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Notizie 16-31 maggio 2024


Torna a casa la Seconda casa di Ullman

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ROMA - Micha Ullman è uno scultore israeliano di fama internazionale, autore tra gli altri del memoriale sotterraneo collocato nella berlinese Bebelplatz in ricordo del rogo dei libri compiuto dai nazisti il 10 maggio 1933. Per il Giorno della Memoria del 2004 l’artista realizzò a Roma il monumento di dimensioni ridotte Seconda Casa (Gerusalemme – Roma) su un marciapiede di Piazza di Monte Savello, nelle vicinanze dell’ex ghetto. Si tratta di due case stilizzate in una sorta di clessidra a simboleggiare il legame tra due città faro della società occidentale ma anche le ferite di una relazione talvolta difficile. In particolare il rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 e la distruzione della “Seconda casa” per antonomasia dell’ebraismo, il Secondo Tempio di Gerusalemme devastato nell’anno 70 dalle truppe agli ordini di Tito.
  Smantellata per errore nel corso dei lavori per il rifacimento del manto stradale, l’opera sarà ripristinata il 5 giugno mattina, con una cerimonia convocata in una data doppiamente simbolica: l’ottantesimo anniversario della liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista e il 57esimo anniversario della liberazione e unificazione di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni. La proposta di ripristino in questa data «nasce da un’iniziativa della Comunità ebraica di Roma, in collaborazione con l’assessorato competente, il primo municipio e l’ambasciata israeliana», racconta la storica dell’arte e curatrice Giorgia Calò, direttrice del Centro di Cultura comunitario. «Quale data migliore per testimoniare questo messaggio?». Quella di Ullman è un’opera che Calò conosce molto bene, avendola scelta quale tappa del percorso in sei installazioni in altrettanti musei civici della Capitale di cui si componeva la mostra “Zakhor/Ricorda” da lei curata nel 2023. La memoria «appartiene a tutti noi, è un dovere civico», sottolineava allora. Non a caso nella Torah «l’imperativo ‘zakhor’, cioè ricorda, appare 222 volte: un segno dell’importanza fondamentale di questa attività».

(moked, 31 maggio 2024)

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Di Segni: «Noi ebrei mai più al sicuro in nessun luogo. L'antisemitismo ha radici profonde»

La presidente delle Comunità ebraiche italiane: il sentimento generale è di isolamento e diffidenza

- Alle bandiere palestinesi che sventolano dalle finestre delle università da Nord a Sud, da ieri si unisce quella che ha esposto il Comune di Bologna come simbolo dei diritti umani violati. Cosa prova vedendola, presidente Noemi Di Segni?
  «E' una domanda faticosa», risponde misurando le parole una ad una la presidente dell'Unione delle 21 comunità ebraiche italiane che riuniscono 25 mila ebrei italiani. «Quella bandiera non rappresenta i diritti umani violati ma si identifica con il popolo cui appartiene. Se mi sta chiedendo se vederla in un luogo istituzionale ci fa sentire più abbandonati da questa istituzione, la risposta è sì, certo».

- Potremmo dire che rappresenta una richiesta di pace.
  «Ma per far la pace ci vogliono due soggetti. Dunque due bandiere. I diritti umani calpestati, nel momento in cui ci sono ancora gli ostaggi ebrei nelle mani di Hamas dopo le stragi del 7 ottobre, riguardano anche gli israeliani e anche gli ebrei italiani. Una visione così unilaterale da un'istituzione italiana non me la sarei aspettata. Vuol dire dare ragione agli uni, i palestinesi, e non agli altri. Così rafforza quella scia di incitamento a odiare "gli altri"».

- L’impressione è che questi mesi siano stati per il senso di isolamento in patria degli ebrei italiani i più difficili dalla fine della Seconda guerra mondiale. Impressione giusta?
  «Sì, è assolutamente così. Dopo il 7 ottobre prevale la sensazione di essere in grave pericolo, non solo in Italia ma in Europa. Lo choc è stato ed è tale che per la prima volta da quando esiste Israele sentiamo che non esiste un luogo per noi sicuro».

- È cambiato il modo di vivere le relazioni, la vita di tutti i giorni?
  «Il sentimento generale è di isolamento e diffidenza. A furia di sentire tanto odio scorrere in qualsiasi spazio di dibattito pubblico, dalle televisioni alle università, e distorsioni argomentative, viene spontaneo restare in disparte. Assisto a una sorta di ritirata nelle case, nelle comunità, dove ci si sente almeno capiti. Nei luoghi di lavoro ma anche con le amicizie, si finisce per sentire tanti di quei "sì, ma", quando si parla di Israele e delle sue ragioni, che per evitare rotture dolorose si preferisce tacere, se non addirittura evitare di far sapere che si è ebrei».

- C'è la paura di azioni violente contro di voi?
  «Purtroppo si, e questo aspetto è seguito con il prezioso supporto delle forze dell'Ordine. Non ci sentiamo più liberi come prima».

- La solidarietà del dopo 7 ottobre che fine ha fatto?
  «Naturalmente ci sono persone che soffrono con noi e condividono il nostro dolore per la distorsione a cui stiamo assistendo. Ma la maggior parte si colloca su una fascia del: sì, avete sofferto, ma ora anche basta, guardate che succede a Gaza. Nell'illusione che la formale fine della guerra risolva magicamente una situazione così complessa».

- Ecco, Gaza. Come si spiega questa ondata di solidarietà nelle università di tutto il mondo, inclusa l'Italia, per i palestinesi mentre le vittime ebree e gli ostaggi tutt'ora in mano a Hamas sono stati presto dimenticati?
  «E' il cuore della questione. Il linguaggio del vittimismo usato dai media palestinesi fa breccia più facilmente rispetto a chi ha pudore a mostrare determinate immagini e usa la comunicazione con maggiore rigore come fa Israele».

- Non credo possa trattarsi solo di comunicazione, però.
  «C'è una radice di odio e antisemitismo latente nella società europea, che in quella italiana si sposa a un certo tipo di cultura caritatevole cattolica che tende ad avvicinarsi a chi mostra di soffrire di più. Anche questo Hamas lo sa bene e fa leva su questi sentimenti. Agli occhi del mondo Israele non avrebbe dovuto reagire, dopo il 7 ottobre, ma limitarsi a trattare per la liberazione degli ostaggi. Tornando sostanzialmente al 6 ottobre».

- Dunque sempre lì si torna, all'antisemitismo mascherato da difesa dei più deboli?
  «E' una radice profonda anche nella società italiana. E il multiculturalismo degli ultimi decenni, con l'arrivo di molti musulmani, se da un lato pone la sfida del pluralismo culturale che come comunità abbiamo voluto sostenere e partecipare, ha favorito anche la presenza di nuovi integralismi. Come Comunità ebraiche in questi anni abbiamo fatto un lavoro importante con la Comunità musulmana sul tema che ci accomuna della libertà religiosa. Sono sicura che anche loro non vogliano la vittoria di Hamas o la loro presenza comandata dall'Iran qui, e quindi condividano con noi il significato della parola terrore: rivolgo loro un appello perché lo dicano chiaramente».

- Stavamo dicendo delle proteste nelle università.
  «Negli atenei pochi studenti sul totale, e molti non sono neppure studenti, stanno stravolgendo gli istituti rappresentativi nati per favorire il confronto, per impedirlo e promuovere obiettivi totalmente diversi da quelli acclamati. Ancora più grave che partecipino anche i professori, da cui ci aspetteremmo rigore accademico nell'affrontare questioni così delicate. Perché un conto è la critica politica al governo di Israele, altro negargli il diritto di esistere e l'uso di slogan».

- E la politica, presidente Di Segni? La sinistra sembra aver lasciato alla destra la difesa della causa ebraica: immagino che per molti elettori ebrei di centrosinistra sia un motivo di ulteriore spaesamento.
  «Vede, la guerra al nazifascismo ha visto combattere fianco a fianco resistenza e brigate ebraiche. Poi il lungo percorso condotto insieme nel dopoguerra sui valori. Ecco, oggi ci aspetteremmo che la sinistra guardasse con la stessa lucidità al terrorismo, che sapesse analizzare in modo corretto il pericolo che corre Israele. Invece prevale la richiesta unilaterale di pace, come se dovesse farla solo Israele. Da destra sono arrivate espressioni di sostegno molto più lineari ed esplicite, va detto. Non penso, sia chiaro, che chi chiede il cessate il fuoco sia antisemita, ma se demonizza Israele per ogni cosa e associa alla stessa comportamenti genocidi allora sì, questo è antisemitismo, non aiuta a risolvere problema, e non aiuta neanche gli stessi palestinesi».

- Il governo Netanyahu è per voi a sua volta motivo di imbarazzo?
  «In Israele è stato creato un gabinetto ristretto di guerra che vede la partecipazione anche dell'opposizione nel cui operato dobbiamo avere fiducia, questo vale per le scelte su Rafah e per lo sforzo per liberare gli ostaggi. Dire che oggi non ci sono le condizioni per la pace, per un futuro di convivenza con uno Stato palestinese, non vuol dire voler annientare tutti i palestinesi».

- Non mi ha risposto però: la politica di Netanyahu imbarazza gli ebrei italiani?
  «Premesso che non esiste una posizione unica su questo degli ebrei italiani, io penso che in questo momento dobbiamo essere vicini a Israele. Si soffre insieme per i nostri destini incrociati e questo non vuol dire condividere ogni esternazione e scelta di un governo eletto per realizzare la faticosa missione di essere Stato ebraico».

(Il Messaggero, 31 maggio 2024)

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7 ottobre – Perché non abbiamo più paura

di Angelica Calò Livnè

Mi capita spesso in questi giorni di pensare che negli anni Trenta, quando furono pubblicate le leggi razziali, i miei nonni avevano l’età dei miei figli oggi. Ho immaginato spesso mio nonno Cesare trentenne, che gira per i villaggi delle Marche mentre stringe la manina di mia madre di sette anni, alla quale ha intimato di non rivelare mai di essere ebrea, per barattare stoffe e fili da ricamo del suo negozio di via Palestro, con qualche uovo o una pagnotta. O nonno Anselmo, quarantenne, che il 16 ottobre del 1943 carica la moglie, mia nonna Angelica e tre figli adolescenti, su un carretto per andare in cerca di un posto dove fuggire, dove nascondersi, per essere accolti in un convento o in qualche cascina. Trascorsero lunghi mesi di fame, di freddo, di odore di fieno, di chicchi di grano bruciati in qualche campo dove erano passati subito dopo la mietitura e mangiati con gusto insieme a qualche goccia di latte appena munto, prima di tornare nelle loro case romane a via della Reginella e su Ponte Sisto. Come tutti gli altri ebrei d’Europa, i miei nonni furono colti di sorpresa dall’ascesa e dal dilagare di un odio viscerale e irrazionale che devastò la loro vita. I trentenni e i quarantenni d’Israele non fuggono, non si nascondono. Non più. Sono ancora pochi contro tanti, contro tantissimi. Si chiedono ancora “perché” ma non aspettano la risposta, combattono. Combattono sul campo, combattono per mantenere la democrazia e lo spirito di questo Paese, combattono per mantenere le loro famiglie in uno dei periodi più difficili della storia d’Israele, dove ogni settimana sale il prezzo del latte, del pane e delle uova. Molti di loro sono lontani dalle loro case da quasi otto mesi, con scuole e asili improvvisati, missili lanciati e attentati non-stop che provengono da tutti i confini del Paese. I miei nonni non si diedero per vinti e al loro ritorno ricominciarono tutto da capo perché così è il nostro spirito. Israele cade e risorge, si alza dalle ceneri e inventa la chiavetta per il computer, l’irrigazione a goccia e l’Iron Dome. Non si arrende alla prepotenza, al potere, al razzismo e all’odio gratuito. Israele combatte e si difende e senza cancellare nessuna pagina continua scrivere la sua storia anche se è stanca, anche se è stufa di raccontare ai suoi bambini ogni anno, nel mese di Adar, che in Persia volevano impiccare tutti gli ebrei e nel mese di Nissan che in Egitto li avevano resi tutti schiavi. Anche se non se ne può più di correre nelle camere blindate quando gli altoparlanti gridano “Zeva Adom!” (Colore rosso!) o quando il suono delle sirene ti perfora il cuore e ti confonde l’anima. No, non vogliamo la guerra, non l’abbiamo mai voluta, ma il mondo deve capire che non abbiamo più paura né delle bugie che vengono diffuse su di noi né delle minacce e della violenza che imperversa nelle università, sugli schermi, nei social e nei discorsi al bar. Dicono che abbiamo l’esercito più forte del mondo… è vero, perché è un esercito animato dalla forza della disperazione, dalla consapevolezza che la storia si ripete scelleratamente, che l’umanità si rifiuta di imparare. Quindi non abbiamo altra scelta e come disse Herbert Pagani parafrasando Cartesio: «Mi difendo quindi sono!».

(moked, 31 maggio 2024)
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Cara Angelica, leggo il tuo ammirevole articolo pochi minuti dopo che un fiero nemico di Israele mi ha rinnovato per email (l’aveva già fatto altre volte) l’esposizione dei suoi inossidabili giudizi antisionisti criticando, anzi demolendo, le posizioni pro Israele del nostro sito. Sembra soddisfatto. Citazione:
«E’ cambiato il vento: Israele e tutti i suoi fan e sostenitori devono difendersi e giustificarsi per crimini orribile che TUTTO il mondo vede, giudica, e condanna ...
Mi decido a scriverle queste righe che sono di semplice critica di posizioni che ritengo assurde contrarie a ogni idea di diritto, religione, logica... ma aggressive nella misura in cui accompagnano le bombe che stanno cadendo su Gaza uccidendo donne e bambini... No! Per favore... Non mi sciorini il 7 di ottobre, Hamas e simili cose tipiche dell'Hasbara…»
Capito il riferimento all’Hasbara? Ormai qualunque prova voi ebrei presentiate a vostra difesa, per molti sarà sempre una nuova prova contro di voi, perché se sembra vera sarà la conferma di quanto bugiardi siete capaci di essere. Consiglio pratico a Israele: non cerchi di diffondere altri video orripilanti sul 7 ottobre: non servono. A chi ha già espresso la volontà di vedervi sparire dal mondo si può opporre soltanto, come ha fatto Angelica
Angelica raccoglie le mele del kibbutz Sassa ad un passo da Hezbollah con la pistola alla cintola

, la ferma volontà di voler continuare ad esserci, in questo mondo.
E così avverrà, “Non per potenza né per forza, ma per lo spirito mio, dice l'Eterno degli eserciti” (Zaccaria 4:7). Il problema di Israele riguarda Dio, dunque riguarda tutti: ebrei e gentili. Guai a chi pensa di poterlo trascurare, sia egli ebreo o gentile. M.C.

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Centinaia di milioni di shekel rubati da Hamas dalle filiali bancarie di Gaza

Lo rivela l’IDF

di Michelle Zarfati

Il portavoce in lingua araba delle Forze di difesa israeliane, il tenente colonnello Avichay Adraee, ha diffuso mercoledì un documento di Hamas, che mostra come l’organizzazione avesse pianificato di rapinare le casseforti delle banche di Gaza. Un mese dopo dal massacro del 7 ottobre, centinaia di milioni di shekel sarebbero stati rubati da Hamas dalle filiali bancarie della Striscia di Gaza. “Stiamo rivelando un documento scritto da un alto funzionario di Hamas, che mostra che in seguito alle difficoltà finanziarie di Hamas durante la guerra, i terroristi dell’organizzazione hanno fatto irruzione nelle filiali della Banca di Palestina a Gaza rubando oltre 400 milioni di shekel”, ha detto Adraee in un video pubblicato sul suo account X.
  “All’inizio di febbraio, i terroristi di Hamas hanno minacciato il personale della Banca di Palestina nel quartiere Rimal di Gaza City, intimando loro di non prelevare i contanti dalle casseforti della banca. Il 16 aprile hanno rubato centinaia di milioni di shekel dalla filiale. Due giorni dopo , hanno fatto irruzione in un’altra filiale a Gaza City e hanno rubato decine di milioni di shekel. Il 19 aprile, i terroristi hanno commesso un’altra rapina presso la filiale principale della banca a Gaza City, rubando centinaia di milioni di shekel”, ha continuato Adraee. “Cosa diranno gli abitanti di Gaza, che diventano ogni giorno più poveri a causa delle sanguinose battaglie di questi tiranni assassini di bambini? Hamas deruba senza vergogna i cittadini della Striscia di Gaza per sopravvivere e finanzia i suoi terroristi attivi sulle spalle e sulle tasche degli abitanti della Striscia di Gaza”, ha concluso il portavoce.
  Circa un mese e mezzo fa, il Ministero della Difesa e l’IDF hanno trasferito 12 milioni di shekel alla Banca di Israele, che sono stati successivamente sequestrati nelle roccaforti terroristiche nella Striscia di Gaza. Questa somma si aggiunge ai circa 17 milioni di shekel sequestrati nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra e depositati con una procedura simile presso la Banca d’Israele. L’organismo responsabile della localizzazione del denaro è la Direzione tecnologica e logistica dell’IDF (TLD), che ha confiscato e localizzato i fondi terroristici nella Striscia di Gaza.
  Il processo di conteggio del denaro ha avuto luogo nella base di Tzrifin ed è durato circa cinque ore. Sul posto erano presenti il capo del dipartimento delle Finanze del Ministero della Difesa, i comandanti del Dipartimento delle Pubbliche Relazioni, il vice contabile generale del Ministero delle Finanze e altri rappresentanti che hanno supervisionato il processo. Alla fine, il denaro è stato messo in apposite buste e un camion della “Brinks” è arrivato sul posto e ha trasferito il denaro per essere depositato presso la Banca d’Israele.

(Shalom, 31 maggio 2024)

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Canada, spari contro una scuola ebraica: la seconda in una settimana

Le forze dell’ordine di Montreal stanno indagando nella ricerca dei possibili responsabili che nella notte di lunedì hanno sparato dei proiettili contro la Belz School, una scuola ebraica situata nel quartiere Côte-des-Neiges–Notre-Dame-de-Grâce.
  Si tratta del secondo colpo d’arma da fuoco contro una scuola ebraica canadese in una settimana. La penultima risale al 25 maggio, a Toronto, dove a rimanere colpita è stata la scuola femminile Bais Chaya Mushka. Fortunatamente in entrambi i casi, nessuno è rimasto ferito.

• Ignorate le precedenti richieste sulla sicurezza fatte alle autorità
  Come menzionato dal Jerusalem Post, Yair Szlak, presidente della federazione ebraica CJA e Eta Yudin vice-presidente del CIJA, Canadian Jewish Advocacy, hanno chiesto un’azione decisiva da parte dal sindaco di Montreal Valérie Plante per porre fine ad un atteggiamento di permissività nei confronti dell’antisemitismo che è venuto a crearsi in città: «Ne abbiamo già avuto abbastanza. Un altro sparo di proiettili in una scuola ebraica in Canada. Pur non essendo a conoscenza di una specifica minaccia contro la comunità ebraica, ricordiamo a tutti di mantenere la dovuta vigilanza».
  Plante ha poi affermato attraverso i social media, che a Montreal non c’è posto per l’antisemitismo e che è inaccettabile che sia stata presa di mira una scuola ebraica.
  Più volte la JCC ha invitato le autorità canadesi ad attivarsi per vigilare sulla sicurezza, ma più volte è stata ignorata dei responsabili a livello comunale, provinciale e statale.
  «Chiediamo una risposta rapida e completa da parte del governo canadese, del governo del Quebec e della città di Montreal, in modo che gli ebrei di Montreal possano di nuovo sentirsi al sicuro andando a scuola, frequentando la sinagoga e svolgendo la loro vita quotidiana”, ha dichiarato il JCC –  Jewish Community Council of Montreal.

• L’antisemitismo non deve vincere
  Nella giornata di mercoledì 29 maggio Justin Trudeau, Primo Ministro del Canada, ha dichiarato:«Sono disgustato che un’altra scuola ebraica è stata bersaglio di un attacco di proiettili. Sono sollevato dal fatto che nessuno è stato ferito, ma penso ai genitori e ai membri della comunità di Montreal che devono essere incredibilmente scossi. Questo è antisemitismo, chiaro e semplice, e non lo lasceremo vincere».
   Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 si è assistito in Canada ad un aumento spaventoso dell’antisemitismo, anche attraverso attacchi alle istituzioni.
  Mercoledì scorso un ventenne di nome Abdirazak Mahdi Ahmed è stato arrestato per avere sparato il 12 novembre 2023 alla scuola Yeshiva Gedola-Merkaz Hatora in Deacon Road a Montreal. Poco prima, il 9 novembre dei proiettili avevano colpito la stessa scuola e a pochi minuti di distanza un altro istituto scolastico ebraico della zona, il Talmud Torah situato in St-Kevin Avenue.

(Bet Magazine Mosaico, 30 maggio 2024)

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La lobby americana anti-Israele al Congresso e nelle Università

di Piero Di Nepi

C’era una volta, negli USA, la cosiddetta Jewish Lobby, la “lobby ebraica”. Ma la premessa favolistica è d’obbligo. Infatti non è mai esistita, se non nei peggiori e più tradizionali luoghi comuni diffusi da non pochi corrispondenti della grande stampa e delle TV, e comunque trasformata in materia di fede grazie a tutto ciò che fu conosciuto e riconosciuto come “stupidità di sinistra” già al tempo della Guerra dei sei giorni e poi nei decenni post-Sessantotto. Strumento di propaganda antiebraica finché furono in vita l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, utilissimo anche per i peggiori regimi arabi feudali o nazional-fascisti fornitori di ideologie e di petrolio.
  Da molti mesi i principali quotidiani liberal della East Coast come anche di tutta l’America che comanda davvero da Chicago alla California, dunque la tradizione “bianca, anglosassone, protestante” cioè WASP, aprono in prima pagina con foto da Gaza giustamente scioccanti. Perciò nessuno dovrebbe stupirsi se l’orientamento di quelli che contano, votano e decidono ha virato in senso apertamente anti-Israele. È il nuovo pensiero unico, e a confortarlo e sostenerlo non potevano mancare, e infatti non mancano, gli ebrei che si adeguano. Sempre in prima fila e sempre evidenziati da cartelli e stelle a sei punte, si sono affrettati a procurarsi un posto nelle tende dei campus accanto alle bandiere ormai celebrate dei cosiddetti pro-Pal. Mentre altri ragazzi e professori con o senza kippà restavano a casa, vivamente sconsigliati dal recarsi nelle aule di università prestigiose per premi Nobel (spesso ebrei) e assai ben finanziate con il sostegno di alunni ebrei pure loro, i quali forti di lauree importanti hanno fatto fortuna trasformandosi in donors devoti e fedelissimi.
  Francamente tutto ciò non stupisce, e senza azzardare paragoni sconfortanti si possono evocare vicende già accadute durante gli anni Trenta del secolo passato. Un paragone che tuttavia non spiega nulla, poiché certo non c’erano ebrei nei picchetti berlinesi delle SS. La perplessità assoluta dovrebbe nascere invece, forse, di fronte al silenzio apparentemente inesplicabile della più grande collettività ebraica della diaspora. E per le reazioni flebili, al limite della inconsistenza. Probabilmente saremo smentiti. Magari. Nel solo Stato di New York gli ebrei sono duemilioniduecentomila, e complessivamente negli USA circa 7.6 milioni ovvero il 2.4% della popolazione.
  Come sempre c’è dietro una storia, e occorre almeno accennarla. Arrivando in un Paese di immigrati, gli ebrei dell’est russo e polacco avevano lasciato dietro di sé il nulla. Per tutti gli altri, e soprattutto gli italiani e gli irlandesi, c’era invece una terra d’origine e una vera patria. Esattamente ciò che di nuovo accadde anche negli anni della guerra fredda, quando gli ebrei arrivarono a centinaia di migliaia negli States. L’Unione Sovietica si era infatti arresa alla campagna Scelach et amì/Lascia andare il mio popolo lanciata dai movimenti studenteschi ebraici in Europa e nel mondo. Non tutti scelsero la terra dei padri. Israele per la diaspora nordamericana non è baluardo né certezza. Se ne avvertiva e se ne sospetta tuttora la possibile precarietà. Tutti sapevano fin dal tempo della crisi di Suez, era il 1956, che gli interessi dello Stato ebraico non coincidono con quelli strategici di Washington e che la vera lobby, quella del petrolio, orienta la politica estera con il sostegno dei regimi arabi e musulmani. Come si è visto con chiarezza quando la vendetta per la distruzione delle Twin Towers colpì l’Afghanistan dei talebani, colpevoli all’epoca soltanto di vuota propaganda antioccidentale e di ospitare il clan miliardario degli esiliati arabi a marchio Osama bin Laden. Gli ebrei americani soffrono ormai di una sorta di ansia esistenziale, si sentono indifesi.
  Il nuovo islamismo made in USA appare invece fortemente consapevole di essere sostenuto da una massa di 1.500 milioni di individui in decine di paesi. Certamente non è condizionato dall’eredità del tempo degli schiavi, e quindi le attuali ondate di cortei antiebraici-antisionisti hanno un background ben diverso rispetto alle provocazioni isolate dei Black Panthers e dei Black Muslims nei tardi anni Sessanta.
  L’antisemitismo è devastante, è un fiume sotterraneo, carsico, che emerge in superficie quando le circostanze storiche o sociali sembrano in qualche modo legittimarlo. Così affermano personalità molto autorevoli della politica e della cultura. Ma si dovrebbe ormai sostituire il termine “antisemitismo” con la locuzione “odio antiebraico”, soprattutto per non dover ascoltare la solita e abusata litania: “anche gli arabi sono semiti”. Il problema ormai nasce nell’Islam collettivo, dall’Atlantico fino al Pacifico e attraversa l’Iran terra d’origine, per etimologia universalmente accettata, dei cosiddetti ariani. Peraltro, in Italia, due presidenti della nostra Repubblica nata dalla Resistenza (quella unica e vera) hanno detto senza ambiguità che antisionismo equivale esattamente ad antisemitismo. Di fronte a certi striscioni visti nelle piazze occorre ribadire l’assioma, finché si è in tempo.

(Shalom, 30 maggio 2024)

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Bechukkotài. L’etica del movimento

di Ishai Richetti

Una frase molto nota recita: Va dove ti porta il cuore. Questo, in qualche modo, ci porta alla Parashà di questa settimana, la Parashà di Bechukkotai (Vayikra 26:3-27:34). Nel primo versetto della nostra Parashà è scritto: “Se seguirai le Mie leggi e osserverai fedelmente i Miei comandamenti, ti concederò le piogge nella loro stagione…” Questa è la traduzione comune di questo versetto di apertura, ma una traduzione più letterale non dovrebbe iniziare con “Se seguirai le Mie leggi”, bensì con “Se camminerai secondo le Mie leggi”. La maggior parte dei traduttori sceglie comprensibilmente, in questo contesto, la parola “seguire” invece del letterale “camminare”. Il Midrash, tuttavia, adotta un approccio diverso usando la parola “cammino” nella traduzione letterale e lo collega alla frase riportata nei Tehillim (119:59) che recita: “Ho considerato le mie vie e ho rivolto i miei passi ai Tuoi decreti“. Dopo aver collegato il versetto all’inizio della nostra Parashà con questo versetto dei Tehillim, il Midrash continua, mettendo queste parole sulla bocca del re Davide: “Signore dell’universo, ogni giorno desidererei andare in questo e in quel posto, o a questa o quella dimora, ma i miei piedi mi porterebbero alle sinagoghe e agli studi, come è scritto: “Ho rivolto i miei passi ai Tuoi decreti”».
Molto prima che questo Midrash fosse composto, ma anche molto tempo dopo la vita di re Davide, il Talmud ricorda che il saggio Hillel disse: “Nel luogo che amo, è lì che i miei piedi mi guidano“. (Sukkà 53a)
La lezione è chiara. Il nostro inconscio conosce molto bene le nostre autentiche preferenze interiori, tanto che, qualunque siano i nostri piani coscienti, i nostri piedi ci portano nel luogo in cui vogliamo veramente essere. Per qualcuno, ad esempio, questo luogo potrebbe essere, quando andiamo a visitare una nuova città, il desiderio di vedere le antiche rovine, i musei, i palazzi e il Parlamento. Per altri il proprio io interiore potrebbe dare istruzione ai piedi di indirizzarli verso le vecchie librerie ammuffite dove è possibile curiosare a proprio piacimento, o in parchi rigogliosi fuori dai sentieri battuti dal turismo di massa dove si possono osservare i bambini che giocano.
Questo Midrash interpreta la frase di apertura della nostra Parashà, “Se camminerai secondo le Mie leggi”, come indicativo del desiderio della Torà che l’uomo possa interiorizzare completamente le leggi di D-o in modo che diventino il suo scopo principale nella vita. Anche se inizialmente definiamo il viaggio della nostra vita in termini di obiettivi molto diversi, si spera che le leggi di D-o diventino la nostra destinazione finale. Ci sono numerosi altri modi suggeriti dai commenti nel corso dei secoli per comprendere la frase in senso letterale: “Se camminerai secondo le Mie vie”. Rabbi Chaim ibn Atar, il grande autore dell’ Or haChaim, enumera non meno di 42 spiegazioni solamente per questa frase. Molte delle sue spiegazioni, sebbene non identiche a quella del Midrash che abbiamo citato precedentemente, sono coerenti con esso e ci aiutano a comprenderlo più profondamente. In uno di questi commenti, ad esempio, scrive che usando il verbo “camminare”, la Torà ci suggerisce che a volte è importante, nella vita religiosa, lasciare il proprio “ambiente familiare”. Bisogna “camminare”, intraprendere un viaggio verso un luogo lontano, per realizzare pienamente la propria missione religiosa. È difficile essere innovativi, è difficile cambiare, senza lasciare la propria “comfort zone”. L’Or haChaim ci lascia anche con la seguente profonda intuizione, basata su un passaggio nel libro delle fonti della Kabbala, lo Zohar: “Gli animali non cambiano la loro natura, non sono ‘camminatori’. Gli esseri umani, al contrario, sono “camminatori”, in quanto cambiamo continuamente le proprie abitudini, ‘allontanandoli’ da una condotta vile verso una condotta nobile, e da livelli di comportamento inferiori a comportamenti superiori. ‘Camminare’, progredire, è la nostra stessa essenza , la vera essenza dell’essere umano
La locuzione “camminare” è quindi una potente metafora di ciò che siamo. Pertanto, non c’è da stupirsi che questa parte finale del Libro di Vayikra inizi con questa particolare scelta di parole. Tutta la vita è un viaggio e, nonostante le nostre intenzioni, in qualche modo arriviamo a Bechukotai, “le Mie leggi”, così concludiamo il nostro viaggio attraverso questo terzo libro della Torà con queste parole: “Questi sono i comandamenti che il Signore diede a Moshè per il popolo d’Israele sul monte Sinai“.
La nostra Parashà rappresenta quindi come finale del libro di Vayikra un insegnamento molto importante. Se il libro di Vayikra è chiamato Torat Kohanim, perché perlopiù incentrato sulla costruzione del Mishkan, sui sacrifici e sul lavoro dei Kohanim e dei Leviim, la Parashà di Bechukkotai racchiude, nella prima parte, la promessa di D-o, con una seconda parte di ammonimenti per insegnarci che nonostante tutto abbiamo la promessa che D-o non ci abbandonerà. Il cammino che idealmente dobbiamo intraprendere e che è rappresentato bene in questa Parashà, la crescita personale, può avere degli inciampi, dei momenti di difficoltà, ma non è mai troppo tardi per rimettersi sulla strada giusta, per camminare secondo “i Miei decreti”, per realizzare la promessa di D-o riportata nella Parashà di Yitro: “In ogni luogo in cui ricorderai il Mio Nome, verrò da te e ti benedirò“. Interiorizzare questi concetti, osservare le mitzvot, fare atti di chesed, di giustizia, vivere una vita guidata da valori giusti, rappresenta quello cui tutti dobbiamo anelare, per la nostra crescita personale e per essere meritevoli di sempre più berachot.

(Morashà, 31 maggio 2024)
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Parashà della settimana: Vayikrà (E chiamò)

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E’ destinata a fallire una forza internazionale per Gaza?

I fallimenti storici sollevano dubbi fondati sulla capacità di tali forze di affrontare i movimenti terroristici.

di Yaakov Lappin

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L'IDF e l'UNIFIL coordinano le attività al confine israelo-libanese

L'idea di dispiegare una forza internazionale per aiutare a rendere sicura Gaza e affrontare Hamas è irta di sfide e i precedenti storici indicano il ricorrente fallimento di tali iniziative.
Una versione dell'idea esplorata negli ultimi mesi dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant è quella di una forza araba multinazionale guidata dagli Stati Uniti. L'idea non sembra aver attirato finora alcun Paese volontario.
Gli esempi storici e le realtà attuali a Gaza illustrano perché una tale missione sarebbe probabilmente inefficace nel migliore dei casi, o finirebbe per ostacolare le operazioni delle Forze di Difesa israeliane nel peggiore.
Il Magg. Gen. (ris.) Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e ricercatore senior presso l'Istituto di Gerusalemme per la strategia e la sicurezza, ha fornito una prospettiva sulle esperienze passate con le forze ONU in Medio Oriente.
"C'è una lunga storia di forze ONU in Medio Oriente, e forse l'esempio più significativo è quello dell'UNIFIL in Libano", ha dichiarato al JNS. "La forza non è mai riuscita a riferire adeguatamente su ciò che accadeva sul campo", ha detto l'ex direttore della Divisione Analisi dell'Intelligence militare dell'IDF.
L'incapacità dell'UNIFIL di monitorare e riferire sulle attività di Hezbollah, per non parlare dell'applicazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che vieta a Hezbollah di operare nel sud del Libano, è un precedente difficile da ignorare quando si esamina il contesto di Gaza.
"Secondo le Nazioni Unite, nessuna arma di Hezbollah ha mai raggiunto il Libano meridionale", ha dichiarato Amidror. "Inoltre, anche quando si è verificata una rivendicazione, la forza armata non è mai riuscita a verificarla, perché nella maggior parte dei casi non è stata autorizzata ad entrare nei luoghi sospetti", ha aggiunto.
Tali restrizioni ostacolano gravemente la capacità delle forze internazionali di svolgere efficacemente i loro compiti".
Amidror ha sottolineato che la Guerra dei Sei Giorni è iniziata nel 1967 dopo che le Nazioni Unite hanno deciso di ritirare le proprie forze da Gaza in un momento critico, evidenziando l'inaffidabilità delle forze internazionali nel mantenere la sicurezza durante i periodi di instabilità.
"Secondo tutte le esperienze in Medio Oriente, le Nazioni Unite sono al massimo un organo di collegamento tra le parti, ma non hanno mai risolto un problema o permesso una supervisione in modo tale da poter agire", ha affermato.
Inoltre, l'introduzione di forze internazionali ha un impatto negativo su Israele più di quanto non lo abbia sui nemici di Israele.
"Quando le Nazioni Unite sono sul campo, ostacolano Israele più di quanto non faccia l'organizzazione terroristica che le sta di fronte. Israele deve tenere conto della forza delle Nazioni Unite, mentre l'organizzazione terroristica può ignorarle e persino ostacolare la forza internazionale nell'adempimento del suo ruolo, fino a uccidere i suoi soldati", ha affermato.
Questa dinamica sarebbe particolarmente problematica a Gaza, dove Hamas può sfruttare la presenza di forze internazionali a suo vantaggio, ostacolando le operazioni dell'IDF e usando le forze internazionali come copertura, ha ammonito.
"Di conseguenza, la presenza delle Nazioni Unite è molto negativa dal punto di vista della sicurezza dello Stato di Israele, e non solo non aiuta, ma è dannosa", ha spiegato.
Il professor Eyal Zisser, vice rettore dell'Università di Tel Aviv e titolare della cattedra di storia contemporanea del Medio Oriente, ha osservato che le forze internazionali tendono a essere dissuase dall'affrontare le forze terroristiche locali come Hezbollah o Hamas.
Le forze multinazionali "non hanno un mandato chiaro per combatterle [le fazioni terroristiche]; il loro mandato generale è quello di mantenere la calma lungo il confine", ha dichiarato. Ciò mette in forte dubbio la capacità delle forze internazionali di affrontare il radicamento di Hamas a Gaza o i futuri attacchi del gruppo terroristico.
Zisser ha evidenziato un'altra questione critica: la riluttanza dei Paesi che inviano truppe a subire perdite.
"I Paesi che hanno inviato le forze non vogliono perdite e perdite, che porterebbero a critiche interne", ha spiegato. Questa avversione al rischio porta a un approccio cauto che mina l'efficacia operativa delle forze.
Inoltre, secondo Zisser, le forze sono spesso dispiegate per un periodo limitato e non hanno l'impegno a lungo termine necessario per raggiungere una sicurezza duratura.
La natura temporanea dei dispiegamenti internazionali fa sì che i comandanti e i soldati sul campo siano riluttanti a impegnarsi a fondo nelle complessità del conflitto. Di conseguenza, "di solito cercano intese con gli elementi locali per garantire la calma a entrambe le parti", ha dichiarato al JNS.
"Se Israele elimina Hamas e ci sarà solo un vuoto, è una cosa, ma se Hamas rimane sul terreno ed è armato, è una questione diversa", ha detto.
Ha anche sottolineato le difficoltà intrinseche nel coordinare una coalizione di Paesi per tali missioni.
"Una coalizione di Paesi è più difficile da mobilitare di un solo Paese. È sufficiente che la Giordania, ad esempio, decida di voler combattere Hamas, per far crollare l'intera struttura".
La mancanza di coesione e di uno scopo unitario tra le forze internazionali ne diminuisce ulteriormente l'efficacia.
"In breve, tutto dipende da Israele. Nessuno smantellerà Hamas al posto nostro", ha concluso. Anche lui ha avvertito che le forze internazionali creeranno nuovi problemi, perché "quando saranno lì, Israele non sarà in grado di danneggiare Hamas, che si nasconderà accanto a loro".
Uno sguardo al Libano sembra confermare questi dubbi.
L'Alma Center, specializzato nelle sfide alla sicurezza nell'arena settentrionale, ha osservato in un rapporto del dicembre 2023 che Hezbollah utilizza spesso l'UNIFIL, così come le Forze armate libanesi, come scudi umani.
"Hezbollah spera che il fuoco di rappresaglia dell'IDF danneggi lo scudo umano, limitando l'attività dell'IDF e aumentando la pressione internazionale su Israele", secondo il centro.
Le forze internazionali a Gaza probabilmente sarebbero sfruttate da Hamas proprio nello stesso modo.

(Israel Today, 30 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«L’Unrwa sostiene i terroristi. Israele la dichiara fuorilegge»

di Amedeo Ardenza

Lo Stato Maggiore dell'UNRWA a Gaza nascondeva un centro di comando e controllo dei terroristi di Hamas. Per questo la Knesset ha votato un disegno di legge per definire l'agenzia Onu come "organizzazione terrorista". Non è ancora un atto ufficiale. Ma rispecchia la realtà. La stessa valutazione deve essere allargata all'intera Onu: gli Stati democratici dovrebbero abbandonare le Nazioni Unite, lasciandole agli Stati terroristi e creare una nuova organizzazione solo per le democrazie. Quale sarà il primo Stato a proporlo?
  È guerra aperta fra Israele e l’Onu. Il che non sarebbe una notizia: da decenni le Nazioni Unite si sono trasformate in un “risoluzionificio” per produrre condanne su condanne dello e contro lo Stato ebraico. Un esercizio in cui le larghe maggioranze di Paesi arabi e musulmani, non allineati, filorussi, filocinesi o semplicemente antiamericani finiscono per prevalere su ogni logica.
  Gli esempi non mancano: nel 1975 l’Assemblea generale definì il sionismo, la dottrina politica che crede nel diritto degli ebrei all’autodeterminazione politica, una forma di razzismo: lo stesso si sarebbe potuto dire del Risorgimento. Solo nel 2023 l’Assemblea generale ha adottato 21 risoluzioni di condanna: 14 per censurare lo Stato degli ebrei e le altre sette per il resto del mondo (una a testa per Corea del Nord, Iran, Siria, Myanmar, Stati Uniti e due contro la Russia) mentre la decisione con cui la Corte internazionale di giustizia (Cig) - il braccio giurisdizionale del Palazzo di Vetro - ha accusato Israele di essere vicino a sterminare i palestinesi è di appena qualche settimana fa.

• ELETTRICITÀ NEI TUNNEL
  Ieri però Israele ha risposto per le rime e nel suo stile molto assertivo lo ha fatto sparando ad alzo zero: mercoledì la Knesset, il Parlamento monocamerale dello stato ebraico, ha approvato in prima lettura un disegno di legge per definire l’Urnwa un’organizzazione terrorista.
  Cos’è l’Unrwa? Un’agenzia dell’Onu dedicata alla tutela, la conservazione e la moltiplicazione dei soli rifugiati palestinesi. Più rifugiati ci sono e più cresce il bilancio dell’Unrwa, fra i cui scopi non c’è l’integrazione degli stessi rifugiati nei Paesi ospitanti. Bizzarrie dell’antisionismo onusiano: i profughi di qualsiasi altra origine devono accontentarsi dei servizi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Ma mentre nessuno si lamenta dell’Acnur, la letteratura giornalistica gronda notizie di docenti dell’Unrwa che insegnano ai bambini a odiare Israele e gli ebrei, di dipendenti dell’agenzia che ora online ora in prima persona partecipano ad azioni contro Israele, a scuole dell’Unrwa trasformate da Hamas in depositi di munizioni protetti dal logo dell’Onu.
  Lo scorso 10 febbraio, un tunnel lungo 700 metri e profondo 18 usato dall'intelligence militare di Hamas è stato rinvenuto sotto il quartier generale dell’Unrwa a Gaza. L’agenzia ha sempre proclamato la sua neutralità politica ma l’elettricità a quel tunnel, scrive il Jerusalem Post, arrivava proprio dalla sede Unrwa.
  Ieri con 42 voti contro 6 i deputati israeliani hanno detto basta. Nota politica non irrilevante, il disegno di legge non è stato presentato da alcun esponente della maggioranza fra il Likud di Benjamin Netanyahu, i partiti religiosi e nazionalisti religiosi, ma dalla deputata Yulia Malinovsky del partito laico e russofono Yisrael Beitenu. Se il provvedimento sarà approvato in via definitiva – in Israele sono necessari tre passaggi in aula – «la legge antiterrorismo si applicherà anche all’Unrwa, Israele cesserà successivamente tutti i legami con l'agenzia e le attività dell'organizzazione nel territorio israeliano saranno chiuse», spiega ancora il JPost.
  Agli israeliani ha risposto il capo della diplomazia dell’Ue, Josep Borrell, reduce da un incontro con il commissario dell’agenzia, Philippe Lazzarini. «L’Ue respinge ogni tentativo di designare l’Unrwa come un'organizzazione terroristica». Su X Borrell ha scritto che Lazzarini gli ha riferito di una situazione umanitaria tragica a Gaza e di come l’Unrwa «rimane un’ancora di salvezza indispensabile per i palestinesi».

• ULTIMATUM A NETANYAHU
  Sul piano politico continuano i mal di pancia interni alla maggioranza dopo che l’ex capo di stato maggiore e ministro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot ha criticato Netanyahu accusandolo di non riuscire a governare il Paese né di saper riportare la sicurezza. Eisenkot e l’altro ex generale centrista Benny Gantz hanno minacciato di togliere l’appoggio esterno al governo l’8 giugno se il premier non darà dei segnali di cambio di rotta politica. Sul piano militare, infine, le Israel Defense Forces (Idf) hanno affermato di aver ucciso il capo della logistica della polizia di Hamas, Salama Baraka, a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.

Libero, 30 maggio 2024)

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Roulette russa a Sderot

di Micol Flammini

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Sderot, dalla nostra inviata. Le strade sono vuote, si alza il vento e la sabbia entra nei rifugi messi qua e là, vicino alle fermate degli autobus, ai parchi giochi, sono colorati di blu, abbelliti con l’immagine di qualche animale, che per quanto sia stato disegnato con gli occhi grandi e amichevoli, non riesce a regalare grazia a questi blocchi di cemento. Sderot a essere bella neppure ci prova, ovunque ci sono edifici in costruzione e visto il vuoto per le strade sembra impossibile che prima o poi possano ospitare qualcuno. Nessuno passa, ma il lavoro è incessante, non si vedono operai, soltanto gru. Per chi è Sderot? La città nel deserto del Negev, all’angolo della Striscia di Gaza, è cemento e sabbia e sarebbe stata uno dei principali obiettivi dei terroristi di Hamas e del Jihad islamico il 7 ottobre, se non avessero trovato il Nova Festival: sono rimasti a massacrare i ragazzi e hanno posticipato l’arrivo a Sderot, che nel frattempo veniva svegliata dalle sirene che annunciavano l’arrivo dei razzi. Nulla di inconsueto, hanno pensato gli abitanti quel mattino, che da vent’anni sono abituati a correre nei rifugi e aspettare che finisca. Ma il 7 ottobre la sirena non finiva, continuava, imperterrita. Gitit era andata nel rifugio con sua figlia e suo marito, poi si era spostata da un amico che le aveva aperto esterrefatto: “Era shabbat, non uso il telefono e non sapevo nulla”. Poi è tornata a casa, ha fatto in tempo a notare una figura che cercava di fare di irruzione, ha preso il coltello ed è corsa nel rifugio. Eduard invece stava andando in sinagoga quando si è visto tagliare la strada da un pick up bianco a tutta velocità e accompagnato dalle grida degli uomini seduti dentro: “Allah Akbar!”. Ha pensato si trattasse di qualche disturbatore, ma è tornato a casa: “Mi ha chiamato il rabbino per dirmi di non andare più in sinagoga, ho acceso la televisione e ho visto la stessa macchina, gli stessi uomini”.
  Dopo il 7 ottobre, Sderot si è svuotata, sono rimasti gli anziani, un solo supermercato era aperto. Dopo cinque mesi ha iniziato a ripopolarsi, ora l’85 per cento dei suoi abitanti è tornato. “Noi vogliamo vivere qui, non possiamo andarcene. Perché dovremmo? Sono venuti a ucciderci per cacciarci, che senso avrebbe andare via? Anche se stiamo impazzendo tutti”, dice Gitit. A Sderot si sentono le esplosioni di Gaza, sono frequenti. La guerra qui ha una sola soluzione: Hamas va sconfitto. Da Sderot i terroristi avevano portato via un solo ostaggio, morto durante la prigionia, le scritte “Bring them home”, riportateli a casa, sono ovunque, ma al contrario di Tel Aviv, qui il pensiero va meno agli ostaggi e più al futuro.
  “Oggi è Sderot, domani Ashkelon. Non sarà l’ultima guerra, ma deve essere l’ultima contro Hamas”. Gitit dice di avere paura tutto il tempo, “qui il cuore ti batte in modo diverso, è come giocare alla roulette russa, ma la roulette qui è una missione”. I terroristi sono entrati a Sderot con una mappa in tasca in cui erano segnati vari punti chiave della città: la stazione di polizia e il municipio. Volevano occupare i posti del potere per avere il controllo, hanno preso la stazione, ma non il municipio, in cui lavorano sia Gitit sia Eduard, che quando parla disegna su un foglio di carta, riduce a schema ogni racconto. Giurano che Sderot non si spopolerà, ha aperto un nuovo bar, sono tornate le famiglie, ora i soldati sono davanti a ogni scuola, ma resta il silenzio per le strade. Qui si è infranto un patto. Il patto con il governo e con l’esercito, ora in città ci sono molti soldati, ma sembrano non fare la differenza. Prima Sderot, come le altre città o kibbutz vicini al confine, si sentiva protetta, ora c’è una fiducia da ricostruire. Sono i soldati i primi a sapere che il patto si è rotto, che nel paese c’è molto da rifare, tanto da rifondare: il ragazzo davanti all’asilo in uniforme con il fucile in spalla sembra chiedersi se qualcuno lo noti, se qualcuno si fidi. Si tiene la domanda per sé, conosce già la risposta. Gli abitanti sanno che le sofferenze evitate a Sderot sono state la condanna di chi era al Nova: l’evento che i terroristi non si aspettavano e in cui hanno ritenuto opportuno rimanere per causare il danno più profondo possibile.
  Non ci sono piani per il dopoguerra in questa città, si sente solo il battito impazzito del cuore, Eduard crede che Gaza dovrebbe diventare un affare di tutti: “Deve essere gestita dalla comunità internazionale, dagli europei. Tutti devono capire che da qui passa la sicurezza comune. Noi combattiamo per proteggerci, ma se scompare Israele, cosa verrebbe creato qui? Riguarda forse soltanto noi?”. Sderot non cerca amicizie. I soldati si aggirano senza sapere quando potranno essere trasferiti, non ispirano fiducia, ma a Sderot non importa, è qui per restare.

Il Foglio, 30 maggio 2024)

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Guerra a Gaza a colpi di storie Instagram, “tutti gli occhi su Rafah”

Ma “dove erano il 7 ottobre”? Il conflitto tra social e intelligenza artificiale

Una guerra totale. A Gaza, prosegue l’offensiva e continuano i bombardamenti israeliani, con la morte di migliaia di civili palestinesi. Nel frattempo, però, in previsione di un’operazione militare su Rafah si mobilitano ancora di più i social network. Questa volta però non sono solo i contenuti dei soliti account che parteggiano per uno schieramento o l’altro a invadere i social, come Instagram, X, Facebook e TikTok. Da ore rimbalzano su Instagram due storie, entrambe create con l’intelligenza artificiale: una che è diventata il simbolo del supporto al popolo palestinese, l’altra la risposta israeliana.

• Guerra a Gaza a colpi di storie Instagram
  “Tutti gli occhi su Rafah“, la scritta che compare nella storia Instagram che inquadra i campi e le tende dei rifugiati palestinesi. È stata creata da un fotografo amatoriale malese ed è stata ricondivisa più di 39 milioni di volte in tutto il mondo, numeri record per un trend diventato virale. Un appello ad aumentare l’attenzione su ciò che avviene sul centro di Gaza, teatro di stragi a causa dei bombardamenti israeliani. Una grafica fatta dall’IA che ha impazzato per il social e ha portato a un’improvvisa mobilitazione di milioni di persone. Alcuni lo hanno fatto per convinzione, altri per un interesse nato nelle ultime settimane, altri ancora per moda, fenomeno che specialmente sui social ha sempre la sua validità.
  Come risposta a questa storia, da account vicini invece alla causa di Israele ne è stata rilanciata un’altra. Un’immagine – sempre creata dall’IA – che illustra un terrorista di Hamas pronto a uccidere un bambino israeliano il 7 ottobre, con la bandiera con la stella a sei punte in fiamme, e la scritta: “Dove erano i vostri occhi il 7 ottobre?“. Quest’ultima è stata ricondivisa da meno persone, circa 500mila i numeri fino a mercoledì mattina, ma comunque ha riempito i profili di tante persone che non si sono sentite rappresentate dalla storia precedente.

(Il Riformista, 30 maggio 2024)

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Il Comune di Bologna espone la bandiera della Palestina. La Comunità ebraica: «Legittima il terrorismo»

La decisione del sindaco Matteo Lepore: «Quando Israele si fermerà metteremo anche la loro». Protesta la presidente della Comunità ebraica Di Segni: «Vada nelle zone del massacro del 7 ottobre». Il viceministro Bignami: «Scelta faziosa e irresponsabile». 

di Mauro Giordano

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Il sindaco Matteo Lepore espone la bandiera della Palestina dal Comune di Bologna

«La decisione del Comune di Bologna di esporre la bandiera palestinese è una scelta faziosa e irresponsabile, che divide e non unisce, alimentando un clima di contrapposizione e conflittualità che è esattamente ciò di cui oggi non c'è bisogno. Si rimuove totalmente l'origine di quanto sta avvenendo, vale a dire la strage del 7 ottobre compiuta contro civili israeliani inermi». Lo afferma il viceministro delle Infrastrutture Galeazzo Bignami in una nota. «Si dimenticano le violenze, gli stupri, i soprusi perpetuati contro donne e uomini colpiti solo perché israeliani o in territorio israeliano. Si rimuove la sorte degli oltre 100 ostaggi ancora detenuti dai terroristi di Hamas. Se è doveroso distinguere tra popolo palestinese e Hamas, altrettanto necessario è ribadire il diritto dello Stato di Israele di esistere e di difendersi e di difendere il suo popolo e i suoi confini. Non si costruiscono dialoghi esponendo bandiere ed alimentando divisioni», afferma Bignami.
  Oltre a Bignami, per Fratelli d'Italia prendono posizione anche i consiglieri comunali, che definiscono «inaccettabile e grave» la decisione del sindaco Matteo Lepore e annunciano che presenteranno un esposto in prefettura per un gesto che «vìola palesemente la neutralità delle sedi istituzionali».
  «Se davvero si vuole ribadire l'attenzione per il rispetto dei diritti umani e per la pace non esponi solo una bandiera ma le esponi entrambe. Una bandiera in un luogo pubblico non può essere usata come simbolo di contestazione di altri paesi. Un gesto simile da un'istituzione pubblica non fa che legittimare la voce del terrorismo e della prevaricazione». Così all'ANSA la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni, assieme al presidente della Comunità di Bologna De Paz. «Invitiamo Lepore a recarsi in Israele nelle zone del massacro prima di esporre bandiere e slogan», hanno aggiunto. «Anziché strumentalizzare vicende di un conflitto lacerante per tutti, dimenticando totalmente il massacro del 7 ottobre, da un sindaco di una città dove la comunità ebraica è presente da secoli, ci aspettiamo che riconosca e tuteli tutti», ha sottolineato la presidente Ucei Di Segni. 

(Corriere della Sera, 29 maggio 2024)
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«Quando Israele si fermerà metteremo anche la loro», annuncia solennemente il sindaco di Bologna. Che un uomo delle istituzioni, una figura pubblica, per dare ragione dei suoi atti arrivi ad usare una frase di tale stupidità è disarmante. Letteralmente. Che arma dialettica si può usare per controbattere al vuoto della ragione? In tal modo disarmati, dovremo forse assistere ammutoliti al trionfo della stupidità? E' questa l'arma più potente dei nemici d'Israele? M.C.

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Quale Palestina vogliono Madrid, Oslo e Dublino?

‍‍di Noemi Di Segni, presidente UCEI

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Noemi Di Segni, presidente UCEI

Spagna, Irlanda, Norvegia, per iniziare. Forse poi qualcun altro deciderà di procedere unilateralmente al riconoscimento della Palestina. Tre Stati con una storia (con la S maiuscola) molto diversa tra loro risalendo nei secoli, rispetto alla presenza delle comunità ebraiche, l’inquisizione, la risposta all’occupazione nazista e i regimi totalitari, l’adesione al progetto europeo e ancora l’immigrazione. Stati con vicende e sfide odierne molto diverse, e che però all’unisono si sono attivati per accordare un riconoscimento che non può considerarsi di mero sostegno, sancendo di fatto il terrorismo quale percorso che merita legittimazione. I riconoscimenti pregressi da parte di Paesi africani o arabi, in qualche modo applaudito in ambito Onu, non sorprendono considerando i soggetti da cui promanano, ma poiché parliamo di due Stati dell’Unione europea e uno molto vicino all’Ue (la Norvegia) di certo non possiamo sottovalutare la gravità del gesto. “Stato” non è uno slogan o un’etichetta che si decide di associare per pietà o per premio condividendo una presunta lotta alla liberazione. Non è una spilletta consolatoria né un omaggio di rispetto.
La parola Stato è una parola seria. Genera responsabilità sul piano interno, internazionale e morale e presuppone impegno e capacità. Capacità sulla quale, qua in Italia, ci misuriamo tutti i giorni in termini di aderenza ai valori fondanti dell’Unione europea, della Repubblica, per noi Italiani e parimenti per Israele. A tutti si estende il vaglio e il rigore dell’osservanza dei principi che sono alla base della convivenza tra le nazioni e il perseguimento della pace giusta, sapendo riconoscere falle ed errori che mettono a rischio il sistema democratico e di tutela a cui teniamo massimamente. E sappiamo confrontarci anche nei fori internazionali a patto che siano degni e leali alla loro missione, non quando trasformano anche le Corti di giustizia in arene politiche.
“Stato” è un concetto giuridico ben preciso che presuppone la disponibilità di un territorio con confini precisi, una popolazione che possa considerarsi cittadina di quell’entità, una capitale non meramente ideologica ma integrata in quei medesimi confini e una leadership riconosciuta, autorevole e capace di guidare per costruire, innovare, fare progredire verso un lontano futuro, superando sfide sociali, politiche, ambientali, economiche.
Tutto questo è al momento inesistente per la Palestina ed è stato fermamente rigettato dai palestinesi stessi nelle diverse occasioni – nella proposta del ’47 e negli altri negoziati di pace. I “no” ancora tuonano e si sono trasformati in inneggiamenti al massacro e alla distruzione invocata di Israele, degli ebrei e di tutto l’Occidente. Anche per i più convinti sostenitori del “due popoli e due stati” è difficile oggettivamente definire il perimetro giuridico-territoriale dello Stato palestinese e non per una resistenza israeliana, ma per i contrasti e la dialettica interna al popolo palestinese e alle sue leadership.
Siamo abituati a ragionare con i nostri significati occidentali sulle categorie concettuali di Stato, Popolo, e valori costituzionali tratti della nostra esperienza storica, specialmente in Europa. A quale Stato pensano la Spagna, l’Irlanda o la Norvegia quando dichiarano il riconoscimento della Palestina? A uno Stato con una costituzione europea o a uno stato con costituzione simile a quella turca? Pensano alla Cina? Alla Russia? All’Iran? Ad uno Stato simile a Israele? Non riesco a correlare alcun modello di Stato alla frastagliata vicenda palestinese che non porti alla creazione di un altro presidio legalizzato del terrore e della teocrazia radicalizzata.
Si celebra quest’anno l'anniversario dalla morte di Theodor Herzl (3 luglio 1904). Il “visionario“ dello Stato ebraico e di quello che oggi è Israele. Ci uniamo idealmente a tutte le cerimonie e ai momenti dedicati alla sua immensa opera diplomatica e non solo. Per parafrasare Herzl dovremmo dire che uno Stato palestinese è possibile “se solo lo si vuole”, non certo con la forza del terrore e la cultura della morte, ma con la forza e la cultura della vita. Non certo con dichiarazioni unilaterali di chi ha per secoli perseguitato gli ebrei cacciandoli, ma con il concerto di nazioni libere dalla piaga della distorsione della storia e dell’antisemitismo, attraverso un negoziato con chi riconosce lo Stato di Israele e non inneggia con slogan all’annientamento dello stesso, non certo con chi ospita e dà rifugio ai capi del terrore, non certo con chi avalla il sistema degli scudi umani addossando responsabilità a un esercito che è più amico che nemico, non certo con la pretesa di collaborazione umanitaria rivolta ad uno solo dei paesi confinanti con la striscia di Gaza, lasciando immune da ogni disagio “collaterale” l’altro.
Il concetto di Stato – quello da sognare anche per i palestinesi – corrisponde a tradizione, maturità e prospettiva del futuro. Gestione di istituzioni pubbliche che riguardano la giustizia, il welfare, la pianificazione urbanistica, la pedagogia e l’insegnamento della lingua che pronuncia vita, la bellezza, il rispetto e l’empowerment delle donne, l’acquisizione di saperi innovativi, curativi e di promozione del benessere, l’ascolto, il dibattito, le manifestazioni e l’inclusione come meccanismi per la formazione delle decisioni, il riparto di competenze e l’uso di forze di polizia e di esercito per difendere e non per governare. Corrisponde a istituzioni capaci di riconoscere e valutare le proprie fatiche e défaillance, di articolare un sistema di informazione e media lontani da ogni nuance di propaganda, valori che affondano nella fede religiosa per generare bene, libertà e diritti che guidano singoli e istituzioni e non l’alibi e l’abuso del potere. Corrisponde a sistemi dove le università sono luoghi di ricerca aperta, libera e indipendente, che non si piega ai campeggiatori occupanti e minacce, a teatri come luoghi di aperta cultura e satira. Tutto questo è l’insieme di Stati che sono Nazioni da tenere unite. Tutto questo è l’insieme di vicini confinanti che ha senso avere. Ed è quello che dovrebbero continuare ad essere anche Spagna, Irlanda e Norvegia. Tutto questo è Israele in cui ci riconosciamo e in cui crediamo. Tutto questo è Israele, che abbina alle antiche parole tratte dalla Bibbia, le applicazioni di intelligenza artificiale, che affronta sfide e dilemmi morali laceranti di oggi trovando forza e conforto nella sapienza e nella preghiera millenaria. Tutto questo è Israele, che ha posto Gerusalemme sua capitale, luogo che accoglie e di convivenza, di canti delle preghiere ebraiche, canti di muezzin e suono campane, molto più di quanto narrato.
È nostro dovere come comunità ebraiche qui in Italia e altrove, in questi durissimi mesi – e proprio dinanzi alla catena di barbarie perpetrate da singoli indottrinati all’odio con atti materiali o da enti e istituzioni con parole e delibere – ribadire l’impegno dello Stato di Israele nella difesa dei suoi cittadini tutti e dei suoi confini nei quali si è ritirato, sulla base delle diverse risoluzioni internazionali accettate e accordi di pace sottoscritti. Proprio con il pensiero verso il 2 giugno – giorno del referendum del 1946, dopo la lunga e devastante guerra, con il quale fu sancita la Repubblica e nel quale venne eletta l’Assemblea Costituente – va ben chiarito che questo impegno non è solo indispensabile per la salvaguardia di Israele stessa, ma genera beneficio e tutela per l’intera civiltà occidentale, all’Italia e all’Europa ancora unita che va verso un importante rinnovo parlamentare e che certo non desidera trovarsi soffocata da alcuna radicalizzazione e minaccia al concetto di Stato cosi come lo ha sognato e maturato, cosi come lo ha difeso con i presìdi costituzionali. La pace e la convivenza non nascono dalle dichiarazioni unilaterali o sventolando solo bandiere palestinesi in cortei e aule parlamentari, ma dalla volontà di insegnare ai propri figli l’amore per la vita anche quella altrui, alzando lo sguardo verso il cielo ricordandoci che siamo esseri umani creati tutti a immagine di uno stesso D-o.

(moked, 28 maggio 2024)

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I diversi fronti dell’offensiva contro Israele

Di David Elber

È del tutto evidente che se Israele si dimostra debole e diviso su questo fronte, la sua esistenza stessa è posta in serio pericolo. Noi tutti ci ricordiamo delle innumerevoli manifestazioni di piazza quando il governo ha proposto una legge di riforma del sistema giudiziario del paese. Uno degli slogan più utilizzati fu “la riforma giudiziaria indebolirà Israele a livello internazionale e questo esporrà il paese al lawfare internazionale”. Bene, un anno dopo, la riforma della giustizia è stata congelata ma Israele è stato accusato dei crimini più turpi proprio dai (presunti) massimi organi di giustizia internazionale: la Corte di Giustizia Internazionale e il Tribunale Penale Internazionale. Quindi, è evidente che il rinunciare alla riforma della giustizia non ha fatto da “scudo” a queste false accuse, come pretendevano certi giudici, molti politici e una parte dell’opinione pubblica. Come mai nessun organo di informazione lo mette in rilievo? È semplicemente passato in sordina, come sono passati in sordina i gravi errori commessi da alcuni giudici e politici nell’affrontare il pericolo posto dalle corti internazionali.
  La gravità delle dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenuto oggi a SkyTg24, non può essere sottaciuta.
  Parlando della guerra a Gaza, e nello specifico, dell’operazione in corso a Rafah, l’esponente di Fratelli di Italia, dopo avere snocciolato il solito luogo comune che Hamas sarebbe una cosa e il popolo palestinese un’altra (quale popolo palestinese onorevole Crosetto, quello che vive a Gaza e nel 2005 ha votato convintamente Hamas e lo ha sempre sostenuto, o quello della Cisgiordania che secondo gli ultimi sondaggi è inequivocabilmente a maggioranza a favore di Hamas, o un altro?), e avere detto che Israele avrebbe dovuto fare una scelta “più coraggiosa  dal punto di vista democratico” (cioè quale?), e avere aggiunto che il problema di Hamas andava risolto in “modo diverso” (ovvero, magari come ha suggerito Michele Santoro durante una trasmissione di Piazza Pulita, ispirandosi alla serie tv “Fauda”?), è arrivato all’apice. E l’apice è questo “Ho l’impressione che con questa scelta quella dell’operazione militare a Rafah, Israele semini odio che coinvolgerà i loro figli e i loro nipoti”.
  Siamo dunque giunti a riproporre parafrasandolo, il celebre passo del Vangelo di Matteo (27,25), secondo il quale, tutto il popolo ebraico riunito davanti a Pilato per scegliere se graziare Gesù o Barabba, dopo avere scelto il secondo, avrebbe detto a proposito di Cristo, “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.
  Non è certamente questa la sede per effettuare una esegesi teologica del significato dell’affermazione, sulla quale Benedetto XVI nel secondo volume di “Gesù di Nazaret, Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”, ha chiarito pienamente il senso, ma è quella per evidenziare come i tropi dell’antisemitismo tradizionale, consapevoli e inconsapevoli, si manifestino ormai in piena libertà, e quello della trasmissione della colpevolezza presunta degli ebrei che dovrà essere espiata dalle generazioni future, è il più fosco e terribile, essendo stato la giustificazione, su base religiosa, per la persecuzione ininterrotta degli ebrei.
  Il ministro Crosetto è solo l’ultimo in ordine di tempo ma non di rango, a stigmatizzare Israele per una operazione militare inevitabile, che, se non consegnando la vittoria a Hamas e dunque al jihadismo, non può essere arrestata, anche se Crosetto sa, insieme ad altri, che per debellare Hamas a Gaza e impedire che si possa ripetere un altro 7 ottobre, Israele avrebbe potuto agire, diversamente, senza, ovviamente, essere in grado di specificare come.

(L'informale, 29 maggio 2024)

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Ritrovate antiche testimonianze vicino allo storico ghetto di Varsavia

di Michelle Zarfati

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Durante gli scavi nei sotterranei di due edifici a Varsavia, situati per la precisione al 39 e al 41 di via Muranowska – vicino a Mila 18, dove si trovava il famoso bunker di Mordechai Anielewicz nel ghetto di Varsavia – sono stati scoperti più di 5.000 oggetti appartenenti ai residenti ebrei prima della guerra. Questi manufatti sono stati analizzati e poi trasferiti al Museo del Ghetto di Varsavia.
  Secondo i ricercatori, a causa della loro vicinanza al bunker di Anielewicz, alcuni degli oggetti sarebbero stati usati proprio nel periodo della reclusione nel ghetto. Inoltre, questo sito di scavo ha conservato in modo unico la memoria della città prebellica. Nella Varsavia contemporanea, ricostruita dopo la Seconda guerra mondiale, questo sito permette di avvicinarsi ad una città che non esiste più e vedere che gran parte di essa giace ancora sotto i piedi dei suoi abitanti.
  “La ricerca archeologica inizialmente doveva durare quattro settimane. Ma ad un certo punto, siamo caduti tutti in un vortice magico. Non siamo riusciti a finire gli scavi perché man mano venivano scoperte sempre più stanze”, ha detto il ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale polacco Hanna Wróblewska.
  L’8 maggio, la Facoltà di Architettura dell’Università di Tecnologia di Varsavia ha tenuto un evento in cui si è discussa la gestione dello spazio pubblico, affrontando le possibilità e le sfide di preservare e commemorare in modo appropriato i sotterranei di Mila 18, scoperti durante precedenti lavori archeologici. Il Museo del Ghetto di Varsavia starebbe infatti prendendo provvedimenti per preservare e trasformare in un sito commemorativo gli spazi e gli oggetti rinvenuti dagli archeologi, una testimonianza materiale della storia e del patrimonio degli ebrei di Varsavia. La decisione di non riseppellire il sito di scavo è anche legata alla speranza che lo spazio possa servire come memoriale duraturo, un ricordo permanente della storia scomparsa della città.
  Albert Stankowski, direttore del Museo del Ghetto di Varsavia, ha sottolineato la necessità di preservare Mila 18 per le generazioni future: “Quello che mi ha colpito maggiormente è stato l’incontro con un gruppo di adolescenti israeliani. Una ragazza ha chiesto se poteva prendere una pietra dal sito di scavo. Solo allora mi sono reso conto di quanto sia importante per i giovani che vengono in Polonia, e cercano tracce materiali della storia, poter toccare e vedere questo sito. Questa consapevolezza ha in parte portato allo sforzo del Museo del Ghetto di Varsavia di preservare Mila 18”.

(Shalom, 29 maggio 2024)

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Andrée Ruth Shammah e le proteste contro Israele: “Ragazzi, siete pacifisti immaginari”

Nel 1968, scendeva in piazza. Oggi critica i giovani che manifestano a senso unico: “Per difendere i palestinesi, bisogna sconfiggere il terrorismo di Hamas”

di Giovanna Fumarola

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Andrée Ruth Shammah prima e dopo

«Pensare che io vorrei sempre e solo parlare di teatro, invece mi si chiede ancora di parlare di antisemitismo in quanto ebrea», provoca Andrée Ruth Shammah. «Che siano sempre solo gli ebrei in prima linea a difendere qualcosa che non riguarda solo loro, ma la difesa dei valori democratici dell’Occidente, le sembra giusto?».
A 24 anni, battagliera, Shammah lascia il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, e fonda a Milano assieme a Franco Parenti e ad altri intellettuali come Giovanni Testori il salone Pier Lombardo, un teatro che diventa palcoscenico nuovo, giovane, sotto forma di cooperativa, oggi intitolato al suo amore di allora, Franco Parenti appunto. Spettacoli, concerti, rassegne cinematografiche, conferenze, festival, novità editoriali: dal 1972 tutto quello che è innovazione passa da questo luogo che lei dirige con indomita passione.

LE PROTESTE NELLE UNIVERSITÀ – Ventenne, scendeva in piazza e sui cartelli c’era scritto: «No al fascismo». Oggi gli studenti occupano le università con slogan tipo: «There is only one solution, Intifada revolution», (C’è una sola soluzione, la rivoluzione dell’Intifada, ndr). Per esempio alla Columbia, una delle più famose, a New York. «Una minoranza che urla non è la maggioranza. La maggioranza delle persone ha capito che bisogna sconfiggere soprattutto il terrorismo di Hamas per difendere i palestinesi. Gli arabi moderati sono con noi».

- Il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea parla di un raddoppio degli episodi di antisemitismo in Italia dopo i fatti del 7 ottobre; in Francia il Consiglio delle Istituzioni Ebraiche dice che in soli 3 mesi gli atti antisemiti hanno raggiunto quelli dei tre anni precedenti. Ci si deve allarmare? 
  «L’antisemitismo è latente da sempre. C’è sempre stato, di questo sono certa. Diciamo che adesso, dopo il 7 ottobre, ha trovato modo di uscire nuovamente allo scoperto».

- Lei ne è mai stata vittima? L’hanno mai trattata da diversa in quanto ebrea? 
  «Non me ne preoccupo».

- Va bene, ha la scorza dura, ma è capitato? 
  «Ma certo, fin da bambina! Questa cosa ce la portiamo addosso sempre. Pensate che quando a teatro ho ospitato gli spettacoli di Hanoch Levin, un grandissimo autore israeliano, che oltretutto era contro il governo, su alcuni social leggevo frasi tipo: “Bisognerebbe togliere i contributi statali al suo teatro, è un avamposto del sionismo”. C’è un insegnante dell’Accademia di Brera che mi ha persino scritto: “Signora Shammah, viste le sue posizioni, non porteremo più gli studenti nel suo teatro”. Ho risposto: “Peccato per gli studenti, perché si perderanno dei begli spettacoli».

- Al Salone del libro di Torino ci sono state proteste pro Palestina. 
  «La politica e la cultura devono essere più avanti delle persone, indirizzarle verso il meglio. Non ci si deve occupare sempre solo di Israele, un Paese piccolissimo in uno scacchiere enorme di ingiustizie. Quando si condannano le ingiustizie del mondo, non si dovrebbe citare solo Netanyahu, perché sennò si identificano gli ebrei con il governo di Israele.
Si arriva a fischiare la cantante Eden Golan all’Eurovision 2024 solo perché è ebrea e israeliana. Capite che è come se nel mondo, chi non si riconosce nel governo italiano attuale, odiasse un italiano a prescindere?».

- Invece si condanna la politica di Israele, ma tornano a galla anche fenomeni di antisemitismo.
  «È un meccanismo che ascrivo al senso di colpa dell’Occidente nei confronti della Shoah. È come se molti non ne potessero più di sentirsi addosso questa responsabilità. Finalmente qualcuno ha potuto dire: “Voi siete come i nazisti”, credendo di pareggiare le cose. Ci sono elementi della nostra cultura che da sempre infastidiscono e diventano pretesto. La dicitura “popolo eletto”, percepita come se contenesse un principio di superiorità, anche se la traduzione significa “popolo del patto”, del patto con Dio per custodire la sua parola. Citare i molti ebrei tra i vincitori di premi Nobel, oppure il fatto che il cinema in America non sarebbe esistito senza l’apporto creativo degli immigrati ebrei. Io da ebrea dico: “Saremo più forti di prima”. Molti Paesi arabi faranno la pace con Israele, anche se ora c’è un’ubriacatura, e tanti giovani si dimenticano che Hamas è contraria a ogni libertà civile. Gli omosessuali, per dire, Hamas li disprezza».

- I giovani chiedono la pace, il cessate il fuoco.
  «La pace è un concetto meraviglioso, ma se non ci fossero state le armi, il Nazismo non sarebbe mai stato sconfitto. Hamas ha dichiarato che vuole la distruzione di Israele, quindi cosa facciamo, accettiamo questo senza che il mondo occidentale combatta perché non accada?».

- Lei, figlia di ebrei sefarditi emigrati dalla Siria, ha spesso detto di aver valorizzato tardi la sua identità.
    «È la verità. Intanto,mi sono resa conto che quando gli altri ti additano, ti identificano con una definizione, tu stessa poi la riconosci. È lo sguardo degli altri che ti disegna, in un certo senso. Spesso la morte dei genitori segna il bisogno di conservare la tradizione. Mio figlio (Raphael Tobia Vogel, regista, nato dal matrimonio con l’odontoiatra milanese Giorgio Vogel, scomparso nel 2013, ndr) non ha avuto un padre ebreo. Suo padre era comunista, interessato alla cultura ebraica da un punto di vista letterario, leggeva Philip Roth e quasi solo scrittori ebrei, ma criticava la mia ostinazione nel voler preservare il senso delle origini».

- Che cosa direbbe quindi ai giovani che rischiano di fomentare l’antisemitismo? 
  «La nostra religione non ha la verità incarnata. Per noi ebrei, il Messia è una tensione, questo vorrei che capissero. Un ebreo a una domanda risponde sempre con un’altra domanda. L’ebraismo è quanto di più giovane e rivoluzionario esista».

(Oggi, maggio 2024)
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No, il Messia d'Israele non è "una tensione". E non riguarda soltanto gli ebrei. Qualcosa comincerà forse a cambiare quando gli ebrei capiranno che il loro compito non è "la difesa dei valori democratici dell’Occidente". È intorno a quel democratico idolo che stavano danzando i giovani all'alba di quel sabato 7 ottobre 2023? Ed è sempre a difesa di quei valori che sei mesi prima in Israele i giovani festeggiavano il Purim in modo adatto ai tempi nel NOVA AVAK PURIM GATHERING. M.C.

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Ebraismo italiano e Israele: come va la comunicazione?

Klaus David, esperto di comunicazione, esamina per Riflessi l’interesse del meridione per l’ebraismo e Israele, nonostante la comunicazione di cultura e valori ebraici non siano la migliore, come qui ci viene spiegato

di Massimiliano Boni

- Klaus David, da molti anni è noto il tuo impegno a sostegno della diffusione della cultura ebraica in Italia, specialmente nel meridione. A cosa si deve tanto interesse per una parte del paese da cui gli ebrei sono stati cacciati oltre cinque secoli fa?
  In Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna esiste un fenomeno che potremmo definire di giudaismo sommerso; e che a partire dal 900 è riemerso. L’esempio più significativo probabilmente è quello della comunità di San Nicandro, ma vorrei ricordare anche l’alto valore simbolico della riapertura di una sinagoga a Trani, una delle tante sinagoghe sottratte a una comunità ebraica. Ciò che caratterizza questo fenomeno, che spiega la sua larga diffusione, è che si tratta di un movimento che proviene dal basso: direi che l’interesse al giudaismo nel meridione d’Italia proviene direttamente dal popolo.

- Perché?
  L’interesse della gente del Sud per la cultura ebraica è ampio e costante. Basta fare un piccolo esempio: poche settimane fa, durante lo svolgimento dell’Eurovision, i dati auditel dimostrano che i voti a sostegno italiani della cantante israeliana sono arrivati prevalentemente dal Sud Italia, in particolare dai giovani. Una prima spiegazione di tanto interesse è che, nell’immaginario di queste terre, Israele è percepito come un paese modello, per la sua efficienza delle istituzioni, il suo notevole sviluppo tecnologico, in una parola perché rappresenta un esempio di Stato moderno, da imitare. A ciò si aggiunga anche che il sud spesso si sente scaricato dalle istituzioni nazionali che se ne dovrebbero occupare, e forse si sente lusingato dall’attenzione che riceve dal mondo ebraico.

- A cosa ti riferisci?
  Oggi sono molte le imprese israeliane che investono in Calabria e in generale nel Sud Italia. E poiché l’uomo del Sud sa essere anche molto pragmatico, intravede in questa vicinanza delle grandi potenzialità. Inoltre, considera che oggi il pregiudizio, soprattutto da parte delle nuove generazioni, è molto inferiore al passato. Certo, sappiamo che anche il sud purtroppo ha una storia di antisemitismo popolare nel corso dei secoli trascorsi. Tuttavia, mi sembra che esso sia ampiamente bilanciato da quell’interesse che ti dicevo. Ad esempio, quando mi sono candidato e sono stato eletto nel Comune di San Luca – in pieno Aspromonte, una terra difficilissima, con oltre 30 morti di faida, insomma il paese simbolo della ndrangheta – contro ogni previsione ho trovato un profondo interesse e ammirazione per la cultura ebraica. Essa si rintraccia soprattutto nella classe media: insegnanti, impiegati, liberi professionisti.
  E per questo che ritengo che l’interesse del Sud Italia per l’ebraismo nasce dal basso: perché esso non trova altrettanto spazio nelle classi alte. Prendi il caso di Benedetto Musolino: sono convinto che dovrebbe essere lui a essere indicato come l’inventore del sionismo, e non Herzl. Anche se Musolino non aveva esplicitato il suo pensiero sionista, è stato un personaggio straordinario, da sempre a favore della necessità della creazione di uno Stato ebraico. Eppure, una figura che sarebbe così importante da raccontare anche al mondo ebraico, dalle élite calabresi viene ancora oggi ignorata. Di fatto non si tengono convegni sulla sua figura nelle università del Sud, e solo qualche libro ne descrive la vita. Insomma, la volontà di escludere una figura che proviene dal popolo ha come effetto quello di non valorizzare questo legame fra la cultura ebraica e il Sud Italia.

- Un tale potenziale dovrebbe essere al centro anche dell’attenzione dell'Ucei. Quali sono le reazioni dell’ebraismo italiano a questo interesse?
  La presidente dell’Ucei, Noemi Di Segni, ha sempre mostrato la massima disponibilità a collaborare per promuovere la cultura ebraica nel meridione. Certo, questo richiederebbe anche un adeguato utilizzo di risorse finanziarie, che però non sempre sono disponibili.

- Quali iniziative, negli ultimi tempi, hai promosso per lo sviluppo e la conoscenza della cultura ebraica In Italia?
  La scorsa settimana ero nelle Marche a parlare di cultura ebraica in più località. Da anni mi occupo di organizzare eventi in Calabria per promuovere la cultura ebraica in collaborazione con la Regione e con il vicepresidente dell'Ucei Giulio Disegni, e spero che tali iniziative possano continuare. Più in generale, mi impegno perché ci sia un costante dialogo fra il mondo ebraico italiano e la società civile. Domenica, per esempio, ero a Napoli, dove la comunità locale ha incontrato il capo della direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo. La mia idea è quella che sia necessario promuovere costantemente il dialogo fra le comunità ebraiche italiane e la società circostante, per spiegare la realtà dell’ebraismo italiano, ma anche di Israele.

- Cosa dovrebbe fare l’ebraismo italiano per migliorare la propria comunicazione?
  In generale comincerei col dire che negli ultimi anni mi sembra che la comunicazione di ciò che fa l’Ucei e in generale l’ebraismo italiano sia nettamente migliorata. Pensa alle giornate della cultura ebraica: sono momenti importanti, in cui l’ebraismo si apre sul territorio. In tali occasioni si registra sempre un grande interesse da parte delle persone, che vogliono conoscere la vita ebraica. Forse non ci rendiamo conto, infatti, quanto possa essere emozionante per una persona che non conosce il mondo ebraico fare ingresso in una delle tante sinagoghe storiche presenti nel nostro paese. Credo che questo sia un passo necessario per far comprendere la ricchezza della cultura ebraica, anche per fronteggiare il pregiudizio che poi può sfociare in vero antisemitismo. Al netto dell’antisemitismo esploso negli ultimi mesi, sussiste nel nostro paese una maggioranza che non intende farsi condizionare dal pregiudizio contro gli ebrei, e che avrebbe bisogno di più strumenti per conoscere il mondo ebraico.

- Che effetti ha avuto il conflitto nella percezione dell’ebraismo?
  È inevitabile che la guerra abbia inciso sulla percezione d’Israele, ma forse anche dell’ebraismo. Tuttavia, anche qui mi sembra che i pregiudizi che purtroppo sono riemersi in tutta Italia, nel meridione si siano fatti sentire in misura minore.

- Per passare a Israele, come giudichi la comunicazione fornita in questi mesi di conflitto?
  Anche se so che la mia posizione non è da tutti condivisa, credo che sia stato un errore sottrarre all’opinione pubblica generale la rappresentazione dell’orrore commesso da Hamas il 7 ottobre. Anche qui ti faccio un esempio: noi tutti ci ricordiamo del rapimento di Aldo Moro e della sua morte perché nella nostra memoria collettiva è rimasta fissata l’immagine del suo corpo nella Renault 4, un’immagine terrificante. Io credo che se quell’immagine non fosse stata trasmessa, il nostro paese non avrebbe mai elaborato quel senso di colpa collettivo che invece nacque. E così, per quel che riguarda il 7 ottobre, sottrarre al grande pubblico la rappresentazione di quello che è accaduto, per riservarla soltanto a proiezioni limitate per la stampa, può essere condivisibile su un certo piano di valori, innanzitutto per rendere omaggio e rispetto alle vittime. Tuttavia, se ragioniamo in termini strettamente comunicativi, se Israele avesse avuto “un’icona” da mostrare al mondo che rappresentasse quel che è accaduto il 7 ottobre, questo avrebbe avuto un effetto importante nel giudicare diversamente la reazione dello Stato ebraico.

- E, dall’altra parte, come giudichi la comunicazione di Hamas?
  Hamas ha semplicemente applicato le regole già le elaborate da Goebbels. Tutta la sua comunicazione è basata sulla manipolazione, sulla falsificazione dei filmati, dei dati. Questi strumenti, appositamente usati, vengono poi diffusi sui media più utilizzati dalle giovani generazioni, realizzando una comunicazione militante, che fa molto presa sul giovane pubblico. Al contrario, la comunicazione di Israele risulta più formale, rigida. In onda vediamo sempre un politico, oppure un militare. Si tratta di una comunicazione che non può reggere i video tagliati e montati ad arte che mostrano come sia Israele a commettere dei crimini. Certo, comprendo le ragioni di questa forma di comunicazione: Israele ha la necessità di mandare un messaggio chiaro innanzitutto ai suoi vicini arabi. Sappiamo che in quel contesto il linguaggio della forza spesso è l’unico efficace. Tuttavia, occorrerebbe considerare che nel mondo di oggi la comunicazione è globale, e che l’opinione pubblica internazionale rispetta codici comunicativi diversi. È paradossale che il popolo che più di altri esprime una spiccata capacità narrativa non sia stato ancora capace di comunicare il proprio punto di vista su questo conflitto.

- Come giudichi le proteste che in Occidente si susseguono contro Israele?
  Oltre che alimentate dalla falsa comunicazione che ti descrivevo, c’è anche da dire che alcuni stati arabi, come il Qatar, da tempo finanziano chi sostiene il boicottaggio di Israele e una lettura distorta del conflitto. Guarda ancora una volta quel che è accaduto per l’Eurovision: mentre il voto popolare ha nettamente premiato la canzone israeliana, la giuria ha di fatto boicottato quella canzone.

- Un’ultima domanda: cosa dovrebbe fare, secondo te, l’Ucei per migliorare la propria comunicazione sull’otto per mille?
  Nel 1998 fui coinvolto da Tullia Zevi per promuovere una campagna a favore dell’otto per mille per l’Ucei. In quel caso ricordo che scegliemmo di puntare su volti noti al grande pubblico, Gad Lerner ed Enrico Mentana. Potrebbe essere anche una soluzione da seguire, ma non l’unica. Pensa alla ricchezza culturale dell’ebraismo italiano: far conoscere i tanti beni culturali ebraici sparsi nella penisola potrebbe essere un altro strumento per favorire la scelta dell’otto per mille a favore dell’Ucei. O ancora, ad esempio, costruire una serie di itinerari nella nostra penisola alla scoperta dei siti ebraici. Insomma, i modi per sostenere l’ebraismo italiano sono molti.

(Riflessi Menorah, 29 maggio 2024)

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Medio oriente: Israele sotto accusa e Hamas vittima innocente

La politica nostrana mostra tutta la sua inettitudine nella crisi mediorientale

di Davide Racca

Medio oriente: Israele sotto accusa e Hamas vittima innocente.
  Nelle settimane scorse abbiamo assistito impotenti e allarmati ad un proliferare di dichiarazioni sconcertanti rilasciate da politici italiani di “presunto” alto livello inerenti la crisi mediorientale ed orientate ad accusare Israele di colpire civili inermi durante l’offensiva provocata dalla strage compiuta dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso.

• L'APPROSSIMATIVA CONOSCENZA DEL MEDIO ORIENTE DEI NOSTRI POLITICI
  A tale proposito, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, durante un’intervista rilasciata a SkyTg24, ha dichiarato:”Ho l’impressione che Israele stia seminando un odio che coinvolgerà figli e nipoti”, “Hamas è una cosa, il popolo palestinese è un’altra. Dovevano discernere tra le due cose e fare una scelta più coraggiosa dal punto di vista democratico”.
  Inoltre, sempre Crosetto, aveva aggiunto: ”Siamo convinti che Israele dovesse risolvere il problema con Hamas, ma fin dal primo giorno abbiamo detto che questa cosa andava affrontata diversamente. Tutti gli Stati concordavano sul fatto che Israele dovesse fermarsi a Rafah. Non siamo stati ascoltati e ora guardiamo alla situazione con disperazione”.
  Appare semplice confutare le tesi del Ministro. Innanzitutto Israele applica una strategia militare che discerne da sempre i target selezionati per l’eliminazione dalle eventuali vittime civili, o danni collaterali, addirittura rinunciando a determinate operazioni se connesse al rischio di colpire indiscriminatamente innocenti e, tale direttiva, è da sempre stata seguita anche dal Mossad, sulla base di ordini superiori e sulla coscienza religiosa dei praticanti.
  In secundis, Crosetto si getta in una disamina geopolitica con un’aspra critica a Gerusalemme accusando il Governo israeliano di non avere approcciato al “problema con Hamas” nella maniera più consona e di guardare con disperazione all’attuale situazione relativa ai civili.
  In questo il Ministro, ci dispiace sottolinearlo, potrebbe essere in errore, anche sulla base di una lunga e vergognosa tradizione tutta italiana fatta di anti-militarismo e non- interventismo nelle crisi internazionali a meno che non vi siano le condizioni di un impiego scevro dall’uso delle armi. Una tradizione ridicola e non certo lungimirante per il nostro Paese che, peraltro, pone a rischio le vite dei nostri militari convinti di una loro presunta immunità di fatto non certificata da alcuno.
  Inoltre, Israele è un piccolo Stato accerchiato da Paesi, Giordania a parte, non certo “amici”, ed è da sempre schierato sulla difensiva poiché, come la storia racconta in ben tre occasioni, per non citare la quarta del 7 ottobre scorso, è stato attaccato in maniera inusitata proprio dai Paesi confinanti.
  Non possiamo certo fare scuola a tale politica militare di Gerusalemme, anche perché il nostro Paese è ritenuto, sulla base di quotidiani riscontri che noi stessi, purtroppo, condividiamo, con una politica di accoglienza indiscriminata e di un assurdo quanto pericoloso laissez faire nei confronti dei predicatori d’odio e dei loro sempre più numerosi seguaci.
  In questo è doveroso sottolineare quanto scrisse Samuel P. Huntington nel suo saggio edito nel 1996, titolato “Lo scontro delle civiltà”: “Il processo in indigenizzazione è ulteriormente favorito dal paradosso della democrazia: l’adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte delle società non occidentali consente lo sviluppo e finanche l’avvento al potere di movimenti politici antioccidentali”. Parole profetiche risalenti a quasi 20 anni fa che trovano ampia conferma ai quotidiani eventi.
  Ma in tutto ciò non possiamo bypassare le dichiarazioni di un altro politico, il ministro degli Esteri Antonio Tajani che, nell’aprile scorso, si è calorosamente lanciato in una rassicurazione non richiesta sull’immunità devoluta ai nostri militari impiegati nelle missioni in Libano (UNIFIL) e nel Mar Rosso (ASPIDES), per assicurare la tutela  del confine Libano-Israele nel primo caso ed in quella del traffico commerciale marittimo nel secondo. E a supporto delle dichiarazioni relative alla missione Aspides, peraltro a guida italiana, Tajani aveva dichiarato che la nostra flotta non avrebbe corso alcun rischio poiché da parte degli Houthi “verranno attaccate solo le navi che porteranno armi a Israele”.
  L’assurdo in politica è da sempre presente nella storia italiana, ma dichiarazioni del genere possono solamente equivalere alle teorie dei sinistrati, non certo da rappresentanti di una maggioranza di Governo che non dimostra la sua vicinanza ad un Paese duramente colpito dal terrorismo islamista e perennemente sotto assedio.
  Peraltro, il noto “Lodo Moro” in vigore dagli anni ’70, pare perdurare nel tempo con la tolleranza dimostrata nei confronti di alcuni rappresentanti delle comunità islamiche (ed islamiste) in Italia e di numerosi sostenitori dell’Islam radicale che operano indisturbati nel nostro Paese con traffici illeciti di vario genere ed entità.
  Qui occorre citare Michael Dibdin, autore britannico, che nel suo romanzo Dead Lagoon”, affermò: “Non esistono veri amici senza veri nemici. Se non odiamo ciò che non siamo non possiamo amare ciò che siamo. Sono queste antiche verità che stiamo dolorosamente riscoprendo dopo un secolo e passa di ipocriti sentimentalismi. Chi osa negarle, nega la propria famiglia, la propria tradizione, la propria cultura, il proprio diritto di nascita, la propria stessa persona ! E non sarà perdonato tanto facilmente”.
  Parole che si adattano perfettamente all’insensata politica interna ed estera italiana portata avanti da decenni.

• GLI AUTOPROCLAMATI IMAM IN ITALIA TRA ARROGANZA E CERTEZZA DI IMPUNITÀ
  L’atteggiamento arrogante e parassitario di alcuni personaggi è ben noto alle cronache ed in questo è appena il caso di citare i sermoni antisemiti propinati dall’imam pakistano Zulfiqar Khan che, durante una Khutba (sermone) declamata presso il centro islamico Iqraa di Bologna affermò: “Se qualcuno dice a me ‘sei estremista islamico’ dico sì perché estremismo vuole dire seguire i fondamenti…” e ancora “Hamas, Hezbollah, Siria, Iran e Yemen, non vogliono uccidere, non vogliono fare male ai civili” e successivamente invocava: “Quel castigo che stiamo aspettando che viene da parte di Allah, con le mani di Hamas e Hezbollah…”.
  E, per sottolineare oltremodo quanto da noi sostenuto in merito all’oltraggiosa tolleranza nei confronti dei “soliti noti”, Zulfiqar nel novembre 2023, ammette che: “…In Italia, grazie ad Allah, siamo al sicuro e abbiamo il diritto di parola”. Parole che conclamano l’atteggiamento remissivo da parte degli apparati dediti alla nostra sicurezza, sulla pelle dei cittadini.
  Lo scorso 25 maggio, a Nonantola (MO), lo stesso Zulfiqar ha reso, in pubblico, altre dichiarazioni sconcertanti. Le affermazioni dell’autoproclamato imam, infatti, sono giunte a giustificare e sostenere la causa di Hamas, con esternazioni che di seguito vogliamo riportare per esteso: “Questo piccolo guerriero, un gruppo di persone che si chiama Hamas. Loro hanno fatto capire al mondo che questi sono vigliacchi (Israele, sionisti), non possono far niente contro gli uomini, loro possono solo andare contro i bambini, contro le donne, contro i civili”.
  “Noi abbiamo visto, tanti fratelli hanno paura di dire che Hamas è un gruppo sincero, mujahidin, perché avevano bombardato su tutti i musulmani d’Europa che per forza devo dire che Hamas è un’organizzazione terrorista. Hanno provato con me anche dal 7 ottobre in poi, sempre abbiamo avuto questa posizione che Hamas non è un’organizzazione terrorista. Loro stanno difendendo il loro territorio”.
  “Noi ringraziamo Allah (sws) tramite questi guerrieri mujahedin di Hamas che hanno fatto scoprire questa realtà, questa verità, che questi (israeliani, americani) sono terroristi, sono assassini…” .
  Un altro caso è quello relativo all’influencer e portavoce della Moschea Taiba di Torino, Brahim Baya, già segretario nazionale dell’associazione Partecipazione e Spiritualità Musulmana, che in occasione dell’assemblea organizzata dal “Coordinamento Torino per Gaza” il 17 maggio scorso, aveva espresso il proprio pensiero sulla crisi mediorientale affermando: “La Palestina è da sempre mira degli invasori, i palestinesi negli ultimi mesi hanno resistito a questa furia omicida ma sono ancora in piedi e il loro insegnamento arriva a noi, questa loro sofferenza è una forma di jihad nel più alto senso di questo termine come sforzo per difendere i propri diritti, come sforzo per difendere la vita umana, come sforzo per difendere la pace”. “Un jihad che vediamo in Palestina nella sua più importante manifestazione, in cui ognuno contribuisce a questa lotta di liberazione cominciata dal primo momento in cui i sionisti hanno calpestato quella terra benedetta”.
  Affermazioni oltraggiose al limite della decenza, espresse di fronte ad un pubblico compiacente di studenti ed attivisti pro-palestina che, presumibilmente, non hanno mai messo piede in quelle Terre e che, oltretutto, accettano di farsi manipolare dalla cosiddetta “Palliwood” palestinese.
  Ritornando a quanto affermato dal ministro Crosetto sulle modalità da adottare per un approccio più “democratico” alla crisi provocata da Hamas, è lecito affermare, a titolo esemplificativo, come l’Italia sia così sfacciatamente “democratica” nel consentire ad individui come il palestinese Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione palestinesi in Italia e sostenitore dell’UNRWA e dell’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, possano esprimersi in pubblico con contenuti che glorificano l’assemblatore di ordigni esplosivi per Hamas nonché mente del terrorismo islamista Yahya Ayyash. 
  Inoltre Hannoun, dal palco di una manifestazione tenutasi di fronte alla stazione Centrale di Milano, aveva già invitato tutti gli arabi a “cacciare tutte le ambasciate israeliane, chiuderle e trasformarle in centri di resistenza”. Il 10 ottobre 2023 aveva definito “legittima difesa” la strage del 7 ottobre, affermazioni espresse in un’intervista andata in onda su Rai3.

• ISRAELE HA SOTTOVALUTATO SEGNALI CHIARI E INQUIETANTI
  Premesso tutto ciò, è lecito rivolgere le dovute critiche al Governo israeliano sulla gestione degli eventi pre e post 7 ottobre 2023.
  Un banale quanto inquietante esempio è fornito nella nota serie televisiva “Fauda”, di produzione israeliana, risalente al 2015, quando nella prima serie già si riscontra un accenno ad “un grande attacco” che Hamas avrebbe compiuto contro Israele, nonché ad un consistente appoggio iraniano alle operazioni dell’organizzazione terroristica palestinese. 
  I produttori della serie, come riscontrato, sono tutti ex membri dei corpi speciali dello Stato ebraico con esperienze sul campo come “Mista’arvim”(unità antiterrorismo) e di intelligence militare. E’ d’uopo immaginare come il copione seguito durante le riprese non sia unicamente frutto della fantasia degli autori, ma trovi riscontro in fatti concreti se non addirittura frutto di vaghe informazioni ottenute dagli organi della sicurezza israeliana. Ma questo unicamente a titolo esemplificativo di come Israele abbia sottovalutato la potenza di fuoco di Hamas e la sua organizzazione capillare soprattutto nella Striscia di Gaza così come in Libano.
  E, a titolo personale, è lecito rilevare come, durante una trasferta nel nord di Israele abbiamo personalmente rilevato le carenze della tutela del confine, soprattutto nella zona di Metulla.
  Così come ai confini con la Striscia di Gaza, la sottovalutazione dell’utilizzo delle centinaia di tunnel che dai quartieri di Al Remmal  e dalla stessa Gaza conducono nei pressi dei centri urbani israeliani, abbia provocato l’infiltrazione di un considerevole numero di miliziani di Hamas che hanno colpito la popolazione civile violentando, uccidendo, torturando e rapendo centinaia di persone inermi.
  Questo non implica certamente un coinvolgimento da parte del Governo di Israele nei noti fatti del 7 ottobre, ma intende sottolineare una certa presunzione dei vertici delle Forze di difesa di Gerusalemme, un dato di fatto che ha successivamente costretto lo Stato ebraico alla conduzione della doverosa controffensiva alla quale stiamo assistendo.
  Dal punto di vista operativo, è lecito affermare come la campagna per sradicare Hamas stia richiedendo troppo tempo a causa delle continue pause nell’offensiva che consentono una parziale riorganizzazione di Hamas nella “Striscia”, un fatto concreto ampiamente dimostrato dalla continuità del lancio di razzi contro il territorio israeliano che hanno colpito sino alle porte di Tel Aviv.

• SINWAR E DEIF, FANTASMI BEN CELATI
  Un secondo punto critico è relativo al mancato rintraccio o eliminazione di Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rispettivamente leader di Hamas nella Striscia di Gaza e capo delle Brigate ‘Izz al-Din al Qassam il braccio armato di Hamas nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e non solo
  Ed a tutto ciò,  senza presunzione, intendiamo raccomandare ai delegati alla sicurezza israeliana di prestare attenzione all’interno dei confini dello Stato ebraico. Il ripetersi di un nuovo 7 ottobre è una spada di Damocle pendente sulla popolazione civile e sulla base di alcune delazioni, non è da escludere che si verifichi in tempi brevi, anche per ridare lustro ad un’organizzazione terroristica (Hamas) agli occhi dei suoi non pochi seguaci.
  La certezza che Sinwar si trovi rintanato in uno dei tunnel della Striscia non ha trovato, almeno sinora, alcun riscontro. L’ipotesi da noi accreditata, anche grazie all’apporto di fonti di settore, è quella che il leader terrorista si trovi in Cisgiordania, così come Deif e che entrambi si muovano continuamente nella zona di Ramallah, Nablus e Jericho cambiando di continuo percorsi e covi sicuri.
  Ma queste sono unicamente illazioni giornalistiche, sebbene debitamente supportate, che, comunque sono alla base dei forti dubbi sulla conduzione dell’offensiva militare nella Striscia.
  Un’azione che deve assolutamente avere carattere di continuità poiché l’occasione di un totale smembramento di Hamas e della Jihad islamica non si ripresenterà tanto facilmente anche in considerazione delle continue, seppur insensate, pressioni internazionali tese a chiedere più moderazione a Israele. Pressioni provenienti da paesi che, o non sono mai stati colpiti dal terrorismo di matrice palestinese, oppure, come nel caso dell’Italia, che si sono oramai pavidamente arresi all’arroganza  dell’islamismo e dell’antisemitismo dilaganti in tutto l’Occidente.

(ofcs.report, 28 maggio 2024)

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Giovani ebrei italiani in viaggio: uno strepitoso Shabbaton a Vienna

di David Fiorentini

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Oltre 100 giovani ebrei da tutta Europa si sono ritrovati nella splendida cornice di Vienna per passare uno speciale Shabbat insieme. Tra vecchie amicizie e nuove conoscenze, l’Unione degli Studenti Ebrei Austriaci (JöH) ha rilanciato dopo 4 anni il suo tipico evento primaverile.
Un’occasione imperdibile alla quale sono accorsi circa una ventina di italiani, formando un’allegra delegazione UGEI. La trasferta, intrapresa principalmente da Roma e da Milano, ha incluso una splendida Kabbalat Shabbat nello Stadttempel, la sinagoga centrale, arricchita dall'emozionante coro viennese, seguita da una vivace cena nella spaziosa sede di JöH.
Il giorno successivo, tra sessioni di politica o di riflessione, a cavallo tra il Museo di Sigmund Freud e il quartier generale di JöH, è stato particolarmente memorabile per l’attività condotta dall’Unione degli Studenti Austriaci (ÖH). A differenza degli atenei italiani, le principali liste studentesche sono apertamente schierate contro le occupazioni e gli accampamenti degli attivisti pro-palestinesi, e hanno una sensibilità nel merito della lotta all’antisemitismo che ha lasciato sbigottita l’intera sala.
Abituati all’atteggiamento ostile dei collettivi universitari italiani nei confronti degli studenti ebrei o israeliani, è stato davvero incredibile scoprire come delle realtà politicamente affini a queste siano invece le prime a scendere in piazza contro l’antisemitismo e la demonizzazione di Israele.
Dopo un giro turistico della meravigliosa capitale e una sentita Havdalah, è finalmente arrivata l’ora dell’immancabile festa con DJ set. Coinvolgendo altri giovani viennesi e israeliani, una bevuta dopo l’altra, la serata è volata fino alle prime ore del mattino.
La domenica, con le poche forze rimaste, ma con tanta adrenalina ancora in circolo, tutti i partecipanti sono balzati fuori dal letto per un’ultima iniziativa ad impatto. Muniti di bandiere e striscioni, abbiamo preso parte a un presidio di JöH presso la Casa Europea di Vienna, per ribadire il pericolo delle derive populiste ed estremiste alle prossime elezioni europee.
Rincasati alla principale location dello Shabbaton, è purtroppo giunto il momento dei saluti, al termine di una spedizione intensa, esilarante e pressoché insonne. Tuttavia, tra gli abbracci di congedo e le promesse di rivedersi presto, la prossima tappa è già stata annunciata: FEJJETON in Costa Brava!

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2024)

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Un conflitto a fuoco fra Israele ed Egitto: piccolo ma preoccupante

di Ugo Volli

• Un episodio degno di nota che ha avuto poca attenzione
  Una notizia importante – il primo scontro armato fra militari israeliani ed egiziani in questa guerra – ha avuto ieri poca eco in mezzo al nuovo ipocrita scandalo per cui Israele è stato accusato di strage, perché in seguito al colpo preciso che aveva colpito due importanti capi di Hamas, si è diffuso un incendio fra le tende degli sfollati in mezzo a cui essi si nascondevano, provocando una quarantina di morti. Il vero scandalo dovrebbe essere il fatto che i capi e i terroristi di Hamas usino la popolazione civile come scudi umani, non solo per nascondervisi, ma anche per proteggere depositi e officine militari, armi, vere e proprie caserme, luoghi di prigionia dei rapiti e anche le loro rampe di lancio. I missili diretti a Tel Aviv sparati l’altra notte per esempio sono stati lanciati dallo spazio protetto fra una moschea e una scuola. E anche i due capi terroristi colpiti si erano nascosti in un accampamento di sfollati, fra l’altro fuori dalla zona indicata da Israele come garanzia per i civili che fuggivano da Rafah. Tutto ciò è un crimine di guerra, ai sensi delle leggi internazionali.

• Lo scontro a fuoco
  Lo scandalo per questo episodio è dunque solo una tappa propagandistica del percorso di demonizzazione dell’esercito israeliano e della sua guerra di autodifesa, che purtroppo coinvolge ormai molti leader occidentali e anche italiani, oltre che la totalità della stampa. Ma lo scontro con i militari egiziani, avvenuto sulla linea di confine vicino a Rafah e al punto di transito che la corte di giustizia dell’Aia aveva ordinato di aprire (e che è stato tenuto chiuso dagli egiziani da quando Israele ha preso il controllo del “corridoio Filadelfia” che corre lungo il confine fra Gaza e l’Egitto) potrebbe essere uno sviluppo più significativo. Del conflitto a fuoco, al momento in cui scrivo, non si sa molto. L’Egitto dice che la sparatoria è stata aperta dai militari israeliani, Israele sostiene il contrario (ed è la versione più ragionevole, perché Israele non ha nessun interesse a suscitare un conflitto del genere). Sembra che da parte egiziana ci sia stato un ferito e un caduto, nessuna vittima fra gli israeliani.

• Le ipotesi
  Le ipotesi sulle ragioni di quel che è successo possono essere parecchie. Può essere stato un incidente casuale, dovuto a incomprensione, come ne sono capitati alcuni negli anni scorsi. Può esserci stato un militare egiziano fanatico e deciso a fare la guerra agli infedeli: anche questo è successo, per esempio poco più di un anno fa nel Negev, con due vittime israeliane. Può essere stato un segnale dei contrabbandieri beduini che dominano il Sinai e non sono contenti della presenza israeliana che disturba i loro affari.

• Una scelta del regime egiziano
  Tutte queste ipotesi sono ragionevoli e tutto sommato tranquillizzanti, non implicano problemi gravi per Israele. Ma poi ce n’è un’altra che invece preoccupa. L’incidente può essere stato voluto e provocato dalla dirigenza egiziana. Naturalmente bisogna chiedersene il perché. Una ragione può essere che il presidente egiziano Al Sisi abbia voluto dare soddisfazione alla “piazza” egiziana, che almeno dai tempi di Nasser è fortemente anti-israeliana. Bisogna ricordare che l’Egitto è stato il nerbo delle forze arabe che si sono scontrate con Israele nelle guerre fra la fondazione di Israele e la guerra del Kippur. Il fatto di averle perse tutte è una ferita nell’orgoglio nazionale che ancora chiede vendetta. L’Egitto è inoltre la sede principale della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è una filiale. Al Sisi è andato al potere con un colpo di stato che ha abbattuto il potere della Fratellanza, ma essa è ancora forte e non si possono conoscere naturalmente gli accordi più o meno taciti che ha negoziato col regime. Bisogna ricordare anche che Sadat è stato ucciso da un islamista per aver fatto un trattato di pace con Israele e Al Sisi non vuole certo subire la stessa sorte di questo suo predecessore. La pace con Israele è sempre stata gelida, e certamente mostrare di essere disposti a scontrarsi con “gli ebrei” può aiutare il regime, che soffre una grave crisi economica e sociale anche a causa del quasi blocco che gli Houti hanno imposto al traffico nel canale di Suez.

• Il contrabbando
  Infine vi è la pista più probabile, quella del contrabbando di stato egiziano. Si sa per certo che c’è un fiorente mercato degli ingressi in Egitto per gli arabi di Gaza, che pagano ciascuno molte migliaia di euro per superare il confine ufficialmente chiuso. Ne sono passate finora alcune centinaia di migliaia: un business gigantesco gestito dalle autorità militari locali, fra cui sembra anche il figlio di Al Sisi. Ma c’è di peggio. In questi mesi di guerra è emerso che Hamas era molto meglio armato di quanto si potesse pensare o potesse derivare dal normale contrabbando beduino. Nei primi giorni di presenza israeliana sul confine sono emersi oltre 50 tunnel di contrabbando fra l’Egitto e Gaza. È evidente che una decina di anni fa quando Al Sisi fece allagare alcuni tunnel di contrabbando, stava facendo una sceneggiata e che il contrabbando è continuato sotto il controllo dei suoi militari. Insomma, Hamas ha un accordo strutturale di qualche tipo con l’Egitto, magari pagato in qualche modo dal Qatar o dall’Iran. Una settimana fa è emerso che nelle trattative per gli ostaggi i mediatori egiziani avevano fatto un doppio gioco alle spalle di tutti per incastrare Israele in un accordo a favore di Hamas. È possibile che questi scontri indichino il fastidio egiziano per la scoperta del doppio gioco. È un problema serio, perché l’esercito egiziano si è molto rafforzato negli ultimi anni e con l’accordo israeliano ha potuto ignorare le clausole del trattato di pace che smilitarizzavano il Sinai. Ora, con il pretesto della lotta al terrorismo, gli egiziani hanno potuto allestire un apparato militare importante a ridosso di tutto il lungo confine con Israele, da Gaza fino a Eilat. Se decidessero che gli conviene unirsi al fronte che appoggia Hamas, sarebbe un bel problema. Ma si tratta di uno sviluppo improbabile. L’Egitto ha molto da perdere, sul piano militare, economico e diplomatico in uno scontro vero con Israele. Forse quel che è successo è un avvertimento e un segnale di fastidio, di cui Israele naturalmente dovrà tenere il debito conto.

(Shalom, 28 maggio 2024)

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Deborah Lipstadt: l’antisemitismo attuale è una minaccia per la democrazia

La modalità con cui si propaga oggi l’antisemitismo è molto più pericolosa a causa dei social media, ma paragonare l’attuale situazione a quella del 1938 è una considerazione un po’ estrema.
   Come ha riportato il Times of Israel, questo è il pensiero esposto venerdì 24 maggio da Deborah Lipstadt, storica, inviata speciale degli Stati Uniti per la lotta contro l’antisemitismo.
   L’accademica, nota in tutto il mondo per i suoi studi sull’ebraismo e la negazione della Shoah, ha detto che il clima odierno è da collocarsi dentro una fascia temporale che si trova, in termini di equiparazione, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 del Novecento, in particolare se guardiamo alla destabilizzazione della società del tempo, in rapporto a quello che è successo in molti paesi dopo l’attentato del 7 ottobre, da parte di Hamas in Israele e la conseguente guerra a Gaza.
   Infatti, abbiamo assistito ad un vertiginoso aumento di casi di odio verso gli ebrei, negli Stati Uniti e in tutto il mondo, fatti che secondo la studiosa costituiscono una «minaccia alla democrazia e alla sicurezza globale». Un senso di sicurezza che è venuto a mancare tra gli studenti ebrei, nei campus universitari in seguito alle minacciose manifestazioni verso Israele.
   Ci sono ancora persone, come si può constatare sui social media, che credono a tutt’oggi nel mito del complotto, con i soliti stereotipi secondo cui gli ebrei controllerebbero i media, le banche e le elezioni governative.

• La fulminea negazione del 7 ottobre
   Non solo il 7 ottobre 2023 è stato dimenticato, praticamente il giorno seguente, ma c’è chi ha subito cominciato a negare le atrocità commesse dai terroristi di Hamas.
   «Sono rimasta scioccata dalla velocità con cui le persone si sono lamentate della risposta di Israele l’8, 9 e il 10 ottobre, prima che ci fosse una risposta. È stato davvero molto inquietante», ha affermato Lipstadt. C’è chi ha celebrato gli stupri e le mutilazioni e chi invece li ha messi in dubbio, nonostante le prove concrete. Ma ancora più sconcertante è stato il silenzio, «proprio di quei gruppi di donne, progressisti, gruppi che combattono la violenza sessuale, gruppi per i diritti umani», gli stessi che si affrettano invece quando l’autore è l’Isis o Boko Haram. Non è invece avvenuto per Hamas, quando a essere le vittime erano degli ebrei, degli israeliani. È questa la differenza secondo la studiosa. C’è chi ha messo in dubbio la veridicità dei fatti, chi ha addirittura pensato che se lo meritassero, solo perché ebrei.
   In riferimento ad alcuni illustri studiosi che hanno affermato che la violenza sessuale del 7 ottobre è stato un atto di resistenza ha detto: «Mi dispiace ma lo stupro non è mai resistenza».

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2024)

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Rafah: vittime innocenti, vigliacchi e avvoltoi

Aspettano la strage di innocenti come l'aspetta Hamas, soprassedendo spudoratamente sul perché della guerra e su come i civili vengano sistematicamente usati come carne da macello.

di Franco Londei

Sulle vittime innocenti dell’attacco israeliano a Rafah volto ad eliminare due importanti comandanti di Hamas non possiamo e non dobbiamo soprassedere. Quanto successo è terribile.
Tuttavia non facciamo un buon servizio nemmeno alle vittime se non andiamo oltre al pilota che ha sganciato la bomba sulla macchina di Yassin Rabia e Khaled Najjar senza calcolare le possibili conseguenze sui civili.
Non possiamo non evidenziare il fatto che i due comandanti di Hamas si nascondevano tra i civili innocenti e, anzi, approfittavano proprio del fatto che Israele avesse dichiarato quell’area una “zona sicura”.
È difficile stabilire chi è più colpevole, se chi ha ordinato il bombardamento o chi si nascondeva vigliaccamente tra i civili consapevole di metterli in serio pericolo.
Non possiamo poi non notare come la stampa anti-israeliana (e non solo) si sia buttata a capofitto su questa tragedia di guerra, ripeto il concetto, tragedia di guerra quasi che fossero tutti lì a sperare in un massacro da poter pubblicare in prima pagina, un po’ come i leader di Hamas che sperano nelle vittime civili per poter mettere Israele sul banco degli imputati invece di esserci loro.
Perché se non ricordiamo che tutto questo è partito dal massacro del 7 ottobre, se non ricordiamo che i vigliacchi di Hamas usano i civili come scudi umani ben consapevoli di metterli in pericolo, se non ricordiamo che nelle guerre, e questa è una guerra, le vittime civili ci sono e che questa guerra si svolge in un contesto urbano altamente popolato, se non ricordiamo tutto questo allora davvero non facciamo bene il nostro lavoro.
Che poi gli avvoltoi che si sono buttati a capofitto nella notizia che tanto aspettavano, queste cose le sanno ma fanno finta che non ci siano lasciando solo a Israele il fardello della colpevolezza, è tutto un altro discorso.
Ieri tutti quegli avvoltoi sembravano quasi il leader di Hamas, quel Ismail Haniyeh che ha chiesto il sangue di vecchi, donne e bambini per la causa. Anzi, il capo terrorista è persino migliore di quegli avvoltoi perché almeno non si vergogna di ammettere di usare la gente di Gaza come scudi umani, mentre i vigliacchi dal twitt facile e dalla penna con il veleno al posto dell’inchiostro vogliono passare pure per difensori dei Diritti Umani e del cosiddetto “popolo palestinese” quando invece pure loro fanno di questa gente un mezzo per attaccare Israele e per ottenere qualche click in più.
Mi sembra di vederli, dietro alle agenzie ad aspettare il prossimo episodio di guerra che coinvolga vittime innocenti, a sperare che accada per avere il titolone su Israele da sbattere in prima pagina o su X, dove ignoranti palloni gonfiati danno lezioni di Diritto Internazionale guardandolo solo da un lato quando la materia ha così tante sfaccettature che non la puoi discutere su un social a meno che tu non voglia solo fare il fenomeno.
Ieri a Rafah c’è stato un episodio di guerra dove sono morti oltre 40 innocenti. È la guerra, quella guerra fortemente voluta e scatenata da Hamas. Non possiamo far finta che i terroristi non abbiano responsabilità. Poi sulla gestione del conflitto da parte israeliana ne parleremo a tempo debito, per ora c’è da vincere la guerra, anche sugli avvoltoi che usano questa gente come carne per i loro cannoni sparaveleno.

(Rights Reporter, 28 maggio 2024)

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Università occupate: docenti e studenti non ci stanno

Nelle ultime settimane anche in Italia alcune università sono state occupate dai manifestanti pro-Gaza, che chiedono la sospensione degli accordi con le università israeliane, e che stanno tuttora impedendo in alcuni atenei di svolgere regolarmente a studenti e docenti di seguire le lezioni in presenza, obbligandoli in alcuni casi a seguirle online. Si tratta però di gruppi minoritari all’interno della galassia studentesca, che invece vorrebbe continuare a fare quello per cui è iscritta all’Università: studiare e acquisire conoscenze.
   Per questo ci sembra importante pubblicare la lettera scritta da alcuni gruppi studenteschi al Rettore dell’Università Statale di Milano Elio Franzini, in cui viene chiesto di restituire gli spazi alle loro funzioni e all’istituzione di riprendersi il suo ruolo di spazio di studio, conoscenza e confronto.
   Allo stesso modo, è doveroso pubblicare la lettera scritta da alcuni docenti al Ministro dell’Università Anna Maria Bernini e alla Conferenza dei Rettori Italiani – CRUI in cui viene espressa l’esigenza di un serio approfondimento della situazione mediorientale, nonché di rappresentare le studentesse e gli studenti preoccupati di una deriva culturale e politica che rischia di avere delle conseguenze devastanti sulla cultura della convivenza e del confronto pacifico nelle università”.

(Bet Magazine Mosaico, 27 maggio 2024)

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Archeologa setaccia il terreno e trova un anello di 2200 anni fa

Una bella scoperta, una settimana prima d’andare in maternità

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Un anello d’oro con una pietra preziosa risalente al primo periodo ellenistico è stato recentemente trovato durante lo scavo congiunto Israel Antiquities Authority-Tel Aviv University nella città di David, parte del parco nazionale delle mura di Gerusalemme, con il sostegno della Fondazione Elad. Il reperto sarà esposto al pubblico nel corso della conferenza “Misteri di Gerusalemme” organizzata dall’Autorità per le antichità israeliane il Giorno di Gerusalemme – martedì 4 giugno 2024 – mercoledì 5 giugno 2024 -, nel Campus nazionale di Jay e Jeanie Schottenstein per l’archeologia di Israele. Dettagli sono disponibili sul sito web dell’Autorità per le Antichità Israel. L’anello è d’oro e reca una pietra preziosa rossa, apparentemente un granato. Poiché l’oro non subisce alterazioni, il gioiello è apparso intatto e lucente, tra le mani degli archeologi.
Questo anello speciale è stato recentemente scoperto dall’archeologa Tehiya Gangate, un membro della squadra di scavi della Città di David, mentre stava setacciando la terra scavata. “Stavo setacciando la terra e improvvisamente ho visto qualcosa di luccicante”, racconta. “Ho subito urlato: ‘Ho trovato un anello, ho trovato un anello! ’ In pochi secondi, tutti si sono riuniti intorno a me, e c’è stata una grande emozione. Questa è una scoperta emotivamente commovente. In verità, ho sempre voluto trovare gioielli d’oro e sono molto felice che questo sogno si sia avverato – letteralmente una settimana prima di andare in maternità.”
Il Dr. Yiftah Shalev e Riki Zalut Har-tov, direttori degli scavi dell’Autorità Israel Antichities, hanno detto: “L’anello è molto piccolo. Ci starebbe il mignolo di una donna, o il dito di una ragazza o di un ragazzo. La dottoressa Marion Zindel dice che l’anello è stato prodotto martellando sottili foglie d’oro pretagliate su una base di anelli metallici. Stilisticamente riflette la moda comune del periodo persiano e dell’inizio ellenistico, risalente alla fine del IV all’inizio del III secolo a.C. in poi. In quel periodo la gente iniziava a preferire l’oro con le pietre piuttosto che l’oro decorato.
Il professor Yuval Gadot dell’Università di Tel Aviv e e Efrat Bocher, partecipante allo scavo, annotano: “L’anello d’oro recentemente trovato si unisce ad altri ornamenti del primo periodo ellenistico che si trovano negli scavi della città di David, tra cui l’orecchino con animale cornuto e la perlina d’oro decorata.”
Nella storiografia moderna, l’ellenismo si riferisce a quel periodo storico-culturale dell’antico Mediterraneo che inizia con le conquiste di Alessandro Magno (la spedizione contro l’Impero persiano nel 334 a.C.) e si estende fino alla nascita ufficiale dell’Impero romano, segnato dalla morte di Cleopatra VII e dall’annessione dell’ultimo regno ellenistico, il Regno tolemaico d’Egitto, nel 30 a.C., dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C.
Gli studiosi sottolineano: “Gli scavi del parcheggio Givati stanno iniziando a dipingere un nuovo quadro della natura e della statura degli abitanti di Gerusalemme nel primo periodo ellenistico. Gli studiosi pensavano che Gerusalemme fosse allora una piccola città, limitata alla cima del versante sud-orientale (“Città di David”) e con relativamente pochissime risorse, questi nuovi ritrovamenti raccontano una storia diversa. L’aggregato di strutture rivelate ora costituisce un intero quartiere. Essi attestano sia edifici di Stato che di interesse pubblico, e che la città si estendeva dalla collina verso ovest. Il carattere degli edifici – e ora ovviamente, i ritrovamenti d’oro e altre scoperte – mostrano la sana economia della città e persino il suo status d’élite. Sembra sicuramente che gli abitanti della città fossero aperti al diffuso stile ellenistico e alle influenze prevalenti anche nel bacino orientale del Mediterraneo. ”
Le conquiste hanno contribuito a diffondere e trasportare beni e prodotti di lusso. Spesso le decorazioni dei gioielli erano tratti da figure mitologiche o da eventi simbolici significativi. Eli Escusido, capo dell’Autorità per le antichità israeliane, commenta che “Lo scavo nell’antica Gerusalemme ci rivela informazioni preziose sul nostro passato. In occasione del Giorno di Gerusalemme – dice l’autorità israeliana per le antichità – siamo lieti di invitare il pubblico a partecipare gratuitamente ad una serata dedicata alle affascinanti scoperte a Gerusalemme”“

(Stile Arte, 28 maggio 2024)

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Eliminati due funzionari di Hamas di alto livello a Rafah

di Luca Spizzichino

Durante un attacco aereo vicino a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, domenica notte sono stati eliminati dall’IDF Khaled Nagar e Yassin Rabia, due alti funzionari di Hamas in Cisgiordania. Il raid è avvenuto a Tel Sultan, nel nord-ovest di Rafah.
   Secondo l’esercito israeliano i due terroristi gestivano l’intera attività di Hamas in Cisgiordania, trasferendo fondi a obiettivi terroristici e pianificando attentati in tutto il territorio. Inoltre Nagar in passato ha compiuto numerosi attacchi terroristici che hanno caratterizzato anche i primi anni 2000. Sia Rabia che Nagar hanno scontato diverse condanne all’ergastolo in una prigione israeliana, ma sono stati liberati nel 2011 come parte di un accordo di scambio di prigionieri per il rilascio del soldato dell’IDF Gilad Shalit.
   L’esercito ha affermato che l’attacco è stato “effettuato contro obiettivi legittimi secondo il diritto internazionale, utilizzando munizioni precise e sulla base di precise informazioni di intelligence che indicavano l’uso dell’area da parte di Hamas”. Ha aggiunto di essere “a conoscenza di rapporti secondo cui a seguito dell’attacco e dell’incendio diversi civili nella zona sono rimasti feriti” e che l’incidente è “sotto revisione”.
   L’attacco è avvenuto poche ore dopo che il gruppo terroristico aveva lanciato otto missili a lungo raggio verso il centro di Israele, il primo attacco del genere in quattro mesi.

(Shalom, 27 maggio 2024)

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Napoli – I giovani ebrei in piazza per gli ostaggi

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«Da oltre 230 giorni 125 uomini, donne e bambini israeliani sono ancora ostaggio a Gaza. È importante che ripartano al più presto le negoziazioni per il rilascio, condizione necessaria per far la fine della guerra». È il messaggio testimoniato dall’Unione Giovani Ebrei d’Italia e dal Forum delle Famiglie degli Ostaggi durante un flashmob organizzato ieri a Napoli, in piazza del Plebiscito. «Ogni attimo è cruciale per ricordare i nostri fratelli ancora ostaggio di Hamas».

(moked, 27 maggio 2024)

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La morte di Raisi non fermerà l’ostilità del regime iraniano contro Israele

di Francesco Paolo La Bionda

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi è morto lo scorso 19 maggio in seguito allo schianto dell’elicottero su cui stava viaggiando in una regione montuosa nel nord del paese, durante una giornata di fitta nebbia. Nell’incidente sono deceduti anche il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian e altre sei persone.
   Raisi, sessantatré anni, di Tabriz, faceva parte dell’ala conservatrice più intransigente all’interno del regime iraniano, molto vicino alla Guida suprema Khāmeneī e considerato il suo potenziale successore. Eletto presidente nel 2021 in elezione considerate fraudolente e non libere dagli osservatori internazionali, Raisi aveva alle spalle una lunga carriera in campo giuridico, durante la quale si era guadagnato il soprannome “il macellaio di Teheran”, quando nel 1988, in veste di magistrato, firmò le condanne a morte di migliaia di oppositori politici del regime.
   La sua scomparsa apre una fase di incertezza per l’Iran: il 28 giugno si terranno nuove elezioni per scegliere il suo successore, che potrebbero però diventare l’occasione per nuove proteste come quelle che hanno scosso il paese negli ultimi anni. Il popolo è infatti prostrato da una perdurante crisi economica e dalla repressione sempre più severa del dissenso a opera del regime, e già alle elezioni parlamentari del marzo scorso ha fatto registrare il più alto tasso di astensionismo di sempre alle urne persiane. Sui social sono rimbalzate le immagini e i video di iraniani che, dentro e fuori i confini nazionali, hanno festeggiato la morte del loro presidente.

• Tra aggressività tattica e prudenza strategica, la linea su Israele resta invariata
  Tuttavia, difficilmente il nuovo vertice della Repubblica Islamica ne cambierà l’attuale linea verso Israele, radicalmente e attivamente ostile allo Stato ebraico ma timorosa delle conseguenze di un’escalation diretta. Già in questi giorni immediatamente successivi all’incidente, infatti, si sono visti elementi di sostanziale continuità con quanto accaduto negli ultimi mesi.
   Da un lato, quindi, si sono avute le consuete dimostrazioni pubbliche di odio antisraeliano, con le migliaia di partecipanti ai funerali di Raisi, tenutisi a Teheran il 22 maggio, che hanno intonato le solite grida “morte a Israele”. Alla processione funebre sono stati invitati sia Naim Qassem, vicesegretario generale di Hezbollah, sia Ismail Haniyeh, il leader di Hamas al di fuori di Gaza. Quest’ultimo ha prontamente dichiarato di sentirsi sicuro che l’Iran “continuerà a supportare il popolo palestinese”, che nella visione dell’organizzazione terroristica coincide appunto col sostegno finanziario e militare che in questi anni il paese ha fornito all’organizzazione terroristica.
   Dall’altro, le autorità iraniane hanno ufficialmente identificato la causa dell’incidente in un guasto tecnico, senza quindi voler cavalcare i sospetti già circolati in campo antisraeliano che puntavano il dito contro un ipotetico sabotaggio a opera del Mossad, tanto che alcuni ufficiali israeliani avevano dovuto esplicitamente dichiarare che lo Stato ebraico non c’entrava niente con l’accaduto. Del resto, Raisi viaggiava su un Bell 212, un elicottero di fabbricazione americana vecchio di decenni, i cui pezzi di ricambio sono oggi difficili da ottenere per l’Iran a causa delle sanzioni.
   L’atteggiamento prudenziale del regime iraniano ne dimostra comunque la volontà di non voler cavalcare la vicenda per alzare il livello dello scontro con Gerusalemme, così come era già avvenuto con l’attacco di missili e droni lanciato dalle forze iraniane contro Israele lo scorso 14 aprile, che non aveva provocato sostanzialmente danni. Un’azione praticamente dimostrativa, come tra le righe aveva ammesso la stessa Guida Suprema Khamenei già una settimana dopo, dichiarando che questioni come il numero di missili abbattuti dalla contraerea israeliana e se fosse stato colpito qualche bersaglio fossero “di secondaria importanza”.

• Resta calda la questione nucleare
  Lo schianto dell’elicottero nell’immediato ha avuto conseguenze invece sulla questione del nucleare iraniano. La scomparsa del ministro degli Esteri ha infatti forzato una pausa nei negoziati che erano in corso tra il paese e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), che solo due settimane prima aveva incontrato il funzionario iraniano per una serie di colloqui. Tuttavia, anche nel momento in cui dovessero riprendere, è difficile che l’Iran si sblocchi dalla sua posizione intransigente, di cui Raisi era un forte sponsor. Anche perché il paese ha ormai raggiunto la piena capacità di assemblare le bombe atomiche. Sempre ammesso, e non concesso, che in segreto non si sia già portato avanti: il parlamentare iraniano Ahmad Bakhshayesh Ardestani, durante un’intervista alla radio, ha dichiarato che a suo parere il paese possiede già armi atomiche, ma lo tiene riservato per continuare a giocare al tavolo delle trattative sull’accordo nucleare.

(Bet Magazine Mosaico, 27 maggio 2024)

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La guerra di Gaza non è finita

Benny Morris fa il punto sulla campagna militare di Israele contro Hamas

L'offensiva israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, giunta al suo ottavo mese, a seguito della selvaggia invasione del sud di Israele da parte degli islamisti il 7 ottobre, sembra essere andata male sia militarmente che politicamente e non se ne vede la fine” scrive su Quillette lo storico Benny Morris. “Israele, un piccolo paese con una piccola popolazione ebraica e una piccola base militare-industriale, non è costruito per guerre lunghe. Dal 1948, le sue guerre sono state notevolmente brevi: una settimana nel 1956, sei giorni nel 1967, 18 giorni nel 1973. Anche la mini-guerra fallita con Hezbollah nel 2006 è durata solo un mese. Questa volta la guerra sembra infinita. È vero, all’inizio della campagna a Gaza, i capi dell’establishment della difesa israeliano hanno messo in guardia il governo e l’opinione pubblica a non aspettarsi una soluzione rapida e hanno avvertito che la guerra probabilmente avrebbe richiesto ‘molti mesi’, forse trascinandosi per un anno o più, prima che il suo obiettivo principale fosse raggiunto: la distruzione di Hamas come organizzazione militare e di governo. Tuttavia, mentre il 14 maggio Israele festeggiava i 76 anni di indipendenza, un’atmosfera di acuto sconforto ricopriva la nazione. Ovunque, sia il pubblico che il governo si sono confrontati con manifesti che mostravano i volti dei 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas a Gaza. E la settimana scorsa si è verificata una serie di incidenti che hanno messo in luce sia i fallimenti dell’IDF sia i rischi politici – persino i pantani – che apparentemente si profilano all’orizzonte.
  Cinque soldati sono stati uccisi nel quartiere Zeitun di Gaza City, un quartiere già apparentemente ripulito dai combattenti islamici due volte dal novembre 2023; e salve di razzi lanciati da Hamas hanno colpito per la prima volta dopo mesi le città israeliane relativamente distanti di Ashkelon e Beersheba. Insieme, questi incidenti hanno dimostrato che, nonostante le sconfitte che Hamas ha indubbiamente ricevuto, l’organizzazione islamista è ancora in piedi ed è in grado di proiettare potere e letalità dalla sua ultima grande roccaforte, la città di Rafah all’estremità meridionale della Striscia, sul confine israeliano. Funzionari americani, compreso Joe Biden, da settimane avvertono Israele di non invadere Rafah senza garantire un’adeguata protezione e aiuti umanitari. Parlando davanti alla telecamera la scorsa settimana, Biden ha annunciato che Washington aveva ‘sospeso’ una spedizione di bombe a Israele e ha minacciato di imporre un più ampio embargo sulle armi, se Israele avesse proceduto con la sua tanto intenzione di conquistare la città. L’annuncio ha segnato un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione americana, sotto la pressione dell’ala progressista del Partito Democratico e degli studenti che seminano caos e odio anti-israeliano e antisemita nei campus universitari degli Stati Uniti (e in Europa). L’Egitto, da parte sua, teme – o almeno finge di aver paura – che la conquista di Rafah da parte d’Israele si estenda al Sinai, portando centinaia di migliaia di palestinesi a riversarsi nel territorio egiziano. Alcuni osservatori hanno suggerito che non è la prospettiva di un problema di massa di rifugiati nel Sinai, ma il desiderio del presidente Abdel Fattah El-Sisi di placare la ‘strada’ egiziana pro-Hamas a guidare l’attuale atteggiamento del Cairo. Nel frattempo, i due rappresentanti regionali dell’Iran – Hezbollah in Libano e i ribelli Houthi nello Yemen – stanno portando avanti le loro mini-guerre di logoramento contro Israele. Ma gli israeliani sono molto più angosciati dal martellamento quotidiano, anche se con bassa frequenza, dei villaggi di confine e delle postazioni militari israeliane, che ha causato solo una manciata di vittime, ma ha spinto i 70mila residenti della zona ad abbandonare le case e trasferirsi in anguste camere d’albergo e case di parenti nel sud. Molti israeliani ora considerano un errore strategico l’ordine di evacuazione impartito dal governo alla popolazione, compresi gli abitanti della città di Kiryat Shmona, nei giorni successivi ai primi attacchi di Hezbollah l’8 ottobre. Sostengono che se agli abitanti del confine fosse stato permesso o avessero ricevuto istruzioni di restare, Hezbollah non avrebbe mai osato prendere di mira quelle comunità. Allo stato attuale, questi 70mila sfollati si sono aggiunti ai 50mila abitanti dei kibbutz di confine attorno alla Striscia di Gaza presi di mira da Hamas il 7 ottobre, le cui case e infrastrutture sono state gravemente danneggiate sia dall’attacco che dalla successiva campagna militare per sradicare gli Hamasnik che occupavano i kibbutz. Questi due gruppi di sfollati rappresentano un grosso grattacapo per il governo e l’esercito israeliani e un costante promemoria dell’inefficienza e dell’impotenza del governo. Dato il perdurare dello stato di guerra lungo i confini settentrionali e meridionali di Israele, il governo non è ancora riuscito nemmeno ad avviare la ricostruzione che dovrà precedere il ritorno degli sfollati. La maggior parte degli osservatori ritiene che ci vorranno anni, mentre gli sfollati rimarranno nel limbo. Ma dopo sette mesi di campagna, il problema più urgente di Israele rimane la continua esistenza, anzi la resilienza, di Hamas a Gaza. Questa resilienza è in gran parte dovuta alla vasta rete di tunnel – lunga più di 700 chilometri – che l’organizzazione ha costruito sotto le città, gli ospedali, le scuole e i quartieri residenziali della Striscia negli ultimi due decenni. Centinaia – forse migliaia – di buchi all’interno dei complessi ospedalieri e dei condomini consentono l’ingresso o l’uscita dalla rete. I tunnel, costati miliardi di dollari, furono costruiti per fornire rifugio, punti di raccolta e aree di lancio per operazioni di guerriglia in superficie per i circa 30mila combattenti dell’organizzazione, in previsione di un attacco e dell’occupazione israeliane. Come hanno scoperto le truppe israeliane che sono lentamente penetrate nella rete negli ultimi mesi, i tunnel contengono anche recinti e gabbie costruite per ‘ospitare’ gli ostaggi. I tunnel sono 10, 20 e anche 50 metri sottoterra, rinforzati da muri di cemento armato e dispongono di generatori e sistemi di elettricità, acqua e servizi igienici. Sono in gran parte impermeabili agli attacchi aerei e di artiglieria. Hamas ha impedito ai civili di Gaza di entrare nella rete di tunnel e, allo stesso tempo, non ha costruito alcun rifugio antiaereo per la popolazione civile, un fatto che aiuta a spiegare le migliaia di vittime civili inflitte durante la controffensiva successiva al 7 ottobre. Ad aggravare il problema che la rete di tunnel pone ci sono gli ostaggi israeliani. Hamas è stato riluttante a scambiare gli ostaggi rimanenti con Hamasnik imprigionati nelle carceri israeliane, anche con un rapporto ostaggi-prigionieri di uno a trenta, perché servono come scudo umano tattico per i quadri di Hamas all’interno dei tunnel. Questo è uno dei motivi per cui Israele ha trovato così difficile liberare la rete di tunnel.
  Oltre a questo scudo tattico, Hamas ha anche uno scudo strategico: la popolazione civile di Gaza, dietro, in mezzo e sotto la quale i combattenti di Hamas hanno operato e continuano a operare. La popolazione di Gaza, che comprende nonni, genitori, fratelli, figli e parenti più lontani dei combattenti di Hamas, ha sostenuto in maniera schiacciante l’assalto del 7 ottobre. Secondo tutti i sondaggi d’opinione, la maggior parte della popolazione continua a sostenere l’obiettivo di Hamas di distruggere Israele.
  L’esercito si oppone a un’occupazione a tempo indeterminato in cui Israele sarà responsabile della sicurezza e degli affari civili nella Striscia. Sarebbe una guerra di logoramento senza fine, vittime israeliane e arabe su larga scala e caos amministrativo. Gli Stati Uniti, che si sono concentrati sul problema del ‘giorno dopo’, hanno proposto da tempo che la Striscia fosse consegnata ad un’Autorità Nazionale Palestinese ‘rinnovata’ basata sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con, al suo centro, il partito Fatah, che attualmente governa gran parte della Cisgiordania. L’Anp sarebbe rafforzata dal sostegno politico, economico e forse militare da parte degli stati arabi sunniti ‘moderati’, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e forse l’Egitto. Questi paesi potrebbero essere disposti a fornire all’ANP truppe per aiutarla a controllare la Striscia e intimorire le restanti squadre di Hamas. Questa idea sembra coincidere con la visione dello Stato Maggiore israeliano per una Gaza post-Hamas. Ma ormai da mesi Netanyahu afferma che il controllo dell’Anp-Olp avrebbe semplicemente convertito ‘Hamastan’ in ‘Fatahstan’, intendendo con questo – in linea con il pensiero della maggior parte degli israeliani – che non c’è alcuna differenza, in fondo, tra Hamas e Fatah, poiché entrambi cercano la distruzione di Israele come obiettivo finale. Nel frattempo, tutti gli occhi – israeliani, americani e arabi – sono puntati su Rafah. Può darsi che la popolazione di Gaza non mangi bene e che vi sia una grave carenza di frutta e verdura fresca, ma la situazione è ben lontana dalla fame e dalle epidemie di massa che Hamas e i suoi sostenitori hanno descritto.
  L’esercito ha subìto 280 morti e un numero dieci volte superiore di feriti nella sua offensiva di terra a Gaza, oltre ai 350 soldati uccisi e agli oltre 800 civili assassinati da Hamas il 7 ottobre, e una battaglia reale per Rafah potrebbe costare molte più vittime. L’esercito di Israele, come gli eserciti della maggior parte delle democrazie occidentali, teme di incorrere in gravi perdite e gli ospedali e le cliniche israeliane sono ancora affollati di soldati mutilati e traumatizzati che si stanno riprendendo da questi ultimi sette mesi di combattimento. La prospettiva di una decisiva vittoria israeliana a Gaza potrebbe spingere Teheran e Hezbollah a intervenire per salvare Hamas, scatenando così una guerra su vasta scala. Nel frattempo, non si vede alcuna conclusione positiva in vista per le sofferenze dei circa cento ostaggi che languiscono nei tunnel di Hamas. In effetti, se l’offensiva di Rafah riprendesse slancio, molti di loro probabilmente morirebbero mentre la città viene ridotta in macerie”.

Il Foglio, 27 maggio 2024 - trad. Giulio Meotti)


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Dio sta spingendo Israele in un angolo?

    «Allo stato attuale, tutto va contro Israele. E non ha niente a che fare con i fatti, la giustizia e la verità. È il solito destino di Israele. La condotta di Israele nella guerra di Gaza sta scatenando fuoco, caos e accuse internazionali contro lo Stato ebraico. I governi dell'altra sponda del mare hanno paura della rabbia nelle loro nazioni e per questo penalizzano Israele. Per placare le proteste nei loro Paesi, condannano e giudicano Israele. Il biblico destino di Dio sta portando le nazioni e i governi alla follia spirituale e politica. "La menzogna diventa l'ordine mondiale", come dice Franz Kafka. E ancora una volta Israele viene messo all'angolo. "Dio sta spingendo Israele in un angolo per farlo capitolare davanti a Lui”, dicono i rabbini in questi giorni.»

Questa osservazione è tratta da un articolo di Aviel Schneider pubblicato ieri sul quotidiano online “Israele heute” di cui è direttore. Da sottolineare quello che dicono i rabbini in Israele in questi giorni. Fanno riferimento a Dio.  Certo - dirà qualcuno - sono rabbini, e quindi fanno il loro mestiere. Benny Morris invece fa un altro mestiere: è uno storico, e non ha bisogno di questi riferimenti. Se no, che storico sarebbe, gli direbbero subito i colleghi. E poi Morris è colui che ha dato il via alla corrente dei “Nuovi storici” postsionisti, quelli che si sono assunti il compito di desacralizzare l’ufficiale narrazione mitologica del ritorno di Israele nella sua terra. 
Eppure, alla fine di un suo “scientifico” lavoro di ricostruzione di questa narrazione storica, nella sua monumentale opera “Vittime”, Benny Morris sembra non poter evitare di far riferimento a qualche elemento che sta fuori dei consueti steccati storiografici:

    “Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell’insieme il successo dell’impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all’ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?”

Già, come descrivere? come spiegare di essere usciti vincitori in così tanti scontri “fin qui”, che per Morris significava la fine del secolo scorso? E adesso? Si ripeteranno i miracoli? 
«Allo stato attuale, tutto va contro Israele», osserva Schneider da Gerusalemme, dove è cresciuto e vive da sempre come israeliano. Forse è giunto il momento in cui Israele  deve riprendere in forte considerazione il suo rapporto con Dio come nazione. Il 7 ottobre forse è crollato qualcosa non solo negli usuali contrasti destra-sinistra, ma anche nel modo in cui la nazione vive il suo rapporto con Dio. Forse è crollata definitivamente la narrazione ottimistica del sionismo laico, che indubbiamente ha fatto nascere la nazione, ma l’ha fatto prescindendo o mettendo semplicemente a contorno la narrazione biblica di Israele. Gli ebrei, che all’inizio del secolo scorso avevano creduto di risolvere il loro problema di esistenza assimilandosi nella nazione in cui vivevano, e non ci sono riusciti, dopo la seconda guerra hanno sperato di risolvere la questione ebraica assimilandosi come nazione in quel turpe coacervo di gruppi etnici denominato ONU. Così la primordiale Società delle Nazioni, opportunamente aggiornata, è riuscita a trovare il suo Ebreo tra le Nazioni da angariare. Dopo il 7 ottobre la speranza dell’assimilazionismo nazionale ebraico è definitivamente tramontata.
Torna allora per Israele il problema Dio. E se si legge con attenzione nella Bibbia, si può vedere che il problema di Israele con Dio non è il suo allontanarsi dalla Torah, ma il suo avvicinarsi agli idoli. Un avvicinamento che spesso è finito in prostrazione, dipendenza vitale, attesa di soccorso:

    “Essi abbandonarono la casa dell'Eterno, dell'Iddio dei loro padri, servirono gl'idoli d'Astarte e gli altri idoli; e questa loro colpa trasse l'ira dell'Eterno su Giuda e su Gerusalemme” (2 Cronache 24:18).

Si può ripetere anche oggi qualcosa di simile? Nessuno può dirlo con certezza, ma nessuno anche può escluderlo. Dunque in un paese che non può neanche essere preso in considerazione senza fare riferimento a Dio, sarebbe forse fuori luogo fare di questo interrogativo un oggetto di discussione? Potrebbe esserci per la nazione un legame idolatrico che non solo impedisca il ripetersi di certi miracoli del passato, ma anzi funga da calamita di nuove sciagure? Propongo un nome: libertà. Precisamente, la libertà invocata dal laicismo occidentale. Nella coltura dei germi laicisti si è sviluppato un idolo. Un idolo che Israele si sente obbligato a venerare,  sollecitato anche da una parte del mondo (quella buona, s’intende, quella che pratica ogni giorno il culto al supremo idolo di nome LIBERTA’), in opposizione al resto del mondo soggetto ad altri idoli con nomi diversi. 
Nell’adorazione di questo idolo, il mondo occidentale ha scelto Israele come suo sacerdote, e come baluardo contro le orde dei barbari "fascisti" di vario tipo: “Se perde Israele, cade tutto l’Occidente”, scrivono anche ebrei e amici di Israele.
È nel nome di questo idolo che oggi Israele si sente spinto a combattere? M.C.

(Notizie su Israele, 27 maggio 2024)

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Dopo l’ordinanza dell’Aia, Israele resiste

di Ugo Volli

• Tre sconfitte
  Con l’ordinanza di venerdì della Corte di Giustizia Internazionale (ICJ) dell’Aia che accoglie (in parte) le richieste del Sudafrica, Israele ha subito la terza sconfitta in una settimana sul fronte giuridico-diplomatico, dopo la richiesta del procuratore presso l’altra corte dell’Aia (La Corte Penale Internazionale – CPI) e il riconoscimento dell’inesistente Stato di Palestina da parte di tre Paesi europei, (Spagna, Irlanda e Norvegia). È vero che la ICJ non ha ordinato a Israele, come chiedeva il Sudafrica (cui si erano associati fra l’altro due vicini importanti per Israele, Egitto e Turchia) di cessare subito la guerra di Gaza ma solo l’operazione a Rafah e che si tratta anzi di una disposizione formulata in termini abbastanza ambigui da permettere a Israele di continuare la caccia ai terroristi, facendo attenzione a danneggiare il meno possibile la popolazione civile, come sta già facendo. L’ordinanza della ICJ dice infatti: “Israele deve fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah, che possa infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione fisica totale o parziale”. E dà a Israele 30 giorni di tempo per riferire, quanto basta cioè per infliggere seri danni all’infrastruttura sotterranea di Hamas e magari, si spera, di arrivare ai nascondigli dove sono prigionieri i rapiti e si celano i capi terroristi.

• Le cause delle scelte antisemite delle Corti
  Ma la sconfitta dell’Aia è chiara. Rafforza la propaganda antisemita e apre la strada a un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si potrà fermare solo con un veto americano, certamente pagato a caro prezzo. La Corte non ha avuto il coraggio di dichiarare legittima, com’è, l’autodifesa israeliana e di riconoscere gli sforzi dello Stato ebraico, davvero straordinari e senza precedenti in altre guerre in tutto il mondo, per tutelare i civili. Ha invece accettato l’impostazione accusatoria dei nemici, pur badando a limitarne le conseguenze pratiche. Questa linea di azione, come quella del procuratore della CPI, deriva da diverse cause. In primo luogo vi è la tendenza dei giudici di tutto il mondo (anche in Italia e in Israele) a sostituirsi ai politici nel prendere le decisioni fondamentali per la vita collettiva, anche se nessuno li ha eletti o delegati a questo. In secondo luogo c’è un’impostazione terzomondista dei giudici, della diplomazia, di molti politici, ma anche dei trattati internazionali formulati da diplomatici e giuristi di sinistra, per cui i vincoli vengono posti all’azione degli Stati e invece le azioni di guerriglia sono sempre considerate legittime e giustificate. La giustizia internazionale, come la conosciamo noi, si è consolidata a partire dagli anni Sessanta, in un clima in cui gli eroi dei giovani e degli intellettuali erano Vietnam, Cuba, gli ayatollah iraniani, e già allora i terroristi palestinesi. Oggi Cuba e Vietnam non sono più di moda, anche se pochi hanno preso atto del livello di repressione che li ha colpiti (in particolare nessuno ricorda del tremendo autogenocidio cambogiano) e pochissimi appoggiano davvero la lotta pacifica e davvero liberatoria di donne e giovani in Iran.

• Il mito palestinista e l’odio per le vittime
  Il mito che riassume oggi tutto questo esotismo politico è quello della “Palestina” e non c’è atrocità, corruzione, intolleranza, strage, oppressione a limitare l’appoggio che ottiene dai “progressisti” di tutto il mondo. Che giovani, intellettuali, governi di sinistra, giudici internazionali, personaggi mediatici, movimenti femministi esaltino assassini seriali, violentatori di massa, rapinatori e rapitori di donne e bambini, non può purtroppo meravigliare. Anche gli enormi crimini di Mao, Che Guevara, Gheddafi, Arafat, Khomeini non hanno mai impressionato i benpensanti di sinistra. Che poi le vittime ebree dei palestinisti facciano parte di un popolo che non solo l’Islam, ma anche l’Occidente cristiano e illuminista da sempre “love to hate” (ama odiare, come dicono in inglese), è un’altra ragione. Che gli ebrei abbiano una patria, che osino difendersi e sconfiggere i tentativi di genocidi, piace a pochissimi, nonostante tutte le giornate della memoria e la commozione sull’“Olocausto”. Una volta pensavamo che gli piacessero almeno gli ebrei morti, se non quelli vivi. Oggi sappiamo che piangono solo se gli assassini erano di estrema destra. Le vittime della “lotta popolare” non meritano lacrime per loro. È una verità molto amara, ma bisogna farci i conti.

• Che succede ora?
  Come ha detto l’ex primo ministro Naftali Bennett in un video molto chiaro, dopo il 7 ottobre Israele aveva tre possibilità: liquidare Hamas bombardando massicciamente Gaza, come gli inglesi fecero con Dresda, e liquidare la faccenda in due giorni, ma al prezzo di centinaia di migliaia di morti. Giustamente ha scelto di non farlo e non lo farà. Oppure poteva fare una azione simbolica di “deterrenza” come dopo i cinque attacchi precedenti (limitati però quasi solo ai missili) dei terroristi di Gaza. Questo voleva dire accettare che presto ci sarebbero stati altri 7 ottobre da Gaza, dal Libano e dalla Siria e anche dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Inaccettabile: Israele non si è bloccato in una risposta “moderata” e non lo farà. Tiene alla vita dei propri cittadini. Oppure poteva prendersi il lavoro faticoso e pericoloso di andare a cacciare i terroristi nelle loro tane, eliminarli, distruggere le infrastrutture, impadronirsi del territorio per quel tanto che serve a ripulirlo, cercando di spostare la popolazione civile usata da Hamas come scudi umani per non colpirla, ma senza accettare “santuari” per il terrorismo, anche se si tratta di moschee, scuole, ospedali, sedi dell’UMRWA, sistematicamente usate come copertura.

• “Con le unghie e coi denti”
  Questa è la scelta di Israele, di tutta Israele a parte qualche manipolo di disfattisti estremisti di sinistra: non di Netanyahu, che è usato secondo una vecchia tecnica come “uomo nero” da odiare in rappresentanza degli ebrei, ma dell’intero popolo israeliano. Così si andrà avanti. I nemici nelle corti e nella diplomazia internazionale ignorano un fatto fondamentale, che il popolo ebraico conosce da millenni: di fronte alla persecuzioni bisogna rinsaldare l’unità, mettere da parte le divisioni, sostenere i propri leader. Chi si illudeva di indebolire il governo israeliano con mandati di cattura, ordinanze, riconoscimenti di movimenti che vogliono la “Palestina” judenfrei “dal fiume al mare” e che hanno sempre rifiutato le paci di compromesso che sono state offerte loro, stanno ottenendo l’effetto opposto: rafforzano l’unità di Israele e la sua determinazione di combattere “anche da solo”, “con le unghie e coi denti”, se necessario, come ha detto Netanyahu.

(Shalom, 26 maggio 2024)

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Il rappresentante della comunità ebraica iraniana offre un’immagine positiva del defunto Presidente Ebrahim Raeisi

Riportiamo questo articolo per dovere di cronaca. Sarebbe utile avere altre informazioni sulla comunità ebraica in Iran. NsI

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Sameh Yeh Najafabadi, rappresentante della comunità ebraica iraniana

Il Presidente Ebrahim Raeisi è morto insieme alla delegazione che lo accompagnava, compreso il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, dopo che il loro elicottero si è schiantato domenica scorsa nella foresta di Dizmar, nella provincia dell’Azarbaijan orientale. Dopo una ricerca durata ore, ostacolata dalle cattive condizioni meteorologiche, i soccorritori hanno trovato i rottami bruciati dell’elicottero e i suoi passeggeri sono stati confermati morti.
Milioni di iraniani si sono riuniti in varie città del Paese per commemorare la scomparsa del defunto presidente e dei suoi compagni come parte delle cerimonie tenutesi in seguito alla dichiarazione del Leader di lutto nazionale di cinque giorni per la tragica perdita. Decine di leader mondiali, presidenti, ambasciatori e personalità internazionali, hanno inviato messaggi di condoglianze. Tuttavia non è mancata la prevedibile reazione dei leader e media occidentali del tristemente noto “Asse del Bene”. Raesi è stato dipinto come un feroce conservatore, estremista e assassino e molti in Europa si sono rallegrati (più o meno apertamente) della sua morte.
Di opposto parere il rappresentante della comunità ebraica iraniana al parlamento Homayoon Sameh Yeh Najafabadi. In una intervista rilasciata a Press TV Najafabadi ha descritto il rapporto tra il governo del defunto presidente Ebrahim Raeisi e la comunità ebraica come positivo e costruttivo.
“Il rapporto tra l’amministrazione del presidente Raeisi e la comunità ebraica iraniana è sempre stato eccellente e la cooperazione tra l’amministrazione e la comunità ebraica è stata davvero notevole. Il presidente ha avuto ottimi rapporti con la comunità ebraica in diversi settori”, ha affermato .
Najafabadi ha continuato affermando che durante il mandato del presidente Raeisi è stato fornito un sostegno “notevole” alle scuole ebraiche di Teheran che avevano vari problemi, aggiungendo che questi problemi sono stati risolti grazie alla cooperazione e al sostegno fornito dal governo. Secondo Najafabadi il Presidente Raesi si è concentrato sulla trasformazione delle relazioni tra ebrei e mussulmani, trasformando i nemici in amici, riuscendo a costruire un quadro politico rispettoso e di dialogo che ha fatto nascere amicizia e fratellanza.
Il deputato ha inoltre osservato che il presidente Raeisi è riuscito a preparare il terreno affinché un ospedale di beneficenza ebraico in Iran abbia potuto riprendere le sue attività dopo che è stato costretto a chiudere a seguito della pandemia di coronavirus. Ha inoltre affermato che la comunità ebraica ha ricevuto “notevoli fondi” dal governo per questioni sociali, culturali e sportive a Teheran e in altre città del paese, aggiungendo che “il presidente Raeisi sarà ricordato nella comunità ebraica”.
Najafabadi ha inoltre affermato che la comunità ebraica convive comodamente e pacificamente con gli altri gruppi della società iraniana, sottolineando che non vi è alcun segno di antisemitismo nel Paese contro i membri della comunità ebraica e che essi sono rispettati da tutti i funzionari governativi.
Gli Yahudiyān-e Irāni (יהודים פרסים Yəhūdīm Parsīm in ebraico) sono presenti in Iran fin dall’era biblica e si trasferirono durante il periodo dell’impero persianoachemenide. I libri della Bibbia ebraica (Ester, Isaia, Daniele, Esdra e Neemia) raccolgono un’ampia narrativa che fa luce sulle esperienze di vita ebraica contemporanea nell’antica Persia. C’è stata una presenza ebraica continua in Iran almeno dai tempi di Ciro il Grande, che guidò la conquista dell’esercito persiano dell’Impero neo-babilonese e successivamente liberò i Giudaiti dalla prigionia babilonese.
Dopo il 1979, l’emigrazione ebraica dall’Iran è aumentata notevolmente alla luce della rivoluzione islamica del paese. L’emigrazione fu una scelta della diaspora ebraica dettata da motivi religiosi e non da pressioni, violenze o discriminazioni da parte del nuovo regime teocratico. Molti degli ebrei che scelsero di lasciare l’Iran risiedono in Israele e negli Stati Uniti. Secondo il censimento iraniano del 2016, la restante popolazione ebraica dell’Iran ammontava a 9.826 persone.
Dopo la rivoluzione il regime teocratico confiscò case, terreni agricoli e fabbriche agli ebrei compromessi con il regime filo americano dello Scià. Alcuni di loro erano sospettati di essere delle spie o dei sostenitori degli Stati Uniti e di Israele. Tuttavia si trattava di una ristrettissima minoranza tra la comunità ebraica in Iran che non fu molestata. La seconda ondata di confische avvenne dopo la partenza di vari ebrei verso Stati Uniti e Israele e fu fatta a seguito delle campagne di diffamazione di quest’ultimi all’estero che affermavano falsamente di essere fuggiti per non essere vittime dei massacri che Komehini stava organizzando contro la comunità ebraica.
Nessun ebreo rimasto in Iran fu ucciso, minacciato o perseguitato. Molti di loro si arruolarono nelle forze armate della Repubblica islamica dell’Iran durante la guerra Iran-Iraq voluta dagli Stati Uniti e durata dal 1980 al 1988.
Nella repubblica islamica gli ebrei rimasti sono diventati più religiosi. Le famiglie che erano laiche negli anni ’70 iniziarono ad aderire alle leggi dietetiche kosher e ad osservare più rigorosamente le regole contro la guida durante lo Shabbat. Smisero di frequentare ristoranti, caffè e cinema e la sinagoga divenne il punto focale della loro vita sociale. Haroun Yashyaei, produttore cinematografico ed ex presidente della Comunità ebraica centrale in Iran, ha detto: “Khomeini non ha confuso la nostra comunità con Israele e il sionismo: ci vedeva come iraniani”.
Nel giugno 2007, nonostante ci fossero notizie secondo cui ricchi ebrei espatriati avrebbero creato un fondo per offrire incentivi agli ebrei iraniani affinché immigrassero in Israele, pochi hanno accettato l’offerta. La Società degli ebrei iraniani ha liquidato questo atto come “attrattiva politica immatura” e ha affermato che la loro identità nazionale non era in vendita.
Gli ebrei nella Repubblica islamica dell’Iran godono degli stessi diritti degli altri cittadini e sono liberi di praticare la propria religione. Nel parlamento iraniano c’è addirittura un seggio riservato al rappresentante degli ebrei iraniani. Sono riconosciuti come minoranza religiosa assieme agli zoroastriani e ai cristiani. Tutte queste minoranze religiose hanno diritto a risiedere al parlamento iraniano.
Gli ebrei iraniani hanno il loro giornale (chiamato “Ofogh-e-Bina”) con studiosi ebrei che svolgono ricerche ebraiche presso la “Biblioteca Centrale dell’Associazione Ebraica” di Teheran. L’ospedale ebraico Dr. Sapir è il più grande ospedale di beneficenza dell’Iran tra tutte le comunità di minoranze religiose del paese.
Il rabbino capo Yousef Hamadani Cohen è stato il leader spirituale della comunità ebraica dell’Iran dal 1994 al 2007, quando gli successe Mashallah Golestani-Nejad. Nell’agosto del 2000, Cohen incontrò per la prima volta il presidente iraniano Mohammad Khatami. Nel 2003, Cohen e Motamed incontrarono Khatami alla sinagoga Yusef Abad, che fu la prima volta che un presidente iraniano visitò una sinagoga dai tempi della rivoluzione islamica.
Gli ebrei iraniani sono conosciuti soprattutto per alcune occupazioni come la creazione di gioielli in oro e il commercio di oggetti d’antiquariato, tessuti e tappeti. La maggior parte degli ebrei vive a Teheran, la capitale.[109] Tradizionalmente, tuttavia, Shiraz, Hamedan, Isfahan, Tabriz, Nahawand, Babol e alcune altre città dell’Iran ospitavano grandi popolazioni di ebrei. A Teheran ha 11 sinagoghe funzionanti, molte delle quali con scuole ebraiche. Dispone di due ristoranti kosher, una casa di riposo e un cimitero. Esiste una biblioteca ebraica con 20.000 titoli. La comunità ebraica in Iran è la testimonianza diretta che il governo teocratico iraniano shiita non ha mai compiuto crociate religiose. La sua avversità è contro il regime coloniale di Tel Aviv che ha sempre massacrato i palestinesi e ora tenta il genocidio e non contro il popolo ebraico.

(Faro di Roma, 26 maggio 2024)

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“Siamo tornati alle epurazioni degli ebrei”, l’ex docente Ugo Volli chiede le dimissioni del rettore dell’Università di Torino

Per il professore è stata tradita la missione educativa e culturale dell’ateneo torinese: «Tutto è iniziato con la decisione sciagurata di sospendere il bando Maeci»

di Caterina Stamin

«Sono arrabbiato», ripete Ugo Volli. «Sono molto arrabbiato».

- Mi spiega il perché?
 «Provare vergogna per l’apparenza a un’università di cui sono sempre stato fiero è molto triste per me».

Per vent’anni il professor Volli ha insegnato Semiotica del testo all’Università di Torino. In quelle stesse aule ora occupate dai collettivi in tenda, da bandiere della Palestina e striscioni che chiedono la fine del «genocidio in corso a Gaza». Oggi, in pensione, si dice «inorridito» dall’aria che si respira nel suo Ateneo. «Penso alle lezioni spostate online, agli studenti e ai docenti che non vengono fatti entrare e a chi riceve minacce per la sua identità ebraica: mi sento in una situazione simile a quella che visse a mio padre nel ’38, quando le leggi razziste lo espulsero da scuola».

- Non è un po’ troppo?
 «Assolutamente no. C’è stata un’invasione dell’università da parte di soggetti antisemiti. E il rettore doveva bloccarla per difendere la libertà degli studenti e dei docenti».

- Cosa pensa del sermone dell’imam a Palazzo Nuovo?
 «Credo sia un fatto gravissimo».

- Perché?
 «Non tanto e non solo perché è un sermone religioso e l’università deve essere laica, ma perché si tratta anche di una cerimonia politica di parte ed estremista».

- Di quale parte?
 «Il sermone è stato fatto a favore di terroristi che hanno centinaia di stupri, rapimenti e omicidi sulla coscienza. Si tratta di un’esaltazione di crimini gravissimi».

- L’Università ha abdicato al suo ruolo?
 «Bisogna fare una distinzione tra le università».

- Prego.
 «Ci sono state università, come a Roma, a Bologna e anche a Torino, che hanno avuto la dignità di rifiutare comizi filo-terroristi e respingere ricatti di piccoli gruppi estremisti».

- A UniTo non è stato lo stesso?
 «No, l’Ateneo è stato l’esempio di un luogo che ha tradito la propria missione educativa e culturale: ha avuto la responsabilità di non svolgere il proprio dovere».

- Ovvero?
 «Garantire innanzitutto l’agibilità dei luoghi di studio e la convivenza di tutti. Poi il dovere di essere un’istituzione di ricerca e di studio che rispetta la Costituzione italiana. L’attuale direzione dell’Ateneo non ha fatto niente per bloccare l’occupazione né quel comizio. E ancora prima ha assunto un ruolo pilatesco di fronte alla domanda oltraggiosa di impedire la collaborazione scientifica con le università israeliane».

- Si riferisce al bando Maeci?
 «Sì, credo che quello di cui stiamo discutendo oggi sia la conseguenza di quella sciagurata decisione del Senato accademico di accettare il ricatto di gruppi che disturbano l’andamento dell’università, prevaricando».

- Di chi è la colpa?
 «La prima colpa è di questi gruppetti che approfittano di una licenza che gli viene concessa per fare violenza agli studenti, ai docenti e alla natura stessa dell’università».

- Poi?
 «Del rettore e del Senato accademico di non aver impedito queste prepotenze e di non aver fatto ricorso alla forza pubblica per ristabilire la legalità in ateneo».

- Al rettore è mancato coraggio?
 «Non so se sia vigliaccheria, ipocrisia o complicità ideologica. Senza dubbio è mancato al suo elementare dovere. E io chiedo le sue dimissioni».

- Al Politecnico è andata diversamente.
 «Il rettore del Politecnico si è comportato in maniera corretta, è intervenuto e non si è nascosto. Ma non è un eroe isolato: la maggior parte dei rettori italiani si sono comportati allo stesso modo. Solo alcuni singoli, come Geuna, hanno mostrato totale inadeguatezza al loro ruolo».

(La Stampa, 25 maggio 2024)

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«Big Pharma è nelle mani di gente senza valori e adesso controlla l’Oms”

Intervista a Aseem Malhotra. Il cardiologo britannico: «Etica, scienza e salute non contano. Importa solo il denaro. Il vaccino ha causato tanti morti, ma i media sono asserviti»

di Martina Pastorelli

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Aseem Malhotra

«Quando gli italiani sentono i nomi Pfizer, Big Pharma o Astrazeneca devono associarli a una parola: persone da cui stare in guardia che ora controllano perfino l'Organizzazione mondiale della sanità. Per ottenere più profitti possibili, senza curarsi delle possibili reazioni avverse hanno imposto che i vaccini Covid fossero obbligatori e adesso dobbiamo fare i conti con le conseguenze di un capitalismo aziendale cui è stato legalmente permesso di danneggiare la popolazione pur di guadagnare».
  Non usa giri di parole Aseem Malhotra, cardiologo britannico di fama internazionale che da tempo denuncia l'avidità delle aziende farmaceutiche e la loro influenza su istituzioni e organismi di controllo sanitari mondiali. Durante la pandemia, sostiene Malhotra, sull'opinione pubblica e sulla stessa classe medica sarebbe calata una cappa di disinformazione e bugie finalizzata a promuovere i vaccini,  con un'operazione analoga a quella che le grandi aziende del tabacco hanno portato avanti per decenni: «Mentre il fumo uccideva le persone, i dati sui danni provocati dalle sigarette venivano nascosti usando un mix di negazione, informazioni fuorvianti e appoggio prezzolato di scienziati e politici. Allora ci volle molto tempo prima che emergessero le evidenti correlazioni tra il fumo e il cancro ai polmoni. Pensi che ancora nel 1994 gli amministratori delegati di Big Tobacco giurarono davanti al Congresso Usa che la nicotina non dava dipendenza e che il fumo non era cancerogeno. Ecco, oggi abbiamo a che fare con persone dello stesso genere, le quali controllano l'informazione sanitaria».

- In termini di gestione sanitaria quale lezione ci ha lasciato la pandemia?
  «La più importante è che va rimossa qualsiasi influenza commerciale dalle decisioni di salute pubblica. Dobbiamo imparare che alle grandi corporation non interessa la nostra salute ma solo far cassa e che per raggiungere il loro obiettivo sono pronti a mentire, ingannare e manipolare».

- Qual è il legame tra Big Pharma e il mondo medico, oggi?
  «Le aziende farmaceutiche hanno l'obbligo fiduciario di realizzare profitti per i loro azionisti, non di fornirci la cura migliore. Il vero scandalo è che gli enti regolatori non sono riusciti a prevenire la cattiva condotta dei produttori e che quanti avevano la responsabilità di garantire la salute dei pazienti e della correttezza scientifica - accademici, pubblicazioni specializzate, medici - sono stati collusi con l'industria farmaceutica. Basti pensare che la maggior parte degli enti regolatori occidentali sono finanziati da Big Pharma: l'attuale sistema non solo non è scientifico né etico, ma nemmeno democratico».

- Sta venendo meno la fiducia negli stessi medici?
  «Da medico osservo una cosa: la salute delle persone peggiora. Già prima della pandemia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna l'aspettativa di vita era in declino e le malattie croniche in ascesa. Il motivo per cui la fiducia nei medici si sta erodendo è che la maggior parte di loro, inconsapevolmente, prescrive ai pazienti farmaci sulla base di informazioni falsate da altri interessi. Inevitabile che i risultati siano, nella migliore delle ipotesi sub-ottimali, e nella peggiore dannosi. Poi c'è un altro elemento: la professione medica è gerarchica e obbediente, il che facilita l'abuso di potere. Senza dimenticare la connivenza fra Big Pharma e organismi medici di primo piano, inclusa l'Oms, che per il 70% viene finanziata per ottenere una controparte. Il suo secondo contributore oggi è Bill Gates, che si stima che abbia guadagnato mezzo miliardo di dollari dagli investimenti nei vaccini Covid. Il problema è che queste società controllano la narrazione e sopprimono quelle informazioni, cruciali per pazienti e dottori, che ne ridurrebbero l'influenza e il potere sulla salute pubblica».

- Prima di ritirare il proprio vaccino, Astrazeneca ha ammesso la possibilità di effetti collaterali anche gravi. Pensa che un giorno Pfizer e Moderna faranno lo stesso?
  «La storia di Big Pharma ci mostra che negli ultimi decenni queste aziende hanno pagato multe di decine di miliardi per aver nascosto dati e danni. Dovremo ricorrere ai tribunali, per risolvere parte del problema e arrivare a una verità, se non totale, quantomeno più accurata di quella attuale».

- Come valuta il Trattato pandemico e il nuovo Regolamento sanitario internazionale che l'Oms vorrebbe approvare, anche se sembrerebbe avere poche speranze?
  «Sarebbe solo un altro mezzo con cui Big Pharma e le grandi corporation vogliono esercitare il loro potere e la loro tirannia, parandosi dietro alla maschera di "indipendente" che indossa l'Oms ma che non corrisponde alla realtà».
  
  - Davanti a tutto ciò che non ha funzionato e ai danni commessi, come si spiega l'insensibilità umana e l'irresponsabilità politica che stanno dimostrando tanti rappresentanti delle istituzioni?
  «Ci sono più cause: i politici - molti li conosco personalmente perché si affidano a me per consigli medici - riflettono l'atteggiamento della società, che è sempre più materialista e condizionata da entità che hanno messo da parte valori democratici e integrità morale. Il problema - di cui si è occupato anche The Lancet - dei "determinanti commerciali della salute", ovvero quell'insieme di strategie, azioni e omissioni del settore privato che influenzano la scelta di prodotti e hanno conseguenze negative sulla salute pubblica, secondo me va ridefinito in termini di "determinanti psicopatici della salute". Con ciò intendo dire che il comportamento di chi guida certe aziende rientra nei criteri che definiscono la psicopatia: incapacità di provare senso di colpa, disinteresse per la sicurezza altrui, insensibilità, bugie a scopo di profitto. Se queste realtà acquistano sempre più il controllo del sistema e delle nostre vite, ecco che anche l'atteggiamento dei politici sarà conseguente. Abbiamo aziendalizzato gli esseri umani e quando le persone sono patologicamente mosse puramente dall'interesse personale questo danneggia l'intera società, anche da un punto di vista fisico».

- L'abbandono di chi ha subito eventi avversi dopo la vaccinazione è emblematico: perché è ancora così difficile riconoscere questa realtà?
  «Il problema è che non c'è stato un processo indipendente di analisi dei dati prima dell'introduzione dei vaccini Covid, ma la maggioranza dei medici non lo sa. Quando successivamente un gruppo di eminenti scienziati, tra i quali Peter Doshi, Sander Greenland e Joseph Fraiman, ha potuto analizzare gli studi originali di Pfizer e Moderna, ha concluso che è più probabile soffrire di gravi eventi avversi dovuti al vaccino - in particolare quello a mRna - che di finire all'ospedale a causa del Covid. La stessa Oms aveva approvato una lista di reazioni potenzialmente gravi legati a questi prodotti, solo che nessuno ne ha saputo nulla. Se i dottori - me compreso, che ho fatto due dosi di vaccino Pfizer - vengono tenuti all’oscuro di questo e anzi subiscono un indottrinamento tale che la sicurezza del vaccino viene data per verità biblica, beh è inevitabile che non siano poi in grado di fare la diagnosi giusta e attribuiscano gli eventi avversi che si stanno verificando ad altre cause. Ma quando gli presenti i dati - come faccio io in giro per il mondo - cambiano completamente idea».

- L'alibi fu che bisognava procedere alla velocità della scienza ...
  «Certo, ma se l'autorizzazione era stata data in via emergenziale perché hanno raccontato alle persone che i vaccini erano completamente sicuri? E perché imporli? Sono certo che a spingere per renderli obbligatori sia stata Pfizer».

- Eppure sostengono che milioni di vite siano state salvate grazie ai vaccini.
  «Un'affermazione che fa parte del repertorio di inganni, bugie e propaganda cui ricorrono queste aziende per evitare che le informazioni circolino. Da cardiologo, sulla base della mia esperienza e dell'analisi dei dati, posso dire che i vaccini hanno causato almeno altrettanti milioni di decessi, se non di più. Senza contare quelli che registreremo a causa delle malattie oncologiche e dei danni al cuore, che si manifestano anche tempo dopo l'inoculazione, come è successo a mio padre: sei mesi dopo la seconda dose Pfizer ha avuto un arresto cardiaco ed è morto. L'autopsia ha confermato che la causa è stata proprio il vaccino».

(La Verità, 26 maggio 2024)

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Israele e il Messia – percorsi paralleli (6)

Nella figura di Rachele, e precisamente negli ultimi momenti della sua vita, si trova una chiave di lettura per intendere momenti fondamentali della storia di Israele, fino alla venuta del Messia Gesù.

di Gabriele Monacis

La figura di Rachele nella Scrittura è quella di una madre molto particolare. Non tanto per essere stata una delle mogli di Giacobbe a cui, nonostante fosse sterile, Dio diede miracolosamente due figli, Giuseppe e Beniamino. La particolarità di Rachele nella Scrittura sta nel racconto della sua morte, di come e dove morì. È la morte di Rachele, dunque, a fare di questa donna una madre unica nel suo genere.
   Rachele morì partorendo un figlio, Beniamino, l’ultimo tra i figli di Giacobbe. La morte di questa madre avvenne per dare alla luce un figlio, un tremendo e dolorosissimo atto d’amore. Inoltre, il libro della Genesi dice che Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre Giacobbe, con tutta la sua famiglia, stava tornando da Paddam-Aram nella sua terra di origine, per rivedere suo padre Isacco.

    C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”. E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino. Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme (Genesi 35:16-19).

Molti anni dopo, poco prima di morire, Giacobbe ricordò con queste parole quegli ultimi momenti tristi vissuti insieme alla sua amata Rachele.

    Quando tornavo da Paddan, Rachele morì, nel paese di Canaan, durante il viaggio, a qualche distanza da Efrata; e la seppellii lì, sulla via di Efrata, che è Betlemme. (Genesi 48:7).

Rachele dunque morì durante il viaggio, di ritorno nella terra di Canaan. Fu l’unica, tra le mogli dei patriarchi di Israele, a non essere mai vissuta nella terra che Dio aveva promesso loro. Lì lei fu solo di passaggio.
   Dopo essere stata ricordata da suo marito in punto di morte, Rachele viene menzionata altre tre volte in tutta la Bibbia. Quattro, se si considera un riferimento alla “tomba di Rachele” nella vita di Saul, prima che diventasse re di Israele (1 Samuele 10:2). A testimoniare che, anche dopo molti secoli, la tomba di Rachele esisteva ancora e il luogo della sua morte è rimasto un punto di riferimento per coloro che si trovavano nel territorio della tribù di Beniamino.
   Dopo la morte di Giacobbe, si diceva, Rachele è menzionata una volta alla fine del libro di Rut, quando Boaz decise di acquistare tutto ciò che apparteneva alla famiglia di Naomi e di sposare Rut, vedova di Malon.

    Tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme! (Rut 4:11).

Queste parole del popolo furono profetiche, in un certo senso, poiché da lì a poco Rut partorì a Boaz un figlio, Obed, che poi divenne il nonno di re Davide. È importante notare che nelle parole del popolo, il nome di Rachele è associato alla città di Betlemme, da cui la famiglia di Naomi proveniva.
   La volta successiva in cui si trova il nome di Rachele, e anche ultima per quanto riguarda l’Antico Testamento, è nel libro di Geremia. Qui è l’Eterno stesso a nominarla, per descrivere la sofferenza di Israele nel vedere i propri figli deportati a Babilonia ad opera dei Caldei, quando questi conquistarono il regno di Giuda.

    Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più” (Geremia 31:15).

Ma è l’Eterno che risponde a se stesso e dà speranza a Israele, chiedendogli di non piangere più, perché quei figli che le madri stanno piangendo torneranno dal paese nemico.

    Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico; e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini (Geremia 31:16,17).

L’unica volta in cui Rachele è menzionata nel Nuovo Testamento, è nel vangelo di Matteo, il quale afferma che sì adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia quando il re Erode ordinò di uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e dintorni – eh sì, ancora Betlemme – per uccidere anche Gesù, il quale era stato indicato come il Messia dai magi giunti dall’Oriente.

    Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più (Matteo 2:18).

Mettendo in ordine questi brani biblici accomunati dalla figura di Rachele, troviamo prima la sua morte sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre partoriva Beniamino. Il secondo brano è nel libro di Rut, quando il popolo la benedice affinché diventi una madre di Israele come lo fu Rachele. Il terzo brano è in Geremia, quando è l’Eterno a paragonare il pianto di Israele per i suoi figli con quello di Rachele. Allo stesso tempo, promette che quei figli di Israele torneranno. Pertanto, il pianto deve lasciare spazio alla speranza nella Parola di Dio. Il quarto brano è quello nel vangelo di Matteo. A seguito della nascita di Gesù, i bambini maschi di Betlemme vengono uccisi e il pianto di quelle madri viene paragonato al pianto di Rachele, che piange i suoi figli.
   Oltre alla figura di Rachele, che cos’è che hanno in comune questi quattro eventi della storia di Israele? Come detto in precedenza, è la morte di Rachele a rendere la figura di questa donna così particolare, perché è negli ultimi momenti della sua vita che si trova la chiave per leggere gli altri eventi della storia di Israele legati al suo nome. Compreso quello del Nuovo Testamento.
   La morte di Rachele è stata una porta per la vita di suo figlio Beniamino. Non una morte fine a se stessa, dunque. Ma un’espressione di amore smisurato della madre, che arrivò al punto di morire per dare la possibilità al figlio di vivere. E la città di Betlemme diventa il teatro di questo fatto tragico, il luogo in cui la morte e la vita si sono incontrate e si sono abbracciate per qualche istante.
   La morte ha lasciato spazio alla vita anche nella storia di Rut, nuora di Naomi, la cui famiglia era destinata a scomparire dalla storia di Israele e ad essere rimossa dalle genealogie future, in quanto tutti i componenti maschi della famiglia erano morti. Grazie al matrimonio tra Boaz e Rut, e al figlio Obed nato da questa unione, una famiglia di Israele che era defunta torna a vivere, la sua memoria improvvisamente riprende forma e spazio nella storia di Israele. E la città di Betlemme è di nuovo il luogo che ospita questa rinascita.
   Anche l’Eterno promette una certa rinascita alle madri di Israele piangenti, che vedevano i propri figli deportati a Babilonia. Se non una rinascita individuale di ogni singolo figlio deportato, certamente una rinascita di Israele inteso come popolo. Per bocca di Geremia, l’Eterno promette che la deportazione non sarà per sempre e i figli di Israele torneranno nella loro terra. La devastazione che era davanti a quegli occhi pieni di lacrime non era la fine di tutto. E il popolo era chiamato ad aggrapparsi a questa promessa dell’Eterno, che concede speranza ai disperati. Infatti, così avvenne. Dopo settant’anni di deportazione, Israele poté tornare nella sua terra, come aveva promesso l’Eterno per bocca del profeta Geremia.
   Arriviamo così al brano del vangelo di Matteo, che evidentemente prolunga la retta che interpola gli eventi passati della storia di Israele, legati a Rachele e a Betlemme, e che passa anche per la nascita di Gesù Cristo, che avvenne proprio a Betlemme. Perché Israele dovrebbe smettere di piangere davanti a una tragedia come quella delle madri di Betlemme, che persero i loro figli per ordine di re Erode? In cosa consiste la speranza che offre la Scrittura in apertura del Nuovo Testamento?
   La speranza è proprio in Gesù, in questo figlio di Israele che è nato, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati, come disse l’angelo del Signore a Giuseppe. Questo figlio è come Beniamino, il figlio che Rachele partorì. Il quale prima era stato chiamato dalla madre morente Ben-Oni – ossia figlio della mia sofferenza; ma suo padre Giacobbe gli cambiò il nome e lo chiamò Ben-Iamin – ossia figlio della destra.
   La speranza di Israele risiede in questo figlio Gesù, il quale prese su di sé i peccati del popolo attraverso la sua sofferenza e morte - Ben-Oni. Ma poi fu risorto e salì alla destra del Padre - Ben-Iamin, dove siede tuttora, per dare speranza ai disperati, lui che dovette accettare di morire in croce, e per far rivivere i morti, lui che fu risuscitato. Ed è proprio in questo figlio Gesù, nel quale la morte ha lasciato spazio alla vita, che è conservata la speranza di Israele.

(6. fine)

(Notizie su Israele, 26 maggio 2024)



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Siria: due miliziani di Hezbollah sono stati uccisi in un attacco attribuito a Israele

Due combattenti del gruppo libanese sciita filo-iraniano Hezbollah sono stati uccisi in un attacco attribuito a Israele nella città di Qusayr, nel governatorato di Homs, nel centro-ovest della Siria. Lo ha riferito l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra ma con una vasta rete di contatti sul territorio.
Nell’attacco, due missili hanno colpito “un’auto e un camion di Hezbollah vicino alla città di Qusayr, nella provincia di Homs, mentre si dirigevano verso l’aeroporto militare di Al Dabaa, uccidendo almeno due combattenti di Hezbollah e ferendone altri”, ha spiegato il Sohr. Sebbene Israele, di norma, non faccia commenti su attacchi specifici in Siria, ha ammesso in precedenza di aver condotto centinaia di sortite contro le milizie sostenute dall’Iran.

(Nova News, 25 maggio 2024)

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Il falso problema dei “coloni”

di David Elber

Uno dei mantra più diffusi e falsi inerenti al conflitto tra arabi e Israele è quello relativo ai così detti “coloni”. Non c’è articolo, intervista o libro favorevole o contrario ad Israele che non li citi a sproposito. Ormai l’opinione pubblica è talmente condizionata che li vede come uno “ostacolo alla pace”, anzi come l’unico ostacolo alla pace.
  La conseguenza politica di questa visione delle cose è diventata la criminalizzazione della presenza ebraica in Giudea e Samaria a prescindere dalla storia e dal diritto internazionale. Ciò ha portato la UE e gli USA a intraprendere una agenda politica discriminatoria nei confronti degli abitanti ebrei di quei luoghi e dello stesso Stato di Israele, trattato in maniera del tutto opposta rispetto ai casi di vera occupazione in giro per il mondo.
  Della politica della UE, nei confronti di Israele, ne abbiamo già scritto in maniera dettagliata (http://www.linformale.eu/la-ue-e-la-sua-ossessione-anti-israeliana/), qui è sufficiente ricordare che la UE applica nei confronti di Israele dei criteri che sono opposti a quelli applicati in tutti i casi di occupazione reale. Infatti, nel caso di occupazione del Sahara Occidentale operato dal Marocco, non solo i coloni marocchini non sono considerati un “ostacolo alla pace” ma per i prodotti di provenienza dal Sahara Occidentale occupato si applicano delle tariffe agevolate di importazione (e non sono “marchiati” come quelli israeliani). Lo stesso discorso vale per il caso di Cipro Nord, occupato dalla Turchia: nessuna presa di posizione politica della UE nei confronti dei coloni turchi o della Turchia che occupa un terzo della superficie di un paese membro della UE. Anzi, in questo caso la UE finanzia le colonie turche a Cipro. Perfino la Corte Europea dei Diritti Umani si è espressa contro le istanze presentate dai greco-ciprioti: nessun “diritto al ritorno” al massimo una compensazione economica per le proprietà occupate dai turchi. Analogamente sono stati trattati i casi di occupazione della Cambogia (da parte del Vietnam), di Timor Est (da parte dell’Indonesia): in nessun caso è mai stato chiesto dalla UE, dagli USA o dall’ONU l’allontanamento dei coloni delle potenza occupante dal territorio occupato. Questa non regola è richiesta unicamente a Israele che, per giunta, non occupa nessun territorio che non sia legittimamente suo sotto il profilo del  diritto internazionale. Perché nessuno – neanche tra gli amici di Israele – mette in evidenza questo doppio standard della comunità internazionale, anziché, fare da cassa di risonanza della propaganda politica antiebraica?
  Un’altra considerazione deve essere messa debitamente in evidenza, ed è quella relativa all’eradicazione “dell’ostacolo alla pace”. Anche in questo caso la comunità internazionale ha superato se stessa: Israele dovrebbe cimentarsi in un’operazione di pulizia etnica nei confronti della sua popolazione ebraica che vive in Giudea, Samaria e nella propria capitale perché solo così ci sarà “la pace”. Ma, viene da chiedersi, come mai nel caso di Timor Est o della Cambogia si è arrivati alla “pace” senza che un solo colono indonesiano o vietnamita sia stato allontanato dalla sua casa? Perché la comunità internazionale non obbliga i turchi o i marocchini a fare pulizia etnica dei propri cittadini per arrivare alla “pace” a Cipro o nel Sahara Occidentale? Anzi, in questi casi, afferma che non rappresentano affatto un ostacolo alla “pace”. Perché?
  La storia annovera innumerevoli casi di dispute territoriali tra i popoli. Ci soffermeremo, come esempio, solamente, su una in particolare: quella relativa alla popolazione tedesca dell’Europa dell’est.
  Alla fine della Seconda guerra mondiale fu deciso dalle Potenze vincitrici (USA, URSS e Gran Bretagna) con un accordo internazionale (Potsdam agosto 1945), che tutta la popolazione tedesca (circa 14 milioni di persone), che viveva in Polonia, Cecoslovacchia, Paesi baltici, Ungheria, Romania e URSS, dovesse essere allontanata “in maniera coercitiva” – così è scritto nell’accordo internazionale – perché ritenuta pericolosa per la pace. In pratica la comunità internazionale decise che i civili tedeschi che vivevano, in questi Stati, in molti casi da quasi mille anni, dovessero essere espulsi dalle loro case attraverso la più grande operazione pianificata di pulizia etnica della storia. Questo, non fu il primo caso di trasferimento coatto di popolazione civile, ammesso dal diritto internazionale, ma, fu senza dubbio il più massiccio. La motivazione era chiara: i tedeschi erano stati i responsabili di numerose guerre di aggressione nei confronti degli Stati vicini e la presenza di abitanti di lingua tedesca in numerosi Stati era vista come una minaccia alla pace e potenzialmente come un pretesto per future aggressioni. Ora, nel mondo capovolto di oggi, si ha la pretesa che Israele debba fare opera di pulizia etnica di una parte della propria popolazione in una porzione di territorio sulla quale ha piena legittimità, nonostante sia Israele lo Stato più volte aggredito dagli arabi (e non il contrario) e per giunta sempre vittorioso: cioè esattamente il contrario di quanto fatto con i tedeschi dopo il 1945. Si tratta, come è evidente, di un ribaltamento della logica: è come se, alla Germania sconfitta, fossero state date parti di Polonia, Cecoslovacchia e Paesi baltici, dalle quali fosse stato richiesto agli abitanti polacchi, cechi, ecc. di andarsene e, nel contempo, alle locali autorità fosse stato richiesto di compiere l’opera di pulizia etnica.
  Purtroppo si leggono libri e si sentono opinionisti – “amici di Israele” – che avvalorano questa tesi priva di ogni contenuto storico, morale e di buon senso; infatti, non è mai applicata, come esposto, in nessun altro contesto.

(L'informale, 25 maggio 2024)

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L'Aia ordina lo stop a Israele, che continua a trovare solo cadaveri dei rapiti da Hamas

La Corte internazionale di giustizia chiede di fermare l’offensiva militare a Rafah deliberando a favore della richiesta del Sudafrica. Per lo stato ebraico la priorità assoluta è la restituzione degli ostaggi: su oltre 240 catturati il 7 ottobre, secondo l'intelligence sarebbero vivi in trenta.

di Giulio Meotti

Dopo la richiesta di arresto di Benjamin Netanyahu da parte del procuratore della Corte penale dell’Aia, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha ordinato a Israele di fermare l’offensiva militare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, deliberando a favore della richiesta del Sudafrica, che ha accusato Israele di “genocidio”. Il risultato della votazione è stato di 13 a 2. I due voti contrari sono Julia Sebutinde, rappresentante dell’Uganda presso la Corte, e di Aharon Barak, ex presidente dell’Alta corte israeliana e nominato da Gerusalemme presso il comitato della Corte di giustizia. 
   Altri tre giudici sostengono che la clausola operativa della decisione della corte non limita Israele nell’immediato, ma solo nel caso che l’operazione a Rafah dovesse contravvenire alla Convenzione di Ginevra. Intanto Israele continua a trovare corpi di ostaggi a Rafah. La scorsa settimana sono stati ritrovati i corpi di  tre civili, fra cui quello di Shani Louk, la ragazza simbolo del 7 ottobre. L’esercito israeliano oggi ha recuperato i corpi di altri tre ostaggi, fra cui il cadavere del fidanzato di Shani, Orión Hernández Radoux, e quelli di Hanan Yablonka e Michel Nisenbaum. Erano al festival Supernova quando è stato attaccato dai terroristi di Hamas. 
   Il gabinetto di guerra di Israele ha intanto approvato la ripresa dei colloqui indiretti con Hamas per il rilascio degli ostaggi dopo settimane di stallo. La priorità assoluta è la restituzione degli ostaggi catturati da Hamas. Oltre 240 ostaggi sono stati presi il 7 ottobre. Ufficialmente ci sono 124  rapiti ancora a Gaza. Ma ogni giorno che passa, Israele trova sempre più solo ostaggi morti e diminuiscono le possibilità di trovarne di vivi. E il numero di  vivi o morti è fondamentale per le proposte di cessate il fuoco, che prevedono lo scambio  con terroristi palestinesi detenuti in Israele. Gli ostaggi vivi sarebbero solo trenta, secondo l’intelligence di Israele. Hamas non fornisce informazioni su quanti  siano vivi, perché sa che lasciare gli israeliani all’oscuro sulla sorte dei rapiti li mette nella condizione di non sapere per cosa stanno negoziando. 

Il Foglio, 25 maggio 2024)

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Appello degli ebrei europei per un’Europa unita e coerente con i suoi valori fondativi

Pubblichiamo l’appello di Jcall in vista delle elezioni europee a sostegno dei partiti e dei candidati che affermano una visione dell’Europa ispirata alla pace e alla difesa di tutte le minoranze etniche e religiose.

Noi come ebrei e cittadini europei,
- Legati ai valori ebraici di difesa dei deboli, giustizia sociale, dignità dello straniero;
- Difensori della democrazia e del pluralismo, essenziali per la protezione delle minoranze e il convivere di etnie, religioni e culture differenti;
- Allarmati per l’acuirsi di forme di intolleranza e discriminazione del diverso in Italia, Europa, Medio Oriente, così come altrove nel mondo.

  • Riaffermiamo i valori alla base della costruzione di un’Europa unita: pace, democrazia, tutela dei diritti umani, rispetto della diversità etnica e culturale, ripudio dell’etno-nazionalismo;
  • Condanniamo il risorgere di atti di antisemitismo così come di rimozione della memoria e di banalizzazione degli orrori degli anni ’30 e ’40 del Novecento;
  • Ci opponiamo all’irrompere nello spazio pubblico di atteggiamenti e atti di razzismo contro stranieri da parte di individui, movimenti e settori delle pubbliche amministrazioni, richiedendo alle istituzioni – dalla scuola agli enti pubblici ai mass media – un forte impegno a combatterne e rimuoverne le radici;
  • Sosteniamo, in vista delle elezioni per il Parlamento europeo, partiti e candidati che affermano e condividono questi principi e valori.

Per adesioni, scrivere a jcall.italia@gmail.com
Il testo dell’appello e l’elenco dei sottoscrittori saranno disponibili sul sito www.jcall.eu
Fra i primi firmatari: Marina Piperno, Giorgio Treves, Giorgio Gomel, Gad Lerner, Carlo Ginzburg, Sandro Ventura, Anna Foa, Stefano Levi della Torre, Fiorella Kostoris, Alberto Cuevas, Stefano Jesurum, Federico Fubini, Giovanni Levi, Francesca Ceccherini Silberstein, Luisella Gomel, Raul Wittenberg, Renata Segre, Ugo Caffaz, Valeria Gandus, Hugo Estrella, Rimmon Lavi, Giorgio Basevi, Emila Perroni, Franco Giovannini, Bice Fubini, Daniele Amati, Silvia Amati, Bruno Contini, Antonella Ortis, Daniela Della Seta, Ambra Dina, Lello dell’Ariccia, Paola Moscati, Sergio Tagliacozzo, Laura Voghera, Alessandra Ginzburg, Micaela Vitale, Lia Cammeo, Simonetta Polacco, Dunia Astrologo, Emilio Jona, Alberto Zevi, Maddalena Basevi, Claudio Treves, Enrico Franco, Ester Rosenbaum, Davide Banon, Rahel Schneider, Anna Nassisi, Anna Murgiannis, Francisco Estela Burriel

(Domani, 25 maggio 2024)

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«Palestina libera, dal fiume al mare» il ritornello buono per ministri, politici, rettori

Il ministro del Lavoro spagnolo, Diaz, ha pronunciato la frase utilizzata ormai non solo dai miliziani di Hamas.

di Stefano Piazza

Che la guerra scoppiata tra Israele e Hamas dopo l'operazione militare del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele ha fatto riesplodere l'antisemitismo a livello globale con aggressioni fisiche, insulti e minacce nei media, profanazioni di luoghi di culto e cimiteri ebraici lo abbiamo più volte raccontato; ma che un ministro di un Paese membro dell'Unione Europea (in questo caso la Spagna), si potesse presentare in televisione per dire: «La Palestina sarà libera dal fiume al mare», fino a ieri era impossibile da immaginare ma è successo. A farlo è stato il leader di Su mar (estrema sinistra che ha 37 seggi in parlamento), ministro del Lavoro e vice primo ministro Yolanda Diaz che pare davvero ossessionata da Israele, dato che si occupa a tempo pieno della questione israelo-palestinese. Ma che vuol dire esattamente questo slogan che anche gli studenti che occupano le università in tutto il mondo ripetono ossessivamente?
  «"Dal fiume al mare" - spiega Davide Riccardo Romano, Direttore del Museo della Brigata Ebraica - è uno slogan di Hamas che dice chiaramente qual è il suo obiettivo: cancellare Israele dalla mappa per fare spazio a uno Stato Islamico palestinese sul modello iraniano. Il dramma è che Hamas - come Hitler a suo tempo - è sincera e dice chiaramente quello che vuole fare, a partire dal proprio Statuto. Eppure non viene creduta, nonostante sotto il regime di Hamas fosse vietato il libro di Romeo e Giulietta (perché occidentale) mentre è permesso il Mein Kampf del leader nazista. Tanti, troppi, in Occidente non capiscono cosa sia veramente Hamas. Il fatto che gli studenti ripetano quello slogan genocidario, conferma come queste minoranze esagitate di giovani non stanno con il popolo palestinese in generale, ma solo con la parte più fanatica e sanguinaria di esso. Quella che vuole relegare la donna in casa con il velo, fuori dal mondo civile. Dimenticano - o meglio, non sanno - che Hamas prevede torture e morte per i gay e per i giornalisti o gli studenti disobbedienti. Sono ragazzi confusi: studenti di estrema sinistra che appoggiano un regime islamo-fascista. Sono i migliori alleati di Teheran, la migliore gioventù di un regime sanguinario e razzista».
  In una delle ultime dichiarazioni alla stampa, Yolanda Diaz, ha enfatizzato «l'impegno del governo nel chiarire e indagare su Netanyahu come un criminale» poi ha aggiunto che «questo è un passo che il nostro Paese deve incoraggiare e sostenere insieme ad altri Stati, al fine di porre fine alla barbarie una volta per tutte».
  Sia l'ambasciata israeliana che la Federazione delle comunità ebraiche spagnole hanno condannato le parole del ministro del Lavoro e dell'Economia Diaz e su X l'associazione ebraica scrive: «Invece di promuovere la sicurezza degli ebrei spagnoli, incoraggiano l'odio e il rifiuto nei loro confronti». Su X, l'ambasciata israeliana a Madrid scrive di respingere completamente le dichiarazioni di Yolanda Diaz: «Lo slogan è un chiaro appello alla distruzione di Israele, fomentando odio e violenza. Le dichiarazioni antisemite sono incompatibili con una società democratica ed è inaccettabile che provengano da un vice primo ministro. Ci auguriamo che la Spagna mantenga la sua promessa di combattere l'antisemitismo».
  La Spagna è uno dei tre Paesi europei, insieme a Irlanda e Norvegia, che si stanno preparando a riconoscere uno Stato palestinese entro pochi giorni, secondo gli annunci di questi governi questa settimana. Per Davide Riccardo Romano «se il vice primo ministro Yolanda Diaz ritiene che uccidere e torturare donne e bambini sia la strada per ottenere un riconoscimento statuale, mi domando perché non ha preso la stessa iniziativa per lsis o al-Qaeda, che peraltro ha già colpito a Madrid nel 2006 con 793 vittime. È pieno il mondo di terroristi che si accaniscono contro i civili, e non capisco come mai abbia questa predilezione per Hamas. Forse perché uccidere ebrei è per lei cosa encomiabile? Vorrei ricordare al viceministro che lo slogan dei jihadisti è 'prima il sabato e poi la domenica', che tradotto vuole dire "prima perseguitiamo gli ebrei e poi toccherà ai cristiani". Del resto, è visibile a tutti come nei territori governati da Hamas o dall'Anp i cristiani scappano, mentre Israele è l'unico luogo del Medio Oriente dove sono in aumento».

(Panorama, 24 maggio 2024)

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Teatro Parenti sotto attacco: studenti contestano la cultura ebraica

L’accusa è di «avamposto di sionismo in città»

«Firme contro il Teatro Parenti, avamposto del sionismo in città». Questo è il titolo che campeggia sulle pagine di Libero. Nell’articolo si legge che i collettivi e gli studenti dell’Accademia di Brera criticano le attività del Teatro, ritenute troppo influenzate dalla cultura ebraica.
   Intanto da stamattina la notizia si è diffusa rapidamente sui social, suscitando sgomento tra coloro che conoscono il prestigio del noto teatro, da sempre impegnato a offrire spettacoli di alta qualità con artisti di grande rilievo. Sin dal sodalizio fortunato tra Franco Parenti, Giovanni Testori e Andrée Ruth Shammah, il Teatro si è infatti distinto per la valorizzazione della drammaturgia d’autore e per la promozione della libertà di pensiero attraverso proposte eterogenee.
   «Di fronte al silenzio complice è l’indifferenza delle istituzione accademica sul genocidio del popolo palestinese, abbiamo deciso di far sentire la nostra voce in solidarietà alla resistenza del popolo palestinese», scrivono sui social gli studenti di Brera. E per questa ragione hanno deciso lanciare una raccolta di firme per chiedere di «interrompere la convenzione col teatro Franco Parenti, avamposto del sionismo a Milano».
   L’accusa degli studenti ha scosso e indignato la nostra Comunità ma anche chi conosce bene il variegato palinsesto del Teatro Parenti, sempre improntato alla pluralità, universalità e laicità di pensiero.
   Fin dalla sua fondazione, il Parenti ha ospitato anche spettacoli e incontri legati alla cultura ebraica, affermando, come si legge sul sito del teatro, che «nessuna manifestazione di cultura ebraica si è risolta in una questione di ebrei, ma è sempre stata un suggerimento e un atteggiamento, un modo di avvicinare la realtà. I progetti sulla cultura ebraica vengono affrontati con la consapevolezza che ricercare le radici non significa rifugiarsi in ancestrali deteriori. Al contrario, la cultura ebraica è forse l’unica che si fonda sul presente, integrandovi il passato. Un terreno ricco di racconti e leggende, di canti e danze, di dispute, di Storia, di feste come momenti teatrali e di Teatro come momento di vita».
   Nonostante la mission del Teatro volta a promuovere una cultura a 360 gradi, gli studenti dell’Accademia di Brera hanno attaccato questa realtà virtuosa contribuendo ad alimentare un odio delirante anti-israeliano e anti-ebraico, diffuso da mesi nelle università più prestigiose degli Stati Uniti e ora anche in Europa, Italia e infine Milano.
   «Pensiamo che l’Accademia non sia un ambiente isolato e fuori dal mondo, ma che, come luogo culturale e prestigioso, debba prendere posizione e usare l’arte e la cultura come strumenti politici contro le ingiustizie del presente – scrivono gli studenti –. In occasione del settantesimo anniversario della Nakba abbiamo organizzato una giornata di solidarietà con il popolo palestinese e una partecipata assemblea durante la quale abbiamo affermato che non vogliamo essere complici di un genocidio e che continueremo a mobilitarci partendo dai nostri luoghi di studio».

(Bet Magazine Mosaico, 24 maggio 2024)

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Un incidente grave nel tempio della laicità

di Elena Loewenthal

Che la situazione sia sfuggita di mano è soltanto un pallido eufemismo, perché quanto è successo venerdì scorso entro i confini dell’Università di Torino è ben di più, ben di peggio. E che il rettore Geuna si schermisca con l’argomento che la sede degli studi superiori piemontese è occupata, dunque al di fuori della sua giurisdizione, non aiuta certo a scendere a patti con questo grave incidente. Venerdì scorso gli studenti/occupanti hanno invitato all’Università Brahim Baya a celebrare la preghiera e il suo sermone inneggiante alla guerra santa. Constatava, anzi, che la guerra santa è in atto, condotta da uomini, donne e bambini contro i “sionisti” che hanno osato calpestare quella terra benedetta prima ancora della nabka.
   Com’è possibile che in una istituzione laica per definizione degli studenti che protestano in nome di una loro visione del progresso – civile, politico, sociale – decidano che la preghiera di una certa confessione abbia spazio e quasi tutto il resto no? Università non dovrebbe significare “universalità”? Dialogo? O forse fa molto, troppo più comodo a questi studenti (che detto fra parentesi non sono tutti e forse neanche la maggioranza, però occupano e dettano legge), semplicemente scimmiottare quanto accade negli atenei d’oltre oceano, giusto o deprecabile che sia? E quindi, dopo aver scrollato qualche video sui social, hanno deciso che anche a loro spettava la preghiera islamica, così da far schizzare le visualizzazioni?
   E poi c’è il sermone dell’imam Baya. Perché, va detto, l’islam è una realtà complessa, ricca di opinioni e approcci diversi. Tutt’altro che un monolite, come spesso si è tentati di pensare. E anche nel nostro territorio ci sono imam conservatori e altri progressisti, e ci sono molti modi diversi di sentire, esprimere e comunicare la propria fede islamica. Il sermone di venerdì scorso all’Università di Torino (che già scrivere questa frase per esteso – e rileggerla – fa rizzare i capelli in testa per la sua incongruità di fondo: dov’è finita la nostra società laica e pluralista?) era tutt’altro che un discorso di pace, di fede, di spiritualità. Ricco di iperboli infuocate – “la Palestina resiste a una furia genocida uscita dalla peggiore barbarie della storia” – invitava coloro che ancora non lo stanno facendo a “usare le mani” e contribuire alla lotta di “liberazione” di una terra che i sionisti hanno osato “occupare” ben prima che, per decisione votata a maggioranza dalle Nazioni Unite nascesse lo stato d’Israele (e sarebbe dovuto nascere anche uno stato palestinesi, se il fronte arabo non avesse opposto il suo rifiuto). Nella migliore tradizione di cui l’Iran degli ayatollah è ormai quasi l’unico erede, l’imam non nomina mai Israele.
   Come ripeteva Amos Oz, il conflitto fra Israele e i palestinesi è una tragedia perché è un confronto non fra un torto e una ragione bensì fra due ragioni. Quanto è accaduto all’interno dell’Università di Torino venerdì scorso è l’ennesima testimonianza di uno scollamento sempre più grande fra i sacrosanti diritti dei due popoli a un futuro vivibile e delle proteste sempre più avulse dalla realtà, dalla complessità di questo conflitto. Questi episodi nelle Università, le urla di chi sbraita “dal fiume al mare” senza alcuna cognizione geografica, storica e politica, sono sempre più lontani dalla tragedia in corso che israeliani e palestinesi – vittime entrambi – subiscono. Il fatto che il rettore declini ogni responsabilità perché l’Università di Torino è sotto occupazione – dunque non è più un bene comune, pubblico, aperto –, aggrava ulteriormente il quadro.

(La Stampa, 24 maggio 2024)
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“Dov’è finita la nostra società laica e pluralista?” Si chiede l’autrice. E non tenta di dare una risposta. E’ un fatto che per gli ebrei il laicismo della società occidentale non è più un rifugio. L’ebraismo non riesce più a disciogliersi dolcemente nel laicismo. Ed era inevitabile che finisse così. La pietra d’intoppo è Israele. M.C.

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Chi dice il vero, chi dice il falso?

di David Elber

A seguito delle mie critiche al capitolo “L’errore di Israele i coloni e il revanscismo biblico”, contenuto nel suo libro Il libro nero di Hamas, l’autore, Carlo Panella, ha reso noto attraverso Informazione Corretta, che ha ripreso il pezzo pubblicato qui su L’Informale che ciò che ho scritto si baserebbe su «dati di fatto del tutto inventati o falsi» e questo «a partire dalla affermazione che “la Giudea è la Samaria appartenevano dal 1922 al popolo ebraico”. Quando mai? Invenzione pura.».
Le mie tesi “inventate” o “false”, come sostiene Carlo Panella, partono proprio dai documenti di diritto internazionale, tutti consultabili nei miei libri sull’argomento: Il Mandato per la Palestina e il recente Il diritto di sovranità in Terra di Israele, entrambi editi da Salomone Belforte Editore, e che Panella può agevolmente consultare.
Questo perché, a differenza del libro di Panella, nei miei testi si possono trovare in originale tutti i documenti ufficiali che stanno a fondamento delle mie tesi relative alle radici giuridiche di Israele, tre le quali, quelle specificamente riferite al 1922, che, secondo Panella, sarebbero frutto della mia immaginazione.
È curioso che Panella accusi me di falsità e di invenzione quando può scrivere tranquillamente che Gaza “porto fenicio, era occupata dai filistei e successivamente è sempre e solo stata abitata da arabi”, invenzione di puro conio.
A Gaza la prima comunità ebraica, si installò nel periodo degli Asmonei,  cioè 145 anni prima di Cristo, mentre gli arabi sarebbero arrivati solo nel Settimo secolo. Ancora nel Seicento vi permaneva una piccola ma florida comunità ebraica alla quale apparteneva Nathan Ashkenazi, più noto come Nathan di Gaza, il profeta di Sabbatai Zevi.
Siccome nella sua mail a Informazione Corretta, Panella dichiara di confermare in toto quanto scritto nel capitolo “L’errore di Israele i coloni e il revanscismo biblico” mentre le mie tesi sarebbero fantasie e falsità, mi piacerebbe sapere su cosa si fondano invece le sue tesi, visto che ha poi rifiutato un confronto sereno sull’argomento.
Non ultimo esprimo la mia preoccupazione e il mio rammarico nei confronti di organizzazioni come “7ottobre” e varie altre associazioni Italia-Israele del territorio che si prestano a diventare megafono, cassa di risonanza ma soprattutto un veicolo attraverso il quale un libro lodevolmente contro Hamas, e il radicalismo islamico, nell’unico capitolo dedicato a Israele, lo accusa di violazioni inesistenti sostanzialmente identiche a quelle della peggiore propaganda anti-israeliana.

(L'informale, 24 maggio 2024)
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Anche Carlo Panella dunque sarebbe inciampato in Israele. Tante cose giuste dette su Medioriente e dintorni,  e pochi ma fondamentali sfondoni detti su Israele. Non sembra reperibile in rete quello che Carlo Panella ha dichiarato sulle tesi di David Elber, ma essendo stato chiamato pubblicamente in causa, sarebbe bene che difendesse apertamente le sue posizioni, se non vuole contribuire ad essere anche lui, volente o nolente, un espertissimo mestatore di quelle torbide acque in cui si mescolano cose vere e cose false col risultato di ottenere una robusta efficacissima menzogna. M.C.

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Riconoscete il Kurdistan altro che Hamastan

Invece di inventarsi uno stato terrorista si riconosca uno stato che ha lottato e sconfitto gli stessi terroristi che oggi si chiamano Hamas

di Sadira Efseryan

Il Kurdistan, uno stato e un popolo diviso tra Turchia, Iraq, Iran, Siria e appendici persino in Armenia, uno stato e un popolo che a differenza di quello palestinese, praticamente inventato dal nulla, ha secoli di storia di cui andare fiero.
Nei giorni scorsi abbiamo sentito che Spagna, Irlanda e Norvegia si sarebbero uniti ad altri babbei che riconoscono lo stato terrorista palestinese, Hamastan o HamasISIStan, premiando così i terroristi per il massacro del 7 ottobre.
Ai curdi che invece hanno combattuto e vinto lo Stato Islamico, ISIS, nemmeno un ringraziamento, anzi, li abbiamo lasciati alla mercé di Erdogan, colui che brama a prendere il posto del defunto Abu Bakr al-Baghdadi.
Dunque, si premiano i terroristi e si umiliano i salvatori dell’occidente, coloro che ancora adesso sono un presidio di democrazia nel nord dell’Iraq e nel sud della Siria. Coloro che ancora adesso sono una garanzia contro le milizie sciite legate all’Iran e contro quelle sunnite legate alla Fratellanza Musulmana di Erdogan.
Il Kurdistan e il suo popolo hanno una storia secolare fatta di sottomissioni e guerre, ma anche di orgoglio, di resilienza contro chi occupa le loro terre.
I palestinesi sono un popolo costruito a tavolino, nato negli anni sessanta per volere degli Stati Arabi come arma nella lotta araba contro Israele. Hanno vissuto di sussidi e terrorismo e ora sono diventati l’arma iraniana nella guerra che oppone gli Ayatollah a Israele.
Quello che vogliono riconoscere come stato palestinese si chiama Hamastan o HamasISIStan ed è uno stato terrorista come lo era ISIS.
Volete veramente fare qualcosa per i diritti globali e soprattutto per l’occidente? Riconoscete il Kurdistan. Se non altro se lo sono davvero meritato.

(Rights Reporter, 24 maggio 2024)

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Behàr Sinài: L’obbligo di aiutare i nostri fratelli in ogni situazione

di Donato Grosser

FOTO
Dirigenti del Joint e rifugiati a Selvino

Quando il popolo d’Israele entrò nella terra di Canaan, dopo sette anni di conquista Yehoshu’a impiegò altri sette anni per dividere il territorio tra le tribù e in ogni tribù alle rispettive famiglie. Ne risultò un popolo di liberi possidenti agrari, ognuno con il suo podere. Non vi erano poveri perché tutti avevano una loro proprietà. Con tutto ciò le circostanze della vita fanno sì che vi siano situazioni nelle quali anche i proprietari si impoveriscano. In questa parashà vi sono tre situazioni per le quali la Torà dà istruzioni su cosa fare quando un altro israelita diventa povero. In una di queste è scritto: “Quando un tuo fratello diventa povero (yamùkh) e perde la capacità di mantenere se stesso nella comunità, devi sostenerlo. Aiutalo a sopravvivere, sia egli un proselita o un residente” (Vaykrà, 25:35). Nella Torà viene anche intimato che se gli devi dare un prestito è proibito prendere interesse.
Nel Midràsh (Vaykrà Rabbà) i maestri affermano che vi sono ben otto espressioni che denotano povertà. La prima e la più comune è ‘anì (povero). Questa parola appare per la prima volta nel libro di Devarìm (24:12): “E se quell’uomo è povero”.
Un altro termine è evyòn, come in Devarìm (15:4): “Tuttavia non vi sarà un povero presso di voi”. Rashì spiega che evyòn è più povero di ‘anì, perché non ha proprio nulla.
Una terza espressione è miskèn, da cui deriva l’italiano meschino, come in Devarìm (8:9): “Una terra nella quale non mangerai pane in povertà (miskenùt)”. Nel Midràsh è spiegato che miskèn significa disprezzato da tutti. Cosi appare nell’Ecclesiaste (Kohèlet, 9:16): “La sapienza del meschino è disprezzata”.
La parola rash appare nei Proverbi (Mishlè, 19:22) dove è scritto “Meglio povero che bugiardo”. Nel Midràsh è scritto che significa “povero senza proprietà”.
In Vaykrà (14:21) appare la parola dal: “E se è povero e non ha mezzi adeguati”. Anche in questo caso significa senza proprietà.
Il termine dakh appare nei salmi (Tehillìm, 10:9): “L’Eterno sarà una protezione per il misero”. Nel Midràsh è spiegato che significa che si tratta di una persona povera e anche depressa.
La parola makh appare alla fine di questa parashà (25:47): “E tuo fratello diventa povero presso di lui”. La radice è la stessa della parola yamùkh citata all’inizio di questa pagina. Il Midràsh spiega che makh significa “basso” come una soglia che viene calpestata da tutti.
L’ottava e ultima espressione citata nel Midràsh è chelkhà e appare tre volte nei salmi. Una di queste in Tehillìm(10:14): “A te si abbandona il povero”.
Rashì (Troyes, 1040-1105) citando il Midràsh Sifrà, spiega che è doveroso sostenere il prossimo quando è in difficoltà senza aspettare che vada in bancarotta. E aggiunge che la cosa assomiglia a un asino il cui carico è pericolante. Per rimetterlo in equilibrio basta una persona. Se si lascia che cada ci vogliono più di cinque persone per rimetterlo in soma.
Questo insegnamento ha guidato il nostro popolo per tutta la sua lunga storia. Quando Tito distrusse Gerusalemme e vendette i prigionieri come schiavi, furono gli ebrei di Roma a riscattarli. Così pure gli esuli dalla Spagna nel 1492 furono aiutati dai loro fratelli in Italia, in Marocco e in Turchia. Ottanta anni fa l’American Joint distribuì grande somme per aiutare gli ebrei in Europa (nella foto: dirigenti del Joint e rifugiati a Selvino). E in tempi più recenti vennero dati aiuti quando Nasser cacciò gli ebrei dall’Egitto nel 1956 e Ghaddafi dalla Libia.
Ognuna delle parole che denotano povertà corrisponde a un diverso tipo di bisogno. La Torà ci vuole insegnare che dobbiamo essere sempre pronti ad aiutare i nostri fratelli in ogni situazione.

(Shalom, 24 maggio 2024)
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Parashà della settimana: Behar Sinài (Sul monte Sinai)

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L’IDF deve entrare a pieno titolo a Rafah e concludere il lavoro

di Giovanni Giacalone

Negli ultimi mesi abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto riguardo all’intervento dell’IDF a Rafah per eliminare ciò che resta dei battaglioni di Hamas e della sua leadership a Gaza.
L’ Amministrazione Biden ha ripetutamente messo in guardia Israele contro una grande offensiva militare a Rafah, affermando che non c’è modo di entrarvi senza danneggiare i quasi 1,5 milioni di palestinesi che vi hanno trovato rifugio.
Israele ha recentemente deciso di accantonare i piani per una grande offensiva a Rafah e di agire in modo più limitato, dopo aver discusso la questione con gli Stati Uniti. Il piano precedente di inviare due divisioni in città non verrà portato avanti e le operazioni saranno invece più circoscritte.
Secondo l’amministrazione Biden, Israele è ormai in linea con le preoccupazioni di Washington e i nuovi piani sono stati indicati come “inizialmente soddisfacenti”.
Sebbene non sia ancora chiaro cosa significhi questo “inizialmente soddisfacente”, è essenziale chiedersi, ancora una volta, perché Israele abbia bisogno dell’approvazione degli Stati Uniti per difendersi e sradicare un’organizzazione terroristica che ha perpetrato il peggiore eccidio contro il popolo ebraico dopo la Shoah.
L’Amministrazione Biden ha cercato di frenare gli sforzi di Israele per sradicare Hamas fin dall’inizio della campagna di Gaza e, nonostante tutto il rumore politico e mediatico sulla “questione umanitaria”, appare abbastanza chiaro che il vero problema sono i rapporti dell’Amministrazione Biden con il Qatar e l’Iran, i due principali sponsor di Hamas.
Il trattenimento delle armi, già pagate da Israele, per paura che venissero usate a Rafah, e la trappola dell’accordo emersa all’inizio di maggio, come pianificato da Egitto e Hamas, senza preavviso a Israele da parte dell’Amministrazione Biden nonostante ne fosse a conoscenza , sono azioni chiare, e sappiamo tutti che le azioni contano molto più delle parole. Poiché Washington non ha informato Israele dei cambiamenti apportati, si è ovviamente innescata un’intensa delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione statunitense e il sospetto riguardo al suo ruolo di mediatore (abbiamo già discusso di questi temi e del fatto che l’Amministrazione Biden rappresenta “un terzo mandato di Obama”.
Ulteriori sospetti ricadono sull’Egitto, un altro partner teorico di Israele nella guerra al terrorismo che era totalmente contrario all’intervento dell’IDF nel corridoio Philadelphi. Non è di rilievo che l’IDF abbia scoperto circa 50 tunnel che collegano Rafah al territorio egiziano?
Inoltre, il fatto che l’Amministrazione Biden abbia tenuto “negoziati indiretti” con il regime iraniano sull’accordo sul nucleare appena due settimane dopo che l’Iran aveva lanciato oltre 300 droni e missili contro Israele rende l’intero quadro molto preoccupante.
Gli obiettivi di politica estera di Biden in Medio Oriente non sono in linea con la necessità di sicurezza di Israele, che implica lo sradicamento di Hamas e la neutralizzazione della minaccia iraniana. Come sottolineato dal senatore Ted Cruz confrontandosi con Antony Blinken in un’accesa udienza al Senato: “La vostra politica estera è esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere una politica estera americana razionale”.
Mettendo da parte la politica e parlando di questioni operative, sarà molto difficile per l’IDF entrare a Rafah, dare la caccia a Sinwar e Deif, distruggere le centinaia di tunnel sottostanti e annientare i rimanenti quattro battaglioni senza inviare le divisioni necessarie al raggiungimento dello scopo.
La settimana scorsa Aaron Cohen, esperto e veterano americano/israeliano dell’antiterrorismo, ha dichiarato a Fox News quanto sia importante per l’IDF entrare a Rafah con truppe di terra. Cohen ha spiegato che il motivo per cui Rafah è il centro dei rimanenti battaglioni di Hamas è che la campagna “pentola a pressione” condotta dall’IDF mirava, fin dall’inizio, a costringere i terroristi rimasti a convergere su Rafah, aggiungendo che l’unico modo per eliminare terroristi non è solo attraverso operazioni selettive, ma entrando a Rafah con le truppe:
“Quelle unità devono superare tutti quegli angoli di 90°, devono portare le canne di fucile all’interno delle stanze, devono portare i droni all’interno dell’area, questa è la natura della guerra non convenzionale.”
Una cosa deve essere chiara: Hamas non rilascerà mai gli ostaggi rimasti perché è l’unica leva di cui dispone l’organizzazione terroristica, e questa situazione non farebbe altro che estendersi nel tempo, a vantaggio di Hamas. Pertanto, il mantra della “pressione per i negoziati” non ha senso e ormai dovrebbe essere chiaro.
L’IDF deve andare a Rafah e “finire il lavoro” con la leadership di Hamas e le restanti unità. Questo può essere fatto solo inviando le divisioni. Non esistono piani “più contenuti” che possano consentire di raggiungere l’obiettivo, e chiunque abbia qualche esperienza sul campo di battaglia o nell’antiterrorismo lo sa perfettamente.
Il tempo è scaduto e il Primo Ministro Netanyahu deve decidere quale strada intraprendere, perché il metodo “un piede qui-un piede là” non è di alcun vantaggio per raggiungere l’obiettivo di sradicare Hamas e liberare gli ostaggi rimasti; inoltre, questa situazione rappresenta un problema per l’economia israeliana e per il ritorno alla normalità. L’ultima cosa di cui Israele ha bisogno è una lunga guerra di logoramento come quella in Ucraina, e questa è la direzione che, attualmente, è stata presa.

(L'informale, 23 maggio 2024)

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Israele ha dimostrato che Biden aveva torto su Rafah

A differenza di quello che pensa Biden, Rafah rimane fondamentale per qualsiasi piano di day after, poiché nulla può funzionare se Hamas governa il territorio con battaglioni militari e controlla il confine egiziano

Ricordate Rafah? Per mesi, l’amministrazione Biden si è opposta aspramente a un’invasione israeliana dell’ultima roccaforte di Hamas a Gaza. Il mantra era che Israele non aveva “alcun piano credibile” per evacuare gli 1,3 milioni di civili della città. Eppure gli israeliani sono andati avanti lo stesso e due settimane dopo hanno evacuato in sicurezza circa 950.000 persone.
Doveva essere impossibile. Rafah è diventata una linea rossa per Biden, in base alla logica che non era possibile condurre una grande operazione con tutti quei civili presenti. Questa è stata la giustificazione per l’embargo sulle armi del Presidente. “Ci stiamo allontanando dalla capacità di Israele di condurre una guerra in quelle aree”, ha detto.
Anche quando l’evacuazione è iniziata, il Segretario di Stato Antony Blinken ha ripetuto che Israele non aveva “alcun piano credibile”. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha aggiunto: “Crediamo ancora che sarebbe un errore lanciare una grande operazione militare nel cuore di Rafah”. Quando l’evacuazione ha iniziato a funzionare, il team di Biden è passato a criticare la prontezza di Israele per il “giorno dopo” i combattimenti principali, come se il successo a Rafah fosse una conclusione scontata.
Infine, martedì, l’Amministrazione ha rivendicato il merito. “È giusto dire che gli israeliani hanno aggiornato i loro piani. Hanno incorporato molte delle preoccupazioni che abbiamo espresso”, ha dichiarato ai giornalisti un alto funzionario statunitense. Ha anche detto che l’operazione di Rafah potrebbe creare “opportunità per rimettere in pista l’accordo sugli ostaggi”.
Rafah rimane fondamentale per qualsiasi piano di day after, poiché nulla può funzionare se Hamas governa il territorio con battaglioni militari e controlla il confine egiziano. Israele ha già scoperto 50 tunnel che da Rafah passano in Egitto per il contrabbando. Una volta che le truppe avranno completato lo sgombero di una zona cuscinetto lungo il confine, Israele potrà tagliare fuori Hamas dall’Egitto, una chiave per strangolare qualsiasi insurrezione possa seguire.
È ragionevole chiedersi quale forza controllerà Gaza in futuro. Ma nessun altro combatterà e morirà per sconfiggere Hamas per Israele, o anche solo per resistere come potenza civile. Certamente non la debole Autorità Palestinese, che vuole un accordo di condivisione del potere con Hamas a Gaza perché altrimenti sa che verrebbe massacrata.
Anche se ai liberali israeliani non piacerà sentirlo, Israele probabilmente avrà bisogno di riempire il vuoto a Gaza per un certo periodo. Anche se ai destrorsi israeliani non piacerà sentirselo dire, lo scopo sarebbe quello di fare spazio alla governance locale. 

(Rights Reporter, 23 maggio 2024)

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Ben-Gvir visita il Monte del Tempio e si impegna a distruggere Hamas

Non permetteremo nemmeno la dichiarazione di uno Stato palestinese, ha dichiarato il ministro della Sicurezza nazionale israeliano.

Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir durante una precedente visita al Monte del Tempio a Gerusalemme. Fonte: Itamar Ben-Gvir/X.

Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir è salito mercoledì sul Monte del Tempio a Gerusalemme, per la prima volta dopo quasi un mese.
"Dal luogo più sacro per il popolo di Israele e che appartiene solo allo Stato di Israele, dico: Questa sera riceveremo un'altra testimonianza sul perché Hamas deve essere totalmente distrutto". I Paesi che hanno riconosciuto uno Stato palestinese oggi stanno dando una ricompensa ai terroristi", ha detto in un video dalla cima del monte.
"E io dico che non permetteremo nemmeno la dichiarazione di uno Stato palestinese. E dico un'altra cosa: per distruggere Hamas, dobbiamo andare a Rafah fino in fondo. Per riavere i nostri ostaggi, dobbiamo fermare il carburante [la fornitura di carburante alla Striscia di Gaza], stabilire che l'umanitarismo è solo per l'umanitarismo. E controllare questo luogo, questa è la cosa più importante".
Durante il suo mandato di ministro della Sicurezza nazionale, Ben-Gvir si è impegnato a visitare il Monte del Tempio, il sito del Primo e del Secondo Tempio prima che venissero distrutti rispettivamente dall'impero neo-babilonese e da quello romano.
Israele ha liberato il Monte durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. In seguito ne ha restituito l'amministrazione al Waqf islamico sotto la custodia degli Hashemiti giordani, pur mantenendo il controllo di sicurezza israeliano.
Ben-Gvir ha spinto per l'emigrazione volontaria dei gazesi e per il reinsediamento della Striscia da parte di Israele. Ne ha parlato nel suo videomessaggio di mercoledì.
Martedì ha dichiarato al sito web Kikar HaShabbat: "Occupazione completa di Gaza, tutto è nostro. Pieno controllo israeliano, compresi gli insediamenti ebraici e l'incoraggiamento volontario dell'immigrazione. Non solo negli insediamenti che sono stati evacuati". Ben-Gvir ha detto che sarebbe disposto a vivere a Gaza.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha risposto più tardi nella notte, affermando in un'intervista alla CNN: "Se intendete reinsediare Gaza..., non è mai stato nei piani, e l'ho detto apertamente. Alcuni dei miei elettori non ne sono felici, ma questa è la mia posizione".

(Israel Today, 23 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Diffuso un video del rapimento di cinque soldatesse da parte dei terroristi di Hamas alla base di Nahal Oz

Il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi ha pubblicato mercoledì 22 maggio  un filmato straziante che mostra il rapimento di cinque giovani soldatesse della base di Nahal Oz da parte dei terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023, descrivendo il video come una “prova schiacciante del fallimento della nazione nel riportare a casa gli ostaggi”.
Il video è stato ripreso dalle telecamere indossate dai terroristi di Hamas quel giorno, mentre attaccavano la base vicino al confine con Gaza, e mostra Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniella Gilboa e Naama Levy, nel filmato, girato 229 giorni fa. Tutte e cinque sono ancora tenute in ostaggio da Hamas a Gaza.
Le famiglie delle cinque soldatesse hanno chiesto la diffusione del filmato, e alcuni genitori hanno dichiarato che l’obiettivo è quello di svegliare la nazione, e in particolare la leadership, per lavorare più urgentemente per garantire il loro rilascio. “Voglio che trasmettiate questo filmato ogni giorno all’inizio del telegiornale”, ha detto il padre di Liri Albag, Eli, nello studio di Canale 12 dopo la proiezione del filmato, “finché qualcuno non si sveglierà”.
Il video di tre minuti autorizzato per la diffusione inizia all’interno di un rifugio della base intorno alle 9 del mattino, quando i terroristi legano le mani delle cinque soldatesse di sorveglianza il cui compito è monitorare le attività al confine, che appaiono scioccate, inorridite, ferite e sanguinanti.
Uno dei terroristi urla loro: “Cani, vi calpesteremo!”.
Ho amici in Palestina”, dice Levy, che ha partecipato a un progetto di coesistenza israelo-palestinese. Poi Albag chiede “qualcuno che parli inglese”. I terroristi rispondono urlando ai soldati prigionieri di fare silenzio e ordinando al gruppo di sedersi. “I nostri fratelli sono morti per colpa vostra. Vi spareremo tutti”, dice uno dei terroristi.
Uno dei terroristi chiede poi ad Albag di chiamare il suo amico a Gaza, anche se non è chiaro il motivo, mentre un altro chiede da dove vengono, e Berger risponde di essere di Tel Aviv.
Il filmato taglia sui terroristi che pregano, ancora nel rifugio. Uno dei terroristi descrive gli ostaggi come “donne che possono rimanere incinte”. Uno dice: “Questi sono i sionisti”, e un altro dice: “Siete molto belle”.
In una dichiarazione rilasciata dopo la pubblicazione del video, il presidente Isaac Herzog ha affermato che continuerà a offrire alle famiglie degli ostaggi “forza e amore”.
“Il mondo deve guardare a questa crudele atrocità. Chi ha a cuore i diritti delle donne deve parlare. Tutti coloro che credono nella libertà devono far sentire la propria voce e fare tutto il possibile per riportare a casa tutti gli ostaggi”, ha dichiarato.
“La crudeltà dei terroristi di Hamas non fa che rafforzare la mia determinazione a combattere con tutte le mie forze fino a quando Hamas non sarà eliminato, per garantire che ciò che abbiamo visto questa sera non si ripeta mai più”, ha scritto il premier Beniamin Netanyahu su X.
Molti familiari degli ostaggi hanno incolpato Netanyahu e il governo per il ritardo che ha impedito di raggiungere un accordo per il rilascio dei loro cari.

(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2024)
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«Le famiglie delle cinque soldatesse hanno chiesto la diffusione del filmato, e alcuni genitori hanno dichiarato che l’obiettivo è quello di svegliare la nazione, e in particolare la leadership, per lavorare più urgentemente per garantire il loro rilascio». Il nemico ringrazia. Proprio questo voleva ottenere: prolungare mediaticamente il terrore del 7 ottobre e colpire indirettamente il suo nemico sperando di farlo crollare dall'interno. Che vuol dire "svegliare la nazione"? Con o senza il ritorno dei loro cari, queste famiglie forse un giorno si vergogneranno di quello che hanno detto e fatto. M.C.

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Lo sport unisce sempre: il Roma Club Gerusalemme in visita a Roma

di Michelle Zarfati

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Lo sport unisce sempre, anche nei momenti più difficili. La Comunità Ebraica di Roma ha accolto ieri i ragazzi del Roma Club Gerusalemme, arrivati domenica per giocare con alcune squadre della Capitale. “Siamo molto felici di aver ospitato al Tempio Maggiore il Roma Club Gerusalemme. Questo è un progetto che dimostra come lo sport possa essere uno strumento importante per superare barriere e difficoltà, specialmente in questo momento storico e in modo particolare fra i giovani” ha detto durante l’incontro l’assessore allo Sport della Cer Alessandro Gai.
   Ragazzi provenienti da Israele e non solo, che insieme, attraverso l’amore per il calcio, sono riusciti ad abbattere qualsiasi barriera. “Siamo arrivati domenica e siamo stati accolti con molto entusiasmo da tutti. Nella squadra ci sono tredici ragazzi israeliani, due ragazzi arabi israeliani, due arabi palestinesi, due armeni cristiani ortodossi, altri mussulmani e due belgi, figli del console belga a Gerusalemme – ha raccontato a Shalom Samuele Giannetti, presidente della squadra – Abbiamo portato inoltre alcuni ragazzi, figli delle famiglie di profughi che ormai da 5 mesi hanno abbandonato la loro dimora. Abbiamo accolto nella squadra questi giovani, offrendo completamente a nostre spese questo viaggio. Questo è il minimo che possiamo fare per loro, che da 7 mesi vivono un incubo. Una piccola goccia in un oceano di una tragedia, che ci auguriamo finisca quanto prima”.
   Un viaggio simbolico, portatore di un messaggio di pace e di speranza in un momento difficile per lo Stato Ebraico. “Ricevere il presidente, gli allenatori e soprattutto i giovani atleti del Roma Club Gerusalemme, è stato un piacere ed un onore. Questo gruppo, animato dai più puri principi sportivi, è formato da ragazzi israeliani di tutte le provenienze e religioni: ebrei, cristiani, musulmani, religiosi, laici che giocano insieme, uniti da quella unione che lo sport riesce sempre a creare. Tra loro anche ragazzi sfollati dal Nord di Israele che sono stati adottati dalla squadra subito dopo il 7 ottobre – ha aggiunto Alex Luzon, assessore ai Rapporti Istituzionali della Cer – Questo gruppo dimostra ancora una volta come lo sport possa abbattere qualsiasi barriera. Samuele Giannetti, il suo presidente, è un mio amico di vecchia data ed ho seguito questa sua preziosa iniziativa sin dagli esordi. Sono fiero del lavoro che lui e il suo team sono riusciti a realizzare fino ad oggi e fiducioso per quanto altro sapranno fare”.
   Inoltre, la squadra è stata accolta con una visita al Senato assieme al presidente del Roma Club. Dopodiché i ragazzi hanno proseguito allo Stadio Olimpico, dove hanno incontrato il Ministro Abodi e hanno giocato poi un match con la squadra ufficiale della Guardia di finanza. Fino all’accoglienza nel Tempio Maggiore, ospiti della Comunità ebraica: “Vorrei ringraziare la Elnett che si è attivata con entusiasmo e ha sostenuto con una sponsorizzazione questo viaggio. È sempre un piacere per noi tornare qui, quest’anno più che mai” ha concluso Giannetti.

(Shalom, 23 maggio 2024)

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La terra di chi

Cinquant'anni fa. Dal «Corriere della Sera» del 16 settembre 1972

di Indro Montanelli

Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. 
   La terra di Israele è sempre stata la terra degli ebrei. Se leggiamo le descrizioni di Gerusalemme fatta nel 1800 da Marx e Mark Twain, leggiamo di “una città povera e miserabile abitata nella parte Est, interamente, da ebrei poveri e miserabili che erano sempre vissuti lì, da tremila anni”. Gli arabi erano sì in leggera maggioranza numerica ma in gran parte erano nomadi senza terra, l’unica vera comunità stanziale era quella ebraica che abitava le stesse case da migliaia di anni.
   Gli ebrei sionisti emigrati nel ‘900 si sono massacrati a dissodare, irrigare, fabbricare desalinizzatori, sono morti a migliaia di stenti e di malaria, parassitosi, colera, ameba, tifo, setticemia e tetano. Sono morti a decine di migliaia, ma poi hanno vinto, il deserto è fiorito, dove cerano lande desolate è nato un paese di filari di vite e di limoni.
   Per poter di nuovo odiare gli ebrei è violato il diritto civile, che per dirla con un toscanismo si riassume in “chi vende, poi, non è più suo”. Gli arabi la loro terra se la sono venduta, prima ai sionisti facendola pagare carissima, poi alla comunità internazionale intascando 66 anni di fiumi di denaro per risarcirgli il “dolore” di aver perso 20.000 chilometri quadrati di terra che non è mai stata loro, meno del Piemonte, che quando c’erano loro era un terra di sassi, paludi e scorpioni.
   Nel 1876, assai prima dunque della nascita del sionismo, vivevano a Gerusalemme 25.000 persone, delle quali 12.000, quasi la metà, erano ebrei, 7500 musulmani e 5500 cristiani. Nel 1905 gli abitanti erano saliti a 60.000. Di questi 40.000 erano ebrei, 7000 musulmani e 13.000 cristiani. Nel 1931 su 90.000 abitanti, gli ebrei erano 51.000, i musulmani 20.000 e i cristiani 19.000. Nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato ebraico, la popolazione di Gerusalemme era quasi raddoppiata: 165.000 persone, di cui 100.000 ebrei, 40.000 musulmani e 25.000 cristiani. La presenza ebraica a Gerusalemme ha sempre costituito il nucleo etnico numericamente più forte. Di nessun altro popolo Gerusalemme è mai stata capitale. E’ quindi una leggenda l’affermazione che gli ebrei siano stati assenti da Gerusalemme per quasi venti secoli o che costituissero una insignificante percentuale della popolazione.
   Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, il nazismo in Germania già perseguitava i suoi 500.000 cittadini ebrei. Le disperate richieste di quegli ebrei di essere accolti nei paesi democratici al fine di evitare quello che già si profilava chiaramente come il loro tragico destino, vennero respinte.
   Nel luglio 1938, i rappresentanti di trentuno paesi democratici s’incontrarono a Evian, in Francia, per decidere la risposta da dare agli ebrei tedeschi. Ebbene, nel corso di quella Conferenza, la risposta fu che nessuno poteva e voleva farsi carico di tanti profughi. Dal canto suo la Gran Bretagna, potenza mandataria della Palestina, venendo meno al solenne impegno assunto verso gli ebrei nel 1917 di creare una National Home ebraica in Palestina, nel 1939 chiudeva la porta proprio agli ebrei con il suo Libro Bianco, nel vano tentativo d’ingraziarsi gli arabi.
   E’ stata questa doppia chiusura a condannare a morte prima gli ebrei tedeschi e poi, via via che la Germania nazista occupava l’Europa, gli ebrei austriaci, cechi, polacchi, francesi, russi, italiani, e così via. Il costo per gli ebrei d’Europa, che contavano allora una popolazione di dieci milioni, fu di sei milioni di assassinati, inclusi un milione e mezzo di bambini. Appena finita la seconda guerra mondiale i 5/600.000 ebrei superstiti, in massima parte originari dell’Europa orientale, si trovarono senza più famiglia, senza amici, senza casa, senza poter rientrare nei loro paesi, dove l’antisemitismo divampava (in Polonia ci furono sanguinosi pogrom persino dopo la guerra, e nell’Unione Sovietica Stalin dava l’avvio a una feroce campagna antiebraica).
   Tra il 1945 e il 1948 nessun paese occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, volle accogliere neanche uno di quel mezzo milione di ebrei “displaced persons”, come venivano definiti dalla burocrazia alleata. La Palestina, malgrado la Gran Bretagna e il suo Libro Bianco, sempre in vigore anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, non fu quindi una scelta, ma l’unica speranza, cioè quella del “ritorno” a una patria, all’antica patria, una patria dove da tempo si era già formata una infrastruttura ebraica.
   Nel passato la vita degli ebrei nei paesi islamici e negli stessi paesi arabi è stata nell’insieme sopportabile. Di serie B, ma sopportabile. Gli arabi hanno incominciato a sviluppare in Palestina un odio “politico” nei confronti degli ebrei pochi anni dopo l’inizio, nel 1920, del Mandato britannico. L’odio, sapientemente fomentato dai capi arabi, primo tra i quali il Gran Muftì di Gerusalemme (che durante la seconda guerra mondiale avrebbe raccolto volontari per formare una divisione SS araba andata poi a combattere a fianco dei tedeschi contro l’Unione Sovietica), doveva culminare, dopo molti altri gravi fatti di sangue antiebraici, nella strage perpetrata a Hebron nel 1928 contro l’inerme, antica comunità religiosa ebraica.
   Chiunque abbia viaggiato e vissuto nei paesi arabi durante le guerre del 1947-1973, sa che l’intera coalizione araba (Egitto, Siria, Iraq e Giordania) con il sostegno dei paesi arabi moderati, avevano un solo scopo che non veniva tenuto celato: il compito non era dare una patria ai palestinesi. Era cancellare ed annientare lo Stato di Israele.Le tragiche vicende che hanno successivamente tormentato il popolo palestinese sono state sempre per mano araba. Due i fatti impossibili da dimenticare: lo sterminio dei palestinesi in Giordania per mano di re Hussein e delle sue artiglierie, dove, solo il primo giorno del terribile “Settembre Nero” si contarono 5.000 morti; le stragi nel Libano, dove i palestinesi sono stati assediati ed attaccati, distrutti e costretti alla fuga dai miliziani sciiti di “Amal” e dai siriani.

(«Corriere della Sera», 16 settembre 1972)

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Rabbia di Israele: «La parata della stupidità irlandese-norvegese non ci scoraggia»

Il ministro degli Esteri Israel Katz ha ordinato «l'immediato ritorno in Israele» degli ambasciatori in Irlanda e Norvegia «per consultazioni, alla luce della decisione di questi Paesi di annunciare il riconoscimento di uno Stato palestinese».
  Katz ha denunciato che «Irlanda e Norvegia intendono inviare oggi un messaggio ai palestinesi e al mondo intero: il terrorismo paga».
  Oslo, ha annunciato poco fa il primo ministro Jonas Gahr Støre, riconoscerà lo Stato palestinese dal 28 maggio. Dal canto loro, il primo ministro irlandese Simon Harris e il ministro degli Esteri Micheál Martin parleranno alla stampa stamattina e ci si attende che facciano lo stesso. «Israele - ha detto Katz - non sarà compiacente con chi vuole minarne la sovranità e ne mettono in pericolo la sicurezza».
  Il ministro ha poi ammonito che se la «Spagna realizzasse la sua intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, un passo simile verrà fatto nei suoi confronti». Una comunicazione sul tema è infatti attesa, sempre per oggi, pure dal premier iberico Pedro Sanchez.
  «La parata della stupidità irlandese-norvegese non ci scoraggia, siamo determinati a raggiungere i nostri obiettivi: restituire la sicurezza ai nostri cittadini con la rimozione di Hamas e il ritorno dei rapiti. Non esistono obiettivi - ha concluso - più giusti di questi.»

(Corriere del Ticino, 22 maggio 2024)

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Le celebrazioni per Yom HaAtzmaut e il congedo dell’Ambasciatore Bar

di Luca Clementi

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Alon Bar
Dopo quasi due anni di mandato, per ragioni anagrafiche lascia gli incarichi diplomatici. Il pubblico congedo è arrivato nel corso della serata organizzata dall’Ambasciata all’Hotel Rome Cavalieri, in occasione del 76° anniversario dell’Indipendenza dello Stato ebraico e dei 75 anni delle relazioni diplomatiche tra questo e l’Italia. Presenti esponenti della politica nazionale ed ebraica, compreso il presidente della Comunità di Roma Victor Fadlun, attivisti e personaggi di spicco provenienti da vari ambienti della società civile.
  Nell’intermezzo del concerto durante il quale si sono esibiti i cori “Young Bat-Kol”, diretto da Dalia Lazar-Shimon e “Piccolo Coro Little Star, sotto la direzione di Alessandra Fralleone, l’Ambasciatore Bar ha preso la parola. Nel suo discorso, l’apertura è dedicata alla guerra in corso dal 7 ottobre e alle sue ripercussioni sull’opinione pubblica.
  “Ogni giorno sentiamo di gruppi, nella società italiana, che chiedono la sospensione delle relazioni con Israele e il suo boicottaggio. È triste e molto spiacevole. Questa è discriminazione. Non abbiamo visto richieste simili di boicottaggio economico, culturale e accademico nei confronti di nessun altro Paese o gruppo”.
  Nonostante questo, i rapporti con lo Stato italiano sono più che stabili.
  “Fortunatamente, settantacinque anni di relazioni tra Italia e Israele hanno costruito una solida base di amicizia tra le due nazioni. Credo che la maggioranza degli italiani, e senza dubbio le istituzioni ufficiali del Paese, non condividano questo festival dell’odio”.
  Bar ha proseguito non lasciando spazi di interpretazione sugli eventi che hanno portato alla crisi in essere nel Medio Oriente.
  “Siamo in guerra perché l’organizzazione terroristica palestinese Hamas, che controllava Gaza, ha violato il cessate il fuoco in vigore fino al 6 ottobre. Come ha affermato il Consigliere americano per la Sicurezza Nazionale, un cessate il fuoco immediato e un flusso di aiuti umanitari in grandi quantità a Gaza sarebbero stati possibili subito se Hamas avesse acconsentito a liberare le donne, i feriti, i bambini e gli anziani che tiene prigionieri nei tunnel. È stato Hamas a rifiutare le proposte di Israele e di altri per un cessate il fuoco. Fintanto che Hamas continua a mantenere un’influenza di governo e militare, nessuno sarà disposto ad assumersi responsabilità per Gaza”.
  In conclusione, i saluti alla “sua” Ambasciata, “la migliore al mondo per amicizia, professionalità e impegno”, e le parole dolci per sua moglie Ester, tra gli applausi del pubblico.
  “La ringrazio per la sua pazienza e saggezza e per tante altre cose che non sto qui ad elencare. Senza di te, amore mio, sono metà persona. Senza di te, non sono praticamente nulla”.
  Termina così, tra le foto, i fiori e il calore di chi c’è stato, la sua esperienza in Italia. La data di effettiva fine dell’incarico non è ancora nota, ma presto lascerà via Mercati per ritirarsi a vita privata.

(Shalom, 22 maggio 2024)

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Cosa succede quando non puoi semplicemente arrestare gli ebrei per essersi difesi?

di Seth Mandel

La mattina successiva alla domenica di Pasqua del 1903, Yehiel Pesker si recò al suo negozio al mercato di Kishinev per verificare eventuali danni. Il giorno precedente, le prime notizie di un pogrom avevano sconvolto la città.
Sulla via del ritorno a casa, vide circa 200 ebrei armati di mazze e persino qualche pistola: quel giorno sarebbe arrivata la seconda ondata di uno dei pogrom più famosi della storia e gli ebrei volevano essere pronti. Quando arrivarono i pogromisti ci fu una situazione di stallo, finché la polizia non intervenne contro gli ebrei e la violenza mortale continuò.
Sebbene questi ebrei manifestassero semplicemente il desiderio di difendersi nel caso fossero stati attaccati, e sebbene questo fosse un breve momento del secondo giorno di una rivolta sanguinosa durata tre giorni che avrebbe scioccato il mondo, “gli antisemiti locali e i loro simpatizzanti”, secondo lo storico Steven J. Zipperstein, cercarono di sostenere che si trattasse di una escalation da parte degli ebrei e che quindi, responsabili del pogrom fossero le vittime. Altrove in città, un uomo ebreo di quasi 60 anni respinse quattro aggressori, che in seguito sparsero la voce secondo cui un ebreo aveva ucciso dei cristiani. Per alcuni, quindi, un vero e proprio libello del sangue nel mezzo di un esteso massacro, si trasformò nella storia dell’origine dell’intera rivolta.
“Nelle argomentazioni avanzate dagli avvocati difensori nei processi per crimini legati ai pogrom, la rivolta di domenica venne liquidata come un putiferio che sarebbe finito rapidamente… se gli ebrei non avessero reagito in modo eccessivo”, scrive Zipperstein. “Secondo questa versione, fu l’aggressione quasi immotivata da parte degli ebrei e le successive voci di attacchi a una chiesa e l’uccisione di un prete a mettere in moto la sfortunata ma, date le circostanze, comprensibile violenza.”
Tutto ciò può sembrare ridicolo, perché pochi pogrom sono conosciuti meglio di quello di Kishinev e perché ha avuto un effetto così profondo sulla storia: modellò la prospettiva di importanti figure sioniste e allarmò il mondo, diventando persino un elemento della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti come esempio del perché le minoranze razziali ed etniche necessitavano di una protezione sancita dalla legge da parte dello Stato.
Ma tralasciamo i nomi di persone e luoghi, ci troveremo a descrivere la risposta al massacro di Hamas del 7 ottobre. Gli ebrei se lo dovevano aspettare; gli attacchi sono stati essenzialmente un atto di legittima difesa; sarebbe stato un evento di portata minore se gli ebrei non avessero reagito in modo sproporzionato difendendosi.
Il capo della polizia russa cercò perlomeno di sostenere l’equivalenza morale, basandosi su queste bugie, tra gli ebrei di Kishinev e i loro assassini. Si può sentire un’eco diretta di tutto ciò nelle parole di Karim Khan, pubblico ministero presso la Corte penale internazionale, che ha presentato richieste di mandati di arresto sia per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che per il leader terrorista di Hamas Yahya Sinwar: “Se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge allo stesso modo, se verrà considerata applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo collasso”.
Quell’eco è probabilmente ancora più forte sul New York Times, che descrive le reazioni all’acrobazia di Khan in questo modo: “La decisione di Khan di perseguire simultaneamente i leader israeliani e palestinesi è stata criticata sia dai ministri del governo israeliano che da Hamas. Entrambe le parti si sono chieste perché siano stati presi di mira i loro alleati e non solo i nemici”.
Ah sì, entrambe le parti. Un mese dopo gli attentati di Hamas, l’autore Sam Harris ha denunciato questo modo di pensare nel suo podcast in un monologo destinato a resistere alla prova del tempo. La parte fondamentale:

    “Naturalmente, il confine tra antisemitismo e generica stupidità morale è un po’ difficile da discernere, e non sono sicuro che sia sempre importante trovarlo. Non sono sicuro che abbia importanza il motivo per cui una persona non riesca a distinguere tra i danni collaterali in una guerra necessaria e gli atti consapevoli di sadismo genocida che vengono celebrati come sacramento religioso da un culto della morte. Le nostre strade si sono riempite di persone che inciampano letteralmente su se stesse nel desiderio di dimostrare di non sapere distinguere tra coloro che uccidono intenzionalmente i bambini e coloro che li uccidono inavvertitamente, avendo fatto di tutto per evitare di ucciderli, mentre si difendevano dalle stesse persone che hanno intenzionalmente torturato e ucciso uomini, donne e sì… bambini innocenti…Se sei finito, con orgoglio e ipocrisia, dalla parte sbagliata di questa asimmetria – questo vasto abisso tra ferocia e civiltà – mentre marciavi attraverso il cortile di un’istituzione della Ivy League indossando pantaloni da yoga, non sono sicuro che abbia importanza che la tua confusione morale sia dovuto al fatto che ti capita di odiare gli ebrei. Che tu sia un antisemita o semplicemente un apologeta delle atrocità, probabilmente non ha importanza. Il punto cruciale è che sei pericolosamente confuso riguardo alle norme morali e alle simpatie politiche che rendono la vita in questo mondo degna di essere vissuta”.
E nel caso di Khan, se non riesci o non vuoi distinguere tra la guerra di Hamas e quella di Israele, possiedi un deficit morale che ti squalifica da qualsiasi posizione di autorità o responsabilità sugli altri.
Ancora più importante, tuttavia, è l’idea centrale alla base di questa tendenza. Per gran parte della storia si potevano semplicemente punire gli ebrei per essersi difesi, per essere rimasti in vita. Un patetico pubblico ministero tronfio poteva osservare in silenzio l’assassinio degli ebrei e poi sporgere denuncia contro “entrambe le parti” non appena un ebreo prendeva in mano una mazza per legittima difesa. Perché la legge, vedete, deve essere applicata in modo uniforme. Il mondo non avrebbe fatto nulla contro Hamas, anche dopo gli atti demoniaci del 7 ottobre. Un pubblico ministero giusto deve aspettare finché non ci sarà anche un ebreo da mettere sul banco degli imputati. Questo è l’equilibrio. Questa è la giustizia.
Karim Khan può essere un debole pagliaccio, ma conferisce a Israele una motivazione ferrea per la sua esistenza.

(L'informale, 22 maggio 2024)

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Il viaggio in agenda e mai fatto del procuratore dell'Aia in Israele

Khan e la sua squadra sarebbero dovuti andare a Gerusalemme per discutere con il governo e vedere cosa è stato fatto. Per i giornalisti israeliani il governo di Netanyahu ancora una volta ha commesso un grosso errore di comunicazione. Le preoccupazioni per il sequestro delle attrezzature dell’Ap.

di Micol Flammini

Dietro alle minacce di un mandato di arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant c’era un lavorio accorto, una triangolazione assennata tra Stati Uniti, governo israeliano e lo staff del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan. Gli accordi prevedevano che la squadra del procuratore e Khan stesso si recassero  in Israele per discutere le indagini, parlare con il governo, valutare la natura degli aiuti umanitari mandati nella Striscia e verificare il meccanismo per farli entrare a Gaza. La visita di Khan, secondo accordi, sarebbe stata preceduta da quella della sua squadra che era attesa  ieri in Israele. Nessuno del gruppo però è salito sull’aereo, e il governo israeliano è stato informato della decisione quando ormai Khan aveva mosso le sue accuse. 
   La squadra del procuratore  sapeva già di non dover partire quando Khan dritto davanti alle telecamere ha accusato  Netanyahu e Gallant, accostandoli ai capi di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh. Per un attimo, nei mille rivoli in cui è divisa la politica israeliana, si è ritrovata l’unità, perché le modalità di reazione di  Israele  a Gaza sono una decisione comune, presa all’interno del gabinetto di guerra in cui oltre alla maggioranza ci sono anche esponenti dell’opposizione. 
  Gli Stati Uniti erano tra i registi della visita di Khan in Israele, volevano che il procuratore si facesse spiegare se Israele si sta impegnando per l’ingresso degli aiuti umanitari o meno. La Casa Bianca ha fatto molta pressione sul governo di Gerusalemme, ha preteso che venisse assicurato un flusso costante di aiuti, ha costruito un molo a Gaza che permette alle navi con i rifornimenti di attraccare e lo ha fatto con la collaborazione di Tsahal, chiedendo anche  a Israele di occuparsi dei valichi. Ma la visita di Khan non è mai avvenuta, il procuratore ha mosso le sue accuse e gli Stati Uniti ora lavorano a una risposta bipartisan da mandare al procuratore dell’Aia. 
  Netanyahu e Gallant sono accusati di usare “la fame come metodo di guerra, inclusa la negazione degli aiuti umanitari, di prendere di mira deliberatamente i civili”. Sinwar, Haniyeh e Deif sono accusati di sterminio, omicidio, sequestro, stupro. Il presidente americano Joe Biden, ha detto con chiarezza che “non esiste equivalenza” tra i funzionari di Hamas e i politici israeliani e ha assicurato:  “Saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza”. E’ stato il segretario di stato americano Antony Blinken a raccontare del viaggio che Khan e la sua squadra avrebbero dovuto compiere in Israele, ha parlato dell’impegno del governo israeliano di collaborare all’indagine e ha concluso: “Queste circostanze mettono in discussione la legittimità e la credibilità dell’indagine”. Gli Stati Uniti e Israele non hanno ratificato lo Statuto di Roma, che è alla base della Corte penale internazionale, ci vorranno mesi prima che la Corte prenda una decisione sulle accuse contro Netanyahu e Gallant, ma il timore dell’Amministrazione americana è che la prima vittima delle azioni di Khan siano i negoziati per raggiungere un accordo tra Israele e Hamas. Lo scorso fine settimana, il segretario americano per la Sicurezza nazionale,   Jake Sullivan, ha incontrato i leader israeliani e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ha detto che Yahya Sinwar si sente abbastanza forte da rifiutare un’intesa perché sa che la pressione internazionale contro Gerusalemme aumenterà, quindi prevede che può chiedere sempre di più allo stato ebraico, qualsiasi accordo anche a costo di compromettere la sua sicurezza. La decisione di Khan di andare davanti alle telecamere prima che in Israele è un colpo a ogni negoziato, mentre gli Stati Uniti stanno coinvolgendo l’Arabia Saudita per strutturare un piano per Gaza. 
  Israele è una società molto critica, aspra nei confronti del governo, ma nessuno ha accettato l’equivalenza tra Sinwar e Netanyahu. Alcuni giornalisti israeliani, che da mesi evidenziano i grandi errori di comunicazione del governo, hanno detto che l’accusa di Khan è  il risultato di mesi di  dichiarazioni mal  gestite, della mancanza di sforzi per mostrare cosa stava  facendo Israele, dell’atteggiamento di una classe politica abituata a essere accusata e a essere trattata come il bullo del medio oriente. Ieri il governo, che per un giorno aveva riacquisito l’unità nazionale, si è attirato nuove critiche per la decisione di sequestrare le attrezzature dell’Associated Press, fermando la diretta dell’agenzia. Secondo il ministero delle Comunicazioni i giornalisti stavano violando la legge sulle emittenti straniere accusate di costituire un danno per la sicurezza dello stato. Non ci sono stati chiarimenti, gli Stati Uniti hanno definito la notizia preoccupante e hanno chiesto a Netanyahu di ripensarci. La decisione contro Ap non rafforza la posizione di Israele. 

Il Foglio, 22 maggio 2024)

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Lo storico americano fa a pezzi la narrazione occidentale che vuole demonizzare il leader del Cremlino

Intervista a Benjamin Abelow: «A parti invertite, Washington avrebbe fatto lo stesso. Anzi, è proprio lui ad aver causato questo disastro».

di Franco Battaglia

Specialista in Storia moderna europea, formatosi alla University of Pennsylvania (e anche medico, formatosi alla Yale school of medicine), Benjamin Abelow è autore di How the West broughtwar to Ukraine: understanding how U.S. and Nato policies led to crisis, war, and the risk of nuclear catastrophe, un best-seller, tradotto in sette lingue, compreso l'italiano, col titolo Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina» (Fazi editore, 2023). È un libro molto breve, e dovrebbe leggerlo chiunque ha voglia di ascoltare l'altra campana delle cose. Il saggio ha già ricevuto gli apprezzamenti pubblici di molti esperti, tra cui Jack Matlock, ambasciatore degli Stati Uniti in Unione sovietica, John Mearsheimer e Richard Sakwa, professori di Scienze politiche alle università di Chicago e del Kent.

- Dr. Abelow, lei afferma che la guerra in Ucraina è colpa degli Stati Uniti e della Nato. Ma l'aggressore è Putin, no?
  «Se si fa cominciare la storia dal giorno dell'invasione, ovviamente Vladimir Putin sembra essere la fonte del problema. Ma la storia non è iniziata il giorno dell'invasione. I nostri governi e i media ci dicono che Putin è un nuovo Hitler, o un nuovo zar o un nuovo Stalin, che è entrato in guerra per distruggere l'Ucraina e invadere altri Paesi. Non c'è alcuna prova a sostegno di questa tesi. Anzi, le prove sono completamente opposte».

- Allora perché Putin ha invaso l'Ucraina?
  «Il più importante fattore è stato il tentativo degli Usa di far entrare l'Ucraina nella Nato, cosa che la Russia percepisce come una minaccia inaccettabile. Non è una novità: già nel 1997, 50 tra i più importanti esperti di politica estera degli Stati Uniti inviarono una lettera pubblica al presidente Bill Clinton che lo avvertiva che l'espansione della Nato sarebbe stata un errore di politica estera di "proporzioni storiche". E nel 2007 o all'inizio del 2008 - non conosciamo la data esatta - il Consiglio di intelligence nazionale americano ha concluso che tentativi di far entrare l'Ucraina nella Nato avrebbero potuto indurre la Russia ad annettere la Crimea, e invadere l'Ucraina. Non si può prevedere il futuro meglio di così».

- Ma le risoluzioni della Nato richiedono l'unanimità: qual è stato il ruolo dei leader europei?
  «I leader dell'Europa occidentale all'inizio non concordavano con l'ingresso dell'Ucraina nella Nato. Quando il presidente Bush inviò il segretario di Stato Condoleezza Rice a Bucarest per cercare di convincerli, la loro opposizione fu così forte che la Rice si mise a piangere. Davvero, si mise a piangere. Alla fine, però, le pressioni americane prevalsero e i leader europei approvarono una risoluzione favorevole. Come ha ben detto lei, le risoluzioni Nato richiedono unanimità e ogni singolo leader nazionale avrebbe potuto bloccare la risoluzione, ma questi leader europei non hanno la forza, la fibra morale e l'integrità necessarie per distinguersi dal gruppo e dire no ».

- Non è che Putin sia paranoico?
  «Decida lei. Nel 2020 e 2021, in Estonia, la Nato ha effettuato esercitazioni missilistiche a fuoco vivo utilizzando 48 missili balistici con una gittata di 300 km. I missili sono stati lanciati a soli 110 km dal confine con la Russia. Ciò significa che i missili potevano colpire fino 190 km dentro il territorio russo. I missili non sono entrati nello spazio aereo russo, ma avrebbero potuto farlo. Ora, la Nato non stava realmente pianificando un attacco alla Russia. E questa fu solo una delle tante esercitazioni militari vicino il confine con la Russia. Ma come fanno i russi a sapere che l'Occidente non stava effettivamente progettando di attaccare la Russia? Dovrebbero fidarsi della nostra parola? Ci fideremmo della loro parola su queste cose?»

- Qual è la risposta?
  «Immagini uno scenario in cui il Canada sia alleato della Russia e che inizi a lanciare missili per esercitarsi a distruggere obiettivi di difesa aerea in America. Come pensate che reagirebbero gli Stati Uniti? Chiederebbero la fine di tutte le esercitazioni e l'immediata rimozione dei missili. Putin ha reagito proprio come avrebbero fatto gli Stati Uniti».

- Ma Putin sta combattendo da due anni, e ha conquistato il 20% del territorio ucraino. Come si fa a dire che non stava cercando di conquistare l'Ucraina?
  «Non tutti sanno che entro 24 ore dall'inizio dell'invasione, lo staff di Putin contattava l'ufficio di Zelensky offrendo l'interruzione delle ostilità in cambio della dichiarazione ucraina di neutralità. Questo è ciò che accadeva il primo giorno di ciò che Putin ha chiamato "Operazione militare speciale". Non fu un tentativo di conquista, ma un tentativo di "diplomazia coercitiva", iniziato mesi prima quando assembrava le truppe al confine con l'Ucraina. Putin stava cercando di costringere l'Ucraina ad accettare ciò che aveva cercato senza successo almeno dal 2007. Putin c'era quasi riuscito: Zelensky voleva discutere la sua offerta. Ma sembra che gli Stati Uniti abbiano interferito. La stessa cosa è accaduta il mese successivo: tra marzo e aprile del 2022 si sono svolti negoziati completi tra Russia e Ucraina, a Istanbul, in Turchia. L'ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, che aveva contribuito a far nascere il processo di pace, ha dichiarato che un documento di lavoro per la pace era passato attraverso 17 o 18 bozze e probabilmente sarebbe culminato in un accordo. Ma proprio in quel momento, il primo ministro britannico Boris Johnson si è presentato in Ucraina da Zelensky, dicendogli: "Voi potete anche essere pronti per la pace, ma noi, l'Occidente collettivo, non lo siamo».

- Difficile pensare che Johnson avrebbe fatto una cosa del genere senza la piena approvazione del presidente Biden.
  «Già. In America sempre più persone si stanno rendendo conto che questo fiasco ucraino è stato altrettanto inutile, stupido e colpa dell'Occidente quanto la guerra in Iraq. Come l'Iraq, questa guerra viene sostenuta sulla base di false premesse. In Europa, pensate di opporvi al nuovo Hitler. Quando vi sveglierete, vi renderete conto che è come fu in Iraq, basato su false premesse».

- Perché Putin s'è mosso proprio nel febbraio 2022?
  «Nella seconda metà del 2021 si verificarono tre importanti eventi, uno dopo l'altro. Innanzitutto, in luglio la Nato emetteva un comunicato ribadendo la decisione di far entrare l'Ucraina nell'Alleanza. Due mesi dopo, il Pentagono firmava un accordo con l'Ucraina ribadendone l'ingresso nella Nato e - cosa ancora più importante - con l'impegno di armarla e militarizzarla, e ciò indipendentemente da ciò che sarebbe accaduto con la Nato in senso formale. Infine, due mesi dopo ancora, il dipartimento di Stato firmava un accordo di partenariato strategico con l'Ucraina confermando che l'Ucraina avrebbe aderito alla Nato. A sua volta, Putin inviava richieste formali sia agli Stati Uniti che alla Nato per lasciare l'Ucraina fuori dalla Nato. Ma sia gli Stati Uniti che la Nato respinsero la richiesta in modo assoluto, non ne vollero nemmeno discutere, sostenendo che un avamposto militarizzato guidato dagli Stati Uniti e al confine con la Russia non era affare della Russia».

- I leader occidentali non sarebbero d'accordo con la sua prospettiva. Come lo spiega? Anzi, probabilmente direbbero che lei è un agente del Cremlino.
  «I responsabili politici che hanno spinto senza sosta per l'espansione della Nato hanno causato questo disastro. Queste persone non si assumono quasi mai la responsabilità. Cercano altri da incolpare. Ci vorrebbe una notevole dose di onestà da parte di un leader che dica: "Abbiamo commesso un terribile errore". Pochissime persone hanno la capacità psicologica di riconoscere un terribile errore anche a sé stesse, tanto meno in pubblico. E così cercano di salvare la faccia: dicono che il loro piano era buono, così buono che dovremmo continuare a portarlo avanti; dicono che chi dice che il re è nudo è un agente del Cremlino. A questo si aggiunge il pessimo ruolo giocato dalla stampa: invece di agire in modo indipendente e di adempiere alla propria responsabilità sociale, i nostri media sono diventati asserviti ai nostri governi, e funzionano in gran parte come un'ala propagandistica dello Stato».

(La Verità, 21 maggio 2024)
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Come nel caso della vaccinazione coatta, l’obbligo morale a odiare Putin imposto dalla narrazione “occidentale” si dimostra essere, a conti fatti, un’enorme impostura marcatamente “occidentale”. E’ questo l’Occidente di cui dobbiamo sentire il dovere di difendere la libertà? La libertà di mentire per chi comanda e l’obbligo di accettare le menzogne per chi prima ancora di ubbidire deve sentirsi minacciato per il solo fatto che fa sapere   di non crederci? Purtroppo alcuni, anche tra gli amici di Israele, collegando insanamente la guerra in Ucraina con la guerra in Gaza,   hanno immaginato che questo Occidente menzognero potesse essere invocato a difesa dell’esistenza di Israele. Ma la verità del diritto di Israele a vivere sulla sua terra non può essere difeso dalla menzogna della difesa della libertà occidentale. E adesso si vede. M.C.

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Salman Rushdie: uno Stato palestinese sarebbe uno Stato del terrore

"Sarebbe uno stato come quello dei talebani. È davvero questo che vuole l'Occidente progressista?".

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Salman Rushdie
GERUSALEMME - Uno Stato palestinese sovrano verrebbe subito conquistato da milizie terroristiche e diventerebbe un focolaio di violenza terroristica in Israele e in tutto il Medio Oriente. Molti lo sanno da anni e la rapida conquista di Gaza da parte di Hamas, appena un anno dopo il ritiro di Israele dal territorio, lo ha confermato.
Eppure molti non sembrano aver imparato la lezione dello sfortunato "disimpegno" e hanno bisogno di sentirsi dire esplicitamente che uno Stato palestinese sarebbe uno Stato terrorista.
Tra coloro che cercano di far ragionare i leader occidentali c'è il famoso romanziere Salman Rushdie.
In un'intervista rilasciata al quotidiano tedesco Bild, lo scrittore britannico-americano di origine indiana ha dichiarato inequivocabilmente: "Se ci fosse uno Stato palestinese ora, sarebbe gestito da Hamas e avremmo uno Stato talebano. Uno Stato satellite dell'Iran".
Rushdie ha poi chiesto: "È questo che i movimenti progressisti della sinistra occidentale vogliono creare?".
Ha spiegato che il problema è che la maggior parte delle persone in Occidente reagisce emotivamente al conflitto, invece di guardare alla situazione in modo logico. E questo sfogo emotivo sta guidando la politica dei governi, soprattutto in un anno di elezioni.
Le masse liberali che protestano contro Israele sono così ignoranti che arrivano a sostenere a voce Hamas, anche se le loro posizioni e convinzioni sono in netto contrasto con quelle del gruppo jihadista ultraconservatore.
Due anni fa, Rushdie ha rischiato di morire quando uno jihadista lo ha accoltellato 14 volte durante uno spettacolo a New York.
Nel 1989, l'allora leader supremo iraniano Ayatollah Ruhollah Khomeini emise una fatwa contro Rushdie per il suo libro "I versi satanici". Da allora ha subito numerosi attacchi e tentativi di assassinio.
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(Israel Heute, 21 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele non gioisce e non si preoccupa, la morte di Raisi non cambia nulla

L'incidente aereo che ha ucciso il presidente iraniano e il ministro degli Esteri Amir-Abdollahian per Gerusalemme è uno schianto inutile. Lo spassoso pilota-agente segreto del Mossad Eli Kopter.

di Micol Flammini

Nel rapporto tra Israele e la Repubblica islamica nulla cambia, anche se il presidente dell’Iran Ebrahim Raisi è morto assieme a tutti gli altri passeggeri che volavano a bordo dell’elicottero Bell 212, vecchio rimasuglio di fabbricazione americana carbonizzato nel tentativo di effettuare un atterraggio di emergenza tra le montagne nebbiose del Varzaqan, nella regione iraniana dell’Azerbaigian orientale. Raisi viaggiava con il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, l’imam di Tabriz Mohammad Ali al Hashem, il governatore della regione Malek Rahmati, due piloti e due guardie del corpo. Sono morti tutti e poco cambia per il futuro delle relazioni tra Iran e Israele. Dopo l’annuncio dell’incidente, alcune vignette satiriche avevano iniziato a tratteggiare l’esistenza a bordo dell’elicottero di un pilota-agente segreto del Mossad molto ardimentoso  chiamato Eli Kopter. 
  Il nome è assurdo e spassoso, ma qualcuno ha voluto vederci della verità e in poco tempo, il canale televisivo israeliano in lingua francese i24 e alcuni canali telegram anti israeliani iniziavano a riportare i dettagli del misterioso pilota pronto alla missione suicida, tramandando l’idea che Israele dovesse avere avuto un ruolo nella morte di Raisi e degli altri. I24 aveva preso per buona la satira finendo a sua volta oggetto di sberleffi, mentre canali vicini a Hamas e a  Hezbollah forse avevano pensato in modo furbesco che fingere di credere all’esistenza di Eli Kopter fosse il modo più rapido per accusare lo stato ebraico. Le teorie del complotto possono nascere anche da una vignetta satirica e pure se il regime iraniano dovesse decidere di addossare una responsabilità remota a Israele, lo farebbe con poca convinzione, soltanto per tenere alta l’attenzione e l’odio contro lo stato ebraico – come fece per esempio a gennaio, dopo l’attentato a Kerman durante le commemorazioni per la  morte del generale Qassem Suleimani, nonostante le rivendicazioni dello Stato islamico del Khorasan, l’allora ex vicepresidente Mohammad Mokhber ci tenne ad accusare “le mani del regime sionista”. Mokhber adesso è presidente, ha preso il posto di Raisi e tanto basta per capire che nelle intenzioni iraniane contro Israele è come se l’incidente aereo non ci fosse mai stato. Poco importa se i vertici del governo cambiano, poco importa se al posto di Amir-Abdollahian è stato nominato Ali Bagheri Kani, capo negoziatore per il programma nucleare dell’Iran. Israele guarda avanti, i funzionari iraniani sono la proiezione della volontà della Guida suprema e i funzionari passati come quelli  futuri continueranno a rappresentare gli interessi e le idee di Ali Khamenei. Le morti di Raisi e di Amir-Abdollahian non cambiano la politica estera di Teheran e Israele non si è mai interessato a loro.
  Il ministro degli Esteri non era un tessitore e un organizzatore della guerra contro lo stato ebraico nonostante fosse molto vicino al leader di Hezbollah e  raccontasse di lunghe chiacchierate a Beirut che si protraevano fino alle quattro del mattino: parlava bene l’arabo e male l’inglese, tanto da attirarsi le critiche e le beffe dell’opposizione – ha l’inglese di un venditore ambulante, dicevano. Come Raisi, Amir-Abdollahian era un soldato fedele, non un uomo scelto per cambiare, indirizzare, rafforzare le strategie del paese in politica estera. Erano entrambi l’emanazione delle idee di Khamenei, che contro Israele vuole una guerra lenta, combattuta dai gruppi armati in giro per il medio oriente, ne rappresentavano il modo di vedere il mondo, senza neppure avere troppo potere a disposizione se non quello di esaudire ed eseguire i desideri della Guida suprema.  Ognuno dei gruppi armati ha voluto esprimere la propria vicinanza alla Repubblica islamica, Hamas ha fatto le condoglianze a Khamenei per l’“immensa perdita”.  Hezbollah ha reso “onore al protettore dei movimenti di resistenza”, e ha ringraziato Raisi e Amir Abdollahian per lo sforzo politico e diplomatico intenso “per fermare l’aggressione sionista”, gli houthi si sono spinti oltre fino a parlare di “presunto martirio”. Sono loro il braccio armato dall’Iran contro Israele, non hanno mai preso ordini dal presidente e dal ministro degli Esteri, la loro battaglia rimarrà la stessa, senza cambiamenti. 
  La Repubblica islamica non è un nemico cambiato adesso che il presidente e il ministro degli Esteri sono morti, il loro ruolo è limitato, non sono strateghi. Anche se le teorie del complotto hanno voluto dare adito all’esistenza del potente pilota Eli Kopter, agente del Mossad infiltrato nell’elicottero presidenziale, dal punto di vista di Israele quanto successo sulle montagne del Varzaqan è stato un incidente inutile. 

Il Foglio, 21 maggio 2024)

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Eden Golan canta per la prima volta in pubblico ‘October rain’ nella piazza per gli ostaggi

La cantante israeliana Eden Golan, che ha rappresentato Israele all’Eurovision Song Contest di quest’anno arrivando al quinto posto, ha eseguito la sua canzone “October Rain” senza le modifiche richieste dall’Eurovision la sera di sabato 18 maggio durante un raduno a Tel Aviv organizzato dal Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi. Il raduno mirava a raccogliere l’attenzione globale e a convincere altri Paesi a fare pressione su Hamas affinché rilasciasse i 128 ostaggi ancora trattenuti a Gaza.
«È la prima volta che canto sul palco dopo essere tornata dall’Eurovision”, ha detto Golan alla folla riunita in quella che è stata chiamata Piazza degli ostaggi. “Volevo farlo su questo palco, in questa piazza. Volevo cantare ‘October Rain’ stasera ed è la mia preghiera per riportare tutti a casa. Non smetterò di far sentire la nostra voce in Israele e nel mondo, finché tutti non torneranno a casa”, ha detto.
  La canzone, che include un testo che fa riferimento agli ostaggi e alle persone uccise da Hamas, era stata originariamente scritta per il concorso Eurovision in Svizzera all’inizio del mese. Tuttavia, l’Unione europea di radiodiffusione l’ha squalificata per la presenza, a loro dire, di messaggi politici.
  La sua esibizione è stata rovinata dall’animosità degli altri concorrenti, dai fischi di alcuni membri del pubblico e dai raduni anti-israeliani fuori dalla sede di Malmo, in Svezia, per la guerra in corso a Gaza.
  La canzone ‘October rain’ include frasi come: I promise you that never again…/Writers of history stand with me/People go away but never say goodbye…/I’m still wet from the October rain, mentre la frase finale in ebraico diceva: There is no air left to breathe…/They were all good kids, every one of them –  riferito alle vittime del 7 ottobre.

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2024)

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Mandato d’arresto dell’Aia, da Israele un coro di condanne: “È uno scandalo”

Le reazioni alla richiesta del procuratore Khan: “Veniamo messi sullo stesso piano degli abominevoli mostri nazisti di Hamas”.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME — Indignazione bipartisan. Israele accoglie la notizia della richiesta dei mandati d’arresto della Corte penale internazionale per i suoi leader, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, con un coro di condanne che attraversa l’arco politico e lascia sdegnati anche i critici più intransigenti dell’attuale governo.
  «Questa decisione è uno scandalo. Non ci fermerà», la reazione di Netanyahu. «Qui c’è un tentativo di negare la legittimità dello Stato ebraico a difendersi. Stanno cercando di imporci limiti che non sono stati mai dati a nessun altro esercito. È un tentativo di legarci le mani, cosa che mette in pericolo il nostro futuro e la nostra esistenza. Dobbiamo resistere uniti contro questa macchia».
  A scatenare la rabbia israeliana è stata anche l’equiparazione tra i propri leader e quelli di Hamas, organizzazione ufficialmente classificata come terrorista dalla maggior parte delle nazioni occidentali.
  «Mentre gli assassini e violentatori di Hamas stanno continuando a commettere crimini contro l’umanità nei confronti dei nostri fratelli e sorelle, il procuratore capo mette sullo stesso piano il primo ministro e il ministro della Difesa di Israele e gli abominevoli mostri nazisti di Hamas», il commento del Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz in una nota. Mentre il Ministro della Giustizia Yariv Levin ha parlato apertamente di decisione motivata da antisemitismo e odio antiebraico.
  Dal tenore simile sono state anche le parole di Benny Gantz, che attualmente sostiene la maggioranza ed è membro dello speciale gabinetto di guerra formatosi dopo il 7 ottobre, ma solo due giorni fa aveva presentato a Netanyahu un duro ultimatum, accusando il premier di condurre il conflitto sulla base di considerazioni politiche in contrasto con gli interessi del paese.
  «Con Israele che combatte seguendo uno dei codici morali più severi della storia, nel rispetto del diritto internazionale e vantando un robusto sistema giudiziario indipendente, tracciare un parallelo tra i leader di un paese democratico determinato a difendersi dal terrorismo più spregevole e i leader di un’organizzazione terroristica assetata di sangue è una profonda distorsione della giustizia e un segno di evidente bancarotta morale», ha detto Gantz, che si è spinto a descrivere l’annuncio del procuratore capo della corte «un crimine di proporzioni storiche».
  Anche il capo dell’opposizione Yair Lapid ha duramente condannato la richiesta dei mandati d’arresto.
  «Non è possibile emettere mandati di arresto contro Netanyahu, Sinwar e Deif (leader di Hamas, ndr)», ha detto Lapid. «Un paragone del genere non può esistere, non possiamo accettarlo ed è imperdonabile», ha aggiunto, parlando di «terribile fallimento politico». Lapid, come anche il parlamentare del Likud Danny Danon, hanno espresso l’auspicio di un intervento americano per fermare gli sviluppi successivi in seno alla corte internazionale.
  Anche il Forum delle Famiglie degli Ostaggi, che da mesi critica l’operato del governo per quanto riguarda la gestione del conflitto ha espresso il suo disappunto, dichiarando il proprio “disagio” per l’equivalenza tracciata tra la leadership israeliana e i terroristi di Hamas.
  Una dichiarazione di condanna dell’Aja è stata sottoscritta da 106 parlamentari su 120. A non firmare i rappresentanti dei partiti arabi. «Netanyahu è l’unico capo di governo sotto processo nel proprio paese e fuori. Vale la pena di rifletterci», ha dichiarato il deputato Ahmad Tibi.

(la Repubblica, 21 maggio 2024)


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La scandalosa richiesta di mandato d’arresto contro Netanyahu e Gallant

di Ugo Volli

• Il mandato d’arresto e le reazioni La notizia era stata largamente anticipata già da tre settimane e c’erano già stati numerosi tentativi di scongiurarla; ma è esplosa comunque ieri, oscurando anche la morte del presidente iraniano Raisi. Il mandato di arresto emesso dal procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan contro il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant e contemporaneamente contro tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif) ha suscitato scandalo non solo in Israele, ma molto largamente nel mondo. Contro il mandato e soprattutto l’implicita equiparazione dei più importanti politici israeliani con i capi terroristi e quindi implicitamente di Israele con Hamas si sono espressi fra gli altri il presidente americano Biden (“una richiesta scandalosa”) il segretario di Stato Blinken, il ministro degli esteri e quello della difesa britannico. il primo ministro della repubblica ceca (“proposta scandalosa e inaccettabile”), il governo austriaco. Diversi membri autorevoli del Congresso americano hanno chiesto sanzioni contro il tribunale.

• La due corti
  Bisogna sapere che a L’Aya in Olanda vi sono due tribunali internazionali. Uno è la Corte di Giustizia Internazionale, davanti a cui il Sudafrica ha citato alcuni mesi fa Israele per “genocidio”. La corte ha respinto in quel momento la richiesta di provvedimenti contro lo Stato ebraico, riservandosi di deliberare sulla denuncia in seguito, ma in questi giorni vi si discute una nuovo ricorso del Sudafrica che chiede di proibire urgentemente la continuazione della guerra per impedire l’operazione a Rafah. Questa corte è un organo dell’Onu e giudica su conflitti fra gli stati che ne sono membri, in particolare rispetto alla convenzione contro il genocidio; ma non ha potere sulle persone. La Corte Penale Internazionale (CPI) è invece un organismo autonomo, istituito dal “Trattato di Roma” (1998) che ha giurisdizione solo sugli stati che l’hanno ratificato (non Usa, Russia, Cina, India e neppure Israele) per individui imputati di crimini contro l’umanità o crimini di guerra, a patto che il loro stato non abbia o non sia disposto ad applicare un procedimento giudiziario con adeguate garanzie. Entrambi questi elementi (mancata firma del trattato ed esistenza di un agguerrito sistema penale in Israele) escluderebbero la possibilità di azione per la CPI e il suo procuratore. C’è stata invece una forzatura, la cui natura politica è chiara, come si vede anche dalle dichiarazioni di Khan.

• Quel che ha detto il procuratore Khan
  “Se i mandati di arresto venissero concessi – ha detto Khan – Netanyahu e Gallant dovrebbero affrontare l’accusa di far morire di fame i civili come metodo di guerra, causando intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute, e uccisioni intenzionali.” Le accuse includerebbero anche: “Sterminio e/o omicidio, anche nel contesto di morti causate dalla fame, come crimine contro l’umanità”, ha spiegato. “Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati sono stati commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile palestinese in conformità con la politica dello Stato. Questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi. Il mio ufficio sostiene che questi atti sono stati commessi come parte di un piano comune volto a utilizzare la fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la popolazione civile di Gaza come parte della strategia di Israele per distruggere Hamas e fare pressione sul gruppo affinché rilasci gli ostaggi e anche per punire collettivamente la popolazione civile di Gaza, che percepivano come una minaccia per Israele”. Chiunque abbia un minimo di informazione imparziale sulla guerra, per esempio sugli sforzi di condurla senza danneggiare la popolazione civile e di rifornirla dei beni necessari in vari modi, capisce che il quadro di Khan è del tutto irreale.

Le reazioni israeliane
  Quasi tutti in Israele hanno respinto con indignazione la richiesta di Khan. La Knesset, il parlamento israeliano ha approvato a grandissima maggioranza, 106 su 120 con la sola eccezione dei partiti arabi e dei laburisti, questa dichiarazione: “”Lo Stato di Israele è nel mezzo di una guerra giusta contro un’organizzazione criminale terroristica. L’IDF è l’esercito più morale del mondo. I nostri eroici soldati stanno combattendo con coraggio e dedizione che non hanno secondi, secondo il diritto internazionale, come nessun altro esercito lo ha mai fatto. Lo scandaloso paragone del procuratore dell’Aia tra i leader israeliani e i capi delle organizzazioni terroristiche è un crimine storico incancellabile e una chiara espressione di antisemitismo. Nessuno potrà impedire allo Stato ebraico di difendersi.” Si sono espressi nello stesso senso anche il presidente Herzog, il ministro degli esteri Katz, il ministro Gantz e molti altri.

• Il commento di Netanyahu
  Il primo ministro Netanyahu ha fatto una dichiarazione televisiva in cui ha detto fra l’altro: “L’ordinanza assurda e falsa del Procuratore dell’Aia non è diretta solo contro il Primo Ministro israeliano e il Ministro della Difesa, ma è diretta contro l’intero Stato di Israele. È diretta contro i nostri soldati, che stanno combattendo con supremo eroismo contro i vili assassini di Hamas, che ci hanno attaccato con terribile crudeltà il 7 ottobre. Procuratore dell’Aia, con quale audacia osi paragonare i mostri di Hamas ai soldati dell’esercito più morale del mondo? Con quale audacia confronti Hamas che ha ucciso, bruciato, massacrato, violentato e rapito i nostri fratelli e sorelle, e i soldati che stanno combattendo una guerra giusta che non ha eguali in fatto di moralità? In qualità di Primo Ministro israeliano, respingo con disgusto il paragone del Procuratore dell’Aia tra l’Israele democratico e gli assassini di massa di Hamas. Questa è una completa distorsione della realtà. Questo è esattamente l’aspetto del nuovo antisemitismo, che si è spostato dai campus dell’Occidente al tribunale dell’Aia. Cittadini israeliani, Vi prometto una cosa: il tentativo di legarci le mani fallirà. 80 anni fa il popolo ebraico era indifeso contro i nostri nemici, ma ora non più.”

(Shalom, 21 maggio 2024)


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Il mandato d'arresto a Netanyahu serve a fare d'Israele l'“ebreo fra le nazioni”

Il procuratore capo della Corte penale internazionale ha chiesto alla Camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto contro il premier israeliano, il ministro della Difesa di Israele, il capo di Hamas a Gaza e in esilio e quello delle Brigate al Qassam a Gaza. Per la Corte, pari sono.

di Giulio Meotti

Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, Yahiya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif. Il premier e il ministro della Difesa di Israele, il capo di Hamas a Gaza e in esilio e quello delle Brigate al Qassam a Gaza. Pari sono. Il procuratore capo della Corte penale internazionale, l’inglese di origine pakistana Karim Khan, ha chiesto alla Camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto contro i cinque.  Il procuratore Khan ha dichiarato che le accuse a carico dei leader di Hamas riguardano “sterminio, omicidio, presa di ostaggi, stupro e violenza sessuale durante la detenzione”, mentre quelle a carico di Netanyahu e Gallant consistono nell’aver “causato lo sterminio, la fame come metodo di guerra” e nell’aver “colpito deliberatamente i civili”. Un capolavoro di equivalenza morale. 
  “Mentre gli assassini e gli stupratori di Hamas commettono crimini contro l’umanità a danno dei nostri fratelli e sorelle, il pubblico ministero dell’Aja cita nella stessa frase il primo ministro e il ministro della difesa israeliani insieme ai vili mostri nazisti di Hamas: una vergogna storica che sarà ricordata per sempre”, il commento del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz. Il presidente d’Israele, Isaac Herzog, ha detto che qualsiasi azione del genere “servirebbe solo a legare le mani di tutte le nazioni libere e democratiche nella lotta contro il terrorismo, e deve essere contrastata con determinazione”. Anche il ministro Benny Gantz ha criticato l’Aia: “Israele sta conducendo una guerra giusta a seguito del vergognoso massacro perpetrato dai terroristi Hamas il 7 ottobre. Mentre Israele combatte con uno dei codici morali più severi della storia, nel rispetto del diritto internazionale e vantando un robusto sistema giudiziario indipendente, tracciare un parallelo tra i leader di un paese democratico determinato a difendersi dal terrorismo e i capi di un’organizzazione terroristica sanguinaria è una profonda distorsione della giustizia e un palese fallimento morale. La posizione del procuratore capo  è di per sé un crimine di proporzioni storiche da ricordare per generazioni”. 
  “È un po’ come se un tribunale internazionale avesse emesso un mandato d’arresto contro Winston Churchill per i bombardamenti su Dresda e Amburgo e non contro Adolf Hitler, il più spregevole mostro umano che l’umanità ha conosciuto” ha commentato su Yedioth Ahronoth Ben Dror Yemini. Il procuratore dell’Aia emette mandati per Israele e Hamas, ponendoli sullo stesso piano, nonostante le tonnellate di aiuti che ogni giorno entrano a Gaza e tutti i modi impiegati da Israele per avvertire la popolazione di Gaza di un attacco militare (telefonate, sms, volantini, apertura di corridoi umanitari da nord a sud). 
  Israele ha sperimentato per la prima volta il peso della giurisdizione internazionale nel 2001, quando in Belgio è stato emesso un mandato di arresto contro Ariel Sharon e l’ex capo di stato maggiore Raphael Eitan. Nel 2015 l’alto magistrato della Audiencia nacional spagnola, José de la Mata, ha ordinato alla polizia e alla guardia civil di arrestare Netanyahu e altri sei ex ministri se fossero entrati in territorio spagnolo. Dietro questi mandati d’arresto ci sono magistrati zeloti dal forte pregiudizio antisraeliano e gruppi di pressione filopalestinesi che avanzano le cause nei tribunali. Per evitare l’arresto a Londra, la leader dell’opposizione laburista israeliana, Tzipi Livni, aveva dovuto farsi dare l’immunità diplomatica dal governo. Se fosse andata in Inghilterra in “visita personale”, un magistrato avrebbe spiccato il mandato d’arresto. Mandati d’arresto furono spiccati in Belgio per Ariel Sharon. Il generale Doron Almog stava arrivando a Londra con un volo della El Al, quando l’ambasciata lo avvertì che c’era un ordine di arresto emesso da un magistrato per “violazioni della Convenzione di Ginevra”. Almog non scese neppure dall’aereo e Downing Street fu costretta a scusarsi. Anche l’ex direttore dei servizi segreti, Avi Dichter, ha dovuto rinunciare a una conferenza, mentre Aviv Kokhavi, capo di stato maggiore, ha cancellato una conferenza in un’accademia militare britannica. Finora questi tentativi di arresto erano stati vani. Adesso hanno il blasone del procuratore capo dell’Aia. 
  A differenza dei capi di Hamas, chiusi nei loro tunnel di Rafah e negli hotel di lusso di Doha, da dove ripetono che rifarebbero il 7 ottobre “ancora e ancora”, in spregio a ogni morale o diritto, irridendo mandati d’arresto o condanne internazionali, i politici israeliani devono potersi muovere, viaggiare e lavorare e i mandati di cattura hanno l’obiettivo di intimidire lo stato ebraico. Farne un paria. L’ebreo fra le nazioni.

Il Foglio, 20 maggio 2024)

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Ci protegge Dio?

Lo fa solo a volte? Perché non sempre?

di Rabbi Yossy Goldman

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Ebrei ortodossi esaminano i resti di un missile sparato dall'Iran vicino alla città meridionale israeliana di Arad, 28 aprile 2024

È stata una turbolenta corsa sulle montagne russe emotive in Israele e nell'intero mondo ebraico: commemorazioni, momenti di silenzio e poi di nuovo celebrazioni, anche se attenuate e piuttosto sommesse alla luce delle difficili circostanze attuali.
Nel brano settimanale Emor, leggiamo le regole di comportamento prescritte per i Kohanim, la tribù sacerdotale. Non possono entrare in contatto con i morti e le loro opportunità di matrimonio sono più limitate rispetto alla media degli israeliti.
Troviamo anche il comandamento del Kiddush Hashem. Ogni ebreo, non solo un Kohen, è tenuto a santificare il nome di Dio. A volte questo significa rinunciare alla propria vita per la fede, come hanno fatto milioni di nostri fratelli nel corso dei secoli. Per la maggior parte di noi, tuttavia, significa comportarsi in modo da lodare il Dio di Israele. Quando agiamo in modo moralmente, eticamente e rettamente, siamo generalmente rispettati dalle persone e questo porta onore al nostro Dio e alla nostra fede.
Fin dalla prima rivelazione al roveto ardente, Dio disse a Mosè che dovevamo diventare un "regno di sacerdoti e una nazione santa". Se siamo stati all'altezza di questa chiamata, siamo stati davvero una "luce per le nazioni".
Oggi Israele si trova di fronte a un mondo in cui l'ipocrisia ha raggiunto livelli senza precedenti. L'intero pianeta sembra aver perso la bussola morale e, francamente, la ragione. Persino i nostri amici ci fanno pressione, ci minacciano e ci ricattano.
Ma dobbiamo fare quello che dobbiamo fare. Tutte le centinaia di preziose giovani vite che sono state stroncate saranno state vane se non finiamo il lavoro a Gaza?
Le cose sembrano molto confuse. Da un lato, abbiamo assistito di recente alla mano incredibilmente miracolosa di Dio che ci ha protetto da più di 300 attacchi missilistici e di droni da parte dell'Iran. Il tasso di successo del 99,9% della nostra difesa non può essere spiegato militarmente o scientificamente. D'altra parte, abbiamo perso centinaia dei nostri migliori e più coraggiosi difensori. Dov'era Dio? C'è forse una contraddizione?
Siamo in una guerra esistenziale in cui è in gioco la nostra stessa sopravvivenza.
La domanda è: siamo al sicuro o no? Dio ci protegge o no?
Penso al 1991 e alla guerra del Golfo. Saddam Hussein, che oggi ricordiamo a malapena, minacciava Israele con i suoi micidiali missili Scud e persino con armi chimiche. Israele distribuì maschere antigas a tutti i suoi cittadini in caso di attacco chimico da parte del feroce dittatore.
L'Iraq aveva invaso il Kuwait. Gli Stati Uniti avevano intimato all'Iraq di ritirarsi e gli avevano dato una scadenza. Non era una nostra battaglia. Israele non ha confini con l'Iraq e la guerra non aveva nulla a che fare con Israele. Eppure Saddam ci ha minacciato e l'America ha dotato Israele del sistema di difesa missilistico Patriot e ci ha chiesto di starne fuori. Gli Stati Uniti si sarebbero occupati dell'Iraq.
Lo fecero, ma non prima che l'Iraq avesse lanciato decine di missili Scud contro Israele. Miracolosamente, non ci fu nemmeno una vittima.
Ricordo chiaramente come l'intero mondo ebraico fosse pietrificato in quel momento. Nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, compresa la nostra, si tennero incontri di preghiera e campagne di raccolta fondi per Israele.
Tuttavia, c'era una voce solitaria nel deserto che dichiarava che Israele era al sicuro e sarebbe stato al sicuro da tali attacchi. Il rabbino Menachem Mendel Schneerson, il Rebbe di Lubavitch, si spinse oltre e disse al governo israeliano che le maschere antigas non sarebbero state necessarie. E aveva ragione.
Qui in Sudafrica, la Federazione Sionista organizzò una missione di solidarietà in Israele. Il Rebbe ci incoraggiò a partecipare e diversi colleghi Chabad mi accompagnarono, insieme al defunto rabbino capo Cyril Harris. Ho portato con me anche mia figlia Zeesy, di 12 anni. Era il membro più giovane della missione.
Personalmente credo che Israele sia stato miracolosamente protetto da Dio dagli Scud iracheni perché Israele si stava semplicemente facendo gli affari suoi. È stato attaccato senza alcun motivo. Non avevamo fatto nulla per mettere a rischio la nostra sicurezza. Il guardiano celeste di Israele ha risposto di conseguenza.
Allo stesso modo, eravamo un bersaglio del tutto innocente nel recente attacco iraniano. Non abbiamo confini con l'Iran e loro non hanno alcuna giustificazione per interferire. Quindi non abbiamo avuto nemmeno una vittima. Anche in questo caso, Dio ha miracolosamente vegliato su di noi.
Ma se commettiamo errori strategici nelle nostre azioni contro Hamas, se permettiamo che le pressioni internazionali e l'opinione pubblica mettano a repentaglio la vita dei nostri coraggiosi giovani soldati, se non sganciamo bombe e mandiamo invece i soldati in edifici con trappole esplosive, allora abbiamo tragicamente delle vittime.
Una cosa è vantarsi di essere l'esercito più morale del mondo (e lo siamo), ma è saggio dire in anticipo ai nostri nemici quando e dove li attaccheremo? Saremo giudicati se lo faremo, e giudicati se non lo faremo. I nostri nobili gesti senza precedenti sono completamente ignorati dal mondo e siamo ancora accusati di genocidio. Non dovremmo quindi proteggere i nostri innocenti e preziosi ragazzi dal male?
Mi piace citare il padre fondatore di Israele e primo Primo Ministro David Ben-Gurion, che una volta disse: "Non importa cosa dice il mondo. Ciò che conta è quello che fanno gli ebrei". È proprio vero.
Credo che quando noi facciamo ciò che dobbiamo fare, Dio fa ciò che deve fare. Che possiamo meritare ora e sempre la Sua protezione divina e che i nostri difensori siano completamente sicuri e vincenti.
Ti prego Dio, praticheremo il Kiddush Hashem comportandoci come nobili esempi di umanità e non come martiri in una guerra in cui a volte sembra che combattiamo con le mani legate dietro la schiena. Sei milioni di martiri sono stati sufficienti. Non uno di più, per favore Dio.

(Israel Heute, 20 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«Il libro nero di Hamas. Le radici profonde dell'antisemitismo e il miraggio dei due Stati»

Di questo libro abbiamo riportato pochi giorni fa la demolizione che ne ha fatto David Elber di un capitolo dal titolo «L’errore di Israele: i coloni e il revanscismo biblico». Dello stesso libro riportiamo adesso un capitolo in cui l’autore dà il meglio di se stesso sottolineando che per lui la vera causa dell’insolubilità del conflitto israelo-palestinese si trova in un irriducibile «antisemitismo islamico che arriva sino al punto di negare agli ebrei le ragioni e la dignità di costituirsi in nazione, e addirittura di avere mai avuto un biblico Regno di Israele».

di Carlo Panella

Il conflitto israelo-palestinese è l'unico tra i molti nati nel Novecento che non sia mai stato risolto con una trattativa, con un compromesso. Lunga più di un secolo e molto complessa è la sua storia e in molti hanno ricostruito le vicende intricate, i pogrom, le guerre e le stragi che l'hanno caratterizzata.
Il mio scopo è illustrare e motivare una tesi di fondo che spiega tutti gli avvenimenti: l'ostacolo fondamentale che ha impedito una composizione del conflitto attraverso la trattativa non è stata l'intricata questione della Terra, la complessa vicenda di due nazionalismi in urto. Questi sono stati elementi assolutamente presenti, ma di fatto e purtroppo secondari.
L'ostacolo vero, insuperato e difficilmente superabile è in un irriducibile antisemitismo islamico di parte araba e palestinese che non è intriso solo di odio, ma che arriva sino al punto di negare agli ebrei le ragioni e la dignità di costituirsi in nazione, e addirittura di avere mai avuto un biblico Regno di Israele. Un antisemitismo islamico che incredibilmente nega le radici ebraiche in Israele.
  Un antisemitismo islamico che accusa gli ebrei di avere sempre combattuto sin dai tempi della Bibbia inesistenti tribù arabe che avrebbero abitato la Palestina. Un antisemitismo islamico che arriva sino al punto di negare, come è storicamente inconfutabile, che sulla Spianata delle Moschee sorgeva il Tempio ebraico. Che riscrive la storia affermando che Gerusalemme è sempre stata araba e islamica, mai città ebraica. Un'assurdità totale, che irride alla storia reale, ma che è piantata nelle coscienze palestinesi e islamiche che vogliono liberare con le armi al Qods, Gerusalemme, da una presenza ebraica che incredibilmente ritengono abusiva e offensiva. Una faccia fondamentale dell'antisemitismo islamico ignorata e sottovalutata in Occidente.
  Se si vuole comprendere la logica profonda, carsica, del conflitto e se si vuole capire la logica perversa di Hamas, più che ricostruire la dinamica dei tanti fatti, conflitti e guerre, è indispensabile andare sotto la superficie degli avvenimenti e studiare, sondare, ricostruire le fasi di formazione nella tradizione musulmana di un punto focale e profondo che caratterizza anche larga parte dell'islam contemporaneo: l'antisemitismo islamico incarnato come non mai da Hamas e dal suo pogrom del 7 ottobre 2023.
  Un antisemitismo che ha enucleato mille e quattrocento anni fa nella tradizione islamica il dogma perverso del complotto ebraico come origine di tutte le fratture che si sono verificate nella comunità musulmana. Dogma del complotto ebraico poi fuso, già al tempo delle Crociate, con una tradizione antisemita cristiana che accusava sino ad allora gli ebrei dell'opposto: di avere pubblicamente, nel Sinedrio, urlato Crucifige! e poi di non avere, sempre pubblicamente, riconosciuto nel Cristo il Messia.
  Un antisemitismo basato sul dogma di un complotto ebraico coloniale e imperialista che oggi si è radicato miserevolmente in tante università occidentali, in tante manifestazioni oceaniche antisraeliane e in tanta, troppa parte, dell'opinione pubblica.
  L'antisemitismo islamico afferma che l'Ultimo Giorno verrà solo quando l'ultimo ebreo sulla faccia della terra sarà ucciso, là dove, all'opposto, il cristianesimo, da San Paolo e Sant'Agostino in poi, predice che il Giudizio Universale verrà quando l'ultimo ebreo sarà convertito, in pace.
  Un antisemitismo feroce che ha portato il Gran Mufti di Gerusalemme, indiscusso leader dei palestinesi dal 1920 al 1948, a condividere in pieno nei suoi colloqui con il suo alleato Hitler lo sterminio di milioni di ebrei. Così, il 21 gennaio 1944 ha esortato le Ss musulmane di Bosnia che aveva fondato e organizzato: La Germania nazionalsocialista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice: Voi vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani.
  Un antisemitismo islamico che è assolutamente l'unica spiegazione del rifiuto arabo di accettare nel 1947 e oltre persino la fondazione uno Stato di Palestina, perché previsto a fianco di uno Stato di Israele.
  Reiterate le proposte formali di fondazione di uno Stato di Palestina nel 1936 e nel 1939, da parte della Gran Bretagna, nel 1947, da parte dell'Onu, nel 1967, nel 2000, nel 2001 e nel 2008 da parte dei governi dello Stato di Israele. Tutte e sempre rifiutate da parte araba e palestinese.
  Ribadiamo questa verità storica inconfutabile ma stranamente da tutti dimenticata: se oggi non esiste uno Stato di Palestina è solo e unicamente a causa del rifiuto arabo di fondarlo accanto allo Stato di Israele come da risoluzione ONU 181 del 1947. Tutti gli avvenimenti successivi sono stati indissolubilmente prodotti da quel rifiuto, dalle motivazioni di quel rifiuto.
  Motivazioni radicate che arrivano sino all'oggi e che oscurano le possibilità che si concluda la pace con la soluzione che tutti auspichiamo: uno Stato di Palestina, visti i precedenti totalmente demilitarizzato e bonificato dai network terroristi, a fianco dello Stato di Israele.
  Motivazioni che difficilmente saranno superate per una ragione tanto semplice e dura quanto complessa: l'odio islamico contro gli ebrei. Un odio che ha radici antiche e profonde, condiviso da larga parte, fortunatamente non da tutta, la comunità musulmana.
  L'auspicio è che le ragioni geopolitiche, economiche e di potenza che hanno portato alla stipula dei Patti di Abramo e alle trattative con l'Arabia Saudita per il riconoscimento di Israele, si consolidino e si allarghino ad altri paesi arabi e islamici e riescano a rompere la gabbia dell'antisemitismo di cui larga parte dell'islam è prigioniero.

(il Giornale, 20 maggio 2024)

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L’ultimo addio a Shani Louk, la ragazza divenuta simbolo del 7 ottobre

di Michelle Zarfati

Centinaia di persone hanno partecipato domenica al funerale della ventiduenne Shani Louk, il cui corpo è stato recuperato venerdì a Gaza da un commando israeliano, sette mesi dopo che la ragazza era stata rapita e poi uccisa dai terroristi il 7 ottobre.
Suo padre Nissim ha invitato il popolo israeliano a partecipare al funerale della figlia, che ha avuto luogo nel Moshav Srigim-LiOn, a sud di Beit Shemesh, nel centro di Israele.
Shani Louk è diventata un’icona del massacro di Hamas dopo che un video, trasmesso il 7 ottobre e attribuito al gruppo terroristico di Hamas, che mostrava il suo corpo martoriato sul retro di un camioncino bianco, i suoi capelli arruffati e sporchi di sangue e il corpo esanime. Era circondata da uomini armati e sfilava attraverso le strade Gaza.
In un messaggio, il presidente Isaac Herzog si è scusato per non essere presente al funerale, ricordando il talento di Louk nell’arte e nella musica. “La nostra leadership commette gli stessi errori più e più volte – ha detto Nissim il padre di Shani, citando Albert Einstein – Se continueremo a commettere gli stessi errori degli ultimi decenni, è probabile che ci perderemo e soprattutto che perderemo il nostro paese”
La madre di Louk, Ricarda, ha invece ricordato lo spirito indipendente di sua figlia e dell’amore per i viaggi, mentre amici e parenti hanno sottolineato come Shani riuscisse sempre a strappare sorrisi ed emanare luce ovunque andasse.
Gli elogi si sono conclusi con l’esecuzione di una canzone dal titolo “Non voglio più la guerra” che la stessa Louk aveva scritto.
La giovane ventiduenne, tatuatrice a tempo pieno, era uno spirito libero, che deteneva sia la cittadinanza israeliana che quella tedesca. Il 7 ottobre Shani stava festeggiando con gli amici al Nova Music Festival. La giovane è stata rapita il 7 ottobre e massacrata assieme a circa 360 ragazzi israeliani. Il corpo di Louk, così come quelli di Itzhak Gelernter e Amit Buskila, è stato recuperato giovedì sera durante un’operazione effettuata dai militari dell’IDF e dallo Shin Bet.

(Shalom, 20 maggio 2024)

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Il Museo di Israele ospita oggetti legati a Cristo

Il Museo d'Israele di Gerusalemme ospita un'esposizione di oggetti rari, e di grande interesse storico, chiamata "La Via dei Cristiani", che ricrea un percorso ideale nella storia della fede cristiana fin dalla sua fondazione e riflette eventi religiosi legati a Gesù Cristo.



(Christian Media Center - Italiano, maggio 2024)

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Francia – Bncva denuncia l’odio dei propal

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«Avevamo detto mai più. Varsavia, Treblinka e ora Gaza». È uno degli slogan della manifestazione che si è tenuta a Parigi negli scorsi giorni, il cui video – come riportato dal sito francese tribunejuive.info – è stato visionato dall’Ufficio nazionale di vigilanza contro l’antisemitismo, il BNCVA Bureau National de Vigilance contre l’antisémitisme. Un insulto alle vittime della Shoah, e un ulteriore preoccupante segnale di come concetti che nulla avrebbero a che fare gli uni con gli altri vengano mescolati e utilizzati in nome di un presunto sostegno ai palestinesi e della libertà di espressione. Il testo sottolinea come collegare quanto successo a Treblinka con la guerra che Hamas ha imposto a Israele massacrando il 7 ottobre civili israeliani in una azione terroristica senza precedenti sia un’azione da persone senza memoria e senza vergogna, guidate dall’odio contro gli ebrei. BNCVA ha presentato denuncia alla Procura di Parigi, chiedendo che venga avviato un procedimento penale.

(moked, 19 maggio 2024)

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Le prospettive di una guerra difficile

di Ugo Volli

• Una guerra che non finisce
  La guerra intorno a Israele prosegue ed è difficile vederne una conclusione. Ogni giorno vi sono notizie di scontri a Gaza, di attacchi missilistici dal Libano e altrove e di episodi di violenza antisemita più o meno grave ma purtroppo assai frequenti in quello che è diventato un nuovo fronte di guerra a bassa intensità contro il popolo ebraico diffusa in tutto l’Occidente, soprattutto nelle zone franche assicurate dalle università. Le truppe israeliane sono ora impegnate ad approfondire la pulizia di Gaza dai terroristi. Nei giorni scorsi c’è stata una serie importante di scontri nella città di Jabalia, nel nord della striscia in quartieri che non erano stati finora occupati e dove i terroristi si stavano riorganizzando. Ci sono stati combattimenti anche nella zona centrale dove ancora vi sono delle enclaves non controllate.

• Rafah
  Al sud l’operazione di Rafah procede per ora non come alcuni immaginavano, cioè alla maniera di una grande battaglia frontale, ma per piccoli passi, strada dopo strada. Questo accade innanzitutto perché la tattica terrorista è quella della guerriglia: fuggire e nascondersi quando si è più deboli e di uscire allo scoperto solo per compiere agguati e incursioni. Le famose rete di gallerie di Hamas serve a questo: per rifugiarvisi evitando lo scontro e per uscirne di nuovo da un’altra parte, quando sembra possibile prendere alle spalle gli israeliani. Sono state costruite per centinaia di chilometri proprio pensando a quest’uso e purtroppo funzionano. Della attica della guerriglia fa parte tra le altre cose non accettare la sconfitta, anche quando la sproporzione di forze diventa grande: basta che qualcuno continui a sparare. Vi è poi la presenza di una popolazione che volente o nolente fa da scudo umano ai terroristi e anche la pressione di alleati e terze parti che temono di pagare un prezzo politico per la vittoria di Israele e cercano di rallentarla e possibilmente di bloccarla. A Rafah poi vi è il problema dell’Egitto, che teme sia l’immigrazione di rifugiati da Gaza, fra cui si mescolerebbero i terroristi, sia il controllo israeliano del confine che potrebbe rivelare quanta complicità ci sia stata da parte egiziana per il loro armamento. È un coinvolgimento che sembrava escluso per l’appartenenza di Hamas alla Fratellanza Musulmana, che in Egitto è nemica di Al Sisi e anche per le operazioni propagandistiche esibite anni fa dall’esercito egiziano sommergendo con acqua e liquami qualche tunnel di contrabbando. Ma le truppe israeliane, avanzando verso il centro di Rafah dal corridoio “Filadelfia” che segna il confine, hanno trovato finora almeno 50 gallerie transfrontaliere attive. Ce ne sono indubbiamente molte altre, fra cui quelle in cui sono tenuti prigionieri i rapiti ancora vivi, o accatastati i loro corpi, se sono stati uccisi.

• I venditori di cadaveri
  Venerdì l’esercito israeliano ha denunciato di aver trovato nei tunnel ispezionati tre corpi di rapiti del 7 ottobre, uccisi poco dopo il pogrom e trattenuti dai terroristi. A quanto pare è in corso un’ispezione vasta nei cimiteri di Rafah con il sospetto di trovarne degli altri nascosti in questa maniera. Al di là della barbarie del pogrom, degli stupri, delle stragi, dei rapimenti condotti non solo dai terroristi inquadrati da Hamas ma anche da “civili innocenti”, emerge ora quest’altro orrore del trattenere le salme per venderle poi in cambio di un prezzo politico o militare. Non a caso nella proposta di Hamas della proposta di cessate il fuoco si parlava di “ostaggi vivi o morti”. Si volevano commerciare le salme degli assassinati. Agli occhi degli occidentali, non solo degli ebrei, questo dovrebbe essere l’abominio assoluto, già descritto in opere come “Antigone” o quel brano dell’ “Iliade” in cui il padre di Ettore si inginocchia davanti a chi l’ha ucciso per averne indietro il corpo straziato; e anche l’ira di Achille cede alle ragioni dell’umanità. Ma il commercio di salme è un costume che i terroristi islamici hanno praticato spesso e con la massima crudeltà: a Gaza in questa e altre operazioni ma anche in Siria (Ron Arad ed Elie Cohen). È un tema che gli apologeti del terrorismo non sfiorano mai, anche se proclamano di avere ragioni etiche; ma che dà un’idea precisa del livello morale dei loro eroi.

• La situazione attuale
  La guerra a Gaza si è insomma diluita e cronicizzata. È impossibile concluderla senza aver eliminato il potere militare di Hamas, perché il terrorismo ne trarrebbe la conseguenza di poter progettare subito altri 7 ottobre, ma per farlo non basta eliminare le sue maggiori formazioni militari e le fortificazioni sotterranee, occorre controllare il territorio, anche se magari nella forma che lo stato maggiore dell’esercito israeliano ha scelto, cioè entrare nella Striscia, bonificare una zona e poi staccarsene e uscire per non offrire bersagli al terrorismo. In fondo è quello che le forze di sicurezza israeliane fanno da anni in Giudea e Samaria e funziona. Ciò naturalmente esclude il piano per il dopoguerra condiviso da americani e da alcuni politici israeliani, cioè chiudere a un certo punto l’operazione e affidare il territorio a forze palestinesi, anche se non di Hamas (cioè per forza l’altro grande movimento, anch’esso terrorista, che controlla l’Autorità Palestinese, cioè Al Fatah). Come ha spiegato Netanyahu sostituire un Hamastan con un Fatahstan non è affatto una soluzione, perché le cose continuerebbero come prima. Del resto l’ala militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, continuano a rivendicare la loro partecipazione al 7 ottobre. E dunque bisogna pensare che ci sarà a Gaza ancora una fase abbastanza lunga di caccia ai terroristi, e poi una situazione in cui comunque l’esercito dovrà aver via libera per impedire ogni nuova concentrazione delle loro forze.

• Il nord
  Nel frattempo però si sta lentamente ma progressivamente scaldando il fronte settentrionale, dove Hezbollah ha forze ben più ingenti di quelle di Hamas, in Israele vi sono centinaia di migliaia di sfollati dai centri della Galilea e l’esercito israeliano schiera le proprie migliori unità pronte per intervenire. Gli scambi di colpi ora vanno in profondità e comportano salve di decine di missili. Non è un bel pensiero, ma forse la fase più difficile della guerra deve ancora incominciare. Perché non si tratta di un conflitto fra Israele e Hamas, ma di un’aggressione coordinata e ben pianificata contro lo stato ebraico da parte di un grande schieramento guidato dall’Iran. E che siano stati annunciati ieri dei “colloqui indiretti” fra Usa e Iran in corso in Oman che dovrebbero riguardare “l’equilibrio del Medio Oriente”, lascia molte perplessità e molti sospetti.

(Shalom, 19 maggio 2024)

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Israele e il Messia – percorsi paralleli (5)

La riabilitazione di Israele profetizzata nelle parole del profeta Geremia è cominciata a realizzarsi con la venuta del Messia Gesù.

di Gabriele Monacis

L’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica, è quello delle Cronache, un libro che comincia con una lunga genealogia che parte da Adamo, continua con Abraamo e poi elenca i diversi discendenti del popolo di Israele, divisi per le dodici tribù, fino a quelli che si insediarono nuovamente a Gerusalemme dopo la deportazione in Babilonia. Dopo questa lunga genealogia, le Cronache raccontano il periodo della monarchia di Israele, che finì con la deportazione in Babilonia. La parte narrativa inizia dalla morte di re Saul e prosegue con il regno di Davide, che occupa gran parte della prima suddivisione del libro, quello che comunemente viene chiamato “primo libro delle Cronache”. In questo primo libro, un’attenzione particolare è dedicata ai preparativi del re Davide in vista della costruzione del tempio, con il censimento dei Leviti, la suddivisione dei cantori, l’istituzione dei portinai del tempio e altre iniziative, affinché tutto fosse pronto per quando il tempio sarebbe stato edificato.
  Il secondo libro delle Cronache inizia con il regno di Salomone, diventato re dopo la morte di suo padre Davide. Buona parte dei capitoli che raccontano il suo regno, è dedicata all’edificazione e alla consacrazione del tempio per mano del re Salomone. Dopo la sua morte, il regno viene diviso in due regni, quello di Israele a nord e quello di Giuda a sud. Dopodiché, la narrazione si concentra quasi esclusivamente sui re di Giuda che susseguirono a Salomone. In questi capitoli, l’attenzione è posta in particolare su ciò che questi re fecero nel tempio o per il tempio: restauri, profanazioni, purificazioni e altro. Anche nel secondo libro delle Cronache, il tempio, la casa dove l’Eterno dimorò in mezzo al Suo popolo, ha un ruolo centrale.
  Nell’ultimo capitolo delle Cronache, durante il regno dell’ultimo re di Giuda, Sedechia, avvenne ciò che il profeta Geremia aveva profetizzato che sarebbe accaduto se il re, i capi dei sacerdoti e il popolo non avessero abbandonato i propri peccati e non si fossero convertiti all’Eterno, Dio di Israele.

    I Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi. E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia (affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni (2 Cronache 36:19-21).

Il tempio di Salomone venne dunque distrutto dai Caldei. Ma il Tanach si conclude con due versetti dopo questi, cioè con l’adempimento della Parola del Signore per bocca di Geremia. Trascorsi i settant’anni da lui profetizzati, infatti, i figli di Israele poterono tornare nella loro terra, per ricostruire il tempio. Non è un caso, dunque, che il libro delle Cronache si concluda proprio con questa prospettiva: la ricostruzione della casa dell’Eterno come Sua dimora in mezzo al Suo popolo.
  Anche il Nuovo Testamento, come l’ultimo libro del Tanach, inizia con una genealogia, quella di Gesù Cristo, suddivisa in tre periodi storici con quattordici generazioni ciascuna: da Abraamo a Davide, da Davide alla deportazione in Babilonia e da quest’ultima a Gesù Cristo. Il tema con cui si conclude il Tanach, cioè il ristabilimento di Israele dopo l’esilio, sembra essere il tema che permea anche questa nuova genealogia, per anticipare il nuovo ristabilimento di Israele con Gesù Cristo. Questa volta non solo nella sua terra, ma con la sua storia.
  E come il ritorno da Babilonia ha comportato la ricostruzione della casa dell’Eterno, così Gesù Cristo, che nasce come figlio di Davide e figlio di Abraamo, diventa il figlio di Israele che incarna la dimora di Dio in mezzo al Suo popolo, secondo quella che era la Sua volontà fin dal Sinai: abitare in mezzo ai figli di Israele. In Gesù Cristo, però, ciò non è avvenuto in un’abitazione a mo’ di quelle degli uomini, ma è avvenuto in un uomo vero e proprio, in carne ed ossa.
  C’è ancora un altro aspetto che collega l’inizio del Nuovo Testamento con la fine del Tanach, ed è legato alle parole di Geremia riportate nel vangelo di Matteo. Alla fine del libro delle Cronache, questo profeta viene menzionato più di una volta, per mostrare che si era adempiuta la Parola del Signore detta per bocca di Geremia: sia quando Israele fu esiliato in Babilonia per settant’anni, sia quando Israele tornò nella sua terra dopo i settant’anni di esilio (vedi Geremia 29:10).
  Nei primi due capitoli del vangelo di Matteo, proprio all’inizio del Nuovo Testamento, per ben cinque volte al lettore è ripetuto che quei fatti avvennero per adempiere ciò che dissero i profeti dell’Antico Testamento. Per esempio: “affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta (1:22, 2:15) – o dei profeti (2:23)”; oppure: “poiché così è scritto per mezzo del profeta (2:5)”. Ma solo in un caso, il profeta viene chiamato per nome. “Allora si adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia” (2:17).
  L’espressione “per bocca di Geremia” si trova in questo versetto del secondo capitolo del Nuovo Testamento e due volte negli ultimi tre versetti del Tanach (2 Cronache 36:21-23). Questa ripetizione crea un ponte tra la continuazione della storia di Israele nel vangelo di Matteo e la storia di Israele passata, vista attraverso gli occhi del profeta Geremia. L’evento che collega la storia passata di Israele, la profezia di Geremia e la storia del vangelo, è un triste evento accaduto qualche tempo dopo la nascita di Gesù. Il re Erode, essendo stato informato che a Betlemme era nato il Messia, per paura che questi diventasse re al suo posto, fece uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e nel suo territorio, dall’età di due anni in giù. Questo evento tragico riporta il lettore a ciò che accadde ai primordi del popolo di Israele, quando il faraone d’Egitto decise di far annegare nel Nilo ogni figlio maschio che sarebbe nato tra i figli di Israele.
  La parola profetica, che cronologicamente si inserisce tra questi due eventi storici in parallelo e che viene adempiuta dalla strage di Betlemme ordinata da Erode dopo la nascita di Gesù, è ciò che fu detto per bocca del profeta Geremia:

    “Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più” (Matteo 2:18).

In che modo ciò che successe in quei tragici giorni a Betlemme adempì quello che fu detto per bocca di Geremia alcuni secoli prima? E perché viene tirata in ballo Rachele, che piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata?
  Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto considerare il contesto del capitolo 31 di Geremia da cui è preso il versetto qui citato dal vangelo di Matteo (Geremia 31:15). Il tema ricorrente nel capitolo 31 di Geremia, è la ricostruzione del popolo di Israele a seguito della sua devastazione, la gioia che essi provarono dopo il lutto, il popolo viene riunificato in un unico luogo dopo essere stato deportato fino alle estremità della terra. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno dice:

    Avverrà che, come ho vegliato su di loro per sradicare e per demolire, per abbattere, per distruggere e per nuocere, così veglierò su di loro per costruire e per piantare” (Geremia 31:28).

Geremia 31 parla dunque di una nuova fase storica del popolo di Israele: la riabilitazione di Israele dopo la sua demolizione. In questa nuova fase, l’Eterno promette un nuovo patto con la casa di Israele e con la casa di Giuda. Un patto che non sarà come quello stabilito all’uscita dall’Egitto e che essi violarono. Questo nuovo patto prevede che l’Eterno metterà la Sua legge nel loro intimo e la scriverà sul loro cuore. Egli sarà il loro Dio ed essi saranno il Suo popolo (31:31-33). In questa nuova fase, si raggiungerà un grado di avvicinamento tra Dio e il suo popolo che non ha pari nella storia di Israele.
  Ecco il motivo per cui il vangelo di Matteo riporta ciò che fu detto per bocca di Geremia: per affermare che quella fase di riabilitazione è iniziata con la nascita di Gesù Cristo. Come il popolo di Israele, impersonificato dalla figura di Rachele, pianse la deportazione dei suoi figli ai tempi di Geremia, a seguito della conquista operata dai Caldei, così piansero anche le madri di Betlemme e dintorni quando il re Erode fece uccidere i loro figli maschi al di sotto dei due anni. 
  Ma l’adempimento delle parole di Geremia non sta solo nella ripetizione di questo tragico evento storico. Sta soprattutto nel fatto che la riabilitazione di Israele, profetizzata in Geremia 31, è in atto con la nascita di Gesù Cristo. L’Eterno ricostruirà il popolo dopo la devastazione, ci sarà gioia dopo il pianto, Israele sarà riunificato in un unico luogo e non più disperso.
  Ma la domanda che riguarda Rachele non ha ancora una risposta: perché proprio lei viene menzionata, e non un’altra donna della storia di Israele? E qual è il legame tra il pianto di Rachele e quello delle madri di Betlemme? Cercheremo una risposta in una prossima occasione.

(5. continua)

(Notizie su Israele, 19 maggio 2024)



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Dieci ministri scrivono a Israele

Una lettera calibrata, ma la pressione internazionale su Israele rafforza sempre Hamas

I ministri degli Esteri di Italia, Canada, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Giappone, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito e Svezia hanno scritto una lettera al loro omologo israeliano Israel Katz per avanzare richieste umanitarie in sette punti. I ministri esordiscono dicendo che Hamas deve rilasciare tutti gli ostaggi e che sono contrari all’operazione a Rafah. Nella lettera, che il Foglio ha potuto leggere, chiedono di implementare l’ingresso degli aiuti umanitari, di aprire il valico di Rafah, di lasciare aperti tutti i valichi.
  Ieri per la prima volta una nave carica di aiuti è attraccata al porto costruito dagli Stati Uniti a Gaza. Israele assieme all’Onu e all’Egitto vuole creare un’infrastruttura sicura a Rafah per permettere ai carichi di passare in sicurezza. L’idea di Tsahal di togliere a Hamas il controllo del valico è stata importante e fare in modo che i rifornimenti umanitari non finiscano più nelle mani dei terroristi dovrebbe essere interesse di tutti, anche dell’Egitto che teme una crisi di rifugiati palestinesi in fuga da Rafah e diretti verso la sua frontiera.
  L’Onu dovrebbe avere ancora più a cuore l’idea che il valico sia un posto quanto più sicuro possibile e senza infiltrazioni terroristiche. Il piano che ha presentato Israele prevede che dall’Egitto entrino i camion che trasportano benzina e intende rafforzare la capacità del valico di Kerem Shalom per gli aiuti umanitari. Nelle intenzioni di Israele c’è anche quella di affidare il controllo del valico di Rafah a palestinesi che non hanno rapporti con Hamas.
  Tra i firmatari si nota l’assenza degli Stati Uniti e anche della Spagna, che ieri ha detto che non permetterà ai carichi di armi diretti verso Israele di attraccare nei suoi porti. La lettera dei dieci ministri è ben calibrata, ma è una lettera a Israele e rischia purtroppo di avere l’effetto di tutti gli appelli mossi finora: far sentire Hamas più forte. E se Hamas si sente più forte grazie alla pressione internazionale su Israele, ai tavoli negoziali continuerà sempre ad avere meno motivi per accettare un accordo. 

Il Foglio, 18 maggio 2024)

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“Su Israele e Hamas troppe semplificazioni. La sinistra sta spingendo a destra gli ebrei, aiuti a fare chiarezza”

Le paure del maestro Wellber

di Leonetta Bentivoglio

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Il direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber

“M’indigna la mancanza di complessità che circola in Occidente nei giudizi sul tema che mi sta maggiormente a cuore, cioè quanto sta accadendo tra Israele e Palestina”, afferma il direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber. “Ci si affida a video superficiali di trenta secondi pescati su Instagram per valutare situazioni gravi e sofferte e scatenare proteste anti-israeliane, e l’atteggiamento dei partiti di sinistra non smentisce le approssimazioni più rozze e rischiose. Se si è contro Netanyahu vuol dire che si è antisemiti, mentre se si è contro Hamas significa che si è contro la Palestina. Ma questo è assurdo!”.
  S’infuoca, parlando dei problemi della sua terra, l’acclamato maestro Wellber, che è nato nell’81 a Beersheva, nel deserto del Negev, a 40 chilometri da Gaza. In questi giorni sta conducendo al Teatro Massimo di Palermo, di cui è il direttore musicale, le prove del “Tristano e Isotta” di Wagner (sì, proprio lui, il compositore adorato dai nazisti e inviso agli ebrei). L’opera debutterà sulla scena palermitana domenica 19 maggio, e durante una pausa dei lavori Omer si scaglia contro le “semplificazioni pericolose” che incrementano le reazioni di tanti occidentali alla difficilissima situazione in corso in Israele.

- Maestro Wellber, cosa la scandalizza tanto?
  “Il fatto che girino input razzistici avvalorati da un’estrema sinistra i cui partiti si dimostrano in crisi in tutta Europa, dove avanzano trionfalmente le destre. In realtà dovrebbe essere la sinistra a mettere ordine nei pensieri di quegli studenti universitari che oggi protestano contro Israele assumendo la questione “in toto”, e far comprendere loro che non si può celebrare un’organizzazione terroristica come Hamas, che specula sulla povertà e la sofferenza dei palestinesi. Non è ancora stata compresa la tragicità di quanto è avvenuto il 7 ottobre, ed è fondamentale tener conto del fatto che nel mio Paese si sono verificati episodi orrendi: mia madre mi ha raccontato di aver assistito al funerale di un’intera famiglia i cui membri sono stati seppelliti senza testa. Come può un ragazzo dell’Università di Milano esprimere le sue idee su drammi così dolorosi e complicati in maniera superficiale, senza una reale conoscenza storica? Le fonti non possono essere i video su Instagram. Le Università dovrebbero stimolare i giovani a fare le opportune differenze e a distinguere il vero dal non vero in maniera chiara e puntuale. In nessun caso è moralmente accettabile violentare le donne e decapitare gli anziani. Una radicale assenza di approfondimenti sta corrompendo l’intero dibattito e provocando situazioni paradossali”.

- Può fare esempi?
  “Ho vari amici ebrei in Germania, dove lavoro molto, che hanno deciso di votare per l’Afd, il partito populista dell’estrema destra. La comunità ebraica tedesca non si può più permettere di votare a sinistra. Inoltre, come può un’intellettuale influente come Judith Butler, filosofa e femminista statunitense, prendere posizione in modo pubblico sul conflitto israelo-palestinese attaccando in blocco Israele e non condannando la strage del 7 ottobre? È concentrata solo sulle proprie teorie e sembra non voler guardare la realtà. Ora più che mai, si sente forte l’esigenza di grandi umanisti capaci di segnalare che essere dalla parte del popolo israeliano non significa approvare l’operato di un leader criminale come Netanyahu”.

- Lei è contro Netanyahu?
  “Certo. Ha distrutto la fratellanza nel mio Paese. È un dittatore che ha danneggiato in maniera disastrosa il popolo ebraico. Perché in Europa nessuno lo punisce? Com’è possibile che continui a usare indisturbato la sua carta di credito in questo continente? Ma la sua presenza nefasta non potrà mai giustificare teorie che azzerano Israele. Netanyahu non va identificato col popolo israeliano, così come i palestinesi non vanno identificati con Hamas, che in sostanza è un’organizzazione nemica della Palestina”.

- In che senso?
  “È un gruppo di potere miliardario, i cui capi vivono in hotel a cinque stelle a Parigi, a Dubai e nel Qatar, mentre il popolo palestinese perisce nella miseria e nell’inconsapevolezza. Con tutti i suoi soldi, Hamas produce armi ma non costruisce scuole né ospedali, perché vuole mantenere ignorante la gente. Eppure la leadership europea insiste nel diffondere messaggi ambigui su questi terroristi in malafede, facendone quasi degli eroi”.

- Crede a soluzioni possibili?
  “In Israele vivono tre milioni di ebrei originari dei paesi arabi. E pensi che sono stati sempre sostenitori di Netanyahu. La chiave di un avvicinamento sarebbe potuta emergere proprio da lì, cioè da quella popolazione ebraico-araba che ha tanto in comune coi palestinesi: storia, lingua, cibo, cultura… E invece… Resto convinto che dovremmo lottare per un futuro senza Hamas e senza Netanyahu, chiedendo aiuto al mondo”.

- Nel frattempo lei ora sale sul podio per dirigere Wagner, il più antisemita dei compositori.
  “Eliminare Wagner dalla storia della musica sarebbe come cancellare il Rinascimento dalla storia dell’arte. Wagner equivale a una rivoluzione che ha cambiato tutto: senza di lui non ci sarebbero stati il jazz né i Beatles. Dopodiché l’uomo Wagner fu razzista, volgare e intellettualmente violento, e io lo disprezzo in quanto tale. Ma come musicista non posso sfuggire alla sua imponenza. Fronteggiare il “problema” Wagner è una sfida irrinunciabile. La sua musica tocca intensamente corde umane contraddittorie e oscure, e il conflitto, la contraddizione, è un territorio che ogni artista deve attraversare”.

(la Repubblica, 18 maggio 2024)

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Miti immarcescibili: Appunti su un capitolo

In questi giorni è uscito in libreria un nuovo libro di Carlo Panella, “Il libro nero di Hamas: L’antisemitismo islamico e il miraggio dei due Stati” (Lindau). Panella è da anni attento e meticoloso commentatore della realtà mediorientale e in Italia uno dei più competenti conoscitori della galassia jihadista e del radicalismo islamico, tuttavia, in questo suo nuovo testo, il capitolo dal titolo, “L’errore di Israele: i coloni e il revanscismo biblico”, presenta delle forti criticità, facendosi ricettacolo di tutta una serie di gravi errori e deformazioni che pur nell’apprezzamento dell’ottimo lavoro del giornalista, non possono essere sottaciuti. David Elber si è incaricato di evidenziarli. Red. L’informale

di David Elber

A pagina 138 del suo ultimo libro, Carlo Panella scrive perentorio: «L’occupazione israeliana conculca larga parte dei diritti civili dei palestinesi e deve cessare. Punto». 
Il problema di questa affermazione apodittica è che non c’è nessuna occupazione. Il territorio di Giudea e Samaria, o Cisgiordania, o West Bank, (denominazioni successive e spurie) non è mai stato “occupato” da Israele perché apparteneva già, dal 1922, in virtù di quello che stabiliva il Mandato britannico per la Palestina, al popolo ebraico. L’occupazione ci fu, è corretto, ma fu quella illegale della Giordania che si protrasse per diciannove anni.
Nel 1967 Israele riconquistò ciò che già gli apparteneva di diritto. Tuttavia, se proprio volessimo considerare quella di Israele una “occupazione” essa è terminata nel 1994 con il trattato di pace siglato con la Giordania. Inoltre, con gli Accordi di Oslo del 1993-1995, il 95% della popolazione palestinese è amministrata dall’Autorità Palestinese che ha tutte le competenze civili e di sicurezza sulla popolazione palestinese. Se ne deve forse non peregrinamente desumere che chi “opprime” i palestinesi sono i palestinesi stessi? 
Sempre a pagina 138, Panella scrive «resta sul tappeto l’ostacolo principale per la nascita di uno Stato palestinese: i coloni israeliani». 
Questo è un vecchio refrain, caro a tutte le  amministrazioni americane post Jimmy Carter, con la lodevole eccezione dell’Amministrazione Trump, e a tutte le Cancellerie europee che, a ricasco americano, lo ripetono senza sosta, ma si tratta di una menzogna. Perché i coloni sarebbero un ostacolo? Perché lo dicono i palestinesi? In nessun altro caso al mondo relativo ad una contesa territoriale che implica “dei coloni” essi sono mai stati considerati un “ostacolo”.
Solo alcuni esempi:
Trattative tra Cambogia e Vietnam: i “coloni” vietnamiti non sono mai stati considerati un ostacolo alle trattative mediate da ONU e Francia. Trattative tra Marocco e Sahara Occidentale: il fronte del Polisario in rappresentanza del popolo saharawi ha chiesto l’allontanamento di tutti i “coloni” marocchini dal territorio del Sahara occidentale rivendicato ma ONU e Stati Uniti in qualità di mediatori hanno rifiutato la richiesta. La stessa cosa si può dire per il caso di Cipro, dove i greco-ciprioti hanno richiesto l’allontanamento di tutti i “coloni” turchi. Nessun mediatore, neanche l’Unione Europea, della quale Cipro fa parte ha mai considerato i “coloni” turchi un “ostacolo alla pace”. Israele dovrebbe fare eccezione. Perché?
Continuando a pagina 138, «I coloni in Cisgiordania sono cresciuti in proporzione geometrica nei 16 anni di governo di Bibi Netanyahu». Poi a pagina 141: «A seguire, la crescita esponenziale degli insediamenti si è avuta con i governi del Likud di Bibi Netanyahu dal 2009 in poi.»  
Falso. La maggior parte degli insediamenti sono stati costruiti nell’arco di tempo che va dal 1967 al 1993. Dalla stipula degli Accordi di Oslo del 1993 fino ai primi anni 2000, sono sorti solo 9 nuovi insediamenti.
La grande crescita demografica invece, si è verificata tra il 1992 e il 1996 (periodo di governo laburista in Israele) e si è avuta all’interno degli insediamenti già esistenti. Questa crescita è stata pari al 50% della popolazione. Solo cinque nuovi insediamenti sono stati costruiti negli ultimi venti anni. Essi sono stati costruiti ottemperando alle competenze che gli Accordi di Oslo hanno fornito alle autorità di Israele.  
Panella prosegue, «Nel 2024 i coloni sono 470.600 e a loro si aggiungono 230.000 cittadini che abitano nella zona est e nord della giurisdizione municipale di Gerusalemme (un settore potenzialmente palestinese) da Gilo a Ma’ale Adumim». 
Considerare gli abitanti ebrei di Gerusalemme come “coloni” è del tutto inaccettabile. Per fare un solo esempio, nel 1948 i giordani fecero pulizia etnica a danno degli ebrei che vivevano nella parte est di Gerusalemme e in Giudea e Samaria. Furono vittime di pulizia etnica circa 70.000 persone (oltre il 10% della popolazione ebraica del Mandato). La maggior parte di essi viveva a Gerusalemme. Per Panella, evidentemente, coloro che sono tornati alle loro case e i loro discendenti sono “coloni”. Sulla base di questo criterio sono da considerarsi “coloni” i sopravvissuti dai campi di sterminio o chi fu cacciato dalle proprie case a seguito delle leggi razziali?
«Ulteriore e gravissimo tema: attorno agli insediamenti ufficiali, il governo di Israele ha steso la cortina di «zone militari di protezione», interdette ai palestinesi».  
Come fa Panella a non sapere che gli Accordi di Oslo sottoscritti dai palestinesi, forniscono a Israele tutte le competenza amministrative e di sicurezza nell’Area C dove sorgono tutti i centri abitati da ebrei, motivo per il quale, la sicurezza è fornita dall’esercito israeliano così come è sottoscritto dai palestinesi? Il “gravissimo tema” di cui scrive Panella è pertanto inesistente.
A p.139 troviamo scritto, «Non è infatti pensabile che lo Stato palestinese nascente sia privato della sovranità sul territorio che i coloni hanno occupato.»  
Repetita iuvant. I “coloni” o meglio i cittadini di Israele non hanno “occupato” nulla. Circa il 5% dei centri abitati da ebrei è stato regolarmente comprato da proprietari arabi che lo hanno venduto a caro prezzo. Oltre il 90% risiede in terre demaniali concesse dalla Stato di Israele in leasing quindi di proprietà dello Stato. Meno dell’1% risiede in terreno di proprietà araba confiscato (ma indennizzato economicamente). In ogni caso l’ultimo episodio di esproprio di territorio di proprietà araba è avvenuto nel 1978. Vogliamo dare la colpa a Netanyahu anche di questo?
Dopo il ricorso fatto dai proprietari alla Corte Suprema di Israele, noto come il caso “Dwaikat contro Israele del 1979”, o caso Elon Moreh, praticamente non ci sono stati più espropri per la costruzione di centri abitati. I pochissimi casi avvenuti riguardano delle istallazioni militari. Cosa peraltro legittima per le leggi internazionali.
Pagine 139 e 140: «L’ideologia fortissima dei coloni israeliani, in una Cisgiordania che chiamano Giudea e Samaria in omaggio al biblico regno di Israele, infatti si basa su un presupposto storico-religioso:…».  
I “coloni” israeliani chiamano la Cisgiordania con il loro vero e, sempre utilizzato nome, che è appunto quello di Giudea e Samaria. Se il fatto che sia di natura biblica pone un problema, sarà necessario cambiare il nome anche a Gerusalemme. Questi territori, nel corso dei secoli, anche durante il periodo ottomano durato 400 anni, si sono sempre chiamati Giudea e Samaria per designare questa area geografica (dal punto amministrativo i nomi erano quelli della città capoluogo). Inoltre, anche gli inglesi durante il periodo mandatario avevano utilizzato il termine di Samaria per designare un’area amministrativa. Infine anche l’ONU nella Risoluzione 181 (quella della proposta di partizione) avevano indicato quelle aree geografiche come Giudea e Samaria. Erano forse tutti dei fanatici religiosi?
Ultima annotazione: il termine “Cisgiordania” o West Bank nasce solo a partire dal 1950 quando la Giordania si è annesse, illegalmente, questi territori che si trovavano nella “parte ovest del Giordano” mentre tutto il resto del territorio del regno era nella parte est. Quindi, il termine, è frutto di un’azione illegale compiuta dai giordani. Perché questo termine dovrebbe avere più valenza di Giudea e Samaria? Solo per una ragione semantica: affermare che degli ebrei “occupano” la Cisgiordania è sicuramente più credibile, per l’opinione pubblica, che affermare che degli ebrei “occupano” la Giudea. Chi ci crederebbe? 

(L'informale, 18 maggio 2024)
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Le puntuali osservazioni di David Elber al libro di Carlo Panella ne screditano in modo decisivo l’autore come storico. Il fatto che anche su altri libri abbia scritto cose valide sul mondo islamico aggravano la negatività per Israele di questo suo ultimo libro. E’ confermato, ancora una volta, che uomini di pensiero validissimi su altri argomenti, quando si avvicinano troppo al tema Israele vanno, in modo apparentemente inspiegabile, “fuori di testa”. I consueti collegamenti logici non funzionano più come prima. La spiegazione sarebbe semplice, ma per i più è inaccettabile: ci entra di mezzo Dio. I loro pensieri si avvicinano pericolosamente a Gerusalemme. Si potrebbe quasi sentire la voce del profeta Zaccaria che avverte: “Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti”. Lo stordimento parte da lontano: comincia a rivelarsi già nelle parole degli empi che mettono la loro bocca nel cielo, e la loro lingua passeggia per la terra” (Salmo 73). Sono gli intellettuali che sul tema Israele pensano di poter trascurare quello che dice la Bibbia. Ma la Bibbia è un osso duro per tutti. M.C.

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Sinagoga in fiamme nel nord della Francia. “Vogliono imporre un clima di terrore agli ebrei”

Molotov contro il luogo di culto nel centro di Rouen. Nei tre mesi successivi agli attacchi di Hamas, in Europa gli incidenti antisemiti sono stati in numero equivalente a quelli dei tre anni precedenti messi insieme. L'ombra di una strategia.

di Giulio Meotti

Venerdì mattina presto, mentre a Stoccolma, nell’area in cui si trova l’ambasciata d’Israele, sono stati sentiti degli spari e nella giornata erano in corso arresti, la polizia e i vigili del fuoco francesi intervenivano per spegnere un incendio alla sinagoga in rue des Bons enfants, nel centro di Rouen. Un uomo ha tentato di entrare nella sinagoga arrampicandosi su un bidone della spazzatura, da cui ha tirato una molotov contro il luogo di culto ebraico. Se ci fossero stati dei fedeli sarebbe stata una strage. L’uomo, armato di coltello, si è poi avventato contro la polizia, che lo ha ucciso. “Bruciare una sinagoga significa intimidire tutti gli ebrei e imporre ancora una volta un clima di terrore agli ebrei”, ha affermato Yonathan Arfi, presidente del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia. Rias, che monitora l’antisemitismo in Germania, ha documentato in Europa un aumento del 320 per cento degli incidenti nel mese successivo al 7 ottobre.
     Nei tre mesi successivi agli attacchi di Hamas, in Europa gli incidenti antisemiti sono stati in numero equivalente a quelli dei tre anni precedenti messi insieme. Durante la cena del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia, a Parigi il 6 maggio, il premier Gabriel Attal ha rivelato che in Francia sono stati registrati 366 atti antiebraici nel primo trimestre del 2024, con un aumento del 300 per cento rispetto ai primi tre mesi del 2023. Un sondaggio per la Fondapol, presentato sabato da Le Parisien, rivela che la paura ha spinto il 33 per cento degli ebrei a ridurre o interrompere i viaggi con Uber, mentre il 44 per cento di chi indossa la kippah non la porta più per strada. Un segnale incoraggiante è che tre francesi su quattro ritengono che l’antisemitismo non sia solo un problema degli ebrei, ma “un problema di tutti”.
    Qualche giorno fa, a Parigi, in rue des Orteaux, un ebreo di sessantadue anni con la kippah è stato prima insultato e poi picchiato alla testa all’uscita da una sinagoga. L’aggressore ha accusato l’uomo di uccidere “la gente a Gaza”. “Per la prima volta dal 1945, gli ebrei francesi hanno paura al punto da nascondersi”, confessa la filosofa Elisabeth Badinter all’Express. Le famiglie con cognomi ebraici comuni come Cohen o Levy li stanno rimuovendo dalle cassette della posta e dai cancelli per evitare di essere identificate come ebrei.
   La sinagoga principale di Varsavia è stata appena attaccata con bombe incendiarie e il presidente del sindacato belga degli studenti ebrei è stato aggredito a Bruxelles. Dopo il 7 ottobre, sono state decine le sinagoghe colpite. “Palestina libera” e una stella di David verniciate su una sinagoga a Madrid. A Tilburg, in Olanda, la sinagoga subisce minacce. A Berlino vengono lanciate bombe molotov contro la sinagoga Kahal Adass Jisroel.  A Lione (dove René Hadjadj, un ebreo con la kippah di 89 anni, è stato defenestrato dal 17esimo piano dal vicino di casa),  la sinagoga Duchère è vandalizzata: “Vittoria ai nostri fratelli di Gaza”. A Malmö, in Svezia, una bandiera israeliana è bruciata davanti alla sinagoga.
  E spesso in Francia è bastato un incendio alla sinagoga perché una comunità ebraica si svuotasse per cercare luoghi più sicuri. Una delle prime sinagoghe è stata bruciata a Trappes. “Gli ebrei hanno quasi tutti lasciato la città”, raccontano nel libro “La Communauté” due giornaliste di Le Monde, Ariane Chemin e Raphaëlle Bacqué. “Oggi a Trappes non rimane più alcun ebreo”. 
  Si chiama “strategia della terra bruciata”.

Il Foglio, 18 maggio 2024)

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Startup Nation si mobilita per i bambini sopravvissuti al 7 ottobre

L’obiettivo della Startup Nation è assicurare donazioni di azioni da parte di 100 aziende tecnologiche israeliane entro la fine del 2024, che saranno convertite in contanti durante eventi di liquidità, uscite e IPO.

La piattaforma tecnologica per il mercato Valoo ha annunciato il lancio di un fondo costituito da un portafoglio di aziende private per fornire sostegno ai bambini sopravvissuti all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Il fondo, che opera in collaborazione con il fondo sociale “Tmura”, distribuirà continuamente contanti nei prossimi 10 anni ai bambini colpiti dalla guerra del 7 ottobre.
Ad oggi, il fondo ha raccolto circa $20 milioni di dollari in donazioni azionarie da parte di azionisti di aziende della Startup Nation israeliane in settori quali la sicurezza informatica e l’intelligenza artificiale. L’obiettivo è quello di ottenere donazioni azionarie da 100 aziende tecnologiche israeliane entro la fine del 2024. Finora sono state donate azioni di aziende come eToro, Via, Zesty, Reflectiz, Neuroblade e altre. L’iniziativa riceve anche il sostegno di LeumiTech, dello studio legale israeliano Meitar e di PwC.
Le azioni saranno convertite in contanti durante gli eventi di liquidità, le uscite e le IPO, e i fondi saranno distribuiti a organizzazioni che sostengono migliaia di bambini affetti da necessità educative, economiche, mediche e di altro tipo, fornendo loro un sostegno finanziario a breve, medio e lungo termine nelle diverse fasi della loro vita. Il fondo utilizzerà il modello di dati di Valoo per valorizzare le donazioni, nella speranza di aumentarne l’impatto.
“Ringraziamo tutti i primi donatori che hanno dato fiducia a questo importante progetto. Dopo il 7 ottobre, abbiamo cercato un modo per aiutare e ci siamo resi conto che potevamo contribuire con la tecnologia di Valoo a creare un nuovo canale di donazione in cui l’intero settore tecnologico israeliano può contribuire, sfruttando il valore unico che genera”, hanno dichiarato i co-fondatori Adi Weitzhandler e Meir Steigman. “I destinatari ottengono un bene di valore crescente che può essere convertito in contanti in base alle loro esigenze. Abbiamo creato un nuovo fondo per coloro che si occupano dei bambini e delle loro esigenze, finanziando necessità come i trattamenti di salute mentale, i bisogni primari come l’alloggio e il cibo, e persino le borse di studio. Siamo felici che chi vuole donare possa avere un impatto significativo e aiutare i bambini”.
Il comitato direttivo comprende figure di spicco come l’imprenditore e venture capitalist Eyal Gura, che ha sviluppato l’idea dell’iniziativa e le collaborazioni all’interno del fondo. Tra gli altri membri figurano l’imprenditore sociale Adi Altshuler, Avner Stepak, proprietario della casa di investimenti Meitav, e altri soci amministratori di fondi di venture capital israeliani. Community O accompagna le attività del fondo con altre organizzazioni che contribuiscono con le loro competenze pro bono, tra cui lo studio legale Meitar, Avi Neuman con PWC e LeumiTech guidata da Maya Eisen-Zafrir.

(Israele 360, 16 maggio 2024)

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Nel Nord di Israele ora c’è un deserto. “Hezbollah spara, qui non torniamo”

Il reportage. Tutta la fascia a ridosso del confine libanese è stata evacuata per ordine dell’Idf. E sessantamila persone sono sfollate altrove

di Francesca Caferri

MIGDAL TEFEN (Nord Israele) — Da ottobre, Tal Lavi Shimron vive a Beirut, non lontano dall’aeroporto internazionale Rafiq Hariri: e non lo sa. Il centro direzionale dello scalo è ciò che appare sul navigatore ogni volta che si avvicina alla sua casa nel kibbutz Adamit, a 500 metri dalla frontiera libanese, e in tutta l’area circostante. È così per lei e per le decine di migliaia di persone che vivono nella zona settentrionale della Galilea, a poca distanza (nove chilometri, dal punto dove ci troviamo) dalla Linea Blu che segna il confine con il Libano, e dai villaggi di Ayat el Cheb e Ramyeh, dall’altra parte della frontiera, che nelle giornate di buona visibilità sembrano vicinissimi. La falsa posizione che danno i Gps è il più elementare dei provvedimenti che l’esercito israeliano (Idf) ha preso per tentare di limitare gli attacchi di Hezbollah in questa zona.
Il punto che Lavi Shimron ci tiene a sottolineare è che il problema non è questo. Dall’8 di ottobre, il giorno successivo all’attacco di Hamas sul Sud del Paese, qui corre il fronte dimenticato di Israele. Con gli occhi di tutti fissi su Gaza, gli scambi di artiglieria ai due lati del confine, gli attacchi israeliani – una dozzina, solo ieri – sul territorio libanese e quelli del gruppo sciita su obiettivi militari e civili da questa parte della Linea Blu, finiscono in fondo alle notizie che arrivano da questa parte del mondo. Non per la nostra interlocutrice e per gli altri 60 mila israeliani che da ottobre, su ordine dell’esercito, hanno dovuto evacuare 43 tra città e villaggi che si trovano entro cinque chilometri dal Libano, e che da allora vivono in alberghi, case affittate o ospiti di parenti. Dall’altra parte del confine, la stessa sorte è toccata a 90 mila persone.
«Sono andata via di corsa, lasciando la tazza con il caffè sul tavolo: quando mi autorizzano a tornare, sempre di corsa, per prendere qualcosa, la trovo ancora lì», ci dice la signora Lavi Shimron. Tre giorni fa un pallone spia israeliano è stato abbattuto sul cielo sopra la sua casa ed è atterrato intatto in Libano: una prima assoluta, che Hezbollah ha ampiamente celebrato sui suoi canali social e tv.
Sarit Zehavi, ex analista di intelligence, fondatrice e presidentessa dell’Alma research center, specializzato in analisi sul confine Nord, non sa (o non può) dire se contenesse informazioni rilevanti per il gruppo sciita. Ma è certa che nelle ultime 72 ore gli attacchi si sono intensificati: 60 missili ieri, 60 il giorno prima, compreso quello su una importante base militare vicino al lago di Tiberiade. «L’esercito dice che nel pallone non c’era nulla e ci credo: ma di certo abbiamo un occhio in meno dall’altra parte. Se a questo aggiungiamo le nuove armi che Hezbollah sta usando, eccoci all’escalation degli ultimi giorni», sostiene.
Con i suoi analisti, Zehavi ha individuato tre tipi di missili che il gruppo sciita sta usando: i Kornet, con un raggio d’azione di dieci chilometri, gli Almas, che colpiscono obiettivi fra i 4 e i 16 chilometri, e Tharallah, una versione modificata e più letale del Kornet che solo da pochi giorni ha fatto la sua apparizione in questo teatro di guerra.
La signora Lavi Shimron si occupa di turismo e non si intende di armi. Neanche le importa molto: quello che le interessa è tenere insieme i pezzi della sua vita. I due figli grandi che non vivono più con lei, perché le scuole dell’area sono chiuse e per studiare devono andare lontano. L’appartamento in affitto dove stringersi. Un lavoro andato a rotoli. Il mutuo che resta lì, nonostante sia stato congelato per qualche mese. A far indignare lei e altre decine di migliaia di persone è il fatto che il governo abbia rifiutato di garantire che potranno tornare a casa per il primo settembre, il giorno in cui in Israele riaprono le scuole. In occasione della festa dell’Indipendenza, martedì scorso, alcune delle comunità evacuate hanno inscenato una secessione simbolica dallo Stato di Israele nelle strade del Nord: un modo per dare sfogo alla rabbia.
Né Lavi Shimron né Zehavi, che pure vive in questa zona, hanno partecipato, ma ne condividono lo spirito. «Così non può proseguire, serve un cambio di passo – spiega l’analista –. Il mio incubo peggiore è che la guerra a Gaza finisca e il mondo si dimentichi di noi. Quello che chiediamo è alla comunità internazionale di mettere da parte la risoluzione Onu 1701 (quella che nel 2006 ha messo fine all’ultimo conflitto fra Israele e il Libano, ndr) e pensare a una soluzione definitiva per fermare l’arrivo di armi a Hezbollah. E al nostro esercito una migliore strategia: non chiedo una guerra aperta, ma dobbiamo agire. All’inizio è stata data priorità al Sud, ora è tempo di un cambio di passo. Se non ci sarà, moltissime persone non torneranno: sarebbe come chiedergli di aspettare il prossimo 7 ottobre nelle loro case».

(la Repubblica, 17 maggio 2024)

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Fatti nascosti sulla guerra di Gaza

Basta unire i puntini per rendersene conto: L'America e l'Iran sono contro Israele.

di Melanie Phillips

La misura in cui i politici e i media nascondono i fatti che minano la loro narrazione tossica per diffamare e minare la guerra di sopravvivenza di Israele è diventata mozzafiato.
L'amministrazione Biden ha fatto tutto il possibile per placare il regime genocida e terrorista iraniano. Ha versato miliardi nelle casse di Teheran alleggerendo le sanzioni. Si è rifiutata di rispondere efficacemente ai ripetuti attacchi sostenuti dall'Iran contro gli interessi statunitensi. E sta facendo di tutto per impedire a Israele di intraprendere azioni che potrebbero danneggiare le relazioni dell'America con il regime iraniano, come lo smantellamento di Hamas, una delle principali forze dell'esercito per procura di Teheran contro Israele e l'Occidente.
La politica americana di appeasement nei confronti dell'Iran ha lasciato molti perplessi. Avrebbero dovuto essere più vigili.
Dodici giorni prima del pogrom del 7 ottobre, Jay Solomon ha riferito sul sito web di Semafor che Ariane Tabatabai , capo dello staff dell'assistente segretario alla Difesa degli Stati Uniti per le operazioni speciali e i conflitti a bassa intensità, faceva parte di una "Iran Experts Initiative" istituita da alti funzionari del Ministero degli Esteri iraniano per rafforzare la posizione di Teheran sulle questioni di sicurezza globale, in particolare sul suo programma nucleare.
In altre parole, Tabatabai era un lobbista per l'Iran nel cuore del governo statunitense e godeva della massima autorizzazione di sicurezza.
Semafor e il gruppo di opposizione iraniano Iran International sono entrati in possesso di un'ampia raccolta di corrispondenza ed e-mail del governo iraniano. Queste hanno rivelato che Robert Malley - che è stato il punto di contatto con l'Iran sia sotto l'amministrazione Obama che sotto quella Biden, fino a quando non è stato rimosso dall'incarico nel giugno 2023 in seguito a un "uso improprio di informazioni classificate" ancora non spiegato - aveva piazzato Tabatabai nel Dipartimento di Stato americano nel 2021 per assisterlo nei suoi negoziati con l'Iran.
Il giorno in cui è apparso l'articolo di Solomon, 31 senatori statunitensi hanno scritto al Segretario alla Difesa Lloyd Austin per esprimere la loro preoccupazione:
"Troviamo scandaloso che un'alta funzionaria del Dipartimento della Difesa continui a ricoprire una posizione delicata nonostante il suo presunto coinvolgimento in un'operazione di intelligence del governo iraniano".
Hanno sottolineato che Tabatabai è stata segnalata da dissidenti iraniani nel marzo 2021, poco dopo la sua nomina a consigliere principale del Segretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale, che da tempo faceva eco alle argomentazioni del regime iraniano.
Nello stesso mese, Adam Kredo ha riportato sul Washington Free Beacon lo shock dei dissidenti per la nomina di Tabatabai. Essi sostenevano che la donna avesse ribadito la posizione del regime iraniano in diverse apparizioni pubbliche e che suo padre facesse parte della cerchia ristretta del presidente iraniano Hassan Rouhani.
Nell'aprile 2021, diversi membri della Camera dei Rappresentanti hanno chiesto una revisione dell'autorizzazione di sicurezza di Tabatabai. L'amministrazione Biden ha respinto le accuse come "calunnie e diffamazioni".
Ancora più sorprendente è il fatto che Tabatabai sia a capo dell'ufficio che supervisiona i negoziati con gli ostaggi. Tre settimane dopo il pogrom del 7 ottobre, un giornalista ha chiesto al portavoce della Casa Bianca John Kirby se fosse appropriato che Tabatabai ricoprisse tale posizione alla luce delle accuse.  Kirby ha risposto negativamente. Tabatabai è ancora lì.
Diversi commentatori (tra cui il sottoscritto) ne hanno scritto su Internet. I media tradizionali l'hanno studiatamente ignorato. Negli ultimi giorni, hanno ignorato un'altra importante rivelazione.
Fin dall'inizio della guerra a Gaza, Israele è stato accusato di uccidere in modo sproporzionato i civili palestinesi. Il Ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha reso note le cifre giornaliere dei civili uccisi, che hanno superato i 35.000, la maggior parte dei quali sarebbero donne e bambini.
Queste cifre, diffuse dalle Nazioni Unite e utilizzate dall'amministrazione Biden e dal governo britannico per criticare e minacciare Israele, hanno scatenato manifestazioni di massa e attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo.
Ciononostante, l'8 maggio, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha dimezzato il numero di donne e bambini uccisi a Gaza rispetto ai dati del giorno precedente.
Assurdamente, il portavoce delle Nazioni Unite Farhan Haq ha cercato di affermare che la cifra di 35.000 morti è rimasta "invariata" e che l'unico nuovo sviluppo era che più di 10.000 corpi dovevano ancora essere completamente identificati.
Tuttavia, questo era solo un tentativo di nascondere il fatto che l'ONU aveva costantemente pubblicato cifre palesemente ridicole per Hamas, in quanto non distinguevano tra terroristi e civili.
All'inizio di aprile, dopo che gli statistici avevano etichettato queste cifre come "statisticamente impossibili", il Ministero della Sanità di Gaza ha tacitamente ammesso di avere "dati incompleti" per più di 10.000 persone nelle sue liste e ha rivelato di aver persino preso alcuni dei suoi dati dai media. L'ONU è stata ora costretta a correggere le proprie cifre senza fornire motivazioni.
Poiché Israele sostiene di aver ucciso circa 14.000 combattenti, il rapporto tra civili uccisi e combattenti è ora di circa 1:1 - una proporzione di civili uccisi molto più bassa che mai in una guerra.
In altre parole, si tratta di una completa smentita della menzogna incendiaria sull'uccisione "sproporzionata" di civili usata dai governi di Stati Uniti e Regno Unito e dai media occidentali per colpire Israele e fomentare l'odio contro gli ebrei in tutto il mondo. Ma né il governo né i media hanno detto una parola al riguardo.
Ora Fatah - il partito al potere dell'Autorità Palestinese, il cui presidente è Mahmoud Abbas - ha ammesso di essere coinvolto nel pogrom del 7 ottobre insieme ad Hamas e ad altri gruppi terroristici palestinesi.
Abu Muhammad, il portavoce ufficiale del braccio militare di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, ha dichiarato in un videomessaggio della scorsa settimana che le brigate hanno preso parte all'invasione "e hanno catturato molti sionisti insieme ai nostri fratelli delle organizzazioni combattenti palestinesi; alcuni di loro ci sono stati consegnati e altri sono ancora nelle nostre mani".
Le brigate sono coinvolte nei combattimenti contro l'IDF a Gaza e hanno condotto più di 470 "operazioni militari" dal 7 ottobre.
Secondo un rapporto di Arutz Sheva, le brigate hanno dichiarato per telegramma che negli ultimi giorni le loro truppe hanno sparato un missile anticarro contro un carro armato nel campo di Jabalya, hanno fatto esplodere un ordigno contro un carro armato a sud del quartiere di Zeytun e hanno lanciato razzi contro le truppe dell'IDF al bivio di Netzarim.
Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa sono un altro esercito per procura iraniano che consente all'Iran di attaccare Israele con la scusa della "negabilità plausibile". Come ha scritto Phillip Smyth lo scorso dicembre in un articolo per il Combating Terrorism Centre di West Point, alcuni membri delle brigate hanno ringraziato l'Iran e Hezbollah per le armi e l'equipaggiamento e hanno chiesto apertamente denaro all'Iran. Nel 2023, una fonte anonima della sicurezza dell'Autorità palestinese ha dichiarato al Jerusalem Post che il gruppo veniva pagato dall'Iran attraverso il gruppo terroristico della Jihad islamica palestinese.
Pensateci: Il braccio militare di Fatah, il partito al potere dell'Autorità Palestinese, tiene in ostaggio degli israeliani. L'ala militare di Fatah combatte contro Israele nella Striscia di Gaza e nei territori contesi. L'ala militare di Fatah è finanziata dall'Iran. L'amministrazione Biden finanzia l'Autorità palestinese e si serve dell'Iran. L'amministrazione Biden sta cercando di costringere Israele ad accettare un'amministrazione guidata dall'AP a Gaza dopo la guerra.
E Ariane Tabatabai è ancora al Ministero della Difesa.
Nulla di tutto questo viene riportato dai media tradizionali, perché nulla può distruggere la narrazione dell'oppressione israeliana e del vittimismo palestinese propagandata dalla sinistra.
Il tradimento di Biden nei confronti di Israele è ampiamente attribuito alla sua necessità di comprare la sinistra dura del Partito Democratico. Ma la sua amministrazione è stata corrotta fin dall'inizio, con molti funzionari anti-israeliani reduci da Obama. Alcuni di loro hanno sostenuto in passato gruppi terroristici palestinesi.
Ora si dice che l'Iran sia sul punto di produrre armi nucleari. Se annuncerà di esserci riuscito, Stati Uniti e Gran Bretagna diranno senza dubbio di aver fatto tutto il possibile per impedirlo. E se Israele tenterà di difendersi da questo scenario da incubo, l'Occidente accuserà Israele di aggressione.
I punti sono evidenti da anni. Colleghiamoli.

(Israel Heute, 17 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Festival di Cannes 2024: misure di sicurezza e panel legati alla partecipazione israeliana

di Pietro Baragiola

Martedì 14 maggio ha avuto ufficialmente inizio la 77° edizione del Festival di Cannes, lo straordinario evento che ogni anno ospita i più grandi artisti dell’industria cinematografica mondiale.
Nonostante il grande clima di anticipazione per i film in gara, la nuova edizione si prospetta particolarmente turbolenta per via del conflitto israelo-palestinese e gli organizzatori del festival prevedono proteste, discorsi a sfondo politico e manifestazioni per le strade della città.
Alla luce delle crescenti minacce contro i rappresentanti di Israele presenti alla competizione, il Comune di Cannes ha preventivamente messo in atto delle misure di sicurezza particolarmente severe: sono state proibite le manifestazioni lungo la Croisette, la strada principale del festival, e una sicurezza privata verrà assegnata come scorta ai giurati.
Inoltre sarà proibito indossare spille in segno di protesta contro la guerra o verso la restituzione degli ostaggi ancora detenuti da Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. La stessa Laura Blajman-Kadar, sopravvissuta al massacro del 7 ottobre, è stata invitata a lasciare velocemente il red carpet dopo aver sfilato con un abito giallo brillante adornato con una fascia con su la scritta “Bring them Home” e le foto dei volti di alcuni dei prigionieri che si trovano a Gaza, tra cui diversi dei suoi amici. Blajman-Kadar si trovava quel giorno al festival musical Nova, riuscendo a fuggire assieme al marito e sette amici, quando hanno sentito gli spari da parte dei terroristi provenienti da Gaza.
Come riporta il Jerusalem Post, al fine di sensibilizzare e aumentare la consapevolezza della gravità dell’attentato terroristico, che in tanti hanno iniziato a dimenticare subito dopo, Laura ha condotto in Francia una campagna mediatica e ha pubblicato un libro, nella speranza che venga pubblicato presto anche in Italia, intitolato Croire en la vie, ‘Credere nella vita’.
“A Cannes la politica dovrebbe essere solo sullo schermo. Per questo motivo abbiamo deciso di bandire questi comportamenti, in modo che l’interesse principale di tutti fosse il cinema” ha dichiarato Thierry Frémaux, direttore del festival, durante una conferenza stampa alla vigilia dell’apertura.
Il segretario generale dell’evento, Francois Desrousseaux, ha voluto ulteriormente rassicurare i partecipanti della conferenza stampa affermando che, per la prima volta, nel Palais des Festivals verranno utilizzate telecamere alimentate dall’intelligenza artificiale e varchi di sicurezza che consentiranno ai partecipanti di passare più velocemente attraverso i controlli senza bisogno di aprire le tasche o le borse.
“Abbiamo avuto 15 briefing sulla sicurezza, rispetto ai soliti quattro o cinque degli anni passati, quindi posso confermare che affrontiamo la questione con grande serietà” ha affermato Desrousseaux, spiegando che un’attenzione ulteriore verrà rivolta al padiglione israeliano.

Il padiglione israeliano
  Situato all’interno del Marché du Film, il padiglione israeliano sarà aperto ai visitatori fino al 21 maggio e si dedicherà alla presentazione di progetti dei registi che lavorano nei territori al confine con Gaza.
“L’apertura del padiglione durante questo clima di guerra riflette la resilienza di Israele e il suo impegno nel costruire ponti di cultura e dialogo internazionale anche in tempi difficili” ha affermato il Ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar.
Tra i filmati proiettati vi saranno quelli di alcuni registi del Sapir College di Sderot che si concentrano sugli attacchi missilistici precedenti al 7 ottobre e sui loro effetti nelle vite quotidiane dei residenti della regione.
Uno dei registi presenti al padiglione è Michal Lavi, il cui cognato, Omri Miran, è stato rapito dal Kibbutz Nir Oz ed è uno dei 132 ostaggi ancora trattenuti da Hamas nei tunnel di Gaza.
Per promuovere il dialogo tra le diverse produzioni internazionali, il padiglione israeliano ospiterà anche una cena di Shabbat rivolta a tutti i leader dell’industria cinematografica. Questo evento sarà organizzato come ogni anno da Gadi Wildstron insieme al rabbino Mendel Schwartz e al Chai Center di Los Angeles.
Nonostante nel corso della storia il Festival di Cannes abbia visto numerosi film israeliani ricevere riconoscimenti prestigiosi tra cui il Premio della Giuria 2021 conferito al regista Nadav Lapid per Ahed’s Knee, quest’anno l’unico progetto di Israele ammesso in gara è il cortometraggio It’s not Time for Pop della studentessa Amit Vaknin.

Il cortometraggio di Amit Vaknin
  “Sono completamente sopraffatta dall’emozione.” Così ha voluto commentare la 28enne Amit Vaknin ad un’intervista con The Times of Israel, dopo aver scoperto che il suo progetto, It’s not Time for Pop, era stato selezionato al concorso studentesco La Cinef del Festival di Cannes.
Studentessa del terzo anno di cinema della Steve Tisch School of Film and Television dell’Università di Tel Aviv, Vaknin è l’unica israeliana a partecipare all’evento di quest’anno.
Il suo film della durata di 14 minuti segue le vicende di una giovane donna che non vuole celebrare l’annuale commemorazione dello Yom Hazikaron in memoria del padre, ucciso in guerra, ma preferisce trascorrerlo cercando di accaparrarsi un appartamento a Tel Aviv.
Un film che non ha a che fare con i lutti del 7 ottobre ma piuttosto con le proteste contro la revisione giudiziaria che, nel 2023, ha scosso il Paese e, in particolar modo, la città di Tel Aviv.
“Prima di questo scossone non mi ero mai resa conto di quanto amassi Tel Aviv di quanta preoccupazione nutro per lei” ha raccontato la giovane regista.
Il film verrà proiettato il 20 maggio e Vaknin, pur essendo preoccupata per il crescente clima di tensione che circonda il festival, atterrerà a Cannes la sera del 19 maggio per presenziare di persona all’evento.
Per prepararsi ad eventuali proteste, Vaknin ha affermato di aver letto attentamente tutte le regole del festival che condannano il razzismo e i commenti negativi su razza, nazionalità e religione.
“È quello che c’è scritto sul regolamento e spero che tutti lo leggano. Spero di poter tornare da Cannes e dire che nutro ancora speranza nel futuro dell’umanità” ha concluso Vaknin.

(Bet Magazine Mosaico, 17 maggio 2024)

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Così l'odio antiebraico destabilizza l'Europa

Presidente della Conferenza rabbinica europea e capo della comunità ebraica di Mosca, che ha lasciato allo scoppio della guerra in Ucraina. Le sue parole al Foglio.

di Giulio Meotti

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Il rabbino Pinchas Goldschmidt, Presidente della Conferenza rabbinica europea

Il muro dei Giusti presso il Memoriale dell’Olocausto di Parigi è stato vandalizzato con le mani rosse, riferimento diretto al massacro da parte della folla palestinese di due riservisti israeliani a Ramallah il 12 ottobre 2000, all’inizio della Seconda Intifada. Uno degli assassini   mostrò le mani insanguinate dalla finestra della stazione di polizia dove furono uccisi i soldati, uno dei quali fu impiccato e l’altro linciato. Il presidente del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), Yonathan Arfi, ha denunciato: “Il simbolo delle mani insanguinate dei terroristi che linciarono due soldati israeliani nell’ottobre del 2000 risuona come un grido di battaglia odioso contro gli ebrei. Abietto!”.
  Il leader dei deputati macroniani, Sylvain Maillard, ha parlato di “un atto indicibile”. “Disgustoso”, secondo Olivier Faure, segretario del Partito socialista. E’ intervenuta anche la portavoce del governo, Prisca Thévenot: “A tutti coloro che dicevano che le mani rosse non erano un simbolo antisemita. A tutti coloro che li hanno giustificati. Eccoli affissi al Muro dei Giusti presso il Memoriale della Shoah. L’antisemitismo nella sua forma più sfrenata”. Ieri anche alla Sapienza gli studenti in corteo hanno lasciato impronte di mani sporche di vernice rossa davanti al rettorato. Come a Ca’ Foscari, assieme agli striscioni “fuori il sionismo dalle università”. 
  “E’ un antisemitismo nuovo, perché politicamente corretto e parte del discorso mainstream, per questo è molto pericoloso”, dice al Foglio il rabbino Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza rabbinica europea, insignito del Premio Carlo Magno. Goldschmidt è stato il capo della comunità ebraica di Mosca dal 1993 al 2022, quando ha deciso di lasciare il paese a causa della guerra in Ucraina.  “Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre, l’antisemitismo è divampato in un modo che mette seriamente in pericolo la sicurezza e la libertà della vita ebraica”, ci spiega Goldschmidt. “Si presenta nella sua forma antica, razzista classica, ma assume anche nuove vesti”. “Come ‘antisionismo’, ‘critica di Israele’, ‘boicottaggio’. Si diffonde in discipline come gli studi postcoloniali. Si veste di morale, contro l’imperialismo, il capitalismo, la globalizzazione. In passato era facile identificare un antisemita. Bastava che aprisse bocca. Le persone nate in Unione sovietica sanno che l’antisionismo era usato come antisemitismo, ma ora chi manifesta nelle università in Europa e America non se ne rende conto. Parlano di ‘giudeo-nazisti’, una espressione usata dalla propaganda sovietica al tempo della Guerra fredda”. 
  Qualcuno immagina una fine della vita ebraica in Europa. “Non penso, ma temo che alle parole seguano gli atti, come abbiamo già visto”, ci dice Goldschmidt. “A Berlino ci sono stati molti tentativi di attacchi che sono stati sventati dalla polizia e uno dei maggiori colpevoli di questa atmosfera è l’Iran, perché pianifica gli attacchi alle scuole e ai diplomatici ebrei, ma anche perché le sue Guardie rivoluzionarie sono dei terroristi, ma pochi paesi europei sono disposti ad agire”. 
  Goldschmidt invita gli europei a pensare all’antisemitismo non solo come a un problema ebraico. “Non penso che l’obiettivo di queste dimostrazioni siano solo gli ebrei, ci sono molti utili idioti nelle università e nei paesi che destabilizzano, l’antisemitismo è un mezzo e il fine è la destabilizzazione della vita politica in Europa e America. L’antisemitismo è un sismografo. L’estremismo di destra e di sinistra e soprattutto l’islam radicale non solo mettono in pericolo la vita ebraica in Europa, ma ne minacciano la sicurezza, la libertà e il futuro”.

Il Foglio, 17 maggio 2024)

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Emòr: Due differenze tra sabato e le feste

di Donato Grosser

Nel mezzo della parashà di Emòr è scritto che l’Eterno disse a Moshè: “Parla ai figli d’Israele e dirai loro le ricorrenze (Mo’adè) dell’Eterno che proclamerete come sacre convocazioni. Queste sono le Mie ricorrenze. Sei giorni si potrà fare lavoro ma nel settimo giorno vi sarà una completa cessazione (Shabbàt Shabbatòn), un giorno di sacra convocazione nel quale non farete alcun lavoro; è Shabbàt destinato all’Eterno in tutte le vostre sedi”. (Vaykrà, 23: 1-3).
  Nei versetti seguenti vengono elencati i Mo’adim: la festa delle Matzòt, la festa di Shavu’òt, Rosh Hashanà, Kippur e la festa di Sukkòt. La Torà elenca sei giorni festivi: il primo e il settimo giorno di Pèsach, il giorno di Shavu’òt, il giorno di Rosh Hashanà, il primo giorno di Sukkòt e Sheminì Atzèret. In questi giorni, a differenza dello Shabbàt, è permesso cucinare e trasportare nel dominio pubblico (melèkhet okhèl nèfesh). Kippur ha le stesse regole dello Shabbàt.
  x2Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento pone una domanda: se in questo passo la Torà annuncia quali sono i Mo’adìm, per quale motivo viene elencato lo Shabbàt? Citando il Midràsh Sifrà, Rashì spiega che il passo sullo Shabbàt è stato accostato a quello dei Mo’adìm per insegnare che la profanazione dei Mo’adìm è considerata come una profanazione dello Shabbàt, e l’osservanza dei Mo’adìm è considerata come l’osservanza dello Shabbàt.
  La difficoltà nel testo della Torà messa in evidenza dalla domanda che ha posto Rashì, viene risolta in modo diverso da r. Eliyahu, noto come il Gaon di Vilna (1720-1797). Egli spiega che in questo passo della Torà si parla solo dei Mo’adìm e non si parla dello Shabbàt. La Torà insegna che per sei giorni festivi è permesso fare melakhòt come cucinare e trasportare nel dominio pubblico. Il settimo giorno nella lista dei Mo’adìm è Kippur, denominato Shabbàt Shabbatòn, nel quale è proibito fare alcuna melakhà, come di Shabbàt. Come nella settimana vi sono sei giorni lavorativi e un giorno di cessazione del lavoro, così nei Mo’adìm ve ne sono sei nei quali è permesso fare alcune melakhòt, e un giorno, Kippur, nel quale bisogna astenersi da ogni melakhà come di Shabbàt.
  Riguardo al significato del termine Shabbàt, r. Mayer Twersky (Boston, n. 1960) in Insights and Attitudes (p. 169) osserva che è generalmente definito e tradotto come “giorno di riposo”. Egli afferma che è più preciso definire lo Shabbàt come un “giorno di cessazione”. La parola riposo ci porta a pensare a rilassarsi e ad andare in vacanza. In questo modo lo Shabbàt è visto come un giorno fatto per rilassarsi e socializzare. L’espressione “cessazione” non fa venire in mente nulla di questo. Sabato come giorno di cessazione non denota riposo ma piuttosto pausa. Shabbàt è un giorno di pausa dalle tribolazioni quotidiane. Come scrive Rashì in Shemòt (20:9) citando il Midràsh Mekhiltà, “Per sei giorni lavorerai e completerai tutte le tue opere” significa che con l’arrivo dello Shabbàt bisogna considerare che non rimane più nulla da fare, ci si può dimenticare delle preoccupazioni economiche e ci si può dedicare allo studio della Torà.
  R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 180) prende spunto da questa parashà per spiegare un’altra differenza tra Shabbàt e i Mo’adìm. Lo Shabbàt è un giorno santificato dall’Eterno, avendo Egli stesso cessato l’opera della creazione alla fine del sesto giorno. Per questo nel kiddùsh che recitiamo di venerdì sera concludiamo con le parole “Benedetto tu o Signore, mekaddèsh ha-Shabbàt (che santifica il sabato)”. Nel kiddùsh che recitiamo all’entrata dei Mo’adìm chiudiamo invece con le parole “Mekaddèsh Israel ve-ha-Zemanìm” (che santifica Israele e le ricorrenze). Mentre lo Shabbàt ha la propria kedushà indipendentemente dalle azioni umane, i Mo’adìm, i giorni festivi, sono santificati dal popolo d’Israele tramite la fissazione dei capi mese. L’Eterno santifica Israele, e Israele santifica le feste.

(Shalom, 17 maggio 2024)
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Parashà della settimana: Emor (Parla)

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Israele – Scontro nel governo sul futuro di Gaza

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Non è più confinato dietro le quinte lo scontro in corso all’interno del governo israeliano sul futuro del conflitto a Gaza. Con una conferenza stampa, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha portato alla luce i contrasti in corso con il primo ministro Benjamin Netanyahu sulla gestione del conflitto e soprattutto sul futuro della Striscia. In diretta tv il ministro della Difesa ha chiesto al capo del governo di «prendere una decisione e dichiarare che Israele non manterrà il controllo civile su Gaza, che non ci sarà alcun governo militare israeliano e che sarà promossa immediatamente un’alternativa al governo di Hamas nella Striscia di Gaza». Affermazioni in netta contraddizione con quanto affermato da Netanyahu solo poche ore prima: «Non ha senso parlare del giorno dopo la guerra prima di sconfiggere Hamas».
  Per Gallant, invece, non pianificare un’alternativa al gruppo terroristico rischia di vanificare i risultati militari ottenuti nella Striscia in questi sette mesi di guerra. «Un governo palestinese non ostile a Gaza è nell’interesse d’Israele», ha avvertito. Mentre «un’amministrazione militare israeliana diventerebbe il principale impegno militare di Israele, con molte vittime e un pesante prezzo economico a spese di altri fronti». Come la guerra al grande nemico Iran o, nel nord, ai libanesi di Hezbollah.
  A sostenere la posizione di Gallant, oltre all’establishment di Tsahal, sono i ministri Benny Gantz e Gadi Eizenkot. I tre condividono un passato da capi di stato maggiore delle forze armate e hanno minacciato di uscire dall’esecutivo se Netanyahu «non prenderà decisioni difficili». A spingere alla rottura è stata la situazione sul campo: il ritorno dei soldati di Tsahal in località come Zeitoun e Jabalia – aree considerate liberate da Hamas, ma dove i terroristi si stavano riorganizzando – e la ripresa del lancio dei missili su Sderot sono, per i tre, la dimostrazione che alla guerra sia necessario affiancare la diplomazia.
  Non così per Netanyahu. «Non sono disposto a sostituire Hamastan con Fatahstan», ha replicato il premier a Gallant poco dopo le sue dichiarazioni. Un riferimento alla possibilità di affidare all’Autorità nazionale palestinese, controllata dal movimento Fatah, la gestione amministrativa dell’enclave. Un’eventualità che sia Netanyahu sia i suoi alleati dell’ultradestra vogliono evitare. Il ministro delle Finanze, il nazionalista religioso Bezalel Smotrich, ad esempio, ha chiesto al premier di portare immediatamente in consiglio dei ministri la decisione di negare qualsiasi coinvolgimento dell’Anp nella Striscia di Gaza, e poi di chiedere a Gallant di scegliere: o attua la politica del governo o lascia il suo ruolo. Dichiarazioni simili sono arrivate da Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale. Sia Ben Gvir sia Smotrich, sottolinea l’analista militare Ron Ben Yishai di Yedioth Ahronoth, vorrebbero altro per Gaza: la ricostruzione nell’enclave di insediamenti israeliani. Un’opzione impossibile da accettare per Gallant, rileva Ben Yishai, che anche per questo è uscito allo scoperto. Difficile, conclude l’analista, sapere chi la spunterà in questo complicato braccio di ferro.

(moked, 16 maggio 2024)


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Netanyahu critica la richiesta di Galant di un controllo palestinese nella Striscia di Gaza

"Non sono disposto a scambiare Hamastan con Fatahstan", ha detto Netanyahu in un video messaggio al suo ministro della Difesa.

La soluzione dei due stati sarebbe la migliore ricompensa per i terroristi
Cinque mesi fa
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri membri della sua coalizione hanno criticato aspramente il ministro della Difesa Yoav Galant, mercoledì sera, dopo che questi ha invitato il governo a sostenere il controllo palestinese nella Striscia di Gaza dopo la fine della guerra contro Hamas.
"Non sono disposto a scambiare Hamastan con Fatahstan" ha dichiarato Netanyahu in una dichiarazione video, riferendosi al partito Fatah del leader palestinese Mahmoud Abbas.
Il primo ministro ha ribadito che l'Autorità Palestinese, con sede a Ramallah, "sostiene il terrorismo, insegna il terrorismo e finanzia il terrorismo".
"La prima condizione per il 'giorno dopo' è l'eliminazione di Hamas, senza scuse", ha aggiunto, rispondendo alle critiche di Galant e dell'amministrazione Biden, secondo cui Israele non ha un piano di ritiro dalla Striscia di Gaza.
Le osservazioni di Netanyahu sono arrivate poco dopo che Galant, in una conferenza stampa, ha invitato il governo a "prendere una decisione e dichiarare che Israele non stabilirà il controllo civile di Gaza, che Israele non stabilirà un governo militare a Gaza e che un governo alternativo ad Hamas a Gaza sarà promosso immediatamente".
"Da ottobre ho ripetutamente sollevato la questione nel gabinetto senza ricevere risposta. La fine della campagna militare deve essere accompagnata da misure politiche. Il 'giorno dopo Hamas' sarà raggiunto solo se le entità palestinesi prenderanno il controllo di Gaza, accompagnate da attori internazionali", ha detto il segretario alla Difesa.
L'amministrazione Biden ha insistito sul fatto che un'"Autorità palestinese efficace e rivitalizzata" dovrebbe governare Gaza - una mossa a cui Netanyahu si oppone a causa del sostegno di Ramallah al terrorismo e della sua storia.
Alti funzionari della coalizione hanno chiesto a Netanyahu, mercoledì sera, di licenziare Galant per essersi opposto pubblicamente alla politica dichiarata dal governo.
"Il ministro Galant ha annunciato oggi il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese del terrore come ricompensa ad Hamas per il più orribile massacro del popolo ebraico dopo l'Olocausto", ha dichiarato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich in una dichiarazione citata da Ynet.
"Chiedo che il primo ministro chieda a Galant di scegliere tra l'attuazione della politica del governo e le sue dimissioni", ha aggiunto.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha affermato che Galant ritiene che "non faccia differenza se Gaza è governata da soldati dell'IDF o da assassini di Hamas".
"Questo è essenzialmente il concetto del ministro che ha fallito il 7 ottobre e continua a fallire. Un tale ministro della Difesa deve essere sostituito per raggiungere gli obiettivi della guerra", ha twittato Ben-Gvir.
Il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, anch'egli del partito Likud, ha dichiarato di "essere d'accordo con lui su un punto: Finché sarà ministro della Difesa, un governo militare è sicuramente una cattiva opzione".
Il governo israeliano vuole discutere una proposta per l'amministrazione militare della Striscia di Gaza per un periodo che va da sei mesi a un anno dopo la guerra, ha riferito l'emittente KAN all'inizio di questa settimana.
Il piano in esame prevede un'amministrazione civile da parte dell'Amministrazione civile dell'IDF e del Coordinatore delle attività governative nei Territori, con aziende arabe locali che forniscano servizi.
Secondo il rapporto di KAN, Israele sta considerando un graduale trasferimento del controllo a entità locali non ostili allo Stato ebraico.
La proposta è stata discussa di recente dal Consiglio di sicurezza nazionale e, secondo quanto riferito, i funzionari della sicurezza e della politica stanno parlando con le parti interessate prima di presentare il piano al gabinetto.
Netanyahu ha dichiarato in un'intervista trasmessa giovedì di voler stabilire un governo "da parte dei residenti di Gaza che non sono interessati alla nostra distruzione, possibilmente con l'aiuto degli Emirati Arabi Uniti, dell'Arabia Saudita e di altri Paesi che penso siano interessati alla stabilità e alla pace".

(Israel Heute, 16 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Tragico incidente a Gaza: vittime 5 soldati dell’IDF

di Luca Spizzichino

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Cinque paracadutisti dell’IDF sono stati uccisi in un incidente a Gaza. Almeno altri otto sono rimasti feriti, tre dei quali in modo grave.
Secondo le prime ricostruzioni, i cinque soldati sono stati uccisi da fuoco amico. Due carri armati, arrivati poco prima nella zona di Jabaliya, sospettavano che un edificio, preso dal 202° Battaglione della Brigata Paracadutisti, fosse occupato da terroristi e così hanno aperto il fuoco. Uno dei due carri armati avrebbe individuato la canna di un fucile da una finestra del palazzo e ha informato il carro armato accanto ad esso, che ha aperto il fuoco, apparentemente senza sapere che le truppe fossero al suo interno. L’esercito non è ancora sicuro del motivo di questo incidente, però, secondo le prime indagini, i due carri armati ancora non erano stati informati delle forze all’interno dell’edificio.
  Il capitano Roy Beit Yaakov, il sergente maggiore Gilad Arye Boim, il sergente Daniel Chemu, il sergente Ilan Cohen e il sergente maggiore Betzlel David Shashuah hanno perso la vita in questo incidente.
  Roy Beit Yaakov era il figlio di Hadas e Avidan, il sindaco di Eli. Il sergente maggiore Gilad Arye Boim, di Karnei Shomron, è il nipote del giornalista e conduttore radiofonico Kalman Liebskind, che lo ha ricordato come un ragazzo “pieno di luce e di bontà, un fedele soldato di questo buon paese, è caduto mentre difendeva la sua patria”. Il sergente Ilan Cohen, che viveva a Karmiel, invece era un ‘lone soldier’ proveniente dall’Argentina. I suoi genitori, David e Adriana, sono in viaggio per Israele per partecipare al suo funerale. La famiglia è stata informata dall’ambasciatore israeliano in Argentina Eyal Sela e dal console israeliano Yehuda Golan. “La comunità ebraica di Buenos Aires piange la perdita del sergente Ilan Cohen, il primo lone soldier argentino” ha affermato il rabbino capo dell’Asociación Mutual Israelita Argentina (AMIA).

(Shalom, 16 maggio 2024)

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E’ pronto il molo galleggiante per gli aiuti alla Striscia di Gaza

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Molo galleggiante per aiuti a Gaza
L’esercito statunitense ha terminato l’installazione di un molo galleggiante per la Striscia di Gaza, secondo il Comando centrale degli Stati Uniti, e gli ufficiali sono pronti a iniziare a trasportare via mare gli aiuti umanitari nell’enclave.
Le truppe statunitensi hanno ancorato il molo alle 7:40 ora locale, afferma il CENTCOM in un comunicato, sottolineando che nessuna delle sue forze è entrata nella Striscia di Gaza.
“Si prevede che i camion che trasportano l’assistenza umanitaria cominceranno a sbarcare nei prossimi giorni”, si legge nel comunicato. “Le Nazioni Unite riceveranno gli aiuti e ne coordineranno la distribuzione a Gaza”.
Non è immediatamente chiaro quale agenzia delle Nazioni Unite sarà coinvolta.
Le forze israeliane si occuperanno della sicurezza a terra, ma ci sono anche due navi da guerra della Marina statunitense vicino all’area nel Mediterraneo orientale, la USS Arleigh Burke e la USS Paul Ignatius. Entrambe le navi sono cacciatorpediniere dotate di un’ampia gamma di armi e capacità per proteggere le truppe americane al largo e gli alleati sulla spiaggia.

(Rights Reporter, 16 maggio 2024)

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Guerra di cifre tra Onu e Israele. Jenin non ha insegnato niente

L’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha ridotto di quasi la metà il numero di donne e minori uccisi durante la guerra in corso dal 7 ottobre 2023 tra Israele e Hamas. Cosa non torna nei numeri delle vittime nella Striscia di Gaza.

di Giulio Meotti

Quando nel 2002 l’esercito israeliano entrò a Jenin per distruggere i covi dei terroristi che vi pullulavano durante la Seconda Intifada, i palestinesi si precipitarono dai media internazionali sostenendo che Israele stava perpetrando un massacro. Saeb Erekat, portavoce di Yasser Arafat, affermò che a Jenin erano stati “massacrati cinquecento palestinesi” (cinquecento è il numero magico, anche per l’ospedale di Gaza). I media internazionali non esitarono a riprenderlo e diffonderlo senza alcuna conferma o prova o riscontro.
  Quando media e osservatori internazionali riuscirono finalmente entrare a Jenin, dipinsero un quadro diverso: una dura battaglia nel campo profughi, nella quale erano rimasti uccisi cinquanta palestinesi, in gran parte appartenenti a gruppi terroristici, e 23 soldati israeliani. Non un “massacro” di cinquecento civili inermi, ma una operazione antiterrorismo. Ma ormai il danno era fatto.
  Mentre le truppe israeliane attaccano Hamas da sei mesi, il ministero della Sanità di Gaza ha impresso nella mente del pubblico una statistica degna di un altro massacro: “Il settanta per cento dei morti a Gaza sono donne e bambini”, dice il ministero gestito da Hamas, e più di trentamila vite  andate perdute. 
  Gabriel Epstein, analista del Washington Institute for Near East Policy, aveva subito fatto notare a dicembre che qualcosa non tornava. Aveva scoperto che le morti attribuite a “fonti mediatiche affidabili” erano costituite quasi interamente da donne e bambini. Delle 6.629 vittime attribuite ai media, 1.941 erano donne, 4.678 bambini e solo dieci uomini. Dei quasi 11 mila decessi segnalati tra il 1 gennaio e il 31 marzo, i maschi adulti rappresentavano solo il 9 per cento delle vittime, anche se il rapporto tra i sessi di Gaza è vicino alla parità e più della metà dei suoi residenti sono adulti.
  Ora l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha ridotto di quasi la metà il numero di donne e minori uccisi durante la guerra in corso dal 7 ottobre 2023 tra Israele e Hamas. Farhan Aziz Haq, portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ha dichiarato che le cifre si basano sui dati del ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, e che “le squadre Onu sul campo a Gaza non sono in grado di verificare in modo indipendente queste cifre, data l’enorme quantità di morti”. Un’infografica pubblicata dall’Ocha il 6 maggio riferisce che il numero di donne uccise dal 7 ottobre sarebbe di 9.500 e quello dei minori di 14.500. Due giorni dopo, l’8 maggio, l’agenzia delle Nazioni Unite ha dimezzato il numero: 4.959 donne e 7.797 minori. Secondo le stime ufficiali israeliane, quindicimila terroristi sono stati uccisi dal 7 ottobre. 
  Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha risposto così: “Il miracolo della resurrezione dei morti a Gaza. Le Nazioni Unite riducono del 50 per cento la stima delle donne e dei minori uccisi a Gaza e affermano di essersi basate sui dati del ministero della Sanità di Hamas. Chiunque si basi sui dati falsi di un’organizzazione terroristica per incriminare Israele di spargimento di sangue è antisemita e sostiene il terrorismo. Guterres, dimettiti!”. Il rapporto tra terroristi e civili uccisi è dunque di uno a uno, come ha dichiarato il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. “Sono stati uccisi quattordicimila combattenti e, probabilmente, sedicimila civili”. Secondo il professor Abraham Wyner, studioso di Statistica della Wharton University, le percentuali dei morti indicate da Hamas sono cresciute in modo innaturale e in misura troppo regolare e lo ha spiegato in un lungo saggio su Tablet. 
Alla fine della guerra forse sarà più chiaro che Israele aveva compiuto sforzi considerevoli per ridurre al minimo gli effetti della guerra sui civili, mentre Hamas continuava a utilizzare gli ospedali, le scuole e le moschee come fortezze (ieri i video dalle strutture dell’Unrwa). Alla fine della guerra forse verrà fuori un “genocidio” di terroristi.

Il Foglio, 16 maggio 2024)

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Statale di Milano: la paura dei Propal condiziona la vita universitaria

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“Era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”.
Queste le parole usate da una delle organizzatrici della cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi per giustificare lo spazio dato in apertura dell’evento a due rappresentanti del collettivo studentesco che hanno propalato le solite calunnie anti-israeliane. Una debacle culturale degna degli anni Trenta, un cedere alla protervia e alle mistificazioni antisioniste e antisemite. Fa ancora più male in questo caso, dato che la madre di Paolo Veronesi, figlio di Umberto e presente alla cerimonia,  è una sopravvissuta al lager di Bergen Belsen, Sultana Razon Veronesi.

• Questa la lettera che abbiamo ricevuto da una nostra lettrice:
   Volevo segnalare un brutto episodio avvenuto ieri (15 maggio, ndr) all’Università Statale di Milano.
Ho partecipato alla cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi, ospitata dall’Università Statale di Milano. Si tratta di un appuntamento istituzionale, di un’occasione per celebrare la ricerca scientifica italiana. L’evento si apre con due rappresentanti del collettivo universitario, chiamati sul palco a spiegare il perché della loro protesta, che si lanciano in un monologo sul “genocidio” dei palestinesi, sul dovere morale di combattere il sionismo e interrompere i rapporti con le università “militari” israeliane e invitano tutti a un momento di riflessione sulla nakba, ovvero la catastrofe, ovvero la nascita dello Stato d’Israele. I due ragazzi scendono dal palco tra qualche applauso, ringraziati della conduttrice per le loro importanti parole. Il microfono passa poi a Paolo Veronesi e alle diverse autorità presenti. Tutti parlano dell’importanza della ricerca, dei suoi incredibili progressi, del ruolo della conoscenza per costruire una società migliore. Nessuno dice una parola per dissociarsi dalle parole con cui si è aperta la cerimonia, che sono l’opposto dello spirito scientifico che si vuole celebrare. All’uscita chiedo a una delle organizzatrici perché abbiano fatto iniziare l’incontro in questo modo. Mi guarda seccata: “perché le ha dato fastidio?” “Molto, le dico”. “Beh”, mi risponde, “era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”. Io credo che più di così non si sarebbe potuta rovinare, ma temo, ed è questo che mi ferisce, di essere stata l’unica a pensarla in questo modo. Come dice Liliana Segre: l’indifferenza è già violenza.
Federica Levi

• Comunità ebraica Milano, sconforto per ciò che accade in Statale
   Intanto, il giorno precedente, il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, aveva scritto una lettera al rettore dell’Università Statale, Elio Franzini, in merito ad un’altra circostanza che si era verificata sempre all’Università Statale di Milano.
“Esprimo lo sconforto mio personale e della comunità ebraica di Milano a fronte dell’ennesimo episodio di cui l’Università è palcoscenico: un’assemblea ‘colonialismo e apartheid’ nell’aula 515 con la partecipazione ufficiale di due docenti della Statale per spacciare la bugia che lo Stato di Israele sia uno stato coloniale e razzista in cui vige l’apartheid”. Intanto “manifestanti filo palestinesi sono accampati nel cortile dell’università contro ogni regolamento e creando un clima di tensione”. Meghnagi cita poi il confronto avuto alcuni mesi fa con il rettore sul convegno svoltosi a Scienze politiche sul conflitto tra Israele e Hamas il 5 marzo, “che ha visto la partecipazione di noti esponenti antisraeliani. In quell’occasione lei mi ha garantito che la Statale fosse aperta a ospitare tutte le voci e che avrebbe organizzato un convegno per consentire al punto di vista israeliano di essere ascoltato dagli studenti”. Ma “tale convegno previsto per il 7 maggio non si è potuto tenere se non online”.
Non le chiediamo di difendere Israele, ma più semplicemente il diritto degli studenti a sentire opinioni differenti – conclude -. Abbiamo ben presente le difficoltà a cui potrà andare incontro, ma crediamo anche che chiudere il suo rettorato con un’iniziativa che vada a tutela della libertà di espressione applicata ‘perfino’ al mondo ebraico possa essere non solo un atto moralmente alto, ma anche un segnale ai tanti che hanno festeggiato l’annullamento del convegno e che sempre più si sentono legittimati a usare le maniere forti per imporre il loro pensiero”.

(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2024)

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