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Notizie 1-15 mag 2024


Israele: respinta la risoluzione Onu sulla Palestina

Netanyahu ha dichiarato che non permetterà la creazione di uno “stato terrorista”.

Il governo di Gerusalemme, dietro la proposta del leader dell’esecutivo Netanyahu, ha respinto all’unanimità la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consente alla Palestina di diventare membro delle Nazioni Unite.

• La decisione
  Il governo israeliano ha respinto all’unanimità, su proposta del premier Benyamin Netanyahu, la recente Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consente alla Palestina di diventare membro delle Nazioni Unite. Lo ha fatto sapere l’ufficio del premier. “Non daremo una ricompensa per il terribile massacro del 7 ottobre. Non permetteremo loro – ha detto Netanyahu – di creare uno stato terrorista dal quale possano attaccarci ancora più forte”.

(In Terris, 15 maggio 2024)

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Sisi teme che la rabbia per Gaza si tramuti in rabbia contro di lui

Su Rafah il dittatore mostra i muscoli a Israele per mascherare la sua debolezza interna.

di Luca Gambardella

Tank israeliani pattugliano i confini con l'Egitto
Abdel Fattah al Sisi guarda le bandiere israeliane sventolare sui tank di Tsahal che pattugliano il valico di Rafah, a pochi metri dal versante egiziano, e teme che quelle immagini che circolano sui social network diventino la miccia di qualcosa di incontrollabile: la rabbia del dissenso in Egitto. L’avanzata israeliana  ha spinto circa 400 mila palestinesi a spostarsi altrove, ad al Mawasi a ovest, oppure a nord, verso Khan Younis e Deir al Balah. Ma delle loro sorti al Cairo interessa il giusto e ciò che conta è invece quel che accade all’interno dei suoi confini, dove la sensazione diffusa è che Sisi si sia dimostrato debole, che il suo impegno per scongiurare l’avanzata degli israeliani sia stato quasi nullo. Nonostante le minacce, agli occhi di molti egiziani la “linea rossa” di Rafah è stata già  superata.      
  “Gli israeliani ci hanno avvertiti troppo tardi”, lamentano fonti egiziane al Wall Street Journal, ventilando un imminente ridimensionamento della cooperazione con Israele, il possibile ritiro dell’ambasciatore, il congelamento degli accordi di Camp David del 1979 e l’adesione alla causa intentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia – una mossa, quest’ultima, che potrebbe aprire a una serie di altre adesioni nel mondo arabo. Con i colloqui per un cessate il fuoco “quasi in stallo”, come ha ammesso ieri il Qatar, all’improvviso l’Egitto ha assunto una postura apertamente ostile nei confronti di Israele, in risposta all’avanzata su Rafah. Dice il Cairo che l’operazione non era concordata: “Un’escalation inaccettabile”, la definisce al Qahera News, l’emittente televisiva controllata dai servizi segreti, che parla anche di “rinforzi” inviati al confine con Gaza.
  Da quasi una settimana, l’Egitto ha bloccato il flusso degli aiuti umanitari via terra attraverso il valico della città, almeno finché gli israeliani non si ritireranno. Con l’altro valico ancora chiuso, quello di Kerem Shalom, le Nazioni Unite parlano ora di “situazione catastrofica”. Un video girato da un camionista egiziano e rilanciato sui social dall’ong Sinai for Human Rights mostra centinaia di camion carichi di cibo e beni di prima necessità fermi alla frontiera. Alcuni hanno dovuto disfarsi di parte del carico perché dopo giorni passati ad alte temperature era andato a male. Per molti egiziani quelle immagini sono un affronto alla causa palestinese, perpetrato da un regime che giudicano troppo flemmatico di fronte alla guerra a Gaza.
  Ma fermando gli aiuti umanitari e ogni tipo di collaborazione con Israele, Sisi vuole evitare qualcosa che considera tanto pericoloso almeno quanto l’indignazione del suo popolo: l’umiliazione. Il dittatore non vuole che soldati israeliani controllino i camion egiziani, che si arroghino l’autorità di decidere cosa fare entrare e cosa no nella Striscia. Per questo, l’impegno di Israele era di non gestire direttamente il valico, di delegarne i controlli di sicurezza ad altri. Una condizione finora disattesa, denunciano gli egiziani. Il direttore dello Shin Bet, Ronan Bar, ha detto di volere riaprire la frontiera di Rafah, ma ha chiarito che riaffidarne la gestione a Hamas è un’ipotesi che non sarà presa in considerazione. Uno scoop di Axios ha riferito di una trattativa avviata da Israele per affidare il valico all’Autorità nazionale palestinese, ma in via non ufficiale. Per Abu Mazen è una condizione inaccettabile, però i negoziati proseguono.  
  In queste ore le piazze egiziane guardano con fermento ai prossimi sviluppi. Dal 7 ottobre a oggi i servizi segreti del regime hanno arrestato un centinaio di persone, accusate di avere manifestato il loro sostegno ai palestinesi. Sono le proteste universitarie – l’ultima di due giorni fa organizzata all’American University del Cairo –, quelle dei giornalisti e dei sindacalisti a preoccupare il regime. Tra Mansoura e il Cairo, due giovani studenti, Mazen Ahmed e Zeyad al Bassiouny, sono prima stati arrestati e poi fatti sparire dalle forze di sicurezza egiziane per avere diffuso volantini in sostegno ai palestinesi e sono accusati di terrorismo e diffusione di notizie false. Sono queste le crepe che Sisi teme, perché possono accendere il malcontento degli strati medio-bassi della popolazione già sofferenti. Nonostante i milioni di dollari arrivati dal Golfo e dal Fondo monetario internazionale, molti egiziani patiscono l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la mancanza di medicinali e la svalutazione della sterlina. Così la nuova linea della fermezza del regime egiziano nei confronti di Israele va oltre la guerra a Gaza e riguarda la sua stessa sopravvivenza: se l’avanzata israeliana a Rafah dovesse palesare la debolezza di Sisi e il vuoto che si nasconde dietro ai suoi ultimatum lanciati a Benjamin Netanyahu, allora quello sarebbe il punto in cui le proteste contro Israele potrebbero trasformarsi di colpo in proteste contro il regime egiziano. 

Il Foglio, 15 maggio 2024)

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"Israele un pretesto. L'Iran vuole battere re e rais arabi"

«Il regime di Teheran è meno ideologico dei jihadisti», dice lo storico di Tel Aviv, «ma più ambizioso: è l’erede di un impero e intende primeggiare sui rivali sunniti, avversari storici degli sciiti fin dall’epoca ottomana». 

di Maurizio Stefanini

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Uzi Rabi
Principale ricercatore e responsabile del Programma di cooperazione regionale presso il Centro Moshe Dayan per gli studi sul Medio Oriente e l’Africa e principale ricercatore presso il Centro per gli studi sull’Iran all’Università di Tel Aviv, già capo del Dipartimento di Storia del Medio Oriente e dell'Africa pure dell’Università di Tel Aviv, Uzi Rabi ha tenuto a Roma appunto un incontro appunto sul tema del ruolo iraniano nella guerra in corso a Gaza, e dei rischi che comporta.
  «Gaza è un problema, ma allo stesso tempo il sintomo di un problema più ampio di cui sono pure Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen o Hashd al-Shaabi in Iraq. Tutti questi nomi che corrispondono sostanzialmente allo stesso fenomeno di uno Stato arabo fallito. Ma l’Iran non è uno Stato arabo, e nemmeno faceva parte dell’Impero Ottomano, come questi altri Paesi. Tra persiani e arabi c’è una storica e enorme animosità, per cui i persiani si considerano superiori. Ma in Stati arabi come Siria, Iraq, Libano o Yemen che sono collassati per effetto di guerra civili tra gruppi etnici e religiosi contrapposti si è creato un caos in cui il giocatore dominante è l’Iran, tramite una procura che si basa innanzitutto sugli sciiti locali, ma a volte portano anche sciiti dal Pakistan e dall’Afghanistan. L’Occidente ha cercato di parlare e scendere a compromessi con l’Iran, dove fino al 1979 c’era una monarchia molto amichevole sia con gli Stati Uniti che con Israele. Ma dopo è venuto un regime per il quale invece Stati Uniti e Israele sono il Grande e il Piccolo Satana.
  In questo momento la mappa del Medio Oriente mostra una specie di corridoio che si estende da Teheran al Mediterraneo attraverso Iraq, Siria e Libano. Il grande architetto ne fu Hajj Qasem Soleimani, che fu ucciso dagli americani quattro anni fa, ma aveva la visione di tutto ciò. Ha visto la debolezza degli Stati arabi, e ha pensato che fosse giunto il momento per l’Iran di trarre vantaggio da ciò, e diventare la forza dominante della Regione. Israele è preso come obiettivo perché serve a ottenere questo risultato, ma nei fatti l’Iran è pragmatico. Non è l’Isis o al-Qaida in cui è l’ideologia a guidare l’azione. Qui invece l’ideologia è al servizio di una azione, da parte di un giocatore che può essere molto spregiudicato, ma al tempo stesso anche prudente, e comunque organizzato».

- Dunque, Israele per il regime di Teheran non è tanto un nemico strategico, ma un pretesto tattico per infilarsi in un mondo sunnita che ha tradizionalmente per gli sciiti una forte ostilità...
  «Gaza non è che un punto di partenza. Il Medio Oriente si sta polarizzando in due campi principali: quello dell’Iran e soci, e quello degli Stati arabi che hanno paura dell'Iran, soprattutto se l'Iran dovesse diventare nucleare. Vorrebbero che gli Stati Uniti li appoggiassero, ma hanno dubbi su quello che gli Stati Uniti faranno, specie dopo che non sono intervenuti al momento dell’attacco dei campi petroliferi sauditi da parte di Houthi e iraniani.
  Dunque guardano anche alla Russia, e soprattutto alla Cina. Ed è stata infatti la Cina a mediare un accordo tra Arabia Saudita e Iran. Però molti di questi Stati hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele quattro anni fa: Marocco, Bahrein, Emirati Arabi Uniti. Per loro, Israele non è un problema. Quando si crea un certo tipo di atmosfera, anche loro devono dire di stare al fianco dei palestinesi, ma la verità è che tali Stati vorrebbero costruire una sorta di alleanza delle forze anti-iraniane sostenute dagli Stati Uniti: compreso Israele, anche se non pubblicamente. Adesso Biden chiede infatti a Israele di fermare l’offensiva, apposta per poter arrivare a un accordo di normalizzazione con l'Arabia Saudita. Ma per Israele è difficile, per l’amaro ricordo delle atrocità del 7 ottobre».

- C’è anche un ruolo del Qatar...
  «È un altro esempio di uno Stato molto astuto. È il Paese più ricco del mondo, ma è minuscolo. Per garantirsi sicurezza non poteva costruire un forte esercito, soprattutto perché sono circondato dall'Arabia Saudita, dall'Iran, dall'Iraq di Saddam Hussein e della Marina Usa. Ma quando gli Stati Uniti stavano evacuando l'Afghanistan, e c’era bisogno di qualcuno che parlasse effettivamente con i talebani, chi lo ha fatto? Il Qatar. Il Qatar ha costruito il canale Al-Jazeera, che è diventato un'arma efficacissima per diventare influente.
  Gli arabi di tutto il mondo guardano Al-Jazeera. Gli stessi arabi israeliani quando si tratta di questioni economiche e culturali seguono la Tv israeliana, ma sulla geopolitica seguono Al-Jazeera. Vediamo come il Qatar, così piccolo, è riuscito a farsi dare i Mondiali di Calcio. Naturalmente, anche su Gaza hanno cercato di dimostrarsi come i mediatori più capaci. Sono però rimasti frustrati per il fatto che la dirigenza militare di Hamas a Gaza fa di testa sua, piuttosto che dare retta all’ala politica di stanza proprio in Qatar.»

- L’Iran ora è stato ammesso nei Brics, con Cina e Russia.
  «Ci sono i tre punti caldi di Taiwan, Ucraina e Israele. Il tutto ci porta in un Grande Gioco, per cui ad esempio la Russia capitalizza ciò che accade in Medio Oriente, perché distoglie l'attenzione dall'Ucraina.
  Ma la Russia è anche insediata saldamente nei due porti siriani di Latakia e Tartus, e aiuta l’Iran a sostenere Assad. E l’Iran sta fornendo droni alla Russia per migliorare le sue prestazioni in Ucraina. La Cina è un attore che gioca in modo molto diverso, ma che sta al fianco dell’Iran, e negli ultimi dieci anni ha sfruttato la pallida debolezza della performance americana nei confronti del Medio Oriente».

Libero, 15 maggio 2024)

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Concorso internazionale della Torah: sono Evyatar Bar-Gil e David Shasha i vincitori

di Michelle Zarfati

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Evytar Bar-Gil, 17 anni, studente della ORT Pelech Boys School di Gerusalemme, e David Shasha, 17 anni, studente della Yeshiva Amit Kfar Ganim di Petah Tikva, hanno vinto il 61° concorso internazionale della Torah. La competizione si tiene annualmente a Gerusalemme. Entrambi i concorrenti hanno raggiunto il turno finale con punteggi identici.
  David Shasha, residente a Petah Tikva, si è preparato al concorso per tre anni con il suo mentore, il rabbino Amitai Sar-Avi. “È un onore essere il vincitore del Concorso Biblico”, ha detto Shasha. “La persistenza e la volontà di vittoria mi hanno portato al successo. Sono grato al Signore, ai miei genitori, alla mia famiglia, al rabbino Amitai Sar-Avi e alla yeshiva per il loro sostegno durante questo viaggio”
  Il rabbino Nitzan Berger, capo della yeshiva dove Shasha studia, ha detto alla stampa locale: “Siamo fortunati a ricevere queste soddisfazioni, è impressionante la preparazione di questo ragazzo. Tutti impariamo una grande lezione da David nel fissare i nostri obiettivi e raggiungerli, il tutto con umiltà ed eccellenti qualità morali. David è un modello per la sua ardente passione per la Torah, la sua precisione e la sua profonda attenzione ai dettagli. Tutte queste qualità lo hanno portato a diventare il vincitore del Concorso”.
  Evyatar Bar-Gil studia invece in una scuola superiore precedentemente guidata dal defunto sergente maggiore Yossi Hershkovitz, caduto in guerra a Gaza lo scorso novembre. “Sono sicuro che Yossi, dall’alto, sta guardando Evyatar dall’alto con orgoglio, sapendo che anche ora, il suo spirito, la sua eredità e le sue capacità continuano a manifestarsi nel miglior modo possibile” ha detto il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion.
  Generalmente presente tra gli ospiti anche il primo ministro Benjamin Netanyahu, che quest’anno però a causa dei fitti impegni per le commemorazioni di Yom Hazmaut, ha registrato un discorso trasmesso all’inizio del quiz. “In un giorno così solenne, i nostri nemici continuano ad attaccare proprio quando Israele celebra la continuità dell’apprendimento della Torah. Non è una novità. La stessa Torah ci insegna che migliaia di anni fa, i nostri antenati, tra cui Abramo, Mosè, Giosuè e i Re Davide e Salomone, combatterono tutti contro nemici temibili. Anche allora, non abbiamo ceduto, anche allora, non abbiamo chinato la testa”, ha detto il primo ministro.
  “Stiamo commemorando il 76° Giorno dell’Indipendenza di Israele, un giorno diverso da qualsiasi altro precedente. Quest’anno, Israele e il suo popolo hanno sopportato il giorno più lungo, un giorno in cui quel famoso “mai più” è tornato. La guerra infuria ancora, e ormai dal 7 ottobre piangiamo per il ritorno dei nostri 132 fratelli. Oggi insieme da qui inviamo una preghiera per il loro rapido ritorno” ha aggiunto il presidente della Knesset Amir Ohana.
  Tra i talentuosi concorrenti in gara molti provenienti da zone fuori dallo Stato d’Israele come ad esempio: Noa Saubel (Regno Unito), Penina Crystal (USA), Yosef Samson (Canada), Noach Greenblatt (Sudafrica), Aviv Sharon (Canada), Mickey Sirolnik (USA), Sara Harari (Panama), Ezra Goldberg (Canada), Emmanuela Milman (USA), David Abadi (Messico) e Yoni Cady (Australia).

(Shalom, 15 maggio 2024)

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La datazione al radiocarbonio conferma la storiografia dell'Antico Testamento

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GERUSALEMME - Gli scienziati hanno colmato delle lacune nella nostra conoscenza della storia della città di Gerusalemme. Un team di diversi istituti di ricerca israeliani è riuscito a compilare una cronologia dettagliata della Gerusalemme dell'Età del Ferro.
  Questo periodo comprende i regni dei re Davide e Salomone e la distruzione del Primo Tempio da parte dei Babilonesi nel 586 a.C.. Finora, nonostante il gran numero di testi biblici e non, c'erano ancora delle lacune nella "cronologia assoluta", come ha annunciato il Weizmann Institute israeliano alla fine di aprile.
  I risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS). Allo studio hanno partecipato ricercatori del Weizmann Institute, dell'Università di Tel Aviv e dell'Israel Antiquities Authority.

• MATERIALE ORGANICO PROVENIENTE DA QUATTRO AREE
  Per il loro lavoro, i ricercatori hanno raccolto materiale organico da quattro diverse aree di scavo a Gerusalemme, tra cui semi d'uva carbonizzati e scheletri di pipistrelli. Il materiale è stato analizzato con la datazione al radiocarbonio, separando il carbonio 12 dalla materia organica.
  Questo metodo ha fornito prove della colonizzazione nel XII secolo a.C. e dell'espansione verso ovest già nel IX secolo. Sono state trovate anche prove di un terremoto avvenuto a metà dell'VIII secolo a.C. - un evento menzionato in Zaccaria 14:5.
  Inoltre, è stato possibile dimostrare la successiva ricostruzione di cui a 2 Cronache 26:9: "Uzzia costruì a Gerusalemme torri alla Porta d'Angolo, alla Porta della Valle e all'Angolo, e le fortificò". Finora, tuttavia, la ricostruzione era stata attribuita al re Ezechia.

(Israelnetz, 15 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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"Basta scienziati che diventano attivisti e attivisti che si credono scienziati"

Greta si toglie la maschera e appare Luca Casarini e gli scienziati aprono gli occhi: "Non eravate la verità assoluta". I ruffiani dell'apocalisse hanno sedotto le élite amorfe con i loro volantini.

di Giulio Meotti

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Una piaga della nostra epoca è l’abuso delle credenziali scientifiche per promuovere ideologie politiche. Abbiamo visto i danni della cosiddetta “transizione ecologica”, l’Occidente che si copre la testa di cenere mentre firma un grosso assegno in bianco al Sud del mondo.
Per molto tempo è sembrato che persino gli scienziati avessero perso il desiderio di leggere o dire qualcosa di diverso dai volantini distribuiti nelle piazze e nei campus.
Ma forse c’è speranza e le riviste scientifiche dell’establishment ora tracciano un percorso diverso. A dare speranza è la pubblicazione da parte della prestigiosa rivista Nature di un saggio di Ulf Büntgen, un importante climatologo dell'Università di Cambridge:
“Sono preoccupato dal fatto che un numero crescente di scienziati del clima diventino attivisti per il clima. Come in ogni caso accademico, la ricerca dell’obiettività deve tenere conto anche di tutti gli aspetti della ricerca sul cambiamento climatico globale. Anche se non ho problemi con gli studiosi che prendono posizioni pubbliche sulle questioni climatiche, vedo potenziali conflitti quando gli studiosi usano le informazioni in modo selettivo o attribuiscono eccessivamente i problemi al riscaldamento di origine antropica e quindi politicizzano il cambiamento climatico e ambientale. Senza autocritica e diversità di punti di vista, gli scienziati alla fine danneggeranno la credibilità della loro ricerca e potrebbero causare una più ampia reazione pubblica, politica ed economica. Allo stesso modo, sono preoccupato per gli attivisti che fingono di essere scienziati, una forma fuorviante di strumentalizzazione. Gli attivisti (non) specializzati spesso adottano argomenti scientifici come fonte di legittimazione morale per i loro movimenti, che possono essere radicali e distruttivi piuttosto che razionali e costruttivi. La fede illimitata nella conoscenza scientifica è, tuttavia, problematica perché la scienza non ha né diritto alla verità assoluta né all’autorità etica”.
Non capita tutti i giorni (in effetti non capita mai) di leggere su Nature un saggio autocritico da parte di un rinomato climatologo.
Ne scrive anche il Wall Street Journal.
Ci voleva Greta Thunberg (la più nota degli “attivisti che si credono scienziati” e che saliva su un aereo mentre voleva che gli occidentali prendessero l’asino) che scandisce slogan pro Hamas e con la keffiah per fargli aprire gli occhi? “Greta Thunberg ha manifestato per il leader di Hamas Sinwar, invocando la deportazione degli ebrei in Polonia”, commenta il giornale degli ebrei tedeschi, Jüdische Allgemeine.
E pensare che per Greta in Italia ci sono state soltanto porte girevoli: Mattarella, Draghi, il Papa, Tajani, e praticamente tutti i media. Non leggerete mai delle sue prodezze antisemite su un solo grande quotidiano italiano.
È sorprendente la velocità con cui certe idee circolano e poi si integrano nel discorso anti-occidentale. Così, oltre alla sua battaglia per l’ecologia, in un perpetuo movimento “intersezionale” Greta Thunberg è riuscita a identificare i colpevoli: gli ex paesi colonizzatori (solo paesi occidentali), i razzisti (solo bianchi) e i sistemi patriarcali (a parte quelli della tradizione coranica). Questa New Age Woke si basa poi sulla convinzione che l'umanità sia entrata in una nuova era (la famosa era dell'Acquario) caratterizzata dall'avvento di una nuova spiritualità. Questa prospettiva sdolcinata sarebbe del tutto innocuea se non trasmettesse un’ostilità viscerale verso le due religioni che hanno fatto l’Occidente, vale a dire l’ebraismo e il cristianesimo.
Così la “filosofa” Manon Garcia ha potuto affermare all’Università 1 di Parigi: “Non sono sicura che la donna nel suo harem abbia molta meno libertà della madre casalinga cattolica di Versailles”.
Basta vedere cosa accade in questi giorni nell’alma mater dello scienziato climatico Ulf Büntgen, Cambridge, dove la cancel culture ha toccato la vertigine estrema: autocancellazione. L’università ha annunciato che il termine stesso “anglosassone” è diventato problematico, qualcosa di cui vergognarsi. Ma l’eminente storico di Cambridge David Abulafia ha fatto notare che a questo punto si dovrebbe rinunciare al termine stesso di Inghilterra, che altro non vuol dire che “terra degli Angli”. Ma allora chi ha abitato per secoli l’isola? Intanto Peter Thiel, il milionario conservatore americano, doveva barricarsi dentro Cambridge perché i fascisti rosso-verdi filo Hamas amici di Greta non lo facevano uscire.
Chi vide giusto fu Michel Onfray, il filosofo francese, che la definì “la ragazza con una faccia da cyborg che ignora le emozioni: nessun sorriso, nessuna risata, nessuno stupore, nessun dolore, nessuna gioia. Pensate a queste bambole di silicone che annunciano la fine dell’umano e l’avvento del postumano. Ha la faccia, l’età, il sesso e il corpo di un cyborg del Terzo millennio. Quale anima vive in questo corpo senza carne? E’ difficile da sapere… Ogni venerdì esce da scuola offrendo in olocausto ciò che potrebbe imparare a scuola per salvare il pianeta. Il cyborg svedese ha persino annunciato che prevede di prendere un anno sabbatico per salvare il pianeta! In effetti, perché imparare le cose a scuola quando sai già tutto di tutto? Questa intelligenza è davvero artificiale, nel senso etimologico: è un artificio, in altre parole, un prodotto fabbricato. Il nostro tempo vede emergere re-bambini. Questo cyborg post-capitalista parla davvero in nome della scienza. Ma, dal culmine dei suoi sedici anni, cosa sa di astrofisica, cicli cosmici, tempeste solari e dei loro cicli. Per Greta Thunberg, sembra che la scienza sia ridotta al compendio di passaggi da recitare. E’ il mondo sottosopra! In uno spasmo di godimento sadomasochistico, tutti applaudono. E poi, il diavolo è nei dettagli, questo cyborg neutro, pallido come la morte, la sua faccia distesa dai perni del nulla, a volte firma le sue imprecazioni con l’indice e il dito medio di ogni mano, come per indicare le virgolette. Solo in questi casi sembra ancora umana. Non c’è niente di sbagliato in un bambino che vuole vedere fino a che punto il suo potere di far inginocchiare gli adulti è nell’ordine delle cose. Il peggio è in questi adulti che amano essere umiliati da una delle loro creature. Stiamo entrando nello stadio supremo del nichilismo”.
Dopo il 7 ottobre in Olanda, Greta ha invitato a parlare una ragazza filo Hamas. Un uomo allora è saltato sul palco e, afferrando il microfono di Thunberg, ha detto con una certa rettitudine: “Sono venuto qui per una manifestazione sul clima, non per una visione politica”. Thunberg ha ripreso il microfono e iniziato a cantare: “Nessuna giustizia climatica sui territori occupati”.
Non ci voleva uno scienziato o un professore di teoria politica per capire che questi slogan non hanno assolutamente senso. Ma quante altre celebrazioni della “resistenza” palestinese, quanti altri comportamenti nichilisti dovremo sopportare, prima che le élite smettano di vedere questi guerrieri del clima come santi e li riconoscano invece per quello che sono, rozzi emissari di una ideologia distruttiva?
Al Gore e Greta Thunberg promettono di abbassare gli oceani; gli islamisti promettono un califfato. L’apocalittico verde che entro pochi anni il mondo sarà inabitabile. L’islamista che l’Europa sarà sottomessa alla sharia. Se proprio dovessi puntare…
Non soltanto è Israele che fa arrivare l’acqua a Gaza. Non soltanto Israele è leader mondiale dell’utilizzo delle acque reflue. Non soltanto entro il 2030 un terzo di tutta l’energia israeliana arriverà da fonti rinnovabili. Israele è l’unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa. Ma tutto questo non sembra importare molto agli attivisti verdi.
Il famoso ecologista svedese Andreas Malm - professore di geografia umana all’Università di Lund - dice di aver “gioito” quando Hamas ha massacrato 1.200 ebrei israeliani. Pensate che sia uno spostato? Malm in Italia è pubblicato da una casa editrice blasonata come Ponte alle grazie. “Gli arabi non dovrebbero essere gli unici a rispettare Mohammed Deïf”, afferma Malm, in riferimento al leader delle Brigate al Qassam, braccio armato di Hamas.
Il Sabato Nero ha mostrato il vero volto di femministe, teoriche del gender, ecologisti, professori di scienze umane, media, antirazzisti, ovvero dei grandi gruppi di potere culturale.
Una delle più grandi minacce per la civiltà occidentale sono le bugie autoprodotte dell’isteria climatica resa virale da Greta. Pillole suicide che i musulmani non prendono. The Atlantic racconta il “mondo verde senza bambini”. C’è un video della Bbc corredato da immagini catastrofiche intitolato “Climate Change: Are children really the future?”, per dare voce a chi ha deciso “di non avere figli, di fare la mia parte per i cambiamenti climatici”. Michael Meacher, ex ministro del Labour inglese, ha definito l’uomo un “virus”. “Il controllo della popolazione è la risposta al cambiamento climatico"?”, si domanda la tv pubblica canadese.
L’appello “No future no children”, con l’immancabile sfondo di una foresta in fiamme, campeggia sulla home di Greenpeace. 
“E all'improvviso non ci sono abbastanza bambini e il mondo intero è allarmato” titola questa settimana il Wall Street Journal. “I tassi di natalità stanno diminuendo rapidamente in tutti i paesi, con conseguenze economiche, sociali e geopolitiche”. Per questo le Greta si meritano, come scrissi un anno fa, “di svegliarsi con la preghiera del muezzin”.
E mentre Greta veniva portata via in manette, due attiviste ecologiste ultraottantenni rompevano la teca che custodisce la Magna Carta alla British Library di Londra.
Sue Parfitt, donna-prete della chiesa anglicana, e Judy Bruce, insegnante di biologia, armate di martello e scalpello hanno ripetutamente colpito il vetro fino ad aprire una crepa, ma il prezioso documento non sembra aver subito danni.
Assieme ai woke che marciano per Sinwar, esiste immagine più emblematica dell’autodistruzione senescente dell’Occidente di due vecchie passate da Greenpeace a Greta e che vogliono fare a pezzi la Magna Carta, firmata nel 1215 da re Giovanni Senzaterra, sotto la pressione dei suoi baroni, riconoscendo per la prima volta che nessuno è al di sopra della legge (compreso il sovrano) e che ognuno ha diritto a un processo equo? Di quell’atto fondamentale nella storia britannica ed europea ne restano quatto copie, due nella British Library e le altre nelle cattedrali inglesi di Lincoln e Salisbury. “La Magna Carta è venerata per la nostra storia, per le nostre libertà e per le nostre leggi”, ha detto Parfitt, vicario della Chiesa d'Inghilterra. “Ma non ci sarà libertà, né legalità, né diritti, se permettiamo il collasso climatico”.
Resta da vedere se, oltre agli scienziati, i popoli europei, addestrati fin troppo a lungo a inchinarsi di fronte a minoranze violente e bugiarde - i cyborg alleati dei fondamentalisti islamici nella loro campagna contro l’Occidente - saranno pronti a riscoprirsi maggioranza.

(Newsletter di Giulio Meotti, 15 maggio 2024)

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Condanna a morte per gli ebrei e odio per l’Occidente

di  Antonio Cardellicchio

“Il fantomatico ’Stato di Palestina’ non può votare all’Assemblea Generale, ma può proporre risoluzioni, partecipare a commissioni, venire eletto nelle varie agenzie, eccetera. In pratica, può godere di uno status che non è neanche previsto nello Statuto dell’ONU, perciò è totalmente illegale, ma che è stato inventato dalla politica degli Stati che odiano Israele e ne vogliono la distruzione. Tutto ciò, nonostante l’ONU non sia deputato a creare gli Stati dal nulla ma a garantire solamente la pace tra di essi: esattamente l’opposto di quanto appLa risoluzione ha creato qualcosa di aberrante: l’ingresso all’ONU di un fantomatico stato che ha diritti ma non ha doveri. Per esempio, non deve pagare la quota annuale perché non ha diritto di voto (tanto non gli serve, avendo l’appoggio incondizionato di tutti i paesi islamici), ma usufruisce del diritto di proporre risoluzioni, di fare parte delle varie commissioni e agenzie.” 
Bisogna davvero essere moderati e angeli della pace come Abu Mazen, per dire quello che il premio Nobel per la Pace 2011, Karman Tawakkol, (senza dimenticare mai lo stesso premio conferito al lord of terror Yasser Arafat nel 1994) ha detto l’11 maggio in Vaticano, alla presenza, tra gli altri, del cardinale Mauro Gambetti, organizzatore della manifestazione #Be Human in vista del Giubileo 2025.
Nihil sub sole novum, si intende. A Gaza sarebbe in corso una pulizia etnica insieme a un genocidio, ed è necessario “portare gli Stati Uniti dalla parte giusta della storia”, senza specificare se si intenda Hamas, anche se alla Tawakkol deve essere sfuggito che l’Amministrazione Biden sta da tempo facendo di tutto per avvantaggiare il gruppo jihadista costola palestinese della Fratellanza Musulmana a cui, nella sua declinazione yemenita, appartiene anche la Tawakkol.
La sua appassionata difesa delle donne morte a Gaza in questi giorni, è stata necessariamente omissiva riguardo alle altre donne, quelle israeliane, stuprate e uccise il 7 ottobre, ma si sa, quando si perora la pace, e la parte giusta della storia, non si possono menzionare le vittime nemiche.
È intervenuta l’Ambasciata di Israele, stigmatizzando il discorso come flagrantemente antisemita, ma che sia avvenuto in Vaticano, sede apostolica dove sarebbe assai opportuno che l’antisemitismo mascherato da antisionismo non avesse domicilio, di questi tempi non sorprende, come ha dovuto amaramente constatare poco tempo fa Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma.

(L'informale, 14 maggio 2024)

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Israele – Festa in tono minore per il 76mo compleanno

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Dopo il raccoglimento e cordoglio di Yom HaZikaron, il Giorno del Ricordo in memoria dei soldati uccisi in guerra e delle vittime del terrorismo, Israele festeggia oggi con Yom HaAtzmaut la sua indipendenza. Un 76esimo anniversario in tono minore, con il pensiero rivolto ai soldati caduti nella guerra contro Hamas e agli ostaggi ancora trattenuti a Gaza. «Questo è uno Yom HaAtzmaut diverso. Siamo orgogliosi della nostra indipendenza e del miracolo dello Stato d’Israele, ma i nostri cuori sono pieni di tristezza e dolore», ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog durante una cerimonia nella sua residenza di Gerusalemme. Come già aveva fatto per Yom HaZikaron, Herzog ha ricordato che «non esiste comandamento più grande del riscatto dei prigionieri, e come ho detto bisogna agire con coraggio, scegliere la vita». Molte le iniziative in tutta l’Italia ebraica, a partire dai tradizionali festeggiamenti svoltisi nel cortile della scuola comunitaria di Roma con l’intervento dei rappresentanti dello Stato d’Israele in Italia e di quelli dell’ebraismo romano e italiano. Vicinanza è stata espressa anche dalle istituzioni ai massimi livelli.

• Gli auguri di Mattarella
  «I nostri paesi sono uniti da un legame profondo, fondato su valori comuni e cresciuto nel tempo grazie a un’ampia e diversificata collaborazione che ha promosso il benessere dei nostri popoli e una sempre più profonda conoscenza reciproca», scrive in un suo messaggio di felicitazioni il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. In questo giorno «di giustificato orgoglio del popolo israeliano, assistiamo con grandissima preoccupazione ai drammatici sviluppi nella regione, sempre più segnata da violenza e tensioni», aggiunge Mattarella nel messaggio inviato a Herzog. «In tale contesto, desidero ribadire l’impegno dell’Italia affinché Israele possa esercitare in pace e sicurezza il proprio diritto inalienabile a esistere». Con l’occasione Mattarella rinnova «la ferma condanna per l’atroce attacco terroristico del 7 ottobre e le espressioni del cordoglio della Repubblica Italiana e mio personale» e assicura a Herzog che «resta viva negli italiani tutti la speranza che gli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas possano essere quanto prima restituiti alla libertà e all’affetto dei propri cari». Per il Quirinale «è altresì indispensabile giungere a un’immediata cessazione delle ostilità nella Striscia di Gaza, anche per consentire il pieno accesso umanitario alla popolazione civile».

(moked, 14 maggio 2024)

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L’onda dell’odio antisemita, il Viminale: dopo il 7 ottobre triplicate minacce e insulti online

Nel 2024 già 400 segnalazioni, oltre 90 al mese. Il direttore del Museo della Brigata ebraica: «Dalle università alle tv, è ora di abbassare i toni»

di Luca Monticelli

Scritta comparsa sul muro dell’ex galoppatoio del Lido di Venezia
La senatrice Liliana Segre non si aspettava questa «ondata spaventosa di odio». Dopo il 7 ottobre gli ebrei italiani sono costretti a vivere in un clima ostile, i casi di antisemitismo sono triplicati rispetto al passato. Segre racconta di ricevere «minacce pazzesche», ma le intimidazioni e gli insulti raggiungono tanti cittadini di religione ebraica che «non c’entrano niente con le decisioni politiche di Israele e magari non le condividono», sottolinea la senatrice sopravvissuta ad Auschwitz.
  Le parole di Segre trovano riscontro nei numeri, come quelli dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) diffusi ieri. Stando ai dati elaborati da associazioni e forze dell’ordine, dal 7 ottobre al 1° maggio l’Oscad conta 345 episodi riconducibili all’antisemitismo, tra cui 41 “hate crimes”, ossia crimini d’odio motivati da un pregiudizio, 175 casi di “hate speech” e 112 di incitamento all’odio online. In questo periodo, ricorda il rapporto presentato al memoriale della Shoah a Milano, si sono svolte 1.378 manifestazioni, di cui 1.109 in solidarietà al popolo palestinese e solo 39 a sostegno dello Stato di Israele.
  Mentre Segre confidava tutta la sua amarezza, arrivava alla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, il Cdec, la segnalazione di una scritta choc contro gli ebrei (poi cancellata) sul muro dell’ex galoppatoio del Lido di Venezia: “Vi cercheremo casa per casa e vi sgozzeremo”.
  La spaventosa onda antisemita che sta investendo il nostro Paese non viene dal nulla», evidenzia Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano, che aggiunge: «È da ottobre che diciamo di abbassare i toni, ma dal mondo universitario a quello di certi salotti televisivi si continuano a usare parole malate che portano a comportamenti malati. Si susseguono manifestazioni violente dei pro Palestina che dalle università al 25 aprile, passando per le presentazioni di libri, minacciano chi la pensa diversamente».
  Il Cdec fa sapere che nel 2024, tra gennaio e aprile, gli episodi di antisemitismo catalogati sono 400, oltre 90 in media al mese. Un numero altissimo, se si considera che in tutto il 2023 erano stati 454, il doppio del 2022. Alla fine del 2024, quindi, gli eventi antisemiti noti potrebbero essere oltre il triplo in confronto agli anni pre 7 ottobre.
  Dati che collimano con il rapporto sull’antisemitismo nel mondo pubblicato dall’Anti-Defamation League, organizzazione con sede a New York. Secondo il centro studi americano la guerra a Gaza ha scatenato uno tsunami di odio contro le comunità ebraiche in tutto il mondo: «Quello che è avvenuto dopo il 7 ottobre ha moltiplicato attacchi da destra e da sinistra contro gli ebrei». La tesi del rapporto, uscito la settimana scorsa, è che se continuano le tendenze attuali diventerà impossibile per gli ebrei vivere apertamente in Occidente, indossare la stella di David o frequentare sinagoghe e scuole ebraiche.
  Anche l’Ugei, l’Unione dei giovani ebrei, dice il vice presidente Ioel Roccas, ha raccolto attraverso una “Hot line” 115 segnalazioni di episodi di antisemitismo tra ottobre e marzo, ben 60 casi solo tra ottobre e novembre, «numeri esorbitanti se confrontati con gli anni precedenti». Roccas condivide le preoccupazioni degli studenti ebrei e israeliani che dal massacro di Hamas e lo scoppio della guerra a Gaza vanno a lezione con paura. «Abbiamo visto sui banchi della aule disegni di svastiche intrecciate a stelle di David e adesivi con il volto di Leila Khaled», esponente storica del Fronte per la liberazione della Palestina che partecipò a due dirottamenti negli Anni 70, e che negli ultimi mesi è stata invitata in diversi atenei italiani.
  «Ormai slogan come “From the river to the sea” e “Intifada” sono sdoganati. Per noi giovani ebrei è diventato impossibile confrontarci con chi organizza le occupazioni e urla “fuori i sionisti dalle università”. Non c’è dialogo nelle assemblee, c’è una vera e propria censura», continua Roccas che era in piazza il 25 aprile quando il corteo pro palestinese di Roma spostandosi da Porta San Paolo a Centocelle intonava cori «contro i media “servi del sionismo e del capitalismo ebraico». Questa è la settimana in cui si temono nuovi scontri nelle università: Torino, Padova, Roma e Napoli le città più calde. Nelle comunità ebraiche c’è grande inquietudine: oggi è Yom HaAtzmaut, l’anniversario della nascita di Israele, domani il mondo arabo ricorda la Nakba, “la memoria della catastrofe”. «Che cosa succederà? Dobbiamo aver paura di uscire di casa e andare all’università?», si chiede un giovane della comunità romana che preferisce rimanere anonimo.
  Alla Sapienza, ieri, all’assemblea degli studenti era presente Noura Erakat, docente in studi africani della Rutgers, famosa università del New Jersey. Erakat è intervenuta anche alle proteste della Columbia a New York e secondo alcune ricostruzioni della stampa anglosassone in passato ha partecipato a un workshop online con uno dei leader di Hamas, Gazi Hamad.
  L’Unione dei giovani ebrei italiani risponde lanciando un appello «a rettori, senati accademici e ministeri affinché gli atenei non diventino luogo di censura e intolleranza».

(La Stampa, 14 maggio 2024)

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La Comunità Ebraica di Roma festeggia Yom HaAtzmaut tra la gioia e il dolore per gli ostaggi

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“Oggi proviamo sentimenti contrastanti: la gioia per questa festa e l’angoscia e il dolore per gli ostaggi che sono ancora a Gaza”. Queste le parole del presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, che riassumono il mix di emozioni del mondo ebraico, che ieri sera ha festeggiato il 76esimo anniversario dell’Indipendenza dello stato d’Israele. Organizzata presso il Palazzo della Cultura dal Dipartimento Educativo Ufficio Giovani, la festa ha visto grandi e piccini festeggiare con canti e balli l’anniversario dell’indipendenza dello Stato d’Israele che cade ogni anno il 5 di Iyar.
  Nell’arco dei festeggiamenti si sono susseguiti diversi discorsi, in particolare quelli del presidente Fadlun e dell’ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, Alon Bar. “Oggi ribadiamo la nostra volontà di difendere Israele e preghiamo affinché il prossimo Yom HaAtzmaut si possa festeggiare con gioia” ha sottolineato Fadlun, che si è soffermato sulle conseguenze che il 7 ottobre e la guerra hanno portato con sé. “Ci troviamo ancora una volta sotto attacco e obbligati a difenderci, e vinceremo anche questa volta perché alla nostra libertà teniamo più di qualunque altra cosa”.
  “Quest’anno è stato molto difficile per Israele – ha affermato l’ambasciatore – con sfide senza precedenti per la nostra gente, ma nonostante ciò siamo qui”. Alon Bar si è voluto soffermare soprattutto sul valore della resilienza dello Stato ebraico. “Sono sicuro che supereremo insieme questo periodo, usciremo più forti, più saggi e consapevoli del nostro destino” ha aggiunto, sottolineando come lo spirito e la vicinanza della comunità ebraica romana siano “fonte di ispirazione per tutti noi”.
  Durante la serata hanno preso la parola anche alcuni educatori delle scuole ebraiche romane, come la direttrice degli Asili Infantili Israelitici Giorgia Di Veroli e la direttrice uscente della scuola elementare Milena Pavoncello, che ha raccontato come l’amore per Eretz Israel “nella nostra scuola sia iniziato ancor prima della costituzione dello Stato d’Israele” e come sia stato ribadito con forza dopo il 7 ottobre.
  Anche i giovani durante i festeggiamenti hanno potuto lanciare un messaggio in questa giornata di festa. Dai borsisti del Dipartimento Educativo Ufficio Giovani, che hanno organizzato un piccolo flash mob per gli ostaggi, ai movimenti giovanili del Benè Akiva e dell’Hashomer Hatzair, fino ad arrivare ai più grandi, con il morè Eitan Della Rocca per Tiferet Chaim e il presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia Luca Spizzichino.

(Shalom, 14 maggio 2024)

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Consigli di lettura ai filopalestinesi

L’inchiesta del New York Times sulla “Stasi di Hamas” svela l’oppressione segreta dell'organizzazione terroristica su giovani, giornalisti e persone che mettevano in discussione il governo.

Consiglio di lettura per le brigate filopalestinesi: ieri un articolo del New York Times, uno scoop, ha rivelato che i terroristi di Hamas non dominano come predoni sui palestinesi soltanto con la forza bruta. Secondo numerosi documenti ottenuti dall’intelligence israeliana e visionati dal New York Times, il capo dell’organizzazione Yahya Sinwar ha organizzato e dominato per anni un distaccamento di polizia segreta che sorvegliava gli abitanti dell’exclave e compilava dossier su giovani, giornalisti e persone che mettevano in discussione il governo. Non soltanto molti residenti della Striscia sono finiti sotto la repressione di questo corpo segreto per aver partecipato a proteste o criticato Hamas. Sinwar era interessato anche ai sospettati di intrattenere relazioni romantiche fuori dal matrimonio. 

• Una specie di Stasi islamica
  “Questo Servizio di sicurezza generale è esattamente come la Stasi della Germania est”, ha commentato Michael Milshtein, un’ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana specializzato negli affari palestinesi. “Ha sempre un occhio nelle strade”. Prima della guerra in corso, l’unità aveva un budget mensile di 120mila dollari ed era composta da 856 persone, 160 delle quali erano pagate per diffondere la propaganda di Hamas. Noto come il “macellaio di Khan Younis”, Sinwar ha assassinato con le proprie mani dodici palestinesi, accusati di “collaborare” con Israele. Nel 1988, durante un interrogatorio, Sinwar ha spiegato di aver arrestato un uomo mentre era a letto con la moglie. “Dopo averlo strangolato, l’ho avvolto in un sudario e chiuso la tomba” ha detto Sinwar. Micha Koubi, che ha interrogato personalmente Sinwar, ha ricordato la confessione che lo ha colpito di più. Sinwar ha raccontato di aver costretto un uomo a seppellire vivo suo fratello perché sospettato di lavorare per Israele. “I suoi occhi erano pieni di felicità quando ci ha raccontato questa storia”. Liberiamo Gaza da Hamas.

Il Foglio, 14 maggio 2024)

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Ma Joe Biden, sta con Israele oppure sta con Hamas?

Non riesco a capire il motivo per cui una notizia da prima pagina venga relegata (quando va bene) in settima pagina o addirittura ignorata. Eppure, se è vero che gli americani sanno dov'è Sinwar e non l'hanno detto agli israeliani per avere un'arma di ricatto su di loro, la notizia dimostrerebbe che Joe Biden non sta affatto con Israele.

di Franco Londei

È incredibile come si sia parlato poco o niente della proposta avanzata dagli Stati Uniti a Israele e rivelata sabato scorso dal Washington Post.
In sostanza gli americani avrebbero offerto a Israele «informazioni sensibili per aiutare l’esercito israeliano a individuare la posizione dei leader di Hamas, degli ostaggi e a trovare i tunnel nascosti del gruppo» a condizione però Israele avesse rinunciato all’operazione su Rafah.
Cosa significa questo? Che gli Stati Uniti hanno avuto queste informazioni e hanno scelto di non condividerle con gli israeliani, a meno che questi non facciano concessioni per non lanciare un raid su larga scala su Rafah?
Ma davvero? Non era Biden che subito dopo la strage del 7 ottobre disse: «Non mancheremo mai di coprirvi le spalle. Ci assicureremo che abbiate l’aiuto di cui avete bisogno e che possiate continuare a difendervi».
A quanto pare, Biden non ritiene che gli israeliani debbano sapere dove si trovano i leader di Hamas, che sono sempre circondati da ostaggi per scoraggiare le incursioni.
Insomma, gli Stati Uniti sanno dove si nascondono i leader di Hamas ma non lo dicono agli israeliani?
Per un momento, dimenticate di prendere alla sprovvista gli israeliani e di non dire loro delle concessioni americane ad Hamas purché accettassero un accordo per il cessate il fuoco, dimenticate il molo di Gaza, dimenticate il taglio delle esportazioni di armi verso Israele… rispetto a questo sono tutte cose secondarie. Se gli americani sanno dove si nascondono i leader di Hamas come Yahya Sinwar, l’architetto accusato degli attentati del 7 ottobre, perché non dovrebbero dirlo agli israeliani? Perché dovrebbero proteggere i leader di Hamas?
Perché stanno proteggendo le vite dei leader di un’organizzazione terroristica che ha preso in ostaggio degli americani?
Da mesi si dice che Sinwar tenga intorno a sé degli ostaggi per scoraggiare qualsiasi operazione volta a catturarlo o ucciderlo. Quindi se gli americani sanno dove sono i leader di Hamas, probabilmente sanno dove si trovano almeno alcuni degli ostaggi. E si rifiutano di condividere queste informazioni con gli israeliani, a meno che non facciano concessioni? Ma davvero?
Da che parte sta Biden? Da che parte stanno gli americani? Perché in questo momento sembra proprio che si stiano comportando come l’avvocato difensore di Hamas, cercando di ottenere il miglior accordo possibile.
Quando Biden andò in Israele subito dopo il massacro del 7 ottobre disse:
    In questo momento di tragedia, voglio dire a loro [gli israeliani], al mondo e ai terroristi di tutto il mondo che gli Stati Uniti stanno dalla parte di Israele. Non mancheremo mai di proteggerli.
    Faremo in modo che abbiano l’aiuto di cui i loro cittadini hanno bisogno e che possano continuare a difendersi. . . .
    E il sostegno della mia amministrazione alla sicurezza di Israele è solido e incrollabile. . . .
    E non ci siano errori: gli Stati Uniti stanno dalla parte dello Stato di Israele, proprio come hanno fatto dal momento in cui sono diventati la prima nazione a riconoscere Israele, 11 minuti dopo la sua fondazione, 75 anni fa.
Ebbene, da allora ogni singola parola di quella promessa è stata infranta.
Molti democratici sanno che la posizione del presidente sul conflitto è, nella migliore delle ipotesi, un miscuglio contraddittorio. È iniziato con le parole e le azioni giuste, e si è lentamente trasformato in una posizione de facto pro-Hamas, guidato da un’idea spettacolarmente sbagliata secondo cui l’intera elezione presidenziale dipende dal Michigan (lo stato più “musulmano” degli Stati Uniti) e che la vittoria nel Michigan dipenda da Elettori arabo-americani, musulmani-americani e palestinesi-americani.
Biden cerca anche l’approvazione dei giovani universitari che contestano Israele. Eppure la maggior parte dei giovani accaniti manifestanti anti-israeliani non sa niente del Medio Oriente, non sa di quale fiume e di quale mare stanno cantando, e opera con una mentalità “oppressore coloniale contro nobile selvaggio” che interpreta in maniera totalmente sbagliata la storia degli israeliani e dei palestinesi.
Quindi ripeto la domanda del titolo: da che parte sta Joe Biden? Da quella di Israele o da quella di Hamas?

(Rights Reporter, 14 maggio 2024)
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"Da che parte sta Joe Biden? Da quella di Israele o da quella di Hamas?” Bella domanda. E l’autore, un indubbio amico di Israele, non sa rispondere. Sono già un po’ di volte che nei suoi articoli questo autore ripete: “Non riesco a capire”. Quello che non capisce è la politica dell’America, anzitutto, e ora gli rimane oscuro il comportamento della “grande” stampa italiana. Il che è come dire che continua a non capire la politica americana, perché è sempre dall’America che arrivano le istruzioni su quello che deve dire e non dire la "grande stampa" italiana. L’autore ha dimostrato di non aver capito come stanno le cose neppure quando ha appoggiato pienamente la politica americana contro la Russia e si è unito alla campagna contro i famigerati “putiniani”. Con questo si vuol solo far notare, e questo potrebbe riguardare anche altri commentatori di Israele, che l’autore conosce molti fatti, li riporta con cura e li sa anche raccontare bene, ma in sostanza non li capisce. Perché non li sa collocare nel loro autentico contesto e non ne capisce l’aspetto essenziale. M.C.

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Eden Golan, volto di forza e coraggio a Eurovision e il grande trionfo di Israele

Mentre intorno a lei va in scena l’odio

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Merita una riflessione l’ultimo atto del 68esimo Eurovision Song Contest di sabato scorso a Malmö che ha tenuto il pubblico mondiale col fiato sospeso. Soprattutto per l’encomiabile performance di Eden Golan che, con la canzone “Hurricane”, ha suscitato forti emozioni nei suoi sostenitori ma anche tensioni a causa delle azioni degli odiatori e dei loro sostenitori sui social media e altrove. La canzone, molto bella e intensa, è stata rielaborata da una traccia precedente chiamata “October Rain” che si pensava fosse un riferimento agli attacchi di Hamas contro Israele.

• Di fatto la serata di gara canora si è trasformata in un’arena
  La competizione non si è infatti limitata alla musica così come avrebbe dovuto, ma è diventata un contesto politico. La giovane e talentuosa cantante israeliana è stata oggetto di una persecuzione così estrema che ha richiesto perfino un convoglio di scorta composto da più automobili solo per spostarsi dall’hotel al luogo dell’evento. Non solo: durante una conferenza stampa le è stato chiesto se avesse riflettuto sul fatto che la sua presenza avrebbe potuto comportare un rischio per altri partecipanti e per il pubblico, una provocazione fuori luogo a cui la ventenne ha risposto con un equilibrio e una compostezza ammirevoli per la giovane età.
Nonostante le proteste nel corso della serata finale nei suoi confronti, il pubblico di 15 Paesi su 25 ha assegnato a Israele il numero massimo di 12 punti, consentendogli di battere il record per il numero di punti assegnati dagli spettatori. In totale, lo Stato ebraico, che alla fine del voto della giuria era solo dodicesimo con 52 punti, ne ha raccolti altri 323 dei telespettatori che gli hanno permesso di salire al quinto posto nella competizione.
Un divario così significativo tra il giudizio delle cosiddette giurie nazionali “professionali” e il sostegno del pubblico non si era mai visto. Un colpo di scena che ha sollevato non pochi interrogativi sul motivo per cui si sia verificato un così netto contrasto sulla performance della ventenne Eden Golan, soprattutto considerando che rappresenta Israele.
Gli spettatori provenienti da Australia, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, San Marino, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e il “resto del mondo” (Paesi senza partecipanti all’Eurovision) hanno premiato Israele 12 punti, mentre altri sette gli hanno assegnato 10 punti. Le giurie della maggior parte di questi Paesi non hanno assegnato alcun punto allo Stato ebraico.

• Un boicottaggio durato mesi
  Già nei mesi scorsi la partecipazione di Israele, come avevamo segnalato su questo stesso sito, è stata messa in discussione suscitando non poche tensioni e polemiche. Fino alle contestazioni degli odiatori di Israele che hanno accolto Eden durante la prova generale per la seconda semifinale di giovedì 9 maggio da fischi e grida di “Palestina libera”.  Ingiurie, insulti e cattiverie che la giovane cantante ha dovuto affrontare con autocontrollo e grande coraggio e senza scomporsi nei confronti di quella parte di mondo intollerante. Come se non bastasse, durante l’evento, fuori dall’arena si sono svolte manifestazioni pro-Palestina, con l’attivista svedese per il clima Greta Thunberg allontanata dalla polizia.

(Bet Magazine Mosaico, 13 maggio 2024)


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Onore a Eden Golan

Carmela, nostra cara sorella in fede, ci ha trasmesso i sentimenti con cui ha vissuto la premiazione di Eurovision. La ringraziamo e pensiamo sia cosa utile farli conoscere anche ad altri. A sollievo di tutti coloro che amano Israele.

Dal palco canoro melmoso di Malmö una ragazza giovane e bella emerge come un angelo! In mezzo a tanto pantano pensi che si lasci affievolire… invece, esuberante e imperterrita affronta i leoni antisemiti come un gladiatore! Combattente e determinata!
Che esempio d’amore per la sua Nazione: ISRAELE!
La sua voce è penetrante, il suo urlo è un pugno nel petto, il suo incedere è elegante, avvolta in un vestito etereo… tutto di lei è armonioso, luminoso… la vincente!!!
Ho letto alcuni retroscena, commenti di becero antisemitismo che ormai è scoppiato come un’ulcera maligna in tutto il mondo!
Le menzogne su Israele si mietono e io come credente so che non è il tempo di sonnecchiare!
Ho votato tutti i voti che potevo dare e ho visto, grazie a Dio, che in Italia nelle due serate decisive le hanno dato il massimo punteggio!
Onore a Eden Golan che ha portato in alto ISRAELE e soprattutto lode al nostro Dio che è Sovrano su tutto e su tutti!
Israele vive!!!
Dimenticavo questa data così importante per Israele: il suo compleanno!!!
E questo risultato di Eden Golan con gli amici della coreografia è un bel regalo per ISRAELE in questo momento di estremo dolore per gli ostaggi e la guerra in corso.
Il Signore, però non sonnecchia, né dorme, Lui veglia e opera sempre con la forza della sua potenza!

(Notizie su Israele, 13 maggio 2024)

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Questa sera Israele compie 76 anni. Mazal tov!

di Ugo Volli

La cerimonia
  Erano le quattro di pomeriggio del 14 maggio 1948, in data ebraica il 5 del mese di Iyar 5708 (stranamente le date quest’anno quasi coincidono di nuovo). La sala al piano terra del vecchio museo d’arte contemporanea di Tel Aviv in Boulevard Rotschild 16, che era stata la villa del mitico sindaco Meir Dizengoff, era strapiena: duecentocinquanta persone, quasi tutte vestite di scuro, in giacca camicia bianca e cravatta, contro tutte le abitudini dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Terra di Israele. Sul palco in fondo alla sala c’erano 25 membri del comitato esecutivo dell’Agenzia Ebraica (Moetz HaAm, il governo de facto dell’Yishuv), mentre gli altri 12 erano bloccati all’estero o assediati a Gerusalemme. Sulla parete sopra a loro, una grande fotografia di Herzl e due bandiere del nuovo Stato. Ben Gurion aprì la riunione battendo il martelletto sul tavolo, ed i presenti intonarono l’ Hatiqvah. La lettura di Ben Gurion della dichiarazione durò 16 minuti, e si concluse con la clausola: “Chi accetta la dichiarazione della fondazione dello Stato ebraico ora si alzi”. L’accettazione fu unanime. Contro le abitudini delle riunioni dall’Agenzia era presente anche un rabbino, rav Fishman, che pronunciò la benedizione “Sheheheyanu”, quella che si usa per le novità positive. La cerimonia continuò con l’inno eseguito dall’Orchestra filarmonica di Israele e Ben Gurion la concluse annunciando: «Lo Stato d’Israele è istituito! Questo incontro è aggiornato!». Non c’era tempo da perdere in festeggiamenti, la guerra civile con gli arabi era in corso da sei mesi e già si sapeva che il giorno dopo gli eserciti dei sei stati arabi avrebbero invaso il piccolo territorio tenuto dall’Yshuv.

Il compleanno
  Questa sera dunque inizia la giornata che segna il settantaseiesimo compleanno di Israele: è un’età ormai ragguardevole anche per uno Stato (ce n’è di molto più vecchi come la Gran Bretagna e la Cina; ma tanti anche più giovani, almeno come istituzioni riconosciute). E anche stasera in Israele si farà festa, si ballerà in piazza, ci si rallegrerà della vita di un Paese la cui popolazione è comunque al quarto posto al mondo per la felicità. Ma pure oggi la guerra incombe e non c’è molto tempo per le feste. Gli aerei da guerra voleranno come sempre domattina, ma accanto alla parata aerea degli anni normali saranno impegnati nei loro compiti di difesa. E però il compleanno dello Stato ebraico va celebrato nella diaspora come in Israele, se non altro per continuare ad aver coscienza di che straordinario evento si sia trattato.

Un gesto di straordinario coraggio
  Quando Ben Gurion decise di forzare la mano ai dirigenti dell’Yishuv e di proclamare l’indipendenza, erano passati quasi 19 secoli dalla caduta di Gerusalemme e dell’ultima autonomia ebraica. C’era stata la profezia di Herzl e ottant’anni di immigrati che avevano provato a far fruttare la terra, la lingua era tornata viva, c’erano le scuole e le università, l’amministrazione e una inizio di esercito, insomma l’intelaiatura dello Stato; ma fu un gesto di straordinario coraggio. Erano contrari gli europei e in particolare la Gran Bretagna, ma anche il Dipartimento di Stato americano (non Truman per fortuna). E anche dentro il mondo ebraico molti consideravano avventata la proclamazione dello Stato: la maggioranza dei charedim, ma anche ebrei progressisti come Hannah Arendt e Leon Magnes (fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme) fecero campagna contro l’indipendenza; Martin Buber si era espresso contro e perfino Chaim Weizmann era perplesso. Gli eserciti arabi, almeno sulla carta, erano assai più forti e organizzati di quello del neonato Israele, cui mancava quasi tutto. L’appoggio dell’Urss era solo tattico, inteso a creare problemi all’Occidente, come si sarebbe visto presto. L’economia, retta dal volontaristico sistema dei kibbutz, zoppicava.

Lo straordinario progresso e le speranze
  Ma il miracolo avvenne, Israele superò la guerra, vinse, crebbe, resistette ad altre guerre e al terrorismo, riuscì a produrre un sistema politico, economico, scientifico e civile di straordinaria efficacia, anche grazie alla sua capacità di cambiare: di passare dalla camicia di forza di una specie di socialismo non politicamente oppressivo ma molto burocratico a un capitalismo tecnologico fra i più avanzati al mondo; di integrare un milione e passa di immigrati dall’Unione Sovietica e altri dall’Etiopia, dallo Yemen, da tutto il mondo; di liquidare il predominio politico della sinistra e di superare anche errori come la ricerca di compromessi con il terrorismo nel nome della “pace”. La scommessa di Ben Gurion è stato forse il maggior successo politico del XX secolo. Da alcuni anni il motore politico e istituzionale di questo progresso sembra però essersi inceppato. Le elezioni a ripetizione; l’incapacità di costruire maggioranze stabili; l’odio per Netanyahu che ha bloccato a lungo l’attuazione delle scelte chiaramente di centrodestra dell’elettorato; poi la lunga e astiosa guerriglia di piazza contro il progetto parlamentare legittimo della riforma giudiziaria, che ha proiettato un’immagine indebolita dello Stato e dell’esercito dando ai nemici di Israele, Iran in testa, l’illusione di poter prevalere; il conseguente barbaro pogrom del 7 ottobre; la difficoltà di condurre la guerra anche contro le resistenze degli alleati riluttanti a permettere a Israele di sconfiggere il terrorismo: tutti questi problemi hanno suscitato turbamento e pessimismo. Ma forse proprio la guerra sta obbligando gli israeliani cementare una nuova unità e una nuova speranza. Oggi che è il compleanno di Israele tutti gli ebrei del mondo e i loro amici sentono nel cuore l’urgenza di augurare lunga vita allo Stato ebraico e, perché essa sia raggiunta concordia, fratellanza… e pazienza. Come si dice in ebraico: mazal tov, buona stella.

(Shalom, 13 maggio 2024)

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Egitto contro Israele alla Corte Penale Internazionale

di Sarah G. Frankl

Secondo quanto si apprende da fonti del Cairo, l’Egitto sarebbe intenzionato a unirsi al Sudafrica nella denuncia per genocidio contro Israele alla Corte Penale Internazionale (CPI).
L’Egitto ha affermato che la decisione «giunge alla luce dell’aggravarsi della gravità e della portata degli attacchi israeliani contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza, e della continua perpetrazione di pratiche sistematiche contro il popolo palestinese, tra cui l’attacco diretto ai civili e la distruzione delle infrastrutture nella Striscia, spingendo i palestinesi a fuggire».
La Corte Penale Internazionale dell’Aia, nei Paesi Bassi, sta esaminando l’accusa del Sudafrica secondo cui l’offensiva aerea e terrestre di Israele a Gaza, lanciata dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas, è finalizzata alla «distruzione della popolazione» dell’enclave palestinese.
Israele respinge le accuse come false e diffamatorie, affermando di rispettare il diritto internazionale e di avere il diritto di difendersi dopo che, il 7 ottobre, circa 3.000 terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione in Israele attraverso il confine, uccidendo circa 1.200 persone e sequestrando 252 ostaggi tra atti di brutalità e violenza sessuale.
La decisione dell’Egitto arriva mentre Israele sta portando avanti una operazione limitata nella città di Rafah volta a stanare gli ultimi battaglioni di Hamas nonché i loro leader.
Il Cairo ha sigillato i suoi confini e nega ai palestinesi in fuga l’accesso ad un luogo sicuro.

(Rights Reporter, 13 maggio 2024)

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Vaticano, Premio Nobel si lancia a San Pietro in una dura invettiva contro Israele: «A Gaza è un genocidio, una pulizia etnica»

In prima fila il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e il cardinale Mauro Gambetti

di Franca Giansoldati

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«A Gaza è in atto una pulizia etnica e un genocidio da parte di Israele». E ancora. «Bisogna fare in modo di portare l'America dalla parte giusta della storia e impedire che venda armi ai regimi o alle occupazioni che uccidono donne e bambini. Non dovrebbero stabilire alleanze con dittatori o coloro che sono colpevoli di occupazioni». Il concerto vaticano di ieri sera - organizzato nell'atrio della Basilica di San Pietro con Allevi e Vecchioni - si è ad un tratto trasformato in un comizio pro-pal senza che la conduttrice Eleonora Daniele intervenisse per mitigare l'inarrestabile intervento del Premio Nobel per la Pace del 2011, la yemenita Karman Tawakkol, giornalista e attivista politica. In prima fila c'erano anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e il cardinale Mauro Gambetti, organizzatore della manifestazione #BeHuman benedetta da Papa Francesco per preparare il Giubileo 2025.
   Tawakkol era appena stata chiamata sul palco subito dopo l'esibizione di Gart Brooks, un famoso cantante country americano e le era stato chiesto della sua attività per i diritti delle donne.
  Ha così dato il via ad un appassionato discorso in lingua inglese partendo dal concetto di pace in assenza di oppressione e occupazione. «Esattamente quello che sta accadendo in Palestina, dove le donne pagano un prezzo altissimo, enorme e di fronte a tutto il mondo. Anche se il mondo ora tace di fronte al genocidio e alla pulizia etnica e a quello che sta accadendo al popolo palestinese a Gaza». Tawakkol è stata interrotta da lunghi applausi e così ha ripreso. «Perché si uccidono le donne a Gaza ogni giorno, vengono uccise ogni giorno». 
  L'attivista per i diritti delle donne non menziona affatto le donne israeliane stuprate in massa il 7 ottobre. Ha poi ringraziato per l'iniziativa organizzata dalla Fondazione Fratelli Tutti diretta dal cardinale Gambetti aggiungendo anche di essersi commossa tanto quando il giorno prima ha ascoltato, proprio davanti al suo albergo a Roma, un gruppo di universitari che manifestavano per la Palestina e urlavano “Free Palestine”. «Questa a mio parere è una vittoria per tutti, non solo per il popolo palestinese. Dovete battervi contro i vostri governi - ha aggiunto -  e dire di porre fine alla guerra, di non vendere le armi che uccidono le donne nel mio paese e nella mia regione. Gli studenti che stanno manifestando in America si battono non solo contro il genocidio a Gaza ma si sacrificano per cercare di far in modo che l'America venga portata sul lato giusto della storia». 

(Il Messaggero, 12 maggio 2024)
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Il Vaticano, sede della CCR (Chiesa Cattolica Romana), da dove per secoli è partita l’accusa agli ebrei di “deicidio”, oggi si applaude a chi accusa lo Stato degli ebrei di “genocidio”. “Not in my name”, non può che ripetere il credente nel Gesù degli Evangeli. Piccola consolazione è il leggere che la giornalista precisa che “l’attivista per i diritti delle donne non menziona affatto le donne israeliane stuprate in massa il 7 ottobre”, e anche che nel quotidiano si trova la citazione di un articolo della storica Tamara Herzig, docente all’Università di Tel Aviv, dal titolo: «Perché le femministe italiane continuano ad ignorare le donne stuprate il 7 ottobre?»



Israele, un popolo perdonato

    «Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze.»

Forse molti cristiani riterranno del tutto condivisibile una frase come questa, ed è anche naturale pensarlo, visto che proviene dalla bocca di un personaggio altamente rispettato della  recente storia della Chiesa: il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, che insieme ad altri cospiratori cercò di opporsi segretamente al nazismo di Hitler e per questo morì impiccato nell’aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della seconda guerra mondiale. Anche nel caso di Bonhoeffer qualcuno ha detto che non si tratta di antisemitismo, ma di “antigiudaismo teologico”, e ancora una volta l’aggettivo “teologico” dovrebbe servire a sminuire la gravità dell’affermazione. In realtà, è vero il contrario: proprio il riferimento a Cristo trasforma dichiarazioni come questa in diabolici strumenti di legittimazione dell’odio contro gli ebrei.
  La frase di Dietrich Bonhoeffer è teologicamente errata e quindi gravida di inquietanti conseguenze.  La dottrina di Lutero sugli ebrei ha infettato subdolamente il protestantesimo tedesco impedendo a molti di riconoscere la diabolicità dell’ideologia nazista. Anche quei cristiani che, come Bonhoeffer, hanno riconosciuto la perversità politica del nazismo, non hanno potuto contrastare con successo chi stava portando la Germania e tutto il mondo verso il baratro proprio perché non hanno saputo riconoscere che gli ebrei erano l’obiettivo di un odio satanico.
  Non basta  riconoscere genericamente, come ha fatto anche la chiesa cattolica, che l’accusa di deicidio non sta in piedi; non basta ammettere con voce flebile che, sì, l’accanimento contro gli ebrei non è stata una bella cosa e dichiarare umilmente di esserne pentiti. Certi pentimenti tardivi, fatti a cose compiute, quando il misfatto ormai è innegabile, esprimono soltanto il desiderio di sbarazzarsi di certi scheletri nell’armadio del proprio passato al solo fine di porre un termine a continui sgradevoli rinfacciamenti. Capire come stanno veramente le cose dal punto di vista biblico in molti casi significa cambiare radicalmente posizione e atteggiamento. Se questo non avviene, vuol dire che si tratta soltanto di ripuliture di facciata.
  Dire che «il popolo eletto, che crocifisse il Salvatore del mondo, deve scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» è una frase radicalmente e fatalmente errata sul piano biblico. Se si ritira l’accusa di deicidio ma si mantiene una frase come questa, si resta dalla parte degli antisemiti e si aprono le porte a un altro genocidio. Chi ritiene eccessiva questa affermazione probabilmente non tiene conto della presenza di un personaggio che da sempre è interessato alla “questione ebraica”: Satana. Molti sono restii a far intervenire Satana in una questione che secondo loro dovrebbe essere esaminata con criteri puramente politici, e invece è proprio l’intervento di questa figura biblica che, senza togliere responsabilità agli uomini, fa arrivare l’odio contro gli ebrei ad una misura a cui molti inizialmente non pensavano di arrivare. Molti papi, per esempio, cercarono spesso di contrastare gli eccessi antisemiti a cui si abbandonava il popolino su istigazione del basso clero, ma non si rendevano conto che era proprio la loro dottrina a favorire, se non provocare, quegli scoppi di odio.
  Deve essere abbandonata una volta per tutte l’idea che dopo la morte di Gesù Dio mantenga un volto adirato verso il suo popolo e proprio per questo motivo lo sottoponga a innumerevoli sofferenze. Questo è il punto fondamentale da sottolineare. E’ vero esattamente il contrario: con la morte di Gesù Dio ha perdonato il suo popolo. Dio era adirato con Israele prima della venuta di Gesù, fin dal tempo di Isaia, e anche per questo aveva mantenuto il silenzio per circa quattrocento anni. Ma attraverso i profeti, a cominciare proprio da Isaia, aveva annunciato il giorno in cui si sarebbe riconciliato con il suo popolo, perché Egli stesso si sarebbe caricato dei suoi peccati e avrebbe perdonato la sua iniquità.

    “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati. La voce di uno grida: «Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio! Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi scoscesi siano livellati, i luoghi accidentati diventino pianeggianti»” (Isaia 40:1-4).

Il “debito della sua iniquità” è stato pagato quando Gesù è morto in croce “colpito a causa dei peccati del mio popolo” (Isaia 53:8).
  Prima che per i miei peccati personali, Gesù è morto per i peccati del suo popolo, cioè di Israele. Accogliere per sé il perdono e dichiarare che il popolo d’Israele si trova ancora sotto l’ira di Dio a causa dei suoi peccati perché ha ucciso il Messia significa praticare una distorsione del messaggio biblico che prima o poi conduce ad atteggiamenti antisemiti.

(Da "La superbia dei Gentili")



I doppifondi dell’Amministrazione Biden

di Giovanni Giacalone

L’Amministrazione Biden si è offerta di fornire a Israele importanti informazioni di intelligence per evitare una vasta operazione dell’IDF a Rafah, ha riferito sabato il Washington Post, citando quattro funzionari. 
Secondo il Post, le informazioni fornite dagli Stati Uniti contengono dettagli riguardanti il luogo in cui si trovano i leader di Hamas e i tunnel del gruppo terroristico. 
Nella giornata di giovedì, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha cercato di mettere una pezza alla vicenda, affermando che tali informazioni erano già state fornite a Israele: 
“Potremmo anche, in effetti, aiutarli a prendere di mira i leader, incluso [il leader di Hamas Yahya] Sinwar, cosa che, francamente, stiamo facendo con gli israeliani su base continuativa”. 
Insomma, dopo il “leak” su Washington che minacciava Israele di trattenere gli armamenti se l’IDF fosse entrato a Rafah, presa di posizione che ha creato parecchi guai all’amministrazione Biden, con proteste anche da ambienti democratici pro-Israele, ora emerge un altro fatto potenzialmente altrettanto grave. 
In primis, è bene tener presente che informazioni su tunnel e sulla localizzazione dei leader di Hamas a Gaza in possesso degli Stati Uniti dovrebbero essere condivise con Israele a prescindere dalla situazione sul campo. Non soltanto per la questione dell’alleanza (almeno in teoria) tra Washington e Gerusalemme, ma anche perché Hamas è classificata come organizzazione terrorista anche dagli Stati Uniti (anche qui bisogna purtroppo dire “almeno in teoria”). 
E’ forse per questo che John Kirby ha subito tenuto a precisare che la condivisione di intelligence con Israele era già in corso su base continuativa.
E’ altresì vero che Israele certamente possiede informazioni ampie e capillari sulla presenza di Hamas a Gaza e conosce molto bene la situazione della leadership e la struttura dei tunnel, sia grazie all’avanzato apparato tecnologico in uso all’intelligence israeliana e sia in base alla humint (human intelligence) di cui dispone in loco.  
Resta il fatto che quanto emerso dalla pubblicazione del Washington Post fa emergere ulteriori dubbi sull’operato dell’amministrazione Biden. E’ possibile che Washington sia in possesso di informazioni sui leader di Hamas a Gaza che non ha condiviso con Israele? Se così fosse, per quale motivo gli Stati Uniti sarebbero in possesso di tali informazioni? Per quale motivo non sarebbero state ancora condivise? Tutto ciò va ad aggiungersi alll’insistenza con la quale Biden sta cercando di fermare l’offensiva israeliana su Rafah volta ad eradicare Hamas e al “trappolone” riguardante l’ultima offerta presentata a Hamas dall’Egitto la settimana scorsa, diversa da quella accettata da Israele giorni prima (e inaccettabile). Washington non aveva infatti informato Israele dei cambiamenti apportati, provocando una forte delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione americana e sospetti riguardo al suo ruolo di mediatrice. 
La situazione a Washington si complica insomma sempre di più e sono in molti ormai a credere che l’amministrazione Biden sia ben più preoccupata per Hamas che per la sicurezza dell’”alleato” israeliano. 

(L'informale, 12 maggio 2024)

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Eurovision: quinto posto per Israele, Eden Golan seconda al televoto: “Non dimentichiamo i rapiti”

di Luca Spizzichino

“Non dimentico neanche per un momento gli ostaggi e dedico a loro la mia partecipazione al concorso” ha affermato Eden Golan, che ha concluso al quinto posto un Eurovision travolto dalla politica e, soprattutto, dalle polemiche. La cantante israeliana si è assicurata il secondo maggior numero di punti dal televoto, aggiudicandosi 323 punti, dietro solo al croato Baby Lasagna, considerato anche dai bookmakers uno dei papabili vincitori della competizione, vinta dallo svizzero Nemo.
  In una dichiarazione a margine della competizione, Golan ha detto di essere “molto orgogliosa” del quinto posto di Israele. “Fin dal primo momento abbiamo avuto un obiettivo, ovvero far sentire la voce forte di Israele nel mondo, e so che abbiamo raggiunto questo obiettivo alla grande”.
  A viziare la posizione in classifica della cantante israeliana il punteggio molto sfavorevole della giuria. La cantante infatti non ha ottenuto 12 punti – il massimo possibile – dalla giuria di nessun paese, ma ne ha ricevuti otto ciascuno da Norvegia, Cipro e Germania; cinque dal Belgio e dall’Estonia; quattro dalla Lituania; tre ciascuno da Francia, Malta, Moldavia e Georgia; e due dalla Lettonia. L’artista israeliana ha ricevuto invece 12 punti dal televoto da Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Belgio, Regno Unito.
  Non sono mancati i fischi durante l’esibizione, tuttavia Eden Golan, come nella seconda semifinale, ha cantato “Hurricane” in maniera impeccabile. Subito dopo la performance la cantante si è lasciata travolgere dalle emozioni, dopo una settimana che l’ha vista al centro delle polemiche della maggior parte dei concorrenti, anche durante la finale. La portoghese Iolanda ha indossato un abito nella “parata delle bandiere” di apertura disegnato da un designer palestinese, e le sue unghie erano decorate con colori verde, rosso, bianco e nero, oltre a un motivo kefiah. L’irlandese Bambie Thug invece – a cui l’EBU ha ordinato di rimuovere i messaggi filo-palestinesi scritti sul loro volto in un’antica lingua irlandese – è stata vista nella green room mentre attendeva i risultati con un’immagine propal. La vincitrice dell’anno scorso, Loreen, avrebbe dichiarato prima della competizione che si sarebbe rifiutata di consegnare il trofeo a Golan, qualora Israele avesse vinto. E infine i rappresentanti della Finlandia e della Norvegia, ossia Käärijä e Alessandra Mele, che avrebbero dovuto annunciare i voti della giuria del loro paese si sono ritirati prima dello spettacolo per protestare contro Israele. Noa Kirel, che ha gareggiato l’anno scorso con tutti e tre gli artisti scandinavi, ha dedicato loro una storia sui social dove ha scritto: “Non c’è posto per l’antisemitismo”.
  Nonostante tutte queste manifestazioni ostili, Eden Golan è riuscita ad aggiudicarsi un quinto posto che va a confermare la qualità del panorama musicale israeliano e la costanza in questa competizione, infatti l’Eurovision Song Contest è stato vinto per ben 4 volte dallo Stato ebraico.

(Shalom, 12 maggio 2024)

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Come i popoli deportati ricordano il dolore

Quella del medio oriente è una storia di esodi e spostamenti forzati sin dall’antichità. Ebrei, assiri e babilonesi. I romani spostavano gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. E la Cina è nata con spostamenti forzati epocali.

di Siegmund Ginzberg 

Sballottati, costretti a muoversi da nord a sud, e poi ancora da sud a nord. Privati di tutto. Migranti forzati, sloggiati manu militari, costretti ad accamparsi in luoghi sconosciuti. Da dove verranno magari nuovamente scacciati. Sempre che siano riusciti a sopravvivere alla guerra. I bambini in braccio, i vecchi sorretti, o portati in spalla, in fila su strade e sentieri polverosi o fangosi. Ingombri delle poche cose che gli sono rimaste. Affamati, assetati, senza più neanche la forza di essere arrabbiati. Chi non ce la fa lasciato indietro. Popoli sradicati, fluttuanti, spintonati con violenza da una località all’altra. Lì succede da millenni.
Ci sono le testimonianze. Frammentarie. Oscurate dalla censura, o ingigantite dalla propaganda. “Ho raso al suolo tutte le loro città, ho portato via, come bottino, tutti gli abitanti, il bestiame, lasciando [in piedi] solo la città di Samaria [l’allora capitale del regno di Israele], che si era sottomessa quale tributaria, mentre il regno di […]”, suona la faticosa ricostruzione di un’iscrizione su argilla, in più punti lacunosa, del sovrano assiro sulle campagne militari di Tiglath-Pileser III in Siria e in Palestina (734-732 a.C.). “Li ho portati via con quel che possedevano [il loro bestiame e le loro greggi]”. Spostamento forzato. Sotto scorta armata. “O vi muovete dove vi diciamo noi, o vi ammazziamo”, si può presumere. “[Li ho costretti a superare] montagne difficoltose”, si legge negli Annali di Tiglath-Pileser, altrettanto rovinati e difficili da decifrare. Migrazione “difficile”, strada impervia, tormentosa deve essere stata davvero, se a dirlo è il sovrano che li ha fatti spostare. Non disponiamo di alcuna narrazione da parte dei deportati.
Ci sono le cifre. Sballate, inaffidabili, contraddittorie, a seconda che a dare i numeri sia l’una o l’altra delle parti in causa. Per l’antichità avere due versioni spesso è un lusso. Abbiamo per lo più quella dei vincitori. Gli assiri erano scrupolosi nel far di conto. Qualche centinaio dal tal villaggio, qualche centinaio dal tal altro, in tutto “13.520 persone” annotano gli scribi di Tiglath-Pileser. Poco più di un decennio dopo, uno dei suoi successori, Sargon II, è più preciso ancora: “Li ho combattuti [i samaritani] e ho portato via 27.290 di loro, con 50 carri per le mie truppe regie”. Si tratta della campagna per domare, nel 720 a. C., la ribellione iniziata da Hamath (l’antica città siriana, non Hamas). Porta gli eserciti assiri fino a Gaza, alle porte dell’Egitto. “Ho assediato e conquistato Ashdod, Gath e Ashdod-Yam. Ho contato come spoglie gli dèi, le donne, i bambini, tutti i possedimenti e i tesori, del palazzo come degli abitanti. Ho ricostruito le loro città e vi ho sistemato gente delle altre città che avevo conquistato a oriente”. Conferma la Bibbia: “Venne Tiglat-Pileser, re di Assiria. Prese Iion, Abel-Bet-Maacà, Ianòach, Kedes, Asor, il Gàlaad e la Galilea, tutta la terra di Nèftali, e ne deportò gli abitanti in Assiria” (2 Re 15,29). Confermano gli scavi archeologici. Di Samaria, l’allora capitale del regno di Israele, Sargon dice che l’ha “ricostruita e fatta più grande di prima”. E che, dopo averla svuotata di parte dei suoi abitanti, vi ha mandato “genti delle [altre terre] conquistate”, mettendogli a capo come governatore uno dei suoi eunuchi, e imponendo “su di loro tributo e tasse come agli Assiri”.  
Le terre che aveva svuotato le riempì con altre popolazioni. “Ho sconfitto [le tribù di] Thamud, Ibadidi, Marsimani e Hayapa, gli arabi che vivono lontani nel deserto, dei quali nessuno dei miei governatori o funzionari aveva neppure conoscenza, che non pagavano tributo ad alcun re. E li ho spostati perché risiedessero in Samaria”, fa scrivere sempre Sargon nei suoi annali. Prima ancora aveva fatto deportare le tribù che popolavano l’altopiano iranico dalla catena dei Monti Zagros, sino ai confini dell’Egitto.
Sennacherib, successore di Sargon, nel 701 mosse contro il regno di Giuda, l’altro regno ebraico, che, a differenza di Samaria, aveva mantenuto la sua indipendenza. Giostrando accortamente intese con i vicini. Il nuovo re di Giuda, Ezechia, aveva però sconvolto l’equilibrio delle alleanze. Si era avvicinato all’Egitto, gran rivale degli assiri, e stava minacciando le città filoassire sulla strada per l’Egitto. Sennacherib gli aveva mosso guerra. Ezechia aveva fortificato Gerusalemme. L’aveva attrezzata a un lungo assedio. Aveva costruito una fitta rete idrica sotterranea, di cunicoli e tunnel a cui l’assediante non poteva arrivare. Gerusalemme non capitolò, ma fu costretta a pagare un pesante tributo. Ciascuna delle due parti cantò vittoria. Succede anche al giorno d’oggi. L’importante è poter gridare in faccia al nemico, e dire alla propria gente, di avere vinto.
Ecco la versione trionfalistica di parte assira: “Ezechia il Giudeo, che non si era sottomesso al mio giogo […] lo rinchiusi in Gerusalemme come un uccello in gabbia. Accumulai terrapieni contro di lui, e chi voleva uscire dalle porte della città veniva respinto alla sua miseria […] Ezechia fu terrorizzato dallo splendore della mia Signoria, e venne abbandonato dai mercenari che aveva portato a rafforzare Gerusalemme. Oltre a 30 talenti d’oro e 800 talenti d’argento, pietre preziose e gioielli, letti e seggi d’avorio, pelli e zanne d’elefante, legno pregiato, ogni genere di tesoro, come pure le sue figlie, le sue donne di palazzo, i suoi musici, maschi e femmine, dovette mandarmi a Ninive”. 

    Ad alcuni studiosi il numero di deportati nelle fonti assire appare così enorme che ipotizzano venissero conteggiati anche gli animali

Le iscrizioni reali assire dicono che nel corso di quella guerra Sennacherib, il successore di Sargon, aveva decuplicato la movimentazione di popolazione, rispetto alle campagne precedenti. Aveva fatto deportare 201.150 persone, “giovani e vecchi, maschi e femmine, cavalli, muli, asini, cammelli, buoi, greggi innumerevoli [di pecore e capre]”. A sommare i numeri citati nelle iscrizioni, per tutti i movimenti su e giù in tutto il regno, si arriva a 350.000 deportati. Sennacherib era uno che sapeva il fatto suo, aveva informazioni precise, disponeva della migliore intelligence dell’epoca. L’altra cosa su cui gli assiri non erano secondi a nessuno era il sistema di strade – si presume con relative attrezzature di ristoro e sorveglianza – lungo le quali spostare queste fiumane. Non per niente, da principe ereditario, era stato il capo dell’attrezzatissimo spionaggio assiro. Ad alcuni studiosi il numero di deportati appare così enorme, rispetto alle popolazioni dell’epoca, che ipotizzano vengano conteggiati anche gli animali. L’insigne assirologo dell’Università di Haifa Bustenay Oded, autore a fine anni 70 di un fondamentale studio su Mass Deportations and Deportees in the Neo-Assyrian Empire, stima che in tre secoli siano stati spostati con la forza dai 4 ai 4,5 milioni di persone. 

    Meglio deportati che massacrati. I bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture erano volti a incutere terrore

Meglio deportati che massacrati, verrebbe da dire. Si sa che la propaganda assira, i terrificanti bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture inflitte ai nemici erano volti a incutere terrore, scoraggiare ogni tipo di resistenza. Era, si ritiene, un modo di dire al mondo intero: guardate come siamo cattivi, non azzardatevi a provocarci. Appena un pochino meno spettacolari le deportazioni, gli esodi forzati, le sostituzioni di popolazioni da un capo all’altro dell’impero. Perché lo facevano? Per punire chi mal sopportava, o si ribellava al giogo assiro? Per ragioni di sicurezza, strategiche? Per rimescolare carte, alleanze e vassallaggi? La cosa più sorprendente è che spesso se li portavano in casa, fino in Assiria. Anziché allontanarli il più possibile, come si fa oggigiorno. Perché l’impero assiro aveva un bisogno disperato di forza lavoro, possibilmente specializzata (come mostrerebbe l’interesse specifico a requisire carri e reclutare aurighi e mulattieri registrato negli annali; oppure la presenza negli scavi di vasellame, fatto localmente, ma da vasai provenienti dai quattro angoli dell’impero)? Non sappiamo che sofferenze patissero i deportati, quanti ne morissero per strada nelle lunghe marce forzate. Quanti di stenti, quanti di malattie, quanti per violenza. Sappiamo però che non tutti venivano trattati male. Molti prosperarono nelle destinazioni loro assegnate. Alcuni fecero carriera nelle forze armate assire. Altri nell’amministrazione.
La storia della regione che oggi chiamiamo medio oriente è lastricata di violenze, assedi, massacri. E anche, forse, soprattutto di movimenti violenti di popolazione. Era fresca la memoria delle deportazioni assire che Gerusalemme fu attaccata dal re babilonese Nabucodonosor, desideroso di conquistare i porti del Mediterraneo e di aprirsi una via verso l’Egitto. L’assedio durò un anno e mezzo e si concluse nel 586 a. C. quando la città fu sconfitta e venne distrutto il Tempio di Gerusalemme. E’ di ebrei deportati a Babilonia lo struggente coro “Va pensiero” del Nabucco di Verdi. che ancora oggi riesce a commuoverci. Miracoli della grande musica. La “Patria, sì bella e perduta” del testo di Temistocle Solera, musicato da Verdi, è ovviamente l’Italia occupata dagli austriaci. La cosa oggi incredibile è che la censura austriaca gliela lasciò passare.  

    Il ritorno degli ebrei da Babilonia non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti

L’esilio babilonese ha lasciato un segno profondo nella cultura ebraica, gli ha dato il Talmud, detto appunto babilonese, una sterminata raccolta di commenti, pareri, norme etiche, giuridiche e rituali, condita di note, chiose, dotte discussioni, spiegazioni a margine, che spesso lasciano la questione aperta a una pluralità di interpretazioni. A liberarli e a permettergli di tornare a casa fu un re persiano, Ciro il grande, campione di tolleranza religiosa, che nel frattempo aveva conquistato Babilonia. Il ritorno non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti e non erano stati deportati. Li denunciarono al nuovo sovrano persiano, chiedendogli di punirli. All’esilio sotto dominazione persiana si riferisce anche la storia biblica di Ester, ebrea, sposa del re persiano Assuero. Ce ne sono diverse versioni. E’ stata attribuita talvolta a epoche diverse. Il cattivo Aman, che spinge il re persiano a sterminare gli ebrei, è anche lui discendente di deportati dalla Palestina, ma di etnia diversa dagli ebrei. Gli va male, finisce lui impiccato all’albero che aveva fatto preparare per il giudeo Mordecai. Un’amica, Miriam Camerini, che studia da rabbina (auguri!), ne interpreta la morale nascosta come un appello al re da parte di Ester perché faccia il suo mestiere e fermi il programmato massacro e la catena di vendette. Suggestivo, ma ci devo ancora riflettere. Quello scampato pericolo gli ebrei lo festeggiano a Purim. E’ una delle due feste, del tutto laiche, che più ricordo della mia infanzia in una famiglia non praticante. Sono dominate dal racconto, dal pranzo in famiglia, non dai riti religiosi. L’altra è Pesach, il passaggio, la liberazione dall’Egitto. Anche quella è una storia di migrazione di massa, ma non forzata, né respinta, e neppure temuta come invasione, bensì strappata a fatica al faraone che non li lasciava partire. 

    I romani se ne intendevano di ingegneria etnica. Spostavano in tutta la penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico

Gli ebrei continuarono a essere deportati e perseguitati dai satrapi ellenistici eredi di Alessandro Magno. Furono a più riprese conquistati, assediati, massacrati, deportati, e infine costretti a disperdersi per il mondo, dai romani. I quali antichi romani, di deportazioni in massa, e di ingegneria etnica (i coloni) se ne intendevano. Durante la conquista dell’Italia, e poi durante la guerra portata in Italia da Annibale, spostarono forzosamente da un capo all’altro della penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. Tito Livio racconta di come nel 179-80 a. C. 50.000 liguri apuani furono deportati nel Sannio, 7.000 addirittura via nave, dalla costa toscana a quella campana. Malgrado quelli implorassero che li si lasciasse a casa loro, e si fossero impegnati a non prendere le armi contro Roma (Ab urbe condita, XL, 38). Li avevano, racconta sempre Livio, affamati bruciando le loro vigne e i loro raccolti, tagliandogli vie di comunicazione e rifornimenti. Giulio Cesare aveva messo in pratica la notevole expertise acquisita in materia, spintonando per di qua e per di là, e mettendo l’una contro l’altra le diverse tribù delle Gallie, secondo la convenienza strategica del momento. Di buono c’era che non avevano il concetto di “razza” italica o romana. Solo di cittadinanza.
La Cina praticamente è nata con spostamenti forzati epocali. Qin Shihuangdi, il Primo imperatore, l’aveva unificata spostando di qua e di là milioni di persone, le etnie più disparate, reclutandole nei suoi eserciti, nei grandi lavori idraulici, nella costruzione della Grande muraglia, e in quella della sua tomba. L’America si è fatta, oltre che sull’arrivo di masse sterminate di immigrati, sulle ossa delle tribù indiane spinte sempre più verso le terre più inospitali dell’ovest.
Si capisce che la questione degli esodi, dell’esodo forzato (o anche dell’esodo impedito), sia da sempre la più intrattabile di tutte. Facevo il corrispondente in America quando nel 1992 assistetti in diretta al naufragio degli accordi di Oslo proprio sulla questione del “diritto al ritorno” dei palestinesi. Incredibile a ripensarci: gli avevano offerto a Camp David, su insistenza di Clinton, uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in gran parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, in cambio dello smantellamento dei gruppi terroristici. Arafat rifiutò, insisteva sul diritto al ritorno per tutti. Non fece controproposte. Me l’avevano spiegata così: se Arafat firma una rinuncia al “diritto al ritorno”, i suoi l’ammazzano.  
La cacciata da casa propria è, da che mondo è mondo, il più pesante dei traumi. Naqba, catastrofe per eccellenza, la chiamano i palestinesi. Come catastrofe epocale fu vissuto lo scambio forzato di 18-20 milioni di musulmani e di indù tra India e Pakistan nel 1947. Come catastrofe fu vissuta nella Istanbul della mia infanzia lo scambio forzato di turchi e greci. Prima c’era stato lo sterminio degli armeni. La maggior parte in atroci marce forzate attraverso l’Anatolia devastata. Stalin aveva spostato da un capo all’altro dell’immensa Unione sovietica interi popoli, intere categorie sociali o politiche. Hitler li spostava da un capo all’altro dell’Europa per sterminarli. Non so come finirà a Gaza. Non oso pensare quanto sarà difficile negoziare su eventuali scambi e movimenti di popolazione tra Ucraina e Russia, quando e se finirà la guerra.

Il Foglio, 11 maggio 2024)

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Israele e il Messia – percorsi paralleli (4)

Quando Dio interviene in favore dei figli d’Israele caduti in mani straniere, quello che vuole ottenere non è in primo luogo la libertà per loro, ma la possibilità per Dio di “abitare in mezzo a loro”.

di Gabriele Monacis

Per i figli di Israele, l’esilio in Babilonia terminò quando Ciro, il re della potente nazione di Persia, emanò un suo editto e li lasciò partire. Secondo la Scrittura, l’uscita dei figli di Israele da Babilonia, che era caduta nelle mani dei persiani nel 539 a.C., non fu un’iniziativa di Ciro, ma fu per volontà dell’Eterno stesso, che destò lo spirito di questo re straniero, affinché lasciasse partire il Suo popolo.
  Questo epilogo, anche se con alcune differenze, ricorda l’uscita dei figli di Israele dall’Egitto. In quel caso, come in questo, fu l’Eterno a indurre il faraone, anch’egli un re straniero, a lasciar partire il Suo popolo, anche se con modi diversi in un caso rispetto all’altro.
  Ecco i due versetti con i quali si conclude il Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica:

    Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto: “Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'” (2 Cronache 36:22,23).

Se si considera la storia del popolo di Israele raccontata nel Tanach, quindi tenendo da parte il libro della Genesi in cui Israele non si era ancora formato come popolo, si osserva che la storia di Israele si apre e si conclude con lo stesso schema narrativo. Il popolo di Israele si trova in un paese straniero, l’Egitto all’inizio e Babilonia alla fine, e l’Eterno, in qualche modo, spinge il re di quella potente nazione a lasciarli partire. In Egitto, Israele era sotto la schiavitù del faraone, che fu spinto a lasciarli partire dal peso della potente mano dell’Eterno. In Babilonia, Israele era in esilio e il re Ciro emana un editto perché destato dall’Eterno, e lascia partire il Suo popolo affinché ritorni a Gerusalemme.
  Un altro elemento in comune tra le uscite di Israele dall’Egitto e da Babilonia, sta in ciò che i figli di Israele furono chiamati a fare una volta usciti da quelle nazioni. Il libro dell’Esodo racconta che, una volta giunti al monte Sinai e dopo aver stipulato il patto tra Dio e il Suo popolo, l’Eterno mostrò a Mosè il modello del Tabernacolo, cioè il luogo dove Dio avrebbe abitato in mezzo al Suo popolo. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno disse a Mosè: “Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti” (Esodo 25:8,9).
  Anche nell’editto di Ciro era previsto che i figli di Israele tornassero a Gerusalemme e costruissero lì una casa al loro Dio. Così disse il re di Persia, parlando dell’Eterno: “Egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda”. Lo scopo del ritorno di Israele nella sua terra è dunque ancora lo stesso: costruire un luogo in cui l’Eterno possa abitare insieme con il Suo popolo. E questo è ciò che fecero una volta tornati da Babilonia, anche se in mezzo a tante difficoltà.
  Gesù Cristo nacque sotto il re Erode, come raccontato all’inizio del vangelo di Matteo. Dunque anche Gesù, come Israele, prima in Egitto e poi in Babilonia, si trova sotto la dominazione di un re straniero, Erode appunto, che in quel tempo governava la Giudea. Come il faraone in Egitto, il quale ordinò che venissero uccisi tutti i figli di Israele nati maschi, anche Erode cercò di uccidere Gesù, per paura che il Messia diventasse re al suo posto. Proprio come Dio fece con Israele in Egitto e in Babilonia, Egli sottrasse la vita di Gesù dal potere di re Erode e lo mise al sicuro in Egitto. Ecco il racconto del vangelo di Matteo.

    Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”. Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto; là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto” (Matteo 2:13-15).

La frase che sottolinea il parallelo tra la storia di Gesù e quella di Israele è questa: “Chiamai mio figlio fuori dall’Egitto”. Dio chiama Gesù fuori dall’Egitto, così come Israele fu portato fuori dall’Egitto. Si vuole far notare che la Scrittura non pone tanto l’accento sul luogo in cui Dio mise in salvo colui che stava proteggendo. Israele fu messo in salvo fuori dall’Egitto (Osea 11:1); Gesù, al contrario, fu messo in salvo in Egitto. Ma l’adempimento di ciò che fu detto dal Signore per mezzo del profeta sta nell’azione stessa di Dio, che sottrasse sia Israele che Gesù, al potere di un re straniero, e li mise in salvo.
  Una volta che Israele uscì dalla nazione straniera, dall’Egitto ma anche da Babilonia, fu chiamato a costruire un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo a loro. Qui la domanda è d’obbligo. Se la storia di Gesù ricalca quella di Israele, in che modo la sua venuta permise la costituzione di un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo al Suo popolo? Infatti, negli anni in cui Gesù nacque e crebbe, il tempio a Gerusalemme esisteva già. Proprio il re Erode, dopo anni di lavori, l’aveva reso un edificio davvero imponente e maestoso. 
  Un elemento per rispondere a questa domanda sta proprio nell’incipit della genealogia di Gesù Cristo, in apertura del Nuovo Testamento. Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo. 
  In ebraico, la parola figlio, che nel primo versetto del Nuovo Testamento compare due volte, è בֶּן (ben). La parola “costruire”, invece, si dice בָּנָה (banà). Queste due parole, oltre ad essere simili nel modo in cui vengono pronunciate, hanno la stessa radice: ב.נ.י.. Proprio la radice in comune tra le parole ebraiche “figlio” e “costruire”, potrebbe essere il collegamento che lega, ancora una volta, la fine del Tanach con l’inizio del Nuovo Testamento.
  Gesù Cristo, figlio di Davide e figlio di Abraamo. A Davide, Dio aveva promesso di costruirgli una casa perenne: non sarebbe mai mancato un suo discendente sul trono di Israele, quindi un suo figlio. Ad Abraamo, Dio aveva promesso una discendenza molto numerosa. Lui, che al momento di quella promessa di figli non ne aveva ancora avuti. Nella Sua Parola, Dio garantisce ad entrambi che ci sarebbe sempre stato un loro figlio che avrebbe incarnato la promessa di Dio nel corso della storia. 
  Anche all’inizio del Nuovo Testamento, l’Eterno intende costruire un luogo in cui dimorare in mezzo a Israele, il Suo popolo. Questa volta, però, non lo fa in un’abitazione costruita dagli uomini, come ha fatto nel Tabernacolo nel Sinai o nel tempio a Gerusalemme. Lo fa proprio in un uomo, un figlio di Abraamo e di Davide. Un figlio del popolo di Israele. Se questo è ciò che il Nuovo Testamento sostiene fin dal suo primo versetto, significa che Dio può abitare in una persona? In un figlio di Israele discendente di Abraamo e di Davide?
  La risposta è sì, ma non è una novità del Nuovo Testamento. Infatti, questa risposta la si trova già in una profezia dell’Antico Testamento (Isaia 7:14), che il vangelo di Matteo riporta, perché si è adempiuta nel parto di una donna vergine. La nascita di Gesù avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi” (Matteo 1:22,23).
  Secondo questa profezia, il nome del figlio che sarebbe nato dalla vergine sarebbe stato Emmanuele, che significa “Dio è con noi”. Uno potrebbe chiedersi perché, nel vangelo di Matteo, l’angelo del Signore abbia detto a Giuseppe di chiamare questo figlio Gesù e non Emmanuele, come dice la profezia di Isaia. A questo riguardo, si fa notare che nella Bibbia un nome non è attribuito semplicemente per chiamare qualcosa o qualcuno, come un’etichetta. Un nome esprime una realtà, uno stato delle cose. Il nome Gesù in ebraico è יֵשׁוּעַ (yeshua), che significa “il Signore salva”. Infatti, dice l’angelo, sarà lui che salverà il suo popolo dai loro peccati. E questo è lo stato delle cose espresso dal nome Gesù.
  Lo stesso si può dire del nome Emmanuele. L’adempimento della profezia di Isaia non sta nel fatto che quel figlio, nato da una vergine, si chiami o meno Emmanuele. Sta nel fatto che proprio in quel figlio si è realizzato il significato di quel nome: “Dio è con noi”.
  Anche in questo caso, si vede come il Nuovo Testamento riprende la storia di Israele del Tanach e ne racconta lo sviluppo, la continuazione, con la nascita di Gesù Cristo. Il desiderio dichiarato di Dio nell’Antico Testamento, dall’inizio alla fine, era quello di dimorare in mezzo al Suo popolo. Gesù nasce per volontà dello Spirito Santo, quindi di Dio stesso, proprio per soddisfare quel desiderio di Dio: dimorare con i Suoi. Questa volta non lo fa in un’abitazione fatta da uomini, ma nella carne e nelle ossa di un uomo.

(4. continua)

(Notizie su Israele, 12 maggio 2024)



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Eurovision 2024: chi è Eden Golan, la cantante di Israele fischiata alla finale

Chi è la giovane cantante israeliana contestata a Malmö

di Mario Manca

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È molto probabile che, quando ha accettato di rappresentare Israele all'Eurovision Song Contest 2024, Eden Golan non sapesse quello a cui sarebbe andata incontro. Ancora prima di arrivare a Malmö, in Svezia, sono stati in molti a chiedersi se fosse il caso che il festival aprisse le porte a Israele alla luce di quanto succede ancora oggi a Gaza, portando di fatto Eden Golan al centro di una polemica non solo per la sua provenienza ma anche per i suoi rapporti con la Russia, che l'Eurovision ha scelto di escludere dalla competizione dal 2022. Vent'anni e oltre 760mila ascoltatori su Spotify, Eden Golan è nata in Israele nel 2003 da genitori ebrei immigrati dall’ex Unione Sovietica. È cresciuta a Mosca, dove la famiglia si è trasferita per il lavoro del padre, iniziando a muovere i primi passi nel mondo della musica fino a partecipare nel 2018 a The Voice Kids Russia, programma che l'ha resa popolarissima in patria. Lasciata la Federazione Russa nel 2022 e ritornata in Israele, con la partecipazione al talent HaKokhav HaBa Golan si è aggiudicata il posto all’Eurovision, raccogliendo ora fischi e ora solidarietà anche per via della sua canzone, Hurricane.
  Inizialmente doveva chiamarsi October rain (dove l’ottobre a cui si fa riferimento è quello in cui Hamas ha attaccato Israele), ma per via di quella clausola dell'Eurovision che vieta titoli e testi che facciano riferimento alla politica, le cose sono presto cambiate. Per Eden Golan i problemi sono iniziati già durante la prima semifinale, quando è stata accolta in arena da diverse proteste che non le hanno, però, fatto perdere il sorriso. «Sono qui, sto facendo quello che amo di più, sono concentrata sulla musica e sull’energia positiva: ci sono un sacco di persone che mi supportano e ritengo sia un onore rappresentare il mio Paese, soprattutto di questi tempi. Sono concentrata su questo e sul fare un ottimo lavoro e dare il meglio di me nelle esibizioni», ha detto la diretta interessata ai microfoni della BBC, sforzandosi di (ri)mettere la musica - e non la politica - al centro della sua avventura all'Eurovision.

(Vanity Fair, 11 maggio 2024)

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L'Assemblea dell’Onu apre alla Palestina. Ma l’Italia si astiene

L’ambasciatore di Israele strappa la Carta delle Nazioni Unite: “No ai nuovi nazisti”. Ora serve il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma gli Usa opporranno il veto.

di Massimo Basile

Il discorso dell'Ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite
NEW YORK — Mentre i tank israeliani hanno accerchiato la zona Est di Rafah, dove si trovano un milione e mezzo di rifugiati palestinesi, a più di diecimila chilometri di distanza l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti, una storica risoluzione che riconosce la Palestina come qualificata per entrare a far parte dell’Onu a pieno titolo. Al momento è solo “osservatore” e non ha diritto di voto o di nomina.
  Quando il risultato è apparso sui maxi schermi dell’aula, una delegata della missione palestinese ha allungato il braccio sul tavolo e stretto il dorso della mano di un collega, in segno di trionfo. I rappresentanti di Israele sono rimasti impassibili. Nel momento in cui il presidente dell’Assemblea ha letto il risultato, dall’Aula è partito un lungo applauso. L’ambasciatore israeliano Gilad Erdan, gelido, ha continuato a leggere un messaggio sul cellulare. La risoluzione è stata redatta dagli Emirati Arabi e parla di «eccezione», per evitare che altri, come Taiwan e Kosovo, possano avanzare la stessa richiesta. Nel testo si «raccomanda» il Consiglio di sicurezza, unico organismo titolato a decidere, a «riconsiderare favorevolmente la questione».
  Non accadrà. Gli Stati Uniti, uno dei cinque membri permanenti con diritto di veto, avevano già bloccato la risoluzione ad aprile. L’ambasciatrice Linda Thomas-Greenfield ieri non era presente, come sovente avviene quando gli Usa devono prendere una decisione impopolare. E questa è stata un’altra giornata difficile. Il secondo ambasciatore, Robert Wood, ha spiegato all’aula il no Usa alla risoluzione, una «decisione unilaterale che non raggiunge l’obiettivo».
  La soluzione, ha ribadito, va trovata attraversato negoziati diretti tra Israele e Palestina. «Con questa votazione — ha attaccato invece l’ambasciatore israeliano Erdan — avete aperto le Nazioni Unite ai nazisti moderni». Poi Erdan ha concluso il discorso con un gesto che rimarrà nella storia delle Nazioni Unite: ha infilato simbolicamente alcune pagine della Carta Onu in un tritacarte. Prima di lui, il rappresentante palestinese Riyad Mansour, più volte sul punto di scoppiare a piangere, aveva detto: «Mentre parliamo, 1,4 milioni di palestinesi a Rafah si chiedono se oggi resteranno vivi».
  L’Italia si è astenuta assieme a Germania e Regno Unito. L’ambasciatore Maurizio Massari ha confermato l’allineamento sulle posizioni americane: sì alla formula “due popoli due Stati”, ma la «soluzione deve essere raggiunta attraverso negoziati diretti tra le parti». La Vecchia Europa resta divisa. Francia e Spagna hanno votato a favore. Ungheria e Cechia contro. Mentre il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, ha annunciato che il 21 maggio alcuni Paesi, tra cui Spagna, Irlanda e Slovenia, riconosceranno ufficialmente lo Stato palestinese, «e altri Paesi si aggiungeranno».
  Intanto a Rafah la situazione si è aggravata. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato l’“espansione dell’area di operazione” nel sud di Gaza, anche se - secondo alcune fonti - si tratterebbe di un ampliamenti “limitato”, nel tentativo di restare entro le linee rosse fissate dal presidente degli Stati Uniti Biden. Ma in Israele c’è anche chi è tentato dallo strappo, sapendo che Biden è stretto tra due fuochi: il tentativo di tenere in piedi il negoziato su tregua e ostaggi da un lato (fondamentale anche per non perdere una fetta significativa di elettorato), e la fedeltà allo storico alleato dall’altro. Gli atti e le parole dell’amministrazione seguono questa incertezza.
  Nel rapporto consegnato al Congresso dal segretario di Stato Antony Blinken, ci sarebbe una critica alla brutalità israeliana nella Striscia di Gaza, ma non il riconoscimento che le operazioni militari starebbero violando il diritto internazionale. Di fatto è il via libera a nuove forniture di armi. Ma con quali conseguenze politiche e militari? Uno dei portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha consigliato al premier Netanyahu di non andare oltre. «Noi pensiamo — ha detto — che un’operazione di terra a Rafah finirà per rafforzare Hamas, invece che indebolirla. Nuovi morti tra i civili non aiuteranno l’offensiva di Israele».

(la Repubblica, 11 maggio 2024)


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L'Onu apre le braccia alla Palestina. Ira d'Israele: distrutta la Carta in aula

L'Assemblea generale approva la richiesta con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti. Tra questi Italia, Germania e Regno Unito. Furia del governo Netanyahu: "È un premio ai terroristi”.

di Valeria Robecco 

Giornata storica per la Palestina, che fa un primo passo verso l'ammissione a pieno titolo nelle Nazioni Unite. L'Assemblea Generale ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che migliora lo status palestinese garantendogli «nuovi diritti e privilegi» (ma non quello di voto), e invitando il Consiglio di Sicurezza a riconsiderare favorevolmente la sua richiesta di diventare il 194esimo paese membro dell'organizzazione internazionale. Una «decisione assurda», secondo il ministro degli esteri dello Stato ebraico Israel Katz. «Il messaggio che l'Onu manda alla nostra regione in sofferenza è che la violenza paga. È un premio ai terroristi di Hamas». Mentre l'ambasciatore Gilad Erdan ha rincarato la dose affermando che l'Onu si prepara a «favorire la costituzione di uno Stato terrorista palestinese guidato dall'Hitler del 21mo secolo».
  Nel testo, che ha ottenuto 143 voti a favore, 9 contrari (tra cui Usa e Israele) e 25 astensioni (inclusa l'Italia) si afferma che «la Palestina è qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite in conformità con l'articolo 4 della Carta», e si invita il Consiglio di Sicurezza a «riconsiderare favorevolmente la questione». Il via libera del Cds (dove gli Stati Uniti il mese scorso hanno posto il veto) è infatti condizione necessaria per un'eventuale approvazione piena da parte dei due terzi dell'Assemblea. L'ambasciatore americano Robert Wood, nonostante le pressioni di Israele a fermare immediatamente i finanziamenti all'organizzazione internazionale, ha spiegato che il voto contrario di Washington «non riflette l'opposizione allo Stato palestinese». «Siamo stati molto chiari nel sostenerlo - ha precisato - ma la statualità potrà derivare soltanto da un processo che implichi trattative dirette tra le parti. Abbiamo detto fin dall'inizio che il modo migliore per garantire la piena adesione dei palestinesi alle Nazioni Unite è farlo attraverso negoziati con Israele. Questa rimane la nostra posizione», ha spiegato il diplomatico.
  Anche l'Italia, come ha sottolineato il rappresentante permanente, ambasciatore Maurizio Massari, «condivide l'obiettivo di una pace globale e duratura che potrà essere raggiunta solo sulla base di una soluzione a due Stati», ma ritiene che «tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti». «Dubitiamo che l'approvazione della risoluzione odierna contribuirà all'obiettivo di una soluzione duratura al conflitto. Per questo motivo abbiamo deciso di astenerci», ha aggiunto. Tra gli altri astenuti ci sono diversi paesi europei come Germania, Gran Bretagna, Albania, Bulgaria, Austria, Croazia, Finlandia, Olanda, Svezia. La risoluzione non garantisce ai palestinesi il diritto di voto, né potranno presentare la propria candidatura per i principali organi Onu come il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio Economico e Sociale (Ecosoc) o il Consiglio per i Diritti Umani. Ma prevede diritti e privilegi aggiuntivi: essere seduti tra gli Stati membri in ordine alfabetico oppure di presentare proposte, emendamenti e sollevare mozioni procedurali in Assemblea (non concessi all'altro Stato osservatore non membro, la Santa Sede, né all'Unione Europea).
  Il voto Onu arriva nel giorno in cui trapela anche il contenuto di un rapporto dell'Amministrazione Biden sullo Stato ebraico, che approda al Congresso.
  Pur critici, gli Usa sostengono che «Israele non ha violato gli accordi sull'impiego di armi Usa a Gaza».

(il Giornale, 11 maggio 2024)

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L’amministrazione Biden, l’eredità di Obama e Hamas

di Giovanni Giacalone

La questione del rifiuto da parte di Washington della spedizione di munizioni essenziali per Israele a causa delle preoccupazioni su “possibili vittime civili” a Rafah ha generato una reazione negativa nei confronti dell’Amministrazione Biden, che ora viene attaccata da più parti, inclusa la comunità filo-israeliana negli Stati Uniti, e i democratici moderati.
Il tentativo di impedire a Israele di entrare a Rafah e di sradicare Hamas sta iniziando a causare più danni che benefici alla prossima corsa elettorale di Biden. L’attuale presidente potrebbe sicuramente essere preoccupato per i voti in Michigan e Minnesota, ma data la prevedibile reazione negativa che Biden sta attualmente affrontando, oltre all’ostinazione dell’amministrazione nel volere trattenere in ogni caso la spedizione, indica che la questione potrebbe andare ben oltre il  semplice numero di voti da ottenere.
Inoltre, il 7 maggio, un articolo pubblicato su Politico indicava che Washington sta bloccando le spedizioni di munizioni per l’attacco diretto congiunto della Boeing – sia le munizioni, sia i kit che le convertono in armi intelligenti – e bombe di piccolo diametro, come indicato da sei fonti dell’industria e del Congresso a conoscenza di quanto sta accadendo.
Il fatto è stato ulteriormente confermato il 9 maggio dal Prof. Alan Dershowitz su The Dershow:

    “…L’ironia è che tra le armi sequestrate ci sono le cosiddette “bombe intelligenti”, il tipo di bombe in grado di minimizzare i danni ai civili. Quindi, ecco il messaggio che questa amministrazione sembra inviare a Israele: non vogliamo che uccidiate i civili, ma vi invieremo un mucchio di bombe stupide che uccidono i civili perché non riescono a distinguere. Noi tratteniamo le bombe intelligenti che vi renderebbero più capaci di uccidere i membri di Hamas senza uccidere i civili. Questa è la punizione che vi imponiamo; questa non è una punizione nei confronti di Israele, è una punizione nei confronti dei civili di Gaza”.

Come se non bastasse, si è anche scoperto che, anche se l’ultima offerta presentata a Hamas dall’Egitto la settimana scorsa era diversa da quella accettata da Israele giorni prima (e inaccettabile), Washington non ha informato Israele dei cambiamenti apportati, provocando una forte delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione americana e sospetti riguardo al suo ruolo di mediatrice.
Fonti israeliane hanno detto ad Axios che si era reso evidente che Washington e il direttore della CIA William Burns fossero a conoscenza del nuovo documento, che conteneva “molti nuovi elementi” e “sembrava una proposta completamente nuova”, ma non avevano detto a Israele della sua esistenza. Questa circostanza è stata utilizzata da Hamas per raffigurarsi ben disposto a raggiungere un accordo facendo apparire Israele come la parte inflessibile, come spiegato da The Times of Israel.
L’intero quadro evidenzia gravi preoccupazioni e solleva interrogativi sull’affidabilità dell’Amministrazione Biden come cosiddetto alleato. Attenzione, non gli Stati Uniti, ma l’“Amministrazione Biden” che è fondamentalmente la continuazione di quella di Obama, come appare chiaro dalla sua politica estera in Medio Oriente.
Molti degli uomini attualmente attivi nei dipartimenti di Washington avevano già ricoperto posizioni di rilievo durante il periodo di Obama, come Jake Sullivan, Antony Blinken, Brett McGurk e Susan Rice.
Durante la sua presidenza, Barrack Hussein Obama ha aperto le porte ai Fratelli Musulmani (MB) in Medio Oriente (di cui Hamas è il ramo palestinese), recandosi ad Ankara appena tre mesi dopo il suo insediamento per sostenere il partito islamista AKP di Erdogan come “un modello di democrazia” e di “Islam moderato” in Medio Oriente e nel mondo. Sfortunatamente, abbiamo tutti visto cosa è diventata la Turchia sotto il governo dell’AKP.
Nel giugno 2009 al Cairo, Obama tenne un discorso intitolato “Un nuovo inizio”, davanti a un pubblico che, su richiesta della sua amministrazione, comprendeva dieci leader dei Fratelli Musulmani. In quell’occasione Washington gettò le basi per quell’iniziativa di “cambio di regime” che devastò Egitto, Tunisia e Libia.
In Egitto, il governo della Fratellanza Musulmana, durato un anno e guidato da Mohamed Morsi provocò un disastro totale, con Morsi accusato di alto tradimento, di avere aperto le porte del paese alle guardie rivoluzionarie iraniane e di rapporti con Hamas e Hezbollah.
Nell’estate del 2013, milioni di egiziani scesero in piazza chiedendo nuove elezioni e contestando l’Amministrazione Obama e l’allora ambasciatrice Anne Patterson, accusata di sostenere il governo islamista nonostante i disordini. Come conseguenza Patterson dovette lasciare in fretta il Cairo.
Nel gennaio 2015, ben dopo la caduta di Morsi, il Dipartimento di Stato americano ospitò una delegazione di leader legati ai Fratelli Musulmani, tra cui Walid el-Sharaby, membro del Consiglio rivoluzionario egiziano, Gamal Heshmat, Abdel Mawgoud al-Dardery (due anziani membri della Fratellanza) e Maha Azzam, presidente del Consiglio egiziano per la rivoluzione, formatosi a Istanbul nel 2014 per contrastare Abdelfattah al-Sisi.
Come se ciò non  fosse bastato, l’Amministrazione Obama autorizzò l’invio di 1,7 miliardi di dollari in contanti al regime iraniano, liberando circa 100 miliardi di dollari in beni congelati, rafforzando in questo modo l’industria iraniana. Com’era prevedibile, Teheran utilizzò il denaro anche per rafforzare Hamas, gli Houthi, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq e Siria.
Tornando alla situazione attuale e all’Iran, vale la pena ricordare che, nonostante l’attacco perpetrato dal regime iraniano contro Israele il 13 aprile, con oltre 320 missili e droni, solo due settimane dopo una delegazione statunitense ha avviato trattative con la controparte iraniana per discutere la questione nucleare iraniana, la riduzione delle tensioni nella regione e la capacità di Teheran di mantenere la calma nella Striscia di Gaza in cambio del ripristino del precedente accordo non scritto sul nucleare tra Teheran e Washington.
Non è quindi difficile capire perché l’amministrazione Biden stia cercando di impedire a Israele di sradicare Hamas, e questo è un motivo in più per cui Israele deve arrivare fino in fondo e annientare l’organizzazione terroristica palestinese.

(L'informale, 11 maggio 2024)

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“Israele è impegnata in una guerra contro l’alleanza del male, che vuole una Guerra santa”

di Ilaria Myr

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«Ci sono due grandi alleanze: l’alleanza della pace e quella del male. Ne fa parte Hamas, che ci ha colpito il 7 ottobre con una brutalità che non vedevamo dalla Shoah, ma anche l’Iran, gli Houthi, Hezbollah, i Fratelli Musulmani e il più pericoloso di tutti: il Qatar, che li finanzia. L’obiettivo di questa alleanza del male è che il mondo sia musulmano: gli Usa e Israele sono Satana, e vogliono uccider e tutti in una logica di guerra santa. Mentre dell’altro schieramento fanno parte Israele, i paesi occidentali e gli Stati Uniti, così come i Paesi arabi, come Egitto (da 40 anni) e Giordania (35), che hanno siglato la pace negli scorsi decenni e che temono l’Iran, a cui si aggiungono quelli che hanno siglato gli Accordi di Abramo, come gli Emirati Arabi, che riconoscono che non è una questione territoriale, ma di Guerra Santa». Con queste parole Nir Barkat (al centro nella foto), Ministro dell’economia israeliano, per dieci anni sindaco di Gerusalemme, ha introdotto l’incontro organizzato mercoledì 8 maggio dal Keren Hayesod per i suoi sostenitori a Milano, una sala del SuperLab Bicocca. Alla presenza di alcuni membri dell’organizzazione, di partecipanti alla Women’s Division e di alcuni rappresentanti del consiglio della comunità ebraica di Milano e il vicepresidente dell’Ucei, il ministro, invitato dallo shaliach del Keren Hayesod Eyal Avneri (a sinistra) e dal presidente in Italia Victor Massiah (a destra), ha dato ai presenti un quadro molto chiaro della difficile situazione che sta affrontando Israele.
Prima di tutto, si è soffermato sul ruolo centrale del Qatar, il grande finanziatore del terrore nel mondo, “un lupo travestito da agnello”. “Mentre l’Iran è concentrato sul versante militare il Qatar lo è su quello economico: finanziano Isis, Hamas, Hezbollah e altre sigle nel mondo, non solo contro Israele. Ma comprano anche l’opinione pubblica: hanno speso negli ultimi vent’anni di dollari nelle università, nei social media – hanno 40.000 persone che lavorano per loro sulle varie piattaforme social -. Ma i governi israeliani e il mondo ebraico hanno fino a oggi ignorato questa sfida, e il 7 ottobre ci ha dimostrato che siamo davanti a una minaccia esistenziale. L’attacco missilistico dell’Iran, che abbiamo sventato, ce lo ha confermato: Israele e il mondo ebraico sono minacciati e dobbiamo essere uniti in questa battaglia”.
Barkat ha sottolineato come, dal ritiro di Israele, nel 2006, a Gaza abbiano usato enormi finanziamenti per costruire le armi i tunnel e organizzare la guerra contro la guerra, nascondendo le infrastrutture nei luoghi civili (scuole, ospedali, moschee, case). “Per questa guerra che stiamo combattendo a Gaza abbiamo due obiettivi: portare a casa gli ostaggi e eliminare Hamas, così come furono eliminati i nazisti alla fine della seconda guerra mondiale. Stiamo quindi cercando a Gaza di distruggere le infrastrutture e purtroppo sono tutti edifici civili, ma non abbiamo scelta. Lo facciamo con la metodologia della decrescita di vittime civili: quando individuiamo un palazzo di Hamas, mettiamo sopra il tetto una bomba, che scoppierà un’ora dopo, in modo di avvisare agli abitanti e consentire loro di scappare”.
Per perseguire questi obiettivi, ha spiegato Barkat, l’esercito è entrato a Rafah, con il consenso di tutto il gabinetto di sicurezza, composto dalle diverse forze politiche, e sostenuto dal 90% della popolazione. “L’impegno dell’esercito è ridurre il più possibile le morti civili, è nel nostro Dna, Ma purtroppo in guerra è inevitabile.  Sul numero delle vittime a Gaza, che è riportato essere più di 34.000, non si considera che almeno la metà sono terroristi. Nelle guerra è sempre stato così:  I morti americani a Pearl Harbour sono stati 2.400, la reazione americana ha causato 3,5 milioni vittime giapponesi. I morti nelle Torri Gemelle furono 2.900, gli iracheni 400.000”.
Per il futuro l’obiettivo è chiaro: “rafforzare l’alleanza per la pace, togliendo fondi e forza al Qatar e allo schieramento terroristico, coinvolgendo maggiormente gli emirati e i sauditi nella nostra alleanza, in modo che influenzino i palestinesi. Gli israeliani meritano dei vicini come sauditi ed Emirati, e i palestinesi meritano di diventare come queste popolazioni: nel momento in cui i palestinesi sceglieranno di abbandonare la guerra per la pace troveranno Israele disponibile a fare la pace con loro, così come abbiamo fatto con gli altri vicini. I palestinesi dovranno cambiare il loro sistema educativo, che incita a uccidere un ebreo dando a chi lo fa 1 milione di dollari, così come hanno fatto di recente gli emirati seguiti dai sauditi tre mesi fa. Hanno scelto la via della pace, e vogliono avvicinarsi al resto del mondo”.
Venendo all’economia, Barkat ha spiegato come il 25% del Pil di Israele viene dalla tecnologia, contro ad esempio il 7 % negli Usa.
«Abbiamo il classico high tech, e siamo molto attivi nelle tecnologie per il mondo della salute e biologia (le health life sciences), e con oltre 160 startup in questo settore, siamo secondi al mondo dopo gli Usa, con un altissimo livello di innovazione – ha spiegato -. Grazie alle tecnologie che abbiamo, sarà l’intelligenza artificiale a cambiare totalmente il mondo medico. Siamo molto forti anche computer science: pensate all’app Waze, che è stata inventata in Israele. Ma ci stiamo anche concentrando nell’Acquatech, con innovazione che utilizza l’acqua marina, e agrotech, con tecnologie per ottimizzare l’agricoltura, così come nello sviluppo di tecnologie nel deserto. Ad oggi esportiamo dall’hi tech per 1,65 miliardi di dollari, e il mio obiettivo è di arrivare a 3 miliardi nei prossimi 15 anni. E parleremo anche con l’Italia per esportare la nostra tecnologia. Israele è resiliente: abbiamo un debito del 65% rispetto al PIL, nonostante la guerra (l’Italia è al 137%, ndr)».
Rispondendo alle domande dei presenti, Barkat ha affrontato diversi temi caldi. Innanzitutto il rapporto con Fatah e Turchia. «Fatah ha ancora l’obiettivo di distruggere Israele: basta ascoltare quello che dicono in arabo (non inglese). Il loro obiettivo è uccidere gli ebrei, non creare uno Stato. Mentre la Turchia comincia ad avere politiche problematiche soprattutto per il commercio, ma Israele troverà un modo per fare a meno di loro».
Barkat ha poi parlato dell’impatto economico della guerra. «Abbiamo centinaia di famiglie che hanno perso i loro amati, 10.000 feriti, oltre a tutti gli sfollati dal sud e dal nord. Il governo si occupa quindi di costruire scuole e infrastrutture per loro, così come di aiutare economicamente chi è stato impattato fortemente dal 7 ottobre. Abbiamo riservisti che per mesi hanno lasciato il lavoro, ma questo non avrà conseguenze perché avremo sicuramente una crescita dopo la guerra». Interessante è anche l’impegno di Israele nel settore della sicurezza, che esporta l’80% di quello che viene prodotto. «E sicuramente questa quota crescerà nel futuro, per l’interesse degli altri Paesi».
Un tema che è più volte emerso dalle domande del pubblico è stata la difficoltà di difendere le istanze di Israele in un momento così difficile e drammatico. «È importante collaborare con le comunità e le organizzazioni nei vari Paesi per fare in modo che lavorino sulla comunicazione, facendo conoscere tutti i fatti che vengono ignorati – ha spiegato Barkat -. Stiamo investendo proprio per sviluppare queste attività, cercando di combattere la propaganda contro di noi, prima di tutto sui social. Un altro fronte sui cui lavorare è fermare gli investimenti del Qatar sui media e nelle università. E poi dobbiamo spiegare meglio quello che succede in guerra quotidianamente, ma non attraverso esponenti militari. In generale si deve fare emergere quello che oggi è Israele: uno Stato resiliente, che fornisce tecnologie utili al mondo e che lotta contro il terrorismo che minaccia tutto l’Occidente».

(Bet Magazine Mosaico, 10 maggio 2024)



Due nomi

Israele e Palestina sono due nomi dietro i quali sono in lotta due campi spirituali: da una parte Dio e  il Suo popolo, dall’altra Satana e le nazioni. I ben intenzionati, gli “amanti della pace” che soffrono per le intolleranze degli “opposti estremismi” vorrebbero risolvere il problema facendo a metà: due zone, due  Stati, due nomi: Israele e Palestina. Come dire: un po’ a Dio e un po’ a Satana. Questi pacifisti che credono di poter essere più buoni di Dio assumendo il ruolo di mediatori tra due gruppi di violenti in lotta, in realtà finiscono sempre per difendere una sola delle due parti: la Palestina. Alla fine costituiranno le truppe di riserva dell’esercito di Satana: dopo i falchi oltranzisti dell’Islam, scenderanno in campo contro Israele le colombe accomodanti delle Nazioni Unite. E tutti e due i gruppi parteciperanno alla comune sconfitta.

    “In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d’Israele, dice Dio, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici [...] Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui. Così mostrerò la mia potenza e mi santificherò; mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 38:18,22-23).

(da “Dio ha scelto Israele”)





La guerra lunga non funziona per Israele

Hamas non ha fretta, crede che i tempi lenti lo rafforzino ed è pronto a prendersi il merito del voto dell’Assemblea generale dell’Onu per rafforzare la missione palestinese

di Micol Flammini

Il gabinetto di guerra israeliano ha votato a favore di ampliare l’operazione a  Rafah in modo limitato. I carri armati di Tsahal hanno diviso in due la città e la parte orientale, quella più vicina al confine israeliano, è stata isolata. E’ da febbraio che Rafah è al centro del dibattito, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato più e più volte di aver dato l’ordine di preparare tutto per un’offensiva contro la città, i quattro battaglioni di Hamas sono vivi e vegeti nelle profondità di Rafah e gli Stati Uniti, da quando si parla della città dove  la popolazione è più che quadruplicata, hanno cercato di trattenere Israele senza troppa convinzione: bloccare adesso la consegna di alcune armi non lascia Tsahal senza mezzi per attaccare Rafah. 
   In Israele c’è un vivo dibattito sui tempi della guerra e in molti si sono dati una risposta: questo conflitto sta durando troppo, l’esercito procede con lentezza, prendendosi giorni  che non ha.  Il giornalista del Times of Israel Lazar Berman ha spiegato che in questa guerra la velocità è fondamentale e invece l’esercito è cambiato in modo radicale rispetto al passato e non è più in grado di sostenere un conflitto rapido. E’ stata la velocità a dargli il vantaggio quando Israele venne attaccato da più lati e da più nemici, ma quando i conflitti contro lo stato ebraico sono cambiati e ha dovuto  affrontare non  più eserciti ma dei gruppi armati, la struttura di Tsahal ha iniziato a smontarsi.   
  Più la guerra si allunga, più Hamas ne avrà dei benefici e l’errore non è soltanto politico ma è anche militare. L’offensiva contro la Striscia di Gaza è iniziata tardi, venti giorni dopo il 7 ottobre, quando ormai la comunità internazionale aveva dimenticato cosa era accaduto durante gli attacchi dei terroristi ai kibbutz, aveva dimenticato i morti, i rapiti, i corpi bruciati. Il sostegno a Israele era svanito e Hamas aveva già capito che con facilità avrebbe potuto portarlo dalla sua parte. Il secondo errore è stato quello di attaccare un settore di Gaza alla volta, di dividere in due la Striscia, di puntare prima su Gaza City, poi su Khan Younis infine su Rafah, consentendo ai terroristi di avere sempre un posto in cui nascondersi e spostarsi. Che Rafah fosse uno degli snodi fondamentali delle operazioni dei terroristi non era un segreto, ma da un lato Tsahal non era addestrato per attaccare tutte le città contemporaneamente e dall’altro doveva fornire alla popolazione civile bloccata nella Striscia  un posto in cui rifugiarsi. E’ trascorso troppo tempo dall’annuncio dell’invasione al momento in cui l’invasione è avvenuta e troppo tempo da quando Israele ha iniziato a parlare della necessità di andare a Rafah a quando ha effettuato  le manovre per procedere. Dopo i primi quattro mesi di guerra, Israele ha dovuto congedare parte dei riservisti perché l’economia del paese ne aveva bisogno e con meno uomini le operazioni nella Striscia sono cambiate. Il tempo ha rafforzato Hamas sul tavolo dei negoziati, l’ha convinto che quanto più Israele fosse stato costretto a una guerra lunga, tanto maggiore sarebbe stata la capacità dei terroristi di sopravvivere. Il calcolo non è stato sbagliato dal punto di vista del sostegno internazionale: oggi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione per  rafforzare la posizione della missione palestinese e Hamas è pronto a prendersi i meriti. 
  Agli attacchi di Tsahal, finora i terroristi hanno risposto disperdendo i battaglioni, e raggruppandosi una volta che i soldati israeliani si erano ritirati. Hamas è militarmente indebolito, ma lancia segnali di non esserlo mentalmente. Un esempio lo ha dato domenica scorsa: mentre i negoziati al Cairo, secondo i mediatori, procedevano in modo positivo, i terroristi hanno ripreso a lanciare razzi, colpendo anche il valico di Kerem Shalom e uccidendo quattro soldati israeliani. I razzi erano stati lanciati proprio dall’area di Rafah ed era normale che da quel momento i negoziati cambiassero e gli israeliani si facessero più aggressivi nel tentativo di cercare di costringere Hamas a un accordo. I terroristi però  sembrano fiduciosi nel fatto che potranno riorganizzarsi, ricostituire le loro formazioni militari e riprendere il potere dentro alla Striscia di Gaza. Perdere altro tempo allontanerebbe ancora di più Israele dall’obiettivo di eliminare la struttura militare di Hamas e uno degli errori che Berman evidenzia nel suo pezzo sta nel fatto che non c’è un piano per sostituire i terroristi. Il vuoto di potere fa sì che Hamas torni, più tempo passa tra un’offensiva e l’altra, più i terroristi riescono a ristabilire la catena di comando. 
  Il dibattito sul ritmo della guerra è intenso in Israele, finora le colpe si sono concentrate sulla parte politica, sulla mancanza di pianificazione da parte del governo, ma presto arriverà il momento in cui si indagherà sulle scelte dell’esercito. Hamas è convinto di avere il tempo dalla sua parte. Il tempo che serve a stancare Tsahal. Il tempo che serve a far crescere la pressione internazionale. Il tempo che serve a far dimenticare cosa è accaduto il 7 ottobre. 

Il Foglio, 10 maggio 2024)

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A pagare le rivolte nelle università sono gruppi con legami nell’eversione

Tra i finanziatori, organizzazioni legate all’islamismo radicale. Critiche da Israele anche al Qatar che dà fondi agli atenei americani ma in cambio chiede riconoscimento per la sua agenda politica.

di Mauro Zanon

Nelle ultime settimane, in decine di università americane, gruppi di studenti, docenti e agitatori di professione hanno occupato aule e interrotto l’attività accademica per esprimere il loro sostegno all’organizzazione terroristica Hamas e intimidire gli studenti ebrei e filo-israeliani. Le proteste hanno spesso assunto la forma di accampamenti in luoghi centrali delle università, che hanno impedito agli studenti di confessione ebraica di accedere alle lezioni e ad altre strutture.
  «Quello a cui stiamo assistendo non è una risposta emotiva casuale, ma il frutto di vent’anni di lavoro e preparazione da parte di diversi gruppi anti-israeliani e pro-terrorismo», ha dichiarato a Jewish News Syndicate Gerald Steinberg, responsabile dell’Ong Ngo Monitor, con sede a Gerusalemme.

• INDEPENDENCE DAY 
  Uno sguardo più attento alla struttura organizzativa di queste azioni di protesta rivela una complessa rete di gruppi studenteschi, Ong e governi stranieri. Tra i principali gruppi studenteschi alle origini delle proteste pro-palestinesi, con derive antisemite, c’è Students for Justice in Palestine (Sjp): «Sjp non ha un Irs (non ha l’obbligo di dichiarare le sue entrate all’Internal Revenue Service degli Stati Uniti, ndr) e la maggior parte delle fonti di finanziamento sono ignote, il che solleva grandi preoccupazioni», ha sottolineato Steinberg, prima di aggiungere: «Semplicemente non c’è trasparenza su chi li finanzia».
  Hatem Bazian, professore del dipartimento di Medio Oriente dell’Università di Berkeley e fondatore di Sjp, è la figura centrale di questo sistema opaco di finanziamenti, il ponte con le organizzazioni islamiste estremiste.
  Bazian, che lo scorso 8 ottobre, ossia il giorno dopo il massacro di Hamas in Israele, ha organizzato a San Francisco una manifestazione per celebrare l’attacco descrivendolo come il “Giorno dell’Indipendenza Palestinese”, è stato in precedenza uno dei principali raccoglitori di fondi per conto dell’Ong Kindhearts.
  Con sede in Ohio, Kindhearts, nel 2006, è stata chiusa dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti per aver finanziato illegalmente Hamas. Bazian è stato anche un importante sostenitore e oratore dell’Associazione islamica per la Palestina (Iap), che ha chiuso i battenti dopo essere stata ritenuta colpevole in tribunale nel 2004 di aver sostenuto Hamas. «Hatem Bazian, il capo dell’Sjp, ha chiari legami con varie organizzazioni terroristiche», ha dichiarato Steinberg al Jns. A confermarlo è un rapporto di 73 pagine dell’Istituto per lo Studio dell’Antisemitismo Globale (Isgap): National Students for Justice in Palestine e Students for Justice in Palestine, che dipende dalla prima, sono sigle dei Fratelli Musulmani, finanziate e assistite dal Qatar attraverso American Muslims for Palestine (Amp). Bazian è anche cofondatore di Amp, attualmente sotto inchiesta da parte del Procuratore generale della Virginia, dopo essere stata accusata di essere una reincarnazione dell’Iap.
  Il suo ex direttore esecutivo, Abdelbaset Hamayel, e il suo attuale direttore, Osama Abuirshaid, erano rispettivamente membri del cda e direttori dello Iap. L’Amp nega qualsiasi legame con Hamas, ma conferma le sovvenzioni tra i 500 e i 2.000 dollari a gruppi studenteschi filo-palestinesi.
  Salah Sarsour, membro del consiglio nazionale dell’Amp, è stato anche fra i principali raccoglitori di fondi per la Holy Land Foundation, che nel 2001 è stata riconosciuta come gruppo terroristico per aver versato più di 12 milioni di dollari a Hamas. Nel complesso, l’Isgap ha tracciato «oltre 3 milioni di dollari all’anno destinati a vari gruppi studenteschi pro-palestinesi» da «una costellazione di organizzazioni affiliate al terrorismo» alla Columbia University.

• LA GALASSIA 
  Nel 2020, l’autore e traduttore americano Raymond Ibrahim ha pubblicato un rapporto che mostrava come il Qatar avesse investito 5,6 miliardi di dollari in 81 università americane dal 2007, tra cui Harvard, Yale, Cornell e Stanford. Ibrahim ha inoltre rivelato che il Qatar ha usato la sua influenza nelle scuole per promuovere gli studi islamici e per cancellare specificamente lo studio di altre minoranze mediorientali, tra cui cristiani, ebrei, curdi e yazidi. Il governo del Qatar ha negato qualsiasi legame con le proteste studentesche pro-palestinesi nei campus americani. Il suo ambasciatore negli States ha recentemente scritto su X che «il Qatar non influenza queste università e non abbiamo nulla a che fare con tutto ciò che accade nei loro campus negli Stati Uniti».

Libero, 10 maggio 2024)

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Eurovision: Israele vola in finale, l’Italia sceglie Eden Golan

di Luca Spizzichino

FOTO
Eden Golan
La rappresentante israeliana all’Eurovision, Eden Golan, parteciperà alla finale di sabato, dove sarà la sesta a cantare. L’artista si è esibita con la canzone “Hurricane”, scritta da Avi Ohayon, Keren Peles e Stav Beger, nella seconda semifinale.
  Una prestazione impeccabile quella di Eden Golan che si è esibita con una ballad potente e dall’alto tasso emotivo, che è stata premiata dal televoto, in particolare dall’Italia, dove ha ricevuto il 39,31%, ossia la stragrande maggioranza dei voti. La percentuale è stata rivelata accidentalmente dall’emittente italiana subito dopo i risultati.
  Durante l’esibizione si sono udite manifestazioni di dissenso da parte di una piccola parte del pubblico, nonostante ciò la cantante israeliana non si è lasciata turbare, ma anzi ha convinto il resto della Malmö Arena, che ha voluto premiare Eden Golan e la sua canzone con applausi scroscianti durante tutta la performance. Durante la semifinale, uno dei partecipanti al pubblico ha sventolato una bandiera dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Le guardie di sicurezza lo hanno immediatamente allontanato dalla sala.

(Shalom, 10 maggio 2024)

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Un libro scritto troppo tardi

Troppo tardi. Troppo tardi Israele, e con lui buona parte del mondo ebraico italiano, si è accorto di un suo punto di vitale interesse, che invece i suoi nemici molto presto hanno scorto e su cui hanno continuato per anni a battere con insistenza fino a vederne oggi un risultato indubbiamente radioso per loro. Il punto debole ha un nome che ha valore legale: “occupazione”. Quali che fossero i vari motivi di contrasto tra le parti, contro Israele è stata ripetuta all’infinito una sentenza di condanna irrevocabile: Israele occupa illegalmente territori non suoi.

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David Elber, Il diritto di sovranità in terra di Israele, Salomone Belforte & C., marzo 2024

L’autore di questo sintetico e ben documentato libro conclude con queste parole:

    Come risulta chiaro da quanto esposto, un termine legale (occupazione) è stato deformato per diventare strumento politico e morale per accusare Israele di agire in modo abietto, cioè di occupare illegalmente un territorio che non gli appartiene.
    Questa convinzione generale ha avuto la propria origine in seno allo Stato ebraico; non gli è stata applicata da nemici esterni. Costoro hanno soltanto trovato pronto su un vassoio d' argento il corpo contundente che non hanno mai smesso di utilizzare per criminalizzare Israele.

Un’ammissione tremenda, ma fatta troppo in ritardo. Quello che forse avrebbe potuto essere ottenuto in tempi in cui una rigorosa analisi giuridica messa a sostegno di corrispondenti azioni politiche avrebbe forse potuto contrastare l’azione dei nemici di Israele, oggi non verrebbe neppure presa in considerazione da chi ormai crede di avere tutte le ragioni politiche e morali di veder sparire Israele da quella terra che considerano rubata ad altri.
Adesso, dopo che il diffuso antisemitismo quiescente ha trovato modo di uscire allo scoperto, piovono da tutte le parti ricostruzioni di quello che sarebbe stato il processo di ricostruzione dello Stato d’Israele. Ricostruzioni false e tendenziose, senza riferimenti puntuali a documenti esistenti, appoggiate spesso da video accattivanti che dovrebbero confermare indiscutibilmente la tesi voluta: Israele occupa illegalmente quella terra, opprimendo gli abitanti originali. E questo spiegherebbe tutto. Di ricostruzioni rigorose e documentate come quelle qui commentate non c’è più bisogno.
Riportiamo allora quello che si trova scritto su questo sito da più di dieci anni:

    Aver consentito al mondo di chiamare "territori occupati" quelle parti della terra di Israele che sono state liberate dall’illegale occupazione che ne avevano fatta Egitto e Giordania è uno dei più gravi cedimenti della politica israeliana degli ultimi venti anni. Israele ha ceduto diritti sperando di averne in cambio pace, e come risultato ha ottenuto che i diritti consegnati come “prova di buona volontà” in vista della pace sono stati afferrati dai nemici e usati come micidiali armi di guerra. E' significativa l'insistenza con cui tutti, anche coloro che sembrano voler prendere le parti di Israele, fanno uso ripetuto di espressioni come “territori occupati”, “forze di occupazione”, “insediamenti illegali”. Qualunque sia la frase benevola verso Israele che in seguito venga usata, rimane, indelebile, il marchio infamante dell’illegittima occupazione. Questo naturalmente turba gli animi più sensibili: “Difendiamo Israele, però... l’immorale occupazione deve finire”. Se si ha la pazienza e l’onestà intellettuale di seguire le argomentazioni di Howard Grief, di leggere i suoi articoli e, preferibilmente, il suo documentatissimo libro, certi malposti “scrupoli morali” possono essere lasciati cadere. Immorale è quell’insieme di compromessi, menzogne, penombre e oscurità che ha portato alla mistificante creazione del concetto di "stato palestinese". (NsI)

Il 25 aprile 2010 si tenne a Sanremo una cerimonia per ricordare e celebrare la Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920, che si può considerare come il momento in cui fu concepito quello stato per gli ebrei che il 14 maggio 1948 si costituirà col nome di Stato d’Israele. La notizia di quella cerimonia fu diffusa anche in campo evangelico e ad essa fu presente e collaborò l’associazione EDIPI (Evangelici d’Italia per Israele). Non parteciparono invece membri ufficiali del mondo ebraico italiano. Dalla relazione presentata in quell’occasione dal delegato israeliano, ricavai l’impressione che l’argomento era poco noto, o comunque poco sottolineato, anche in Israele. Il libro di Elber ne è adesso una conferma.
Si può aggiungere un’osservazione che può servire a spiegare come mai questo argomento ha trovato l’interesse di una parte dell’ambiente evangelico italiano. Dipende dalla Bibbia. E’ la miracolosa coincidenza giuridica tra diritto biblico e diritto internazionale, come avvenne nel caso dell’editto di Ciro, che fu voluto da Dio, ma operò fra gli uomini come volontà del re di Persia. Il diritto biblico di Israele alla sua terra è stato confermato anche dal diritto internazionale. Se questa formulazione del diritto internazionale è espressione di un diritto biblico su Israele voluto da Dio, è chiaro che il tentativo di annullare questo diritto è un’azione dell’Avversario di Dio, cioè Satana. E oggi l’aspetto satanico che ha assunto questo tentativo di annullamento dello Stato d'Israele è sempre più visibile. A chi ha occhi per vedere. M.C.

(Notizie su Israele, 10 maggio 2024)

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Parashat Kedoshim. L’etica dell’ebraismo considera le complessità della morale

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Il diciannovesimo capitolo di Vaykrà, con cui inizia la nostra parashà, è una delle dichiarazioni supreme dell’etica della Torà. Parla del giusto, del bene e del santo e contiene alcuni dei più grandi comandi morali dell’ebraismo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” e “Il forestiero che vive in mezzo a te sia come il tuo nativo. Amalo come te stesso, perché tu eri straniero in Egitto”.
Ma il capitolo è anche straordinariamente strano. Contiene quella che sembra un miscuglio casuale di precetti, molti dei quali non hanno nulla a che fare con l’etica e hanno solo una tenue connessione con la santità: Non accoppiare diversi tipi di animali.
Non piantare il tuo campo con due tipi di semi.
Non indossare abiti tessuti con due tipi di materiale. (Vaykra 19:19) Non mangiare carne con il sangue ancora dentro. Non praticare la divinazione o la stregoneria. Non tagliare i capelli ai lati della testa e non tagliare i bordi della barba. (Vaykra 19:26-28)
E così l’elenco continua. Che cosa hanno a che fare con il giusto, il buono e il santo?
Per capire questo dobbiamo fare un enorme salto di qualità nella visione morale/sociale/spirituale unica della Torà, così diversa da quella che troviamo altrove.
L’Occidente ha avuto molti tentativi di definire un sistema morale. Alcuni si sono concentrati sulla razionalità, altri sulle emozioni come la simpatia e l’empatia. Per alcuni il principio centrale era il servizio allo Stato, per altri il dovere morale, per altri ancora la massima felicità del maggior numero. Queste sono tutte forme di semplicità morale.
L’ebraismo insiste sull’opposto: la complessità morale. La vita morale non è facile. A volte i doveri o le lealtà si scontrano. A volte la ragione dice una cosa, l’emozione un’altra. Più fondamentalmente, l’ebraismo ha identificato tre distinte sensibilità morali, ognuna delle quali ha la sua voce e il suo vocabolario. Esse sono [1] l’etica del re, [2] l’etica del sacerdote e, fondamentalmente, [3] l’etica del profeta.
Geremia ed Ezechiele parlano delle loro sensibilità distintive: Perché l’insegnamento della legge [Torà] da parte del sacerdote non cesserà, né il consiglio [etzah] del saggio [chacham], né la parola [davar] dei profeti. (Geremia 18:18)
Andranno alla ricerca di una visione [chazon] del profeta, l’insegnamento sacerdotale della legge [Torà] cesserà, il consiglio [etzah] degli anziani avrà fine. (Ezechiele 7:26)
I sacerdoti pensano in termini di Torà. I profeti hanno “la Parola” o “una visione”. Gli anziani e i saggi hanno “etzah”. Che cosa significa?
I re e le loro corti sono associati nel giudaismo alla saggezza – chochmah, etzah e i loro sinonimi. Diversi libri del Tanach, tra cui spiccano i Proverbi e l’Ecclesiaste (Mishlei e Kohelet), sono libri di “saggezza”, il cui esemplare supremo è il re Salomone. La sapienza nell’ebraismo è la forma più universale di conoscenza e la letteratura sapienziale è quella che più si avvicina alla Bibbia ebraica e alle altre letterature del vicini oriente antico e dei saggi ellenistici. È pratica, pragmatica, basata sull’esperienza e sull’osservazione; è giudiziosa, prudente. È una ricetta per una vita sicura e sana, senza eccessi o estremi, ma difficilmente drammatica o trasformativa. Questa è la voce della saggezza, la virtù dei re.
La voce profetica è molto diversa, appassionata, vivida, radicale nella sua critica all’abuso di potere e allo sfruttamento della ricchezza. Il profeta parla a nome del popolo, dei poveri, degli oppressi, degli abusati. Pensa alla vita morale in termini di relazioni: tra Dio e l’umanità e tra gli stessi esseri umani. I termini chiave per il profeta sono tzedek (giustizia distributiva), mishpat (giustizia retributiva), chessed (amorevolezza) e rachamim (misericordia, compassione). Il profeta ha intelligenza emotiva, simpatia ed empatia, e sente la condizione di chi è solo e oppresso. La profezia non è mai astratta. Non pensa in termini universali. Risponde al qui e ora del tempo e del luogo. Il sacerdote ascolta la parola di Dio per tutti i tempi. Il profeta ascolta la parola di Dio per questo tempo.
L’etica del sacerdote, e della santità in generale, è di nuovo diversa. Le attività chiave del sacerdote sono lehavdil – discriminare, distinguere e dividere – e lehorot – istruire le persone sulla legge, sia in generale come insegnanti che in casi specifici come giudici. Le parole chiave del sacerdote sono kodesh e chol (santo e profano), tame e tahor (impuro e puro).
Il passo più importante della Torà che parla con voce sacerdotale è il capitolo 1 di Bereshit, il racconto della creazione. Anche qui un verbo chiave è lehavdil, dividere, che compare cinque volte. Dio divide tra luce e buio, acque superiori e inferiori, giorno e notte. Altre parole chiave sono “benedire” – Dio benedice gli animali, l’umanità e il settimo giorno; e “santificare” (kadesh) – alla fine della creazione Dio santifica lo Shabbat. In altre parti della Torà il verbo lehavdil e la radice kadosh ricorrono in un contesto sacerdotale; sono i sacerdoti a benedire il popolo.
Il compito del sacerdote, come quello di Dio alla creazione, è quello di portare ordine dal caos. Il sacerdote stabilisce dei confini sia nel tempo che nello spazio. Ci sono tempi e luoghi sacri, e ogni tempo e luogo ha una sua integrità, una sua collocazione nello schema totale delle cose. La protesta del kohen è contro l’offuscamento dei confini così comune nelle religioni pagane – tra gli dei e gli uomini, tra la vita e la morte, tra i sessi e così via. Il peccato, per il kohen, è un atto compiuto nel posto sbagliato e la sua punizione è l’esilio, l’essere scacciati dal posto che spetta loro. Una buona società, per il kohen, è quella in cui ogni cosa è al suo posto, e il kohen ha una sensibilità speciale verso l’estraneo, la persona che non ha un proprio posto.
La strana raccolta di mitzvot in Kedoshim si rivela quindi non essere affatto incomprensibile. Il codice di santità vede l’amore e la giustizia come parte di una visione totale di un universo ordinato in cui ogni cosa, persona e atto hanno il loro giusto posto, ed è questo ordine che viene minacciato quando il confine tra diversi tipi di animali, cereali, tessuti viene violato; quando il corpo umano viene lacerato; o quando le persone mangiano il sangue, segno di morte, per alimentare la vita.
Nell’Occidente secolare conosciamo bene la voce della saggezza. È un terreno comune tra i libri dei Proverbi e dell’Ecclesiaste e i grandi saggi, da Aristotele a Marco Aurelio a Montaigne. Conosciamo anche la voce profetica e quello che Einstein ha definito il suo “amore quasi fanatico per la giustizia”. Conosciamo molto meno l’idea sacerdotale secondo cui, come esiste un ordine scientifico nella natura, esiste anche un ordine morale, che consiste nel tenere separate le cose che sono separate e nel mantenere i confini che rispettano l’integrità del mondo che Dio ha creato e che sette volte ha dichiarato buono.
La voce sacerdotale non è marginale nel giudaismo. È centrale, essenziale. È la voce del primo capitolo della Torà. È la voce che ha definito la vocazione ebraica come “regno di sacerdoti e nazione santa”. Domina Vaykra, il libro centrale della Torà. E mentre lo spirito profetico vive nell’ haggadah, la voce sacerdotale prevale nella halachah. E lo stesso nome Torà – dal verbo lehorot – è una parola sacerdotale.
Forse l’idea dell’ecologia, una delle scoperte chiave dei tempi moderni, ci permetterà di comprendere meglio la visione sacerdotale e il suo codice di santità, che vedono l’etica non solo come saggezza pratica o giustizia profetica, ma anche come onore alla struttura profonda – l’ontologia sacra – dell’essere. Un universo ordinato è un universo morale, un mondo in pace con il suo Creatore e con se stesso.

(Bet Magazine Mosaico, 10 maggio 2024)

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L’antisionismo è una forma di discriminazione antisemita, e importa poco che ci sia chi si presenta come “ebreo antisionista”

Discriminare significa trattare un gruppo di persone in modo diverso e peggiore degli altri. L'identità della persona che compie la discriminazione è del tutto irrilevante.

di Ayalon Eliach

Nel suo recente pezzo sulle proteste anti-israeliane, il rapper Macklemore dice: “Vediamo le loro menzogne, sostengono che essere antisionista è antisemita. Ho visto fratelli e sorelle ebrei là fuori manifestare e urlare Palestina libera”.
È un luogo comune che viene ripetuto infinite volte: l’antisionismo, cioè negare il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico (anziché criticare specifiche politiche israeliane) non può essere antisemita perché ci sono persone che lo fanno e si identificano come ebrei.
Ecco il punto. In realtà, nel corso della storia non sono quasi mai mancati degli ebrei che si mostravano orgogliosamente solidali con oppressori e persecutori antisemiti.
Diamo un’occhiata a un paio di esempi lampanti. All’inizio dell’era volgare, la più grande popolazione ebraica del mondo viveva nella sua patria ancestrale, la Giudea (nell’attuale Israele e Cisgiordania), il paese da cui deriva la parola “giudeo”. Godevano di una forma di semi-autonomia finché i Romani al potere iniziarono a negare le loro libertà. Nel 66 e.v. gli ebrei si ribellarono, ma “un gruppo di ebrei… sostenne il dominio Romano nonostante i numerosi conflitti e tensioni tra la popolazione ebraica e i funzionari Romani”. I Romani repressero nel sangue la rivolta, distrussero il Tempio ebraico di Gerusalemme, massacrarono e ridussero in schiavitù centinaia di migliaia di ebrei ed esiliarono la maggior parte dei sopravvissuti dalla loro patria dando luogo a un esilio spesso cruento, che durò per i successivi duemila anni.
Rapido salto in avanti fino alla Germania dei primi anni ’30. Hitler salì al potere su una piattaforma che sosteneva che gli ebrei fossero responsabili di tutti i mali della Germania. La maggior parte degli ebrei era terrorizzata. Molti tentarono di fuggire. Ma alcuni credevano che questi timori fossero esagerati, che Hitler stesse solo simulando e che ciò di cui la Germania aveva bisogno fosse proprio l’iniziazione di autostima nazionale offerta dai nazisti. Così nel 1934, la Lega Nazionale degli ebrei tedeschi (Verband nationaldeutscher Juden), che contava migliaia di persone, esortò “tutti gli ebrei tedeschi a votare per il cancelliere Hitler”. Nel giro di pochi anni furono quasi tutti uccisi dalla Gestapo.
Lo stesso vale, purtroppo, per altri gruppi e forme di discriminazione. Nei primi secoli delle colonie americane e degli Stati Uniti, milioni di afroamericani furono brutalizzati, torturati e uccisi dalla schiavitù. Ma ci furono anche alcuni afroamericani liberati che possedevano a loro volta degli schiavi.
Non conosceremo mai la psicologia interiore o le recondite intenzioni di queste persone. Ma ciò che è chiarissimo è che, nei fatti, erano schierate dalla parte dell’oppressione. Sarebbe assurdo sostenere che Hitler non fosse antisemita perché aveva alcuni sostenitori ebrei, o che la schiavitù non fosse razzista perché c’erano alcuni schiavisti neri.
Se gli antisionisti, compresi quelli che si identificano come ebrei, vogliono affermare che le loro posizioni non sono antisemite, che portino degli argomenti nel merito senza aggrapparsi al fatto di essere ebrei o che vi sono degli ebrei d’accordo con loro.
La discriminazione in generale, e l’antisemitismo in particolare, significa trattare un gruppo di persone, in questo caso gli ebrei, in modo diverso e peggiore degli altri. L’identità della persona che compie la discriminazione è del tutto irrilevante.
Se vogliono sostenere che Israele non dovrebbe garantire uno spazio speciale all’ebraismo come fede e tradizione religiosa (pur nel rispetto dei diritti dei non ebrei), allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per più di 80 paesi (il 40% del mondo) tra i quali Inghilterra, Spagna, Italia e, sì, anche i Territori dell’Autorità Palestinese, che favoriscono una specifica religione nonostante abbiano al loro interno minoranze religiose e laiche.
Se vogliono sostenere che Israele non dovrebbe dare automaticamente cittadinanza agli immigrati ebrei (pur accettando anche immigrati non ebrei secondo normali procedure di naturalizzazione), allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per i paesi che danno automaticamente la cittadinanza a certi gruppi etnici, ma non ad altri. Per citare solo alcuni esempi: l’Irlanda a stranieri che hanno nonni irlandesi, l’Italia a stranieri che hanno antenati italiani risalenti fino a 150 anni fa, la Lituania a immigrati che discendono da persone che vivevano in Lituania prima del 1940.
Se vogliono sostenere che la maggioranza ebraica in Israele dovrebbe essere costretta a lasciare le proprie case e andarsene perché una parte significativa di quella maggioranza discende da immigrati anziché da persone nate nel paese, allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per altri paesi la cui popolazione discende in grande maggioranza da immigrati, come gli Stati Uniti d’America, l’Australia e il Canada.
Vale la pena ripeterlo ancora una volta: la discriminazione in generale, e l’antisemitismo in particolare, significa trattare un gruppo di persone, in questo caso gli ebrei, in modo diverso e peggiore degli altri (riconoscendo loro meno diritti degli altri). Per le ragioni di cui sopra, l’antisionismo sembra proprio questo: una forma di discriminazione a danno degli ebrei, dunque antisemita.
Esorto gli antisionisti a spiegare perché pensano che Israele sia sostanzialmente diverso da tutti i paesi sopra menzionati, e potremo discuterne nel merito. Ma dire che l’antisionismo non è antisemita solo perché si proclamano antisionisti alcuni che si identificano come ebrei non ha senso: per dirla con Macklemore, è una menzogna.
(Da: Times of Israel, 9.5.24)

(Israele.net, 9 maggio 2024)

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A Rafah casa per casa fino alla fine di Hamas. No allo Stato palestinese

Intervista a Nir Barkat

di Andrea Nicastro

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Nir Barkat

Benjamin Netanyahu non è solo. Chi pensa che il premier israeliano sia l’unico a non voler ascoltare i consigli di moderazione di Joe Biden, cambi idea. Nir Barkat, suo ministro dell’Economia, è almeno altrettanto duro. «I morti americani a Pearl Harbour sono stati 2.400, la reazione americana ha causato 3,5 milioni vittime giapponesi. I morti nelle Torri Gemelle 2.900, gli iracheni uccisi della reazione americana 400 mila. Le guerre si combattono così. Il 7 ottobre Hamas ci ha attaccato, ha ucciso 1.200 israeliani e noi non ci fermeremo sino a che non avremo smantellato le loro strutture, annientato la loro capacità di farci del male. Dobbiamo farlo, è in gioco la nostra vita».
  Sindaco di Gerusalemme per 10 anni, imprenditore di successo ed ex comandante di compagnia dei parà, Barakat è venuto in Italia per incontri politici e d’affari. Ha parlato con il Corriere a Milano.

- Ministro, il livello di violenza che Israele impiega contro un’organizzazione terroristica è per molti, Usa e Onu inclusi, assolutamente sproporzionato.
  «Totale non senso. E spiego perché. Primo, le guerre servono a sconfiggere il nemico. Gli esempi storici lo dimostrano. Secondo, non credo alle 35 mila vittime che proclama Hamas. Noi calcoliamo di aver eliminato 12 mila terroristi e crediamo siano la metà delle vittime. Un rapporto tra obiettivi e danni collaterali eccezionale. Terzo, parlare di genocidio è assurdo. In questi anni i palestinesi sono sempre aumentati di numero e a noi sta bene. Sono loro che vogliono eliminarci “dal fiume al mare”».

- I palestinesi chiedono un loro Stato. Non lo accetta?
  «Non è mai esistito uno Stato palestinese negli ultimi tremila anni. Basta leggere la Bibbia: ebrei citati dappertutto, palestinesi mai».

- Quindi rinnega la firma sugli accordi di Oslo? La soluzione dei «due popoli, due Stati» è carta straccia?
  «Con tutto il rispetto, Hamas non è interessato ai due Stati. Vuole tutto».

- L’altro partito palestinese, Fatah, però ha riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele.
  «Fatah ha lo stesso obiettivo di Hamas. Non vuole la pace, vuole uno Stato è vero, ma solo per poi prendersi anche il nostro. La loro intenzione è uccidere gli ebrei proprio come Hamas. Lo insegnano ai bambini nelle scuole».

- Le manca ogni fiducia nella controparte. Come ad Hamas.
  «Si può andare indietro per anni ed esaminare chi ha ostacolato la pace, discutere per ore, ma dovete capire che questa non è una disputa territoriale, è una guerra di religione. Quando aprirete gli occhi sarà chiaro anche a voi. Noi entreremo a Rafah casa per casa e sradicheremo Hamas. È l’unico modo per salvarci».

- Avete un piano per il dopo?
  «Non possiamo contare su una democrazia palestinese. Con gli arabi questo sistema non funziona. C’è democrazia a Dubai o in Arabia? Da loro funzionano le tribù. Quindi perché non pensare a un futuro di comunità palestinesi autonome che convivono in parallelo con Israele? Strade, economia, amministrazioni parallele. Si può fare».

- Polizia ed esercito solo a Israele?
  «Inevitabile».

- Un ragazzino che oggi bombardate a Gaza, secondo lei sarà un adulto ben disposto verso Israele?
  «Non stiamo parlando di occidentali, ma di jihadisti che preferiscono far morire i loro figli o uccidersi per la causa. Il 70% dei palestinesi ha festeggiato l’eccidio del 7 ottobre. Hamas ha detto che vorrebbe farlo di nuovo. E non è solo».

- Chi altri?
  «L’alleanza del male: Iran, Houthi, Hezbollah, Hamas, Fratelli Musulmani e il più pericoloso di tutti: il Qatar, un lupo travestito da agnello. Il Qatar finanzia ovunque la Guerra Santa. È colpa del Qatar se gli studenti americani contestano Israele mostrando un’ignoranza sorprendente. Il Qatar è il maggior finanziatore di quegli atenei, ha pagato i cattivi maestri che condizionano gli studenti e ora se ne vedono i risultati».

(Corriere della Sera, 9 maggio 2024)

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Rafforzare Hamas alle spese di Israele

di Niram Ferretti

Con la decisione di trattenere una fornitura d’armi a Israele in una congiuntura critica, gli Stati Uniti confermano, se ce ne fosse bisogno, che non vogliono la vittoria di Israele su Hamas. Non solo, si tratta, oggettivamente, di un assist lanciato all’asse islamico iraniano di cui Hamas, insieme a Hezbollah è uno dei delegati.
È il proseguimento della disastrosa politica mediorientale di Barack Obama, incardinata su due perni, il rafforzamento della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è membro, e quello di Teheran, e il distanziamento da Israele.
Le armi in questione, per il momento sospese sono 1.800 bombe da 2.000 libbre e 1.700 bombe da 500 libbre. Il motivo addotto è che la Casa Bianca teme che Israele voglia usare le bombe da 2.000 libbre in zone densamente popolate della Striscia, malgrado non ci sia alcuna evidenza che ciò sia già accaduto. Interrogato ieri durante una intervista alla CNN se Israele avesse usato bombe da 2.000 libbre su aree densamente abitate, Joe Biden ha risposto affermativamente senza, tuttavia, fornire alcun dato specifico.
La realtà ha la forma dell’interesse americano a che la guerra si concluda in fretta con un accordo con Hamas che Israele dovrebbe accettare obtorto collo.
Ieri, il capo della Cia, William Burns ha detto a Netanyahu che dovrebbe considerare la fine della guerra come “una virgola” che prelude al punto di un accordo con l’Arabia Saudita. Non si vede poi che interesse avrebbero i sauditi ad accordarsi con Israele in funzione di deterrenza anti iraniana lasciando permanere a Gaza, Hamas che l’Iran finanzia copiosamente.
Sempre ieri, in una audizione presso il Senato, il senatore repubblicano Lindsey Graham ha detto al Segretario della Difesa, Austin che trattenere le armi che servono a Israele mentre combatte chi vuole la fine dello Stato ebraico, non solo è assurdo ma è osceno.
Sì, è osceno, ma i fatti sono questi. Intanto il Dipartimento di Stato sta per licenziare un rapporto sulle presunte violazioni israeliane a Gaza.
La frustrazione, a Gerusalemme, è grande, ma è altrettanto grande la debolezza di un governo e di un gabinetto di guerra che non sono in grado di opporsi veramente a quello che l’Amministrazione Biden vuole.
L’operazione su vasta scala a Rafah, tanto strombazzata da Netanyahu assomiglia sempre più a una chimera, mentre, nel contempo Hamas osserva compiaciuto come la macchina da guerra israeliana sia stata inceppata dagli Stati Uniti, l’alleato principale, da cui Israele non riesce in alcun modo a emanciparsi.
Ci troviamo in una fase critica la quale presenta incognite ad alto rischio. Qui su l’Informale, a partire dalla fine di ottobre abbiamo documentato passo dopo passo il modo in cui gli Stati Uniti hanno progressivamente preso le distanze da Israele nonostante la retorica vuota e magniloquente delle dichiarazioni ufficiali. Adesso si è giunti a una sorta di redde rationem.
Israele deve decidere, pagando un prezzo salato, se smarcarsi da questa amministrazione che sta danneggiando in modo palese i suoi obiettivi militari e politici, e quindi trovarsi di fatto isolato all’interno della comunità internazionale, pur godendo negli Stati Uniti di un forte appoggio politico da parte repubblicana, oppure se chinare la testa, subire il ricatto americano e il programma Obama-Biden, poiché solo gli sprovveduti possono pensare che la linea di azione punitiva nei confronti di Israele sia solo farina del sacco di Biden, a capo di una amministrazione dove agiscono e lo consigliano uomini fortemente legati all’ex presidente americano, il più apertamente ostile allo Stato ebraico insieme a Jimmy Carter.
Saranno i prossimi eventi a mostrarci la direzione che Israele prenderà.

(L'informale, 9 maggio 2024)

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«I miei compagni della facoltà di Medicina  negano il dolore ebraico e israeliano. Impedirei loro di curare i miei parenti»

Qualcuno piange in silenzio, qualcuno si ribella, qualcuno urla il suo dolore muto che si perde nel vuoto. Un dolore che non viene visto, capito da gran parte degli studenti negli atenei americani e che adesso si sta sempre di più diffondendo anche in Europa e in Italia. Un atteggiamento di chi nega, non ammette e strumentalizza il dolore ebraico e israeliano dopo il 7 ottobre. È quanto scrive uno studente di Medicina americano (che qui chiameremo X), che ha richiesto l’anonimato in un articolo pubblicato dal Times of Israel. Di seguito le sue parole. Parole che risuonano come un pugno nello stomaco richiamando all’attenzione un tema dolorosamente attuale e urgente.
  «Dieci giorni dopo il massacro del 7 ottobre, numerose organizzazioni studentesche all’interno della mia università di Medicina hanno collaborato e diffuso un messaggio in risposta alla guerra tra Israele e Hamas. In modo inquietante, la loro interminabile diatriba contro Israele non ha fatto menzione di Hamas, degli ostaggi o del 7 ottobre. Come studenti ebrei, le nostre ferite erano ancora fresche. Gli squali sapevano che c’era sangue nell’acqua e che era il momento opportuno per attaccare. Era chiaro che l’obiettivo di questi futuri medici era negare il dolore ebraico e israeliano. Umanizzare gli ebrei è servito solo come distrazione. Dopotutto, 2 milioni di palestinesi stavano per essere “sterminati”, come ha sostenuto deciso uno studente. L’incidente è passato inosservato e l’amministrazione ha deciso che sarebbe stato meglio tacere. Questo è stato il via libera a procedere in questa direzione».
  Sono parole durissime quelle dello studente di Medicina che spiega come i forum studenteschi online si siano rapidamente trasformati mentre i suoi coetanei hanno sminuito e addirittura giustificato il terrorismo. Il giovane racconta di aver sentito una persona affermare che gli ostaggi non erano “i personaggi principali” della storia, mentre un altro ha dichiarato che Israele ha utilizzato come arma lo stupro delle donne israeliane da parte di Hamas per giustificare la sofferenza dei palestinesi. Senza contare un altro ancora che ha negato del tutto lo stupro.
  Gli studenti hanno anche negato l’uso degli ospedali da parte di Hamas come basi terroristiche nonostante prove evidenti e schiaccianti. Uno studente non ebreo, secondo il racconto del ragazzo, ha tenuto una conferenza sulla definizione di antisemitismo, affermando che l’ideologia ebraica consensuale è moralmente corrotta. Non solo: proprio durante la Giornata internazionale della memoria dell’Olocausto, uno studente ha paragonato la situazione a Gaza a quella della Germania nazista, violando la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), l’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto.
  Nella sua testimonianza, X osserva che emoji come l’anguria, l’oliva e la bandiera palestinese venivano utilizzati liberamente come segni di solidarietà da parte di coloro che, seppur solo leggermente meno estremi, continuavano a nutrire sentimenti di odio. Alcune persone hanno addirittura protestato di fronte all’ospedale con uno striscione che commemorava l’attacco a Al-Aqsa, che Hamas ha definito il “massacro del 7 ottobre”. X sottolinea che queste persone potrebbero essere i futuri medici della comunità.
  Se gli studenti hanno detto queste cose sugli ebrei di fronte a centinaia di altri studenti nei forum mediati dalle scuole di Medicina, cosa hanno scritto sui social media? E nelle loro chat di gruppo private? Cosa hanno pensato? «L’odio era diffuso ed era solo la punta dell’iceberg. Subito dopo, oltre il 30% del corpo studentesco della facoltà di Medicina ha firmato un’altra lettera all’amministrazione. Anche in questo caso non si è parlato degli ostaggi, di Hamas o del 7 ottobre». Di fatto, conclude lo studente, il dolore ebraico è invisibile per loro.
  «C’è molto da digerire nel contesto dell’educazione all’etica medica – osserva X –. Siamo arrivati a tollerare le macro aggressioni nell’era delle micro aggressioni contrapposte. La nostra storia insegna, ad esempio, che il pregiudizio implicito dei medici nei confronti dei pazienti neri ha portato a dei danni. È ovvio che un pregiudizio esplicito del medico nei confronti di un paziente identificabile come ebreo o israeliano potrebbe essere molto più pericoloso. E se il pregiudizio esplicito diventasse odio palese?», si chiede X.  «Dopotutto, i giorni in cui il mantra era “critico solo il governo israeliano” si sono rapidamente trasformati in “sionisti e israeliani sono intrinsecamente malvagi”, come avevano sostenuto i miei compagni di classe. Possono assistere e curare un paziente come doveroso se non sono intellettualmente attrezzati a riconoscere l’umanità negli israeliani e nei sionisti?».
  Se gli studenti confutano le prove che descrivono dettagliatamente come Hamas opera negli ospedali e violenta le donne israeliane, sono in grado di praticare una medicina basata sull’evidenza? Dal punto di vista del paziente, come possono gli ebrei cercare in modo sicuro e affidabile cure da medici che forniranno cure compassionevoli? «Non permetterei mai alla mia famiglia israeliana di avvicinarsi all’ospedale della mia facoltà di Medicina», afferma X.
  Lo studente ha quindi dichiarato che l’antisemitismo è pervasivo nella facoltà di Medicina per diversi motivi. In primo luogo, gli studenti ebrei hanno paura di parlare apertamente per timore di ritorsioni. Gli alti costi irrecuperabili per iscriversi alla facoltà di Medicina richiedono un’eccessiva cautela per paura dell’alienazione sociale e del doxing, ossia di esposizione, entrambi fatti accaduti nel suo ateneo.
  In secondo luogo, gli ebrei antisionisti sono fortemente sovra-rappresentati tra gli accademici più giovani e distorcono il consenso che esiste nella realtà. Secondo i sondaggi a sostegno del BDS, circa il 10% degli ebrei americani sono antisionisti, anche se tale cifra è probabilmente molto più alta all’interno delle facoltà di Medicina.
  Nella facoltà di Medicina, la tolleranza verso gli ebrei sembra essere condizionata dalla loro posizione antisionista, che finisce per dominare la discussione. Gli studenti non ebrei, a loro volta, rappresentano questa prospettiva sovra-rappresentata per evitare accuse di antisemitismo, comportandosi in modo che gli ebrei vengano interpretati in maniera distorta. Questo comportamento riflette quello che viene insegnato agli studenti di Medicina come “bias di campionamento”, ovvero una tendenza a rappresentare un gruppo in modo parziale. A differenza di altre situazioni, come quella dei neri americani, la cui prospettiva di destra verrebbe ignorata in un contesto accademico, gli ebrei sembrano essere sempre l’eccezione.
  «In terzo luogo – osserva X – l’antisemitismo domina nelle università di Medicina perché, come abbiamo visto, non si può fare affidamento sul fatto che le amministrazioni agiscano in modo altruistico. Calcolano che i costi per turbare la folla palesemente ostile siano maggiori del costo per lasciare vulnerabili studenti e pazienti ebrei. Finché i sionisti avranno troppa paura di esprimere le loro preoccupazioni, i college potranno rimanere in uno stato di equilibrio tranquillo, anche se inquieto. Si può cambiare il calcolo con la pressione pubblica: gli atenei di Medicina hanno profondamente a cuore la loro reputazione».
  Alla luce di tutto questo, X lancia un appello e chiede di contattare quante più università di Medicina possibile e chiedere loro quali sono le politiche specifiche in atto per stabilire una cultura libera dall’antisemitismo. Chiedere loro se gli studenti vengono educati sull’antisemitismo moderno, quello che “infetta” il mondo accademico, una teoria non lontana.  «Bisogna metterli in contatto con le organizzazioni di difesa degli ebrei. Probabilmente cambierebbero discorso, sarebbero vaghi e declinerebbero educatamente qualsiasi suggerimento, smascherando questa emergenza morale e mettendo in luce la necessità di intraprendere azioni aggressive a favore dei pazienti ebrei ovunque».

(Bet Magazine Mosaico, 9 maggio 2024)

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"Hamas perderà, ma vincerà a sinistra. Per Israele è un problema". Parla Matti Friedman

"L’opinione pubblica occidentale delle società liberal e di sinistra temo sia persa. Forse l’Europa, alle prese con una grande immigrazione islamica, sarà più comprensiva di Israele, ma In occidente, al di là di Israele, c’è una follia generale", dice al Foglio lo scrittore israelo-canadese.

di Giulio Meotti

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Matti Friedman

La seconda settimana dell’ottobre del 1973 fu una delle peggiori nella storia di Israele. Il giorno del digiuno ebraico dello Yom Kippur, la Siria e l’Egitto lanciarono attacchi a sorpresa. Leonard Cohen era già una star internazionale. Tre anni prima al festival di Wight, dopo Joan Baez e Jimi Hendrix, Cohen aveva incantato tutti. E ora Cohen si trovava nel deserto del Sinai disseminato di carri armati e cadaveri carbonizzati per suonare a  gruppi di soldati con una cassa di munizioni come palco. “Sono sceso nel deserto per aiutare i miei fratelli a combattere”, scriverà Cohen. “Venne qui in Israele nel 1973, in un momento drammatico per questo piccolo paese”, dice al Foglio Matti Friedman, giornalista e scrittore israelo-canadese che al grande musicista nello stato ebraico ha dedicato “Il canto del fuoco” (Giuntina). “Oggi gli artisti hanno paura della controversia”, dice Friedman: “Prendi Matisihau, è cancellato per il sostegno a Israele. C’è codardia e paura di assumere una posizione forte”.  
  Matti Friedman dice che il problema non riguarda solo gli artisti. “Hamas sta perdendo a Gaza, ma vincendo nella sinistra occidentale, che ha sicuramente più simpatia per Hamas che per Israele. La sinistra ha abbandonato i suoi ideali delle società industriali per essere affascinata dalla violenza antioccidentale. Dov’è tutta la sua sensibilità per l’oppressione di gay, donne e minoranze? È pericoloso per Israele e per l’occidente, perché abbiamo bisogno di alleati in occidente, ma è pericoloso soprattutto per l’élite intellettuale. Negli anni Sessanta e Settanta, la sinistra ha subito una mutazione. Si sono innamorati di Frantz Fanon e della lotta contro l’occidente, l’America, Israele e il capitalismo, con  la giustizia rappresentata da movimenti non bianchi che sono completamente regressivi. Non è solo il vecchio antisemitismo, ma una nuova tendenza antioccidentale in cui gli ebrei sono il capro espiatorio di tutto. Israele rappresenta un po’ tutti i mali dell’occidente in questa visione del mondo: coloniale, militare, bianco, occidentale. È anche un modo molto più efficace per mobilitare l’opinione pubblica”.  
  Come finirà a Gaza, difficile dirlo. “Per un gruppo come Hamas, la vittoria non è come la intendiamo noi, come una tregua giapponese con gli americani”, ci dice Friedman. “A loro non importa che possano uscire dalle rovine di Gaza e annunciare la ‘vittoria’. Ci credono davvero. Qui tutto può cambiare in un minuto e quindi ogni previsione è scritta sulla sabbia”. Friedman dice che i media occidentali si sono inventati un medio oriente che non esiste. “È ovvio che la storia del medio oriente e del Nord Africa dei nostri tempi è caratterizzata dall’ascesa di tensioni violente e contrastanti dell’islam e dallo spostamento di queste ideologie e dei loro seguaci verso l’occidente. Si fa un grande sforzo per oscurare tutto questo, anche se il fenomeno è visibile dall’Algeria attraverso la Siria, lo Yemen e l’Iraq fino all’Afghanistan, e dalle torri gemelle al teatro Bataclan, al lungomare di Nizza e all’Arena di Manchester. Per un giornalista in Israele, le principali incarnazioni locali del fenomeno sono il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) e il Jihad islamico tra i palestinesi e la formidabile milizia del Partito di Dio (Hezbollah) in Libano, tutti  alleati con la Repubblica islamica dell’Iran, tutti impegnati a forgiare un nuovo ordine islamico, tutti esplicitamente impegnati a cancellare l’insopportabile sacca di sovranità ebraica sullo 0,2 per cento del territorio del mondo arabo. Durante il mio periodo sulla stampa, ci si aspettava che girassimo educatamente in punta di piedi attorno ai due miliardi di aderenti all’islam e facessimo finta che la storia chiave della regione fosse un gruppo di sei milioni di ebrei che opprimevano una minoranza, i palestinesi, che volevano solo uno stato pacifico accanto a Israele. Poiché si trattava per lo più di fantasia, io e i miei colleghi siamo stati costretti a contorsioni sempre più ridicole mentre ‘costruivamo sovrastrutture emotive su eventi che non erano mai accaduti’, per usare le parole di George Orwell, e seppellivamo gran parte di ciò che stava realmente accadendo. Orwell avrebbe compreso il rifiuto di molti osservatori dei nostri tempi di credere ai dettagli degli omicidi, degli stupri e dei rapimenti di Hamas del 7 ottobre, mentre sarebbero stati ansiosi di credere qualche settimana dopo che Israele aveva deliberatamente bombardato un ospedale”.  
  Cosa aspettarsi, dunque? “L’opinione pubblica occidentale delle società liberal e di sinistra temo sia persa, anche se l’opinione pubblica non conta sempre. Forse l’Europa, alle prese con una grande immigrazione islamica, sarà più comprensiva di Israele, così come nel mondo della politica estera ti rispettano se hai potere. Quindi Israele può uscire da questa guerra con un risultato soddisfacente in medio oriente, anche se dovesse significare un divorzio con l’opinione pubblica occidentale, che per uno come me è fonte di grande preoccupazione. In occidente, al di là di Israele, c’è una follia generale”.

Il Foglio, 9 maggio 2024)

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Tutto pronto per Israele all’Eurovision. Golan: “Sono venuta qui per far sentire la mia voce”

di Luca Spizzichino

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Nonostante il lungo e travagliato percorso tra minacce di boicottaggio e la scelta della canzone, la rappresentante di Israele all’Eurovision Song Contest Eden Golan è pronta per esibirsi nella seconda semifinale, che si terrà domani sera alla Malmö Arena, con il brano “Hurricane”.
  Nella città svedese le misure di sicurezza sono state rafforzate, le forze dell’ordine infatti temono contestazioni o iniziative violente. Tanto che una delegazione dello Shin Bet si è recata a Malmö per coordinare i protocolli di sicurezza con le autorità svedesi. La situazione in città è talmente tesa, che i controlli per accedere al palazzetto sono stati irrobustiti e non sarà possibile portare bandiere palestinesi, proprio per evitare manifestazioni d’odio contro la giovane cantante durante l’esibizione.
   Eden Golan
"Sono venuta qui per far sentire la mia voce”
, anche su indicazione dei servizi di sicurezza, sta mantenendo un basso profilo tra le crescenti minacce che circondano la partecipazione di Israele al concorso. Domenica è cominciato ufficialmente l’Eurovision con il tradizionale Turquoise Carpet, la passerella sulla quale sfilano le delegazioni e gli artisti rappresentanti di tutte le nazioni che prenderanno parte al contest musicale più seguito al mondo e una delle poche opportunità per i fan e i media di avvicinarsi e conoscere personalmente gli artisti. Tuttavia, la cantante israeliana non ha preso parte alla cerimonia perché impegnata nella commemorazione di Yom HaShoah.
  Proprio per l’importanza della giornata, Israele ha fatto una richiesta speciale alla European Broadcasting Union per ottenere un posto nella seconda semifinale, dove sarà la quattordicesima ad esibirsi. La richiesta è stata fatta per permettere a Eden Golan di non fare la prova generale filmata durante Yom HaShoah.
  “Sono venuta qui per far sentire la mia voce, per far sentire qualcosa alle persone e lasciare un segno nelle loro anime e per unirci attraverso la musica”, ha detto Golan a Reuters lunedì.
  La competizione è estremamente popolare in Israele, che l’ha vinta quattro volte. “È un momento molto importante per noi, soprattutto quest’anno. – ha sottolineato la cantante – Mi sento onorata di avere l’opportunità di essere la voce del mio Paese”.
  E per quanto riguarda le eventuali contestazioni, Eden Golan non si lascia intimidire. “Hanno il diritto di esprimere il proprio parere, io mi concentro sull’esibizione, sperando di fare la mia migliore prestazione”.

(Shalom, 8 maggio 2024)

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“Inaccettabile il testo approvato da Hamas. Ma Netanyahu non ha un vero piano”. Parla l’ideatore di “Fauda”

Avi Issacharoff, che prima di essere sceneggiatore è un ascoltato analista militare, analizza lo stato del conflitto a Gaza: “La bozza egiziana a cui Sinwar ha detto sì non è la stessa che è stata sottoposta a Israele.

di  Francesca Caferri

TEL AVIV — In Italia il suo nome è associato prima di tutto a “Fauda”, la serie Netflix che ha raccontato al mondo le vicende di un’unità che molto assomiglia alla Duvdedan, il gruppo speciale dell’esercito israeliano che agisce sotto copertura nei Territori palestinesi. Ma qui in Israele Avi Issacharoff è prima di tutto uno dei principali analisti militari del Paese, a lungo esperto di affari palestinesi per Haaretz prima e per Yedioth Ahronoth adesso, nonché autore di pluripremiati libri sulla Seconda Intifada e sulla guerra in Libano. È in questa doppia veste che sediamo con lui per un caffè in un giardino nella zona Nord di Tel Aviv, dopo una mattinata convulsa che lui, come buona parte degli esperti qui, ha passato ad analizzare l’accelerazione di lunedì sera, quando la notizia dell’accettazione della proposta egiziana da parte di Hamas prima e l’inizio dell’offensiva di terra israeliana poi, hanno aperto nuovi scenari in una crisi che si trascina ormai da sette mesi.

- Issacharoff, ci spiega cosa è successo lunedì sera: nel giro di due ore si è passati dalla speranza di una tregua all’offensiva di terra su Rafah...
  «Ci è voluto un po’ per capire che la proposta dell’Egitto che Hamas aveva accettato non era quella che Israele aveva visionato. In pratica, si parlava esplicitamente di fine della guerra dopo la prima fase di stop ai combattimenti e del ritorno di 33 ostaggi vivi o morti: una clausola che dà alla leadership di Hamas la garanzia di sopravvivere, dopo aver massacrato 1.200 israeliani e averne rapiti 230. È possibile accettarlo? Mi pare folle solo parlarne».

- Se le posizioni sono così distanti, non ci sono molte possibilità di compromesso ai negoziati del Cairo: sta dicendo questo?
  «Non ci sono motivi né scuse per essere ottimisti: purtroppo. Siamo in un vicolo cieco, stretti fra Hamas che continua a dimostrarci che non ci sono possibilità di vivere fianco a fianco, né fra un anno né fra dieci. E un governo, quello israeliano, che non ha strategia e pensa solo a sopravvivere».

- Però c’è la pressione internazionale: il mondo chiede a Israele di fermarsi…
  «Se mi avesse detto sei mesi fa che Hamas avrebbe goduto del supporto a livello di opinione pubblica mondiale che ha ora, le avrei detto che aveva preso qualche pillola di troppo».

- Se sta parlando delle manifestazioni nelle università e nelle piazze, io non direi che chi protesta sia necessariamente con Hamas…
  «Forse ha ragione lei, forse non tutti sono con Hamas. Allora però la maggior parte di quelle persone non sa di cosa sta parlando: quelli che urlano “From the river to the sea”? («dal fiume al mare», ndr). Quelli che gridano “Free Gaza”? Quale Gaza, quella dove Hamas ha ucciso ogni forma di opposizione, dove ha instaurato una dittatura? O forse le persone che sono in piazza invocano quell’Autorità palestinese che neanche Hamas vuole?».

- Quindi che si fa? Si continua a combattere? Fino a quando? Quando Israele potrà o vorrà dire che ha vinto e fermarsi?
  «La vittoria per Israele sarebbe il ritorno a casa degli ostaggi e la morte di Sinwar, ma mi pare chiaro che non ci stiamo riuscendo. Ogni giorno che passa Hamas diventa più popolare fra i palestinesi, l’Autorità palestinese perde credito e noi continuiamo a non avere una strategia per il dopo: i nostri soldati hanno preso Gaza city e Khan Yunis e poi le hanno lasciate, di fatto riconsegnandole a Hamas. Può essere una strategia vincente questa? Se il governo avesse voluto discutere del day after di Gaza con l’Autorità palestinese, con i Paesi arabi e quelli europei, se si fosse parlato davvero di creare un potere politico alternativo a Hamas ci sarebbe stata qualche scelta. Ma così no. Non vedo la fine».

- E Hamas? Qual è la loro, di vittoria?
  «Quello che abbiamo visto prospettarsi lunedì sera. Finire la guerra ancora al potere a Gaza, con i loro leader ancora vivi, Sinwar per primo. Accettare questo per Israele non è possibile».

- Una vita fa. Prima del 7 ottobre. Stavate scrivendo la sceneggiatura per la serie 5 di “Fauda” e Lior Raz, protagonista nonché co-autore con lei, ha proposto di partire da un attacco di terra di Hamas contro un kibbutz sul Sud di Israele…(Prima di finire la frase sul volto di Issacharoff si disegna un sorriso amaro)...
  «E io ho detto no, perché mi pareva poco credibile: è una storia vera. Come poteva Israele con tutta la sua intelligence, con i suoi apparati, non intercettare un attacco simile? Questo ho detto. Invece è successo e ancora faccio fatica a capire come: avevamo tutte le informazioni, non sono state giudicate attendibili. Eravamo così sicuri della “deterrenza”, che a Hamas interessassero i soldi e alla gente di Gaza la prosperità. Abbiamo sbagliato tutto».

- È questa la storia della prossima stagione?
  «Non posso parlare. Non posso dirle altro se non che ci stiamo lavorando. E che quello che è successo avrà influenza sul nostro lavoro».

(la Repubblica, 8 maggio 2024)

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Mancanza di operai e piante della Bibbia

Il tedesco Nicolas Dreyer si reca in Israele per dieci giorni per svolgere attività di volontariato. È già stato molte volte nel Paese, ma il suo lavoro in agricoltura ha approfondito la sua comprensione della Bibbia. Ha scritto le sue riflessioni per Israelnetz.

a cura di Merle Hofer*

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Nicolas Dreyer ha trascorso dieci giorni ad aiutare il raccolto in Israele

Nell'ambito di un programma di volontariato, a febbraio sono andato in Israele per dieci giorni. Ad eccezione dello Shabbat e di occasionali gite turistiche, io e i miei compagni di volontariato ci siamo recati la mattina presto alla "nostra" fattoria di Geva Karmel, dove abbiamo lavorato nelle piantagioni di pomodori e peperoni. Il contadino Jossi e il leader del nostro gruppo ci hanno spiegato i passi necessari e ci siamo dedicati al lavoro, spesso fisicamente impegnativo, fino al primo pomeriggio.

Abbiamo potato i cespugli di pomodoro, eliminando i germogli. Abbiamo anche raccolto pomodori e peperoni, pulito i cespugli dalle foglie e dai frutti indesiderati e trattato con fungicidi, se necessario. Abbiamo raccolto le foglie tra le piante perenni e le abbiamo portate via.

Nella tarda mattinata abbiamo fatto una breve pausa-caffè e abbiamo pranzato al sacco con muesli e panini che avevamo portato con noi. Il contadino ci ha portato prodotti da forno e diverse volte ci siamo serviti delle banane del raccolto.

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Le piante di pomodoro sono state selezionate e alcuni frutti possono già essere raccolti

Jossi e gli altri israeliani che lo hanno aiutato nella coltivazione degli ortaggi, come i biologi che hanno dato consigli sulla lotta alle malattie fungine, ci hanno ringraziato molto per il nostro servizio volontario. Ci hanno chiesto quali fossero le motivazioni che ci avevano spinto a trascorrere le nostre vacanze per venire in Israele come volontari in questo periodo.

Questo ci ha dato l'opportunità di parlare del legame che noi cristiani sentiamo con la terra d'Israele e il popolo ebraico attraverso le Sacre Scritture. L'agricoltore laico ha accettato. Ci ha detto che la conoscenza di Abramo, a cui è stata promessa questa terra e che l'ha coltivata personalmente e vi ha allevato il bestiame, lo motiva a fare lo stesso.

Jossi ci ha detto che le sue due figlie sono diventate religiose dopo i mostruosi attacchi del 7 ottobre. Ora osservano lo Shabbat per pregare per le Forze di Difesa israeliane.

• Connessione tra popolo, terra e scritture

Il lavoro di raccolta e di soccorso nella serra grande come un campo da calcio ha permesso a noi, la maggior parte dei quali non aveva precedenti esperienze agricole, di familiarizzare almeno un po' con la coltivazione di ortaggi in Israele. Nelle conversazioni, l'apprezzamento e il legame che esiste tra il popolo e la terra di Israele è stato molto importante per noi, così come i Paesi che sono collegati alla storia di Israele e alle Sacre Scritture nel loro complesso.

Per la prima volta mi sono reso conto che la terra, come fattore geografico regionale e le industrie basate su di essa, soprattutto l'agricoltura, ma anche la silvicoltura, compaiono spesso nella Bibbia. Perché la Bibbia copre la vita umana nell'età del rame, del bronzo e del ferro, nonché durante il periodo greco e romano, e contiene anche un numero enorme di storie e parabole relative alla realtà agricola.

Genesi 3, ad esempio, parla di semi e alberi da frutto, mentre Giudici 9, Zaccaria 4 e Romani 11 trattano degli ulivi. Genesi 9 parla delle vigne di Noè e Genesi 25 delle leggi rituali per la coltivazione delle vigne. 1 Re 21 menziona la vigna di Naboth e il Cantico dei Cantici (ad esempio 8:19) le vigne del re Salomone. In Isaia 5 e in Ezechiele 17, la vigna è usata come simbolo di Israele e anche Gesù la usa nella parabola del Regno di Dio nel Nuovo Testamento.

• Pochi operai nella messe

La mietitura è un altro dei motivi preferiti nelle parabole di Gesù. Matteo 9:37-38 utilizza il motivo della mancanza di operai nella messe in senso spirituale. Il pubblico contemporaneo di Gesù e i primi lettori dei vangeli di Matteo o di Luca (10,2-7) conoscevano fin troppo bene la realtà economica e le conseguenze della mancanza di operai per la mietitura in questa fascia di terra semi-arida ripetutamente colpita dalla carestia.

Certamente  nella predicazione teologica di alcune parti della Bibbia ebraica i contemporanei conoscevano questi aspetti, sia che fossero già codificati o ancora tramandati oralmente. I profeti, in particolare, ne parlano spesso (cfr. Aggeo 1,6).

Le parole di Gesù sulla mancanza di operai per la mietitura corrispondono alla situazione reale attuale di questo settore dell'economia di Israele. Se non ci sono abbastanza mani nel raccolto, alcune parti di esso marciscono e la fornitura del cibo di cui ha bisogno  la popolazione non raggiunge il suo pieno potenziale. Attualmente, l'aiuto al raccolto è una parte significativa dello sforzo di difesa, e molti israeliani stanno aiutando come volontari nel loro tempo libero.

Gesù disse ai suoi discepoli: "La messe è abbondante, ma gli operai sono pochi. Pregate perché il Signore della messe mandi operai a portare la sua messe" (Matteo 9:37-38).

Durante la missione, io e dieci dei miei compagni volontari abbiamo vissuto in un appartamento nel centro di Haifa con due camere da letto, una per gli uomini e una per le donne. Abbiamo fatto i lavori di casa insieme, cucinato insieme e quindi, per molti versi, questo volontariato è stato anche un'esperienza e un esercizio di comunione cristiana con compagni di fede che non avresti mai incontrato nella tua vita quotidiana.

La chiamata comune a mostrare sostegno e amore al popolo di Dio ci ha uniti tutti. Condividere e lavorare insieme ai fratelli e alle sorelle è stato per me un grande arricchimento.
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* Nicolas Dreyer ha lavorato, tra l’altro, per l'Ebenezer Hilfsfonds Deutschland e.V. di Amburgo e per il Fondo Nazionale Ebraico JNF-KKL e.V. di Francoforte sul Meno. È secondo presidente di un'associazione tedesca per il servizio di soccorso israeliano, Christian Friends of Magen David Adom in Israel (CFMDA) e.V., ed è membro dell'Assemblea generale del Centro di studi e ricerche bibliche AMI di Gerusalemme. Ha conseguito un dottorato in Slavistica ed è docente presso l'Università Otto Friedrich di Bamberg. Si occupa di letteratura e storia ebraica in Russia e Ucraina.

(Israelnetz, 8 maggio 2024)

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Confermato: Biden blocca l’invio di bombe a Israele

Sotto fortissima pressione della sua sinistra antisemita, Biden è costretto a bloccare l'invio delle bombe pesanti a Israele e a garantire al Congresso che per i prossimi invii di armi, Israele rispetterà il diritto internazionale.

Martedì sera l’amministrazione Biden ha confermato le notizie secondo cui avrebbe trattenuto un grosso carico di bombe da 2.000 e 500 libbre che temeva Israele potesse usare in una grande operazione di terra nella città di Rafah, nel sud di Gaza.
È la prima volta, dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, che gli Stati Uniti bloccano un carico di armi per l’IDF, che forniscono quasi costantemente dal 7 ottobre.
Washington si oppone fermamente a una grande offensiva a Rafah, convinta che Israele non abbia modo di condurla in modo da garantire la sicurezza dell’oltre 1 milione di palestinesi che vi si rifugiano.
Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno tenuto un paio di incontri virtuali con alti funzionari israeliani per esprimere le loro preoccupazioni riguardo a una potenziale operazione a Rafah e per presentare alternative su come Israele potrebbe colpire Hamas nella città invece di condurre un’invasione su larga scala.
Questi colloqui continueranno, ma la Casa Bianca ha ritenuto che non fossero sufficienti a trasmettere le sue preoccupazioni, ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione Biden.
“Quando il mese scorso i leader israeliani sembravano avvicinarsi a un punto di decisione su un’operazione di questo tipo, abbiamo iniziato a esaminare attentamente le proposte di trasferimento a Israele di particolari armi che potrebbero essere utilizzate a Rafah”, ha dichiarato il funzionario.
L’esame ha portato a sospendere la scorsa settimana una spedizione di 1.800 bombe da 2.000 libbre e 1.700 bombe da 500 libbre, ha rivelato il funzionario, sottolineando che la Casa Bianca era particolarmente preoccupata che Israele avrebbe usato le bombe da 2.000 libbre a Rafah, densamente popolata, come ha fatto in altre parti di Gaza.
Il funzionario ha chiarito che non è stata presa alcuna decisione definitiva riguardo a questa particolare spedizione.
L’alto funzionario sembra anche confermare una notizia secondo cui gli Stati Uniti avrebbero ritardato la vendita di munizioni da attacco diretto congiunto (JDAM) a Israele, ma ha chiarito che questa transazione era in una fase molto precedente rispetto alla spedizione di bombe pesanti bloccata la settimana scorsa.
“Per alcuni altri casi al Dipartimento di Stato, tra cui i kit JDAM, stiamo continuando la revisione. Nessuno di questi casi riguarda trasferimenti imminenti. Si tratta di trasferimenti futuri”, ha detto il funzionario.
L’alto funzionario ha sottolineato che le spedizioni di armi in esame provengono da fondi stanziati anni fa e non fanno parte degli aiuti che il Congresso ha approvato per Israele il mese scorso.
“Siamo impegnati a garantire che Israele riceva ogni dollaro stanziato nel supplemento”, ha sottolineato l’alto funzionario dell’amministrazione, sottolineando che gli Stati Uniti hanno appena approvato altri 827 milioni di dollari di armi e attrezzature per Israele.
La conferma da parte dell’amministrazione Biden è arrivata ore dopo che diversi suoi portavoce avevano segnalato la loro iniziale approvazione dell’operazione lanciata da Israele martedì mattina presto per conquistare il lato palestinese del valico di frontiera di Rafah con l’Egitto.
I portavoce hanno affermato che gli obiettivi dichiarati da Israele nell’operazione sono legittimi, ma hanno avvertito che questa valutazione potrebbe cambiare se l’offensiva si espandesse e portasse a un ostacolo prolungato alle spedizioni di aiuti a Gaza.
“Quello che ci è stato detto dalle nostre controparti israeliane è che l’operazione di ieri sera è stata limitata e progettata per tagliare la capacità di Hamas di contrabbandare armi e fondi a Gaza”, ha detto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ai giornalisti durante un briefing.
“Per ora sembra essere un’operazione limitata, ma dipende in larga misura da ciò che verrà dopo”, ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller in un briefing separato.
“Una delle cose che Israele ha detto – e che è molto accurata – è che Hamas [controllava] ancora il lato di Gaza del valico di Rafah, e Hamas continuava a riscuotere le entrate derivanti dall’apertura del valico”, ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato. “Quindi è un obiettivo legittimo cercare di privare Hamas di denaro che potrebbe usare per continuare a finanziare le sue attività terroristiche”.
Da mesi Netanyahu ha dichiarato che le truppe israeliane effettueranno un’operazione per sradicare le ultime roccaforti di Hamas a Rafah, indipendentemente dal raggiungimento di un accordo nei colloqui in corso sugli ostaggi. Secondo i funzionari della difesa israeliana, quattro dei sei battaglioni rimanenti di Hamas si trovano in città, insieme a membri della leadership del gruppo terroristico e a un numero significativo di ostaggi rapiti da Israele durante l’assalto del 7 ottobre che ha scatenato la guerra a Gaza.
L’operazione dell’IDF nella mattina di martedì ha portato alla chiusura del valico di Rafah, una delle porte principali utilizzate per incanalare gli aiuti a Gaza. La chiusura è avvenuta mentre anche il vicino valico di Kerem Shalom è rimasto chiuso dopo che nel fine settimana un attacco missilistico di Hamas ha ucciso quattro soldati dell’IDF e ne ha feriti altri.
La Casa Bianca ha dichiarato che Netanyahu aveva promesso al Presidente Joe Biden, durante una telefonata lunedì, che avrebbe riaperto Kerem Shalom, ma ciò non è avvenuto martedì. I portavoce dell’amministrazione hanno detto che Israele si è impegnato a riaprire Kerem Shalom mercoledì e a riaprire Rafah per i convogli di carburante.
Miller ha fatto una distinzione tra l’operazione al valico di Rafah, che sembrava approvare, e l’annuncio dell’IDF di lunedì che invitava circa 100.000 palestinesi a evacuare dai quartieri orientali della città.
Ha chiarito che l’evacuazione dei civili prima di un’operazione militare è ben accetta in teoria, ma ha accusato Israele di aver compiuto questo passo senza i meccanismi adeguati per prendersi cura degli evacuati una volta trasferiti.
Sempre questa settimana, il Dipartimento di Stato avrebbe dovuto consegnare al Congresso un rapporto per stabilire se l’amministrazione Biden ha accettato le garanzie da parte di Israele di utilizzare le armi americane in conformità con il diritto internazionale.
Il rapporto al Congresso, che sarà reso pubblico, fa parte di una nuova politica istituita da Biden a febbraio, che richiede ai beneficiari degli aiuti esteri di fornire garanzie scritte sull’utilizzo degli aiuti nel rispetto del diritto internazionale e di non ostacolare l’assistenza umanitaria.
La politica è stata delineata in un promemoria che richiedeva al Dipartimento di Stato di presentare una relazione al Congresso entro mercoledì. Martedì, tuttavia, Miller ha indicato che il suo ufficio potrebbe aver bisogno di più tempo per completare il rapporto. “È possibile che slitti di poco”.
In vista della scadenza di mercoledì, i legislatori progressisti hanno intensificato le loro pressioni sull’amministrazione affinché consideri Israele non conforme al diritto internazionale, il che porterebbe probabilmente a una restrizione degli aiuti militari statunitensi.
Ottantotto democratici hanno firmato venerdì una lettera a Biden in cui esprimono “serie preoccupazioni riguardo alla condotta del governo israeliano nella guerra a Gaza, per quanto riguarda il deliberato rifiuto della distribuzione degli aiuti umanitari”.
Israele insiste sul fatto che non blocca gli aiuti che entrano a Gaza e che qualsiasi carenza è il risultato dell’incapacità delle agenzie umanitarie di distribuirli a chi ne ha bisogno. Ha anche sottolineato l’aumento degli aiuti iniziato il mese scorso. L’aumento ha fatto seguito alla minaccia di Biden di cambiare la sua politica sulla guerra se Israele non avesse preso provvedimenti immediati per migliorare la situazione umanitaria a Gaza, che secondo i gruppi per i diritti è sull’orlo della carestia.

(Rights Reporter, 8 maggio 2024)


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L’amico americano

di Niram Ferretti

I fatti sono quello che sono e parlano chiaro. Gli Stati Uniti vogliono che Israele si pieghi a Hamas e che accetti obtorto collo qualsiasi accordo, Joe Biden ha fretta di chiudere la questione Gaza e la sua impazienza sta aumentando.
  Riepiloghiamo i fatti.
  Ieri, l’ufficio politico di Hamas a Doha annuncia che Hamas ha accettato l’accordo proposto da Israele al Cairo con mediazione quatariota. L’accordo di cui parla Hamas, sostanzialmente quello già previsto che contempla quattro mesi di tregua articolati in tre fasi più il rilascio progressivo degli ostaggi e la liberazione di un numero cospicuo di prigionieri palestinesi, ha una rilevante aggiunta di cesello; Israele si ritirerà da Gaza, ovvero, la guerra terminerà con (questo non viene dichiarato ma è implicito), la vittoria conclamata di Hamas.
  A stretto giro, Israele respinge l’esito proposto da Hamas. Passano le ore ed emergono retroscena interessanti. Ufficiali israeliani dichiarano che l’Amministrazione Biden era al corrente delle aggiunte ma che di esse non ha informato lo Stato ebraico. Lo zar della CIA, William Burns, presente al Cairo, avrebbe dato il proprio assenso a quella che viene chiamata eufemisticamente “una controfferta” da parte del gruppo jihadista, e che di fatto è un cappio messo al collo di Israele.
  Così lavorano gli alleati, di chi? a questo punto è del tutto lecito porsi la domanda, soprattutto dopo questa porcata apparecchiata alle spalle di Netanyahu, che pure, non ha fatto altro che assecondare i desiderata della Casa Bianca continuando ad annunciare l’offensiva su Rafah e, al contempo, continuando a differirla. A corredo decorativo del tutto c’è la notizia che gli Stati Uniti stanno ritardando la consegna di migliaia di armi di precisione, quelle che limitano al massimo le vittime civili.
  Nel mentre l’IDF si muove con cautela su Rafah, occupa un valico, sta in attesa, e Burns torna di nuovo al Cairo per concertare con Qatar, Egitto, Hamas, vie di uscite, chissà se ulteriormente punitive nei confronti di Israele.
  Si era pensato di avere toccato il fondo a proposito dell’ostilità americana verso Israele con l’Amministrazione Obama, ma si sa che il fondo non si tocca mai realmente, e l’Amministrazione Biden lo dimostra, la prima, da quando Israele esiste, che sta facendo di tutto per fargli perdere la guerra.

(L'informale, 7 maggio 2024)

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Hamas non ha accettato nessun accordo, ha creato un teatro comunicativo per fare pressione su Israele

L'annuncio del gruppo terroristico per fermare l’operazione a Rafah è la differenza fra una tregua e una farsa. I preparativi per l’offensiva e la lezione da imparare

di Micol Flammini

Il pasticcio è stato credere a Hamas, all’entusiasmo con cui il gruppo ha comunicato di aver accettato la proposta di accordo di Egitto e Qatar. All’annuncio, Israele ha fatto sapere che non si trattava della stessa proposta su cui nei giorni scorsi le delegazioni stavano lavorando al Cairo, ma di un piano diverso che lo stato ebraico non aveva neppure visionato. L’entusiasmo è svanito: Hamas ha organizzato un imbroglio comunicativo, dando l’annuncio di aver accettato una bozza di accordo che non era mai stata sul tavolo e mettendo Israele nelle condizioni di diffidare dai mediatori egiziani e qatarini – con i secondi i rapporti sono già molto tesi. Il teatro comunicativo di Hamas, con i preparativi per l’attacco israeliano alla città di Rafah, aveva l’obiettivo di creare quella pressione internazionale contro Gerusalemme a cui i terroristi si affidano per ottenere la fine definitiva della guerra alle loro condizioni. Il ministro israeliano Nir Barkat, durante un incontro con i giornalisti a cui il Foglio ha partecipato, ha detto che è impossibile negoziare con Hamas senza “puntargli il coltello alla gola”, è a questo che servono i preparativi per l’attacco contro la città di Rafah, di cui ieri Israele ha iniziato a evacuare la parte orientale, quella più vicina al suo confine. Tsahal ha calcolato che sono circa centomila le persone che dovranno lasciare quella parte della città che si trova nel sud della Striscia di Gaza,  in cui si nascondono quattro battaglioni di Hamas e che più che una città ormai è diventata il  suono di una minaccia.
  Quando sui tavoli negoziali si sente pronunciare il nome “Rafah”, vuol dire che tutto potrebbe cambiare. Il problema è che la parola “Rafah” è stata detta e ridetta, sussurrata e urlata e adesso che Israele si prepara a iniziare l’offensiva il gruppo voleva fermarla con il suo annuncio senza mai però aver accettato davvero l’accordo.   La farsa di Hamas era iniziata domenica: il primo atto c’era stato mentre le delegazioni erano al Cairo per   trattare, e il gruppo aveva colpito il valico di Kerem Shalom, che collega Israele alla Striscia di Gaza e da cui entrano gli aiuti umanitari. L’attacco ha ucciso quattro soldati e Hamas sapeva che lo stato ebraico avrebbe reagito preparandosi per andare a Rafah, mostrando che esiste un piano per evacuare i civili e per colpire le postazioni dei terroristi. L’operazione a Rafah non è ancora partita, è in fase di preparazione, Tsahal dice di essere pronto, ha lanciato dei volantini per comunicare agli abitanti della parte est della città come raggiungere la città costiera di al Mawasi e Khan Younis, la città originaria di Yahya Sinwar da cui l’esercito israeliano si è ritirato a marzo. Israele ha poi condotto dei bombardamenti contro le postazioni da cui è partito l’attacco contro Kerem Shalom, ma le intenzioni dell’esercito non sono quelle di una grande offensiva, ma di un attacco limitato, in grado di poter far pressione su Hamas al tavolo dei negoziati.
  Prima che il gruppo facesse il suo falso annuncio, la linea di Israele era quella di usare Rafah per ottenere un accordo. Gli egiziani hanno riconosciuto che a dissipare l’atmosfera ottimistica di sabato, quando sembrava che le posizioni per un’intesa si stessero allineando, sia stato l’attacco di Hamas contro Kerem Shalom, e hanno chiesto a Israele di non creare le condizioni per un’invasione che porterebbe il caos al confine: oltre Rafah c’è la barriera che divide la Striscia con l’Egitto, gli egiziani hanno detto che non accoglieranno profughi e non vogliono l’esercito israeliano troppo vicino alla frontiera. Gli Stati Uniti hanno detto e ripetuto più volte a Israele che non approveranno un’operazione contro Rafah senza un piano di evacuazione dettagliato. Ieri il presidente americano Joe Biden e il primo ministro Benjamin Netanyahu hanno parlato al telefono per trenta minuti.    Biden ha chiesto a Netanyahu di riaprire il valico di Kerem Shalom, chiuso dopo l’attacco di Hamas. L’attenzione degli Stati Uniti è ancora sull’evitare una crisi umanitaria, mentre proseguono spediti i lavori per la costruzione del molo che dovrebbe permettere l’arrivo via mare di un numero maggiore di aiuti. Il molo dovrebbe essere pronto a giorni e il suo funzionamento non verrebbe intaccato da un’operazione pesante a Rafah.  
  In tutta la Striscia sono rimasti sei battaglioni di Hamas, due si trovano nella parte centrale, quattro sono a Rafah e sono quelli che hanno subìto meno perdite durante la guerra. Il piano di Israele è di liberare un quartiere alla volta, un’operazione come quella condotta a Gaza city non è più immaginabile e neppure necessaria.  In questo momento, nonostante sia indebolito, Hamas ha  ancora le capacità di ricostituirsi e lo dimostra l’abilità di tornare nelle zone da cui l’esercito si è già ritirato, di improvvisare postazioni di lancio di missili che sono efficaci. La pressione internazionale e la condanna esplicita contro Israele hanno portato spesso Tsahal a ritirarsi prematuramente dalle zone in cui ha combattuto. Hamas ha risposto disperdendo i suoi battaglioni, li ha trasformati in piccole squadre di pochi uomini, in attesa che l’assalto dell’esercito israeliano finisse. Per debellare Hamas e per scoprire dove sono gli ostaggi Israele avrà bisogno di rimanere più a lungo a Rafah, dovrà fare quello che per esempio non ha fatto a Khan Younis.   

Il Foglio, 7 maggio 2024)

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L’incubo del 7 ottobre e il ricordo della Shoah: la storia di Olesh tra passato e presente

di Michelle Zarfati

Oltre 200 persone la scorsa domenica si sono riunite in una casa a Gerusalemme per onorare una versione un po’ diversa dell’annuale appuntamento con Zikaron Basalon, la “memoria in salotto”. Tante famiglie, i cui cari sono stati rapiti a Gaza il 7 ottobre, si sono ritrovate per ascoltare ancora una volta le atrocità avvenute ad ottobre che sembrano essersi ripetute dopo la Shoah. Tamar Pearlman, un’ex insegnante delle scuole superiori, ha condiviso la storia di suo zio “Olesh”, Alex Dancyg, 75 anni, residente del Kibbutz Nir Oz che è stato preso in ostaggio dai terroristi di Hamas il 7 ottobre insieme ad altri 251 membri dello stesso kibbutz. La donna ha raccontato la storia della famiglia di Olesh, dei suoi nonni materni che fuggirono da Varsavia all’inizio della Seconda guerra mondiale alla volta della Russia – una storia di sopravvivenza e di piccoli miracoli. La coppia ebbe poi una figlia piccola, la madre di Pearlman, che venne nascosta da una donna non ebrea.
  La coppia tornò poi dopo la guerra in Russia per ricongiungersi con la figlia. La famiglia si stabilì quindi a Varsavia dove nacque Alex Dancyg nel 1948. Vissero in Polonia fino a quando emigrarono in Israele nel 1957. In Israele, Dancyg si unì al gruppo giovanile sionista laburista Hashomer Hatzair e comincio la sua vita costruendo una sua casa nel Kibbutz Nir Oz, dove si sposò ed ebbe quattro figli.
  La storia degli ebrei della Polonia e della sua famiglia ha ispirato la carriera di Tamar Pearlman, e anche di suo zio, divenuto un insegnante anch’esso e noto studioso della Shoah. L’uomo si è infatti impegnato a insegnare ai giovani israeliani la storia e la cultura della città di Varsavia.
  Dancyg era a casa da solo il 7 ottobre, dopo aver trascorso la serata precedente con suo figlio Matti e la sua famiglia residente a Nir Oz. I membri della famiglia erano in contatto con lui quella mattina.
  I figli di Dancyg e altri parenti sono sopravvissuti, dopo che il suo genero ha affrontato i terroristi in salotto. La sua ex moglie si è nascosta nella sua stanza di sicurezza del kibbutz con due nipoti adolescenti, tenendo chiusa la porta per otto ore.
  Dancyg è stato preso in ostaggio da Hamas e dalla fine di novembre, quando circa 100 ostaggi sono stati rilasciati in un accordo di tregua temporanea, non si hanno notizie dell’uomo. Alcuni degli ostaggi che erano stati a contatto con Dancyg in prigionia hanno raccontato alla famiglia delle lezioni che l’uomo impartiva sulla Shoah nei tunnel di Gaza. “Dopo tutto ciò che i miei nonni hanno passato, speriamo ancora che mio zio sia vivo. Noi ci crediamo e lo aspettiamo”, ha detto Pearlman.

(Shalom, 7 maggio 2024)

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Israele ha preso il controllo del valico di Rafah

Nella Striscia di Gaza è il punto in cui entra la maggior parte degli aiuti umanitari e da cui parte una delle arterie principali. Il piano per affidarne la gestione ai civili non collegati a Hamas e la pressione per ottenere un accordo.

di Micol Flammini

Alle 7 del mattino, ora di Gerusalemme, l’esercito israeliano ha detto di aver preso il controllo del valico di Rafah dalla parte della Striscia di Gaza, dall’altra c’è l’Egitto che in questi giorni teme che le manovre militari israeliane nella parte sud della Striscia possano portare i palestinesi ad accalcarsi lungo la frontiere nel tentativo di fuggire dal lato egiziano. Il valico di Rafah è uno dei punti più importanti per l’ingresso degli aiuti umanitari, è attraverso la sua porta che entra la maggior parte dei camion carichi di rifornimenti, ma finora Israele non era mai arrivato a controllarlo. Controllare il passeggio significa indebolire la capacità di Hamas di capire e appropriarsi di cosa entra nella Striscia di Gaza e aiuta a fermare eventuali tentativi di fuga da parte dei terroristi. Secondo Axios, nei prossimi giorni Israele vorrebbe che fossero i civili palestinesi che non sono collegati a Hamas a impegnarsi nel controllo e nella distribuzione degli aiuti che entrano dall’Egitto. 
  Durante la notte Israele ha colpito diverse postazioni di Hamas nella parte orientale della città di Rafah, da dove ieri mattina aveva chiesto a centomila civili di evacuare perché sarebbero iniziati i bombardamenti. L’esercito aveva lanciato volantini dal cielo e fatto telefonate in arabo, non tutti i civili hanno deciso di andarsene, ma il movimento verso Khan Younis e al Mawasi – designate come zone umanitarie – è stato massiccio. La pressione sulla città di Rafah, in cui rimane il grosso della potenza militare di Hamas – quattro battaglioni che non sono stati scalfiti dai combattimenti dei mesi scorsi e anche la leadership del gruppo – è aumentata dopo l’annuncio di ieri del gruppo terrorista di aver accettato la proposta per un cessate il fuoco, basandosi su una bozza che Israele non aveva mai visionato prima. Non si trattava dell’accordo su cui si erano concentrati i negoziati nelle scorse settimane, ma di una bozza nuova che conteneva le richieste di Hamas e che tutto il gabinetto di guerra israeliano ha criticato. Il gruppo terrorista ha detto di aver agito con l’appoggio dei mediatori egiziani e qatarini e anche con le rassicurazioni degli Stati Uniti, nessuno per il momento ha confermato la versione di Hamas. 
  L’inizio delle manovre a Rafah non ha chiuso la fase negoziale, Israele manderà oggi una sua delegazione al Cairo. 

Il Foglio, 7 maggio 2024)

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La strategia "spalle al muro" e l'apertura dei jihadisti. Funziona la minaccia di Bibi

Rapido voltafaccia di Haniyeh dopo i colpi dell'Idf. Il governo israeliano lo bolla come un bluff. E non vuole ritirare i carri armati da Gaza

di Fiamma Nirenstein

È venuta sul tramonto mediorientale del giorno della Shoah israeliano, mentre dalla zona orientale di Rafah (non proprio dalla città dunque) si alzava una nuvola causata da un paio di proiettili israeliani, i carri armati sul bordo si preparavano a eventuali prossime azioni, gli abitanti delle zone più fitte si avviavano verso le strutture di soccorso preparate da israeliani e americani verso Khan Younis: dopo mesi di tentennamenti con la decisione di entrare nella roccaforte di Sinwar, il capo di Hamas Ismail Hanyeh evidentemente non indifferente all'ingresso israeliano, telefona al presidente del Qatar e gli dice che accetta la tregua proposta dai mediatori egiziani.
  È un accordo sulla restituzione di parte degli ostaggi, su cui aveva detto di no alle 16? Quanti? Quando? Chi? Contro quanti prigionieri palestinesi? Non si sa ancora niente. Per ora il governo israeliano annuncia che «è un trucco», una proposta di Egitto e Qatar non concordata. Ma la sorpresa non è piccola: è la prima volta che Hamas accetta l'accordo per un cessate il fuoco e lo fa proprio nel modo in cui aveva previsto Israele, da Netanyahu a Gantz: dietro pressione militare. Il quasi ingresso di Israele a Rafah invece di chiudere porte, come da troppo sempre sostiene il consesso internazionale bloccando Israele, ne sta aprendo di inusitate.
  La telefonata di ieri fra Joe Biden e Benjamin Netanyahu deve aver avuto momenti drammatici ma significativi. Bibi potrebbe aver detto a Biden: «Ho cercato di temporeggiare il più possibile, anche perché odio le stupidaggini che dicono su di me, specie sul New York Times, quando sostengono che dei rapiti non importa nulla e che butto per aria le trattative apposta, tenendo in piedi la guerra per restare al mio posto. Avrei voluto aspettare, anche se sapevo che Hamas ci prende in giro con una sadica attesa senza speranza. Ma mi capisci: dopo che ieri i terroristi hanno sparato i loro missili da Rafah, con precisione e con conoscenza della posizione dei nostri presidi militare, e mi hanno ucciso quattro soldati mentre altri 11 sono feriti, mi è difficile evitare l'azione. Era indispensabile dall'inizio. Sarò cauto, cercherò di tenere ancora la porta aperta all'accordo sui rapiti, osserverò più che posso la strada umanitaria, cominciando con lo spostamento della gente in zone sicure. Ma devo eliminare la forza militare di Hamas e quindi entrare a Rafah, cercare i miei poveri rapiti: Sinwar non li rende con le buone e devo anche mettercela tutta per prenderlo». E Biden potrebbe aver risposto: «Ti capisco. Ma sai benissimo che se entri a Rafah io non potrò altro che disapprovarti, come tutto il mondo. Il rischio per la gente non può essere accettato né da me né dai miei elettori. Anche io voglio eliminare Hamas, ma non posso pagare questo prezzo perché ne va del futuro stesso degli Usa e mio personale». Probabilmente nel frattempo Biden premeva sull'Egitto e sul Qatar perché spingessero Sinwar ad accettare. Forza militare da una parte e pressione americana dall'altra, qualcosa si è mosso. Netanyahu deve aver spiegato che spera appaiano i rapiti e si possa smettere di combattere, che si terrà sul margine di Rafah, che punta soprattutto a controllare lo Tzir Filadelfi, la zona cuscinetto strategica al confine con l'Egitto. Se non va a Rafah, come si è visto dal bombardamento su Kerem Shalom, mai gli israeliani potranno tornare a vivere a Sderot e nei kibbutz..
  Israele ora è certo che entrare a Rafah era la strada giusta per costringere Sinwar a passi inusitati. Biden può aver detto a Bibi che la guerra può incattivirsi e avrà minacciato di bloccare tutti quei proiettili che per ora non lasciano le mani americane. E Israele ne ha molto bisogno. Netanyahu ha deciso e adesso devono riapparire all'orizzonte i rapiti perché cambi idea. Israele entra ma aspetta, l'America condanna ma poco. Hamas da una parte ha detto agli israeliani «Attenti, non sarà un picnic» ma poi è corso a telefonare accettando qualcosa che non aveva mai accettato. Finora Sinwar ha impedito la tregua che salvava vite e favoriva Biden. Ora può darsi che stia cercando di salvarsi la vita o di prendere di nuovo in giro tutti quanti.
  Ma Israele ha le truppe già dentro, e (per ora) nessuna intenzione di spostarle.

(il Giornale, 7 maggio 2024)

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Israele attacca Fatah e boccia la tregua annunciata da Hamas

Israele mette fine al gioco delle tre carte di Hamas e rifiuta il cessate il fuoco: «Chieste condizioni inaccettabili».

di Stefano Piazza

Il raid di Israele su Rafah dopo l’ordine di evacuazione ai civili, smaschera la pantomima di Hamas. Che nel tardo pomeriggio di ieri annuncia di aver accettato l'accordo sul cessate il fuoco, ma riceve l'immediato alt da Gerusalemme: «Le vostre condizioni sono inaccettabili». Stati Uniti (Joe Biden ha sentito Benjamin Netanyahu), Europa e Arabia Saudita continuano a opporsi all'idea di un'operazione di terra nella città a Sud della Striscia di Gaza, ma i vertici dello Stato ebraico assicurano che l'intervento sarà limitato e mirerà alla cattura dei terroristi.
  Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha informato il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, e il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamal, del sì del gruppo jihadista palestinese alla proposta dei due Paesi arabi per un cessate il fuoco. Lo riferisce Hamas, il cui leader-ha fatto sapere il ministro degli Esteri iraniano - ha aggiunto che « la palla è in mano» a Gerusalemme. Un funzionario israeliano ha commentato: «In attesa di dettagli sull'annuncio di Hamas. Esamineremo la risposta di Hamas. E cercheremo di capire cosa Hamas ha accettato e cosa no». Per la radio dell'esercito israeliano, «Hamas ha effettivamente approvato una proposta egiziana ammorbidita che è inaccettabile per Israele».
  Lo sviluppo arriva dopo una giornata ad alta tensione, iniziata all'alba con le Forze di difesa israeliane (Idf) che hanno avviato l'evacuazione dei civili palestinesi da Rafah verso i campi profughi nelle aree di Khan Yunis e al-Mawasi, dopo il lancio di volantini che invitavano la popolazione ad allontanarsi. Dopo la riposta positiva di Hamas (forse) tutto può cambiare, come ha spiegato un alto funzionario israeliano, che ha parlato con Ynet: «Tutto è reversibile, se Hamas accetterà un accordo i preparativi per l'attacco a Rafah potrebbero essere fermati». L'Idf ha specificato che si tratta comunque «di un'operazione di portata limitata mirata a spostare circa 100.000 persone». In tal senso è possibile che non si arrivi comunque a un'invasione di massa, ma a una serie di azioni mirate alla ricerca degli ostaggi e alla cattura dei capi militari di Hamas, Yaya Siwar e Mohammed Deif.
  Non entrare in massa a Rafah accontenterebbe l'amministrazione americana, contraria a un attacco su larga scala, come ribadito ancora ieri da Joe Biden a Benjamin Netanyahu, e lo stesso vale per la Francia, l'Inghilterra, l'Egitto e l'Arabia Saudita, che resta sullo sfondo delle trattative in prospettiva di un accordo con Israele. Hamas attraverso Al Jazeera ha fatto sapere che «l'operazione di terra a Rafah non sarà un picnic per le Forze israeliane. La nostra coraggiosa resistenza, guidata dalle Brigate al Qassam, è pienamente preparata a difendere il nostro popolo». Poi il gruppo jihadista ha lanciato un appello alla comunità internazionale «ad agire con urgenza per fermare l'incursione di Israele, che minaccia le vite di centinaia di migliaia di civili» i quali, va ricordato, sono usati da Hamas come scudi umani.
  A proposito di questo, l’Unrwa si è rifiutata di evacuare una zona di guerra: si tratta della prima volta nella storia che un'agenzia umanitaria si allinea alla posizione di un gruppo terrorista. Sempre a proposito di figure poco credibili, su X è intervenuto l'alto rappresentante Ue, Josep Borrell: «Gli ordini di evacuazione di Israele ai civili di Rafah fanno presagire il peggio: più guerra e carestia. E’ inaccettabile. Israele deve rinunciare a un'offensiva di terra e attuare la risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L'Ue, insieme alla comunità internazionale, può e deve agire per evitare questo scenario». Una parola sul fatto che Hamas non libera gli ultimi ostaggi ancora in vita detenuti da ormai sette mesi? Oppure la richiesta ad Hamas di aderire alla proposta da tutti ritenuta «la migliore possibile»? Ovviamente no.
  Ieri mattina l'ufficio di Netanyahu ha risposto alle affermazioni del funzionario di Hamas, Moussa Abu Marzouk, e di un funzionario israeliano anonimo, secondo le quali il primo ministro israeliano è responsabile della nuova impasse nei colloqui su cessate il fuoco e scambio di prigionieri. In una dichiarazione, l'ufficio del premier ha sottolineato: «L'affermazione secondo cui il primo ministro Netanyahu, e non Hamas, avrebbe silurato l'accordo sulla liberazione degli ostaggi, è una completa menzogna e intenzionalmente fuorviante per il pubblico. La verità è esattamente l'opposto: Hamas è quello che manda all'aria ogni accordo, rifiutandosi di spostarsi di un millimetro dalle sue richieste estreme che qualsiasi governo israeliano in Israele non sarebbe in grado di accettare - in primo luogo, che Israele si ritiri completamente da Gaza e porre fine alla guerra, cosa che permetterà ad Hamas di rinnovare il controllo militare di Gaza e di riorganizzarsi per il prossimo 7 ottobre, come aveva promesso di fare».
  Come detto, nulla è irreversibile e la presenza del capo della Cia, William Burns, a Gerusalemme, dove ha incontrato Netanyahu, mostra che il filo della trattativa forse non si è ancora spezzato.
  Si è appreso da fonte militare che un quarto soldato israeliano è stato ucciso nell'attacco di Hamas avvenuto domenica presso il valico di Kerem Shalom. La vittima è Michael Rozel, 18 anni, della Brigata Nahal. Secondo l'Idf Hamas ha lanciato almeno 15 colpi di mortaio da una distanza di 300 metri da una zona umanitaria vicino a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza. Nell'attacco sono rimasti feriti altri 12 soldati, di cui tre in gravi condizioni. Israele ha reagito e secondo fonti sanitarie e di soccorso, nella Striscia di Gaza controllate da Hamas, 21 persone hanno perso la vita in seguito a due bombardamenti condotti dall'aviazione israeliana nel campo profughi di Yebna e nei pressi di al-Salam. Israele aveva chiuso il valico, ma ieri il premier, durante il colloquio con Biden, «ha concordato di garantire che il valico di Kerem Shalom sia aperto per l'assistenza umanitaria a chi ne ha bisogno». Visti gli sviluppi la sensazione è che le prossime 48-72 ore saranno decisive, con gli israeliani ormai pronti a entrare a Rafah.

(La Verità, 7 maggio 2024)

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La sceneggiata mediatica di Hamas sull’accordo con Israele

di Ugo Volli

• Il negoziato
  Nella convulsa e confusa trattativa fra Israele e Hamas, condotta con molta insistenza da Stati Uniti, Egitto e Qatar, ieri sera c’è stata una serie di colpi di scena. Israele aveva dichiarato qualche giorno fa di accettare “un’offerta molto generosa” (così definita dal segretario di Stato Usa Blinken) che comprendeva la rinuncia per il momento a entrare nell’ultima roccaforte di Hamas Rafah, una tregua di 6 settimane, la liberazione di una trentina di rapiti in cambio del rilascio di un numero molto più alto di terroristi condannati e detenuti nelle carceri israeliane, il permesso di un rientro controllato di parte degli abitanti di Gaza Nord. È un accordo che ha suscitato parecchie critiche in Israele, proprio per il fatto di concedere moltissimo a Hamas. Nel pomeriggio di ieri sembrava che anche questa proposta fosse stata rifiutata come le precedenti da Hamas, che aveva annunciato il ritiro della sua delegazione dalla sede delle trattative al Cairo. Israele aveva minacciato di iniziare le operazioni a Rafah se Hamas non avesse accettato l’accordo entro una settimana e aveva iniziato a distribuire alla popolazione civile della città volantini e messaggi con le istruzioni per allontanarsene verso una zona al sicuro dei prossimi combattimenti.

• Il colpo di scena
  Poi è venuto il primo colpo di scena. Hamas ha annunciato con molto clamore di aver accettato la proposta di cessate il fuoco. Sembrava che si aprisse una prospettiva di liberazione per i rapiti. Però rapidamente è emerso che ciò che i terroristi accettavano non era la proposta di Israele, ma un’altra formulata dal Qatar (che copre il doppio e contraddittorio ruolo di mediatore ufficiale e di protettore di fatto dei terroristi) e dall’Egitto (che ha una posizione contraddittoria anch’esso, perché vorrebbe apparire come difensore degli abitanti di Gaza ma rifiuta in tutti i modi di accoglierli sul suo territorio che confina con la Striscia e in particolare con Rafah).

• L’obiettivo di Hamas
  Da quel che si sa, questa proposta accettata da Hamas differisce da quella cui Israele aveva consentito soprattutto in un punto ma fondamentale. Per i terroristi il cessate il fuoco è solo un passaggio verso la fine immediata della guerra, senza la conquista di Rafah, la distruzione delle loro forze militari ancora organizzate che vi hanno sede, senza la cattura o l’eliminazione dei capi che hanno condotto prima il pogrom del 7 ottobre e poi la guerra di questi mesi. In sostanza quel che vuole Hamas è restare al potere a Gaza ed espellerne l’esercito israeliano, il che naturalmente significherebbe evidentemente la sconfitta dello stato ebraico, perché sarebbe la premessa della ripetizione di stragi come quella di sette mesi fa. Tutti i sacrifici sostenuti da Israele, tutti i morti, tutto il costo economico e umano di questi mesi sarebbero vanificati. È chiaro che questa resa dello stato ebraico – l’obiettivo di Hamas – sarebbe una catastrofe storica per Israele e una vittoria altrettanto storica per il terrorismo e l’Iran che lo sostiene e lo dirige. Il rifiuto di Israele era ovvio ed è stato sottolineato dall’operazione militare per cui l’esercito ha colpito ieri notte numerosi obiettivi terroristici a Rafah ed ha anche preso il controllo del valico con l’Egitto, un passo importante che rassicura il paese vicino e sigilla l’enclave terrorista.

• Le ragioni della sceneggiata
  Perché dunque è avvenuta la sceneggiata di Hamas? Bisogna ricordare sempre che “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi” (Clausewitz). Hamas è molto abile a fare politica contro Israele e sa che può vincere solo su questo piano, non su quello delle armi. Dalla sua ha chiaramente l’alleanza guidata dall’Iran, appoggiata sullo sfondo da Russia e Cina, ma anche l’orribile rigurgito antisemita che circola per l’estrema sinistra e le università occidentali. Ma può contare anche sulla pavidità europea e dell’amministrazione americana che per opportunismo di politica interna considerano importante una pace qualunque magari pessima ma veloce, rifiutando di accettare i sacrifici necessari per l’eliminazione di un terrorismo che non minaccia solo Israele ma anche tutto l’Occidente. Hamas specula anche sulle divisioni della società israeliana, sulla tentazione della sinistra di dare una spallata contro Netanyahu e sul legittimo desiderio delle famiglie dei prigionieri di fare qualunque cosa per liberarli, anche se la logica politica e militare chiede di privilegiare l’eliminazione di Hamas su compromessi che riprodurrebbero il rischio. L’annuncio era una delle molte mosse di Hamas per cercare di bloccare e sconfiggere Israele. La pressione sul governo israeliano oggi è enorme, e Hamas lo sa bene. Non a caso Netanyahu ha scelto l’altro ieri l’occasione solenne delle celebrazioni di Yom HaShoà per dichiarare che “il mondo deve sapere che se ci lascerà soli ad affrontare il terrorismo, lo faremo da soli”.

(Shalom, 7 maggio 2024)

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Dati allarmanti dall’Antisemitism Worldwide Report 2023

di Anna Balestrieri

“Se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre una vita ebraica in Occidente: indossare una stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i figli in scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nel campus o parlare ebraico”.
  Giunge in una serata dolorosa, l’erev Yom ha-Shoah, dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto, la notizia della pubblicazione del Rapporto Mondiale sull’Antisemitismo per il 2023. I dati sono tutt’altro che rassicuranti e segnalano un aumento degli episodi di antisemitismo in tutto il mondo, in particolare nei Paesi occidentali, con incrementi significativi rilevati in vari paesi, tra cui Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Argentina, Germania, Brasile, Sudafrica, Messico, Paesi Bassi, Italia e Austria.
  Questa impennata è da attribuirsi solo in parte alla guerra in risposta al pogrom del 7 ottobre. La maggior parte dei paesi con una significativa popolazione ebraica ha registrato un aumento del numero di incidenti di matrice antisemita già nei primi nove mesi del 2023, prima dell’inizio della guerra. Secondo il report, “il 7 ottobre ha contribuito a diffondere un incendio che era già fuori controllo.”
  Il Rapporto, di 150 pagine, comprende saggi approfonditi su diversi Paesi e uno studio sui profili dei diffusori di contenuti antisemiti sui social media. Sottolinea come i discorsi d’odio si articolassero già prima che Israele lanciasse la sua campagna a Gaza, anche nei principali campus universitari, e invita quindi a non considerare la recente ondata di antisemitismo come una risposta emotiva alla guerra. La politica di alcuni aggressori antisemiti di dichiarare che “il loro problema è con Israele, non con gli ebrei, per poi attaccare gli ebrei e le istituzioni ebraiche” dovrebbe essere smascherata.

• L’antisemitismo negli USA
  Va sottolineato che la minaccia non proviene solo dalle “fonti convenzionali” dell’odio antiebraico degli ultimi decenni, ossia gli attivisti dell’estrema sinistra. Un Rapporto dell’Università di Tel Aviv sull’antisemitismo negli Stati Uniti afferma che “Contrariamente alla saggezza convenzionale, gli incidenti del dopo 7 ottobre sono stati guidati anche dall’estrema destra americana. Neonazisti, suprematisti bianchi e altri hanno glorificato Hamas e hanno usato la guerra per diffondere propaganda antisemita e teorie cospirative, secondo le quali la crisi farà avanzare la sostituzione della maggioranza bianca in Occidente con i migranti provenienti dal Medio Oriente. Negli Stati Uniti le frange stanno invadendo il centro politico sia da destra che da sinistra, rendendo molto più difficile la lotta all’antisemitismo.”
  Secondo il Rapporto dell’Anti-Defamation League, a New York, la città con la più grande popolazione ebraica al mondo, la Polizia ha registrato 325 crimini di odio antiebraico nel 2023 rispetto ai 261 registrati nel 2022, la Polizia di Los Angeles ne ha registrati 165 rispetto a 86, e ne ha registrati 50 rispetto a 39. L’ADL ha registrato 7.523 incidenti nel 2023 rispetto ai 3.697 del 2022 (e secondo una definizione più ampia, 8.873); il numero di aggressioni è passato dalle 111 nel 2022 alle 161 nel 2023 e quello degli atti vandalici da 1.288 a 2.106. Le università si sono attrezzate con uno speciale kit per la denuncia online di episodi antisemiti alle autorità competenti.

• L’antisemitismo in altri paesi con significative comunità ebraiche
  Anche in altri Paesi si è assistito a un drammatico aumento del numero di attacchi antisemiti, secondo i dati raccolti dal Rapporto da agenzie governative, autorità di polizia, organizzazioni ebraiche, media e ricerche sul campo.
  È da segnalare l’impossibilità di tracciare episodi di violenza in paesi come la Federazione Russa.

• La mancanza di misure efficaci contro il diffondersi dell’antisemitismo
  Secondo il Prof. Uriya Shavit, responsabile del “Centro per lo Studio dell’Ebraismo Europeo Contemporaneo” e dell'”Irwin Cotler Institute”, se le tendenze attuali continueranno, la vita ebraica in Occidente potrebbe essere gravemente compromessa. Critica la mancanza di misure efficaci contro l’antisemitismo e suggerisce di delegare la responsabilità di combatterlo al Ministero degli Affari Esteri.
  “Non siamo nel 1938 e nemmeno nel 1933”, ricorda Shavit. “Eppure, se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre una vita ebraica in Occidente: indossare una stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i figli in scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nel campus o parlare ebraico”. Shavit rivolge il suo “j’accuse” e le sue critiche al Ministero per gli Affari della Diaspora e la Lotta all’Antisemitismo, definendolo “ridondante”: “un piccolo esempio di quanto lo sia: qualche mese fa, in un altro rapporto, abbiamo notato che il link fornito sul loro sito web in inglese per la segnalazione di incidenti antisemiti porta a una pagina vuota. La cosa ha fatto notizia sui media. E cosa è successo? Niente. Nessuno si è preoccupato di risolvere il problema. La pagina continua a essere vuota. Non ci sono limiti alla negligenza e alla mancanza di professionalità”.

• L’allarme dell’Anti-Defamation League: è l’anno più cupo della nostra storia
  Jonathan Greenblatt dell’ADL descrive l’impennata di incidenti antisemiti come uno “tsunami di odio” dopo il pogrom del 7 ottobre, sottolineando la necessità di agire per affrontare questa minaccia.
  I numeri del rapporto sono impressionanti e segnano l’anno più cupo nella storia dell’Anti-Defamation League, che opera da più di un secolo e si occupa di questo audit da 45 anni.

Qui il report completo

(Bet Magazine Mosaico, 7 maggio 2024)

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Negoziati Hamas-Israele in stallo. Gli States negano aiuti a Netanyahu

Niente accordo su cessate il fuoco e scambio ostaggi. Segnale Usa a Gerusalemme

di Stefano Piazza

La delegazione di Hamas ha consegnato nel tardo pomeriggio di ieri la risposta «ai fratelli mediatori di Egitto e Qatar, dove si sono tenuti colloqui approfonditi e seri». Di seguito, la delegazione di Hamas ha lasciato Il Cairo per consultazioni e tornerà martedì per nuovi negoziati. Lo riferisce l'emittente egiziana Al-Qahera, citando una fonte informativa. Contestualmente, il capo della Cia, William Burns, è giunto a Doha per un incontro col primo ministro Mohammed Bin Abdul Rahman alThani, con l'intento di discutere l'impegno per raggiungere un accordo sugli ostaggi a Gaza.
  Questa notizia è stata riportata da Barak Ravid, del sito Axios, citando fonti informate. Secondo quanto riportato dalla Cnn - che cita anonimi funzionari statunitensi e israeliani - la finalizzazione di un eventuale accordo per un cessate il fuoco a Gaza potrebbe richiedere ancora diversi giorni. Le fonti indicano che qualsiasi possibile intesa che combinasse un temporaneo cessate il fuoco con il rilascio degli ostaggi a Gaza «sarebbe seguita da negoziati approfonditi sui dettagli dell'accordo». Mentre la delegazione di Hamas si trovava al Cairo per gli incontri con i mediatori, il direttore del Mossad David Barnea è rimasto in Israele, segnale che mostra come le parti siano lontane dall'intesa, mentre Axios scrive che gli States la settimana scorsa hanno sospeso la consegna di munizioni a Israele. È una mossa che preoccupa Tel Aviv.
  Poco prima di consegnare la risposta ai mediatori su Telegram, il capo di Hamas lsmail Haniyeh ha scritto: «Hamas vuole raggiungere un accordo globale che ponga fine all'aggressione, garantisca il ritiro dell'Idf e raggiunga una seria intesa sullo scambio di prigionieri. Che senso ha un accordo se il cessate il fuoco non è il suo primo risultato? Abbiamo mostrato flessibilità ma il punto di partenza è la fine della guerra». Immediata la risposta di Netanyahu: «E’ Hamas che impedisce un accordo per il rilascio degli ostaggi, Israele era ed è tuttora pronto a concludere una tregua nella lotta per liberare i nostri rapiti, ma Hamas è trincerato nelle sue posizioni estreme, prima fra tutte la richiesta di ritirare tutte le nostre forze da Gaza. Pertanto, Israele non accetterà le richieste di Hamas».
  Ieri 10 razzi e colpi di mortaio hanno colpito il valico di Kerem Shalom, al confine fra Israele e Striscia di Gaza. Hamas ha rivendicato l'attacco, dichiarando di aver preso di mira una base militare e affermando che ci sono vittime israeliane. Secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz, almeno 10 persone sono rimaste ferite e sono state trasportate in ospedale. A seguito dell'attacco, il valico, che è utilizzato per la distribuzione di aiuti umanitari, è stato chiuso.
  Sempre nella giornata di ieri le forze israeliane hanno confermato che sono stati lanciati circa 65 razzi dal Libano alcuni dei quali, secondo il Times of Israel, sono stati intercettati. Infine, il governo israeliano ha votato all'unanimità per chiudere tutte le attività del network qatariota Al Jazeera e il segnale via cavo dell'emittente è stato spento. L'ufficio del ministro israeliano delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, ha più volte affermato di avere prove che i giornalisti di Al-Jazeera «stavano passando informazioni sensibili al nemico», ad esempio sulle posizioni di truppe israeliane. Poi, nel febbraio scorso, l'esercito israeliano ha anche pubblicato prove che dimostrano che i corrispondenti di Al-Jazeera Muhammed Wishah e lsmail Abu Omar erano comandanti militari di Hamas e Abu Omar si è addirittura filmato mentre partecipava agli attacchi del 7 ottobre.

(La Verità, 6 maggio 2024)

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Razzi da Rafah: tre vittime. Biden ferma carico di armi

Israele chiude il valico di Kerem Shalom dopo un attacco: soldati morti. E gli Usa sospendono gli aiuti

di Matteo Sacchi

Mentre la diplomazia internazionale prosegue faticosamente il suo lavoro sul terreno gli scontri e le provocazioni non si fermano, anche se nella giornata di ieri sono stati relativamente a bassa intensità. Israele ha nuovamente chiuso il varco di Kerem Shalom, che divide la Striscia di Gaza e il territorio israeliano, dopo che alcuni razzi sono stati lanciati proprio nella direzione del varco dalla città di Rafah.
  Secondo i cronisti del Jerusalem Post almeno tre soldati sono morti e undici sono rimasti feriti nell'attacco a un campo militare vicino al valico, utilizzato da migliaia di camion per consegnare aiuti umanitari a Gaza. Il varco si trova vicino al confine tra Egitto e Israele, a pochi chilometri da quello di Rafah, ed è stato chiuso per varie settimane tra ottobre e dicembre prima di essere riaperto. Hamas ha immediatamente rivendicato l'attacco come a marcare il fatto di disporre ancora di un potenziale missilistico, anche se enormemente ridotto dal lungo martellamento di Tsahal.
  Israele non ha ancora compiuto alcuna ritorsione su vasta scala. In risposta, le forze dell'Idf hanno effettuato solo attacchi mirati verso Rafah, colpendo i lanciatori e un edificio adiacente utilizzato da Hamas. Nel frattempo più di un milione di civili palestinesi stanno continuando a rifugiarsi nella città più meridionale della Striscia di Gaza, considerata dai militari israeliani l'ultima grande roccaforte del gruppo terroristico Hamas. Anche solo la chiusura del varco, che si trova nel sud-est del territorio, provocata dall'attacco di Hamas potrebbe avere conseguenze umanitarie in breve tempo. Era uno dei pochi punti da cui era possibile far entrare dentro alla Striscia.
  Lanci di razzi e di droni si sono registrati anche dal confine con il libano. Hezbollah, secondo fonti militari israeliane, avrebbe lasciato più di sessanta ordigni. In questo caso però non sono state registrate vittime né tra i civili né tra i militari. Quella del gruppo paramilitare sarebbe stata una risposta all'attacco che nella notte di sabato l'aviazione israeliana ha portato su obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano, tra cui una struttura militare vicino a Khiam e un posto di osservazione vicino a Matmoura. Intanto è trapelata la notizia che, la scorsa settimana, l'amministrazione Biden ha bloccato una spedizione a Israele di munizioni fabbricate negli Usa. Lo riporta Axios, che cita funzionari israeliani, sottolineando come sia la prima volta, dall'attacco del 7 ottobre in Israele, che gli Stati Uniti fermano una fornitura di armi per i militari israeliani.
  E oggi, a poche ore dall'ennesima fumata nera sulla tregua con Hamas, è atteso a Tel Aviv il direttore della Cia, Bill Burns, dopo le sue visite in Egitto e Qatar.

(il Giornale, 6 maggio 2024)

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Botte e minacce online. In Italia raddoppiano i crimini contro gli ebrei

di Fausto Carioti

Pietre d'inciampo bruciate. Fra profanazioni, minacce e percosse, in Italia è raddoppiato il numero dei crimini antisemiti
  C’è stato un tempo in cui i nemici degli ebrei erano tutti di estrema destra e la sinistra comunista difendeva la causa sionista. Tanto che quello dell’Urss, nel maggio del 1948, fu il primo governo a riconoscere de jure l’esistenza dello Stato d’Israele. Tre quarti di secolo dopo le cose sono molto diverse, come spiega il Rapporto 2023 sull’Antisemitismo nel mondo pubblicato ieri dalla Università di Tel Aviv e dalla Anti-Defamation League. Dopo l’inizio della guerra a Gaza si è scatenata «la peggiore ondata di incidenti antisemiti dall’epoca della Seconda guerra mondiale» e l’odio per Israele e gli ebrei è cresciuto ulteriormente in Europa e nel resto d’Occidente, dove da tempo aveva smesso di essere monopolio dei neonazisti.
  «Una delle sfide più significative poste dall’antisemitismo contemporaneo», si legge nello studio, «è la sua espressione sia da parte dell’estrema destra che da parte dell’estrema sinistra, e che entrambe queste espressioni hanno invaso il pensiero mainstream».
  Il fenomeno risulta «particolarmente evidente negli Stati Uniti», come dimostrano le cronache dagli atenei. Nel 2023, all’interno degli Usa, ci sono stati 7.523 atti di antisemitismo (più del doppio rispetto al 2022), il dato peggiore dal 1979, anno in cui si è iniziato a tenere la conta.
  Ma da questo lato dell’Atlantico non è andata meglio. In Italia, dove si contano circa 27mila ebrei, l’Osservatorio sull’antisemitismo ha registrato lo scorso anno 454 episodi (contro i 241 del 2022): 259 avvenuti online e 195 nel “mondo reale”. Nessun atto di violenza estrema o letale, che nel nostro Paese (a differenza che in Francia e altrove) è cosa rara. C’è stata comunque un’aggressione fisica, nel dicembre 2023, ai danni di un giovane studente ebreo preso di mira da un compagno di classe che gridava «Palestina libera» e «Viva la Palestina» e ha spinto altri a picchiarlo e minacciarlo. In aumento anche le scritte antisemite e gli atti di vandalismo contro le proprietà degli ebrei in Italia.
  L’impennata è avvenuta tra ottobre e dicembre, quando nel nostro Paese si sono registrati 216 episodi di violenza (nel mondo reale o in quello virtuale) rispetto ai 67 dello stesso periodo del 2022. Ma già nei primi nove mesi del 2023 c’era stato un aumento: 238 episodi in confronto ai 174 del 2022. E questo non è avvenuto solo in Italia: prima del 7 ottobre gli atti di antisemitismo erano aumentati anche negli Stati Uniti, in Francia e nel Regno Unito.
  Il professor Uriya Shavit, che dirige il Centro per lo studio della gioventù ebraica europea contemporanea, evoca spettri del passato: «L’anno non è il 1938 e neanche il 1933. Tuttavia, se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre in Occidente una vita da ebrei: indossare una Stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i bambini alle scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nei campus delle università o parlare ebraico». Situazione che ha già spinto 40mila ebrei francesi, dal 2010 a oggi, a fare Aliyah, ritorno in Israele.
  E stavolta la sinistra non può certo dirsi innocente. Una parte importante del rapporto è dedicata ai «fallimenti» nelle università statunitensi, dove comandano le élite liberal. Il documento spiega che i programmi per promuovere «diversità, equità ed inclusione», nei quali sono stati investiti tanti soldi e tanta retorica, «possono aver iniziato a identificare l’antisemitismo tradizionale di destra come una minaccia per le comunità ebraiche (...), ma si sono dimostrati largamente incapaci, prima e dopo il 7 ottobre, di identificare e scoraggiare l’antisemitismo di estrema sinistra, minimizzando o ridimensionando le sue manifestazioni».
  In Norvegia è stato chiesto agli ebrei che hanno avuto «incidenti» dopo il 7 ottobre chi fosse stato il responsabile dell’episodio più grave.
  «La risposta più comune», ricorda il rapporto diffuso ieri, «è stata “qualcuno con un background musulmano” (63%), seguita da “qualcuno con una visione di sinistra” (48%). Solo il 5% ha indicato che l’aggressore era “qualcuno con una visione di destra”». E questa «distribuzione dei colori ideologici e religiosi dell’antisemitismo attuale», prosegue lo studio, è probabilmente valida anche per la Svezia e la Danimarca ed «è stata riscontrata pure nei principali sondaggi sugli ebrei in Europa condotti nel 2012 e nel 2018 dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali». L’antisemitismo è risorto e fa davvero paura, ma stavolta le sue tinte dominanti sono il verde dell’islam e il rosso della sinistra.

Libero, 6 maggio 2024)

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Daniele Nahum: abbiamo sottovalutato l’antisemitismo di sinistra

di Ester Moscati

Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano, impegnato in politica fin da giovanissimo, prima con i Radicali di Marco Pannella poi nel Partito Democratico, è oggi approdato all’area Riformista.

- Che cosa significa essere militante nell’area della sinistra e trovarsi in questo clima pesantemente anti-israeliano, antisionista e spesso antisemita, nelle piazze e nell’università?
  Secondo me abbiamo sottovalutato il tema dell’antisemitismo a sinistra. Quello di destra c’è e va combattuto, ma in confronto è quasi folcloristico e numericamente contenuto. L’antisemitismo di sinistra è invece più pervasivo, influente, diffuso. Ha sdoganato il termine “genocidio” riferito alla guerra a Gaza e ha dato nuova forza all’odio contro gli ebrei. La vulgata delle “vittime trasformate in carnefici” nasce nella sinistra, così come la parola “sionismo” usata come un insulto. Sono sicuro al 1000 per cento che tutto ciò che si scrive sui muri delle nostre città contro gli ebrei e Israele viene oggi dalla sinistra radicale. Essere un ebreo di sinistra è quindi difficile, una battaglia continua. Sono uscito dal PD in polemica con il fatto che la dirigenza ha scelto di non intervenire in modo drastico per fermare questa deriva e perché i giovani del Partito hanno sposato la causa palestinese in modo non obiettivo, ma settario e antisionista, come dimostrano gli incontri che hanno organizzato a Milano (uno di questi, “Colonialismo & Apartheid in Palestina. Una lunga storia di occupazione illegale e Resistenza” è stato poi annullato proprio per le polemiche, ndr). Temo quindi che nel futuro prevarrà nel partito un’area massimalista. Io nasco come Radicale, poi sono stato 12 anni nel PD, ma ora spero di dare il mio contributo alla crescita dell’area riformista che si riconosce nei valori dell’Atlantismo, dell’Occidente e del sostegno a Israele.

- Nel tuo impegno anche come Unione giovani ebrei italiani hai intessuto anni fa delle relazioni con i giovani musulmani. Queste relazioni sono proseguite nel tempo? Al di là della COREIS, con cui la comunità ha rapporti costanti e molto amichevoli, ci sono delle aree dove tu vedi la possibilità di una interlocuzione, di un dibattito civile e di un desiderio di comprendersi?
  Oggi non vedo spazi di dialogo con i giovani islamici, al di là di quelli che si riconoscono nella COREIS. In genere, i giovani palestinesi in particolare che sono dietro alle manifestazioni di questi mesi, vogliono la “Palestina libera dal fiume al mare”, quindi la cancellazione di Israele. Non c’è dialogo possibile in questo momento. Purtroppo.

(Bet Magazine Mosaico, 6 maggio 2024)

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Guerra Israele-Hamas, studente contestato alla Statale: “Situazione in peggioramento”

Il 23enne aveva detto di non essere d’accordo col boicottaggio degli accordi con gli atenei dello Stato ebraico

Pietro Balzano, 23 anni, iscritto al corso di Scienze Politiche Internazionali della Statale di Milano, era stato contestato, durante un incontro tra Rettore e collettivi studenteschi, per aver detto di non essere d’accordo col boicottaggio degli accordi con gli atenei israeliani. “Il clima non è bello soprattutto se consideriamo che accade nelle università dove la conoscenza e la democrazia dovrebbero essere i concetti di base. Ed è proprio nelle università che tutto ciò sta venendo meno. Si è partiti contestandomi in un evento in teoria neutro e poi si è arrivati a minacciare i relatori di un evento pro Israele. La situazione sta peggiorando”, ha affermato lo studente a margine del presidio contro l’antisemitismo, organizzato in piazzale Cordusio a Milano. “Si passa da una contestazione dell’opinione contraria, in un evento che in teoria dovrebbe essere neutro, all’annullamento diretto perché minacciati i relatori. Quindi è una situazione che va aggravandosi e sta peggiorando”, ha aggiunto il ragazzo in merito alla cancellazione del convegno ‘L’unica democrazia del Medioriente. Israele fra storia e diritto internazionale’, in programma per il 7 maggio.

(LaPresse, 5 maggio 2024)

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Bisogna abbracciare gli ex-ortodossi, ma senza rinunciare alla religione

Abbassare l’asticella non conviene. Nello schieramento dei sionisti religiosi in Israele (quelli con la kippà a uncinetto) servono nuove strategie per affrontare nuove situazioni.

di Rav Chayim Navon

Gershom Scholem è stato lo stimato fondatore della moderna ricerca sulla Kabbalà. Quando studiavo all’Università Ebraica, scoprii che nel negozio di libri del campus veniva venduta un’edizione fotografata della “Copia personale dello Zohar del Prof. Scholem”, con le sue annotazioni, come se fosse un rebbe chassidico. Oltre al genio accademico, Scholem era noto anche per la sua profonda sensibilità storica. Già nel 1926 predisse ai pionieri atei in Israele il rinascimento della tradizione: “Dio non rimarrà muto nella lingua con la quale migliaia di volte lo hanno implorato di tornare nelle nostre vite”. In questo articolo mi concentrerò su un’altra sua profonda affermazione: secondo Scholem, l’ortodossia avrebbe un vantaggio educativo perché richiede ai giovani dei sacrifici.
  Negli ultimi anni, molti israeliani che hanno ricevuto un’educazione religiosa, che però si comportano al massimo in modo tradizionale, dichiarano apertamente di identificarsi ancora con il sionismo religioso. Ci siamo imbattuti in un aspetto tragico di questo fenomeno durante la ricorrenza di Simchàt Torà (il 7 ottobre del 2023 NdT), quando non poche delle vittime del massacro nel quale hanno perso la vita con uno straordinario eroismo, si sono rivelate come provenienti dal sionismo religioso, anche se non stavano celebrando la festa in modo molto ortodosso (Festival Nova NdT). Alcuni deducono da questo episodio che bisognerebbe riconsiderare la definizione di ortodossia del sionismo religioso, in maniera che possa contemplare anche una vita condotta senza un impegno totale alla Halakhà e alla fede. Penso che sia un errore totale. Se vogliamo rafforzare i fiori più belli sui rami più lontani dell’albero, non possiamo certo tagliarne le radici.
  Pensate ai Lubavitch. Chabad è, in certo senso, il movimento spirituale più influente nel popolo ebraico oggi, e i suoi membri operano in tre cerchi d’influenza. Nel cerchio più ampio, sono felici di accogliere chiunque accetti di ascoltare qualcosa da loro. Quando ci si avvicina ancora un po’, sono disposti a chiamare “Chabad” quasi chiunque sia disposto a mantenere un minimo di comportamento chassidico. Ma nel cerchio interno, le yeshivòt Chabad insistono con tenacia sulla profonda teologia e sui requisiti molto alti formulati dai precedenti Rebbe di Lubavitch. Questo nucleo duro e profondo non solo non danneggia l’influenza pubblica che hanno i Chabad, ma al contrario la facilita. Una collettività che desidera che molte persone si rifugino sotto le proprie ali, deve sviluppare ali enormi, non restringerle.
  Organizzazioni religiose in tutto il mondo hanno imparato questa verità. Negli anni ’60 la Chiesa Cattolica decise di aggiornare i propri riti. Ha rimosso l’antico latino dalle preghiere; ha abolito il divieto di mangiare carne il venerdì e ha reso più accomodante la confessione. Il risultato è stato un esodo in massa dalla Chiesa Cattolica, sia di sacerdoti e sia di semplici credenti. Nel 1963, 167 sacerdoti hanno lasciato la Chiesa, ma nel 1970 erano già 3.800 a farlo. Prima di queste decisioni, il 75% dei cattolici americani partecipava regolarmente alle funzioni in chiesa; dopo, la percentuale di fedeli era scesa al 45%.
  Le persone possono identificarsi con un movimento religioso che pretende molto, anche se faticano a rispettarne tutte le richieste. Ancora di più: si può mantenere una condotta religiosa incerta e parziale, solo ai margini di una realtà religiosa più rigorosa. Quando un ex-ortodosso arriva in sinagoga solo per dire il Kaddish per il padre scomparso, può contare sulle almeno dieci persone nel suo quartiere, che frequentano la sinagoga per tre volte al giorno, tutti i giorni. La donna debolmente osservante, che ci tiene all’immersione nel mikvè (bagno rituale NdT) , può contare sulla volontaria nella sua città che è di turno di shabbàt in quel mikvè. Chi propone di abbassare l’asticella dei nostri requisiti religiosi non sembra avere una profonda comprensione della natura umana e del carattere della comunità religiosa.
  Dalla parte opposta, a volte sento da educatori e rabbini una risposta che trovo altrettanto sbagliata. Quando tradizionalisti ed ex-ortodossi confondono i confini della società sionista religiosa, c’è chi chiede in risposta di definire meglio questi confini e trasformarli in mura che servano a chiarire chi è dentro e chi è fuori.  Mentre i facilitanti ideologizzati che ho citato in precedenza si avvicinano agli ebrei conservativi (una corrente ebraica non ortodossa NdT), questi rigoristi imitano gli ebrei di tradizione lituana. Anche questa è a mio avviso una posizione sbagliata. Chi è sicuro di sé non si sforza di circondarsi solo di persone simili a lui. Dal canto mio cerco di educare i miei studenti alla fede profonda e al pieno rispetto della Halakhà, ma non ho alcun interesse a escludere coloro che non soddisfano questo standard.
  A paragone con il resto del mondo, la percentuale di coloro che provengono dal sistema educativo religioso e che continuano a osservare i precetti è molto elevata. E se anche coloro che non si considerano completamente religiosi desiderano far parte di questa società – per me è un guadagno netto.
  La chiave per il successo educativo e la prosperità di una comunità sono un alto standard di requisiti, unito alla tolleranza verso coloro che non riescono a soddisfarli. Se non poniamo requisiti, non saremmo una corrente religiosa, ma un club fallimentare. Se non manifestiamo tolleranza, non saremmo una comunità vitale che irradia forza, ma solo una setta fanatica e rabbiosa. Dobbiamo saper distinguere tra sionismo religioso e sionista religioso. Cos’è il sionismo religioso? Su questo potrei scrivere un trattato. Chi è un sionista religioso? Chiunque lo desideri.

(Makor Rishon 3.5.2024)

GLOSSARIO:
Sionisti religiosi” (a volte chiamati in Italia “nazional-religiosi”) corrispondono nel mondo ebraico anglosassone ai “modern orthodox”, partecipano alla società civile e fanno il servizio militare, sono ormai divisi in correnti più o meno liberali.
Ex-ortodossi” è la traduzione del neologismo in sigla “Datlash-Datì lesheavàr”, sono gli ebrei che hanno abbandonato l’impegno all’osservanza totale dei precetti.
Debolmente osservanti” è la traduzione del neologismo ebraico-inglese “Datì Light”-Religioso leggero”, e sono più osservanti comunque dei semplici tradizionalisti.

(Morashà, 5 maggio 2024 - trad. David Piazza)

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Israele e il Messia – percorsi paralleli (3)

La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia.

di Gabriele Monacis

Il Nuovo Testamento inizia con queste parole:

    Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo (Matteo 1:1).

L’italiano traduce con il termine “genealogia” l’espressione che in greco significa letteralmente “libro (o rotolo) delle origini”. Anche nelle genealogie della Genesi si trova questa stessa espressione, ovviamente in ebraico: סֵפֶר תֹּלְדוֹת – sefer toldot (vedi Genesi 2:4 e 5:1).
  Come già visto, una genealogia si trova all’inizio delle Cronache, l’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in ebraico. La genealogia non è altro che una storia in estrema sintesi, in cui ogni nome è legato al precedente e al successivo da una qualche relazione, come lo sono gli eventi storici. Un anello dopo l’altro, in ordine cronologico, a formare una catena storica, fatta di nomi che al loro interno contengono storie di vita, quindi di eventi storici più o meno noti.
  Proprio questo “libro delle origini” diventa l’elemento che riprende la storia di Israele dell’Antico Testamento e la continua nel Nuovo Testamento, con la genealogia di Gesù Cristo. Questo incastro tra le due parti che costituiscono la Bibbia vede nel ritorno dall’esilio a Babilonia il preludio per un nuovo ristabilimento del popolo di Israele. Non solo nella sua terra, come avvenuto dopo il ritorno dall’esilio, ma anche con la sua storia.
  Ad una prima lettura, senza voler addentrarsi nei dettagli che riguardano i singoli nomi, le genealogie nel libro delle Cronache e nel vangelo di Matteo differiscono in due aspetti principali. Il primo riguarda il primo nome della lista. Nella genealogia delle Cronache è Adamo, in quella di Matteo è Abraamo. Anche Davide costituisce un caposaldo, il secondo dopo Abraamo. Gesù Cristo, nella genealogia di Matteo, è dunque figlio di Davide e figlio di Abraamo, coloro ai quali Dio promise qualche cosa che non avrebbero visto loro, ma i loro discendenti. Gesù Cristo, in questo senso, è il figlio della promessa di Dio.
  La seconda differenza riguarda i nomi femminili. Delle quattro donne dell’Antico Testamento menzionate nella genealogia di Matteo – Tamar, Raab, Rut e Bat Sheba - solo Tamar è menzionata anche nella genealogia delle Cronache. Le altre no. Oltretutto, era consuetudine che solo i nomi dei padri venissero riportati nelle genealogie, non quelli delle donne. Evidentemente, inserire il nome di queste quattro donne, e anche quello di Maria, la madre di Gesù, è frutto di una precisa volontà di chi ha redatto questa genealogia. Per quale motivo?
  Come visto in precedenza, i figli di queste cinque donne – le quattro dell’Antico Testamento più Maria – sono nati da unioni non convenzionali, per un motivo o per un altro. Ma non in tutti i casi l’unione è avvenuta per un peccato di tipo sessuale commesso dall’uomo e dalla donna.
  Nel caso di Tamar e Giuda e di Bat Sheba e il re Davide sì. La Scrittura dice esplicitamente che queste due coppie si unirono al di fuori del loro contesto matrimoniale, e quindi contro la legge morale. Tamar si travestì da prostituta per poter unirsi a suo suocero Giuda e avere dei figli da lui; nel caso di Davide e Bat Sheba, Dio stesso condannò la loro unione e il figlio che ne nacque morì in tenera età. Anche Raab, la prostituta di Gerico, ha senz’altro vissuto una vita non conforme alla legge morale comunemente riconosciuta, almeno fino a quando abitava a Gerico, e quindi prima di entrare a far parte del popolo di Israele.
  Nulla di questo tipo, però, si può dire di Rut, che sposò Boaz quando era vedova di uno dei figli di Naomi e gli partorì un figlio, di nome Obed. Né tanto meno si può dire di Maria, la madre di Gesù, che rimase incinta mentre era vergine per volontà dello Spirito Santo.
  Ma allora, se non è per un peccato commesso, che cosa hanno in comune queste cinque donne? Perché sono inserite intenzionalmente nella genealogia di Gesù Cristo in apertura del Nuovo Testamento? La risposta sta nel fatto che in tutte queste storie di donne e di unioni non convenzionali c’è un processo di riabilitazione delle persone coinvolte. Vediamo in quali termini.
  La figura di Giuda viene ristabilita all’interno della sua famiglia proprio dopo aver riconosciuto il proprio errore unendosi a Tamar. Di Tamar disse: “Lei è più giusta di me” (Genesi 38:26), riconoscendo così la propria responsabilità in quello che era successo. Nei capitoli successivi, lo si vede alla guida dei suoi fratelli quando questi si trovano in Egitto davanti a Giuseppe. Il loro padre Giacobbe, in punto di morte, ne riconosce la leadership e profetizza che il Messia sarà un suo discendente. La figura di Giuda è ristabilita, a partire dal suo pentimento, con un ruolo di primo piano, cosa che non aveva prima della storia con sua nuora Tamar.
  Raab, colei che aveva protetto le spie dei figli di Israele prima che Gerico venisse distrutta, viene risparmiata insieme con la sua famiglia. Non solo ne esce salva, ma viene integrata nel popolo di Israele, viene trapiantata da una città distrutta sotto il giudizio di Dio ad un popolo che vive sotto la benedizione di Dio. “Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico” (Giosuè 6:25).
  Rut era una moabita. Dopo la morte di suo marito in terra di Moab, vuole seguire sua suocera Naomi quando questa decide di tornare nella sua città, Betlemme. Ecco le parole di Rut a Naomi quando questa le chiedeva di rimanere a Moab: “Non insistere perché io ti lasci, e me ne vada lontano da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io e dove starai tu, starò pure io, il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rut 1:16). Non solo Rut si trasferì a Betlemme con Naomi, ma lì sposò Boaz e gli partorì un figlio, Obed, che sarebbe poi diventato il nonno del re Davide. Rut dà alla luce un discendente alla famiglia di Naomi, che era rimasta senza marito e senza figli e quindi era destinata a scomparire. Questa famiglia viene così ristabilita all’interno del popolo di Israele.
  Queste sono le parole che l’Eterno disse al re Davide attraverso il profeta Natan, dopo che il re aveva preso per sé Bat Sheba, la moglie di Uria: “Perché dunque hai disprezzato la parola dell'Eterno, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto morire con la spada Uria l'Ittita, hai preso per te sua moglie, e lo hai ucciso con la spada dei figli di Ammon.” (2 Samuele 12:9). La risposta di Davide fu breve ed essenziale: “Ho peccato contro l’Eterno”. L’Eterno perdonò Davide, che non morì. Morì invece il figlio che Bat Sheba aveva concepito e la casa di Davide attraversò un periodo molto difficile, in cui il re Davide dovette scappare per non essere ucciso dal proprio figlio Absalom, che voleva diventare re. Diventò re invece Salomone, il figlio che Bat Sheba aveva partorito a Davide in quegli anni turbolenti. A seguito del pentimento, Dio ristabilì Davide e impedì che perdesse il suo trono. Non solo. Proprio dalla donna con cui il re aveva peccato, nacque Salomone, colui che diventò re di Israele dopo Davide e che Dio stabilì saldamente nella sua casa.
  Le quattro donne dell’Antico Testamento, dunque, hanno tutte attraversato un processo di riabilitazione, di ristabilimento di una condizione che era compromessa in precedenza. Come un passaggio dalla morte alla vita, dalla maledizione alla benedizione.
  Si arriva così alla quinta donna della genealogia di Matteo: Maria, la madre di Gesù. Del suo passato prima che partorisse Gesù, si sa che era vergine e promessa sposa di Giuseppe. Ma essendo anche lei una delle donne inserite nella genealogia di Gesù Cristo, a quale processo di ristabilimento Maria ha preso parte? La risposta è nelle parole che un angelo del Signore rivolse a Giuseppe in sogno, quando questi si era proposto di lasciare Maria, che era rimasta incinta:

    “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. (Matteo 1:20,21).

Eccolo il ristabilimento di Israele, che invece di morire per i propri peccati, come poteva succedere al re Davide quando peccò con Bat Sheba, è salvato dai suoi peccati. E a salvarlo è Gesù Cristo, il figlio della promessa, che ristabilisce Israele nella sua posizione davanti a Dio.
  Il ritorno dall’esilio in Babilonia, l’evento con cui si conclude l’Antico Testamento nel libro delle Cronache e che costituisce uno dei tre capisaldi della genealogia di Gesù Cristo nel vangelo di Matteo, dopo quelli di Abraamo e Davide, diventa l’evento storico che anticipa la nuova fase della storia di Israele: come il popolo fu ristabilito nella sua terra dopo un periodo di esilio in Babilonia, così è ristabilito nella sua dimensione storica: è stato popolo fino alla nascita di Gesù Cristo e non smetterà di esserlo nel corso della storia. Cioè non morirà come popolo, perché è lui, dice l’angelo del Signore parlando di Gesù, che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  Il libro delle origini del Messia di Israele, la sintesi della storia della sua famiglia, partendo da Abraamo, passando per il re Davide e per il ritorno dall’esilio in Babilonia, diventa la catena storica che riprende la storia di Israele e la porta avanti, marcandone la direzione che questo seguirà. Come una retta che interpola dei punti, che in questo caso sono gli antenati e le antenate di Gesù Cristo.
  Ne viene fuori un ritratto storico fatto di peccati commessi seguiti da pentimenti e riabilitazioni, di momenti di disperazione seguiti da nuove e inaspettate ripartenze, di morti seguite da nuova vita. La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia. Perché è Gesù che salva il suo popolo dai loro peccati.

(3. continua)

(Notizie su Israele, 5 maggio 2024)



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Il primo errore e le sue fatali conseguenze

Dopo sei mesi di guerra, una guerra che come mai nessun’altra prima ha esposto Israele al vituperio generale, a una criminalizzazione senza fine, sembra giungere a destinazione l’accordo con Hamas, il peggiore accordo possibile, perché nonostante verrà detto in modo fraudolento che, se verrà effettivamente siglato, la guerra continuerà dopo la tregua, che Hamas verrà sconfitto, che si entrerà a Rafah, che il bene trionferà sul male e la luce sulle tenebre, con questo accordo Hamas ha vinto. Dura dirlo, è dura ammetterlo, ma come scrive Camus ne La Peste, l’evidenza ci si può sforzare di non vederla, ma “ha una forza terribile che finisce sempre per vincerla su tutto”. La forza terribile dell’evidenza sta in un accordo disastroso per Israele, che in vista della progressiva liberazione degli ostaggi, concede a Hamas, come abbiamo già scritto, tutto, ovvero gli concede il ritiro dell’IDF dalla Striscia, di fatto già in atto da dicembre e poi da aprile, e di potere restare al suo interno.
La dissonanza cognitiva, quella che nel Seicento faceva dire a numerosi seguaci del falso Messia Shabbatai Zevi, che si trattava veramente del Messia, nonostante la sua conversione all’Islam, farà dire a chi ne è affetto, che Israele vincerà. Lasciamo alle illusioni gli irriducibili della vittoria, noi de L’Informale, come sa chi ci segue, preferiamo concentrarci sulla realtà, anche quando non ci piace, soprattutto quando non ci piace, perché riteniamo sia un dovere farlo.
Questo accordo capestro che si appresta alla sua chiusura, lo hanno voluto gli Stati Uniti, ma senza l’avallo di Benjamin Netanyahu, che non ha mai pensato di vincere a Gaza, e del Gabinetto di guerra, non lo avrebbero ottenuto.
Scriviamo da mesi che Israele la guerra la stava perdendo, e non ci vantiamo di averlo fatto, né siamo soddisfatti di averci visto giusto, avremmo preferito prendere una cantonata.
A fine novembre, Daniel Pipes, nostro ospite abituale, ci disse che la guerra di Israele contro Hamas sarebbe stata un “mezzo fallimento”. Recentemente, alla luce degli ultimi sviluppi, ha dovuto incrementare il proprio pessimismo.
L’Amministrazione Biden e Hamas, alleati incongrui, possono brindare. Vedremo nelle prossime ore e giorni quale impatto avrà il suggello dell’accordo sulla tenuta del governo, dove sia Bezalel Smotrich che Itmar Ben Gvir hanno più volte messo in guardia Netanyahu dal siglare un accordo penalizzante per lo Stato ebraico.
Da un primo errore fatale altri ne discendono a cascata. Il primo errore è stato quello di legittimare una formazione jihadista sanguinaria in un interlocutore.

(L'informale, 4 maggio 2024)

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Netanyahu è il prossimo Milosevic?

Secondo i media israeliani, Benjamin Netanyahu teme più di ogni altra cosa i mandati di arresto della Corte penale internazionale dell'Aia contro la conduzione statuale e militare israeliana. E perché? E’ perché Netanyahu è odiato all'estero ed è altrettanto impopolare in patria. All'estero si protesta contro Israele e in Israele si protesta contro Netanyahu. Qualche giorno fa ho letto una piccola notizia del giornalista e commentatore israeliano Nadav Eyal, il quale diceva che una fonte a Washington gli aveva suggerito un'idea: "Trasformare Benjamin Netanyahu nel vostro Slobodan Milosevic". Avevo già sentito parlare di questa manovra politica settimane fa a Gerusalemme. Spero che nel popolo israeliano non ci sia un Giuda Iscariota che tradisce Benjamin Netanyahu. A.S.

di Aviel Schneider

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L’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic durante il suo processo all'Aia, 14 febbraio 2002

GERUSALEMME - Da ricordare: l'ex presidente della Serbia fu consegnato al Tribunale internazionale per i crimini di guerra dal governo serbo nel 2001. Milosevic fu accusato di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio durante le guerre in Croazia, Bosnia e Kosovo tra il 1991 e il 1999. Milosevic fu anche accusato di essere parzialmente responsabile del genocidio di circa 8.000 abitanti musulmani della città bosniaca orientale di Srbenica nel luglio 1995. È la stessa Corte penale internazionale dell'Aia che attualmente sta decidendo se emettere mandati di arresto per alti funzionari israeliani. La fonte americana non ha voluto farlo di persona, ma ha fatto capire agli israeliani che questa potrebbe essere una mossa politica per sbarazzarsi finalmente del capo di Stato israeliano Benjamin Netanyahu, da tempo in carica e controverso. È solo un'idea. Ma nelle ultime settimane ho sentito questa idea provenire da diverse parti della popolazione. Anche da amici della sinistra liberale sento dire che un tale tradimento non sarebbe un peccato, ma una benedizione per il futuro di Israele. "Per salvare il popolo da un dittatore come Bibi, anche il tradimento alla Corte penale internazionale non è un peccato", dicono i suoi oppositori. In realtà, questo non è necessario, ci sono abbastanza nazioni che vogliono perseguire Israele con tanto amore per la Corte penale internazionale, forse con l'aiuto e la collusione di colleghi israeliani che vogliono sbarazzarsi di Bibi.
Detto fra noi, sarebbe possibile ritenere Netanyahu responsabile di tutti gli errori di Israele nella guerra nella Striscia di Gaza e quindi mettere in moto il processo, sacrificare politicamente Netanyahu per assolvere il Paese di Israele dai suoi peccati nella Striscia di Gaza. Israele non viene forse condannato dai media di tutto il mondo anche per il genocidio, come è avvenuto in Serbia, per la qual cosa  Milosevic alla fine è stato crocifisso? Qual è la differenza tra Netanyahu e Milosevic? Per la maggior parte dell'opinione pubblica mondiale, il leader ebreo di Israele è ritenuto essere peggiore del presidente serbo Milosevic. Israele è ritenuto responsabile della morte di 33.000 palestinesi nella Striscia di Gaza, tra cui 14.000 bambini. I terroristi morti non sono considerati.
Sì, questo è il punto. A pochi mesi dall'orribile attacco del 7 ottobre, Israele è già sul banco degli imputati della Corte penale internazionale. Più di mille israeliani sono stati torturati, stuprati, uccisi e massacrati durante il Black Sabbath - eppure, contro ogni logica, è Israele e non Hamas ad avere problemi politici. Chiunque sia un criminale di guerra come Hamas,  probabilmente può essere risparmiato da un'incriminazione davanti a un tribunale internazionale per crimini di guerra, fin dall'inizio. Cosa c'è da accusare, sono tutti terroristi in ogni caso, sono tutti malvagi e non si sottomettono a nessun ordine mondiale o procedimento giudiziario. O in quale altro modo dobbiamo intendere tutto questo?
Milosevic si è dimesso da presidente della Jugoslavia nell'ottobre del 2000 a seguito di manifestazioni di massa, è stato poi arrestato nell'ambito delle sanzioni imposte alla Serbia ed estradato al Tribunale per crimini di guerra dell'ONU all'Aia. Questo è avvenuto un anno dopo su istigazione del primo ministro serbo e filosofo Zoran Dindic. Dindic era il suo avversario politico nel Paese e decise di estradare Milosevic alla Corte penale internazionale "per il bene del Paese". Non vi sembra che questo assomigli a Israele? Manifestazioni di massa e sanzioni?
Qui sto facendo delle ipotesi e ho l'impressione che Netanyahu conosca questo scenario dalla Serbia. Per questo motivo è molto pressato dal fatto che la Corte penale internazionale possa emettere simili mandati di arresto contro Israele. Chiunque ci sia dietro. Secondo diverse fonti dell'apparato di sicurezza, questo spiega perché Netanyahu ha permesso negli ultimi giorni l'ingresso nella Striscia di Gaza di un numero maggiore di aiuti rispetto al solito, cosa che in precedenza si era rifiutato di fare, su pressione dei suoi ministri religiosi di destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Netanyahu ha anche esortato i suoi ad aprire rapidamente il valico di frontiera settentrionale di Erez, chiuso dal 7 ottobre. "La stessa persona che all'inizio della guerra ci ha costantemente fatto pressione per bombardare i valichi di frontiera con Gaza e per dire che non c'è più un collegamento tra Israele e Gaza, ora sta spingendo per permettere l'ingresso di aiuti a Gaza", ci ha detto una fonte dell'esercito. Si pensa che portare aiuti e cibo possa contribuire a ritardare o impedire l'emissione di mandati di arresto.
Non solo, alcuni commentatori dei media ritengono che dietro i possibili mandati d'arresto contro Benjamin Netanyahu e i vertici militari israeliani ci sia Washington stessa, altrimenti il tribunale per crimini di guerra delle Nazioni Unite all'Aia non avrebbe avviato questo processo. Ciò non sarebbe accaduto senza l'approvazione americana. Questo dovrebbe servire a fare pressione sul governo israeliano per porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza. È strano che Washington non voglia che ci sia un'offensiva di terra israeliana a Rafah, anche se questa è tatticamente e strategicamente necessaria per schiacciare Hamas una volta per tutte. Questo è il desiderio silenzioso dei governi arabi della nostra regione. È abbastanza chiaro allora che Benjamin Netanyahu è diventato un peso eccessivo per Washington, ed è per questo che Washington vuole vedere un Israele senza Bibi. Se le pressioni americane dovessero impedire a Bibi di entrare a Rafah per una questione di ostaggi, Washington presume che il suo governo cadrà - perché la maggioranza vuole che la guerra finisca con la distruzione di Hamas. Non importa chi porterà a termine questa missione, la sua coalizione di governo, o il popolo o la Corte penale internazionale, l'importante è che Bibi sia politicamente fatto fuori. E’ questo lo stato d'animo che si vive all'ombra della guerra - e questo non è buono.

(Israel Heute, 4 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il bignami dei fan di Hamas: chi ha ispirato gli studenti che odiano Israele

Ecco i pensatori su cui si sono formati gli universitari che protestano contro lo stato ebraico e inneggiano ai "dannati della terra".

di Giulio Meotti

Fanon è la bibbia di una nuova teologia, il terzomondismo e un'apologia della violenza dei dominati come esorcismo liberatorio. Applicando Fanon alla Palestina, gli emuli dello psichiatra vedono il sionismo come il nuovo colonialismo bianco. "Ebrei, tornate in Polonia".
Per Said, il sionismo ha assimilato gli ebrei all'occidente e quindi hanno perso il loro semitismo , sono diventati "orientalisti" e quindi razzisti. Questa ideologia ha portato all'assunto che tutti i paesi poveri siano automaticamente buoni e tutti quelli ricchi intrinsecamente cattivi.

Uno dei grandi dibattiti americani alla fine degli anni Ottanta riguardava il corso di “cultura occidentale”. Jesse Jackson nel 1988 aveva guidato una protesta a Stanford con il famoso canto, “Hey, hey, ho, ho, Western Culture’s got to go” (“la cultura occidentale deve sloggiare”). Ancora nel 1970, dieci delle cinquanta principali università americane avevano un corso obbligatorio di “civiltà occidentale”, mentre trentuno lo offrivano come facoltativo. Oggi, secondo il rapporto “The Vanishing West”, nessuna università offre più simili corsi. La Columbia University offre invece un corso di “civiltà contemporanea”: anticolonialismo, sesso e gender, antirazzismo, climatologia, Frantz Fanon e Michel Foucault, Barbara Fields e il collettivo Combahee River, meditazioni sulla tratta transatlantica degli schiavi e su come il cambiamento climatico sia un “déjà vu coloniale”.
  Ross Douthat sul New York Times racconta su quali testi si formano gli studenti per Gaza (e per Hamas) che hanno gettato nel caos le università della Ivy League americana (ma anche i dipartimenti di scienze umane in Italia e Francia). “Per il mondo che si preparano a influenzare e guidare, leggono testi che sono davvero importanti solo per comprendere la prospettiva della sinistra contemporanea”, scrive Douthat. “Nelle letture del XX secolo del curriculum della Columbia, l’èra dei totalitarismi semplicemente svanisce, lasciando la decolonizzazione come l’unico grande dramma politico del recente passato. Non c’è Orwell, né Solzhenitsyn; vengono assegnati i saggi di Hannah Arendt sulla guerra del Vietnam e le proteste studentesche in America, ma non ‘Le origini del totalitarismo’ o ‘Eichmann a Gerusalemme’. Il conservatorismo di qualsiasi tipo è naturalmente vietato. Il cambiamento climatico incombe su tutto, ma ci si aspetta che l’attivismo per l’ambiente si fonda in qualche modo con l’azione anticoloniale e antirazzista. Israele diventa l’unico capro espiatorio per i peccati dei defunti imperi europei e dei regimi suprematisti bianchi. Uno degli organizzatori delle proteste della Columbia paragona esplicitamente i ‘sionisti’  ai proprietari di schiavi di Haiti”.
  La Columbia University, il cui nome dovrebbe evocare Cristoforo Colombo e il viaggio verso un nuovo mondo, ci invita oggi a esplorare uno strano universo in cui occidentali sessualmente e culturalmente confusi, che beneficiano di tutti i privilegi che una società democratica offre, abbracciano slogan e parole d’ordine di Hamas. Radicalizzare gli studenti occidentali è sempre stato un po’ come far inciampare i ciechi. Ma considerarli giovani ingenui che attraversano una fase di ribellione, come un nuovo Sessantotto, come vorrebbe l’ineffabile Alexander Stille su Repubblica, significa nascondere ciò che c’è di nuovo. La natura profondamente inquietante della rabbia dei privilegiati occidentali.
  Gli studenti per Hamas leggono “I dannati della terra” di Frantz Fanon, la bibbia  di una nuova teologia, il terzomondismo e la sua ridistribuzione manichea delle colpe, quelle dell’Europa che derivano dalla sua stessa natura, mentre i torti dei paesi del sud dipendono solo dalle circostanze. La teorizzazione della rivolta dei colonizzati, degli oppressi, si risolve in un’apologia della violenza insurrezionale come esorcismo liberatorio. Il dannato che assurge ad archetipo esistenziale. “The Rebel’s Clinic: The Revolutionary Lives of Frantz Fanon” di Adam Shatz (Farrar, Straus e Giroux) traccia i legami tra gli scritti di Fanon, l’abbraccio accademico della teoria anticolonialista e il sostegno alla violenza e al terrore da parte della sinistra universitaria. Shatz racconta come Fanon sia diventato un’icona della sinistra con “I dannati della terra”, pubblicato poco prima di morire di leucemia a trentasei anni nel 1961. Il libro di Fanon non è passato inosservato, ma tradotto e citato con devozione da movimenti radicali, tra cui le Pantere nere, la guerriglia latinoamericana, i rivoluzionari islamici dell’Iran e i terroristi palestinesi. Nato in Martinica nel 1925, Fanon combatté contro i nazisti nel 1944 come cittadino francese. Studiò medicina a Lione ed esercitò la psichiatria nella colonia  algerina. Vedeva un mondo manicheo diviso tra il bene e il male, senza alcuna possibilità di compromesso, comprensione reciproca o convivenza pacifica. Il colonizzatore è “l’elemento corrosivo che distrugge tutto ciò che gli si avvicina”. In queste condizioni, la violenza è una reazione naturale e logica ai colonialisti.
  La biografia di Shatz mostra che Fanon credeva veramente nel potenziale rigenerativo della violenza e nell’uccisione di massa degli europei come medicina benefica per i colonizzati. Nella sua famosa introduzione a “I dannati della terra”, Jean-Paul Sartre sostenne la necessità della violenza, dicendo: “Abbattere un europeo significa prendere due piccioni con una fava: restano un uomo morto e un uomo libero”. Applicando Fanon alla Palestina, gli emuli dello psichiatra vedono oggi il sionismo come il nuovo colonialismo bianco. “Jews have Poland”, dice Jill Stein alla Columbia. “Tornatevene in Polonia”, le fanno eco gli studenti. L’osservazione di Fanon secondo cui “il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore” sembra il programma del 7 ottobre. Nelle guerre coloniali, scrive Fanon, “il bene è semplicemente quello che a ‘loro’ fa del male”. “La decolonizzazione non è una metafora”, hanno intonato i fan occidentali del “Diluvio di Al Aqsa”.
  In un mondo diviso tra nazioni colonizzate e postcolonizzate, la violenza è accettabile e giustificata dopo che Fanon ha fornito, se non il suo permesso, una motivazione per la distruzione indiscriminata. In Canada, l’incendio di dozzine di chiese è stato riportato dai media come una reazione naturale alle voci (false) di fosse comuni di bambini della Prima Nazione nelle scuole residenziali.
  Gli studenti pro Gaza si abbeverano anche a Herbert Marcuse, che a Berkeley annunciò che viviamo in un regime di falsa tolleranza. “Marcuse è il progenitore del progressismo woke”, scrive Damon Linker su The Week. Della stessa opinione Joseph Epstein sul Wall Street Journal: “Il sogno di Marcuse si è avverato”. Il “mercato delle idee”, sentenziò Marcuse, è in mano a coloro che hanno interesse a perpetuare una politica repressiva, da qui il diritto naturale alla resistenza per le minoranze oppresse. Siamo in piena cancel culture, l’idea che la libertà di parola sia semplicemente una forma di discriminazione. Non solo. In chiusura al suo bestseller del 1967 “L’uomo a una dimensione”, Marcuse immagina il “Grande Rifiuto” provenire da “coloro che formano la base della piramide sociale – gli outsider e i poveri, i disoccupati, le razze perseguitate, i detenuti delle carceri e degli istituti psichiatrici”. Oggi si chiama “intersezionalità”.
  Nel bignami dello studente pro Hamas c’è un altro nome: Paulo Freire, marxista brasiliano e  pedagogista scomparso nel 1997, che con la sua “Pedagogia degli oppressi”  ha permeato completamente le scuole di formazione degli insegnanti occidentali. Dal 2016, Freire è il terzo autore accademico più citato di tutti i tempi nel campo delle scienze sociali. E uno degli uomini più influenti di cui non abbiamo mai sentito parlare.
  L’obiettivo di Freire era quello di creare una “rivoluzione perpetua”  in tutta la società indottrinando i giovani  con il desiderio utopico di “trasformare il mondo”. Ciò doveva essere fatto abbandonando il vecchio modello di apprendimento in cui gli studenti venivano istruiti su fatti, cifre e date da una figura autoritaria adulta che stava in prima fila nella classe. La conoscenza è una sorta di capitale, accumulato dai ricchi e dai potenti, e deve quindi essere ridistribuito tra i poveri. In un’inversione del famoso motto di Francis Bacon “la conoscenza è potere”, la conoscenza è oppressione, dalle cui catene gli studenti devono essere liberati. Freire è uno dei padri dell’ideologia “decolonizzare il curriculum”, in cui vedeva l’alfabetizzazione stessa semplicemente come uno strumento in più di cui la classe dirigente erede degli europei aveva abusato per imporre un sistema alieno di capitalismo sui lavoratori nativi sfruttati dell’America Latina. L’educazione diventa così una sorta di antieducazione.
  A Newark, nel New Jersey, è stata aperta una “scuola superiore Paulo Freire”, dedicata a istruire i ragazzi sfortunati del posto attraverso i suoi metodi. I punteggi dei test dei bambini erano così bassi che anche le autorità locali hanno sentito il bisogno di intervenire e chiudere la struttura, citando la sua mancanza di “rigore didattico”.
  Poi ci sono gli scritti di Walter Rodney, l’intellettuale radicale della Guyana pubblicato dalla Columbia University Press, che sentenziava: “La violenza mirata al recupero della dignità umana e all’uguaglianza non può essere giudicata con lo stesso metro della violenza mirata al mantenimento della discriminazione e dell’oppressione”. Ecco il cuore del relativismo radicale della Ivy League che si salda alle idee di Kimberlé Crenshaw, che ha teorizzato l’“intersezionalità” nella svolta del postmodernismo, in cui il progressismo si rivolta contro sé stesso e lottare contro ogni “gerarchia binaria” è non solo legittimo, ma doveroso. Si passa da una richiesta di uguaglianza a una richiesta di gerarchia opposta, dove il “dominato” diventa il “dominante”.
  E alla Columbia insegnava Edward Said, l’altro nome nel pantheon degli studenti filo Hamas. Said era la quintessenza dell’intellettuale occidentale e, al tempo stesso, l’esponente più prestigioso del “fronte del rifiuto” palestinese. E’ l’autore di “Orientalismo”. Celebre fu la foto in cui si fece ritrarre, nel Libano meridionale, a lanciare sassi ai soldati israeliani che si ritiravano.
  Nacque in una casa di ricchi commercianti, anche se fu tutta la vita un corsaro dei sofferenti. Nacque da un padre palestinese cristiano con passaporto americano e da una madre palestinese fiera della sua cultura anglicana. Fu battezzato con il nome inglese di Edward, i genitori erano fieri di quel nome vittoriano. Crebbe tra due mondi in conflitto, consapevole di appartenere a entrambi e a nessuno. Poco dopo la nascita di Israele, Edward fu mandato a perfezionare la sua istruzione negli Stati Uniti. La sua peggiore eredità, oggi dominante nei campus americani, fu un sillogismo che lo rese celebre in tutto il mondo: l’“orientalismo”, il razzismo occidentale nei confronti dell’oriente arabo, è antisemitismo perché gli arabi sono semiti; il sionismo ha assimilato gli ebrei all’occidente e quindi hanno perso il loro semitismo, sono divenuti “orientalisti”, cioè antisemiti; i palestinesi sono i nuovi ebrei e gli ebrei di oggi sono i nuovi nazisti.
  In questa nuova cosmologia accademica, Hamas è la punta della liberazione collettiva contro l’occidente, il nord del mondo, i “colonizzatori”. E’ un mondo magico in cui tutta la politica e gli affari mondiali, visti attraverso il prisma woke, sono appiattiti in una visione neo gnostica. Quello che sta uscendo dalle nostre università è un’estensione del disgusto per la civiltà che è stato inculcato ai giovani in molti anni. Tutto ciò che resta loro è il richiamo della barbarie, la convinzione demenziale che la ferocia sia lodevole se il suo obiettivo è colpire “l’occidente”.
  Questa ideologia ha portato all’assunto che tutti i paesi poveri siano automaticamente buoni e tutti quelli ricchi intrinsecamente cattivi. Europa e America sono super oppressori. La Cina è trattata con indifferenza o indulgenza. Il regime iraniano è visto come un alleato, poiché si oppone al “Grande Satana”. Hamas è, per definizione, una “vittima”. Israele, una democrazia multireligiosa, è l’oppressore.
  “La vita può sorgere solo dal cadavere in decomposizione del colono” scrisse Fanon. In occidente c’è stata un’ondata di giubilo alla vista di mille cadaveri israeliani.

Il Foglio, 4 maggio 2024)

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Le università in fiamme

di Kishore Bombaci

In questi giorni, le immagini della polizia che entra nella Columbia University per sgombrare la Facoltà americana dagli occupanti pro- Palestina consente di fare un focus allarmante sullo stato delle università americane e – per estensione – su quelle europee e italiane.
Un’ondata di antisemitisimo sta investendo il mondo accademico dopo l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele il 7 Ottobre e la paradossale reazione di molti studenti è quella di una marcata difesa a oltranza della Palestina e dei palestinesi, anche quelli violenti, anche quelli terroristi .

Sotto attacco dunque finisce Israele, non la politica israeliana
Proprio l’esistenza stessa dello Stato di Israele.
Quello che colpisce, infatti, è che negli studenti progressisti americani non v’è una critica politica alle scelte di Netanyahu. Non vi è quella capacità di analisi che si poteva riscontrare nel movimento di contestazione studentesca dei decenni passati che, sebbene ingenua sul piano politico, poteva diventare elemento di riflessione anche per la classe dirigente.
No. in questo caso, si inneggia alla distruzione di Israele attraverso slogan agghiaccianti e false accuse, che ripropongono orgogliosamente la propaganda terrorista e che tuttavia trovano ampia eco nelle istituzioni persino internazionali.
Per questa minoranza rumorosa e pericolosa di studenti, Hamas cessa di essere una organizzazione terroristica per diventare una congrega di “resistenti antifascisti”. Israele da vittima diventa aggressore nazista (sic!) in un rovesciamento della storia e delle tradizionali categorie che mette i brividi perché si diffonde a macchia d’olio incurante della verità.

I campus americani inneggiano all’intifada, al grido di “Palestina libera”
Alcune organizzazioni studentesche italiane propalestinesi hanno seguito l’esempio malsano, e programmano a loro volta l’intifada universitaria per il prossimo 15 Maggio. Un delirio che va avanti oramai da tempo e che costituisce un pericolo per la democrazia oltre che per la libertà e l’incolumità degli ebrei, soprattutto per gli studenti. Divulgare via social quanto ebbe a dire Osama Bin Laden agli americani, nel 2002 per rivendicare la strage dell’11 settembre, invocando la morte per americani ed ebrei sono segnali di qualcosa che non ha alcuna valenza politica ma che diventa puro e semplice antisemitismo.

Un antisemitismo antropologico che non ha alcuna ragione politica
Ma è semplicemente fondato sull’odio per l’ebreo.
La foglia di fico della distinzione – invero, inesistente – fra antisemitismo e antisionismo, non regge più. Ne sono persino orgogliosi gli stessi manifestanti.
Perché, dunque, si sta verificando tutto questo?
Sarebbe sciocco e ingenuo pensare a un semplice moto di contestazione anti-Netanyahu o, peggio ancora, a una rivolta pacifista analoga a quella che si sviluppò durante la guerra in Vietnam e persino durante le guerre in Iraq. Siamo innanzi a qualcosa di ben diverso e pericoloso, che investe la società americana e la stessa civiltà occidentale nel suo complesso.
Intanto – come fa notare Cominelli – una composizione demografica che si va delineando in modo radicalmente difforme da quella consueta e conosciuta.
La crescita numerica di popolazione non europea sgancia la popolazione dalla tradizionale cornice valoriale che nel bene o nel male ha costruito l’America nei decenni. Dall’altro, la pervasiva narrazione Woke con il suo carico di razzismo anti-bianchi, accusati di essere colonizzatori, imperialisti e criminali.
Una negazione delle origini storiche, filosofiche, morali e valoriali, rende l’Occidente prigioniero di una contestazione delle sue stesse basi esistenziali e che va oltre il conflitto arabo-israeliano.

Ciò che viene contestato non è solo Israele, ma il modello che Israele rappresenta nel mondo: democrazia, stato di diritto, libertà. Questo è il nuovo nemico da abbattere perché non consono al canone politically correct della nuova sinistra progressista e antisemita.
Benché non si ricorra alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra, quanto più a un evidente negazione generazionale, non si può sottacere la matrice progressista delle proteste antisemite nelle università americane. Una sinistra estrema dunque che tiene sotto scacco persino il Presidente Biden, e ha agganci importanti persino in parlamento.

Alla Camera la mozione contro l’antisemitismo ha visto il voto contrario di 12 Democratici
Una sinistra americana dunque che vede crescere la propria componente estremista e che trova in Occasio Cortez e in Talib le sue amazzoni guerriere.
Ma proprio questa saldatura tra estremismo progressista americano e le violente manifestazioni antisemite degli studenti offrono anche lo spaccato di un modo diverso in cui viene concepita l’Università. Essa cessa di essere luogo di confronto democratico, e diventa teatro del “nichilismo senza abisso”, come affermava già dal lontano 1987 Allan Bloom.
Un mind-set in cui si rinuncia volentieri ai saperi fondamentali, a distinguere tra il vero e il falso, ai principi fondativi della democrazia dell’Occidente per inclinare verso un populismo accademico in cui la verità lascia il posto all’opinione che, in quanto tale, deve essere libera e rispettabile a prescindere (quale che ne sia il contenuto, persino se violento e razzista).
E’ una questione antica che trova oggi dei preoccupanti sviluppi che come detto riguardano non solo una banda più o meno numerosa di studenti ideologizzati, ma anche cariche politiche e universitarie senza distinzione.
Se si pensa che alcune rettrici di prestigiose università americane riconducono quanto sta accadendo negli atenei americani a mera espressione della libertà di manifestazione del pensiero sottovalutandone la carica violenta e antidemocratica, ci si può rendere conto di come questo relativismo sia destinato a generare mostri.
Se l’invocazione al genocidio del popolo ebraico cessa di essere una aberrazione per diventare un’opinione, e se tale opinione diventa la base per l’azione politica, si capisce che il danno è ormai fatto.

La democrazia è vulnerata e la libertà vilipesa e stuprata
Dipende dal contesto” è il nuovo mantra entro il quale tutto è lecito, anche l’antisemitismo. Insomma, esso non è un male assoluto, ma diventa una variabile ammissibile a seconda del contesto. Come qualcuno ha detto, “It depends from the context” è il nuovo “Arbeit macht frei”.
Ebbene di questo relativismo nichilista e autolesionista una parte di sinistra americana è indubbiamente colpevole, palesemente ottusa nel non vedere la contraddizione tra la difesa della nuova “religione dei diritti (LGBT, Body Shaming, razzismo, inclusione ecc.) e la violenza antisemita di cui si fa in qualche modo portavoce.
Assistiamo perciò al fallimento di un modello culturale, di una classe dirigente e di una classe intellettuale che proprio dalle università prende il via per contagiare tutto l’Occidente, riportando indietro le lancette della storia.
Ma, poiché, il fondamento dell’antisemitismo sulla teoria della razza, per costoro è troppo poco chic, meglio fondarlo sulle parole d’ordine tradizionali: antimperialismo, anticapitalismo, terzomondismo, e su quelle nuove: cancel culture e Wokismo.
Come afferma sempre Giovanni Cominelli “Tutte ragioni “di sinistra”! L’ignobile antisemitismo fondato su motivi “nobili”.

(AdHoc News, 4 maggio 2024)

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Il 47% degli elettori Usa a favore del divieto alle proteste filo-palestinesi nei campus universitari

Un nuovo sondaggio, riportato dal Forward, ha analizzato il dibattito sempre più acceso tra gli elettori statunitensi riguardo le proteste a sostegno della Palestina nelle università del Paese. Un dibattito divisivo che si è esteso anche in numerosi atenei europei e italiani.
Il sondaggio Usa rivela che il 47% degli intervistati ritiene che tali manifestazioni dovrebbero essere vietate, mentre solo il 30% è favorevole a consentirle. Questa tendenza è stata riscontrata anche nelle proteste a favore di Israele, con il 41% dei votanti che sarebbe per il loro divieto.
Inoltre, una schiacciante maggioranza del 76% degli elettori ha espresso il loro sostegno alle università che richiedono un intervento della polizia per proteggere i campus dall’escalation della violenza.
Il sondaggio, condotto dal 27 al 28 aprile dalla società tecnologica e di dati Morning Consult, ha coinvolto 1.986 elettori registrati in tutto il Paese, con un margine di errore stimato di circa più o meno 2 punti percentuali.
Le opinioni sugli aiuti umanitari ai palestinesi e sull’assistenza militare a Israele hanno evidenziato un divario significativo. Il 58% degli intervistati si è espresso a favore degli aiuti umanitari alla Palestina, rispetto al 47% che sostiene gli aiuti militari a Israele. Inoltre, la maggioranza schiacciante del 60% ha espresso il desiderio di vedere un cessate il fuoco.
Quando si tratta di condanne specifiche, il 46% degli intervistati sostiene le università che prendono posizione contro gli attacchi di Hamas contro Israele. Tuttavia, un terzo degli elettori ritiene che le università dovrebbero condannare la guerra di Israele a Gaza.
Le opinioni sull’appello degli attivisti studenteschi per il disinvestimento da Israele sono state variabili: meno della metà degli intervistati, pari al 39%, ha espresso sostegno a questa causa, mentre il 30% non ha espresso alcuna opinione in merito. Morning Consult ha rilevato che il sostegno al disinvestimento è risultato più forte tra i votanti provenienti da famiglie più abbienti e istruite, che tradizionalmente sono le principali fonti di donazioni per le università.
Questo sondaggio è stato condotto prima degli ultimi sviluppi, tra cui l’espulsione da parte del Dipartimento di Polizia di New York degli attivisti dalla Columbia University, lo smantellamento di un accampamento filo-palestinese a Los Angeles precedentemente attaccato da manifestanti filo-israeliani e l’arresto di persone al Dartmouth College. L’opinione pubblica, quindi, potrebbe essere influenzata da futuri eventi e sviluppi sul terreno.

(Bet Magazine Mosaico, 3 maggio 2024)

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Ecco perché è saltato il convegno “Pro Israele” alla Statale di Milano

Gli organizzatori: «Costretti ad annullare l'incontro. Non c'è più democrazia», ma non avevano avvisato il rettore Franzini.

di Francesca Del Vecchio

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Un convegno su Israele saltato per “alto rischio di contestazioni” ma che poteva essere svolto in modalità online, come proposto dal rettore dell’Università Statale di Milano Elio Franzini che avrebbe dovuto ospitarlo. Un cortocircuito o un difetto di comunicazione tra organizzatori e Ateneo, questo ancora non è chiaro. I fatti, però, dicono che il convegno dal titolo "L'unica democrazia del Medioriente. Israele fra storia e diritto internazionale" organizzato dalle associazioni “Pro Israele” e “Italia-Israele” programmato per il 7 maggio è stato annullato per timore di disordini e tafferugli, come già allertato dalla Questura di Milano nonostante i vertici dell’università avesse proposto una soluzione più sicura. «Volevamo proporre un'ora di dibattito civile, ma non c'è più democrazia. Abbiamo deciso di rinviare tutto per senso di responsabilità. Ma non siamo più disposti a tollerare», riflette la presidente dell'associazione “Italia-Israele” di Savona, Cristina Franco.
  «A differenza di altri - proseguono gli organizzatori - abbiamo rispetto dei poliziotti, delle strutture e delle autorità universitarie. La nostra non era propaganda, volevamo dare un contributo serio al dibattito su Israele. Ma a quanto pare non è possibile». Infine la precisazione: «Non è stata una mancanza di volontà da parte del rettore Elio Franzini, persona davvero eccezionale», ma il rischio di incidenti è stato giudicato «altissimo» da parte della Questura che per l'evento avrebbe dovuto schierare la celere in assetto antisommossa e allestire altre misure di contenimento. Anche con la possibile chiusura di aule e uffici dell'ateneo. Peccato che, una nota dell’ateneo di via Festa del Perdono precisa di non essere stata informata della decisione di annullare l’incontro se non, a cose fatte, da organi di stampa: «L’Associazione non si è premurata di informare della decisione il Rettore né, tantomeno, di rispondere alla proposta inoltrata ieri pomeriggio di svolgere il convegno on line e non, come inizialmente programmato, in presenza», puntualizza la nota diffusa dall’Ateneo. «La scelta di trasformare l’incontro in modalità online, non certo di annullarlo, è stata assunta dal Rettore Elio Franzini dopo attenta valutazione delle condizioni ambientali interne ed esterne all’Università, nell’intento di minimizzare i rischi per la sicurezza del pubblico e dei relatori, sentita anche la Digos. La consueta interlocuzione con la Digos ha fornito elementi utili alla valutazione generale anche se - lo si vuole ribadire con fermezza - la decisione di tenere il convegno on line è stata presa direttamente dal Rettore Elio Franzini. Tale decisione intendeva salvaguardare il diritto degli organizzatori al confronto pubblico, bilanciandolo con il dovere della tutela della sicurezza dell’ateneo e degli studenti che resta sempre la prima e imprescindibile responsabilità del Rettore», conclude la nota.
  Durante il convegno sarebbe stato anche proiettato il docufilm #NOVA sul massacro commesso dai terroristi di Hamas al Nova Festival lo scorso 7 ottobre oltre agli interventi di Hillel Neuer, direttore esecutivo UN Watch, Marco Cuzzi della Statale, Alessandra Veronese dell'Università di Pisa e la testimonianza di Alexandre Del Valle sulla Fratellanza Musulmana in Europa.

(La Stampa, 3 maggio 2024)

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Israele impigliato nel limbo del negoziato

Hamas vuole tenere lo stato ebraico bloccato nei colloqui per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Sa di avere ancora le forze per ricostituirsi militarmente e tornare a governare la Striscia, ma per farlo deve evitare che inizi l'operazione a Rafah.

di Micol Flammini

Come se il negoziato fosse una tela di ragno in grado di impigliare Israele e il suo esercito, i rifiuti di Hamas alle ultime proposte di accordo puntano a bloccare lo stato ebraico da ogni mossa futura e ad aumentare la tensione su una possibile operazione a Rafah, la città meridionale della Striscia di Gaza in cui sono rimasti quattro battaglioni di Hamas, intatti militarmente e ben armati, e anche parte della leadership del gruppo. Ogni “no” dei terroristi  è un passo di Israele verso Rafah, ogni “no” è un carro armato in movimento, ogni “no” disegna degli obiettivi da colpire su un territorio il cui sottosuolo è un reticolo di tunnel in cui potrebbe nascondersi anche Yahya Sinwar, colui che finora ha pronunciato personalmente ogni rifiuto ad accordarsi con lo stato ebraico. 
  Hamas vuole imprigionare Israele nel limbo di un non-accordo. Mentre l’attenzione internazionale è su Rafah e sulle conseguenze di un attacco contro la città in cui si sono rifugiati circa un milione e mezzo di palestinesi, il gruppo della Striscia è riuscito a oscurare il dramma degli oltre centotrenta israeliani tenuti in ostaggio da duecentonove giorni. L’ultima offerta negoziale era stata presentata dall’Egitto e accettata dagli israeliani che avevano acconsentito a un cessate il fuoco per il ritorno di trentatré ostaggi. Ieri Hamas ha detto che intende rifiutare l’offerta ma senza ritirarsi dal negoziato, ha dato una risposta ambigua promettendo di mandare una squadra di negoziatori al Cairo per parlare di una nuova prospettiva di accordo. Cerca di guadagnare il tempo necessario per aumentare la pressione internazionale su Israele e il timore americano che un’offensiva a Rafah potrebbe avere delle nefaste conseguenze elettorali sul presidente americano Joe Biden. Il segretario di stato Antony Blinken, di ritorno dal suo ultimo viaggio in medio oriente, non ha detto che gli Stati Uniti sono contrari a un’operazione a Rafah, ha sottolineato che non sostengono un’operazione fatta senza un piano di evacuazione per i civili. Sconfiggere Hamas a Rafah non è un piano avventato, gli Stati Uniti lo sanno, anche l’Egitto, che è proprio lì al confine ne è consapevole, e Hamas vuole fare di tutto per evitare che accada, perché proprio quella potrebbe essere la fine del movimento. Le richieste del gruppo della Striscia sono: un ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza e la fine della guerra. Queste due condizioni consentirebbero a Hamas di ricostituirsi, di tornare a governare la Striscia, di rafforzare il proprio potere militare e quindi di riorganizzarsi per nuovi attacchi contro Israele. Non sono soltanto gli israeliani a voler evitare il ritorno di Hamas nella Striscia, ma neppure gli Stati Uniti sono favorevoli. L’Arabia Saudita che si prepara a una lenta ma dirompente normalizzazione nei rapporti con Israele non è interessata alla sopravvivenza di una forza che governa la Striscia con l’intenzione di iniziare una nuova guerra e secondo Bloomberg in questi mesi ha censurato ogni commento sui social relativo al conflitto. La sopravvivenza di Hamas non è nell’interesse di nessuno, neppure nella costituzione di un futuro stato palestinese. Ismail Haniyeh, uno dei capi di Hamas che da anni vive in Qatar da dove amministra i propri affari e quelli del gruppo, ieri ha parlato con il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, e riguardo al negoziato  ha detto che lo spirito di Hamas è positivo. Non è il momento di chiudere la porta, ma di lasciare uno spiraglio per bloccare Israele. 
  Hamas è stato indebolito dalla guerra, ma non ancora eliminato, l’offensiva a Rafah potrebbe essere il passo che manca per togliere la potenza militare al gruppo e per questo i funzionari della Striscia sono intenzionati a ritardarla. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ogni giorno viene contestato e nei sondaggi appare come uno dei leader più indeboliti, ha detto che Israele farà di tutto per vincere. Gli israeliani faticano a pronunciare la parola “vittoria”, in pochi considerano tutto ciò che è accaduto dopo il 7 ottobre come una guerra in cui si vince, semmai si sopravvive, si mette in sicurezza lo stato.   

Il Foglio, 3 maggio 2024)

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Caro papà ti sbagli, Israele non è affatto un miracolo della Storia…

Tre generazioni a confronto: ma chi sono i giovani jewish Usa che in nome dei diritti umani scendono in piazza contro Israele? E perché lo fanno? Ecco come il 7 ottobre ha cambiato il sentiment degli ebrei americani su Israele. Un divorzio annunciato. Lo spiega il giurista e pensatore Noah Feldman.

di Ester Moscati

«Not in my name»: è uno slogan che le giovani generazioni ebraiche in Italia e in Europa hanno usato di recente per dissociarsi da alcune politiche del governo israeliano. Creando così malumori nella generazione dei loro genitori (e nonni) che per lo più tendono, almeno nei momenti più duri per Israele, a schierarsi con lo Stato ebraico “senza se e senza ma”. Molto più di una battaglia di slogan: siamo davanti a uno scontro generazionale, come non si vedeva dagli anni Settanta. È una metamorfosi ideologica nel quadro dell’identità ebraica, che rischia di modificare l’assetto dei rapporti tra Israele e Diaspora in un prossimo futuro. E se è vero che ciò che succede negli Stati Uniti è destinato ad approdare in Europa dopo pochi anni, che cosa accadrà in Italia, che cosa ne sarà del legame tra ebrei italiani e Israele nel futuro prossimo? La domanda è ineludibile e urgente, almeno da ciò che possiamo cogliere dalla lettura di un saggio di Noah Feldman, professore di diritto all’Università di Harvard, editorialista per Bloomberg Opinion e autore di Essere un ebreo oggi: una nuova guida a Dio, Israele e il popolo ebraico. Una parte ampia di questo saggio è stata pubblicata sul Washington Post, il 5 marzo 2024. Della riflessione di Feldman, è particolarmente interessante la parte che riguarda i giovani ebrei della Gen Zeta (la generazione dei trentenni), che si contrappone ai liberal, critici sì, ma ancora saldamente, nel momento del bisogno, dalla parte di Israele. Feldman analizza la situazione e le ragioni di una svolta che, forse, sarà definita “epocale” se, come si teme da più parti, finirà per togliere a Israele il sostegno incondizionato dell’ebraismo americano e, di conseguenza, la partnership privilegiata con gli USA.
  Il conflitto a Gaza, seguito alla strage del 7 ottobre perpetrata con inaudita ferocia da Hamas, ha messo gli ebrei di tutto il mondo nella condizione di affrontare l’impatto e il significato di Israele sulle loro vite e sui loro sentimenti più profondi. Ma paradossalmente, per i giovani ebrei americani, l’orrore del pogrom contro inermi civili israeliani non si è tradotto in solidarietà incondizionata ma ha rivelato la complessità del sentimento verso Israele, una “dissociazione morale” difficile da comprendere.

- Un doloroso conflitto generazionale
  Viene da chiedersi: abbiamo perso una generazione ebraica? Forse sì. “La comunità degli ebrei americani progressisti sta attraversando un doloroso conflitto generazionale: una lotta familiare venata di amore e dolore. Da un lato – scrive Feldman – ci sono persone che hanno più o meno la mia età: i leader del movimento della Gen X (la generazione dei cinquantenni), sia rabbini sia laici. Dall’altra parte del conflitto ci sono i ragazzi, le cui opinioni su Israele sono spesso molto diverse. Alcuni ventenni-trentenni progressisti della Generazione Zeta partecipano ad organizzazioni universitarie come Studenti per la Giustizia in Palestina”. Due mondi in collisione, due visioni del mondo contrapposte.
  I cinquantenni “sono, per la maggior parte, democratici di centro o di centrosinistra. I leader ebrei progressisti della generazione X sono (ancora) sionisti liberali. Amano Israele. Lo criticano anche. Desiderano che Israele sia più giusto nei confronti dei palestinesi. Vorrebbero che ci fosse una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Hanno le proprie organizzazioni sioniste liberali, come J Street, un corpo di lobbying che si autodefinisce ‘la sede politica degli americani filo-israeliani e filo-pace’, e il New Israel Fund, il cui obiettivo è promuovere la democrazia liberale, compresa la libertà di parola e i diritti delle minoranze, e combattere la disuguaglianza, l’ingiustizia e l’estremismo” che rischiano di minare i valori e l’immagine di Israele. “Quando però Israele viene attaccato, – precisa Feldman – la Gen X risponde con solidarietà e sostegno. Il loro impegno verso lo Stato ebraico e verso gli altri ebrei è indiscusso”.
  Non accade lo stesso per la Gen Zeta. La descrizione che Noah Feldman fa della Gen Zeta apre uno scenario più inquietante per il futuro delle relazioni tra ebraismo americano e Israele. I giovani tra i venti e i trent’anni “si riconoscono – scrive – nell’organizzazione Studenti per la Giustizia in Palestina, un collettivo di organizzatori che sostiene oltre 200 organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus universitari. Il 12 ottobre, mentre Israele iniziava la sua risposta all’attacco di Hamas contro i civili israeliani, l’ufficio nazionale dell’SJP ha postato sui social media ‘condannando il progetto sionista e il loro ultimo attacco genocida contro il popolo palestinese’. Jewish Voice for Peace addirittura sostiene la campagna BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni e lavora a fianco di SJP. Il suo sito web vanta 60 capitoli, 200.000 sostenitori e 10.000 donatori. L’organizzazione afferma di ‘essere guidata da una visione di giustizia, uguaglianza e libertà per tutte le persone’. Ne consegue, per JVP, che ‘ci opponiamo inequivocabilmente al sionismo perché è contrario a quegli ideali’. Il 14 ottobre, l’organizzazione ha pubblicato: ‘Come ebrei statunitensi [noi] crediamo che mai più significhi mai più per nessuno, e questo include i palestinesi. Mai più è adesso’, affermano”.

- Giovani ebrei antisionisti: perché?
  “Sembra probabile – precisa Feldman – che una percentuale relativamente piccola di ebrei progressisti della generazione Zeta si sia radicalizzata fino al punto di dichiararsi apertamente antisionista”. Triste? Sì. Così molti ragazzi arrivano a rinnegare Israele in nome dei diritti umani e di una idea fuorviante di colonialismo di cui Israele sarebbe l’emblema, secondo le derive più assurde dell’ideologia terzomondista.
  Tuttavia, nel suo saggio, il docente di Harvard sottolinea come alcuni temi siano particolarmente sentiti dai giovani ebrei, soprattutto universitari, che vivono quotidianamente in un contesto sempre più impregnato di ideologia woke, semplicistica e manichea.
  “Molti sono in conflitto su cosa dovrebbero ‘pensare’ di Israele. – scrive Feldman – Altri preferirebbero non pensarci affatto. Ma sono tantissimi quelli che si sono convinti dell’analogia, propagandata nei campus universitari, tra l’Israele di oggi e il Sud Africa ai tempi dell’apartheid”.
  Lo scontro generazionale si dipana quindi su “tre età”. Ci sono ancora i senior che, attraverso l’American Israel Public Affairs Committee, hanno coordinato negli ultimi decenni gran parte delle pressioni pro-Israele da parte degli ebrei americani. E si alleano strettamente con qualunque governo sia al potere in Israele.
  Poi ci sono i leader e gli attivisti ebrei progressisti delle generazioni X e Z. “Si trovano in disaccordo tra loro riguardo a Israele. – spiega Noah Feldman – L’antagonismo è doloroso per entrambe le parti, come spesso lo sono i conflitti generazionali. I progressisti di mezza età pensano che i ragazzi non siano riusciti a capire quanto importante dovrebbe essere Israele per loro in quanto ebrei. I ragazzi invece sono convinti che i ‘vecchi’ siano impantanati in un’ideologia screditata. Voglio suggerire che la spaccatura generazionale rifletta non due diverse concezioni di ebraicità progressista, ma due diverse visioni di Israele, rifratte attraverso un impegno comune per la giustizia sociale. L’ebraismo progressista esprime ciò che considera i valori biblici di giustizia, uguaglianza, libertà e simili”.

- Fedeli ai valori ebraici, non a Israele
  La “fedeltà”, per entrambe le generazioni, sembra andare quindi più all’ebraismo e al suo sistema valoriale piuttosto che a Israele. Lo Stato ebraico, a seconda dei casi, dei sentimenti e delle ideologie di riferimento, non sembra più incarnare quei valori, almeno non sempre e non del tutto.
  Nel sistema di valori rientra il rapporto tra Shoah e Israele. “L’Olocausto è diventata una lezione morale, il Never Again – scrive nel suo saggio Feldman – alla pari della schiavitù degli ebrei in Egitto. Israele divenne un modello di redenzione; poteva svolgere questo ruolo perché era possibile immaginare lo Stato ebraico come liberale e democratico”. Ma se Israele non incarna più i valori della democrazia liberale, per la generazione Zeta “non può fungere da ideale morale per gli ebrei progressisti le cui convinzioni impongono la dignità umana universale e l’uguaglianza. Nei termini più crudi possibili, – sintetizza Feldman – un Dio di amore e giustizia non può benedire o desiderare uno Stato che non cerca di garantire uguaglianza, dignità o diritti civili e politici a molte delle persone che vivono sotto la sua autorità”. Non si prendono in considerazione, in questo ragionamento, solo i cittadini israeliani, ebrei o arabi o appartenenti alle altre minoranze, che godono di pari diritti in Israele, ma anche i palestinesi della Cisgiordania, sottoposti a “occupazione” militare.
  “Per gli ebrei progressisti, – secondo l’analisi di Feldman – uno Stato che nega la parità di trattamento ai suoi ‘sudditi’ non è né democratico né propriamente ebraico. Né è democratico nel senso politico progressista americano. Da ciò ne consegue che per gli ebrei progressisti sinceri e impegnati, rimanere sionisti sarebbe un tradimento dei loro valori ebraici, se Israele non corrispondesse agli ideali della democrazia liberale”. Quindi, se i sionisti pensano che i progressisti ebrei americani debbano a Israele una totale e incondizionata lealtà, i progressisti ebrei ritengono invece di dovere la loro lealtà ai principi divini di amore e giustizia.
  Un conflitto di valori? Sì. Dopo il 7 ottobre, le immagini degli israeliani assassinati e presi in ostaggio ricordano gli orrori dell’Olocausto. D’altra parte, Israele è uno Stato-nazione dove attualmente governa una leadership le cui azioni e opinioni differiscono da quelle dei progressisti ebrei americani. Anche i più riflessivi tra i giovani progressisti si trovano ad affrontare una sfida profonda. Credono negli insegnamenti della giustizia sociale che li costringono all’azione sociale. Ma scoprono di non poter evitare quella che vedono come la realtà contraddittoria di Israele. Le loro convinzioni sulla moralità ebraica e sul tikkun ‘olam rendono difficile un incondizionato sostegno a Israele. “La loro soluzione – la loro soluzione ebraica, progressista e sinceramente sentita – è esprimere la propria fede nella giustizia sociale criticando o condannando Israele per i suoi fallimenti in termini di uguaglianza, libertà, dignità e diritti umani. Emerge – dice ancora Feldman – che i giovani ebrei progressisti, critici di Israele, sentono un legame non dichiarato con Israele anche se lo respingono. Non sentono alcun impegno nei confronti dello Stato esistente. Ma sentono un particolare bisogno di criticare Israele perché è importante per la loro visione del mondo in quanto ebrei. Non possono ignorare Israele, così lo coinvolgono nelle loro vite, attraverso il veicolo della critica progressista”. La frase “Not in my name – non nel nostro nome” coglie il senso di un rapporto di odio-amore, un ripudio che è allo stesso tempo il segno di una connessione ineludibile. “Questo è il motivo – spiega il saggio – per cui molti giovani ebrei progressisti sono in prima linea nel movimento filopalestinese nei campus universitari. Per quanto difficile da accettare per le generazioni più anziane, la causa non è l’odio verso se stessi. Piuttosto, la critica a Israele e il sostegno alla causa palestinese costituiscono l’essenza della loro progressiva espressione di sé in quanto ebrei”.
  Ma che cosa accadrà quando i giovani di oggi diventeranno adulti e assumeranno la leadership dei loro movimenti? Acquisiranno una visione più pragmatica? Avranno una più chiara consapevolezza delle ragioni di Israele? “Il giudaismo progressista – conclude Feldman – dovrà elaborare il suo atteggiamento a lungo termine nei confronti di Israele”. Forse questa generazione declinerà la propria ebraicità in altri modi: familiare, spirituale e personale, anche se l’ebraismo “vivo” non può prescindere da una dimensione collettiva. Ma che cosa ne sarà dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, se dovesse mancare l’appoggio degli ebrei americani allo Stato ebraico? È una incognita per tutto l’Occidente.

(Bet Magazine Mosaico, 3 maggio 2024)
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Nel sionismo laico la bomba è scoppiata. Se le cose stanno come l'autore le descrive (e in realtà già da un po' si intravedevano) sta venendo meno il sostegno al sionismo morale, quello fondato sull'eccellenza del pensiero ebraico in fatto di valori come libertà, democrazia, soccorso ai bisognosi, lasciando in un sottofondo sfumato elementi biblici fondamentali come Dio,nazione, terra, senza i quali, è ovvio, non si può parlare di Messia. E infatti i sionisti laici non ne parlano. Il contrasto non sopito tra laici e religiosi in Israele significa certamente qualcosa. Se ne dovrà riparlare. M.C.

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La sovranità di Israele garantita dal diritto

di Antonio Cardellicchio

David Elber,  “Il Diritto di Sovranità in Terra di Israele”. Salomone Belforte Edizioni, Livorno 2024.

Un libro che doveva essere scritto, ed è stato scritto. Esemplare per la conoscenza dei fondamenti legali dell’esistenza, e della libertà dell’indipendenza politica ebraica nello Stato di Israele. 
Ecco: David Elber, “Il Diritto di Sovranità in Terra di Israele”. Prefazione di Niram Ferretti, Postfazione di Bat Ye’or. Salomone Belforte Edizioni, Livorno 2024. 
Elber lo ha scritto con spirito scientifico, ampia e rigorosa documentazione, anche con un’emozione controllata nello smascheramento della leggenda nera dei falsi che alimentano un oceano di odio e morte, che vuole l’annientamento fisico degli ebrei. Un totalitarismo dominante, fanatico, genocida. 
Dunque, il diritto di esistere di Israele contro il crimine di esistere si fonda sulla roccia del diritto internazionale, in modo inconfutabile e incontrovertibile. 
Elber lo mostra su un piano di rigore giuridico, con la confutazione scientifica delle fragili, contorte, ideologiche s-ragioni al servizio degli imperialismi e negazionismi antisemiti. Una realtà giuridica solida e articolata, che demolisce la leggenda nera dell’”usurpazione”, delle “terre occupate”, e del “corpo estraneo”.  
In questo tempo barbaro in cui gli ebrei sono condannati a morte dalle nuove leggi razziali di odio e sterminio, la razionalità del diritto internazionale si leva e si eleva con il suo monito di giustizia. Nell’ora buia in cui una costellazione di terrore genocida, negazionismo, fanatismo antisemita, democrazie che tradiscono se stesse, vuole imporre a Israele una capitolazione davanti a chi vuole distruggerlo, vuole legittimare un totalitarismo sadico apocalittico, possiamo leggere queste pagine.  
Il fondamento granitico consiste nel riconoscimento, nella scoperta del legame storico indistruttibile tra il popolo ebraico di sempre e la Terra di Israele. Il diritto internazionale ha dato una veste legale a tale realtà pre-esistente, storica, sacra, laica-popolare, spirituale e materiale, radicale e radicata, consuetudinaria. 
Nessuna invenzione artificiale, ma solo legalizzazione di una realtà auto-evidente. Lo scopo del libro è mostrare “tutte le principali tappe giuridiche presenti nel diritto internazionale, che rappresentano le chiavi per dimostrare come il diritto internazionale abbia fornito al popolo ebraico la piena legittimità sulla sovranità territoriale su tutto il territorio del Mandato per la Palestina ‘propriamente detta’ – cioè la porzione mandataria a ovest del fiume Giordano, come deciso dalla Società delle Nazioni il 16 settembre 1922 e, conseguentemente, la piena sovranità sul medesimo territorio allo Stato di Israele, che ne è il suo successore.” (p.17) 
La tesi avversa di Israele “potenza occupante” delle terre di Giudea e Samaria, Gaza è un’aperta violazione del diritto internazionale. 
Il Mandato per la Palestina del 1922, approvato dalla Società delle Nazioni, si fonda sull'articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni e sui principi stabiliti della Dichiarazione Balfour sulla costruzione di una patria ebraica, riconosciuti dalla comunità internazionale in continuità con la Risoluzione della Conferenza di Sanremo. 
Il Mandato riconosce l’intero popolo ebraico, quello già abitante in Palestina e quello residente altrove, come titolari del diritto a un proprio stato. E confermava che gli ebrei già in Palestina ci stavano “per diritto e non per tolleranza”. 
L’Articolo 5 del Mandato conferma che la titolarità della sovranità territoriale apparteneva al popolo ebraico e alla Gran Bretagna che, come mandatario- tutore si limitava ad amministrarlo a beneficio degli stessi ebrei.
Elber confuta il mito di una ONU dotata di potere legislativo. 
Nell’Articolo 38 della Corte Internazionale di Giustizia “le uniche fonti di diritto internazionale riconosciute sono le convenzioni/trattati e il diritto consuetudinario. In pratica, sono solamente gli Stati a emanare le norme di diritto internazionale e non le organizzazioni internazionali come l’ONU, che non è un organo legislativo, ma un’organizzazione politica composta da Stati.” (p.76)  
Altre sono le competenze dell’ONU: “L’ONU è stata creata nel 1945 per dirimere pacificamente eventuali controversie che si possono creare tra gli Stati, mediante proposte e pareri al fine di evitare conflitti armati.” (p.77) 
Ne consegue che l’ONU non crea gli Stati e neppure ne stabilisce i confini, perché l’ONU non possiede la sovranità territoriale ma si limita ad accettare quegli Stati già indipendenti che fanno una richiesta di adesione. 
Anche l’Assemblea Generale possiede il potere limitato di dare pareri e proporre soluzioni agli Stati membri e al Consiglio di Sicurezza.  
“In relazione al popolo ebraico, l’ONU non ha creato alcun diritto, semplicemente ne ha fatto proprio uno già riconosciuto dalla comunità internazionale a partire dal 1920 con la Conferenza di pace a Sanremo.” (p.84). 
La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU, in un errato luogo comune, viene ritenuta il fondamento dello Stato di Israele: 
“Ma questa convinzione è una falsità, che però si riverbera in molti ambienti accademici, negli organi di informazione e persino all’ONU stessa, e nella Unione Europea. Invece, tale Risoluzione è stata solo un tentativo della comunità internazionale di cercare una soluzione al conflitto sanguinoso durante l’ultimo periodo del Mandato per la Palestina. L’iter per la sua formulazione è iniziato con la decisione inglese di rinunciare al ruolo mandatario. Tale decisione fu comunicata il 2 aprile 1947 e fu presa per un duplice motivo: l’impossibilità economica a mantenere la presenza militare sul territorio e, soprattutto, la sempre maggiore ostilità della locale popolazione ebraica e araba, ormai in procinto di combattere una vera e propria guerra civile. 
Così, il 2 aprile 1947 il governo britannico fece formale richiesta all’ONU in base all’articolo 10 dello Statuto, per avere un parere in merito al futuro dell’amministrazione del Mandato per la Palestina ‘propriamente detta’, cioè quello che ne rimaneva dopo l’indipendenza della Transgiordania, avvenuta l’anno precedente.” (p.91) 
L’Assemblea Generale si limitò a dare un consiglio al Regno Unito, Stato mandatario, su come procedere a una possibile spartizione territoriale del Mandato. Ma era indispensabile che ebrei e arabi “dovessero dare il proprio assenso per rendere vincolante il principio legale del ‘pacta sunt servanda’ (i patti devono essere osservati). Gli ebrei accettarono, mentre gli arabi opposero un secco rifiuto e decisero per la guerra.” (p.94) 
La Risoluzione restò lettera morta. Ma in seguito gli arabi le hanno attribuito poteri che non aveva, e l’hanno trasformata in uno strumento di delegittimazione della presenza ebraica in terre dove aveva diritti legali, cioè Giudea, Samaria e Gaza. Questo snaturamento è servito anche per disconoscere Gerusalemme come capitale legittima di Israele.  
Inoltre, si manifestava la decisa ostilità di George Marshall, segretario di Stato USA con la presidenza Truman, proprio contro l’indipendenza dello Stato di Israele.  
“Per tutti questi motivi, la dirigenza ebraica si trovò costretta ad accettare la proposta ONU di spartizione del territorio, già assegnato al popolo ebraico dalla Società delle Nazioni, pur di avere un minimo appoggio politico internazionale (che sperava potesse essere anche militare in caso di attacco arabo) e soprattutto per potere liberamente accogliere le centinaia di migliaia di sopravvissuti della Shoa che erano detenuti nei campi di concentramento inglesi a Cipro, in Germania, in Austria, nelle colonie britanniche africane e asiatiche. Questa era la più grande priorità per il nascente Stato di Israele.” p.106) 
Mentre arabi e britannici non accettarono la proposta ONU, la leadership ebraica la accettò “nonostante fosse molto penalizzante per il popolo ebreo”. 
Negli ultimi decenni si è diffusa la tesi che Israele occupi i territori di Giudea e Samaria. 
“Tale convinzione è così radicata anche negli ambienti ebraici della Diaspora e in Israele stesso – soprattutto in quelli di sinistra – che la si considera una certezza fattuale.” (p.122) 
Questa leggenda nera è diventata uno strumento distruttivo per attaccare Israele, da parte di diverse amministrazioni Usa e, peggio ancora, da parte dell’ONU e dell’Unione Europea. Con particolare intensità dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la quale Israele, dopo essere stata aggredita da diversi eserciti arabi, riuscì a vincere con la riconquista dei territori di Giudea e Samaria, occupati dalla Giordania nel 1948, e della Striscia di Gaza occupata dall’Egitto. Ma alle fonti della delegittimazione ci sono errori israeliani:
“Il regista della fiction fu Meir Shamgar, l’allora avvocato generale dell’esercito di Israele, poi divenuto procuratore di Stato e successivamente presidente della Corte Suprema. Fu lui a decidere che tutti i territori conquistati da Israele al termine della guerra fossero amministrati nello stesso modo: ovvero secondo quanto disposto dalle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra che regolano i territori occupati dopo un conflitto. Ciò a prescindere dal fatto che i vari territori conquistati da Israele (Giudea, Samaria, Striscia di Gaza), secondo il diritto internazionale, già appartenessero al popolo ebraico e quindi dovessero essere amministrati in modo differente (in base alla legge civile israeliana) rispetto agli altri territori conquistati (Golan e Sinai) che dovevano essere amministrati secondo i dettami dell’occupazione militare.” (p.123)
Il mito dei territori occupati è stato costruito con il contributo di clamorosi errori dei governi di Levi Eshkol e Menachem Begin, e di accademici quali Yoram Dinstein dell’Università di Tel Aviv.   
Inoltre: “Un’altra importante puntata di questa fiction pseudolegale l’ha fornita la Corte Suprema di Israele grazie al suo presidente di allora, Aharon Barak. In almeno due sentenze, egli ha dichiarato Giudea, Samaria e Gaza come ‘territori occupati’ senza fornire alcuna informazione in merito a chi detenesse la sovranità prima della presunta occupazione israeliana.”(p.131) 
Lo stesso procedimento è stato usato dalla Corte di Giustizia Internazionale. 
“La conseguenza di tutto ciò è stata quella di collocare a livello internazionale la tesi della presunta occupazione, ingigantendola in modo sempre più accusatorio e falso: dai ‘territori occupati’ si è passati nel corso degli anni al concetto di ‘occupazione illegale’, poi di ‘occupazione illegale dei territori palestinesi’ e via via al concetto di ‘insediamenti illegali’ o ‘insediamenti ostacolo alla pace’, anche se il concetto di insediamento nemmeno esiste nel diritto internazionale. Ciò è avvenuto con il solo fine di criminalizzare lo Stato di Israele”.
In tutti questi modi, il saldo fondamento legale della legittimità di Israele è stato sostituito da una narrazione falsa e pseudolegale, con l’effetto nefasto di passare da un saldo fondamento di diritto internazionale alla demonizzazione di Israele.
È accaduto e continua ad accadere, anche dopo il 7 ottobre: come sopraffatto dall’ampiezza e intensità dell’ondata antisemita universale, dal tradimento del diritto internazionale da parte dei governi occidentali, Israele, nel tentativo di aggrapparsi a un appiglio internazionale, finisce con il rovinare la sua causa e i suoi interessi vitali con l’assimilazione di tesi false autodistruttive. 
Per tornare alle fonti della certezza del diritto internazionale, alla ricerca della verità giuridica e politica, al coraggio fisico e morale della Resistenza Ebraica, contro l’inferno dei mostri antisemiti, un libro come questo è più che utile, è indispensabile.
Vi invito alla sua illuminante lettura.

(L'informale, 3 maggio 2024)
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Sono anni che Notizie su Israele fa opera di divulgazione di tesi come quelle sostenute in questo libro, ma stranamente nel mondo ebraico italiano non hanno trovato molta risonanza. Ecco un elenco di articoli su questo argomento. M.C.

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Ciclismo – Nadav Raisberg, un israeliano al Giro

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Nadav Raisberg

Punterà ad almeno una vittoria di tappa la Israel Premier Tech, tra le 22 squadre protagoniste della centosettesima edizione del Giro d’Italia al via nel fine settimana da Torino. La squadra israeliana è alla sua settima partecipazione consecutiva e arriva da un inizio di stagione importante, con tanti successi all’attivo. Al Giro d’Italia arriva con una formazione in cui ad alcuni veterani di consolidata esperienza come il canadese Michael Woods, vincitore nel 2023 di una tappa al Tour de France, si affiancano giovani talenti in rampa di lancio. Tra loro un italiano, il 24enne Marco Frigo. E un israeliano, il 23enne Nadav Raisberg. È la prima grande corsa a tappe per Raisberg, che ha ben figurato in alcune “classiche” di primavera tra cui la Milano-Torino e le Strade Bianche nel senese. Ma il Giro è un’altra cosa. L’occasione di una vita.
  «Abbiamo scelto Nadav Raisberg perché è esattamente il ciclista di cui abbiamo bisogno in questo Giro», ha spiegato il direttore sportivo Oscar Guerrero. «È un ciclista completo, veloce ma anche forte in salita. Sarà in grado di aiutarci nelle tappe di montagna, negli sprint e nei tentativi di fuga. Con la licenza magari di provare a ottenere anche un risultato in solitaria».
  Professionista da pochi mesi, in alcune dichiarazioni veicolate dal team, Raisberg si è detto «molto emozionato» per l’opportunità che gli è stata offerta. «Ho trascorso le ultime settimane in quota, allenandomi ad Andorra senza soluzione di continuità. Bici, bici e soltanto bici. Nel tempo libero tra un allenamento e l’altro ho studiato con attenzione ogni tappa, arrivo quindi preparato a questa corsa. L’obiettivo è finirla, ma anche aiutare i miei compagni di squadra a ottenere dei successi».
  C’è molta attesa per questo Giro in casa Israel Premier Tech. «Ogni vittoria è una soddisfazione, ma in questo momento particolare lo è ancora di più», sottolinea il proprietario della squadra, il filantropo israelo-canadese Sylvan Adams, in una intervista su Pagine Ebraiche di maggio. «I nostri atleti sul gradino più alto del podio sono infatti la migliore risposta possibile all’agenda portata avanti dai boicottatori di Israele, ai veleni che immettono nel discorso pubblico e alle minacce che talvolta rivolgono in modo scomposto. Ne stiamo ricevendo di nuove, anche in relazione a Giro d’Italia e Tour de France. Per ora solo verbali. Ma non sono preoccupato».

(moked, 2 maggio 2024)

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Non si parla (bene) di Israele: salta il convegno alla Statale di Milano. Troppe minacce

“Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’Occidente” era in programma il 7 maggio. Dopo giorni di intimidazioni da parte di collettivi e gruppi anti israeliani gli organizzatori hanno deciso di annullare l'evento.

di Giulio Meotti

Studenti protestano contro Israele
“Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’Occidente”.  Era questo il titolo del convegno che alla Statale di Milano avrebbe dovuto tenersi il 7 maggio, con la proiezione del docufilm #NOVA sul massacro commesso dai terroristi di Hamas al Nova Festival lo scorso 7 ottobre. Organizzato da Cristina Franco, presidente Associazione Italia Israele di Savona, il convegno avrebbe dovuto aprirsi con i saluti del rettore, Elio Franzini, e poi gli interventi di Hillel Neuer, direttore esecutivo UN Watch; Marco Cuzzi della Statale, Alessandra Veronese dell’Università di Pisa, finio alla testimonianza di Alexandre Del Valle sulla Fratellanza Musulmana in Europa. Niente da fare. 
  Da giorni erano arrivate minacce e intimidazioni alla volta del convegno, dei convegnisti e dell’università da parte del solito giro di collettivi, anarchici e gruppi anti israeliani. La questura era pronta ad allestire un cordone di sicurezza e la minaccia era passata da “alta” ad “altissima”. Alla fine, Cristina Franco e gli altri organizzatori hanno deciso di annullare l’evento. 
  “Il messaggio che è passato è che, mentre l’altra parte ha avuto il diritto persino di occupare le università italiane, a noi è stato impedito di poter discutere pacificamente del 7 ottobre e di Israele, se non a rischio di violenze”, ci dice Franco. Le era stato anche offerto di spostare online l’evento dai media della Statale. “Anche no, grazie”, taglia corto Franco. “O si ha la stessa possibilità data all’altra parte, oppure niente. La foglia di fico non la accetto”. La morale della storia sta tutta in quel titolo: “Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’occidente”. La democrazia e la sua ancella che è la libertà di parola sotto attacco, la propaganda che dilaga nelle università, l’antisemitismo che ne è il rumore di fondo e l’occidente che è il nemico comune.

Il Foglio, 2 maggio 2024)

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Hamas ha risposto ancora una volta "no" alla proposta di Israele per un cessate il fuoco

Il gruppo ha rifiutato l'ultima offerta israeliana per una tregua e la liberazione degli ostaggi, che Blinken aveva definito "generosa". Oggi è attesa la controproposta. I negoziati vanno avanti, mentre lo stato ebraico fa pressione preparando l'offensiva a Rafah.

di Micol Flammini

La risposta di Hamas all’ultima proposta israeliana per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi è arrivata dal Libano, dove vive Osama Hamdan, uomo di Hamas che ha rilasciato un’intervista a al Manar tv, un’emittente legata a Hezbollah. Hamdan ha detto: “La nostra posizione sull’attuale documento negoziale è negativa… ma non vuol dire che i colloqui finiscono qui”. Per oggi è attesa la controproposta di Hamas, che vuole imporre come condizione per la liberazione degli oltre centotrenta ostaggi israeliani la fine della guerra e il ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. La condizione non è ammissibile, vorrebbe dire che Hamas sarebbe di nuovo nelle condizioni di riprendere il controllo totale del territorio dal quale ha escogitato e lanciato l’attacco del 7 ottobre contro i kibbutz del sud, uccidendo più di mille civili e rapendone più di duecento. 
  Israele aveva già abbassato di molto le sue condizioni. Per veder tornare gli ostaggi aveva acconsentito a un cessate il fuoco di sei settimane, al ritiro dei soldati da alcune zone della Striscia, al ritorno dei palestinesi nella parte settentrionale di Gaza e alla liberazione di un numero molto alto di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane. La proposta di Israele era stata definita “generosa” da Antony Blinken, il segretario di stato americano in questi giorni si trova in medio oriente e ha più volte ripetuto che se l’accordo fallisce, la responsabilità è di Hamas. 
  Le manifestazioni dentro a Israele sono quotidiane, i cittadini chiedono un accordo per vedere tornare gli ostaggi, alle richieste umanitarie si sommano quelle politiche con la domanda di dimissioni del primo ministro Benjamin Netanyahu. Sono queste immagini che convincono Hamas che Israele potrà cedere alle sue richieste.
  Lo stato ebraico intanto sta preparando l’offensiva a Rafah, la città nel sud della Striscia dove si sono rifugiati circa un milione e mezzo di palestinesi e dove si troverebbero quattro battaglioni di Hamas. Probabilmente anche la leadership del gruppo vive nei tunnel sotto la città rifugio, ma un’offensiva potrebbe portare a un numero molto alto di vittime civili e, secondo i numeri diffusi dal ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, i morti sono già più di trentatremila. Gli Stati Uniti sono contrari a un'invasione che non sia preceduta da un’evacuazione attenta della popolazione.

Il Foglio, 2 maggio 2024)

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Aiuti umanitari nel nord della Striscia di Gaza: riapre il valico di Erez

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Il segretario di Stato americano Antony Blinken visita il valico di Keren Shalom

Mercoledì Israele ha riaperto l’unico valico sul confine settentrionale della Striscia di Gaza per la prima volta da quando è stato attaccato da Hamas il 7 ottobre, permettendo ai camion degli aiuti di passare attraverso il checkpoint di Erez.
Lo sviluppo è avvenuto mentre il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha visitato Kerem Shalom, il principale valico attraverso il quale gli aiuti umanitari sono affluiti da Israele a Gaza negli ultimi mesi, e il porto di Ashdod, da cui gran parte degli aiuti viene inviata all’enclave.
Blinken ha detto che, sebbene gli aiuti all’enclave palestinese siano stati incrementati, è necessario fare di più.
Il diplomatico americano ha anche effettuato una breve visita, non annunciata, al Kibbutz Nir Oz, che è stato devastato dall’assalto di Hamas del 7 ottobre, con 38 residenti uccisi e 72 rapiti – alcuni dei quali sono poi tornati – su una popolazione di circa 400 persone.
I residenti non sono più tornati nel kibbutz, che giace ancora in gran parte in rovina, con molti edifici incendiati e danneggiati.
La riapertura del valico di Erez – che normalmente facilita il passaggio delle persone, non dei rifornimenti – è stata per mesi una delle principali richieste delle agenzie umanitarie internazionali, per alleviare la situazione umanitaria che si ritiene sia più grave tra le centinaia di migliaia di civili nel settore settentrionale di Gaza.
Il checkpoint è stato in gran parte distrutto dal gruppo terroristico di Hamas durante l’assalto del 7 ottobre al sud di Israele. Nelle vicinanze, all’interno di Gaza, l’esercito ha poi trovato un enorme tunnel di Hamas abbastanza largo da poter essere attraversato da un’auto.
L’esercito ha dichiarato che mercoledì circa 30 camion che trasportavano cibo e forniture mediche dalla Giordania sono entrati nella parte settentrionale di Gaza attraverso Erez, subendo una “attenta ispezione di sicurezza” prima di entrare.
Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato di aver effettuato lavori di ingegneria nell’area per il passaggio pedonale e per quello da utilizzare per il transito dei camion. Le forze di ingegneria hanno “costruito infrastrutture di ispezione e protezione nell’area, così come strade asfaltate in territorio israeliano e nella Striscia, consentendo l’ingresso di aiuti nella parte settentrionale della Striscia, rafforzando al contempo le difese delle comunità [al confine con Gaza] nell’area”.
Il valico, al capolinea di un’importante autostrada, è il più vicino a Gaza dal porto israeliano di Ashdod, dove vengono spediti alcuni aiuti umanitari.
Il col. Moshe Tetro, capo dell’Amministrazione israeliana di coordinamento e collegamento per Gaza, ha detto di sperare che il valico sia aperto tutti i giorni e contribuisca a raggiungere l’obiettivo di 500 camion di aiuti che entrano a Gaza ogni giorno. Questo sarebbe in linea con le forniture di prima della guerra e molto di più di quanto questa abbia ricevuto negli ultimi sette mesi.
“Questo è solo un passo delle misure che abbiamo preso nelle ultime settimane”, ha dichiarato ai giornalisti.
All’inizio della giornata, il ministero degli Esteri della Giordania ha denunciato che due dei suoi convogli di aiuti che trasportavano cibo, farina e altri aiuti sono stati “attaccati dai coloni”, senza fornire dettagli sull’accaduto, ma aggiungendo che entrambi i convogli sono riusciti a proseguire il loro viaggio e a raggiungere la loro destinazione.
Gli attivisti del gruppo israeliano Tzav 9, che si oppone agli aiuti umanitari a Gaza finché Hamas non libera i 133 ostaggi che detiene, hanno tentato mercoledì mattina di bloccare i camion degli aiuti in vari punti del Paese.
Un comunicato del gruppo affermava che l’obiettivo era far arrivare Blinken al valico di Kerem Shalom e non trovarvi alcun camion. La campagna non sembra aver avuto successo, poiché l’IDF ha dichiarato zona militare chiusa parte del percorso dei camion e l’area del valico.
Honenu, un’agenzia di assistenza legale di destra, ha dichiarato che quattro uomini che avevano “bloccato i camion di aiuti diretti a Gaza” mentre passavano vicino all’insediamento cisgiordano di Ma’ale Adumim sono stati arrestati dalla polizia, che ha dichiarato che l’attacco ha danneggiato diversi camion e il loro contenuto.
Il governo giordano ha condannato l’incidente e ha dichiarato di ritenere le autorità israeliane pienamente responsabili di garantire la protezione dei convogli di aiuti e delle organizzazioni internazionali.

Progressi negli aiuti reali, ma devono essere accelerati
  A Kerem Shalom, Blinken ha visitato l’area del valico e osservato le procedure di ispezione insieme al ministro della Difesa Yoav Gallant e ad altri funzionari della Difesa, che hanno informato il diplomatico statunitense e il suo team sugli sforzi umanitari dell’IDF a Gaza. Gli hanno anche illustrato le azioni intraprese per prevenire attacchi errati agli operatori umanitari, dopo l’incidente in cui sono stati uccisi sette membri del gruppo World Central Kitchen.
Il valico di Kerem Shalom è stato chiuso dopo il 7 ottobre, quando Israele ha imposto un rigido blocco su Gaza, ma ha riaperto al traffico limitato a dicembre, diventando il principale punto di ingresso per gli aiuti provenienti da Israele.
I funzionari israeliani possono ispezionare 55 camion ogni ora a Kerem Shalom e lavorano dalla mattina al tramonto, ha dichiarato Shimon Freedman, portavoce per i media internazionali del COGAT, un organismo del Ministero della Difesa che funge da collegamento con i palestinesi.
Israele ha cercato di dimostrare che non sta bloccando gli aiuti a Gaza, soprattutto da quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha lanciato un duro avvertimento a Netanyahu, affermando che la politica di Washington potrebbe cambiare se Israele non prenderà provvedimenti per affrontare i danni ai civili, le sofferenze umanitarie e la sicurezza degli operatori umanitari.
Il fuoco dei carri armati echeggiava da Gaza mentre Blinken vedeva per la prima volta da vicino la Striscia a sei mesi dall’inizio della guerra. Il complesso di Kerem Shalom, delimitato da spesse mura di cemento, è il luogo in cui i camion degli aiuti diretti a Gaza vengono trattenuti per essere ispezionati, un processo che i gruppi di aiuto hanno lamentato essere un grosso ostacolo. Israele ha affermato che l’intoppo si trova più avanti nel processo, nel meccanismo di distribuzione delle Nazioni Unite.
Più tardi, Blinken ha visitato il porto di Ashdod, attraverso il quale gli aiuti internazionali arrivano via mare e vengono gestiti prima di partire per Gaza.
Accompagnato dal consigliere per la sicurezza nazionale israeliano Tzachi Hanegbi, Blinken ha affermato che i progressi nel migliorare l’accesso umanitario a Gaza sono reali ma, dato l’immenso bisogno nell’enclave palestinese, devono essere accelerati.
Blinken ha ribadito che gli Stati Uniti “non possono e non sosterranno una grande operazione militare a Rafah in assenza di un piano efficace per garantire che i civili non vengano danneggiati, e senza aver visto tale piano”.
“Allo stesso tempo, ci sono altri modi – e, a nostro avviso, modi migliori – per affrontare la vera sfida di Hamas che non richiede una grande operazione militare” a Rafah, ha detto Blinken.
Gli Stati Uniti hanno esortato Israele a non lanciare la prevista offensiva su Rafah, dove si ritiene siano nascosti i vertici di Hamas e detenuti molti degli ostaggi, ma anche dove circa 1,5 milioni di civili si sono rifugiati.
Martedì Netanyahu ha dichiarato di essere intenzionato ad attaccare Rafah, che si raggiunga o meno un accordo.

(Rights Reporter, 2 maggio 2024)

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Esposto lo striscione “Stop al genocidio” al Teatro Goldoni di Livorno: la risposta della Comunità ebraica

di David Fiorentini

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“Non è pacifismo perorare il cessate il fuoco esponendo la bandiera di una sola parte e accusando l’altra, indicibilmente, di “genocidio” in spregio alla storia e alla verità”.
  Così commenta la Comunità ebraica di Livorno quanto accaduto al Teatro Goldoni il 26 aprile al termine della Turandot di Puccini, quando il cast si è riunito sul palco esponendo lo striscione “Cessate il fuoco, stop al genocidio” con una bandiera palestinese.
  “Non è pacifismo ignorare la sorte degli israeliani e degli altri rapiti da Hamas il 7 ottobre – incalza il comunicato stampa -. Non è pacifismo voltarsi dall’altra parte o rifugiarsi in contorte e criptiche affermazioni, pur di non riconoscere gli stupri avvenuti e in atto sulle donne israeliane rapite; il commercio da parte di Palestinesi, quali macabri trofei, delle teste mozzate di vittime dell’aggressione di Hamas; i razzi, i droni e missili che ad oggi, con la complicità di potenti alleati, piovono su Israele.”
  Il sindaco del capoluogo toscano Luca Salvetti non ha condannato l’episodio, citando dei precedenti a La Scala di Milano e ribadendo la linea dell’amministrazione comunale di esporre solamente la bandiera della pace, senza quella israeliana.
  Un atteggiamento definito “vano” e “improbabile” dalla comunità ebraica locale, poiché quanto andato in scena al Teatro Goldoni è stato un richiamo al “pregiudizio, mascherato da pacifismo, contro Israele” e “una mera operazione di propaganda politica”.
  Parole a cui fanno eco quelle dell’Associazione Italia-Israele di Livorno, che tramite la sua pagina Facebook denuncia “un’azione fuori contesto culturale, politico ed istituzionale e con l’esposizione di un messaggio completamente imposto al pubblico presente, che era a teatro solo per vedere un’opera lirica, senza alcuna possibilità di contraddittorio o replica di una posizione diversa.”

(Bet Magazine Mosaico, 2 maggio 2024)
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L'odio contro gli ebrei, istigato e alimentato dal "principe di questo mondo", ha ormai trovato modo di dilagare senza argini. La possibilità di sostituire la religiosa e obsoleta accusa di "deicidio" con quella nuovissima e laica di "genocidio" è stata avidamente afferrata non sarà più lasciata cadere. Non basta pensar male degli ebrei, non basta dirne male intorno a sé quando capita, per alcuni è un dovere aizzare tutti all'odio contro gli ebrei oggi rappresentati da Israele. E' una missione, pensano questi antisemiti di nuovo conio. Forse sono pochi quelli che li seguono nella loro militanza antiebraica, ma sono molti quelli che non obiettano, e non si sa quanti siano quelli che approvano e sono contenti che siano altri a fare la fatica di dirlo in pubblico. M.C.

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Messaggio a quelli che in Occidente inneggiano alla guerra contro Israele “con ogni mezzo necessario”

Quando gridate “intifada” approvate stragi di innocenti e non fate avanzare di un solo passo la causa del popolo palestinese

di Sherri Mandell

Quando dite di volere un’intifada, una sommossa globale contro gli ebrei, condonate l’assassinio a sangue freddo di persone innocenti come mio figlio Koby e il suo amico Yosef, che erano in terza media quando i terroristi nel 2001, all’inizio della seconda intifada, li hanno picchiati a morte con delle pietre, abbandonandoli in una grotta con le pareti imbrattare di sangue.
  Koby era il nostro figlio maggiore. Amava il baseball, il basket e la pizza. Era solo un ragazzino, uscito per un’escursione. Ecco di chi state invocando l’uccisione quando gridate “con ogni mezzo necessario”.
  Quell’assassinio non ci ha scacciati da Israele. Quell’assassinio non ha portato la pace. Quell’assassinio non ha recato nessun risultato positivo per i palestinesi. Sostenere l’assassinio non aiuta in alcun modo la causa palestinese, non lo ha fatto 23 anni fa e non lo fa oggi.
  Quando dite di volere un’intifada, quando gridate “resistenza con ogni mezzo necessario”, portate verso la sconfitta la causa del popolo palestinese senza rendervene conto.
  Condonate l’assassinio di intere famiglie come la famiglia Fogel, trucidata nella sua casa. La figlia di 12 anni rincasò quella sera e trovò tutta la sua famiglia massacrata: madre, padre, un bambino di 3 mesi e due fratelli. Un bambino sopravvissuto, di 2 anni, sedeva accanto ai genitori che giacevano in un lago di sangue. Cercava di svegliarli.
  I sopravvissuti della famiglia Fogel non hanno lasciato Israele. L’assassinio della famiglia Fogel non ha fatto avanzare di un solo passo l’agenda politica dei palestinesi.
  Quando dite di volere un’intifada, condonate l’assassinio di Hallel Ariel che aveva 13 anni quando un terrorista la pugnalò a morte nel suo letto.
  Quando dite di volere un’intifada globale, state dicendo che credete nell’uccisione di ebrei durante i seder di Pasqua, come quello al Park Hotel di Netanya nel 2002, dove furono trucidati 30 israeliani. Credete nell’assassinarci nelle discoteche, come il Dolphinarium di Tel Aviv dove venne fatta strage di 21 israeliani, per la maggior parte adolescenti. Volete ucciderci dentro le scuole, come nella yeshiva Mercaz HaRav dove un terrorista ha sparato e ucciso otto adolescenti.
  Quando invocate un’intifada, siete complici di atrocità e omicidi. Incoraggiate la violenza e l’antisemitismo. Sostenete l’islamismo estremista, Hamas e l’Iran che vogliono annientare la nazione di Israele. Incoraggiate i palestinesi a uccidere e a sequestrare ostaggi, come hanno fatto il 7 ottobre, come se questo fosse un percorso verso la pace.
  Venite usati. La vostra presunzione di superiorità morale e la vostra rabbia vengono sfruttate a sostegno del terrorismo contro gli ebrei in qualsiasi parte del mondo. Non ne uscirete vittoriosi. Piuttosto, la vostra sensibilità verrà smorzata e messa a tacere dal momento che prendete parte a un’orgia di odio.
  Invece di resistere con “ogni mezzo necessario”, immaginate di cambiare il vostro slogan: “pace con ogni mezzo necessario”. Immaginate di dire a Hamas di rilasciare gli ostaggi e smettere di lanciare missili: in questo modo la guerra potrà finire.
  Pace con ogni mezzo necessario: questo è uno slogan che servirebbe a mettere fine a questa guerra, a riportare a casa gli ostaggi e anche a incoraggiare il governo israeliano a promuovere uno stato palestinese.
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Da: Times of Israel, 1.5.24

(israele.net, 2 maggio 2024)

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Come Netanyahu sta trascinando Israele verso la disfatta

di Giovanni Giacalone

Gli obiettivi iniziali del governo e dell’IDF erano due: eradicare Hamas e liberare tutti gli ostaggi utilizzando la pressione militare. Secondo Netanyahu i due obiettivi non erano in contrasto tra loro. Le cose però sono andate diversamente se oggi Israele si trova a dover fare delle concessioni inaudite nei confronti di quell’organizzazione terrorista che doveva sradicare. Eppure la campagna militare è stata impostata su un meccanismo di pressione da nord verso sud con concentrazione finale su Rafah ed era prevedibilissimo che l’ultima fase avrebbe richiesto, per forza di cose, l’ingresso nell’ultima area urbana rimasta, dove sarebbero confluiti i leader di Hamas a Gaza assieme ai restanti ostaggi.
La resa di Israele a Hamas, apparecchiata dagli Stati Uniti con il concorso dell’establishment politico-militare israeliano, lo stesso che si è reso responsabile di non avere saputo prevenire l’eccidio del 7 ottobre scorso, è limpidamente evidente nell’accordo proposto al Cairo, i cui termini sono i seguenti:
Ci sarà una prima fase della durata di 40 giorni durante la quale Israele si ritirerà dalle aree densamente popolate e terminerà le proprie ricognizioni aeree per dieci ore quotidiane. I primi ostaggi a essere liberati saranno quelli femminili, contestualmente Israele si ritirerà dall’area costiera.
Nel corso del ventiduesimo giorno verranno anche rilasciati gli ostaggi maschili, gli edifici distrutti saranno evacuati e si inizierà a ripristinare l’attività degli ospedali e dei panifici. Nello scambio con gli ostaggi femminili, Israele rilascerà venti terroristi a cui è stata inflitto il carcere a vita. Israele inoltre consentirà ai terroristi feriti nella guerra di lasciare Gaza per essere curati.
La seconda fase che durerà quarantadue giorni sarà quella in cui verrà annunciato un cessate il fuoco definitivo, ovvero la fine della guerra. In cambio, Hamas rilascerà i restanti ostaggi, militari inclusi, ottenendo a sua volta il rilascio di altri terroristi.
Hamas risponderà a breve a quanto Israele ha concesso. Praticamente tutto.

(L'informale, 1 maggio 2024)

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Dall'America a Parigi, il gesto filo palestinese che richiama il linciaggio di Ramallah

I palmi delle mani macchiati di rosso sono il nuovo simbolo della protesta per Gaza (e un po' per Hamas): sono apparse nel campus del Pratt Institute di New York, ma anche al Campidoglio, alla Columbia e alla Science Po in Francia,

di Giulio Meotti

I palmi macchiati di rosso di un manifestante per le vittime di Gaza dietro a Christopher Wray, capo del Federal Bourau of Investigation
I palmi delle mani macchiati di rosso sono il nuovo simbolo della protesta per Gaza (e un po’ per Hamas). Sono apparse ieri nel campus del Pratt Institute di New York. “Quale modo migliore per terrorizzare gli studenti e i docenti ebrei e costringerli alla sottomissione, se non il simbolo del linciaggio degli ebrei?”, ha detto Rory Lancman del Brandeis Center for Human Rights Under Law. Anche gli studenti davanti a Sciences Po a Parigi mostrano le mani di rosso. Pernelle Richardot, eletta socialista di Strasburgo, ha denunciato: “Spinti dall’odio antisemita, nel silenzio assordante di una parte della sinistra, gli studenti benpensanti di Sciences Po glorificano un linciaggio”. E lo scrittore ed editorialista Raphaël Enthoven: “Questo simbolo non è un appello al cessate il fuoco, ma alla carneficina”.  
Era l’ottobre del 2000 quando  Vadim Norzich e Yosef Avrahami, due riservisti israeliani, imboccarono la strada sbagliata, finendo a Ramallah. Furono catturati dalla folla, torturati e dilaniati. Dalle finestre del commissariato di polizia, i loro assassini si affacciarono, estasiati, mostrando a tutti le mani sporche di sangue. “Dateli a noi o veniamo a prenderli”, gridavano come in un 7 ottobre.
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Un palestinese spaccò una finestra per infierire sul corpo dei due soldati. Poi furono buttati dalla finestra. Fu un’équipe del Tg5 a filmare la profanazione dei corpi (la Rai scrisse all’Anp dicendo che loro “non fanno queste cose”, riprendere i pogrom). Norzich, era immigrato dalla Russia e si era appena sposato con Irina, incinta del loro primo figlio. La moglie di Avrahami, Hani, quel giorno provò a cercarlo sul cellulare. Uno, due, tre squilli, Hani aveva sentito che a Ramallah era successo qualcosa. Le rispose un palestinese, che le chiese in ebraico: “Chi cerchi?”. Hani: “Mio marito Yosef”. E il palestinese: “L’ho appena ucciso”.  
Hubert Launois, studente di Sciences Po e membro del Comitato Palestinese, si è difeso così: “È un simbolo che può essere scioccante, che è controverso, si riferisce a eventi tragici. E se si riferisce a questo evento, allora è una deriva antisemita”. Un po’ come Jeremy Corbyn ha sempre detto di non sapere perché facesse la “rabia”, la mano con il pollice piegato che è il simbolo dei Fratelli Musulmani.  
Occupazioni e blocco delle lezioni intanto alla Sorbona, Strasburgo, Rennes, Saint-Étienne e altre città francesi. Anche gli studenti dell’Università delle Arti di Berlino (UdK) – ampiamente riconosciuta come una delle scuole d’arte più importanti al mondo – hanno mostrato i palmi dipinti di rosso. Nei giorni scorsi, manifestanti anti-israeliani con le mani dipinte di rosso sono entrati al Campidoglio. Anne Bayefsky, presidente di Human Rights Voices, ha spiegato il significato: “Nessun ebreo israeliano dimentica cosa significassero quelle mani macchiate di sangue”. Non bastava che gli ebrei della Columbia fossero aggrediti al grido di “Tornate in Polonia”, “radere al suolo Tel Aviv” e “Hamas, ti amiamo”. Ora ci sono anche i palmi per inneggiare a nuovi linciaggi.

Il Foglio, 1 maggio 2024)

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