il silenzio mediatico che la recente marcia bianca ha contribuito a spezzare.
Quando un primo ministro all'Assemblea Nazionale dichiara, tra gli applausi dell'intero paese, che la Francia senza gli ebrei non sarebbe più la Francia, non fa ricorso a una bella frase consolatrice ma a un avvertimento solenne: la nostra storia europea, e in particolare quella francese, per ragioni geografiche, religiose, filosofiche, legali, è profondamente legata a culture differenti, tra le quali il pensiero ebraico è decisivo. Nella nostra storia recente, undici ebrei sono stati assassinati - e alcuni torturati - perché ebrei, da islamisti radicali.
Tuttavia, la denuncia dell'islamofobia - che non è il razzismo anti-arabo da combattere - nasconde le cifre del ministero dell'Interno: gli ebrei francesi hanno 25 volte più probabilità di essere aggrediti rispetto ai loro concittadini musulmani. Il 10 per cento dei cittadini ebrei dell'Ile-de-France - vale a dire circa 50.000 persone - è stato recentemente costretto a trasferirsi perché non era più al sicuro in alcune città e perché i suoi figli non potevano più frequentare la scuola pubblica. Questa è una pulizia etnica passata sotto silenzio nel paese di Émile Zola e di Clemenceau.
Perché questo silenzio? Perché la radicalizzazione islamista - e l'antisemitismo che veicola - è considerata da una parte delle élite francesi come l'espressione di una rivolta sociale, mentre lo stesso fenomeno si osserva in società molto diverse tra loro come la Danimarca, l'Afghanistan, il Mali o la Germania. Perché al vecchio antisemitismo dell'estrema destra, si aggiunge l'antisemitismo di una parte della sinistra radicale che ha trovato nell'antisionismo (vedi sopra, ndr) l'alibi per trasformare i carnefici degli ebrei in vittime della società. Perché i calcoli elettorali dicono che il voto musulmano è dieci volte più numeroso del voto ebraico.
Nella marcia bianca per Mireille Knoll, c'erano imam consapevoli che l'antisemitismo musulmano è la più grande minaccia per l'Islam nel Ventunesimo secolo e per il mondo di pace e libertà in cui hanno scelto di vivere. Vivono, per la maggior parte, sotto la protezione della polizia. Il che la dice lunga sul terrore che esercitano gli islamisti sui musulmani in Francia.
Pertanto, chiediamo che i versetti del Corano che vogliono l'omicidio o la punizione degli ebrei, dei cristiani, dei non credenti siano dichiarati obsoleti dalle autorità teologiche, come accadde per le incoerenze della Bibbia e per l'antisemitismo cattolico abolito dal Vaticano II, in modo che nessun credente possa fare affidamento su un testo sacro per commettere un crimine.
Ci aspettiamo che l'Islam di Francia apra la strada. Chiediamo che la lotta contro questo fallimento democratico che è l'antisemitismo diventi una causa nazionale prima che sia troppo tardi. Prima che la Francia non sia più la Francia».
Il manifesto ha causato un'ampia discussione. Le Monde ha scritto che Anouar Kbibech, vicepresidente del Consiglio francese del culto musulmano, si è rifiutato di firmarlo: «Non per il principio, perché è encomiabile», ma perché il manifesto fa confusione tra islamisti radicali e musulmani nel loro complesso: «Si insinua che il musulmano sia potenzialmente un antisemita, fino a prova contraria. Dire qualcosa contro l'islamismo radicale, mentre si punta il dito contro tutti i musulmani, è controproducente». Infine Kbibech ha ricordato ai firmatari che i versetti del Corano che sono considerati dai musulmani una rivelazione divina possono essere interpretati, ma non possono essere abrogati.
Tareq Oubrou, famoso imam francese della grande moschea di Bordeaux, in un'intervista all'Atlantic ha detto a sua volta che l'interpretazione del Corano presente nel manifesto «è quasi blasfema». Dire che ci sono dei versetti antisemiti è come mettersi sullo stesso piano delle interpretazioni falsificate e promosse da quei musulmani radicali che la Francia cerca di combattere: «Musulmani ignoranti che rimuovono i testi dal loro contesto storico».
Trenta imam francesi hanno anche pubblicato una lettera su Le Monde sostenendo più o meno la stessa cosa, e portando il dibattito sul ruolo teologico dell'Islam nel guidare il terrorismo: i jihadisti sono devoti musulmani che vedono la violenza come un obbligo religioso o sono criminali alla ricerca di una causa per cui combattere? La lettera riconosce che, nonostante i fattori non religiosi che guidano la violenza in nome dell'Islam, le autorità religiose devono avere un ruolo fondamentale nel combatterla.
Sull'edizione francese di Slate è stato pubblicato in un lungo articolo la critica più forte e puntuale al manifesto: si dice che parte da una giusta causa, ma che procede per slogan e che rappresenta un atto di accusa contro tutti i musulmani di Francia, considerati come stranieri rispetto alla vera identità del paese: «Non discuto la buona volontà dei firmatari. Mi piacerebbe, umilmente, che misurassero il rischio e le loro parole», dice il giornalista Claude Askolovitch, che si definisce un "ebreo laico".
Per lui, il manifesto mostra una logica molto diffusa nei discorsi moderni contro il nuovo antisemitismo: la lotta per gli ebrei come componente della lotta per l'identità francese, un'identità che è però escludente e che si esprime in un sillogismo: la Francia senza gli ebrei non sarebbe se stessa? Gli ebrei sono le vittime dei musulmani? La Francia, per questi musulmani, non sarà più la Francia. O meglio: la Francia, per tutti i musulmani, non sarà più la Francia. Questo passaggio fondamentale, dice, attraversa tutto il dibattito senza che spesso venga percepito e riassumibile nella formula: la difesa dell'ebreo implica il rifiuto dell'islam. Il fatto che il manifesto abbia raccolto così tanti consensi, diffusi e differenti, mostra che sta crescendo un'ideologia dominante che condanna l'antisemitismo ma ammette un certo sentimento negativo verso i musulmani. E se si parla molto poco di antisemitismo, dice, è perché sui media si parla moltissimo di islamofobia.
Askolovitch contesta il manifesto punto per punto: la frase sugli ebrei francesi che hanno 25 volte più probabilità di essere aggrediti rispetto ai loro concittadini musulmani è paradossale, dice, come se fosse necessario calibrare la sofferenza degli ebrei «con il metro di una presunta tranquillità musulmana» e come se fosse necessario «opporre l'ebreo, figlio della Francia, al "concittadino musulmano" che si suppone essere molto più musulmano che concittadino». Sulle modifiche richieste al Corano: «La pratica e il tempo hanno lavato le scorie del Corano tranne che negli ambienti radicali, sui quali nessuno ha influenza e certamente non le istituzioni. Non riformiamo, dunque, assediando i credenti».
La paura dominante espressa nel manifesto, dice infine, è l'idea che la Francia diventi un paese "troppo musulmano" e il recente antisemitismo è diventato un nuovo elemento di prova di questo timore: «Una buona ragione, progressista, per odiare quelli, velati, barbuti, che non vogliamo». Gli episodi di cronaca citati nel manifesto non hanno tutti a che fare con la matrice antisemita e l'odio religioso. Le vittime vengono strumentalizzate e «l'individuazione del nemico supera la verità dei morti». E prosegue: il capo della banda che ha rapito e torturato Ilan Halimi nel 2006 ha detto di averlo fatto perché "gli ebrei hanno i soldi", facendo riferimento al repertorio classico degli stereotipi antisemiti. Che però sono vivi e vegeti in Francia, oggi: i dati di un'indagine del 2016 dicono ad esempio che il 35 per cento dei francesi crede che gli ebrei «abbiano un rapporto particolare con il denaro», il 40 per cento pensa che «per gli ebrei francesi, Israele conti più della Francia» e il 22 per cento crede che «gli ebrei abbiano troppo potere». La conclusione di Askolovitch è che il nuovo antisemitismo non esista o che non tenga conto della storia della Francia che ha avuto a che fare con l'antisemitismo: davvero si può parlare del nuovo antisemitismo di cui sarebbero portatori i musulmani, all'interno di un contesto, quello francese, che ne sarebbe totalmente immune?
L'Atlantic sembra rispondere da lontano all'articolo di Slate: non tenere conto del fatto che i migranti che arrivano in Europa provengano da paesi a maggioranza musulmana dove l'antisemitismo occupa un posto di rilievo e dove la credenza nelle teorie complottiste antisemite è diffusa, sarebbe altrettanto grossolano. Sarebbe insomma sbagliato presumere che ogni rifugiato siriano abbia gli atteggiamenti antisemiti dell'ex ministro della Difesa siriano, che ha pubblicato un libro antisemita, ma sarebbe ugualmente fuorviante negare che molti siriani (presi in questo caso come esempio) siano stati profondamente influenzati dagli ambienti in cui sono cresciuti.
Per quanto riguarda la Germania, l'Atlantic fa notare che anche dall'altro punto di vista le cose vadano contestualizzate e guardate nel loro insieme: Alternativa per la Germania (AfD) è un partito di estrema destra che alle elezioni del settembre 2017 ha quasi triplicato i suoi voti, passando dal 4,7 del 2013 al 12,6 per cento, riuscendo per la prima volta a eleggere deputati nel parlamento nazionale. AfD è spesso accusata di avere tra i suoi dirigenti dei simpatizzanti del neonazismo che hanno come bersaglio sia i musulmani che gli ebrei. Uno dei suoi leader, Björn Höcke, ha definito il monumento all'olocausto di Berlino un «memoriale della vergogna». Non è musulmano.
(il Post, 26 maggio 2018)
Riportiamo questo articolo per l'oggetto del suo studio e per l'abbondanza di riferimenti e citazioni, non certo per tutte le sue argomentazioni e conclusioni.
Giù le mani dal Giro d'Italia e da Israele
Striscioni antisionisti e minacce agli ebrei per il passaggio della corsa a Roma
"Sia chiaro: profanare la memoria di una sopravvissuta alla Shoah e minacciare assalti al quartiere ebraico contro il Giro d'Italia non è una presa di posizione contro Israele, è antisemitismo. Un paese democratico non può permetterlo". Cosi Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma, ha commentato il clima d'odio con cui i boicottatori di Israele e gli antisemiti si preparano ad accogliere il Giro d'Italia nella capitale. Due notti fa, sul ponte Spizzichino di Roma, è comparso uno striscione con la bandiera palestinese e slogan contro il Giro partito da Gerusalemme per i 70 anni dello stato ebraico e definito "sporco di sangue".
Coincidenza sinistra, il cavalcavia Ostiense porta il nome di Settimia Spizzichino, l'unica ebrea sopravvissuta alla retata nel ghetto di Roma del 16 ottobre 1943. Adolf Eichmann chiamava queste azioni "samstagschlag", la sorpresa del sabato. Fu quando l'Europa e l'Italia decisero di versare il sangue dei loro ebrei. Ora ricompaiono slogan sul ponte che porta il nome di quella donna che fu anche una partigiana, in una Europa dove si versa nuovamente il sangue degli ebrei, come Mireille Knoll, e si fomenta la guerra santa di chi a Gaza vorrebbe colorare con il sangue degli israeliani il Mediterraneo. Ha ragione la nipote di Settimia Spizzichino, Carla Di Veroli, a commentare cosi la vicenda: "Bandiera e striscioni sono stati già rimossi. Trovo vergognoso e oltraggioso per mia zia, per coloro che nei lager sono stati sterminati e per gli ex deportati, aver compiuto un gesto che ancora una volta, in modo ignobile, tenta di far passare l'equazione Gaza come Auschwitz". Quello striscione lo avranno messo dieci scalmanati, ma a quella equazione orrenda credono in tanti. Forse i più. E' lì che si agita l'antisemitismo peggiore.
(Il Foglio, 26 maggio 2018)
"L'Unione europea non finanzi chi sostiene il boicottaggio"
Interrompere il finanziamento di almeno una dozzina di ong europee e palestinesi perché sostengono il boicottaggio contro Israele. È quanto ha chiesto nelle scorse ore il governo di Gerusalemme a Bruxelles, sottolineando che questo tipo di sostegno finanziario viola la politica dichiarata dell'Ue che si oppone al boicottaggio contro lo Stato ebraico. "Lo Stato di Israele si aspetta che l'Ue agisca con piena trasparenza e riveli la portata del suo aiuto finanziario alle organizzazioni che hanno legami con il terrorismo e che promuovono il boicottaggio di Israele - si legge in rapporto realizzato dal ministero degli Affari strategici israeliano e inviato alle istituzioni europee - Israele esorta vivamente l'Ue ad attuare pienamente nella pratica la sua politica dichiarata di rifiuto dei boicottaggi contro Israele e a sospendere immediatamente i finanziamenti alle organizzazioni che promuovono il boicottaggio e la delegittimazione anti-israeliana". Secondo i dati del ministero, le ong in questione hanno ricevuto un totale di 5 milioni di euro nel 2016, l'ultimo anno per il quale erano disponibili i dati. Tra queste, la relazione fa riferimento all'organizzazione irlandese Trócaire, che "ha ricevuto 520.000 euro. Trócaire lancia e sostiene petizioni che invitano l'Unione europea a imporre sanzioni economiche contro Israele", si legge nella relazione. Il ministro per gli Affari strategici israeliano Gilad Erdan ha dichiarato: "Mi aspetto che l'UE mantenga la sua politica di opposizione al boicottaggio israeliano e non sostenga le organizzazioni legate al terrorismo".
Tra le altre organizzazioni citate, la Norwegian People Aid (Npa) che nel 2016 ha ricevuto finanziamenti europei per 1,76 milioni di euro e che, affermano dal ministero israeliano, "è una sostenitrice del boicottaggio di Israele. Inoltre in anni recenti l'Npa ha cooperato a Gaza a progetti assieme con Hamas e con il Fronte popolare".
(moked, 25 maggio 2018)
Shoah, a Roma prima plenaria della presidenza italiana IHRA
Il 27 maggio al MAXXI, convegno sulle leggi razziali. Dal 28 al 31 maggio la prima sessione plenaria della presidenza italiana della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA)
Si svolgerà a Roma dal 28 al 31 maggio la prima riunione plenaria della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), organizzata dalla delegazione italiana, che ne ha la presidenza per il 2018 (www.holocaustremembrance.com).
Oltre alle attività delle commissioni e dei gruppi di lavoro, è previsto un fitto programma collaterale che inizierà domenica 27 maggio, giorno in cui presso il museo MAXXI - dalle 10 alle 17 - si terrà un convegno dedicato alle leggi razziali. L'iniziativa è organizzata dalla delegazione italiana all'IHRA, dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano e dalla Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna, con la collaborazione del MIUR.
Dopo i saluti dell'Ambasciatore Sandro De Bernardin, attuale Presidente IHRA, e della Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, i lavori saranno aperti dalle lezioni di Steven T. Katz, su "Antisemitism in Times of Crisis" e di Giuliano Amato, su "Summa iniuria: Law and Discrimination".
Dopo le sessioni dedicate a "modelli", "pratiche" e "patrimonio", la giornata verrà chiusa da Wichert ten Have, con "Crossing bridges: Academic, Research, Politics" e da Jean-Frédéric Schaub, su "Making the History of the Racist Laws in Europe".
Per i giorni successivi è in programma una visita guidata alla Fondazione Museo della Shoah - per coloro che fanno parte del gruppo di lavoro su Musei e Memoriali - mentre tutte le delegate e tutti i delegati saranno accompagnati a visitare la Sinagoga e il Museo ebraico di Roma.
Il 29 maggio, presso il Vittoriano, si svolgerà una proiezione straordinaria di "La stella di Andra e Tati", il film d'animazione dedicato alla storia di Andra e Tatiana Bucci, deportate bambine e sopravvissute ad Auschwitz, realizzato dal MIUR con RAI e Larcadarte. Interverranno le protagoniste della storia, che dialogheranno e si confronteranno con le delegate e i delegati della IHRA.
Il 30 maggio, presso le Terme di Diocleziano, "Giobbe", l'opera teatrale dell'artista Yuval Avital, concluderà il programma. Uno spettacolo inedito che, partendo dall'episodio biblico, affronta in un'accezione universale e contemporanea il tema della persecuzione attraverso un'indagine sugli archetipi di bene, male e giustizia.
(Corriere Nazionale, 25 maggio 2018)
Intesa apre la via in Israele: partnership con OurCrowd
Accordo per avvicinare le startup al mercato internazionale. Oltre 25mila gli investitori del network di OurCrowd
di Monica D'Ascenzo
TEL AVIV - Una «bolla di quiete» per guidare senza rumori, un «rilevatore di sguardi» con sensore per avvisare il conducente in caso di disattenzioni o colpi di sonno, algoritmi per elaborare dati di traffico condivisi è un altro per segnalare inefficienze lungo i percorsi. Alcune idee già sentite, ma implementate e altre completamente nuove fra gli stand delle startup a EcoMotion, l'evento che ha riunito gli innovatori israeliani dell'automotive a Tel Aviv. A incontrare gli startupper investitori da tutto il mondo, ma soprattutto i responsabili delle case automobilistiche in cerca dell'idea da acquistare da Ronda a Nissan, da Volvo a Mercedes.All'evento anche un pezzo di Italia con lo stand di Intesa Sanpaolo, che ha ospitato il rappresentante di Mobileye, la startup diventata simbolo di successo del settore in Israele dopo essere stata acquisita per 15 miliardi di dollari da Intel.
In questa cornice la banca italiana ha annunciato di aver siglato, attraverso la controllata Innovation Center, un accordo con OurCrowd, leader mondiale nel crowdfunding e piattaforma di venture capital. Il Memorandum of understanding ha come obiettivo quello di agevolare l'accesso al mercato internazionale sia delle startup italiane sia delle startup israeliane della piattaforma. «Costruiamo ponti per connettere startup e tecnologia con i migliori partner al mondo, perché le startup non necessitano solo di investitori, necessitano principalmente di connessioni» ha spiegato Josh Wolff, senior vice president di OurCrowd, che replica con l'Italia quanto già fatto a Singapore con una banca locale perché «avere un partner ci permette di risparmiare tempo nella fase di scouting in altri Paesi e di poter esportare l'innovazione nata in Israele».
Intesa Sanpaolo Innovation Center, già partner di The Floor a Tel Aviv, fornirà ai propri clienti corporate e Pmi l'accesso al portafoglio di startup hitech di OurCrowd, in modo da creare sinergie per lo sbocco sul mercato. «L'accordo conferma la centralità dell'ecosistema delle startup per il gruppo Intesa Sanpaolo», ha commentato Mario Costantini, direttore generale di Intesa Sanpaolo Innovation Center, aggiungendo: «La partnership ha infatti il duplice obiettivo di mettere a disposizione delle nostre imprese clienti le migliori tecnologie israeliane selezionate e dall'altra parte offre alle nostre startup ad alto potenziale l'accesso alla rete di oltre 25mila investitori internazionali del network di OurCrowd». E l'impegno di Intesa Sanpaolo potrà essere anche nel sostenere finanziariamente le startup più valide:«Potremo investire nel capitale delle società in portafoglio ad OurCrowd direttamente con la nostra società di Corporate Venture Capital, Neva Finventures, e allo stesso tempo promuoveremo gli investimenti dei nostri clienti in OurCrowd» ha spiegato Fabio Spagnuolo di Innovation Center, ricordando le diverse missioni già fatte da Intesa Sanpaolo nel Paese con startup Italiane di diversi settori dall'automotive al fashion.
Ora grazie alla partnership appena siglata le imprese e le startup clienti di Intesa Sanpaolo avranno la possibilità di accedere alla piattaforma di equity crowdfunding di OurCrowd, che dalla sua nascita nel 2013 ha raccolto più di 750 milioni di dollari da oltre 25.000 investitori provenienti da 112 Paesi (il 49% dagli Usa) in favore di oltre 150 startup. «Gli investitori cercano tecnologia e fiducia. In Israele c'è la prima e noi offriamo la seconda co-investendo a fianco dei maggiori venture capitai al mondo» sottolinea Wolff, ricordando che la taglia media di un loro investimento è di 3-5 milioni di dollari: «Il round di investimento più rilevante è stato in Mprest, 20 milioni in co investimento con Ge Venture. È capitato anche qualche investimento da 10 milioni, ma il problema delle startup israeliane è quello di fare il salto e diventare scale up». Ma intanto OurCrowd è riuscita a portare già a casa 21 exit in cinque anni. Non è dato, però, sapere il ritorno sugli investimenti.
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L'asse fra i due Paesi: maggiore cooperazione
Due economie complementari che possono viaggiare all'unisono. Si potrebbe riassumere così l'accordo bilaterale siglato fra Italia e Israele in occasione della riunione della commissione mista fra i due Paesi.L'intesa prevede una partnership per un nuovo programma di cooperazione a livello industriale, scientifico e tecnologico: nel dettaglio otto progetti accademici e sei industriali per un investimento complessivo dei due Paesi di 3,5 milioni di euro. Inoltre l'intesa prevede un focus sulle startup con un programma di supporto allo scambio bilaterale e un investimento di 200mila euro nel complesso: «Israele oggi è per l'Italia il più importante partner al mondo per la collaborazione su tecnologie e sviluppo dell'innovazione. L'obiettivo è aumentare la mobilità delle giovani startup italiane e delle startup israeliane più mature. In secondo luogo intendiamo aumentare il numero di multinazionali Italiane presenti in Israele per programmi dì ricerca e sviluppo sul modello di Enel» commenta l'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti. Le startup italiane saranno accolte per periodi di incubazione in Israele, mentre le startup israeliane che hanno già sviluppato tecnologie innovative potranno testarle nella produzione di aziende italiane, con Israele che coprirà i costi dei prototipi. Mo.D.
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(Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2018)
Dietro la cortina di fumo - Parte Due: Il grande inganno
In un video di 11 minuti, la scioccante ipocrisia di chi condanna Israele parlando di manifestazioni pacifiche
Dopo oltre due milioni di visualizzazioni del cortometraggio Behind the Smoke Screen (Dietro la cortina di fumo) che mostrava filmati esclusivi dall'interno della striscia di Gaza durante le cosiddette "marce del ritorno", il regista Pierre Rehov ha prodotto un sequel intitolato The Great Deception (Il grande inganno).
"Ho girato questo video - aveva spiegato il regista francese al Jerusalem Post all'uscita della prima parte - perché ho constatato molte volte in prima persona come i palestinesi imbastiscono la loro propaganda, e credo fermamente che la pace non sarà possibile finché mass-media internazionali, Onu e ong continueranno a prendere per oro colato la propaganda palestinese invece di guardare ai fatti. Hamas sa di poter contare sulla comunità internazionale quando lancia iniziative come queste proteste sedicenti pacifiche, che hanno già mietuto troppe vite, mentre Israele non ha altra scelta che difendere i propri confini"...
(israele.net, 25 maggio 2018)
Israele - Il magnate Abramovich chiede la cittadinanza
GERUSALEMME - Il miliardario russo Roman Abramovich si è recato ieri in Israele e ha fatto richiesta della cittadinanza. Secondo il quotidiano lsrael Hayom, la decisione di Abramovich, di religione ebraica, è dovuta alle difficoltà che il proprietario della squadra di calcio del Chelsea sta avendo nel rinnovo del suo visto in Gran Bretagna. Nei giorni scorsi, Downing Street aveva confermato che è in corso una rigorosa revisione dei criteri con i quali vengono rilasciati i cosiddetti visti "tier one", di classe uno, della durata di 40 mesi, riservati ai facoltosi stranieri che investono oltre 2 milioni di sterline nell'economia britannica. La vicenda è legata al gelo nei rapporti diplomatici tra Londra e Mosca, a seguito del caso della ex spia Skripal.
(Avvenire, 25 maggio 2018)
Base aerea nella provincia di Homs attaccata dai jet israeliani
La difesa aerea siriana risponde
Il 24 maggio, gli aerei da guerra della Forza aerea israeliana (IAF) hanno effettuato diversi attacchi aerei sulla base aerea di al-Dabaa nella campagna sud-occidentale di Homs, secondo diverse fonti filo-governative. Secondo quanto riferito, gli aerei da guerra israeliani hanno attaccato la base aerea delle Forze libanesi.
Attivisti filo-governativi siriani hanno detto che le Forze di difesa aerea arabe siriane (SyAADF) hanno preso di mira gli aerei israeliani sul Libano. Secondo gli attivisti, il sistema di difesa aerea a lungo raggio SyAADF S-200 ha sparato almeno due missili contro gli aerei israeliani.
Il comando generale dell'Esercito arabo siriano (ASA) ha confermato in una dichiarazione ufficiale che una base aerea nella Siria centrale era stata presa di mira dalla IAF e ha affermato che il SyAADF sta attualmente respingendo i missili e gli aerei militari israeliani.
Secondo gli osservatori locali, la base aerea di al-Dabaa è uno dei quartieri principali degli Hezbollah libanesi in Siria, mentre l'Aeronautica araba siriana (SyAAF) si è ritirata da essa nel 2013. Ciò conferma che l'obiettivo principale dei raid aerei israeliani era Hezbollah e non l'ASA o le forze iraniane.
La situazione potrebbe aggravarsi nelle prossime ore, specialmente se qualche combattente o comandante di Hezbollah venisse ucciso durante i raid aerei. Israele ha anche giurato di recente che colpirà il SyAADF se lancia missili contro aerei da guerra israeliani.
(Sa Defenza, 24 maggio 2018)
Quel messaggio a nemici e amici dietro l'attacco di Israele con gli F-35
di Lorenzo Vita
L'annuncio di Amikam Norkim, comandante dell'aeronautica militare israeliana, sull'uso degli F-35 contro le basi iraniane in Siria, ha un significato molto ampio, non solo militare ma anche politico.
Come scritto da Paolo Mauri su questa testata, l'aeronautica israeliana (Iaf) "ha ricevuto sino ad oggi nove F-35 "Lightning II" - ribattezzati "Adir" da Israele - assegnati al 140esimo stormo "Golden Eagle" che ha sede presso la base aerea di Nevatim". Di questi, cinque hanno ricevuto la Initial Operational Capability (Ioc) e sono dunque già pronti per partecipare a missioni operative.
Non una potenza di fuoco così ampia come si poteva credere. Ma il messaggio mandato dall'aeronautica israeliana è chiarissimo: Israele è il primo Paese ad aver utilizzato gli F-35 in missione operativa. E non a caso, quel messaggio è stato recapitato durante una conferenza stampa in cui erano presenti comandanti delle forze aeree di 20 Paesi diversi.
Il messaggio all'Iran
Come scrive Haaretz, non tutte le missioni in cui l'aviazione israeliana ha usato gli F-35 avevano bisogno delle loro capacità stealth. Pensiamo ad esempio agli attacchi contro i tunnel di Hamas, che la Iaf ha dichiarato essere stati compiuti con i nuovi velivoli.
Hamas non ha radar né tali capacità di difesa da essere obbligatorio l'uso della tecnologia dei nuovi aerei Lockheed Martin. E infatti, fino ad oggi, Israele ha usato senza problemi altri caccia per le missioni di bombardamento nella Striscia di Gaza. Tuttavia, utilizzarli contro gli obiettivi dell'organizzazione palestinese serviva come processo di crescita.
In sostanza, si è trattato di una sorta di addestramento a fuoco vivo. Israele doveva testare i nuovi aerei e doveva far capire alle forze avversarie del nord (Siria , Iran ed Hezbollah) di essere in grado di colpire con gli F-35.
Da quello che risulta, l'aeronautica israeliana non aveva intenzione di utilizzare gli F-35 in questa prima parte del 2018. Ma la crescente forza militare iraniana in Siria ha fatto sì che a Tel Aviv decidessero di dare un segnale a Teheran mostrando di essere pronti ad alzare il livello dello scontro. A questo, va aggiunto anche la notizia dell'F-16 israeliano abbattuto in Siria durante uno dei primi raid del 2018. Un'immagine che dimostrò come le capacità della contraerea siriana fossero estremamente più valide di quanto si aspettassero i vertici della Difesa israeliana.
Non va poi sottovalutata l'importanza dei sistemi di difesa della Russia presenti in Siria. Israele e Russia condividono una linea di comunicazione militare che evita qualsiasi tipo di scontro in territorio siriano. Ma è evidente che i sistemi russi, in particolare il possibile arrivo degli S-400, ha posto in serio pericolo la capacità operativa degli aerei israeliani. Che infatti, anche questa volta, hanno colpito dai cieli del Libano: non sono entrati in Siria.
Uno spot per la Lockheed Martin
Ma non ci sono solo questioni militari e strategiche all'interno dell'annuncio di Norkin. Come spiegato da Anshel Pfeffer, Israele fu la prima nazione a utilizzare i principali caccia americani in operazioni di guerra: l'F-15 e l'F-16. Il loro successo operativo, testimoniato dalle azioni israeliani in Medio Oriente, ha contribuito ad aumentare le vendite in molti Stati.
Di fatto, le azioni della Fionda di Davide sono diventate anche degli spot pubblicitari. E non è un caso che alla conferenza fosse ospite anche il Ceo di Lockheed Martin, Marillyn Hewson.
La notizia che gli F-35 siano stati testati con successo in battaglia, rappresenta un ottimo punto a favore del colosso americano delle armi. E lo ha confermato ad Haaretz anche un ufficiale dell'aviazione israeliana: "Lockheed Martin aveva bisogno di questa spinta", ha detto. "È per questo che sono stati disposti a fare tutto ciò che chiedevamo e a portare gli aerei in Israele prima di qualsiasi altro acquirente".
In guerra, del resto, c'è anche questo. L'industria bellica ha assunto nel corso degli anni un ruolo di primo piano. E gli Stati Uniti, alleati di Israele, hanno da sempre puntato sull'esportazione dei propri mezzi come strumento economico ma anche politico.
Donald Trump, da quando ha assunto la carica di presidente, non ha mai nascosto di considerare i contratti per la vendita di armi come un volano fondamentale di crescita per gli Stati Uniti. E dall'inizio della nuova amministrazione, sono molti i governi alleati di Washington ad aver aumentato sia le spese militari che l'acquisto di mezzi dalle aziende americane.
(Gli occhi della guerra, 24 maggio 2018)
Eurovision 2019, meeting EBU in Israele: "No a Gerusalemme se i paesi la boicotteranno"
di Emanuele Lombardini
Le polemiche che stanno montando in questo periodo circa l'opportunità di ospitare l'Eurovision Song Contest 2019 in Israele ed in particolare a Gerusalemme un primo effetto l'hanno già avuto: nella prima riunione che la EBU ha tenuto infatti nel paese mediorientale dopo la vittoria di Netta si è parlato soprattutto di questo.
Da un lato, la capacità di KAN, la nuovissima tv pubblica israeliana di ospitare al meglio un evento di questa portata e dall'altro la scelta della città ospitante. Subito dopo la vittoria di Netta, il primo ministro Benyamin Netanyahu aveva di fatto 'lanciato' Gerusalemme come sede ma le vicende geopolitiche - leggi il conflitto israelo-palestinese recentemente riacutizzatosi - hanno messo in dubbio quella che sembrava un scelta già fatta.
Abbiamo già raccontato della proposta arrivata dall'Irlanda di boicottare la rassegna e della petizione partita dall'Islanda che mettevano sul piatto della bilancia le condizioni del popolo palestinese, peraltro in un conflitto complesso nel quale nessuno rischia di uscire davvero vincitore. Nelle ultime ore, identiche proposte sono arrivati dai LibDem, il partito liberale britannico e dal Vänsterpartiet, il partito svedese di sinistra.
A questo si aggiungono le forti pressioni che continuano invece ad arrivare sul fronte israeliano e che secondo i paesi che hanno lanciato il boicottaggio mettono il concorso a rischio di strumentazioni politiche: dopo Netanyahu anche il Ministro della Cultura Miri Regev e quello per le comunicazioni Ayub Kara parlano già come se la decisione fosse già presa (il secondo ha anche 'invitato' i paesi arabi a partecipare).
Una situazione che - secondo quanto emerge dai quotidiani israeliani - avrebbe indotto la EBU a dire che "L'Eurovision 2019 non si terrà a Gerusalemme se i Paesi negheranno la partecipazione". Sottolineando inoltre che "Qualunque dichiarazione rilasciata prima che la scelta della sede sia stata fatta non ha alcuna valenza".
Sempre la EBU ha invitato gli eurofan a non prenotare per il momento alcun volo per Gerusalemme.
Nel frattempo, si vagliano soluzioni alternative: Tel Aviv resta per il momento defilata, ma non ufficialmente fuori gioco, mentre si è fatto avanti il sindaco di Petah Tikva Itzik Braverman, candidando la città, che dista solo 10 chilometri da Tel Aviv: "Non abbiamo un'arena adeguata, ma non è un problema: se gli azeri ne hanno costruita una in sei mesi, possiamo farlo anche noi", ha dichiarato.
(Eurofestival News, 24 maggio 2018)
I giocatori scioperano, si ferma il campionato di basket israeliano
Il titolo potrebbe rimanere vacante
di Mirco Melloni
Il nome di un torneo non era mai stato così fuori luogo: già, perché il campionato israeliano di basket, denominato Winner League, rischia di non avere un vincitore, un club che succeda all'Hapoel Gerusalemme che lo scorso anno trionfò sotto la guida di Simone Pianigiani. La Lega che annovera uno dei club più importanti d'Europa - il Maccabi Tel Aviv che è l'orgoglio sportivo d'Israele - si è infatti fermata a un turno dalla fine della stagione regolare per
mancanza di giocatori. E il rischio concreto è che non riprenda, bloccando così i discorsi legati all'assegnazione del titolo attraverso i playoff e la retrocessione.
Due sempre in campo
La ragione è l'eleggibilità dei giocatori, materia di discussioni e polemiche un po' in tutta Europa. In Italia, per esempio, il prossimo anno cambierà passando ai sei stranieri (senza più distinzione di passaporto) e sei italiani, oppure 5+5. In Israele, invece, fino a quest'anno vigeva la regola protezionistica chiamata "russian rule", visto che era stata introdotta dalla Lega russa, secondo cui ogni squadra deve avere sempre in campo almeno due giocatori locali. La Lega israeliana aveva rinnovato tale convenzione regolamentare fino al termine di questa stagione, in vista di un possibile cambiamento dalla prossima stagione. La risposta al possibile cambiamento dell'Associazione Giocatori è stata perentoria, visto che una volta accertata l'impossibilità di preservare la norma attuale, il sindacato ha indetto lo sciopero dei giocatori. "Abbiamo negoziato ma le nostre proposte non sono state accettate dai giocatori, e senza giocatori è impossibile giocare" ha comunicato la Lega.
Fino al Ministero
In questo modo rischia di restare senza esito il ballottaggio tra Maccabi e Hapoel Holon, in vetta alla classifica con 22 vittorie, e non è noto il destino del Maccabi Haifa, già certo della retrocessione nella National League. La speranza è che la scelta di rompere le trattative da parte dei giocatori non sia il passo conclusivo, ma possa far parte di una strategia per portare la discussione dalla propria parte. Una situazione che sarebbe simile a cinque anni fa, quando la trattativa per il numero di stranieri indusse il sindacato a dichiarare lo stop. Venne poi raggiunto l'accordo, per un numero massimo di cinque giocatori stranieri ma con due locali sempre in campo, e almeno un israeliano Under 22 e un Under 25 a referto.
La discussione è arrivata fino al Ministero della Cultura e dello Sport, rappresentato da Miri Regev: la ministra ha dovuto constatare l'intenzione dei giocatori di non fare un passo indietro, e in questo momento il campionato si ferma e rischia di non avere un vincitore. Incredibile, con quel nome...
(La Stampa, 24 maggio 2018)
Buon compleanno Israele
Via Antonio Gramsci 4, Torino
Martedì 29 maggio. Alle 18
Al Teatro Maria Vittoria, l'Associazione Italia Israele di Torino ha organizzato l'incontro "Buon compleanno Israele" con intervento di Fiamma Nirenstein: "La mia Israele", 33 motivi per amare Israele. In 70 immagini, la storia di Israele dal 1948 a oggi.
Dichiarazione d'Indipendenza letta da David Ben Gurion il 14 maggio 1948; segue, senza interruzione, Barbra Streisand che canta l'inno nazionale HaTikva.
Ingresso libero fino a esaurimento posti.
(La Stampa - Torino, 24 maggio 2018)
"Pluralismo valore irrinunciabile, ma no alle strumentalizzazioni"
In merito all'appello "Tacciano le armi in Medio Oriente", la presidente UCEI Noemi Di Segni ha rilasciato la seguente dichiarazione:
L'UCEI ha ricevuto e letto, come moltissimi altri nei giorni scorsi, l'appello promosso da un gruppo di accademici, intitolato "Tacciano le armi in Medio Oriente", sollecitando una riflessione anche interna al mondo ebraico. Noi tutti abbiamo a cuore tanto l'esistenza dello Stato di Israele quanto la tutela dei diritti degli ebrei italiani. L'UCEI, assieme a tutte le Comunità, legge e ascolta gli appelli ma anche le grida di odio che si riversano anche sui social e media, e che sono divenute la nostra costante preoccupazione.
Ritengo che in una fase così drammatica come quella che stiamo tutti vivendo, in cui le tensioni politiche e militari sono sotto scrutinio continuo, l'unico vero appello che si possa fare è quello alla coraggiosa verità.
Esprimere un desiderio di pace per il Medio Oriente e attivarsi per condividere valori di convivenza e di profondità culturali e spirituali, per donare alla società e ai nostri figli una speranza di futuro, è quello che facciamo tutti i giorni nelle nostre preghiere e nelle nostre molteplici attività. Lo continueremo a fare per le comunità qui in Italia, in Europa e con forza e amore per Israele, unica democrazia nel Medio Oriente.
Certamente le critiche al governo israeliano e le riflessioni su ogni possibile misura alternativa sono legittime ed è giusto che vi sia uno spazio di dibattito, interno ed esterno all'ebraismo italiano, così come vi è in Israele, sui temi che tutti sentiamo come cardini della nostra identità. Il pluralismo delle idee e il confronto sono essenziali e nessuno intende fare tacere le voci che chiedono di fare tacere le armi.
Le voci che noi chiediamo di ascoltare sono quelle che però ad oggi non si sono lette quasi da nessuna parte, omesse, taciute, da intellettuali, da persone preposte alla comunicazione e da chi ha la possibilità, ancor più di noi, di rendere masse di persone informate e consapevoli dei veri fatti.
Immagini, spiegazioni, informazioni sui numeri dei civili e di combattenti presenti sul confine, modalità di organizzazione dei ripetuti attacchi da parte dei precettati palestinesi, modalità di preavviso da parte delle forze israeliane. Tutto questo è stato taciuto.
Armi, attacchi e massacri a civili che non erano "rinchiusi" in alcun campo e che vivevano da semplici cittadini nelle città e nei villaggi della Siria, Yemen, Turchia, Iran, Iraq e molti altri Paesi, degli ultimi anni, ancora ieri, ancora oggi. Tutto questo è stato taciuto.
Indagini, commissioni, inchieste, processi ai tribunali internazionali, risoluzioni Onu contro Israele. Tutto questo verso chiunque altro è stato ritenuto superfluo.
I valichi di accesso e canali regolarmente aperti per fare transitare mezzi di sostentamento, passaggio di civili verso ospedali per ogni cura. Tutto taciuto. La chiusura dei valichi da parte egiziana, scomoda trasparenza quindi taciuta.
La riflessione su cosa sarebbe poi successo se Israele avesse davvero deciso di fare tacere ogni arma non è mai stata coraggiosamente esaminata fino in fondo. Ma con chi stiamo parlando? Con chi ci stiamo confrontando? Quale lingua parliamo? Cosa davvero sarebbe successo alle nostre città e villaggi? Cosa è già successo molte volte ed è stato taciuto? Chi davvero vuole vivere? Chi davvero sogna una Tel Aviv anche a Gaza?
Qualsiasi sforzo teso al raggiungimento della pace in Israele e alla sicurezza dello Stato d'Israele è ovviamente il benvenuto, ma la nostra sfida comune, e mi rivolgo agli amici firmatari, non è quella di chiedere pace, o di fare sapere che si è più saggi e buoni degli altri ebrei, ma è quella di evitare che il desiderio di pace sia strumentalizzato e presentato come desiderio di guerra.
La nostra sfida è quella di affrontare l'immane distorsione da parte dei media e da parte delle più alte istituzioni politiche e religiose, nel mondo intero, e di far sì che chi legge comprenda davvero la situazione e i linguaggi e sia immerso nella realtà reale e non in quella virtuale che si è facilmente commercializzata.
La nostra è una resistenza culturale che il pluralismo deve aiutare a spiegare e non per far esaltare masse sopraffatte da vere armi dell'odio e che nessun appello mai ascolterà se non quello alla morte.
Mi dispiace constatarlo ma quella di Israele è anche una resistenza con le armi, perché la vita loro, nostra, dei figli, va difesa e la storia ci insegna che non bastano gli appelli.
Detto questo, ben venga ogni approfondimento e confronto e che si possa assieme davvero far comprendere che altro non desideriamo che la vita e la sicurezza, di Israele e dell'Europa tutta.
Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(moked, 23 maggio 2018)
Iran, l'Europa trema davanti alla "agenda Pompeo"
Il centinaio di miliardi di euro di commesse sfumate. E il rischio sanzioni per i Paesi che non rispettino le misure unilaterali degli Usa verso Teheran. Il Vecchio continente si mostra in tutta la sua debolezza.
di Carlo Panella
Povera Europa, al solito si ritrova a fare il vaso di coccio tra i due vasi di ferro dell'America di Trump e l'Iran degli ayatollah e si condanna da sola a non avere spazi di manovra. Pronta a dire tutto, ma a non fare nulla, pur di resuscitare l'accordo sul nucleare denunciato da Trump, l'Unione Europea continua a mettere la testa sotto la sabbia ma sarà travolta dalla "agenda Pompeo". Il segretario di Stato americano infatti ha enunciato le 12 condizioni della Casa Bianca per resuscitare l'accordo sul nucleare e nessuna di queste può essere rifiutata dai vari Macron, Mogherini e May che però continuano a fare finta che con l'Iran sia aperta solo la questione nucleare. Ma non è così, perché grazie a quell'accordo il regime degli ayatollah è diventato ben altro da quello che era nel 2015.
Questo Iran non può essere accettato
Tre anni fa la sua sfera di influenza si fermava a Baghdad (ma non all'Iraq), a Beirut (ma non a tutto il Libano) con un Assad, alleato siriano, sull'orlo della sconfitta. Oggi, grazie alla ritrovata legittimità internazionale regalatagli dall'accordo sul nucleare e a incredibili altri errori di Barack Obama, l'Iran egemonizza materialmente e controlla militarmente una immensa fascia che comprende tutto il Libano, Gaza, tutta la Siria, tutto l'Iraq e porta il suo dominio incontrastato dalle sponde del Mediterraneo sino ai confini dell'Afghanistan. Dunque, questo Iran, assunto al ruolo di "potenza macro regionale", con i suoi missili e 50 mila Pasdaran e miliziani a ridosso del confine di Israele, con tutta evidenza non può essere accettato da nessuno, neanche dall'Europa, che può solo fingere di non vedere questo "nuovo Impero Sassanide" - come affermano con orgoglio i "riformisti" di Teheran - dominare il Medio Oriente.
L'agenda di Pompeo, le 12 condizioni che ha posto per riscrivere un accordo sul nucleare con l'Iran, sono quindi più che realistiche ed è bene enumerarle:
- rivelare all'Aiea le dimensioni militari del programma nucleare e abbandonarlo per sempre, con verifiche certe;
- fermare l'arricchimento;
- dare all'Aiea accesso a tutti i siti;
- rinunciare al programma missilistico;
- rilasciare i detenuti americani;
- interrompere gli aiuti a terroristi come Hezbollah, Hamas e jihad islamica palestinese;
- rispettare la sovranità dell'Iraq;
- abbandonare gli Houthi nello Yemen;
- ritirarsi dalla Siria;
- interrompere la collaborazione con talebani e al Qaeda;
- interrompere il sostegno che la Guardia repubblicana offre al terrorismo in tutto il mondo;
- cessare le minacce ai vicini, come Israele, Arabia, Emirati.
Un futuro facile da prevedere
Naturalmente, l'Iran ha risposto a tono a Pompeo e da par suo per bocca del vice comandante dei Pasdaran a Teheran, Ismail Kowsari: «Il popolo iraniano darà un pugno in bocca agli Stati Uniti!». Con queste premesse è facile prevedere il prossimo futuro: impossibilità non solo di accordo, ma anche di trattativa con gli iraniani, sanzioni durissime degli Stati Uniti, crisi economica dell'Iran e qualche pesante risposta popolare. La strategia di Pompeo è questa e lui non nasconde di sperare se non in un regime change, quantomeno in un forte indebolimento degli ayatollah su un fronte interno nel quale l'economia è stremata dai 10 miliardi di dollari investiti nelle operazioni militari dei Pasdaran all'estero. Una prospettiva che fa impazzire di paura i leader europei, in lutto per il centinaio di miliardi di euro di commesse che speravano di lucrare (unico loro parametro) e che per di più avranno un'altra gatta da pelare. Trump minaccia di sanzioni anche i Paesi che non rispettino le misure unilaterali degli Usa verso Teheran. E l'Europa imbelle subirà anche quelle.
(Lettera43, 24 maggio 2018)
I settant'anni di Israele, il convegno a Villa Celestina
Un'occasione di dibattito aperta a tutti
CASTIGLIONCELLO - Villa Celestina a Castiglioncello sede di un convegno tutto dedicato ai settanta anni di Israele domenica 27 maggio con 'Buon compleanno Israele', organizzato dall'associazione Italia - Israele di Livorno e il patrocinio di Ucei Unione Comunità Ebraiche Italiane. Alle 10 apertura di Celeste Vichi, presidente dell'associazione, il video saluto di Ofer Sachs, ambasciatore dello Stato di Israele in Italia, i saluti di Vittorio Mosseri, presidente Comunità Ebraica di Livorno e Carla Guastalla, Presidente Adei Wizo Livorno. Alle 10.30 incontro moderato dal giornalista Andrea Pannocchia, con Niram Ferretti, autore di 'Il sabba intorno a Israele', con Alessandro Litta Modignani, presidente Udai.
Alle 11.30 tavola rotonda 'Israele, Italia, Europa', coordinata da Edoardo Tabasso, con Daniele Capezzone, New Direction Italia, Zeffiro Ciuffoletti, Università di Firenze, i deputati Manfredi Potenti, Lega, e Andrea Romano, Pd, con Marco Taradash, Centro- Motore, Bruno Spinazzola, Ceo Zeugma. Alle 15 un video su Moses Montefiore, a cui Livorno ha dedicato una via, emigrato in Inghilterra e diventato Lord acquistò nel 1857 un'area fuori dalla città vecchia di Gerusalemme, diventato avamposto della 'città nuova'.
Quindi Fiamma Nirenstein, intervistata in video da Spinazzola e Tabasso, presenta il suo libro 'In Israele'. A seguire Claudio Tongiani, amministratore unico Glt srl, presenta ITr Israele Toscana Room. Alle 16 Giulio Meotti, Il Foglio, col suo libro 'Israele. L'Ultimo Stato Europeo', modera Edoardo Tabasso. Non solo incontri a Villa Celestina. Ma anche la mostra 'Uno sguardo contro corrente' del vignettista israeliano Izhar Cohen, la rassegna di videoclip 'Israele, un Paese normale?', il film 'Cosa vuol dire essere israeliano'.
(Il Telegrafo, 24 maggio 2018)
Premio a Tajani per la lotta agli antisemiti
Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha ricevuto ieri pomeriggio, nel corso di una cerimonia che si è svolta nella grande sinagoga di Bruxelles, il premio Lord Jakobovits per il suo contributo al dialogo interreligioso e alla lotta contra l'antisemitismo. È stato il rabbino capo di Bruxelles Albert Guigui, portavoce della Conferenza dei rabbini europei, a consegnargli questo premio già assegnato in passato al presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, al cancelliere tedesco Angela Merkel e al re di Spagna Felipe VI. Dal 2012 con il Lord Jakobovits vengono insignite le personalità europee che si sono distinte per il loro impegno nel promuovere la tolleranza tra le comunità religiose in Europa e a lottare contro l'antisemitismo.
(il Giornale, 24 maggio 2018)
Italia - Israele: Nuovo accordo per la ricerca scientifica tecnologica e industriale
ROMA - Consolidare all'insegna del reciproco beneficio il dialogo in materia di ricerca e innovazione e promuovere ulteriormente le relazioni bilaterali identificando nuove opportunità per la ricerca congiunta in ambito industriale, tecnologico e scientifico. Con questo obiettivo Italia e Israele si sono incontrate a Tel Aviv il 15 maggio scorso per la diciottesima riunione della Commissione Mista per l'implementazione dell'Accordo di collaborazione industriale, scientifica e tecnologica vigente tra i due Paesi (Bologna, 2002).
Alla riunione - riporta la Direzione generale per il Sistema paese della Farnesina - hanno partecipato due delegazioni, guidate, rispettivamente, per l'Italia dal Direttore Centrale per l'Innovazione e la Ricerca del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Fabrizio Nicoletti, e per Israele dal CEO della Israel Innovation Authority, Aharon Aharon.
Per la parte scientifica, nel riconoscere il grande successo ottenuto dalle ricerche congiunte finanziate nell'anno appena trascorso, la Commissione ha scelto i progetti finanziabili per il nuovo anno, tra i 78 pervenuti in risposta al bando pubblicato nel luglio 2017 dai due Paesi sui temi della biologia marina e della fisica. Otto quelli che saranno finanziati, con uno stanziamento che vede l'Italia e Israele impegnarsi per circa 800 mila euro ciascuna.
Le due Delegazioni hanno successivamente discusso del Premio Levi-Montalcini, attribuito annualmente ad un'università italiana e a un ricercatore israeliano per sostenere una ricerca congiunta, che è in fase di rinnovo per altri tre anni, e della nuova call per la raccolta di progetti congiunti per il 2019, che riguarderà la telemedicina e il monitoraggio ambientale. In merito ai progetti di cooperazione nella ricerca industriale presentati in risposta al bando aperto nel luglio 2017 dai due Paesi, sei quelli ritenuti eccellenti e meritevoli di cofinanziamento da parte delle istituzioni italiane e israeliane. Per sostenerli stanziati 1,8 milioni di euro congiuntamente da Italia e Israele.
La lista dei vincitori - si è deciso - sarà pubblicata, rispettivamente, per i beneficiari del track industriale il 31 maggio 2018 e per quelli del track scientifico il 7 giugno. Nel sottolineare l'importanza di continuare a promuovere i consueti strumenti del dialogo scientifico bilaterale (workshop, seminari, ed altri eventi) le due delegazioni hanno concordato sull'opportunità di sperimentare nuovi strumenti per creare opportunità di collaborazione per i giovani innovatori con le grandi aziende e azioni specifiche per il sostegno alle start-up e alle PMI innovative, per facilitare lo scale-up aziendale.
Le parti hanno infine stabilito che il 14 e il 28 giugno 2018 saranno pubblicati i prossimi bandi per la raccolta di progetti congiunti di collaborazione scientifico-tecnologica e industriale, da finanziare nell'anno 2019.
(aise, 24 maggio 2018)
"Hai le mani sporche di sangue".
Rappresentate USA all'ONU contestata durante conferenza in difesa di Israele
Durante un discorso all'Università di Houston l'ambasciatrice statunitense all'ONU è stata interrotta dai manifestanti che l'hanno accusata di sostenere i massacri di Israele contro i palestinesi.
L'ambasciatrice degli Stati Uniti dell'ONU, Nikki Haley, ieri è stata contesta all'università di Houston da alcuni studenti che l'hanno accusata di avere le mani sporche di sangue e di aver firmato un genocidio con il suo sostegno a Israele.
Pochi secondi dopo aver iniziato il suo discorso, Haley è stata interrotta da un manifestante che ha gridato: "Nikki Haley, le tue mani sono sporche di sangue". "Oh, cielo," è stata la reazione dell'ambasciatrice, quando il contestatore gridava, tra applausi e fischi: "Si continui ad appoggiare il genocidio di un popolo."
Poi un gruppo di persone ha iniziato a gridare slogan, fra i quali: "Nikki, Nikki, non vedi?, Sei coinvolta in una carneficina!", "Haley, Haley, non puoi nasconderlo, tu appoggi un genocidio!" oppure "Nikki, Nikki, vedrai, la Palestina sarà libera!" La protesta è culminata con lo slogan, "Free Palestine!".
I manifestanti hanno lasciato la sala tra gli applausi, e quando Haley ha ripreso il suo intervento ha chiesto scherzosamente: "C'è altro?". "Mentre quello che hanno fatto è stato molto inquietante, è un motivo per festeggiare, perché mio marito e mio fratello sono veterani e hanno combattuto per il loro diritto di farlo", ha aggiunto Haley.
La rappresentante degli Stati Uniti dell'ONU ha difeso Israele dopo il massacro di più di 60 palestinesi nelle proteste della scorsa settimana, elogiando la "moderazione" delle forze di occupazione israeliana in una riunione d'emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prima di lasciare la stanza quando l'inviato palestinese Riyad Mansour ha iniziato parlare.
(l'AntiDiplomatico, 24 maggio 2018)
Free Palestine è il grido che oggi sostituisce Morte agli ebrei. Quelle proteste palestinesi hanno espresso la voglia irrefrenabile di vedere distrutto lo Stato ebraico. Le morti avvenute, per non dire ricercate, sono un segno ammonitore della vanità di questo proposito distruttivo. I palestinesi che si sono riconosciuti in questo gesto di apparente protesta e malcelato odio hanno ottenuto il massacro che volevano, ma non otterranno lobiettivo per cui si sono fatti massacrare. M.C.
Gerusalemme - Un'auto a guida autonoma passa col semaforo rosso
La guida autonoma torna al centro della cronaca con un altro episodio controverso. Stavolta è toccato a Mobileye che, durante un evento stampa tenutosi la settimana scorsa a Gerusalemme, ha confermato quanto ci sia ancora da lavorare su tale tecnologia. Un veicolo autonomo dell'azienda israeliana, acquisita da Intel lo scorso anno, ha infatti ignorato la luce rossa di un semaforo, proseguendo dritto e gettando Mobileye nell'imbarazzo più totale.
Nessun ferito, fortunatamente, ma verrebbe da chiedersi che cosa stesse facendo il conducente, seduto nel posto guida per monitorare la situazione e intervenire in caso di pericolo, cosa che non ha fatto poiché il veicolo non è stato fermato. Un risultato insperato per Mobileye, il cui filmato è stato mandato in onda dall'emittente televisiva nazionale Channel 10 per poi fare il giro del mondo.
A differenza di altri mezzi impiegati da altre aziende, i sistemi di Mobileye non prevedono dispositivi radar o laser, ma si affidano unicamente alle telecamere. Secondo il CEO Amnon Shashua, il motivo è legato ad un'interferenza elettromagnetica provocata dai trasmettitori wireless della telecamera della troupe televisiva con i segnali del transponder installato sul semaforo. Nonostante il sistema si sia accorto della luce rossa, l'auto avrebbe ignorato questo passaggio proseguendo la marcia sulla base dei segnali inviati dal transponder.
Una situazione simile si verificò nel 2016 con un veicolo di Uber che, durante un test nelle strade di San Francisco, passò ad un incrocio con semaforo rosso. Proprio come sulla vettura di Mobileye, anche su quella di Uber era presente l'autista, autorizzato ad intervenire in situazioni di potenziale pericolo.
(HD Motori, 24 maggio 2018)
Israele-Palestina - Quando la diplomazia perde la strada
La divisione in due Stati è ormai impraticabile. Ed è sempre più difficile distinguere i torti e le ragioni dei due fronti, funestati da errori e cinismo. Lo scrittore Abraham Yehoshua è tra i sostenitori di una soluzione confederata, una divisione in cantoni. Si può fare? Trump e gli Usa, per ora, non sono d'aiuto.
di Paolo Lepri
Stanno tutti smarrendo la strada, in Israele e in Palestina, come può accadere al visitatore della casa nel kibbutz Sde Boker dove David Ben Gurion trascorse i suoi ultimi anni di vita? La valle di Zln, nel deserto del Negev, abbaglia e attira nella sua assenza di centro. I sentieri, in un giardino lontano da tutto, si biforcano e invitano ad una sosta già prima di raggiungere la meta. Dopo un lungo viaggio bisogna trovare la forza dì proseguire fino alle due tombe e finalmente fermarsi dove l'uomo che proclamò la nascita dello Stato ebraico e sua moglie Paula, coperti da una lapide di marmo chiaro, hanno smesso dì scrutare l'orizzonte al tramonto.
Una volta giunti a destinazione, l'arrivo è però senza enigma. Guardando dall'anfiteatro assolato quel mare arancione di sabbia dura - dove Abraham Yehoshua racconta di aver portato tre figli e sei nipoti, in una tenda indiana, per respirare il profumo della notte - è possibile capire fino in fondo la portata di una delle grandi rivoluzioni del secolo scorso. Un giorno di settanta anni fa terminò per sempre l'epoca in cui «il mondo sembrava diviso in due parti, i luoghi in cui gli ebrei non potevano vivere e quelli in cui non potevano entrare», come si legge in una sala dello Yad Vashem, il museo dell'Olocausto a Gerusalemme.
Tanto più oggi che questa terra è ancora una volta macchiata di sangue, è necessario non perdere la strada. Nonostante che sia impossibile venire a capo dei torti e delle ragioni, nonostante il fuoco delle passioni. Nel conflitto israelo-palestinese la storia è stata scritta infatti dalla incapacità di conciliare due ragioni, mentre la cronaca è fatta anche dello scontro tra due torti. Non va dimenticato che la ragione degli uni si intreccia con l'errore. E che la ragione degli altri, di un popolo senza patria, ha disperso gran parte della sua legittimità nel vento nero del terrorismo e del fondamentalismo.
Intanto l'unica soluzione possibile è diventata un'utopia. E le utopie sono destinate a morire, come si sono abituati a morire ogni venerdì i palestinesi di Gaza. Muoiono e basta: importa fino a un certo punto ricordare che vengono mandati al sacrificio per riportare all'ordine del giorno una causa dimenticata da tutti, in primo luogo dai Paesi arabi. Il diritto di Israele alla sua sicurezza, concetto-chiave per un mondo diverso dal passato e per la costruzione in Medio Oriente di assetti ispirati a principi di giustizia, non permette in alcun modo risposte sproporzionate. Uccidere non è un gesto simbolico. Criticare la linea del governo Netanyahu, nel rispetto delle scelte dei cittadini, non vuol certo dire essere «né con Israele né con Hamas». L'utopia era il piano dei "due Stati": uno scenario praticabile quando Yasser Arafat bocciava le proposte dell'amministrazione Clinton, e prima dell'espandersi a macchia di leopardo degli insediamenti israeliani nei territori occupati nel 1967. Un elemento in più è la debolezza dell'Autorità Nazionale Palestinese, una struttura fittizia, specializzata solo nel mantenersi in vita. Yehoshua lo ha sostenuto chiaramente: «Secondo molti esperti che conoscono bene questa realtà demografica e geografica non è più possibile dividere la terra di Israele in due entità sovrane separate». L'autore di Un divorzio tardivo pensa ad una partnership che dovrebbe portare ad una confederazione basata sul modello dei cantoni. Potrebbe funzionare? Certo, l'ingegneria costituzionale appare enormemente distante da quei luoghi di fiamme e di fumo.
Proprio questa situazione diversa, nell'incubo che uno status quo provvisorio fosse colpevolmente destinato a durare in eterno, aveva reso meno drammatico lo strappo voluto da Donald Trump. La decisione di spostare a Gerusalemme l'ambasciata americana poteva anche rompere alcuni schemi cristallizzati, accompagnata - come dice al New York Times Yossi Klein Halevi che ha appena finito di scrivere il suo nuovo libro Letters to My Palestinian Neighbor - «dalla riaffermazione da parte di Israele e degli Stati Uniti della presenza palestinese nella città che condividiamo.
Non è andata così. La cerimonia spettacolo di lunedì 14 maggio - in cui la benedizione finale è stata impartita dal telepredicatore evangelico John C. Hagee, l'uomo secondo cui Hitler e l'Olocausto erano parte del piano di Dio per fare tornare gli ebrei in Israele - ha segnato, mentre la gente moriva, una svolta pericolosa nel ruolo americano sulla scena internazionale. In diplomazia non c'è niente di irreversibile. Ma, come sappiamo, è molto facile perdere la strada.
(7, 24 maggio 2018)
Chiacchiere ben confezionate: un'altra esercitazione letteraria sul tema Israele-Palestina. La citazione del fantasioso romanziere israeliano si addice allo stile del saggio. M.C.
L'Affaire Bensoussan e i nuovi giacobini
Il 24 maggio a Parigi, la Corte di Appello si pronuncerà relativamente a Georges Bensoussan. Sapremo se il grande studioso, uno dei maggiori intellettuali francesi contemporanei, verrà, come ci auguriamo, assolto o invece, condannato. Bensoussan venne già processato nel gennaio del 2017 perché accusato di "incitamento all'odio razziale".
La sua "colpa" fu di avere commentato durante una trasmissione radiofonica una frase di un sociologo algerino, il quale aveva affermato che nel lessico famigliare di numerose famiglie arabe, "ebreo" viene insegnato come insulto fin dalla tenera età.
Sì, aveva glossato Bensoussan, ripetendo il concetto espresso dallo studioso algerino "in queste famiglie l'antisemitismo lo si succhia con il latte materno". Per avere detto questo è stato costretto a discolparsi presso la XVII Camera penale del Tribunal de grande instance di Parigi. In sua difesa si pronunciò tra gli altri anche il celebre scrittore algerino Boualem Sansal. Nel marzo del 2017 venne assolto....
(L'informale, 23 maggio 2018)
Netanyahu-Putin, messaggio all'Iran: "Via le truppe dalla Siria"
di Giordano Stabile
Una frase sibillina di Putin durante il suo ultimo incontro con il presidente siriano Al-Assad, giovedì scorso, ha spiazzato la dirigenza iraniana. «Visti i successi dell'esercito siriano contro il terrorismo - ha detto lo Zar mentre accoglieva l'alleato a Sochi -, le forze armate straniere dovrebbero lasciare la Siria». Dietro lo schermo diplomatico si celava una richiesta esplicita a Teheran. «Truppe straniere» ce ne sono molte sul territorio siriano, anche senza invito da parte di Damasco, a cominciare da quelle americane, francesi, turche. Ma dalla formulazione della frase era evidente che Putin si riferiva alle forze che combattono a fianco del regime. E infatti è arrivata la risposta piccata del portavoce del ministro degli Esteri iraniano, Bahram Qassemi: «Finché lo chiederà il governo siriano, l'Iran continuerà a sostenere il Paese. Sono quelli entrati senza permesso a doversene andare».
E stata la prima manifestazione di una frattura tra gli interessi strategici russi e iraniani. Putin vuole restare in Siria, con Assad al potere, ma senza andare allo scontro con Israele. Il 9 maggio, dopo la solenne parata per la vittoria sulla Germania nazista, ha avuto un lungo incontro con Netanyahu. Il rapporto fra i due è di lunga data. Il premier israeliano ha chiesto mano libera per i raid contro i Pasdaran e pressioni su Teheran perché si ritiri il più lontano possibile dal Golan. Sul primo punto è stato accontentato subito. Russia e Israele hanno dal 2015 un «centro di coordinamento» per evitare scontri diretti fra le loro forze aeree. Ora il «protocollo» è più favorevole agli israeliani, che possono attaccare con un semplice preavviso, senza specificare gli obiettivi, secondo quando riportato da media israeliani.
Il debutto degli F-35
La notte stessa fra il 9 e il 10 maggio l'aviazione israeliana ha prima attaccato una base iraniana a Sud di Damasco, poi effettuato decine di raid su tutto il territorio, dopo che i Pasdaran o una milizia alleata avevano lanciato razzi verso il Golan. Ieri il comandante delle Forze aeree Amikam Norkin ha rivelato che quella notte sono stati distrutti «20 obiettivi iraniani» e postazioni dell'anti-aerea siriana che aveva «lanciato 100 missili» contro i cacciabombardieri con la stella di David. All'attacco hanno partecipato anche i nuovi F-35 invisibili ai radar. I jet di produzione americana, sotto insegne israeliane, hanno così avuto il loro battesimo del fuoco in Siria, come già i Su-57 russi, la risposta di Putin ai caccia «stealth» occidentali.
(La Stampa, 23 maggio 2018)
Gerusalemme ospiterà le magie di Messi
Il 9 giugno amichevole tra Israele e Argentina. L'ha voluta Netanyahu.
Erano sorti dei dubbi, vista la situazione politica, sulla sede dell'amichevole tra Israele e Argentina, ultimo test dell'Albiceleste prima di volare in Russia. Si giocherà invece come previsto il 9 giugno a Gerusalemme, cancellando così in maniera perentoria le voci che volevano un trasferimento fast-minute ad Haifa (e sarebbe intervenuto in prima persona il premier Netanyahu). Teatro dell'incontro il 'Teddy Stadium', poi da lì Sampaoli e i suoi 23 voleranno a Mosca per trasferirsi a Bronnitsy, alla periferia della capitale russa, che sarà il bunker della Seleccion.
La partita del 9 giugno farà parte delle celebrazioni per il 70o anniversario della nascita dello stato di Israele, tutto organizzato dalla Comtec Group, società che nel 2013 portò anche il Barcellona nella Città Santa L'Argentina arriverà in Israele con due charter: uno per la delegazione e l'altro con tutti i materiali che serviranno per la spedizione mondiale.
Dal Papa
Ieri ad Ezeiza è arrivato anche Messi e nel pomeriggio ha iniziato gli allenamenti. In mattinata anche gli italiani Cristian Ansaldi si erano aggiunti al gruppo nel quale era presente anche Dybala, mentre Higuain, appena diventato papà, raggiungerà i compagni domani. La prossima settimana, martedì 29, l'Argentina si congederà dal proprio pubblico con una amichevole contro Haiti, che si svolgerà alla Bombonera alle 20 locali (l'una di notte in Italia). Il giorno successivo partenza per Barcellona dove per una settimana si svolgeranno gli allenamenti alla Ciudad Deportiva del Bangi, ma il 3 giugno Messi e compagni saranno a Roma per l'Angelus per poi essere ricevuti da Papa Francesco, la seconda volta per la Seleccion in Vaticano con il Sommo Pontefice argentino, la prima fu nel 2013.
(Corriere dello Sport, 23 maggio 2018)
"Contro molte faziose, ideologiche, pretestuose e tanto odiose quanto incomprensibili proteste"
TRENTO - A seguire la dichiarazione del Presidente dell'Associazione Italia Israele, Alessandro Bertoldi, rispetto agli attacchi dei sedicenti attivisti filopalestinesi contro Israele e il Giro d'Italia in queste ore di passaggio in Trentino:
"Il Giro d'Italia è partito quest'anno da Israele in onore di Gino Bartali, il grande campione, che con il suo coraggio salvò centinaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale, oggi proclamato Giusto tra le Nazioni e cittadino onorario d'Israele.
Negli scorsi giorni il consigliere di Trento Zanetti, che ringraziamo ancora, ha chiesto di titolare una via della città proprio a lui. Per questa ragione e contro il Giro vi sono state molte faziose, ideologiche, pretestuose e tanto odiose quanto incomprensibili proteste.
Nei giorni scorsi proprio in Trentino sono comparse scritte offensive e diffamatorie contro Israele e il Giro d'Italia per le strade, facenti riferimento ai recenti scontri a Gaza, molte delle quali rivendicate proprio dai gruppi che hanno già protestato contro l'Adunata nazionale degli Alpini.
Condanniamo con forza ogni attacco e atto diffamatorio contro Israele e il Giro d'Italia, rileviamo quanto questi siano soltanto alibi volti a celare un latente e crescente pericoloso antisemitismo, nonché odio contro Israele e gli ebrei.
Ci aspettiamo in queste ore una netta presa di distanze e sentimenti di condanna da parte di tutta la politica trentina, a partire dal Presidente della Provincia autonoma, convinti e consapevoli che sentimenti quali l'odio razziale e l'antisemitismo non appartengano alla comunità trentina."
(Opinione, Agenzia giornalistica, 23 maggio 2018)
Da Israele il primo attacco con gli F35. Messaggio all'Iran: "Voliamo ovunque"
L'annuncio del capo dell'Aeronautica "Lo squadrone dei nostri caccia ormai è operativo".
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Due operazioni dell'aereo "invisibile": una in Siria, un'altra in un teatro di guerra imprecisato.
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di Vincenzo Nigro
Alla "conferenza di sicurezza di Herzliya", davanti a generali e analisti militari di molti Paesi, ieri il capo dell'aeronautica israeliana ha fatto un annuncio importante, «Siamo stati il primo Paese ad utilizzare il caccia F35 in attacchi operativi. Lo squadrone dei nostri F35 ormai è operativo», ha detto il generale Amikam Norkin. Che poi ha voluto esagerare: «Con quegli aerei voliamo in tutto il Medio Oriente», mentre proiettava la fotografia di uno degli F35 in volo su Beirut. Un messaggio che non è necessario tradurre a tutti i governi dei paesi probabilmente sorvolati, fra cui quasi certamente c'è l'Iran.
La notizia è interessante per due ragioni: innanzitutto è il primo utilizzo operativo in "operazioni cinetiche" dell'F35, un caccia che fino a pochi anni fa veniva descritto come molto controverso, inseguito dai mille problemi che aveva incontrato nella fase iniziale dello sviluppo. L'F35 è un aereo prodotto dalla Lockheed Martin, progettato per essere se non proprio "invisibile" perlomeno poco visibile ai radar avversari. Ma soprattutto è un aereo di quinta generazione, capace non solo di sfuggire ai radar, di portare un carico bellico importante, ma soprattutto di essere un super-computer volante, capace di assommare in una sola macchina le funzioni che per anni sono state svolte da aerei diversi (bombardiere, intercettore, aereo da contromisure). L'aereo è prodotto dagli Stati Uniti e al suo sviluppo hanno partecipato paesi come Gran Bretagna e Italia. Con il particolare che l'Italia è l'unico Paese ad aver costruito una fabbrica di assemblaggio in Europa (a Novara), che servirà anche per l'assistenza a tutti gli F35 prodotti per le aeronautiche europee che hanno comprato l'aereo.
Ma torniamo a Israele e al significato della comunicazione fatta da Norkin. Il generale fino a 2 anni fa era il capo della divisione strategica dello Stato maggiore congiunto delle Israel Defense Forces. Nella Kirya, il complesso che ospita il ministero della Difesa a Tel Aviv, durante i suoi briefing Norkin proiettava diapositive di ogni tipo su tutte le minacce che potrebbero venire allo Stato di Israele. Paesi arabi, demografia, carestie, desertificazione. Fra tutte quella di uno scontro con la Repubblica islamica dell'Iran sarebbe stata la minaccia più poderosa. E ancora una volta quindi il messaggio lanciato ieri dai capi militari israeliani è rivolto all'Iran e a tutta la regione. Confermando che è in grado di attaccare con gli F35 e confermando di aver operato in due teatri, la Siria e un secondo non precisato (Iran), Israele lascia capire all'Iran che le sue forze aeree sono pronte a colpire le installazioni della Repubblica islamica.
Due mesi fa i giornali israeliani avevano lasciato filtrare notizia che uno dei voli di addestramento degli F35 era proprio sull'Iran: non rilevati dai radar, 2 aerei partiti dal deserto del Negev avevano attraversato il Golfo, avevano volato sulla Persia ed erano rientrati alla base. La notizia "operativa", quasi tecnica, di queste prime operazioni degli F35 è quindi un chiaro messaggio geopolitico.
(la Repubblica, 23 maggio 2018)
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Israele, attacco in Siria con gli F35: «Siamo i primi al mondo ad usarli in zone di guerra»
F35 per la prima volta in azione in un teatro di guerra. Israele è il primo stato ad ammettere l'impiego del cacciabombardiere di quinta generazione avendo già abilitato il primi 9 dei 15 velivoli già in servizio rispetto ai 50 esemplari ordinati. Gli unici altri F35 operativi sono quelli dell'Usaf.
«Siamo stati i primi al mondo a farlo», ha rivelato il comandante dell'aviazione israeliana generale Amiram Norkin. In un incontro con comandanti delle forze di aviazione giunti a Herzlya (Tel Aviv) da 20 Paesi, Norkin ha anche precisato che nel recente attacco israeliano contro obiettivi militari iraniani in Siria 100 missili sono stati lanciati contro i jet israeliani, i quali sono però tornati indenni alle basi.
Le versione usata dall'Heyl Ha'Avir, che ha ribattezzato "Adir" il jet multiuso, è la Lightning II: i velivoli sono in forza al 140o stormo "Golden Eagle" della base aerea di Nevatim, che riunisce i piloti di elite dell'aviazione militare israeliana.
Il generale Norkin ha anche rivelato che nell'attacco del 10 maggio le forze iraniane dislocate in Siria hanno sparato verso le alture del Golan 32 razzi (e non 20, come affermato finora dalle autorità israeliane). «Quattro - ha detto - sono stati intercettati della nostra antiaerea, mentre gli altri sono caduti in aree che non sono sotto controllo israeliano». Un'alta fonte dell'aviazione israeliana, citata da Maariv, ha lasciato intendere che l'aviazione israeliana continua ad agire tuttora nello spazio aereo siriano.
«Noi manteniamo in Siria la nostra libertà di manovra - ha detto. - La determinazione dell' Iran di creare fermenti nel Paese vicino resta immutata e noi agiamo per neutralizzarla e per metterle scompiglio, mantenendoci però sotto ai livelli di guerra». Secondo questa fonte, nell'aviazione israeliana c'è soddisfazione per le capacità mostrate dagli aerei F35 a cui, ha aggiunto, si aggiunge anche una importante componente di deterrente.
(Il Messaggero, 22 maggio 2018)
Wannsee, l'orrore nell'idillio
In un luogo dal paesaggio incantevole fu pianificato il genocidio degli ebrei. Lo storico Peter Longerìch ricostruisce la conferenza del 1942 che portò ad Auschwitz (Einaudi)
di Corrado Stajano
«La burocrazia della morte», viene in mente leggendo le pagine di questo libro. L'ha scritto Peter Longerich, professore tedesco che insegna Storia della Germania moderna all'Università di Londra, un'autorità negli studi sul Terzo Reich. Si intitola Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee, pubblicato da Einaudi.
La conferenza di cui racconta il saggio si tenne il 20 gennaio 1942 in una lussuosa villa sulle sponde del lago Wannsee che diede il suo nome, appunto, a quella tragica riunione, tema l'annientamento di undici milioni di ebrei in Europa, di cui discussero allora alti e meno alti gerarchi nazisti.
Quindici di loro, nel freddo inverno di guerra, si riunirono in quella villa costruita negli anni Settanta dell'Ottocento, nel quartiere esclusivo alla periferia di Berlino, non lontano da Potsdam, dove vivevano ricchi banchieri, imprenditori, editori, uomini di rango e di successo, e anche personaggi milionari che, arricchiti con i loro sporchi traffici, ebbero a che fare con la giustizia e con la prigione.
Nel 1940 la villa fu acquistata dalla Nordhav-Stiftung, la fondazione creata da Reinhard Heydrich, l'Obergruppenführer, generale delle SS, capo della polizia di sicurezza, allo scopo di «predisporre e finanziare case di vacanze» per gli uomini del corpo e per le loro famiglie.
Il grande fascino della villa, in mezzo a prati fioriti e a boschi fatati da libri di lettura per ragazzi, contrasta con la ferocia di quel che, tra sale e salotti, si decise tra i suoi muri. La bellezza e l'orrore. Con imbarazzante normalità, là dentro si discusse della Shoah, delle modalità dell'uccidere, delle camere a gas, dello Zyklon B, probabilmente usato per la prima volta all'inizio del settembre 1941 per eliminare 600 prigionieri di guerra sovietici, classificati come «fanatici comunisti» e altri 900 poco dopo.
La riunione di Wannsee sembra la riunione di un gruppo aziendale i cui dirigenti discettano dei problemi della grande distribuzione della loro merce. Il genocidio viene analizzato dagli uomini di Adolf Hitler come una moltiplicazione di numeri, non di esseri umani, ma di montagne di spazzatura repellente da collocare in luoghi chiamati lager, da sfoltire, eliminare.
Il concetto di soluzione finale non nacque propriamente allora. Il 30 gennaio 1939 davanti al Reichstag, Hitler aveva dichiarato in un discorso che «se il giudaismo internazionale della finanza entro e fuori i confini europei fosse riuscito a catapultare i popoli in una guerra mondiale, il conflitto avrebbe avuto come esito lo sterminio della razza ebraica in Europa».
Centinaia di migliaia di ebrei, ai tempi della conferenza, erano già stati sistematicamente uccisi in Unione Sovietica - l'invasione dell'Urss era iniziata il 22 giugno 1941 - in Serbia e in Polonia, dove era stato inaugurato il primo campo di sterminio. A Lublino era in costruzione, dal novembre 1941, un altro campo di sterminio permanente. Fucilazioni di massa avevano dunque già avuto luogo prima della conferenza di Wannsee: che significato doveva avere quella riunione, ora che gli Stati Uniti nel dicembre del 1941 erano entrati in guerra ed era venuta meno ogni possibile minaccia agli americani che diventarono la fucina di armi e di uomini per l'Europa?
Probabilmente con quella conferenza si tentò di coordinare le diverse azioni scombinate già in corso approvando un piano globale di pianificazione da portare a termine durante la guerra: la soluzione finale della follia antiebraica.
Protagonista della conferenza è il verbale, diventato famoso, redatto da Adolf Eichmann e autorizzato da Heydrich. Delle trenta copie stampate ne è rimasta soltanto una, la sedicesima, scoperta dagli Alleati nel 1947 e conservata ora a Berlino nell'Archivio politico del ministero degli Esteri.
In un'ora, un'ora e mezzo, si decise di deportare undici milioni di ebrei dell'Europa e di sterminarli. «La soluzione finale della questione ebraica europea», scrive Peter Longerich, «non doveva svolgersi più nei territori sovietici occupati: il baricentro fu spostato nella Polonia posta sotto il dominio nazista». (Non più, quindi, come si era pensato in un primo tempo, il problema della soluzione finale andava risolto deportando gli ebrei nell'Unione Sovietica conquistata per sterminarli a guerra finita, ma attuando subito il programma del massacro).
Chi furono i quindici, selezionati dal regime nazista, protagonisti della conferenza? I rappresentanti degli organi statali, i delegati delle autorità civili di occupazione, i funzionari delle SS, Gauleiter, segretari di Stato, ufficiali della polizia e delle SS. Il capo e il più noto era certamente Reinhard Heydrich; Eichmann era soltanto un Obersturmbannfi.ihrer, un tenente colonnello delle SS; Rudolf Lange, detto il boia, un maggiore delle SS, era il comandante della polizia di sicurezza per la Lettonia.
Nelle sue quindici pagine il prezioso verbale affronta con minuzia ragionieresca ogni questione. Anche quella degli ebrei italiani - 58 mila - senza porsi il problema che l'Italia era allora alleata della Germania.
Heydrich, l'artefice della conferenza, aveva cinque mesi di vita. Il 29 maggio 1942 due partigiani del libero esercito cecoslovacco lo colpirono a morte a Praga dove risiedeva mentre con la sua Mercedes si stava recando al Castello.
Le cose andarono diversamente da come le avevano previste e decise i gerarchi nazisti nella bella villa sul lago di Wannsee. I russi, a Stalingrado, si svenarono e respinsero gli aggressori nazisti mentre gli Alleati, da Ovest e da Sud, strinsero la Germania in una morsa di fuoco e di libertà.
Di quei milioni di morti innocenti che gli uomini di Hitler riuscirono a uccidere resta soltanto la memoria indimenticata.
(Corriere della Sera, 22 maggio 2018)
Ofer Sachs: con Hamas uno stato di terrore a Gaza
LAmbasciatore di Israele in Italia ad un forum ANSA
"La situazione a Gaza è diventata veramente drammatica, dopo la presa di Hamas che ha commesso molti errori nel controllo della Striscia. E milioni di dollari a Gaza non sono stati investiti per il bene del popolo ma per creare un 'terror country'. Decina di migliaia di razzi sono stati lanciati contro Israele". Lo ha detto l'ambasciatore israeliano a Roma Ofer Sachs nel corso di un forum all'ANSA. "Israele vuole prevenire la penetrazione nel nostro paese, e finora ci siamo riusciti. Quello che non siamo riamo riusciti a spiegare e che cosa succederebbe se l'infiltrazione avesse successo", ha detto l'ambasciatore Sachs.
"Ci dobbiamo preparare a una nuova ondata" di manifestazioni organizzate a Gaza da Hamas, ha aggiunto Sachs, sottolineando che nel corso delle proteste scoppiate la scorsa settimana "l'esercito israeliano ha cercato di contenere il numero di vittime". Tra i manifestanti c'erano "molte donne che non figurano tra le vittime": se i confini "fossero stati violati", ha detto Sachs, "la situazione sarebbe stata molto peggiore".
"Lo status di Gerusalemme come capitale di Israele non è in discussione. La scelta di Trump può creare problemi nel prossimo periodo, ma ha anche portato un messaggio. Noi vogliamo il dialogo con i palestinesi, ma Gerusalemme rimarrà la nostra capitale. Questo non bloccherà il dialogo. Se i palestinesi non accetteranno la mediazione degli Usa sarà un errore", ha poi aggiunto, ricordando che anche gli europei, che si oppongono al riconoscimento di Gerusalemme capitale, fanno ogni meeting ed incontrano le autorità israeliane a Gerusalemme.
Parlando dell'accordo nucleare con Teheran, Sachs ha sottolineando che "gli Usa hanno fatto bene a uscire". L'Iran "sostiene e finanzia il terrorismo, manovra l'intera regione creando instabilità, continua a investire sui missili balistici, alcuni in grado di portare una testata nucleare", ha aggiunto. L'intesa "guarda alla regione con un punto di vista molto limitato, offre a Teheran troppi margini, invece serve uno sguardo più ampio, più complesso" per capire quello che sta accadendo, ha poi detto.
(ANSA Mondo, 23 maggio 2018)
A Castiglioncello un convegno sui primi 70 anni dello stato ebraico
Domenica 27 maggio
Da Israele è partito, con un grande successo organizzativo, il Giro d'Italia; una cantante israeliana vince l'Eurocontest Festival; il Maxxi di Roma celebra l'architettura Bauhaus di Tel Aviv e a Rio de Janeiro il Cristo sul Corcovado si tinge di bianco e di azzurro.
Donald Trump dà seguito alle promesse fatte da tutti i Presidenti americani e sposta l'Ambasciata Usa a Gerusalemme, con un interesse partecipe di molti paesi europei, mentre annuncia di stralciare l'accordo sul nucleare con l'Iran.
Le start-up israeliane si impongono come modello di sviluppo tecnologico in tutto il mondo.
Israele festeggia i suoi primi 70 anni con una serie di vittorie politiche, diplomatiche, economiche, di immagine, nonostante le consuete distorsioni e manipolazioni ideologiche rispetto alla recente vicenda di Gaza.
Di tutto questo, della storia, dell'attualità, del futuro di Israele, della sua natura di Stato democratico, cosmopolita, libero e pluriconfessionale, delle realizzazioni, della risposta alle offensive militari e ideologiche dei suoi nemici, si parlerà nel corso di un convegno, in programma Domenica 27 Maggio presso il Centro di Educazione Ambientale (CEA) di Villa Celestina, a Castglioncello, in Via della Pineta, 10/A, dal titolo BUON COMPLEANNO ISRAELE YOM HULEDET SAMEACH ISRAEL - Una giornata per raccontare futuro di uno Stato straordinario e sorprendente, organizzato dall'Associazione Italia - Israele di Livorno, con il main sponsor Zeugma e con il Patrocinio dell'Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), della Comunità Ebraica di Livorno e di Adei Wizo.
Il Convegno, che si svolgerà nell'arco dell'intera giornata e che sarà trasmesso in Streaming-live sulla pagina Facebook dell'Associazione Italia Israele di Livorno, metterà a confronto giornalisti, studiosi, imprenditori e politici sui temi più rilevanti dell'agenda di e su Israele, con un vero e proprio parterre de roi.
Dopo il Coffee Welcome delle 10 e l'apertura del Presidente dell'Associazione Celeste Vichi, ci sarà il video saluto di Sua Eccellenza Ofer Sachs, Ambasciatore dello Stato di Israele in Italia e i saluti di Vittorio Mosseri, Presidente della Comunità Ebraica di Livorno e di Carla Guastalla, Presidente Adei Wizo Livorno.
Alle 10.30 il primo incontro, moderato dal giornalista Andrea Pannocchia, con Niram Ferretti de L'Informale, autore del libro Il sabba intorno ad Israele (Lindau 2017), con Alessandro Litta Modignani (Presidente Udai).
Alle 11.30 la tavola rotonda a più voci Israele, Italia, Europa, coordinata da Edoardo Tabasso (Università di Firenze), con la presenza di Daniele Capezzone (New Direction Italia), Zeffiro Ciuffoletti (Università di Firenze), Manfredi Potenti (Deputato Lega), Andrea Romano (Deputato Partito Democratico), Marco Taradash (CentroMotore), Bruno Spinazzola (Ceo Zeugma).
Alle 13.30 light lunch presso il Ristorante Il Cardellino.
Alle 15 spazio dedicato a Moses Montefiore, un livornese cosmopolita, con presentazione del video realizzato da Zeugma per ricordare un personaggio caro alla comunità livornese, che gli ha dedicato una via, e che emigrato in Inghilterra e diventato Lord acquistò, nel 1857, un'area fuori dalla città vecchia di Gerusalemme, chiamata Mishkenot Sha'ananim, e che divenne in breve tempo l'avamposto della "città nuova".
Si torna all'attualità alle 15.15 con Fiamma Nirenstein (Jerusalem Center for public Affairs), che, intervistata in video da Spinazzola e Tabasso, presenterà, il suo ultimo libro In Israele (il Giornale).
Alle 15.40 presentazione, a cura di Claudio Tongiani (amministratore unico di GLT srl), di ITr Israele Toscana Room, una della business economic room per realizzare scambi economici, commerciali, finanziari, tecnologico scientifici, accademici e turistico-culturali tra Israele e la Toscana.
Alle 16 Incontro con Giulio Meotti (Il Foglio) a partire dal suo libro Israele. L'Ultimo Stato Europeo, (Rubbettino 2018), moderato da Edoardo Tabasso.
Durante la giornata il pubblico potrà assistere alla mostra Uno sguardo controcorrente del vignettista israeliano Izhar Cohen, alla rassegna di videoclip sul tema Israele, un Paese normale?, alla proiezione del film Cosa vuol dire essere israeliano.
(Associazione Italia - Israele di Livorno, 22 maggio 2018)
"L'Europa diventerà islamica"
E' dal 1990 che Bernard Lewis avverte: ''Voi europei vi autodenigrate e non fate figli. I musulmani hanno fervore e fertilità". Le profezie inascoltate del compianto arabista
"E' il terzo tentativo di islamizzare l'occidente. E sta succedendo. Nei dibattiti pubblici, l'islam gode di una immunità".
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"I musulmani sono convinti della correttezza della propria causa, mentre gli occidentali trascorrono il tempo ad autodegradarsi".
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di Giulio Meotti
ROMA - Nel 1990 Bernard Lewis fu invitato a tenere una lezione all'Università di Oxford. E fu uno choc per il pubblico presente. Gli accademici e gli opinion maker allora erano impegnati pressoché all'unanimità a contemplare le rovine dell'ex blocco sovietico che stava franando. Vaclav Havel non aveva ancora spodestato il comunismo a Praga, il Muro di Berlino non era ancora caduto e Mikhail Gorbaciov era ancora impegnato a vendere le sue "riforme", ma Francis Fukuyama era già rimasto folgorato come Hegel a Jena: la storia era davvero "finita", non esistevano più avversari visibili, credibili, all'unica idea trionfante, la democrazia liberale e la sua ancella, la globalizzazione. Ma Fukuyama era fin troppo ottimista nell'annunciare l'happy end. Bernard Lewis, infatti, si era già portato avanti col lavoro, frugando e diradando le nuvole che si stagliavano all'orizzonte dell'Europa. A Oxford, quel giorno, il celebre islamologo e arabista, scomparso domenica a 101 anni, annunciò la "terza invasione islamica dell'Europa, che avrà maggior successo della prima e della seconda". Secondo questa visione, disse Lewis, "il capitale e il lavoro hanno avuto successo dove le armate dei Mori e dei Turchi hanno fallito. Adesso ci sono due milioni di turchi e altri musulmani in Germania, numeri persino maggiori di nordafricani in Francia, pachistani e bengalesi nel Regno Unito". Così siamo in procinto di vedere "per la prima volta dal ritiro oltre lo Stretto di Gibilterra nel 1492 una massiccia e permanente presenza islamica in Europa".
Secondo Lewis, queste comunità islamiche avevano un vantaggio rispetto all'occidente: "Sono legate dal linguaggio, dalla cultura, dalla religione. I loro figli e nipoti avranno conseguenze immense per il futuro dell'Europa e dell'islam". Tuttavia, il teorema Fukuyama prevalse e Lewis tornò a occuparsi del mondo arabo, seminando il suo sentiero accademico di titoli rimasti epocali. L'11 settembre cambia tutto. Parlando al quotidiano tedesco Welt, Lewis torna sull'argomento con una intervista che fece scalpore. Ma le sue tirate sull'islamizzazione dell'Europa sarebbero state trascurate dai chierici, minimizzate dai media come un sussulto senile e demonizzate dai pigri islamofili di professione. "L'Europa sarà islamica alla fine del secolo" disse Lewis quattordici anni fa. Secondo l'arabista, "in futuro i protagonisti globali saranno la Cina, l'India e la Russia, mentre l'Europa farà parte dell'occidente arabo, il Maghreb. Questo è sostenuto da migrazioni e demografia. Gli europei si sposano tardi e hanno pochi o nessun figlio. Ma c'è una forte immigrazione: turchi in Germania, arabi in Francia e pakistani in Inghilterra. Questi si sposano presto e hanno molti bambini. Secondo le attuali tendenze, al più tardi entro la fine del XXI secolo, l'Europa avrà maggioranze musulmane".
Nel 2006, Lewis torna a parlare con la Welt e incalza: "Le minoranze diventeranno maggioranze in un certo numero di paesi europei. Un siriano ha chiesto: l'Europa islamizzata o l'islam europeizzato? Questa è la domanda chiave. Non lo sappiamo. E' chiaro che le comunità islamiche in Europa sono terrorizzate dalla loro stessa gente. Molti non osano parlare in pubblico. Certo, ci sono molti più musulmani in Europa che preferiscono un approccio europeo di quanto non stia diventando evidente. Ma sono facilmente raffigurati come traditori e persino uccisi". L'intervistatore gli fa presente che i musulmani in Europa potrebbero adottare i costumi dei popoli del vecchio continente. "Le attuali tendenze in materia di immigrazione e demografia dicono il contrario, l'Europa diventerà islamica. Non ci sono stati cambiamenti finora. Vedono l'Europa come parte della regione islamica, il Dar al Islam". Nel 2007, Bernard Lewis ripeté le stesse tesi a un giornale israeliano, il Jerusalem Post. Stavolta parlò di un Muslim take aver, una presa del potere da parte dell'islam. Disse che "il futuro delle comunità ebraiche in Europa è grigio". Anche qui fu profetico Lewis, perché allora nessuno parlava di ondate di immigrazione ebraica, di stragi ebraiche a Bruxelles e Parigi, di antisemitismo radicale nelle strade dell'Europa, di kippah scomparse. Ma questa rivoluzione, secondo Lewis, era stata resa possibile, più che dalla intraprendenza islamica, dalla debolezza europea: "Gli europei stanno perdendo le proprie fedeltà. Non hanno rispetto per la propria cultura". Lewis disse che il "politicamente corretto" e il "multiculturalismo" erano un mix letale per l'occidente. "No, non posso dare una data, ma posso dire le tappe del processo: immigrazione e democrazia dalla loro parte, uno stato d'animo di autoumiliazione da parte europea, la resa". Quest'ultimo intervento di Lewis venne ripreso dall'arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del pontificio consiglio della pastorale per i Migranti, secondo cui l'islam potrebbe presto diventare "la forza dominante in Europa". Intervenuto a un seminario dell'Aspen Institute a Venezia, Marchetto invitò a riflettere sulla possibile egemonia islamica in Europa, che Lewis desumeva "dalle migrazioni e dalla demografia". "L'invecchiamento della popolazione europea -disse l'arcivescovo - influenza, nel contesto della globalizzazione, il fenomeno migratorio". Nel 2010, in una intervista pubblica con Robert Wistrich all'Università ebraica di Gerusalemme, Lewis prosegue, solitario: "Nella prima invasione, l'islam conquistò la Spagna, l'Italia del sud e venne rimandato indietro. Nella seconda invasione, l'islam conquistò l'Anatolia, la moderna Turchia, che era cristiana, fino all'Europa sudorientale, arrivando fino a Vienna. Questo è il terzo tentativo di islamizzare l'Europa. I primi due hanno fallito. Il terzo ha buone possibilità di avere successo. E' una migrazione pacifica. Lo vediamo da come i governi europei accolgono la sharia. E ci sono molte concessioni". Lewis fece l'esempio della poligamia. "Parliamo dei matrimoni contratti all'estero e riconosciuti una volta tornati in Europa". Poi fece l'esempio dei dibattiti pubblici. "Un altro esempio dell'islamizzazione è l'immunità di cui gode l'islam".
Un anno dopo, all'American Enterprise Institute di Washington, Bernard Lewis torna a parlare di Europa, dopo aver attaccato "lo straordinario spettacolo di un Papa che si è scusato con i musulmani per le crociate" (si riferiva a Giovanni Paolo II). "Dove si trova ora l'Europa?" si chiese Lewis. "I musulmani hanno alcuni chiari vantaggi. Hanno fervore e convinzione, che nella maggior parte dei paesi occidentali sono deboli o mancanti. Sono per la maggior parte convinti della correttezza della loro causa, mentre gli occidentali trascorrono gran parte del loro tempo ad autodenigrarsi e autodegradarsi. Hanno lealtà e disciplina, e forse più importante di tutti hanno la demografia, che potrebbero portare nel prossimo futuro a importanti maggioranze musulmane in almeno alcune città europee o anche paesi". Un anno dopo, nel suo ultimo libro" Notes on a century", Lewis non arretra: "Secondo la narrativa islamica, il Profeta Maometto spedì messaggi agli imperatori di Bisanzio, Iran ed Etiopia chiedendo loro di accettare la versione finale della vera fede. L'Iran venne conquistato e islamizzato. I seguaci del Profeta hanno conquistato paesi cristiani come Iraq, Siria, Palestina, Egitto, Nordafrica e hanno invaso l'Europa, conquistando Sicilia, Spagna e Portogallo. Dopo centinaia di anni, i cristiani hanno ripreso la Spagna, Portogallo e Sicilia ma non l'Africa del nord. Il secondo attacco islamico venne quando gli ottomani conquistarono l'antica città di Costantinopoli e invasero l'Europa. Anche questa fase è finita con una sconfitta. Questa volta non sarà tramite l'invasione e la conquista, ma l'immigrazione e la demografia". Non blandiva, non assecondava, non lisciava il pelo, non ammansiva mai Bernard Lewis, anche a costo di assumersi dei rischi intellettuali. Per questo i Fratelli musulmani, che coltivano i sogni di "conquista soft" dell'Europa di cui parlava il compianto arabista, lo rispettavano tanto, come un onesto avversario. Le intemerate di Lewis mancheranno, non soltanto a quel mondo arabo che lui amava e voleva curare dalle proprie maledizioni, ma anche a un'Europa sempre più in preda alle convulsioni sviscerate da quell'ebreo fortunato.
(Il Foglio, 22 maggio 2018)
Putin fa la spia per Israele contro Teheran
di Andrea Morigi
Tutta Damasco è tornata sotto il pieno controllo di Bashar Assad, dopo circa sette anni dall'inizio dell'insurrezione armata anti-siriana. Una trentina di bus carichi di jihadisti con le loro famiglie hanno lasciato la capitale fra domenica e ieri, diretti verso l'area desertica vicino a Palmira, dove l'Isis si riorganizza lontano dai centri urbani della Siria occidentale.
Ormai, per combattere quell'ombra residuale del Califfato, non servono più nemmeno gli hezbollah iraniani. Lo suggerisce soprattutto la Russia, che preme per il ritiro di tutte le forze straniere dal territorio. Da Teheran ribattono che i combattenti iraniani presenti in Siria resteranno di stanza nel Paese arabo finché il governo di Damasco avrà bisogno di aiuto e lo richiederà. Ma in Iran pesa il sospetto che la Russia stia rafforzando il proprio ruolo di gendarme del Medio Oriente attraverso un patto nemmeno tanto segreto di alleanza con Israele. Lo scorso 9 maggio Benjamin Netanyahu ha presenziato alla parata militare sulla Piazza Rossa di Mosca in occasione della Giornata della Vittoria a fianco di Vladirnir Putin. E la Russia pare si sia convinta a non fornire alla Siria i missili S-300, in grado di colpire Israele.
Per gli sciiti, è la prova che i satelliti russi indicano agli israeliani gli obiettivi iraniani da colpire in Siria. Ieri si sono udite esplosioni a sud di Damasco, nella zona di Najjah che ospita un'accademia militare e, pare, un'installazione iraniana per la guerra elettronica. Il 18 maggio vicino ad Hama era esploso un deposito di munizioni, armi e carburante. Due indizi fanno un sospetto. Tanto più che se l'Iran si ritirasse farebbe contenta anche Washington.
(Libero, 22 maggio 2018)
Enel si affida agli israeliani: un drone protegge gli impianti
Progetto pilota a Civitavecchia
di Alessandro Farruggia
ROMA - Un drone multiuso a sorvegliare l'impianto, uno scudo elettronico per proteggerlo da droni ostili. E' un passo verso il futuro della gestione dei grandi impianti industriali quello intrapreso da Enel nella centrale a carbone di Civitavecchia. Per farlo, Enel ha scelto due start up israeliane, Convexum e Percepto, con le quali è entrata in contratto tramite l'innovation hub che Enel ha in Israele. Convexum ha realizzato un sistema a radiofrequenza che intercetta i droni ostili e in pochi secondi li hackera, ne prende il controllo e li fa atterrare in tutta sicurezza. Lo Sparrow della start up Percepto è invece un drone del peso di 8.5 chili e con autonomia di 35 minuti, in grado di operare autonomamente e tenere sotto controllo una serie di paramenti di sicurezza, qualità dell'ambiente, funzionalità degli impianti, in modo da garantirne una manutenzione più tempestiva e meno costosa.
«Il drone della Percepto - spiega Ernesto Ciorra, responsabile Innovability di Enel - ha una telecamera normale e una infrarossa e ha una sofisticata elettronica che con i suoi algoritmi consente di leggere e interpretare quello che vede». «Attualmente - continua Ciorra - trasmette video e segnalazioni alla sala operativa della centrale, ma stiamo giù lavorando con Enac per avere la certificazione per far operare in maniera completamente automatica». «Il drone - conclude Ciorra - sarà usato per il monitoraggio dell'impianto, in particolare i camini, le coperture e le condotte esterne e sarà in grado di identificare eventuali piccole crepe o perdite di liquidi o fumi. Grazie alla telecamera termica potrà misurare la temperatura del mare e persino rilevare eventuali sversamenti. Sarà utile anche a verificare la presenza di intrusi in aree sensibili dell'impianto». Enel ci crede e se la sperimentazione sarà positiva potrebbe estendere l'impiego ad altri impianti. Campi fotovoltaici ad esempio. Ma anche dighe, e centrali turbogas.
(Nazione-Carlino-Giorno, 22 maggio 2018)
La protesta palestinese può diventare non violenta?
Nei giorni successivi alla strage compiuta dall'esercito israeliano durante le manifestazioni di protesta a Gaza, il dibattito si è concentrato sulla proporzionalità della reazione di Israele. Ora che le proteste hanno superato il loro picco - le prossime manifestazioni sono state indette per i primi di giugno, ma saranno probabilmente meno partecipate - ci si chiede cosa potrebbero fare i palestinesi per approfittare delle rinnovate attenzioni di tutto il mondo e far ripartire i negoziati di pace, fermi da quattro anni.
In un articolo pubblicato questa settimana, l'Economist elenca tre punti perché si realizzi questo obiettivo. Per prima cosa secondo l'Economist Hamas - il gruppo politico terroristico che governa la Striscia di Gaza dal 2007 e ha come obiettivo la distruzione di Israele - dovrebbe abbandonare la lotta armata e riconciliarsi con Fatah, il partito palestinese "moderato" che governa in Cisgiordania. Hamas dovrebbe anche impegnarsi a riconoscere l'esistenza di Israele, che non viene nemmeno menzionata nel nuovo statuto approvato nel 2017. Infine, l'intera comunità palestinese dovrebbe impegnarsi a manifestare in maniera compiutamente pacifica, «senza armi o esplosivi», in modo da non fornire pretesti a Israele.
Sono tre affermazioni condivisibili e apparentemente di buon senso, ma che hanno poche possibilità di realizzarsi.
Hamas è nato nel 1987 all'inizio della prima intifada, le cosiddette rivolte popolari dei palestinesi, come braccio armato del potente gruppo islamista e pan-arabo dei Fratelli Musulmani. Nella Striscia di Gaza, dove ha preso il potere nel 2007, governa in modo autoritario: le sue forze di sicurezza sono note per la repressione del dissenso e le sfarzose parate militari. La sezione politica di Hamas è divisa da quella militare, ma il confine è poroso: Yahya Sinwar, il leader politico di Hamas nella Striscia, viene dalla sezione militare ed è considerato un terrorista dagli Stati Uniti. Ultimamente ha rallentato, ma negli anni ha compiuto decine di attacchi e attentati suicidi in territorio israeliano.
La lotta armata, insomma, fa parte dell'identità di Hamas: e infatti l'ultimo tentativo di riconciliazione con Fatah, avviato meno di un anno fa, è fallito fra le altre cose perché Hamas non ha accettato di sciogliere le sue forze armate in un unico corpo di sicurezza palestinese. Anche il riconoscimento di Israele è probabilmente fuori discussione: il nuovo statuto, assai ammorbidito rispetto a quello adottato in passato, è stato negoziato con grande fatica ed è considerato una concessione notevole. Per esempio ha ammesso per la prima volta l'idea che i confini della Palestina siano quelli del 1967, cioè precedenti alla guerra dei Sei Giorni vinta da Israele. È una novità importante, perché in passato Hamas sosteneva che i confini palestinesi dovessero ricalcare quelli stabiliti dall'ONU nel 1947, molto più estesi. Eppure, neppure la versione finale del nuovo statuto contiene il riconoscimento di Israele, che Hamas considera ancora il nemico.
È vero che di recente Hamas ha fatto dei passi in direzione di una lotta non violenta. In pochi mesi ha interrotto i lanci di missili verso le città israeliane al confine con la Striscia e abbandonato gli attacchi suicidi. Durante le proteste di queste settimane, però, centinaia di palestinesi, soprattutto giovani e maschi, hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani, provato a violare la recinzione sulla linea di confine e piazzato piccoli dispositivi esplosivi.
Eppure, agli occhi di Hamas e dei suoi seguaci, le proteste sono state pacifiche. In una conferenza stampa di un mese fa il capo politico Ismail Haniya ha invocato proteste «popolari, pacifiche e civili» parlando dietro ai ritratti di Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela. Siamo abituati a usare l'aggettivo "pacifico" in termini assoluti: ma per un gruppo politico-armato con una forte connotazione militare, limitare gli atti di violenza ad alcune centinaia di persone armate di pietre e molotov è un notevole passo in avanti. Fra gli analisti, ci si sta chiedendo se la strategia di Hamas sia cambiata definitivamente oppure se stia cavalcando le manifestazioni. Non si parla di forme di protesta puramente pacifiche, perché almeno per il momento restano fuori discussione.
Questo discorso non vale solo per Hamas e gli abitanti della Striscia di Gaza: migliaia di palestinesi, anche in Cisgiordania, sono nati e cresciuti sotto l'occupazione israeliana. Significa che fin da piccoli hanno sviluppato familiarità con soldati molto armati, checkpoint militarizzati, embarghi e forme di resistenza armata. La violenza ha sempre fatto parte della loro vita: soprattutto per quelli che non hanno una famiglia agiata che possa mandarli a studiare in Israele o all'estero. «Non lanciamo pietre perché siamo palestinesi; siamo palestinesi perché lanciamo pietre», ha spiegato ad ABC News un ragazzo palestinese che vive in Libano.
(il Post, 21 maggio 2018)
Chiedere a Hamas di riconoscere lesistenza di Israele è come chiedere alla mafia di riconoscere l'esistenza dello Stato italiano. M.C.
Usa: sanzioni "storiche" se l'Iran non collabora
Una promessa, una minaccia: l'Iran si prepari, gli Stati Uniti sono pronti a imporre sanzioni memorabili. Lo ha affermato il segretario di Stato americano Mike Pompeo, dopo il recente ritiro statunitense dall'accordo, siglato nel 2015, tra Teheran e le potenze mondiali sul programma nucleare iraniano.
"Saranno sanzioni molto dolorose se il regime non cambierà l'inaccettabile e infruttuoso percorso che ha intrapreso. Una volta completate, potranno davvero essere le sanzioni più forti della storia", ha dichiarato il "falco" dell'amministrazione Trump.
La risposta del presidente Hassan Rohani non si è fatta attendere: "L'epoca in cui gli Stati Uniti decidono per l'Iran e il mondo è finita".
A tutto questo assiste preoccupata l'Unione Europea, che vuole preservare l'accordo e sta mettendo in piedi misure per salvaguardare gli interessi delle imprese europee che investono in Iran.
"Comprendiamo che il nostro riposizionamento sulle sanzioni e questa campagna di crescente pressione sul regime iraniano, possano causare difficoltà finanziarie ed economiche per i Paesi amici. In realtà si tratta di una sfida economica anche per l'America, sono mercati in cui anche le nostre imprese vogliono fare commercio".
Tra le richieste di Washington per aderire ad un nuovo accordo con l'Iran, ci sono l'interruzione dell'arricchimento dell'uranio e il divieto di processare plutonio, l'accesso a tutti i siti nucleari del Paese, il rilascio dei cittadini americani, lo stop alle ingerenze iraniane in Siria, in Yemen e alle minacce contro Israele.
(euronews, 21 maggio 2018)
Pompeo minaccia le sanzioni più dure della storia contro l'Iran. Europei al bivio
Le condizioni durissime di Pompeo e l'appello al popolo iraniano
di Paola Peduzzi
MILANO - C'è il regime iraniano e c'è il popolo iraniano, ha detto il segretario di stato americano, Mike Pompeo: il primo deve soddisfare una serie di richieste se vuole riaprire il dialogo con gli Stati Uniti; il secondo deve sentire la mano tesa, mano di solidarietà e aiuto, da parte dell'America. Pompeo ha parlato alla Heritage Foundation, think tank conservatore, per delineare la politica dell'Amministrazione Trump ora che gli Stati Uniti si sono ritirati dal deal internazionale sul nucleare iraniano: il segretario di stato non è un gran oratore, parla veloce con gli occhi sul testo scritto, ma è chiaro, e durissimo: il regime iraniano rischia le sanzioni più severe della storia, e i suoi "proxy" rischiano di essere spazzati via. L'accordo siglato nel 2015 ha fallito, ha detto Pompeo, e per questo si imposterà un nuovo negoziato quando saranno rispettati alcuni requisiti che "non isolano la questione nucleare dalle altre urgenze di sicurezza". Pompeo li ha letti quasi d'un fiato, anche se sono tanti e irricevibili per la leadership di Teheran. L'Amministrazione Trump chiede come premessa a un "nuovo corso" che: l'Iran dia la misura esatta delle sue capacità nucleari militari; smetta di arricchire uranio e chiuda tutti i reattori; dia accesso agli ispettori internazionali a tutti i siti (compresi quelli militari); smetta di testare missili che hanno la capacità di trasportare armi nucleari; liberi i cittadini americani imprigionati ("ostaggi"); si ritiri completamente dalla Siria; fermi la sponsorizzazione di Hamas, Hezbollah, le forze sciite in Iraq, gli houti in Yemen, i talebani in Afghanistan e fermi le attività delle forze al Quds in tutto il mondo; non dia ospitalità a Teheran ai leader di al Qaida; e rispetti gli alleati dell'America nella regione mediorientale, Israele prima di tutto, ma anche l'Arabia Saudita e gli Emirati arabi. "La lista è lunga - ha detto Pompeo - ma sono i mullah che l'hanno creata".
Pompeo si è rivolto agli alleati europei che aspettano con ansia di capire le prossime mosse americane: il segretario di stato dice di aver parlato molto con i partner oltre Atlantico, ed è sicuro che molti di loro condividano il fatto che la "scommessa" insita nell'accordo del 2015 non sia stata vinta. I fondi che sono stati dati all'Iran congelando le sanzioni e togliendo il paese dall'isolamento in cambio della sospensione del programma nucleare sono diventati "bloody money'', ne ha beneficiato soltanto il terrorismo internazionale. Gli europei faranno quella che credono sia la scelta migliore, dice Pompeo, ma devono stare attenti perché tenendo in piedi un piano fallito, ci perdiamo tutti: Europa, America, stati del medio oriente, ci perde soprattutto il popolo iraniano. Mentre molti dicevano che non si sentiva parlare di regime change in modo tanto diretto dagli anni bushiani, il segretario di stato ha ribadito che la pressione finanziaria su Teheran sarà "senza precedenti", perché il regime deve scegliere: o investe i fondi che gli arrivano dall'apertura ai mercati per migliorare la vita degli iraniani, o li spende all'estero, per sponsorizzare guerre in cui le vite degli iraniani vengono sacrificate:
"State certi che il regime non potrà fare entrambe le cose". Il popolo iraniano non aspetta che questa mano tesa dall'esterno, dice il segretario di stato: le proteste continue, assieme a una situazione economica che si deteriora di giorno in giorno, mostrano che corruzione e malagestione non saranno tollerate a lungo, il regime deve "sostenere le aspirazioni del popolo, non reprimerle".
Pompeo manderà una task force di diplomatici americani dagli alleati per discutere insieme su come gestire il regime iraniano, e per "ascoltare" quel che hanno da dire i partner strategici, e mentre annuncia che, a differenza dell'Amministrazione Obama, anche il Congresso sarà coinvolto nel prossimo negoziato, dice: l'obiettivo non è un accordo, ma come vogliamo che si trasformi l'Iran. Il prossimo anno si celebrano i 40 anni dalla Rivoluzione, ci sono tre generazioni di cittadini della Repubblica islamica che non sanno com'è la vita fuori dal regime: mentre i diplomatici di tutto il mondo si mettono le mani nei capelli perché con queste premesse - e con l'insistenza sulla difesa di Israele e dell'Arabia Saudita - un compromesso è quasi impossibile, Pompeo chiede: "Che cosa ha dato la Rivoluzione agli iraniani?", e dice che la sicurezza di tutti noi dipende dalla risposta che daremo a questa domanda.
(Il Foglio, 22 maggio 2018)
Contrordine: Israele verso il riconoscimento del genocidio armeno
di Eletta Cucuzza
Sembra molto probabile il riconoscimento del Genocidio armeno da parte di Israele. Presentata alla Knesset dal deputato di centrosinistra Itzik Shmuli, membro di "Unione Sionista", la proposta è stata sottoscritta da 50 parlamentari appartenenti sia ai partiti di governo che a quelli dell'opposizione, e prevede anche l'istituzione di una giornata di commemorazione del genocidio avvenuto ad opera dell'Impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Solo a febbraio scorso il Parlamento israeliano aveva respinto un analogo progetto di legge per il riconoscimento, «tenendo conto - erano state le parole del vice-ministro degli esteri israeliano, Tzipi Hotovely - della sua complessità e delle sue implicazioni diplomatiche».
Che il "grande crimine", come gli armeni definiscono la tragica eliminazione di circa 1,5 milioni di morti, si possa definire genocidio è da sempre negato dalla Turchia, che protesta fortemente di fronte ad ogni Paese che lo riconosca formalmente.
Riferisce l'agenzia Fides che Shmuli, in dichiarazioni rilanciate dai media israeliani, ha fatto notare che non c'è motivo «di trattare con particolare delicatezza i turchi, vista l'istigazione contro lo Stato d'Israele scatenata dal Presidente turco Erdogan». Lo stesso Presidente della Knesset, Yuli Edelstein, ha dichiarato che farà il possibile per facilitare l'approvazione della proposta di legge.
I rapporti tra i due Paesi sono ai ferri corti: la Turchia ha espulso l'ambasciatore di Israele, Eitan Naeh, dopo che il 14 maggio gli israeliani hanno lasciato sul terreno, al confine con la Striscia di Gaza , 60 palestinesi morti. «Netanyahu è il primo ministro di uno Stato che pratica l'apartheid e ha le mani sporche del sangue dei palestinesi», è stata la motivazione delle misura "diplomatica" del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. La reazione del governo di Israele è stata immediata: espulso il console generale turco.
In un crescendo di tensione, ieri Erdogan, parlando ad un vertice straordinario dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica (Oic), ha chiamato i leader musulmani ad unirsi contro Israele, ritenuto responsabile delle uccisioni al confine della Striscia. Peraltro il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite il 18 maggio ha votato a maggioranza una risoluzione in cui si chiede di istituire una commissione internazionale indipendente che indaghi sulle violenze a Gaza.
(Adista, 21 maggio 2018)
La Tv palestinese e lo spot per la Nakba: "Ritorneremo nelle nostre terre del 1948"
di Paolo Castellano
Dal 10 maggio, sul canale televisivo dell'Autorità Palestinese, va in onda uno spot per bambini dedicato alla commemorazione della "Nakba" (la catastrofe della fondazione dello stato di Israele) in cui si ribadisce il "diritto al ritorno" delle nuove generazioni di palestinesi nei territori che oggi appartengono a Israele.
I contenuti del video
Come riporta la traduzione del sito Palestinian Media Watch, i titoli e la canzone (in lingua araba) contenuti nella pubblicità televisiva affermano che "di generazione in generazione, non c'è alternativa al ritorno" e poi "torneremo nonostante il tempo e le distanze aumentate tra di noi". La musica accompagna inoltre la presentazione di alcune immagini simbolo della propaganda palestinese come le chiavi consegnate da un anziano a un bambino. Nella retorica palestinese la chiave simboleggia infatti il "diritto al ritorno". Compaiono poi le fotografie del Monte del Tempio di Gerusalemme e della moschea Al-Aqsa commentate così dalla voce narrante: «Il nostro ritorno è certo, e Gerusalemme è l'eterna capitale del nostro stato».
La questione del "diritto al ritorno" dei palestinesi
Da molto tempo Israele ritiene non negoziabile il "diritto al ritorno" che i palestinesi vogliono inserire a tutti i costi nei futuri accordi di pace. Lo Stato ebraico non è d'accordo su questo punto per il semplice fatto che il supposto diritto legittimerebbe gli eredi dei palestinesi sfollati tra il 1947-48, che nel frattempo sono cresciuti a dismisura, a entrare nel territorio israeliano, mettendo in pericolo l'equilibrio statale. Ricordiamo inoltre che l'ONU sostiene il "diritto al ritorno" dei rifugiati palestinesi che ogni anno aumentano, invece che diminuire come tutti gli altri profughi presenti nel resto del mondo.
"La marcia del ritorno"
Da quasi due mesi nella Striscia di Gaza, Hamas ha organizzato una violenta protesta che è stata battezzata "la marcia del ritorno". Il gruppo terroristico, che governa con il pugno di ferro il territorio di Gaza, sta cercando in tutti i modi di infiltrare i suoi agenti nel territorio israeliano, mescolandoli ai civili giunti sul confine per protestare contro l'esistenza dello stato di Israele (Nakba appunto) e contro il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
Hamas ha inoltre perso 50 membri durante gli ultimi scontri sul confine con l'esercito israeliano (IDF).
(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2018)
La storia della comunità ebraica di Merano
Prime tracce
Le prime testimonianze di vita ebraica nel Tirolo si trovano già nel medioevo. Nell'anno 1297 l'ebreo Maisterlino fu esattore del dazio a Tell sopra Merano. Nell'anno 1311 la zecca di Merano fu amministrata da Bonisak di Gorizia. E nell'anno 1403 Isaak e Samuel con le loro famiglie ottennero da vescovo Ulrich II. il permesso di gestire un banco creditizio a Bressanone....
(Comunità ebraica di Merano, 21 maggio 2018)
Israele : il segreto del successo economico è nella ricerca
Nonostante l'annoso conflitto che l' affligge, lo Stato d'Israele cresce. Nel 2017 il Pil ha raggiunto il 3,3% e nel 2016 è cresciuto del 6,2 %, superando così tutti i paesi dell'Ocse.
Haifa è stata la capitale industriale del paese e centro nevralgico per la digital economy
Uno dei fattori che maggiormente ha contribuito alla crescita economica d'Israele è rappresentato dalle nuove tecnologie, e specificatamente da quelle hi-tech. Infatti, in circa 10 anni, il paese è diventato patria della 'Silicon Valley' del Medio Oriente, ossia la Silicon Wadi, nei pressi di Tel Aviv. Qui start up e aziende hanno potuto contare sugli investimenti di imprenditori locali e stranieri. Per avere un'idea dell'economia israeliana bisogna fare riferimento al tasso di disoccupazione, che nel 2016 è calato al 4,8%.
Per molto tempo Haifa è stata la capitale industriale del paese e centro nevralgico per la digital economy. Successivamente è stata soppiantata da Tel Aviv e dopo ancora da Gerusalemme, dove attualmente nascono nuove startup ogni anno. Ad oggi il numero di startup presenti in Israele è di 8.000, delle quali circa un terzo sono nell'area di Tel Aviv. Questo avviene grazie al diffuso senso imprenditoriale che ha contraddistinto le generazioni più giovani del paese. Quest'ultime, infatti, sono più inclini a vedere l'industrializzazione da un punto di vista puramente tecnologico. Waze, Monday e Mobileye - il sistema di automatizzazione di guida dei veicoli- sono solo alcune delle più famose startup israeliane, vendute poi a imprese straniere.
Il 14% del Pil in Israele è speso in ricerca, molto più che in altri paesi europei
Ed è in questo contesto che Israele si configura come il paese con i più innovativi dipartimenti universitari al mondo. Particolarmente sviluppati sono, infatti, i settori delle nanotecnologie, dei big data, della cybersecurity e delle biotecnologie. Non stupisce, quindi, che il 14% del Pil sia speso in ricerca, molto più di altri paesi europei a loro volta fortemente impegnati nella ricerca. Il segreto del boom economico d'Israele risiede nella capacità del settore di riuscire a coniugare progetti di ricerca e politiche governative. Infatti, le ricerche sull'innovazione sono alimentate tramite fondi provenienti da capitalisti di ventura.
La correlazione tra ricerca e istruzione è imprescindibile in Israele
Il connubio tra scienza e istruzione è talmente consolidato in Israele che l'Istituto di Microbiologia e i dipartimenti di biochimica, batteriologia ed igiene dell' Università Ebraica di Gerusalemme furono la base per la fondazione del Centro Medico di Hadassa, il maggiore centro di ricerca medica del paese. 10 i premi Nobel conseguiti da Israele nell'arco di 45 anni. Non è un caso che tre dei quattro premi Nobel per la chimica provenissero dall'Università tecnologica di Haifa, il Technion. Il Weizmann Insititute of Science di Tel Aviv è invece il luogo di provenienza del quarto premio Nobel per la chimica. Il Weizman negli ultimi dieci anni ha anche sviluppato ben 7 degli ultimi 25 farmaci prodotti. Un dato che neanche le più grandi università al mondo possono vantare.
"Investire nell'istruzione è la chiave per il successo della ricerca scientifica"
Secondo il Ministro dell'Istruzione israeliano, Gideon Saar, investire in tutti i livelli d'istruzione, è la chiave per il successo della ricerca scientifica, da cui dipende il futuro d'Israele stesso.
Anche l'Unicusano da tempo si fa promotore di questo principio, accostando l'istruzione alla ricerca. La Fondazione Niccolò Cusano per la Ricerca Medico-Scientifica opera, infatti, in tre grandi ambiti: quello della ricerca in campo bio-medico e diagnostico, quello della divulgazione e quello della formazione. Inoltre, dal 2012 finanzia l'attività di ricerca dell'Ospedale Bambino Gesù sulla sindrome del QT Lungo, una patologia aritmogena su base genetica, caratterizzata da un prolungamento sull'elettrocardiogramma dell'intervallo QT e dal rischio di aritmie potenzialmente letali. Inoltre, la Fondazione Università Niccolò Cusano ha istituito all'interno del complesso universitario un centro di Ricerca medico-scientifica.
(Tag24 - Radio Cusano Campus, 21 maggio 2018)
Il presidente malato avvicina un governo gialloverde anche in Palestina
Abu Mazen stabile, ma resta in ospedale. Fatah converge verso Hamas, per non implodere
di Umberto De Giovannangeli
Un governo gialloverde anche in Palestina. Per garantire che l'uscita di scena di un presidente malato porti all'implosione dell'Autorità nazionale palestinese e spiani la strada per la Muqata (il quartier generale dell'Anp a Ramallah) ad Hamas.
Dietro il giallo sulle condizioni di salute di Abu Mazen c'è anzitutto questo: la consapevolezza, da parte della dirigenza dell'Anp e ancor più di quella di al-Fatah (il movimento nazionalista palestinese fondato da Yasser Arafat e di cui lo stesso Abu Mazen è il capo) che una uscita di scena non governata dell'ottuagenario presidente, significherebbe l'implosione di Fatah, spaccato al proprio interno in miriadi di fazioni locali e familistiche e incapace di indicare una candidatura interna forte per la successione ad Abu Mazen. E allora, ecco il "male minore": convergere su un candidato di Hamas meno divisivo di altri e legare questa scelta alla formazione di un governo giallo (il colore della bandiera di Fatah) e verde (quello di Hamas).
Sulla gravità delle condizioni dell'ottantatreenne presidente palestinese, le notizie ufficiali vengono corrette dalle indiscrezioni, ufficiose, che giungono da Ramallah e Gaza. Di certo c'è che Abu Mazen resterà anche oggi ricoverato in ospedale, ha annunciato un portavoce dell'ospedale in cui il presidente palestinese è stato ricoverato in seguito alle complicazioni sopravvenute dopo un'operazione all'orecchio. Il portavoce dell'ospedale Istichari, nei pressi di Ramallah, ha affermato che il presidente dell'Anp sta bene, ma non ha offerto altri dettagli sulla durata della sua ospedalizzazione. Domenica sera Saeb Erekat, segretario generale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), tra i dirigenti palestinesi più vicini a Mahmoud Abbas, aveva detto alla France Press che il presidente aveva una "infiammazione all'orecchio sviluppatasi a seguito dell'operazione che aveva subito".
È la terza volta che il leader dell'Anp è ospedalizzato in una settimana, Nel febbraio scorso, il suo stato di salute era stato al centro di voci preoccupate dopo che Abu Mazen, impegnato in una missione negli Usa, si era sottoposto ad esami medici in un ospedale di Boston. I boatos proseguono, c'è chi parla di un cancro ai polmoni (il presidente è un accanito fumatore), chi tende a minimizzare, ma tutti gli analisti politici nei Territori, si trovano d'accordo sul fatto che l'interrogativo su cui ruota il futuro politico dei Palestinesi, non è "se" ma "quando" e "come" il vecchio e malato presidente uscirà di scena. E il tempo stringe. Una soluzione non lacerante va ricercata al più presto. Una soluzione va ricercata dentro e soprattutto fuori i Territori, coinvolgendo i leader arabi, quelli che hanno nelle loro mani la "questione palestinese".
Una cosa è certa: se si dovesse votare in un futuro ravvicinato, Fatah rischia seriamente di subire una sonora sconfitta da parte di Hamas. Ma uno scontro frontale tra le due più importanti fazioni palestinesi, sarebbe un regalo per Israele e segnerebbe probabilmente la fine della "questione palestinese" per come si è manifestata dal 1967 ad oggi. E qui entra in gioco l'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano è stato il facitore, prima, dell'accordo di riconciliazione nazionale tra Hamas e Fatah, e dopo una gestione non deflagrante della drammatica crisi di Gaza.
Una uscita non divisiva dall'"era Abu Mazen" passa per la realizzazione all'accordo di unione nazionale raggiunto qualche mese fa tra Hamas e al-Fatah ma rimasto in gran parte ancora sulla carta. Quell'accordo prevedeva lo scioglimento del "governo" di Hamas nella Striscia e il passaggio dei poteri all'Anp. Tra i punti in discussione c'è quello di una progressiva smilitarizzazione di Hamas e un passaggio di una parte delle forze del movimento islamico nei servizi di sicurezza dell'Autorità palestinese. Agli uomini di Hamas rimaneva il controllo del valico di Rafah, oltre che la garanzia di essere parte del "consiglio della ricostruzione", l'organismo palestinese che dovrebbe gestire i finanziamenti internazionali per la ricostruzione.
Ricostruire Gaza significa investire 5,4 miliardi di euro. Israele ha presentato un piano da 800 milioni di euro per la ricostruzione di Gaza, nell'ambito di una riunione di emergenza dell'"Ad Hoc Liason Commettee", il gruppo di Paesi donatori che fornisce aiuti economici ai Paesi in via di sviluppo, che si è tenuta il 31 gennaio 2018 a Bruxelles. L'Egitto può mettere sul tavolo qualcosa di più vitale oggi per Hamas: i finanziamenti necessari per ricostruire Gaza e dare respiro ad una popolazione stremata. Sono i petrodollari del Qatar. Al-Sisi si fa garante della disponibilità qatarina, e questo definisce già un qualcosa di nuovo e di estremamente significativo nella geografia delle alleanze in campo arabo e, in particolare, in quello sunnita: mentre l'Arabia Saudita, seguita dal suo satellite Bahrain, ha di fatto sposato la causa israeliana in funzione anti-iraniana, ponendo la "questione palestinese" come una subordinata del tutto marginale, il Qatar, che non ha ricomposto la frattura con Riyadh, ha mantenuto una linea più flessibile, autonoma, che l'ha portato a stringere un patto d'azione con l'Egitto. L'"hudna" a Gaza è il terreno di sperimentazione di questo patto. Il capo di Hamas non ha chiuso le porte a questa prospettiva, e nelle interviste rilasciate nei giorni più tragici nella Striscia, ha evocato questa possibilità, un cessate-il-fuoco di lungo termine (dieci anni) con il Nemico israeliano, subordinandolo a condizioni che Israele, nella "diplomazia sotterranea" in atto con l'Egitto, non ha scartato a priori.
In questo contesto, la scelta del successore di Abu Mazen è questione cruciale. Fino a qualche mese fa, prima comunque delle "Marce del Ritorno" susseguitesi nella Striscia, con un tragico bilancio di sangue (oltre 120 palestinesi uccisi, più di 3000 feriti), Fatah sembrava avesse trovato un candidato su cui convergere: Mohammed Dahlan, l'ex uomo forte di Fatah nella Striscia. Cinquantasette anni, Dahlan ha guidato la lotta di Fatah contro Hamas a Gaza, proponendosi come un leader energico capace di cambiare davvero le cose. Ma è anche stato esiliato dalla Cisgiordania con accuse di corruzione quando ha iniziato ad opporsi politicamente ad Abu Mazen. Per altre persone questa avrebbe potuto essere l'inizio della fine politica, ma per Dahlan è invece stato un nuovo inizio: rifugiatosi negli Emirati Arabi Uniti è diventato consigliere del sovrano locale. Come inviato degli Emirati negli ultimi anni ha girato l'Europa e il Medio Oriente, come diplomatico, contribuendo, tra le altre cose, a mediare gli accordi diplomatici tra Egitto ed Etiopia circa il progetto della Renaissance Dam. In passato ha dovuto subire l'emarginazione sulla base di accuse di corruzione; accuse rivoltegli quando Dahlan annunciò di voler correre contro Abu Mazen. Nel gennaio 2017. Lo scorso gennaio, nel pieno di una sanguinosa guerra civile a Gaza, Dahlan concesse una interessante intervista ad Haaretz, il quotidiano progressista israeliano. Il presidente in pectore palestinese aveva sfidato Hamas intervenendo ad una manifestazione di Fatah nella Striscia, la prima dopo tanti anni. All'intervistatore che gli chiedeva sul perché fosse il bersaglio dei radicali islamici, Dahlan rispose così, in terza persona: "Sono sicuri che se uccidono Mohammed Dahlan, Fatah scomparirebbe, ma non capiscono che questo (Fatah) è un movimento popolare...". E poi l'avvertimento, una sorta di pizzino palestinese: "Loro (i capi di Hamas, ndr) sanno che io li conosco personalmente meglio di chiunque altro, da quando Israele ha cercato di collaborare con loro contro Fatah, dagli anni in cui Mahmoud al-Zahar (il ministro degli Esteri di Hamas, ndr) era in contatto con Yitzhak Rabin... ma hanno commesso una infinità di errori, indebolendo la causa palestinese, e adesso pensano di risalire la china minacciando di morte fratelli palestinesi solo perché aderiscono a Fatah...".
Dall'avvertimento all'apertura. Nell'intervista Dahlan non chiude le porte ad un riavvicinamento, poi messo in atto. "La soluzione - rimarcò allora - è quella democratica: libere elezioni, alla fine dobbiamo andare avanti assieme, ma per procedere in questa direzione dobbiamo prima rafforzare Fatah per dimostrare ad Hamas che Gaza non è loro, Gaza non è Tora Bora. In passato abbiamo commesso degli errori, ma abbiamo imparato la lezione, e non li ripeteremo". Ma ora le cose sono cambiate: Hamas si è rafforzato con le manifestazioni di Gaza dalle quali Fatah si è o è stato estromesso, comunque assente. E allora, come in un giallo che si rispetti, ecco il nome del presidente papabile di un governo gialloverde in Palestina: Khaled Meshaal, 62 anni, l'ex capo dell'Ufficio politico di Hamas in esilio.
Un tempo, quando era sotto la protezione siriana, Meshaal era il punto di riferimento dell'ala più dura del movimento islamico. Ma d'allora, molta acqua è passata sotto i ponti palestinesi, e oggi Meshaal, nel frattempo stabilitosi a Doha, in Qatar, è stato l'unico leader di Hamas disposto a far suo l'appello dell'Anp a passare dalla violenza a forme di ''resistenza popolare'' disarmata contro ''l'occupazione''. Non solo: proprio a Meshaal - identificato in passato con l'asse di ferro con Damasco e Teheran - si deve la strategia attuale di rilancio dei contatti con altri Paesi: primi fra tutti l'Egitto di al-Sisi e la Tunisia. Quanto a tregue, Meshaal le ha teorizzate e negoziate con Israele.
Mahdi Abdel Hadi, direttore di Passia, autorevole, perché indipendente, rivista palestinese di Gerusalemme Est, sintetizza la situazione così: "Divisi, Hamas e Fatah si sarebbero ulteriormente indeboliti e, divisi, non potrebbero affrontare la gravissima crisi che investe Gaza né acquisire credito nella comunità internazionale". Un "matrimonio d'interessi", dunque, che il vecchio Abu Mazen non ha la forza, né forse la volontà, di "officiare". Ma quel matrimonio s'ha da fare, perché l'alternativa sarebbe catastrofica per i due contraenti. Il governo grigioverde è il "male minore".
(L'HuffPost, 21 maggio 2018)
Domanda: questo coacervo di tribù in perenne lotta fra loro, tenuto insieme soltanto dallodio variamente graduato per Israele, sarebbe uno stato? Ed è con questo stato che un vero Stato come Israele dovrebbe accordarsi per vivere uno accanto allaltro in pace e sicurezza? M.C.
Israele-Paraguay: inaugurata la nuova ambasciata a Gerusalemme
GERUSALEMME - Il Paraguay ha aperto oggi la nuova ambasciata a Gerusalemme, diventando il terzo paese, dopo Stati Uniti e Guatemala, a trasferire la propria sede diplomatica da Tel Aviv. Lo riferisce la stampa israeliana. Presenti alla cerimonia il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ed il presidente paraguaiano, Horacio Cartes. "Un grande giorno per Israele, un grande giorno per il Paraguay, una grande giornata per la nostra amicizia", ha affermato Netanyahu. La cooperazione fra i due paesi incrementerà, nell'ambito dei settori dell'agricoltura, della sicurezza e della tecnologia, ha affermato il capo dell'esecutivo di Gerusalemme. Da parte sua, Cartes ha definito il trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme un "evento storico", osservando che "questo episodio ha un significato profondo poiché esprime un'amicizia sincera ed una piena solidarietà con Israele".
(Agenzia Nova, 21 maggio 2018)
Addio a Lewis, cassandra dello «scontro di civiltà»
Già a metà degli anni '70 previde il «ritorno dell'Islam» e denunciò i pericoli dell'estremismo musulmano
Severità e rispetto
Capiva l'Oriente perché ne parlava le lingue e lo studiava a fondo
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«Occidentalista»
Capì prima di tutti che una religione di potere non può essere democratica
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di Fiamma Nirenstein
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Lo storico britannico naturalizzato statunitense Bernard Lewis, insigne orientallsta di fama internazionale, gigante degli studi sul mondo arabo e dell'Islam, il primo a coniare nel 1990 in un articolo l'espressione «scontro di civiltà» che Samuel Huntington avrebbe reso popolare, è morto ieri. In una casa di riposo a Voorhees, nel New Jersey, all'età di 101 anni. I suoi libri hanno influenzato generazioni di studiosi del Medio Oriente. Fu tra i consulenti della Casa Bianca e del Pentagono al tempo dell'invasione dell'Irak nel 2003.
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Quando nel 1976 i lettori di Commentary, il sofisticato mensile americano diretto da Neal Kosodoy, lessero un articolo del professore intitolato «Il ritorno dell'Islam», spalancarono gli occhi: il saggio prevedeva, in tempi in cui ancora non si era avuta la rivoluzione islamica degli Ayatollah, e Osama Bin Laden era solo un giovane sunnita estremista, che l'Islam presto avrebbe rovesciato il tavolo troppo inaccuratamente apparecchiatogli dall'Occidente, e invitava a stare attenti. Fu sempre Bernard Lewis a spiegare - quando nemmeno ci si pensava - le intenzioni totalitarie di Khomeìni, a quei tempi un chierico in esilio mentre lo Scià era saldamente sul trono iraniano. Col suo tipico understatement inglese spiegò: «Era facile capire cosa avrebbe fatto l'ayatollah leggendo i suoi testi, ma pochi sapevano il parsi».
Bernard Lewis di lingue ne sapeva almeno una decina, e nelle minime sfumature; e le parlava, dall'arabo al turco, con una ironica elegante sfumatura di orgoglio quando citava testi sconosciuti dai più, minimizzando l'accento, rimasto britannico anche dopo che si era naturalizzato americano.
Lewis ha scritto un'intera biblioteca, e ha lasciato anche due libri intervista con la sottoscritta: aveva un profondo rispetto per l'islam e quindi anche una severità diretta, da amico a amico, per le sue cattive pulsioni. Non aveva remore a dire che l'attuale violenza dell'islam proveniva dall'interno, dalla sua struttura, dal suo Corano .. eppure i musulmani l'hanno tradotto, invitato, imparato. Lo si è definito un «occidentalista» per sfottere il classico termine «orientalista», rovesciato da Edward Said. Lo era? Si può dire che era un amante dell'analisi storica, mal tollerava gli estremismi, frenava sempre persino quello degli amici. Anche nei modi era un maestro: un maestro di stile, spiritoso e che amava la battuta.
Su mio invito è venuto in Italia tante volte a spiegare un universo sconosciuto; nel mondo lo si consultava ai massimi livelli: mi ricordo svariate limousine che negli Stati Uniti lo venivano a prendere per portarlo alla Casa Bianca ... Israele è sempre stato il suo amore, la sua cura, la sua preoccupazione.
Amava l'Occidente e la democrazia, ma con garbo, senza fanatismi e senza illudersi che l'islam potesse adottarne il sistema. E questo fin da quando, ufficiale di Sua Maestà Britannica negli anni Quaranta si avventurava nel deserto, era un giovane Lawrence d'Arabia affascinato dal mondo islamico. Quando fece il suo Bar mitzvah (il momento in cui un bambino ebreo raggiunge l'età matura) a Londra imparò a leggere la sua porzione biblica in ebraico, e da qui si avventurò per i rami delle lingue semitiche di cui si sarebbe occupato per sempre. Guardava il Medio Oriente da umanista, parlò di tutto quello che vi era connesso: poesia, letteratura, armi, «assassini», antisemitismo, donne, leader.... Che fortuna hanno avuto i suoi allievi, fra cui la sottoscritta, a incontrarlo, a amarlo, a esserne curati come lui sapeva fare senza apparire.
Lo incontrai la prima volta a Bologna nel 1991, per una «lettura» del Mulino e lo intervistai. Non capivo quasi niente di quel che diceva, ma ne intuii l'importanza. In Israele mi presentai, non invitata, all'ospedale quando seppi che doveva subire una operazione. Quando si svegliò, c'eravamo io e Uri Lu brani, il governatore israeliano del Libano, a sua volta un grande conoscitore della cultura musulmana, specie dell'Iran. Da allora è stato tutto un ascoltare le sue storie, le sue interpretazioni: me le ha regalate durante lunghe passeggiate, spesso in compagnia della sua compagna, Buntzie Churchill, sul lungomare di Tel Aviv.
Bernard adesso se n'è andato, ha lasciato un drappello compatto che dodici anni fa si riunì al Bellevue Stratford Hotel di Philadelphia (famoso per aver ospitato lo zar Nicola Il) in una conferenza a cui parteciparono anche grandi leader: il capo dei Sufi sceicco Kabbani, l'ex vice presidente americano Dick Cheney, il grande storico libanese Fuad Ajarni, la eroina anti-islam estremista Hirsi Ali, Henry Kissinger. .. e poi noi, i suoi allievi, che ricevemmo una maglietta con stampata sopra la sua foto. Si discusse della grandiosità di una cultura che ha dato forza e dignità a tanti milioni di persone, ma che - cito Bernard Lewis - «è una religione di potere, e nel mondo musulmano è giusto e ben fatto che il potere sia posseduto dai musulmani, e solo da loro. Altri possono ricevere la tolleranza, persino la benevolenza, di uno stato islamico, ma devono riconoscerne la completa supremazia. Che non musulmani governino i musulmani, è un'offesa alle leggi di Dio. L'islam non è solo una religione, nel senso limitato dell'Occidente, ma una comunità, una fedeltà, un modo di vivere».
Ultimamente ci siamo parlati via Skype con l'aiuto del nostro comune amico e compagno di strada Harold Rhode: voleva sapere dov'ero, come stavo... Il suo affetto era un tutt'uno con la sua cultura, anche se non aveva più tanta forza.
Ha seguitato a parlare a tutti quelli che hanno voluto capire il Medio Oriente, e seguiterà a farlo con i suoi scritti e la sua voce, nella nostra memoria e nel nostro cuore.
(il Giornale, 21 maggio 2018)
Viaggio nel modello Israele, terra promessa dell'hi-tech
Quasi il 20% del Pii va in ricerca e istruzione. Le imprese di Tel Aviv hanno raccolto 5 miliardi creando un ecosistema per lo sviluppo del futuro. L'indice di competitività parla chiaro: Israele è al 16o posto, l'Italia solo al 43o. Del resto, investimenti nell'istruzione e nella tecnologia e contributi del governo allo sviluppo di imprese innovative fanno la differenza: per costruire una 'Silicon Wadi' competitiva serve un serio ripensamento delle politiche nel nostro Paese.
di Elena Comelli
TEL AVIV - Dai pompelmi Jaffa all'alta tecnologia, la strada non è breve. Israele l'ha percorsa in una ventina d'anni e ora la bilancia commerciale del Paese è in attivo proprio grazie all'hi-tech, che costituisce oltre il 50% del suo export. Se è vero che il modello israeliano non si può copiare, dal successo di questo ecosistema innovativo si può trarre comunque qualche insegnamento anche per un Paese come l'Italia, che nel 2017 era al 43o posto dal Competitivness Index del World Economie Forum, contro il 16o posto di Israele.
MALGRADO il perenne stato di conflitto, l'economia israeliana è florida: nel 2017 è cresciuta del 3,3%, con un Pil pro capite di oltre 37mila dollari (contro i 32mila dell'Italia), un debito pro capite di 23mila dollari ( contro i 42mila dell'Italia) e un rating S&P di A1 (contro il BBB dell'Italia).
Qual è il segreto di questo successo? «Ricevo delegazioni da tutto il mondo che mi chiedono come abbiamo fatto, ma non esiste una ricetta valida ovunque per mettere in moto una rivoluzione tecnologica», spiega Avi Hasson, Chief Scientist del ministero dell'Economia.
LA CAPACITÀ israeliana di cavalcare l'onda hi-tech affonda le sue radici nella valorizzazione del suo capitale umano: in Israele ci sono alcuni dei dipartimenti universitari più avanzati al mondo in settori chiave quali l'intelligenza artificiale, i big data, le nanotecnologie, le biotecnologie, la cybersecurity. Attorno a questi dipartimenti, tra Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme, si sono sviluppati nel tempo tre distretti tecnologici fra i più avanzati al mondo.
Non a caso, Israele spende il 14% del suo Pil per l'istruzione ( contro l'8% dell'Italia) e il 4,3% in ricerca e sviluppo, più di Paesi campioni dell'innovazione come la Svezia, la Svizzera o la Germania, per non parlare dell'Italia (1,29%), con una forte prevalenza di investimenti privati sui contributi del governo, che coprono appena il 15% della torta.
In questo contesto nasce la Silicon wadi, una straordinaria fioritura di startup innovative, che rivaleggia con la Silicon Valley americana: l'anno scorso oltre 6mila startup israeliane hanno raccolto quasi 5 miliardi d'investimenti dai capitalisti di ventura.
TEL AVIV è stata per lungo tempo l'epicentro del settore, ma ora le aziende innovative nascono come funghi anche a Gerusalemme, dove perfino il sindaco, Nir Barkat, è un ex-startupper di successo, e dove si è sviluppato l'unicorno più famoso, Mobileye.
La società israeliana leader mondiale nei sistemi di guida assistita, nata dal dipartimento d'intelligenza artificiale della Hebrew University, dove insegna il suo fondatore Amnon Shashua, è stata acquisita l'anno scorso da Intel per 15,3 miliardi, una cifra record anche per un Paese abituato alle iperboli. Nel distretto di Har-Hotzvim a Gerusalemme, dove Mobileye ha i suoi uffici, un centinaio di altre startup stanno lavorando a questo mercato del futuro. Accanto a loro si concentrano i centri di ricerca di molte grandi multinazionali tecnologiche, da Cisco a Bae Systems, in un circolo virtuoso che garantisce la piena occupazione per gli scienziati che escono dalle prestigiose università locali.
«LO SVILUPPO di questo ecosistema è stata una felice combinazione fra il boom della net-economy, la concentrazione di centri di ricerca di alto livello e le politiche del governo», sostiene Erel Margalit, il fondatore di Jerusalem Venture Partners, selezionato da Forbes come unico non americano tra i grandi capitalisti di ventura del mondo. «Vengo spesso in Italia perché è un bellissimo Paese, ma purtroppo non brilla per imprenditorialità innovativa nelle nuove tecnologie, peccato per le giovani generazioni che se ne vanno», commenta Margalit, che fuori da Israele ha una sede a New York e un'altra a Parigi. Insieme a una settantina di altre società, Margalit anima il vivace mercato israeliano dei capitali di rischio, pronti a mettersi in gioco per finanziare innovazioni promettenti. Dalla fondazione nel '93, Jvp ha raccolto oltre un miliardo di dollari e creato 120 società, 12 delle quali sono state quotate con successo al Nasdaq.
INSIEME ai suoi incubatori collegati, Jvp Media Labs per l'hi-tech e The Lab dedicato agli artisti, Jvp ha completamente trasformato la faccia di un quartiere di Gerusalemme contiguo alla vecchia stazione ferroviaria dismessa, German Colony, oggi fra gli indirizzi più ambiti della capitale. Qui affluiscono giovani imprenditori anche dall'estero, da quando l'Israel Innovation Authority ha lanciato un programma chiamato Innovation Visa, che offre un visto per 24 mesi e incentivi agli stranieri con un'idea in testa, con un prolungamento di 5 anni se il progetto riesce a diventare una società.
In questo modo Israele allarga la platea: il pallino del governo è diventare il centro di ricerca e innovazione del mondo. Seguendo il motto di Steve Jobs: «Stay hungry, stay foolish».
(QN Economia & Lavoro, 21 maggio 2018)
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«Fate come noi, imparate a rischiare». Il segreto per diventare Startup Nation
Come può Israele produrre più startup innovative di Italia, Francia o Regno Unito? Per l'economista Saul Singer non bastano le idee, che sono ovunque, ma serve slancio e la volontà di rischiare.
di Elena Comelli
MILANO - Saul Singer, nel suo libro 'The Startup Nation' ha coniato un termine che ormai tutti usano riferendosi a Israele e ha cercato di rispondere alla domanda da un milione di dollari: com'è possibile che Israele - un Paese di appena 8 milioni di abitanti, nato solo 70 anni fa, circondato da nemici, in costante stato di guerra dalla sua fondazione, senza risorse naturali - riesca a produrre più startup innovative di nazioni grandi, pacifiche e stabili come l'Italia, la Francia o il Regno Unito.
- Israele è un Paese ossessionato dall'innovazione e dagli ecosistemi nascenti. Può spiegare il perché?
«La cosa importante da capire sull'innovazione è che non si tratta di idee. Ci sono grandi idee ovunque. Quello che conta è ciò che si aggiunge alle idee per produrre innovazione, che è soprattutto un grande slancio e la volontà di rischiare. Il nostro libro parla principalmente di dove Israele ha ottenuto questi due ingredienti aggiuntivi».
- Quali sono i fattori fondamentali di questa crescita?
«Da un lato, Israele è di per se stesso una startup, è un'idea che ha richiesto molto impegno e molti rischi personali per trasformarsi in realtà. Dall'altro lato, ci sono i valori e le capacità che gli israeliani imparano nell'esercito, come lo spirito di sacrificio, la leadership, l'orientamento alla missione e il lavoro di squadra. Infine c'è un terzo elemento importante: Israele è un Paese di immigrati e gli immigrati tendono a essere più motivati e disposti a correre dei rischi».
- Quali sono i tre consigli che lei darebbe a un imprenditore ai suoi esordi?
«Prima di tutto: trova un problema importante che ti interessa davvero risolvere. Visto che dovrai lavorare duro, tanto vale farlo su qualcosa che ti sta molto a cuore. In secondo luogo: esci fuori da casa tua, esponiti ai grandi problemi degli altri Paesi, che non avresti mai immaginato. Lungo la strada troverai grandi imprenditori che capiscono meglio i problemi del proprio Paese, ma hanno bisogno anche di uno sguardo esterno. Insieme, avrete una possibilità molto migliore di trovare il problema giusto e risolverlo rispetto a quello che fareste ognuno per conto proprio. In terzo luogo: ragiona oltre gli Stati Uniti, l'Europa e la Cina. Ci sono grandi problemi di rilevanza globale da affrontare in molti altri luoghi e questi altri luoghi possono essere il punto di partenza migliore per iniziare a costruire qualcosa di grande».
- Dall'uscita del suo primo libro a oggi Israele si è evoluto da una Startup Nation a una Unicom Nation. Cosa succederà adesso?
«Israele e la Silicon Valley sono i primi ecosistemi arrivati al terzo livello, quello di aver prodotto più di dieci unicorni (ovvero le imprese innovative con un valore superiore a un miliardo di euro, ndr), nel mondo di oggi. Molti altri Paesi stanno cercando di superare una soglia raggiunta da Israele alla fine degli anni '90, quando abbiamo avuto le nostre prime storie di successo, quelle che ci hanno messo sulla mappa globale dell'innovazione. Dovremmo aiutarli a raggiungere quella soglia più velocemente, innovando con loro, combinando le nostre forze. Non possiamo limitarci a dialogare con il mercato americano, dobbiamo gettare ponti con altri Paesi e continenti. Se lo faremo, la StartUp Nation potrebbe ampliarsi per dimensioni e impatto. Allo stesso tempo, dobbiamo colmare il divario all'interno d'Israele tra l'hi-tech e il resto dell'economia. Credo che aumenterebbe notevolmente sia l'equità sociale che la crescita».
(QN Economia & Lavoro, 21 maggio 2018)
La sinistra inglese antisemita
La Gran Bretagna sempre meno sicura per gli ebrei
Scrive il Jerusalem Post (29/3)
Felice per essere riuscita a porre la propria testa collettiva oltre il parapetto per la prima volta, la leadership della comunità ebraica britannica si sta auto convincendo di essere riuscita a cambiare l'umore politico del paese" ha scritto l'editorialista del Times Melanie Phillips sul Jerusalem Post. La scorsa settimana, il Comitato dei deputati e il Consiglio della leadership ebraica hanno pubblicato un attacco senza remore al capo dei laburisti, Jeremy Corbyn, per aver facilitato l'antisemitismo nel suo partito. Una protesta organizzata fuori dal Parlamento, che ha chiamato ad adunata circa duemila persone, soprattutto ebrei, nelle strade di Londra, ha avuto lo straordinario risultato di far sì che dozzine di deputati laburisti si siano presentati per esprimere solidarietà contro il proprio leader, chiedendo a gran voce una purga dell'antisemitismo rampante nel proprio partito. Dinnanzi a questa protesta senza precedenti, Corbyn ha continuato a cambiare posizione. Inizialmente ha concesso che nel partito vi fossero 'sacche' di antisemitismo, poi che ci fosse 'più di qualche mela marcia' e infine che c'è dell'antisemitismo in 'parti' della retorica anti Israele. Questo vuol dire che il Partito laburista verrà obbligato a espellere questo veleno che lo sta mandando in cancrena? No. I deputati laburisti e altri contrari a Corbyn pensano che egli sia la causa dell'antisemitismo nel loro partito. Si stanno prendendo in giro da soli. Questo tipo di veleno è organico alla politica 'progressista' britannica". L'idea mainstream che i progressisti hanno di Israele, prosegue l'autrice, è che sia il prodotto di un'usurpazione territoriale fatta ai danni dei palestinesi. "Questa idea su Israele è la posizione di default della sinistra, che sposa appieno la causa palestinese. Questo significa che i 'progressisti' britannici sostengono tutti i palestinesi fautori di un antisemitismo su modello nazista, che incitano all'omicidio di massa degli ebrei e sono guidati da un negazionista dell'Olocausto, Mahmoud Abbas, che venera l'alleato dei nazista Hai Amin al-Husseini. Perché, allora, i laburisti 'moderati' sono scioccati dal fatto che gli amici di Corbyn ripetano lo stesso tipo di bigotteria contro gli ebrei? La sinistra pensa di impersonare l'essenza della virtù e che dunque sia impossibile, per lei, essere associata con un fenomeno così malvagio ai danni di Israele. Eppure è così. Corbyn sarà pure un ultrà della sinistra radicale con il bagaglio anti Israele più estremo, ma non è la causa dell'antisemitismo del partito laburista. Ne è un prodotto. L'antisemitismo del Labour è il risultato di una crisi esistenziale che non riguarda soltanto il partito, ma la sinistra intera. Il Partito conservatore sarà pure al governo, nel Regno Unito, ma la sinistra controlla le università, la Bbc e il mondo artistico e culturale. E' il paese in sé, dunque, a non essere più un luogo sicuro per gli ebrei".
(Il Foglio, 21 maggio 2018)
Terzo ricovero per Abu Mazen. Rischio islamista per i palestinesi
di Giordano Stabile
Abu Mazen viene ricoverato per la terza volta in una settimana e la salute sempre più vacillante del leader palestinese rischia di innescare una nuova crisi in Medio Oriente. La successione alla carica di presidente è ancora tutta da definire e Israele teme l'ascesa di una leadership più radicale. L'82enne raiss è stato portato ieri in ospedale con una «febbre molto alta», dovuta a una infezione all'orecchio. Martedì aveva subito un piccolo intervento e venerdì era stato ricoverato per un controllo al cuore. Abu Mazen ha problemi cardiaci seri, è stato già sottoposto a una cateterizzazione nell'ottobre del 2016 per controllare la funzionalità del muscolo. A fine febbraio il presidente palestinese era stato ricoverato per alcune ore a Baltimora, durante la sua visita negli Stati Uniti. Gli attivisti palestinesi che si oppongono alla sua leadership sostengono che sia affetto da una malattia «grave», forse un «cancro al sistema digestivo», ma non ci sono conferme.
La variante decisiva
Secondo i servizi israeliani le condizioni di Abu Mazen sono comunque «in costante peggioramento da marzo». La sua salute è una variante politica decisiva, perché non c'è ancora un erede definito alla successione. Il mandato presidenziale è scaduto nel 2009. Nei Territori non si tengono elezioni generali dal 2006. I sondaggi non ufficiali danno Hamas in forte crescita in Cisgiordania, dove vivono 2,5 milioni di palestinesi, e in calo nella Striscia di Gaza, che ha 1,8 milioni di abitanti. Il rischio di una vittoria del movimento islamista non è quindi da escludere. Abu Mazen è finito nella bufera all'inizio di maggio, quando, durante il suo discorso al Consiglio nazionale palestinese (Pnc), ha indicato nelle «attività di usura» degli ebrei la causa della Shoah. Poi si è scusato ma il governo di Netanyahu lo ha accusato di antisemitismo. Nonostante alcuni passi falsi, però, l'erede di Arafat ha mantenuto la rotta lungo il percorso tracciato dagli accordi di Oslo ed è sempre stato ostile al rilancio della lotta armata.
Anche dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico da parte di Trump, il raiss ha preferito la via diplomatica e ha tenuto sotto controllo gli incidenti in Cisgiordania, mentre sulla frontiera fra Gaza e Israele ci sono stati oltre cento morti. Ora però dovrà dare indicazioni più chiare sulla sua successione. Dalla riunione del Pnc sono emersi soprattutto due nomi. Uno della vecchia guardia, il suo ex braccio destro Nabil Shaath, e uno della «nuova generazione», il 55enne Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat e teorico di una «Intifada diplomatica» per arrivare all'indipendenza della Palestina.
(La Stampa, 21 maggio 2018)
Israeliani sconosciuti: Hossam Haick
Professore di ingegneria chimica e nanotecnologia presso il Technion di Haifa è tra i 35 migliori scienziati al mondo. Sta lavorando alla creazione dello SniffPhone, un 'naso' elettronico che fiuterà il cancro allo stadio iniziale.
di Nicola Zecchini
Un giorno non molto lontano l'umanità arriverà ad individuare la presenza del cancro con uno smartphone, In che modo? Fiutando la malattia. L'idea e lo sviluppo del progetto appartengono a Hossam Haick, professore di ingegneria chimica e nanotecnologia presso il Technion di Haifa, divenuto in pochi anni una vera e propria superstar scientifica. Nato a Nazareth nel 1975, nonostante la sua giovane età Haick ha ricevuto più di quaranta premi e riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il Marie Curie Excellence Award ed il Prix du Conseil européen de la recherche (ERC). È stato anche nominato Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche dal governo francese e incluso dal MIT nel 2008 tra i 35 migliori scienziati dell'anno. Haick è attualmente a capo di un team di ricercatori tedeschi, austriaci, finlandesi, irlandesi e lituani per sviluppare il suo progetto più ambizioso al quale sta lavorando dal 2007: lo SniffPhone, nato dalle sue precedenti ricerche sulla composizione chimica delle molecole odoranti. Si tratta di una sorta di naso elettronico collegabile ad un telefonino in grado di rilevare il cancro allo stadio iniziale. Una tecnologia portatile ed economica che una volta perfezionata potrebbe rivoluzionare il processo di diagnosi sia in termini di accorciamento drastico dei tempi che di costi a carico del paziente. Il funzionamento è semplice e intuitivo come gonfiare un palloncino: basta soffiare in un piccolo imbuto tecnologico dotato di micro e nanosensori per trasmettere i dati rilevati ad uno smartphone che elabora le informazioni e visualizza la diagnosi direttamente sul display. Con un soffio potremmo tagliare di netto le tempistiche che occorrono per effettuare esami del sangue, biopsie o altri esami invasivi diagnosticando la malattia.
Al momento, sottoponendo all'esame diagnostico 1.400 pazienti che soffrivano di 17 diverse malattie, la nuova tecnica ha attribuito la diagnosi corretta nell'86% dei casi. L'idea alla base delle ricerche scientifiche condotte da Haick è che il nostro alito, come per esempio le nostre impronte digitali, sia una sorta di carta d'identità sanitaria in grado di rilevare la presenza di infiammazioni, disturbi neurologici e forme tumorali. "Noi possiamo insegnare al sistema che una determinata impronta del respiro potrebbe essere associata a una particolare malattia spiega Haick È la stessa cosa che si fa con i cani per spingerli a individuare specifici composti chimici. Avviciniamo qualcosa al naso del cane, il cane traduce il composto chimico in un segnale elettrico e lo fornisce al cervello, dopodiché lo memorizza in una determinata area cerebrale ma al posto del naso abbiamo a che fare con sensori chimici e al posto del cervello abbiamo gli algoritmi. Così in futuro il dispositivo può riconoscere la malattia come un cane riconosce un certo odore".
Haick è convinto che il Na-Nose, questo il nome del dispositivo, diventerà lo strumento principe nella rivelazione precoce delle malattie, comprese quelle asintomatiche, rivoluzionando i concetti stessi di medicina e prevenzione. Non chiamatela semplicemente un'applicazione.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
L'ambasciatore siriano in Russia chiarisce la posizione di Damasco
Damasco ritiene che gli attacchi contro obiettivi iraniani situati in Siria da parte d'Israele siano un'aggressione ed è pronta a difendere il proprio territorio, ha dichiarato l'ambasciatore siriano in Russia Riyad Haddad.
Martedì 15 maggio Israele ha bombardato una zona a sud di Damasco. Nella notte del 10 maggio Israele aveva denunciato che le forze iraniane avevano bombardato le Alture del Golan. Lo stesso giorno gli aerei israeliani avevano effettuato raid contro decine di obiettivi in Siria e batterie della contraerea. I militari dello Stato ebraico hanno spiegato che si trattava di una risposta al lancio di razzi della notte da parte dalle forze iraniane.
"La Siria ha la sua sovranità e qualsiasi attacco proveniente al di fuori del territorio della Siria è un'aggressione. Le nostre forze, tra cui la contraerea, difendono i cieli ed i territori siriani. Qualsiasi aggressione contro la Siria, da qualunque parte arrivi, verrà respinta", ha detto l'ambasciatore, rispondendo alla domanda dei giornalisti di Sebastopoli se Damasco sia disposta a difendere le strutture iraniane sul suo territorio.
(Sputnik Italia, 20 maggio 2018)
Morto Bernard Lewis, storico del Medio Oriente
A lungo contestato, lo studioso nato da una famiglia di origine ebraica, aveva studiato gli archivi ottomani, analizzando le tendenze in atto nel mondo arabo-musulmano.
di Antonio Carioti
Nella sua lunga esistenza lo storico inglese Bernard Lewis, scomparso all'età di 101 anni, era stato spesso contestato, anche duramente. Il fatto di avere dedicato la sua vita allo studio del Medio Oriente, regione funestata da una serie impressionante di conflitti sanguinosi dalla caduta dell'Impero ottomano in poi, lo aveva esposto a polemiche su temi molto delicati: il giudizio sulla decadenza araba, le stragi inflitte agli armeni, le vicende dello Stato d'Israele, la «guerra al terrore» dopo l'11 settembre. Ma neanche i suoi critici più feroci potevano negare la competenza e la passione di un autore che, dotato di conoscenze linguistiche eccezionali, sin da giovane aveva scandagliato gli archivi arabi e soprattutto ottomani, producendo lavori di indiscutibile eccellenza scientifica.
D'altronde Lewis si era dimostrato un passo avanti rispetto a tutti nell'analizzare le tendenze in atto nel mondo arabo-musulmano. Con un saggio comparso sulla rivista «Commentary» nel 1976, tre anni prima della rivoluzione khomeinista in Iran, aveva annunciato il ritorno della religione islamica come fattore politico di primaria importanza. E nel 2001, alla vigilia dell'attacco alle Torri gemelle, aveva pubblicato Il suicidio dell'Islam (Mondadori, 2002), un saggio nel quale si soffermava sulle persistenti difficoltà incontrate dalle società musulmane di fronte alla sfida della modernizzazione. Per molti versi alcuni suoi testi sulla conflittualità tra Islam e Occidente avevano anticipato la teoria dello «scontro di civiltà» (espressione che aveva usato già nel 1957) formulata negli anni Novanta da Samuel Huntington.
Nato a Londra il 31 maggio 1916 in una famiglia di religione ebraica, Lewis si era presto specializzato negli studi islamici e durante la Seconda guerra mondiale aveva operato nei servizi d'informazione britannici. Dopo il conflitto, a soli 33 anni, gli era stata assegnata nel 1949 la nuova cattedra in Storia del Vicino e del Medio Oriente presso la Scuola di studi orientali dell'Università di Londra. Più tardi sarebbe passato negli Stati Uniti alla Princeton University, dove insegnò dal 1974 al 1986, e avrebbe preso la cittadinanza americana nel 1982.
Il suo primo lavoro di grande risonanza, Gli arabi nella storia, era uscito nel 1950, per essere tradotto in Italia da Laterza nel 1995. Poi ne erano seguiti molti altri, diffusi in tutte le lingue più importanti, pubblicati a ritmo molto intenso a partire dagli anni Sessanta. In Italia era uscito innanzitutto Europa barbara e infedele (Mondadori, 1983), un testo sull'immagine del nostro continente coltivata dai musulmani, seguito da Semiti e antisemiti (il Mulino, 1990, poi riedito da Rizzoli nel 2003), un saggio in cui Lewis rigettava le accuse di razzismo rivolte a Israele e mostrava come l'ostilità araba e sovietica verso il sionismo si nutrisse ampiamente dell'antico pregiudizio antiebraico.
Ovviamente l'impegno a favore di Israele aveva attirato a Lewis notevoli antipatie, ma non era l'unico tema che lo aveva visto al centro di forti dispute. Molto acceso era stato negli anni Settanta il dibattito tra lui e l'intellettuale palestinese Edward Said, che nel libro Orientalismo (Feltrinelli) del 1978 aveva accusato gli studiosi occidentali di aver costruito una visione distorta del mondo arabo, condizionata da una mentalità eurocentrica e consona agli interessi delle potenze coloniali. Una requisitoria alla quale Lewis aveva replicato con argomenti efficaci, ricordando tra l'altro che l'interesse degli europei per l'Oriente era sorto ben prima delle imprese coloniali.
Aspri erano stati poi gli attacchi rivolti allo storico inglese per via della sua posizione sui massacri subiti dagli armeni durante la Prima guerra mondiale per mano dei turchi. Secondo Lewis era storicamente scorretto definire quei crimini un «genocidio» deliberato, poiché nei documenti, a suo avviso, non vi era prova che il governo ottomano li avesse programmati e ordinati. Si era quindi opposto al riconoscimento del genocidio armeno da parte del Congresso americano e nel 2004 era anche stato condannato da una corte francese a risarcire la somma simbolica di un franco alle associazioni armene per via delle affermazioni contenute in un'intervista rilasciata l'anno prima a «Le Monde».
Critiche ancora più severe erano piovute su Lewis per via del suo sostanziale appoggio all'invasione dell'Iraq da parte angloamericana, nel 2003, anche se lo storico orientalista si era sempre mostrato scettico verso il progetto neoconservatore di esportazione della democrazia. E aveva consigliato prudenza anche nei riguardi delle «primavere arabe», pur dicendosi convinto che l'Islam potesse imboccare una sua strada verso la libertà. Lungi dall'essere pregiudizialmente avverso al mondo musulmano, di cui aveva esplorato la storia e la civiltà con indubbia partecipazione emotiva per tanti decenni, Lewis era deluso e allarmato per le tendenze liberticide, teocratiche e violente che vi crescevano. E non si stancava di sottolineare la gravità del pericolo.
(Corriere della Sera, 20 maggio 2018)
"lsraele e Arabia più vicini, così cambia il mondo"
di Alain Elkann
Lionel Barber è direttore del Financial Times dal 2005 e ha contribuito a trasformarlo in un'agenzia di comunicazione globale e multicanale. «È il giornale della globalizzazione. Offre una prospettiva globale su politica, economia, finanza e affari. Abbiamo 568 giornalisti. La sede è a Londra, nella City ma abbiamo una rete mondiale di oltre 100 corrispondenti».
- Il FT va bene?
«Abbiamo circa 1 milione di lettori a pagamento, due terzi nel Regno Unito e negli Usa, 20% in Europa, e il resto in Asia. Il gruppo Nikkei, il nostro nuovo proprietario giapponese, è un investitore a lungo termine e ci garantisce un'assoluta libertà editoriale. Siamo molto soddisfatti»
- Il mondo sta andando come dovrebbe secondo il FT?
«Il presidente Trump è il Distruttore in capo. Sta mettendo in discussione non solo l'eredità del suo predecessore Obama, ma persino i fondamenti basilari dell'ordine liberale del dopoguerra. Dice che le alleanze sono scomode e vuole arrivare a un aggressivo bilateralismo. Non sono i nostri valori. Fondamentalmente è una sfida all'approccio europeo verso il mondo ed è anche molto diverso da ciò che disse un anno fa, quando esprimeva totale adesione ai valori della Nato».
- Cosa è cambiato?
«È entrato nel ruolo, ritiene di agire per il meglio, e ha cambiato squadra. I globalisti, come Gary Cohn e H.R. McMaster se ne sono andati e adesso è circondato da gente che crede nel bilateralismo più feroce. E pensa che il suo approccio fortemente transazionale si dimostrerà vincente. Un anno fa sono andato alla Casa Bianca a intervistarlo e c'era il caos più totale, sembrava un set cinematografico, gente che andava e veniva . Riuscii perfino a mettere il telefono sulla sua scrivania, un'evidente falla nella sicurezza. A settembre quando sono tornato tutto era stato risolto. Tuttavia, come ho scritto in aprile "c'è un po' più di metodo nella follia di quanto non appaia a prima vista". Non c'è ancora una vera procedura, perché Trump non crede nelle procedure e gli piace tenere tutti in bilico»
- È più professionale?
«No, per nulla; si diverte a infrangere le regole, a essere imprevedibile. la prima domanda per me è: in cosa crede veramente? E la seconda è: quanto del suo atteggiamento, i tweet, il voler essere al centro dell' attenzione, è in realtà solo una gigantesca distrazione da ciò che davvero accade? Ho chiesto a Bannon: "State facendo impazzire la gente, ma in realtà ci distraete?" E lui ha detto: "Sì. In Marina lo definivamo un tiro diversivo"».
- In che cosa crede Trump?
«Fondamentalmente, nel potere americano. Crede che l'America abbia combattuto troppe guerre oltreoceano. Se si pensa al costo dell'Iraq e dell'Afghanistan, 2,3 trilioni di dollari, si vede come nasce questa convinzione. Ed è anche convinto che il potere americano debba occuparsi delle minacce nucleari, in particolare del Nord Corea».
- E le sue idee sul riassetto economico dell'America?
«Ha una visione Anni 50 di ciò che ha reso grande l'America, basata sulla produzione manifatturiera. Pensa, secondo me a torto, che l'America non abbia beneficiato della liberalizzazione del commercio globale. E pensa anche che sia stata superata da altre nazioni, in particolare dalla Cina».
- Ma le sue azioni hanno provocato un'immediata reazione da parte della Cina, no?
«Normalmente, durante un negoziato, i presidenti calcolano il prezzo richiesto e finché sono disposti a negoziare. Trump inizia chiedendo il 99% e poi si ritira e aspetta di vedere fino a dove scende l'altro. Il suo stile di negoziazione è progettato per intimidire. Probabilmente ha capito che i cinesi si sarebbero vendicati, ma per lui sono solo affari».
- Trump ha rotto l'accordo con l'Iran. Cosa ne pensa?
«Che era prevedibile; l'ha detto che era il peggiore affare di sempre. Il paradosso è che se l'Iran riprende i suoi programmi nucleari, l'Arabia Saudita diventerà un'altra potenza nucleare. Il che potenzialmente è molto allarmante».
- E che mi dice di Israele?
« Trump è amico di Israele. I sauditi non saliranno sulle barricate per i palestinesi e nemmeno faranno storie per l'ambasciata Usa a Gerusalemme. L'avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele dà la misura di come stia cambiando il mondo. Non è un caso che Trump abbia scelto l'Arabia Saudita come meta del suo primo viaggio all'estero».
- Il bombardamento in Siria è una mossa contro la Russia?
«No, è stato prima concordato con la Russia, non è stata assolutamente una mossa antirussa. Partiva dal presupposto che chi usa armi chimiche va incontro a una risposta militare. Io lo definisco un approccio Abo (Anything But Obama - tutto tranne quel che ha fatto Obama) alla politica estera».
- Trump è contro l'Europa?
«No, ma è influenzato da persone come Nigel Farage, che lui considera un grande rivoluzionario. Per Bannon è un eroe. Per loro la Brexit è una liberazione».
- L'Europa si rimpicciolisce?
«L'Ue parla ma non agisce. Al vertice di Lisbona del 2000 si discusse di come rendere competitiva l'economia europea entro il 2010, ma non è andata così. Al momento siamo schiacciati tra l'America e il potere emergente della Cina. Merkel, Macron e Tony Blair dicono di aspettare che passi la tempesta, ma ora come ora sullo scacchiere geopolitico noi siamo forse alfieri, certo non re, né regine o torri».
(La Stampa, 20 maggio 2018 - trad. Carla Reschia)
Palestina: colpo di mano "alla turca". Ahed Tamimi nella dirigenza OLP
Abu Mazen copia Erdogan e con un colpo di mano alla turca nomina la nuova dirigenza palestinese riuscendo a scontentare tutti, anche i Paesi arabi. Tanto sa che Europa, Turchia e Iran lo appoggeranno.
Lultima trovata di Abu Mazen è stata quella di nominare Ahed Tamimi, la donna in carcere per aver dato uno schiaffo a un militare israeliano, quale "membro onorario" del Consiglio Nazionale Palestinese. Ma è solo l'ultima di una lunga serie di scelte che ha indispettito anche i Paesi arabi.
Aveva annunciato nuove elezioni il Presidente palestinese invece anche stavolta ha fatto tutto da solo nominando il "nuovo" Comitato Esecutivo della OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) senza passare per le elezioni, senza consultare nessuno, come un dittatore qualunque....
(Rights Reporters, 20 maggio 2018)
Ricoverato il presidente palestinese Abu Mazen
Il presidente palestinese Abu Mazen è stato ricoverato in Cisgiordania. Lo ha reso noto un esponente palestinese senza fornire dettagli sulle sue condizioni.
È la terza volta in una settimana che Mahmoud Abbas, 82 anni, va in ospedale. Martedì scorso era stato sottoposto a un semplice intervento a un orecchio ed era stato dimesso dopo poche ore. E venerdì era stato ricoverato di nuovo per poche ore.
(Le-ultime-notizie-eu, 20 maggio 2018)
L'Egitto ha un buon motivo per tenere a bada Hamas, e si vede
Il Cairo usa toni duri (e minacciosi) per contenere il gruppo palestinese a Gaza. L'intesa con Israele e la priorità del Sinai.
di Rolla Scolari
MILANO - Dopo il lunedì di violenza lungo il reticolato che separa Gaza da Israele, l'intensità delle proteste e il numero di manifestanti sono diminuiti. All'origine del ritorno alla calma, c'è la mediazione del vicino Egitto. Il Cairo aveva già provato domenica a mediare, quando "la marcia del ritorno" e le manifestazioni palestinesi non erano ancora cominciate, ma era già partita la mobilitazione da parte di Hamas, il gruppo islamista che controlla la Striscia di Gaza. Il capo dell'intelligence egiziano, il generale Abbas Kamel, ha convocato una delegazione di Hamas, guidata da uno dei suoi leader, Ismail Haniyeh, per convincere il movimento a cancellare la marcia di lunedì. Gli egiziani avrebbero offerto in cambio l'allungamento dei tempi di apertura del valico di Rafah tra Gaza ed Egitto, finora aperto meno di una settimana al mese a causa dell'embargo imposto sulla Striscia da Israele e dal Cairo.
Secondo fonti riportate in queste ore dalla stampa israeliana, non si sarebbe trattato di un incontro cordiale: due ore di toni poco pacati. I vertici di Hamas sono tornati a Gaza senza accettare l'offerta e cancellare la manifestazione, e il resto è noto: lunedì migliaia di manifestanti si sono avvicinati tra il fumo nero dei copertoni bruciati e il lancio di sassi al reticolato di separazione con Israele, e i tiratori israeliani hanno sparato uccidendo oltre 60 palestinesi, 50 dei quali, secondo la leadership della Striscia, membri delle milizie di Hamas.
I tentativi di mediazione egiziani sarebbero ricominciati proprio nel pomeriggio di lunedì, telefonicamente, mentre il numero delle vittime saliva. A rivelare il ruolo dell'Egitto sono stati sia i vertici palestinesi sia i politici israeliani. Il leader di Hamas Yahya Sinwar ha raccontato in un'intervista ad al Jazeera, emittente del Qatar(anche l'emirato avrebbe svolto un ruolo di mediazione), come l'Egitto abbia contribuito a sgonfiare le violenze. Dall'altra parte, il ministro dell'Intelligence israeliano Yisrael Katz ha fornito più dettagli. Il Cairo avrebbe in un certo senso minacciato Hamas, informando i suoi vertici di avere prove su come il movimento avrebbe finanziato le manifestazioni e istigato la folla a convergere verso la barriera. L'Egitto, ha detto Katz alla radio militare israeliana, avrebbe "inequivocabilmente" detto a Ismail Haniyeh che, "se la situazione fosse proseguita, Israele avrebbe preso misure molto dure e l'Egitto si sarebbe fatto da parte". Benché il Cairo, come tutta la comunità internazionale, abbia condannato l'eccessivo uso della forza da parte dell'esercito israeliano, la posizione del regime del presidente Abdel Fattah al Sisi nei confronti di Israele è stata contenuta rispetto a quella di altri paesi della regione. Soltanto mercoledì, due giorni dopo l'effettivo trasferimento da Tel Aviv, il generale ha dichiarato che la controversa apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme potrebbe fomentare "una certa instabilità".
L'Egitto ha un interesse immediato nel mantenere la situazione calma a Gaza e rapporti solidi con il vicino israeliano. A inizio mese, il suo esercito ha informato i vertici militari israeliani di un rafforzamento della presenza dei soldati egiziani lungo i confini, nella instabile provincia del Sinai. Da febbraio è in corso nel nord della penisola un'operazione contro gruppi jihadisti. Un attacco contro una moschea della zona, a novembre, ha ucciso quasi 300 persone. E ora il regime è preoccupato: teme che con il collasso dello Stato islamico in Iraq e Siria decine di uomini armati possano trovare rifugio nell'area. Benché il trattato di pace tra Israele ed Egitto siglato nel 1979 preveda che il Sinai resti una zona demilitarizzata, in caso di emergenze nazionali e in presenza di un'intesa tra le parti è possibile un aumento di truppe. Dal 2013, il regime del Cairo cerca di debellare dalla penisola la presenza jihadista, e per questo la cooperazione militare con Israele è fondamentale, quanto il fatto che a Gaza regni la calma.
(Il Foglio, 20 maggio 2018)
La faccia tosta del turco Erdogan
Lettera a "Libero"
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non finisce di meravigliare per la sua faccia tosta affermando che quello che si sta verificando tra Israele ed i palestinesi è un genocidio. Lui dovrebbe essere l'ultima persona a fare tali dichiarazioni vista quanto fecero i turchi contro gli armeni e lui, oggi, contro i curdi.
Armando Vidor loano (Savona)
(Libero, 20 maggio 2018)
«Le nazioni si sono adirate, ma la tua ira è giunta»
Poi il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo si alzarono voci potenti, che dicevano: «Il regno del mondo è passato al nostro Signore e al suo Cristo ed egli regnerà nei secoli dei secoli».
E i ventiquattro anziani che siedono sui loro troni davanti a Dio, si gettarono con la faccia a terra e adorarono Dio, dicendo: «Ti ringraziamo, Signore, Dio onnipotente, che sei e che eri, perché hai preso in mano il tuo grande potere, e hai stabilito il tuo regno. Le nazioni si sono adirate, ma la tua ira è giunta, ed è arrivato il momento di giudicare i morti, di dare il premio ai tuoi servi, ai profeti, ai santi, a quelli che temono il tuo nome, piccoli e grandi, e di distruggere quelli che distruggono la terra».
Allora si aprì il tempio di Dio che è in cielo e apparve nel tempio l'arca del patto. Vi furono lampi e voci e tuoni e un terremoto e una forte grandinata.
(Dal libro dell'Apocalisse, cap. 11)
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Giorni fatidici
Che cosa è successo dalla dichiarazione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 a quando David Ben Gurion Dichiarò la fondazione dello Stato di Israele?
di Yaacov Sholnik*
Nel 1917 la Gran Bretagna conquistò la Terra d'Israele dall'Impero Ottomano. Iniziò così il periodo del Mandato britannico sulla regione. Dal punto di vista culturale, le autorità mandatarie concessero autonomia agli abitanti del Paese. La Terra di Israele divenne il centro culturale del mondo ebraico. Fiorirono l'educazione ebraica, il teatro, la letteratura, la stampa e altre forme d'arte. L'ebraico divenne una lingua vibrante e un comune denominatore per la gente.
La popolazione ebraica nelle città crebbe. L'ascesa al potere dei nazisti portò negli anni '30 all'immigrazione di circa 180.000 persone, fra le quali vi erano molti liberi professionisti, scienziati e industriali tedeschi. Nuovo capitale e spirito di iniziativa spinsero in avanti l'economia ebraica, mentre, al contempo, il Sionismo riuscì a sviluppare un quadro politico. Il KKL acquistò alacremente terreni e contribuì a fondare nuovi insediamenti.
Questa situazione non era gradita agli arabi, ed episodi di violenza tra arabi ed ebrei, e anche contro gli inglesi, trascinarono il Paese nel caos totale. Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la cessazione del Mandato e il Piano di Spartizione per uno stato ebraico, uno stato arabo e un'area internazionale a Gerusalemme e dintorni. Gli arabi si opposero, e scoppiò la guerra di indipendenza.
Guerra civile verso uno Stato nascente
Inizialmente la guerra fra gli abitanti del Paese si svolse come una sorta di guerra civile: 1.200.000 arabi, contro 630.000 ebrei. Gli arabi puntarono maggiormente a isolare le vie di accesso agli insediamenti ebraici, mentre gli ebrei cercarono di sfondare i blocchi con convogli di camion e autobus blindati (cosiddetti "sandwich"). Alcune carcasse di blindati costeggiano ancora oggi la strada che conduce a Gerusalemme.
Fu una guerra difficile. A marzo del 1948, erano stati uccisi 1.200 ebrei, metà dei quali civili, nonostante gli arabi non fossero riusciti a conquistare nemmeno un insediamento ebraico. Il disastro sul piano della sicurezza trovò espressione a livello politico: il 19 marzo, il rappresentante degli Stati Uniti propose alle Nazioni Unite di annullare il piano di spartizione e di reintrodurre un'amministrazione fiduciaria internazionale in Terra di Israele.
Gli ebrei capirono allora che era necessario cambiare strategia. Il 3 aprile 1948, dopo l'arrivo di un grosso carico di armi dalla Cecoslovacchia, le forze ebraiche lanciarono il primo attacco nell'ambito dell'operazione Nachshon. Una forza di 1.500 persone conquistò terreno sulla strada per Gerusalemme, nel tentativo di imprimere un cambiamento su questo fronte. La battaglia del 9 aprile per la conquista di Deir Yassin (oggi nei pressi di Giv'at Shaul, a Gerusalemme) provocò molti morti fra i residenti e demoralizzò gli arabi. L'indomani, l'Esercito arabo di Salvezza attaccò Mishmar Ha'emek, al fine di circondare la città di Haifa, ma l'attacco fallì. Altrove, di fronte all'addestrata Legione araba, lo Yishuv ebraico subì delle sconfitte. Il 13 maggio 1948 cadde Gush Etzion e gli insediamenti circostanti furono evacuati, così come l'impianto di potassio nel Mar Morto settentrionale e il Kibbutz Beit Ha'arava. Gerusalemme era completamente sotto assedio.
La "Casa del KKL'' a Tel Aviv. Sede del Parlamento e del Governo
David Ben Gurion, a capo del governo provvisorio, si trovava di fronte a una decisione difficile: da una parte, qualora avesse dichiarato uno stato indipendente, era chiaro che gli stati arabi lo avrebbero invaso da ogni direzione, mettendo in pericolo l'intera impresa sionista. Solo per miracolo l'Yishuv ebraico sarebbe stato in grado di resistere agli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Iraq e Libano. Dall'altro lato, rinviare la dichiarazione d'indipendenza avrebbe potuto fornire agli inglesi ulteriori motivi per opporsi al piano di partizione, e il momento storico per avere uno Stato indipendente sarebbe potuto non tornare mai più. All'inizio di maggio del 1948 furono gettate le basi: David Ben Gurion decise di "scommettere tutto il piatto" e dichiarare la fondazione dello Stato di Israele. In quei giorni era impossibile tenere nella Gerusalemme assediata le sedute del Consiglio popolare (la Knesset) e del Governo provvisorio. Gli incontri si tenevano dunque alla sede del KKL, la cosiddetta "Casa del KKL'', in via Herman Shapira a Tel Aviv, proprio nei pressi dell'odierno Dizengoff Center. Chiunque visiti l'edificio, vedendo la stanza dove Ben Gurion presiedeva le sedute del Consiglio Popolare, stenterebbe a credere che in un luogo così piccolo siano state prese delle decisioni così fatidiche: qui fu presa la decisione di proclamare lo Stato; qui fu discusso il testo della Dichiarazione di Indipendenza (una delle versioni è ancora ivi esposta), e qui fu anche stabilito che il nome del nuovo Stato sarebbe stato Israele.
Retroscena della proclamazione dello Stato
La cerimonia della proclamazione dello Stato avrebbe dovuto svolgersi, in gran segreto, nella sala del Consiglio Popolare presso la "Casa del KKL''. Un vero e proprio Governo non c'era ancora, ma le fughe di notizie c'erano eccome! La notizia della cerimonia trapelò, e la sala del KKL era troppo piccola per tutti i notabili che volevano prendervi parte; pertanto, fu necessario trovare un altro posto. Il luogo cui toccò questo onore fu la casa di Meir Dizengoff, il primo Sindaco di Tel Aviv, al 16 di Rothschild Boulevard.
La cerimonia della dichiarazione dello Stato era fissata per il 14 maggio 1948, alle quattro del pomeriggio. Soltanto alle tre di quel giorno, ancora presso la "Casa del KKL'', fu approvato il testo finale del rotolo della dichiarazione di indipendenza. Mancava soltanto un'ora alla cerimonia. I membri dell'assemblea erano già in viaggio sui taxi; ma Zeev Sherf, segretario di gabinetto, aveva ancora alcune incombenze. A soli 20 minuti dalla cerimonia, con il rotolo del testo in mano, uscì dalla "Casa del KKL'' e si incamminò a piedi verso l'edificio di Rothschild Boulevard. Guardò l'orologio e si rese conto che non sarebbe mai arrivato in orario. Per fortuna per strada Zeev Sherf si imbatté in un poliziotto e gli chiese di fermare una macchina. Il poliziotto fermò la prima macchina in transito e spiegò la questione all'autista. L'automobilista però si rifiutò di dare un passaggio al Segretario. "Che cosa? Ma è pazzo?". Aveva fretta di rientrare a casa. Con difficoltà il poliziotto riuscì tuttavia a convincere il conducente a portare Sherf a destinazione.
Lungo il tragitto Zeev Sherf scoprì la vera ragione dell'iniziale rifiuto dell'automobilista a dargli un passaggio: non aveva la patente di guida! Alle quattro meno due minuti Sherf balzò su per i nove gradini che portano da Rothschild Street al civico 16, ed entrò nella sala principale. li tesissimo David Ben Gurion tirò un sospiro di sollievo.
Ben Gurion lesse il testo della Dichiarazione di indipendenza da un foglio di carta. Quando i membri del Consiglio popolare andarono a firmare la Megillah si accorsero, con loro grande stupore, che si accingevano a firmare una pergamena vuota. Il calligrafo Otto Walisch non aveva avuto neanche il tempo di copiare la versione finale del testo sulla pergamena.
A 33 minuti dall'inizio della cerimonia, David Ben Gurion concluse con le parole: "Lo Stato di Israele è sorto ... Questa seduta è conclusa".
L'indomani l'Aeronautica egiziana bombardò Tel Aviv ...
* Nato in Israele nel 1954. È stato membro del kibbutz Malkiya e guida turistica nella Haganat Hateva. Laureato presso la Facoltà di Agraria all'Università Ebraica di Gerusalemme, è uno storico dello Stato di Israele.
(Karenu, Rivista della fondazione KKL, maggio 2018)
Erdogan a caccia di voti rivuole Gerusalemme musulmana
In piazza a Istanbul, Erdogan elettorale si fa paladino dell'islam offeso a Gaza e tra slogan contro l'Occidente e insulti a Israele, propone la riconquista musulmana di Gerusalemme, non più contro i 'crociati' (anche contro di loro sul fronte americano), ma soprattutto contro l'attuale dominio ebraico.
Gerusalemme musulmana
Erdogan rivuole Gerusalemme musulmana. Venerdì della collera «à la Turka», lo chiama Marta Ottaviani su La Stampa, «con il presidente della Mezzaluna, Recep Tayyip Erdogan, che ha coniugato l'azione diplomatica, con quella, dirompente, della piazza dalla quale il capo di Stato ha lanciato un messaggio non solo a Israele, ma a tutto l'Occidente: l'Islam non è disposto a fare un passo indietro su Gerusalemme e deve coalizzarsi per lottare per quella che non è solo una città, ma un simbolo».
Questo mentre i leader per l'Organizzazione della Conferenza Islamica si sono date appuntamento sulla Costa del Mar di Marmara dietro lo slogan «Stop alla persecuzione, solidarietà a Gerusalemme».
Ramadan elettorale
Per Erdogan, il prossimo 24 giugno, a fine digiuno sacro ma con l'economia turca che tentenna, alla prova decisiva. E qui 60 morti palestinesi a Gaza, lo possono aiutare. E nel suo comizio, più predicatore che capo di Stato, Erdogan lancia la sua sfida non solo a Israele, ma all'Occidente intero. Erdogan, insolito, che indossava una kefiah con ricamate all'estremità le bandiere turca e palestinese. «Gerusalemme - ha esordito il presidente non è solo una città, è un simbolo». Erdogan incendiario, da quanto riporta Marta Ottaviani: «I sionisti che vedono i musulmani come nemici non possono esser perdonati».
Poi un azzardo compromettente.
«Abbiamo conquistato Gallipoli, conquisteremo anche Gerusalemme». Memorie di Impero ottomano nel lontano 1915, quell'impero musulmano perduto a cui al quale lui, presidente-sultano, vorrebbe tornare.
(Remocontro, 19 maggio 2018)
Erdogan vuole portare l'esercito turco a Gaza. «Libereremo Gerusalemme»
Era scontato che Erdogan avrebbe approfittato dei fatti di Gaza per ribadire la sua leadership nella Fratellanza Musulmana e nel mondo islamico. E adesso punta a portare i militari turchi nella Striscia di Gaza
l dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, ha chiesto (ancora una volta) alle nazioni musulmane di unirsi contro Israele per «riprendersi Gerusalemme». Ha rispolverato l'idea della costruzione di un "esercito islamico" che con la scusa di difendere i palestinesi dovrebbe «estrarre il pugnale piantato nel cuore dell'Islam», cioè Israele.
La chiamata all'unità del mondo islamico contro Israele è arrivata ieri, prima attraverso la riunione speciale della Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) che ha emesso un documento finale nel quale si condannano i "crimini israeliani", poi durante una manifestazione organizzata per mostrare la solidarietà turca ai palestinesi durante la quale tra lo sventolio di bandiere turche e palestinesi la folla ha chiesto a gran voce a Erdogan «di condurre il popolo musulmano alla riconquista di Gerusalemme»....
(Rights Reporters, 19 maggio 2018)
Gelo ebrei-Pd per la condanna a senso unico sui fatti di Gaza
Comunità ebraica irritata
di Alberto Giannoni
MILANO - A cinque giorni dai fatti di Gaza è gelo fra Comunità ebraica e Pd. Un gelo che non sarà semplice da superare, neanche con gli imminenti prevedibili incontri chiarificatori. Nella Comunità serpeggia delusione e irritazione per le prese di posizione dei Dem milanesi, che nella valutazione dell'accaduto sono apparsi sorprendentemente sbilanciati e unilaterali, in stile «vecchia sinistra». E pensare che su questo fronte il Pd pareva cambiato davvero (rispetto al Pci), tanto che il suo servizio d'ordine da qualche anno meritoriamente consente alla Brigata ebraica di sfilare al corteo del 25 aprile in tutta serenità, al riparo dall'aggressione degli estremisti. Ora il Pd sembra riportare indietro le lancette dell'orologio. La deputata Lia Quartapelle, ex capogruppo in commissione Esteri, considerata «amica» anche come artefice della medaglia d'oro alla Brigata ebraica, ha definito «oltraggiosa» l'apertura della nuova ambasciata Usa. E la stessa Quartapelle che aveva intitolato un suo saggio da esperta «Siamo tutti fratelli musulmani». Il gruppo comunale del Pd, invece, ha licenziato un comunicato che individua nella «irresponsabile decisione di spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme» la «causa di nuove gravi tensioni». La Comunità si è vista costretta a rispondere, manifestando «grande rammarico» per il fatto che le preoccupazioni del Pd si fossero tradotte «con la sola condanna di Israele per avere difeso il confine», mentre mancava analoga condanna nei confronti di Hamas (che di quei «Fratelli» è la sezione palestinese). Impossibile non notare che la linea del gruppo Pd (in mano alla sinistra interna) fosse quasi sovrapponibile a quella di Sumaya Abdel Quader, la consigliera musulmana che l'anno scorso ha preso parte a un'iniziativa del Bds Lombardia, sigla che promuove il boicottaggio di Israele.
(il Giornale, 19 maggio 2018)
Erdogan e la rabbia islamica. "Conquistiamo Gerusalemme".
In piazza con i sostenitori del leader turco, tra slogan contro l'Occidente e insulti a Israele "Invito tutti i musulmani ad agire contro i sionisti". A Istanbul summit dei Paesi islamici
Non c'è differenza tra le atrocità subite dagli ebrei e la brutalità che i fratelli di Gaza stanno subendo
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Se non combattiamo per Gerusalemme, daremo un segnale di grande debolezza all'Occidente
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I sionisti che vedono noi musulmani come i loro nemici non possono essere perdonati
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di Marta Ottaviani
ISTANBUL - E' stato un vero e proprio venerdì della collera «à la Turka», con il presidente della Mezzaluna, Recep Tayyip Erdogan, che ha coniugato l'azione diplomatica, con quella, dirompente, della piazza dalla quale il capo di Stato ha lanciato un messaggio non solo a Israele, ma a tutto l'Occidente: l'Islam non è disposto a fare un passo indietro su Gerusalemme e deve coalizzarsi per lottare per quella che «non è solo una città, ma un simbolo».
E così, mentre i leader per l'Organizzazione della Conferenza Islamica si riunivano d'urgenza nel centro di Istanbul, decine di migliaia di persone, ma molte meno delle attese, secondo la poca stampa di opposizione rimasta nella Mezzaluna, si sono date appuntamento sulla Costa del Mar di Marmara sotto lo slogan «Stop alla persecuzione, solidarietà a Gerusalemme».
Sono state a centinaia le persone che hanno iniziato ad ammassarsi nel quartiere di Laleli, vicino alla spianata di Yenikapi, fin dalla prima mattinata. Ognuno con la sua storia e la sua concezione della storia, tutti con un obiettivo comune: combattere Israele e, per estensione tutto l'Occidente. Fuori dalla Bodrum Camii, in un reticolo di vie e palazzi tutti uguali, un tempo regno dei russi, oggi appannaggio dei grossisti che parlano arabo, è facile perdersi. Ruota tutto attorno a questa minuscola moschea, i cui interni sono stati intonacati secoli fa, dopo la caduta di Costantinopoli. Chi si reca a pregare qui, non lo sa, ma questo è uno degli edifici più antichi di Istanbul, costruito su quello che rimaneva del Palazzo dell'imperatore romano Lecapeno.
Un passato che, in qualche modo, ritorna, ma sotto forma di acredine nelle parole dei fedeli all'uscita dopo la preghiera del pranzo. «Gerusalemme è nata musulmana e morirà musulmana» afferma Mustafa, che vende cinturini per orologi poco distante.
C'è poi chi segue la strada del complotto internazionale: «Gerusalemme- spiega Ramazan, che si chiama proprio come il mese del digiuno sacro - , è la battaglia che non possiamo perdere. Se rinunciamo l'Islam darà all'Occidente un segnale di debolezza». Menti in cui l'odio è stato instillato scientemente giorno dopo giorno e che aspettano solo le parole del residente Recep Tayyip Erdogan per aver conferma che sono sulla strada giusta. Il capo di Stato è arrivato a Yenikapi con una delegazione dei leader che partecipavano alla riunione straordinaria dell'Oic.
Verso le elezioni
Il grande protagonista della giornata, che il prossimo 24 giugno, con l'economia turca che tentenna, sarà chiamato a un importante test elettorale, non li ha delusi. In meno di 40 minuti, il capo di Stato ha lanciato la sua sfida non solo a Israele, ma all'Occidente intero. Erdogan, che indossava una kefiah con ricamate all'estremità le bandiere turca e palestinese. «Gerusalemme - ha esordito il presidente turco - non è solo una città, è un simbolo». E qui, il primo boato della folla. Il capo di Stato, ha voluto sottolineare con forza che essere contro il sionismo non significa essere contro gli ebrei. Ma, per il resto, il suo discorso è stato incendiario. «I sionisti che vedono i musulmani come nemici non possono esser perdonati», ha detto, sottolineando che l'Islam deve essere unito nella difesa di quella città che ora ufficialmente è la capitale dello Stato di Israele.
E mentre la folla sventolava bandiere palestinesi, turche e qualcuna anche dell'Asia Centrale, dove il mito della grande regione panturca è particolarmente vivo, Erdogan ha lanciato il messaggio più inquietante: «Abbiamo conquistato Gallipoli, conquisteremo anche Gerusalemme». Il richiamo è al respingimento delle truppe inglesi e francesi nel marzo 1915, a quel Mediterraneo carico di conflitti, dove esisteva ancora l'Impero Ottomano e al quale il presidente turco vuole tornare, come un'età dell'oro perduta. Oggi, però, sulla pelle di tutta la comunità internazionale.
(La Stampa, 19 maggio 2018)
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Erdogan alla conquista del mondo musulmano. Nel silenzio europeo
L'Occidente, soprattutto Bruxelles, non ha ancora imparato a relazionarsi al leader turco, probabilmente sottovalutandolo.
di Marta Ottaviani
Un occhio al mondo islamico, un occhio alla campagna elettorale, ma soprattutto un messaggio chiaro, e poco conciliante all'Occidente. Credo sia questo il messaggio ultimo del "venerdì della collera a la turka". Recep Tayyip Erdogan ha voluto fare capire a tutti che i tentativi di dividere la comunità musulmana si riveleranno inutili e che anzi potrebbero essere la spinta definitiva per favorire la sua riunione e la lotta contro un nemico comune, che con poca fantasia, ha tre attori principali: gli Stati Uniti, Israele e l'Unione Europea.
La causa palestinese, qui, più che un fine è un mezzo. La certezza che davanti a un movente del genere anche chi ne resterebbe fuori volentieri, come l'Arabia Saudita e l'Egitto, in realtà non può tirarsi indietro.
Una visione distorta della Storia, dove il passato non serve a riflettere sul presente, ma a rinfocolare vecchi attriti. "Ci siamo presi Gallipoli nel 1915, ci prenderemo anche Gerusalemme", ha tuonato Erdogan, sottolineando che lui non ha nulla contro gli ebrei e che i nemici sono i sionisti. Sarà anche così, ma la manifestazione di ieri aveva una connotazione religiosa fortissima, oltre a essersi svolta nel primo venerdì di Ramadan.
Il discorso del presidente è stato anticipato da una preghiera, molti dei partecipanti avevano fascette o altri ornamenti con frasi del Corano dipinte sopra, "Allah Akbar" sono state le parole più ripetute della folla. "Gerusalemme non è solo una città, è un simbolo" ha detto Erdogan, scatenando l'entusiasmo delle decine di migliaia di persone presenti, che però avrebbero potuto essere molte di più.
Del resto, in vista del voto del 24 giugno, il capo di Stato di utilizzare tutti i simboli a disposizione ha assolutamente bisogno. E quindi se tre giorni fa c'era la foto con il giocatore turco-tedesco Ozil e ieri la chiamata alla lotta per la difesa di Gerusalemme, domani ci sarà il comizio a Sarajevo. Il primo comizio all'estero del leader turco per scopi elettorali interni.
Questo servirà a Erdogan per creare un precedente importante. In Bosnia vivono molti studenti che si sono trasferiti lì per studiare e poi hanno deciso di rimanerci. Come altri Paesi balcanici sta entrando nell'orbita di Bruxelles che, tardivamente, si è accorta che su quella regione gravitano anche gli appetiti di Russia, Turchia e Cina.
Dei tre, però, la Mezzaluna è il più pericoloso di tutti, perché non mira tanto all'aspetto economico, quanto all'influenza sulle popolazioni di origini musulmane, quelle nei Balcani e quelle che già vivono in Unione Europea. È un passato che ritorna, quello ottomano, fatto di una visione forse troppo romantica, della Storia, di flussi demografici e di ambizioni che impatteranno direttamente sulla quotidianità degli europei. Perché quando Erdogan parla si rivolge a tutto il mondo musulmano, si sente autorizzato ad agire come garante per quelli che considera tutti la sua gente.
L'Occidente, soprattutto Bruxelles, non ha ancora imparato a relazionarsi a questo leader e probabilmente lo stanno sottovalutando. Con buona pace di Erdogan, che se dal punto di vista diplomatico porta a casa risultati spesso deludenti, da quello dell'influenza e del soft power sta tessendo una tela nella quale rischiamo di rimanere intrappolati tutti.
(formiche.net, 19 maggio 2018)
I veri nemici del popolo palestinese
di Rita Faletti
L'antefatto lo conosciamo, il fatto è il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, ora capitale politica oltre che simbolo .religioso del popolo ebraico. Esultano gli israeliani, insorgono i palestinesi che rivivono in questi giorni la frustrazione e la rabbia della "nakba", la catastrofe della sconfitta degli eserciti arabi nella guerra contro Israele del 1948, anno della fondazione dello Stato ebraico e della fuga dei palestinesi nei Paesi vicini. Allora gli arabi giurarono che avrebbero distrutto Israele, Israele si espresse a favore della costituzione di uno Stato palestinese. Oggi, a settant'anni da quegli eventi, il tempo sembra essersi fermato, mentre il conflitto israelo-palestinese continua e il progetto di uno Stato palestinese sembra evaporato. Le responsabilità sono un po' di tutti, meno di tutti dei due popoli direttamente coinvolti, non di tutti i loro capi che si sono avvicendati alla loro guida, meno di tutti di Israele, che, più di tutti, aspira alla pace. E' una convinzione, questa, che nasce dai fatti e dalle innegabili conseguenze del rapporto causa-effetto che spiega il divenire della storia.
In questi difficili giorni di maggio, lungo il confine con la Striscia di Gaza, il furore muove masse di palestinesi verso la cosiddetta linea rossa, che le autorità israeliane vietano di oltrepassare. Armate di fionde e pietre, dal fumo denso di pneumatici dati alle fiamme, emergono figure di giovani e di donne impegnati a colpire le postazioni militari schierate sul lato opposto Lo scenario è lo stesso di sempre e la
La solitudine in cui si trova lo Stato ebraico l'ha reso consapevole del fatto che la difesa della propria popolazione e del proprio territorio è unicamente affidata alla determinazione della sua politica e alla forza indubbia delle sue armi.
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risposta, come sempre, non si fa attendere. L'esercito israeliano è abituato alla violenza del nemico e risponde con metodi violenti: sessantadue morti e numerosi feriti. Puntualmente arriva la condanna da paesi amici e nemici, che fingono di ignorare due cose fondamentali: il diritto dello Stato di Israele di esistere, sempre negato dagli arabi, e a difendersi. La solitudine nella quale si trova lo Stato ebraico lo ha reso consapevole del fatto che la difesa della propria popolazione e del proprio territorio è unicamente affidata alla determinazione della sua politica e alla forza indubbia delle sue armi. La guerra dei sei giorni del 1967 combattuta contro sei Stati arabi, si sarebbe dovuta concludere con l'annientamento delle forze israeliane, "spazzeremo la baracca sionista", si concluse invece con l'umiliazione del nemico arabo e delle sue strategie militari.
Bombe suicide, raffiche di missili, sofisticati tunnel di attacco, non sono fortunatamente riusciti a piegare il piccolo Stato dove il valore della vita e il sentimento di felicità si sono dimostrati più forti dell'odio e dell'invidia che li perseguita. E se l'invidia ha "diritto" di asilo tra i sentimenti umani, nei confronti di Israele è giustificata da buoni motivi: dalla sua fondazione ad oggi, Israele è diventata una delle nazioni più ricche, più libere, più tecnologicamente avanzate e istruite del mondo. E questo nonostante il pericolo ininterrotto di attacchi cui è esposta in un mondo dominato dall'ambiguità e dal cinismo e nonostante le sofferenze estreme che ha patito nei secoli e che qualche imbecille ha la spudoratezza di negare.
Se una ragione esiste, e certamente esiste, che spieghi il coraggio e la serenità degli israeliani, essa va ricercata nella convinzione incrollabile di una fede: la missione affidatale da Dio di realizzare i suoi piani.
Per un islamico andare alla preghiera è come andare alla vittoria. La sconfitta, quindi, è qualcosa di insopportabile che reclama la vendetta. Per questo il successo degli ebrei è intollerabile, come il loro amore per la vita invece dell'amore per la morte.
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Un aspetto che li avvicina agli arabi, rigidi osservanti della dottrina islamica, ma, secondo le statistiche, dagli esiti opposti: gli arabi sembrano essere depressi e tristi. Qual è la spiegazione allora? La promessa dell'islam ai suoi fedeli non è l'amore, bensì il successo. Per un islamico andare alla preghiera è come andare alla vittoria. La sconfitta, quindi, è qualcosa di insopportabile che reclama la vendetta. Le sconfitte subite, non solo militari, ma anche economiche e culturali (gli arabi sono tra i popoli meno liberi, meno istruiti e i più poveri del mondo, eccezion fatta per i Paesi produttori di petrolio) rendono il successo degli ebrei intollerabile, come intollerabile è il loro amore per la vita contrapposto all'amore per la morte. Per un arabo uccidere un ebreo significa uccidere quella felicità, ecco che il sacrificio di sé del kamikaze acquista un valore nel mondo islamico. "Proprio come voi amate la vita, noi amiamo la morte" è scritto in un manuale di scuola palestinese per studenti delle medie. Tornando al diritto di Israele a difendersi, la distruzione di postazioni militari iraniane in Siria e delle basi missilistiche di Hamas nella Striscia non sono stati atti di pirateria aerea, le sessanta vittime palestinesi non sono state il brutale compiacimento dell'efficienza militare, ma le reazioni a un mai accantonato piano di aggressione che ha la finalità di distruggere Israele e che porta la firma di Teheran dal tempo della rivoluzione khomeinista. L'asse Washington-Riyad-Tel Aviv in funzione anti-iraniana potrà aprire prospettive nuove, con Putin nella funzione di "pompiere" che gli è stata assegnata in Medioriente e con la fiducia di Netanhyau.
E l'Europa? Il vecchio continente è ostaggio di ipocriti imperativi morali e della retorica pacifista che stigmatizzano Israele e stendono un velo su responsabilità antiche che risalgono agli anni della caduta dell'Impero ottomano e del successivo smembramento secondo i precisi interessi di alcune nazioni. Non si sono nemmeno accorti, alcuni Stati europei, che il pregiudizio antisionista è stato superato persino da qualche Stato arabo La Giordania è uno di questi. Il suo re, Abdullah II, ha affrontato il tema della convivenza impossibile tra Israele e i Paesi arabi, attribuendone la causa all'antisemitismo islamico rintracciabile nel Corano e collegato all'ossessione complottista contemporanea che attribuisce ogni male agli ebrei. Il complotto ebraico è evocato anche nello Statuto di Hamas, movimento notoriamente estremista, fanatico e terrorista, purtroppo scelto dai palestinesi come loro guida politica.
(RTM, 19 maggio 2018)
Netanyahu: "A tutti i musulmani auguro Ramadan kareem"
Le forze di sicurezza israeliane rimarranno in stato di allerta al confine con la Striscia di Gaza, in previsione della ripresa della "Marcia del ritorno" in questo primo venerdì della festa del Ramadan. E anche in Cisgiordania vi sarà un aumento del dispiegamento di forze. Mentre il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, attraverso i suoi canali social, parla ai "musulmani d'Israele e del mondo", augurando loro un buon inizio per il Ramadan - e auspicando che la festa sia occasione di "pace e prosperità per tutti" -, i vertici militari e di polizia del paese danno istruzioni affinché la guardia rimanga alta: sul confine con Gaza ma anche in Cisgiordania si prevedono infatti nuovi scontri, in particolare con l'avvicinarsi della sera, quando ci sarà la rottura del digiuno.
A giustificare le preoccupazioni israeliane, le parole di uno dei leader del movimento terroristico di Hamas, Ismail Haniyeh, che nelle scorse ore ha auspicato che le violenze si espandano anche alla West Bank. "La Marcia del Ritorno continuerà fino a quando non raggiungerà i suoi obiettivi, tra i quali esprimere opposizione all'accordo di pace Trump - le parole di Haniyeh, riportate dal Canale 10 israeliano - La marcia non si fermerà fino a quando il blocco sulla Striscia di Gaza non sarà stato completamente revocato. Non accettiamo mezze soluzioni".
Secondo il sito israeliano Ynet, nelle ultime sei settimane i miliziani di Hamas hanno posizionato più di 100 cariche esplosive lungo il confine, utilizzando le proteste come copertura. A causa della natura semi-militare e semi-civile dei disordini sul confine con Gaza, spiega ynet, la sede centrale della divisione militare israeliana che si occupa dell'area ha inaugurato una speciale sala per le operazioni di intelligence, che raggruppa tutti gli aspetti del lavoro di raccolta di informazioni di quanto accade nell'enclave sotto il controllo di Hamas: dalle fotografie con i droni ai filmati prodotti dagli stessi palestinesi o dai media arabi durante le proteste. d.r.
(moked, 18 maggio 2018)
In difesa di israele: "Sui fatti di Gaza c'è una narrazione faziosa"
di Massimo Finzi
A proposito dei fatti di Gaza confesso di assistere con sorpresa e incredulità alla narrazione faziosa dei media che finisce di fatto con il sostenere e incoraggiare il terrorismo.
I fatti in breve: gli Usa decidono di trasferire la loro ambasciata a Gerusalemme ovest (non est!) che è sempre stata la capitale di Israele e Hamas, che è una organizzazione terroristica riconosciuta tale perfino dall'Europa, raduna migliaia di persone al confine tra Gaza e Israele con lo scopo dichiarato di marciare in territorio israeliano per riprendere possesso di quei territori perduti dopo la guerra del 1948.
Un po' come se gli esuli italiani dell'Istria e della Dalmazia si organizzassero per attraversare i confini della Slovenia e della Croazia per riprendere possesso delle terre perdute con la seconda guerra mondiale.
Nei primi articoli dello statuto di Hamas è indicato chiaramente lo scopo di questa organizzazione terroristica: distruggere lo stato di Israele, quindi qualsiasi infiltrazione attraverso quel confine deve essere considerata estremamente pericolosa per la sicurezza dei cittadini israeliani.
Con tutti i mezzi, compreso un volantinaggio dagli elicotteri, il governo israeliano ha diffidato i palestinesi di Gaza dall'accettare l'invito di Hamas di superare il confine israeliano ma Hamas ha cinicamente deciso che il sacrificio di qualche vita avrebbe reso bene da un punto di vista della propaganda e non a caso in quei territori è in funzione da anni "Pallywood" (l'Hollywood palestinese) che sceglie e spesso fabbrica ad arte scene in grado di fare breccia nell'animo sensibile occidentale.
La notizia della neonata morta a causa dei gas lacrimogeni è probabilmente falsa: quella creatura sarebbe deceduta a causa di una malformazione cardiaca ma dalla falsa notizia ha guadagnato Hamas in termini di propaganda e ha guadagnato la famiglia che ha ricevuto 3.000 dollari (la cifra che riceve ogni famiglia per ogni vittima). Dei sessanta morti nei recenti scontri ben 24 erano membri attivi di Hamas come ammesso dalla stessa organizzazione.
La Turchia ha espulso l'ambasciatore di Israele e qui si arriva all'assurdo: la Turchia che rifiuta di fare i conti con il genocidio degli armeni, che afferma sempre più una deriva dittatoriale con soppressione delle libertà individuali, che imprigiona la dissidenza, che ricatta l'Europa con l'arma dei migranti, che ha favorito il passaggio di terroristi verso la Siria, che sta massacrando i Curdi... Mi chiedo se sia ancora degna di essere accettata all'interno della Nato.
Che dire della Francia? Non si è fatta scrupolo di bombardare in Libia e in Siria per difendere i suoi interessi e ora condanna Israele perché difende i propri confini.
La pavida Europa conduce una politica tutta tesa a difendere i propri interessi economici con Iran e Turchia: pecunia non olet. Oppure teme di "urtare la suscettibilità" dei musulmani che in molti stati (Belgio, Olanda, Svezia, Francia, Inghilterra) potrebbero creare ulteriori problemi.
Nella piazza principale di Teheran è stato istallato un orologio che scandisce il tempo che manca alla distruzione dello stato di Israele: lo stesso Iran che arma Hezbollah al confine nord di Israele, Hamas al confine sud e che, profittando della guerra in Siria, ha dislocato armi e militari al confine est. Il mondo dovrebbe allarmarsi per questa morsa che neppure velatamente minaccia di cancellare Israele e invece esprime biasimo e condanna per chi si difende.
Se il XVIII secolo è stato quello dei lumi, l'attuale mi appare quello della oscurità dell'intelletto e del vuoto etico.
(DagoSpia, 19 maggio 2018)
Ebrei francesi: vittime dell'antisemitismo e dell'indifferenza
Negli ultimi anni è cresciuta la violenza antiebraica, soprattutto di matrice islamica. Per troppo tempo la Francia ha fatto finta di non vedere. Solo ora si preoccupa. È tardi? Migliaia di ebrei hanno già lasciato il paese.
di Luca D'Ammando
Da Parigi a Marsiglia passando per Lione, lo scorso 28 marzo i francesi sono scesi in strada per marciare in silenzio contro uno spettro sempre più reale: l'odio contro gli ebrei. L'ennesimo episodio di antisemitismo è sembrato aver svegliato l'opinione pubblica, la politica, gli intellettuali che negli ultimi anni sono rimasti in silenzio, quasi a voler negare l'avanzata di un fenomeno tanto inquietante quanto diffuso. L'ultima vittima di quest'odio è stata Mireille Knoll, 85 anni, scampata alla retata del Vel d'Hiv nel 1942 ma non all'antisemitismo che da una decina di anni torna a uccidere in Francia. La signora Knoll conosceva il suo assassino, il 27enne musulmano Yassine, da quando questi era un bambino di sette anni. Quello che è più terribile è che durante l'aggressione Yassine ha detto al suo complice «È un'ebrea, per forza deve avere dei soldi». E ancora, l'assassino ha gridato «Allah Akbar» mentre la colpiva con undici coltellate, prima di dare fuoco al cadavere e alla casa. Un episodio che conferma come all'antisemitismo tradizionale dell'estrema destra e a quello antisìonista prevalentemente di estrema sinistra, si sommi ormai l'antisemitismo di una fetta di giovani musulmani, nelle periferie ma anche dentro Parigi, che considerano gli ebrei colpevoli di tutti i mali, e anche della loro esclusione sociale. Già sei mesi fa il settimanale Express titolava in copertina: "Il nuovo malessere degli ebrei francesi", ovvero il malessere di una comunità che si sente minacciata dall'antisemitismo dilagante e vittima dell'indifferenza generale dei media. «Perché così tanto imbarazzo a parlare di razzismo antiebraico? », si chiedeva l'Express. I numeri d'altronde parlano chiaro: la violenza antisemita è cresciuta del 26 per cento nell'ultimo anno in Francia, il danneggiamento di luoghi ebraici del 22 per cento. E poi undici ebrei francesi uccisi in dieci anni, lettere di minacce e bombe molotov contro i negozi kosher, metà del contingente militare francese stanziato dal 2015 che deve presidiare i 700 siti ebraici. L'antisemitismo in Francia «rimane, si trasforma, riappare, muta», ha detto il primo ministro Edouard Philippe.
Solo per ricordare gli ultimi atti di odio. Nel 2006 il giovane Ilan Halimi viene rapito e torturato per tre settimane da una banda di nordafricani, per poi essere abbandonato morente. A fine gennaio suscitò indignazione l'episodio di un bimbo ebreo di 8 anni aggredito in strada a Sarcelles, mentre si recava a lezione con in testa una kippah. Un anno fa, aprile 2017, Sarah Halimi, una donna ebrea di 65 anni, è stata picchiata e gettata dalla finestra di casa sua. Ancora prima, nel 2012, tre bambini e un insegnante erano stati uccisi in una scuola ebraica al centro della città di Tolosa. Le cose sono cambiate anni dopo. Dopo l'attacco al negozio kosher nel 2015, due giorni dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, una cifra record, 7.900 ebrei, hanno cominciato ad emigrare in massa verso Israele. «Da anni gli ebrei si sentono meno sicuri in Francia e partono per Israele o per altri Paesi. Oggi siamo intorno alle cinquemila partenze l'anno, in diminuzione dopo il picco seguito all'attentato al supermercato kasher, ma è sempre il doppio del normale», ha denunciato il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, Francis Kalifat.
Con circa mezzo milione di persone, la Francia è la prima comunità ebraica dell'Europa occidentale. Finora lo Stato, di fronte all'ascesa dell'islam radicale, sembra essersi ritirato, almeno in alcune realtà e in alcuni quartieri. Ad esempio ad Aulnay-sous-Bois il numero di famiglie di fede ebraica è passato da 600 a 100, a Blanc-Mesnil da 300 a 100, a La Courneuve da 300 a 80. «La Francia non sarebbe più la stessa se i nostri connazionali ebrei dovessero abbandonarla perché hanno paura», ha detto di recente Macron, che ha presentato un nuovo piano contro il razzismo e l'antisemitismo per il biennio 2018-2020. È stata necessaria un'atmosfera di guerra per rendersi conto di come, a settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli ebrei francesi non siano al sicuro a camminare per strada.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
Inchiesta Onu su Gaza: Israele denuncia "ipocrisia e assurdità"
Squadra del Palazzo di Vetro dovrebbe indagare sugli avvenimenti di Gaza
GERSUALEMME - Israele ha respinto la votazione, da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, di una risoluzione per l'invio di una squadra internazionale specializzata in crimini di guerra, per indagare sugli avvenimenti di Gaza.
"Israele respinge completamente la decisione del Consiglio dei diritti umani, che dimostra una volta di più che si tratta di un organismo ad automatica maggioranza anti-israeliana dominato da ipocrisia e assurdità", ha affermato il ministero degli Affari esteri israeliano in un comunicato.
(askanews, 18 maggio 2018)
Anche il Paraguay trasferisce la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme
L'inaugurazione della nuova sede nei prossimi giorni
ASUNCION - Il Paraguay inaugurerà nei prossimi giorni la propria ambasciata a Gerusalemme, seguendo quanto già fatto da Stati Uniti e Guatemala. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Eladio Loizaga, senza però precisare la data della cerimonia.
Secondo fonti non ufficiali, la nuova sede diplomatica dovrebbe essere inaugurata martedì prossimo, alla presenza del presidente Horacio Cartes.
"Il presidente ha pianificato questa decisione circa otto mesi fa, ne abbiamo discusso, e ora è arrivato il momento. La decisione non ha nulla a che fare con il fatto che altri governi abbiamo fatto la stessa cosa", ha detto Loizaga a radio 780 AM di Asuncion.
Il trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme non impedirà al Paraguay di mantenere un rapporto "intenso e molto stretto" con la Palestina, ha aggiunto il ministro.
(askanews, 18 maggio 2018)
Le mosse di Putin, che suggerisce ad Al-Sisi di fermare Hamas
Per il leader del Cremlino è importante che Israele non si senta isolato, e dunque spinto tra le braccia di Trump, e che l'Iran moderi le sue ambizioni
di Franco Venturini
Quando Vladimir Putin parla poco come ha fatto ultimamente, gli altri si preoccupano. Eppure per capire i giochi del Cremlino basterebbe ricordare la parata della Vittoria dello scorso 9 maggio. Mentre sfilavano truppe e mezzi, chi c'era in tribuna a poca distanza da Putin? Il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il quale, poco dopo, ha affiancato Putin nel rendere il tradizionale omaggio floreale alla tomba del milite ignoto, e poi alle tombe di caduti illustri. E' vero che Netanyahu si trovava a Mosca. Ma certe presenze sottolineate parlano da sole.Passano due giorni, e Mosca annuncia che non venderà più alla Siria i micidiali missili antiaerei S-300. L'equazione è semplice: se l'avesse fatto, le incursioni aeree israeliane per colpire strutture iraniane in Siria oppure convogli di armi destinate a Hezbollah sarebbero diventate molto più complicate. Bravo Netanyahu, si dirà. Certo, ma dietro alla sua improvvisa arrendevolezza Putin ha una strategia: garantire per quanto può la sicurezza di Israele per allontanare la prospettiva di una guerra contro l'Iran cui si starebbero preparando Trump , l'Arabia Saudita e in caso di necessità lo stesso Israele.
Secondo fonti diplomatiche attendibili nella notte tra il 14 e il 15 maggio scorsi, subito dopo la strage al confine con Gaza, è stato Putin a «suggerire» al presidente egiziano Al-Sisi, suo amico e alleato, di intimare ad Hamas il ritiro dei manifestanti dalla rete confinaria. Cosa che è puntualmente avvenuta, evitando un nuovo bagno di sangue. E non basta. Il Cremlino non auspica apertamente la divisione della Siria, ma la creazione delle «zone di de-escalation», un'idea russa, vengono viste da molti come un primo passo. Putin intenderebbe ora rimescolare le carte tra alleati in modo che le milizie di Teheran non siano tanto vicine da colpire, nemmeno con i razzi, il territorio israeliano. Golan Compreso. I rapporti tra Israele e Russia sono da tempo migliorati. Putin afferma volentieri di «avere dei doveri» perché la popolazione israeliana è in parte russofona (un sesto del totale). Ma il Medio Oriente di oggi non è posto per sentimentalismi. Piuttosto, conta per Mosca che Israele non si senta isolato e dunque spinto tra le braccia di Trump, e conta che l'Iran moderi le sue ambizioni. Comprese quelle nucleari, se le sanzioni Usa affonderanno il tentativo europeo di salvare il patto del 2015.
(Corriere della Sera, 18 maggio 2018)
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C'è l'Egitto dietro la «resa» di Hamas a Gaza
Al-Sisi ha messo in guardia contro i rischi dell'escalation. Erdogan attacca Israele: "Banditi"
di Roberto Fabbri
Tra Israele e Hamas non c'è di mezzo solo il leader turco Recep Tayyip Erdogan, che con le elezioni tra un mese soffia sempre più forte sul fuoco dell'odio anti-israeliano: c'è anche, e forse soprattutto, Abdelfattah al-Sisi, presidente di quell'Egitto che cerca di porsi come interlocutore fra Israele e palestinesi, forte delle buone relazioni che intrattiene con entrambi, oltre che della geografia.
Così, se da una parte l'aspirante Sultano di Ankara non fa che alzare i toni contro lo Stato ebraico, dall'altra il generalissimo del Cairo si impegna per spingere Hamas, che governa Gaza, su posizioni più ragionevoli. E non è improbabile che ci sia stato proprio al-Sisi dietro la scelta apparentemente inspiegabile di trattenere le masse palestinesi della Striscia dallo scatenarsi nella annunciata giornata campale contro Israele di martedì scorso.
Le Monde scrive che Ahmed Youssef, una delle poche figure pragmatiche di Hamas, ha riconosciuto che l'Egitto ha messo esplicitamente in guardia il suo movimento: evitate qualsiasi escalation - questo il messaggio - o rischierete che Israele vi colpisca con durezza e metta nel suo mirino i vostri dirigenti. Ora Hamas - preoccupata del grave contraccolpo che ha inferto al morale della popolazione di Gaza l'uccisione di 60 dimostranti e il ferimento di quasi tremila - considererebbe una svolta strategica più pacifica. In cambio, al-Sisi avrebbe assicurato al capo di Hamas Ismail Haniyeh, che si è recato al Cairo venerdì scorso, il suo impegno per «migliorare la situazione a Gaza»: in particolare verrebbe offerta la riapertura del valico di confine egiziano-palestinese di Rafah.
Sull'altro fronte, come si diceva, c'è invece un Erdogan tonitruante, deciso a impersonare davanti all'opinione pubblica musulmana nel mondo la reazione alla «iniquità degli israeliani». Erdogan ha sostenuto ieri che «il silenzio» sulle uccisioni di palestinesi a Gaza è la prova che «le Nazioni Unite sono collassate», e ha rincarato la dose affermando che «se questo silenzio continuerà, il mondo sarà rapidamente trascinato in un caos dove prevarrà il banditismo». A Erdogan non è mancato il sostegno del presidente «moderato» dell'Iran, Hassan Rouhani, che insiste sulla necessità di formare «un fronte islamico forte e unito contro Israele».
Le frontiere dello Stato ebraico restano comunque all'erta, e non solo a Gaza: ieri è suonato un allarme antimissile che ha costretto i residenti delle Alture del Golan, ai confini con la Siria, a raggiungere i rifugi antiaerei. Era stata udita una forte esplosione che ha fatto temere un attacco. Si è poi saputo che un drone era penetrato nei cieli israeliani dal territorio siriano, e che era stato abbattuto da un missile del sistema difensivo Iron Dome. L'allarme è così rientrato.
(il Giornale, 18 maggio 2018)
Caos in Germania per le vignette antisemite sulla stampa
di Daniel Mosseri
BERLINO - Oltre che odioso, il pregiudizio è un vizio difficile da mettersi alle spalle. Ne sanno qualcosa alla Süddeutsche Zeitung, progressista quotidiano tedesco pubblicato a Monaco, prodigo di scoop e inchieste interessanti. Nessuno però è perfetto: in tema di vignette, per esempio, la Süddeutsche lascia spesso a desiderare, soprattutto quando i soggetti ritratti sono di fede ebraica. Decidere cosa si possa o non si possa disegnare, cosa sia satira e cosa insulto non è compito facile. Giorni addietro la SZ pubblicava una vignetta in cui una timida pecorella bianca con addosso il cartello «Accordo nucleare» brucava innocente in cima a una collinetta mentre da sotto due lupi neri con la bava alla bocca si accingevano a saltarle addosso. Le due fiere assetate di sangue erano invece «Usa» e «Israele». Associare il regime khomeinista a una pecorella è senza dubbio una forzatura che non insulta nessuno, quanto ai lupi vi si può leggere un vecchio riflesso antiatlantico e antisionista diffuso nella sinistra europea. Decisamente scorretto è invece ritrarre gli ebrei con il naso adunco o con le sembianze di una piovra. Fare riferimento all'iconografia del Terzo Reich non lascia dubbi: è antisemitismo, e che a cadere in errore sia una testata tedesca colta e innovatrice è particolarmente triste. SZ lo ha fatto dopo i recenti fatti di sangue sul confine fra Gaza e Israele: l'indomani il giornale di Monaco ritraeva il primo ministro di Israele Bibi Netanyahu dotato di labbroni, nasone e orecchioni di ordinanza nelle vesti della paffuta vincitrice israeliana dell'Eurovision 2018, Netta Barzilai. Sul palco della gara canora con un missile anziché il microfono in mano, il politico annunciava «l'anno prossimo a Gerusalemme». Particolare osceno, la «v» di Eurovision sullo sfondo era sostituita nel disegno con una stella di Davide. Una vignetta che richiama «l'intollerabile propaganda nazista», si è lamentato con la Bild Felix Klein, il neo commissario tedesco contro l'antisemitismo. A favore dell'istituzione del suo ufficio si è espresso tutto l'establishment tedesco, preoccupato per il risorgente antisemitismo di matrice araba e islamica e forse dimentico di quello made in Germany. Il direttore di SZ si è prontamente scusato. Nel 2014 a fare pubblica ammenda era stato invece il vignettista che aveva ritratto il fondatore di Facebook, l'ebreo Mark Zuckerberg, come una piovra tentacolare intenta a controllare telefoni e computer del mondo. Se non fosse stato per i riccioletti biondi, Zuckerberg non lo avrebbe riconosciuto nessuno: nella vignetta della Süddeutsche era ritratto con un naso enorme.
(il Giornale, 18 maggio 2018)
Sport-tech, Israele chiama Italia
Crossborder. Il programma Spin Accelerator Italy premia la padovana Wearit, che volerà ai Mondiali di Russia
di Tiziana Pikler
La prima edizione di SpinAccelerator Italy, il programma internazionale dedicato allo sviluppo di startup sport tech promosso dal network israeliano Hype Sport Innovation con Trentino Sviluppo e l'Università di Trento, ha il suo vincitore d'esordio. È la realtà padovana Wearit che si è aggiudicata un periodo di preincubazione nel polo green del Trentino Progetto Manifattura, oltre alla partecipazione a un evento pubblico curato da Hype Sports lnnovation nel corso dei prossimi mondiali di calcio in Russia. La piattaforma smart per l' engagement offre agli sciatori la possibilità di monitorare le proprie performance e lo stile della sciata, grazie all'uso di diversi dispositivi tecnologici indossabili e installabili sugli scarponi. La startup si rivolge anche al settore turistico invernale, con la possibilità di integrare la tecnologia ai servizi offerti a chi visita il territorio.
Dalle 65 application pervenute agli organizzatori, sono state selezionate le 24 migliori startup dalle quali sono emerse poi le dieci finaliste, dopo un percorso di accelerazione di quattro mesi. I Paesi maggiormente rappresentati sono stati Italia, Stati Uniti, Austria, Repubblica Ceca ed Estonia. Circa un quarto delle proposte erano trasversali a diverse discipline, rivolgendosi per lo più al training, quattro al calcio, due rispettivamente al bike/motorbike, corsa, sci, atletica, tennis e fitness, una ciascuna per hockey, sicurezza/sport estremi ed e-sport. «Come prima esperienza è stata sicuramente positiva - dichiara Paolo Pretti, direttore operativo di Trentino Sviluppo-Adesso vorremmo costruire una storia di successo trattenendo almeno quattro delle startup finaliste da noi, in modo che possano essere anche un traino alla seconda edizione». Il programma SpinAccelerator Italy fa parte del più ampio progetto di sviluppo del cluster dello sport del Trentino che punta a diventare un riferimento nazionale e internazionale.
«Tutte le iniziative che riguardano le startup e la tecnologia contribuiscono a creare una cultura dell'innovazione legata allo sport che è vitale per poter costruire un ecosistema forte e strutturato di startup sport-tech» dice Vittoria Gozzi, ceo Wylab, nonché mentore membro della giuria dello Spin Lab, aggiungendo: «Il Trentino ha intuito in maniera lungimirante quanto sia importante operare su sport e turismo sportivo come driver dell'economia. È un esempio di modello di intervento pubblico che potrebbe essere applicato anche in altre regioni italiane».
Per Gozzi una menzione speciale, tra le dieci finaliste, spetta a Sense Arena, startup proveniente da Praga, che sfrutta le potenzialità della realtà virtuale per la preparazione dei giocatori di hockey. «In Wylab abbiamo già visto qualche soluzione del genere applicata al calcio, la tecnologia in questo senso sta avanzando rapidamente» aggiunge.
Il settore della tecnologia applicata allo sport ha un valore economico, a livello mondiale, che si aggira sui 650 miliardi di dollari e gli investimenti continuano a crescere, attestandosi oggi a circa 4,5 miliardi di dollari. «Iniziative come questa vanno nella direzione della modernità. Lo sport deve essere in prima linea nell'innovare e nel cercare nuove soluzioni tecniche per stare al passo con il resto del mondo» ribadisce il presidente del Coni Giovanni Malagò.
(Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2018)
Hamas confessa: "Abbiamo perso 50 combattenti". E l'Egitto si infuria con con Haniyeh
di Paolo Castellano
Non cessano le tensioni al confine tra la striscia di Gaza e Israele. Hamas sta continuando a creare disordine lungo la zona di sicurezza e il bilancio dei morti palestinesi è salito a 62 vittime. L'esercito israeliano (IDF) ha però dichiarato che la maggioranza dei decessi riguarda gli esponenti di Hamas, che il gruppo terroristico sta cercando in tutti i modi di infiltrare nel territorio israeliano. Le tensioni dunque non si sono placate, anzi, si stanno propagando anche all'interno del mondo arabo.
L'Egitto infuriato con Hamas
Il 14 maggio si è svolto infatti un incontro tra i rappresentanti di Hamas e gli esponenti dell'esercito egiziano. Al centro del meeting svoltosi al Cairo è stata posta la questione delle proteste violente dei palestinesi sul confine tra Gaza e Israele. Come riporta l'Israel Hayom, il leader di Hamas Ismail Haniyeh è stato severamente redarguito dal governo egiziano.
L'indiscrezione è trapelata grazie a una testimonianza di un membro dell'intelligence egiziana che ha sottolineato quanto l'Egitto sia rimasto "impressionato dall'alto numero di vittime e furioso dopo aver sfogliato le informazioni fornite dall'esercito israeliano sulle recenti attività di Hamas sul confine di Gaza". Negli uffici egiziani sono persino giunte le prove dei pagamenti che Hamas ha elargito ai civili palestinesi, inclusi i bambini, per spingerli a protestare sul confine, generando così un diversivo per permettere ai miliziani del gruppo terroristico palestinese di compiere atti violenti e sanguinosi.
«Ismail Haniyeh insieme alle sue due guardie del corpo è arrivato al Cairo con un elicottero nel giro di un'ora da quando era stato convocato», ha dichiarato il funzionario. «Si sbagliano totalmente coloro che affermano che l'Egitto abbia messo a disposizione un elicottero per onorare un esponente di Hamas. Il governo egiziano è furibondo per le azioni di Hamas». Il funzionario ha poi raccontato che il Generale Abbas Kamel ha furiosamente strigliato Haniyeh, dicendogli che non è ammissibile pagare degli adolescenti per condurli alla morte. «Gli sono state persino mostrate le immagini scattate dall'intelligence israeliana in cui gli agenti di Hamas stavano pagando dei ragazzini per protestare vicino al recinto di confine».
Kamel ha infine chiesto al rappresentante di Hamas di cessare subito le proteste. Durante le manifestazioni violente sono infatti morti 60 palestinesi, terroristi in maggior parte.
Hamas confessa in tv: "abbiamo perso 50 combattenti"
Mentre sui media di tutto il mondo si urla al "massacro israeliano sui civili palestinesi", in un canale televisivo palestinese (Baladna Tv), questa settimana un funzionario di Hamas ha confermato che tra i 62 morti palestinesi, 50 sono attivisti di Hamas. Come riporta il The Times of Israel, l'IDF avrebbe quindi colpito target militari durante le pericolose rivolte tra il 14 e il 15 maggio lungo il confine tra la striscia di Gaza e Israele, facendo salire a 53 il bilancio dei terroristi neutralizzati.
«Negli ultimi scontri, 62 persone hanno raggiunto il martirio, 50 di loro erano di Hamas e 12 del popolo». A pronunciare queste parole è stato Salah Bardawil, funzionario di Hamas, durante un dibattito tv; alle sue spalle inoltre è stata proiettata l'immagine di Gerusalemme, capitale israeliana rivendicata dai palestinesi come "loro capitale" nella parte Est. Il presentatore ha poi chiesto se le cifre fossero ufficiali, Bardawil ha risposto di sì.
Fawzy Barhoum, portavoce di Hamas, ha poi dichiarato che la sua organizzazione sta provvedendo a pagare i 50 funerali dei palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Egli però non ha voluto specificare la loro identità.
Il gruppo jihadista palestinese Saraya al-Qud, notoriamente finanziato dall'Iran, ha detto pubblicamente che 3 suoi membri sono morti durante gli scontri con l'IDF.
Infine Hamas ha dichiarato che ogni settimana ci sarà una protesta ma non si sa bene se l'organizzazione terroristica palestinese sarà in grado di trascinare altri palestinesi sul confine durante il mese di digiuno del Ramadan che inizia questa settimana.
(Bet Magazine Mosaico, 17 maggio 2018)
Gaza, missili israeliani contro le postazioni di Hamas
di Mino Tebaldi
Israele attacca, Hamas non risponde. Mezzi aerei e di terra dell'esercito israeliano hanno lanciato numerosi missili su sei postazioni dell'organizzazione palestinese, lungo la Striscia di Gaza. La notizia è stata diffusa dai media palestinesi citati dal Jerusalem Post. Secondo un portavoce dell'Idf, forze di difesa israeliane, "sono stati attaccati quattro obiettivi terroristici appartenenti ad Hamas nel nord della Striscia di Gaza, compresi edifici e infrastrutture terroristiche. Altri tre obiettivi sono stati colpiti in un impianto di produzione di armi. L'attacco è stato condotto in risposta al fuoco aperto da una mitragliatrice nella città di Sderot e a numerosi scontri a fuoco contro militari dell'Idf durante l'intera giornata". Per il portavoce israeliano, "l'organizzazione terroristica di Hamas è l'unica responsabile per quello che sta succedendo dentro e fuori la Striscia di Gaza e pagherà le conseguenze degli atti di terrore compiuti da Gaza contro i cittadini e la sovranità di Israele. L'Idf è determinato a continuare le sue missioni e ad assicurare la sicurezza dei cittadini di Israele". Eppure, l'intenzione di Hamas non sembrava affatto belligerante. L'organizzazione palestinese, attraverso l'intelligence, aveva comunicato nelle ultime ore a Israele l'intenzione di contenere la violenza, che ha provocato 60 morti e 2.700 feriti nelle proteste lungo la Barriera.
Ma il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha accusato i leader di Hamas di essere "cannibali che usano i bambini come armi". Nel corso di una visita alla divisione dell'esercito di stanza lungo il confine con la Striscia di Gaza, il ministro ha detto che il movimento islamista palestinese possiede "razzi, armi convenzionali e un diverso tipo di arma: persone e bambini. Il loro obiettivo è quello di fare togliere il blocco a Gaza, ma non per ricostruirne l'economia o negoziare, ma piuttosto per contrabbandare armi e creare uno pseudo modello di Hezbollah". Lieberman ha approvato una direttiva per chiedere all'esercito israeliano di riaprire il confine di Kerem Shalom tra Israele e Gaza per il passaggio delle merci, nonostante i pesanti danni provocati alla parte palestinese durante gli ultimi due fine settimana di proteste. Allo stesso tempo, l'Egitto ha approvato il trasferimento dei manifestanti feriti attraverso la frontiera con Gaza a Rafah, per consentire l'assistenza medica negli ospedali egiziani. Sembravano passi di avvicinamento tra le parti per riportare la pace lungo i confini della Striscia di Gaza. Intanto, la leadership dell'organizzazione guidata da Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sembra avere il controllo assoluto su quanto avviene a Gaza. È stata proprio Hamas a promuovere l'assembramento lungo la Barriera di confine. Ora, l'organizzazione palestinese ha deciso di astenersi dal lancio di missili contro Israele, nonostante la carneficina. Il controllo delle masse che hanno protestato contro l'apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme dimostrano il "peso" di Hamas. Ma gli effetti sono devastanti, paradossalmente anche per Israele. È chiaro che lo scontro si stia muovendo su un piano mediatico. Per provocare lo sdegno internazionale nei confronti degli israeliani. E il conseguente intervento delle Nazioni Unite. L'effetto è inevitabile. Da una parte, l'esercito, ben equipaggiato ed efficiente, dall'altra masse di civili disarmate. Il cambio di strategia di Hamas ha provocato le reazione dialettica di Israele. Il ministro della Sicurezza Gilad Erdan ha minacciato che, "se ci sarà un'escalation delle violenze al confine, potrebbero riprendere le eliminazioni mirate delle figure di alto livello di Hamas". Secondo l'intelligence israeliana Hamas vuole evitare lo scontro, perché sta vivendo una fase complessa nella gestione della Striscia, a causa dell'isolamento diplomatico. D'altro canto, Israele non ha una vera politica per affrontare i problemi della Striscia, oltre al fermo rifiuto delle richieste di Hamas. Un fatto è certo. In Israele non è più il tempo delle "colombe". La politica di Benjamin Netanyahu non ammette cedimenti.
(L'Opinione, 17 maggio 2018)
Rav lsaac Kook: il rabbino sionista
di Pierpaolo P. Punturello
Oltre a chiederci chi sia stato Rav Abraham Isaac Kook, dovremmo chiederci quale sia la sua eredità per noi e quali siano i suoi eredi oggi. Rav Kook nasce l'8 settembre del 1865 a Daugavpils, all'epoca impero russo oggi territorio lituano e muore nel 1935 nella Gerusalemme sotto il Mandato Britannico. Come molti grandi maestri è conosciuto con l'acronimo di הראיה (HaRaAYaH) o semplicemente come HaRav. Nel 1904 emigrò nella Palestina sotto il potere ottomano e divenne rabbino di Yafo che lo pose di fronte alla sua responsabilità come guida religiosa anche delle laiche e sioniste colonie agricole della zona. Sono questi gli anni di una riflessione nei rapporti tra i differenti settori ebraici della società a lui contemporanea, dal mondo sionista laico al mondo religioso passando per il neonato sionismo religioso sino ad arrivare al mondo religioso non sionista.
Rav Kook credeva fermamente che il movimento sionista, anche se laico ed in alcune sue forme antireligioso, avesse un profondo significato teologico e che gli appartenenti al movimento sionista fossero, consapevolmente o inconsapevolmente, parte di un disegno divino nel cammino verso l'era messianica.
"Eretz Israel (la terra di Israele) - scrive rav Kook - era lo spazio centrale della santità del mondo che irradia la stessa santità verticalmente verso gli ebrei che su di essa vivevano ed orizzontalmente verso il resto del mondo e gli altri popoli della Terra. Lo spirito di Eretz Israel era allora interamente puro, mentre altrove era mischiato con kelipot, bucce, di impurità. Per questo motivo l'aria di Eretz Israel rende davvero saggi."
Comprendiamo, quindi, che agli occhi del Rav ogni chalutz, ogni pioniere, ogni contadino che lavorava questa terra e ricostruiva la sua essenza per riportare il popolo ebraico a vivere su di essa era, di fatto, un agente della volontà divina ed un lavoratore "teologico".
Per Rav Kook il vero problema della distanza di molto popolo ebraico dalla sua propria radice risiede esattamente nella distanza fisica dalla terra di Israele. Il ritorno degli ebrei in Israele diviene nei fatti una necessità ebraica, un bisogno di ritorno spirituale oltre che nazionale e collettivo ed attraverso questo ritorno nazionale si completa la redenzione non solo per il popolo ebraico, bensì per tutta l'umanità. Bisogna anche comprendere che per Rav Kook le qualità specifiche della terra di Israele non possono essere comprese razionalmente ed è in questa incomprensione razionale che risiedono, forse, molte delle contraddizioni che hanno accompagnato il Rav nel suo essere capace di includere istanze così diverse nella sua persona e che, alla sua morte, hanno creato diverse eredità ed innumerevoli eredi culturali molto diversi e distanti tra di loro. Uno dei luoghi dove queste contraddizioni hanno trovato spazio è la yeshivà fondata da rav Kook nel 1924 e che è stata da lui chiamata "MerkazMerkaz (מרכז) significa centro Harav" divenuta poi Merkaz HaRav Kook. Perché Merkaz HaRav? Perché per Rav Kook la yeshivà è il luogo dove il Rav o molti rabbanim possono o sarebbero potuti venire a studiare da ogni angolo del mondo e torna in questo senso la visione di Eretz Israel come luogo che rende saggi ed apre gli occhi in nome della intrinseca santità del luogo.
Ci aspetteremmo quindi che il Rav auspicasse una società in Israele governata dalla Halachà, dalla norma ebraica, ma lui stesso ammette che duemila anni di esilio e le condizioni di Eretz Israel oggi, nella sua modernità, così come la stessa società ebraica di Palestina, così come la società israeliana contemporanea, non possono essere governati solo da norme halachiche. La legge civile, pur nella sua profanità, era per il Rav un passaggio necessario per passare da una tesi, quella della antica santità della presenza ebraica in Israele prima dell'esilio, ad una antitesi, quella del governo di una legge laica in terra di Israele, ad una sintesi, quella della futura legge messianica che governerà Israele al tempo della Redenzione.
Rav Kook è la figura che ha in sé tutti questi passaggi tra tesi, antitesi e sintesi ed è per questo che oggi sia la Rabbanut centrale di Israele che organizzazioni rabbiniche indipendenti come i Rabbanim di Tzoar, in piena polemica con la Rabbanut centrale, si definiscono eredi di Rav Kook, lì dove ognuna delle istituzioni prende dal Rav un solo aspetto del suo insegnamento e della sua personalità perdendo il senso dell'insieme della sua grande figura.
(Shalom, aprile-maggio 2018)
«Rav Kook credeva fermamente che il movimento sionista, anche se laico ed in alcune sue forme antireligioso, avesse un profondo significato teologico e che gli appartenenti al movimento sionista fossero, consapevolmente o inconsapevolmente, parte di un disegno divino nel cammino verso l'era messianica.»
Questa dichiarazione potrebbe essere sottoscritta, parola per parola, da cristiani sionisti in linea con questo sito. E lesistenza dello Stato dIsraele che è in gioco, non la sua politica, né il suo grado di moralità o di fiducia in Dio. Israele cè perché Dio cè. Lesistenza di Israele è una parte del messaggio che Dio vuole lasciare al mondo in questo periodo della storia. Ed è contro lesistenza di questo stato che sono allopera forze diaboliche di tutti i tipi: violenza, menzogna, minacce, ipocrisia. Uomini e nazioni risponderanno tutti, davanti a Dio, anche della posizione che avranno preso a questo riguardo. M.C.
Guatemala: apre l'ambasciata a Gerusalemme e il padiglione alla Biennale di Venezia
Dopo il recente trasferimento voluto da Donald Trump dell'ambasciata americana a Gerusalemme, oggi il Presidente del Guatemala Jimmie Morales è atterrato in Israele per inaugurare anch'egli l'ambasciata del proprio Paese accanto a quella degli U.S.A., entrambe traslocate da Tel Aviv. Il paese centro americano è il secondo dopo gli Stati Uniti a prendere questa delicatissima decisione in un momento di stallo degli equilibri internazionali.
Anche a seguito di queste mosse sulla scacchiera politica mondiale è molto attesa la partecipazione del Guatemala alla 16esima mostra di Architettura della Biennale di Venezia, che aprirà il 25 maggio.
Tra pochi giorni, per l'occasione, in Italia arriverà il ministro della Cultura del Guatemala, Josè Louis Chea Urruela, commissario del Padiglione Nazionale curato da Stefania Pieralice, Daniele Radini Tedeschi, Elsie Wunderlich.
La mostra dal titolo "Stigma", ospitata a Palazzo Albrizzi Capello in Cannaregio (Venezia), oltre ad accogliere i diversi progetti degli architetti guatemaltechi punta i riflettori sull'opera estremamente attuale dei progettisti Caldara&Kluzer, membri del collettivo partecipante Ur Project. L'opera, intitolata "Architettura Virtuale. Real word", riflette su pannelli dibond un grande planisfero attraversato da fibre ottiche luminose raffiguranti le connessioni internet (instagram, facebook, e social network) tra diversi paesi del mondo. Ovviamente la connessione tra Città del Guatemala e Gerusalemme assume in questo momento un significato politico ben definito, una presa di posizione netta di uno Stato in costante volontà di affermazione che conferma sempre più le eccellenti relazioni tra Morales e Benjamin Netanyahu.
In Guatemala esistono infatti diversi gruppi pro-Israele su Facebook quali Unidos pro Israele con 662.918 follower o Reporte Honesto che ne conta 205.000. Questo legame deriva anche dagli investimenti israeliti che hanno contribuito a fortificare l'esercito guatemalteco oltre all'aiuto fornito da Israele durante le più recenti catastrofi ambientali che hanno colpito il paese centro americano. Inoltre la connessione Guatemala Gerusalemme affonda le sue radici nella storia, poiché lo stato latino era stato il secondo, sempre dopo gli U.S.A., a riconoscere la sovranità dello Stato di Israele nel lontano 14 maggio 1948.
L'opera di Caldara&Kluzer configura quindi un'architettura alternativa, fondata sulla struttura della rete e attivata dalla conseguente risposta dell'umanità, al passo con in tempi e aperta al confronto socio economico globalizzato.
Gli espositori invitati nel Padiglione Nazionale Guatemala sono: Regina Dàvila, Adriana P.Meyer, Marco Manzo, Studio Doumus, Elsie Wunderlich e Ur Project (Ana Aleman, Aldo Basili, Carlo Caldara & Federica Kluzer, Victor J.Cohen, Carlo Marraffa, Tina Marzo, Axel Paredes, Guillermo Pemueller, Lucia Tomasi).
L'ingresso alla mostra sarà gratuito dal 26 maggio al 25 novembre 2018.
(Il Nuovo Terraglio, 17 maggio 2018)
«Ora il Sultano guida la guerra a Israele. Vuole essere il capo supremo dell'islam»
L'ex capo dell'ufficio turco al Pentagono: «Spinge per la sharia». La scelta di cacciare il diplomatico Naeh non è casuale: lo hanno voluto umiliare.
GERUSALEMME - Membro della Nato, nostro alleato, dove vuole andare il presidente turco Tayyp Erdogan quando dice di Israele che è un Paese di apartheid, che dal 1948 è occupato nella pulizia etnica del popolo palestinese perseguitato, in cui è compreso Harnas, il suo migliore amico, che è uno stato terrorista che commette genocidio? Lo abbiamo chiesto all' ex capo dell'ufficio turco al Pentagono, Harold Rhode, studioso di fama mondiale, suo mentore Bernard Lewìs, il maggiore mediorientalista vivente.
- Dottor Rhode, perché Erdogan ama caratterizzarsi come il maggior nemico di Israele?
«Il disegno di Erdogan è duplice: da una parte vuole essere il leader supremo del musulmano mondo sunnita, il capo indiscusso, e per questo è indispensabile guidare, come il Soleimano, la guerra vittoriosa per Gerusalemme. Erdogan qui è in competizione con chiunque, compreso Abu Mazen: è lui che deve cacciare gli infedeli alla Grande Moschea, il responsabile della Spianata. Quindi, di fronte al suo mondo è l'avanguardia della battaglia contro Israele, un ruolo prescelto da tempo: come quando intimò a Peres di tacere dicendogli a Davos che era un assassino, quando spalleggiò fino a rompere con Israele la missione della Mavi Marmara».
- Anche al costo di mettersi dalla parte di Hamas, un'organizzazione terrorista?
«Per lui Hamas è un'organizzazione islamica che aderisce alla Fratellanza Musulmana, di cui è il leader riconosciuto. Per questo sostenne Morsi in Egitto».
- Fino a trattare Naeh, l'ambasciatore israeliano in Turchia, come un delinquente?
«Qui viene l'elemento basilare nella cultura islamica, dove tutto è o umiliazione o onore. Naeh è stato umiliato, Israele è stata umiliata. Come quando è stato ricostruito un accordo fra i due Paesi dopo la Mavi Marmara: in tutta la Turchia sono apparsi cartelli con la faccia di Netanayhu e la scritta "lo mi scuso". Umiliato Bibi, umiliata Israele. Così anche adesso. E più tu sei umiliato, più io godo del mio onore».
- Veniamo al secondo scopo del disegno di Erdogan ...
«In ordine di tempo è il primo, è sempre stato con lui da quando era uno studente. Riportare la Turchia all'ìslam. Dopo la grande rivoluzione di Kemal Ataturk che portò la Turchia nel versante moderato e occidentale del mondo, la pancia del paese ha sempre seguitato a ruminare un ritorno alle origini. Erdogan se ne è fatto intelligentissimo interprete, parlando all'estero il linguaggio della diplomazia e degli interessi, per esempio quello di aver la Turchia nella Nato, e invece spingendo avanti l'aspirazione del popolo turco alla sharia, alla gloria della Turchia imperiale, al ritorno ai testi, persino il ritorno alla lingua sacra del Corano scritto in arabo».
- Ma Erdogan, con tutti i suoi difetti, è rimasto sempre nell'ambito del sistema democratico.
«Sì, è un dittatore democratico, che con l'uso alternato della forza e della legge ha fatto fuori qualsiasi forma di opposizione e anche qualsiasi attendibile leader alternativo. Ora usa la crisi con Israele come usò quello della Mavi Marmara, per prender voti alle prossime elezioni che si terranno fra un mese. Erdogan ha detto quando era sindaco di Istanbul: "La Democrazia è come un treno. Quando arrivi alla fermata, scendi". È lui che combatte con tutte le forze i curdi, i giornalisti, i dissidenti, i manifestanti. Ha sempre pronta un'accusa di terrorismo, gioca su parole e concetti e confida sulla difficoltà, anche legata all'immigrazione, che Europa e Usa hanno a rompere con lui».
- Quindi non c'è domani? Bernard Lewis ha scritto che la Turchia sarà l'Iran di domani, e l'Iran la Turchia. Che vuol dire?
«Che l'Iran rovescerà il regime, e di nuovo si unirà alla comunità delle nazioni. La Turchia andrà indietro al suo ruolo di paese dominato dalla sharia a capo del mondo sunnita, contro l'Occidente».
(il Giornale, 17 maggio 2018)
La Nakba dell'opinione pubblica. Catastrofe Israele, sempre più solo
Dalle vignette nei giornali alle piazze, in Europa è tutto un coro contro lo stato ebraico
di Giulio Meotti
ROMA - Dopo i tragici scontri che a Gaza sono costati la vita a 62 palestinesi (ieri un ufficiale di Hamas, Salah Bardawil, ha detto in tv che cinquanta delle vittime erano membri del gruppo terroristico), si è consumata una serie di crisi diplomatiche. Mentre l'African National Congress, il partito al potere in Sudafrica, paragonava Israele al nazismo, la Turchia umiliava all'aeroporto di Ankara l'ambasciatore israeliano appena espulso. Su Gaza si consuma però anche un'altra rottura fra Israele e l'opinione pubblica europea.
La Suddeutsche Zeitung, il quotidiano più venduto in Germania (un milione di copie), ha pubblicato una vignetta con un Benjamin Netanyahu dalle grandi orecchie e il nasone, vestito come Netta Barzilai e in stivali militari, in mano ha un missile, la stella di David al posto della "V" di Eurovision e una nuvoletta che recita "l'anno prossimo a Gerusalemme". Dopo il clamore, il giornale ieri ha pubblicato le scuse firmate dal direttore Wolfgang Krach, secondo cui la vignetta è stata un "errore".
Cambiando paese e quotidiano, il Guardian è uscito il giorno dopo i fatti di Gaza con una vignetta di Steve Beli. Si vede un carro armato israeliano che va a pesca, salvo che nella rete al posto dei pesci ci sono decine di corpi di palestinesi.
Il Volkskrant, uno dei più importanti giornali olandesi, ha pubblicato la vignetta di un soldato israeliano che indossa occhiali da sole e una stella di David, spara contro masse inermi di palestinesi sul confine di Gaza per celebrare i 70 anni dell'indipendenza dello stato ebraico. Dopo aver messo un palestinese disarmato al muro, l'israeliano spara una raffica per scrivere "Buon compleanno a me". Poi una pila di cadaveri di dimostranti massacrati (ved. foto).
"Nakba, il disastro dei palestinesi" titolava ieri la Deutsche Welle, l'emittente pubblica tedesca. L'Irish Times, uno dei più quotati giornali irlandesi, pubblicava un editoriale di Omar Barghouti: "Il boicottaggio di Israele è la miglior risposta alle uccisioni illegali israeliane". In Francia, il settimanale Nouvel Obs aveva un editoriale sul "massacro dei dimenticati".
A Cannes intanto l'attrice franco-libanese Manal Issa sul tappeto rosso della Croisette brandiva a favore delle telecamere di tutto il mondo un cartello con scritto "fermate gli attacchi su Gaza". Mentre il sindaco di Barcellona, Ada Colau, chiedeva un embargo militare contro Israele, sui social diventavano virali le foto che accostano Gaza ad Auschwitz e a Soweto, sede della famosa rivolta dei neri sudafricani. Intanto la poetessa Shailja Patel scriveva: "La resistenza palestinese non è diversa dalla resistenza francese e olandese e polacca all'occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale. La Grande Marcia del Ritorno (a Gaza, ndr) è analoga alla rivolta dei ghetti di Varsavia contro l'Olocausto inflitto dai nazisti".
Nel frattempo manifestazioni con migliaia di persone si svolgevano in diverse città francesi. A Lione, Marsiglia, Bordeaux e Rouen, dove si è protestato in silenzio fuori della cattedrale. A Parigi si sono ritrovate vicino l'ambasciata israeliana: "Macron, sanzioni, non discorsi!", urlava la folla calpestando la foto del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il settimanale francese Point, che non è mai stato un baluardo del sentimento antisraeliano, ha pubblicato in hornepage il seguente sondaggio: "La comunità internazionale è troppo tollerante nei confronti di Israele?". Il Journal du Dimanche ne aveva un altro: "La Francia dovrebbe richiamare l'ambasciatore in Israele?".
Intanto il sindaco di Dublino, Micheàl Mac Donncha, lanciava il boicottaggio dell'Eurovision del 2019, che si terrà proprio in Israele, e anche in Islanda si raccoglievano decine di migliaia di firme in tal senso. In Olanda, attivisti filopalestinesi vandalizzavano intanto il monumento alla Shoah a Utrecht con della vernice rossa. Si scendeva per strada anche a Osio, per manifestare di fronte al Parlamento norvegese e all'ambasciata israeliana. "Israele celebra i 70 anni uccidendo 62 palestinesi", scandivano i manifestanti, fra cui parlamentari socialisti come Petter Eide.
Intanto, mentre la Norvegia stabiliva che è legale boicottare selettivamente le merci israeliane da parte dei consigli comunali, tre navi della Freedom Flotilla lasciavano il porto svedese di Goteborg dirette a Gaza per esprimere "solidarietà agli assediati". La flottiglia è guidata da un peschereccio di nome al Awda C'il ritorno" in arabo) e farà sosta nei porti di Danimarca, Germania e Paesi Bassi. Intanto, all'Onu, Germania, Francia e Inghilterra si smarcavano dagli Stati Uniti chiedendo una "inchiesta indipendente" su Gaza.
Tira una brutta aria in occidente. Di abbandono del popolo ebraico.
(Il Foglio, 17 maggio 2018)
Presentazione del libro sulle parashot: "Sta scritto", di F. Canetti e M. Cicchese
Torino 8-9 giugno - In occasione del Convegno Edipi sulle feste ebraiche
Non poteva esserci occasione migliore del convegno Edipi-Torino sulle Feste Ebraiche per presentare in anteprima l'originalissima opera scritta a quattro mani da un ebreo e un evangelico.
Il dr. Fulvio Canetti, ebreo di Gerusalemme, si è alternato nei commenti con il prof. Marcello Cicchese nella stimolante particolarità del diverso orientamento dei due autori al testo biblico, pur riconoscendone il comun denominatore all'autorevolezza della Parola di Dio.
Da questo singolare colloquio interpretativo nasce la possibilità di stimolare un nuovo approccio, magari più ebraico, alla Parola di Dio.
L'appuntamento è per l'8 e 9 giugno a Torino, in occasione del convegno Edipi sulle Feste Ebraiche
Gospel House, via Druendo 274,
Torino-Venaria Reale - info 3395819233
La presentazione del libro sarà fatta dagli autori, con dedica a quanti interessati.
Locandina
(EDIPI, maggio 2018)
Israele non è la serpe in seno a Sion
di Paola Farina
Alla luce della nota letta su questo stesso mezzo mi chiedo che cosa sia il pacifismo e credo di capire che non è quello che sigle sindacali o religiose si ostinano a propinare. Non è quello che nasce da una tavola rotonda, è qualcosa di più intimo, di più profondo, è quella cosa che ti dà il senso di migliorare il proprio spazio interiore fino al punto di rivalutare la tua anima e l'anima di chi ti sta intorno. E' quello che mi hanno trasmesso Walter Arbib, grande uomo ebreo di origine libica-tunisina al quale è stato assegnato a Venezia, il 28 aprile 2018 il Leone d'Oro per la pace, Steve Maman un ebreo marocchino che da solo ha riscattato circa 140 iazide dall'Isis e, da quello che ho appreso da Maurizio Scelli, assegnatario della Targa d'Oro del Leone di Venezia.
Già segretario generale dell'UNITALSI (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) e Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana dall'aprile 2003 fino alle nuove elezioni che si sono svolte a Roma il 10-11 dicembre 2005, in tempi in cui la C.R.I. era davvero la Croce Rossa Italiana.
Persone con un profondo senso religioso, che hanno posto la loro vita al servizio del prossimo (in alcuni casi anche a rischio della loro), tutte diverse ma accomunate da un unico obiettivo: aiutare il prossimo. Persone mentalmente differenti da me, che vivono un'intimità con la religione più profonda di quella da me vissuta (io sarei troppo spartana, avrei la tendenza a un'interpretazione troppo personale dei testi sacri...) eppure abbiamo fatto della nostra diversità un valore.
Premetto che mi piacerebbe che il Prefetto della mia città si prendesse cura della sicurezza di tutti i cittadini e reclutasse tutti i pacifisti e pacifinti per prestazioni di lavoro gratuite e socialmente utili verso persone in difficoltà, senza che disperda energie su giri d'Italia e questioni internazionali. Solo con piccoli e grandi gesti di umana generosità si può costruire un percorso di pace e non con mera filosofia da pacifisti o presunti tali. Non avevo dubbi che i "profonditori di finto amore" avrebbero sospeso lo sciopero ad oltranza che li vede silenti dall'inizio della guerra in Siria. Del resto questi profonditori dal cuore d'oro sono gli stessi che hanno chiuso gli occhi di fronte a 500.000 morti siriani, sono gli stessi che, con il loro silenzio, hanno lasciato stuprare donne iazide, curde e cristiane in Siria e Iraq e martoriare i cristiani.
Ci vuole un gran coraggio a citare l'ONU come fonte di diritti umani: le risoluzioni contro Israele non si contano più ma contro la Siria sono un pugnetto di sputacchi. Nel novembre del 2016 all'Assemblea generale dell'ONU in sole ventiquattro ore sono state adottate ben dieci risoluzioni contro Israele e una sola per la Siria della guerra civile senza fine, una per la Corea del Nord e una per la Crimea. Che valore morale può avere l'ONU? E dove erano i profonditori di pace in quest'occasione?
Il mondo, religiosi, operai, intellettuali, ballerine, escort, politici stellati e non, inclusi la Mogherini e il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres condannano e s'indignano di fronte alle reazioni di Israele vittima dei recenti attacchi, la cui difesa secondo loro, è sempre spropositata. Al prossimo giro di valzer delle poltrone, a maggio 2018 presso le Nazioni Unite saliranno in cattedra queste nazioni: l'Arabia Saudita presiederà il Consiglio per i Diritti umani e l'Iran la Commissione Onu per i Diritti delle Donne; la Turchia supervisionerà le organizzazioni non governative per i diritti umani; Jean Ziegler, fondatore del "Premio Gheddafi per i diritti dell'uomo" presiederà il comitato consultivo per i diritti umani del Palazzo di Vetro e la Siria la Commissione Onu per il Disarmo (armi chimiche incluse). La Turchia forte dell'esperienza del genocidio degli Armeni, per non perdere la tecnica sta continuando con il genocidio dei curdi, con il tacito assento di ONU, UE, APEM - Ap-UpM, Vaticano e partner. Il tutto sotto gli occhi ciechi del mondo intero troppo impegnato a criticare Israele per rendersi conto che i veri nemici ricoprono ruoli chiave all'interno dei palazzi di vetro, avvolti in un silenzio discrezionale che dovrebbe offendere qualsiasi essere umano. I pacifisti o presunti tali? Di certo hanno scarsa visione e preparazione, perché se davvero fossero pacifisti, ci sarebbero abbastanza ragioni da scendere in piazza contro la disabilità mentale del Palazzo di Vetro, nessuno escluso. Mi aspetto a breve una nomination per il trentaquattrenne Kim Jŏng-ŭn; il leader nordcoreano, probabilmente stanno cercando di piazzarlo nel comitato per la sicurezza nucleare! Se ancora qualcuno non riesce a capire perché accuso il mondo d'ingiustizia nei confronti di Israele, non è un mio problema, ma un problema di neuroni inattivi di chi non riesce a capire. Un altro esempio? La Francia uccide in Siria e in Africa e nessuno dice nulla... combatte i paesi che non minano i confini francesi, cinque fric francesi varcano il confine in Italia per rincorrere uno spacciatore di droga e il nostro governo si indigna; diecimila, ventimila, trentamila, quarantamila schiavi di Hamas tentano di penetrare il confine di Israele, urlando slogan "Uccideremo gli ebrei e ne mangeremo il cuore e il fegato" e il mondo che cosa dice? "Non sparate, fateli entrare e preparate il barbecue". Una bambina cardiopatica dalla nascita muore a causa dei gas lacrimogeni (ma chi l'aveva portata là?) durante le battaglie del 15 maggio 2018 e il mondo si commuove. A marzo 2011 una famiglia di ebrei viene assassinata dai terroristi "gaziani" a Itamar, padre, madre e tre figli rispettivamente di 11 anni, 3 anni e 3 mesi ed il mondo non se ne accorge, nemmeno dice "pregate per loro", tanto sono ebrei.
Israele non è una serpe, serpi sono gli antisionisti e gli antisemiti.
(VicenzaPiù, 17 maggio 2018)
La presidente UCEI dopo i fatti di Gaza: "Il nostro dolore, la nostra chiarezza"
"Non rimanere ciechi e sordi di fronte all'evidenza: distinguere chi davvero non desidera la pace ed esporta odio e guerra ovunque, distinguere chi invece che guidare i palestinesi verso il futuro li ingabbia nel passato, chi invece di distribuire speranza, dispensa odio, e invece che proteggere, usa la vita dei suoi stessi cittadini per mantenere il potere.". È quanto chiede - rivolgendosi a opinione pubblica, istituzioni e mondo dell'informazione - la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni dopo i recenti scontri tra l'esercito israeliano e manifestanti palestinese al confine con la Striscia di Gaza. "Quanto succede a Gaza è doloroso per chiunque ha a cuore i diritti umani e lo è anche per chi scrive", sottolinea la Presidente che invita però a individuare i veri responsabili della tragedia palestinese.
Di seguito il testo integrale del suo intervento
«Quest'anno abbiamo celebrato e festeggiato i 70 anni d'Israele. Uno Stato nato da un sogno e diventato non solo una realtà ma una prospera democrazia in un Medio Oriente per lo più dichiaratamente ostile. 70 anni fa i padri fondatori dello Stato accettarono la partizione della Palestina mandataria, accettarono la soluzione di avere confini ben delineati: due popoli, due Stati, l'uno a fianco all'altro, che potessero vivere in pace e sicurezza. Nel testo della proclamazione dello Stato ebraico avvenuta il 14 maggio 1948 è chiaro ed esplicito l'invito a tutti i residenti arabi a voler costruire assieme il Paese, con pieno riconoscimento dei diritti, partecipazione e rappresentanza, così come l'invito a tutti i Paesi confinanti a condividere l'impegno per la Pace, nel reciproco riconoscimento e per portare progresso e nell'intera regione. Questo era ed è il nostro sogno ed invito perenne.
Come sappiamo, solo la parte ebraica accettò quella divisione e i risultati di quella scelta sono tutt'ora davanti ai nostri occhi. A pagare le conseguenze di quella scelta sono stati i palestinesi e ancora oggi l'incapacità, la corruzione, l'odio di quelli che dovrebbero essere i loro leader li portano verso la sofferenza e la morte. Ancor peggio, li portano a scegliere e a pensare che la morte dei propri figli e neonati, sia l'unica arma per promuovere il loro riconoscimento e futuro. Ben sanno che per l'intero mondo e per tutti noi la vita invece è sacra.
Quanto succede a Gaza è doloroso per chiunque ha a cuore i diritti umani e lo è anche per chi scrive. Forse lo è ancor più perché oltre al grave lutto per la perdita delle vite, si aggiunge la disperazione per la consapevolezza che potevano essere evitate, se solo avessero voluto. Se solo non si fosse obbligato masse di civili ad assembrarsi sul confine. Se solo non si fosse celato sotto la parola "manifestazione" l'intento di raggiungere le città e i villaggi israeliani e spargere sangue e terrore. Forse lo è ancor di più perché al sangue versato si aggiunge la sollecita indignazione di un intero mondo - istituzioni, media, cittadini - che condanna e pensa di fare giustizia accogliendo come vera la più grave strumentalizzazione che vi possa essere, negando ad Israele il diritto di difendersi e di non vedere trucidati i propri cittadini e bruciati i propri insediamenti.
Tutto questo, dimenticando che la difesa dal nemico iraniano non esclude quella dall'aggressione subita dal proprio vicino, finanziato dallo stesso Iran. Disconoscendo il legame tra Gerusalemme e il popolo ebraico e accettando di considerare la questione di Gerusalemme, nella quale vi è convivenza e sviluppo, nonostante i conflitti, come perno di ogni altra forma di convivenza in qualsiasi altra parte del globo. Esprimendo il sostegno pieno e universale ad un'associazione terroristica e ad una leadership palestinese che continua a non riconoscere il diritto all'esistenza di Israele e a riconoscere una Shoah auto ricercata, quando non negata. Che continua ad organizzare una sistematica e sofisticatissima guerra armata. Che continua ad usare i soldi che la comunità internazionale riversa nelle casse di Gaza per costruire costosissimi tunnel del terrore e armare milizie, formate da bambini e di giovani, invece che usarli per realizzare infrastrutture pubbliche e dare un futuro alla sua popolazione, in un territorio ricevuto oltre dieci anni fa per farlo fiorire.
I feriti ed i morti sono tutti sulle nostre coscienze, anche le centinaia di migliaia di morti negli ultimi mesi in molti altri Paesi della Regione mediorientale, anche i milioni di profughi che tentano di raggiungere le nostre sponde del Mediterraneo, anche quelli colpiti dal terrorismo in Europa, dimenticati sistematicamente dallo stesso benpensante mondo e dall'Onu. Ma non da noi. Non li dimentichiamo. Perché è Israele, e non certo Hamas, che sistematicamente porge una mano ad ogni ferito per curarlo nei propri ospedali e con tecnologie israeliane. Perché la memoria della storia dei tanti massacri subiti, l'antisemitismo e il radicalismo li conosciamo bene e vorremmo disperatamente far comprendere questo male antico a tutti voi che siete convinti di potervi svegliare domani mattina e continuare ad andare al lavoro e a scuola e a cucinare quel che più vi piace.
Siamo e siete responsabili tutti assieme. Perché oltre alle immagini e al di là delle feroci urla e vendette d'odio, è dovere di ogni istituzione e organo di stampa chiedersi il perché di quanto si vede e ricordarsi che vi è un lato oscuro della luna che evidentemente non illumina a sufficienza le coscienze e la memoria. Non interessa perché quell'immagine distorta che ci raggiunge nella notte pare sufficiente. Ma è pura illusione e l'Europa nella quale siamo immersi continua sonnambula ad inebriarsi di quella luce. E prima o poi, e molto prima di quanto non immaginiamo quelle forze che oggi si abbattono su Israele e i suoi confini, raggiungeranno sia fisicamente, sia con loro ideologie, anche le nostre terre, invadendo le nostre giornate e diventeranno l'incubo delle nostre notti. Nessun raggio di luna sarà allora sufficiente.
Qui non si nega la possibilità di criticare le scelte di un governo, che sia quello di Israele o degli Stati Uniti, ma di condividere il concetto di vita. Di capire che i nostri figli non saranno mai e poi mai venduti per una manciata di dollari a seminare odio e morte, ma cresciuti con l'amore per una terra coltivata con fatica e resi partecipi delle più belle celebrazioni internazionali. Qui non si tratta di decidere se Gerusalemme ha o meno uno status internazionale e di quali patti nucleari mantenere ma di non rimanere ciechi e sordi di fronte all'evidenza: distinguere chi davvero non desidera la pace ed esporta odio e guerra ovunque, distinguere chi invece che guidare i palestinesi verso il futuro li ingabbia nel passato, chi invece di distribuire speranza, dispensa odio, e invece che proteggere, usa la vita dei suoi stessi cittadini per mantenere il potere. La comunità internazionale deve finalmente alzare la voce contro tutto questo, aiutata da un'informazione veramente libera da preconcetti e da retoriche che non servono alla pace che tutti desideriamo, primi fra tutti israeliani e palestinesi che sognano di vivere con le loro famiglie. Questo è quello che vi chiediamo.»
Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(moked, 16 maggio 2018)
"Possibili due Stati per due popoli, ma senza Abu Mazen"
Per Yuval Steinitz, ministro dell'Energia israeliano, il dialogo è aperto: "Ci sono margini per un compromesso, ma non con un leader antisemita"
di Rolla Scolari
Quelli passati sono stati giorni di travaglio per il Medio Oriente: il controverso trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, le violenze che a Gaza hanno fatto oltre 60 vittime, l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare, i razzi iraniani su Israele e i raid in risposta. Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, ex responsabile per Intelligence e Affari strategici, che siede nel gabinetto di sicurezza del governo, accusa Hamas, gruppo islamista che controlla Gaza, di aver mandato civili a morire, e scherma le critiche di gran parte della comunità internazionale sull'uso eccessivo della forza da parte dell'esercito israeliano. Rivela inoltre come la comune preoccupazione nei confronti dell'Iran stia facilitando contatti tra il suo governo e i Paesi arabi, anche alcuni che non riconoscono Israele. Con il crescere delle nuove priorità regionali legate ai timori su Teheran e le recenti violenze a Gaza, però, l'idea della pace con i palestinesi sembra allontanarsi.
- Accusate Hamas di aver mandato civili a morire, la maggior parte della comunità internazionale critica l'eccessivo uso della forza da parte d'Israele. Come si può pensare di tornare da questa situazione a negoziare?
«Ciò che è accaduto a Gaza è una tragedia, siamo molto dispiaciuti. Avremmo voluto prevenire o minimizzare il numero di vittime. Hamas aveva invece detto in anticipo che si aspettava morti. Voleva che la folla si avvicinasse alla barriera».
- L'esercito israeliano avrebbe però potuto anticipare uno scenario simile.
«Abbiamo tentato di evitarlo, ma loro lo hanno pianificato. Ci siamo ritirati da Gaza nel 2005, il presidente palestinese Abu Mazen aveva promesso che non ci sarebbero stati lanci di razzi, ma non è stato così. L'embargo su Gaza è una tragedia, ma come migliorare lo standard di vita locale se continuano i lanci di razzi, contrabbandati dall'Iran?».
- E' possibile pensare a nuovi colloqui dopo queste violenze?
«Ho sempre pensato che un compromesso fosse possibile, ma oggi non c'è un partner palestinese. Abu Mazen ha da poco giustificato l'Olocausto, ha detto che il popolo ebraico non esiste. Metà della leadership palestinese è formata da zeloti islamisti, nell'altra metà c'è il leader più antisemita del mondo, più degli iraniani».
- L'assenza di negoziati significa la fine della soluzione a due Stati?
«Non penso che l'idea di due Stati per due popoli sia finita, è impossibile però farla avanzare ora. L'Autorità palestinese dovrebbe prima smetterla con l'incitamento antisemita sulle tv, nel sistema scolastico. Basta, i palestinesi dovrebbero mandare via Abu Mazen»,
- E chi potrebbe sostituirlo?
«Non lo so, ma lui non è un leader eletto, da 12 anni. Non ha portato né democrazia, né pace, né progressi economici».
- Lei ha avvertito che Assad potrebbe essere rovesciato nel caso in cui la vicina Siria permetta all'Iran - che ha lanciato razzi contro una vostra base militare - di trasformare il suo territorio in una postazione di lancio. Che cosa vi aspettate ora?
«Quello che abbiamo visto negli ultimi mesi è la realizzazione di un piano per formare in Siria una sorta di estensione geografica dell'Iran, stabilire una forte presenza delle Guardie rivoluzionarie. Il piano non è soltanto lanciare qualche razzo contro Israele, ma costruire basi missilistiche, di difesa anti-aerea, navali, e inviare truppe. Non lo permetteremo. Non vogliamo un conflitto con l'Iran, ma abbiamo enfatizzato che esistono linee rosse e che operiamo prendendole in considerazione».
- Israele ha accolto con favore l'uscita dell'America dall'accordo sul nucleare iraniano. Sperate che questo possa portare a un «regime change» a Teheran?
«Fra sette anni, quando scadrà l'accordo, l'Iran potrebbe essere a pochi centimetri dalla produzione di armi atomiche: è necessario aggiustare l'accordo, allungarlo di decenni. L'America farà pressioni all'Iran non soltanto sul nucleare, ma sul suo sostegno a organizzazioni terroristiche come Hezbollah e Hamas, sullo sviluppo di missili a lunga gittata che già possono colpire Israele e che potrebbero presto colpire l'Europa».
- Crede che l'Europa cambierà idea sull'accordo?
«Dovrebbe. E' una vergogna che l'Unione Europea sotto l'ombrello dell'accordo ignori il comportamento iraniano, le minacce di annientamento d'Israele, e commerci con l'Iran mentre questo prepara missili che potrebbero colpire Berlino e Roma».
- Paesi arabi che non hanno relazioni diplomatiche con Israele stanno cambiando impercettibilmente atteggiamento a causa del comune interesse anti-iraniano. Si potrebbe arrivare a una normalizzazione?
«C'è un nuovo spirito nel mondo arabo. I leader arabi hanno realizzato che il loro problema non è Israele, ma l'Iran e il terrorismo islamico. Noi possiamo aiutarli contro queste minacce».
- State parlando con l'Arabia Saudita?
«Senza entrare nei dettagli, posso dire che parliamo e cooperiamo con molti Paesi e leader arabi. Molti di loro non hanno ancora relazioni diplomatiche con Israele».
- Con la scoperta di gas nel Mediterraneo, Israele sta diventando indipendente dal punto di vista energetico. Che impatto ha questo sulla regione? Possono i nuovi giacimenti creare ulteriore instabilità?
«L'obiettivo è quello di usare gas per ridurre l'inquinamento, per migliorare la salute della popolazione, rimpiazzando carbone e diesel. Entro il 2030, tutta l'energia in Israele sarà pulita, vieteremo automobili che non siano elettriche o a idrogeno. Abbiamo già contratti con Egitto, Giordania, e accordi iniziali con Italia e Grecia. Sarà costruito il più profondo gasdotto nel Mediterraneo, verso l'Italia. Per quanto riguarda le tensioni con il Libano sul gas, difenderemo i nostri diritti, ma preferiamo la soluzione diplomatica. Nell'interesse delle parti, credo ci sarà presto un compromesso».
(La Stampa, 17 maggio 2018)
Perché l'Ue sta sbagliando tutto sul Medio Oriente
Il fondatore del progetto Israel Victory Project, un programma per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso il coinvolgimento della politica statunitense, racconta a Formiche.net la cerimonia dell'inaugurazione dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, analizza la strategia di Trump e i limiti di Bruxelles, e sulla Lega di Salvini dice che...
di Rebecca Mieli
"Nel caso della questione palestinese l'Ue si sta comportando in maniera irresponsabile, finanziando massicciamente la costruzione e il supporto logistico dei palestinesi nell'area C della Cisgiordania", mentre in Italia "il leader della Lega si è espresso a favore dello spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme". La critica giunge in una conversazione con Formiche.net da Gregg Roman, uno degli 800 invitati che hanno preso parte alla ristretta e blindata cerimonia dello spostamento della rappresentanza diplomatica di Washington. Direttore del centro di ricerca americano Middle East Forum, Roman ha lavorato come consigliere politico presso i ministeri degli Esteri e della Difesa israeliani e, dal 2016, ha coinvolto diversi membri del Congresso Usa nell'Israel Victory Project, un programma per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso il sostegno del governo statunitense. Il progetto ha ispirato e influito su numerosi membri dell'amministrazione Trump, orientandone le politiche sulla questione del medio oriente e sulla necessità di cambiare il corso del processo di pace.
- Roman, che tipo di cerimonia è stata quella dell'inaugurazione della nuova ambasciata Usa?
È stato un evento rispettoso, dove è emersa una retorica diplomatica priva di una politicizzazione che sarebbe risultata offensiva. A settant'anni dalla nascita dello stato di Israele gli Stati Uniti non avevano mai avuto una rappresentanza diplomatica a Gerusalemme, non allo stesso livello di una ambasciata, esattamente quello che avrebbe dovuto avere. Sono stato particolarmente colpito dall'intervento di Jared Kushner, che ha rimarcato ciò che è avvenuto a Gaza, senza ignorarne il peso.
- È stato giusto festeggiare, nonostante gli scontri?
Sì, era un momento importante. In particolar modo è stato curioso notare come mentre Israele stava festeggiando un momento di gioia e di arricchimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, a Gaza i membri di Hamas erano impegnati a festeggiare la morte e la distruzione. Se si guarda all'immagine utilizzata dalla Cnn riguardo gli avvenimenti in Israele e Gaza, si può notare come da un lato ci siano i manifestanti di Hamas e dall'altro le figure presenti alla cerimonia: immagini come questa rendono l'idea di quanto i palestinesi si siano voluti allontanare dagli Stati Uniti.
- Cosa è successo davvero a Gaza?
I palestinesi possiedono un talento naturale nell'attrarre verso di sé l'attenzione dei media. Traggono enormi vantaggi dall'interesse dei media occidentali, cercando costantemente di entrare nel cuore e nelle menti della gente. Eppure è così incoerente voler conciliare l'abilità di attrarre le attenzioni dei media da un punto di vista umanitario, ma allo stesso tempo mandare a morire centinaia di civili. Come si può fare breccia nel cuore di un popolo se si contribuisce alla morte di chi ne fa parte? Hanno lanciato molotov, esplosivi di diverso genere, sostanze incendiarie anche contro i raccolti che Israele stessa aveva destinato alla popolazione, questa è la strategia di Hamas. Utilizzare esplosivi e armi che hanno la capacità di uccidere, e poi lamentare una risposta israeliana avvenuta con sostanze lacrimogene, non solo legali ma anche infinitamente meno dannose di quanto usato da loro stessi.
- I media, però, hanno parlato di strage.
Ciò è accaduto perché il modo in cui gli avvenimenti di Gaza sono stati descritti non ha a che fare con i palestinesi, bensì proprio con l'incoerenza e l'ipocrisia dei media occidentali. Se migliaia e migliaia di manifestanti violenti armati di bombe incendiarie, molotov e quant'altro si avvicinassero ai confini di una qualunque nazione al mondo iniziando ad attaccare, la risposta sarebbe certamente più aggressiva di quanto avvenuto in Israele. Con la differenza che Israele, ritirandosi da Gaza, ha dato ad Hamas e alla popolazione di Gaza la possibilità di gestire quell'area in totale autonomia, gli stati europei darebbero la stessa possibilità ad un'organizzazione terroristica all'interno dei loro stessi confini?
- Donald Trump ha spaccato la comunità internazionale o è possibile che nel medio-lungo periodo molti Paesi seguano il suo esempio?
Se c'è qualcuno che ha davvero diviso la comunità internazionale sul Medio Oriente quello è stato Barack Obama. Ci sono invece delle forze politiche in Europa che appoggiano la linea di Trump sul Medio Oriente, ad esempio nel caso italiano il leader della Lega Matteo Salvini si è espresso a favore dello spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme. Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, per non parlare di numerosi stati africani e sudamericani. Gli Stati Uniti non sono soli, perché anche le nazioni europee contrarie alla dottrina Trump hanno all'interno delle forze politiche che ne appoggiano le decisioni.
- Un alleato americano come l'Ue, però, non sembra seguire gli Usa su questa vicenda. Perché?
L'Unione Europea è un involucro vuoto, senza più contenuti. Non c'è posto per l'Unione Europea al tavolo delle trattative e l'opinione di alcune figure, come il l'Alto Rappresentante Federica Mogherini non hanno alcun valore né rappresentano una posizione ufficiale condivisa da tutte le nazioni e le forze politiche. Nel caso della questione palestinese l'Ue si sta comportando in maniera irresponsabile, finanziando massicciamente la costruzione e il supporto logistico dei palestinesi nell'area C della Cisgiordania, un'azione del tutto illegale secondo gli accordi di Oslo al quale l'Unione Europea si appella quando vuole criticare Israele. Violare gli accordi di Oslo per un'istituzione che si appella costantemente alla legalità delle azioni palestinesi in Cisgiordania è un suicidio politico. Finanziando ed appoggiando pubblicamente (si può notare che su queste costruzioni campeggia la bandiera dell'Unione Europea con annessi ringraziamenti per i finanziamenti) la violazione di "Oslo 2", l'Unione Europea contribuisce attivamente alla distruzione di qualsiasi processo di pace futuro, mostrando al mondo l'ipocrisia che si nasconde dietro le istituzioni europee.
- Come valuta le mosse del presidente Usa in Medio Oriente?
Se si guarda alla strategia di Trump si possono elencare alcuni punti fondamentali strettamente correlati tra loro: in primo luogo esiste una divisione netta tra alleati e nemici degli Stati Uniti. Logicamente, lo step successivo è di natura economica, ovvero gli alleati degli Stati Uniti possono beneficiare di ottime relazioni economiche e di benefit, i nemici non possono. Questo discorso non è applicabile solo, ad esempio, all'Iran e alle nazioni dichiaratamente anti americane, ma anche all'Europa: se gli stati europei vogliono i benefit, allora devono dialogare con Trump. La dottrina internazionalista di Obama, mirata a porre prima gli interessi della comunità internazionale nella sua complessità e solo in un secondo momento quelli della nazione americana, ha fatto pagare agli Stati Uniti un prezzo troppo alto, ovvero creare una spaccatura tra noi e i nostri alleati storici. Trump ha capovolto totalmente la dottrina Obama e sta ricucendo lo strappo con questi attori, in particolare Egitto, Israele e paesi del Golfo.
- Cosa si aspetta ora?
È difficile dire cosa accadrà nel lungo periodo perché dipende dalla linea politica del successore di Trump. Ma se un futuro presidente americano decidesse di continuare in questa direzione, ovvero porre gli interessi nazionali prima di quelli della comunità internazionale (così come avvenuto non solo con Repubblicani come Nixon e Bush ma anche con Democratici come Kennedy, Johnson, Truman o Roosevelt), allora anche gli interessi degli alleati verranno prima di quelli dei non-alleati. Il pericolo con Trump è che se questa dottrina dovesse essere portata agli estremi potrebbe condurre gli Stati Uniti ad un "nuovo isolazionismo". Questo è importante soprattutto per il Medio Oriente, considerando il crescente raffreddamento dei rapporti tra Stati Uniti e Turchia e i rapporti con il nuovo governo in Iraq. Se davvero Trump ha deciso per un disimpegno in Medio Oriente, sarà importante anche mantenere buoni rapporti con le potenze regionali, perché altrimenti si ritroverebbe in un secondo momento a dover impegnare più Truppe per difendere interessi ed alleati.
- Quali cambiamenti concreti implica lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme?
In linea pratica nulla. Lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme non ha nulla a che vedere con il processo di pace. In teoria, la questione più spinosa è che il continuo manifestare contro gli Stati Uniti, il continuo dire "no" a qualsiasi iniziativa americana in merito al processo di pace da parte dei palestinesi non gli porterà ad ottenere di più. Ogni rifiuto condurrà a sempre meno concessioni, non "nessuna", ma sicuramente meno di quelle che otterrebbero collaborando. Dagli accordi di Oslo ogni proposta alternativa è stata rifiutata radicalmente dai palestinesi, e le amministrazioni americane che hanno seguito il processo di pace, pur di raggiungere tale obiettivo, hanno continuato a elaborare piani per concedere sempre di più. L'idea americana oggi è quella di diminuire, non cancellare, ma diminuire l'appoggio alla causa territoriale palestinese allo stesso modo con cui i palestinesi hanno e continuano a rifiutare qualsiasi proposta alternativa. Infine, il presidente Trump è disposto a dialogare con tutti i leader del mondo, ma alcuni di loro, in particolare leader come Abbas o come Angela Merkel non sembrano avere gli strumenti per sostenere un dialogo con lui. In queste condizioni, nonostante ci sia la concreta possibilità che Trump chieda ad Israele di fare delle concessioni ai palestinesi (ad esempio circa alcuni quartieri di Gerusalemme), è probabile che siano proprio loro a non voler accettare tale proposta. Il nemico peggiore dei palestinesi sono, forse, i palestinesi stessi.
(formiche.net, 17 maggio 2018)
Da Saviano a Foa: 'Tacciano le armi prevalga il dialogo'
Lettera a "la Repubblica"
«Israele oggi assomiglia più a una fortezza che non a una casa», ha detto David Grossman aprendo, tre settimane fa, una cerimonia congiunta di commemorazione delle vittime del conflitto, israeliane e palestinesi, a Tel Aviv, in ebraico e in arabo. In queste ore a Gaza sangue si aggiunge su sangue. Condividiamo il dolore delle vittime palestinesi. Noi sottoscritti, sostenitori del diritto di Israele ad esistere come stato entro confini legittimi, sicuri e riconosciuti, e ugualmente di quello dei palestinesi ad uno stato indipendente, guardiamo con estrema preoccupazione alle prime conseguenze, letali per le prospettive della pace, dello spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme da parte dell'amministrazione Trump. Non possiamo tacere di fronte all'uso sproporzionato della forza da parte di Israele. L'uso di armi da fuoco contro civili è ammissibile soltanto se detti civili partecipano direttamente ad azioni ostili, non se varcano o cercano di superare la frontiera con Israele. Vi sono mezzi non letali per contenere e disperdere proteste anche di massa. Condanniamo la retorica fondamentalista di Hamas che non abbandona il rifiuto di Israele né desiste da una guerra di guerriglia che espone la gente di Gaza alla rappresaglia di Israele. Chiediamo, soprattutto, che tacciano le armi e si cerchino ora e per il futuro, da parte di tutti, le vie politiche del dialogo, della conoscenza reciproca e della pace in tutta la regione.
Roberto Della Seta, David Calef, Bruno Contini, Anna Foa, Lisa Ginzburg, Wlodek Goldkorn, Giorgio Gomel, Helena Janeczek, Simon Levis Sullam, Laura Mincer, Michele Sarfatti, Roberto Saviano, Susanna Terracina, Alessandro Treves
(la Repubblica, 16 maggio 2018)
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Ipocriti!
Gli ipocriti di mezzo mondo parlano di "reazione sproporzionata" di Israele riferendosi ai fatti di Gaza.
Tre ragazzi grandi e grossi, armati di bastoni, asce e coltelli cercano di sfondare la porta di casa mia. E' fin troppo chiaro che vogliono farmi a pezzi. Io ho una pistola, sparo e ne uccido uno. La mia è stata una "reazione sproporzionata"?
Difendere molti chilometri di confine non è come impedire ad un corteo di percorrere una certa via o di entrare in una certa piazza. Strade e piazze possono essere difese da poliziotti in assetto antisommossa, chilometri di confine NO. Se qualcuno pensa che i confini di Israele possano essere difesi coi lacrimogeni ed i manganelli dagli attacchi di decine di migliaia di fanatici armati è un imbecille o è in malafede. Propendo per la seconda ipotesi, senza escludere che sia entrambe le cose.
I terroristi di Hamas mirano a DISTRUGGERE ISRAELE, punto e basta. Chi oggi condanna Israele perché avrebbe "ecceduto" sia, per una volta, onesto. Dica chiaramente che Israele NON DEVE ESISTERE!!! Perché QUESTO è il punto, non gli "eccessi", non i territori, non il muro, non i "profughi", non l'ambasciata americana.
Israele non deve esistere, quindi ogni suo atto di difesa è, in quanto tale, sempre sproporzionato, anzi, criminale. Israele non deve esistere, quindi fanno benissimo i miliziani di Hamas a cercare di forzare i suoi confini, a lanciare razzi contro le sue città, a scavare gallerie, organizzare attentati, sgozzare a caso suoi cittadini, farsi esplodere in ristoranti e discoteche. Per sintetizzare: Israele non deve esistere quindi ogni attacco ad Israele, anche il più repellente, è comunque giustificato, ed ogni atto che Israele compie per difendersi, anche il più ragionevole, è comunque privo di giustificazioni. Questa la situazione, che nessuno può ignorare. Gli ipocriti che firmano appelli contro Israele, compresi quegli "intellettuali" ebrei che sparano veleno contro lo stato che agli ebrei ha dato rifugio e protezione per la prima volta in 2.000 anni, abbiano il coraggio di dire, anche loro, che Israele non deve esistere. Non si rifugino dietro a fumosi discorsi sulla capitale, le reazioni spropositate o i "territori".
Chi invece pensa che Israele ha diritto di esistere cerchi di non farsi travolgere dalla canea antisemita. Se uno stato ha diritto di esistere ha anche DIRITTO DI DIFENDERSI. Nessuno stato al mondo accetterebbe che migliaia di scalmanati forzino i suoi confini. Israele ha diritto di non accettarlo. Perché è uno STATO SOVRANO, come tutti gli altri.
E tanto basta.
(il blog di Giovanni, 16 maggio 2018)
L'architettura della Tel Aviv degli anni '30 in una mostra al Maxxi di Roma
Di scena dal 16 maggio al 2 settembre, è curata da Nitza Metzger Szmuk ed è stata organizzata in occasione dei 70 anni dalla fondazione dello Stato d'Israele.
di Ariela Piattelli
Trasformarono le dune in strade, costruirono quattromila edifici bianchi, moderni, che oggi si incastonano tra i grattacieli. Erano gli architetti che negli anni '30 arrivarono a Tel Aviv dall'Europa per fondare un nuovo mondo nel Medioriente. E la storia dell'architettura della Città Bianca ne spiega il segreto, quella spinta verso il futuro che ha nel suo DNA, lo spirito di contemporaneità che punta sempre al domani. A Tel Aviv è dedicata la mostra al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, titolata "Tel Aviv. The White City" (dal 16 maggio al 2 settembre), a cura di Nitza Metzger Szmuk, organizzata in occasione dei 70 anni dalla fondazione dello Stato d'Israele. Foto, schizzi, plastici, filmati e documenti d'epoca, raccontano il progetto urbanistico a cui negli anni '20 e '30 collaborarono architetti ed ingegneri europei, ognuno con il suo stile.
Dalle dune al Bauhaus
Dal Bauhaus al Movimento Moderno la mostra, attraverso le storie di undici edifici, si concentra sullo sviluppo della città dagli anni '30 ai '50, quando Tel Aviv iniziò a crescere grazie ai flussi migratori dall'Europa. Gli intellettuali, gli ingegneri e gli architetti disegnarono la città seguendo i gusti dei nuovi immigrati. «In questa mostra, che dal 2004 ha già toccato 14 tappe, esponiamo l'unicità di Tel Aviv. Il suo linguaggio architettonico nasce dalle persone che hanno portato dall'Europa tante idee, interpretazioni e influenze diverse del Movimento Moderno» - spiega Metzger Szmuk, l'architetta che ha redatto il dossier per Tel Aviv patrimonio dell'Unesco (riconoscimento attribuito nel 2003) e che ha guidato il restauro di centinaia di edifici storici della città. «E' questo "mix" unico di stili che ha creato un nuovo linguaggio. - continua - Gli architetti negli anni '30, ormai lontani dall'Europa, sentivano la libertà di interpretazione del moderno».
Influenze dall'Italia e la villa di Mendelsohn
Ci sono storie di grandi architetti e urbanisti che collaborarono alla progettazione di Tel Aviv, come quella di Patrick Geddes, a cui nel '25 fu chiesto il progetto urbanistico della città, e poi i giovani che ebbero ampia libertà di esprimersi: l'ucraina Genia Averbuch aveva poco più di vent'anni quando vinse il concorso per Kikar Dizengoff, la piazza da dove si irradiano i boulevard della città e attorno alla quale lei volle solo edifici rotondi con grandi terrazze. Altri si ispirarono all'Italia, avevano frequentato le accademie di Napoli, Roma, Padova e Venezia, come Ya'acov Shiffman che ripropose le arcate di Sabaudia e Latina sulla piazza della sinagoga in Allenby Street e sulla Ibn Gvirol, la strada più lunga di Tel Aviv. Un filmato inedito racconta la storia della villa di rappresentanza che il futuro primo presidente dello Stato d'Israele, Chaim Weizmann, commissionò in una breve lettera al grande architetto tedesco Erich Mendelsohn.
Ieri come oggi
«Questa mostra, a cui abbiamo lavorato due anni, è per noi un modo per far conoscere un Paese e la sua cultura, frutto di scambi e di apporti da tutto il mondo. - spiega l'addetto culturale dell'Ambasciata d'Israele Eldad Golan - Tel Aviv è la prima città ebraica emersa dalle dune lungo la costa del Mediterraneo. È stata concepita per essere moderna e contemporanea e cosmopolita. E' questo che la rende unica». Nelle pubblicazioni d'epoca si sfogliano pagine dedicate all'architettura e allo stile di Tel Aviv: «Allora sembrava un mondo così lontano, ed è impressionante come già in quegli anni la città fosse sulle pagine dei giornali e delle riviste europee, proprio come oggi. - conclude la curatrice - Oggi come ieri l'architettura di Tel Aviv, con i suoi edifici e i grandi boulevard, trasmette un senso di libertà, ottimismo, e questo resta per sempre».
(Israele Storia e Cultura, 15 maggio 2018)
Gaza: massacro previsto e provocato a fini di propaganda contro Israele Articolo OTTIMO!
di Pierluigi Magnaschi
Il quotidiano parigino Le Monde, nel quale la presenza ebraica è largamente rappresentata, soprattutto agli alti livelli giornalistici e manageriali, anche se è temperata da un certo spirito critico nei confronti dei comportamenti e delle scelte del governo israeliano di centrodestra, ha iniziato ieri il servizio di prima pagina dedicato agli scontri nel confine fra Gaza e Israele, in questo modo: «Le donne in prima linea. Tutti i venerdì, dal 30 marzo scorso, i palestinesi manifestano pacificamente alla frontiera di Israele con Gaza, per la marcia del grande ritorno». In cinque righe tipografiche si diffondono delle notizie verosimili ma anche inesatte e in ogni caso fuorvianti. Con le poche righe poc'anzi citate si propone infatti una versione dei fatti, apparentemente oggettiva, ma anche subliminalmente alterata.
Vediamo di smontare questo meccanismo lessicale. Partiamo da «le donne in prima linea». Chiunque abbia visto i filmati degli scontri si è accorto che le donne c'erano ma esse erano in grandissima minoranza. Perché allora Le Monde, che pure è un quotidiano solitamente molto scrupoloso, ha puntato su questo particolare, enfatizzandolo? Perché le donne vengono percepite, sempre e da tutti, come pacifiche, o comunque, in ogni caso, meno bellicose dei giovani della loro stessa età. Se quindi una manifestazione mette sul terreno le donne, questa manifestazione non può che essere pacifica, per definizione. Le Monde, non fidandosi dell'immagine subliminale, anche se essa è molto efficace, aggiunge (sempre nelle pochissime righe evidenziate) che i partecipanti «manifestano pacificamente» per, aggiunge, «la marcia del grande ritorno».
E qui casca l'asino dell'informazione manipolata (molto bene, bisogna pure dire). Decifriamola quindi: come può essere pacifica una manifestazione di decine di migliaia di persone che si propongono di invadere (sia pure «pacificamente»; anche se nemmeno questo particolare è del tutto vero) un altro paese che, da sempre, dichiarano di volere cancellare dalla faccia della terra e che hanno a lungo e violentemente attaccato militarmente in passato, distraendo le immani risorse (in gran parte frutto di aiuti internazionali) che avrebbero potuto e dovuto destinare al loro sviluppo?
Invadere pacificamente un paese che si dichiara anche, ufficialmente e ripetutamente, di voler distruggere, e con il quale si mantiene uno stato di guerra, non è una passeggiata tranquilla e pacifica ma è una invasione vera e propria. Fatta con le persone, anziché con i missili. Ma il paese che ne è oggetto, qualunque esso sia, non può che reagire ricorrendo anche alle armi pur di impedirla. Perché allora la dirigenza di Hamas, pur sapendo che «la marcia del grande ritorno» sarebbe stata bloccata dagli israeliani anche con le armi, l'ha ugualmente organizzata, promossa, voluta, propagandata?
Primo, perché, vista la fine che ha fatto Hamas quando ha attaccato militarmente Israele, ha preferito non subire un'altra e inevitabile disfatta sul piano militare. E, secondo, perché con la «Marcia pacifica del grande ritorno» poteva far cadere sulle spalle delle forze armate israeliane la responsabilità di aver fatto ricorso alle armi contro manifestanti pacifici, anche se questa reazione era stata fatta per impedire quella che sarebbe stata una vera e propria invasione del suo territorio. Sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista propagandistico o mediatico.
Si ripete, con «la Marcia del grande ritorno» lo stesso cinico copione di quando, nel 2008, Hamas mandò missili su Israele inviandoli da scuole con dentro gli studenti o da ospedali funzionanti. Gli israeliani, che erano in grado di localizzare in tempo reale i posti dai quali i missili di Gaza erano stati tirati verso il loro paese, replicavano con i tiri di precisione dei loro missili che colpivano sì le basi missilistiche di Hamas ma anche, inevitabilmente, i civili, suscitando così il risentimento internazionale contro i feroci soldati israeliani che non esitano, si diceva, «a bombardare bambini e ammalati».
Ma la colpa di queste reazioni è di coloro (gli israeliani) che hanno risposto a un attacco verso basi missilistiche di Hamas o di chi aveva scelto di far partire l'attacco da un edificio civile ben sapendo che le sue basi sarebbero state puntualmente e inevitabilmente distrutte dall'esercito di Tel Aviv? In questo caso, addirittura, per ragioni di legittima difesa che, in caso di guerra, non è nemmeno il caso di invocare.
A questo proposito, e anche per dimostrare, purtroppo, che questi problemi non nascono oggi, ma si ripetono da decenni come se si trattasse di un disco rotto, che nessuno si è mai peritato di interrompere, può essere significativo richiamare una argomentata dichiarazione fatta, in un'intervista del 1972 (!), dall'allora premier israeliano Golda Meir: «Io credo», disse il premier, «che la guerra nel Medio Oriente durerà ancora molti, molti anni. E le spiego subito perché faccio questa affermazione. Ciò lo si deve all'indifferenza con cui i capi arabi mandano a morire la propria gente, per il poco conto in cui tengono la vita umana, per l'incapacità dei popoli arabi a ribellarsi e a dire basta».
Golda Meir proseguiva dicendo che «alla pace con gli arabi si potrebbe arrivare solo attraverso una loro evoluzione che includesse la democrazia. Ma, ovunque giro gli occhi e li guardo, non vedo da loro nemmeno un'ombra di democrazia. Vedo solo regimi dittatoriali. E un dittatore non deve rendere conto al suo popolo di una pace che non fa. Non deve rendere conto neppure dei morti. Chi ha mai saputo quanti soldati egiziani son morti nelle due ultime guerre? Soltanto le madri, le sorelle, le mogli, i parenti che non li hanno visti tornare. I capi non si preoccupano neanche di sapere dove sono sepolti, se neppure sono sepolti. Noi invece ... »,
A questo punto, Golda Meir si avvicinò a uno scaffale e disse: «Guardi questi cinque volumi. Raccolgono la fotografia e la biografia di ogni soldato e di ogni soldatessa israeliana morta in guerra. Ogni singola morte, per noi, è una tragedia. A noi non piace fare le guerre: neppure quando le vinciamo. Dopo l'ultima, non c'era gioia per le nostre strade. Non c'erano danze, né canti, né feste. E avrebbe dovuto vedere i nostri soldati che tornavano vittoriosi. Erano, ciascuno, il ritratto della tristezza. Non solo perché avevano visto morire i loro fratelli, ma perché avevano dovuto uccidere i loro nemici. Molti si chiudevano in camera e non parlavano più. Oppure aprivano bocca per ripetere, in un ritornello: "Ho dovuto sparare. Ho ammazzato". Proprio il contrario degli arabi».
(ItaliaOggi, 16 maggio 2018)
I morti di Gaza potevano essere salvati? Hamas e la coscienza dell'Europa
Una chiara condanna dell'uso della popolazione civile per i fini politici di Hamas potrebbe esser un primo passo da parte dell'Europa per portare la pace.
di Giovanni Quer
I morti e i feriti tra i palestinesi sono già oggetto di analisi che formulano accuse di strage, violenza indiscriminata o sproporzionata e addirittura di genocidio, associando gli scontri con lo spostamento dell'Ambasciata americana a Gerusalemme. Le violenze al confine di Gaza sono un'ulteriore occasione per creare una crisi diplomatica da cui Turchia e Hamas hanno di che guadagnare. Gli Stati Uniti e i Paesi arabi non si presteranno al gioco, ma quale sarà la politica dell'Europa?
Il giornale palestinese Al Hayat Al Jadida pubblica una lunga serie di "reazioni internazionali al massacro ad opera dell'occupazione contro i civili inermi a Gaza". Tra di queste, la prima è la Turchia. Erdogan ha una lunga storia di inimicizia verso Israele, che ha definito già l'anno scorso come "assassino di bambini", definendolo uno Stato terrorista e accusandolo di genocidio. Altri Stati seguono la via della condanna: Belgio e Irlanda hanno chiamato gli ambasciatori israeliani per chiarimenti. La rappresentante della politica estera europea Mogherini ha sottolineato la necessità di assicurare il diritto di protesta pacifica e ammonito Hamas a non strumentalizzare le proteste per perseguire altri fini.
La Turchia ha allontanato l'ambasciatore israeliano, richiamato il rappresentante in Israele, e ha indetto una sessione straordinaria dell'Organizzazione della Conferenza Islamica. Erdogan lo aveva già fatto nel dicembre 2017, in condanna della dichiarazione di Trump. In un Medio Oriente troppo mite, con un asse arabo-sunnita che guarda con speranza ai cambiamenti della politica di Trump, la Turchia vuole essere il baluardo delle posizioni oltranziste contro lo Stato ebraico. Il quotidiano conservatore Yeni Safak espone una serie di articoli che con un po' di ironia (USA e Israele sarebbero pronti a mettere le loro bandiere su La Mecca) e molta retorica (si parla di martiri) condannano Israele e gli Stati Uniti per il massacro. Alla seduta straordinaria del parlamento, il vice primo ministro Bekir Bozdag conferma che Gerusalemme è la capitale della Palestina e che gli Stati Uniti sono parte del problema nella regione.
Questa posizione è stata delineata nel discorso di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, in occasione della commemorazione del terrorista libanese Mustafa Badreddine, coinvolto in diverse stragi compreso l'attentato al Primo ministro Hariri. Dopo aver accusato Israele di aver attaccato ingiustamente la Siria, Nasrallah accusa i Paesi del Golfo e l'Arabia Saudita per il loro filo-americanismo, elogiando la "resistenza palestinese" come parte dell'asse che dall'Iran alla Siria e allo Yemen si oppone con la jihad al nemico americano e ai suoi alleati nella regione.
Hamas ha dimostrato di aver saputo orchestrare le manifestazioni. Raggiunto lo scopo di aver causato morti tra i civili e i militanti mandati al confine, Hamas si ritira trionfante dal fronte di Gaza, lasciando che le rivolte continuino nella West Bank. La rabbia della popolazione per le condizioni di vita sempre più precarie è stata dirottata su Israele. I cuori dei palestinesi nella West Bank sono stati galvanizzati da una leadership forte che sa trascinare Israele in scontri che portano solo a condanne anti-israeliane. L'Egitto lascia aperto il valico di Rafiah, accettando anche parte dei feriti che non troverebbero cura negli ospedali sovraffollati di Gaza. Infine, Hamas non cederà alle trattative per la liberazione dei corpi dei soldati e dei prigionieri israeliani che Hamas tiene in ostaggio.
Si poteva evitare? Il 22 febbraio 2018, una delegazione di Hamas e una dell'Autorità Palestinese si incontrano al Cairo per discutere di Gaza e di un eventuale scambio di prigionieri con Israele. Hamas non aveva ceduto alle richieste di Abu Mazen, rischiando di incorrere in altre sanzioni che avrebbero portato la popolazione a un punto di tale disperazione da innescare rivolte anti-regime. Con la pianificazione delle rivolte non solo si è dato alla popolazione un altro motivo di rabbia, ma anche una fonte di sostentamento (pagando i feriti in proporzione alla gravità). La preparazione delle masse di manifestanti è stata minuziosa, con manuali di infiltrazione della barriera al confine, campagne di invasione per il rapimento di israeliani e una campagna mediatica internazionale sul diritto al ritorno. I discorsi infiammanti di Yahiya Sinwar, Ismail Haniyeh e Hamad Fathi il 31 marzo 2018 nei luoghi delle proteste avevano annunciato ogni mossa. I discorsi in Occidente sulla Nakba avevano tentato di offuscare le reali intenzioni di Hamas.
La leadership palestinese vuole eludere le posizioni statunitensi, troppo pragmatiche, rivolgendosi all'Onu, dove le maggioranze anti-israeliane sono automatiche. Un'eventuale inchiesta sull'accaduto finirebbe come in passato: con un mandato molto ristretto che preordina la condanna di Israele, con una decisione di non collaborare da parte di Israele e con un'astratta disquisizione sulla proporzionalità e l'uso della forza. Una possibile denuncia alla Corte Penale Internazionale non sarebbe poi da escludere, soprattutto dopo le notizie date ormai per certe della neonata Laila morta alle manifestazioni e soffocata, sostengono i palestinesi, dal gas lacrimogeno israeliano - notizia non verificata che cementa la convinzione che siano stati compiuti crimini internazionali.
Ebbene l'Europa è in una posizione speciale perché può esercitare una forte condizionalità sui molti finanziamenti che confluiscono a Gaza e nella West Bank, gran parte dei quali sono finalizzati a progetti di difesa dei diritti umani e sviluppo di infrastrutture. In questa posizione l'Europa può davvero creare le condizioni per una pace giusta e duratura. Una chiara condanna dell'uso della popolazione civile per i fini politici di Hamas potrebbe esser un primo passo. Impedire che le piattaforme internazionali vengano utilizzate per una politica anti-israeliana sarebbe di grande aiuto per un processo di pace in stallo ormai da troppi anni. Infine, la forzata connessione tra gli scontri e lo spostamento dell'ambasciata statunitense, che serve solo a neutralizzare il ruolo di mediazione degli Stati Uniti, dovrebbe essere ricusata per garantire un futuro di stabilità alla regione.
La rappresentante statunitense Nikki Haley all'Onu ha detto che gli Stati Uniti sono a favore di una discussione sulle violenze in Medio Oriente, fintantoché tale discussione sia bilanciata e abbia in analisi il quadro completo. Lo farà anche l'Europa?
(formiche.net, 16 maggio 2018)
Pugno di ferro di Israele e sostegno occidentale. Hamas fa marcia indietro
Scesi da 20mila a 400 i dimostranti al confine. Altre due vittime, tra cui una neonata di 8 mesi
Isolamento
Ai palestinesi pochissimo appoggio dai Paesi arabi. Il Cairo richiama all'ordine
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La strategia
I terroristi sulla Striscia confusi tra la gente e il fumo dei copertoni
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di Fiamma Nirenstein
Ieri è stata in Israele una giornata di carta, la protesta si è trasformata in titoli di giornali eccitati in cui, mostrando una scarsissima comprensione dell'evento, veniva mostrata con scherno e disprezzo la dissonanza fra il sorriso di Ivanka Trump all'apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme e la violenza a Gaza trasformata nei titoli in lutto per la morte dei 60 palestinesi uccisi dai tiratori scelti israeliani a guardia di un confine preso d'assalto. Hamas ha avuto la sua festa di morte, come vuole la cultura degli Shahìd, ormai sperimentata sulle migliaia di morti civili fra gli israeliani, e stavolta rovesciatasi sulla propria cinica scelta di mandare ad assalire il confine i propri compagni. Del resto Hamas ha esperienza anche nell'uccisione di palestinesi: lo ha fatto con gli uomini di Abu Mazen quando li ha scaraventava giù dai tetti durante la guerra per Gaza nel 2007.
Lunedì c'erano 20mila persone, ieri solo 400 lungo questa striscia di terra orlata da una parte dai kibbutz di Israele che sorgono lungo il filo spinato e quelle case in fondo, dove soffre sotto la sferza di Hamas una popolazione di due milioni di persone costretta a un regime islamista, militare, terrorista. Sotto questo regime vivono tuttavia donne, bambini, e vecchi stanchi della guerra: non importa, lunedì hanno ricevuto l'ordine di cercare di forare il confine. Ieri invece, hanno ricevuto quello di stare a casa, e per capire che cosa è successo occorre pensare a due ipotesi: o Hamas sente di aver vinto la battaglia dei media, e quindi si dà una tregua da cui poi risorgerà coi suoi attacchi, oppure sente di aver perso (anche questo non vuol dire fine dello scontro) a causa della dura difesa del confine da parte israeliana e soprattutto dato lo scarso sostegno arabo e la pressante richiesta egiziana di tornare all'ordine. La gente cui manca il denaro per mangiare e che, se non ha scelto di diventare Shahid, probabilmente è rimasta scottata dal numero dei morti (ieri un uomo e anche una bimba di otto mesi). Non solo: ieri sera, con mossa misteriosa Hamas ha cominciato prima a ritirare i drappelli dei suoi guerriglieri, e poi ha ordinato a tutti di salire sugli autobus e lasciare la no-man-land.
Ieri è stato mostrato dall'esercito ai giornalisti un filmato che fa vedere come si sono svolte le manifestazioni: un gruppo di otto terroristi coperti dal fumo dei copertoni e dalla folla organizzata, arriva armato, sparando, quasi fino al recinto e là viene fermato dai soldati israeliani. Sono stati uccisi mentre carichi di esplosivo entravano in Israele. Fra i soldati chi è stato sul confine racconta che è dura vedere decine di migliaia di persone guidate da un gruppo terrorista che arma più persone possibili di bottiglie molotov, aquiloni fiammeggianti, coltelli, cesoie, pistole quando si tratta di militanti dell'organizzazione, che si precipitano coperti da gente normale. Devi fermarli, perché non si può lasciare che il confine, minacciato da un gruppo terrorista, venga violato: basta un gruppetto che possa sventolare la bandiera in territorio israeliano e l'eccitazione salirebbe alle stelle.
Hamas ha stupito tutti richiamando a casa i suoi: forse ha pesato il fatto che il gioco della «non violenza» e delle «marce popolari» che ha cercato di giocare non ha retto la sfida della furia popolare e la risposta israeliana. Israele ha subito riaperto il passaggio di Kerem Shalom con gli aiuti umanitari e il passaggio dei feriti, e anche gli egiziani hanno aperto dalla loro parte a Rafah. Nel West Bank dove si sono svolte ieri manifestazioni molto accese, si capisce che Hamas ha tuttavia in mano la fiaccola della lotta palestinese in questo momento e Fatah non vuole mandarla avanti. Hamas a sua volta forse cerca un miglior controllo: non vuole perdersi nel caos e teme anche l'esasperazione della gente. La sua gestione di Gaza ha perduto anche il sostegno di Abu Mazen.
Mentre la partecipazione è crollata, si può sperare in una ripresa di dialogo, di un focus migliore sul benessere di Gaza, che distolga dal virus del «martirio»: ma per fare questo, Hamas deve scendere dal suo podio, e invece l'informazione e la politica europea, contrariamente a quella americana che ne riconosce la responsabilità, come al solito, biasima Israele.
(il Giornale, 16 maggio 2018)
"Hamas vuole distruggerci. Ma Israele non farà le valigie"
Parla Ilan Isaacson, a capo della sicurezza dei kibbuz al confine con gaza. "Abbiamo pochi secondi per trovare riparo"
di Giulio Meotti
ROMA - "Mentre arrivavano le notizie da Gaza, lunedì non ho fatto altro che passare da un kibbutz all'altro a rassicurare la popolazione, e poi a spegnere incendi". Ilan Isaacson fa un lavoro ingrato. E' il capo della sicurezza del consiglio regionale di Eshkol, ovvero le comunità israeliane a ridosso della Striscia di Gaza. Ottocento metri separano Nahal Oz dal reticolato assaltato dai palestinesi. Oltre c'è Shejaiya, un quartiere di Gaza. Il kibbutz Nir Am durante l'ultima guerra si è svegliato con un tunnel di Hamas nei suoi giardini. Poche centinaia di metri separano gli israeliani di Nirim da Khan Younis. "Il confine era aperto" racconta al Foglio Isaacson, che è anche riservista e comandante di un battaglione dell'esercito e che vive a Sde Nitzan, un moshav non lontano da Gaza. "Andavamo nella Striscia a fare la spesa, mia moglie si recava a Rafah. E i palestinesi venivano qui a lavorare. Avevamo ottime relazioni. Poi l'Intifada, i missili, il golpe di Hamas hanno cambiato tutto. Hamas vuole distruggerci. Insegnano questo ai loro bambini. Per questo oggi quel confine riconosciuto dal 1947 è chiuso". Ieri due ministri, Yoav Galant e Gilad Erdan, hanno detto che Israele potrebbe tornare alle uccisioni dei capi di Hamas, a cominciare dal leader Yahya Sinwar: "Hanno detto che vogliono morire sul confine, accontentiamoli" ha spiegato Erdan. Di ieri la notizia di parte israeliana che 24 delle vittime di Gaza erano effettivi dei gruppi terroristici.
Ilan Isaacson, capo della sicurezza delle comunità israeliane che vivono a ridosso della Striscia di Gaza, invita ad aprire una mappa. "C'è un confine anche fra Egitto e Gaza", dice Isaacson al Foglio. "Perché l'Egitto non lo apre, sono loro fratelli arabi no? E perché nessuno glielo chiede? Perché la relazione fra Hamas ed Egitto è peggiore che fra Hamas e Israele. Se Hamas ha bisogno di qualcosa viene da noi. L'Egitto è contro Hamas, come gran parte dei paesi arabi, dall'Arabia Saudita ai paesi del Golfo. I soldi di Hamas arrivano dall'Iran, dal Qatar e da altri paesi. Queste manifestazioni al nostro confine sono organizzate da Hamas e dalla Jihad Islamica, non sono spontanee. Sono certo che molti a Gaza vorrebbero vivere in pace, ma non ci sono democrazia e diritti, non hanno scelta. I loro feriti vengono pagati da Hamas. I terroristi con queste manifestazioni vogliono risollevare la questione palestinese. Dal 2005 non c'è più un solo israeliano, civile o soldato, nella Striscia di Gaza. Hanno avuto la loro terra. Vogliono anche la nostra?".
Isaacson ci spiega quali minacce affrontino gli israeliani che vivono a un tiro di schioppo da quel reticolato sotto assedio. "Sedicimila civili risiedono nelle comunità al confine di Gaza. E queste persone ricevono molte minacce da Hamas. Si va dai tunnel, l'arma più sofisticata dei terroristi, li stiamo distruggendo ma ce ne sono molti che possono ancora usare, ai mortai che possono lanciare facilmente. Di questi missili Hamas si calcola che ne abbia diecimila e contro questi non funziona Iron Dome, il nostro sistema di difesa antimissile, perché siamo troppo vicini al confine. Abbiamo da cinque a quindici secondi per trovare riparo se suona l'allarme rosso. Così in questi anni abbiamo costruito novemila bunker antimissili per queste comunità che si trovano entro sette chilometri dal confine con Gaza. Anche nelle nostre scuole abbiamo i bunker. Adesso i palestinesi stanno bruciando i nostri campi e lanciano bombe artigianali sui nostri soldati e le nostre case". Isaacson è fiero di essere in prima linea. "Tre comunità di cui coordino la sicurezza, Beeri, Gvulot e Nirim, furono costruite nel 1946, ovvero ancor prima della nascita dello stato di Israele. In una sola notte furono tirati su questi kibbutz. All'epoca c'erano gli inglesi al potere. E quei kibbutz sono ancora lì, oggi minacciati da Hamas. Nirim ha subito molti attacchi terroristici e ha avuto molti morti da parte degli egiziani e poi de fedayyin".
A Isaacson abbiamo anche chiesto cosa accadrebbe nel worst case scenario, ovvero nel caso in cui migliaia di palestinesi superassero il reticolato, l'esercito israeliano arretrasse e il confine cedesse.
"Spero che non accada mai" ci spiega Isaacson. "Molti palestinesi verrebbero uccisi. E nessun israeliano vorrebbe più vivere qui. Per questo dobbiamo fermarli nel loro territorio. Il trauma sarebbe così profondo che niente in quest'area sarebbe più come prima. Ieri hanno cercato in più punti di distruggere il confine. Il 99 per cento dei palestinesi uccisi erano sul confine o erano entrati dentro a Israele di pochi metri". L'esercito ha rivelato che otto terroristi di Hamas erano effettivamente entrati, che avevano aperto il fuoco contro i soldati, prima di essere eliminati.
"Israele aveva lanciato volantini e aveva detto loro: 'Non avvicinatevi, non superate il confine"' ci dice Isaacson. "Il confine è l'unico ostacolo che per noi separa la vita e la morte. Ma è così anche in Libano e in Siria, i kibbutz che si trovano lassù". Nonostante i campi bruciati, i proclami del capo di Hamas Sinwar di voler "mangiare i fegati degli israeliani", i tunnel e le infiltrazioni, nessun israeliano ha fatto la valigia. "Dall'ultima guerra nel 2014, la nostra popolazione è cresciuta del dieci per cento. Non ce ne andremo".
(Il Foglio, 16 maggio 2018)
Diplomazia, alleanze, rivolte, reazioni. I nuovi confini della guerra contro Israele
Teheran si intesta la rivolta palestinese contro Trump e lsraele mentre cerca di salvare l'accordo nucleare con gli europei teme i ricaschi economici del ritiro americano dal deal. Gli europei stanno scomodi.
di Paola Peduzzi
MILANO - Israele uccide "a sangue freddo", ha twittato il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, prima di imbarcarsi sul volo che ieri lo ha portato a Bruxelles al vertice salva-accordo con i partner europei: innumerevoli palestinesi sono stati "massacrati mentre protestavano nella più grande prigione a cielo aperto del mondo", la Striscia di Gaza, ha scritto Zarif, e intanto Donald Trump inaugurava la sua ambasciata "illegale" e "gli altri paesi arabi cercavano di distogliere l'attenzione". L'Iran condanna l'azione militare di Israele contro i manifestanti - almeno 60 morti nella giornata di lunedì, duemila feriti - e accusa l'America di aver destabilizzato una regione che già stabile non era, ma sottolinea anche la frattura con gli altri paesi della regione, che ha consolidato fronti così distanti che nemmeno la questione palestinese e lo status di Gerusalemme, il collante da sempre di ogni guerra mediorientale, riescono più a unire. "La Striscia di Gaza sta diventando come lo Yemen", ha detto lunedì sera il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, utilizzando un riferimento che è chiaro a tutti: lo Yemen è il paese in cui lo scontro tra Iran e Arabia Saudita è diretto, brutale, colpo su colpo, sciiti contro sunniti, una guerra di egemonia e conquista, che riguarda tutta la regione. Ci sono i cosiddetti "proxy'' sul terreno, ma anche questo concetto di prossimità è via via più sfumato: Nasrallah stesso di recente ha voluto precisare (era un discorso a uso interno che è stato erroneamente fatto circolare e poi rimosso) che il ruolo di "proxy" dell'Iran va stretto a Hezbollah, il legame con Teheran è ben più profondo e "vicino". La guerra in Siria ha cambiato ogni cosa, anche lo sforzo militare richiesto a Hezbollah che nel conflitto ha perso moltissimi uomini, e ora che l'America di Trump nel giro di qualche giorno esce dall'accordo internazionale sul nucleare e inaugura un'ambasciata che fa di Gerusalemme la capitale di Israele, il fronte iraniano deve alzare ancora di più la voce, intestandosi la battaglia contro Israele (la solita), contro l'America (la solita ma ora c'è in più il ritiro dal deal) e contro l'Arabia Saudita e "le nazioni che tradiscono la causa palestinese" come ha detto Nasrallah, firmatarie di quell'"accordo del secolo" che impedirà per sempre la nascita di uno stato palestinese.
Lo Shin Bet, servizio segreto interno di Israele, dice che l'Iran sta sostenendo finanziariamente Hamas "per le sue attività violente lungo il confine della Striscia di Gaza": non ha fornito prove, ma in passato i leader di Hamas hanno ringraziato anche pubblicamente Teheran per il sostegno ricevuto. Il governo israeliano teme che si ripeta quella strategia "a tenaglia" che già nel 2006 aveva accerchiato Israele su due fronti, da Gaza e dal nord libanese. Oggi, dopo anni di conflitto siriano nella quasi indifferenza occidentale, si è aggiunto il fronte del Golan, e se la regia è unica - iraniana - il pericolo della sincronizzazione si fa più alto.
Molti sostengono che per quanto l'Iran sia molto minaccioso, la guerra non gli convenga. In Siria ha perso molti punti di raccolta - di uomini e armi - in seguito agli strike di Israele, precisi e continui, e soprattutto c'è il rischio che l'accordo internazionale sul nucleare collassi, portandosi dietro anche quell'apertura sui mercati che aveva permesso non di migliorare la qualità della vita degli iraniani, figurarsi, ma almeno di finanziare le guerre anti sauditi e anti occidentali in medio oriente. Zarif è andato a Bruxelles con molte speranze: gli alleati europei (Parigi, Londra, Berlino e il capo della diplomazia europea Federica Mogherini) vogliono mantenere l'accordo anche senza gli americani. La proposta di "potenziamento" che Emmanuel Macron, presidente francese, aveva fatto a Trump per convincerlo a non ritirarsi è decaduta, ma resta in piedi l'idea (francese) di negoziare un altro accordo per regolare quel che accade dopo il 2025, i test missilistici e la sponsorizzazione del terrorismo. Ci vorranno anni, oltre che il consenso di tutti gli interlocutori, e intanto l'urgenza è un'altra: salvare un accordo che politicamente può anche sopravvivere senza gli americani, ma che ha molte meno chance dal punto di vista pratico. Se Washington, come ha già detto di voler fare, impone sanzioni anche alle aziende europee che fanno affari con Teheran, diventerà molto difficile operare nel mercato iraniano, e considerando che il volume di business non è enorme, potrebbe non valerne la pena. L'Iran sa che c'è questo pericolo, e chiede garanzie, mentre gli europei si trovano nella posizione più scomoda possibile, aprono inchieste sui fatti di Gaza mentre l'Iran minaccia apertamente Israele e l'America.
(Il Foglio, 16 maggio 2018)
Accuse a Netanyahu e comizi in Bosnia. Erdogan punta alla leadership islamica
Il presidente turco definisce lo Stato ebraico «terrorista» e il suo leader un premier «con le mani sporche di sangue» Con Arabia Saudita ed Egitto allineati sulle posizioni americane, il Sultano vuole ergersi a difensore dei musulmani.
di Giordano Stabile
Israele è uno «Stato terrorista», che pratica l'Apartheid e sta compiendo «un genocidio» nei confronti dei palestinesi, guidato da un premier, Benjamin Netanyahu, «con le mani sporche di sangue», mentre gli Stati Uniti sono «parte del problema» in Medio Oriente con la loro scelta di spostare l'ambasciata, perché «il mondo islamico non permetterà mai che Gerusalemme sia perduta». Se la scelta delle parole indica qualcosa nell'orientamento politico, quello del presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è avvicinato vertiginosamente all'asse anti-israeliano che di solito vede l'Iran in prima linea.
Campagna elettorale
Le dichiarazioni del leader turco, ieri in visita a Londra, colpiscono ancora di più se confrontate con quelle, prudenti, dell'Arabia Saudita, e con l'azione sottotraccia dell'Egitto che ieri ha imposto ad Hamas di non spingere più i manifestanti contro il confine e il fuoco dei cecchini. I Paesi arabi sunniti puntano alla diplomazia, la Turchia, potenza sunnita non araba, vuole isolare lo Stato ebraico e preme sui 57 Paesi dell'Organizzazione per la cooperazione islamica, Oic, invitati venerdì a un summit straordinario a Istanbul, perché espellano gli ambasciatori israeliani.
Monito a Riad e al Cairo
C'è tanta retorica, Erdogan è in piena campagna elettorale, punta a fare il pieno di voti fra i pii musulmani. Ma la sua azione ha ambizioni più vaste.
Ora che l'Arabia Saudita e l'Egitto si sono allineati sulle posizioni di Usa e Israele, il leader turco punta alla leadership islamica nel nome di «AlQuds», un nome che evoca battaglie epiche, da Saladino in poi. Ieri i suoi sostenitori sfilavano nelle città e scandivano: «Guerra, jihad, martirio, lascia che le truppe turche marcino su Gerusalemme». Due mesi fa il giornale Yeni Safak, il megafono ideologico di Erdogan, ha pubblicato uno «studio» che sosteneva come le forze armate congiunte dei Paesi dell'Oic sarebbero in grado di sconfiggere Israele e «liberare» Gerusalemme «in dieci giorni».
Missione in Europa
L'articolo è stato notato anche dall'Intelligence militare israeliana, e preso sul serio. Venerdì Erdogan sfilerà con i manifestanti ad Ankara e forse anche a Dyarbakir, vicino alla Siria, dove si è già scavato una zona di influenza sotto il controllo delle sue truppe, a spese dei curdi. Ma l'appuntamento più importante sarà a Sarajevo, nel cuore dell'ex Europa ottomana: una sfida a Germania, Austria e Olanda che hanno proibito comizi di politici turchi durante la campagna elettorale. Sono attesi almeno diecimila immigrati turchi da tutta Europa. Erdogan l'anno scorso ha accusato Germania e Olanda di «metodi nazisti» e un mese fa ha minacciato l'Austria di «un caro prezzo da pagare» se avesse insistito con il bando ai comizi.
Sfidare Vienna da Sarajevo dà i brividi storici, perché nella Bosnia per metà musulmana e per metà cristiana l'Impero asburgico e i sultani di Istanbul si sono combattuti per secoli. L'offensiva balcanica non comincia oggi. La Turchia ha investito miliardi di dollari anche in Macedonia e Albania, dove il paesaggio è marcato da decine di moschee nuove di zecca, con annesse scuole islamiche. Oltre alla diaspora turca ad attendere Erdogan ci saranno anche i bosniaci. Il loro leader Bakir Izetbegovic, uno dei tre presidenti della Bosnia, è pronto ad accoglierlo e ha avvertito: «Molti in Occidente non amano il nostro amico, ma solo perché è un leader musulmano potente come non si vedeva da tempo». -
(La Stampa, 16 maggio 2018)
Diplomazia, alleanze, rivolte, reazioni. I nuovi confini della guerra contro Israele
Il silenzio saudita
Su iniziativa di Riad molti stati arabi stanno cambiando toni con Israele. Il nemico comune è l'Iran.
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Riad non vuole fomentare la piazza araba, condanna l'uso della forza ma non cita l'ambasciata a Gerusalemme.
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di Rolla Scolari
MILANO - Le condanne sono arrivate in varie forme e con intensità diversa da tutto il mondo: Turchia e Sudafrica hanno richiamato i loro ambasciatori, il Belgio ha convocato quello israeliano per lamentarsi dell'uso eccessivo della forza. Lunedì oltre 60 palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano lungo la barriera che separa Gaza da Israele - il più alto numero di morti dalla guerra nella Striscia del 2014 - mentre a pochi chilometri di distanza, a Gerusalemme, i leader politici israeliani e una delegazione americana celebravano il controverso trasferimento dell'ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv. Molti paesi arabi, per anni campioni della causa palestinese, hanno pubblicato note e comunicati simili nei toni e nella forma a quelli europei: estremamente formali. Più che l'indignazione delle cancellerie questi testi rivelano quanto i palestinesi siano sempre più isolati in una regione in cui gli alleati di sempre hanno altre priorità: arginare l'espansionismo dell'Iran, ed evitare la possibilità di un'altra "primavera" come quella del 2011.
Tra le nazioni musulmane, la Turchia è stata quella che ha condannato più duramente Israele. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha parlato di "genocidio", e definito Israele "uno stato terrorista". Anche il piccolo emirato del Qatar ha preso una posizione più marcata rispetto ai vicini, condannando "il brutale massacro". Le dichiarazioni più formali in arrivo da Arabia Saudita e dall'alleato egiziano mostrano come per alcuni paesi dell'area la minaccia principale non sia più rappresentata da Israele, ma dall'Iran: una posizione che accomuna il governo israeliano, l'Amministrazione americana e i potentati del Golfo. L'Arabia Saudita ha condannato "l'utilizzo di armi da fuoco da parte delle forze d'occupazione israeliane", ma non ha fatto alcun cenno al trasferimento dell'ambasciata nella Gerusalemme contesa, dove sorge la moschea di al Aqsa, il terzo luogo sacro per l'islam dopo Mecca e Medina. Lo stesso è avvenuto per i comunicati di Emirati arabi e per l'Egitto, che assieme a Israele impone su Gaza un embargo da anni, mentre gli Emirati hanno annunciato oltre 5 milioni di dollari di aiuti medici agli ospedali della Striscia.
Il Cairo - la cui relazione con Israele si è rafforzata negli ultimi anni nella cooperazione contro gruppi jihadisti lungo il confine tra i due paesi - nelle ore prima delle manifestazioni ha tentato una mediazione invitando la leadership di Hamas. Tuttavia, anche se un sondaggio di ottobre dell'Arab Center di Washington spiega che per l'88 per cento della piazza araba la questione palestinese resta molto sentita, i rais e principi dei regimi sopravvissuti alle rivolte del 2011 non sembrano intenzionati a sostenere una nuova "Intifada" capace di destabilizzare un'altra area di un medio oriente già tormentato da molte minacce.
Nelle scorse settimane non sono mancati i segnali di come alcuni stati arabi, che non hanno relazioni diplomatiche con Israele, stiano cambiando atteggiamento a causa dell'interesse comune. L'Arabia Saudita, che ha applaudito la settimana scorsa l'uscita dell'America dal patto nucleare con l'Iran, vede in Israele l'unica potenza militare regionale in grado di arginare l'espansionismo di Teheran. Durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti, in un'intervista all'Atlantic, il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo aver detto che la Guida suprema iraniana Ali Khamenei "fa sembrare Hitler buono", ha spiegato come sia israeliani sia palestinesi abbiano diritto a un loro stato: una dichiarazione inedita per un leader saudita, futuro sovrano. E, in un'altra prima regionale, dopo il recente lancio di razzi iraniani dalla Siria contro una base militare in Israele, e la conseguente risposta israeliana, il Bahrein ha dichiarato che Israele ha il diritto di difendersi.
L'isolamento dagli alleati di sempre è accentuato dalla divisione della leadership palestinese, Hamas a Gaza e Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, a Ramallah. In Cisgiordania, benché ieri fosse stato indetto uno sciopero generale per marcare il giorno della "nakba", catastrofe in arabo (i palestinesi ricordano l'allontanamento forzato di 700 mila persone dai loro villaggi nella guerra del 1948) ci sono state proteste e scontri, ma limitati. Anche a Gaza, dopo la giornata di sangue di lunedì, le violenze lungo il confine sono diminuite, c'è stato un altro morto, e i funerali delle vittime.
(Il Foglio, 16 maggio 2018)
La figlia di Shimon Peres a Milano: "Mio padre ha raggiunto tanti traguardi, ma purtroppo non la pace"
di Roberto Zadik
In visita straordinaria in Italia, la figlia di Shimon Peres, Tzvia Walden Peres, è stata la protagonista assieme a David Meghnagi, psicanalista e assessore alla Cultura Ucei e a Don Fumagalli, presidente dell'Associazione Italia Israele dell'importante incontro "Questo Israele, 70 anni. Le grandi visioni" che si è tenuto martedì 14 maggio presso Palazzo Reale. Un approfondimento sui libri, le visioni e le speranze che hanno ispirato lo Stato ebraico dove Meghnagi ha illustrato al pubblico il libro Gerusalemme e il popolo ebreo (383 pp, Libriliberi) di Benedetto Musolino, di cui ha scritto introduzione e curato l'edizione. La figlia di Peres si è invece soffermata sulla figura di suo padre, evidenziando le attività del Peres Center e mettendo in luce le caratteristiche e aneddoti dell'ultimo libro di suo padre, scritto prima della morte, No room for small dreams (Non c'è spazio per piccoli sogni). "È uscito in inglese e in altre lingue - ha spiegato - ma mi piacerebbe molto venisse tradotto anche in italiano".
La visione di Benedetto Musolino
Politico e patriota calabrese vissuto nell'Italia Risorgimentale ha scritto "questo libro importante quasi un secolo prima della nascita di Israele e ricordo di averne consegnato una copia al presidente Napolitano e a Shimon Peres per celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia", ha spiegato Meghnagi.
"Si tratta di un testo purtroppo sconosciuto ma straordinariamente originale e moderno che dimostra una grande conoscenza della storia ebraica - ha ribadito Meghnagi- in un'epoca in cui di questo argomento si sapeva poco o niente." Dotato di coraggio e spirito pionieristico, liberale e mazziniano, antiborbonico e di famiglia nobile, Musolino è stato un personaggio unico che si recò in Palestina e nelle isole mediterranee e ne rimase molto affascinato. Amico di Luigi Settembrini venne imprigionato dai Borboni e visse una vita tumultuosa e appassionata, con un padre che venne ucciso mentre "la madre morì di crepacuore" ha raccontato nel suo stimolante discorso l'assessore alla Cultura Ucei. Consapevolmente o meno, Musolino nelle sue pagine, sembra profetizzare l'idea che gli ebrei debbano tornare alla loro terra in una "rinascita della nazione ebraica" ben prima di Theodor Herzl e coniugando perfettamente ideali risorgimentali e sionismo. "Il testo anticipa i tempi per diversi motivi - ha specificato Meghnagi - e precorre le analisi di Eliezer Ben Yehuda, inventore dell'ebraico moderno. Egli compì gli stessi viaggi di Herzl rivelando interessanti affinità con Moses Hess, pensatore ebreo, amico e contemporaneo di un personaggio molto complesso come Karl Marx". Nella sua appassionante analisi lo studioso ha concluso: "Benedetto Musolino è stato unico nel suo genere e andrebbe studiato, approfondito e conosciuto come un grande personaggio. Che sia benedetta la sua memoria".
Don Fumagalli: "Israele ha dato al mondo il Tanakh"
Molto interessante anche l'intervento di Don Fumagalli che al buffet introduttivo la conferenza ha brindato a Israele ricordando come "70 è un numero importante, come la Bibbia dei 70, i 70 popoli del mondo, nel giorno della nascita dello Stato avvenuta il 14 maggio del 1948 con il celebre discorso di David Ben Gurion". Nella sua introduzione il direttore dell'associazione ha ricordato che "Israele ha dato al mondo il libro del Tanakh che è il fondamento e l'inizio della sua dichiarazione di indipendenza e ho sempre viva in me la speranza della pace in Medio Oriente. Ricordo qui i tanti che hanno dato la vita per Israele e tanti sono stati i patrioti ebrei che hanno contribuito all'Italia come il grande Enzo Sereni. Shalom al Israel ve al kol ha olam (Pace a Israele e a tutto il mondo)".
Zvia Peres: "Shimon Peres: il padre, lo statista, l'uomo"
Zvia Walden Peres figlia del grande Shimon Peres ha poi intrattenuto il pubblico con grande verve e raccontando aneddoti e storie su suo padre e sul suo libro No room for small dreams. Ringraziando Mimi Navarro, organizzatrice della serata e membro dell'Associazione Italia Israele, la signora Peres, 72 anni il prossimo 20 ottobre, psicolinguista e docente universitario ha subito segnalato che "stranamente dopo il discorso di Meghnagi ricordo che andavo in una scuola che si chiamava Moses Hess". Consegnando una copia del suo libro in ebraico a Don Fumagalli, la psicolinguista ha rievocato l'ambiziosa e tenace personalità paterna, i suoi studi in Bielorussia dove nacque nel 1923 studiando Talmud in una scuola ebraica del suo villaggio fondata da suo nonno e "parlando yiddish in casa e ebraico a scuola". Prendendo aneddoti e spunti dai sei capitoli del suo libro, la signora ha ricordato fra umorismo e emozione quanto il testo "non è una biografia, ce ne sono già tante, né una storia di Israele, quanto un messaggio di speranza ed energia per le giovani generazioni dove la storia personale si inserisce in quella di Israele". "Era un vorace lettore, leggeva sempre quando non era impegnato con la politica. Era nato in un piccolo villaggio dove vivevano duemila ebrei e c'erano due librerie e tre sinagoghe" La figlia dell'ex primo ministro e poi presidente di Israele ha ricordato le fasi della sua vita, da quando da piccolo emigrò in Palestina con la sua famiglia, al Bar Mitzva in cui gli regalarono una bicicletta, fino ai suoi anni in Kibbutz dove ha incontrato sua madre.
Riassumendo i capitoli del libro, la figlia ha ricordato episodi importanti, come il viaggio che suo padre fece con Ben Gurion a Basilea decisivo per il futuro Israele o quando Peres volle la creazione di una centrale nucleare nel Sud di Israele a Dimona, stringendo relazioni con la Francia "pur non sapendo il francese" e creando una difesa contro le continue minacce di distruzione dei vicini arabi". In conclusione del suo intervento in merito al sesto capitolo ha detto: "mio padre ha raggiunto vari traguardi, ma non siamo ancora riusciti a raggiungere la pace."
Infine è intervenuto Meghnagi che contrapponendo il sionismo ad altri ideali, anche a quelli del '68 ha detto che "la nostra forza è quella di non aver mai rotto col passato, di essere riusciti a ricostruire nella Diaspora prima che in Israele, essa non è stata solo una valle di lacrime ma un laboratorio culturale dove sono nati personaggi come Maimonide, Freud e tanti altri". "Non abbiamo mai ceduto al nichilismo, né interrotto il rapporto con quello che ci ha preceduto e dobbiamo mantenere una costante tensione anche verso il futuro".Stimolato dalle domande del pubblico, a proposito di Musolino,lo studioso ha detto " probabilmente egli aveva origini o contatti con ebrei visto che in passato in Puglia, in Sicilia e nel Meridione prima dell'Inquisizione vivevano diversi ebrei e diverse usanze si erano mantenute inconsapevolmente nella popolazione, dal lavaggio della carne col sale, alla sistemazione della spazzatura diversa dal normale e non davanti alla Mezusah in cui c'è scritto il nome di Dio". Nella serata è stato trasmesso anche il video del Peres Center un centro di eccellenza che si occupa di vari settori di sviluppo, ambiente, salute,tecnologia, arte e medicina in nome della pace e fondato nel 1996 da Shimon Peres e mandato avanti grazie al lavoro di sua figlia Tzvia e del suo staff.
(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2018)
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