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Notizie 16-31 maggio 2019


Smacco a Netanyahu. Israele costretto a elezioni anticipate

L'ostruzionismo di Lieberman fa fallire le trattative.

di Giordano Stabile

Meno di due mesi fa Benjamin Netanyahu trionfava alle elezioni anticipate in Israele, con il suo Likud che conquistava 35 seggi e con la coalizione di centrodestra che in teoria poteva contare su una maggioranza di 67 parlamentari. Molto in teoria, però, perché il premier non aveva fatto i conti con i rapporti logorati all'interno della alleanza. Il duello a colpi bassi con l'ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman, prima durante la crisi che aveva portato allo scioglimento della Knesset, poi in campagna elettorale aveva scavato un fossato che per Netanyahu si è rivelato impossibile da colmare.
   In quella che molti osservatori locali hanno definito una «lunga vendetta» Lieberman ha posto condizioni sempre più dure per il suo ingresso nella nuova coalizione di centrodestra. Fino a impuntarsi in maniera definitiva sulla richiesta che anche gli ultra-ortodossi, inclusi gli studenti nei seminari, svolgessero il servizio militare. L'esenzioni dei religiosi è una questione scottante, affrontata anche dalla Corte Suprema, ma i partiti religiosi, in particolare lo Shas, sono sempre riusciti a mantenere l'esenzione facendo leva suI loro potere di veto all'interno dell'alleanza di governo.
   Lieberrnan sapeva bene che non avrebbe ceduto e così è stato. Alla mezzanotte di mercoledì è scaduto l'ultimo termine e Netanyahu non è riuscito a formare una maggioranza. Si era però premunito dal rischio che il presidente Reuven Rivlin affidasse l'incarico a un altro, vedasi il centrista Benny Gantz, e aveva fatto votare alla Knesset una legge per lo scioglimento anticipato, che è stata confermata nella notte. Israele torna quindi al voto, il 17 settembre. «Bibi scampa il pericolo di essere spinto all'opposizione e di dover affrontare da lì un possibile processo per corruzione.
   «Condurremo un campagna netta e chiara che ci darà la vittoria», ha dichiarato subito dopo il voto: «Vinceremo e sarà un vittoria per tutti gli israeliani», Per riuscire nel nuovo azzardo dovrà aumentare i seggi del Likud, schiacciare Lieberman fino a non fargli superare la soglia del 3,25 per cento, compattare gli alleati affidabili. Altrimenti finirà nell'impasse e questa volta è probabile che Rivlin riesca a dare l'incarico a Gantz per formare una maggioranza spostata al centro, anche con un Likud non più guidato da Netanyahu.
   È una partita a doppio filo perché a ottobre incombono le audizioni per i casi di corruzione, secondo il calendario stabilito dal procuratore generale Avichai Mandelblit. Netanyahu aveva prospettato un disegno di legge per mettere i primi ministri al riparo dalle inchieste giudiziarie ma ora deve affrontare la campagna elettorale. Per aggirare Lieberman era arrivato a offrire ministeri persino a partiti di sinistra, inclusi quelli arabi. Niente da fare. Alla fine Netanyahu ha definito Lieberman «un serial killer di governi di destra» e ora si andrà alla resa dei conti.
   Il fallimento nel formare il suo quinto governo rischia però di trascinare nella polvere anche il piano di pace americano. Ieri sono arrivati in Israele Jared Kushner e Jason Greenblatt per il tour in Medio Oriente che dovrebbe portare alla presentazione del piano. Non si aspettavano di trovare un partner azzoppato e in lotta per la sopravvivenza.
   
(La Stampa, 31 maggio 2019)

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Israele dovrà tornare alle urne a settembre. Kushner da Netanyahu: la pace è in bilico

Il veto di Lieberman fa saltare il governo. Per Netanyahu inizia il processo.

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - Una nuvola di punti interrogativi si è librata sull'hotel King David di Gerusalemme quando Jared Kushner in visita in Medio Oriente per finalizzare la conferenza economica del Bahrain, un prologo con tutti gli Stati arabi all'accordo del secolo di Trurnp, ha abbracciato Bibi Netanayhu e i due si sono sorrisi tristi. «Un piccolo evento» ha detto scherzoso Netanyahu cha aveva appena annunciato le elezioni per il 17 settembre. Buona fortuna ha detto Kushner in ebraico: be azlaha: E ce ne vorrà a tutti e due: perché lo sforzo di spingere i palestinesi ad accettare il piano di Trump rischia grosso senza Netanyahu. Sembra incredibile, ma Bibi nonostante la vittoria elettorale è stato fatto fuori da Avidgor Lieberrnan, il capo assai guascone di Israel Beitenu, il partito russo, che con cinque seggi ha usato la perversione del sistema proporzionale per piantare i talloni e impedire la formazione del governo dopo che aveva promesso agli elettori che ci sarebbe entrato. Il motivo è la legge sulla leva obbligatoria dei religiosi, ma tutti sanno che è stata una scusa; che la delizia, il retaggio politico alla cui ricerca Lieberman si è avventurato, è stato lo scopo cui si è dedicata un po' meno della metà di Israele: togliere di mezzo un primo ministro carismatico.
   Lieberman ha già detto che si aspetta di prendere almeno 17-18 seggi: intende cioè pescare dalla destra stufa, gelosa o arrabbiata e dalla sinistra. Lieberman ha una faccia rosea e sorridente, un Bruto grassoccio che ha semplicemente voltato faccia. La sua speranza condivisa, e per cui ora si accusa Bibi di averlo impedito per interessi personali compreso il suo processo che si avvicina, era anche che la Knesset non votasse lo scioglimento e il presidente Rivlin potesse dare il mandato a Benny Gantz, Ma la Knesset non è arrivata a questo. Il Likud aspetta di riaprire la partita alle prossime elezioni, ma chissà. Bibi combatterà per vincere ed è realistico che ce la faccia, forse anche allargandosi: investirà molto nella propaganda in lingua russa per distruggere Lieberman. Ma tutto è possibile. La sinistra e anche Liberman hanno già ricominciato ad accusarlo nello stile della campagna elettorale durissima appena chiusa.
   Non è detto che si consolidi Benny Gantz che è stato sovrastato dagli eventi, conservando un profilo poco decisivo. Semmai può anche darsi che il pubblico abbia capito che i voti ai piccoli partiti possono portare il caos. I religiosi, che sotto l'attacco di Lieberman hanno conservato un tono quieto e desideroso di evitare le elezioni, probabilmente hanno acquistato un po' di fiducia. Lieberman ormai si configura come il leader laico per eccellenza, ma vive nei territori, e ha posizioni durissime con i palestinesi. Per la sinistra, non va.
   Bibi deve di nuovo dedicarsi alle elezioni mentre l'antisemitismo impazza, i Paesi del lontano oriente come la Cina e l'India gli lanciano segnali d'amicizia, i paesi arabi sunniti vogliono un processo di pace, l'Iran è in crisi verticale, l'Europa sta velocemente cambiando e potrebbe diventare più amichevole. Netanyahu ha messo molta carne al fuoco, specie quella del picnic con Trump nella speranza di pace. Speriamo che non si bruci tutto, di fatto è la democrazia israeliana che ha preso una sventola.

(il Giornale, 31 maggio 2019)


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Nuove elezioni in Israele: una crisi difficile che ha molte cause.

di Ugo Volli

L'incapacità di formare un governo che corrispondesse alla maggioranza elettorale e il ritorno a nuove elezioni sono una grave sconfitta per la democrazia israeliana. Con le elezioni a Settembre e i due mesi che ci vogliono per il processo di costruzione del ministero, ci sarà di nuovo un governo pienamente legittimato solo a Dicembre e il paese sarà dunque rimasto per oltre un anno affidato a una gestione di proroga. Le leggi consentono al governo attuale, che è quello caduto nello scorso novembre, di svolgere regolarmente la sua attività. Ma nei prossimi giorni dovrebbe essere presentato il nuovo piano di pace dell'amministrazione Trump, e lo stato ebraico dovrà decidere che atteggiamento prendere; c'è un rischio attuale di guerra fra Iran e Usa e Arabia, che potrebbe estendersi a Israele; c'è la sicurezza che le provocazioni da Gaza continuino e la forte probabilità che si estendano al Nord: insomma anche sul piano militare molte decisioni cruciali dovranno essere prese. C'è la minacciata implosione economica dell'Autorità Palestinese, la vecchiaia e possibile scomparsa fisica o politica di Abbas che potrebbe costringere Israele a interventi importanti per la sicurezza in Giudea e Samaria. E infine c'è la paralisi legislativa, proprio nel momento in cui alcuni nodi fondamentali vengono al pettine, per esempio quello dell'eccessivo potere che si è assicurato il ramo giudiziario rispetto al legislativo dello stato, che possono essere corretti solo con nuove leggi, che un parlamento disciolto non può approvare.
   Questa sconfitta ha molte cause. La più immediata è la tradizionale accanita personalizzazione della politica israeliana. Se non ci fosse stata la frammentazione delle liste, per esempio con la scissione che ha portato alla nascita della "Nuova destra" di Bennett, che per poche centinaia di voti non ha superato il limite minimo per entrare alla Knesset, il quadro parlamentare sarebbe stato diverso e la maggioranza più chiara. E se Lieberman avesse rispettato il suo impegno elettorale a favorire un governo di centrodestra e non si fosse intestardito in una pregiudiziale di programma, il governo corrispondente alla scelta degli elettori sarebbe nato facilmente.
   La seconda ragione è l'anomalia dei charedim. Liberman ha avuto certamente torto nella tattica politica, ma non è accettabile che ci sia un settore importante del paese che rifiuti di contribuire alla sicurezza comune. Questo non corrisponde neppure ai principi religiosi, perché la Bibbia è piena di esempi di leader religiosi che combattono per difendere il popolo ebraico, da Abramo a Giosuè ai giudici e ai re, e comunque vale il principio dell'obbedienza alla legge di ogni paese. Dietro il rifiuto di contribuire giustamente alla leva militare non c'è solo una richiesta di privilegi inaccettabile dal punto di vista democratico, ma anche un mancato riconoscimento di Israele come lo stato del popolo ebraico e perfino come uno stato riconosciuto, che può legalmente imporre tasse e obblighi di leva. E' un tema estremamente preoccupante nel momento in cui la comunità charedì cresce di numero e influenza. La scissione fra questo grande ambiente religioso e gli altri religiosi che invece, sulla base dell'insegnamento di grandi rabbini come Rav Kook, sono i più impegnati nella difesa di Israele, è un problema veramente grave per il popolo ebraico.
   La terza ragione, non bisogna nasconderselo, è la caccia mediatica e giudiziaria cui è stato sottoposto un grande statista, forse il più grande nella storia dello stato di Israele dopo Ben Gurion, come Bibi Netanyahu. Da molti anni ormai è in corso una campagna mediatica e politica d'odio, una persecuzione giudiziaria basata su prove insussistenti, un tentativo di azzoppamento con ogni mezzo, che è riuscito a bloccare il processo democratico. L'idea di mostrare che chiunque potesse governare salvo Netanyahu ha influenzato l'atteggiamento politico di molti attori di questa vicenda, a partire dalla formazione di un gruppo politico privo di una coerenza ideologica, a parte il tentativo di rovesciare il premier, come i "Blu e bianchi". Senza questo accerchiamento, Netanyahu sarebbe probabilmente riuscito a costruire un compromesso per costituire il governo. Ed è evidente che in questa situazione non potranno passare i progetti di legge proposti per riequilibrare i rapporti fra magistratura e parlamento, fra cui vi era una sorta di immunità parlamentare, come quella che è esistita in Italia fino alla spallata giustizialista di "Mani pulite".
   Al di là degli aspetti un po' folkloristici delle trattative in bella vista fra interessi diversi che sempre si accompagnano alla democrazia, fin dai tempi dell'antica Atene (mentre nelle dittature e negli assolutismi queste cose si fanno in segreto nelle corti), anche questa crisi mostra che il sistema democratico funziona senza eccezioni in Israele, a differenza di quel che avviene in tutto il mondo arabo, dove i problemi di leadership si risolvono in genere con la violenza. E certamente lo stato ebraico ha la forza culturale, politica e giuridica, oltre a quella militare, per superare l'inciampo. A noi spettatori appassionati non resta che guardare con attenzione quel che accadrà nei prossimi mesi.
   
(Progetto Dreyfus, 31 maggio 2019)


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Israele al voto. Bibi cade sui "timorati" decisivi nel futuro ebraico
   Articolo OTTIMO!


Intervista a Ofir Haivry: "Per la prima volta nella storia ebraica migliaia di persone sono pagate per studiare la Torah. Questo però sta cambiando. E il peso anche demografico degli ortodossi è conseguenza del ruolo sempre più importante che la religione esercita nella società israeliana. E' l'opposto dell'occidente".

di Giulio Meotti

ROMA - La popolazione di Israele raggiungerà i 20 milioni di abitanti nel 2065. Una crescita demografica senza uguali fra i paesi occidentali. Di quei 20 milioni, un terzo sarà composto da ebrei ortodossi. E su questi è appena caduto il nuovo, mai nato, governo di Benjamin Netanyahu. Israele dunque torna a votare il 17 settembre, dopo che il partito nazionalista e laico "Israel Beitenu'', guidato dall'ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman, si era detto contrario a un accordo di Bibi con i partiti religiosi, concedendo loro una modifica della legge sul servizio di leva che limita per i giovani ultra ortodossi gli obblighi verso l'esercito.
   Nel 2017, il numero di ultraortodossi in Israele ha superato per la prima volta il milione, ovvero il 12 per cento della popolazione, che salirà al 20 per cento nel 2040 e al 32 per cento nel 2065 (c'è chi parla anche del 40 per cento). Che gli ortodossi stessero crescendo molto nella demografia israeliana si era visto anche dall'ultima composizione della Knesset, il Parlamento di Gerusalemme, dove erano saliti a 16 seggi rispetto ai 13 delle precedenti elezioni. In Israele, tutti i cittadini devono prestare servizio militare o svolgere un altro tipo di servizio nazionale. Ma un gruppo è esentato da quando è stato istituito lo stato nel 1948: gli ultraortodossi, o haredim, che raddoppiano di numero ogni 10-15 anni grazie a una natalità prodigiosa. Nel 1948, c'erano circa 400 haredim che poterono usufruire delle esenzioni. Oggi ce ne sono più di 50 mila. I giovani ortodossi studiano la Torah invece di indossare un'uniforme.
   "La società ortodossa sta attraversando un terremoto", dice Peggy Cidor, che segue gli ortodossi per il Jerusalem Post. "I giovani cercano un modo per avere una sorta di vita moderna, ma rimanendo religiosi allo stesso tempo". Gilad Malach, direttore del programma ultraortodosso presso l'Istituto per la democrazia israeliano, un organismo di ricerca, afferma che negli ultimi anni c'è stata una maggiore integrazione degli haredim nel mercato del lavoro. La partecipazione maschile è passata dal 36 al 51 per cento, mentre quella femminile è passata dal 51 al 76 per cento, appena dietro alle donne laiche. Dal 2009 al 2017, il numero di ebrei ortodossi che entrano nel servizio militare e nazionale è più che raddoppiato a 3.700. Ma siamo ancora lontani dai numeri che vorrebbero i laici.
   Si staglia senza dubbio sul futuro di Israele questa società misteriosa e intransigente, fatta di migliaia di giovani nerovestiti, che ondeggiano in preghiera, un Israele pio, umile, religioso, come un'isola preclusa alla storia, dalla prodigiosa familiarità con Dio e le questioni religiose. "Originariamente era un gruppo molto piccolo, perché era stato eliminato nella Shoah, così nel 1948 Israele gli diede la possibilità di non servire nell'esercito, erano qualche centinaio", dice al Foglio Ofir Haivry, storico, vicepresidente dello Herzl Institute di Gerusalemme e collaboratore del Wall Street Journal. "Il mondo delle yeshivah (scuole religiose, ndr) era stato distrutto. Gli haredim sono stati così 'nazionalizzati', è nata una organizzazione sociale che, in un certo modo, spinge i giovani ortodossi a studiare per vivere, grazie ai sussidi sociali. E come ogni industria statalizzata hanno sempre più dipendenti. Per cui oggi ci sono più studenti nelle yeshivah in Israele che in tutto l'Est Europa durante la Shoah. Non è normale per una società avere così tanti giovani che studiano. Non è mai esistito nella storia del popolo ebraico una situazione simile. Maimonide era anche un medico, ad esempio. Si arriverà quindi a un cambiamento del mondo ebraico ortodosso. Molti ortodossi si apriranno al mondo del lavoro. Il mondo ortodosso ha dato un grande contributo alla società israeliana, il loro studio continuo li aiuta ad esempio nell'high tech. Ci sono centinaia di ortodossi che fanno i giornalisti, tanti hanno la televisione, tanti sono avvocati. Quindi non è un monolite chiuso in se stesso. Fanno parte della realtà sociale israeliana molto più di quanto dicano i media. Vai in ospedale e troverai sempre un ortodosso che vi lavora. Più il numero di loro crescerà, più si integreranno nella società israeliana". La realtà israeliana è diventata più religiosa e osservante, "ma c'è anche un fenomeno di laici che stanno diventando osservanti. Tanti elettori di Shas sono cresciuti come laici e sono diventati osservanti. Molti bambini ultraortodossi invece si laicizzano e bambini di famiglie laiche diventano ultra ortodossi. Molta gente in America e in Europa non comprende quando si usa la parola 'religione'. In Italia si dice religioso chi va alla messa almeno una volta all'anno. Allora un quarto degli italiani è religioso, formalmente. In Israele è diverso. Il novanta per cento degli israeliani fa la cena di Pasqua, la preghiera, la commemorazione dell'uscita dall'Egitto. Sono laici molto più osservanti del laico europeo. La religione ebraica è connessa all'identità nazionale. Il 97 per cento degli israeliani, anche i laici, circoncide i figli. Nelle ultime due generazioni, la religiosità di Israele è cresciuta. E' una cultura che ha aspetti religiosi e di identità che si tengono insieme. L'ideologia degli ultra ortodossi dice che non è mai giusto andare in guerra. Sarebbero delle colombe, ma di fatto la stragrande maggioranza degli ortodossi oggi è estremamente di destra in politica e sulla sicurezza. E questa integrazione li pone di fronte a un conflitto interiore con il loro modo di vivere. Prima la loro ideologia li portava a non mischiarsi con gli affari pubblici, erano i 'giusti', una sorta di Vaticano distinto dallo stato, mentre oggi questa distinzione non esiste più. Stanno entrando già nell'esercito, le battaglie di Lieberman sono esibizionismi, perché già oggi ci sono numerosi soldati ultraortodossi. La società ortodossa cresce ma diventa anche sempre più israeliana, mentre fino a ieri volevano continuare con una società stile Europa orientale". La società israeliana è molto diversificata, ma la religione è sempre più importante: "Un 20 per cento di laici, 40 di tradizionalisti, 20 di religiosi meno osservanti e 20 di ultrareligiosi" continua al Foglio Ofir Haivri. "Anche la laicizzazione israeliana è un'illusione ottica. Israele è nata da sionisti socialisti, laici, ma quando vedi i discorsi di Ben Gurion e Begin, erano pieni di riferimenti religiosi. E' la benedizione e la maledizione del paese che parla la lingua della Bibbia".
   Il peso dei religiosi sta segnando una profonda trasformazione della società israeliana. "La crescita degli ortodossi non è il risultato, ma la conseguenza della crescita dei valori, della tradizione, dell'identità ebraica. Israele va nella direzione opposta a quella dei paesi occidentali e dei paesi est-asiatici. In occidente le società affrontano uno sgretolamento dei valori comuni, lo si vede dai tassi di natalità, l'individualità che sovrasta la famiglia, la cultura che si indebolisce molto. Il futuro di Israele sarà, forse, un misto di ultra high tech e ultra religione. Fra dieci, vent'anni, avremo un generale ortodosso. Oggi ci sono decine di politici con la kippah. Lo stesso Benny Gantz (oppositore di Netanyahu, ndr) va in sinagoga a pregare ed è il capo del centrosinistra. In futuro Israele avrà un primo ministro con la kippah".
   
(Il Foglio, 31 maggio 2019)


Medio Oriente, il piano di pace non si ferma

di Paolo Mastrolilli

Il premier israeliano Netanyahu e Jared Kushner promettono di andare avanti con il piano di pace elaborato dall'amministrazione Trump, nonostante la crisi politica nello Stato ebraico.
   Ieri il genero del presidente ha incontrato Netanyahu, nell'ambito di una missione che lo ha portato anche in Marocco e Giordania. L'appuntamento era calibrato per farlo coincidere con la formazione del nuovo governo, e quindi preparare la conferenza per i finanziamenti del progetto in programma il 25 e 26 giugno in Bahrain, a cui dovrebbe seguire la presentazione dei dettagli politici dell'intesa. Netanyahu ha notato scherzando che «l'altra sera qui abbiamo avuto un piccolo evento, ma ciò non ci fermerà. Continueremo a lavorare insieme». Su questo punto, però, non tutti gli analisti condividono l'ottimismo del premier.
   La riunione di Manama ha l'obiettivo di sollecitare impegni finanziari per circa 70 miliardi di dollari, che dovrebbero convincere i palestinesi ad accettare un piano senza la creazione formale del loro stato. I dettagli politici andavano presentati in un secondo momento, ma l'idea era quella di aspettare la fine del Ramadan e la formazione del nuovo governo israeliano. Alcuni analisti ritengono che la crisi ora frenerà l'iniziativa. Qualunque sia il contenuto reale della proposta, infatti, durante la nuova campagna elettorale Netanyahu non potrà permettersi di dare alcun segnale di debolezza, o disponibilità a compromessi che gli farebbero perdere voti. Ciò vale indipendentemente dalla reazione al progetto dei palestinesi. Quindi è improbabile che la presentazione dei dettagli politici del piano possa avvenire prima della metà di settembre. A quel punto la campagna presidenziale americana del 2020 sarà formalmente iniziata, e non è sicuro che Trump abbia il tempo e la voglia di dedicarsi ad una operazione così complicata.
   Netanyahu e Kushner però hanno ribadito che l'iniziativa andrà avanti. La conferenza in Bahrain si terrà, anche se i risultati sono incerti, perché al momento solo Arabia, Emirati e Qatar hanno confermato la presenza, e dovrebbero impegnarsi a fornire finanziamenti per un piano che per ora non esiste. Il re giordano Abdullah ha poi detto a Kushner che la pace non è possibile senza la soluzione dei due stati, e anche la Turchia è su questa posizione, ma Washington intende procedere.
   
(La Stampa, 31 maggio 2019)


Belgio: per la prima volta un ebreo ortodosso eletto in parlamento

di Nathan Greppi

Michael Freilich
Domenica 26 maggio Michael Freilich, ex-direttore della rivista ebraica belga Joods Actueel (fondata dal padre Louis Davids) ha ottenuto un seggio nel parlamento del suo paese, diventando il primo ebreo ortodosso a riuscirci.
   Come riporta Algemeiner Freilich, 38 anni, si è candidato con la Nuova Alleanza Fiamminga (abbreviato N-VA in fiammingo), un partito di destra legato al nazionalismo della popolazione fiamminga del paese, e ha ottenuto oltre 13.000 preferenze nella sua città, Anversa, sia da ebrei che da non ebrei.
   All'inizio di quest'anno Freilich aveva annunciato di voler entrare in politica durante una conferenza stampa a cui aveva partecipato anche Bart De Wever, sindaco di Anversa e presidente dell'N-VA, spiegando che il partito "è in sintonia con molte delle mie idee, che includono i valori dell'Illuminismo inserite in una comune tradizione giudeo-cristiana senza imporre obblighi agli altri." Ha aggiunto che intende "fare qualcosa per le questioni che mi preoccupano, quali l'immigrazione, il terrorismo e l'estremismo." Riguardo al terrorismo ha chiesto: "È normale che soldati pesantemente armati debbano ancora fare la guardia alle nostre scuole e alla nostre strade?"
   Ha sottolineato il fatto che non vuole essere visto come uno che si preoccupa solo della comunità ebraica: "Sono qui per tutti i membri del partito e per tutto il popolo fiammingo. Da adesso io combatterò come un vero leone fiammingo," ha dichiarato, riferendosi al simbolo del leone sulla Bandiera delle Fiandre. In particolare, ha affermato di non volersi occupare dell'immigrazione: "Il caos dovuto all'immigrazione incontrollata non è più possibile. Il Patto di Marrakech (quello del Global Compact, ndr) è stato un fattore decisivo per me. Io aspiro a un'immigrazione controllata ispirata al modello canadese."
   L'N-VA è attualmente il primo partito nelle Fiandre, e alle elezioni di domenica ha preso il 28% dei voti; tuttavia, ha perso circa il 4% dei voti rispetto alle elezioni precedenti del 2014, mentre il partito Interesse Fiammingo, anch'esso secessionista ma su posizioni più radicali, è salito dal 6% al 18%.

(Bet Magazine Mosaico, 31 maggio 2019)


Milano - Logo comunale e anti-Israele

di Alberto Giannoni

Il simbolo del Comune accostato ai sostenitori della «intifada» palestinese e ai fautori del «boicottaggio» di Israele. Il caso è scoppiato ieri anche per le proteste della Associazione milanese Pro Israele, col presidente Alessandro Litta Modignani, e del capogruppo di «Milano popolare» Matteo Forte. Domani al «Cam Gabelle» in via San Marco, nel corso di un incontro dedicato al Medioriente, sarà presentato un rapporto su «Pratiche israeliane nei confronti del popolo palestinese e questione dell'apartheid». Il documento è stato rifiutato dall'Onu, eppure l'evento è stato promosso con una locandina in cui compare il logo del Comune. «È una vergogna indegna per una città come Milano - commenta Alan Rizzi -. Da sottosegretario ai Rapporti con le delegazioni estere di Regione Lombardia e grande amico di Israele, come lo sono la città di Milano e la Regione, mi sento di condannare nella maniera più ferma tale iniziativa e chiedere al sindaco di revocarne immediatamente il patrocinio. Ritengo inoltre che il sindaco debba riferire al prossimo Consiglio comunale per fare chiarezza». Anche Forte insiste: «Un'iniziativa dei gruppi non deve per forza essere appoggiata e fatta propria dalla giunta. Qui lo fa, con tanto di logo e confermando che non sono in grado di riconoscere gli interlocutori adeguati da legittimare». L'ex presidente della Comunità ebraica, Walker Meghnagi, ha detto: «Sono certo che il sindaco è in buonafede, ma non riesco a comprendere perché il Comune dia il patrocinio a simili manifestazioni. Inconcepibile». Dal Comune hanno poi spiegato che il patrocinio non c'è (neanche della Zona, che concede la sala). L'iniziativa è dei gruppi consiliari di sinistra, approvata dall'ufficio di presidenza, ma il luogo non avrebbe dovuto essere utilizzato in quel modo, senza un riferimento diretto ai gruppi.

(il Giornale - Milano, 31 maggio 2019)



Fallisce il tentativo di Netanyahu, Israele torna al voto

Niente accordo di maggioranza, alle urne il 17 settembre

di Giordano Stabile

Da "Il Sole 24 Ore"
La scadenza della mezzanotte è passata senza che il premier incaricato Benjamin Netanyahu riuscisse a trovare un accordo con gli alleati per una nuova maggioranza di governo. La Knesset è stata sciolta e Israele tornerà alle urne il 17 settembre per un secondo round, fatto senza precedente nei 71 anni di storia dello Stato ebraico.
   Netanyahu ha cercato fino all'ultimo minuto di mettere d'accordo i partiti della destra che finora hanno sostenuto i suoi governi di coalizione. Ma le ferite aperte nella crisi di primavera e poi durante la campagna elettorale erano troppo profonde. In particolare il rapporto con l'ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman era completamente logorato.
   Lieberman ha insistito che nel programma venisse inserito il servizio militare obbligatorio anche per gli ultra-ortodossi e questo ha portato alla rottura con i partiti religiosi. Tutte le mediazioni su questo punto sono fallite e l'impuntatura dell'ex ministro è stata letta da molti osservatori come una "vendetta" nei confronti di Netanyahu.
   Il premier punta ora a vincere ancora più nettamente le prossime elezioni per imporre il suo programma ai partiti minori. Ma dovrà fronteggiare ancora gli scandali e un possibile processo, anche se il Procuratore generale ha rinviato tutto a ottobre. Difficile capire se otterrà un risultato migliore del 9 aprile scorso, quando il Likud è arrivato a 36 seggi e l'ipotetica alleanza di centrodestra a 67.

(La Stampa, 30 maggio 2019)


Ambasciatore Benedetti: l'Italia è contro il boicottaggio di Israele

«Impegnati a rafforzare legami tra i due Paesi»

TEL AVIV - L'Italia è contro ogni forma di boicottaggio di Israele ed è impegnata "a rafforzare, e mai indebolire", i legami tra i due Paesi. Lo ha detto ieri sera l'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti durante la celebrazione della Festa del 2 giugno nella residenza a Tel Aviv alla quale hanno partecipato il ministro israeliano delle comunicazioni Ayoub Kara e circa 700 ospiti tra i quali membri della comunità ebraica di origine italiana. A sottolineare la forza delle relazioni in corso, Benedetti ha ricordato che quest'anno è in programma a Gerusalemme il Summit bilaterale di governo che "l'Italia ha solo con pochi altri Paesi" e nel quale ci sarà "una rilevante partecipazione di importanti aziende italiane". "Siamo - ha spiegato - uno dei primi partner europei di Israele nella ricerca scientifica.
   Abbiamo realizzato uno straordinario e qualitativo salto nella cooperazione bilaterale nei decisivi settori dell'innovazione industriale". Benedetti, dopo aver rimarcato che quest'anno ricorre "la pietra miliare" dei 70 anni dell'avvio di relazioni diplomatiche tra le due nazioni, ha poi reso omaggio sia all'apporto alla vita nazionale degli ebrei italiani sia a quello dato dagli 'Italkim', gli italiani di Israele, alla nascita e allo sviluppo dello stato ebraico. Senza dimenticare il debito che gli italiani hanno con la 'Brigata ebraica': "questi eroi - ha detto - che, lasciando la loro patria, sono venuti per combattere in Italia il regime nazi-fascista". "Lo scorso ottobre - ha proseguito - ho avuto il privilegio, per conto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di onorarli con la Medaglia d'oro al Valor Militare che il nostro Parlamento con una decisione storica ha assegnato alla Brigata Ebraica".
   Nel corso della serata - in cui si è esibita l'Orchestra Pop del Conservatorio di Milano - è stata conferita l'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine della Stella d'Italia ad Ariel David, giornalista, direttore della Fondazione Dan David, uno dei più importanti Premi israeliani. Questa sera, in occasione della Festa del 2 Giugno, l'Ambasciata con l'Istituto italiano di cultura e l'Ufficio del Turismo, hanno organizzato l'evento 'Musica on the beach' con l'Orchestra del Conservatorio di Milano. La sera del 2 giugno, come ogni anno, l'edificio del Comune di Tel Aviv, nella centralissima Piazza Rabin, sarà illuminato con i colori della bandiera italiana.

(ANSAmed, 30 maggio 2019)


Dalla Galilea si vede il futuro

Israele attraversa una fase politica turbolenta, ma sta costruendo un ecosistema di innovazione e integrazione unico al mondo. Due chiacchiere con Erel Margalit.

Ex deputato laburista, Margalit si è spesso schierato contro il premier Netanyahu, ma sull'innovazione c'è pieno accordo "La Galilea mi ha chiesto di realizzare qualcosa di simile a quello che abbiamo fatto per la sicurezza informatica a Be'er Sheva"
Il Foodtech Quarter in costruzione è l'espressione del miracolo agricolo di Israele (e di un consiglio di tre figlie molto materne) L'"innovation diplomacy", come la chiama l'imprenditore israeliano, permette di creare sinergie che la politica non conosce

di Gabriele Carrer

 
Erel Margalit
Quando a Erel Margalit si parla di innovazione, a lui che attraverso i vari fondi della sua Jerusalem Venture Partners ha raccolto in un quarto di secolo oltre 1,3 miliardi di dollari, brillano gli occhi. Ma se gli si parla di innovazione legata al cibo, gli occhi luccicano. Non c'entrano soltanto gli affari, ma anche la sua storia: i suoi genitori vivevano in un moshav (gli insediamenti agricoli nati in seguito alle migrazioni ebraiche di inizio Ventesimo secolo), lui nato nel kibbutz dove sono stati inventati gli irrigatori e poi diventato uno degli architetti della cosiddetta "start up nation", le figlie da cui, dice, ha imparato l'attenzione al cibo salutare, la "sfida dei prossimi 20 anni per il mondo". Promette la rivoluzione sostenibile del cibo con droni e intelligenza artificiale, Margalit, secondo la lista Midas di Forbes il primo venture capitalist non americano e secondo il quotidiano finanziario israeliano TheMarker il venture capitalist con il "golden touch".
  Abbiamo incontrato Margalit in un bar del centro di Milano: è stato in città per partecipare al Seeds&Chips, il più importante evento internazionale dedicato all'innovazione nella filiera agroalimentare, e per incontri con imprenditori e politici italiani. Nel suo curriculum Margalit non ha soltanto la fondazione di una delle prime sei venture capital al mondo ma anche quattro anni in quel Parlamento israeliano che in questi giorni è il teatro di una grande e inattesa instabilità politica dopo la vittoria elettorale del premier Benjamin Netanyahu e le difficoltà a creare una coalizione stabile di governo. Margalit è stato un deputato dei laburisti, alla guida delle taskforce per la cyber-security e per lo sviluppo del nord e del sud del paese. Lasciata la Knesset ha fondato nel 2013 l'organizzazione Israel Initative 2020 per rispondere alle sfide di un paese definito la "start up nation" ma in cui il 21,2 per cento della popolazione (cioè 1.780.500 persone) vive al di sotto della soglia di povertà e in cui soltanto un israeliano su 25 lavora nell'hi-tech. Così Margalit ha diviso Israele in sette regioni di eccellenza con l'obiettivo di creare lavoro e sviluppo, combinando tecnologia e istruzione. Da questo modello sono nati il JVP Media Quarter a Gerusalemme e il Cyber Quarter a Be'er Sheva, nel sud di Israele, dove prima era tutto deserto del Negev e dove oggi sorge una città della sicurezza informatica nella quale convivono start up, multinazionali come IBM, Lockheed Martin e Deutsche Telekom, le varie agenzie governative che si occupano di difesa di infrastrutture e sistemi informatici e l'Università Ben Gurion.
  Ora si sta occupando del Digital Health Quarter nel cuore della città di Haifa ma soprattutto del Foodtech Quarter in Galilea. Da qui, infatti, è partita la sfida di Margalit per fare di Israele il paese leader nel mondo nel settore del foodtech. Precisamente da Kiryat Shmona, che si trova nella Valle di Hula e alle pendici del monte Hermon, da una struttura storica chiamata Beit Asher, che fu la prima scuola della città e diventerà il centro dell'ecosistema voluto da Margalit e sostenuto dal ministero dell'Economia israeliano.
  Yalla è il motto di Margalit, a cui, ci racconta, piacciono soltanto le grandi sfide. "Israele è da sempre un miracolo dell'agricoltura frutto della necessità di sopravvivere in una terra non proprio favorevole a questo settore. Ma con la crescita di Israele sono arrivate le innovazioni". Da un territorio poco più grande della Puglia ma con ridotta disponibilità di acqua e di terra coltivabile è nata una delle agricolture più avanzate al mondo grazie alla ricerca e alla cooperazione tra comunità, governo e aziende.
  "La Galilea mi ha chiesto tre anni fa di realizzare qualcosa di simile a quello che abbiamo realizzato per la sicurezza informatica a Be'er Sheva", racconta: "Ho promesso di portare la regione a essere leader del paese e del mondo nel foodtech in sette anni". Nessuno ci credeva, credeva nell'innovazione in una regione così umile, spiega Margalit. "La Galilea ha le più alte montagne e le più basse valli del paese: possono nascere ciliegie sulle prime, mango e banane sulle seconde, e tutto il resto in mezzo. Abbiamo messo assieme i 45 kibbutz del nord e alcune città che non erano molto forti economicamente. Ora, se guardi la Terra con un telescopio dalla Luna e ti chiedi dove si sta realizzando la più grande rivoluzione del cibo e della tecnologia al mondo, la risposta è Israele".
  Margalit immagina la Galilea come la Silicon Valley del cibo. "Il mondo del cibo e dell'agricoltura subirà cambiamenti epocali nei prossimi dieci, venti anni". Il suo approccio è frutto dell'esperienza personale, dell'esperienza quotidiana della sua famiglia: "Ho tre figlie che non mangiano ciò che ero abituato a mangiare io, e le loro scelte hanno influenzato molto le mie e il mio impegno. I millennial cercano nel cibo una fonte di salute non soltanto di nutrizione". Così il mondo sta vivendo, continua Margalit, una corsa a reinvitare il cibo e i processi di produzione del cibo paragonabile a quella che abbiamo visto negli anni passati in California per lo sviluppo di computer, smartphone e molto altro. "Questa innovazione viene non soltanto dalle grandi aziende ma buona parte nasce dalle start up e dalle università".
   Qualche numero presentato a Seeds&Chips aiuta a inquadrare il settore: 7,8 trilioni di dollari è il valore dell'agrifood a livello mondiale, che occupa il 40 per cento della popolazione; nel 2018 sono stati investiti in innovazione tecnologica nel settore 16,9 miliardi di dollari, il 43 per cento in più dell'anno precedente. Soltanto in Cina 3,52 miliardi di dollari, il 95 per cento in più del 2017. E solo in Italia lo sviluppo sostenibile creerà 3 milioni di posti di lavoro. Al business Margalit accoppia la sua visione sociale di foodtech e agritech: "Non possiamo continuare a utilizzare la plastica e l'alluminio per confezionare i cibi, abbiamo bisogno di prodotti biodegradabili. E non possiamo continuare con gli allevamenti intensivi di animali", dice. Una soluzione la propone la start-up InnovoPro, una delle realtà sostenute da JVP capace di raccogliere 4,25 miliardi di dollari, che ha creato una proteina alternativa a quella animale a partire dai ceci, elemento centrale nell'alimentazione mediterranea e un classico della cucina israeliana. "Dobbiamo cambiare anche il nostro zucchero, che è la causa del 20 per cento delle malattie nel mondo. Qualcosa deve e sta per cambiare: non è possibile che due americani su cinque siano obesi".
  Margalit, uomo che nonostante una fortuna stimata in 400 milioni di dollari non dimentica il suo essere un kibbutznik impegnato a lavorare per tutti e non soltanto per sé, pensa il futuro guardando al suo passato, alla storia della sua famiglia, dei suoi genitori che vivevano in un moshav e mai avrebbero pensato a così grandi innovazioni per le loro colture, dei suoi parenti che partiti da un piccolo villaggio nel distretto centrale di Israele ora producono nel nord alcuni tra i migliori vini rossi del paese. "Durante la diaspora, per 200 anni, a noi ebrei non era permesso coltivare la terra", racconta. "La gente si chiede perché gli ebrei sono spesso avvocati, dottori o banchieri: non ci era permesso di essere agricoltori. Mio nonno Avraham, nato in Russia, arrivò in Israele nel 1914 per lavorare la terra. Il suo cognome era Kaufmann, cioè mercante. L'ha cambiato in Ikar, cioè contadino. Io sono nato nel kibbutz Na'an, nel distretto centrale di Israele. E' il kibbutz più popolato del paese ed è quello dove sono nate grandi innovazioni tecnologiche per l'agricoltura, a partire dagli irrigatori. Gli agricoltori sono persone di fatica. Ma domani, grazie ai droni, ai sensori, all'intelligenza artificiale non dovranno più fare certi sforzi e gestire i propri terreni attraverso la tecnologia".
  L'ex deputato laburista Erel Margalit e il premier N etanyahu non si sono mai troppo amati, come emerso anche prima delle elezioni di aprile: l'imprenditore si è schierato contro il premier per le sue questioni giudiziarie e per altre ragioni di sicurezza nazionale. Ma com'è capitato nel caso del Cyber Quarter a Be'er Sheva, anche in Galilea il governo di Gerusalemme e JVP vanno a braccetto. "In entrambi i casi ci sono grossi incentivi per le aziende che decidono di investire nel progetto", racconta Margalit. Per l'acceleratore di Kiryat Shmona il ministero dell'Economia israeliano paga fino al 35 per cento degli stipendi entro i 30 mila shekel, pari a circa 7.500 euro, e grandi aziende che si trasferiscono in Galilea hanno diritto a una tassazione ridotta al 6 per cento, anziché al 23. E ancora: terreni gratis, sovvenzioni per gli investimenti in costruzioni e attrezzature, per i piani di sviluppo e per i processi di ricerca.
  L'elemento militare, come sempre quando si tratta di innovazione in Israele, non può mancare. L'hub della Galilea può contare anche sul contributo dell'Eisp, il primo acceleratore di start up di Israele fondato da alcuni membri dell'Unità 8200, le forze d'élite della cyberwarfare dell'esercito israeliano. Non è certo il primo caso, visto che molti ex membri dell'unità hanno occupano posizioni di rilievo in multinazionali del teeh. Due casi su tutti: Udi Mokady, presidente e amministratore delegato di CyberArk, e Gil Shwed, cofondatore e ceo di CheckPoint, entrambe aziende leader nel mondo della sicurezza informatica nate in Israele e arrivate fino agli Stati Uniti.
  Quando si parla di simili sinergie in Israele si sente spesso utilizzare la parola ecosistema. "E' quello che abbiamo realizzato a Be'er Sheva, ed è quello che stiamo costruendo in Galilea", spiega Margalit. "Mettiamo assieme i ricercatori e le università, le piccole e medie imprese e le grandi multinazionali. Per questo, il Food Tech Quarter che sta nascendo sorge vicino all'università e nei pressi di molte aziende".
  Margalit vede la Galilea come la Silicon Valley del cibo, anche sotto l'aspetto della multiculturalità, grazie a case a prezzi competitivi, a stipendi elevati ma soprattutto alla possibilità di essere e sentirsi i pionieri della rivoluzione del foodtech. "Si tratta di una nuova area, metà uomini e metà donne, a differenze del Digital Health Quarter di Haifa che è a maggioranza femminile e del Cyber Quarter a Be'er Sheva, a maggioranza maschile". In Galilea, poi, non ci sono soltanto ebrei. Ci sono ebrei, musulmani, cristiani, drusi. E attraverso la chiave del cibo e della diversità culturale Israele può espandere la propria collaborazione con i paesi vicini.
  "Il Mediterraneo e il Golfo hanno bisogno di nuove strategie per affrontare le sfide del lavoro e della salute", ci dice Margalit. "Nord e sud devono cooperare, ebrei, arabi e cristiani devono cooperare. Cibo, acqua, agricoltura e innovazione sono i primi ponti che, prima della politica, gli imprenditori stanno costruendo. Perché nella nostra regione, nel medio oriente ma anche nel Mediterraneo, è sempre più vero che il cibo è la chiave con cui aprire agli altri la porta di casa".
  L'altro strumento è l'innovazione: lui la chiama innovation diplomacy. E Yalla.10, riprendendo il suo motto, è l'idea di Margalit per la collaborazione tra paesi amici, e anche meno amici, in medio oriente. "Yalla, iniziamo a fare le cose tutti assieme. Stiamo cercando di mettere in comunicazione i centri hitech di dieci diverse città per promuovere la cooperazione tra le aziende israeliane e le altre nel Mediterraneo". Dieci città, dieci idee, dieci progetti è il sottotitolo di Yalla.10, una rete che tocca, tra le altre, Amman, Casablanca, Tel Aviv, Gerusalemme, Il Cairo e Ramallah. C'è anche l'Europa in questi piani. I Paesi Bassi, che hanno uno tra i settori agricoli tra i più sviluppati al mondo grazie all'alto tasso di meccanizzazione, e la Francia, grazie all'interessamento in prima persona del presidente Emmanuel Macron, sono gli stati europei con cui Margalit racconta di avere i migliori rapporti per lo sviluppo del foodtech. "E ovviamente, gli Stati Uniti", aggiunge. E l'Italia? "Sono venuto a Milano alla ricerca di nuove sinergie, come quelle con l'Università di Firenze, la Regione Sardegna e diverse realtà nel nord Italia. Il vostro paese è uno leader mondiali del cibo, ma è tempo che lo diventi anche del foodtech. E l'unico modo per farlo è attraverso una partnership con Israele". La cooperazione con il nostro paese sembra procedere un po' a rilento, ma i contatti ci sono, la determinazione anche e, l'avrete capito, Margalit è un uomo fiducioso, con gli occhi che brillano.

(Il Foglio, 30 maggio 2019)


Vertice senza precedenti tra Israele, USA e Russia a Gerusalemme

A giugno si terrà a Gerusalemme un vertice senza precedenti tra Stati Uniti, Israele e Russia per discutere della situazione in Siria

Nel prossimo mese di giugno si terrà a Gerusalemme, capitale dello Stato Ebraico, un vertice senza precedenti tra USA, Russia e Israele che avrà come argomento la situazione in Siria.
Lo ha annunciato ieri il portavoce della Casa Bianca spiegando che sarà un vertice ad altissimo livello al quale parteciperanno il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano Meir Ben-Shabbat e il segretario russo del Consiglio di sicurezza Nikolay Patrushev....

(Rights Reporters, 30 maggio 2019)



La genesi dei nazionalismi 2.0

Le politiche neoliberiste alimentano le disparità e chi è in difficoltà trova ascolto dai populisti. Col peggioramento dei servizi sociali crescono le cause di disagio psicologico e fisico. E le reazioni sono simili, da Casal Bruciato e Torre Maura ai quartieri depressi di Londra.

di Alberto Mario Fanti

Quando rinascono i nazionalismi? Tutto, in un certo senso, inizia nel 1979, quando - col successo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna - si impone il nuovo verbo politico-economico del neoliberismo. Ora, è sugli effetti a lungo termine delle politiche neoliberiste che dobbiamo concentrarci per capire le ragioni dell'emergere di un nazionalismo 2.0.
  I dati disponibili ci dicono che le politiche neoliberiste hanno causato un vistoso aumento delle disuguaglianze all'interno dei diversi Paesi che le hanno adottate. Col crescere della disuguaglianza sono cresciuti anche numerosi altri segni di disagio sociale: nei Paesi dove la disuguaglianza è maggiore, la mobilità sociale è nettamente minore; cioè è più difficile per il figlio o per la figlia di una famiglia povera migliorare la propria condizione sociale o economica rispetto a quella dei genitori. E, allo stesso modo, dove la disuguaglianza è maggiore, maggiore è anche la criminalità, peggiori sono i servizi sanitari, più diffuse sono le malattie mentali o di altro genere.
  In questi casi, il rapporto non deve essere considerato di tipo immediatamente causale. Cioè, non è possibile affermare che la maggiore disuguaglianza, di per sé, causa problemi sociali. Si deve osservare, invece, che la maggiore disuguaglianza è l'effetto di politiche economiche che ridimensionano la spesa pubblica, e quindi anche la spesa per i servizi sociali, rendendo peggiore la qualità di questi stessi servizi. Di conseguenza le famiglie più povere hanno a disposizione minori strumenti di assistenza sociale; peggiorano, dunque, le loro condizioni di vita, mentre aumentano le cause di disagio psicologico o fisico.
  Chi è in difficoltà ha bisogno di risposte. E le trova dove lo storytelling politico è più semplice e più plausibile. I principali partiti di centro-sinistra in Europa non sembrano possedere uno storytelling di questo tipo. Una volta al governo - in genere - non si sono allontanati mai dai fondamentali del neoliberismo (pressione fiscale contenuta, in particolare sui redditi alti; tagli alla spesa pubblica; privatizzazioni; deregulation); d'altro canto, le narrazioni simboliche che offrono (per esempio: «apriamo le braccia a chi ha bisogno di accoglienza e viene da Paesi disagiati»), suonano decisamente controintuitive a tutte quelle persone che dispongono di redditi bassi, di livelli di istruzione modesti, di risorse cognitive non particolarmente articolate, le quali reagiscono dicendo: ma come? e perché non pensate a noi, prima che a tutti questi «altri»?
  Ritorna l'idea di nazione come comunità biologica, che ci riporta ai giorni bui dell'Europa. Qui in gioco non c'è tanto il fondamento etico o sociologico di una reazione simile. Ma il fatto che questo tipo di reazione accomuna una grande quantità di persone (da chi abita a Torre Maura o Casal Bruciato, a chi abita nei quartieri depressi di Londra, o Manchester, o Birmingham). Queste stesse persone, che rifiutano lo storytelling dei partiti di centro-sinistra, trovano invece persuasivo lo storytelling offerto dai partiti populisti. I quali costruiscono una narrazione tutta giocata sulla logica delle differenze, sull'identificazione di un nemico, di un capro espiatorio su cui riversare frustrazioni e inquietudini.
  La loro narrazione è semplice: «La colpa delle nostre sventure è della finanza internazionale (magari ebraica); delle caste politiche nazionali; dei tecnocrati dell'Unione Europea; la colpa è dei flussi migratori; o comunque dei migranti che costituiscono una minaccia alla nostra prosperità, perché sono portatori di culture e identità religiose del tutto estranee alle nostre; e dunque, recuperiamo la sovranità nazionale, e potremo fare politiche a sostegno del popolo; prima gli italiani; prima i francesi; difendiamo la cultura ungherese; difendiamo l'identità polacca; e facciamolo in ragione delle differenze etniche, religiose, culturali, che ci separano da questi nostri nemici».
  Ecco: questo è lo storytelling dei movimenti populisti di destra. È semplice, facilmente comprensibile, e psicologicamente soddisfacente, anche quando non pone affatto le premesse per politiche realmente efficaci dal punto di vista economico e sociale. E in ragione della sua facile comprensibilità attrae strati deboli della popolazione. Ma è chiaro che è anche uno storytelling carico di implicazioni. La prima, e la più importante, è la ripresa di un dialogo con l'archivio memoriale del nazionalismo otto-novecentesco, anche nelle sue forme più estreme: ecco dunque riemergere l'idea che la nazione è una comunità biopolitica, che nasce da una storia che è culturale, ma anche biologica, di sangue, di stirpe; da questo assunto deriva che si deve difendere non solo la sovranità nazionale, ma la concezione della nazione come comunità fondata sullo ius sanguinis: si è italiani e italiane (o francesi, britannici, ungheresi, ecc.) non perché si può scegliere di esserlo, ma perché si nasce dentro la comunità nazionale: un'idea che ci riporta ai momenti più oscuri della storia europea otto-novecentesca.

(La Stampa, 30 maggio 2019)


Il concetto di nazione, che nell'Ottocento era considerato nobile e ha favorito il rinascere del sentimento "patriottico" sionista, ora che la nazione ebraica è costituita è diventato un sentimento oscuro, frutto di uno "storytelling" carico di minacciosi presagi. Forse si sta preparando l'attacco decisivo allo storytelling nazionale più antico del mondo: quello della nazione ebraica, lo storytelling della Bibbia che narra la storia passata, presente e futura della nazione degli ebrei. M.C.


Salta l'intesa tra Netanyahu e Lieberman, Israele verso il ritorno al voto

Israele verso nuove elezioni dopo il voto di poco più di un mese fa: è la prima volta nella sua storia. Al termine del mandato esplorativo che scadeva alla mezzanotte di martedì, il premier incaricato Benyamin Netanyahu non è riuscito a trovare un'intesa con il suo ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman.
   Il leader nazionalista laico di 'Israele casa nostra' non si è mosso di un millimetro dalla sua richiesta - per entrare al governo - di un'applicazione senza sconti della legge sulla riforma della leva per gli studenti ortodossi, vista invece come il fumo negli occhi dai partiti che sostengono la coalizione di maggioranza.
   Il tutto - in uno scenario istituzionale senza precedenti - mentre la Knesset, su iniziativa del Likud, il partito del premier, ha optato per il proprio scioglimento pur di impedire al presidente Reuven Rivlin di affidare un nuovo incarico o ad un altro deputato di destra o all'opposizione di centrosinistra di Blu-Bianco guidata da Benny Gantz, il rivale delle ultime elezioni. Una prassi che lo stesso Rivlin, pur condannando il ritorno alle urne, ha riconosciuto corretta e nei poteri della stessa Knesset.
   «Non capisco la mentalità di Lieberman, sembra che abbia deciso di restare fuori dal governo e di portarci alle elezioni», ha denunciato Netanyahu mentre dal suo partito arrivavano bordate contro l'ex ministro della Difesa, accusato addirittura di «sovversione» per aver respinto ogni tentativo di mediazione. «Vuole distruggere Netanyahu e prenderne il posto», ha insistito il Likud inasprendo i toni di una campagna in corso da giorni.
   Ma Lieberman - come sempre in questa settimana - è stato un muro di gomma: l'ex ministro, dimessosi nei mesi scorsi per l'arrendevolezza mostrata, a suo dire, da Netanyahu con Hamas a Gaza, ha fatto spallucce nonostante le forti pressioni giunte da tutte le parti, Usa compresi, per non mandare all'aria il governo di destra indicato dall'ultimo voto. Il leader della minoranza russa si è limitato a ribadire di «volere sì uno Stato ebraico ma non uno Stato retto dalla halachà», ovvero l'ortodossia religiosa.
   Poi alla Knesset - in seduta plenaria per votare lo scioglimento - ha confermato che «non c'è altro problema che quella legge». Anche l'ultimo escamotage tentato da Netanyahu di offrire alcuni ministeri ai laburisti pur di accaparrarsi i loro preziosi 6 deputati (uno in più rispetto a quelli di Lieberman) è fallito. L'offerta del premier è stata respinta. Le elezioni quindi si avvicinano e, a meno di sorprese, con tutta probabilità Israele tornerà al voto il 17 settembre.
   In gioco però, hanno avvertito gli analisti, non c'è solo il destino di un governo di destra e gli equilibri politici interni, ma molto di più. Con il ritorno alle urne infatti Israele non avrà un governo presumibilmente fino a novembre e questo significa che non ci sarà un interlocutore nella pienezza dei poteri per affrontare lo spinoso e imminente piano di pace che il presidente Usa Donald Trump si appresta a diffondere e le cui implicazioni economiche saranno illustrate al seminario di Manama in Bahrein del 25 e 26 giugno prossimi.
   Certo, come è già successo, Trump potrà rinviare la presentazione del piano. Ma da novembre in poi sarà impegnato su ben altro fronte, per lui molto più delicato: la propria rielezione.

(La Gazzetta del Sud, 29 maggio 2019)


Roma, vandali scrivono un messaggio in tedesco sulle pietre d'inciampo

Al Ghetto ebraico, in via della Reginella, è comparso un adesivo dissacrante: «L'assassino torna sempre sul luogo del delitto». Subito rimosso.

Dopo quelle rubate (e poi ricollocate) in via Madonna dei Monti, un nuovo atto vandalico sulle pietre d'inciampo nel cuore di Roma. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio, in via della Reginella 10, al ghetto ebraico, su uno dei simboli che ricordano le vittime romane della Shoah è stata attaccata una scritta in tedesco per ricordare che: «L'assassino torna sempre sul luogo del delitto».

 «Atto dissacrante della memoria delle vittime»
  L'associazione «Arte in Memoria», promotrice del progetto «Memorie d'inciampo» denuncia questo «ennesimo atto di dissacrazione della memoria delle vittime della deportazione nazi-fascista». Solo una settimana fa, centinaia di studenti si erano mobilitati per «spolverare la memoria», lucidando le 288 pietre d'inciampo distribuite nei diversi municipi della città. La pietra vandalizzata è già stata ripulita dell'adesivo dissacrante.

(Corriere della Sera - Roma, 29 maggio 2019)



Il Comitato economico e sociale europeo discute della crescita dell'antisemitismo

Nonostante molti ritengano che si tratti di un fenomeno appartenente al passato, l'antisemitismo si sta riaffacciando in Europa in un modo del tutto inaspettato, basti pensare che in Francia e Germania gli atti antisemiti sono cresciuti rispettivamente del 74% e del 60%.
   Nel corso del 2018, l'Agenzia dei diritti fondamentali dell'Unione Europea ha svolto un'inchiesta su 16.500 persone di religione ebraica in 12 Stati membri dalla quale sono emersi dati allarmanti: il 90% degli intervistati ha dichiarato di percepire una crescita dell'antisemitismo e il 30% ha raccontato di essere stato vittima di vessazioni. Pare, dunque, evidente che chi si trova a vivere una situazione simile presenti uno stato di preoccupazione costante, tantoché il 38% degli interpellati ha espresso la volontà di emigrare.
   Il Comitato economico e sociale europeo (CESE) ha, dunque, invitato alla sua 543a sessione plenaria Raya Kalenova (Congresso ebraico europeo), Michael Bilewicz (Centro di ricerca sui pregiudizi dell'Università di Varsavia) e Joèl Kotek (Université libre de Bruxelles) per discutere del tema dell'antisemitismo in Europa.
   In apertura del dibattito, durante il quale molti membri del Comitato hanno espresso il proprio sostegno alla comunità ebraica e ribadito l'impegno contro la discriminazione delle minoranze, il presidente del CESE Luca Jahier ha affermato che tale questione tocca il cuore dei valori europei: «Visti i recenti avvenimenti, non possiamo in alcun caso abbassare la guardia e dare per acquisita la pace che abbiamo conosciuto in Europa in questi ultimi sessant'anni. Sebbene i nostri diritti fondamentali siano sanciti dall'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea, dobbiamo difenderli giorno dopo giorno».
   Raya Kalenova ha ricordato il senso crescente di urgenza che prova il Congresso ebraico mondiale a causa degli attacchi perpetrati nei luoghi di culto, nelle istituzioni comunitarie e altresì nei negozi e nelle case delle persone ebree. È addirittura diventato pericoloso indossare una kippah in pubblico e chiunque dichiari la propria appartenenza all'ebraismo sui social network si espone di fatto alle vessazioni.
   Oltre a evidenziare come soltanto un giovane su dieci conosca la storia dell'Olocausto, Kalenova ha affermato: «Oggi noi vogliamo far comprendere alle persone che l'antisemitismo non rappresenta solamente un pericolo per la comunità ebraica. Gli estremisti guadagnano terreno e i moderati non si fanno sentire abbastanza. Populismo, intolleranza e xenofobia minacciano i nostri principî fondamentali».
   Michael Bilewicz ha ricordato che un sondaggio realizzato nel 2017 aveva messo in luce come in Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Bulgaria un abitante su quattro o su cinque non accettasse di avere un vicino ebreo. Nell'Europa dell'Est in particolare, la crescita dell'antisemitismo è attribuita agli ebrei stessi dal 25% delle persone; il 50% dei polacchi, il 37% degli austriaci e il 32% dei tedeschi ritengono, inoltre, che gli ebrei approfittino dell'Olocausto.
   Joèl Kotek ha sottolineato come «la teoria del complotto che attribuisce un potere eccessivo agli ebrei ha fatto ritorno nella nostra società, nei media e talvolta nei nostri Parlamenti». L'odio nei confronti degli ebrei è, dunque, più tangibile che mai, al punto che sono diventati addirittura uno dei bersagli del movimento dei cosiddetti "gilets jaunes" in Francia.
   Kotek ha, infine, rimarcato che «[l]a popolazione ebraica è in declino in Europa. La Polonia contava 3,3 milioni di ebrei prima della Seconda guerra mondiale; oggi non sono che una ventina di migliaia. È per questo motivo che è importante normalizzare le nostre relazioni».

(Apiceuropa, 29 maggio 2019)


Lieberman fa «leva» sugli ultraortodossi per nuove elezioni

Il leader del partito laico Israel Beitenu punta a silurare Netanyahu, considerato una scommessa a breve termine, Ma il premier tiene botta, e imbarca i centristi.

di Fiammetta Martegani

Oggi è per Benjamin Netanyahu l'ultimo giorno a disposizione per formare il governo. I numeri ci sarebbero tutti, con un'alleanza di 65 seggi elettorali sui 120 costituiti dalla Knesset. Tuttavia, 5 seggi, cruciali per raggiungere la maggioranza governativa, dipendono da Avigdor Lieberman, leader del partito ultra-nazionalista e laico Israel Beitenu. Nelle ultime settimane Lieberman ha minacciato il premier di far saltare la coalizione governativa nel caso in cui non dovesse venir implementata la legge che prevede il servizio militare obbligatorio anche per i giovani ultraortodossi, legge avversata dai partiti religiosi, che rappresentano l'altro partner fondamentale per la formazione del nuovo governo. Secondo alcuni analisti, si tratta solo di un espediente per mettere in un angolo Bibi: probabilmente Lieberman - dotato di grande fiuto politico - considera l'attuale premier una scommessa perdente a causa delle difficoltà giudiziarie che sarà chiamato ad affrontare in futuro, e ha quindi deciso di puntare su un governo di unità nazionale con il partito Blu e Bianco di Benny Gantz (che alle elezioni di aprile ha preso solo un seggio meno del Likud). Tutto questo non sembra aver fermato Netanyahu. Che ha sfidato Lieberman dicendo di essere pronto a nuove elezioni, e per aggirare l'ostacolo Lieberman ha imbarcato i centristi di Kulanu: con i loro 4 seggi, la maggioranza c'è. Ha comunque lasciato la porta aperta, promettendo di fare il possibile per trovare un accordo: «Israele non tornerà alle urne per un nuovo voto inutile». Lieberman sembra però molto determinato: ha attaccato Netanyahu per aver definito i partiti ultra-ortodossi «estremamente flessibili» sulla legge per la leva: «Non si tratta di flessibilità, è una truffa».
La Knesset intanto si prepara: lunedì, su iniziativa del Likud, ha approvato in lettura preliminare una proposta di legge per sciogliere anticipatamente la legislatura. Tra le date più probabili, il 17 settembre. L'iter della legge proseguirà, salvo un accordo in extremis. Stando a un sondaggio di Canale 13, il 41 % degli israeliani attribuisce la colpa di un eventuale ritorno alle urne a Netanyahu, il 27% a Liberman, il 16% ai partiti ultraortodossi.

(Avvenire, 29 maggio 2019)


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Netanyahu, la minaccia di elezioni anticipate

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Bibi ed Evet - i soprannomi che tra loro non usano più- si conoscono da 31 anni, da quando Avigdor Liberman ha chiesto di diventare assistente volontario per quel giovane viceministro degli Esteri. Il buttafuori immigrato dall'ex Unione Sovietica e diventato leader di partito già dimostrava l'intuito politico: allora aveva scommesso su Benjamin Netanyahu, ancora in corsa per conquistare il titolo di primo ministro più longevo di Israele, adesso scommette di poterlo mandare a casa. O almeno di costringerlo a sudare fino all'ultima goccia e all'ultimo minuto possibile per riuscire a formare la coalizione, dopo la vittoria del g aprile. Netanyahu esaurisce stasera a mezzanotte i 28 giorni (più l'estensione di 14) concessi per riuscire a chiudere le trattative. Liberman ha ormai proclamato di non voler tornare sulla poltrona di ministro della Difesa e ha accusato l'ex alleato di voler creare un governo «sottoposto alla legge ebraica», perché il dissidio nascerebbe dalle norme per costringere gli ultraortodossi a prestare il servizio militare, i partiti religiosi si oppongono. Senza Liberman e senza maggioranza, il premier ha dato ordine ai deputati del suo Likud di mettere sul tavolo la dissoluzione del Parlamento, in prima votazione è già stata approvata, le altre due sono attese per oggi. Israele tornerebbe alle elezioni nel giro di pochi mesi, la data prevista è tra la fine di agosto e la prima metà di settembre. Per dimostrare di essere pronto a riaprire la campagna Netanyahu ha ieri stretto un patto con Moshe Kahlon e la sua formazione, correranno insieme. Il presidente Reuven Rivlin promette di lasciare a Netanyahu «tutto il tempo necessario», ammette però di essere contrario all'idea di nuove elezioni. Il piano del Likud per licenziare i parlamentari da poco insediati potrebbe fallire e in quel caso il capo dello Stato può affidare il mandato a un altro politico, magari ai rivali diretti del premier dentro al partito. «Netanyahu ha vinto ad aprile? Forse no e di sicuro non ancora. Il suo errore è stato pensare di aver ricevuto un mandato personale dal popolo, Liberman gli sta dando una lezione politica», scrive Anshel Pfeffer, che al premier ha dedicato una biografia, sul quotidiano Haaretz. Se alla fine si tornasse a votare, la sfida sarebbe ancora di più tra Netanyahu e l'ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Bibi è stato in grado di regolare i tempi della politica israeliana per dieci anni, adesso il calendario sembra contro di lui: le urne verrebbero riaperte a poche settimane dal faccia a faccia tra i suoi legali e il procuratore generale dello Stato, l'annuncio definitivo dell'incriminazione per corruzione è fissato a dicembre.

(Corriere della Sera, 29 maggio 2019)


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Israele in cerca di un governo altrimenti si torna alle urne

Nuove elezioni costerebbero a Israele attorno ai 115 milioni di euro. A dichiararlo, la Commissione Finanza e Bilancio israeliana mentre il paese si appresta, incredulo, alla possibilità di tornare alle urne. Il Likud - partito del Premier Benjamin Netanyahu - in queste ore continua a trattare con il leader di Yisrael Beitenu Avigdor Lieberman. I suoi cinque seggi sono fondamentali per la formazione della nuova maggioranza ma Lieberman non vuole cedere su alcuni punti: la legge sulla leva obbligatoria per i haredim su tutti. "In questo momento sembra che siamo ad un punto morto perché tutti sono saliti in cima ad un albero e nessuno è pronto a scendere, soprattutto non Lieberman", l'analisi di Abraham Diskin, professore emerito di scienze politiche all'Università Ebraica di Gerusalemme. Per Diskin, intervistato dal New York Times, la possibilità di tornare alle urne è al 50 e 50. Intanto, su proposta di Netanyahu, la Knesset ha già votato in prima lettura un disegno di legge per sciogliere la Knesset. Tra 24 ore, nel caso non si trovasse un accordo con Lieberman, il parlamento israeliano sarà chiamato a votare in seconda e terza lettura e quindi a decidere definitivamente per il ritorno alle urne. 27 agosto, 3 settembre, 10 settembre, 17 settembre o 29 ottobre, sono le date proposte ma diversi analisti auspicano per la risoluzione del conflitto tra Netanyahu e Lieberman. "C'è un'alta probabilità che entro domani mattina troveremo il ponte tra Lieberman e le posizioni del primo ministro e la questione haredi. E saremo in grado di formare il governo", ha detto una fonte del Likud all'emittente Kan.
   Lo svolgimento di due elezioni in un così breve intervallo di tempo sarebbe senza precedenti in Israele. E sono emersi diversi segnali di preoccupazione per i costi e la prolungata paralisi politica che ne deriverebbe.
   Nel frattempo, il primo ministro Netanyahu sta lavorando personalmente - riporta l'emittente Aurtz 13- per assicurare che ci sia la maggioranza per il voto sullo scioglimento della Knesset. Nelle ultime ore, ha parlato con i membri del suo partito, che si trovano nei posti più bassi della lista, e sta cercando di convincerli a sostenere il disegno di legge e accettare una fusione con il partito di Moshe Kahlon, Kulanu (attualmente 4 seggi). L'ingresso di quest'ultimo provocherebbe inevitabilmente l'uscita alle prossime elezioni di alcuni dei membri del Likud (gli ultimi della lista). Chi rischia potrebbe, nonostante l'indicazione del partito, votare contro lo scioglimento e causare un ulteriori crisi all'interno del Likud.

(moked, 28 maggio 2019)



Follie Usa, i bambini che cantano come decapitare gli infedeli

di Stefano Varanelli

La sala è addobbata a festa. Tra tappeti persiani e scritte in arabo, un decina di ragazzini inscena una piccola coreografica cantando sulla musica in playback. "Il sangue dei martiri ci protegge - cantano - Il paradiso ha bisogno di uomini coraggiosi". E poi "Soffiate, oh venti del paradiso. Scorrete, oh fiumi dei martiri. L'islam sta chiamando. Chi risponderà al suo appello?".
   Prende la parola un gruppo di bambine. "I nostri martiri hanno sacrificato le loro vite senza esitazione, e ora competono per il paradiso", legge la prima. "Difenderemo la terra sacra con i nostri corpi e senza esitazione", fa un'altra. "Decapiteremo la testa" dei nemici (gli israeliani, tanto per chiarire) "libereremo la sacra moschea di al-Asqua e "li sottoporremo a torture eterne". Parole forti per una bambina di circa 10 anni.
   Siamo ad un raduno di Hamas nella striscia di Gaza? No. Questi sono bambini americani e siamo a Philadelphia: la città della Liberty Bell, dove è nata la costituzione degli Stati Uniti.
   La festa in questione è una celebrazione della Umma (la comunità dei fedeli) organizzata da un locale centro islamico, alla fine di aprile. Ogni gruppo di studenti doveva rappresentare in uno spettacolo le tradizioni culturali della sua nazione di origine. Quello che abbiamo descritto era lo spettacolo dei "palestinesi".
   Ora, mi sembra normale che non ci sia simpatia per Israele tra i figli della "diaspora" palestinese. Assistere, però, al lavaggio del cervello con cui si insegna a bambini e bambine che morire come martiri, magari suicidi, sia una cosa fantastica, dovrebbe far inorridire ad ogni latitudine. In special modo nella città dove Jefferson aveva annoverato, tra i diritti inalienabili degli esseri umani, "la vita, la libertà e il perseguimento della Felicità".
   Eppure tra tutti gli adulti che assistono allo spettacolo, nessuno ci trova qualcosa di strano o ineccepibile. Il video dell'evento viene tranquillamente postato sulla pagina facebook del centro e viene rimosso solo quando comincia a circolare una versione sottotitolata in inglese che rivela a tutti cosa dicono e cosa cantano quei ragazzini. Non che succeda tutto questo scandalo. La notizia esce sui media locali e su quelli di orientamento conservatore, come il New York Post. Per il resto viene passata quasi sotto silenzio. Paragonate questo al putiferio scatenato per settimane su uno studente di una scuola cattolica colpevole solo di un sorriso beffardo, e poi ditemi che non esistono doppie misure.
   Mohamad Tawhidi, un imam riformista, commenta così tutta la vicenda: "Noi avvertiamo l'Occidente del perché scappiamo dal medioriente, ma l'Occidente non ci ascolta. Ecco le vostre nuove generazioni". Speriamo sia solo un po' allarmista.

(Nicola Porro - Blog, 29 maggio 2019)


Truffa del testamento. «Eredità da tre milioni sottratta a Israele»

Ottantenne accusato di falso: si sarebbe impossessato dei beni che Rosa Piperno voleva lasciare a un ente del suo paese. La donna in un documento del 2008 aveva affidato i soldi al "KKL": alla sua morte spunta un atto sospetto.

di Marco Carta

Un patrimonio da oltre tre milioni di euro, fatto di fondi di investimento, polizze vita e proprietà immobiliari fra Roma e Nettuno. E il giallo dell'eredità. Nata nel 1929, Rosa Piperno, cognome storico nella comunità ebraica capitolina, prima della sua morte aveva espresso un unico desiderio: che i suoi averi ritornassero a Israele per finanziare attività benefiche. Ma a pochi giorni dalla sua morte, quei beni milionari erano già finiti nelle mani di uno sconosciuto, Armando Efrati.

 La promessa
  L'uomo era stato indicato in un testamento olografo come «erede unico universale» della donna, deceduta a Nettuno nel giugno 2016. Ma secondo la procura quel documento sarebbe tarocco. Tanto che ora l'ottantenne si ritrova a processo per falso in testamento olografo, truffa e sostituzione di persona, dopo la denuncia del Keren Kayemeth LeIsrael. Che rivendica quell'eredità da oltre tre milioni di euro.
  «Faremo fiorire il deserto». Era il 22 aprile del 2008 quando Rosa Piperno con un testamento pubblico aveva nominato «erede unico universale», proprio il Kkl, l'ente no profit dell'Organizzazione Sionista mondiale, che dal 1901 si occupa dello sviluppo, della bonifica e del rimboschimento della terra di Israele. Rosa Piperno, di fronte al notaio, era stata categorica: un quarto del suo patrimonio avrebbe dovuto finanziare una borsa di studio da assegnare ai laureati in medicina (possibilmente di nazionalità italiana e di religione ebraica). Un altro quarto avrebbe dovuto finanziare la ricerca in campo oculistico. Un altro quarto in favore degli anziani indigenti di Israele e l'ultima porzione per i bambini portatori di handicap. I desiderata della donna, che chiede anche che nessuno dei suoi parenti «entri nelle sue proprietà alla sua morte», sono chiari. E messi nero su bianco. Quando però i rappresentanti del Kkl si rivolgono alle banche della defunta, morta il primo giugno del 2016, scoprono di non essere più gli eredi. La pubblicazione di un nuovo testamento, risalente al 2015, aveva revocato e annullato il precedente atto del 2008. Il nuovo erede non è più il Kkl, ma l'80enne Armando Efrati, che si ritrova nelle mani un vero e proprio tesoro. Fra conti correnti e proventi dalla gestione patrimoniale i soldi in banca ammontano ad oltre 800mila euro. Mentre la somma complessiva di due polizze vita supera i 2,7 milioni di euro. Tutte somme «divenute esigibili a seguito del decesso dell'assicurata».

 L'inganno
  Alla vista del nuovo testamento, il KKL si insospettisce. Prima incarica un consulente grafologo che «rileva numerose discordanze fra il nome alla prima riga e la firma in calce». Poi decide di rivolgersi alla magistratura per avere una perizia calligrafica sul documento originale. Un atto che incastrerebbe Armando Efrati, sotto accusa per essersi spacciato «falsamente per erede universale». A stabilire la verità sarà ora il processo penale, che si è aperto ieri mattina.

(Il Messaggero, 29 maggio 2019)


Haj Amin al-Husseini, il vero responsabile della nakba

La pace potrà arrivare quando gli arabi riconosceranno che la nakba fu causata dall'estremismo violento del mufti alleato dei nazisti, che respingeva ogni compromesso istigando ovunque alla violenza contro gli ebrei.

Nel marzo del 1949 il mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, viveva sotto stretta sorveglianza ad Alessandria dopo essere fuggito dall'Europa dove sarebbe stato processato a Norimberga come criminale di guerra.
Facciamo un passo indietro. Più di ogni altro arabo, il mufti al-Husseini è l'uomo che incarnò l'antisemitismo islamico contemporaneo e il rifiuto arabo di scendere a patti con la presenza di Israele nella regione. Fu lui che fabbricò il mito della "Al-Aqsa in pericolo" secondo cui gli ebrei complotterebbero per distruggere la moschea sulla spianata del Monte del Tempio e costruire il Terzo Tempio sulle sue rovine. Fu lui il principale istigatore delle violenze anti-ebraiche del 1920 e del 1929. Fu lui che capeggiò la rivolta araba contro inglesi ed ebrei nella seconda metà degli anni '30 durante la quale vennero uccisi 300 ebrei e 262 soldati britannici. Gli inglesi reagirono col pugno di ferro e la popolazione araba locale pagò un prezzo pesante: 5.000 morti. Ma 3.500 di loro furono vittime di una campagna fratricida scatenata dal mufti contro i suoi avversari....

(israele.net, 29 maggio 2019)


I rabbini: mancano emoji che rappresentino la fede ebraica

 
La Conferenza dei rabbini europei (Cer) ha chiesto che siano introdotti emoji che rappresentino la fede ebraica. In una lettera inviata all'Unicode Consortium - che regola e approva la rappresentazione dei testi in ogni tipo di dispositivo elettronico, cellulari compresi - la Cer ha infatti sollecitato «la creazione di un nuovo emoji che raffiguri la religione ebraica e i suoi simboli» e tra questi la kippah.
Ci sono emoji di donne in hijab e clero arabo, gli ebrei sono stati dimenticati?», ha denunciato Gadi Gronich della Cer in un comunicato ripreso dai media israeliani. Nella lettera la Conferenza dei rabbini europei ha sottolineato che per quanto il mondo sia orientato verso il pluralismo, in questa diversità l'ebraismo non è rappresentato. «Se è legittimo raffigurare una famiglia composta di due padri o di due madri e rappresentare il tradizionale abbigliamento della religione islamica, crediamo - si sostiene nella lettera - che ci sia spazio anche per la presenza dei simboli ebraici».
In effetti, tra le emoji disponibili negli smartphone manca una rappresentazione di persona di fede ebraica. Tra gli altri simboli, invece, come luoghi di culto, compare una sinagoga accanto alla moschea e alla chiesa.
Nel recente passato Apple, durante il rilascio della versione 12.1 di iOs, aveva dovuto modificare e migliorare l'emoji dedicata al bagel - un pane tipico e molto diffuso tra le comunità ebraiche e nella cucina polacca - che nella prima versione «dava l'impressione di un pane congelato» e soprattutto non conteneva il formaggio.

(Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2019)


L'allarme di Merkel: in Germania lo spettro antisemita

di Salvatore Lussu

ROMA. - Svastiche disegnate sui muri, cimiteri ebraici profanati, intimidazioni, discorsi d'odio sul web e antiche teorie del complotto che riemergono come un fiume carsico dalle fogne della storia: l'antisemitismo in Europa, e in Germania in particolare, non è solo uno "spettro del passato" ma una piaga da affrontare qui e ora. La cancelliera tedesca Angela Merkel lancia un nuovo allarme, nello stesso giorno in cui nella vicina Austria una mostra fotografica dedicata ai sopravvissuti della Shoah a Vienna è stata presa di mira dai vandali.
   Già altre due volte nelle scorse settimane le immagini dell'italiano Luigi Toscano erano state rovinate con scritte antisemite. "C'è del lavoro da fare" per fronteggiare forze oscure che stanno trovando sostegno popolare, spiega Merkel in un'intervista alla Cnn. In Germania, ammette, data la sua storia "dobbiamo essere molto più vigili di altri: c'è sempre stato un certo numero di antisemiti tra noi, purtroppo. Non esiste ancora una sinagoga, non un unico asilo nido per bambini ebrei, una scuola per bambini ebrei che non debba essere sorvegliata dai poliziotti tedeschi".
   Le parole della cancelliera arrivano a pochi giorni dall'uscita del commissario del governo tedesco per l'antisemitismo, Felix Klein, che con le sue parole ha sollevato un vespaio di polemiche in patria e fuori. Dopo un aumento significativo di episodi antisemiti in Germania, il funzionario aveva suggerito agli ebrei di non indossare la kippah in pubblico in certe zone del Paese, per evitare potenziali problemi. Timori che avevano suscitato reazioni allarmate in Israele: secondo il presidente Reuven Rivlin rappresenterebbero "una resa all'antisemitismo e una ammissione che, ancora una volta, gli ebrei non sono sicuri in terra tedesca".
   Ora anche le Nazioni Unite si dicono "gravemente preoccupate" dal fenomeno. "Non si tratta di fatti isolati", accusa la portavoce dell'Alto commissariato Onu per i diritti umani, Marta Hurtado. E non riguardano solo l'Europa, come racconta la cronaca degli ultimi mesi.
   Negli Stati Uniti, undici persone sono state massacrate in una sinagoga a Pittsburgh lo scorso ottobre. Una donna è stata uccisa ad aprile nell'attacco contro un'altra sinagoga nel sud della California. E New York, secondo gli ultimi dati, dall'inizio dell'anno ha registrato un boom di crimini d'odio, in crescita dell'83%, e di cui oltre la metà sono atti antisemiti.
   Neppure forze politiche considerate rispettabili sembrano essere immuni da possibili infiltrazioni del virus: da anni le accuse di antisemitismo a esponenti laburisti britannici creano problemi al partito e alla leadership di Corbyn, tacciata di accondiscendenza. Ora il Labour, che peraltro ha già fatto sapere di voler collaborare all'inchiesta, è formalmente indagato per questi episodi dall'authority pubblica britannica per l'eguaglianza e i diritti umani.

(ANSA, 28 maggio 2019)


Discriminazioni contro gli ebrei: aperta un'inchiesta sul partito laburista britannico

L'Equality e Human Rights Commission ha aperto un'inchiesta su 130 casi sospetti di antisemitismo.

Non è la prima volta che lo spettro dell'antisemitismo si aggira sul partito laburista britannico, ma questa volta non si tratta né di un tentativo di screditare il movimento da parte dei conservatori o di altri rivali politici, né di una ribellione da parte di una minoranza insoddisfatta dalla leadership di Corbyn.
   L'Equality e Human Rights Commission (Commissione sull'uguaglianza e i diritti umani), un comitato di vigilanza indipendente, ha aperto un'inchiesta con l'obiettivo di stabilire se il partito si è macchiato di discriminazioni nei confronti di persone ebree.
   In passato l'organo di vigilanza aveva punito un altro partito britannico, il British National Party (BNP) di estrema destra, perché colpevole di aver inserito nel proprio atto costitutivo una clausola che bandiva l'adesione al gruppo ai cittadini britannici appartenenti a minoranze etniche, una regola in contrasto con la legislazione britannica in materia di «rapporti razziali» (race relations).
   In questo caso invece la decisione è stata presa in seguito alle denunce da parte del Movimento ebreo laburista (Jewish labour movement) e da una Ong che si batte contro l'antisemitismo nel Regno Unito (Campaign against antisemitism).
   I casi documentati di discriminazioni di stampo anti-semita sarebbero oltre 130, come riportato in un recente rapporto molto critico nei confronti della leadership del partito, in un contesto nazionale in cui gli episodi di antisemitismo in tutto il Paese hanno raggiunto livelli record nel 2018.
   A Jeremy Corbyn viene contestato di aver stretto in passato alleanze con gruppi di solidarietà palestinesi che hanno abbracciato posizioni considerate non soltanto antisioniste ma anche antisemite e di essere stato troppo indulgente nei confronti dei militanti laburisti che si sono macchiati di comportamenti razzisti.
   Un problema che ha recentemente contribuito a convincere nove deputati a dare le dimissioni dal partito, tra cui Chuka Umunna, tra le stelle in ascesa nel partito. Un problema quindi che continua a creare scandalo: il giorno dopo le elezioni europee, l'ex capo della comunicazione del Governo di Tony Blair, Alistair Campbell, è stato cacciato dal partito per aver dichiarato di aver votato i liberaldemocratici nelle elezioni, in quanto nettamente schierati contro la Brexit e a favore di un secondo referendum. Campbell ha risposto su Twitter, sottolineando come la sua epurazione sia stata molto più rapida rispetto ai ben più gravi casi di antisemitismo nel partito.

(Open.online, 28 maggio 2019)


Ultimatum di Netanyahu: «Governo entro 48 ore. Non siamo come l'Italia»

Il premier non trova l'accordo per il nuovo esecutivo. L'appello: evitiamo elezioni inutili. Il nodo «Israel Beitenu», il partito ultranazionalista di Lieberman si mette di traverso con i suoi 5 seggi.

di Fiamma Nirenstein

 
Caldo terribile a Gerusalemme, 40 gradi, e di fatto siamo di nuovo in campagna elettorale. Può essere un'estate terribile, specialmente se ora in fretta e furia Israele dovrà mettersi a preparare nuove elezioni per la fine d'agosto. Accadrà, se nel corso di questa giornata non si troverà una soluzione di compromesso che permetta a 61 deputati dei partiti di centrodestra e di destra, in un Parlamento di 120 seggi, di formare un governo intorno a Bibi Netanyahu primo ministro. Il Likud, il suo partito, ha preso 35 seggi, il suo leader carismatico si era avviato pur fra mille polemiche a ricoprire trionfalmente il ruolo di premier per la quinta volta su incarico del presidente Reuven Rivlin. E poi, l'imprevisto: Avigdor Lieberman, coi suoi 5 seggi di Israel Beitenu («Israele la nostra casa», partito di immigrati russi) ha puntato i piedi. Così ieri sera, alle 8, in una accorata conferenza stampa alla Knesset, dopo che l'assemblea aveva dato un primo voto favorevole allo scioglimento, Netanyahu ha di nuovo chiesto a Lieberman (che aveva incontrato senza frutto alcuno) di ragionare e scendere a un possibile compromesso, considerando che fra poche ore sarebbe dovuto tornare dal presidente Rivlin e restiturgli il mandato. Ha detto che un governo stabile era di fatto già là, formatosi in campagna elettorale nelle intenzioni manifestate da tutti i partiti, incluso quello del ribelle che aveva promesso ai suoi elettori di unirsi a lui; che la disponibilità a piegarsi ai desiderata degli alleati è grande; che sarebbe orribile per Israele essere trascinata nella bolgia elettorale.
   La gente sa che questa appena passata è stata aspra come non mai. Riaprire la ferite, sarebbe dispendioso, privo di senso. Ma Lieberman gioca una partita molto più larga di quella dichiarata: intanto la sua richiesta basilare, la coscrizione obbligatoria degli «haredim», apre tutta la questione del controllo che i religiosi, e quindi gli altri alleati di un governo Netanyahu, cercano di imporre su ogni settore della società. Lieberman che pure sa che il «draft» può essere affrontato in tanti modi, sa anche però che tanta parte della popolazione non vuole sentire su di sé il fiato della struttura rabbinica dalla culla alla tomba, al cibo, ai trasporti di Sabato. Ma più di tutto, quello di cui si sta chiaramente compiacendo il capo di Israel Beitenu è il colpo di frusta con cui ha rimesso in gioco il vero oggetto in palio alle elezioni appena passate, la vera questione, e anche il suo primo oggetto di antagonismo e forse di vendetta dopo le dimissioni obbligate dal ministero della Difesa: il suo scopo è Netanyahu stesso. Infatti gioisce e si pasce della crisi in corso tutta la sinistra, e anche quel vastissimo centro di Gantz, «Blue e Bianco». Gantz infatti ha già detto che coi suoi 34 seggi, appena uno di meno del Likud, potrebbe tentare di formare il governo. In realtà secondo la «basic law» che non è la Costituzione ma ci assomiglia, il presidente potrebbe accordare altre 4 settimane a qualcuno per formare una coalizione. Ma se i cento giorni fino alle elezioni invece scattano, il presidente potrebbe su richiesta di una maggioranza di parlamentari che lo richiedesse dare a Netanyahu altri 14 giorni. Se tutto questo accadrà, le elezioni probabilmente avranno luogo: è già cominciato un giuoco delle colpe in cui i leader si accusano l'un l'altro, si scrutano i sondaggi che danno per altro un seggio in più a Netanyahu, uno in più anche a Lieberman e uno di meno a Gantz. Lieberman che da una parte è il grande difensore della laicità, dall'altra è il personaggio che si è dimesso più volte, compreso da ministro della Difesa nel dicembre scorso, perché ha pensato che Netanyahu sia troppo molle coi palestinesi: è un tipo duro, russo, provato dalla vita, e tuttavia molto duttile e esperto nel gestire i suoi uomini sempre conquistando i migliori ruoli e giuocandoli per salire avendo a sua disposizione una piccola forza politica nel passato accusata, in alcuni suoi membri, di corruzione. È lui che adesso, sotto gli occhi stupiti di tutti, sta facendo saltare il sistema di un Paese che funziona in economia, in strategia, in gestione della cosa pubblica, in tecnologia, e sta minando l'immarscescibile Netanyahu. Davvero il sistema presenta una fragilità istituzionale troppo pesante per una terra sempre scossa da eventi fatali, da guerre, da attacchi terroristici.

(il Giornale, 28 maggio 2019)


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Israele senza governo, spettro di nuove elezioni su Bibi

L'ex ministro non cede sul programma: troppo vicino ai partiti religiosi

di Michele Giorgio

Nessuno ma proprio nessuno il 10 aprile avrebbe potuto immaginare una situazione di questo tipo dopo l'ampia vittoria elettorale ottenuta, il giorno prima, dal partito Likud e dalla destra più oltranzista. E invece a poche ore dallo scadere del limite temporale fissato dalla legge israeliana per la formazione del nuovo governo, Benyamin Netanyahu potrebbe essere costretto a gettare la spugna e a rinunciare a diventare il primo ministro più longevo della storia di Israele. Alla Knesset è già stata approvata in prima lettura la mozione del Likud per dissolvere il Parlamento e andare di nuovo alle urne.
   Rivalità personali, differenze ideologiche e politiche all'interno della destra sono alla base di questo possibile, clamoroso fallimento che forse sarà evitato solo all'ultimo istante con un compromesso a scapito del premier incaricato. Sulla strada di Netanyahu si è posto ancora una volta uno dei suoi avversari più temibili nella destra, vera e propria spina nel fianco.L'ex ministro della difesa Avigdor Lieberman, leader del partito Yisrael Beitenu, nazionalista ma laico, non intende cedere sul programma del nuovo esecutivo alle richieste dei partiti nazionalisti religiosi e dei partiti haredi (religiosi ultraortodossi). Rigettando gli ultimi appelli all'unità della destra, Lieberman ieri ha fatto sapere che non farà un passo indietro e di essere pronto ad andare a nuove elezioni. «Non saremo partner in un governo della halacha (la legge religiosa ebraica, ndr) - ha tuonato - Siamo stati chiari sul fatto che non abbiamo intenzione di compromettere i nostri valori, non è una vendetta ma una questione di principio». Senza i cinque seggi di Lieberman, Netanyahu - alle prese con seri problemi giudiziari-ha solo 60 deputati su 120: una metà che non fa maggioranza e che può dar vita solo a un debole governo di minoranza.
   La ragione principale dello scontro si trascina da anni. Si tratta della riforma della leva obbligatoria promossa da Lieberman, che vuole obbligare anche i giovani haredi, i religiosi ultraortodossi, a prestare il servizio militare. Fino a poco tempo fa gli studenti haredi per motivi religiosi erano esenti. Poi su pressione di Yisrael Beitenu e del partito centrista laico YeshAtid sono state introdotte delle quote, tra le proteste di quei leader della comunità ultraortodosse che respingono con rabbia quella che ritengono una pratica volta unicamente a integrare nel sistema sionista statale le nuove generazioni haredi. Ora Lieberman per entrare nella maggioranza vuole un'applicazione totale della leva obbligatoria, senza alcuno sconto, cosa che fa imbestialire i partiti haredi e ultranazionisti religiosi - Shas, Giudaismo unito nella Torah e l'Unione dei partiti di destra - che invece insistono affinché i giovani religiosi siano in gran parte esentati e si continui con il sistema delle quote.
   Sulla riva del fiume, in attesa che passi il cadavere di Netanyahu, c'è il principale partito di opposizione, Blu e Bianco, dell'ex capo di stato maggiore Benny Gantz che è tornato alla carica con la proposta della formazione di un governo di unità nazionale. Però senza il premier in carica che, peraltro, nei prossimi mesi potrebbe essere definitivamente rinviato a giudizio per corruzione.
   Di fronte all'impasse, il capo di Stato Rueven Rivlin potrebbe affidare l'incarico a un altro leader politico. Ed è proprio questo a cui punta Gantz convinto di poter mettere insieme una maggioranza. Le elezioni non piacciono a Blu e Bianco e al resto dell'opposizione a cui occorre tempo per assorbire la sconfitta distruttiva del 9 aprile e per mettere in piedi una credibile alternativa al Likud e Netanyahu. I sondaggi parlano chiaro: l'ultimo, pubblicato dal giornale Maariv, indica un'ulteriore avanzata della destra nel caso si andasse alle urne nei prossimi mesi.

(Il manifesto, 28 maggio 2019)



E da Israele arriva l'«app» che prevede glì infortuni

Il sistema di intelligenza artificiale adottato dal Getafe (Liga): le lesioni sono calate del 65%.

Tal Brown
Eyal Eliakim
Il Getafe, terza squadra di Madrid, è il team della Serie A spagnola che quest'anno ha registrato il minor numero di infortuni muscolari, dieci. Per fare un paragone basta pensare alla Roma, che gioca un campionato impegnativo come quello iberico: nella stagione in corso i giocatori giallorossi finiti in infermeria sono stati una cinquantina. Il Getafe è anche l'unica squadra della Liga che utilizza un'applicazione di intelligenza artificiale messa a punto da una società israeliana, Zone7. Secondo i Nerd con base a Tel Aviv il programma è in grado, attraverso un algoritmo che elabora milioni di dati statistici, di prevedere il momento in cui gli infortuni sono più probabili, consentendo di adottare dei meccanismi di prevenzione.
   «Nei giorni scorsi sono stato al telefono un'ora e mezza con il preparatore atletico della squadra», racconta Federico Smanio, numero uno di Wylab, che si occupa dello sviluppo del software in Italia. «L'ho bombardato di domande e i risultati parlano da soli». Anche l'Entella ha iniziato a usare il programma. «Nella fase di avvio bisogna caricare tutti i dati necessari», spiega Smanio. In un cervellone finiscono la storia medica di ogni singolo giocatore e i dati di allenamenti e partite raccolti attraverso sensori Gps inseriti nelle maglie. Secondo Tal Brown e Eyal Eliakim, a lungo analisti nell'esercito israeliano, fondatori di Zone7, nel Getafe il calo misurabile degli infortuni è stato del 65%, e quelli avvenuti sono stati preceduti, nell'80% dei casi da indicatori di rischio. Un dato che, secondo gli sviluppatori, indica che il software ha ulteriori potenzialità di miglioramento. Zone7, utilizzato per il momento da sei squadre di basket universitario Usa e da cinque club professionistici di calcio in Europa, è uno dei simboli più evidenti dell'impatto che la scienza può avere sullo sport professionistico. In prima linea c'è il calcio che, fino a un recente passato e diversamente da basket e baseball Usa, è rimasto legato a un approccio più tradizionale. Una delle glorie del Liverpool di quest'anno, protagonista di una stagione straordinaria ( è tra l' altro in finale di Champions League), è il team di ricerca e analisi guidato da Ian Graham. Graham, che vanta un dottorato in fisica teorica a Cambridge, allo stadio ci va poco. Le partite preferisce analizzarle il giorno dopo insieme all' allenatore Jürgen Klopp. Solo ed esclusivamente attraverso i dati del computer.

(il Giornale - Controcorrente, 28 maggio 2019)


La kippah o il futuro d'Europa

Per la prima volta un governo chiede agli ebrei di non farsi identificare in pubblico. Accade in Germania. Parla Groezinger: "I governi ci proteggano, anziché dirci cosa indossare".

"Ieri la violenza antisemita era diretta alle lapidi. Oggi contro le persone. E abbiamo 'aree no-go' per gli ebrei". "Quando per strada si è gridato 'Hamas Hamas, ebrei al gas', non c'è stata alcuna protesta da parte della società civile".

di Giulio Meotti

 
Elvira Groezinger
Alcuni anni fa Benny Zipper, responsabile delle pagine culturali di Haaretz, il foglio dell'intellighenzia israeliana di sinistra, fece una proposta: "Per salvare il popolo ebraico bisogna pensare a un piano di trasferimento di ebrei laici a Berlino, affinché vi costituiscano un polo alternativo a Israele". A tenere banco era la storia del famoso budino "Milky", che in Germania costava un terzo che nello stato ebraico. Oggi del budino non si sente più parlare. Si parla invece molto della kippah e di come portarla a Berlino metta a rischio la vita degli ebrei.
  E' la prima volta che l'esponente di un governo europeo invita ufficialmente la comunità ebraica a "scomparire" e a rinunciare per sicurezza ai simboli della propria fede. Per questo hanno generato scalpore e polemiche furiose le dichiarazioni di Felix Klein, l'incaricato del governo tedesco per la lotta all'antisemitismo, che ha consigliato agli ebrei "di non portare la kippah in pubblico", a causa dell'ondata di ostilità nei loro confronti. Di "resa dello stato" scrive Michael Friedman, già vice-presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha definito la dichiarazione di Klein "una resa all'antisemitismo". In realtà, un anno fa, fu proprio Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, a rivolgere un invito simile: "Sconsigliamo di mostrarsi in pubblico con la kippah". Ieri il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, ha detto che il governo si impegnerà a garantire la sicurezza degli ebrei.
  La Germania, teatro della "soluzione finale del popolo ebraico", fa i conti con una ondata di antisemitismo fra un passato ingombrante che non passa e un presente che non promette niente di buono. Ieri la Bild, il primo quotidiano tedesco, ha regalato la kippah ai suoi lettori (come fece il Foglio quattro anni fa, quando un simile invito a nascondere i simboli ebraici venne dal capo della comunità ebraica di Marsiglia, Zvi Ammar). Una kippah da ritagliare e indossare e che occupa un quarto della prima pagina della Bild. Il redattore capo Julian Reichelt ha scritto: "Se solo una persona nel nostro paese non può portare la kippah senza mettersi in pericolo, la risposta può essere solo che tutti noi dobbiamo indossare una kippah". Il sito della Bild ha anche un video su come tagliare la kippah. Anche da parte ebraica arrivano voci di rifiuto della paura. Il rabbino di Berlino Yehuda Teichtal ha invitato gli ebrei a portare la kippah. Un anno fa, la Germania fu scossa da una serie ravvicinata di attacchi agli ebrei, ben sintetizzata sulla Faz da Michael Hanfeld: "Nel fine settimana a Berlino, un ebreo è stato picchiato da un gruppo di persone perché indossava una collana con la stella di David. La polizia ha arrestato sette uomini e tre donne, siriani. La vittima ha subìto una lacerazione alla testa. L'atto non ha smosso molti sentimenti. Dopo l'attacco lanciato da due giovani, a Prenzlauer Berg, su un diciannovenne a metà aprile, duemilacinquecento persone si sono ritrovate per la marcia di solidarietà 'Berlino indossa la kippah' (si presentarono poche persone, ndr). Quasi tre mesi dopo, manca un tale gesto. E anche la risposta dei media all'attacco è bassa. Ciò dimostra quanto sia superficiale la presunta sensibilità all'antisemitismo. L'antisemitismo sta diventando un fenomeno quotidiano".
  Ne parliamo con Elvira Groezinger, figlia di sopravvissuti alla Shoah, studiosa di letteratura, liberale, esponente della comunità ebraica della capitale tedesca e già presidente della sezione tedesca degli Scholars for Peace in the Middle East. "C'è qualcosa di marcio in Germania... Il clima sociale in questo paese è diventato pesante negli ultimi anni verso gli ebrei. La Germania ha sempre avuto antisemiti, ma i loro attacchi erano in generale verbali, raramente violenti. La violenza era rivolta alle lapidi ebraiche e ai luoghi di commemorazione. Ora la violenza fisica nei confronti degli ebrei è cresciuta considerevolmente e gli autori sono musulmani, un fatto che è stato nascosto al pubblico per troppo tempo. Abbiamo 'aree no-go' per gli ebrei nelle grandi città con una grande popolazione musulmana, specialmente a Berlino, abbiamo clan arabi che dominano la scena criminale e sono stati lasciati incontrastati per troppo tempo, come a Schönenberg e Kreuzberg. I nazisti sono a est, come a Cottbus, dove è stato attaccato un ristorante ebraico. Il rabbino Alter è stato ferito per strada in una zona borghese da giovani musulmani, fu un campanello d'allarme. L'ultima affermazione di Klein, che non consiglierebbe agli ebrei di indossare la kippah in certe zone per la propria sicurezza, ha suscitato un dibattito in Germania e all'estero. "Personalità ebraiche e non di spicco criticano questa affermazione come un segno di capitolazione dello stato di fronte all'antisemitismo, alcuni vedono già gli ebrei come lasciati soli al loro destino e pensano di lasciare il paese. Il capo degli ebrei in Germania, Joseph Schuster, ha dato lo stesso consiglio e Klein lo ha ripetuto, come mi ha spiegato, per suscitare un dibattito pubblico sull'argomento. Il dibattito ora è lì, ma non come sperava. Gli ebrei devono avere il diritto di indossare la kippah, una società democratica deve permetterlo. Il tempo dell'acquiescenza è finito".
  Non è la prima volta che la situazione si aggrava. "Nel 2014, con la guerra a Gaza, si è verificato un peggioramento del clima sociale in Europa, inclusa la Germania" continua al Foglio Elvira Groezinger. "In alcuni luoghi, come a Essen e in altre città della Renania settentrionale-Vestfalia, i raduni pro palestinesi si sono svolti con slogan come 'Hamas, Hamas, ebrei nel gas!', mentre la manifestazione era stata organizzata dall'estrema sinistra. Questo fu allarmante, ma nessuna protesta da parte del governo, delle chiese, della società civile, è arrivata, bensì solo da alcuni singoli giornalisti, come Alexander Kissler di Cicero, che ha usato parole chiare, parlando di 'ritorno dei barbari'. Solo l'allora presidente del Consiglio generale degli ebrei in Germania, Dieter Graumann, figlio di sopravvissuti all'Olocausto, reagì invocando una manifestazione contro l'antisemitismo alla Porta di Brandeburgo. Erano presenti cinquemila persone, appartenenti a organizzazioni filo-israeliane, membri della comunità ebraica e politici come Merkel, il presidente Christian Wulff, il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier e altri ministri. Merkel ha detto che gli ebrei in Germania devono sentirsi al sicuro e questo è il massimo della politica interna tedesca. Bene, il contrario è quello che succede e Merkel non si intromette più nel dibattito. L'aver portato in Germania un milione di persone dal medio oriente ha spinto l'ascesa dei partiti antimusulmani di destra e degli antisemiti dormienti fino al 2015".
  Gli ebrei hanno un futuro in Germania? "Solo se i governi li proteggono come tutti gli altri cittadini, punendo i responsabili, insegnando ai musulmani i valori occidentali e cacciando gli imam che istigano all'odio. Solo allora la società tedesca nel suo insieme sarà guarita dall'attuale elemento conflittuale e aggressivo che ne mina la democrazia. Questo è il compito del governo, non di consigliare agli ebrei di nascondere la propria identità". Nella scomparsa della kippah dalla testa degli ebrei, l'Europa rischia di perdere anche la propria.

(Il Foglio, 28 maggio 2019)


Software israeliano per la sicurezza informatica sarà installato nei computer HP

 
HP Inc., produttore statunitense di computer e stampanti, installerà software israeliano nei suoi computer di prossima generazione, nel tentativo di proteggerli dagli attacchi informatici.
Decine di milioni di computer HP in tutto il mondo saranno protetti dal software basato sull'intelligenza artificiale sviluppato da Deep Instinct, startup israeliana di cybersecurity.
Il dispositivo israeliano, come riporta un articolo di The Times of Israel, utilizza un deep learning per prevedere minacce cibernetiche e attacchi avanzati.

 HP e Deep Instinct
  HP sta collaborando con la startup di Tel Aviv per lanciare il software HP Sure Sense che abilita la prevenzione a tempo zero delle minacce informatiche più avanzate.
Il software verrà distribuito sugli ultimi dispositivi EliteBook e HP ZBook di HP. La protezione del software funziona sia online che offline.

 Il software Sure Sense
  Utilizzando il motore per la prevenzione delle minacce basato sul deep learning di Deep Instinct, HP Sure Sense fornirà rilevamento e prevenzione in tempo reale insieme a anti-ransomware e protezione comportamentale.
Con alti tassi di rilevamento di malware noti e sconosciuti e con un basso tasso di falsi positivi, HP Sure Sense è in grado di eseguire la scansione di qualsiasi tipo di file, prevedendo e prevenendo minacce note o sconosciute prima che si verifichino danni.
Deep Instinct, con sede a Tel Aviv, è stata fondata nel 2015 da Guy Caspi, Nadav Maman, Eli David e Yoel Neeman.

(SiliconWadi, 28 maggio 2019)


Il pittore 'degenerato' era nazista

Il caso di Emil Nolde imbarazza Berlino. La Merkel si libera dei
quadri.


di Roberto Giardina

Emil Nolde - Autoritratto, 1917
BERLINO - Il quadro, un'onda blu e verde con sullo sfondo una nuvola rosso fuoco, fino a poche settimane fa si trovava nello studio di Angela Merkel alla Cancelleria. Ora si può ammirare all'Hamburger Bahnhof di Berlino nella mostra dedicata a Emil Nolde (fino al 15 settembre). Ma non è un prestito. Frau Merkel non lo vuole indietro, e neanche un secondo quadro del pittore espressionista che era appeso sopra il suo divano, e inviato alla mostra. Era stata lei a scegliere i due dipinti nel deposito della Preissische Kultur Besitz, ma ingnorava che l'artista fosse un fanatico ammiratore di Hitler.
   È una storia paradossale. In una foto si vede Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista, visitare nel 1937 a Monaco la mostra della Entartete Kunst, l'arte degenerata, condannata dal regime come antiariana e antitedesca. E alle spalle del ministro si intravedono due grandi tele di Nolde, pittore detestato da Hitler, come si sa artista mancato, che considerava le sue tele e gli acquarelli come schizzi di un bambino demente.
   Così, dopo la fine del III Reich, Nolde poté accreditarsi come una vittima del regime. Ma in realtà era un fanatico ammiratore del Führer, cui inviò decine di lettere e di suppliche. Non basta, Nolde era antisemita, e detestava i critici e i galleristi ebrei che, secondo lui, lo boicottavano. Ed arrivò a denunciare il pittore Max Pechstein come ebreo. E propose un suo piano al Führer per eliminare tutti gli ebrei dall'Europa. Hitler non gli rispose mai.
   Si chiamava in realtà Emil Hansen, era nato in una famiglia di contadini a Nolde, da cui prese il nome d'arte, nel 1867, nello Schleswig Holstein, la regione danese che proprio in quell'anno fu conquistata dalla Prussia. Nolde a vent'anni si trasferì a Monaco per studiare arte ma fu respinto dagli ambienti accademici, che lui giudicava dominati dagli ebrei. Nella Germania del dopoguerra, alla ricerca di personaggi che si fossero opposti al nazismo, si chiusero gli occhi, e si cercò di dimenticare il suo passato, per la verità ignorato da molti.
   Nel 1968 uscì il romanzo Deutschstunde, lezione di tedesco, di Siegfried Lenz ispirato alla figura di Nolde, un pittore a cui il regime vieta di dipingere. Divenne un bestseller mondiale, in italiano fu tradotto nel '73 da Einaudi, e ora è ripresentato ripresentato da Neri Pozza.
   In effetti, i paesaggi di Nolde, i suoi acquarelli e pastelli di fiori, erano molto amati durante il III Reich, e comprati a caro prezzo anche da nazisti, come Hermann Göring, che non condividevano i gusti del Führer, Ma nel '41 il regime gli vietò di esporre e di vendere i suoi quadri. Eppure Nolde, scomparso nel 1956, era stato un seguace di Hitler fin dai primi tempi. Dopo, nella sua autobiografia "dimenticò" il passato scomodo, e la sua fondazione ha ripulito o occultato i circa venticinquemila documenti compromettenti. Solo a partire dal 2013 gli storici dell'arte hanno cominciato a denunciare il passato di Nolde. Ora si arriva a chiedere di togliere tutte le sue opere dai musei statali. Mentre in Italia si continuano a esporre i quadri di artisti compromessi con il fascismo, come Sironi, in Germania non si fa distinzione tra l'artista e le sue opere, a volte valide, si è più radicali, ed è vietato esporre i Nazikunstler.

(Nazione-Carlino-Giorno, 28 maggio 2019)


Qabbalah e misticismo in mostra al museo ebraico di Amsterdam

Qabbalah: l'arte della mistica ebraica”. Viaggio pratico-teorico e artistico nel mondo della mistica ebraica.

di Ilaria Briata

 
Nella città vecchia di Amsterdam, tra il teatro nazionale dell'opera e il giardino botanico si estende l'antico quartiere ebraico, all'interno del quale spicca l'edificio della grande ed elegante sinagoga portoghese. A pochi passi dal luogo che è stato uno dei centri della vita religiosa e culturale della comunità sefardita, rifugiatasi in Olanda dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492, troviamo il Joods Historisch Museum. Fino al 25 agosto 2019, questa istituzione ospita una ricchissima esposizione dal titolo Qabbalah: l'arte della mistica ebraica. In un percorso esaustivo tanto quanto ammaliante, la mostra trasporta il visitatore nel mondo dei prodotti culturali afferenti e ispirati alle correnti mistiche dell'ebraismo, mettendo saggiamente gli uni accanto agli altri oggetti storici e opere d'arte contemporanee.
  Prima di percorrere i meandri delle manifestazioni artistiche del misticismo ebraico, è necessario un chiarimento terminologico: se la qabbalah è mistica ebraica, non tutta la mistica ebraica è qabbalah. L'espressione קבלה, che significa tradizione nel senso di materiale culturale ricevuto in trasmissione, si riferisce infatti al complesso di scritti e fenomeni religiosi di stampo mistico sviluppatesi a partire dal XII-XIII secolo. Ciò non esclude dunque che precedentemente l'ebraismo abbia conosciuto differenti forme di misticismo: è il caso della cosiddetta letteratura delle Hekhalot, le dimore celesti (ovvero i resoconti di contemplazione della cosmologia ultramondana), testimoniata da un fitto corpus di scritti della tarda antichità, la cui influenza non manca di ricadere sul più tardo esoterismo teologico ebraico.
  La mostra Qabbalah: l'arte della mistica ebraica è strutturata in due parti principali - ciascuna a un piano differente del museo - che potremmo definire come "teoria" e "pratica".

 In teoria
  La sezione dedicata agli aspetti più intellettuali e formali della mistica si apre, com'è giusto, be-reshit, in principio - con i Segreti della creazione. A rappresentare la speculazione sui risvolti misteriosi e misterici dell'incipit del mondo abbiamo preziosi manoscritti e prime edizioni delle opere letterarie capitali della mistica ebraica: il Sefer Yetzirah (Libro della creazione, di datazione incerta, ma sicuramente tardoantico), il Sefer ha-Bahir (Libro fulgido, proveniente dalla Provenza del XII secolo, testo iniziatore della tradizione qabbalistica propriamente detta) e il Sefer ha-Zohar (Libro dello splendore, dalla Spagna del XIII secolo). Con queste reliquie bibliografiche dialogano opere di artisti contemporanei, soprattutto israeliani. Una tra tutte, per maestosità, attrae l'attenzione: si tratta di Genesis V di Ghiora Aharoni - un complesso intreccio di alambicchi, provette e tubicoli di memoria alchemica che racchiudono, in una sintesi di religione e scienza, elementi naturali e simboli religiosi ebraici.
  Una delle caratteristiche salienti della visione ebraica della creazione, è il ruolo della parola di Dio - e, con essa, delle lettere che compongono tale logos divino. Di conseguenza, la successiva sezione del percorso espositivo tratta del "Potere delle lettere". Tra amuleti e manuali di qabbalah pratica (ovvero di pratica mistica rivolta a incidere magicamente nel mondo), come il Sefer Raziel, si inserisce per una certa consonanza di metodo il ruolo dei movimenti avanguardisti dada e surrealisti, rappresentati dal pittore di origine ebraico-romena Victor Brauner (1903-1966). Ma non solo visualità: schermo e cuffie permettono infatti di ascoltare il brano dal titolo 22 Letters dell'artista vocale israeliana Victoria Hanna.
  A seguire, un altro filone fondamentale del misticismo giudaico viene esplorato: quello dei Viaggi celesti, ossia del maaseh merkavah (l'opera del carro), il tema di speculazione cosmologica basato sulla visione di Ezechiele 1,4-26. Di nuovo amuleti e oggetti apotropaici, a ricordarci quanto sia pericoloso contemplare i misteri al di là dell'universo visibile (vedi il trattato Chagiga della Mishnah, 2,1: "Chi si impunta su quattro cose, meglio sarebbe stato per lui mai venire al mondo: quello che sta sopra, quello che sta sotto, quello che sta dopo, quello che sta prima").
  E l'universo in-visibile? Non possono mancare Angeli e demoni. Fonte di instancabile ispirazione passata e presente, il motivo dell'esistenza di esseri sovrannaturali dà la luce ad alcune delle più incredibili e antiche tracce pittoriche ebraiche - nelle raffigurazioni degli incantation bowls, le coppe magiche vergate in aramaico provenienti da Babilonia e Siria del VI-VIII secolo - così come a opere multimediali e performative contemporanee. Ne è esempio l'opera, testimoniata fotograficamente, di Sigalit Landau Salt Crystal Bride, per la realizzazione della quale una replica del vestito nero indossato da Hanna Rovina nel Dybbuq è stata immersa nel Mar Morto, ricoprendosi di un fitto strato di incrostazione salina candida.
  A concludere la prima parte di esposizione, una doppia sezione si occupa dell'aspetto globale della mistica ebraica - che non è solo ebraica. La diffusione delle tradizioni esoteriche cabbalistiche presso gli intellettuali cristiani, più o meno (ma più che meno) edotti in materia di lingua e cultura ebraica, infatti, ha generato nel Rinascimento la cosiddetta Qabbalah cristiana. Tra i grandi nomi le cui opere letterarie sono esposte troviamo ad esempio Pico della Mirandola, Johannes Reuchlin, Athanasius Kircher e Paolo Riccio (quest'ultimo noto per la prima occorrenza grafica dell'albero sefirotico, nell'edizione del 1516 della traduzione latina Portae lucis). Dal Cinquecento al Novecento: la Qabbalah ebraica, infatti, esercitò un notevole fascino negli occultisti dei principi del XX secolo, incluso un mostro sacro come Aleister Crowley. Ad appendice storiografica della questione mistica, la mostra include anche una sezione tributo al lavoro scientifico di Gerschom Scholem, padre fondatore della svolta di apprezzamento scientifico del misticismo giudaico - fino ad allora vittima di un pregiudizio anti-irrazionalista da parte della scholarship positivista.

 In pratica
  Più organica ma non meno esauriente è la seconda parte del percorso espositivo. Qui si espongono tracce dell'implementazione pratica della Qabbalah. Vale a dire, manoscritti con incantesimi, sigilli e altri escamotages magici, amuleti, intricate schematizzazioni grafiche atte alla concentrazione nell'attività meditativa (kawwanot, ichudim, ilanot). A ricordarci - come d'altronde è in auge nella ricerca scientifica degli ultimi decenni - che il mondo della mistica ebraica non è soltanto un inestricabile coacervo di teorizzazioni teologiche astruse e intellettualistiche, ma abbraccia intrinsecamente anche una vera e propria prassi. Prassi che coinvolgeva vari aspetti della vita di chi a tale coacervo teorico dedicava la propria attività spirituale - dalla preghiera, allo studio, alle credenze quotidiane - come testimoniano i reperti antichi e moderni proposti al pubblico del museo ebraico di Amsterdam.
  È difficile esimersi però da uno spoiler finale, assolutamente ebraico nella propria ironia e totalmente mistico nel proprio scetticismo. Il percorso infatti si chiude con una citazione dal Sefer ha-Zohar: "Cos'hai appreso? Cos'hai veduto? Cos'hai scoperto, dal momento che è tutto celato com'era prima?" Se non ho appreso niente, allora potrò ancora apprendere tutto.

(joimag, 28 maggio 2019)



Israele - Governo in alto mare, rischio di nuove elezioni

A poco più di un mese dalle ultime elezioni in Israele tira aria di ritorno alle urne. Nonostante un congruo periodo di tempo e altre due settimane concesse dal presidente Reuven Rivlin, il premier Benyamin Netanyahu è fermo al palo mentre si avvicina la scadenza di mercoledì 29 maggio, termine ultimo per sciogliere la riserva. Finora non è riuscito a formare quella coalizione di maggioranza di destra che, invece, sembrava cosa fatta dopo il risultato del voto dello scorso 9 aprile. Tra il premier incaricato e il governo c'è di mezzo Lieberman, che non vuole fare sconti al premier per dare il suo appoggio.

(Il Messaggero, 27 maggio 2019)


Germania - Bild regala una kippah azzurra

Il portavoce del governo: "Lo Stato ha il dovere di garantire libertà di religione".

Una Kippah azzurra da ritagliare con tre stelle di Davide concentriche: la pubblica in prima pagina la Bild, dopo le polemiche scatenate dall'invito, nei giorni scorsi, da parte di un alto funzionario di governo a non indossare il copricapo tipico degli ebrei per evitare aggressioni.
"A settant'anni dall'Olocausto, chiunque sia ebreo deve nasconderlo per essere al sicuro in Germania. A questo c'è una sola risposta: no, non può essere così. Se così fosse avremmo fallito. Ecco perché Bild stampa oggi una kippah da ritagliare. Caro lettore, ritagliala, indossala per strada, spiega ai tuoi figli che cos'è, pubblica una tua foto sui social con la kippah addosso. Perché la kippah appartiene alla Germania; e se solo una persona non può indossarla senza essere in pericolo, allora non possiamo che indossarla tutti", si legge nell'editoriale di prima pagina.
Intanto dopo due giorni di silenzio parla il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert ha rilasciato una dichiarazione: "Lo Stato ha il dovere di garantire la libertà di religione e ha la responsabilità di garantire a tutti di portare la kippah". L'incaricato del governo per l'antisemitismo, Felix Klein, aveva detto consigliato nel fine settimana gli ebrei di non portare sempre e ovunque la kippah. Alla dichiarazione aveva risposto via Twitter anche il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas: "Nessuno deve esser costretto a nascondere mai la sua fede ebraica, né in Germania, né altrove. Invece di nascondere la kippah, dobbiamo tutti mostrare di più il nostro viso contro l'antisemitismo". Durissima la reazione del presidente israeliano Reuven Rivlin parlando della "capitolazione di fronte all'antisemitismo".

(il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2019)


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L'appello tedesco a non usare la kippah

Quella strana alleanza che rende l'Europa un inferno anti ebraico. Laburisti, estrema sinistra, destra e islamisti giustificano l'odio con la critica a Israele

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - E'difficile immaginare qualcosa di più moralmente paradossale della Germania moderna che dice agli ebrei tedeschi di evitare di indossare la kìppah, ovvero di nascondere la loro identità. Invece l'ha detto proprio alla vigilia delle elezioni Europee, seppure a voce bassa il commissario tedesco per l'antisemitismo Felix Klein: nella Germania moderna, è di nuovo meglio evitare di indossare la kippah in pubblico, meglio non farsi riconoscere. È un invito ripugnante per ogni europeo con un minimo di senso storico; un marchio sulle elezioni europee che ieri hanno chiamato alle urne 400 milioni di cittadini.
   Si discute di strutture politiche, di economia, di sicurezza sociale, di destra e di sinistra, ma brucia una lettera scarlatta: a, come antisemitismo. Questo marchio porta con sé la memoria di 6 milioni di trucidati innocenti, fra cui 2 milioni di bambini. La Shoah nazista e fascista doveva aver sigillato in un'urna nera la millenaria persecuzione degli ebrei, e invece proprio nella Germania, che ha partorito col nazismo il mostro della «soluzione finale», Klein ha detto educatamente: l'antisemitismo sta vincendo «non posso più raccomandare a un ebreo di indossare la sua kippah in qualsiasi tempo e luogo in Germania». E spiega: «Questo segue la progressiva brutalizzazione della società tedesca». Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha reagito infuriato, «scioccato»: è una «capitolazione all'antisemitismo ... non ci assoggetteremo mai».
   Quel che sta succedendo in Germania in realtà sta accadendo in tutto il resto d'Europa. Più del 90 per cento degli ebrei d'Europa hanno dichiarato di aver percepito che il clima si fa caldo, nel 2018 i dati Adl, molto cauti, ufficiali, danno 1800 attacchi fisici, le profanazioni e le svastiche istoriate sono continue, ormai ci sono città che si sono svuotate dagli ebrei (dalla Francia in un paio d'anni se ne sono andati 15mila ebrei e l'esodo prosegue), Corbyn il leader laburista vanta la sua profonda amicizia con Hamas e gli Hezbollah come un plus essenziale nel suo disegno politico cosicché anche l'Inghilterra comincia a svuotarsi, la lista di attacchi mortali è lunga, solo in Francia si va da Ilan Halimi ai tre bambini col padre alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012. Nel 2014 i 4 uccisi alla scuola ebraica, gli uccisi del 2015 all'Hyperkasher, e poi le due anziane signore Sara Halimi e Mireille Knoll. Sono tutti assassinii di matrice islamica. Indossare una stella di David o una kippah è pericoloso ovunque, ma sopratutto nei quartieri mussulmani. Tuttavia, in questo clima, i gilet gialli assaltano per strada il filosofo Alain Fìnkelkraut, i cortei neo nazisti in Polonia picchiano e aggrediscono, forze di destra estrema in Francia, in Germania, nei Paesi baltici aggrediscono sinagoghe, negozi, persone.
   La tendenza comune sulla stampa e nei discorsi politici è quella a identificare una responsabilità di destra e in realtà negli Stati Uniti, per esempio, gli assassini delle sinagoghe di Pittsburgh e di San Diego appartengono a questo gruppo. Ma in Europa la destra estrema per quanto particolarmente ripugnante culturalmente, non ha il predominio, semmai si annette come è accaduto a Berlino alle manifestazioni di odio antisraeliano-antisemita indette dagli hezbollah (e quindi dall'Iran) in un misto estremo in cui l'islamismo è la forza più importante. Come ha anche detto un rabbino tedesco intervistato dalla radio israeliana, anche se la destra è un problema, di certo non puoi indossare la kippah nei tanti quartieri musulmani che la politica di Angela Merkel ha allargato con l'apertura totale all'immigrazione. Così paradossalmente la Germania alla ricerca della riparazione dei suoi peccati razzisti, oggi è di nuovo antisemita. Una questione seria e da meditare senza infingimenti. Destra, islamismo, laburisti, estrema sinistra: un'alleanza che giustifica il suo odio antiebraico con la cosiddetta «critica» dello stato d'Israele ha trasformato l'Europa in un nuovo inferno antiebraico.

(il Giornale, 27 maggio 2019)


Equitazione - Il Gran Premio Roma parla israeliano

Vince Bluman su Ladriano Z, con gli azzurri subito a ridosso del podio. La pioggia ha condizionato l'ultimo giorno di gare con 11 italiani eliminati.

di Enrico Tonali

Non all'alba ma nella seconda manche sono morti i sogni dell'Italia nelle due grandi gare dell'87o Concorso Internazionale di Salto Ostacoli (CSIO) - Master Fratelli D'Inzeo a Piazza di Siena. Anche ieri, come venerdì nella Coppa delle Nazioni, a un primo turno esaltante - sempre per la prodezza dell'azzurro Luca Marziani e del suo stallone Tokio Du Soleil - è seguito nel Gran Premio Roma Rolex (competizione in due round, ostacoli a 1,60, 15 salti, 400 mila euro in palio, 43 partenti).
   Un secondo scioccante, appena confortato dal quinto posto ottenuto dall'amazzone azzurra Giulia Martinengo Marquet (primo aviere scelto dell'Aeronautica Militare) con il giovane castrone baio decenne Elzas, un bel nipote del celebre Cornet Obolonsky.
   Il successo nell'appuntamento dedicato da sempre alla Città Eterna e che chiude le massime sfide del Concorso nell'ovale di Villa Borghese, è stato siglato dal 29enne Daniel Bluman, natali in Colombia a Medellin - celebre per le formose sculture di Fernando Botero ma pure per il «cartello» dei narcotrafficanti - e passaporto israeliano dalla fine del 2016. Sotto la sua sella Ladriano Z, un castrone baio undicenne (nipote del campione mondiale 1998 Baloubet Du Rouet) con il quale Bluman ha fatto coppia anche nella Coppa delle Nazioni romana, piazzandosi al settimo posto nella squadra d'Israele, matricola a questa Piazza di Siena. Chef d'equipe del team ebraico l'olandese Hans Horn che nel 2013 e 2014 guidò da c.t. gli azzurri del salto ostacoli.
   A premiare il binomio vincitore del Premio Roma sono stati il presidente della Federazione Italiana Sport Equestri (FISE) Marco Di Paola con quello della Rolex Italia Gian Riccardo Marini: La tradizionale Lupa Capitolina è stata consegnata a Bluman (che per la Colombia ha partecipato nell'equitazione ai Giochi Olimpici di Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016) dall'assessore all'Urbanistica del Comune di Roma Luca Montuori.
   Una prima manche micidiale - per le difficoltà del percorso studiato da Uliano Vezzani (chef de piste olimpico e mondiale) e per la preannunciata pioggia battente - ha selezionato impietosamente i concorrenti, dei quale solo quattro - il belga Olivier Philippaerts con H&M Extra (terzi in Coppa delle Nazioni venerdì), l'italiano Luca Marziani e Tokio Du Soleil, l'irlandese Cian O'Connor su Irenice Horta e Blumen con Ladriano - chiudevano a 0 penalità. Percorso senza errori pure per la figlia del "Boss" Springsteen, la bella e giovane Jessica, con Fleur De L'Aube, 1 penalità per sforamento del tempo massimo. Il percorso di Marziani e Tokio era da applausi a scena aperta, come lo era stato quello del primo giro in Coppa delle Nazioni tre giorni fa.
   Per la seconda manche, cui accedevano 11 binomi compresi quelli della Martinengo e di Marziani (anche lui aviere capo), la pioggia dava tregua ma non Blumen e il suo castrone, gli unici ad andare (e senza errori) sotto i 40" sui 7 salti del round conclusivo, spuntandola su l'irlandese O'Connor e Irenice Horta (40"64) secondi e il belga Philippaerts con H&M Eztra (41"73) terzi. Al quarto posto l'altro irlandese Kenny Darragh con Balou De Reventon e poi i due azzurri a ridosso dei migliori: Giulia Martinengo Marquet, quinta con Elzas (uno sbaglio nel percorso base) e Luca Marziani sesto con Tokyo du Soleil, che ha commesso errore sul penultimo salto del secondo round.
   Gli unici due italiani - gli azzurri al via erano 13 - salvatisi appunto dall'inzuppato e selettivo percorso della prima manche, per alcuni veramente cattivo come l'errore capitato ad Alberto Zorzi e Danique sull'ultimo ostacolo, o Michael Cristofoletti caduto rovinosamente con Belony nel salto poco dopo la riviera.

(Il Tempo, 27maggio 2019)


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Ora Bluman salta coi suoi fratelli. «ln nome d'Israele vinciamo insieme»

Il Gran Premio va a Daniel: «Sono colombiano, con altri cavalieri ebrei abbiamo creato uno squadrone per il Paese del cuore. Che orgoglio per la mia famiglia, mio nonno sopravvisse ad Auschwitz».

di Nicola Melillo

 
Daniel Bluman
ROMA - La prima volta di Israele a Piazza di Siena è una pietra miliare per un progetto dal valore simbolico suggestivo. Il 29enne Daniel Bluman vince il Gran Premio Roma mettendo il sigillo più prezioso della sua carriera. «Da bambino guardavo il concorso romano in tv. Un sogno vincere qui. È il giorno più importante per me e per l'equitazione israeliana» dice Bluman molto serio.

- Chi è Daniel Bluman?
  «Sono nato a Medellin, in Colombia, da genitori di origine ebraica dell'Est Europa. Il mio primo pony si chiamava Allegretto. Salii in sella la prima volta che avevo tre anni... Andavo matto per i cavalli e i miei genitori Samuele Orly mi supportarono. A 10 anni ci trasferimmo nel sud della Florida. Lì, finiti gli studi in Economia Internazionale, ho iniziato la vita di cavaliere professionista a Wellington, rappresentando la Colombia a due Olimpiadi (Londra e Rio), 2 Mondiali e 2 Giochi Panamericani».

- Da colombiano a israeliano. Perché?
  «Mio nonno sopravvisse dopo tre anni ad Auschwitz. L'orgoglio e il legame con il popolo di Israele è sempre stato fortissimo. Una sensibilità condivisa con diversi colleghi ebrei del circuito. Così, insieme ad altri cavalieri e proprietari di origine ebraica nel 2016 abbiamo deciso di creare una squadra di salto ostacoli per rappresentare Israele. Eccoci, qua».

- Israele a inizio 2019 aveva appena 21 tesserati. Eppure ...
  «Abbiamo deciso di fare le cose per bene, con una struttura rodata e mettendo a disposizione del progetto tutto il nostro know-how. Io e i miei cugini Marky e Han abbiamo creato un centro equestre a New York, alla Huntersmoon Farm, a Long Island. Questo centro, più uno in Florida e uno a Bruxelles sono le nostre basi per la preparazione. Stiamo crescendo. Stiamo arrivando».

- Chi sono stati suoi maestri?
  «Il grande Nelson Pessoa, al quale dedico questa vittoria insieme al canadese Eric Lamaze. Da Pessoa ho imparato molto nei due anni vissuti in Belgio fra il 2013 e il 2015. Subito dopo mi sentii pronto per creare il centro a New York».

- Va in Israele spesso?
  «Certo, cerco di andare almeno due volte l'anno. Decisi di prendere il passaporto subito dopo la partecipazione ai Giochi di Rio (finì 63o, peggiorando il 20o posto di Londra 2012, n.d.r.). Sono colombiano, ma Israele, come potete immaginare, rappresenta qualcosa di speciale. La gioia per questa vittoria a Piazza di Siena è enorme: ho reso orgogliosa la mia famiglia».

- I primi risultati erano già incoraggianti.
  «Siamo una buona squadra. Diventeremo un grande team. Il debutto ai Mondiali (13o posto a squadre), è stato il primo passo. Con Ladriano Z ho vinto diversi GP per Israele, a Roma ero sicuro di far meglio delle mie prime due volte coi colori colombiani (2013 e 2015, con un sesto posto in una categoria minore, n.d.r.), ma nel GP l'obiettivo era il podio».

- Il prossimo obiettivo?
  «Vogliamo andare a Tokyo 2020 e ci vogliamo andare con chance di fare bene. Saltiamo per vincere, per un Paese lontano fisicamente, ma dentro il nostro cuore».

- Vi seguono in Israele?
  «Diciamo che questa mia vittoria a Roma conquisterà il suo posto anche sui media. Ci sono anche cavalieri nati in Israele. Vincere vuol dire anche conquistare passione, praticanti. Stiamo creando un movimento. Le motivazioni non mancano».

(La Gazzetta dello Sport, 27 maggio 2019)


I palestinesi e Israele. Altro che nakba

Hanno conosciuto la democrazia soltanto alla Knesset

Scrive Algemeiner (16/5)

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi commemorano la Giornata della Nakba. La 'nakba' (o 'catastrofe') si riferisce all'indipendenza di Israele nel 1948 e all'esodo dei profughi palestinesi", scrive Pinhas Inbari. "Uno dei maggiori problemi dei palestinesi, oggi, è che il mondo arabo li percepisce sempre di più come degli ingrati. Il mondo arabo, devastato da disastri e guerre interne, lamenta che i palestinesi non mostrano alcuna sensibilità per quanto riguarda le sofferenze arabe. I palestinesi chiedono anzi ai paesi arabi di trascurare le loro crisi per tornare a concentrarsi solamente sulla "sofferenza palestinese". L'Arabia Saudita ricorda ancora con risentimento il sostegno che i palestinesi diedero al dittatore iracheno Saddam Hussein quando questi invase il Kuwait nel 1990 e bombardò l'Arabia Saudita nei primi mesi del 1991.
   In base a ogni possibile parametro, la situazione dei palestinesi in Cisgiordania, e sicuramente in Israele, è molto migliore che in qualsiasi paese arabo. Il dato essenziale è che vi sono parlamentari arabi alla Knesset. La Knesset israeliana è l'unico parlamento al mondo in cui esiste una rappresentanza palestinese rilevante e fieramente libera. Non hanno una analoga rappresentanza in Giordania e nemmeno a Ramallah o a Gaza. Solo sotto il ritratto di Theodor Herzl e la bandiera israeliana, nel Parlamento d'Israele, i parlamentari palestinesi parlano e agiscono liberamente, fin troppo liberamente secondo alcuni, e spesso con aperto disprezzo verso lo stato in cui sono stati eletti.
   In secondo luogo, Israele è l'unico paese del medio oriente che ha pienamente assorbito i profughi palestinesi. E' un fatto poco noto, ma vi sono profughi palestinesi originari dei villaggi che vennero abbandonati durante la guerra del '48, che sono stati assorbiti e integrati in altre città e villaggi in Israele. Israele ha dato loro la piena cittadinanza. Anche la Giordania (unico fra i paesi arabi) ha concesso ai profughi palestinesi una forma di cittadinanza, ma non completa. Non sono disponibili dati precisi, ma per la maggior parte i cittadini giordani di origine palestinese non sono autorizzati a votare per il Parlamento giordano, che è ben lontano dal rappresentare il vero numero di palestinesi presenti nella popolazione. Infine, si sta verificando oggi una vera e propria nakba, ma non in Israele. Il disastro della Siria, compresa la nuova catastrofe dei palestinesi, è molto più grande della nakba del 1948. Siriani e palestinesi sono stati sfollati a migliaia dal campo profughi di Yarmouk, a Damasco, che una volta ospitava più di 100.000 persone ma è stato ferocemente assediato e raso al suolo nel quadro della guerra civile siriana. Centinaia di palestinesi e siriani vi hanno trovato la morte nei combattimenti e bombardamenti da parte delle forze siriane.
   Ma tutto questo non sembra minimamente interessare ai partiti arabi in Israele. Anche l'Olp, che dovrebbe rappresentare i profughi del '48, ha completamente ignorato il disastro palestinese in corso in Siria. Ecco perché i siti web dei profughi palestinesi in Siria non guardano né all'Olp né all'Autorità palestinese per trovare aiuto o solidarietà".

(Il Foglio, 27 maggio 2019)



Con la tecnologia sanitaria del futuro i pazienti saranno curati da medici virtuali

 
In un futuro le persone che si ammalano saranno in grado di rimanere a casa e consultarsi con medici virtuali in stile Siri o Alexa. I kit per le visite domiciliari arriveranno a casa tramite drone, trasportando dispositivi per il prelievo e l'analisi del sangue.
  I sensori posizionati intorno alla casa monitoreranno l'andatura e trasmetteranno informazioni sui problemi alla schiena. Gli smartphone saranno in grado di controllare la vista, il respiro o la voce per la ricerca di malattie specifiche.
  Se qualcosa va male, il medico virtuale programmerebbe un appuntamento con il professionista in questione.
  Nei ristoranti, gli chef avranno accesso a tutte le informazioni necessarie per cucinare un pasto con gli ingredienti che meglio si adattano alle esigenze di ogni cliente.

 Di salute digitale si è parlato presso AMoon Partners
  Questi scenari, come riporta un articolo del The Times of Israel, sono stati presentati la scorsa settimana in occasione di un incontro di investitori e imprenditori di startup tenutosi da aMoon Partners, appena fuori Gerusalemme.
  AMoon Partners è un fondo di Venture Capital che investe in società scientifiche di livello medio e avanzato nel campo della salute digitale, delle tecnologie mediche e dei biofarmaci che operano in Israele e in altri centri tecnologici sanitari come gli Stati Uniti e l'Europa.
  Uno dei messaggi principali dell'incontro è stato che la tecnologia sanitaria si sta muovendo molto velocemente, e per portare sul mercato queste tecnologie futuristiche, è necessario creare ponti e collaborazioni tra il mondo accademico, le startup, i professionisti del settore medico e le autorità di regolamentazione.

 La formazione per tecnici del settore
  Gli educatori e gli operatori sanitari devono essere formati a queste nuove tecnologie per ridurre l'esitazione e la resistenza al cambiamento.
Israele ospita circa 1.600 società di scienze della vita che impiegano oltre 83.000 persone, secondo un rapporto pubblicato da Israel Advanced Technology Industries (IATI).
  Il dott. Daniel Kraft, uno scienziato medico con esperienza a Stanford e Harvard, con oltre 25 anni di esperienza nella pratica clinica, nella ricerca biomedica e nell'innovazione, in una intervista al The Times of Israel, ha affermato:
"Ciò di cui i pazienti di tutto il mondo hanno bisogno oggi è un tipo di sistema di navigazione basato sulla comunità per la loro assistenza sanitaria, in pratica una Waze sanitaria. Significa imparare dagli altri con genomica e malattie simili, in modo da creare il potenziale per sperimentazioni cliniche virtuali personalizzate. Questo ha analogie con Waze, dove la condivisione è incoraggiata e in cambio i conducenti ottengono una mappa migliore e più personalizzata. In questo caso sarebbe ottimizzare la tua "destinazione di salute", sia per ottimizzare il benessere, ma anche per gestire o prevenire le malattie".
(SiliconWadi, 27 maggio 2019)


Germania - Ebrei a rischio se indossano lo zucchetto

Per evitare aggressioni, afferma il commissario tedesco per il contrasto all'antisemitismo Felix Klein, «mi dispiace dirlo, ma non posso consigliare agli ebrei in Germania di indossare ovunque la kippah», cioè il copricapo religioso maschile, ha detto, denunciando che, negli ultimi anni, è diventato sempre più socialmente accettabile esprimere opinioni antisemite. Secondo Klein il 90% di chi commette reati di stampo antisemita sono estremisti di destra, ma vi sono anche musulmani che «guardano canali televisivi arabi che veicolano una terribile immagine di Israele e degli ebrei».
   Fra il 2017 e il 2018, il numero di reati antisemiti in Germania è passato da 1.504 a 1.646 casi, con una crescita del 10%. Fra questi, i casi giudicati violenti sono saliti nello stesso periodo da 37 a 62.
   Le dichiarazioni di Klein hanno provocato immediate reazioni nel Paese sul quale pesa la responsabilità storica dell'Olocausto. È «l'ammissione di un fallimento», ha commentato l'ex politico e conduttore di talk show, Michel Friedman, noto esponenti della comunità ebraica tedesca. «Raccomando di prendere molto sul serio queste dichiarazioni, dove gli ebrei non possono vivere sicuri e liberi, prima poi succederà altrettanto anche agli altri», ha aggiunto.

(Libero, 26 maggio 2019)


"Non ti lasceremo essere come Erdogan". Israeliani in piazza contro Netanyahu

"Non ti lasceremo essere come Erdogan". Questo è uno degli slogan scanditi dalle migliaia di israeliani scesi in piazza questo sabato a Tel Aviv, per protestare contro Benjamin Netanyahu e contro quei provvedimenti legislativi, che potrebbero garantire al Primo Ministro l'immunità dalle accuse di corruzione e limitare il potere della Corte Suprema del Paese.
"Sono qui per manifestare contro le leggi che Bibi Netanyahu ha detto di voler passare", dice un manifestante. "Ha detto che riformerà Israele, da uno Stato democratico a una sorta di dittatura, come quella che abbiamo in Turchia o in Russia, dove i funzionari e i politici sono al di sopra della legge".
Alla manifestazione hanno partecipato quasi tutti i partiti di opposizione, una rarità in un Paese politicamente frammentato come Israele.
Le proteste si sono poi trasformate in scontri, tra sostenitori del premier e oppositori.

(euronews, 26 maggio 2019)


Il governo israeliano che manca

di Ugo Volli

Dalle elezioni in Israele è passato oltre un mese e mezzo, il verdetto degli elettori è stato molto chiaramente a favore del centrodestra, tanto che nessuno ha messo in discussione che Netanyahu sarebbe stato di nuovo primo ministro. Ma il governo non c'è ancora, e il 29 scade il termine ultimo di legge per formarlo, dopo che Netanyahu ha già ottenuto e in buona parte speso la sola proroga consentita. Bisogna chiedersene perché.
   Il primo fattore è la frammentazione dell'elettorato. Il Likud ha avuto una delle migliori vittorie degli ultimi decenni, ma con 36 seggi su 120 della Knesset è sotto il 30%, ben lontano dalla maggioranza necessaria. Per formare il governo occorrono altri quattro partiti, il Kulanu che è una formazione liberista che ha come leader un ex del Likud che potrebbe anche rientraci presto, Moshe Kahlon; due partiti che esprimono il mondo religioso tradizionale, uno sefardita e uno askenazita; la formazione che ha unificato la maggior parte del mondo dei nazionalisti religiosi (ma non tutti, perché i vecchi leader Bennet e Shaked hanno tentato senza successo di costituirne un altro) e infine il partito di Liberman, espressione soprattutto degli immigrati dall'ex unione sovietica, nazionalista ma - diciamo in termini europei - decisamente anticlericale.. Ciascuno di questi gruppi ha fra il 5 e il 10 % dei voti, hanno preso l'impegno elettorale di stare assieme, ma ciascuno ha le sue esigenze, sia sul piano un po' volgare ma inevitabile in democrazia, del piazzare i loro esponenti al governo e dell'ottenere influenza governativa sui temi che interessano i loro elettori, sia su quello delle grande scelte politiche.
   In particolare c'è contrasto fra i partiti religiosi, che tentano di mantenere per i giovani studenti che frequentano le scuole talmudiche l'esenzione dal servizio militare di cui godono e Liberman che invece punta a obbligare anch'essi a servire come tutti, forte anche di alcune sentenze della corte suprema. Un altro tema divisivo è quello del conflitto sempre più aperto fra i partiti che vogliono condurre una politica rigorosa a difesa delle forze armate e degli insediamenti e la corte suprema che si è ritagliata la possibilità concreta se non il diritto di intromettersi in nome della giustizia in scelte che sono chiaramente politiche. C'è chi vuole una legge per assicurare che la Knesset abbia la possibilità di annullare con un voto qualificato le sentenze con cui la corte suprema annullasse delle leggi in quanto "anticostituzionali" (ma Israele non ha una costituzione scritta) e chi non la vuole.In questo dibattito entra anche quella che molti nel Likud sentono come una persecuzione giudiziaria ai danni di Netanyahu, che ha colpito prima altri ministri e leader politici colpevoli di essere contrari alle scelte dei giudici supremi, magari stabilendo una sorta di immunità giudiziaria per i deputati come quella che per molti decenni, e quelli che sono contrari.
   Bisogna aggiungere che da sempre in Israele la politica è molto personalizzata, alquanto teatrale e rissosa e che la liturgia postelettorale è sempre andata più o meno in questo modo, con una drammatizzazione dei conflitti nella maggioranza che poi si risolve all'ultimo momento con compromessi che si potevano magari raggiungere anche prima, ma si giustificano proprio alla luce dell'"emergenza" dei tempi agli sgoccioli.
   Questa volta però l'emergenza c'è davvero. Nessun altro se non questa maggioranza può formare il governo e ci sono alcune scadenze politicamente importantissime che si avvicinano velocemente. La prima è la crisi dell'Iran, che potrebbe indurre gli ayatollah a provocare un'aggressione a Israele per ritrovare una solidarietà interna e internazionale intorno al loro governo, che è in gravissima difficoltà economica e politica. La seconda è il piano di pace di Trump, che verrà presentato fra una decina di giorni e richiederà risposte da Israele e naturalmente da un governo pienamente legittimato e non da quello in proroga che regge il paese oggi. La terza e la quarta, connesse alla prima, sono le crisi con Gaza e con la Siria, che attualmente sono in un momento di calma, ma potrebbero riesplodere senza preavviso. Ricordiamo che la Jihad islamica di Gaza, secondo movimento terrorista della Striscia subito dopo Hamas e satellite diretto dell'Iran, ha "previsto" una guerra per l'estate. Infine vi è la vicenda di Netanyahu e in generale il contrasto fra Knesset e corte suprema, che si attiva spesso con contrasti minori ma di alto valore simbolico, come quando i giudici supremi hanno annullato la proibizione del Primo Ministro e autorizzato la provocatoria manifestazione di sudditi dell'Autorità Palestinese in Israele per ricordare la "Naqbah", cioè la fallita guerra di aggressione araba, proprio il giorno della festa dell'Indipendenza.
   Insomma, Israele non può permettersi altri mesi di governo e parlamento in proroga, di campagna elettorale, di incertezza. Chi li provocasse sarebbe certamente punito dall'elettorato. Per questo è probabile che il governo si faccia, magari con la liturgia di una maratona all'ultimo minuto.

(Progetto Dreyfus, 26 maggio 2019)


L'Iran minaccia di affondare le navi americane nel Golfo Persico

L'Iran è capace di affondare le navi da guerra statunitensi nel Golfo Persico con l'aiuto di armi "completamente segrete". Lo riporta oggi l'agenzia Mizan citando uno dei consiglieri del comandante dei Pasdaran Morteza Korbani.
"Se il nemico fa' la minima sciocchezza nel Golfo Persico, gli facciamo vedere di cosa siamo capaci", ha detto Korbani.
Il consigliere militare ha confermato l'arrivo di due navi da guerra statunitensi nel Golfo.
"Spediremo le navi da guerra americane con tutto il loro equipaggio e gli aerei dritte in fondo al mare con due missili: due nuove armi completamente segrete", ha aggiunto.
In precedenza, Hassan Seifi, assistente del comandante dell'esercito iraniano, ha affermato che gli americani ragionevoli ed i "comandanti militari esperti" delle forze armate degli Stati Uniti difficilmente consentiranno agli "elementi radicali" di Washington di scatenare una guerra.
Le relazioni tra Stati Uniti e Iran si sono significativamente aggravate nel corso dell'ultimo mese. Washington ha imposto pesanti sanzioni contro aree chiave dell'economia iraniana con l'intento di far cambiare atteggiamento a Teheran. Gli Stati Uniti hanno anche incluso il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (i Pasdaran) nell'elenco delle organizzazioni terroristiche. In risposta, l'Iran ha fatto la stessa cosa con il Comando Centrale delle Forze Armate degli Stati Uniti (CENTCOM). Successivamente, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Bolton ha annunciato l'invio di due navi militari nel Golfo Persico, per lanciare "un chiaro e inequivocabile segnale al regime iraniano che ogni attacco contro gli interessi degli Stati Uniti o dei nostri alleati sarà affrontato con una forza spietata".

(Sputnik Italia, 26 maggio 2019)


Gaza: Israele estende la zona di pesca

Era stata ridotta in seguito al lancio di palloni incendiari

Da oggi i pescatori palestinesi di Gaza potranno spingersi in mare per una profondita' massima di 15 miglia senza essere disturbati dalle vedette militari israeliane. Lo ha reso noto l'Ufficio di coordinamento fra le forze armate israeliane e la popolazione palestinese (Cogat).
Nei giorni scorsi quell'area di pesca era stata ridotta a 10 miglia come misura punitiva in seguito al lancio da Gaza di numerosi palloni incendiari che avevano appiccato il fuoco a campi agricoli israeliani del Neghev, provocando estesi danni e mettendo in pericolo la vita degli abitanti.

(ANSA, 26 maggio 2019)


Nasce nel deserto la cybersecurity globale

In Israele, nel mezzo del Negev, un parco tecnologico dedicato alla sicurezza digitale: da fabbrica 4.0 all'intelligenza artificiale, attorno all'ateneo nascono soluzioni integrate.

di Pierangelo Soldavini

 
Il parco tecnologico Cyberspark
BE'ERSHEVA - Qualche mese fa una delle maggiori aziende manifatturiere mondiali ha visto bloccarsi di colpo le sue linee di produzione.
  Ci sono volute sei ore per riprendere l'operatività. Yanir Laubshtein, direttore del centro di eccellenza mondiale di Pwc per la cybersecurity, racconta l'episodio, senza fare nomi, davanti a un braccio robotico che all'improvviso inizia a muoversi fuori controllo, come se ballasse. Il suo collega da dietro uno schermo ha fatto impazzire la centralina in quello che gli esperti chiamano l"'attacco dei robot danzanti" che può colpire centinaia di automi contemporaneamente mettendo fuori uso interi impianti industriali. A fianco c'è la simulazione degli effetti di un'intrusione in un impianto fotovoltaico, in grado di bloccare una rete elettrica con effetti devastanti per il sistema nervoso di qualsiasi economia.
  «Il paradigma della cybersicurezza è stato rivoluzionato e dobbiamo essere pronti ad attacchi quotidiani da qualsiasi parte: con device, impianti e oggetti connessi tutto è esposto a insidie invisibili - prosegue Laubshtein - . Possiamo essere sicuri che prima o poi l'evento critico arriverà, la sfida è quella di ridurre al minimo l'impatto evitando l'effetto domino attraverso soluzioni integrate che mettano insieme It, cybersecurity e sicurezza fisica».
  Siamo a Be'er Sheva, a sud di Tel Aviv, nel pieno del deserto del Negev. Qui il governo ha deciso di strappare spazio a sabbia e cammelli per trasformare una cittadina che fino a pochi anni fa era destinata a operai e sefarditi in cerca di fortuna nell'avamposto della guerra globale alla cybersicurezza. Pwc ha deciso di portare qui il suo laboratorio globale dedicato alla sicurezza all'interno del Cyberspark, il parco tecnologico che raggruppa una settantina di aziende da tutto il mondo, dai rivali di EYe Kpmg fino a colossi come Deutsche Telekom, Ibm, Oracle, Dello Applied Materials, che hanno dato vita a una realtà da 3mila dipendenti, destinati a diventare 30mila in un decennio, che lavorano con gli ingegneri informatici creati dalla Ben Gurion University of the Negev proprio qui a fianco. «Negli anni 80 abbiamo individuato i primi attacchi alle reti, siamo quindi alla seconda, se non alla terza generazione di esperti, composti dalle eccellenze dell'esercito e della formazione», prosegue Laubshtein.
  Il parco è nato attorno alla partnership pubblico-privato tra università e aziende, sotto l'egida del Governo. Sopra a Pwc c'è il National Cyber Directorate governativo, che accoglie delegazioni da tutto il mondo, e che lavora a stretto contatto con le eccellenze informatiche dell'esercito. Qui è passata recentemente una delegazione italiana, interessata a replicare il modello attrono a Milano con un centro dedicato a trasporti e aerospazio.
  È nata qui Secret Double Octopus, startup che punta a un mondo libero da passwortd, a partire dalle imprese. Alle quali offre un sistema tutto in cloud di autenticazione a doppio livello per accedere ai sistemi aziendali o per abilitare pagamenti: una notifica push rafforzata dal riconoscimento biometrico, tutto su smartphone, fatto apposta per sconfiggere password ancora troppo spesso banali che diventano accessi agevoli per malintenzionati. Lo usa un colosso come United Technologies per i suoi 240mila dipendenti, ma anche il ministero degli Interni italiano per i suoi 2mila dipendenti in smartworking. Lastartup sta trattando anche con Poste Italiane e UniCredit, anche se le difficoltà non mancano, dai device non omogenei ai sindacati. Ed è partita da qui l'idea di ThetaRay che applica l'intelligenza artificiale ai servizi finanziari. In questo caso la sicurezza assume un altro volto: il machine learning viene utilizzato per definire la "normalità" delle transazioni andando a identificare in maniera automatica eventuali anomalie sulla base della clusterizzazione dei comportamenti. Diventa più semplice così individuare casi di frode e sospette operazioni di riciclaggio. Anche banche italiane sono in contatto con ThetaRay che vanta di aver ridotto in un caso le frodi del 23% e le transazioni connesse al money laundering del 15%.
  L'intelligenza artificiale diventa la nuova frontiera della sicurezza, che sia cyber o fisica. David Maman, imprenditorie seriale alla sua 13mila startup, ha creato Binah con l'obiettivo di dare vita a uno store di applicazioni di Ai. Una delle prime è in ambito sanitario, ma non solo. In 6-7 secondi calcola il battito cardiaco e la sua variabilità inquadrando la faccia con lo smartphone. I dati, ricavati dalla "lettura" dell'area della guancia immediatamente sotto gli occhi, ricca di vasi sanguigni superficiali, segnalano a loro volta il livello di stress dell'individuo. Che può essere utilizzato per prevenire un infarto imminente (con un tasso di errore dichiarato inferiore all'1%), ma anche il nervosismo di un terrorista che si prepara all'azione. Che sempre sicurezza è, anche se fisica. Binah vende anche applicazioni in ambito finanziario a banche del calibro di Jp Morgan e Citibank per prevedere le quotazioni sul Forex: Maman sostiene che l'applicazione sia in grado di prevedere il tasso a 2,5 minuti con un grado di accuratezza che arriva a mezzo pip (un millesimo).
  Binah è basata a Tel Aviv. Ma la scommessa del Governo, che incentiva società e famiglie che decidono di trasferirsi a Be'er Sheva, è che il Cyberspark cresca come polo di attrazione di tutte le soluzioni che riguardano la cybersicurezza, trasversali a tutti i settori. Sfruttando le competenze sfornate dall'università. Perché da lì, dalla creazione di un polo d'eccellenza nella formazione, a stretto contatto con gli esperti dell'esercito, è nata l'intuizione della cybersecurity nel Negev. Un'idea che sarebbe piaciuta a Ben Gurion, il fondatore di Israele che voleva veder fiorire il deserto.

(Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2019)


Il lamento funebre

Ferdinando Bruni svela il canto di Allen Ginsberg

di Magda Poli

Un lamento funebre, «Kaddish» scritto dal poeta della Beat Generation Allen Ginsberg per la madre Naomi morta nel 1956 in manicomio «avvelenata d'immaginario», letto e interpretato da Ferdinando Bruni, regia di Francesco Prongìa. Preghiera ebraica recitata per i funerali e i lutti, in Ginsberg è un «inno compiuto in lacrime», un estenuante testamento emotivo, un feroce scavo nell'anima, un caldo blues che si perde in un groviglio di angoscia, di commozione, di pietà, d'amore e di terrore ( al Parenti fino al 30 ). Le musiche sono di Massimo Giovara e Stefano Giaccone, ispirate al mondo del grande jazzista Charlie Parker, così come la poesia di Ginsberg canta con la cadenza delle libere varìazìonì jazz, del bebop e della ritualità ebraica. Ferdinando Bruni entra e si siede a una scrivania circondata di schermi tv sui quali passano immagini del poeta, della madre e altro, sembra un giornalista che deve leggere il suo telegiornale. Ma la parola di Ginsberg si sporge sull'abisso del delirio ed è materia viva, incandescente; le immagini che evoca sono squarci nella mente che fanno intuire la realtà oltre la realtà Il viaggio di Bruni svela le molteplici forme di questo straziante canto d'amore. Una bella prova.

(Corriere della Sera - Milano, 26 maggio 2019)




Sovrana eccellenza della carità

Quand'io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho carità divento un rame risonante o uno squillante cembalo. E quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e avessi tutta la fede in modo da trasportare i monti, se non ho carità, non sono nulla. E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, e quando dessi il mio corpo ad essere arso, se non ho carità, ciò niente mi giova.
La carità è paziente, è benigna; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non sospetta il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.
La carità non verrà mai meno. Quanto alle profezie, esse verranno abolite; quanto alle lingue, esse cesseranno; quanto alla conoscenza, essa verrà abolita; poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito.
Quand'ero fanciullo, parlavo da fanciullo, pensavo da fanciullo, ragionavo da fanciullo; ma quando son diventato uomo, ho smesso le cose da fanciullo. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia: ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto.
Or dunque queste tre cose durano: fede, speranza, carità; ma la più grande di esse è la carità.

Dalla prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 13

 


Egitto e Italia aiutano Israele a spegnere incendi

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il 24 maggio, ha ringraziato il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, per aver aiutato il suo Paese a spegnere gli incendi che stanno imperversando dal 23 maggio in diverse aree israeliane.
   La dichiarazione è stata rilasciata dall'ufficio del primo ministro, specificando che l'Egitto ha inviato due elicotteri antincendio per le operazioni di spegnimento dei roghi. Anche l'Autorità Palestinese ha chiesto di unirsi agli sforzi profusi in tale situazione di emergenza.
   Il caldo estremo che si è abbattuto su Israele, con punte anche di 43 gradi, ha provocato una serie di roghi, in particolare nella zona centrale del Paese, costringendo circa 3.500 persone ad evacuare. Netanyahu ha rivolto un appello internazionale per ricevere soccorsi. Italia, Grecia, Cipro e Croazia hanno risposto, inviando elicotteri antincendio. In particolare, l'Italia ha inviato verso Tel- Aviv due Canadair della flotta aerea dei vigili del fuoco. Tale risposta è scaturita grazie ai mezzi messi a disposizione con il meccanismo europeo di protezione civile, nato il 12 febbraio 2019, noto anche come "RescEU". Con tale iniziativa, nel caso di gravi catastrofi, come inondazioni e incendi boschivi, il Paese interessato può chiedere aiuto ad altri Stati membri. A loro volta, coloro che risponderanno, offriranno le proprie risorse, tra cui i Canadair per combattere gli incendi, le unità di pompaggio ad alta capacità, ospedali da campo e squadre mediche di emergenza, con lo scopo di prestare soccorso alle popolazioni locali. L'obiettivo è sostenere quei Paesi che non dispongono delle risorse necessarie per affrontare da soli situazioni di emergenza.
   Netanyahu ha elogiato anche i propri vigili del fuoco ed i servizi di soccorso per aver gestito al meglio la crisi. Tuttavia, il primo ministro ha specificato che la via d'uscita è ancora lontana. Si prevede che nelle aree del Mar Morto e della Valle del Giordano le temperature aumentino ancora, arrivando a circa 48 gradi. Accanto a "madre natura", si teme che la situazione possa essere aggravata dai palloni incendiari che solitamente vengono lanciati nel corso delle proteste del venerdì nella Striscia di Gaza.
   Già in precedenza, Egitto ed Israele avevano collaborato per questioni di sicurezza. Il 5 gennaio 2019, al- Sisi aveva dichiarato che forze israeliane hanno aiutato il proprio Paese a contrastare la minaccia terroristica nel Sinai del Nord, area che confina con Israele. In tale occasione, il presidente ha sottolineato che le relazioni tra i due Paesi sono migliorate su più fronti rispetto ai governi precedenti.
   Come riporta al-araby al jadeed, da quando al-Sisi è salito al potere, l'8 giugno 2014, si è adoperato per consolidare le relazioni tra il suo Paese e Israele, a tal punto che le due parti hanno spesso assunto la medesima posizione in alcune questioni regionali. Non da ultimo, il piano di pace, definito "accordo del secolo", promosso dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Tale patto mira a risolvere il conflitto israelo-palestinese, anche se ancora non sono noti i dettagli del contenuto. Sembrerebbe che alcune clausole includano il controllo permanente di Israele sulla Valle del Giordano e una presenza militare israeliana a lungo termine nella Cisgiordania occupata.
   L'avvicinamento dell'Egitto ad Israele ha avuto inizio il 26 marzo 1979, con la firma del trattato di pace israelo-egiziano, divenendo il primo Paese arabo a firmare un accordo di tale tipo con lo Stato israeliano. Il 3 novembre 2015, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite è giunto anche il primo voto a favore di Israele da parte egiziana, nell'ambito delle elezioni per l'adesione di Israele all'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico.
   Con l'elezione di Trump, l'Egitto si è unito agli sforzi da parte statunitense per spingere l'Autorità Nazionale Palestinese e la Giordania ad partecipare ai colloqui di pace promossi dalla Casa Bianca.
   Sul versante economico, il 27 settembre 2018, si è dato il via ad un accordo storico che, per la prima volta, ha consentito l'esportazione di gas naturale da Israele in Egitto.

(Sicurezza Internazionale, 25 maggio 2019)


"Andatevene in Europa, all'inferno o nell'oceano"

Così ha detto Fathi Hammad, annunciando l'imminente annientamento di Israele

TRADUZIONE - Fathi Hammad: "Siamo venuti qui oggi per far sapere al mondo intero che siamo molto vicini alla liberazione della nostra terra. Noi qui oggi proclamiamo: queste sono le ultime ore, gli ultimi mesi, gli ultimi anni. Non più di pochi anni. Siamo venuti a dire al nemico sionista, ai suoi uomini, al suo esercito, al suo governo, alla Knesset: andatevene. Il giorno del vostro massacro, dello sterminio e dell'annientamento si avvicina. Ciascuno di voi si cerchi un posto in Europa, o all'inferno, o nell'oceano, o nel Triangolo delle Bermude. Non c'è posto per voi in Palestina. Non c'è posto per voi a Gerusalemme, nei cortili di Al-Aqsa, a Giaffa, a Haifa, ad Acco, ovunque".

Parlando a una manifestazione il 15 maggio, nella striscia di Gaza, in occasione della "Giornata della Nakba", il membro dell'ufficio politico di Hamas Fathi Hammad ha proclamato che è ormai vicino il giorno del "massacro, sterminio e annientamento" degli ebrei d'Israele, e li ha esortati a cercarsi un posto altrove, "in Europa, all'inferno o nell'oceano", giacché non c'è posto per loro in qualunque parte della Palestina (Israele compreso).
Il discorso di Hammad è stato trasmesso dalla tv Al-Aqsa di Hamas lo scorso 15 maggio (e diffuso con sottotitoli in inglese dal Middle East Media Research Institute).

(Osservatorio Sicilia, 25 maggio 2019)



Il governo tedesco ha sconsigliato agli ebrei di girare con la kippah

Secondo l'incaricato di Berlino per la lotta all'antisemitismo "la situazione è peggiorata"

"Non posso raccomandare agli ebrei tedeschi di indossare la kippah in qualsiasi momento": lo ha affermato, in un'intervista ai giornali del gruppo Funke, l'incaricato del governo federale per la lotta all'antisemitismo, Felix Klein.
   "Purtroppo la mia opinione in merito è cambiata rispetto al passato", ha aggiunto Klein, secondo il quale la situazione è peggiorata a causa di un evidente "aumento dell'abbrutimento della società e della caduta delle inibizioni sociali". Un decadimento a cui secondo Klein hanno "fortemente contribuito anche Internet e i social media", nonché "i continui attacchi alla nostra cultura della memoria".
   Il diplomatico incaricato dal governo di Angela Merkel di elaborare le strategie per la lotta all'antisemitismo ha ricordato alcuni dati forniti la settimana scorsa dal ministero dell'Interno tedesco, che segnalano un aumento fino al 20% dei reati e degli attacchi di matrice antisemita in Germania nel 2018. Di questi, circa il 90% sono da attribuire a soggetti appartenenti agli ambienti di estrema destra.
   È un quadro preoccupante, per affrontare il quale Klein propone tra l'altro una maggiore istruzione degli agenti di polizia e di altri funzionari pubblici, spesso non sufficientemente formati per poter capire e gestire un evento di natura antisemita: "Vi è molta incertezza tra i poliziotti per quello che riguarda l'antisemitismo. Molti non sanno cos'è permesso e cosa no".

(AGI, 25 maggio 2019)


La memoria nelle famiglie ebraiche e Israele oggi, tavola rotonda a "èStoria"

di Zeno Saracino

La "memoria", storica, culturale e famigliare, gioca un ruolo fondamentale nella religione ebraica, dagli albori fino ad oggi: è una tradizione orale, la quale, pur essendo ancorata nella storia e negli usi&costumi, rimane attuale. Le famiglie ebraiche hanno avuto successo nella difficile impresa di attualizzare una tradizione, di trasformarla da qualcosa di "passato", a una tradizione viva e sentita. Sarà questo l'argomento presso il festival "èStoria", durante l'incontro "La memoria nelle famiglie ebraiche e Israele oggi", organizzato dall'Associazione Italia-Israele Trieste.
   La tavola rotonda è prevista domani, domenica 26 maggio 2019, ore 17, presso il Polo Universitario Santa Chiara (Gorizia, Santa Chiara, 1), alle ore 17. La vivace discussione verrà condotta da Massimiliano Donninelli, Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Trieste, Silva Bon, storica e saggista, ideatrice dell'evento e Rosanna Turcinovich Giuricin, giornalista e saggista. L'argomento, specie in relazione a Israele e alla storia locale, era già stato trattato su Trieste All News durante l'intervista al Presidente dell'associazione.

(Trieste All News, 25 maggio 2019)


Sorgente di vita - Il Memoriale salvato

La puntata di domenica 26 maggio apre con un servizio sul Memoriale italiano di Auschwitz restaurato e inaugurato a Firenze in un nuovo, grande spazio espositivo. L'opera, allestita dal 1980 all'interno del Blocco 21 del campo, era stata smantellata nel 2014. Secondo il museo di Auschwitz, non rispondeva alle moderne esigenze di studio e fruizione della memoria e doveva essere quindi rimossa: una decisione motivata anche da ragioni ideologiche e politiche.
   Elaborata da un gruppo di intellettuali d'eccezione, lo scrittore Primo Levi, il regista Nelo Risi, il pittore Pupino Samonà, il compositore Luigi Nono, gli architetti Lodovico e Alberico Belgiojoso, trova ora una nuova sede in uno spazio multifunzionale che diventerà anche un polo della memoria per la Toscana e ospiterà mostre permanenti e temporanee. Il servizio, dal titolo "La memoria salvata", è di Francesco Candilio e Marco Di Porto.
   Segue un pezzo dedicato a Judit Polgar, considerata la migliore scacchista donna della storia. Nata a Budapest in una famiglia ebraica, divenuta Gran Maestro appena quindicenne, in patria è una vera e propria star, forte del seguito che gli scacchi hanno in tutto l'est Europa. Il gioco degli scacchi ha milioni di appassionati, ed è molto diffuso nel mondo ebraico, tanto da essere definito il "Jewish national game": oltre il 50% dei campioni del mondo del '900 avevano un background ebraico, a partire da Bobby Fischer e Garry Kasparov.
   A Roma, all'Accademia di Ungheria, Judit ha incontrato tanti giovani scacchisti, che l'hanno potuta sfidare in una gara simultanea, e ha raccontato di sé, della sua famiglia, delle sue sfide con i più grandi giocatori del mondo. Il servizio, dal titolo "La regina degli scacchi", è di Alessandra Di Marco e Marco Di Porto.
   Infine un approfondimento con lo storico Georges Bensoussan dopo gli ultimi episodi di antisemitismo in Francia per mano di estremisti islamici. Esperto dei rapporti tra mondo ebraico e Islam, Bensoussan di recente ha pubblicato un libro dal titolo: "Gli ebrei del mondo arabo", che ha suscitato un vivace dibattito. Presenti fin dall'antichità sulle coste del nord Africa, in Marocco, in Libia, in Egitto, ma anche in Medio Oriente, dalla Turchia all'Iraq, le comunità ebraiche hanno convissuto con le popolazioni locali tra luci e ombre, prima e dopo l'avvento dell'Islam.
   Dallo status di dhimmi, considerati infedeli ma tollerati e protetti, all'antisemitismo contemporaneo che si manifesta anche attraverso un diffuso antisionismo, lo storico propone una riflessione su un tema di grande attualità. Il servizio, dal titolo "L'argomento proibito", è di Francesco Candilio e Marco Di Porto.
   Sorgente di vita va in onda domenica 26 maggio alle ore 8: 30 su Raidue.
   La puntata verrà replicata lunedì 27 maggio alle ore 1 circa e domenica 2 giugno alle ore 1:15 circa, sempre su Raidue.

(moked, 24 maggio 2019)


Da Tel Aviv con amore

Leonard Cohen. In 50 lettere da Christie's la love story con Marianne

NEW YORK - Da Tel Aviv con amore. Firmato "Cohen". Tra il 5 e il 13 giugno Christie's metterà all'asta un archivio in gran parte inedito di 50 lettere inviate da Leonard Cohen alla sua musa più famosa, Marianne Ihlen, ispiratrice della canzone "So Long Marianne". Spedite dall'isola di Idra, da Montreal, New York, Tel Aviv e l'Avana e scritte negli anni centrali per la carriera di Cohen, le lettere contengono dettagli biografici ed emozioni forti: il filmato di una delle love story più appassionanti dell'epoca del "flower power", ma anche la trasformazione di un giovane uomo in un grande artista, il poeta di "Like a Bird on the Wire" che ha fatto da colonna sonora alla malinconia e alle speranze di generazioni. Inclusa nella vendita è la lettera (la stima e' tra 6.000 e 9.000 dollari) scritta da Tel Aviv nel settembre 1960 all'inizio della relazione. Cohen proclama: "E' difficile scriverti. Il rumore del mare è troppo forte, la spiaggia troppo affollata e tu sei troppo nel mio cuore per trovare le parole".

(ANSA, 23 maggio 2019)


Israele - Il caldo torrido innesca roghi. Case evacuate

L'ondata di caldo estremo che ha colpito Israele ha provocato forti incendi in alcune zone del Paese. Oltre tremila abitanti di diversi centri hanno dovuto lasciare le loro case. I vigili del fuoco sono alle prese con un rogo di vaste proporzioni nella foresta di Ben Shemen, nel centro di Israele. La strada 443 tra Tel Aviv e Gerusalemme è stata chiusa. Netanyahu ha chiesto aiuto ai servizi anti incendio dei Paesi vicini.

(Corriere della Sera, 24 maggio 2019)


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Incendi in Israele: decollati due Canadair dall'Italia

Due Canadair dei Vigili del fuoco sono decollati dall'Italia verso Israele, alle prese con l'emergenza incendi boschivi.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, d'intesa con il Dipartimento della Protezione civile e il Dipartimento dei Vigili del Fuoco, ha disposto l'invio di due Canadair CL 415, per fronteggiare i vasti incendi che stanno interessando l'area centrale dello Stato d'Israele, a pochi chilometri dalle città di Tel Aviv e Gerusalemme. I violenti incendi boschivi, che hanno portato all'evacuazione preventiva di oltre 3.500 persone, erano già attentamente seguiti dal nostro Paese in stretto contatto con le autorità israeliane.
  I velivoli sono partiti, questa mattina, dall'aeroporto di Ciampino (RM) su richiesta del Governo locale, nell'ambito del Voluntary Pool del Meccanismo europeo di Protezione Civile, strumento dell'Unione europea nato per rispondere tempestivamente e in maniera efficace alle emergenze che si verificano su un territorio interno o esterno all'Unione, attraverso la condivisione delle risorse di tutti gli Stati membri.
  A supporto dei piloti, al fine di tenere i necessari contatti con le autorità locali di protezione civile, saranno sul posto anche un rappresentante del Dipartimento della Protezione Civile italiana e uno del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.

 Sindacati Vigili del fuoco: bene cooperazione tra Stati
 
Canadair dei Vigili del Fuoco italiani
  A pochi giorni dall'annuncio del lancio in ambito europeo dello strumento operativo RescEU, che coordinerà e gestirà l'attività della flotta antincendio europea per la prossima estate, grazie al Centro di coordinamento per la risposta alle emergenze (ERCC) che sarà situato a Bruxelles, questa mattina 2 canadair dei Vigili del Fuoco italiani sono partiti alla volta di Israele, dove da diversi giorni ci sono numerosi incendi boschivi.
  "La riposta immediata dell'Italia, Protezione Civile e Vigili del Fuoco, non si è fatta attendere - dichiarano Fernando Cordella (ANPPE) e Antonio Barone (FEDERDISTAT-CISAL) responsabili sindacali del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco - questo fa ben sperare che nella prossima legislatura europea si punti sempre di più ad un sistema di cooperazione tra stati, in particolare avviando concretamente un Meccanismo Europeo di Protezione Civile.
  "L'Italia, ed in particolare, il Corpo Nazionale dei Vigili Fuoco con le sue potenzialità, flotta antincendi e USAR, può contribuire sicuramente a costruire quel sistema di solidarietà tra stati europei in situazione di emergenza che tanto serve" concludono i due sindacalisti.

(Corriere Nazionale, 24 maggio 2019)


Nel sentiero dell'Europa non c'è spazio per l'odio antiebraico

Lettera del Presidente UCEI a “La Stampa”

Caro Direttore,
in questi giorni l'Europa intera è chiamata ad esprimersi, ad affidare le proprie speranze alla più democratica e straordinaria delle conquiste: il suffragio universale. Un voto che si annuncia come uno spartiacque storico nel futuro di popoli affratellati oggi da un destino comune dopo che, per secoli, il continente è stato attraversato da guerre, violenze, spargimenti di sangue.
   Di fronte al risorgere di inquietanti nazionalismi, populismi e sovranismi che esercitano un fascino nostalgico e vertiginosamente crescente, a prescindere dal nostro orientamento politico non possiamo che proclamarci fieri europeisti. E se il progetto di una reale integrazione sociale e di consolidamento di una politica estera europea è ancora lontano dal dirsi pienamente realizzato, questo non può che costituire uno stimolo a irrobustire i presidi che già sono stati impiantati, non certo a fare tabula rasa.
   Va fatto un passo indietro non per rinunciare a quanto fatto, ma per vederlo meglio. Si possono e si devono migliorare e correggere meccanismi, normative e politiche settoriali ma mai dimenticare che l'Europa, che i nostri giovani sentono come la loro casa a prescindere dal Paese in cui vivono, non è un'entità esterna. Essa è noi e siamo noi a definirla.
   Rimettiamo al centro la visione dei nostri padri fondatori Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. In un drammatico contesto di privazione di libertà e diritti fondamentali, con il nazifascismo trionfante, la loro intuizione segnò un nuovo punto di partenza.
   Oggi, con la coerenza che siamo chiamati a mantenere in un presente carico di sfide ma con alle spalle i concreti e benefici effetti di oltre 70 anni di democrazia, non possiamo che ripartire da lì. Dal sentiero tracciato da Ventotene, l'isola simbolo della repressione fascista, dall'Europa unita che ha saputo consolidare i propri assetti con negli occhi e nell'anima le ceneri dei campi di battaglia, delle città devastate, dei campi di sterminio in cui per la prima volta si tentò il genocidio di un popolo che per secoli ha donato i propri valori all'umanità e che ha poi saputo risollevarsi e dar vita anche a un suo Stato indipendente che vibra di un'anima europea.
   Il Parlamento Europeo e tutte le altre istituzioni che verranno riarticolate avranno anche la sfida di definire in modo coerente e coeso le scelte strategiche verso l'esterno e verso il Medio Oriente in particolare. Il mio invito, anche nell'interesse dell'Europa allo sviluppo, è a una cooperazione con Israele che sia fondata sulla comprensione di quanto lo Stato ebraico sia una democrazia da tutelare e con la quale crescere.
   È urgente allora che sia bandito da ogni aula e luogo di propaganda un movimento dai chiari connotati antisemiti come il BDS, come ha stabilito negli scorsi giorni il governo tedesco, e che ogni Stato membro dell'Unione adotti la definizione di antisemitismo formulata dall'«International Holocaust Remembrance Alliance» che ha tra i suoi cardini proprio la condanna del rifiuto di Israele ad esistere in quanto tale.

Noemi Di Segni
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(La Stampa, 24 maggio 2019)



Israele, varata prima corvetta Sa'ar 6 "Ins Magen" a Kiel

 
La Ins Magen, prima corvetta Sa'ar 6 della Marina israeliana
GERUSALEMME - La Ins Magen, la prima corvetta Sa'ar 6 della Marina israeliana, è stato varata oggi nel corso di una cerimonia nei cantieri navali di Kiel, in Germania. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Alla cerimonia hanno preso parte il comandante della Marina, generale Eli Sharvit, il capo della direzione appalti del ministero della Difesa, Avi Dadon, il capo della direzione dei materiali della Marina, Yossi Ashkenazi, il comandante della Ins Magen, colonnello Baruch. Nel 2015 Israele e il gruppo tedesco ThyssenKrupp hanno firmato un accordo del valore di 430 milioni di euro per la costruzione di quattro corvette Sa'ar. La Ins Magen è attesa in Israele nella primavera del 2020. Le corvette commissionate all'azienda tedesca serviranno a difendere i beni marittimi strategici di Israele, come le risorse di idrocarburi, e mantenere la sovranità marittima nelle proprie acque territoriali. "Le corvette di Sa'ar 6, tra cui Ins Magen, aumenteranno significativamente la forza della flottiglia missilistica israeliana, e serviranno a proteggere interessi strategici israeliani", si legge in una dichiarazione del portavoce delle Forze di difesa israeliane.

(Agenzia Nova, 24 maggio 2019)


La voce di Noa - Canti in ebraico sulle note di Bach

Roma - La star stasera rileggerà dodici brani del compositore tedesco

Dopo aver volato su musiche religiose e canzoni napoletane Noa incontra Johann Sebastian Bach con il progetto "Letters to Bach" che viene a presentare questa sera al Parco della Musica. Un disco prodotto da Quincy Jones, in cui l'artista israeliana riprende dodici brani del compositore tedesco arricchiti da suoi testi in inglese ed ebraico. Un Bach reinventato dalla limpida vocalità di Noa, da anni protagonista anche del dialogo fra i popoli, con iniziative di carattere benefico e in favore della pace in Medio Oriente. Basta pensare al suo recente recital promosso dalla Fondazione Insé Onlus per sostenere i progetti della comunità di Kimbondo nella Repubblica Democratica del Congo o all'album "Love Medicine" nel quale teorizzava l'importanza dell'amore come unica medicina di pace, a cui collaborarono Gil Dor, Pat Metheny, già produttore del suo primo album, e i musicisti brasiliani Joaquin Sabina e Gilberto Gil. Poi, a conferma della religiosità "aperta" che sostiene il suo lavoro, vanno ricordate le canzoni che Noa ha scritto per il musical su Giovanni Paolo II "Karol Wojtyla - La vera storia". Tutti progetti realizzati con uno spirito eclettico che l'ha avvicinata a territori musicali molto diversi da quello mediorientale di sua provenienza, come quello della canzone napoletana con l'album "Noapolìs" o della musica sarda per il quale ha conquistato il riconoscimento della Fondazione Maria Carta per l'attenzione rivolta alla cultura e alla musica dell'isola. Questa sera Noa sarà accompagnata da Gil Dor alla chitarra, Or Lubianiker al basso elettrico e Gadi Seri alle percussioni.

(la Repubblica - Roma, 24 maggio 2019)


In che modo i dirigenti palestinesi puniscono i pazienti

I leader palestinesi giocano con la vita e con la salute della loro popolazione, negando ai propri cittadini le cure mediche negli ospedali israeliani. Agiscono in base ai loro interessi personali, mettendo a rischio la vita dei pazienti, la cui unica colpa è quella di non avere parenti che occupano posizioni di rilievo nella leadership dell'Autorità palestinese e potrebbero aiutarli a ricevere un trattamento adeguato in Israele.

https://www.youtube.com/watch?v=YI3-FVFRTlQ di Bassam Tawil*

 
Jibril Rajoub, alto dhttps://www.youtube.com/watch?v=vHtHp8GVi20irigente di Fatah
 
Ichilov Hospital, l'ospedale di Tel Aviv in cui si è fatto ricoverare Jibril Rajoub
L'Autorità palestinese (Ap) ha deciso che i palestinesi non potranno più ricevere cure mediche in Israele - ad eccezione degli alti funzionari palestinesi. La scorsa settimana, Jibril Rajoub, un alto dirigente di Fatah, la fazione guidata da Mahmoud Abbas attualmente al potere in Cisgiordania, è stato ricoverato all'Ichilov Hospital, la più grande struttura ospedaliera israeliana per il trattamento di patologie acute.
   L'Autorità palestinese (Ap) ha deciso che i palestinesi non potranno più farsi curare in Israele. Lo scorso marzo, il ministero della Sanità dell'Ap con sede nella città cisgiordana di Ramallah, di fatto la capitale dei palestinesi, ha annunciato che avrebbe interrotto i trasferimenti medici verso gli ospedali israeliani, promettendo di trovare alternative per i pazienti palestinesi in strutture ospedaliere private e governative.
   L'Ap afferma di aver preso la decisione in risposta alla detrazione effettuata da parte del governo israeliano - dalle entrate fiscali raccolte per conto dei palestinesi - del denaro versato dal governo palestinese alle famiglie dei prigionieri e dei "martiri".
   Una nuova legge israeliana consente al governo di imporre sanzioni finanziarie all'Ap per la sua politica del "Pagati per Uccidere", che incoraggia i terroristi a compiere attacchi contro gli israeliani perché sanno che loro stessi e le loro famiglie percepiranno retribuzioni finanziarie a vita da parte del governo dell'Ap.
   Secondo un articolo, l'Autorità palestinese ha speso non meno di 502 milioni di shekel [126 milioni di euro] del suo bilancio del 2018 in retribuzioni e stipendi ai prigionieri terroristi e ai detenuti che sono stati rilasciati. Almeno 230 milioni di shekel [58 milioni di euro] sono stati sborsati in stipendi ai prigionieri terroristi e altri 176 milioni di shekel [44 milioni di euro] sono stati versati in retribuzioni ai terroristi dopo il loro rilascio dalle prigioni, come rivelato dal report. I rimanenti 96 milioni di shekel [24 milioni di euro] coprono le retribuzioni supplementari e altri sussidi destinati ai terroristi e alle loro famiglie.
   Nonostante le detrazioni israeliane, i terroristi e i loro familiari continuano a percepire interi stipendi. Gli unici a farne le spese sono decine di migliaia di dipendenti pubblici palestinesi, i quali negli ultimi tre mesi hanno percepito soltanto il 50-60 per cento dei loro stipendi.
   Negli ultimi mesi, il presidente dell'Ap, Mahmoud Abbas, ha promesso di continuare a pagare i sussidi ai terroristi e alle loro famiglie, anche se questo costerà al governo palestinese il suo ultimo centesimo. "Noi non accetteremo tagli o cancellazioni di stipendi alle famiglie dei martiri e dei prigionieri, come qualcuno sta cercando di imporci", ha affermato Abbas. In un'altra dichiarazione, il presidente dell'Ap ha detto: "Per Allah, anche se rimanessimo con un solo centesimo, lo spenderemo per le famiglie dei martiri e dei prigionieri e soltanto in seguito presteremo attenzione agli interessi del resto della popolazione".
   A quanto pare, il "resto della popolazione" include non solo i dipendenti dell'Autorità palestinese (Ap), ma anche i malati palestinesi che hanno bisogno di cure mediche. Abbas ha ora deciso di punire questi pazienti impedendo loro di ricevere assistenza sanitaria in Israele.
   Osama al-Najjar, portavoce del ministero della Sanità dell'Autorità palestinese, ha dichiarato che il governo dell'Ap ha deciso di interrompere il finanziamento delle cure mediche dei pazienti palestinesi negli ospedali israeliani, in risposta al congelamento da parte del governo israeliano dei sussidi erogati ai terroristi e alle loro famiglie. Secondo le stime di Al-Najjar, il costo dei trasferimenti medici verso gli ospedali israeliani ammonta a 100 milioni di dollari ogni anno.
   Il giornalista palestinese Fathi Sabbah ha definito la decisione presa dal ministero della Sanità dell'Ap come "sbagliata, avventata e sconsiderata". Osservando che il provvedimento è stato adottato prima di trovare delle alternative agli ospedali israeliani, Sabbah ha affermato che la "decisione è pericolosa perché ai pazienti viene negato il diritto di ricevere cure mediche che non sono disponibili negli ospedali palestinesi, mettendo a repentaglio la loro vita. È una scelta pregna di conseguenze".
   Secondo Sabbah, mandare i pazienti negli ospedali giordani ed egiziani aumenterebbe le loro sofferenze. Molti di questi pazienti, egli afferma, hanno già iniziato le cure in Israele e ora dovranno ricominciare da capo sottoponendosi a nuovi trattamenti sanitari in Giordania e in Egitto.
   "Gli ospedali giordani ed egiziani non saranno in grado di curare questi pazienti con le necessarie cure mediche professionali e i pazienti saranno costretti a tornare al punto di partenza e sottoporsi a nuovi test clinici", ha aggiunto Sabbah.
   "Questo significa ulteriore sofferenza per i pazienti e maggiori spese per il governo palestinese. Inoltre, i pazienti dovranno sopportare i disagi di lunghe ore di viaggio per arrivare in Egitto e in Giordania. Il viaggio dalla Striscia di Gaza al Cairo dura due o tre giorni, e quello di ritorno dura tre o quattro giorni. Questo significa che i pazienti malati di cancro trascorreranno un'intera settimana per sottoporsi a una seduta di chemioterapia, mentre occorre solo un giorno o qualche ora per poterlo fare in Israele".
   La decisione dell'Ap non si applica però agli alti funzionari palestinesi.
   La scorsa settimana, Jibril Rajoub, un alto dirigente di Fatah, la fazione guidata da Mahmoud Abbas attualmente al potere in Cisgiordania, è stato ricoverato all'Ichilov Hospital, la più grande struttura ospedaliera israeliana per il trattamento di patologie acute. Rajoub, che è anche presidente della Federcalcio palestinese e ha trascorso 17 anni in un carcere israeliano per reati legati al terrorismo, è stato portato d'urgenza in ospedale nonostante la decisione dell'Ap di vietare ai pazienti palestinesi di ricevere cure mediche in Israele.
   Tuttavia, mentre i medici israeliani dell'Ichilov Hospital si prodigavano a prestare a Rajoub le migliori cure, l'alto dirigente palestinese ha inviato una lettera alle associazioni calcistiche europee e alla Federcalcio spagnola chiedendo che l'Atletico Madrid, gigante del calcio spagnolo, annulli una partita amichevole con una squadra israeliana, a Gerusalemme. "Non siamo contrari a giocare in Israele, ma non nella Gerusalemme occupata", ha scritto Rajoub nella sua lettera. Il presidente della Federcalcio palestinese non ha menzionato che il Teddy Stadium, dove si disputerà la partita il prossimo 21 maggio, di fatto si trova a Gerusalemme Ovest.
   Giorni prima di essere ricoverato nell'ospedale israeliano, Rajoub aveva inoltre invitato arabi e musulmani a "sospendere ogni forma di normalizzazione dei rapporti con Israele attraverso lo sport".
   Rajoub non è il primo né l'ultimo alto dirigente palestinese a farsi curare in qualcuno dei migliori ospedali israeliani. Nel 2017, il segretario generale dell'Olp, Saeb Erekat, che ha accusato Israele di "genocidio", è stato ricoverato nel Beilinson Medical Center, in Israele, dopo aver subito un trapianto di polmone negli Stati Uniti.
   I dirigenti palestinesi sono ancora una volta ipocriti per quanto riguarda l'assistenza sanitaria. Da un lato, non perdono l'opportunità di lanciare varie forme di calunnie del sangue contro Israele. Dall'altro lato, quando si ammalano, la prima cosa che fanno è contattare gli ospedali israeliani nella speranza di beneficiare delle migliori cure mediche del Medio Oriente. Non si precipitano negli ospedali egiziani e giordani, perché sanno che lì non riceveranno il miglior trattamento possibile.
   Ma il fatto sconvolgente è che i leader palestinesi giocano con la vita e con la salute della loro popolazione, negando ai propri cittadini le cure mediche negli ospedali israeliani. Questo è un altro segnale di come i dirigenti palestinesi agiscono in base ai loro interessi personali, mettendo a rischio la vita dei pazienti, la cui unica colpa è quella di non avere parenti che occupano posizioni di rilievo nella leadership dell'Autorità palestinese e che potrebbero aiutarli a ricevere un trattamento adeguato in Israele.

* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 23 maggio 2019)


Marko Feingold, l'ebreo sopravvissuto a quattro lager, compie 106 anni: «Sono ancora qui»

Dopo l'orrore dei campi di concentramento, aiutò come commesso viaggiatore centomila ebrei facendoli passare al confine con l'Austria per italiani deportati.

Marko Feingold
Arrestato nel '38 a Vienna, scappato in maniera rocambolesca a Praga, espulso in Polonia, rientrato in Cecoslovacchia con documenti falsi. Di nuovo arrestato nel '39 e, stavolta, deportato. In quattro diversi lager tedeschi, i più spaventosi: Auschwitz, Neuengamme, Dachau e Buchenwald, dove fu liberato nel '45. Marko Feingold aveva 32 anni e quando gli americani lo trovarono pesava appena 40 chili. Non pago d'aver già visto più volte la morte in faccia, si mise a disposizione degli altri ebrei e, come commesso viaggiatore, ne aiutò 100mila spacciandoli per italiani internati al confine del Brennero: attraverso i monti si ritrovavano dalla notte all'alba in Alto Adige; poi da lì, raggiungevano in nave la Terra promessa. Il prossimo 28 maggio Feingold, nato nel 1913 nell'allora Austria Ungheria, compirà 106 anni: «Sono ancora qui, sopravvissuto a gran parte dei responsabili di allora» dice nel libro intervista Unfassbare Wunde della giornalista Alexandra Foderl-Schmid e del fotografo Konrad Rufus Muller, da poco uscito per la casa editrice Bohlau e dedicato ai 25 più anziani superstiti viventi della Shoah. Uno straordinario documento di memoria personale e collettiva, che rischiava di andar perso.
  «Mi volevano spedire nell'aldilà anzitempo» e invece, alla faccia di Hitler, ha seppellito praticamente tutti i suoi aguzzini. Nel calvario da un campo di sterminio all'altro perse l'amato fratello, con cui aveva girato l'Italia da ragazzo. Dopo la guerra, quando l'Austria bloccò le frontiere agli ebrei diretti in Palestina, Feingold escogitò lo stratagemma degli ex prigionieri italiani. Quando pure la rotta del Brennero fu chiusa, individuò un sentiero d'alta montagna: attraverso il passo dei Tauri nell'estate 1947 5.500 persone, tra cui bambini e anziani, raggiunsero l'Alto Adige per imbarcarsi alla volta della Palestina dall'Adriatico. Con la nascita dello stato d'Israele, il paese riaprì i confini e lui si trasferì a Salisburgo dove aprì il negozio d'abbigliamento "Wiener Mode". Quando fu liberato gli alleati gli riconsegnarono l'abito che indossava anni prima, al momento dell'arresto: i suoi carnefici l'avevano conservato «in perfette condizioni, questi sono i vantaggi di un'amministrazione efficiente» ironizza Feingold, che non ha mai perso lo humour. Anche quello, sicuramente, l'ha aiutato a passare indenne attraverso l'inferno in Terra e a campare così a lungo. Lo testimonia la risposta data anni fa all'arcivescovo di Salisburgo, dove oggi l'ultracentenario presiede la comunità ebraica locale ed è responsabile della sinagoga cittadina. Monsignor Franz Lackner voleva conoscere il segreto della sua longevità: «Faccia come me e si sposi una donna giovane» rispose. La moglie Hanna, infatti, ha 35 anni in meno. Ma anche lui, come si vede nelle foto online, per avere più di un secolo se li porta bene.
  Feingold si definisce credente, ma poco praticante: «Vista la serie di coincidenze nella mia vita, qualcosa deve pur esserci». Strano che sulla sua avventurosa e drammatica esistenza non abbiano ancora girato un film. Tuttora è conferenziere in scuole e convegni, testimone oculare dell'orrore nazista. Che non è riuscito a sfibrare la sua tempra. Ma è anche un fine osservatore politico, anche del nostro paese, che conosce bene e di cui ricorda la lingua: «Gli elettori si fanno sempre meno problemi a votare a destra - commentò l'anno scorso per i 105 anni -, forse anche perché i 'vecchi' partiti non danno risposte ai veri problemi dei cittadini come disoccupazione, salari bassi, tasse e corruzione . I populisti promettono sicurezza, ma solo il futuro ci dirà se manterranno le promesse: ho l'impressione che i politici non ci prendano sul serio, per loro siamo solo dei bimbi. Nessuno vuole affrontare davvero i problemi, si alzano sempre più i toni e rischiamo di schiantarci contro il muro». Feingold è probabilmente il più anziano superstite vivente dell'Olocausto in tutta Europa. Ma il record del più longevo in assoluto spetta a Israel Kristal, un ebreo polacco spentosi nel 2017 a ben 114 anni: quando morì era anche il più vecchio uomo del mondo e uno dei 10 più anziani di sempre. Non ne sono rimasti molti: due anni fa commosse il mondo la storia del sopravvissuto Eliahu Pietruszka, che a 102 anni incontrò per la prima volta il nipote. Chissà che, nel loro caso, non sia proprio l'aver affrontato prove così estreme ad aver creato una sorta di difesa immunitaria dal tempo.

(Corriere della Sera, 23 maggio 2019)


Israele: passi avanti per nuovo governo

Passi in avanti nella formazione del nuovo governo di Benyamin Netanyahu che è sul punto di stringere l'accordo con 'Israele casa nostra', il partito nazionalista laico guidato da Avigdor Lieberman. Anche se ancora non c'è nulla di scritto, l'intesa sembra essere vicina con il ritorno di Lieberman alla guida della Difesa, da cui si dimise a fine 2018 - dando di fatto il via alla crisi politica - per dissensi con il premier su Gaza. Se l'accordo sarà completato - ma a quanto pare manca ancora il perfezionamento sulla legge che riguarda le nuove regole per la leva militare degli ebrei ortodossi - Lieberman porterà in dote a Netanyahu i 5 importantissimi seggi del suo partito che consentiranno al premier di raggiungere quota 65, ovvero più della metà dei 120 deputati alla Knesset. Le trattative costituiscono il rush finale, visto che il 29 maggio scade la proroga di due settimane concessa dal presidente Reuven Rivlin a Netanyahu per formare l'esecutivo che sarà a completa trazione di destra.

(ANSAmed, 23 maggio 2019)


Antisemitismo a Vienna, svastiche e tagli sulle foto dei superstiti della Shoah

 
L'antisemitismo ha colpito anche Vienna. L'odio anti-ebraico ha messo le sue lunghe mani sulla capitale austriaca, dove un simbolo della Shoah ha subito oltraggi e danneggiamenti.
A essere tagliate e imbrattate con delle svastiche sono state le fotografie dei sopravvissuti all'Olocausto esposte lungo il Ring, una strada centrale della città. A denunciare lo spiacevole episodio è stato lo stesso fotografo Luigi Toscano, che in un post su Facebook ha scritto:
"Cari amici sono costernato. Sono state deturpate diverse immagini della mia mostra con delle svastiche. Non ci faremo piegare, da niente e nessuno. Purtroppo sono ancora in America e non posso essere sul posto. Ringrazio la mia squadra a Vienna, in particolare Mirco Franz e Peter Schwarz, il suo team di Esra Wien Psychosoziales Zentrum e l'ambasciata tedesca".
L'episodio ha subito la ferma condanna del leader della comunità ebraica austriaca, Oskar Deutsch, secondo cui:
"Si tratta di un attacco antisemita a tutta l'Austria. È una mancanza di rispetto per l'arte e soprattutto per le persone ritratte, di fronte a chi è stato perseguitato durante il periodo nazista. Lo interpreto come un attacco agli ebrei ma anche come un attacco a tutti gli austriaci".
Condanna arrivata anche dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz che ha chiesto un'indagine approfondita e in tweet si è detto "costernato dalla contaminazione antisemita".
Contaminazione antisemita e non atto antisemita. Che il cancelliere austriaco si riferisse ai recenti episodi di odio anti-ebraico accaduti nelle vicine Germania e Svizzera?
A essere certo è che negli ultimi mesi l'antisemitismo sta trovando terreno fertile in molti paesi europei, senza il giusto controllo e a volte anche l'avallo di alcuni politici, che strizzano l'occhio all'estrema destra per il proprio tornaconto.

(Progetto Dreyfus, 23 maggio 2019)


Testamento biologico. Dubbi e chiarimenti alla serata organizzata da Kesher

di Paolo Castellano

Da sin.: David Fargion, Rav Riccardo Di Segni, Rav Roberto Della Rocca e Emanuele Calò
Che cos'è il testamento biologico? Quali sono le leggi italiane che lo regolamentano? E quali sono infine le interpretazioni rabbiniche sui temi legati al "fine vita"? Questi sono solo alcuni dei numerosi punti toccati durante l'incontro dell'associazione Kesher "Il testamento biologico". Al dibattito, che si è svolto il 21 maggio presso il Noam, hanno preso parte il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il giurista Emanuele Calò e il presidente dell'Associazione Medica Ebraica David Fargion. Ha introdotto e moderato Rav Roberto della Rocca.
   Sono molti i dubbi sulle disposizioni e sui documenti riguardanti i fiduciari che devono prendere decisioni al posto di una persona malata, priva di coscienza. Emanuele Calò ha infatti spiegato che in Italia esistono delle leggi sul "fine vita" ma che devono essere approfondite da chi è interessato al tema. Calò, nella sua dettagliata disamina, si è concentrato sul valore legale delle disposizioni di fine vita. Parlando delle Legge 76, il giurista ha affermato che vengono a formarsi due istituti: «Il primo concerne le disposizioni anticipate di trattamento - si può decidere di lasciarsi morire di sete e fame. Il secondo caso permette invece di designare un rappresentante che decida per noi in caso di incapacità». Il consenso informato è il cosiddetto DAT (disposizione trattamento anticipato).
   Rav Riccardo di Segni si è invece concentrato sulla visione dell'ebraismo riguardante il testamento biologico. «Una persona decide quello che vuole del suo corpo. Una visione in contrasto col paternalismo medico. Una volta il parere del dottore era indiscutibile. Oggi invece abbiamo noi in qualche modo l'ultima parola», ha commentato Rav Di Segni. Il Rabbino capo di Roma ha poi esposto i suoi argomenti nel campo della terapia del dolore e sull'ammissibilità delle cure. «L'ebraismo non ammette il suicidio. Per l'ebreo la vita è sacra e ha il dovere di mantenere in salute il suo corpo. Tuttavia chi commette un suicidio spesso è una persona malata, con gravi problemi. Ogni caso è unico», ha specificato Rav Di Segni.
   Anche David Fargion ha sottolineato l'unicità del paziente. «Ogni malattia va inquadrata in un contesto. Per il medico è una grande responsabilità e sofferenza assistere al dramma umano del malato e della sua famiglia. Tuttavia un dottore ha il compito di non accanirsi sul paziente, indicando il percorso più giusto da seguire in base all'esperienza professionale».

(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2019)


L'archivio di Max Brod ora torna in Israele

di Daniele Abbiati

Si allunga il brodo su Brod. Ma il valore nutrizionale del consommè a la Kafka resta elevato. La notizia è una non-notizia, semmai una burocratica sentenza passata in giudicato. Ma ciò che conta è (o meglio, sarà) la sua conseguenza.
   La non-notizia notarile è la seguente: la Germania restituisce a Israele l'archivio di Max Brod (1884-1968), l'amico e confidente di Franz Kafka (1883-1924), di cui fra il 2009 e il 2012 era sparita buona parte dalla casa della figlia della segretaria del primo. Dunque, non si sono scoperti nuovi documenti, di Brod, di Kafka o di altri. Al contrario, è possibile che ne manchino un bel po', rispetto alla dotazione originaria che era finita nelle mani di Esther Hoffe, morta nel 2007 a 101 anni, e poi passata a sua figlia Eva. Comunque, la ciccia è tanta. «È una specie di "who's who" del mondo culturale europeo nei primi quattro decenni del Ventesimo secolo», ha commentato Stefan Litt, curatore e capo archivista della Biblioteca nazionale di Israele. Inoltre di quel tesoro fanno parte alcuni brani inediti del diario di Brod e lettere che potrebbero dire molto sulla vita di Kafka. L'archivio era stato disperso fra il caveau di una banca israeliana, quello di una banca a Zurigo e, appunto, l'appartamento di Eva Hoffe a Tel Aviv.
   Ora, non ci resta che attendere fiduciosi. Tornato finalmente a casa (Brod, fuggendo nel 1939 dalla Germania nazista l'aveva portato con sé a Tel Aviv in una grossa valigia), l'archivio potrà parlarci liberamente.

(il Giornale, 23 maggio 2019)


Aiutare il Maghen David Adom è aiutare Israele

 
Il Magen David Adom è il servizio nazionale di emergenza medica pre-ospedaliera, fondato in Israele nel 1930. Da 89 anni si pone l'obiettivo primario di salvare vite umane senza preclusioni di genere, etnia, credo religioso, stato sociale. Dal 2006 il Magen David Adom fa parte della International Comitee of the Red Cross (ICRC) e si attiene ai suoi principi umanitari condividendoli con le altre Società di Soccorso tra le quali spiccano la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa.
   Ogni anno in Israele 2 milioni di persone chiamano il numero di emergenza 101 per ricevere assistenza medica urgente. Le centrali operative del Magen David Adom ricevono più di 5000 chiamate di emergenza al giorno. Pochi sanno però che questa importantissima organizzazione - che mobilita 1800 impiegati, 17.000 volontari Life Guardians, 6.500 Primi Soccorritori che provengono dall'intero arco della società israeliana - pur essendo l'unica a svolgere emergenze mediche nel Paese, è però un ente privato, in base ad una legge nazionale del 1950. Il Maghen David Adom vive e fornisce assistenza e servizi solo grazie agli aiuti dei volontari e dei benefattori, che coprono la maggior parte delle spese, solo in minima parte sostenute da fondi pubblici.
   Per supportare le attività di soccorso, formazione e ricerca, per aiutare nell'acquisto di veicoli salvavita, kit di primo soccorso, apparecchiature medicali, per sostenere i servizi trasfusionali e la fondazione di nuove stazioni su tutto il territorio israeliano, in molti Paesi del mondo sono nate le Associazioni Amici del Maghen David Adom. In Italia l'Associazione onlus è presente dal 2012 a Milano, ed è diretta da Sami Sissa che ha deciso di promuovere e sostenere la nascita di altre Associazioni sul territorio italiano.
   Ieri, nella prestigiosa sede del Circolo Canottieri di Roma, è stata presentata l'intera attività del Maghen David Adom che opera con 1.094 ambulanze e unità mobili di terapia intensiva, 500 moto mediche, 2 elicotteri in grado di dare una risposta immediata nelle situazioni d'emergenza in città e in periferia. Le ambulanze e le equipe mediche delle Unità Mobili di Terapia intensiva soccorrono oltre 785.490 persone l'anno. Il servizio trasfusionale del MDA raccoglie più di 260.000 unità di sangue e la formazione ai volontari coinvolge 80.000 persone tra adolescenti, adulti e squadre mediche.
   "Si tratta di un lavoro straordinario per un paese così piccolo come Israele - ha spiegato Sissa - dove la salvezza di ogni vita umana è fondamentale". Un lavoro impegnativo e dai pesanti risvolti psicologici per il personale paramedico, come ha mostrato la proiezione in anteprima di un reality girato sulle ambulanze e che verrà messo in onda sulla televisione israeliana Channel 13. Un lavoro estenuante ma anche di grande empatia e soddisfazione, hanno spiegato tre paramedici presenti alla cerimonia.
   A raccontare le loro esperienze e il valore che il Maghen David Adom ha per la società israeliana, ma anche il contributo che dà in occasioni di grandi calamità naturali nel mondo, quattro testimonial di eccezione: l'Ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs, il presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il presidente delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni e Alessandro Piperno (che insieme a Cesare Efrati, assente per improrogabili impegni di lavoro) è uno dei referenti dell'Associazione romana degli Amici del Maghen David Adom.
   Alla base dell'impegno del Maghen David Adom vi è l'obiettivo di salvare più vite possibile ma questo è possibile solo attraverso la convinzione che ogni cittadino possa, se debitamente formato, prestare il primo aiuto. Di qui l'impegno a realizzare corsi formativi di primo soccorso che già sono stati realizzati in diverse comunità ebraiche italiane e che servono a saper intervenire in casi di perdita di coscienza, soffocamento, attacco epilettico, ferite, emorragie, ustioni e infine i traumi. "Aiutare il Maghen David Adom - ha ricordato Sissa - è quindi un atto di grande generosità e come Associazione italiana ci siamo prefissati di raggiungere un obiettivo particolare: acquistare una ambulanza che verrà intitolata alla memoria del rabbino capo di Roma, rav Elio Toaff z.l., che tanto era conosciuto e rispettato anche in Israele. In questo modo il suo nome continuerà a essere diffuso tra il popolo israeliano".

(Shalom, 22 maggio 2019)


Scienziati riproducono 'birra dei Faraoni' con lievito antico di cinquemila anni

Ricercatori israeliani hanno prodotto birra con un lievito antico di ben cinquemila anni: il risultato è una bevanda che si consumava nell'Antico Egitto.

di Andrea Micalone e Lorenzo Spigarelli

Un team di ricercatori israeliani è riuscito a produrre birra con un lievito avente un'età di ben cinquemila anni. Il risultato che hanno ottenuto sembra essere simile, secondo gli studi, alla bevanda che i Faraoni bevevano nell'Antico Egitto. Ora, l'idea è di mettere un giorno in vendita questa birra antica.

 Una birra 'invecchiata' di ben cinquemila anni
  Tutto è cominciato quando i ricercatori di tre università israeliane sono riusciti a estrarre sei frammenti di lievito da alcuni antichi cocci di ceramica rinvenuti in Terra Santa. Proprio da questi lieviti, dopo le prime incertezze, gli esperti hanno deciso di produrre della birra. In particolare, sono stati Ronen Hazan e Michael Klutstein, due biologi della Hebrew University, ad aver avuto l'idea di creare questa bevanda utilizzando il lievito antico.
  Aren Maeir, archeologa della Bar-Alan University, ha dichiarato: "Ricordo che quando tirammo fuori la birra per la prima volta, ci sedemmo attorno al tavolo e bevemmo. Io dissi che o poteva essere buona, oppure saremmo tutti morti nell'arco di cinque minuti". Ha concluso quindi ironicamente: "Siamo sopravvissuti per raccontare la storia". Gli esperti ritengono che la birra ottenuta sia simile a quella che bevevano i Faraoni dell'antico Egitto. Ora l'idea sarebbe addirittura quella di mettere un giorno in vendita la bevanda.

 La storia della birra
  Nel passato, in quelle regioni tra Egitto e Medio Oriente, la birra era un bene di base, come il pane, apprezzato da tutta la popolazione, indipendentemente dalla condizione sociale o dall'età. Poiché con l'acqua c'era invece sempre il rischio di contaminazioni, la birra e il vino fermentati erano considerati molto più sicuri da bere. Le birre, al tempo, venivano solitamente preparate con un mix di cereali e acqua, cotti e lasciati fermentare al sole.
  Spesso venivano inoltre aggiunti dei concentrati di frutta per aromatizzare le bevande che, ovviamente, di base non avevano quel gusto limpido a cui oggi siamo abituati.
  Con l'aiuto dell'esperto di birra Itai Gutman, il team di ricerca ha utilizzato tecniche moderne per creare una bevanda simile alla birra di frumento, con il 6% di alcol e un idromele al 14%. Gutman già in passato aveva fatto un esperimento simile, producendo birra da un ceppo di grano vecchio di diecimila anni ricreato tramite l'ingegneria genetica.
  Questo caso dei ricercatori israeliani è però più particolare, poiché per la prima volta l'alcol è stato creato direttamente dal lievito antico, e non da una "copia genetica". La dottoressa Hazan ha poi spiegato: "La più grande meraviglia è che le colonie di lievito sono sopravvissute all'interno dei cocci di ceramica per migliaia di anni, aspettando solo di essere scoperte". Quindi ha aggiunto: "A proposito, la birra non è male".

(Blasting News Italia, 23 maggio 2019)


Israele nello show biz mondiale

di Marta Olivieri

L'Eurovision song Contest, andato in onda in tutto il mondo dal Convention Center di Tel Aviv, con la serata finale, sabato scorso, presentata anche dalla supermodella e conduttrice israeliana, Bar Refaeli, e Madonna come ospite con due ragazze abbracciate che sulla schiena avevano la bandiere di Israele e Palestina, è stata la terza edizione organizzata da Israele.Lo Stato è passato dai bombardamenti al festival della canzone in cinque serate che è un'immagine di gioia e di normalità, con una folla di turisti nel parco Charles Clore trasformato in una fiera dell'Eurovision. Una gara che ogni anno viene seguita da qualcosa come 200 milioni di telespettatori, secondo quanto ha riportato Le Figaro. La kermesse propone attrazioni e cibo di strada. Comunque, Tel Aviv danza su un vulcano chiamato Gaza.
   Organizzando per la terza volta l'Eurovision, lo Stato ebraico, secondo Le Figaro, intende sviluppare il proprio «soft power» e dimostrare che è entrato in una nuova era. Tuttavia, la questione palestinese si è infilata nella festa aumentando le polemiche.
   Dal 4 maggio una pioggia di razzi è piombata sul Sud del paese fino ai primi giorni dell'Eurovision, con 23 morti sul fronte palestinese e 4 in territorio israeliano. Un accordo per il «cessate il fuoco» è stato trovato lunedì, alla vigilia dell'inizio della kermesse canora.
   La grande preoccupazione degli organizzatori era quella di venire a trovarsi a confronto con manifestanti durante le dirette televisive.
   Il gruppo islandese électro-metal Hatari, presentato come uno dei favoriti della gara canora, ha moltiplicato le dichiarazioni a favore dei palestinesi. E, la seconda giornata del festival, mercoledì, ha registrato la manifestazione anti israeliana a Tel Aviv che invitava a boicottare la competizione canora vinta dall'Olanda con il brano di Duncan Laurence «Arcade», e, al secondo posto, è arrivata l'Italia con il vincitore di Sanremo 2019, Mahmood che ha cantato la sua «Soldi».
   Ma c'è chi la pensa diversamente: Netta Barzilai, cantante israeliana laureata dell'Eurovision 2018, ha sottolineato il valore di questa manifestazione: «essere sulla stessa scena, quale che sia la propria religione, le proprie origini, il proprio colore della pelle e la propria cultura, è partecipare a una festa della luce. Boicottare la luce è diffondere le tenebre».
   Israele ha ottenuto il diritto di organizzare l'edizione 2019 dell'eurovision grazie alla vittoria, l'anno scorso, di Netta Barzilai e inizialmente la kermesse si sarebbe dovuta tenere a Gerusalemme, ma poi la scelta è caduta su Tel Aviv perché Gerusalemme non è riconosciuta come capitale dello Stato di Israele.
   Comunque sia, la kermesse canora è stata una lunga vetrina per il Paese.

(cinquantamila.it, 23 maggio 2019)


Tunisia: il premier Chahed alla sinagoga di Ghriba per la festività ebraica

TUNISI - Il primo ministro tunisino, Youssef Chahed, si è recato oggi alla sinagoga di Ghriba, sull'isola di Djerba, in occasione del pellegrinaggio della festa di Lag B'Omer. Quest'anno la festività si celebra oggi e domani, 23 maggio. Parteciperanno alle celebrazioni previste il ministro del Turismo, René Trabelsi, ebreo, i titolari dei dicasteri della Cultura e degli Affari religiosi, rispettivamente Mohamed Zine El Abidine e Ahmed Adhoum, e l'ambasciatore degli Stati Uniti a Tunisi, Donald Blome. Nell'ambito degli eventi previsti, si terrà anche un Iftar (ovvero la rottura del digiuno quotidiano nel mese musulmano di ramadan) e una conferenza sulla convivenza pacifica tra le diverse religioni in Tunisia.

(Agenzia Nova, 22 maggio 2019)


Il campo di internamento per gli ebrei corsi ad Asco nel 1943

Asco (Corsica)
Nel 1943, ad Asco, 86 persone vivevano in questo campo di internamento installato dagli italiani. Le condizioni di vita non avevano fortunatamente nulla a che fare con quelle del resto d'Europa. E questo è in parte grazie all'aiuto degli abitanti del villaggio. Alcune persone ricordano ancora

 Azioni contro gli ebrei condotte durante l'occupazione italiana
  Quando arrivò nel marzo del 1943, il generale Giovanni Magli chiese al prefetto l'elenco dei residenti ebrei in Corsica. Chiese se c'era un campo di concentramento sull'isola per loro. Su questo punto, la risposta è negativa. Il 10 maggio, a Bastia, tre mercanti ebrei vengono arrestati dalle Camicie nere, poi rilasciati. Il 27, ancora a Bastia, vengono arrestati gli ebrei di età compresa tra i 18 e i 60 anni. L'ordine viene dal comando italiano ed eseguito dalle autorità francesi collaborazioniste. Trasferiti ad Asco, sono sorvegliati da soldati e carabinieri italiani. Un totale di 86 persone, tutte provenienti dalla Corsica settentrionale, sono internate ad Asco. È solo il 9 agosto ad Ajaccio che cinque mercanti ebrei vengono arrestati e imprigionati nella prigione della Cittadella. Non vengono interrogati e vengono rilasciati lo stesso giorno con l'obbligo di rimanere in residenza forzata ad Ajaccio. Quando scoppia l'insurrezione del 9 settembre, gli internati di Asco ritrovano la loro libertà.
C'è stata quindi una politica particolare in Corsica che è dovuta a diversi fattori: l'assenza di un progetto chiaro da parte degli italiani, la loro ferma determinazione a non lasciare che i tedeschi invadano un terreno che considerano esclusivamente della loro competenza, e anche l'assenza di sentimenti antisemiti anche nel prefetto Balley come nella popolazione corsa.

 La storia del campo di internamento di Asco
  Nel 1940, mentre quasi tutta l'Europa era in guerra, la Corsica contava circa 600 ebrei. L'isola non ha una tradizione antisemita come si trovava sul continente in quel momento. E il rifiuto degli isolani di denunciare i loro vicini o la loro conoscenza ebraica è stato ampiamente documentato.
Ma nel 1941, per ordine della prefettura, le autorità devono registrare gli ebrei e sono costretti a mostrare la menzione "ebrei" sulla loro carta d'identità.
Gli italiani e il loro generale, Magli, chiedono al loro arrivo nel 1943 se c'è un campo di concentramento sull'isola. In questo momento non ce n'è. Magli ha arrestato, principalmente a Bastia, gli ebrei dai 18 ai 60 anni che riesce a identificare e li trasferisce ad Asco.
In quello che servirà da campo di internamento in Corsica tra cui il rabbino Toledano Mayer. Gli abitanti del paese li sosterranno, contro ogni previsione e tutto il resto.
L'8 settembre cominciò la liberazione della Corsica grazie anche ai soldati italiani e ai partigiani corsi contro i tedeschi e l'isola venne liberata il 4 ottobre.
Il 19 maggio ad Asco è stata messa sulla scuola del paese una targa a ricordo del campo di internamento del 1943.

(Corsica Oggi, 22 maggio 2019)


Immagini antisemite e filonaziste sulla chat degli studenti di un liceo

Arezzo, una madre racconta: «Foto raccapriccianti sul cellulare di mio figlio». «A chi su whatsapp ha cercato di dissociarsi hanno detto che non aveva humor».

di Chiara Calcagno

AREZZO - C'è un Cristo inchiodato ad una svastica, un ebreo in fiamme, Hitler esaltato per gli stermini perpetrati dal Nazismo, Anna Frank vilipesa. Meme razzisti, antisemiti e filonazisti. A crearli, un gruppo di ragazzi dai 12 ai 15 anni che poi li ha diffusi nelle chat studentesche di scuole medie e superiori di Arezzo. Due diversi gruppi whatsapp dove condividere le terrificanti immagini per ridere e scherzare, che nella chat definiscono «black humour».
   E così nei telefonini degli studenti, fra i compiti di inglese e gli accordi per incontrarsi in centro il pomeriggio, sfilano sconcertanti foto realizzate con una particolare app: immagini associate a scritte da rendere virali sui social. Sarebbero censurate su internet, così vengono diffuse di nascosto, dove spesso i controlli non arrivano. In uno dei gruppi, ci sono giovani di 12 anni che rispondono divertiti. Hitler e Mussolini esaltati per le torture e i soprusi che inflissero ai più deboli, ingiurie a persone di colore, battute sessiste e freddure macabre nei confronti del popolo ebraico.
   Conversazioni online che sarebbero rimaste segrete se non fossero capitate nelle mani di una madre. «Non tutti i figli parlano in famiglia. Il mio, fortunatamente, lo fa e un giorno mi ha mostrato cosa circolava in chat ormai da mesi». Secondo il racconto del genitore, tutto è cominciato verso gennaio quando nel gruppo whatsapp di una classe di prima liceo hanno iniziato a essere diffusi questi meme. Un macabro divertimento che poteva spegnersi nel giro di qualche settimana ma così non è stato. Anzi si è creato poi un altro gruppo, questa volta con ragazzi delle scuole medie, alunni di 12 anni. E, anche in questo caso, con condivisione di simili immagini di odio e satira.
   «Mio figlio mi ha fatto vedere le reazioni dei partecipanti: sorrisi, altre battute, ulteriori post. Non voglio additare o condannare nessuno, sono giovani e non credo che siano cattivi ragazzi ma non esistono controlli e forse loro non si rendono conto della gravità della cosa». «A quelli che si sono dissociati da tali comportamenti - continua la donna che ha raccolto le parole del figlio - hanno rinfacciato di avere poco senso dell'umorismo. Difficile poi, per un ragazzo di quell'età far sentire la propria voce o uscire dal gruppo: il rischio sarebbe quello di attirare su di sé gli sbeffeggi della classe, di rimanere escluso per la troppa serietà. Non capiscono che si tratta di discriminazione razziale, sessista o religiosa e, questa, va sempre condannata».
   La donna ha letto la chat e alcuni degli studenti della classe hanno cercato di dissociarsi, scrivendo il loro disgusto verso certe immagini e chiedendo che non vengano più fatte. «Ma gli autori dei meme - racconta ancora la mamma di uno dei ragazzi - si sono giustificati sbandierando il black humor che ha l'obiettivo di suscitare ilarità con argomenti tabù». La donna ha già parlato con i genitori di sua conoscenza per metterli in guardia di quello che succede sui telefoni dei propri figli ma il fenomeno potrebbe essere diffuso anche in altre classi.
Le immagini che girano sul gruppo whatsapp non sono state denunciate alla polizia postale. «La mia segnalazione - chiarisce la mamma -vorrebbe sensibilizzare le famiglie, invitare i genitori a controllare quel mondo chiuso e inaccessibile che si nasconde dentro i cellulari dei nostri figli. Spesso ci sono segreti che non devono essere ignorati. Poi, magari, dovremmo reagire nel modo opportuno di fronte a tali circostanze».

(Corriere fiorentino, 22 maggio 2019)


La questione palestinese in svendita: il compromesso del secolo

Può essere utile venire a conoscere, da un sito filohamas, l'idea che hanno in ambito palestinese dell'«accordo del secolo» preparato da Trump. NsI

di Mohammad Hannoun

La lobby sionista nell'amministrazione USA, rappresentata dal trio formato dal genero di Trump, il super-sionista Jared Kushner, da John Bolton e da Mike Pompeo, considerati i "falchi" sionisti, e da Jason Greenblatt, il prossimo 25-26 giugno andranno verso Manama, la capitale del Bahrain, per liquidare, attraverso l'affare diabolico del secolo promosso da Trump e architettato dal genero Kushner, con l'appoggio del suo amico il principe saudita Mohammad Ben Salman, la Causa palestinese.
Per noi palestinesi, anche il più corrotto non potrà mai accettare di mettere sul banco come fosse merce da svendere, una questione che portiamo avanti di oltre 71 anni, nemmeno Mahmoud Abbas Abu Mazen, neanche il suo primo ministro Mohammad Shtayya.
Il popolo palestinese guarda con tutti i dubbi e sospetti il ruolo dell'amministrazione Trump nei nostri confronti, un'amministrazione molto sionista a partire dalla dichiarazione di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele.
Trump non potrà mai avere un ruolo da mediatore dopo aver espresso apertamente il suo essere sionista.
Non sarà mai possibile "normalizzare" con Israele perché è uno stato-entità coloniale razzista, ma c'è chi cerca di normalizzare attraverso un workshop per la prosperità in Medio Oriente…Chi vuole sostenere i diritti del popolo palestinese deve cessare ogni rapporto con Israele: deve boicottare, non normalizzare.
La conferenza di Manama sarà un fallimento come tutte le scommesse. Noi siamo fiduciosi perché il diritto internazionale è dalla nostra parte, così come le risoluzioni dell'ONU e i popoli liberi della Terra. Inoltre, abbiamo assoluta fiducia nella nostra resistenza, in tutte le modalità attuabili, fino alla completa liberazione della nostra Palestina storica, al ritorno di tutti i profughi alle loro cittadine e città, alla liberazione di tutti i prigionieri nelle carceri israeliane.

(infopal, 22 maggio 2019)


Una caffettiera "impossibile" non fermò l'artista ebreo che voleva essere argentiere

l libro di Gianfranco Fina racconta gelosie professionali e antisemitismo nella Torino del Settecento

di Ariela Piattelli

 
Un piatto in argento creato da Vista Levi
A metà Settecento una diatriba tra argentieri torinesi durata 4 anni scosse le stanze di Re Carlo Emanuele III. Questa storia, tra gelosie professionali e antisemitismo, è racchiusa in un faldone dimenticato conservato all'Archivio di Stato di Torino, e sarà raccontata da chi l'ha scoperta, l'antiquario Gianfranco Fina, oggi alla presentazione del suo libro «Argentieri piemontesi del '700», e all'inaugurazione della mostra a loro dedicata al Museo Ebraico di Roma.
   Nei documenti d'epoca è una caffettiera, naturalmente in argento, l'oggetto della discordia. Ma dietro al manufatto c'è la vicenda dai contorni del giallo, che ha come protagonista Moise Vitta Levi, un maestro dell'arte, figlio di un argentiere di Acqui che si trasferì a Torino. Vitta Levi fece domanda alla corporazione degli argentieri per poter sostenere l'esame e diventare maestro a tutti gli effetti, ovvero poter aprire bottega, fare ogni tipologia di oggetto, compresi quelli grandi «di grosseria», firmare con il marchio personale.
   All'epoca agli ebrei come Moise non era concesso di entrare a far parte della corporazione, ma era permessa qualche eccezione per «grazia» del Re. Quando Vita Levi chiede nel '53 ai sindaci dell'Università degli orefici di sostenere l'esame, lui era già, di fatto, un maestro di grande talento. Poteva lavorare, in quanto artigiano ebreo, soltanto oggetti di piccola taglia, ma li rendeva delle vere e proprie opere d'arte. «L'argento antico era un materiale preziosissimo, molto più di quanto lo sia oggi. Valeva come l'oro - racconta Fina - L'argento vive in continuazione, perché si fonde e si rilavora. Ma per lavorarlo da maestro d'arte serve immaginazione e abilità tecnica, qualità che Vitta Levi aveva da vendere, e questo, assieme al fatto che l'argentiere fosse ebreo, dava un certo fastidio: far entrare il candidato nel già affollato Olimpo dei maestri, sarebbe stato un problema. A quell'epoca a Torino c'erano 70.000 abitanti, tra cui 1000 ebrei. Gli argentieri erano un centinaio. Per la corporazione questi dovevano essere cattolici». È così che i sindaci fanno «orecchie da mercante», ed ignorano la richiesta di Vitta Levi, che si appella al Re ed ottiene la possibilità di essere esaminato.
   «L'ebreo», come viene chiamato in tutti i documenti, dopo due anni di appelli, suppliche e richieste, è così ammesso all'esame, e da questo momento inizia un percorso fatto di polemiche, prove sabotate, giuramenti, testimonianze, piccoli dispetti ed angherie. Tra i capi d'opera richiesti al candidato c'è una caffettiera «a contorno storto» che lui disegna con impegno e maestria. Ma agli esaminatori la creazione non piace, secondo loro la caffettiera non si terrebbe neanche in piedi. Quindi inutile dar seguito all'esame. Vitta Levi si appella di nuovo, spiegando che di meglio non sa fare e lancia una provocazione: «Faccio istanza ad uno di loro signori di formare un altro secondo la loro dimanda», ovvero che la facciano loro, gli esaminatori, la caffettiera.
   Carlo Emanuele III, dopo l'ennesimo appello, concede la possibilità all'artigiano di creare la sua caffettiera, e Vitta Levi coglie l'opportunità, appoggiandosi a una bottega fuori dal ghetto, dove può lavorare soltanto di giorno. Alla sera è costretto a chiudere il manufatto in una cassetta, con tanto di sigillo, per dimostrare di non lavorarlo di notte nel ghetto in cui è segregato. Era l'ennesimo dispetto per ostacolarlo in ogni modo. Nel frattempo gli si chiedono rimborsi, soldi per il materiale, e per il «disturbo» dell'Università. E lui, con sei figli a carico, nei tre mesi concessi non riesce a completare il lavoro.
   «Finì l'oggetto un po' di corsa - continua Fina - lo presentò di persona al Re, a cui piacque e "per sua grazia" gli concesse l'autorizzazione ad entrare nella corporazione. Però non verrà mai accolto veramente nel circolo». Siamo nel '57, Moise adesso può creare opere di grosseria e firmarle con il suo marchio.
   «È stato un grande maestro, ha prodotto opere importanti, - continua l'antiquario - come i due piatti per Pesach (la Pasqua ebraica) di cesello e raffinatezza unica, esposti nella mostra a Roma».
   Si direbbe un lieto fine, ma la storia continua con i due figli maschi di Vitta Levi: Pacifico, che segue con successo le orme del padre, scamperà alla rigida burocrazia grazie a Napoleone che sopprime le corporazioni. Lui potrà lavorare tranquillo, e produrrà una grande quantità di opere. Al Museo Ebraico di Roma ci sono anche le sue coppe, i piatti, ed i candelieri per lo Shabbat.
   Il figlio minore Isachia però vivrà la Restaurazione, il rientro dei Savoia, con cui tornano anche le corporazioni. Nel 1818 l'aspirante argentiere si appellerà all'Università e chiederà di non aver filo da torcere come fu per il padre, allegando alla missiva i faldoni del processo. La commissione prometterà un esame facile, ma di Isachia oggi non sembra esserci traccia: «Non sappiamo se passò la prova. - spiega Fina - Io non ho mai trovato il suo marchio».

(La Stampa, 22 maggio 2019)


Riattivazione dell'elettricità nel palazzo occupato da Action

Aperta un'inchiesta

ROMA - Una denuncia contro ignoti presentata da Areti Spa, la società di Acea che gestisce la distribuzione elettrica capitolina, è giunta fino alla Procura di Roma, la quale ha aperto un fascicolo relativo ai fatti accaduti nello stabile occupato da Action in via Santa Croce di Gerusalemme 55: qui l'11 maggio scorso il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa, si era calato nei tombini dell'edificio per riallacciare la corrente elettrica, interrotta per una morosità di 300mila euro degli occupanti dello stabile. Come riportato dal Tempo, "il reato ipotizzato dal denunciante, un funzionario di Areti, è furto aggravato d'energia". Per questa tipologia di reato l'autorità giudiziaria deve procedere d'ufficio, per cui "a questo punto è d'obbligo l'apertura di un fascicolo". Sebbene la denuncia sia stata sporta contro ignoti, il cardinale si è subito attestato la paternità del gesto, assumendosene la responsabilità, e ora rischia di essere iscritto al registro degli indagati.

(Il Primato Nazionale, 22 maggio 2019)


La strategia iraniana colpevolmente sottovalutata dall'Occidente

Una crisi grave e importantissima, che non è seguita con sufficiente attenzione

 
La strategia espansionista dell'Iran in Medio Oriente
Iran, USA e Medio Oriente. Pochi fanno caso a quel che accade in Medio Oriente salvo che Israele sia coinvolto, possibilmente nella posizione dell'imputato. Anche se il rischio di una guerra è abbastanza alto, come in questi giorni. Le notizie vengono date dai giornali, anche se senza troppo rilievo, ma è difficile che il pubblico le metta assieme e ne tragga le conseguenze.
   La storia è questa. L'Iran aveva accettato il trattato sulla limitazione del suo armamento atomico, offerto da Obama, dall'Unione Europea, da Russia e Cina, con la ragionevole convinzione di trarne solo vantaggi. In cambio della riduzione provvisoria e poco verificabile dell'arricchimento dell'uranio, parte essenziale dell'armamento nucleare che l'Iran sta perseguendo da vent'anni, le maggiori potenze economiche e militari del mondo gli offrivano l'annullamento delle sanzioni causate proprio dal riarmo e dal comportamento aggressivo, offrendogli riparazioni e lauti affari. Nelle trattative si era accennato all'imperialismo iraniano, al suo programma missilistico, alle minacce che distribuiva contro i suoi nemici. Ma nulla di questo era finito nel trattato, e anzi l'Iran aveva tratto dalla firma dell'accordo la convinzione di essere legittimato a esercitare un'egemonia regionale sul Medio Oriente. Ai danni naturalmente di Israele e dei paesi sunniti che rifiutavano il dominio dell'Iran, come Egitto e Arabia.
   Dato che, per una "furbata" procedurale di Obama, l'accordo non era mai stato sottoposto alla ratifica del Senato come la costituzione americana richiede per i trattati internazionali, Trump è potuto uscirne facilmente, giudicandolo pessimo: ha restaurato le sanzioni all'Iran e ha costretto gli europei a obbedire. Trump non vuole che le truppe americane restino in Medio Oriente e non vuole la guerra. Pensa però che sia necessario costringere l'Iran a rinunciare al suo imperialismo, che nel frattempo si è molto esteso, anche grazie alla protezione della Russia: ha conquistato in pratica Siria e Libano, minaccia Israele (a 1000 km dalla sua frontiera), ha provocato la guerra civile in Yemen (anch'esso molto lontano dai suoi confini). Il piano iraniano è molto lucido e preveggente. Cerca di stabilire il proprio controllo sui due stretti che chiudono il mar Rosso e il Golfo persico, essenziali per il commercio petrolifero mondiale e anche per i collegamenti dell'Europa, di Israele e dell'Egitto con l'Oriente; ha costruito un collegamento terrestre fra il suo territorio e il Mediterraneo, che usa per portare il suo esercito vicino a Israele (e in prospettiva all'Europa), ha costruito una solida alleanza con la Russia e con la Corea del Nord, ha buoni legami con la Cina e con la Turchia, ha trovato nel Qatar un alleato nel mondo sunnita, costruisce sistemi missilistici che potranno portare le armi atomiche (quando verranno) in mezzo mondo, ha reso suoi mercenari i principali gruppi terroristici di Gaza e del Libano, ha asservito i dirigenti Siriani e Iracheni, arma con molto anticipo basi militari in tutto il Medio Oriente. In questa politica imperialista spende somme gigantesche, anche se l'economia iraniana è in grave difficoltà.
   Di fronte a questa situazione e al crescendo di provocazioni dell'Iran contro l'America e i suoi alleati, Trump non poteva lasciar perdere, continuare il ritiro annunciato dalla Siria e dall'Iraq senza fare nulla. Il costo sarebbe stato la conquista iraniana di buona parte del Medio Oriente (che anche se il petrolio arriva anche da fonti americane sicure, resta uno snodo strategico importantissima), con il conseguente isolamento dell'Europa e lo scoppio di una guerra difensiva da parte di Israele, Egitto, Arabia. Ma sarebbe stata messa in crisi la credibilità americana nel mondo, già duramente messa alla prova dagli errori di Obama e dei suoi predecessori. D'altro canto anche la teocrazia iraniana non può rinunciare senza gravissimi problemi al suo progetto imperialista: il costo per gli ayatollah sarebbe probabilmente una rivolta generalizzata, la resa dei conti di quarant'anni di politica estremista, di oppressione politica e religiosa, di ladrocinio generalizzato. Per loro, al di là di qualunque credenza religiosa, è questione di vita o di morte.
   Questo è il gioco difficilissimo e pericolosissimo che si gioca in questi giorni soprattutto nel Golfo Persico, ma che coinvolge almeno in parte Israele, che da anni svolge una guerra sempre più aperta contro la costruzione di una forza militare iraniana ai propri confini e che ancora nei giorni scorsi ha bombardato impianti e depositi militari iraniani in Siria. Non per divertimento, naturalmente e neppure perché Israele abbia mire di potere sulla Siria. Ma solo perché per Israele è questione vitale impedire l'accumulo di armi e di truppe nemiche ai propri confini, pronte a tentare l'invasione al primo momento che giudicassero opportuno.
   Il mondo farebbe bene a guardare con attenzione a questa situazione e ad appoggiare il presidente Trump che si sta prendendo il rischio di domare l'equivalente contemporaneo della Germania nazista.

(Progetto Dreyfus, 21 maggio 2019)



Il presidente Mattarella visita il Memoriale della Shoah di Milano

di Paolo Castellano

 
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha visitato il Memoriale della Shoah il 21 maggio. La sua visita è durata circa 45 minuti. Ad accogliere Mattarella, la senatrice a vita Liliana Segre, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il Presidente del Memoriale Roberto Jarach. Hanno assistito alla visita istituzionale del presidente della Repubblica anche il rieletto presidente della Comunità ebraica di Milano Milo Hasbani e Gadi Schoenheit, entrambi appartenenti alla lista Milano ebraica.
Roberto Jarach ha commentato così la visita di Sergio Mattarella: «Vogliamo ringraziare di cuore il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la visita di oggi al Memoriale. Le istituzioni sono custodi della memoria di un popolo, un ruolo e una responsabilità di cui, oggi più che mai, noi tutti sentiamo forte la necessità» ha dichiarato il presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano. «La mostra al Quirinale 1938: l'umanità negata - Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz a cui abbiamo avuto il piacere di collaborare e per cui abbiamo in progetto la possibilità di allestimento qui, al Memoriale di Milano, e la nomina di Liliana Segre a senatrice a vita, rappresentano la piena comprensione di questa funzione da parte delle Istituzioni, e dimostrano l'attenzione della Presidenza della Repubblica nei confronti di un tema, oggi così centrale, come quello della memoria».

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2019)


Le mani della Cina su Israele: ora punta sulla metro di Tel Aviv

di Federico Giuliani

Necessità, interessi economici, strategia politica: questo è molto altro si trova alla base della scelta di Israele di avvicinarsi sempre di più alla Cina. Anzi, il paradigma funziona meglio se invertiamo i soggetti. È la Cina che, sfruttando il fattore commerciale, sta infilando i suoi artigli a Tel Aviv e dintorni.

 Cinque società cinesi in gara
  L'ultima notizia riguarda una gara pubblica indetta dal governo israeliano per la costruzione della linea verde della metropolitana leggera di Tel Aviv. A contendersi l'appalto ci sono cinque società cinesi, che presenteranno le loro offerte in una sfida fratricida. Come riporta il quotidiano israeliano Globes, in lizza troviamo China Railway Construction oltre a tre soggetti già attivi sul suolo israeliano. China Railway Tunnel Group è alle prese con la realizzazione della linea rossa della stessa metropolitana, mentre China Harbour sta costruendo una parte del porto di Ashdod. A seguire troviamo China State Construction, in passato vicina a entrare nel settore dell'edilizia residenziale d'Israele, e Power China, impegnata con la centrale idroelettrica di Gilboa.

 La nuova linea verde
  Gran parte della metro di Tel Aviv sarà dunque made by China. Il costo per la nuova linea verde è stimato in 15 miliardi di shekel, cioè più o meno 3,75 miliardi di euro. I lavori dovrebbero iniziare nel 2020 e comportano la realizzazione di un tunnel di quasi 5 chilometri assieme a tre stazioni sotterranee.

 I rapporti sempre più stretti fra Pechino e Tel Aviv
  Cina e Israele si sono avvicinati soltanto da pochi anni. Pechino mira a rubare lo storico alleato degli Stati Uniti offrendogli una mano per quanto riguarda la realizzazione di infrastrutture strategiche. Il piano fin qui funziona, visto che oltre sul porto di Asdod il Dragone ha le mani pure su quello di Haifa. Controllare i porti israeliani, per la Cina, significa avere uno sbocco nel Mar Mediterraneo, aspetto fondamentale per il progetto della Nuova Via della Seta. Dall'altra parte Israele spera di penetrare nel mercato cinese, e magari ritagliarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere asiatico. Intanto basta imprimersi nella mente un dato: gli investimenti della Cina in Israele hanno toccato quota 16 miliardi di dollari, una cifra presto destinata ad aumentare.

(InsideOver, 21 maggio 2019)


Comunità ebraica di Milano, vincono i «laici»

A sorpresa prevale Hasbani, Vital indicata come portavoce. Fair play di Besso.

di Alberto Giannoni

Milo Hasbani
Ha vinto «Milano ebraica». Un po' a sorpresa, è stata la lista di Milo Hasbani a prevalere nelle elezioni per il rinnovo del Consiglio della Comunità ebraica di Milano, le prime celebrate col nuovo sistema «maggioritario», varato per garantire un esito netto e un vincitore, escludendo altri «pareggi» con conseguenti «stalli».
   Hasbani è stato, nell'ultimo mandato, co-presidente insieme a Raffaele Besso. Poi entrambi si sono ricandidati, rispettivamente a capo delle due liste che si sono affrontate nelle urne, domenica: Hasbani con «Milano Ebraica», Besso con «WellCommunity». Sfumati i riferimenti politici: entrambe le compagini annoveravano candidati di vario orientamento. Ma la prima lista è l'erede dell'area che rappresenta l'anima più laica e «progressista» della Comunità, mentre l'altra si può iscrivere nell'area più «tradizionalista».
   Mosaico, il portale della Comunità, ieri ha raccolto le dichiarazioni dei protagonisti: «Siamo molto soddisfatti che il nostro impegno sia stato premiato ha detto Hasbani - un buon programma e un'ottima squadra hanno ottenuto il risultato di fare breccia sull'elettorato. Siamo pieni di entusiasmo e di energia. Con l'altra lista abbiamo in comune l'amore per la comunità e la volontà di lavorare per il bene collettivo». Raffaele Besso ha sportivamente accettato i risultati: «Faccio i complimenti a Milo Hasbani e alla sua lista, - ha detto - onore al merito, sono stati molto bravi. In questo Consiglio cercheremo di fare rispettare i nostri valori e le nostre idee, dalla opposizione o, se sarà possibile, in un clima di collaborazione con la lista vincitrice».
   La lista vincitrice, prima del voto, ha indicato Roberta Vital come portavoce della Comunità in caso di vittoria. «Stiamo attraversando un momento delicato in cui l'antisemitismo sta rialzando la testa - ha detto Vital alla vigilia - Stiamo assistendo alla normalizzazione del razzismo e dell'odio anti ebraico, stiamo leggendo parole pericolose rivolte allo Stato di Israele volte e ricordiamo bene dove questo ci può portare».

(il Giornale - Milano, 21 maggio 2019)



Il romanzo censurato

Scrive di un attacco iraniano su Tel Aviv. "lslamofobo". E l'editore manda al macero il libro di Kestin.

di Giulio Meotti

ROMA - Che il regime iraniano desideri la distruzione di Israele non è certo un mistero. La Guida Suprema, Ali Khamenei, ha pubblicato anche un libretto di istruzioni sulla fine dello stato ebraico. A Teheran, c'è un orologio che segna l'ultima ora di Israele. E anche l'attuale presidente, il "moderato" Hassan Rohani, lo scorso novembre ha definito Israele "tumore canceroso". Israele a sua volta prende molto sul serio le minacce iraniane. Che un giornalista possa raccontare tutto questo in forma di narrativa, di fiction, è meno scontato. E' quello che è successo al giornalista israelo-americano Hesh Kestin, che due settimane fa ha pubblicato per la casa editrice statunitense Dzanc il suo nuovo romanzo, "The siege of Tel Aviv", thriller fantascientifico ma nemmeno troppo su un attacco iraniano a sorpresa contro Israele, che aveva il blurb di Stephen Kìng: "Il romanzo di Hesh Kestin è più spaventoso di qualsiasi altro scritto da Stephen King". Dopo la sconfitta, i cittadini israeliani sopravvissuti sono radunati nel centro di Tel Aviv, che diventa un ghetto dove si attende evacuazione o annientamento. Quello che è successo dopo, purtroppo, è diventato una scena fin troppo familiare nell'editoria americana. Gli attivisti letterari si sono rivolti immediatamente a Twitter per denunciare il romanzo come "razzista" e "islamofobico". Forse non è andato loro giù questo passaggio:
   "Mentre gli Stati Uniti e l'occidente assistevano, gli eserciti musulmani si preparavano a uccidere l'intera popolazione". Dopo aver chiesto la cancellazione del romanzo, l'editore ha tentato di rilasciare una dichiarazione conciliante, invitando gli oppositori a leggere il romanzo prima di condannarlo. Passano i giorni ed emergono altre denunce e la casa editrice alla fine cede. E Dzanc annulla la pubblicazione. L'editore ha "imparato la lezione". "Razzista", ha scritto Nathan Goldman della rivista ebraica di sinistra Jewish Currents. E gli fa eco il poeta Cortney Lamar Charleston. John Englehardt, prossimo autore della casa editrice, tuitta di essere "molto deluso dalla pubblicazione di 'Siege of Tel Aviv"'. L'editore fondatore di Dzanc, Steve Gillis, dice che "non è mai stato nostro intento pubblicare un romanzo che mostrasse i musulmani come cattivi". Emma Smith-Stevens, autrice di "The Australian", annuncia su Facebook di aver riconsegnato i diritti sul suo prossimo libro in segno di protesta. L'editore di Kestin lo informa che le copie invendute sarebbero finite al macero.
   Kestin ha risposto autopubblicando il romanzo con l'aiuto di Amazon ed è probabile che venda più copie grazie alla controversia di quante ne avrebbe vendute senza. La furia satirica del romanzo non si limita ai suoi invasori musulmani. Anche la leadership americana ne esce male. Il presidente degli Stati Uniti è un Ivy Leaguer antisemita concentrato esclusivamente sulla propria rielezione. La politica estera degli Stati Uniti è determinata dal prezzo nelle pompe di benzina. Quindi, quando i sauditi minacciano di tagliare i rifornimenti di petrolio, la neutralità americana è assicurata, e quando sei milioni di rifugiati ebrei cercano un posto dove riparare, gli Stati Uniti e l'Europa si mostrano contrari. Suona familiare? Anche la classe politica israeliana è presa a pugni, troppo occupata a celebrare una implausibile offerta di pace per accorgersi delle concentrazioni iraniane oltre i confini. Il romanzo è simile ad altri. Come "Here I am" di Jonathan Safran Foer, in cui lo stato ebraico è paralizzato da un terremoto e invaso dai vicini arabi. Come "The Yiddish Policemen's Union", in cui Michael Chabon immagina gli ebrei post-Shoah fuggire in Alaska dopo che Israele è distrutto. "Hanno abbandonato la norma che noi vecchi credevamo sacrosanta: che tu possa avere opinioni impopolari", ha detto Kestin sull'autocensura del proprio editore. "Abbiamo incontrato il nemico e siamo noi". E non eravamo molto diversi dagli ayatollah iraniani che censurano i libri.

(Il Foglio, 21 maggio 2019)


Accordo Israele-Hamas per una tregua di sei mesi

 
Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per una tregua di 6 mesi mediata da Onu ed Egitto. Lo hanno riferito alcuni media israeliani, ma un portavoce del Movimento islamico ha negato, sottolineando che "il cessate il fuoco è in cambio dell'impegno di Israele ad attuare tutti gli accordi presi". Secondo Channel 12, l'intesa include l'obbligo per Hamas di mettere fine alle violenze lungo il confine tra la Striscia di Gaza e lo Stato ebraico, agli scontri notturni con l'esercito israeliano, al lancio di palloni incendiari e ai tentativi delle barche di violare il confine marittimo. Il gruppo palestinese si impegnerebbe inoltre a mantenere una zona cuscinetto di 300 metri dalla barriera. In cambio, Israele estenderà la zona di pesca fino a 15 miglia nautiche, darà il via libera ai programmi dell'Onu 'cash-for-work' che servono per sostenere la popolazione impoverita, permetterà l'ingresso nella Striscia di medicine e altri aiuti per i civili e aprirà negoziati su questioni riguardanti l'elettricità, i valichi, la salute e i fondi.

(AGI, 20 maggio 2019)


Hamas e il business dei viaggi

I dati forniti dalle organizzazioni internazionali di aiuto all'ONU, come la UNRWA, rivelano che nel 2018 ci sono state 60.907 partenze dalla Striscia di Gaza verso l'Egitto attraverso il valico di Rafah e 37.075 arrivi a Gaza. Da questi dati comparabili ottenuti da altre fonti e secondo le stime in Israele, il numero di partenze da Gaza lo scorso anno ha raggiunto 35.000.
   Secondo la testata Haaretz, all'inizio, Hamas ha visto l'apertura degli incroci come una nuova fonte di reddito, dal momento che il gruppo terroristico era in grado di fornire i migranti di passaporti, visti fiscali e permessi supplementari. Poi si è sviluppata un'industria di corruzione intorno a questa ondata migratoria, e oggi coloro che vogliono accelerare le loro procedure e assicurarsi che i vari permessi arrivino in tempo sono tenuti a pagare i funzionari del governo a poche centinaia di dollari ciascuno.
   D'altra parte l'Egitto si fa carico degli abitanti di Gaza, i quali desiderano volare in Europa, per il trasporto dal valico di Rafah all'aeroporto. Questi infatti sono tenuti a presentare un biglietto aereo per la specifica data di partenza e non possono soggiornare in Egitto al di fuori dell'area aeroportuale, vista la mancanza di un aeroporto battente bandiera palestinese.
   Secondo fonti interne alla Striscia di Gaza, dal momento che Hamas ha finalmente capito che il valico di Rafah permette alla generazione giovane, istruita e relativamente benestante della Striscia, che comprendeva 150 medici, di lasciare in massa, ora sta cercando di frenare questa tendenza. Il governo di Hamas ha già vietato ai medici di lasciare la Striscia di Gaza.
   Molti degli abitanti di Gaza in partenza volano in Turchia, dove vengono portati in Grecia, per proseguire il viaggio verso altri paesi dell'Unione Europea. Tra le dozzine di profughi che sono morti quando una barca affondò al largo della Turchia in aprile c'erano 13 arabi fuggiti da Gaza. Il viaggio costa complessivamente $ 4,000, che gli abitanti di Gaza spesso prendono in prestito dai prestatori locali contro i loro guadagni futuri all'estero.
   Le destinazioni preferite per chi parte sono Germania e Svezia.
Haaretz ha anche riportato un aumento del consumo di droghe pesanti e della prostituzione diffusa nella Striscia di Gaza. C'è anche un aumento di elemosine sulle strade, che Hamas teme per il morale generale.
   D'altra parte, i suicidi sono diminuiti nella Striscia di Gaza, presumibilmente perché Hamas, facendo leva sulla disperazione, ha garantito che chiunque venga ucciso dall'IDF durante le rivolte di confine sarebbe ricompensato con le pensioni per le proprie famiglie.

(European Affairs, 20 maggio 2019)


Lombardia/Israele: collaborazione costante per sviluppo

Progetti ad alto contenuto tecnologico

MILANO - Il vicepresidente di Regione Lombardia e assessore alla Ricerca, Innovazione, Università, Export e Internazionalizzazione delle imprese, Fabrizio Sala, ha incontrato oggi a Palazzo Pirelli l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs.
"Vogliamo creare un team che collabori costantemente con Israele in diversi campi - ha dichiarato il vicepresidente - da quello dell'automotive a quello aerospaziale, passando per quello sanitario".
"Dopo la missione dello scorso mese di marzo - ha proseguito - questa mattina con l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs abbiamo stilato un piano comune per favorire ricerca e innovazione e migliorare sensibilmente la vita dei nostri cittadini attraverso i continui progressi tecnologici".
"La Lombardia - ha concluso il vicepresidente - può mettere in campo le sue competenze e Israele la sua grande capacità innovativa di sviluppare progetti ad altissimo contenuto tecnologico".

(aise, 20 maggio 2019)


Il primo robot tuttofare, che vola e guida su terreni difficili

Il mondo della robotica è in continua evoluzione: i ricercatori della Ben-Gurion University del Negev (BGU), in Israele, hanno realizzato il primo robot davvero tuttofare, che vola e guida su terreni difficili. Si chiama FSTAR e verrà presentato al mondo domani a Montreal, alla Conferenza internazionale sulla robotica e l'automazione 2019. Si tratta di uno dei mezzi più avanzati e versatili mai realizzati, con applicazioni che coprono una vasta gamma di settori, dall'agricolo allo spettacolo (riprese), dalla consegna di pacchi in modo preciso e silenzioso agli interventi anti terrorismo.

 Il robot multifunzione che vola, guida e si stringe
  FSTAR è il primo drone robot sperimentale così versatile. È stato sviluppato nel BGU Bio-Inspired and Medical Robotics Lab dal prof. David Zarrouk, e alla base ha un motore quadricottero che permette al mezzo di sorvolare gli ostacoli o correre sotto di loro.
  La sua struttura innovativa gli consente di trasformare il movimento e cambiare configurazione, da quella tipica del volo di un quadricottero a quella di un'auto in corsa, ma non solo: l'automa israeliano si autoregola nella lunghezza per poter strisciare o correre su superfici piane, scavalcare ostacoli di grandi dimensioni e adattarsi su pareti ravvicinate. Può anche comprimersi quando si trova a dover passare attraverso un tunnel, un tubo o spazi stretti. Il video mostra le sue potenzialità.

 Dalla consegna di pacchi agli interventi militari
  Grazie ai soli 4 motori utilizzabili per tutti gli usi, la creatura della BGU consuma poca energia e può correre a terra su terreni accidentati raggiungendo una velocità di 2,6 metri al secondo. Questo lo rende un mezzo ideale per applicazioni di vario tipo e per lavori di fatica e tempi lunghi. Si pensa a un impiego nelle consegne di pacchi (volando velocemente o guidando silenziosamente verso una zona preimpostata, fino alla porta del destinatario).
  Ma FSTAR può anche essere utilizzato per le azioni di ricerca e soccorso, per la sua capacità di sorvolare gli ostacoli e strisciare sotto le fessure, cose che un drone normale non può fare. Altri campi di applicazione potrebbero essere agricoltura, manutenzione, pulizia, riprese video e usi militari anti terrorismo.

(Quotidiano.net, 20 maggio 2019)


Gli avvocati di Netanyahu avviano consultazioni con l'ufficio del procuratore generale

GERUSALEMME - Gli avvocati del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno avviato i colloqui con l'ufficio del procuratore generale, Avichai Mandelbit, per fissare un'audizione preliminare del capo dell'esecutivo in relazione a tre presunti casi di corruzione. Secondo quanto riferisce il quotidiano economico "Globes" gli avvocati del premier cercheranno di posticipare l'audizione di sei mesi, mentre il procuratore generale sarebbe propenso a concedere un posticipo minore. Al momento, quindi, appare concreta la possibilità che l'audizione del premier non avvenga il prossimo 10 luglio. Lo scorso 10 maggio gli avvocati di Netanyahu avevano chiesto di rinviare oltre il termine previsto del 10 luglio l'audizione del capo dell'esecutivo su tre casi di corruzione. I legali avevano motivato la richiesta spiegando che il loro assistito ha dovuto affrontare tre casi "complessi", non soltanto uno. In particolare, i legali spiegano di non essere riusciti a raccogliere le prove dopo che il 10 aprile scorso il procuratore generale Avichai Mandelbit ha consegnato il materiale che incriminerebbe Netanyahu.

(Agenzia Nova, 20 maggio 2019)


Beresheet: la NASA mostra il luogo di impatto del lander israeliano

 
Nonostante non sia riuscita nel suo atterraggio, forse Beresheet potrebbe rivelarci lo stesso delle preziose informazioni sul nostro satellite. Da alcune immagini del sito dove il lander israeliano si è schiantato, potrebbero infatti emergere importanti indizi sulla conformazione del suolo lunare in quel punto.

 Il Lunar Reconnaissance Orbiter: uno strumento prezioso
  L'immagine in questione è stata scatta dalla sonda NASA Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO), che dal 2009 orbita attorno al nostro satellite analizzandone il suolo da un altitudine tra i 50 ed i 200 km. Il suo scopo originario era quello di individuare dei siti di particolare interesse in cui atterrare con il lander e che avessero delle caratteristiche appropriate per il successo delle missioni. Adesso invece svolge delle vere e proprie indagini scientifiche, mappando la superficie lunare, analizzandone la temperatura e regalandoci delle meravigliosi immagini ad alta risoluzione.
  In particolare le immagini del sito in cui si è schiantato il lander israeliano Beresheet, sono state scattate dalle videocamere ad angolo stretto (Narrow Angle Cameras - NAC). Sul LRO ci sono due camere NAC che scattano immagini pancromatiche e sono accompagnate da due fotocamere grandangolari (Wide Angle Cameras - WAC). Le WAC sono in grado di scattare immagini su una scala di 100 metri per pixel, in sette bande di colore.
  I dati provenienti da entrambi i tipi di fotocamere sono inviati al Sequence and Compressor System (SCS), che insieme alle fotocamere forma il complicato apparato di cattura delle immagine del Lunar Reconnaissance Orbiter, rendendolo in grado di scattare fotografie altamente dettagliate della superficie lunare.

 Il particolare sito di impatto di Beresheet sulla Luna
  Da questa complessità tecnologica ed ottica, sono nate le immagini che mostrano il sito di impatto di Beresheet, sul quale sembra che la sonda non abbia lasciato un cratere. Dalle immagini infatti, gli scienziati non sono riusciti ad affermare con certezza che lo schianto del lander abbia provocato un cratere sulla superficie della Luna.
  In proposito il dott. Mark Robinson della Arizona State University, ha dichiarato che "alla scala dell'immagine NAC non possiamo rilevare un cratere; forse ce n'è uno, ma è semplicemente troppo piccolo per essere visto". Potrebbe anche essere però, sempre secondo il dott. Robinson, che Beresheet abbia avuto un impatto sulla superficie con un angolo talmente da basso da produrre solo una profonda scalfittura, piuttosto che un cratere. Ma potrebbe anche darsi che, il peso leggero e le ridotte dimensioni di Beresheet, non fossero sufficienti per creare un cratere sulla Luna, potrebbe addirittura essersi disintegrata prima dell'impatto.
  Lo schianto del lander sulla Luna è dunque considerato un cratere di piccolo impatto, un evento che nonostante l'insuccesso della missione, potrebbe comunque fornire indirettamente delle informazioni sul suolo della Luna che, chissà, potrebbero anche essere utili per la futura missione Beresheet 2, che tutti ci auguriamo abbia stavolta un gran successo.

(FochusTECH, 20 maggio 2019)


Quel negazionismo di sinistra

"La nostra rappresentazione del male è limitata esclusivamente alla peste marrone" scrive Pascal Bruckner. "Non viene in mente a nessuno di includere la catastrofe del comunismo e le sue decine di milioni di morti in questo disco. Sebbene molti intellettuali combattano sulle orme di Hannah Arendt, Raymond Aron, François Furet, per bilanciare il totalitarismo, il doppio standard continua. Come sottolinea lo storico Thierry Wolton in un libro agghiacciante e malinconico, non c'è stata una Norimberga per il comunismo. L'Urss è crollata senza processo e la Russia, come la Germania post nazista, non ha fatto il lavoro della memoria. Questo negazionismo che minimizza i fatti o li deforma non sorprende nessuno quando si tratta di valutare la storia della Cina, del blocco sovietico o della Cambogia. I regimi marxisti sono sempre perdonati a causa della purezza delle loro intenzioni. Mantengono il monopolio della speranza e sembrano esenti da una condanna per il semplice fatto della nobiltà del loro ideale.
   Eppure, se il fascismo uccideva in nome della razza, il comunismo uccideva inesorabilmente in nome della classe. Silenzio assordante. I due negazionismi si uniscono nella sintesi rosso-bruna di cui oggi tanti nostri intellettuali si fanno testimoni. Serge Thion, attivista di estrema sinistra, ardente difensore dei Khmer rossi come il linguista Noam Chomsky, sostiene Robert Faurisson nella negazione dell'olocausto. Il negazionismo di sinistra oscilla tra due posizioni: attenua gli orrori osservati - 'i comunisti non hanno il sangue fino ai gomiti', esclama Jean-Luc Mélenchon. O per sostenere che il vero comunismo non è mai esistito, che deve ancora venire. Il silenzio assordante che accompagna l'ordalia comunista deriva dall'impunità che fornisce ai suoi difensori. Né la rovina economica né la desolazione culturale ed ecologica sono imputate a loro. Non sorprende che la morte del messianismo comunista abbia liberato uno spazio di utopia in cui la jihad si è infilata. Le giovani generazioni, avendo dimenticato il disastro sovietico e maoista, ora vedono il capitalismo solo come la fonte del male. Applaudono i vecchi stalinisti arroccati su una montagna di cadaveri e trovano la seduzione nelle utopie marxiste".

(Il Foglio, 20 maggio 2019)


Unisce Israele e Palestina: bufera su Madonna

Sul palco la popstar sventola entrambe le bandiere. Gli organizzatori: «Noi ignari».

di Paolo Giordano

Mettete del pop nei vostri cannoni. Oppure due ballerini che si abbracciano con le bandiere di Israele e Palestina. Mentre Mahmood si giocava il secondo posto all'Eurovision Song Contest di Tel Aviv, Madonna ha confermato di essere ancora al primo posto tra le popstar. L'altra sera in quello un tempo conosciuto come Eurofestival ha fatto due colpacci in uno. Intanto si è dimostrata ancora una volta la più indipendente di tutte le signore del pop, quella che se ne frega di tutti.
   Per frenare la sua (pagatissima, si dice 1,3 milioni di euro) apparizione alla finale del Festival tanti opinion leader e rockstar si erano scatenati contro di lei. Mica gente qualunque ma associazioni pro-palestinesi e superstar come Roger Waters dei ( defunti) Pink Floyd e figure di culto come Bobby Gillespie dei Primal Scream («È una prostituta») che hanno sfruttato tutta la propria influenza per farla rinunciare a esibirsi in eurovisione nell'odiatissimo Israele. Figurarsi. Madonna, che sta per pubblicare l'attesissimo disco Madame X, è sbarcata a Tel Aviv senza fare una piega con il suo mastodontico seguito di assistenti e ha fatto lo show.
   In tutti i sensi.
   Oltre a presentare una rivisitazione di Like a prayer (sono giusto trent'anni dalla pubblicazione), ha cantato con il rapper Quavo il nuovo singolo Future mentre due ballerini si mostravano al pubblico con le bandiere di Israele e Palestina sulle spalle. Poi si sono abbracciati. Un colpo di scena che qualcuno aveva immaginato ma che l'Unione Europea di Radiodiffusione (Ebu) ha smentito di aver approvato preventivamente: «Quella parte di show non era comparsa nelle prove».
   In ogni caso, missione compiuta. Tutto il mondo ieri ha parlato di Madonna, del suo look corsaro con un occhio bendato, un po' Game of Thrones e un po' heavy metal, e di questa scelta spettacolare, ma estremamente efficace, di mettere insieme le bandiere di due stati che si combattono da decenni.
   D'accordo, il regolamento dell'Eurovision proibisce agli artisti di promuovere qualsiasi «organizzazione, istituzione, causa politica, marchio o prodotto». Ma Madonna e il suo staff non sono principianti e quindi hanno scelto una strada «equidistante». Insomma, non è stata una scelta politica, non è stata la promozione di un marchio ma un chiaro invito alla pace. Punto.
   Di certo, tanto per capirci, Roger Waters, caloroso attivista pro Palestina, non ha mai preso una posizione pacifista così chiara, anzi, è da sempre schierato drasticamente contro Israele senza se e senza ma. Alla fine, nonostante molti dicano che la sua performance vocale non sia stata ineccepibile, Madonna ha «fatto» lo show alla propria maniera: spettacolo, impegno, polemiche. E mentre i siti e i social di tutto il mondo impazzivano dopo la sua performance, la gara andava avanti con la vittoria del favoritissimo Duncan Laurence che ha dato all'Olanda il primo posto dopo 44 anni. Il «microfono di cristallo» se lo è preso lui e quindi all'Olanda toccherà organizzare la prossima edizione. E il secondo posto di Mahmood conferma la grande qualità del suo brano e, soprattutto, la dimensione sempre più internazionale del nostro pop. Non a caso, l'altro recente secondo posto all'Eurovision è stato di Raphael Gualazzi, un compositore che sa parlare all'Europa.

(il Giornale, 20 maggio 2019)


I palestinesi evitano la conferenza economica guidata dagli Stati Uniti

Dicono che non sono stati consultati

 
Il primo ministro palestinese
RAMALLAH - I palestinesi non parteciperanno ad una conferenza a guida Usa in Bahrein il mese prossimo che l'amministrazione Trump ha lanciato come preliminare al lancio del suo piano per fare pace con Israele, ha detto un ministro palestinese lunedi.
   Washington ha annunciato la conferenza di domenica, descrivendola come un'opportunità per aumentare gli investimenti internazionali per la Cisgiordania occupata da Israele e la Striscia di Gaza, controllata dal gruppo islamico palestinese Hamas.
   I palestinesi, che hanno boicottato l'amministrazione Trump da quando ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele alla fine del 2017, hanno mostrato scarso interesse nel discutere un piano che, secondo le loro previsioni, non saranno all'altezza delle loro richieste fondamentali.
   Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha detto lunedì che il suo governo non è stato consultato nel meeting del 25-26 giugno a Manama.
   Dopo che il gabinetto si è riunito, Ahhmed Majdalani, ministro per lo sviluppo sociale e membro del comitato esecutivo dell'ombrello Palestine Liberation Organization, ha dichiarato: "Non ci sarà alcuna partecipazione palestinese al seminario di Manama".
   Ha aggiunto: "Qualsiasi palestinese che prenderà parte non sarebbe altro che un collaboratore per gli americani e Israele".
   I funzionari degli Stati Uniti hanno previsto che l'evento includerà rappresentanti e dirigenti d'azienda provenienti da Europa, Medio Oriente e Asia, nonché alcuni ministri delle finanze. La componente economica discussa costituirà una rivelazione della prima parte del piano di pace di Trump, hanno detto funzionari statunitensi.
   I leader israeliani non hanno commentato la conferenza. Il ministro delle finanze israeliano, Moshe Kahlon, ha detto domenica tramite un portavoce che non ha ancora ricevuto alcun invito.
   Shtayyeh ha ribadito le richieste dei palestinesi di un accordo di pace a due stati con Israele che implica il controllo della Cisgiordania e di Gaza, così come Gerusalemme Est come loro futura capitale. Israele chiama Gerusalemme il suo capitale indivisibile e ha affermato che potrebbe dichiarare la sovranità nei suoi insediamenti in Cisgiordania.
   L'amministrazione Trump ha detto che il suo piano di pace ancora segreta richiederebbe un compromesso da entrambe le parti. Da quanto è stato visto dai palestinesi, ha ridotto gli aiuti statunitensi per loro, contribuendo alle difficoltà economiche in Cisgiordania e a Gaza.

(YouFocus.TV, 20 maggio 2019)


Israele è terreno fertile per innovative tecnologie agricole

Israele è situato in una regione che è fortemente colpita dai cambiamenti climatici e questo incide sull'agricoltura.
  Questa problematica ha portato Israele a diventare un terreno fertile. Un successo è rappresentato dall'irrigazione a goccia che è praticata nell'80% delle colture, mentre in altre parti del mondo rappresenta solo il 25% delle pratiche di irrigazione.
  Alon Ben-Gal dell'Istituto di Scienze del suolo, dell'acqua e dell'ambiente presso il Centro di ricerca di Gilat, afferma:
"L'irrigazione a goccia ha il vantaggio di poter irrigare frequentemente e quindi di fornire acqua e fertilizzanti ottimali, mentre, nei metodi tradizionali, come le inondazioni, i campi ricevono acqua solo una volta ogni pochi giorni".
 Le tecnologie agricole israeliane
  Nel settore dell'agricoltura, come afferma Nocamels in un articolo, Israele ha creato un mercato competitivo e tecnologico.
  Solo nel 2016, 204 aziende israeliane hanno esportato tecnologie agricole. Tra le esportazioni c'erano i sistemi di irrigazione, le attrezzature per i settori lattiero-caseario e avicolo, nonché i materiali di sementi e di propagazione.
  Le sfide che Israele sta affrontando nel settore agricolo hanno incoraggiato la creazione di numerose start-up che si pongono l'obiettivo di rivoluzionare il settore agricolo.
  Molte di queste aziende hanno sviluppato metodi per il miglioramento del rendimento delle colture in condizioni aride o difficili.

Tra le startup nate in Israele e che hanno sviluppato tecnologie innovative, ne segnaliamo alcune:
  • Salicrop, una società che ha sviluppato un trattamento con semi che consente alle colture di sopravvivere in terra salina o con irrigazione salmastra.
  • PlantArcBio, è una startup che si occupa di migliorare la resistenza delle colture attraverso la scoperta dei geni. L'anno scorso la società ha stretto una collaborazione con l'Università del Wisconsin-Madison. L'attività dell'azienda si concentra sulla scoperta di geni che potrebbero aiutare le colture a far fronte agli stress ambientali. In questo contesto, PlantArcBio sta lavorando con geni estratti da piante originarie del deserto e della regione del Mar Morto.
  • Taranis, giovane startup israeliana ha sviluppato un motore di analisi che aiuta gli agricoltori a monitorare efficacemente i loro campi, a determinare il momento e il luogo giusto per l'applicazione di prodotti agrochimici e a prevenire problemi alle colture, malattie e danni causati dalle intemperie.
(SiliconWadi, 20 maggio 2019)


Ebrei erranti senza volerlo

Pienamente integrati nel nostro paese costretti all'esilio dalle leggi razziali. Lo storico Sandro Gerbi rievoca in un libro pubblicato da Hoepli le vicende della sua famiglia. L'effetto devastante dell'antisemitismo di Stato introdotto da Mussolini sulle vite di persone che rimasero segnate da quell'esperienza.

di Paolo Mieli

Edmo Gerbi, ebreo livornese venuto al mondo nel 1874, ebbe tre figli: Antonello nato nel 1904, Giuliano (1905), Claudio (1907). La moglie di Edmo, Iginia Levi, che morì quarantasettenne nel 1926, si era data carico di allevare i tre ragazzi secondo i dettami della religione mosaica. Religione che, però, a quei tempi non era al centro dell'esistenza né del padre, né dei figli. Si può dire che nessuno di loro fosse particolarmente osservante: Antonello al censimento del 1931 si dichiarò, scherzosamente, buddista e nel 1932 uscì dalla comunità ebraica rivendicando con orgoglio la propria laicità. Nel 1938, al momento delle leggi razziali, Edmo era un agente di cambio a riposo, Antonello dirigeva l'Ufficio studi della Banca Commerciale Italiana sotto l'ala protettrice di Raffaele Mattioli, Giuliano faceva il giornalista sportivo su carta («L'Ambrosiano») e per radio (Eiar), Claudio era un apprezzato medico internista.
  Erano ragazzi affermati, scapoli, poliglotti, allegri: Giuliano a Parigi fece amicizia con Joséphine Baker, che venne poi a trovarlo in Italia; Antonello di passaggio a Berlino (aveva vinto una borsa di studio su raccomandazione di Luigi Einaudi e Benedetto Croce) si presentò su un giornale locale con la seguente inserzione: «Giovane italiano settentrionale cerca compagnia femminile per migliorare il proprio tedesco (cinema, teatri, concerti ecc.). Mandare foto». A un certo punto la loro esistenza cambiò. Alla fine degli anni Trenta, come conseguenza delle citate leggi razziali, furono costretti ad espatriare. Poi nel secondo dopoguerra alcuni dei sopravvissuti rientrarono in Italia. Ma fu molto complicato riannodare il filo delle loro vite. Alle storie di questi ragazzi (e ad altre consimili) è dedicato il libro del figlio di Antonello, lo storico Sandro Gerbi, Ebrei riluttanti, che esce domani pubblicato dall'editore Ulrico Hoepli.
  Il medico Claudio fu il più veloce a «capire» che cosa stava accadendo e ottenne, non senza difficoltà, il passaporto per gli Stati Uniti. Si trasferì a Boston e, successivamente (1942), a Manhattan, ebbe una clientela per lo più di ebrei italiani, «che in parte già conosceva perché rifugiati come lui», divenne il classico medico di famiglia, famoso per una battuta a cui ricorreva per rassicurare i clienti ipocondriaci: «Esistono le malattie lievi e quelle gravi; per le prime basta una spremuta d'arancia, per le seconde raccomando un paio di aspirine!».
  Poi fu la volta dei suoi fratelli. Il loro padre, Edmo, fu l'ultimo a partire, verso la metà del 1939, poco prima dell'invasione hitleriana della Polonia. Così, nota Sandro Gerbi, «in brevissimo tempo, quattro ebrei più o meno secolarizzati e ben integrati nella società italiana si trasformarono loro malgrado in ebrei erranti». Un loro cugino, Paolo Treves, nella pagina conclusiva di una sua autobiografia, uscita a Londra nel 1940, ben descrisse, parlando di sé, questo stato d'animo: «L'autore di questo libro è anche ebreo. Per la verità, solo quando cominciò la lotta antisemita in Italia questo fatto emerse dal complesso della sua personalità di uomo e solo da allora se ne sentì particolarmente fiero. Prima non si era mai fermato con il pensiero su questa circostanza».
  Antonello, sempre su raccomandazione di Mattioli, ebbe la fortuna di trovare un posto al Banco de Crédito del Perù e fu sostituito a Milano da Ugo La Malfa. Giuliano, il giornalista sportivo, soggiornò per qualche tempo a Parigi, dove provò anche a collaborare con il «Corriere della Sera». Cercò di aiutarlo l'allora corrispondente da Parigi Paolo Monelli. Che però nel gennaio del 1939 si vide recapitare una lettera del direttore, Aldo Barelli, il quale, dicendosi informato del fatto che «in queste ultime sere ha telefonato più di una volta il giornalista ebreo Giuliano Gerbi», invitava Monelli non solo a non farlo collaborare «né direttamente, né indirettamente», ma anche ad informare la direzione del giornale su «chi lo ha incaricato di fare per noi dei servizi da Parigi». Lettera alla quale Monelli, con grande dignità, rispondeva che era stato lui stesso a decidere di dare una mano a quel ragazzo che era «senza un soldo» e, ad ogni evidenza, «bisognoso d'aiuto urgente». In ogni caso - proseguiva Monelli - lo si era utilizzato solo come «dettatore» durante le assenze dello stesso Monelli, che l'aveva pagato personalmente senza gravare in alcun modo sui bilanci del «Corriere».
  Giuliano raggiunse allora il fratello Claudio negli Stati Uniti e trovò impiego in una ditta che vendeva abiti a rate. Per un po' cadde in depressione, ma un amico gli trovò un posto in una stazione radio di New York e in lui si riaffacciò una vena di ottimismo. Agli israeliti in America era possibile vivere come avevano vissuto in Europa fino a qualche tempo prima. Philip Roth ironizzò una volta sul fatto che un ebreo, Irving Berlin, fosse il compositore di White Christmas che, cantato da Bing Crosby, divenne il singolo discografico più venduto nella storia.
  Dal settembre del 1943 ( dopo l'armistizio che aveva diviso l'Italia in due: al Sud la parte del Paese alleata agli anglo-americani, al Nord la Repubblica sociale controllata dai tedeschi) a Giuliano Gerbi fu affidato un commento radiofonico giornaliero della «Voice of America» con il nome Mario Verdi. I fascisti repubblichini reagirono con rabbia a quella rubrica. Alcuni attacchi della stampa della Rsi alle sue trasmissioni dall'America sono ricordati nel libro di Gianni Isola Cari amici vicini e lontani. Storia dell'ascolto radiofonico nel primo decennio repubblicano, edito dalla Nuova Italia: « L'ex redattore sportivo Giuliano Gerbi, alias Mario Verdi», scrisse un giornale della Repubblica di Salò, «ha abbandonato le cronache ciclistiche per le radio concioni retribuite in dollari. Allora sarà come dire: dalla foratura alla foraggiatura, dall'Arena all'avena, dal Giro d'Italia al Tiro all'Italia!». Ma il successo di queste trasmissioni fu tale che - per la colonia italo americana - esse furono fatte proseguire anche nel dopoguerra e si guadagnarono l'elogio del primo presidente della Repubblica italiana: Luigi Einaudi.
  Anche il padre dei tre ragazzi, Edmo, all'epoca sessantaseienne, emigrò negli Stati Uniti per poi raggiungere Antonello in Perù. Per lui, però, allontanarsi dall'Italia fu un dramma e «a poco a poco i sintomi delle sue nevrosi divennero sempre più gravi e imbarazzanti». Litigava con l'impiegato di un ufficio postale non capacitandosi che non capisse l' «idioma di Dante»; comprava scatole e scatole di farmaci che, alla sua scomparsa, furono trovate intonse; si convinse che la moglie di suo figlio volesse avvelenarlo; poco prima della morte (gennaio 1944) annunciò al nunzio apostolico Fernando Cento (futuro cardinale) di volersi convertire; ma il religioso, ritenendo che quel desiderio non fosse basato su solide convinzioni, rifiutò di impartirgli il battesimo. Ebbe poi un funerale ebraico.
  Finita la guerra, Claudio decise di restare negli Stati Uniti. Giuliano provò a farsi riassumere dalla Rai per occuparsi di ciclismo, ma gli fu preferito, scrive Sandro Gerbi su una testimonianza di Antonio Piccone Stella, Mario Ferretti, «un più giovane giornalista sportivo con non trascurabili trascorsi fascisti», con la motivazione che in tempi in cui non esisteva il fotofinish Ferretti era in grado di comunicare subito al pubblico degli ascoltatori l'ordine preciso con cui i corridori avevano tagliato il traguardo. Poi Giuliano rientrò ugualmente nel suo Paese d'origine e lo stesso fece Antonello. Adesso era venuto il tempo dei loro figli, tirati su in modo laico, ma con una particolare attenzione a gergo e rituali ebraici.
  A proposito di gergo il libro contiene alcune gustose notazioni: l'uso del termine «negro» è quello del padre di Natalia Ginzburg in Lessico famigliare (Einaudi) e sta per persona dai modi goffi, impacciati, che si veste in modi inappropriati, non sa andare in montagna, non parla le lingue straniere. C'è poi lo schlemihl, il pasticcione che vende la propria ombra al diavolo in cambio di un borsello vuoto; il nebbish (come sostantivo) indica il classico perdente, timido e timoroso, «cugino primo dello schlemihl». C'è ancora il meshugge, un mattoide, un essere assurdo e lunatico, appartenente alla «categoria degli stravaganti che compaiono in tante pagine della letteratura yiddish».
  Infine lo scroccone o accattone immortalato nel 1894 dall'inglese Israel Zangwill in Il re degli schnorrer (Marietti). Il protagonista del libro di Zangwill è un ebreo sefardita decaduto, ma di nobili ascendenze, che esercita con molto decoro la sua professione di mendicante nel ghetto di Londra tra Sette e Ottocento, sfruttando i sensi di colpa che assediano la psiche degli ebrei più facoltosi (nella fattispecie ashkenaziti). Per riuscire lo Schnorrer deve essere coltissimo e dotato di notevole chutzpah, ovvero faccia tosta. Non a caso «in sinagoga partecipa a lunghe discussioni teologiche con i suoi potenziali benefattori». Talché, scrive Gerbi, «occorrerebbe forse rivedere il giudizio comune sugli schnorrer»; se il termine corrisponde a uno scroccone da quattro soldi può anche essere svillaneggiato, ma, nel caso possegga le straordinarie qualità descritte da Zangwill, è decisamente un modello da imitare: «Chi in qualche modo lo aiuta, anche solo invitandolo a cena, non ha che da essergli grato».
  Così, quasi impercettibilmente, con una dissertazione sui termini sopravvissuti nel lessico ebraico si giunge all'ultima generazione degli «ebrei riluttanti», quella dei nati negli anni Quaranta o poco dopo, alla quale appartiene l'autore del libro. Qui si parla del viaggio dell'autore ventenne in Israele a ridosso della guerra dei Sei giorni (1967), dove intuisce i problemi di cui tratterà qualche decennio più tardi Ahron Bregman, in La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati (Einaudi). Israele è un Paese da cui Sandro Gerbi si allontana quasi volentieri: «Ripartii per l'Italia con un senso di sollievo; Israele è un Paese tanto diverso e tanto ricco di contrasti da generare spesso nei visitatori occasionali un senso di claustrofobia», confessa. E in cui lui stesso tornerà solo nel 2010, quarantatré anni dopo. Racconta del suo essere ebreo (laico) e di sinistra con ampi riferimenti ai libri di Maurizio Molinari, La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio, e di Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra. Gli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 a oggi, pubblicato da Donzelli.
  Tornato in Italia, Sandro Gerbi fu colpito dalla «superficialità delle argomentazioni e dalla scarsa conoscenza storica» degli «ebrei di destra che sostenevano Israele ad ogni costo». Anche se poi cita qualche «colossale abbaglio» della sua parte, quella degli «ebrei di sinistra» che Israele invece criticavano in eccesso. Il giovane Gerbi è amico adesso del re della Borsa di Milano Renato Cantoni e del banchiere Raffaele Mattioli: è lui (sembra incredibile!) a presentare l'uno all'altro. C'è nel libro il gustoso racconto di un incontro con il filosofo Cyorgy Lukàcs a fine 1969. Un'altrettanto sapida descrizione di Ugo Stille - sulle orme del libro di suo figlio, Alexander, La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America, (Garzanti)- che gli offre l'occasione di stringere la mano della bellissima Lauren Bacall, ma anche al già chiacchieratissimo finanziere Michele Sindona, incontrato per caso tra la Seconda e la Terza Avenue di New York: Sindona gli porse la mano e, racconta Gerbi, «per educazione dovetti contraccambiare»; di colpo l' «effetto Bacall» svanì e - aggiunge - «mi ritrovai contaminato per l'eternità».
  Si parla poi dell'agente letterario Erich Linder - di cui al libro Il dio di carta. Vita di Erieh Linder (Avagliano) di Dario Biagi - che rivelò a Grazia Cherchi come considerasse che l'esercizio del potere per il potere denotasse «un carattere vile e non di rado abietto». Ma che è probabile abbia collaborato, in momenti decisivi, con i servizi segreti israeliani. Un caleidoscopio di immagini tra cui rientrano anche quelle del suo rapporto con Indro Montanelli. Tutti «ebrei riluttanti» o, come nel caso di Montanelli, grandi amici degli «ebrei riluttanti».

(Corriere della Sera, 20 maggio 2019)


Un codice etico? Lontano dai libri

di Pierluigi Battista

Speriamo in un ripensamento, in un soprassalto di razionalità che scacci via la tentazione di un «codice etico» da applicare ai libri come criterio di discriminazione. Speriamo davvero che ci sia il tempo di non dar corso alla proposta, forse dettata dallo stress della mobilitazione sull'editore fascista da mettere al bando, di imporre la camicia di forza di un «codice etico» che dovrebbe vidimare con piglio autoritario gli ingressi di libri e persone nel «Salone del libro» di Torino: un'arena di libertà e di spirito critico che si trasforma in un mesto ufficio di passaporti culturali da distribuire con logiche del tutto arbitrarie. Il codice etico dovrebbe stare lontano dai libri, per principio innanzitutto. Ma anche perché si trasformerebbe immediatamente in uno strumento discrezionale, iniquo, capriccioso, fonte di faziosità infinita. Con quale criterio stabilirebbero la compatibilità etica di un libro o di un editore? Sarebbe poco etico un libro fascista? E uno che inneggia a Stalin o a Mao e ai massacri immani delle Guardie Rosse al suo servizio? E se si discrimina una casa editrice perché il suo proprietario si è reso responsabile di atti decisamente poco etici, in quale categoria morale potrebbe rientrare una casa editrice fondata dal capo delle Brigate Rosse? E «Lolita» di Nabokov risponde ai criteri etici arbitrariamente fissati da una commissione occhiuta, oppure via, da respingere assieme all'editore che se ne voglia fare megafono. E a Céline, incidentalmente autore di uno dei romanzi più importanti del Novecento e incidentalmente anche parecchio fascista, glielo diamo il cartellino per potere partecipare al Salone del libro o dobbiamo sottoporre i suoi discendenti al rito dell'autocritica etica? Anche i libri considerati «blasfemi» da qualche autocrazia fondamentalista, inoltre, potrebbero essere esclusi dai commi del lugubre codice: attento Salman Rushdie. E se la Cina chiedesse di sottoporre a condanna etica qualche scritto a favore del Dalai Lama o del Tibet martoriato, come comportarci? Speriamo davvero che non se ne faccia niente, che si lasci stare l'etica e si pensi soltanto ai libri, che sono libri validi solo se sono scritti senza ipocrisie e riserve mentali dai loro autori. Che il Salone del libro resti una festa o non un luogo dell'intolleranza e dell'autocensura. Speriamo, davvero...

(Corriere della Sera, 20 maggio 2019)


Un video su Al Jazeera nega l'Olocausto: ira di Israele, l'emittente lo rimuove

«Nelle camere a gas uccisi milioni di ebrei. Così si dice. Quale è la verità dietro l'Olocausto, e come ne ha tratto vantaggio il movimento sionista?». Così su Al Jazeera un video in arabo sulla Shoah prodotto dalla rete qatariota per i giovani del Medio Oriente. In un primo commento, alcuni giorni fa, il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Emmanuel Nachshon, dopo averne preso visione, ha accusato Al Jazeera di voler fare «un lavaggio del cervello» ai giovani del Medio Oriente, diffondendo un testo «folle ed antisemita». Ieri Al Jazeera lo ha rimosso, ammettendo che esso era «in contrasto con gli standard editoriali delle rete televisiva».
   In seguito Nachshon ha scritto su twitter: «Avete fatto bene ad eliminarlo. Non avreste mai dovuto produrre un video che nega l'Olocausto».
   Il quotidiano Israel ha-Yom scrive oggi che il tema centrale del programma era che «gli ebrei hanno sfruttato gli orrori della Seconda Guerra Mondiale per il loro profitto, inducendo il mondo a ricordare le vittime ebree, e a dimenticare le altre». Secondo il servizio andato in onda sull'emittente del Qatar, il numero delle vittime ebree nella Shoah resta tuttora oggetto di un dibattito storico.
   Fra le tesi del video, aggiunge il giornale, anche quella secondo cui «i sionisti collaborarono con i nazisti» e che poi «lo Stato di Israele ha sfruttato la Shoah per ricevere dalla Germania indennizzi che sono stati poi sfruttati per opprimere il popolo palestinese». Secondo il giornale, prima che fosse cancellato questo programma è stato visto sul sito web di Al Jazeera da almeno un milione di persone.

(Il Messaggero, 20 maggio 2019)


Netanyahu: le trattative per la coalizione sono ferme

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante la odierna seduta del consiglio dei ministri.

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu - che è uscito vincente alla guida del Likud dalle elezioni politiche del 9 aprile - ha affermato oggi che sono ancora ad un punto fermo le trattative con gli altri partiti che dovrebbero costituire la coalizione di governo.
Ciò mentre mancano dieci giorni al termine massimo concessogli dal Capo dello Stato Reuven Rivlin per presentare il nuovo esecutivo.
"Spero che sia possibile riportarli al più presto sul terreno della realtà", ha detto Netanyahu durante la odierna seduta del consiglio dei ministri. "In quel modo potremo costituire un governo forte e stabile e beneficio di Israele, un governo che continuerà a condurre il paese verso nuovi record".

(tvsvizzera, 19 maggio 2019)


Finale Eurovision. Mahmood secondo, vince l'Olanda

Nella scenografia del vincitore di Sanremo le immagini di quando era bambino

di Davide Frattini

Duncan Laurence
TEL AVIV - L'olandese Duncan Laurence ha confermato le previsioni dei bookmaker. Riporta a casa il Microfono di cristallo dopo 44 anni e conquista la quinta vittoria del suo Paese all'Eurovision. Racconta che Arcade - suonata alle tastiere, solo, circondato da un cielo scuro attraversato da aurore boreali - è ispirala da «una persona profondamente amata e morta giovane. Fino ad ora ho scritto soprattutto per gli altri e sono contento di salire in scena e condividere la mia esperienza».
   I partecipanti entrano uno dopo l'altro come atleti, le bandiere nazionali fatte ruotare da un giocoliere, in fondo queste sono le Olimpiadi (euro-allargate) della canzone. Ogni concorrente è introdotto da un video girato in un pezzetto dei 22 mila chilometri quadrati coperti da Israele, a Mahmood sono toccati i container e i mercantili del porto di Ashdod.
   La serata finale è stata aperta da Lucy Ayoub, che saluta anche in ebraico e arabo, dalla modella Bar Refaeli, in abito lungo argento, affiancate da Erez Tal e Assi Azar. A fare da madrina Netta Barzilai che l'anno scorso ha vinto a Lisbona vent'anni dopo il trionfo transex di Dana International. Il premier Benjamin Netanyahu non ha partecipato per «ragioni di sicurezza», a rappresentare la famiglia di governo c'era la moglie Sara.
   Madonna ha firmato il contratto definitivo pochi giorni fa, è atterrata in Israele con una squadra di 130 persone, tra loro 40 coristi e 25 ballerini. La diva americana - con benda nera da pirata sull'occhio sinistro - non ha ceduto alle pressioni globali del movimento che promuove il boicottaggio di Israele e a quelle personali di Roger Waters: il co-fondatore dei Pink Floyd incita gli artisti stranieri a cancellare gli spettacoli nello Stato ebraico, li accusa di oscurare con le luci dei riflettori le condizioni dei palestinesi nei territori occupati. L'operazione per guastare la festa dell'Eurovision non ha funzionato, un evento che per statuto e missione vuole evitare le polemiche politiche: 10 mila turisti sono arrivati a Tel Aviv, un po' meno del previsto, nessun partecipante ha defezionato. Madonna ha deciso comunque di mandare il suo messaggio: uno dei danzatori indossava la bandiera israeliana, un'altra quella palestinese, con i due che alla fine della canzone si abbracciano.
   La canzone con cui ha vinto il Festival di Sanremo ha portato Mahmood al secondo posto. E apparso in camicia a maniche corte con fiori orientali dorati.
   Sulla scenografia alle spalle scorrono le immagini di quand'era bambino, i tre ballerini indossano una maglietta nera con il punto rosso al centro che alla fine si riflette ingigantito sullo schermo con la scritta: «I soldi non comprano l'amore».
   Il cognome paterno Mahmoud - il nome d'arte sostituisce la «u» con un'altra «o» - aveva forzato le domande dei giornalisti internazionali che durante le conferenza stampa si sono concentrati sulle origini egiziane del padre e su quel verso di Soldi ( «Bevi champagne sotto Ramadan»), i musulmani celebrano proprio in queste settimane il mese a loro più sacro.
   Anche il francese Bilal Hassani - ieri sera con parrucca bionda lunghissima - ha scontato gli stereotipi contro cui reagisce la sua Roi. La televisione israeliana Kan, che ha trasmesso l'Eurovision, ha prodotto una miniserie in tre puntate per raccontare la storia di un cantante di origine nordafricana e omosessuale (come Bilal) che lo Stato Islamico costringe a commettere un attentato a Tel Aviv durante un concorso canoro. Troppe somiglianze con la realtà, gli organizzatori europei del festival hanno imposto di rinviare la messa in onda prevista proprio per maggio.

(Corriere della Sera, 19 maggio 2019)


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Eurovision, una grande festa per Israele

Circa 200 milioni di persone in tutto il mondo si sono sintonizzate per guardare l'Eurovision di Tel Aviv. Un'occasione per Israele di raccontarsi a livello internazionale e per vivere una festa che ha portato decine di cantanti sul palco del Tel Aviv's Expo Center. A vincere la competizione canora, Duncan Laurence dei Paesi Bassi. "Questo vuol dire sognare in grande, questo vuol dire la musica prima di tutto, sempre, grazie!", le parole di Laurence dopo aver ricevuto il premio dall'israeliana Netta Barzilai, vincitrice della rassegna lo scorso anno con il suo Toy. Secondo classificato l'italiano Mahmood con la sua soldi: "Non mi sarei mai aspettato di raggiungere il secondo posto, ringrazio tutta l'Italia, tutta l'Europa per avermi sostenuto", le sue parole su Instagram.
   "Benvenuti al gran finale dell'Eurovision Song Contest 2019", ha proclamato Barzilai in apertura di serata. Uno spettacolo che ha riunito un variopinto mix di artisti israeliani; dalla vincitrice dell'Eurovision del 1998, Dana International, tornata con un mashup musicale che includeva sia "Tel Aviv" di Omer Adam che la sua canzone Diva, alla cantante Ilanit che ha eseguito "Ey Sham", la canzone che ha cantato la prima volta che Israele ha partecipato all'Eurovision nel 1973.
   Nel 1978 a vincere a Parigi era stato Izhar Cohen, israeliano di origini yemenite, che in Francia si presentò con una canzone un po' alternativa: A-Ba-Ni-Bi. Il brano utilizzava il "linguaggio Bet", un gioco linguistico per bambini dove ogni sillaba di una parola è ripetuta con l'aggiunta delle sillabe "ba", "be", "bi", "bo" e "bu". La versione in ebraico dell'alfabeto farfallino. "Eravamo un paese molto piccolo, che voleva mostrare al mondo intero qualcosa oltre alle guerre e all'essere i migliori combattenti e soldati. Volevamo mostrare la nostra cultura", ha dichiarato in una recente intervista Cohen, che allora divenne una vera e propria popstar. "Tutti sapevano che Israele è hava nagila hava. Io ho portato un cambiamento nel modo in cui ci guardavano, perché improvvisamente Israele era a-ba-ni-bi-o-bo-he-be-v, erano giovani, belli, attivi, che portavano cose nuove al mondo, ed è stato come un punto di svolta". E un altro punto di svolta per Israele arrivò 20 anni dopo quando a salire sul palco fu Dana International, anche lei di origine yemenita. La sua canzone, Diva, conquistò la giuria e Dana diventò la prima transgender a vincere l'Eurovision, diventando un'icona del movimento LGBT israeliano e internazionale. E a raccoglierne l'eredità - avendo cantato al Pride subito dopo la vittoria all'Eurovision - dopo altri 20 anni, Netta Barzilai. Il suo successo è stato celebrato da migliaia di israeliani in festa e la sua canzone - Toy - ha continuato a dominare a lungo le radio del paese. E il suo successo ha permesso a Israele di mettersi nuovamente in vetrina, con una rassegna di successo.

(moked, 19 maggio 2019)



Natasha Solomons. "Il lato B della Storia raccontato tramite una famiglia ebrea"

di Annarita Briganti

Rompersi un dito e scrivere il libro della propria vita. Nasce da una pausa forzata dalla scrittura di un paio di mesi, nei quali ha avuto la possibilità di dedicarsi solo alla lettura finendo le ricerche che le servivano, il romanzo storico dell'inglese Natasha Solomons, I Goldbaum (Neri Pozza). Trentanove anni, residente nel Dorset col marito scrittore e due figli, la romanziera parla di un matrimonio combinato tra l'Austria e l'Inghilterra - tra Greta e suo cugino Albert, perché i Goldbaum si sposano solo tra di loro - d'identità ebraica e del ruolo delle banche nel finanziamento della Prima guerra mondiale. Una storia che intreccia la Storia del primo decennio del Novecento, ispirata ai banchieri europei di origine ebraica Rothschild, pubblicata in una ventina di Paesi, paragonata a Downton Abbey, che presto sarà serie televisiva.

- Perché raccontare i Rothschild/Goldbaum?
  «Nella casa dei miei genitori c'è un ritratto di un mio avo, ebreo, che aveva conosciuto i Rothschild nel ghetto di Francoforte. Mi ha colpito come la nostra famiglia, di origini più umili, il lato B della Storia, fosse stata così vicina alla dinastia più ricca d'Europa. I Goldbaum hanno tutto. La gente dice che potrebbero affittare il sole nelle giornate uggiose. Eppure, non sono mai tenuti nella giusta considerazione perché sono ebrei. In quanto ebrei sono sempre considerati "altri", restano sempre outsider. "Se qualcuno se la prende con me, preferirei che fosse per motivi personali, non per la mia razza", faccio dire a Otto, il fratello della protagonista».

- Com'è oggi essere ebreo?
  «Il mio romanzo storico sta diventando sempre meno storico. Mentre mi documentavo, alcuni testi sembravano risalire agli anni del mio libro, invece erano stati pubblicati da poco. Sento l'ostilità verso gli ebrei, ho paura per i miei figli e per la mia famiglia, l'Europa è di nuovo un posto non sicuro dove stare per l'avanzata delle estreme destre. La stessa Inghilterra, a causa della Brexit, è in un limbo».

- Anche i giardini nel libro hanno un loro significato, che va al di là della passione, non solo degli inglesi, per il verde.
  «I bambini ebrei non potevano giocare nei parchi, così i Goldbaum hanno sempre giardini immensi. Greta riceve come regalo di nozze dalla madre di Albert un giardino tutto suo. Coltivare rose può essere un modo per ribellarsi alle discriminazioni, ma non sono così brava. Posto sui social le foto del mio giardino, ma guardando bene è pieno di erbacce. Tra scrivere e fare giardinaggio, avendo poco tempo a disposizione in quanto mamma di due bambini, preferisco la scrittura, che pratico in ogni momento possibile».

- Scritto con la sicurezza di chi è alla quinta opera, "I Goldbaum" è il suo bestseller. Che cos'ha di speciale rispetto agli altri suoi libri?
  «Parlo di famiglia, potere, amore, guerra. Temi minori (dice ridendo, ndr). Credo che i lettori provino empatia per i personaggi, in particolare per Greta, che è costretta a sposare un uomo che non ha mai visto. Lei estroversa, ribelle, lui che non riesce neanche a farsi toccare da sua moglie in pubblico. Ci mettono un anno per consumare il matrimonio. La loro unione sarebbe potuta essere un disastro, invece...».

- Che cosa si aspetta dalla sua venuta a Milano per il suo booktour?
  «Di ritrovare una città elegante. Sono stata a Milano da ragazza. Guardavo le vetrine immaginando di potermi comprare tutto. Non avevo soldi, ma era ugualmente eccitante, magico».

(la Repubblica, 19 maggio 2019)


Addio a Baghdad, antica casa degli ebrei

Elena Loewenthal. Vite all'ombra del Farhud: la prima persecuzione del 1941

di Giulio Busi

E' fatale che, in un romanzo popolato di molti volti, ci si affezioni a uno in particolare. Un personaggio più attraente degli altri, che ci accende la fantasia, e che ci piacerebbe molto poter incontrare dal vivo. "Affezionarsi" non è la parola giusta. Se il racconto prende, si finisce per innamorarsi. Sulla carta, naturalmente, ma chi lo dice che siano amori meno duraturi di quelli in carne e ossa? Per certi libri ben riusciti, simili amori possono durare per anni, magari per tutta la vita. La mia preferita è Violette. Così bella, con quegli occhi «bui e celesti». E soprattutto, così indolente:« Violette saliva di malavoglia sulla terrazza della casa, perché di malavoglia si alzava dalla montagna di cuscini su cui dormicchiava per tutto il giorno nel vano tentativo di sognare qualcosa». La Baghdad di Elena Loewenthal, quella dove, fin dal titolo, «nessuno torna più», non è solo il luogo della memoria. È uno spazio di solenne lentezza, dove il tempo segue, quasi inerte, la maestosa antichità di pomeriggi smisurati, tutti protesi verso il tardivo, liberatorio spegnersi della vampa del sole.
  I protagonisti, che cominciano a sgranarsi fin dalle prime pagine, sono fatti di un materiale particolare. Certo, godono di molti privilegi ma sono anche gravati da un senso di precarietà, di fine imminente. Appartengono a una famiglia ebraica alto-borghese, solidamente inserita nella vita dell'impero ottomano prima e in quella del fragile Regno iracheno poi. Il loro è però uno statuto sempre più precario, in cui benessere e agi si uniscono al senso di una svolta che si avvicina inesorabile. Da quanto tempo gli ebrei vivono in Mesopotamia? Da due millenni? No, da molto di più, almeno dal primo esilio, quando sono arrivati al seguito del conquistatore neo-babilonese. Sembra impossibile che una storia così imponente finisca. Ma è tempo di rivalsa araba, e il colonialismo, diretto e indiretto, ha turbato equilibri consolidati. I sospetti e le violenze si fanno sempre più vicini. Tutto sta per finire, ed è forse per questo che Violette rimane impressa nel cuore: poco più che bambina eppure già in attesa di un marito, lei che sperpera le ore come fossero petali di un fiore.
  Loewenthal ha il grande talento della dilazione. Tutto dovrebbe correre veloce verso un precoce epilogo. E in effetti, i tempi della prima, grande persecuzione antiebraica del 1941, il Farhud, battono sincopati e crudeli. La vita domestica, i sogni e le rivalità delle due sorelle, Flora e Violette, e la maturità del maschio, Ameer, vengono però centellinati con la giusta calma. Lo sappiamo tutti, l'adolescenza e la prima giovinezza hanno i loro segreti, un loro sbocciare che, mentre lo si vive, sembra terribilmente lento.
  Il maggiore fascino di questo racconto esotico, ambientato tra paesaggi che ben pochi di noi conoscono per averli visti di persona, è proprio la sospensione temporale. Tutto vi si sgrana come se la verde stagione della vita, quella delle attese e delle promesse, potesse durare per sempre. Non è un caso se, dopo avere dovuto abbandonare la Baghdad dei loro anni giovanili, tutti o quasi i membri della saga vivano esistenze lunghissime, e quasi si convincano d'essere immortali. «Addio a Baghdad, che fino a poche ore prima era stata il suo mondo esclusivo: un mondo che pareva sconfinato, come se potesse essere fatto soltanto di strade e vicoli, del fiume che passava lento, delle case chiare e scure, della luce che d'inverno era trasparente e nei giorni caldi della lunga estate diventava opaca, torbida». Nella stoffa del racconto, di simili addii ne sono cuciti parecchi, uno per ogni personaggio. È vero che a Baghdad non si tornerà mai più. Ma è anche vero che nessuno se n'è mai andato del tutto. Non dentro di sé, non nei profumi, non nell'acqua del Tigri, dall'effluvio dolciastro, non in quel destino, così ebraico, di ricordare un luogo col cuore, di giorno in giorno. E di lasciarlo di nuovo, ogni giorno, con la mente.

(Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2019)



La vita vostra è nascosta con Cristo in Dio

Se dunque voi siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di sopra dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Abbiate l'animo alle cose di sopra, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste, e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Colossesi, cap. 3

 


Il Bundestag: "Il boicottaggio Bds contro Israele è antisemita"

di Walter Rauhe

Il parlamento tedesco ha approvato ieri a larga maggioranza una mozione nella quale il discusso "Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele" viene classificato come antisemita e verrà dunque privato dagli incentivi e finanziamenti pubblici garantiti a tutte le associazioni senza scopi di lucro. «La campagna di boicottaggio contro prodotti, artisti e beni culturali israeliani lanciata dal Bds ricorda in modo fatale il capitolo più terribile e scuro della storia tedesca, quando anche i nazisti incitarono la popolazione a non fare più la spesa nei negozi degli ebrei», si legge nella mozione. Il movimento fondato nel 2005 da 171 organizzazioni non governative palestinesi e appoggiato da note personalità dello spettacolo e della letteratura come il co-fondatore dei Pink Floyd Roger Waters o la scrittrice ed attivista canadese Naomi Klein (No Logo) esige il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati, la piena uguaglianza dei cittadini arabi e palestinesi in Israele e il ritorno dei profughi palestinesi nella loro patria d'origine.

 La lettera aperta ai deputati
  «Le argomentazioni e il linguaggio utilizzato dai militanti e simpatizzanti del movimento è molto simile a quello utilizzato a suo tempo dal regime nazista e discrimina l'intera comunità ebraica e i cittadini israeliani senza fare alcuna distinzione», prosegue il testo del comunicato approvato quasi all'unanimità dai deputati dei partiti di governo (cristiano-democratici e socialdemocratici) come da quelli dell'opposizione (liberali e verdi). Solo i post-comunisti della Die Linke si sono astenuti mentre la destra populista dell'AfD ha chiesto la messa al bando dell'organizzazione. La Germania è così il primo Paese europeo a condannare ufficialmente il movimento Bds e a classificarlo come «razzista e antisemita».
  Mentre il Ministro degli esteri ad interim di Israele, Yisrael Katz ha espresso ieri la sua soddisfazione per la mozione approvata dal Bundestag a Berlino auspicando che altri parlamenti europei seguano l'esempio tedesco, un gruppo di 60 intellettuali israeliani ha criticato l'iniziativa. «Definire antisemita chi critica la politica israeliana è scorretto e pericoloso e criminalizza chi esprime solidarietà col popolo palestinese» si legge in una lettera aperta inviata ai deputati tedeschi. Nelle ultime settimane il Bds aveva anche invitato a boicottare la finale dell'Eurovision Song Con test in programma oggi a Tel Aviv e alla quale partecipano cantanti e gruppi musicali da 41 Paesi europei, Italia compresa.

(La Stampa, 18 maggio 2019)


Livorno - Scritte antisemite su un banco in via Buontalenti

Stella di David, croce e una freccia per indicare il negozio. Indagini della Digos e della Scientifica

 
La scritta in via Buontalenti
La scritta sulla saracinesca
LIVORNO - Scritte antisemite sono comparse questa mattina su uno dei banchi dell'area del mercato in via Buontalenti. Il titolare ha avvertito la polizia che questa mattina di sabato 18 maggio ha raggiunto l'area per avviare le indagini. Sul posto agenti della Digos e della Scientifica. Sull'asfalto della strada, proprio davanti al banco che vende abbigliamento e biancheria intima, è stata disegnata una stella di David ed una freccia che indica la saracinesca del banco su cui compaiono altre scritte e simboli antisemiti. Un episodio inquietante che il titolare dell'attività ha denunciato alle forze dell'ordine.

(Il Tirreno, 18 maggio 2019)


Hamas ringrazia Corbyn

Il gruppo terroristico di Gaza apprezza la solidarietà del leader laburista

Sono giorni duri, questi, per il Labour di Jeremy Corbyn: si vota giovedì alle europee e la strategia dell'ambiguità sembra non aver affatto pagato. E' per la Brexit, dice l'elettore laburista disilluso che darà (se lo darà) il voto ai partiti europeisti, forse proprio ai lib-dem resuscitati. E' contro la Brexit, dice l'elettore laburista disilluso che darà il suo voto a chi non dà adito a dubbi, forse proprio al Brexit Party pigliatutto. Ieri Corbyn ha deciso di uscire dai negoziati con il governo May sulla Brexit, e questa è stata una mossa prevedibile e tattica: quel dialogo con i conservatori si stava tramutando in un veleno e già c'è poco da stare allegri, anche il contagio tossico dei Tory era troppo (i conservatori si stanno avvitando su loro stessi e non fanno campagna elettorale: sono al 10 per cento dei consensi, e sperano che i sondaggi si stiano sbagliando). Nell'ambiguità di Corbyn però, ambiguità tattica e studiata perché lui è davvero convinto che per tenere insieme le due anime del partito e del paese sia necessario non scegliere, ci sono sempre dei punti fermi. Riguardano la politica estera, che è anche visione del mondo. Il Labour si è logorato (e anche ristretto) a causa delle accuse di antisemitismo:
   Corbyn ha fatto qualche dichiarazione più ferma, ma sempre generalizzando e di fatto non ha curato nulla. Anche qui: non ha voluto farlo. Perché con tutta probabilità non lo considera un problema. Corbyn ha inviato un messaggio di solidarietà alla marcia che si è svolta a Londra (quattromila partecipanti) per celebrare il giorno della Nakba, "la catastrofe", il dislocamento di 700 mila palestinesi quando nel 1948 fu creato lo stato di Israele. Il leader laburista ha ricevuto una lettera di ringraziamento da Hamas, il gruppo terroristico di Gaza che Corbyn aveva in passato definito "amico" (aveva poi rivisto l'espressione). "Abbiamo ricevuto con grande rispetto" il messaggio di Corbyn, ha scritto Hamas, e lo ringraziamo "per la sua posizione di principio nel rifiutare il cosiddetto Piano Trump per il medio oriente". Dopo le polemiche, il portavoce di Corbyn ha ribadito: il leader laburista "è sempre stato solidale con il popolo palestinese. E' la cosa giusta da fare".

(Il Foglio, 18 maggio 2019)


Con Mahmood e Madonna Tel Aviv stasera canta su Rai1

di Simona Orlando

 Il programma
  Se per scaramanzia non si vuole ipotizzare la vittoria di Mahmood, diciamo che rischia il podio all'Eurovision Song Contesi a Tel Aviv, finale in onda stasera su Rai1 dalle 20.35 (commentatori Flavio Insinua e Federico Russo, mentre su Radio2 ci saranno Gino Castaldo ed Ema Stokholma). Il favorito per gli scommettitori è Duncan Laurence dai Paesi Bassi, ma le quote del trionfatore sanremese, che salirà sul palco 22esimo in scaletta (in tutto sono 26), sono in forte ascesa e su Spotify la sua Soldi è il brano più ascoltato fra quelli dei finalisti.

 Imbarazzo
  I social ironizzano sul suo inglese forfettario, ma in conferenza stampa l'imbarazzo vero lo hanno creato i giornalisti impreparati sulla sua biografia: «Stai facendo il Ramadan?», «Sono cristiano». «Vivi ancora nel ghetto?», «Sto a Milano». «Sei egiziano, hai subito pressioni venendo qui?», «Sono italiano al cento per cento». Intanto Madonna è atterrata con jet privato e ha prenotato l'intero quinto piano del Dan Hotel. Sarà la superospite imbrillocata e con benda all'occhio in versione Madame X, nuovo tentativo, a 60 anni, di ristabilire il suo primato di regina del pop davanti a una platea di duecento milioni di telespettatori.

 Due canzoni
  Porterà due canzoni: il nuovo singolo Future, quarto estratto del disco di inediti in uscita il 14 giugno, inciso con il rapper Quavo e co-prodotto con Diplo, e Like A Prayer, classico del 1989, un pop elevato dal gospel che fu condannato dal Vaticano e che stavolta, sostenuto da un coro di trentacinque voci, proverà forse ad elargire un messaggio di pace. Un atto coraggioso più che altro perché mette pericolosamente a confronto l'artista creativa del passato e quella che deve dimostrare di essere ancora rilevante. Di certo non è una che tace e ama passare inosservata, soprattutto dopo le accuse di aver ignorato il boicottaggio della manifestazione in Israele. Gli attivisti per la causa palestinese hanno organizzato i due eventi alternativi Globalvision e Gazavision per protesta contro «l'apartheid israeliana» (pare alla presenza di Brian Eno) mentre Lady Ciccone, folgorata dagli insegnamenti Kabbalah, potrebbe optare per una visita sulla tomba dei rabbini fondatori della mistica ebraica. Insomma canzonette in un contesto geopolitico teso, in cui entra anche lo sfottò dell'ambasciata americana in Israele che sui social ha postato la stilettata: «Senza offesa, Europa, ma l'esibizione che ci aspettiamo di più all'Eurovision di Tel Aviv è di un'artista americana».

(Il Messaggero, 18 maggio 2019)


Gaza respira, sono arrivati gli aiuti del Qatar

Da alcuni giorni vengono distribuiti 11 milioni dollari giunti da Doha destinati a 108mila famiglie che vivono in condizioni di estrema indigenza. Ogni famiglia riceve 100 dollari con cui affrontare le necessità più urgenti

GERUSALEMME - L'emiro del Qatar ha mantenuto le promesse fatte dopo l'ultima escalation a Gaza tra Israele e le formazioni armate palestinesi. Oltre all'aiuto, 15 milioni al mese per sei mesi, che ha già elargito dalla fine dello scorso anno per Gaza, ora sono arrivate le prime tranche dei 480 milioni di dollari - 300 per l'Autorità Nazionale a Ramallah e 180 per aiuti umanitari a Gaza - messe a disposizione per coprire in parte i deficit dei due governi palestinesi e permettere il pagamento degli stipendi degli impiegati pubblici e i sussidi alle famiglie più povere. Un aiuto che giunge ancora più gradito in questo periodo in cui i musulmani osservano il Ramadan, un mese che prevede dopo il digiuno dall'alba al tramonto riunioni di famiglia, la preparazione di piatti tradizionali per il pasto serale e l'acquisto di regali per i bambini.
   Da alcuni giorni lunghe code si formano già all'alba davanti agli sportelli bancari dove vengono distribuiti 11 milioni dollari giunti da Doha destinati a 108mila famiglie che vivono in condizioni di estrema indigenza. Ogni famiglia riceve 100 dollari con cui affrontare le necessità più urgenti. La distribuzione avviene secondo un elenco alfabetico di nomi pubblicato su internet.
   L'ingresso dei fondi del Qatar avviene comunque con l'autorizzazione di Israele che continua il blocco di Gaza controllata da Hamas. Il movimento islamico, attraverso il leader Ismail Haniyeh, ha affermato nei giorni scorsi che la sua forza militare ha imposto "nuovi equilibri" a vantaggio dei palestinesi. La realtà sul terreno dice che per Gaza dopo guerre, scontri e combattimenti pagati a cari prezzo dalla popolazione civile, non è cambiato nulla. Israele continua ad imporre le sue rigide restrizioni a questo piccolo territorio palestinese.
   Il 13 maggio l'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha lanciato un appello per donazioni internazionali pari a 60 milioni di dollari entro la fine del mese, altrimenti a partire da giugno non potrà fornire assistenza alimentare a più di un milione di palestinesi di Gaza. Sono 620.000 i poveri estremi a Gaza che non possono coprire le loro necessità alimentari basilari e devono sopravvivere con 1,6 dollari al giorno, e quasi 390.000 poveri assoluti che sopravvivono con 3,5 dollari al giorno.

(Nena News, 18 maggio 2019)


I duemila anni di storia degli ebrei in Italia

Il museo dell'ebraismo italiano, a Ferrara, dimostra che integrare le minoranze arricchisce tutto il paese. Un messaggio fondamentale in un'epoca di crescente intolleranza.

di Harry D. Wall (The New York Times)

 
MEIS - Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah
L'epigrafe incisa in latino sull'antica tavola di pietra era breve e affettuosa: "Claudia Aster, prigioniera da Gerusalemme". Fu portata a Roma in catene dopo la repressione di una rivolta a Gerusalemme nel 70 dC. Sembra fosse la concubina di un notabile romano che volle darle una sepoltura dignitosa e che aggiunse un elemento insolito alla pietra funeraria: "Vi prego di prendervene cura e di rispettare la legge che vieta di rimuovere questa iscrizione". Questo omaggio è una delle tante rivelazioni del nuovo Museo dell'ebraismo italiano e della shoah (Meis), a Ferrara, e il cuore della prima grande mostra organizzata dal museo nel 2017, intitolata: Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni. La mostra esamina il lungo e complesso legame tra Roma e Gerusalemme, tra cristianesimo ed ebraismo.
  Gli ebrei vivono in Italia da più di duemila anni e sono una delle più antiche comunità della diaspora occidentale. Anche prima della distruzione del tempio di Gerusalemme, a quell'epoca il cuore dell'ebraismo, e il trasferimento e la messa in schiavitù dei prigionieri ebrei a Roma, c'erano ebrei che vivevano nell'Italia meridionale, dove erano arrivati come mercanti o profughi.
  La storia della vita degli ebrei in Italia potrebbe sembrare una lunga epopea di sofferenza e traumi: schiavitù all'epoca dei romani, nel medioevo l'inquisizione e la persecuzione da parte della chiesa, segregazione forzata in quartieri angusti. Nel 1516 a Venezia fu creato il primo di molti ghetti. Nel novecento ci furono il fascismo, le leggi razziali antisemitiche e l'olocausto. Quasi 7.700 ebrei furono uccisi su una popolazione totale di 44.500 persone.
  Esiste però un'altra faccia della storia ebraica italiana, fatta di accettazione, integrazione e perfino apprezzamento nel lungo arco di tempo di civilizzazione nella penisola. "Il dialogo storico con la cultura italiana ha arricchito l'ebraismo italiano e a sua volta l'ebraismo ha portato alla cultura italiana importanti contributi e valori", spiega Simonetta Della Seta, che dal 2016 è direttrice del museo.

 Dialogo e coesistenza
  Il museo è organizzato cronologicamente secondo le età della storia italiana, e la collezione permanente si arricchisce nel tempo di nuovi elementi. Ad aprile di quest'anno è stata inaugurata un'altra mostra dedicata agli ebrei e al rinascimento. All'olocausto il museo dedicherà un'esposizione permanente, che sarà inaugurata a settembre.
  Ferrara, una città dell'Italia nordorientale a metà strada tra Bologna e Venezia, che nel medioevo fu centro della vita ebraica, può sembrare una scelta strana come sede del museo. La città è stata un importante centro del rinascimento - dominata da un grande castello, centro nevralgico della potente famiglia degli Este, e circondata da mura e fortificazioni medievali -ma non rientra nelle destinazioni italiane più frequentate per quanto riguarda la cultura ebraica o il turismo più in generale. Il Meis, però, potrebbe cambiare le cose.
  Il museo è costruito in parte sui resti di una vecchia prigione di via Piangipane, un complesso di mattoni di due piani a poca distanza da quello che era il ghetto ebraico. Durante la seconda guerra mondiale nell'edificio furono rinchiusi i partigiani e gli ebrei. L'edificio ospitò le carceri cittadine fino al 1992. Perché scegliere una vecchia prigione per ospitare il museo?
  "La sfida è stata prendere un luogo buio in cui le persone venivano rinchiuse per trasformarlo in uno spazio aperto alle idee, alla cultura e al dialogo. Questa è la nostra missione", spiega Della Seta.
  La collezione del museo, con più di duecento pezzi e installazioni multimediali, sostiene questa narrazione alternativa fatta di coesistenza e di vari contributi. Un mosaico del quinto secolo, che ritrae due matrone, una con l'antico testamento e l'altra con il nuovo, mostra un'unica comunione di fede, un capitolo importante della relazione tra ebraismo e cristianesimo, che in altri momenti storici è stata difficile. Ci sono preziosi documenti e strumenti che descrivono il contributo ebraico nella medicina, nella scienza e nell'astronomia. In mostra ci sono anche i frammenti di antichi testi e manoscritti che sottolineano l'importanza della scrittura nella storia ebraica d'Italia. "Per secoli gli ebrei sono stati scrittori e scrivani. Poi sono diventati gli stampatori degli italiani", spiega Della Seta, aggiungendo che tra i primi editori d'Italia, durante il medioevo, ci sono state le stamperie ebraiche di Venezia e Soncino.
  Ferrara rappresenta un'epoca d'oro per l'ebraismo italiano. Nel cinquecento i duchi della città, gli Este, decisero di accogliere gli esiliati sefarditi spagnoli e altri ebrei, in un periodo in cui il potere politico della chiesa cattolica era dominante e gli ebrei venivano confinati nei ghetti a Roma e a Venezia.
  "Il duca capì che gli ebrei, in gran parte mercanti e commercianti, potevano contribuire alle ambizioni degli Este per lo sviluppo dell'industria tessile di Ferrara", spiega Andrea Pesaro, 82 anni, ingegnere in pensione e presidente della piccola comunità ebraica di Ferrara, che conta circa ottanta persone.
  Al suo apice, nel medioevo, la comunità ebraica di Ferrara era composta da duemila persone, racconta Pesaro. C'erano studiosi, medici e stampatori. Ma dopo la fine del regno degli Este la chiesa cattolica aumentò la sua influenza, le persecuzioni antisemite s'intensificarono e gli ebrei furono costretti a vivere in un ghetto dal 1627 fino all'emancipazione del 1859.
  "Gli ebrei vivono a Ferrara da più di mille anni", racconta Pesaro di fronte all'edificio della sinagoga, in via Mazzini 95, sede originale dal 1603. Oggi è in fase di restauro dopo che nel 2012 un terremoto l'ha danneggiata gravemente. L'edificio è semplice, di mattoni rossi, quasi indistinguibile. L'unica differenza con gli altri edifici sono le due targhe, vicino all'ingresso ad arco, che commemorano le vittime ferraresi dell'olocausto. All'interno gli ambienti più importanti sono la Scola tedesca (ashkenazita) e la Scola italiana. I soffitti a volta della Scola tedesca, con i candelabri e i vivaci motivi ebraici sulle pareti, contrastano con la semplicità dell'Arca della Torah e dei banchi di legno scuro.

 Un'istituzione pubblica
  Una passeggiata nel ghetto con Pesaro permette una commovente osservazione di un tempo lontano. Via Giuseppe Mazzini, una volta la principale strada del ghetto, oggi è piena di caffè e negozi, e di gente in bici che va in direzione della piazza centrale, dominata dalla cattedrale e dal castello estense.
  Due strette strade di ciottoli, adiacenti a via Mazzini, formano il cuore più riconoscibile del ghetto. Camminando in una di queste, via Vignatagliata, Pesaro mi indica gli edifici dove sorgevano il forno che produceva pane azzimo o la scuola ebraica, i cui alunni aumentarono dopo che le leggi razziali del 1938 impedirono agli ebrei di frequentare le scuole pubbliche. A sinistra c'è la piccola piazzetta intitolata a Isacco Lampronti, un noto rabbino, studioso e medico del settecento. La sera, quando le luci fioche danno un'aria malinconica alle strade, è facile immaginare quel periodo così buio per gli ebrei di Ferrara.
  Il cimitero ebraico, fuori dal ghetto, è impressionante, se non altro per le ampie porzioni d'erba senza lapidi. Quando chiedo a Pesaro dove siano finite tutte le pietre tombali, mi spiega che marmo e pietra furono requisiti nel Settecento, all'epoca dell'Inquisizione, per costruire i due pilastri che incorniciano l'ingresso alla sede del comune, di fronte alla cattedrale.
  Il cimitero ebraico attira molti visitatori, italiani e stranieri, che vengono soprattutto per rendere omaggio allo scrittore ferrarese Giorgio Bassani, noto in particolare per il romanzo Il giardino dei Pinzi Contini, che racconta la storia di una ricca famiglia ebrea che deve fare i conti con le leggi razziali prima di essere travolta dall'olocausto. La tomba dello scrittore è isolata rispetto alle altre e ha una lapide di bronzo che poggia su una lastra di pietra. Secondo Pesaro e altri componenti della comunità ebraica ferrarese, il libro è offensivo nei confronti della famiglia Pesaro, su cui il romanzo sembra essere basato, perché descrive la sua famiglia e gli ebrei di Ferrara come una comunità ignara del fascismo e dell'imminenza del proprio tragico destino. Il museo è un'istituzione pubblica, finanziata dallo stato, istituita con una legge nel 2003. Originariamente era stato concepito come un museo dell' olocausto, ma in seguito è stato deciso di includere anche la storia e l'eredità culturale dell'ebraismo italiano. È stato inaugurato il 13 dicembre 2017in due degli ex edifici carcerari. Quattro nuovi edifici, costruiti in modo da sembrare cinque, come i libri della Torah, saranno terminati entro il 2021. A quel punto il museo avrà una superficie di novemila metri quadri, per un costo stimato di cinquanta milioni di euro.

 Finalità più vaste
  All'ingresso si può vedere un filmato di 24 minuti che racconta la storia degli ebrei italiani attraverso alcune vicende individuali: uno schiavo ebreo, deportato da Gerusalemme a Roma nel primo secolo, uno studioso medievale che gode di uno status privilegiato, e una ragazza costretta a lasciare la scuola nel 1938 a causa delle leggi razziali. Dopo questo riassunto di storia si può raggiungere il secondo edificio facendo una breve passeggiata attraverso un giardino didattico che spiega le regole alimentari ebraiche.
  La mostra Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, si concentrava soprattutto su Roma e sulle regioni meridionali (Sicilia, Puglia, Campania e Calabria) dove nel corso del primo millennio si stabilì la maggior parte degli ebrei. Dopo essere passati accanto a una replica dell'arco di Tito, che commemora la vittoria di Roma su Gerusalemme e ritrae alcuni soldati che portano con sé la menorah (la lampada a olio a sette bracci), i visitatori possono osservare alcuni manufatti originali o riproduzioni: antiche stampe, amuleti, anelli, sigilli e lampade a olio con simboli ebraici, manoscritti medievali. Alcuni di questi concessi in prestito permanente da altri musei italiani.
  Ci sono stanze che simulano le catacombe ebraiche di Roma, con pareti decorate da affreschi che ritraggono la menorah e altri simboli religiosi e caratteri scritti in ebraico. "Le catacombe ebraiche di Roma sono state una miniera per le nostre conoscenze sugli ebrei dell'età imperiale, circa quarantamila persone", spiega Della Seta.
  La mostra è organizzata in maniera tematica e cronologica: gli ebrei in Italia, il legame tra ebrei e cristiani, il contributo degli studiosi e degli scienziati ebrei. Gli schermi per vedere i video sono sistemati in modo strategico con interventi di storici, archeologi e rabbini che spiegano le loro scelte sui pezzi da esporre e gli eventi storici. I due piani del museo fanno emergere la tenacia e la portata della storia ebraica nel corso dei millenni. La penisola italiana è stata abitata da romani, goti, bizantini, longobardi e musulmani. L'unica presenza ininterrotta è stata quella degli ebrei, rimasti fedeli alla loro identità e alla loro civiltà nonostante le tante sfide alla loro sopravvivenza. Secondo l'Unione delle comunità ebraiche italiane, oggi in Italia ci sono circa trentamila ebrei, la maggioranza dei quali a Roma e a Milano.
  La missione del museo è alimentare il dialogo, la comprensione e la coesistenza, spiega Dario Disegni, presidente del Meis: "Il Meis racconta la storia di una minoranza che si è integrata nella società italiana ed è stata in grado di mantenere la sua identità culturale e religiosa. È davvero un modello, un punto di riferimento per la società italiana ed europea di oggi".
  È un messaggio, in un periodo in cui l'Italia e altri paesi europei sono messi alla prova da una nuova ondata d'immigrazione e di crescente intolleranza, che potrebbe conferire al Meis un'eco e finalità più vaste di quelle che normalmente hanno i musei storici.

(Internazionale, 17 maggio 2019)


I nuovi volti dell'ebraismo americano

Alla scoperta delle comunità indipendenti, fenomeno di un ebraismo giovane che non accetta etichette.

di Simone Somekh

 
NEW YORK - Stando ai numeri, la comunità ebraica degli Stati Uniti è la più grande al mondo; si parla di circa sette milioni di ebrei. Ma parlare di ebraismo americano come di un monolite è una forzatura, date le mille sfaccettature, movimenti e identità che lo compongono.
   Fino a pochi decenni fa, risultava forse più facile distinguere tra le tre correnti di ebraismo principali negli Stati Uniti, ovvero ebraismo riformato, conservative e ortodosso. All'interno di queste tre denominazioni, però, vi sono miriadi di sfumature, gruppi, organizzazioni differenti; esistono poi altri movimenti, come l'ebraismo ricostruzionista e quello renewal. Negli ultimi anni, con l'emergere di nuove comunità che non si identificano con alcun movimento e si definiscono «non-denominational», se non addirittura «post-denominational», risulta ancora più difficile compartimentare l'ebraismo americano.
   Nasce così il fenomeno degli independent minyanim, gruppi di preghiera indipendenti, ovvero comunità pop up fondate dal basso, gestite per lo più da volontari, sintomo di un ebraismo giovane che non accetta etichette. Spesso non vengono create per carenza di sinagoghe, ma, al contrario, per il desiderio di alcuni ebrei di distaccarsi dai modelli istituzionalizzati e tradizionali di comunità.

 Upper West Side
  Il primo esemplare nasce forse in un piccolo appartamento sulla 110ima strada dell'Upper West Side, a Manhattan, nell'aprile del 2001, quando sessanta giovani ebrei si stipano in un bilocale per recitare insieme la preghiera mattutina dello shabbat. È questo l'esordio di Kehilat Hadar, un gruppo di preghiera egalitario e indipendente che oggi conta almeno 200 partecipanti e che si riunisce quasi ogni venerdì sera e sabato mattina all'interno di uno spazio affittato dalla scuola Solomon Schechter. Negli anni, Hadar è diventato una vera e propria comunità basata su tre valori, la preghiera, lo studio e il volontariato. Oggi, oltre a lezioni e teffillot, organizza cene di shabbat e un ritiro annuale nella natura durante la festa di Shavuot.
   Nel suo libro Empowered Judaism: What Independent Minyanim Can Teach Us about Building Vibrant Jewish Communities, il rabbino Elie Kaunfer, uno dei tre fondatori di Hadar, definisce il concetto delle comunità indipendenti: sono gruppi di preghiera che si riuniscono regolarmente, spesso in spazi affittati per l'occasione, organizzati e gestiti da volontari, non affiliati ad alcuna denominazione o movimento religioso. Spesso vengono finanziati tramite donazioni piuttosto che da tasse annuali. Negli ultimi vent'anni ne sono emerse più di cento, tra New York, Washington D.C., Chicago, Los Angeles e San Francisco, in aree che attraggono giovani ebrei che, terminato il college, desiderano far parte di una comunità religiosa ma non si identificano nelle istituzioni più stagionate, che di solito attraggono famiglie e anziani.

 Mission District
  Una di queste comunità è il Mission Minyan, gruppo fondato nel 2003 nel Mission District di San Francisco, in California. Ogni sabato, una cinquantina di persone si riunisce in una stanza del Women's Building, a due passi dal Dolores Park, per una tefillà pluralistica vagamente simile al modello «partnership» di Shira Hadasha a Gerusalemme.
   Il Mission Minyan è egalitario, ma si pone la sfida di rispettare la halacha per quanto riguarda il ruolo delle donne nel rito della preghiera. I suoi fondatori hanno trovato un'interpretazione innovativa del termine minyan: se per gli ortodossi significa un gruppo di dieci uomini adulti e per i riformati un gruppo di dieci adulti (senza distinzione di genere), allora al Mission Minyan si raggiunge il minyan solo quando sono presenti dieci uomini adulti e dieci donne adulte.
   «Abbiamo fondato questo minyan perché non vi erano altre sinagoghe nella zona», spiega David Henkin, professore di storia presso l'università di Berkeley. Nato come ritrovo di dieci amici in un appartamento privato, grazie al passaparola, ha attratto col tempo molti sconosciuti, desiderosi di far parte di una comunità ebraica in cui studio, preghiera e spiritualità ricoprono un ruolo centrale.
   Nel 2005, il gruppo ha deciso di affittare uno spazio nel Women's Building, un centro comunitario di quartiere, dove tenere preghiere, lezioni ed eventi; talvolta, il venerdì sera, vi si riuniscono 90 partecipanti, che per Yom Kippur diventano quasi 300. Per permettere a tutti di partecipare, gli organizzatori hanno trovato un compromesso che accoglie sia gli ortodossi più liberali che coloro che provengono da ambienti più progressisti. Vi sono tre sezioni diverse in cui i partecipanti possono prendere posto durante la preghiera: una per gli uomini, una per le donne ed una mista.
   «Non vi è una struttura gerarchica», dice Henkin. La gestione dei diversi aspetti della vita comunitaria è affidata a gruppi di volontari. «Anche i giovani possono partecipare e ricoprire ruoli di leadership». La comunità è formata, tra gli altri, da professionisti della Silicon Valley, accademici e rabbini progressisti; le occasioni di studio e di confronto non mancano. La sfida? «Dipendiamo più dal volontariato e dalla manodopera dei partecipanti che dalle loro donazioni», dice Henkin.
   La preghiera e lo studio sono i due elementi che legano i partecipanti. «Tipicamente, queste sono attività che dividono gli ebrei piuttosto che unirli. Ciò che lega altre comunità - il Sionismo, la politica, le raccolte fondi - non ricoprono un ruolo centrale nella nostra»

 Washington Heights
  All'estremità nord di Manhattan, a pochi passi dalla Yeshiva University - una delle più grandi istituzioni del mondo ebraico ortodosso modern negli USA - nel 2014 è spuntata una nuova sinagoga «pop up». Situata all'interno del basement di un palazzo residenziale, la Beis Community è nata più come un esperimento della Orthodox Union che come vera e propria comunità indipendente. L'idea era quella di creare un nuovo modello di sinagoga ortodossa modern che includesse giovani professionisti provenienti da background religiosi differenti. La sinagoga segue la prassi ortodossa, ma si è distinta subito per la sua apertura, in netto contrasto con altri ambienti ortodossi che adottano l'etichetta modern.
   Forse proprio per via di questa «apertura», a un paio di anni dalla sua nascita, nel 2017, il Beis si è distaccato dalla Orthodox Union ed è diventato una comunità indipendente, finanziata dalle donazioni dei suoi partecipanti e gestita interamente dal basso. Tra la famosa musical havdalah, programmi di studio e di volontariato, lezioni sulla sessualità e sugli stereotipi di genere, il Beis certamente si distingue da una qualsiasi comunità ortodossa tradizionale.
   «Il nome parla chiaro. Volevamo creare una casa», dice Nathaniel Moldoff, uno dei giovani leader comunitari. «Altre sinagoghe sono molto istituzionalizzate. Noi volevamo creare uno spazio dove i partecipanti fossero anche coloro che organizzano le attività. Volevamo fare più spazio per le donne, che spesso si sentono marginalizzate in altre comunità, ma anche per le persone LGBTQ, per i convertiti e per gli ebrei di colore. Uno spazio che fosse ortodosso, ma dove tutti si sentissero benvenuti».
   Creare il Beis, continua Moldoff, ha permesso ai suoi leader di essere creativi e di inventare un concetto unico e nuovo, ispirato ad altre comunità sperimentali, come il Lab/Shul di New York e il Kitchen di San Francisco. Pur seguendo il rito ortodosso, il Beis non è formalmente affiliato al movimento ortodosso americano.
   Nonostante le ovvie differenze, in ognuna di queste comunità vige lo stesso mantra: Be the change you want to see. Sii il cambiamento che vuoi vedere. Questo è il motore che permette a queste piccole comunità indipendenti di sopravvivere e crescere, grazie all'impegno di ogni singolo partecipante.

(JoiMag, 17 maggio 2019)


Molto interessante la realtà di questo movimento giovanile di ebrei americani. "Ebrei del dissenso", potrebbero essere chiamati, ricordando il fenomeno dei "cattolici del dissenso" italiani di cinquant'anni fa. Tra questi molti avevano spinte fortemente politiche che li portavano ad essere adiacenti con quei "comunisti del dissenso" che negavano Stalin e osannavano Ho Chi Minh. Altri invece erano più calmi e cercavano un rinnovamento spirituale-liturgico che permettesse loro di continuare a dirsi cattolici, ma di prendere le distanze da certe forme istituzionali che apparivano ormai superate e limitanti. "Gruppi di preghiera indipendenti", "comunità fondate dal basso", giovani che "desiderano far parte di una comunità religiosa ma non si identificano nelle istituzioni più stagionate", sono espressioni presenti in questo articolo che in forma analoga venivano usate anche tra i giovani cattolici di allora. Stranamente, si direbbe che questa volta gli ebrei si sono fatti precedere dai cristiani. Ma forse non è così. Forse è soltanto il vento della “religione fai da te” che soffia sempre più forte e continua ad avanzare, cominciando dalle zone più esposte per arrivare a quelle più protette. M.C.


Cristiano Ronaldo e la maxi donazione ai palestinesi di Gaza in occasione del Ramadan

Giocatore indiscutibile in campo (chi potrebbe discutere un calciatore che ha vinto cinque palloni d'oro) ma discretamente discutibile nei comportamenti accessori (l'ultimo battibecco con Florenzi era abbondantemente evitabile), Cristiano Ronaldo dimostra ancora una volta di avere una forte sensibilità su alcuni temi extracalcistici.
Stavolta, secondo quanto riportato da diversi media online (e postato sui social in primo luogo dalla organizzazione no profit Onwadan's Charity Foundation), Cristiano Ronaldo avrebbe donato ben un milione e mezzo di dollari ai palestinesi di Gaza in occasione del Ramadan.
Cristiano Ronaldo non è nuovo a gesti di questo tipo, rivolti specialmente ai palestinesi:nel Novembre 2012 CR7 ha messo all'asta la propria Scarpa d'Oro per raccogliere fondi da devolvere ai bambini palestinesi.
Nel 2016, quindi, CR7 ha incontrato Ahmad Daubasha, bimbo di 5 anni unico sopravvissuto in una famiglia sterminata dai coloni israeliani, regalandogli una maglietta con dedica.
In mezzo, un altro gesto di "supporto" alla causa palestinese - che sicuramente ha fatto poco piacere alla controparte israeliana: nel Marzo del 2013, ai margini della gara tra Portogallo ed Israele per le qualificazioni al Mondiale del 2014, il fuoriclasse lustiano ha rifiutato lo scambio di maglia con un giocatore israeliano. Pur stringendogli la mano, CR7 si sarebbe giustificato dicendo che non avrebbe potuto indossare una maglietta con quella bandiera.
Tornando all'ambito della solidarietà - sicuramente meno opinabile - nel dicembre del 2016 CR7 ha effettuato una altra sostanziosa donazione a favore dei bambini siriani.
Pare evidente la forte sensibilità del numero 7 della Juventus, specialmente nei riguardi delle realtà meno fortunate tra i paesi islamici.

(NewNotizie, 17 maggio 2019)


Come Maradona. In quale misura un “amore” di questo tipo è sorretto dall'odio?


Università italiane stringono accordi con quella di Gaza dove si insegna la guerra a Israele

Tutto normale?

di Giulio Meotti

ROMA - Il 12 novembre responsabili della cooperazione Ue nei Territori palestinesi e dell'Agenzia Ue per l'istruzione hanno lanciato da Ramallah il nuovo programma Erasmus fra le università europee e palestinesi. Aderiscono l'irlandese Cork, Siena, Lubiana, la portoghese Evora e l'Unione delle università del Mediterraneo di Roma. Siena è la prima al mondo a mandare studenti all'Università islamica di Gaza. Iniziativa con le migliori intenzioni per tessere scambi fra la Striscia e l'Europa. Una delegazione senese fa visita all'Università di Gaza, come si legge nel portale universitario. Se non fosse che l'Università di Gaza non è come tutte le altre. "L'università presenta la filosofia di Hamas", ha detto al Baltimore Sun Jameela El Shanty, docente in quella università di Gaza. Voluta dal fondatore di Hamas, lo sceicco Yassin, l'università è stata accusata da Israele di mettere a disposizione "laboratori per i razzi", oltre che a fungere da "sede per riunioni segrete dei leader militari". Per questo Israele la colpì nel 2014. Al Fatah - rivale di Hamas - vi ha confiscato armi. Jonathan Halevi, ex ufficiale dell'intelligence israeliana, ha detto che l'università è un centro di "indottrinamento di Hamas". Parlamentari americani hanno fatto interpellanze su quell'università e Fatah ha accusato Hamas di avervi nascosto il caporale israeliano Gilad Shalit. L'Anti Defamation League ha rivelato che l'università ha tenuto un convegno sul "conflitto islamico-sionista". Uno dei partecipanti, Riyadh Qassim dell'Università di Gaza, ha detto che la sconfitta di Israele è una promessa divina. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, vi ha parlato. Subhi Al Yaziji, decano di Studi coranici all'Università di Gaza, in tv ha detto che "sinagoghe e scuole" in Israele sono obiettivi, che "anche i bambini ebrei sono combattenti" e ha invocato la conquista islamica del Vaticano. Negli stessi giorni in cui da Siena partiva un primo studente per Gaza (con articolo sul Corriere della Sera), un docente di quella università, Muhammad Suleiman al Farra, su al Aqsa Tv (l'emittente di Hamas) diceva che tutto Israele è "un campo di battaglia". Ne sapeva qualcosa uno dei professori di quell'ateneo, Abdel Aziz al Rantisi, il capo di Hamas che organizzava attentati suicidi in Israele. Lo studente senese si sta specializzando in chirurgia d'urgenza a Gaza nel dipartimento creato da un altro dei capi di Hamas, il chirurgo Mahmoud al Zahar. E' lecito chiedere al Miur, a Siena e ai responsabili dell'Erasmus: è legittimo che le nostre università stabiliscano legami e interscambi con istituzioni accademiche usate da una organizzazione che persegue la distruzione di Israele?

(Il Foglio, 17 maggio 2019)


Una ragazza ebrea e il Sentiero della libertà

Il Sentiero della libertà arriva da Sulmona a Casoli. All'ingresso del paese, proprio dove passa "Il sentiero", c'era un campo di concentramento per ebrei.

di Ezio Pelino

 
Il Sentiero della libertà, arriva da Sulmona a Casoli. All'ingresso del paese, proprio dove passa "Il sentiero", c'era un campo di concentramento per ebrei. Chissà se qualcuno dei viandanti ne è stato a conoscenza: la "marcia" non si è mai fermata, per un doverosa riflessione, davanti a quel luogo. Durante le prime edizioni del "Sentiero" promosse dal liceo scientifico, non si sapeva nulla di quel luogo maledetto, di quell'anticamera della morte. È il libro di Livio Isaak Sirovich, "Non era una donna, era un bandito", che ci svela la tragica storia di un giovane ebreo triestino, Giacomo Nagler, recluso a Casoli con il padre e una cinquantina di altri ebrei italiani. E ci fa conoscere anche la straordinaria storia della sua fidanzata, Rita Rosenzweig, medaglia d'oro della Resistenza, unica donna che non fu staffetta, ma partigiana combattente.
   Scrive di lei, Furio Colombo: "coraggiosa e tenacissima partigiana della Brigata Aquila, in un piccolo distaccamento che cade nelle mani di un vasto rastrellamento congiunto di militi fascisti e di soldati tedeschi, e viene subito uccisa, mentre è già ferita, da un ufficiale italiano". Con l'entrata in guerra dell'Italia, vengono arrestati a Trieste cinquantuno ebrei, fra questi il giovane Kubi, rinchiuso nel campo di concentramento di Casoli. Rita scriveva a Kubi che era andata per curiosità a vedere un film, "Suss l'Ebreo", ma l'esperienza era stata terribile. "Ho sofferto le pene dell'inferno, durante la proiezione c'è stato un lancio di manifestini dalla galleria con la scritta a caratteri cubitali «Morte agli ebrei»".
   Alla famiglia viene tolta la cittadinanza e imposto il suo vecchio nome ebraico di Rosenzweig. Una svolta nella sua vita è la conoscenza di un uomo più maturo, un quarantenne. Un eroe pluridecorato, che, capo di Stato Maggiore della divisione Pasubio, ha combattuto da tenente colonnello in Russia. Intanto Kuby marcisce nel campo di concentramento di Casoli. L'unico conforto, qualche chiacchierata con il parroco. Le storie dei due fidanzati si dividono, ma entrambi troveranno una tragica morte. Kubi ad Auschwitz. Rita da eroina, combattendo insieme al suo uomo, divenuto capo partigiano della banda "L'Aquila", sul monte Comun, in contatto con il CLN di Verona. Rita rifiuta il ruolo femminile di staffetta, è partigiana combattente.
   La città di Verona, nel dopoguerra, tributerà onoranze speciali a Rita. Al suo nome sarà dedicata la via della sinagoga e le verrà assegnata la medaglia d'oro alla memoria. Alla cerimonia, a Verona, sarà presente Umberto Terracini, Presidente dell'Assemblea Costituente, con le rappresentanze dei Gruppi partigiani. Ora che il campo di concentramento di Casoli non è più anonimo, ma ha il volto di Kubi, di suo padre e di tanti altri ebrei, "Il sentiero della libertà" avrà il dovere di sostare davanti al tragico Campo, per un momento di riflessione. Essi non hanno avuto il loro sentiero della libertà. Finirono eliminati ad Auschwitz.

(L’incontro, 17 maggio 2019)


Felix Klein, un commissario contro l'antisemitismo in Germania

di Marina Gersony

Dai primi di maggio Felix Klein, classe 1968, nato a Darmstadt, diplomatico e avvocato tedesco specializzato in diritto internazionale, è stato nominato responsabile per la lotta all'antisemitismo in Germania. Un antisemitismo dai diversi volti e dalle molte sfaccettature a partire dall'antisemitismo dei pregiudizi che ha radice nei secoli a quello attuale delle estreme destre a quello che Klein chiama l'antisemitismo "importato" di matrice islamica.
   Come ha dichiarato in diverse interviste il nuovo commissario, la sua priorità è di registrare in modo più sistematico e preciso gli episodi di antisemitismo in Germania, un fenomeno in ascesa che desta la preoccupazione della comunità ebraica tedesca e internazionale: il 90% di quelli registrati ufficialmente - nel 2017 sono stati circa 1.500 - e provenienti da estremisti di destra anche se finora molti attacchi di matrice islamica non sono stati registrati.
   Già rappresentante del Governo Federale per la Vita Ebraica e la Lotta contro l'Antisemitismo in Germania, il diplomatico avrà un ruolo chiave per dare una risposta, contrastare e rendere più visibili i problemi legati all'antisemitismo.
   In un'intervista pubblicata dalla Jüdische Allgemeine (di Martin Krauss, in data 16.05.2019), Klein ha spiegato, tra l'altro, che da come è strutturata la Repubblica Federale, in molti casi il governo non è responsabile del tema in questione: «Pertanto - ha osservato Klein -, nei primi mesi del mio mandato ho sentito l'esigenza di creare anche delle strutture: ora ci sono dieci province rappresentative sulla lotta contro l'antisemitismo e per promuovere la vita ebraica. Siamo sulla strada giusta». Klein ha quindi dichiarato che «come Commissario Federale, non ho il diritto di ispezionare il fascicolo o di imporre sanzioni. Ma posso dire che tutti i ministeri federali lavorano insieme e c'è un'eccellente cooperazione con gli attori dei Länder, i comuni, le chiese, le fondazioni politiche e molte altre istituzioni».
   Chi è Felix Klein? Figlio di Hans Klein, violinista degli anni '50 nella Philharmonic Orchestra di Sibiu, il commissario ha un curriculum di tutto rispetto: dopo aver frequentato l'United World College a Duino (Trieste), ha studiato Legge a Friburgo e ottenuto in seguito un master presso la London School of Economics laureandosi infine a Bonn. Dopo altri studi prestigiosi, ha iniziato la sua carriera nel Foreign Office a Bonn. Tra i molti incarichi, è stato per un breve periodo anche Vice Console Generale a Milano.

(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2019)



Antisemitismo: nuovo caso in Francia

'Morte agli ebrei' in vernice nera, con diverse svastiche, sul muro di cinta di una proprietà privata. A Villerest non è il primo caso.

Nuovi tag antisemiti sono stati scoperti a Villerest, nei pressi di Roanne, in Francia. La scritta in vernice nera "Morte agli ebrei", accompagnata da diverse svastiche è stata "scoperta sul muro di cinta di una proprietà privata lungo l'asse stradale che collega il comune di Roanne, il che la rende molto visibile", ha precisato il sindaco di Villerest, Philippe Perron, citato dalla stampa francese.
Un'inchiesta per fatti simili venne già aperta a fine marzo nello stesso comune.

(la Regione, 16 maggio 2019)


Show Eurovision, attacchi hacker. Madonna star: no al boicottaggio

di Davide Frattini

GERUSALEMME Il bar sul lungomare copre un centinaio di metri, le 85 bancarelle offrono ricette da tutto il mondo (l'hummus locale non può mancare), i grandi schermi garantiscono lo sguardo ingigantito sullo spettacolo. Banana Beach, così è chiamato questo tratto di spiaggia a Tel Aviv, potrebbe suonare come il titolo di una canzone in corsa all'Eurovision. E il pubblico che si gode la gara da qui è internazionale quanto la sfida canora: sono arrivati diecimila turisti musicali, meno del previsto, tanti per una città che conta mezzo milione di abitanti.
   «Sembrano dappertutto», commenta Eytan Schwartz, incaricato dal sindaco di organizzare l'accoglienza, di addestrare e rabbonire gli autisti di bus o i taxisti a volte piuttosto ruvidi. Di preparare la metropoli sul Mediterraneo - ormai ultracentenaria, è più vecchia di Israele, resta la bambina ribelle del Paese - ad accogliere quello che definisce «il regalo di Netta Barzilai»: con la vittoria l'anno scorso a Lisbona ha riportato in Israele il Microfono di cristallo vent'anni dopo il trionfo transex di Dana International.
   È stata Netta ad aprire la prima semifinale negli studi a nord di Tel Aviv emergendo da un enorme Maneki neko, il tradizionale gatto giapponese che dà il benvenuto. Delle diciassette nazioni in gara martedì sera, dieci hanno conquistato la finale. Ce l'ha fatta l'australiana Kate Miller-Heidke, considerata tra i favoriti con Zero Gravity: e in apparente assenza di gravità si è presentata sul palco, vestita come una principessa di ghiaccio, sostenuta da aste di ferro che i commentatori israeliani hanno bollato come shipudim, in ebraico significa spiedini. Alla serata di sabato approdano anche un'altra possibile vincitrice - la greca Katerine Duska con Better Love - e gli Hatari. Il gruppo ha voluto moderare le polemiche che si è portato dietro dall'Islanda - il centro Simon Wiesenthal contro l'antisemitismo ha chiesto il bando della loro canzone perché inneggerebbe all'odio - con un messaggio di pace: «Dobbiamo restare uniti e ricordarci di amare».
   I cinque Paesi che contribuiscono di più all'organizzazione dell'evento (i cosiddetti Big Five, più quest'anno Israele) passano automaticamente alla sfida dell'ultimo giorno. Così l'italiano Mahmoud - favorito dai sondaggi - si esibisce sabato sera con la canzone che gli ha fatto vincere Sanremo - Soldi - e con le parole «beve champagne sotto Ramadan» che potrebbero urtare le orecchie ipersensibili dei religiosi, il mese più sacro per i musulmani è cominciato una decina di giorni fa. I fedeli che pregano nella moschea non lontana dal villaggio festaiolo sulla spiaggia si sono già lamentati perché «il chiasso rovina la solennità del momento». Protestano anche i rabbini ultraortodossi che accusano la finale di essere «una profanazione dello Shabbat ebraico».
   Chi non si preoccupa delle critiche è Madonna, che è arrivata martedì sera e si è presa tutto l'ultimo piano di un albergo sul mare. L'ospite d'onore non ha ceduto alle pressioni del movimento che preme per il boicottaggio di Israele e accusa le celebrità di contribuire a oscurare con la luce dei riflettori la situazione dei palestinesi nei territori occupati. A Gaza diecimila manifestanti hanno marciato ieri per commemorare la Nakba, la catastrofe, quella che per loro è la nascita dello Stato d'Israele.
   Il sito della tv nazionale è stato piratato per pochi minuti e sugli schermi sono apparse le immagini di esplosioni a Tel Aviv: gli israeliani accusano Hamas del raid digitale, i fondamentalisti che spadroneggiano su Gaza hanno minacciato di guastare la festa dell'Eurovision.

(Corriere della Sera, 16 maggio 2019)


"Missili in arrivo", un finto allarme hacker turba l'Eurovision a Tel Aviv

Guerra cibernetica e guerra vera

di Gabriele Carrer

MILANO - Chi martedì sera era collegato con il centro Expo di Tel Aviv per la prima semifinale dell'Eurovision Song Contest 2019 dal sito Web della Kan, la tv di stato israeliana, è stato vittima di un attacco hacker. Al posto delle canzoni per due minuti è stato trasmesso un videomontaggio: il logo dell'Idf, le Forze di difesa israeliane, e una serie di minacce, tra cui esplosioni a Te! Aviv e messaggi come "Attenzione: rischio di attacco missilistico", con tanto di invito alla fuga per gli spettatori che si trovavano nel raggio di un chilometro dalla sede della gara, nel nord della città, e "Israele non è un posto sicuro. Vedrai!".
   Ieri, mentre a Gaza cominciavano le manifestazioni lungo il confine per la Nakba (cioè la "catastrofe" con cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele nel 1948), la Kan, l'emittente che trasmette il festival ha accusato Hamas, l'organizzazione palestinese che controlla la Striscia. L'amministratore delegato della Kan, Eldad Koblenz, ha spiegato alla radio militare israeliana che c'è stato un tentativo, "apparentemente da parte di Hamas" di prendere il controllo della trasmissione sul sito. Il tentativo è stato respinto in pochi minuti e questo ha evitato che l'hackeraggio influisse sulla trasmissione televisiva in Israele e all'estero.
   Hamas non ha minacciato esplicitamente l'Eurovision. Ma a inizio mese, pochi giorni prima dell'apertura del festival e delle celebrazioni per il settantunesimo anno di Israele, abbiamo assistito a 72 ore di razzi contro il Sud di Israele da parte di Hamas, decisa ad alzare la pressione con l'obiettivo di sbloccare i fondi dei donatori internazionali verso la Striscia, e raid aerei dell'Idf su una serie di obiettivi dell'organizzazione terroristica. Una tregua ufficiosa negoziata al Cairo tra i servizi segreti israeliani e l'ala politica di Hamas ha messo fino alle violenze.
   Rassicurata dalle parole del premier Benjamin Netanyahu nonostante alcuni giornali locali avessero definito Israele "ostaggio" del festival, l'Eurovisione, cioè l'organizzatore, ha deciso che "the show must go on", che lo spettacolo dovesse continuare. Il tutto nonostante il fermento dei gruppi filopalestinesi di boicottaggio contro Israele, fomentati da un gruppo nutrito di star e pronti a sfruttare il palcoscenico del concorso, un'occasione di respiro internazionale con imponenti flussi di turismo e che l'anno scorso ha visto collegati 186 milioni di persone per semifinali e finale, per ricattare il governo israeliano.
   Benché la tregua ufficiosa sia stata raggiunta anche per le preoccupazioni di Gerusalemme in vista dell'Eurovision, Hamas non pare disposta a rinunciare alle minacce, anche se cibernetiche e non a suon di razzi, contro la popolazione israeliana, come conferma l'hackeraggio di martedì sera. Da un po' di tempo, il gruppo terroristico della Striscia di Gaza sta utilizzando anche i cyber-attacchi per colpire Israele. Tuttavia, per la prima volta, domenica 5 maggio, Gerusalemme ha risposto con un raid, cioè un bombardamento, a un tentativo di hackeraggio, cioè un attacco cibernetico: è una svolta per la cyberwarfare. Israele, bloccato un attacco hacker da parte di Hamas, ha risposto abbattendo il quartier generale informatico dell'enclave. "Alcuni stati, come per esempio gli Stati Uniti, sin dal 2011 hanno previsto nelle loro policy di poter rispondere cineticamente ad attacchi cibernetici", ha spiegato Stefano Mele, avvocato esperto in diritto delle tecnologie e presidente della Commissione sicurezza cibernetica del Comitato Atlantico Italiano, all'agenzia Cyber Affairs. Ma, continua l'esperto, "questa è la prima volta che si ha notizia dell'attuazione pratica di una simile opzione all'interno di un conflitto tra stati e soprattutto con una reazione quasi in tempo reale".
   Guardando al piano legale della risposta di Gerusalemme si nota come, spiega Mele, considerando Hamas un "ente paragovernativo" Israele ritiene il "conflitto militare già in atto", di cui l'attacco hacker di Hamas "è da considerare soltanto come un piccolo tassello". Un tassello, assieme ai razzi dalla Striscia e alle minacce durante la diretta dell'Eurovision, per mettere pressione al premier Netanyahu.

(Il Foglio, 16 maggio 2019)


Cento ebrei sotto attacco. Helsingborg, laboratorio dell'antisemitismo europeo

"Schiacciare i sionisti" nella citta' svedese. Una donna accoltellata

di Giulio Meotti

 
Helsingborg
ROMA - Dal porto di Helsingborg, nel sud della Svezia, la Danimarca è vicinissima. Appena dieci chilometri separano la svedese Helsingborg dalla danese Helsingor e nell'ottobre 1943 lì arrivavano le barche che portavano in salvo gli ebrei danesi.
   Due giorni fa, Helsingborg ha visto l'aggressione a una donna appartenente alla locale comunità ebraica, accoltellata nove volte per strada in una delle ore di punta del mattino. "Ancora una volta gli ebrei in Europa sono in pericolo", ha detto il capo di stato israeliano Reuven Rivlin dopo aver appreso del "brutale accoltellamento". Questo episodio, ha aggiunto, "ci fa constatare che non bastano le memorie dell'Olocausto, che peraltro stanno svanendo, per garantire la sicurezza delle comunità ebraiche. Nel mentre le nostre scuole, le sinagoghe e i centri sociali vengono trasformati in fortezze".
   Helsingborg è un piccolo laboratorio dell'antisemitismo europeo. Una comunità piccolissima, soltanto cento membri su una popolazione di centomila abitanti, ma da anni sotto attacco e tensione. La scorsa settimana, un imam di Helsingborg, Samir El Rifai, è finito in tribunale per aver definito gli ebrei "figli di scimmie e maiali" durante un sermone a una manifestazione antisraeliana nella piazza Gustav Adolf in città. Il processo, che è stato riportato nei media nazionali, è il risultato di una denuncia presentata dall'ex leader della comunità ebraica di Helsingborg.
   La sinagoga di Helsingborg è già stata il bersaglio di un attacco incendiario. Il rabbino Shneur Kesselman ha personalmente assistito e sperimentato centinaia di episodi antisemiti e quasi tutti provenienti da famiglie di immigrati dal medio oriente. Quasi duecento gli episodi di antisemitismo in dieci anni. Circa un terzo della popolazione della vicina Malmö sono immigrati di prima o seconda generazione dal medio oriente, con grandi comunità provenienti da Iraq e Siria, secondo le statistiche del governo svedese. Lo scorso primo maggio, Ilmar Reepalu, già sindaco di Malmö, è stato filmato in una marcia di attivisti che hanno incitato a "schiacciare il sionismo" mentre sventolavano le bandiere della Lega socialdemocratica giovanile svedese, una branca del Partito socialdemocratico svedese del primo ministro al potere Stefan Löfven. Reepalu ha consigliato agli ebrei di Malmö e Helsingborg di prendere le distanze da Israele se vogliono rimanere al sicuro. Davide discolpati!
   Negli anni Settanta, la comunità ebraica di Malmö contava oltre duemila membri: oggi ne sono rimasti meno di cinquecento. Gli altri sono partiti per Stoccolma o per Israele. Il Centro Simon Wiesenthal ha diramato un avvertimento a tutti gli ebrei che si recano in visita a Malmö: "Togliete i segni religiosi in pubblico e non parlate ebraico". Per questo fra gli ebrei americani e israeliani, il nome di Malmö è associato alla città al mondo più pericolosa per gli ebrei.
   A Helsingborg, la comunità ebraica ha rifiutato persino di partecipare alle commemorazioni della Notte dei Cristalli del 1938 perché l'incontro era stato organizzato da partiti di sinistra e da attivisti musulmani ostili alla comunità ebraica. Dopo il pugnalamento della donna due giorni fa, Amnon Tsubari, padre di sette figli con la doppia cittadinanza svedese e israeliana, ha affermato: "Penso che il futuro dei miei figli sia in Israele".
   Nel 1943 a Helsingborg arrivavano gli ebrei in fuga dai rastrellamenti e dalle deportazioni naziste. Nel 2019 si rischia il percorso inverso.

(Il Foglio, 16 maggio 2019)


Storia di Merci, lo Schindler di Salonicco

Il nuovo libro di Nico Pirozzi. L'eroe: il capitano che salvò dalla deportazione circa trecento ebrei.

di Angelo Agrippa

Un diario misterioso, riscritto dopo qualche decennio dai tragici avvenimenti di Salonicco, nel quale il capitano Lucillo Merci racconta la coraggiosa operazione di cui si rese artefice per salvare circa 300 ebrei, ai quali fu concesso lo status di cittadini italiani per sottrarli alla deportazione. La fitta ragnatela di coincidenze che riporta, per alcuni tratti, a Napoli il bandolo della storia, dove il capitano si trasferì per studiare il tedesco presso l'Istituto Orientale, seguendo le lezioni del professore Christof Derichsweiler, traduttore dei libri di Benedetto Croce, per poter accreditarsi nel delicato ruolo di interlocutore dei vertici nazisti. Ed il profilo semplice, ma gloriosamente illuminato, dei due consoli italiani, Guelfo Zamboni e Giuseppe Castruccio, protagonisti di quell'eroismo della normalità che a distanza di così tanto tempo continua a seminare una scia di insinuanti domande in ciascuno di noi: se ci fossimo trovati al loro posto, saremmo stati in grado di agire con la stessa intrepida determinazione?
   La lezione che ne viene è che l'eroismo non si ammanta mai di vanità, tanto meno ha bisogno di motivazioni oltre quelle evidenti: agire per salvare vite umane. Un messaggio che piomba come un macigno sulle nostre coscienze soffocate dal silenzio complice e disorientato dinanzi all'attuale sterminio dei naufraghi del Mediterraneo. Durante il regime, gli ebrei furono vittime di persecuzioni e a milioni sterminati; qui, oggi, vi sono donne incinte e violentate, sofferenti traversate nel deserto, spietati trafficanti di uomini e il mare che, spesso, non separa il peggio del passato dalla speranza di un nuovo futuro, ma ciò che resta della vita - racimolata tra le piaghe della miseria e delle guerre - dalla morte che giunge come un inciampo maledetto sulle ultime miglia di navigazione. Nico Pirozzi, con le sue storie avvincenti dedicate a quegli «eroi normali» che salvarono migliaia di ebrei, continua ad inchiodarci alle responsabilità di oggi. E lo fa con questo suo ultimo lavoro Salonicco 1943 - Agonia e morte della Gerusalemme dei Balcani (Edizioni dell'Ippogrifo) con il quale rievoca i terribili 157 giorni che servirono ai nazisti per dichiarare Salonicco Judenfrei: città liberata dagli ebrei. Pirozzi non concentra l'attenzione esclusivamente sui documenti in suo possesso, ma ne esplora l'anima, indaga i contesti, ridisegna i volti dei protagonisti, illumina la scena senza perdersi un angolo del racconto e ci accompagna per mano fino alla fermata del bus di Villa Olga, l'antica sede del Consolato italiano a Salonicco, oggi in abbandono, metafora esiziale del nostro neghittoso rapporto con il passato, ma anche del distacco dalla atroce esperienza del presente.
   La ricostruzione della vicenda si avvale del diario manoscritto lasciato dall'allora capitano del Regio esercito, Merci, interprete presso gli uffici consolari e vero ponte tra la rappresentanza diplomatica italiana e i due ufficiali delle SS incaricati della soluzione finale. Uno dei numerosi Schindler italiani che hanno saputo fare dell'anonimato il marmo scolpito della loro generosità di eroi: un monumento alla dignità umana. Sentendosi fino in fondo persone normali.

(Corriere del Mezzogiorno, 16 maggio 2019)


L'identità ebraica dalle mille anime

A La Sapienza di Roma un seminario dedicato al libro di Maurizio Molinari: "Ebrei in Italia: un problema di identità (1870 - 1938)"

 
Un'identità ebraica italiana viva, composta da molte anime, figlia dell'Emancipazione, che il nazifascismo ha tentato di distruggere, tradita poi dal Comunismo, ed oggi protagonista di una rinascita. Questo il tema del seminario che si è tenuto all'Università "La Sapienza" di Roma, alla Facoltà di Giurisprudenza, titolato "L'identità ebraica" e dedicato al libro del Direttore de La Stampa Maurizio Molinari: "Ebrei in Italia: un problema di identità (1870 - 1938)" pubblicato nel '91, che ripercorre ed interpreta la storia dell'ebraismo italiano dall'Emancipazione sino alle leggi razziali.

- Tre identità "più una"
  «La migliore risposta alla Shoah e alla persecuzione - ha spiegato Molinari - è la ricostruzione dell'identità precedente, che il nazifascismo voleva distruggere». La fotografia dell'ebraismo italiano prima delle persecuzioni è il ritratto di un'identità forte, viva e partecipe nella vita pubblica, composta da tre anime, "più una": «Si trattava di un mondo ebraico che aveva fondamentalmente un'identità laica, di natura risorgimentale, una religiosa, e un'altra Sionista, quindi l'identificazione con il Risorgimento in terra d'Israele. Ma c'è un'altra identità, ed è quella degli ebrei libici di cultura italiana: quando gli italiani entrano a Tripoli nel 1911, gli ebrei libici, in gran parte di cultura italiana, si riconoscono in questa. Anche questa è una storia ebraica italiana».

- Dal nazifascismo alla Seconda Repubblica
  Il Direttore ha poi ricordato come il fascismo e il nazismo hanno tentato di distruggere tutto questo, rievocando gli studi e le riflessioni di Dan Segre e Bruno Zevi, «due grandi ebrei italiani», sull'impatto delle persecuzioni sulla popolazione. Dopo la guerra la Democrazia Cristiana, che dimostrò tolleranza e comprensione nei confronti degli ebrei, come partito confessionale non accettò l'identità ebraica. Il Partito Comunista, che con gli ebrei condivise molte battaglie, nel 1967 li tradì schierandosi con l'Unione Sovietica e abbracciando l'antisionismo. Queste "ferite", secondo il Direttore, «oggi in Italia sono state superate con la Seconda Repubblica e la nascita di nuove forze politiche, di centro destra e di centro sinistra, portatrici della volontà di ricongiungersi con l'identità ebraica».

- Il Rinascimento dell'ebraismo italiano
  È così che oggi l'ebraismo è tornato a vivere in Italia: «Nelle Comunità ebraiche ci sono i religiosi, i laici, gli ultralaici, e i sionisti. Stiamo assistendo a un Rinascimento dell'ebraismo italiano. In termini di vivacità intellettuale, capacità di espressione, e contrasti, anche aspri. Gli ebrei italiani ripetono la vivacità culturale che c'era prima del 1938, e questo testimonia come la vita è sempre più forte della morte».
  Al seminario sono intervenuti tra gli altri Guido Alpa (Professore emerito di diritto civile a La Sapienza), Massimo Brutti (Professore Emerito di Istituzioni di diritto romano), Riccardo Di Segni (Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma), Ruth Dureghello (Presidente della Comunità ebraica di Roma), David Meghnagi (Professore dell'Università Roma Tre), Paolo Ridola (preside della Facoltà di Giurisprudenza), Laura Moscati (direttore del Dottorato di Ricerca), e Massimo Brutti (ordinario di Diritto Romano a "La Sapienza" di Roma).

(La Stampa, 16 maggio 2019)


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