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Notizie 16-31 marzo 2015


Shoah, deportazioni, memoria. Che anche Trieste, come Milano, abbia il suo "Binario 21"

di Marco Barone

Trieste è, per alcuni aspetti, città della memoria, una memoria che muta la sua visione e rappresentazione dalla prospettiva con la quale si inquadra l'evento storico, politico, sociale accaduto.
   Però, vi sono alcuni drammi, alcuni eventi, alcune bestialità, che hanno una sola prospettiva, e mi riferisco alle deportazioni nei campi nazisti accadute dal '43 in poi. Deportazioni che hanno visto luoghi importanti della città fungere da binario verso la disumanità. Presso la stazione di Trieste è collegata una targa che ricorda la partenza dei convogli dei deportati verso i campi nazisti, dal settembre 1943 al febbraio 1945. In mente vengono soprattutto le vili deportazioni che hanno riguardato gli ebrei, a partire da quel maledetto 7 dicembre del 1943, giorno in cui ebbe inizio il primo viaggio della morte dalla nostra città destinato ad Auschwitz. 159 furono le persone che salirono su carri bestiame; solo 9 fecero ritorno alla fine della guerra. Anche tanti deportati politici, partirono dai binari commerciali dell'area dell'Ex Silos, "per non essere visti": una targa, collocata dall'ADPPIA, ricorda che nei venti mesi di occupazione tedesca (1943/45) partì da quel luogo la maggior parte dei trasporti della morte diretti dall'Italia ai campi di sterminio nazisti. Chi giungeva dal Coroneo, chi dalla Risiera. Chi pensava di andare in Germania e viaggiava anche con i vagoni aperti e neanche tentò la fuga, tanto era il convincimento di andare ad incontrare un'esperienza di vita diversa rispetto alla follia di sterminio nazista che poi sarebbe venuta.
   Chi, invece, come ricorda la testimonianza Branka Maricic di Fiume, "quando gli ebrei se ne andarono con il treno si accomiatarono da noi dicendoci: "beati voi che rimanete". Sapevano dove li stavano portando e che cosa li attendeva". E' importante avere dei simboli, è importante avere dei luoghi che si possano toccare, vivere, perché la percezione sensoriale può essere determinante per l'affermazione della via maestra, quella che ripudia ogni razzismo, fascismo e nazismo e favorisca l'unione tra i popoli in questo nuovo millennio. E Trieste è non solo ponte e porta dei popoli, ma anche l'ultima stazione delle città d'Italia e la prima e l'unica città ove vennero proclamate le leggi razziali del '38 che in un certo senso vennero anticipate in questa fetta di Confine Orientale sin dall'avvento del Regno d'Italia contro sloveni e croati. Ora, Trieste si appresta a fare un salto, per la vita della sua economia e suo sviluppo, a dir poco importante. Il progresso arriva, bussa alle porte della Trieste del terzo millennio.
   Ma il progresso, le innovazioni non devono travolgere e seppellire ciò che è stato, violenze e barbarie compiute contro ebrei, antifascisti, comunisti, anarchici, testimoni di Geova, omosessuali, Rom, Sinti, disabili... dovranno essere ricordate anche attraverso luoghi e non solo lapidi, proprio perché ciò che è stato non abbia più modo di riproporsi in nessun modo.
   Proprio perché ciò che è stato possa anche colpire profondamente nell'animo dell'ignaro passante o viaggiatore, in un tempo ove la memoria è breve se non addirittura inesistente.
   Certo l'ideale sarebbe la realizzazione di un luogo che raccontasse tutto quello che è accaduto a Trieste a partire dall'avvento del Regno d'Italia in poi, perché vi è stata una continuità allucinante, ma tremendamente reale.
   Ma i tempi per la realizzazione di ciò sembrano non essere ancora maturi. Maturi lo sono invece per condurre anche a Trieste la positiva esperienza di Milano quale quella relativa al binario 21 collocato sotto la stazione Centrale. Il Binario 21 è il luogo da cui ebbe inizio l'orrore della Shoah in quella città. Sarebbe importante che anche Trieste possa avere il suo "binario 21", un suo memoriale, attraverso un binario anche "virtuale" che possa unire i viaggi dai binari commerciali dall'ex Silos con quelli dalla Stazione centrale per la conservazione perenne della memoria per favorire la realizzazione di uno spazio per la convivenza civile, come accade in modo efficace a Milano con il Memoriale della Shoah. E di spazi vuoti, anche all'interno della Stazione, ve ne sarebbero, però faccio mio l'appello di Gianni Peteani come pronunciato al II Seminario "Convivere con Auschwitz", evento organizzato dall'Università di Trieste, in questo 2015: "A Trieste, noi oggi lanciamo la proposta di realizzare un'area della Memoria nella Stazione ferroviaria Centrale, o presso il "Silos", area adiacente, allora atta a celare il crimine".
   Dopo anni di oblio, propriamente in direzione del "Silos" si stanno ufficializzando nuovi progetti di riqualificazione. Ci appelliamo al prestigio di una Politica della Cultura e del rinnovamento affinché questa proposta assuma connotazione condivisa, di ampio richiamo storico/morale/educazionale/sociale". Senza dimenticare, tra le altre cose, che presso il Museo ferroviario di Trieste è presente la sola locomotiva a vapore prodotta dal Reich rimasta in suolo italiano.

(AgoraVox Italia, 31 marzo 2015)


Holocaust Survivors Band. L'inno alla gioia di due superstiti alla Shoah

Ottant'anni e non sentirli. Due sopravvissuti alla Shoah se ne vanno in tour con la loro band. Batteria, fisarmonica e musica ebraica, per festeggiare la vita, fino all'ultima nota. Un piccolo film, di una bellezza speciale.

di Helga Marsala

Celebrare la vita, a quasi 90 anni, urlando in faccia agli orrori della storia la bellezza della resistenza. C'erano una volta la Shoah, lo sterminio nazista, il delirio di onnipotenza tramutato in sistema di potere ed oppressione. C'erano i campi di concentramento e i cimiteri di innocenti, tra le fosse comuni e le camere a gas. E ci sono, oggi, i sopravvissuti. Come Saul Dreier e Reuwen "Ruby" Sosnowicz. Ieri due ragazzini polacchi, scampati all'incubo della guerra e delle persecuzioni razziali, poi diventati uomini in America, benedetti da un destino di lavoro, d'amore, di famiglia e di soddisfazioni. Tutta l'ansia di vivere, con la massima intensità, in risposta al terrore che fu.
Saul e Ruby sono i due arzilli, straordinari, vitalissimi vecchietti che il filmmaker Joshua Z Weinstein, newyorchese d'adozione, ha scelto come protagonisti del suo ultimo short-film. I suoi lavori sono passati dal Sundance di Toronto, dal South by South West di Belrino o dal Tribeca Film Festival, giusto per citarne alcuni. E adesso, questo piccolo gioiello cinematografico finisce nel catalogo degli Op-Docs, il forum on line del New York Times dedicato ai documentari di artisti e registi indipendenti di ogni parte del mondo.
"Holocaust Survivors Band" è un canto di gioia. Quando la gioia ha le rughe profonde e gli occhi brillanti di due superstiti, che per godersi al meglio la pensione, tra le spiagge e le palme di Boca Raton, in Florida, si sono messi in testa di lanciare una band. Andandosene in tournée, fra hotel, casinò, feste e residenze per anziani, con la loro musica Klezmer: melodie balcaniche, direttamente dalla tradizione ebraica. Misto di allegria e di malinconia.
Mr. Dreier, batterista, nato a Cracovia, di campi di concentramento ne ha girati ben tre. I ricordi sono indelebili. Cantare, strimpellare, per non abbandonarsi alla paura. I ragazzini nel campo avevano formato un coro, e lui aveva imparato a suonare la batteria usando due cucchiai come bacchette. Nel suo futuro una vita da imprenditore edile, nel New Jersey, e la musica come passione quotidiana.
Mr. Sosnowicz la guerra l'aveva trascorsa in una stalla, nascosto da un contadino polacco, dormendo tra le mucche e rovistando tra i rifiuti, in cerca di resti di patate. Poi, la vita in un campo profughi in Germania, la prima fisarmonica, la battaglia disperata per ricominciare. Divenne parrucchiere e musicista professionista.
Per Saul e Ruby il passato da custodire è quello del nazismo, per non dimenticare mai. Ma è anche quello della vita prima della guerra: la Polonia, le origini ebraiche, i suoni dell'infanzia, quando la musica era festa, famiglia, comunità. Contrasto dolce-amaro, che oggi ha il nome di Holocaust Survivors Band. Un inno all'esistenza, fino all'ultimo concerto, fino all'ultima passeggiata sulla spiaggia, fino all'ultima memoria da raccontare.

(Artribune, 29 marzo 2015)


'Cartoons on the Bay' torna a Venezia, compie 18 anni e ospita Israele

 
'Cartoons on the Bay' diventa maggiorenne e torna per il secondo anno consecutivo a Venezia con Israele come Paese ospite. Il festival dell'animazione televisiva e crossmediale di RaiCom, giunto alla diciottesima edizione e in programma a Palazzo Labia dal 16 al 18 aprile, ha ottenuto quest'anno l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Il simbolo della kermesse è come sempre Pulcinella, ma stavolta in gondola.
Per me e' un piacere essere qui per portare il saluto dello Stato d'Israele" ha affermato l'ambasciatore israeliano Naor Gilon, nel corso della presentazione di oggi in Viale Mazzini, sottolineando che la scelta del suo come Paese ospite "e' il segno dell'amicizia e della stima reciproca tra Italia ed Israele". E si è detto "orgoglioso che il Premio Pulcinella vada al regista israeliano Hanan Kaminski".
Inoltre "Venezia festeggia i 500 anni del primo ghetto degli ebrei ed e' importante che il Paese ospite quest'anno sia Israele", ha detto Giovanni De Luca, responsabile della sede Rai della città lagunare.
"Israele è un paese a grandissimo sviluppo di tecnologie diverse ed anche nel campo dell'animazione è un faro dell'innovazione", ha detto Costanza Esclapon, presidente di RaiCom, che ha sottolineato come la kermesse quest'anno si ponga "come punto di riferimento della Rai nella ricerca delle nuove tendenze del mondo dell'animazione e come vetrina internazionale per l'ampia produzione Rai di cartoni animati".
Il tema della diciottesima edizione di 'Cartoons on the Bay' è natura e cibo, in linea con quello dell'Expo di Milano che partirà il 1 maggio. A questo proposito il festival dell'animazione ospiterà l'anteprima del romanzo fantasy 'Il libro della Vita'. "Quest'anno e' la prova di maturita' del festival, che ha girato diverse location italiane che hanno a cuore i giovani e l'animazione", ha detto Luigi De Siervo, ad di RaiCom. Un settore, quello dell'animazione, per il quale 'Cartoons on the Bay' "ha il compito di scouting. E la 18esima edizione della rassegna premia anche le colonne sonore dei cartoni", ha detto il direttore artistico Roberto Genovesi.
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Non solo cartoni a Venezia, anche l'impegno sociale grazie alla campagna 'Stop bullismo - Parla', che verrà illustrata nel corso del Festival. Inoltre si parlerà del ruolo della donna nell'animazione nel corso di un dibattito, dal titolo 'Animated Woman', moderato da Mussi Bollini, presidente della commissione per le Pari Opportunità di Viale Mazzini, cui parteciperà la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, la fondatrice e presidente di Animated Woman Uk, Lindsay Atson, e il Ceo di Musicartoon, Sabrina Callipari.

(Adnkronos, 31 marzo 2015)


Ricerca israeliana: verso degli schermi flessibili a base di DNA

I ricercatori dell'Università di Tel Aviv hanno sviluppato una nanostruttura, basata sull'utilizzo di materiali organici che emette una luce in risposta ad una corrente elettrica, proprio come le lampade a LED.
Questa tecnica rivoluzionaria potrebbe essere integrata, in futuro, nei monitor di computer, televisori e smartphone, evitando l'utilizzo di metalli inquinanti. Lo studio, che sarà pubblicato sulla copertina del numero di aprile della rivista Nature Nanotechnology, rappresenta un altro passo verso la creazione di schermi composti con materiale organico.
Il Prof. Ehud Gazit, che guida il reparto di nano-biologia dell'Università di Tel Aviv, ed il dottorando Or Berger sono riusciti a mettere a punto un materiale organico che combina particelle di proteine e di DNA le quali posseggono proprietà ottiche, che si legano con delle strutture ordinate....

(SiliconWadi, 31 marzo 2015)


Calcio - Israele-Belgio 0-1: la Gerusalemme Conquistata

di Nicola Chessa

Israele-belgio 0-1: Quando Torquato Tasso finì la sua opera che più di tutte lo rese famoso, la Gerusalemme Liberata, iniziò sin da subito a limarla per renderla perfetta. Anni dopo la sua opera di recupero terminò e prese il nome di Gerusalemme Conquistata. Proprio di recupero si parla oggi a Gerusalemme ma in ambiente calcistico. Marc Wilmots schiera il suo Belgio in assetto d'attacco, con un 4-3-3 che lascia presagire le intenzioni della squadra ospite. Il tecnico belga deve fare a meno dell'infortunato Lukaku e schiera dal primo minuto Benteke, affiancato da Hazard e De Bruyne. I padroni di casa dell'Israele cercano di riprendersi la vetta della classifica dopo la brutta sconfitta patita pochi giorni contro il Galles di Ramsey e Bale, ma per far ciò mister Guttmann non può contare sul bomber della squadra Damari, autore di cinque reti in queste qualificazioni, infortunato. Il match inizia subito ad un ritmo indemoniato e dopo quaranta secondi l'Israele si rende subito pericoloso con Sahar che approfitta di una distrazione della difesa belga ma il suo tiro viene deviato in angolo da Kompany. Il Belgio risponde subito e con Witsel va vicino al vantaggio al secondo minuto di gioco. All'8? uno schema da calcio piazzato libera al tiro Nainggolan che colpisce male ma in maniera fortunosa serve Kompany che da pochi passi centra il portiere con la palla che poi va a sbattere sopra Fellaini depositandosi in rete. I ragazzi di Wilmots controllano la gara e hanno in più di una occasione l'opportunità di raddoppiare. Prima Nainggolan calcia alle stelle e poi De Bruyne batte una punizione tra le braccia di Marciano. L'Israele a lungo andare si spegne e non crea pericoli alla porta di Courtois.

(TuttoCalcioEstero.it, 31 marzo 2015)


Israele arresta fiancheggiatori ISIS

GERUSALEMME - La radio israeliana ha riferito che il Servizio di Sicurezza Generale (Gss) ha arrestato all'inizio del mese scorso, un palestinese di Gerusalemme Est, con l'accusa di appartenenza allo dello Stato islamico.
La radio ha annunciato: «Il Servizio di Sicurezza Generale all'inizio di questo mese ha arrestato in cooperazione con la polizia, Khalil Khalil, 25 anni, residente nel quartiere di Tur, Gerusalemme, accusandolo di appartenere allo Stato Islamico».
Secondo la radio, Khalil, cittadino israeliano ha ammesso di aver «viaggiato a gennaio in Turchia, a Istanbul, per poi infiltrarsi in Siria per unirsi a elementi dell'organizzazione dello Stato islamico, prima di tornare in Israele, un paio di settimane prima del suo arresto».
Tra le accuse mossegli: appartenenza a un'organizzazione illegale, comunicazioni con agenti stranieri, e uscita illegale dal Paese». La polizia israeliana ha annunciato negli ultimi mesi di aver arrestato un certo numero di giovani arabi in Israele con l'accusa di aver viaggiato in Siria e entrare essere entrati nelle fila di Daash e Jabhat al Nusra. Secondo l'ong Jerusalem Center for Israel Studies vivono a Gerusalemme est e ovest circa 850mila palestinesi di cui solo 300 mila palestinesi concentrati a Gerusalemme Est, quasi il 39% della popolazione della città; hanno carte d'identità israeliane, ma la stragrande maggioranza si rifiuta di ottenere la cittadinanza israeliana.

(agc, 30 marzo 2015)


«Via il busto dell'antisemita Azzariti»

Lettera al Presidente della Repubblica

Illustrissimo Signor presidente della Repubblica,
 
rav. Giuseppe Laras e Riccardo Calimani
noi sottoscritti abbiamo letto sul Corriere l'ottimo articolo di Gian Antonio Stella sulla sorprendente vicenda legata alla presenza nella sede della Corte Costituzionale del busto di Gaetano Azzariti, presidente negli anni bui del fascismo dell'indegno e cosiddetto Tribunale della Razza, poi incredibilmente eletto Presidente della Corte Costituzionale negli anni '50. Questo purtroppo non è l'unico, triste e scandaloso caso di «riciclo» di un militante fascista antisemita tra le file degli intellettuali e dei politici dell'Italia repubblicana. È veramente insultante poi, nei confronti della memoria delle innumerevoli vittime del fascismo e dei loro discendenti, apprendere tanto dell'odierno rifiuto di rimuovere dalla sede della Corte Costituzionale il busto di Azzariti, quanto la considerazione del fatto che tale individuo abbia effettivamente potuto ricoprire, complice la «grazia» di Togliatti, prestigiose cariche istituzionali della nostra Repubblica, nel silenzio pressoché generale del mondo politico, culturale, accademico e, specialmente, dell'opinione pubblica. Facciamo appello alla Sua sensibilità di garante delle istituzioni — sensibilità già apprezzata in modo particolare in occasione del ricordo del piccolo Stefano G. Tachè, vittima di un terrorismo nichilista, blasfemo e criminale davanti alla sinagoga di Roma — e chiediamo che Ella ci aiuti, grazie al Suo indiscusso prestigio, a far rimuovere quel busto di marmo da una sede così prestigiosa. Ci rendiamo ben conto che si tratta di un gesto simbolico. Forse in altri luoghi esistono altri «busti» di persone poco rispettabili. Come italiani riteniamo, tuttavia, necessario e doveroso elevare la nostra ferma protesta, esprimere la nostra indignazione e chiedere che questo sopruso e questa vergogna siano cancellati.
Con deferenza e stima,

rav. Giuseppe Laras
Riccardo Calimani

(Corriere della Sera, 31 marzo 2015)


Maratona? Inventata dagli ebrei

Non nasce con Filippide, 490 a.C., ma Samuele parla di un'altra gara del Mille a.C. Il 19 aprile, in Israele, la prima Maratona della Bibbia

di Roberto Copello

Credete che la maratona sia quella corsa che rende omaggio al guerriero greco Filippide o Fidippide, morto nel 490 a.C. stramazzando al suolo ad Atene sotto il peso dell'armatura con cui aveva corso per circa 40 chilometri, per annunziare la vittoria dei Greci sui Persiani nella battaglia di Maratona? Oppure pensate che la maratona sia quella gara olimpica rispolverata dal barone de Coubertin per i primi Giochi moderni, quelli di Atene 1896? Particolarmente ferrati in cultura sportiva, siete certi che la distanza canonica della maratona, olimpica o di New York non importa, è di 42 chilometri e 195 metri da quando, ai Giochi di Londra del 1908, tale fu la distanza che dal Parco di Windsor andava allo stadio (sì, quello in cui l'italiano Dorando Pietri entrò ormai vittorioso ma stramazzò tre volte come Gesù Cristo sulla via del Calvario, però fu aiutato da tal sir Arthur Conan Doyle a risollevarsi, dunque tagliò il traguardo, quindi fu squalificato, infine proprio per questo entrò nel mito ... )?
  Beh, forse è l'ora di rivedere le vostre opinioni storiche e sportive. Fatte le dovute proporzioni, è come se i nepalesi pretendessero di avere inventato il calcio a 11 qualche secolo prima degli inglesi. O come se in Burundi sostenessero che il basket fu ideato da Stanley e Livingstone durante il loro incontro africano.
  Insomma, ci crediate o no, la notizia è questa: la maratona è stata inventata dagli ebrei. Tant'è che nella Bibbia già se ne parla. E tant'è che il 9 aprile in Israele si correrà la prima edizione della Maratona della Bibbia, seguendo le orme dell'uomo che in epoca biblica corse dal campo di battaglia di Eben-Ezer (la moderna città israeliana di Rosh Ha'ayin) fino a Shiloh (l'antica capitale degli Israeliti), per annunciare la fine della guerra tra Israeliti e Filistei. All'inizio del libro di Samuele è scritto: «Poi un uomo della stirpe di Beniamino corse dalla linea di battaglia nello stesso giorno e giunse a Shiloh con i vestiti strappati» (Primo libro di Samuele, cap.4, v.12).
  Se il greco Fidippide annunciava una vittoria, il corridore israelita aveva invece una missione non certo piacevole: doveva informare Eli, il sacerdote di Israele, della sconfitta nella guerra, della morte dei suoi figli e della cattura dell'Arca dell'alleanza da parte dei Filistei. Se anche l'uomo di Beniamino fosse stramazzato a terra la Bibbia non lo dice, e non si può dunque sapere. Ma la distanza fra le due località non è un mistero: era ed è appunto di 42 chilometri. Ad accorgersene fu il «de Coubertin ebraico», Yosef Yekutieli (1897-1982), l'uomo che a 15 anni nel 1912 era rimasto così impressionato dalle Olimpiadi di Stoccolma da volerle ricreare per il mondo ebraico, dando vita alle Maccabiadi (Giochi che dal 1932 si tengono ogni quattro anni). Dopo che con la guerra dei sei giorni del 1967 Israele si riappropriò della Cisgiordania, Yekutieli ebbe modo di misurare il percorso esatto da Rosh Ha'ayin a Shiloh. Sorpresa: la lunghezza coincideva più o meno proprio con quella della maratona moderna, 42 chilometri. Forse che gli Israeliti avevano copiato dai Greci? Neanche per idea: i libri biblici di Samuele riferiscono eventi anteriori al re Davide e all'anno 1000 a.C. e comunque sono stati scritti tra il 630 e il 540 a.C., mentre Filippide consumò il suo sacrificio assai dopo, nel 490 a.C.
  «Chissà», dicono gli organizzatori con scarsa modestia, «se solo qualcuno avesse informato il barone de Coubertin di questa storia, la più lunga delle corse olimpiche, invece che maratona, forse si sarebbe chiamata gara di Shiloh, o corsa biblica». Per la prima Maratona della Bibbia sono attesi migliaia di runner, da Israele e dall'estero. Intanto, però, è sicuro che i palestinesi non gradiranno molto tutto questo entusiasmo sportivo: partendo dal sito della battaglia di Eben-Ezer, che è in territorio di Israele, i podisti punteranno poi decisamente verso est fino a Shiloh, che si trova proprio al centro del territorio palestinese. E dove dal 1978 c'è un insediamento di agguerriti coloni ebrei. Facile prevedere accuse da parte di chi vedrà nella maratona biblica l'ennesimo escamotage con cui gli ebrei più oltranzisti mirano a invadere il territorio governato da Abu Mazen.

(ItaliaOggi, 31 marzo 2015)


Come al solito l'autore dell'articolo non manca di rendere il doveroso omaggio all’ideologia filopalestinista del momento. Tutti i riferimenti fatti, a parte la nonchalance ironica con cui l’autore li presenta, testimoniano del fatto che quei territori hanno una secolare storia ebraica che non ha nulla di “palestinese”. Ciò che stona è il voler continuare a parlare di “coloni”, quando si tratta di coraggiosi pionieri, e di “territorio palestinese”. quando si tratta di territorio appartenente per motivi biblici e di diritto internazionale al popolo ebraico. M.C.


Il nuovo impero dell'Iran

L'ideologia rivoluzionaria di Teheran s'espande in medio oriente, ma Obama finge di non vedere. Molti esponenti della dirigenza iraniana parlano senza problemi degli obiettivi della conquista ten1toriale e ideologica. A Tìkrit si sta concretizzando, in modo feroce, il caos strategico degli Stati Uniti nella regione, come dicono molti alleati.

di Carlo Panella

Carlo Panella
Trionfo nell'esportazione della rivoluzione iraniana in Siria, Iraq, Libano e Gaza" e "ricostruzione dell'impero iraniano in tutto il medio oriente": questi, non certo le riforme, sono i temi del dibattito strategico che esalta e occupa la massima dirigenza iraniana. A queste linee strategiche bisogna guardare per capire le ragioni che hanno spinto la Lega araba, in primis l'Arabia Saudita e l'Egitto, a formare per la prima volta in settant'anni una loro forza militare congiunta esplicitamente funzionale a contrastare sul terreno di battaglia l'Iran. A iniziare dalla imminente battaglia di terra per la "riconquista sunnita" dello Yemen.
  Prima di firmare l'accordo sul nucleare, gli americani farebbero bene a capire che cosa significa "l'esportazione della Rivoluzione", perché porta diritto a quel "lato oscuro della forza" che domina la dirigenza di Teheran, che si presenta col volto della moderazione e della responsabilità ai tavoli di trattativa, ma interviene militarmente in medio oriente per destabilizzare i governi e imporre il suo "ordine rivoluzionario" .
  La filosofia dell'accordo si basa proprio sulla promessa e l'impegno dell'Iran di accettare stringenti ispezioni, che permettano all'Agenzia atomica dell'Onu di verificare che non venga superato quello spread di un anno che permetterebbe alle migliaia di centrifughe concordate di raffinare uranio arricchito funzionale a una bomba atomica. Promessa e impegno che Barack Obama ritiene da sempre attendibili, soprattutto da quando è presidente il "riformista" Hassan Rohani. Ma se Obama esaminasse quali sono le linee di politica estera "riformiste" sviluppate proprio dal governo Rohani, dovrebbe prendere atto che sono rivoluzionarie, eversive, dinamitarde della legalità internazionale e non prive di un'aurea "imperiale" che un domani legittimeranno qualsiasi sotterfugio, trucco, menzogna nei confronti di quelle ispezioni e verifiche che sono il baricentro della trattativa sul nucleare.
  Questa cruda analisi non è nostra, non è del premier israeliano Benjamin Netanyahu (né del re saudita Salman o dell'egiziano al Sisi), ma è il senso delle affermazioni della massima autorità militare iraniana, il comandante dei pasdaran Ali Jaafari, di fronte al più alto e autorevole organo collegiale del regime, il Consiglio degli esperti, diretto dall'ayatollah integralista Mesbah Yazdi: "L'Iran ha raggiunto un nuovo capitolo della sua politica di esportazione della rivoluzione islamica all'estero. La rivoluzione islamica sta progredendo a buona velocità. Non solo la Palestina e il Libano hanno conosciuto l'influente ruolo della Repubblica islamica, ma anche i popoli di Iraq e Siria. Anche loro apprezzano la nazione dell'Iran. La fase dell'esportazione della rivoluzione è entrata in una nuova èra. Hezbollah e la sua resistenza contro uno degli eserciti più forti del mondo è uno dei miracoli della Rivoluzione islamica. E' parte della potente influenza del sistema islamico come timoniere della regione. L'Iran miete successi continui nella sua strategia di esportazione della rivoluzione islamica in medio oriente".
  Con altri e più crudi termini, nel settembre del 2014 Ali Reza Zakani, parlamentare di Teheran, si è congratulato perché "l'Iran ora governa quattro capitali arabe: Baghdad, Damasco, Beirut e Sana'a".
  Pochi giorni dopo, Ali Younesi, consigliere del presidente Hassan Roani ed ex ministro dell'Intelligence nel governo di Khatami, ha espresso con altri - e ancora più preoccupanti - termini, perché provenienti da un "riformista", la concezione geopolitica del regime iraniano che sostiene questa esportazione della rivoluzione: "L'Iran oggi è ridiventato quell'impero che era un tempo, come indicava tutta la sua storia, e ora Baghdad è il centro della nostra civiltà, cultura e identità, come lo era nel passato. Mi riferisco all'impero Sasanide che governava nell'epoca pre-islamica e che ha conquistato l'Iraq. La capitale dell'impero era Baghdad. Tutta l'area del medio oriente è Iran che protegge tutte le nazionalità dell'area perché le consideriamo parte del nostro Iran che combatte l'estremismo islamico, il takfirismo, l'ateismo, i neo ottomani, i wahabiti, l'occidente e il sionismo". Dunque, la vocazione imperiale e rivoluzionaria dell'Iran lo porta a "combattere" - non a convivere pacificamente - con la Turchia (neo ottomana), l'Arabia Saudita (wahabita), gli Stati Uniti e Israele, oltre che, naturalmente, lo Stato islamico.
  Jafari, il più alto esponente del blocco militare-oltranzista del regime, esattamente come un autorevole "riformista" che consiglia Rohani e come un parlamentare oltranzista, spiegano la strategia eversiva e massimalista che alimenta lo sfrenato attivismo militare dell'Iran in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Con chiarezza annunciano al mondo che l'intensa attività militare dei pasdaran del generale Qassem Suleimaini in Siria, Libano e Iraq e l'appoggio esplicito al golpe portato a termine dagli sciiti Houthi nello Yemen non sono impegni episodici, per sostenere alleati in crisi, ma fanno parte di una escalation rivoluzionaria che si protrarrà nel tempo con l'obiettivo di estendere il dominio politico dell'Iran rivoluzionario nella regione.
  L'Amministrazione Obama (così come le cancellerie europee e purtroppo anche la Farnesina) continua a non vedere queste chiare linee di espansione rivoluzionaria e "imperiale" e ipotizza di avere di fronte a sé un Iran tutto e solo teso a una ripresa dello sviluppo interno - fiaccato dalle sanzioni - al massimo accompagnata da una legittima aspirazione a un ruolo di potenza regionale. Non è così: Younesi, Jafari e Zakani non fanno altro che attualizzare ed esplicitare la strategia di esportazione della rivoluzione enucleata a chiare lettere nel 1982 dall'ayatollah Khomeini. Allora l'Iran era riuscito a contenere l'aggressione dell'Iraq di Saddam Hussein (spalleggiato dall'Arabia Saudita) che mirava a stroncare sul nascere il contagio rivoluzionario khomeinista. Fiaccato dalla "non vittoria", Saddam Hussein aveva accettato la mediazione dell'Onu che sanciva il ritorno allo status quo antecedente al conflitto. Ma Khomeini la rifiutò e lanciò la parola d'ordine:
  "Esportare la rivoluzione iraniana a iniziare da Baghdad". Nell'impresa gettò pasdaran e bassiji e portò il paese alla rovina, fino a quando nel 1988 fu costretto "con la morte nel cuore" a fermare il massacro costato altri 500 mila morti.
  Tutta la dirigenza iraniana di oggi si è formata e ha conquistato il potere (espellendo e uccidendo i riformisti, a iniziare da Abol Hassan Banisadr) nel nome di quella consegna rivoluzionaria. La stessa costruzione della bomba atomica e la dotazione dei missili intercontinentali (funzionali agli ordigni nucleari) sono finalizzati a una raffinata strategia di uso della "deterrenza per esportare la Rivoluzione", che ha perfettamente funzionato anche solo nella fase di annuncio.
  A chi obietta che i discorsi e i progetti citati da questi tre esponenti iraniani non sono rappresentativi di tutta la dirigenza di Teheran, che invece, con Rohani, è impegnata in una virata moderata e riformista, rispondono crudamente i fatti. E' inequivocabile quanto è accaduto e continua ad accadere nei paesi su cui si è esteso manu militari il "nuovo impero iraniano" a motore e prassi rivoluzionari. Il massiccio intervento militare unilaterale della Brigata al Quds del generale Suleimaini ha influito sul governo politico di Libano, Iraq, Siria e Yemen, le cui decisioni, opzioni, scelte sono ormai subordinate alle strategie di Teheran, se non direttamente imposte da Teheran. Persino il segretario di stato americano, John Kerry, a fine febbraio, si è accorto (ed è tutto dire) che "l'Iran senza alcun dubbio ha contribuito al collasso del governo dello Yemen". I passaggi successivi hanno poi chiarito quale sia la strategia degli Houti sciiti yemeniti, armati (recentemente è stata intercettata una nave iraniana piena d'armi a loro diretta) dagli ayatollah: aggiungere lo Yemen "rivoluzionario" alla zona di influenza del nuovo impero iraniano.
  Non è tutto. Questa essenza rivoluzionaria ed eversiva della strategia di Teheran si traduce in una tecnica militare - il cui massimo esponente è appunto il generale Suleimaini - coerente quanto terrificante. Fondamentale da valutare proprio perché smentisce ogni e qualsiasi disposizione dell'Iran di Rohani a rispettare le regole del diritto internazionale. Una pratica di combattimento i cui crudi termini e l'esplicito e minaccioso significato sono di nuovo ignorati dall'Amministrazione Obama. Pure la denuncia, durissima, dei crimini commessi dalle milizie sciite comandate dal generale iraniano Suleimaini durante l'assedio di Tikrit provengono da due personalità cruciali per gli Stati Uniti nel contrasto allo Stato islamico: Massoud Barzani, capo dei servizi segreti del Kurdistan iracheno, e Ahmed al Tayeb, grande Imam dell'Università di al Azhar del Cairo. Con eccellente sintesi, riferendosi al loro comportamento durante l'assedio di Tikrit, Barzani ha dichiarato: "Le milizie sciite sono un pericolo maggiore dello Stato islamico". Il grande imam al Tayeb il 12 marzo ha emesso un lungo, inequivocabile comunicato che ha creato un caso diplomatico tra Baghdad e il Cairo: "Al Azhar esprime le sue preoccupazioni per le decapitazioni e le aggressioni contro pacifici cittadini iracheni, del tutto estranei allo Stato islamico, commesse dalle milizie sciite alleate con l'esercito iracheno a Tikrit e nell'Anbar. Queste milizie hanno bruciato moschee sunnite e ucciso donne e bambini sunniti. Condanniamo fermamente i crimini barbari che le milizie sciite commettono nelle zone sunnite che le forze irachene hanno iniziato a controllare. Invitiamo le organizzazioni umanitarie internazionali per la difesa dei diritti umani a intervenire immediatamente per fermare questi massacri".
  Si è così allargata quella crisi dirompente tra sciiti e sunniti che vede l'Amministrazione Obama tacere (con una complicità oggettiva), nonostante le future conseguenze eversive nella regione, rilevate con forza e allarme da un governo dell'Arabia Saudita che ormai è ai ferri corti con gli Stati Uniti, non meno - il paradosso è solo apparente - di quanto già non sia Bibi Netanyahu.
  Queste denunce dovrebbero preoccupare molto anche il governo italiano, perché sono state pronunciate da un alto esponente di quel Kurdistan iracheno che giustamente l'Italia arma e appoggia. Un'Italia che è parte a pieno titolo di una coalizione obamiana che non partecipa all'assedio di Tikrit, ma che arma, assiste e consiglia quell'esercito iracheno che si muove in battaglia con l'indispensabile aiuto proprio delle famigerate milizie sciite agli ordini di Teheran.
  Questa barbarie sciita-iraniana si è dimostrata tanto feroce quanto inefficace. Dopo un grande rullar di tamburi mediatico trionfalistico durato tre settimane, l'assedio di Tikrit è stato sospeso ormai da 10 giorni. La penosa scusa ufficiale del governo di Baghdad indica le ragioni di questa pausa nella capillare diffusione di mine e trabocchetti esplosivi nel contesto urbano. Come se gli assalitori che davano da giorni già per conquistata la città non avessero previsto questa ovvia evenienza. In realtà, invece, ancora una volta (questo è il terzo assedio a Tikrit che fallisce) si è verificato che un'armata sciita di 20 mila uomini, pur feroce, non è in grado di sconfiggere le milizie del Califfato. Le ragioni sono sicuramente varie, ma è probabile che la prima sia proprio nel fatto che ancora una volta i sunniti di Tikrit e dell'Anbar preferiscono sostenere il pur feroce dominio di Abu Bakr al Baghdadi, pur di non essere massacrate dagli sciiti. Con tutta evidenza, infatti, questi massacri sciiti agli ordini del generale Suleimaini non sono casuali, ma funzionali a imporre un dominio politico sciita-iraniano e a "eliminare il carattere arabo sunnita dell'Iraq", come denunciava nel 2009 Abdel Razzaq al Ali Suleiman, capo della potente tribù sunnita dei Dulaimi (tra le più grandi dell'Anbar, assieme a quella dei Sammar e degli al Dhari), e presidente del Consiglio dei trentanove capi tribù e dei diciannove notabili iracheni:
  "Gli arabi devono unire le forze per fermare l'influenza iraniana in Iraq che produce distruzione, uccisioni e espulsioni dai nostri territori. Se l'Iraq, Dio non voglia, dovesse perdere, con la nostra scomparsa, la sua identità araba, l'Iran si mangerebbe il Golfo dalla sera alla mattina".
  Questa analisi, così come l'equiparazione delle milizie sciite-iraniane allo Stato islamico, è condivisa dal generale David Petraeus (ex direttore della Cia, nominato da Obama), che così l'ha esposta durante un recente summit nel Kurdistan iracheno, con evidente critica alle scelte dell'Amministrazione Obama: "Le milizie sciite e l'Iran che le sostiene e perfino le guida rappresentano a lungo termine per l'Iraq e per gli equilibri regionali una minaccia più grave dello Stato islamico. E' una Chernobyl geopolitica che continuerà a diffondere instabilità radioattiva e ideologia estremista nell'intera regione fino a che non sarà bloccata. E' una minaccia che deve essere affrontata immediatamente e gli Stati Uniti devono fare di più. Lo sforzo avviato solleva domande legittime sulla sufficienza delle sue dimensioni, obiettivi, velocità e risorse. Il regime iraniano non è nostro alleato in medio oriente: è parte del problema, non la soluzione. Più gli iraniani sembrano dominare la regione, più si infiammerà il radicalismo sunnita e alimenterà l'ascesa di gruppi come lo Stato islamico. Contro il Califfato è necessario coinvolgere le forze sunnite che possono essere considerate come liberatori, non conquistatori. Per sconfiggere il Califfato, poi, non è solo necessario farlo sul campo di battaglia, ma simultaneamente, attraverso una nuova riconciliazione politica con i sunniti che devono tornare a contare. Devono sentire che hanno una responsabilità nel successo dell'Iraq piuttosto che nel suo fallimento. Il nostro ritiro ha contribuito alla percezione che gli Stati Uniti lasciassero il medio oriente ... la percezione nella regione negli ultimi anni è che gli Stati Uniti stiano scomparendo e i nostri nemici prendendo piede". Petraeus è il generale americano che - col voto contrario dell'allora senatore Obama - portò nel 2006, con la persuasione politica, le tribù sunnite dell'Anbar a partecipare a quel "surge" che sconfisse al Qaida e costrinse tanti suoi miliziani, incluso al Baghdadi, a cercare riparo in Siria. Di sicuro, non condivide i prezzi che l'Amministrazione Obama è disposta a pagare pur di non irritare la dirigenza iraniana e arrivare alla conclusione di un accordo sul nucleare. Ma è anche l'unico leader politico-militare americano che ha dimostrato nei fatti, vincendo, di capire le dinamiche irachene. Inclusi i pericoli dell'espansione, a partire dall'Iraq, della rivoluzione khomeinista iraniana.
  Ma l'assedio di Tikrit ha messo in luce un aspetto che si potrebbe definire farsesco, se il contesto non fosse tragico, della più confusa strategia mediorientale americana di tutta la storia. Preso atto che neanche l'aviazione irachena sa combattere, sospeso l'assedio via terra, la scorsa settimana il governo di Baghdad ha chiesto all'aviazione americana di bombardare le postazioni dello Stato islamico di Tikrit. Ma, effettuati i primi raid, buona parte delle milizie sciite ha abbandonato l'assedio per protesta contro "l'alleanza" con il "satana americano". Un caos mai visto.
  I 5-600 miliziani dello Stato islamico continuano così a tenere sotto scacco quella che ci era stata presentata come una nuova "Invencible Armada" che non è più di 20 mila soldati, ma che in teoria, dovrebbe comunque facilmente schiacciarli. Se solo gli Stati Uniti non continuassero a capovolgere Von Clausewitz, applicando la nuova versione di Obama: "La guerra è la continuazione di una non politica con altri mezzi".

(Il Foglio, 31 marzo 2015)


Svolta clamorosa: la Nato araba per fare guerra all'Iran

di Carlo Panella

Non contro Israele, ma contro l'Iran: la decisione della Lega Araba di creare una forza militare congiunta per fare guerra all'Iran è solo il primo passo di una escalation bellica mai vista. Non c'è precedente: mai, neanche per le 4 guerre contro Israele, i paesi arabi avevano deciso di formare una loro Nato. Non avevano neanche unificato i comandi, li avevano solo coordinati (e malamente). Inoltre, seconda svolta clamorosa, la Nato araba non solo non vede la presenza degli Usa, ma è chiaramente opposta, in rotta di collisione con la politica mediorientale degli Usa. A partire dall'accordo con l'Iran che Obama intende firmare al ribasso, per finire con la disastrosa politica yemenita e libica della Casa Bianca, causa non ultima dei disastri attuali. La sintonia piena delle ragioni di questa mossa con le valutazioni del pericolo iraniano espresse al Congresso Usa da Bibi Netanyahu, è sconcertante e indicativa. Le conseguenze sono da fantascienza: il 28 marzo 2015, nelle stesse ore, il premier di Israele e i re e presidenti arabi hanno dato ordine alle loro forze armate di prepararsi a combattere sul terreno un avversario comune a Gerusalemme, come al Cairo, a Rabat, a Amman e a Ryad: il musulmano Iran!
   Con questo cruciale passo, dunque, al di là del dato militare pur clamoroso, i paesi arabi sunniti, sotto la leadership dell'Egitto di al Sisi e dell'Arabia Saudita di re Salman, codificano una realtà drammatica: la guerra di religione dentro l'Islam, la Fitna, lo scannamento reciproco di sciiti e sunniti, diventa politica ufficiale, formale, degli Stati.
   Tutto questo accade perché i paesi arabi sunniti sono oggi convinti che "il nemico principale" è l'Iran, non l'Isis. Tesi interessante quanto clamorosa. anche perché è condivisa da quel monumento di saggezza
Alla vigilia della sigla dell'accordo sul nucleare, abbiamo quindi la controprova che tutta la gestione obamiana della crisi con l'Iran "è peggio di un crimine, è un errore". Come previsto da molti altri analisti, moltiplicherà la prolifera- zione bellica e nucleare, invece di pacificare il Medio Oriente.
geopolitica che è Henry Kissinger. Questa analisi, altro fatto eclatante, non è solo nei fatti, ma è detta, è proclamata apertamente sia da Al Sisi che da re Salman.
Alla vigilia della sigla dell'accordo sul nucleare, abbiamo quindi la controprova che tutta la gestione obamiana della crisi con l'Iran "è peggio di un crimine, è un errore". Come previsto da Kissinger e da molti altri analisti, moltiplicherà infatti la proliferazione bellica e nucleare, invece di pacificare il Medio Oriente. Ben presto, è certo, sia l'Egitto che l'Arabia Saudita si doteranno di bomba atomica, anche grazie al contributo del Pakistan (la cui atomica fu finanziata da Ryad). D'altronde, e non è un paradosso, anche quel fallimento della trattativa che pare incombere a ridosso della sua conclusione ohi 30 marzo, proverebbe la scarsa attendibilità della scelta di Obama di fidarsi degli interlocutori iraniani.
   Questa deriva bellicista ha infatti un'origine drammatica: tutti i paesi arabi sunniti (e la Turchia) divergono radicalmente dalla analisi sulla natura sostanzialmente affidabile del regime iraniano che incredibilmente e contro la verifica dei fatti, elaborano i consiglieri di Barack Obama. Consiglieri che non scorgono il poco o nullo riformismo della gestione Rohani delle crisi di Siria, Iraq, Libano, Gaza e Yemen.
   È una divergenza emersa da tempo, con cui il totalmente inadeguato J. F. Kerry si confronta da 6 anni in ogni suo contatto con gli alleati (o meglio, ex alleati) arabi e che nelle ultime settimane è precipitata. I motivi scatenanti di questa decisione che vede persino il lontano Marocco armarsi contro l'Iran sono due: l'assedio di Tikrit e il golpe sciita nello Yemen.
   La battaglia per Tikrit, lo si deve ricordare, doveva essere l'inizio della controffensiva contro l'Isis. A un mese di distanza però, quella offensiva "trionfante" di 30.000 miliziani sciiti e Pasdaran si è arenata, è stata sospesa per una ragione così sintetizzata dal premier del Kurdistan iracheno Mansour Barzani: "le milizie sciite irachene sono peggio dell'Isis". In parole povere: la resistenza delle poche centinaia di miliziani dell'Isis contro forze trenta volte superiori ha una sola ragione: il sostegno delle tribù sunnite terrorizzate dai nuovi massacri di cui si continuano a macchiare le milizie sciite e i pasdaran.
   Valutazione totalmente condivisa da re Salman dell'Arabia Saudita e che ha avuto l'autorevole è indiscutibile suggello del l'insospettabile generale David Petraeus, l'unico al mondo che abbia saputo sconfiggere l'Isis. Ma non basta, a Tikrit Obama è andato oltre il grottesco. La settimana scorsa il premier iracheno Abadi ha chiesto agli Usa (che non erano neanche stati informati dell'inizio dell'offensiva), di effettuare raid su Tikrit. Evidentemente neanche l'aviazione irachena funzione a livelli minimi di decenza. Iniziati i raid americani... larga parte delle milizie sciite ha abbandonato per protesta il fronte contro l'Isis. Scene da teatro di Jonesco.
   Passati due giorni, alla riprova che l'Iran non è la soluzione, ma la causa del collasso iracheno in feroce antagonismo alla popolazione sunnita, è seguito il colpo di Stato nello Yemen degli Houti, sostenuti e guidati dall'Iran.
   La rapidità accelerata, incombente, nella "esportazione della rivoluzione iraniana" rivendicata formalmente dal comandante generale dei Pasdaran Jaafari, ha obbligato così i leader sunniti a concretizzare la strategia perseguita da Condoleeza Rice: ergere una "trincea sunnita" dal potere militare così consistente, dalla massa critica politica così possente da funzionare da deterrenza nei confronti dell'espansionismo iraniano e, nel caso, da saperlo sconfiggere sul terreno. Nelle prossime ore, a Ginevra e nello Yemen si vedrà se questa mossa indurrà o meno gli ayatollah e i Pasdaran a accedere a una trattativa o a continuare col loro oltranzismo espansivo.
   Conoscendoli, si può scommettere che seguiranno le due strade in contemporanea (è incredibile che Obama non sappia cogliere questa loro manifesta duplicità). A Ginevra sigleranno un accordo che disattenderanno clandestinamente (e Obama gli lascerà spazio irresponsabilmente per questa Hudna beffarda), ma nello Yemen, in Iraq, in Siria, in Libano, a Gaza e forse anche nel Bahrein e nel Kuwait continueranno a esportare la rivoluzione. E sarà guerra. E saranno guerre.
   Così, l'opinione pubblica mondiale si renderà infine conto che la terza guerra mondiale di cui parla papà Francesco, in realtà è combattuta da musulmani contro musulmani e non da oggi, ma da 50 anni in qua. E farà i conti: dal 1956 al 2015, escludendo i conflitti in cui sono stati parte Israele, la Francia o gli Usa, i morti di questa guerra di musulmani contro musulmani sono stati tra i tre e i cinque milioni. E non è finita.

(L'Huffington Post, 31 marzo 2015)


Perché gli ex nazisti sono tutti in Sudamerica?

C'entrano il Vaticano e le dittature latinoamericane, secondo la tesi più accreditata. E quanti sono i gerarchi nazisti ancora ricercati?

 
Un gruppo di archeologi argentini dell'università di Buenos Aires ha scoperto qualche giorno fa, in un parco chiamato «Teyu Cuare», una struttura composta da tre edifici che, secondo le prime ipotesi ancora da confermare, sarebbe stata costruita come rifugio per ospitare i gerarchi nazisti in fuga dalla Germania dopo la Seconda guerra mondiale. La struttura è stata trovata nella provincia di Misiones - nel nord-est del paese, vicino al confine con il Paraguay - e in una delle stanze sono state scoperte monete tedesche che circolavano tra il 1938 e il 1944 e porcellane dell'epoca. Che sia vero oppure no (ora gli archeologi sono alla ricerca di nuovi finanziamenti per proseguire la ricerca), intorno al rapporto dei nazisti con i paesi del Sudamerica circolano molte storie: c'entrano nomi conosciuti legati alla dittatura di Adolf Hitler, arresti ed estradizioni altrettanto famosi, leggende metropolitane (come quella per cui Hitler non sarebbe morto ma sarebbe scappato in Argentina) ma anche notizie storiche confermate e documentate.

 O.D.E.SS.A.
  O.D.E.SS.A. è l'acronimo di Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen (Organizzazione degli ex-membri delle SS) e si riferisce a una rete organizzata verso la fine della Seconda guerra mondiale da un gruppo di ex ufficiali delle SS - la polizia paramilitare nazista - che, con la collaborazione e l'aiuto di altri soggetti, facilitarono e finanziarono la fuga di gerarchi e criminali nazisti soprattutto in Sudamerica. Su O.D.E.SS.A. circolano diverse teorie, su cui gli storici si dividono e che hanno a che fare con la struttura stessa dell'organizzazione (secondo alcuni era centrale, secondo altri mancava un organismo di coordinamento), con i canali di fuga e con le coperture e le collaborazioni ottenute.

 Perché in Sudamerica?
  Il giornalista e storico argentino Uki Goñi ha pubblicato un libro intitolato "Operazione Odessa" (tradotto in italiano da Garzanti) in cui suggerisce che il Vaticano abbia avuto un ruolo attivo nella copertura dei gerarchi nazisti in fuga e che sia soprattutto questo il motivo per cui i paesi disposti ad accogliere i nazisti furono quelli del Sudamerica: Goñi descrive e documenta riunioni a questo scopo alla Casa Rosada, la sede della presidenza argentina; l'invio di agenti in Europa per agevolare l'espatrio; il passaggio in Svizzera; i documenti di identità forniti dal Vaticano per ottenere il lascia passare della Croce Rossa e la partenza dal porto di Genova. Le sue ricostruzioni hanno portato all'apertura di numerose inchieste, sono condivise da altri storici e supportate da un'ampia documentazione, compresa quella della Comisiòn para el Esclarecimiento de las Actividades del Nazismo en la Argentina, costituita presso il ministero degli Affari Esteri dal presidente argentino Menem.
  La teoria di Goñi è che molti stati del Sudamerica fossero asili predisposti per la fuga dei nazisti ancor prima che la guerra finisse: stati neutrali, a maggioranza cattolica e guidati in molti casi (Argentina, Cile, Bolivia e Paraguay) da governi filo-nazisti. Inoltre, soprattutto in Argentina, era presente un'ampia comunità di emigrati provenienti proprio dalla Germania. Gli itinerari principali della fuga erano tre: il primo partiva da Monaco di Baviera e si collegava a Salisburgo per arrivare a Madrid; gli altri due partivano da Monaco e, passando da Strasburgo o attraverso il Tirolo, arrivavano a Genova, dove i gerarchi potevano imbarcarsi con l'aiuto del clero verso l'Egitto, il Libano, la Siria e, soprattutto, il Sudamerica.
  A sostegno di questa tesi ci sono anche le storie dei ritrovamenti e dei processi più celebri: per esempio quello di Adolf Eichmann, il colonnello delle SS che ideò la cosiddetta "soluzione finale", cioè lo sterminio nei campi di concentramento di sei milioni di ebrei. Eichmann entrò in Argentina nel 1950 con un passaporto falso rilasciato dalla Croce Rossa a nome "Ricardo Klement": riuscì a portare con sé la famiglia ed entrò a lavorare negli stabilimenti della Mercedes vicino a Buenos Aires. Venne catturato dai servizi segreti israeliani nel maggio del 1960, condannato a morte e ucciso a Gerusalemme. Josef Mengele, responsabile del programma di eutanasia del regime di Adolf Hitler, viaggiò tra Argentina, Uruguay, Paraguay e, infine, Brasile. Walter Kutschmann, ex capo della Gestapo in Polonia, e Josef Schwammberger, ex comandante delle SS, sono stati catturati sempre in Argentina.
  Erich Priebke, ex comandante delle SS e responsabile del massacro delle Fosse Ardeatine, arrivò in Argentina nel 1948 grazie all'aiuto di alcuni sacerdoti altoatesini: fu catturato a San Carlos de Bariloche, in Argentina, nel 1994, ed estradato in Italia un anno dopo. I paesi del Sudamerica non accolsero solo i criminali tedeschi: a Buenos Aires vissero a lungo anche Ante Pavelich, dittatore croato, e i criminali di guerra olandesi Abraham Kipp e Jan Olij Hottentot. Tutti iniziarono nella loro nuova patria una vita "normale", con il benestare dei regimi latinoamericani: soprattutto di quello peronista in Argentina.

 La ricerca
  Non è possibile avere dei dati sul numero di nazisti fuggiti dalla Germania in altri paesi d'Europa o in altri continenti. Le notizie più dettagliate e più citate sono quelle del Centro Simon Wiesenthal di Gerusalemme, organizzazione non governativa che ogni anno compila, tra l'altro, una lista degli ex gerarchi del Terzo Reich ancora ricercati. Dal 2005 il Centro Simon Wiesenthal ha individuato i nomi di circa mille presunti criminali di guerra ancora vivi in Europa, molti dei quali provenienti dalla Germania, e ha lanciato diverse campagne intitolate "Operation last chance" per rintracciarli. L'obiettivo è chiedere informazioni ai cittadini e alle cittadine sui nazisti superstiti e scoprire nuovi casi di cui le autorità non sono state ancora informate.
Dal 2007 la campagna, già attiva in Europa, è stata lanciata anche in alcuni paesi del Sudamerica. Secondo il Centro Wiesenthal, circa 300 criminali di guerra e migliaia di collaboratori del Terzo Reich sono fuggiti in Argentina alla fine della Seconda guerra mondiale. C'è comunque un certo dibattito sul lavoro del Centro Simon Wiesenthal, circa il senso di una giustizia così tardiva che persegue persone ormai anziane e spesso in condizioni di salute precarie.

(il Post, 31 marzo 2015)


Israele: a Netiv HaAsara la vita è appesa a 3 secondi

Questo il tempo per ripararsi dalle bombe che arrivano da Gaza sul villaggio di confine.

di Fabio Govoni

NETIV HAASARA (Israele) - Tre secondi. La differenza fra la vita e la morte nel piccolo villaggio israeliano di Netiv HaAsara, a ridosso della Striscia di Gaza, è appesa a tre secondi. E' il tempo tecnico che un abitante del villaggio ha a disposizione per infilarsi in un riparo antibomba fra quando suona l'allarme e l'impatto di un razzo Qassam o Grad lanciato dai miliziani di Hamas, che in linea d'aria si trovano a poche centinaia di metri di distanza.
E infatti i ripari, piccoli bunker in calcestruzzo armato con una porticina, sorgono un po' ovunque: alla fermata dove i bambini aspettano l'autobus per andare a scuola ad Ashqelon, nel parco giochi a pochi metri da altalene e scivoli, in ognuna delle case dove da 33 anni vivono i circa 800 abitanti. E quando Israele è in guerra con Gaza, i bambini la notte dormono tutti insieme in un bunker. Malgrado ciò, dal 2001 due persone sono morte sotto le bombe.
Netiv HaAsara è un 'moshav', villaggio agricolo cooperativo, secondo lo spirito del primo sionismo di ispirazione socialista che animò lo Yishuv, l'insediamento in Palestina di ebrei che precedette dopo la guerra la costituzione dello Stato d'Israele.
A differenza di un kibbutz, dove la terra è collettivizzata, un moshav divide la terra in parti uguali, anche se la proprietà è individuale. La produzione e i mezzi di produzione sono invece collettivi. A Netiv HaAsara si producono piante ornamentali e da giardino e sementi per l'agricoltura, soprattutto ortaggi. Il tutto in serra, perché il terreno arido e sabbioso del Neghev non consente la coltivazione di campi. L'insediamento in origine si trovava nel Sinai, vicino al confine sud di Gaza. Poi, nel 1982, quando la penisola fu restituita all'Egitto tre anni dopo la pace di Camp David, fu sgomberato e ricostruito sul confine nord della Striscia. "Quando ci ricollocarono chiedemmo solo di abitare in terra d'Israele", non disputabile, spiega Hila, portavoce del villaggio, madre di cinque figli, che all'epoca aveva 5 anni. "Qui, il 70% dei circa 800 abitanti ha votato per i laburisti di Isaak Herzog, dice Hila. "Io ho votato per il Meretz", la sinistra.
A pochi chilometri ci sono il valico di Erez e Ashqelon, la cittadina che ha la fama di essere il principale bersaglio dei razzi di Hamas. "In realtà - spiega Hila - il record di attacchi missilistici e di bombe di mortaio ce l'abbiamo noi, che abbiamo anche il primato di vicinanza al nemico in tutto Israele". Da quando Israele uscì dalla Striscia, "noi siamo in trincea", il nemico è a alle porte. "Noi non siamo protetti da Iron Dome", spiega Hila, perché troppo vicini. E dalla cima della collinetta al centro del villaggio si vedono a neanche mezzo chilometro di distanza, sulla collinetta antistante, le palazzine del villaggio palestinese di Beit Lahiya. In mezzo, una barriera di filo spinato e un muro alto 5-6 metri. "Quello serve a impedire che i cecchini palestinesi ci prendano di mira", dice a sua volta Ziv, l'addetto alla sicurezza di Netiv HaAsara, mitra Armalite a tracolla, che abita nel villaggio ma risponde all'Idf, l'esercito di Israele, e mostra ai cronisti alcune code di bombe di mortaio. "E se nel caso dei missili hai a disposizione 3 secondi, contro queste non si può fare nulla". E Netiv HaAsara detiene un terzo record: durante la guerra della scorsa estate, l'operazione Protective Edge, uno degli oltre 30 tunnel scavati da Hamas fu scoperto a soli 300 metri dal centro del villaggio: era il più profondo mai scavato, 25 metri sottoterra, e si calcola che sia costato 3 milioni di dollari.
"Due anni fa - racconta Hila - un Qassam cadde in settembre, nel primo giorno di scuola, e sul razzo c'era scritto in ebraico 'Auguri per l'inizio della scuola'. Così si uccide la pace, così il nemico cerca di ucciderci. Ma più che ucciderci fisicamente, cerca di uccidere la nostra anima, di fiaccare la nostra resistenza, il nostro spirito", dice, con la voce rotta dall' emozione. "I miei figli sono in guerra ogni giorno. E quando mio figlio piange per la paura sotto le bombe, io gli dico: 'Pensa che dall'altra parte c'è un bambino palestinese che forse ha ancora più paura di te'. Io cerco di non perdere il mio ideale.
devo mantenere la mia 'ingenuità', il mio ottimismo". Del resto, "non abbiamo un'altra terra dove andare". "Ebrei e palestinesi sono le vittime dello stesso terrore: Hamas".
E sulla parte esterna del muro anti-cecchino che dal confine dista soli 50 metri una artista locale ha costruito una grande scritta in mattonelle colorate di maiolica con una colomba e la scritta in tre lingue: "Peace, Salaam, Shalom".

(ANSAmed, 31 marzo 2015)


Ventimiglia: successo per la cena Kasher dell'associazione culturale Italia-Israele.

In occasione della prima manifestazione dell'Associazione, è intervenuto il Presidente della federazione italiana Italia- Israele, Carlo Benigni e la Presidente di Ventimiglia, Maria Teresa Anfossi.

Il 29 marzo si è svolta la cena Kasher dell'Associazione culturale Italia Israele di Ventimiglia. La prima cena d'incontro armonioso fra due culture è stata un successo e alla tavola preparata secondo quanto vuole la Torah, ha partecipato anche una coppia di Massa Carrara. In occasione della prima manifestazione dell'Associazione, è intervenuto il Presidente della federazione italiana Italia- Israele, Carlo Benigni e la Presidente di Ventimiglia, Maria Teresa Anfossi.
La cena è stata un momento di riflessione culturale grazie all'intervento della Signora Marinet, insegnante di ebraico e moglie del presidente onorario della sede di Montecarlo, che ha esplicato il significato di Kasher nella cultura e nella tradizione israeliana. Alla cena ha partecipato anche la presidente dell'associazione culturale NUT di Ventimiglia, con la quale sono in previsione corsi di kabbalah e meditazione. L'Associazione ringrazia Romolo, il proprietario del ristorante Amarea per aver loro concesso la possibilità di usufruire di una cena cucinata in piene regole Kasher.

(SanremoNews, 30 marzo 2015)


Li Ka-shing è il primo investitore estero nelle startup israeliane

 
Li Ka-shing
Il magnate hongkonghese Li Ka-shing è il maggiore investitore straniero nelle startup israeliane, che costituiscono un settore fondamentale dell'economia di Tel Aviv, sostenuta negli ultimi anni proprio dalla crescita dell'hi tech.
Horizons Ventures Ltd. (il fondo d'investimento di Li Ka-shing), secondo una ricerca di IVC Research Center citata dal Wall Street Journal, costituisce la principale fonte di finanziamento dall'estero per una quantità di protagoniste della cosiddetta Silicon Wadi, la versione mediorientale della valley tecnologica statunitense concentrata tra Tel Aviv e le città di Ra'anana, Petah Tikva, Herzliya, Netanya e Rehovot.
Il quotidiano finanziario statunitense riferisce oggi che, finora, Horizons ha investito in 28 startup israeliane, tra le quali Corephotonics (obiettivi per fotocamere degli smartphone) e Kaiima (bio-agritech) e che ormai il 60% delle startup nel portafoglio del fondo dell'ottantaseienne Li è israeliano, a conferma del rapporto sempre più intenso tra Tel Aviv - le cui aziende cercano capitali per sostenere l'impetuosa crescita di Silicon Wadi e mercati per i loro prodotti - e i "capitalisti rossi", a caccia di tecnologie innovative, perché la nuova economia cinese mira a emanciparsi dal ruolo di fabbrica del mondo e iniziare a sfornare brand che si impongano sui mercati internazionali.
Il Chief Technology Officer di Horizons è Gilad Novick, un israeliano che - riferisce il WSJ - "raccomanda spesso startup a Solina Chau, la compagna di vecchia data di Li che gestisce il suo fondo di venture capital e vola in Israele diverse volte all'anno".
Nel 2013 Li Ka-shing - che con un patrimonio pari a 33 miliardi di dollari (stime Forbes) è l'uomo più ricco dell'Asia, visitò per la prima volta Israele e finanziò il Technion (la principale istituzione tecnologica locale) con 130 milioni di dollari in occasione della firma di un accordo tra l'università di Haifa e quella cinese di Shantou (fondata da Li nella provincia meridionale del Guangdong) che portò alla nascita del Technion-Guangdong Institute of Technology (TGIT).
Tra i protagonisti della "rivoluzione economica" iniziata dalla Cina alla fine degli anni Settanta con la stagione di "Riforme e apertura", Li è uno dei magnati presi di mira da una parte del movimento studen- tesco sceso in piazza a Hong Kong nei mesi scorsi. Durante quelle giornate Li disse di "comprendere" le ragioni della protesta, ma invitò i giovani a tornare a casa a studiare.

(cinaforum, 30 marzo 2015)


Shabbat a Kiev (per sentirsi ucraini)

di Roberta Zunini

Mancano una manciata di minuti all'inizio di shabbat. Nel vecchio quartiere di Podol, oggi abitato da
artisti senza fortuna ed ebrei, la sinagoga, accanto al centro ebraico, sta per accogliere i fedeli. Ma nessuno si presenterà con i riccioli e cappotto nero accompagnato da cappello di feltro buio e a larghe tese, come vuole la tradizione ortodossa. Pur trovandosi nel più vecchio quartiere ebraico di Kiev, questa sinagoga è frequentata da ebrei "progressisti" e il loro rabbino di riferimento è il riformista cinquantenne Alexander Duchovny, che non porta nemmeno la kippah.
  In Ucraina il titolo di rabbino capo è stato conferito quasi dieci anni fa al conservatore Moshe Reuven Azman, scatenando polemiche e aspri dibattiti all'interno della comunità. Che, secondo il coefficiente di proiezione, sarebbe costituita da circa 300mila ebrei con passaporto ucraino, pochi hanno mantenuto il passaporto russo. Dall'ultimo censimento è emerso con certezza che gli ebrei ucraini sono almeno 100mila. Il cuore della comunità batte forte anche a Dnipopetrovsk, nell' est, a ridosso del Donbass non ancora pacificato, dove l'ex governatore, l' oligarca finora leale al nuovo governo post Maidan, Igor Kolomoisky, finanzia il centro culturale ebraico più importante e attivo. Anche a Odessa ci sono molti ebrei, ma Kiev è la città dove risiede la comunità più antica. A un anno e mezzo dalla rivoluzione e a un anno dalla fuga di Yanukovich, sia Reuven Ashman sia Duchovny sono concordi nel sottolineare che Maidan è stata un' occasione per gli ebrei ucraini di unirsi sotto la bandiera del rifiuto della corruzione, dell'aspirazione a uno stato trasparente che rispetta i diritti umani. Entrambi hanno detto al Fatto che i loro ragazzi hanno combattuto a Maidan dalla parte dei rivoluzionari e alcuni di loro si sono in seguito arruolati nei battaglioni per combattere nel Donbass contro i filorussi, rimanendo feriti. "Due sono morti", dice Duchovny. Ciò che gli preme sottolineare è che "con Maidan siamo diventati cittadini ucraini e non pi ù solo ebrei che vivono in Ucraina". Gli fa eco Reuven Azman, che avevamo già intervistato nei giorni più caldi e difficili di Maidan, dopo che il presidente russo Putin aveva accusato la piazza rivoluzionaria di essere antisemita. Allora ci aveva detto: "Non è vero, tanto che i responsabili di Somoborona (la milizia civica costituitasi allora per rimpiazzare la polizia di cui nessuno si fidava più, ndr) mi chiamano tutti i giorni per sapere se ho bisogno di aiuto. Ora sto per denunciare il quotidiano israeliano Haaretz che ha completamente travisato le mie parole scrivendo che avrei consigliato agli ebrei ucraini di fare ritorno in Israele. Mai detto".
  Insomma gli ebrei ortodossi tanto quanto quelli progressisti dell'Ucraina oggi si sentono finalmente a casa. Dukhovny allora fece ancora di più per smentire il presunto antisemitismo di Maidan. "Scrivemmo una lettera aperta a Putin dicendo che non avevamo bisogno della sua protezione e ritenevamo i due episodi contro la comunità (scritte antisemite sui muri di una sinagoga a Kiev) pura provocazione dei tituska, i picchia tori a quel tempo assoldati da Yanukovich per intimidire i rivoluzionari". Anche Jozef Zissel, oggi membro del comitato anticorruzione, nonché portavoce della comunità ebraica ucraina, è della stessa opinione e aggiunge: "È in Crimea e nelle zone del Donbass sotto il controllo dei separatisti che gli ebrei sono ora di nuovo in pericolo, discriminati e insultati, tanto che molti sono venuti qui a Kiev e a Leopoli o hanno fatto ritorno in Israele". Ricorda poi che sul palco di Maidan c'era sempre il microfono aperto per gli ebrei e lui stesso era andato più volte a parlare. Sottolinea anche che "per mesi il portavoce di Pravy Sektor è stato un ragazzo ebreo, Borislav Bereza". Il giornalista-intellettuale Vitaly Portnikov, amante della storia italiana, sorride invece quando dice:
  "Siamo diventati un popolo unico e unito nella lotta. Maidan e la rivoluzione arancione non sono state la stessa cosa. Durante la rivoluzione arancione non si è combattuto, non si è cercata davvero la libertà. A Maidan invece sì".

(il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015)


È il momento dell'Aliyah: gli ebrei tornano a casa

Gli ebrei lasciano l'Europa, ma non solo. Per tornare a vivere in Israele. E' l'Aliyah. Dalla Francia partono a migliaia, anche per paura dell'antisemitismo. In Italia le spinte sono diverse: da tempo si segnalavano partenze dalla comunità di Milano, oggi anche da Roma.

di Leonardo Coen

 
In questi giorni, il mio vecchio amico Asher Salah, ebreo fiorentino nonché docente universitario di filosofia all'università di Gerusalemme, si trova a Filadelfia per un semestre alla Penn University dove presenta un progetto di ricerca sulla riforma ebraica in Italia nell'Ottocento. Asher lasciò l'Italia nel 1990, dunque un quarto di secolo fa: non era un periodo, come dire?, facile. L'Occidente si apprestava ad affrontare Saddam Hussein nella guerra del Golfo, l'Intifada palestinese - la "rivolta delle pietre" - sarebbe durata sino al 1993. Quando Asher decise di compiere la sua aliyah che in ebraico vuol dire "salita", ossia l'immigrazione ebraica verso Eretz Israel (la terra d'Israele), era ancora vivo il ricordo del primo attacco suicida dentro i confini di Israele, passato alla storia come il massacro dell'autobus 405, avvenuto il 6 luglio del 1989. Terra degli avi, ma anche terra dell'angoscia. Il drammatico contesto politico di quel tempo contenne il flusso immigratorio: "Molti giovani venivano a studiare in Israele", ricorda Salah, peccato che poi solo circa la metà rimanesse in Israele: "Chi compiva l'aliyah lo faceva essenzialmente per motivi politici o religiosi. Gli altri preferivano rientrare in Italia e stare con le famiglie". Le tempeste della Storia mitigavano il loro iniziale entusiasmo. Fatto sta che erano poche decine gli ebrei italiani all'anno decisi all'aliyah. Sino al nuovo millennio. A partire dal 2003/2004, qualcosa cambia. Si verifica un continuo incremento nel numero degli immigrati verso Israele. Nel 2012 sono 130; 140 nel 2013. Cifre minuscole, tuttavia significative se pensiamo che la comunità ebraica italiana conta 35 mila persone. Ma il Grande Balzo avviene lo scorso anno.

 2014: l'anno delle partenze
  Nel 2014, infatti, gli olim italiani - gli ebrei cioè che "salgono" ad Eretz Israel, la terra d'Israel - diventano 323, più del doppio dell'anno precedente, dieci volte tanto gli olim degli anni Novanta. Il secondo flusso più rilevante dal 1951, dopo quello emotivo che seguì la Guerra dei Sei Giorni, quando il massimo storico superò di poco i 350 immigrati. In realtà, dall'Italia, tra il 1944 e il 1951, erano giunti nella Terra Promessa 2084 ebrei. Il loro esodo, però, aveva connotati ben diversi, si configurava in un contesto di disperazione per l'Olocausto e di fierezza identitaria nel voler partecipare alla costruzione e alla difesa del nuovo stato ebraico. Un sintomo della novità l'ha percepito nel suo ambiente il professor Salah: "Le università israeliane hanno cominciato ad organizzare il reclutamento di potenziali studenti in Italia", osserva Asher, "durante un raduno tenuto a Milano due anni fa a cui ho partecipato anche io in rappresentanza dell'accademia Bezalei, sono stato sorpreso dal grande numero di partecipanti, quasi duecento. Dall'anno scorso le autorità universitarie israeliane hanno incluso l'italiano come lingua per fare gli esami di pre ammissione all'università (i cosiddetti psicometrici). Questo significa che c'è una massa critica che lo giustifica... A Tel Aviv e a Herzilia, dove abito, sentire parlare anche italiano è sempre più frequente per strada". I numeri sono importanti nella tradizione culturale ebraica. Quelli legati alle dinamiche della popolazione, sono essenziali sotto il profilo geopolitico: "E un dato interessante, se uno guarda la serie storica", spiega Sergio Della Pergola, docente di Studi della Popolazione ebraica all'università di Gerusalemme, demografo di grande autorevolezza, "gli italiani che si trasferiscono in Israele non sono un numero sbalorditivo, però il loro numero è in continuo incremento". Ed in evoluzione. Determinato da cosa? Dal crescente senso di insicurezza? In Francia, senza dubbio: è il paese più problematico: episodi di antisemitismo sempre più violenti, culminati con la strage a Charlie Hebdo e nel supermercato kosher di Parigi. Lì gli ebrei si sentono minacciati e vogliono andarsene via: l'hanno fatto in 6500 l'anno scorso.

 La paura non è l'antisemitismo
  Ma in Italia? Della Pergola ha condotto assieme a L. Daniel Staestky la ricerca (anticipata su Pagine Ebraiche a fine gennaio), "Da vecchie e nuove direzioni. Percezioni ed esperienze di antisemitismo tra gli ebrei italiani", per scoprire che qui fa più paura la disoccupazione, la corruzione, la crisi economica, il razzismo, la criminalità, l'immigrazione. L'antisemitismo è in settima posizione. Certo, il 63 per cento degli ebrei italiani identifica l'odio antiebraico come un problema (in Francia lo è per l'86 per cento). Però, solo il 20 per cento dichiara di aver preso in considerazione la possibilità di lasciare l'Italia per "salire" in Israele (la media europea si attesta sul 29 per cento). Il 70 per cento, al contrario, lo esclude. Ma chi sono i 323 olim d'Italia? Per l'antropologa Fiammetta Maregani, che si è trasferita a Tel Aviv nel 2012, "ce ne sono ormai due tipi - riferisce al sito Kolot ("Voci") - quelli come me che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed economici e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti". Mentre un tempo prevalevano i giovani, adesso si trasferiscono soprattutto le famiglie: secondo i dati dell'Irgun Olé Italia (l'associazione degli olim italiani), il 64 per cento dei nuovi arrivati è sposato. Differente è pure la geografia delle partenze. Prima, erano i milanesi ad andar via. Oggi, sono i romani. Il 77 per cento proviene infatti dalla comunità capitolina. Alla base di questo rovesciamento è la composizione socioeconomica: "A Roma - sottolinea Della Pergola - c'è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall'attuale congiuntura, e quindi più interessato ad emigrare". Immigrazione a basso reddito, attirata dai buoni risultati dell'economia israeliana che ha retto molto meglio di quella italiana. Intendiamoci, c'è ancora chi se ne va "più per ideologia che per altro". Come Edoardo Yossef Marascalchi e sua moglie Micol Picciotto. Hanno lasciato Milano nel 2009, lei aspettava un bimbo; hanno trovato casa a Netanya (una trentina di chilometri da Tel Aviv), si sono presto adattati alla nuova realtà, coniugando valori ebraici con le esigenze della vita: "In questi ultimi anni si vedono arrivare intere famiglie coi genitori tra i 50 e i 60 anni e i figli tra i 15 e i 20. E una differenza radicale, rispetto al passato. Di fronte alla crisi economica, soprattutto da Roma, il trasferirsi in Israele è visto come una soluzione pragmatica, per fronteggiare le difficoltà quotidiane".

 Un impatto non sempre facile
  Marascalchi ha avuto l'idea di mettere on line i diari degli olim. È durata poco: "A quanto pare la vita è più impegnativa del previsto e nessuno ha continuato a scrivere", dice amareggiato. L'integrazione non sempre è semplice, "il disagio è tuttavia attutito sia dalla disponibilità degli autoctoni sia, soprattutto, da una sorta di rete di mutua assistenza tra italiani che oggi è attiva anche nei centri minori, e che di fatto esisteva già a Gerusalemme e a Tel Aviv. C'è da dire che, per una strana combinazione di eventi, i madrelingua italiani sono molto richiesti dalle aziende dell'hightech israeliano. Il mercato italiano è particolarmente interessante e gli italiani in Israele non sono numerosissimi come i francesi, i russofoni o gli anglofoni. Inoltre, la società israeliana è molto meritocratica, ciò rende meno rilevante il livello di istruzione rimuovendo uno degli ostacoli che molti olim italiani temono di più, convinti inizialmente che solo ingegneri e titolari di master possano trovare lavoro in Israele". A volte, ci si interessa più ai problemi che alle soluzioni, più alle domande che alle risposte.

 Israele: cosa dice la legge del "rientro"
  La Legge del Ritorno, 5710 - 1950 stabilisce il diritto di ogni ebreo di emigrare nello Stato d'Israele. Questa legge rappresenta l'espressione del legame tra il popolo ebraico e la sua patria. Gli ebrei che tornano in Israele sono considerati come parte del popolo che in passato è stato allontanato da Israele, e che sta ora tornando al proprio paese. II riconoscimento avviene purché la persona si trasferisca in Israele con l'intenzione di viverci e di rimanervi e a condizione, se ancora in età, di compiere il servizio militare che per i maschi dura tre anni e per le femmine due anni. Nel merito della legge, è definito ebreo "una persona nata da madre ebrea, o che si è convertito successivamente all'ebraismo, e non è appartenente a un'altra religione." In base agli accordi tra il Governo d'Israele e l'Agenzia Ebraica, quest'ultima si occupa dell'immigrazione (Aliyà) in Israele: controllando gli aspiranti, fornendo consulenza e assistenza, provvedendo all'accoglienza e all'accesso nei centri provvisori di immigrazione, fornendo contatti per posti di studio, lavoro, facilitandone quindi l'assorbimento. Un incaricato dell'Agenzia Ebraica che segue la richiesta d'immigrazione di una persona, trasferisce la domanda, accompagnata dalle sue referenze scritte indirizzate a un rappresentante ufficiale dello Stato d'Israele. L'autorità che si occupa del rilascio del visto per immigrazione procede con il rappresentante diplomatico alla disamina delle richieste e delle referenze presentate dal responsabile per l'Aliyà. In casi di dubbio la pratica può essere trasferita alla sezione consolare del Ministero degli Affari Esteri per una decisione definitiva. Le persone interessate a intraprendere il processo di immigrazione in Israele devono contattare il rappresentante per l'Aliyà dell'Agenzia Ebrea presente nella loro zona di residenza.

(il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2015)


Dispositivo israeliano monitora anche a casa pazienti a rischio di arresto cardiaco

Alcune compagnie israeliane stanno sviluppando dispositivi di controllo volti a migliorare la qualità della vita in pazienti a rischio di arresto cardiaco.
L'insufficienza cardiaca cronica congestizia è la prima causa di ricovero di persone di età superiore ai 65 anni e colpisce circa 26 milioni di persone nel mondo.
Il dispositivo israeliano CardioFit, realizzato dalla BioControl Medical, offre una nuova opportunità di trattamento dedicato a coloro che sono a rischio di arresto cardiaco.
Anche il ricovero ripetuto del pazienze può essere una fonte di stress e per tale ragione l'azienda BioControl Medical, con sede a Yehud in Israele, ha messo a punto uno strumento di monitoraggio cardiaco che può essere utilizzato comodamente da casa.
Somiglia ad un lettore MP3, ma in realtà è un dispositivo di stimolazione elettrica che si impianta per migliorare la funzione cardiaca. Ad oggi, rappresenta una nuova fonte di speranza per milioni di pazienti con scompenso cardiaco.
Il CEO Ehud Cohen spiega:
    «Per immaginare il modo in cui questo dispositivo funziona occorre pensare che il sistema simpatico nervoso funzioni come il pedale del gas di una macchina ed il ramo parasimpatico come il pedale del freno. Se il "pedale" rende la macchina troppo veloce, basta sollevare il piede dall'acceleratore ed è proprio ciò che fanno i farmaci. Il problema sorge nel momento in cui il "pedale del freno" non può essere trattato ed è ciò che riesce a fare questo dispositivo.»
CardioFit stimola il nervo vago per attivare il sistema nervoso parasimpatico che a sua volta allevia i sintomi dell'insufficienza cardiaca congestizia.
Fino ad oggi, si è sempre trattato una parte del problema mediante l'uso dei farmaci, con questo dispositivo sarà possibile prevenire un attacco cardiaco.
Il dispositivo si prefigge l'obiettivo di ridurre l'ospedalizzazione dei pazienti mediante il trattamento combinato con i farmaci.
CardioFit ha già ricevuto il marchio europeo CE ma sono in corso ulteriori studi.

(SiliconWadi, 30 marzo 2015)


"Ma il Congresso americano ha tutto il diritto di opporsi"

James Woolsey, ex direttore della Cia: Obama non può fare da solo. Durante i negoziati sul nucleare con l'Urss mantenevo strettissimi contatti con i parlamentari.

di Paolo Mastrolilli

NEW VORK - L'ex capo della Cia James Woolsey pensa che l'accordo con l'Iran sia un errore, e crede che i parlamentari possano e debbano dirlo fin da ora: «Il Congresso ha tutto il diritto, sancito dalle leggi e dalla costituzione, di prendere posizione su un trattato come quello in discussione con l'Iran».

- Lei cosa pensa dell'intesa che si sta negoziando a Ginevra?
  «Non posso giudicarla in maniera compiuta, fino a quando non sarà firmata e resa pubblica. Quello che ho letto finora, però, mi lascia molto scettico».

- Perché?
  «Lo scopo dell'accordo dovrebbe essere quello di impedire all'Iran di costruire la bomba atomica, ma le capacità nucleari che verrebbero lasciate a Teheran non precludono questa possìbìlità».

- Detto ciò, le sembra giusto che il Congresso interferisca al punto di inviare una lettera al leader supremo iraniano per sconfessare l'operato del presidente?
  «È nelle sue prerogative. lo ho fatto i negoziati nucleari con l'Urss e poi con la Russia dal 1969 al 1991, cioè l'anno prima della mia nomina a direttore della Cia, e ho sempre avuto contatti strettissimi con i parlamentari. Briefing, informative, visite di delegazioni: il rapporto era costante. Avevano il diritto di essere informati, e se chiedevano di intervenire noi avevamo il dovere di assecondarli, qualunque fosse la loro appartenenza partitica».

- Supponiamo che una mattina alcuni membri del Congresso avessero scritto una lettera al Cremlino, sconfessando tutto quello che lei stava facendo: come avrebbe reagito?
  «Non sarei stato contento, ma avrei accettato questa iniziativa, perché avrei riconosciuto che rientrava nelle loro prerogative di legge».

- Anche dire che boicotteranno qualunque intesa raggiunta con l'Iran?
  
«La legge stabilisce che un trattato come quello in discussione con Teheran debba essere approvato dal Senato con una maggioranza di almeno due terzi dei voti. Il Congresso dovrà comunque pronunciarsi su questo tema, e quindi rientra nei diritti dei parlamentari far conoscere la loro posizione quando vogliono, e far sapere in anticipo che non hanno intenzione di approvare l'accordo. Fa parte del normale processo politico: se comunque voteranno contro, ha senso farlo sapere in anticipo all'amministrazione, così i negoziatori potranno regolarsi sulla linea da tenere durante le trattative, e magari puntare a raggiungere un'intesa diversa che il Congresso possa accettare».

- Opporsi così ad un negoziato ancora in corso non danneggia i poteri del presidente, indebolendo il ruolo degli Stati Uniti e creando un pericoloso precedente per i successori di Barack Obama?
  «No, guardi, è il contrario. Ciò che indebolirebbe gli Stati Uniti sarebbe l'aggiramento delle regole democratiche che hanno fatto la grandezza del nostro Paese. Il presidente, in base alle leggi su cui ci reggiamo da due secoli, non ha il diritto di concludere un trattato internazionale di queste proporzioni senza coinvolgere il Congresso. Se i parlamentari sono contrari hanno il diritto di dirlo, anche alla scopo di condizionare il negoziato e possibilmente migliorarlo. Poi tanto il Senato dovrà votare su un simile accordo, e quindi ci sarà una normale campagna politica sul testo. Alla fine si conteranno i voti, e come avviene in tutte le democrazie che funzionano, chi avrà costruito il consenso più forte sulla propria posizione vincerà».

(La Stampa, 30 marzo 2015)


Oltremare - La Cina è vicina

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La Cina è vicina, ma proprio qua accanto, certi giorni. L'Ambasciata cinese è a pochi passi dall'Hilton, e quando scendo in spiaggia quale che sia la stagione noto sempre la bandiera rossa che sventola alta sul piano più alto del palazzo su Rehov Hayarkon. Chissà che vista, da lassù. E capita sempre più spesso di vedere piccoli gruppi di uomini d'affari ben vestiti e chiaramente orientali - arrivano a cinquine, nel senso che raramente viaggiano per lavoro da soli o in meno di cinque persone. E quasi sempre uno dei cinque è una donna. Sono avanti, i cinesi.
Per lavoro mi capita spesso di incontrare o organizzare delegazioni che arrivano da quelle remote lontananze orientali per imparare Israele e riprodurre i nostri successi in madrepatria. A dirlo così sembra una follia: l'economia più grande e in crescita del mondo, che perde tempo fra le nostre pietre millenarie? Eh, ma noi siamo la 'Start up Nation'. E il nostro ex Presidente Shimon Peres ha fatto una campagna di marketing per Israele in Cina che solo per quella potrebbero dargli un altro Nobel.
Peres ha esportato l'idea che Israele, una formichina davanti all'intero continente cinese, possa contribuire con idee e strategie vincenti di crescita, soprattutto sul trasferimento diretto dell'innovazione dalle università e dai centri di ricerca all'impresa. Dici poco.
Ora poi, che io fossi con colleghi al Peres Center for Peace la settimana scorsa, con un vip letteralmente appena sbarcato da Pechino, e che mentre ci preparavamo all'evento conclusivo di una lunga giornata di congresso Shimon Peres lui-esso-medesimo sia passato graziosamente a salutarci, beh, quella è tutta fortuna. Ma la faccia che ha fatto il vip cinese, con tanto di caduta di mascella manco fosse comparsa Angelina Jolie… È proprio vero, ognuno ha i propri miti. E il nostro Shimon nazionale, che comincia ad appannarsi appena un po' a 91 anni, tiene ancora, come mito intercontinentale.


(moked, 30 marzo 2015)


Padova, 8 aprile - Convegno su Israele e Palestina

Un approfondimento sulle posizioni

INTERVIENE:
Valentino Baldacci,
   autore del libro "1967: comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei sei giorni. La costruzione
   dell'immagine dello Stato di Israele nella sinistra italiana."


NE DISCUTONO:
Stefano Allievi,
   Docente di Sociologia, esperto di Islam Paolo Giaretta, Già Senatore PD
Giorgio Roverato,
   Docente di Storia economica

INTRODUCE E MODERA:
Pierfrancesco Palego
   Direzione PD Padova

Mercoledì 8 aprile
ore 17.00 Sala Nassiriya,
Piazza dei Signori Padova

Locandina

(Notizie su Israele, 30 marzo 2015)


Per gli antichi Egizi una birra in spiaggia a Tel Aviv

Scoperto nei pressi della città. W1 birrificio di 5000 anni fa: rivela che i faraoni si spinsero oltre il Negev.

di Maurizio Molinari

 
GERUSALEMME - Nell'Età del bronzo gli antichi Egizi producevano e consumavano birra sulle spiagge dell'odierna Tel Aviv. A svelarlo sono gli artefatti archeologici, relativi a un'intera comunità di produttori di birra egiziani, che sono stati ritrovati a Sud della metropoli israeliana, sulla Hamasger Street. La scoperta è avvenuta casualmente, durante i lavori di scavo di un nuovo progetto edilizio nei pressi delle Torri Azrieli. Il personale dell'azienda di costruzioni si è trovato davanti all'insolito panorama di una moltitudine di oggetti di ceramica ben conservati sottoterra, in profondità, e quando ha chiamato l'Autorità delle Antichità si è compreso di che cosa si trattava.
   Quella venuta alla luce è un'antica distilleria dove veniva prodotta birra alcolica a base di grano fra 5000 e 5500 anni fa. «Abbiamo trovato 17 contenitori di birra, che erano adoperati nell'Età del bronzo per accumulare e conservare prodotti agricoli» spiega Diego Barkan, direttore degli scavi, ricordando che «la birra veniva distribuita anche agli operai delle piramidi». Su una delle ceramiche ritrovate appare, ben leggibile, la scritta: «La bocca di un uomo perfettamente contento è piena di birra».
   Per gli Egizi dell'epoca si trattava di una bevanda molto comune, spesso accomunata al pane, molto diffusa tra anziani e giovani, ricchi e poveri. In particolare, le ceramiche ritrovate sono simili a quelle riemerse in passato da altri siti archeologi risalenti all'Antico Egitto, ma la scoperta contiene comunque un dato sorprendente perché si tratta dell'insediamento più a Nord finora attribuito agli Egizi. Gli archeologi erano convinti che all'epoca dei faraoni gli Egizi non si fossero mai spinti oltre il Negev, ma adesso la realtà smentisce questa idea e Tel Aviv svela di avere origini antichissime. «Possiamo affermare con ragionevole certezza che gli antichi Egizi apprezzavano la regione dell'odierna Tel Aviv e venivano a godersi qualche bicchiere di birra sulla spiaggia, proprio come fanno oggi molti israeliani», commenta Barkan.

(La Stampa, 30 marzo 2015)


Tel Aviv: la nostra guida a una città senza eguali

Nello spazio di un weekend (allungato) si possono scoprire tradizioni affascinanti, sapori genuini e respirare una storia fatta di mille culture. Ecco la nostra guida a Tel Aviv.

Tel Aviv, oasi e roccaforte di vita da sogno in un territorio difficile. Proprio per questo qui la voglia di emergere, di diventare internazionali, di divertirsi si respira nell'aria, si vede, si mangia. Con caratteristiche uniche al mondo.
Le donne di Tel Aviv, per esempio, si fanno sentire e stanno facendo un lavoro incredibile di connessione nel tessuto culturale e gastronomico. Un esempio è Merav Oran, una dei fondatori di Open Restaurants (open-restaurants.co.il), festival culinario (l'ultima edizione si è tenuta dall'11 al 14 marzo 2015) che vuole portare gli amanti del buon cibo a contatto con il lavoro di cucina, ospitando, attraverso il pagamento di un ticket con fasce di prezzo a portata della clientela più diversa con un range tra i 10 e i 75 dollari americani circa, un numero limitato di persone all'interno della cucina dei ristoranti aderenti, questa edizione già un centinaio....

(la Repubblica, 30 marzo 2015)


Netanyahu: "Pessimo l'imminente accordo sul nucleare iraniano"

La preoccupazione israeliana si concentra sul "break-out time" ovvero il periodo entro il quale Teheran potrebbe raggiungere l'atomica.

MAURIZIO MOLINARI- Benjamin Netanyahu ritiene che l'intesa sul nucleare iraniano sia imminente è la considera pessima. "L'accordo che si profila è perfino peggiore di quello che temevamo" afferma il premier israeliano durante la riunione domenicale del governo, riferendosi alle indiscrezioni che rimbalzano dalla Svizzera sui progressi in corsi nei colloqui fra gli inviati di Teheran ed i rappresentanti del gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania). In particolare, a destare i timori di Israele sarebbe il "quasi accordo" sul numero di centrifughe che verrebbero lasciate all'Iran: circa 6000 rispetto alle attuali 9000.
   La preoccupazione israeliana si concentra in particolare sul "break-out time" ovvero il periodo entro il quale l'Iran potrebbe raggiungere l'atomica grazie alle strutture del programma nucleare che potrà mantenere in forza dell'accordo. La valutazione israeliana è che, disponendo di circa 6000 centrifughe, il "break-out time" potrebbe essere di 6-9 mesi ovvero una cornice di tempo assai breve, trasformando di fatto Teheran in una potenza "sul ciglio del nucleare militare". La richiesta israeliana a Washington, espressa anche nel recente discorso di Netanyahu al Congresso Usa, è di ottemperare al dettato di sei risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che impongono a Teheran di smantellare completamente gli impianti nucleari.
   A confermare l'impressione di un'intesa entro la scadenza del 31 marzo, c'è la decisione dei ministri degli Esteri di Iran e Usa - Javad Zarif e John Kerry - di rimanere a Losanna per ulteriori colloqui bilaterali. Proprio Kerry ha telefonato ieri a Netanyahu al fine di aggiornarlo sull'andamento dei negoziati. Ma quando gli ha detto non ha avuto un effetto rassicurante sul premier israeliano.

(La Stampa, 29 marzo 2015)


Il ghetto di Cannaregio

29 marzo 1516: nasce nella Repubblica di Venezia il primo ghetto ebraico.

di Alessandro Guardamagna

ACCADDE OGGI - 29 marzo 1516: nasce nella Repubblica di Venezia il primo ghetto ebraico.
La Repubblica di Venezia creò in assoluto il primo ghetto ebraico della storia quando riservò un'area su un'isoletta del quartiere di Cannaregio per ospitare una comunità di circa 700 persone.
L'isola in precedenza era stata sede di una fonderia, chiamata "geto" nel dialetto veneziano dell'epoca, termine che sarà da allora utilizzato per indicare i quartieri abitati dagli ebrei nelle varie città d'Europa. Il ghetto di Venezia era completamente circondato dall'acqua e gli unici due punti di accesso erano controllati da pesanti cancelli presidiati da guardie cristiane, poste a difesa degli abitanti che però erano anche segregati.
Ai residenti, in cambio di restrizioni, erano garantite protezione e libertà di culto. Durante l'Olocausto 247 ebrei di Venezia furono deportati; solo 8 fecero ritorno al termine della Seconda Guerra Mondiale. Oggigiorno l'area in cui sorgeva il ghetto è ancora al centro della vita della comunità ebraica di Venezia che conta alcune centinaia di persone.

(parmadaily.it, 29 marzo 2015)


«Gli ebrei oltre la Shoah»

Giuliani e la storia nascosta

di Silvia Pagliuca

Esplorare l'altra faccia della storia. Raccontare gli ebrei a cavallo tra primo e secondo Novecento andando oltre la Shoah. È questo lo spirito con cui Massimo Giuliani, professore di Lettere e Filosofia all'università di Trento, ha scelto di ridare voce, tra gli affreschi della Biblioteca comunale di via Roma, alle vite di alcuni ebrei italiani. «Perché ci sono storie che non si leggono sui libri, ma che hanno la stessa dignità di altre e meritano di essere conosciute. Esempi di anime messe alla prova da grandi tormenti, pubblici e privati - ricorda Giuliani, che nel 2000 ha conseguito il dottorato alla Hebrew University di Gerusalemme - stretti com'erano negli anni del fascismo, tra Torà, sionismo e resistenza».
  Sono queste le tre dimensioni che lo studioso indaga in occasione del decimo incontro del ciclo La seconda Guerra dei Trent'anni organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell'Europa Orientale e dalla Fondazione Museo Storico del Trentino. Per farlo, sceglie di ricordare le gesta di uomini comuni che con le loro esistenze hanno contribuito a definire il mosaico dell'identità ebraica moderna. Tra questi: Giorgio Nissim (il cui cognome, in ebraico, rimanda al termine «miracolo»), riferimento in Toscana per gli ebrei che qui emigrarono dalla Germania dopo l'ascesa di Hitler, convinti che l'Italia avrebbe potuto essere per loro una buona culla, salvo poi doversi ricrede pochi mesi più tardi, nel modo più atroce. Quello che toccò da vicino, tra gli altri, il livornese David Prato, rabbino capo di Alessandria d'Egitto, chiamato a Roma per esercitare lo stesso incarico che deterrà per soli due anni, abbandonando il Paese il giorno successivo all'approvazione delle leggi razziali del 1938. Una scelta provvidenziale la sua, diversa da quella portata avanti da sua figlia e suo genero, un ebreo fascista, entrambi deportati e poi uccisi ad Auschwitz. «Tale storia mostra quanto profonde fossero le lacerazioni anche familiari. Ebrei diventati fascisti, pronti a mostrarsi finanche più fascisti di altri», sottolinea Giuliani che tra «i traditori» ricorda Israel Zoller, meglio noto come Eugenio Zolli, il rabbino di Roma che decise di convertirsi al cattolicesimo «proprio nel momento in cui la comunità più avrebbe avuto bisogno della sua guida».
  Ma tanti altri compongono il patchwork di Giuliani: dall'ebreo torinese Carlo Alberto Viterbo, sopravvissuto grazie al confino in un paesino dell'entroterra macerate se ad Aldo Finzi, ebreo per parte di padre, inizialmente fascista convinto, poi giustiziato nella strage delle Fosse Ardeatine, passando per il rabbino Angelo Sacerdoti, punto di riferimento per tutti gli ebrei di Roma, abituati a vivere da secoli come «sudditi di serie C del Papa». «Fino a Gino Bartali - conclude Giuliani - che nella sua bicicletta portava messaggi, soldi e carte di identità, pedalando da Genova a Lucca, da Firenze ad Assisi, nel nome della libertà».

(Corriere dell'Alto Adige, marzo 2015)


"Purim show", canti e balli al ritmo della musica klezmer

di Roberta Olcese

 
Uno degli eventi a cui partecipare, almeno una volta nella vita, è un matrimonio ebraico tradizionale, una grande festa accompagnata dai ritmi travolgenti della musiche klezmer, capaci di coinvolgere ospiti e sposi in un susseguirsi di danze. Un assaggio musicale lo dà la compagnia non professionale della Comunità Ebraica di Genova che oggi alle 16 organizza, al Teatro Cinema Carignano, il "Purim Show" dedicato a Purim, cioè il carnevale ebraico, una delle festività più allegre della tradizione. Lo spettacolo sarà accompagnato dal repertorio acustico delle musiche klezmer dell'Orchestra Bailàm, genovesissima, fondata nel 1989.
   Lo spettacolo è a entrata gratuita per chi vorrà sarà possibile fare donazioni a favore della Gaslini Onlus. Silvio Sciunnach è l'ideatore e regista dello spettacolo e racconta così quest'esperienza giunta alla seconda edizione: «Purim Show, in senso stretto' è il "carnevale" ebraico. Lo scorso anno abbiamo raccontato il motivo e la storia di Purim, quest'anno invece abbiamo pensato a un evento con sketch divertenti su aspetti della vita ebraica che non tutti conoscono. Si parlerà delle nostre usanze sul cibo ma anche di altro. Il tutto in spirito yiddish, il nostro "sense of humour"». Lo spirito è dissacrante e le musiche suonate dall'Orchestra Bailàm faranno il resto. «La musica klezmer ha origine nei paesi dell'Est, in particolare i Balcani, la Polonia e la Russia, paesi con cui il popolo ebraico ha avuto stretti rapporti nella sua lunga storia. E molto coinvolgente, accompagna i nostri matrimoni e spero che il pubblico la apprezzi» conclude Sciunnach.
   La musica klezmer, che ha contribuito anche allo sviluppo del jazz, quando gli ebrei si rifugiano in America, esprime allo stesso tempo felicità e gioia, sofferenza e malinconia. Lo strumento principale del mondo ebraico degli "shtetlekh", i villaggi dove c'era una forte presenza ebraica, e dei ghetti è sicuramente il violino, ma nel klezmer un posto importante lo hanno anche il clarinetto e gli ottoni, in particolare la tromba, oltre a strumenti percussivi come il cymbalon. L'Orchestra Bailàm, di cui fanno parte Edmondo Romano, clarinetto, Franco Minelli, chitarre e bouzouky, Luciano Ventriglia percussioni etniche, Roberto Piga violino e Tommaso Rolando al basso elettrico e al contrabbasso conduce ormai da molti anno una profonda ricerca sulla musica popolare e sulle sue radici, in particolare su quella di origine balcanica, il "rebetiko" greco e, appunto, la musica yiddish.

(Il Secolo XIX, 29 marzo 2015)


Una Libia amica degli ebrei

di Daria Gorodisky

Nel 1945, e da tante generazioni, circa 900 mila ebrei vivevano nei Paesi arabi. Nel 2014 ne restavano 3.704: tutti gli altri, già entro gli anni Settanta, o sono stati costretti a fuggire persecuzioni e sterminio o sono stati espulsi per pulizia etnica; in entrambi i casi, tutti i loro beni sono stati confiscati. Si è trattato di un esodo massiccio, eppure spesso dimenticato; o piuttosto, come ha scritto il sociologo Shmuel Trigano, nascosto: un'«occultazione» funzionale a mostrare un Medio Oriente la cui componente araboislamico-palestinese risulti «vittima assoluta» e favorita «dal terzomondismo e dalla cultura della colpevolezza postcoloniale dell'Occidente». E anche se il fatto è intrinsecamente collegato agli ultimi sette decenni della nostra storia, ci sono pochi libri a raccontarlo. A fare un po' di luce su un capitolo della vicenda adesso è uscito Gli ebrei di Libia. Dalla coesistenza all'esodo di Maurice M. Roumani (traduzione di Laura Bonifacio, Castelvecchi, pp. 280, € 35). E un'analisi documentata di come in una trentina di anni le condizioni di vita della comunità ebraica - presente in Cirenaica dal terzo secolo a.C., nel 1941 costituiva circa un quarto degli abitanti della sola Tripoli - si siano deteriorate fino alla sua scomparsa dal territorio libico. Roumani conosce a fondo l'argomento sia in quanto storico (insegna all'Università Ben-Gurion del Negev), sia perché la sua famiglia ha vissuto il passaggio dalla parità di diritti goduta con l'impero ottomano e nei primi anni della colonizzazione italiana agli orrori causati dalle leggi razziste del fascismo esportate in Africa. Uccisioni, lavori forzati, deportazioni nel deserto tunisino, il campo di concentramento di Giado, fame, tifo, morte; poi i tedeschi, Bergen-Belsen. L'arrivo degli inglesi e dei soldati con la stella di David della Brigata Ebraica riporta qualche speranza, ma soprattutto il desiderio dei più di trovare una patria in Terra di Israele - non ancora Stato - o nell'Italia liberata. Poche migliaia di ebrei provano invece a resistere e ricominciare, anche se le violenze islamiche antisemite si moltiplicano. Gli ultimi sopravvissuti abbandonano dopo il grande pogrom del 5 giugno 1967: al nazifascismo si sono sostituiti nazionalismo arabo e jihad.

(Corriere della Sera, 29 marzo 2015)


Cracovia: Il quartiere ebraico di Kazimierz

Scopri il quartiere ebraico di Cracovia e le sue sinagoghe.

La sinagoga di Cracovia.
Situato a sud del distretto di Stare Miasto e la sua famosa piazza del mercato, tra le strade di "Jòzefa Dietla" e "Podgorska" Kazimierz è ora uno dei quartieri più alla moda di Cracovia, curiosamente spesso trascurato dai turisti.
Ma sarebbe un peccato lasciare Cracovia senza aver scoperto i tanti tesori che nascondono i vicoli di questo quartiere, uno dei più antichi della città.
L'area che è ora parte di Kazimierz fu abitata fin dal Medioevo. A quel tempo si trattava di un 'isola situata sulla Vistola di cui uno degli affluenti passava per la strada attuale Starowislna.
La fondazione ufficiale della città dal re Casimiro III il Grande data del 1335, la data da cui la città prese il nome di "Kazimierz" in onore del sovrano e inizierà a svilluparsi alla periferia di Cracovia, come una città separata intera.
Dal 1495 la città ospiterà una grande popolazione ebraica, che farà nei secoli a venire un importante centro di cultura ebraica in Polonia e in Europa, ma anche una miscela unica e armoniosa delle culture ebraica e cristiana.
Oggi uno dei luoghi più importanti di Kazimierz è Szeroka Street, che deve il suo nome alla sua larghezza eccezionale, che lo rende in realtà più una piazza , piuttosto che una strada.
Questo è uno dei luoghi più suggestivi del quartiere, circondato da ristoranti, caffetterie e due sinagoghe. Questo è spesso dove i visitatori iniziano la loro esplorazione di questa zona affascinante.
All'estremità meridionale della via Szerokasi trova "Stara Synagoga", la vecchia sinagoga, costruita nel XV secolo, è una delle più antiche sinagoghe in Polonia e uno dei luoghi più importanti della cultura ebraica in Europa.
Pesantemente danneggiata due volte, nel 1557 e nel 1773 la Stara Synagoga rimase il principale luogo di culto della comunità ebraica di Cracovia fino al 1939.
E 'qui che nel 1793 Tadeusz Kosciuszko celebra il suo famoso discorso in cui invitava la gente di Kazimierz a lottare per l'indipendenza della loro patria.
Dall'altra parte di via Szeroka sul lato ovest, al numero 40, c'è la Sinagoga Remuh, la seconda più antica di Cracovia, costruita nel 1556. Con il cimitero accanto, questo è uno no dei più importanti monumenti della cultura ebraica di Cracovia.
Devastata durante la seconda guerra mondiale dai tedeschi, il restauro dello stabile è durato dieci anni, dal 1958 al 1968.Nel 2010 sono iniziati i lavori per restaurare gli interni della sinagoga per riportarla al suo antico splendore .
Qui si trova anche il cimitero Remuh, il più antico cimitero ebraico di Cracovia e uno dei più antichi d'Europa, fondata nel 1535.
Purtroppo l'interno della sinagoga è stato completamente distrutta dai nazisti durante l'occupazione tedesca, in modo che dopo la guerra Stara Synagoga è stata lasciato in rovina.
La ricostruzione della sinagoga è iniziata nel 1956 e durato tre anni. Oggi l'edificio appartiene al Museo Nazionale della Città di Cracovia e ospita una vasta collezione di arte ebraica.
Non lontano da via Szeroka al numero 24 della via Miodowa, c'è una delle più belle sinagoghe di Cracovia, Sinagoga Tempel. Completato nel 1862, con 43 finestre e un bellissimo Aron ha-Kodesh (armadio), ha un arredamento ricco e colorato.
Devastata Anche durante la seconda guerra mondiale, la ristrutturazione della Sinagoga Tempel è stata completata nel 2000.
Vicino alla via Szeroka, strada Izaaka c'è la sinagoga Izaaka, la più grande della città. Completato nel 1644, la sinagoga Izaaka fu a lungo considerato uno dei più belli e più prestigiosi monumenti della città.
Restaurato dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, non ha mai recuperato il suo antico splendore e solo una piccola parte di policromie che l 'ornavano nel XVII è stato salvata .
Dall'altra parte del quartiere Kazimierz, alla fine della strada Skaleczna si situa la chiesa Skalka. Fondata nel XI secolo, ospita una cripta sotto l'ingresso della chiesa, una sorta di Pantheon locale, dove riposano alcuni grandi personaggi polacchi legati a Cracovia, tra gli altri famosi come Stanislaw Wyspianski, Jacek Malczewski, Jòzef Ignacy Kraszewski, Karol Szymanowski, Czeslaw Milosz, Henryk Siemiradzki, Wincenty Pol o Jan Dlugosz.
Un'altra parte molto importante di Kazimierz è la "Plac Wolnica" equivalente del Rynek al tempo in cui la zona era separata da Cracovia, dove al centro si trova il vecchio Municipio, ora sede del "Muzeum Etnograficzne "museo etnografico, dedicato alle usanze e costumi di diverse regioni della Polonia.
All'estremità orientale della Piazza del Mercato c'è la monumentale chiesa gotica "Kosciòl Bozego Ciala", uno dei più grandi e più antichi della zona, completata nel 1405.
Non lontano da piazza Wolnica sulla strada Sw. Wawrzynca si trova il Muzeum Inzynierii Miejskiej "dove sono esposti in quello che era una volta uno deposito dei tram di vecchie carrozze dii design polacco, tra cui i prototipi che non sono mai prodotti in serie, delle moto, di autobus di produzione polacca e una bella collezione di vecchi tram.
Tuttavia l'interesse di Kazimierz non si limita ai suoi monumenti. E 'anche oggi uno dei quartieri più alla moda della città, con molti caffè, bar e pub, spesso nascosti nei cortili delle case o, talvolta, nelle cantine di vecchi edifici.
Soprattutto di notte, Kazimierz, con le sue strade strette e spesso scarsamente illuminate ha un fascino unico.

(Come Viaggiare Informati, 29 marzo 2015)


Il giallo dei libri di piombo: una commissione indaga a Londra

Una ventina di volumi di metallo «scritti in ebraico antico, e corredati di simboli messianici»; importanti quanto i papiri di Qumran o un falso estremamente sofisticato?

di Marco Tosatti

 
I libri di piombo scoperti da Elkington
ROMA - Il vescovo anglicano di Londra, Richard Chartres, il terzo in ordine di grado nella gerarchia della Chiesa di Inghilterra ha annunciato pochi giorni fa la costituzione di un Centro di Studio per i Libri di piombo giordani; una compagnia no-profit, che si avvarrà dell'apporto di uno staff autorevole. Ne faranno parte Sir Tony Baldry e Tom Spencer, due uomini politici britannici di lungo corso, e una "Commissione di valutazione" guidata dal professore Robert Hayward della Durham University, mentre un professore giordano, Tayez Khasawneh, della Yarmouk University presiederà un "Consiglio consultivo".
  Dal Centro si attende una parola chiarificatrice, e si spera, definitiva, su quello che potrebbe essere un ritrovamento pari per importanza ai papiri di Qumran; oppure un falso estremamente sofisticato, compiuto non si sa da chi, e in quale momento storico. Stiamo parlando di una ventina di libri di metallo, di grandezza variabile, da quello di una carta di credito a un "palmare" legati insieme da anelli di ferro. Sono balzati alla cronaca quattro anni fa; un beduino israeliano, di nome Hassan Saeda, affermava che gli oggetti appartenevano al suo bisnonno, che li aveva trovati in una caverna un secolo fa.
  Nelle "pagine" si trova un'iconografia mista; teste di Alessandro, palmizi, scritte in ebraico antico e greco, che hanno pensare a qualcuno a citazioni dall'Apocalisse; e ancora: è stata tirata in ballo la Kabbalah, e Bar Khokba, e Lisimaco, uno dei generali di Alessandro, oltre al Maghen David, la stella che simboleggia lo scudo del re Davide ed è diventata il simbolo di Israele.
  Ma la "scoperta" ha provocato polemiche a non finire, fra esperti, meno esperti e studiosi, divisi in due campi ferocemente avversi: i fautori dell'autenticità dei reperti, e quelli che parlano di un falso facilmente smascherabile. Così è probabile che uno dei primi compiti e impegni del Centro appena creato dalle autorità anglicane sarà quello di sottoporre i libri a un'analisi temporale; e cioè vedere se hanno ragione quelli che sostengono un'antichità di circa duemila anni. C'è da dire però che anche questa prova non risolverebbe in maniera definitiva il problema, perché i critici obiettano che le singole lastre possono anche essere antiche, magari ricavate e tagliate da qualche oggetto di epoca; ma che potrebbero essere state sbalzate e impresse successivamente. Anche se altri obiettano che un falsario, di epoca indefinita, avrebbe dovuto essere particolarmente abile. E gli oggetti potrebbero essere copie di un prototipo più antico. Alcuni - non si sa su quale base - collegano i libri di piombo alla comunità cristiana di Gerusalemme, che abbandonò la città prima dell'assedio e della distruzione nel '70 D.C.
  Fra i fautori più accaniti dell'autenticità c'è David Elkington, scrittore e divulgatore, che il 22 marzo 2011 annunciò al mondo l'esistenza dei libri di piombo e rame, «scritti in ebraico antico, e corredati di simboli messianici. Alcune scritte appaiono in forma di codice». Dall'altro lato abbiamo invece L'Autorità israeliana per le antichità che afferma che i libri «sono una mescolanza di periodi e stili incompatibili senza connessione o logica. Iscrizioni del genere, falsificate, si possono trovare a migliaia sul mercato antiquario in Giordania o altrove». Si attende che il Centro possa dire una parola definitiva su un falso ben congegnato, o su un ritrovamento che, se autentico, appare comunque dai contorni difficilmente spiegabili.

(Vatican Insider, 28 marzo 2015)


Euro 2016: Israele-Galles 0-3

HAIFA, 28 mar - Israele-Galles 0-3 in una partita del gruppo B delle qualificazioni europee. Queste le reti: nel pt 46' Ramsey; nel st 5' e 32' Bale.

(ANSA, 28 marzo 2015)


Netanyahu resta alla guida di Israele, shekel in rialzo

Settimana decisiva per il nuovo governo israeliano. Il primo ministro uscente Benyamin Netanyahu ha infatti vinto le elezioni dello scorso 17 marzo, contro ogni pronostico e aspettativa.

di Simona Pizzuti

RISULTATI - Il suo Likud ha conquistato 30 seggi, mentre Unione Sionista, il centrosinistra di Isaac Herzog e Tzipi Livni, si è fermato a soli 24. Al terzo posto lo scrutinio ha confermato Lista araba unita con 14 seggi cui fa seguito il centrista Yair Lapid di "C'è un futuro", con 11 seggi. I numeri hanno quindi dato a Netanyahu una certa autonomia nel formare una forte maggioranza di destra, cosa che spaventa non poco gli Stati Uniti. La Casa Bianca sperava infatti nella necessità di una coalizione più ampia che includesse anche la sinistra israeliana. Così non è stato, e la tradizionale telefonata di congratulazioni del presidente USA, all'indomani del voto non è arrivata. Nel frattempo, il presidente israeliano Reuven Rivlin è andato avanti con le consultazioni per la formazione del nuovo governo. Netanyahu prende quindi l'incarico ufficiale, dopo che la Commissione elettorale ha presentato a Rivlin i risultati del voto. Nelle consultazioni di questi giorni, una maggioranza di 67 deputati su 120 ha sostenuto la candidatura di Netanyahu per un terzo mandato consecutivo. Dopo essere stato il più giovane premier della storia del Paese nel 1996, Netanyahu aveva infatti replicato l'incarico prima nel 2009, alla testa di un governo a trazione nazionalista, per poi riconfermarsi con le elezioni anticipate del 2013, da lui stesso volute.

LA REAZIONE DEI MERCATI - Se gli equilibri internazionali, soprattutto su temi scottanti come gli accordi con l'Iran, tremano in vista dell'insediamento del nuovo governo israeliano, la reazione dei mercati è stata positiva, seppure timida. Il principale indice della Borsa di Tel Aviv a poche ore dalle elezioni aveva infatti evidenziato un rialzo dello 0,40% a 1570 punti, mentre la valuta israeliana, lo shekel (ILS), aveva guadagnato molto rispetto alla sterlina britannica, restando cauta negli scambi con l'euro e il dollaro statunitense.

(Il Caffè Geopolitico, 28 marzo 2015)


Obama e il disastro di una politica estera basata sul mostrarsi "buoni"

Quando nel 2009 Barack Obama, fresco di nomina a presidente degli Stati Uniti d'America, venne insignito con il Premio Nobel per la pace, disse ai giornalisti: «Sono sorpreso, onorato e profondamente commosso. Ma non sono sicuro di meritare il premio». A sei anni di distanza dall'assegnazione, si può dire con certezza che l'inquilino della Casa Bianca non merita quel premio.

ESSERE "BUONI" - Come notato giustamente ieri dal Foglio, «parte fondamentale dell'immagine che Obama coltiva con cura è quella del presidente che si chiude alle spalle le guerre, quello che accompagna l'America ideologicamente affaticata e afflitta da disturbi da stress post traumatico all'uscita di sicurezza dalle guerre, giuste o sbagliate che fossero in origine». Ma la politica estera di Obama, sconclusionata e basata sul tentativo di mostrarsi "buono" al mondo, non ha prodotto i risultati sperati.
Dopo aver completato nel 2011 il ritiro delle truppe americane dall'Iraq, ponendo fine a quella che Obama ha sempre definito una guerra ingiusta, il Presidente ha dovuto inviare i suoi jet da guerra appena tre anni dopo per bombardare le postazioni dello Stato islamico. Negli ultimi giorni, ha anche acconsentito ad affiancare con l'aviazione le milizie sciite telecomandate dall'Iran per consentire la presa di Tikrit (ancora di là da venire).

CONTRO L'IRAN - La guerra gomito a gomito con l'arcinemico Iran non può essere considerata una novità, visto che uno dei grandi obiettivi dell'amministrazione Obama è la firma di un accordo sul nucleare che impedirà (almeno in teoria) che Teheran si procuri la bomba atomica. Un accordo (criticatissimo da Israele) in questo senso sembra vicino, ma mentre gli americani tendono una mano all'Iran da una parte, dall'altra sostengono a spada tratta l'intervento dell'Arabia Saudita e della sua coalizione di dieci paesi sunniti in Yemen contro i ribelli sciiti Houthi, sostenuti appunto dall'Iran.

GUERRA SUNNITI-SCIITI - Incapace di fermare la vera guerra che sta lacerando il Medio Oriente, quella tra sunniti e sciiti, Obama si ritrova a combattere con gli sciiti contro i sunniti in Iraq e a sostenere la guerra dei sunniti contro gli sciiti in Yemen. In Siria ha appena cambiato strategia e sembra che sia disposto ad accettare il dittatore sciita Bashar al-Assad pur di annientare lo Stato islamico, ma dopo aver cercato in tutti i modi per quattro anni di farlo deporre, ancora gli Usa finanziano milizie ribelli sunnite in tutto il paese.

NIENTE RITIRO DALL'AFGHANISTAN - Per quanto riguarda l'Afghanistan, la guerra che anche Obama ha sempre definito giusta, la Casa Bianca ha annunciato un nuovo rallentamento nel progetto di ritiro dei soldati americani, che ancora servono come il pane per garantire la fragilissima stabilità del paese e addestrare le forze locali. In Libia, dopo aver appoggiato la Primavera araba, l'uccisione di Gheddafi nel 2011 e il conseguente disastro, ora Obama si disinteressa della situazione sul campo, mandando avanti l'inviato dell'Onu Bernardino Léon, nella speranza che porti a casa un quasi impossibile accordo tra i due governi in lotta tra loro. Ma se l'Isis continua ad avanzare, e centinaia di milizie continuano a combattersi, il Presidente potrebbe essere costretto a cambiare di nuovo strategia.

RESTA SOLO CASTRO - «A forza di ritirare truppe e disimpegnarsi», scriveva ancora il Foglio, «Obama si trova sempre più impegnato a fare patti con qualunque diavolo gli prometta un po' di immortalità». Perché all'inquilino della Casa Bianca non interessa essere "buono", ma passare per tale. L'Europa però non gli sta dando grandi soddisfazioni (Ucraina e Russia docent), il Medio Oriente neanche, il Nord Africa non ne parliamo. L'ultima àncora di salvezza rimasta ad Obama è Cuba. Nella speranza che Raòl Castro non si approfitti dell'ennesima mano tesa.

(Tempi, 28 marzo 2015)


Sannicandro - "Ama il prossimo tuo come te stesso"

Una mattinata speciale presso l'I.I.S.S. "De Rogatis - Fioritto"

di Rosa Battista

Il 27 marzo 2015 l'I.I.S.S. "De Rogatis - Fioritto" ha dato vita a due ore di profonda e partecipata riflessione sul tema: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Il progetto, destinato a tutte le classi terze dell'Istituto, è stato ideato da Palma Mastropasqua e realizzato in collaborazione Costanza Di Maso, Cristina Tricarico, Rosa Murano e Rosa Battista.
   Il seme che ha generato la manifestazione è stato il ricordo della Shoah e, per questo motivo, è stata invitata Grazia Gualano, ricercatrice di storia dell'ebraismo sannicandrese. Ad accompagnarla il Rabbino della comunità ebraica venuto a Sannicandro in occasione della Pesach (la Pasqua ebraica) che ha arricchito ulteriormente la mattinata con i suoi interventi e la sua presenza.
   La manifestazione si è aperta con il saluto di Emanuele Moscarella, vicario del Dirigente Scolastico, che ha introdotto il tema con una breve ma profonda riflessione sull'amore per il prossimo; poi è stato eseguito il brano "Ha Tikvah" (La Speranza), l'inno nazionale israeliano, suonato al violino da Rebecca Kola e alla chitarra da Accadia Giovanni.
   Gli alunni della III A del Liceo delle Scienze Umane - rappresentati da Giovanni Accadia, Maria Buoncristiano, Noemi Ferrazzano e Sabrina Ricciardi - hanno presentato un breve excursus storico sulla deportazione in Italia e sulla nascita della comunità ebraica a Sannicandro Garganico.
   I ragazzi hanno poi tracciato le tappe della Shoah con un video che ha messo in evidenza le conseguenze devastanti a livello psicologico di questo tragico evento e hanno concluso il loro intervento con la lettura di alcune poesie sul tema.
   È seguito un bel momento musicale col brano "People help the people", cantato da Rebecca Kola e accompagnato alla chitarra da Antonio Tancredi e alle percussioni da Diego Basile. Subito dopo gli alunni della III A del Liceo Scientifico - rappresentati da Giulio Augello, Eleonora Giagnorio, Chiara Lombardi e Ludovica Vocale - hanno illustrato la figura di Padre Massimiliano Kolbe che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia, destinato al bunker della fame nel campo di concentramento di Auschwitz: "l'odio non serve a nulla, solo l'amore crea".
   Poi è stata letta e commentata la poesia di Eugenio Montale "La primavera hitleriana" in cui l'autore afferma che tutti sono stati responsabili del terribile massacro e non soltanto un singolo uomo.
   È seguito un momento musicale gioioso con il brano "Evenu Shalom Alechem" (un augurio di pace in ebraico) in 7 lingue diverse cantato da Andrea Conforto, Dalila Diana e Rebecca Kola, e accompagnato da Antonio Gaggiano alla chitarra elettrica, Antonio Tancredi alla chitarra acustica, Giovanni Accadia alla chitarra classica e Diego Basile al pianoforte.
   Gli alunni della III A IPSIA - rappresentati da Michele Berardi, Nazario Melchionda e Davide Nista - hanno relazionato sui Giusti tra le Nazioni che nell'inferno della Shoah hanno fatto la differenza e hanno dimostrato l'amore per il prossimo salvando la vita degli ebrei. Tra i Giusti sono stati citati Oskar Schindler che ha salvato 1100 ebrei dal genocidio nazista e l'italiano Giorgio Perlasca che, fingendosi Console generale spagnolo, ha salvato la vita di oltre 5000 ebrei ungheresi strappandoli alla deportazione nazista e alla distruzione.
   Inoltre, gli alunni hanno parlato di Villa Emma, una costruzione situata alla periferia di Nonantola, in provincia di Modena, il cui nome è legato al sacerdote don Arrigo Beccari e al medico Giuseppe Moreali, che durante la seconda guerra mondiale hanno salvato una settantina di giovani ebrei provenienti dall'est europeo, sottraendoli alle persecuzioni nazifasciste e ai campi di concentramento.
   Dopo gli interventi degli alunni, l'esperta di ebraismo, Grazia Gualano, ha esordito raccontando alcuni aneddoti toccanti avvenuti nella comunità ebraica di Sannicandro Garganico durante la persecuzione e la deportazione degli ebrei.
   Uno di questi riguardava una jeep con due soldati dell'Ottava armata britannica di Montgomery che percorreva la strada accidentata che da San Severo porta a Cagnano Varano. Passando all'interno del centro abitato di Sannicandro i soldati notarono una donna che, da una finestra, sventolava una grossa bandiera con la stella di David: la medesima stella dipinta sul cofano del veicolo militare. I due ufficiali, ebrei della Palestina, allora sotto amministrazione britannica, si fermarono ad investigare e scoprirono la storia di una conversione straordinaria.
   Oltre a flash vari e ricordi storici sull'ebraismo a Sannicandro, Grazia Gualano si è soffermata molto sull'amore per gli altri ricavando dai testi originali ebraici della Torah, e in particolare dalla Genesi, il vero significato del termine "prossimo" e, cioè, "un altro me stesso". Partendo da questa asserzione ha portato i ragazzi a riflettere sull' importanza di amare prima di tutto se stessi per poter poi amare in modo adeguato gli altri perché il prossimo è un altro me stesso. A sottolineare musicalmente questa riflessione conclusiva sono state Diana Dalila e Conforto Andrea che hanno cantato "The greatest love of all".
   Dietro le quinte, ma davanti al mixer, c'era Giulio Giagnorio della IV A IPSIA che col suo aiuto tecnico ha dato un valido contributo alla manifestazione.
   Palma Mastropasqua ha concluso l'incontro ringraziando Grazia Gualano, i docenti e gli alunni che hanno collaborato attivamente alla realizzazione del progetto e ha salutato i presenti dando appuntamento all'anno prossimo.

(Sannicandro.org, 28 marzo 2015)


Non ci sono (quasi) più cristiani in medio oriente. Le cifre dell'epurazione

ROMA - Ancora una volta, ieri, il Papa ha fatto sapere - tramite comunicato diffuso dalla sala stampa della Santa Sede - che è "costante" la sua "sollecitudine per la situazione delle famiglie cristiane e di altri gruppi vittime dell'espulsione dalle proprie case e dai propri villaggi, in particolare nella città di Mosul e nella piana di Ninive". Francesco, per dimostrare la sua vicinanza, ha deciso di inviare nuovamente in Iraq il cardinale Fernando Filoni, prefetto della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli e già nunzio a Baghdad durante i bombardamenti del 2003 (fu l'unico rappresentante diplomatico occidentale a non abbandonare il paese in fiamme). Il porporato testimonierà la vicinanza della chiesa alla comunità oggi perseguitata dal fanatismo islamista impersonato dagli sgherri del califfo Abu Bakr al Baghdadi. Ai cristiani oppressi in vicino e medio oriente è dedicata la copertina dell'ultimo numero di Newsweek, che racconta il loro "nuovo esodo".
   Certo, sono state tante le minoranze che negli ultimi mesi hanno sofferto le atrocità studiate dai miliziani jihadisti devoti all'utopia del Califfato, ma è pur vero - scrive il magazine americano - che "lo Stato islamico ha ripetutamente enfatizzato i suoi attacchi ai cristiani, definendoli crociati, come parte di una guerra santa da combattere in nome dell'islam". Dopotutto, prima di prendere a picconate le antiche chiese caldee, rimuovendo croci e devastando statue di santi e madonne, addobbando altari e amboni con le nere bandiere del Daesh e sventrando il sepolcro del profeta Giona, l'esordio dei militanti islamisti s'era concretizzato nel marchiare con la "N" di nazareno le case dei cristiani infedeli. Rileva il Center for American Progress che "alcune delle comunità cristiane più antiche al mondo stanno scomparendo dalle stesse terre in cui la loro fede è sorta e si è radicata" - rappresentavano il venti per cento della popolazione all'inizio del Ventesimo secolo, sono il cinque per cento oggi - e la soluzione, l'unica rimasta, è quella di scappare il più presto possibile.
   Newsweek mette insieme i numeri dei profughi, da un capo all'altro della regione, per evidenziare la portata del dramma: stando ai calcoli del Parlamento europeo, i cristiani siriani che hanno lasciato il paese dilaniato dalla guerra civile negli ultimi cinque anni ammontano a circa settecento mila. In Iraq, i fedeli cristiani erano quasi un milione e mezzo nel 2003 e, a quanto pare, si sono ridotti a circa 300mila nel 2014.
   Le cose, se possibile, sono peggiorate ancor di più dopo le cosiddette primavere arabe del 2011, che hanno portato al potere - tranne rare eccezioni - i partiti islamisti. Il Center for American Progress, a ogni modo, va oltre e pensa già al domani, quando (forse) lo Stato islamico sarà debellato, e sottolinea che "se uno dei più importanti gruppi religiosi al mondo continua a essere costretto a lasciare il medio oriente, ciò avrà ripercussioni negative per il pluralismo, la tolleranza e la capacità delle popolazioni della regione di rimanere legati al resto del mondo". Senza il riconoscimento della libertà di professare la propria fede, la presenza cristiana è destinata a scomparire del tutto.
   Di questo, con ogni probabilità, parleranno il Pontefice e Barack Obama nell'incontro che si terrà alla Casa Bianca il prossimo 23 settembre, tappa tra le più significative del primo viaggio negli Stati Uniti di Jorge Mario Bergoglio in occasione dell'Incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia. Non a caso, il comunicato diffuso dalla presidenza americana ha ricordato come nell'udienza concessa da Francesco a Obama, il 27 marzo di un anno fa, tra gli argomenti discussi vi fosse la protezione delle minoranze e la promozione della libertà religiosa nel mondo.

(Il Foglio, 28 marzo 2015)


Avi Avital: "La mia passione per il mandolino è nata grazie a un vicino di casa"

Il giovane musicista israeliano racconta all'Adnkronos come è nata la passione per lo strumento del quale è diventato uno dei massimi virtuosi al mondo, e parla di "Rinascimento del mandolino. Adesso c'è molta più gente di prima interessata che mi contatta su facebook e twitter perché vuole imparare a suonarlo".

 
Avi Avital presenta Bach
ROMA - "Un vicino di casa in Israele che suonava il mandolino mi ha fatto innamorare di questo strumento quando ero bambino". Avi Avital, tra i massimi virtuosi di tutti i tempi del mandolino, racconta all'Adnkronos come è nata la sua passione per questo insolito strumento. "C'è qualcosa di immediato tra un bambino e il mandolino: la sua maneggevolezza, i suoni acuti che emette... Io me ne sono innamorato e ho chiesto ai miei genitori di comprarmene uno. Così ho cominciato a studiarlo, frequentando successivamente il conservatorio".
   Nato a Beer-Sheva 36 anni fa da genitori ebrei marocchini trasferitisi in Israele negli anni '60, Avi Avital vive a Berlino ma ha studiato anche a Padova dove è stato allievo di Ugo Orlandi. E parla di "un Rinascimento del mandolino. Adesso - dice - c'è molta più gente di prima interessata che mi contatta su facebook e twitter perché vuole imparare a suonare questo strumento, nato in Italia nel '700 e diffuso soprattutto tra gli aristocratici".
Nonostante le nobili origini, però, il repertorio della musica colta per mandolino non è molto ricco. Qualche composizione di Domenico Scarlatti, di Johann Nepomuk Hummel e due straordinari concerti di Antonio Vivaldi, uno dei quali Avi Avital esegue nel cd appena uscito per Deutsche Grammophon dal titolo 'Vivaldi', assieme alla Venice Baroque Orchestra. "Nel disco interpreto solo quello in do maggiore perché il secondo è per due mandolini. Tutti gli altri concerti del cd nascono originariamente per violino e io stesso li ho trascritti".
   Una trascrizione 'indolore', spiega il musicista, "perché non ha comportato alcuna modifica visto che la tonalità del mandolino è uguale a quella del violino. Questa operazione nasce dal mio vissuto - dice ancora - dall'esigenza di suonare brani magari noti, come 'L'Estate' dalle 'Quattro Stagioni', con un'angolazione diversa da offrire all'ascoltatore, una prospettiva che metta in luce aspetti nuovi dell'opera e che ricrei il momento magico del primo ascolto di capolavori come quelli di Vivaldi".
   Avi Avital ha dedicato parte del suo talento virtuosistico anche a Johann Sebastian Bach, compositore che non ha mai scritto una nota per mandolino. "Ho trascritto le sue opere per liuto - racconta il musicista - appunto perché non c'era un suo repertorio originale per mandolino. Ma ho anche trascritto alcuni dei suoi concerti per clavicembalo, e in quel caso ho dovuto fare notevoli sforzi per capire il messaggio musicale contenuto nel brano e trascriverlo sul mandolino, eliminando inevitabilmente molte note perché la scrittura per clavicembalo è su due chiavi, come per il pianoforte, e quello strumento si suona con entrambe le mani, cosa che non si può fare con il mandolino. E' stato un 'esperimento intellettuale', riuscito perché la musica di Bach è sempre perfetta".
   Il celebre mandolinista, che domani sarà a Roma per un concerto nell'Aula Magna della Sapienza per la stagione della Iuc, afferma che il suo è "uno strumento moderno, costruito dal liutaio israeliano Kerman, che ha creato un mandolino dal suono capace di diffondersi in una moderna sala da concerto. E' quello che uso nel disco di Vivaldi, tranne che per l'ultima traccia, la canzone tradizionale veneziana 'La biondina in gondoleta' (cantata dal tenore Juan Diego Florez, ndr), dove utilizzo un mandolino veneziano del '700". Tra i prossimi impegni "molte nuove composizioni scritte per me - dice - nuove tournée compresi due ritorni in Italia in estate, a Milano e in Toscana. Quanto ai progetti discografici - conclude - la mia scrivania è piena, ma da agosto ho lavorato molto intensamente sul cd di Vivaldi e adesso per un po' voglio godermelo".

(Libero, 27 marzo 2015)


Ricercatori di Tel Aviv scoprono la causa associata all'insufficienza ovarica

L'insufficienza ovarica (POF) precoce è l'incapacità delle ovaie di produrre follicoli ed è caratterizzata dalla scomparsa dei flussi mestruali diversi anni prima dell'età fisiologica normale. Generalmente colpisce l'1% delle donne in tutto il mondo, causa sterilità e nella maggior parte dei casi non è possibile determinare la causa esatta di questa condizione.
  Un nuovo studio dell'Università di Tel Aviv ha scoperto il legame tra l'insufficienza ovarica e una mutazione genetica di un gene chiamato SYCE1 che, fino ad ora, non era stato associato ai casi di questa sindrome.
  Mentre i geni coinvolti nella duplicazione del cromosoma avevano dimostrato di causare negli animali questa disfunzione, questa è la prima volta che una mutazione simile si presenta nell'uomo. La ricerca è stata guidata dalla Dott.ssa Liat de Vries, dalla Prof.ssa Lina Basel-Vanagaite e dal team di ricercatori dell'Università di Tel Aviv provenienti dallo Schneider Children's Medical Center di Israele.
  La Dott.ssa de Vries commenta:
  I ricercatori sanno che la POF, acronimo che sta per Insufficienza Ovarica Precoce, può essere associata alla sindrome di Turner, una condizione in cui una donna ha un solo cromosoma X, invece di due, che potrebbe derivare dall'uso di chemioterapia o radioterapia. Tuttavia, nel 90% dei casi, la causa rimane un mistero.
  L'idea di questo studio, recentemente pubblicato nel Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, nasce quando alla Dott.ssa de Vries è stato chiesto di trattare due pazienti colpite da insufficienza ovarica figlie di due coppie israelo-arabe cugine. Le ragazze presentavo i tipici sintomi della sindrome: una all'apparenza era nell'età della pubertà ma non aveva ancora avuto il menarca, e l'altra non aveva ancora iniziato lo sviluppo. Dopo aver escluso i soliti sospetti (tossine, malattie autoimmuni e genetiche), i ricercatori hanno tentato di identificare la causa genetica del caso di POF nelle due ragazze.
  Le due ragazze, figlie di cugini di primo grado, avevano un'insufficienza ovarica che sfociava in modo diverso:
   una aveva raggiunto la pubertà ma non aveva le mestruazioni;
   l'altra ancora non mostrava nessun segno di sviluppo
Gli studi hanno rivelato una mutazione del gene SYCE1. I genitori ed i tre fratelli si sono scoperti portatori della mutazione. Identificando la mutazione genetica si è evitata l'induzione artificiale della fertilità che si sarebbe rivelata inutile, concentrando gli sforzi, ad esempio, sull'investimento nella donazione di ovociti.
  I ricercatori stanno attualmente indagando sugli effetti di questa mutazione genetica sui membri maschi della famiglia: "Stiamo studiando gli effetti sugli uomini ma non è sempre facile nelle società tradizionali, c'è ancora molto da fare su questo argomento."

(SiliconWadi, 27 marzo 2015)


I timori di Israele

Lettera dell'Ambasciatore di Israele in Italia al direttore di Repubblica

di Naor Gilon

Caro Direttore,
mentre il mondo è in lotta contro l'Isis, vi è invece un'umana propensione a rimuovere e ignorare l'esistenza di una minaccia strategica dalle implicazioni drammatiche: l'Iran
Gli obiettivi dell'Isis e dell'Iran sono simili: entrambi mirano ad espandere la propria zona di influenza spinti da un'ideologia religiosa. La minaccia rappresentata dall'Isis appare forse più immediata e brutale, ma le abilità dell'Iran sono infinitamente più sofisticate e così anche la sua influenza.
Mentre l'attenzione è rivolta all'Isis, il regime iraniano continua a sfruttare il caos nella regione per accrescere il suo controllo su stati come Iraq, Siria, Yemen e Libano. Continua a commettere sistematiche violazioni dei diritti umani, esecuzioni, arresti politici e repressione nei confronti di donne e minoranze religiose. Continua a sostenere e ad armare organizzazioni terroristiche, come Hezbollah e Hamas, e a contribuire alla pulizia etnica dei musulmani sunniti per mezzo delle tribù sciite in Iraq.
Nel corso dei negoziati (sul nucleare ) con l'Occidente, il regime iraniano continua a sviluppare la propria capacità nucleare e portare avanti il programma di sviluppo di missili balistici capaci di raggiungere anche l'Europa.
Purtroppo, in molte capitali occidentali si è sempre più radicata l'errata convinzione che l'Iran possa essere la soluzione a molti conflitti nel Medio Oriente. L'Iran è invece parte del problema ed è il principale generatore di conflitti. La Repubblica Islamica riesce prima a destabilizzare gli stati della regione, sostenendo poi di poter contribuire, alle proprie condizioni, alla stabilizzazione dell'area.
A ciò va aggiunta l'aspirazione iraniana di diventare uno stato nucleare. La smania della comunità internazionale di giungere a un accordo distensivo con l'Iran, alla fine, non porterà ad altro che a una corsa agli armamenti nucleari in tutto il Medio Oriente. Un accordo non soddisfacente consentirà all'Iran di uscire dall'isolamento politico e di continuare a destabilizzare la regione certo del deterrente nucleare. Si deve raggiungere un accordo durevole, ma è preferibile il contrario piuttosto che un cattivo accordo.
La linea di frattura nel mondo musulmano è fra sunniti e sciiti. Per anni gli stati sunniti pragmatici sono stati importanti alleati dell'Occidente. Adesso, a causa di un'urgente voglia di "spegnere degli incendi", si levano sempre più voci di disponibilità a sacrificare questa alleanza e a chiudere occhi e orecchie di fronte alla minaccia strategica per la stabilità della regione: il regime iraniano. Questo regime combatte contro l'Isis perché è un suo interesse e non certo perché aspiri a servire gli interessi occidentali.
L'incrocio di fanatismo religioso, ferma intenzione di raggiungere lo status di potenza nucleare, volontà di portare a compimento la rivoluzione islamica e la realizzazione di un unico stato sciita è un mix pericoloso. Oggi ai più può sembrare una posizione minoritaria, ma nella storia sono molti i casi in cui erano i "pochi" ad aver ragione.

(la Repubblica, 28 marzo 2015)


Barack Obama rilancia la Guerra fredda in quattro mosse: ma il nemico è Israele

di Glauco Maggi

 
Obama e Netanyahu
Obama e Khameini
Obama ha dichiarato "guerra fredda" ad Israele, e in quattro mosse ha architettato uno scacco matto contro il premier Bibi Netanyahu, che oggi come oggi e' di fatto l'unico vero nemico per la Casa Bianca. Barack e' molto vendicativo, e non gli perdona due cose: l'aver accettato l'invito dello speaker della Camera John Boehner di parlare al Congresso Usa a inizio marzo per spiegare le preoccupazioni del suo governo su un "cattivo" patto nucleare di Washington con l'Iran, e soprattutto l'aver vinto dieci giorni fa le elezioni nel suo Paese, e con un margine inatteso che gli consentira' di continuare a fare il premier.
   1) Il primo assalto, il principale di Barack contro Gerusalemme, si svolge a Losanna, in Svizzera, dove il segretario di stato John Kerry sta definendo i dettagli dell'intesa nucleare con l'Iran che potrebbe essere siglata questa domenica. Il paradosso delle ultime ore e' che non sono gli Usa, bensi' la Francia, a mostrare maggiore determinazione contro le pretese di Teheran. La delegazione USA sta infatti cedendo alle richieste dell' "Iran intransigente", come dice una fonte informata sui colloqui in corso. In sostanza, non insistera' nel pretendere che Teheran sveli i suoi piani atomici segreti prima di poter parlare di fine delle sanzioni, che era stato un punto fermo, promesso all'inizio di Obama, tra le condizioni americane. Gli Usa pare che vogliano lasciare gran parte degli impianti in Iran chiusi agli ispettori fino a quando le sanzioni non saranno eliminate, una strategia criticata dagli esperti. David Albright, presidente dell'Istituto per la scienza e la sicurezza internazionale, aveva testimoniato mesi fa in Congresso che "un prerequisito per ogni accordo a largo raggio e' che l'Agenzia dell'Onu per l'energia sappia tutto su quando l'Iran aveva cercato di farsi le armi nucleari, fino a che punto era arrivato, quali tipi di ordigni voleva sviluppare, e come e dove aveva svolto questa attivita'. L'Agenzia ha bisogno di una totale cognizione delle attivita' nucleari precedenti, compresa la fabbricazione degli strumenti per il programma e ogni materiale legato alla procedura di armamento, all'equipaggiamento e ai depositi". Il perche' l'ha spiegato un'altra fonte anonima che e' al corrente delle trattative: "Obama ha rinunciato alle verifiche sul passato, che sono fondamentali. Senza sapere che cosa gli iraniani hanno gia' in mano e' impossibile per l'Agenzia ONU verificare a che cosa rinunciano". Un altro punto grave di cedimento e' il permesso, che Obama starebbe per concedere a Teheran, di continuare le attivita' delle sue centrifughe in sedi ultra-sotterranee che non potrebbero essere distrutte con i missili: cio' significa che nel momento in cui l'Iran decidesse di non far entrare gli ispettori avrebbe via libera per raggiungere il suo obiettivo. Il patto nucleare "sbracato" e' il primo incubo di Bibi, ma ad Obama non basta come "punizione". Cosi' ha infierito con tre altre recenti pugnalate all'alleato storico.
  2) Quella piu' grave di politica medio-orientale e' il cambio di linea degli Stati Uniti all'ONU: tradizionalmente i governi USA hanno sempre messo il veto su ogni misura anti-israeliana, ma ora si moltiplicano i segnali di un probabile sostegno di Barack alla richiesta dei palestinesi di diventare uno Stato di pieno diritto, a prescindere dall'accordo bilaterale diretto con Israele, secondo la formula ideata da George Bush "dei due stati indipendenti che vivono fianco a fianco in mutuo riconoscimento".
  3) Obama non si e' negato un dispetto piu' sottile, ma rivelatore dell'astio attuale, e della volonta' di indebolire la posizione dello stato ebraico sul piano diplomatico: il governo ha infatti deciso di declassificare un rapporto segreto americano degli Anni 80 sui piani israeliani per farsi la loro bomba nucleare. Non era mai successo prima che gli USA ammettessero che Israele e' una potenza nucleare, anche se era un segreto di Pulcinella. Obama lo hanno fatto proprio in questo periodo, impossibile che non sia stato un atto ad hoc.
  4) Infine, come ultimo schiaffo a Netanyahu, il presidente ha tolto gli Hetzbollah e l'Iran stesso dalla lista "delle entita' terroristiche" diffusa per il 2015 dalla National Intelligence Agency. Fino al 2014 erano entrambi presenti, per ovvi motivi, ma nel clima di innamoramento con l'Ayatollah Obama ha voluto fare anche questo regalo alla sua nuova fiamma.

(Libero, 28 marzo 2015)


Obama tradisce Israele e ne svela i segreti della bomba atomica

Il Pentagono rende pubblico il documento su come Gerusalemme ha fabbricato testate nucleari. E' la fine dell'"utile ambiguità".

di Giulio Meotti

ROMA - L'arsenale atomico di Israele è un segreto di Pulcinella. Tutto si è svolto clandestinamente. Anche i finanziamenti negli anni vennero mascherati sotto altre voci di bilancio. Mantenere il segreto era una priorità assoluta e i dirigenti israeliani non hanno mai esitato a mentire ogni volta che è stato necessario. La stessa bomba non è stata mai veramente sperimentata. "Gli israeliani sanno così bene quel che fanno - disse il grande fisico Edward Teller - che non hanno bisogno di un vero esperimento: certo, possono sbagliarsi di un qualche kilotone in più o in meno. Ma che differenza fa?". In settant'anni, Gerusalemme ha sempre ripetuto la formula che Shimon Peres utilizzò per rispondere a John Kennedy: "Non saremo i primi a introdurre armi atomiche in medio oriente". E' la dottrina della "utile ambiguità": né confermare, né smentire. Il presunto arsenale che, mai pubblicizzato o confermato, fa da deterrente verso i nemici, senza violare le richieste di non proliferazione (il Trattato di non proliferazione nucleare è stato firmato da 189 paesi e solo Israele, India, Pakistan, Corea del nord non lo hanno mai sottoscritto). La centrale atomica di Dimona, nel deserto del Negev, costituisce la grande, ultima garanzia per la sopravvivenza del popolo ebraico, ma senza bisogno di sbandierarla in faccia ai nemici. Tutto il mondo sa che Israele è l'unico stato nuclearizzato dell'area.
   Finora gli Stati Uniti si erano sempre rifiutati di rivelare questo segreto. Finora. Fino a Barack Obama. Due giorni fa il governo americano ha declassificato un documento top secret del 1987 che parla dell'atomica di Gerusalemme. Sono 386 pagine dal titolo "Critical Technological Assessment in Israel" e vi si spiega che "i laboratori nucleari di Israele sono l'equivalente (in America, ndr) di Los Alamos, Lawrence Livermore e Oak Ridge". Come scrive su Forward Michael Karpin, autore di "The Bomb in the Basement. How Israel Went Nuclear and What That Means for the World" ( Simon & Schuster, 2006), "in vista della tensione aumentata ultimamente tra Washington e Gerusalemme, la tempistica del declassamento della pubblicazione, dopo un lungo processo legale, potrebbe far sollevare molte sopracciglia. Non ho mai visto un documento americano ufficiale su argomenti che fino ad ora erano stati considerati da entrambe le amministrazioni come segreti indicibili". Il rapporto descrive in dettaglio il progresso tecnologico di Israele negli anni 70 e 80.
   La parte più sorprendente del rapporto del Pentagono afferma che gli israeliani sanno "sviluppare il tipo di codici che consentiranno loro di realizzare bombe all'idrogeno". In pratica, è la conferma che negli anni Ottanta gli scienziati israeliani erano in grado di raggiungere la capacità di fusione dell'idrogeno, e costruire il tipo di bombe mille volte più potenti di quelle atomiche. Va ricordato che già nel 2010 Obama chiese a Israele di partecipare a un summit a Washington contro la proliferazione atomica. Il premier Benjamin Netanyahu spedì una delegazione di basso profilo, non perché non condividesse le finalità del trattato, ma perché Israele si riserva ufficialmente il diritto di dotarsi di quelle armi il giorno che lo facesse un suo nemico giurato (e sono tanti nella regione). Inoltre, il Trattato è stato ratificato anche da paesi come Siria, Iraq e Iran che hanno cercato o stanno cercando di acquisire testate nucleari. Alla luce dei colloqui sull'atomica iraniana in Svizzera, i tempi del declassamento al Pentagono potrebbero rivelarsi a dir poco problematici per Gerusalemme. Sarà sempre più difficile mantenere la politica di ambiguità sul programma nucleare di Israele e, di conseguenza, questo rafforzerà le ambizioni all'uranio arricchito dell'Iran. Lo stato ebraico, intanto, è sempre più solo. E Washington sempre più lontana.

(Il Foglio, 28 marzo 2015)


La soluzione di Israele: isolamento ermetico per chi sta alla cloche

Israele ha scelto una soluzione drastica per la sicurezza degli aerei: il Paese più a rischio nel mondo per gli attacchi terroristici ha isolato del tutto i piloti in cabina, impedendo ogni transito dal cockpit al vano passeggeri e viceversa. Ma c'è un limite alla possibilità di costruire delle toilette in cabina di pilotaggio, perciò in certi casi per le esigenze fisiologiche dei piloti si deve ricorrere a una padella (nei Paesi anglosassoni la chiamano ironicamente «Long John») del tipo usato in tutto il mondo sugli aerei più piccoli.

(La Stampa, 28 marzo 2015)


Calcio - Pronostico Israele-Galles, Euro 2016

Israele-Galles è scontro tra le prime della classe nel girone A. Gareth Bale e Tomer Hemed le stelle in campo.

Lo stadio Sammy Ofer di Haifa
Allo Itztadion Sammy Ofer di Haifa, per il girone A della fase di qualificazione a Euro 2016, Israele-Galles è scontro tra le prime della classe. Padroni di casa al vertice con 9 punti, ospiti a quota 8. La classifica del girone A è completata da Cipro 6 punti, dal favorito Belgio a quota 5, ma con una partita in meno, dalla deludente Bosnia Erzegovina con 2 punti e da Andorra ultimo senza punti. Tomer Hemed, attaccante 27enne in forza all'Almeria e Gareth Bale, le stelle più attese da una parte e dell'altra. Ci aspettiamo una bella partita, tra due squadre che vogliano mantenere le prime posizioni del girone. Israele-Galles, dalle ore 20.45 di sabato 28 marzo, potrà essere seguita in diretta televisiva dai canali Sky Calcio, mentre in live streaming è possibile seguire l'interessante match di Haifa, attraverso l'app Sky Go.
E' in evidente crescita il calcio in Israele; passi da gigante sono stati fatti negli ultimi anni, e ora il livello generale del movimento calcistico israeliano permette di confrontarsi alla pari con tante squadre in ambito internazionale. Al comando del girone A con tre vittorie su tre: Cipro(1-2), Andorra(1-4) e Bosnia Erzegovina(3-0), nell'ordine le vittime, contro il Galles si va alla caccia del poker, un risultato che avvicinerebbe molto alla qualificazione Omer Damari e soci. Non vuole fermarsi nemmeno l'imbattuto Galles però, che cercherà di sfruttare questa partita per prendersi la testa della classifica. Due vittorie(Andorra e Cipro) e due pareggi(Bosnia Erzegovina e Belgio) il cammino fino ad ora dei ragazzi di Coleman. Tante delle speranze gallesi legate ovviamente all'estro di Bale. Queste dovrebbero essere le più probabili formazioni che i due commissari tecnici faranno scendere in campo:
Israele (4-3-1-2): Marciano; Meshumar, Ben Haim I, Dasa, Ben Harush; Yeini ,Natcho, Ben Haim II; Zahavi; Hemed, Damari. Allenatore: Gutman.
Galles (4-3-3): Hennessey; Gunter, Taylor, Chester, A.Williams,; Allen, G. Williams, Cotterill; Ramsey, Kanu, Bale. Allenatore: Coleman.
Precedenti e pronostico: Israele non ha mai vinto contro il Galles, in cinque partite disputate, 3 successi gallesi e 2 pareggi. Pronostico: Over.

(blastingnews, 28 marzo 2015)


Tour della Regione Lombardia a Tel Aviv: accordo firmato per 12 borse studio

Dodici borse di studio in Israele per gli studenti lombardi. Il presidente della Regione Roberto Maroni e l'assessore all'Istruzione Valentina Aprea hanno sottoscritto a Tel Aviv un accordo per 12 borse di studio. L'intesa è arrivata durante la tappa israeliana dell'Expo world tour voluto dal Pirellone. «Abbiamo avviato un processo d'internazionalizzazione dei nostri studenti. Partendo da New York, andiamo in cerca delle eccellenze nel mondo, per offrirle ai nostri studenti migliori come ulteriore esperienza formativa, con i contributi della "Dote merito"» ha detto Aprea, prima di firmare le 12 internship con Kkl-Inf, Karen Kayemeth LeIsrael - Iewish National Fund, fondazione di ricerca e sviluppo agricolo, che svilupperà gli stage in Israele.

(Corriere della Sera, 28 marzo 2015)


"Hai la kippah, non voti": in Francia i comunisti escludono rabbino dal seggio

Grave episodio di intolleranza in Francia: il rabbino capo di Tolosa escluso dai seggi elettorali. Il Partito comunista: "Con la kippah non si può entrare nei seggi".

di Giovanni Masini

Discriminato perché indossava la kippah. Escluso dall'esercizio del diritto basilare per l'espressione del volere democratico: il voto.
   È la Francia del 2015, anche se sembra quella di Alfred Dreyfus.
   Il rabbino capo di Tolosa Avraham Weill ha deciso di sporgere denuncia dopo l'incidente di cui è stato protagonista domenica scorso, durante il primo turno delle elezioni dipartimentali (che corrispondono alle nostre amministrative, ndr). Presentatosi al seggio per votare, è stato avvicinato da una delegata del Partito comunista francese presente in veste di assessore. Incredibilmente, si è opposta a che il rabbino potesse esprimere il suo voto: l'uomo portava un "segno evidente" della propria religione e conseguentemente - nel ragionamento della donna - non poteva votare.
   Alla fine, in assenza della presidente del seggio, il rabbino ha potuto votare solo dopo l'insistenza dei presenti. La delegata comunista, tuttavia, ha preteso e ottenuto che la propria protesta venisse messa a verbale. Lui, però, non l'ha presa bene e ha deciso di sporgere denuncia.
   "È un atto discriminatorio, legato a ciò che rappresento - ha spiegato a France Soir - Quella donna non voleva che io esprimessi il mio voto. Io però vado a votare dall'età di 18 anni e non ho mai visto una cosa del genere." La funzionaria comunista, dal canto suo si difende confessando di non conoscere né il nome né la professione dell'uomo, giurando di non essere antisemita: "Volevo solo sapere se fosse lecito votare con la kippah", si è giustificata.
   La legge francese, peraltro, non vieta i simboli religiosi all'interno dei seggi elettorali, nemmeno quando il voto si svolge all'interno degli edifici scolastici come in questo caso. Gli unici simboli proibiti sul luogo del voto sono quelli che fanno riferimento a partiti o movimenti politici.
   L'episodio è però sintomatico del laicismo aggressivo da anni imperante in Francia. Dopo la controversa legge che vieta i simboli religiosi a scuola (il velo ma anche simboli come le croci "troppo vistose"), gli episodi di intolleranza verso le espressioni del diritto di culto si moltiplicano. A ottobre una donna era stata allontanata dal teatro dell'opera di Parigi perché indossava il velo integrale.
   La notizia, all'epoca, fece molto discutere. L'episodio di Tolosa, è facile immaginare, solleverà almeno altrettante polemiche. L'antisemitismo, in Francia, è un problema crescente. Che molto spesso si somma all'odio per le religioni.

(il Giornale, 27 marzo 2015)


Le Inclusioni di Renata Boero alla Sinagoga di Casale Monferrato

La Comunità Ebraica di Casale Monferrato ospita domenica 29 marzo Renata Boero che porta la sua opera proprio nel cuore del complesso museale: la celebre Sinagoga barocca da più di 400 anni simbolo della rappresentanza ebraica in città.

 
Renata Boero, è un'artista che si è spesso confrontata con il tema della religione, della natura e del tempo (le sue opere sono tra l'altro anche al museo diocesano di Milano). Il che rende particolarmente interessante il lavoro dal titolo Inclusioni che sarà inaugurata alle ore 17 di domenica. Con un dibattito che vede il coinvolgimento di Daria Carmi.
"Dalla piacevole frequentazione dell'amico Elio Carmi, è nata l'idea di un mio intervento all'interno del Tempio - spiega Renata - luogo per eccellenza della memoria e del senza tempo. Ho cercato di contenere la mia abituale esuberanza e limitare il mio intervento a tre momenti all'interno del Tempio. Ai bordi perimetrali, sui due lati, ho disposto piccoli contenitori trasparenti ricolmi delle essenze che costituiscono il mio alfabeto naturale. Vivo materiale che sprigiona aromi e profumi che riaccendono "il tempo perduto". Ai lati del tabernacolo due cilindri trasparenti che contengono "fiori di carta", germinazioni, piccole pagine costituite da vibrazioni di un unico colore che varia da un rosa pallido a un porpora intenso generato da un unico parassita simbolico del ciclo della vita. Infine un grande telero a coprire il tabernacolo. Brandelli di memoria che diventano colore, che diventa respirazione che insufla la materia ci "vita" propria, che diventa viaggio che ritorna memoria"

Inclusioni
DOMENICA 29 MARZO 2015
Sinagoga di Casale Monferrato
Comunità Ebraica - vicolo Salomone Olper
Ore 17,00
INAUGURAZIONE MOSTRA
L'artista Renata Boero ne parla con Daria Carmi.
Testi di Franco La Cecla
Ingresso Libero
La Mostra sarà visitabile fino a domenica 19 aprile.
Infoline: 0142 71807
www.casalebraica.org

(ArtsLife, 27 marzo 2015)


Dal culatello alla piadina: la tv israeliana alla scoperta dello street food emiliano-romagnolo

Tre giorni di riprese per presentare e raccontare agli israeliani la gastronomia di qualità e lo street food dell'Emilia-Romagna, da Parma a Rimini.
Protagonista lo chef israeliano Yisrael Aharoni che da sabato 28 marzo inizierà con la sua troupe le registrazioni per realizzare un reportage che andrà in onda, all'inizio del 2016, nel suo programma tv 'Street Food' in onda sul Canale 10, uno dei due più importanti e seguiti in Israele.
L'iniziativa è resa possibile con il contributo logistico di Apt Servizi in collaborazione con quattro operatori regionali (Food Valley, Modenatur, Bologna Art Hotels, Food Hotels) che fanno parte del progetto sperimentale turismo enogastronomico dell'esperienza "Verso EXPO 2015: dieta mediterranea e circuiti incoming", realizzato insieme all'Unione Regionale delle Camere di Commercio dell'Emilia-Romagna e le quattro Unioni di Prodotto.
Le riprese della tv israeliana inizieranno da Parma in due luoghi di cibo di strada e proseguiranno a Polesine Parmense nelle cantine di stagionatura del Culatello di Zibello Dop.
Sarà un momento critico per gli osservanti della kasherut


Domenica trasferimento a Bologna, con riprese in una sorbetteria, poi ad Anzola Emilia, al 'museo del gelato'. Ultimatappa bh dedicata a una delle eccellenze dell'Emilia-Romagna, l'Aceto Balsamico Tradizionale Dop, con la visita a un'acetaia, vicino a Modena.
La prima parte nella mattinata di lunedì, a Modena, sarà dedicata a far conoscere agli israeliani la tigella modenese. La troupe si trasferirà quindi a Rimini, per immortalare con le telecamere la famosa piadina romagnola. Nel pomeriggio chef, regista ed operatori si recheranno nell'entroterra riminese dove riprenderanno le fasi di cottura, sulle tradizionali teglie di terracotta, sia della piadina romagnola che di 'cassoni' con erbe e verdure raccolte nell'orto e, in serata, una cena tipica romagnola.
Lo chef Yisrael Aharoni raggiungerà poi un forno, a Pellegrino Parmense, per seguire in diretta, durante il lavoro notturno, l'arte della preparazione (in forni a legna e utilizzando grani di qualità) del pane e altri prodotti dagli antichi e immutati sapori.

(AltaRimini.it, 27 marzo 2015)


L'impressionante numero dell'esodo dei cristiani dal medio oriente

Vittime della persecuzionie degli islamisti sono stati costretti ad abbandonare le proprie terre. Secondo Newsweek sono passati dal 20 al 5 per cento della popolazione negli ultimi anni.

Quella dei cristiani è solo una delle tante comunità religiose che hanno sofferto la persecuzione violenta da parte dello Stato islamico, di altri gruppi armati o del regime di Bashar el Assad nel medio e vicino oriente. Molti cristiani, bollati come "crociati" e annoverati tra gli "infedeli" nella guerra santa dello Stato islamico, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e le terre dove erano stanziati da secoli. I numeri del fenomeno li propone oggi Newsweek: dall'inizio del XX secolo, quando in proporzione i cristiani nella regione erano pari al 20 per cento, si è arrivati al 5 per cento negli ultimi anni. Secondo un report del Center for American Progress "alcune delle comunità cristiane più antiche al mondo stanno scomparendo dalle stesse terre in cui la loro fede è sorta e si è radicata". L'unica soluzione è allora fuggire: l'esodo dei cristiani (e di altre minoranze religiose) per scampare alle persecuzioni degli integralisti islamici è di dimensioni enormi.
   Secondo il Parlamento europeo, i cristiani siriani che hanno abbandonato il paese sono 700 mila. In Iraq la proporzione è ancora più netta: dall'invasione americana del 2003 a oggi, i cristiani rimasti nel paese sono tra i 260 mila e i 350 mila ma secondo le stime, fino al 2003, sarebbero dovuti essere 1,4 milioni. I casi del Libano, della Giordania o di Israele, ricordati da Newsweek, dove i cristiani non sono obiettivo di violenze o discriminazione ma anzi partecipano alla vita politica del paese, sono rare eccezioni. Dal 2001 con le primavere arabe la persecuzione dei cristiani in medio oriente è diventata un fenomeno in ascesa. La transizione politica nel mondo arabo (con rarissime eccezioni) è fallita ovunque e ha esposto i cristiani al pericolo di rinunciare al compromesso fatto fino allo scoppio delle rivoluzioni: sostenere le dittature in cambio di protezione (il caso siriano è emblematico: la comunità cristiana da Assad padre al figlio Bashar è sempre rimasta sotto l'ala protettrice del regime per poi diventare obiettivo della persecuzione islamica dal 2011).
    Le conseguenze per la regione sono drammatiche, dice il Center for American Progress: "Se una delle comunità religiose più antiche al mondo come quella cristiana è costretta ad abbandonare il medio oriente questo avrà ripercussioni drammatiche per il futuro in termini di pluralismo, tolleranza e per la possibilità di coloro che abitano la regione di rimanere connessi al resto del mondo".

(Il Foglio, 27 marzo 2015)


Imbrattata (nuovamente) la bandiera di Israele dell'Expo

di Gian Giacomo William Faillace

 
MILANO 27 Marzo - Ci risiamo. Il gesto, poco nobile, avvenuto alcuni mesi fa si è ripetuto martedì sempre ai danni della bandiera dello stato di Israele. Stando alle informazioni, una mano ignota, ha imbrattato con della vernice rossa il vessillo israeliano che campeggia in Piazza Cordusio insieme alle bandiere degli altri stati che parteciperanno all'EXPO 2015.
   Gesto ignobile causato da mano ignorante ed ignota ai danni dell'unica democrazia presente in tutto il Medio Oriente; ai danni dell'unico Paese che, in un'area attraversata dall'oscurantismo teocratico antioccidentale, rimane a salvaguardia delle tradizioni democratiche dell'Occidente oltreché dei luoghi definiti santi da tutta la cristianità.
   Non importa se la mano sia stata guidata da motivi religiosi, da motivi ideologici, da quell'odio nei confronti degli ebrei che in Europa, grazie ad una sinistra orfana dell'U.R.S.S. e privata dei rubli che il PCUS era solito elargirle, ha preferito svendersi come una prostituta da strada (senza offesa per quest'ultime) ai petroldollari islamici; da quell'odio antisemita che in Italia sopravvive anche grazie ad alcuni nostalgici del governo di un socialista romagnolo che col suo fedele alleato tedesco strinse patti con la massima autorità islamica di Gerusalemme per annientare il popolo di Israele.
   Mi fanno pena e rabbia queste persone, sia di una sedicente destra che di sinistra, la cui mente convive con l'ignoranza: si ergono a paladini dell'Occidente, della democrazia, della cristianità, delle radici greco-romane e giudaico-cristiane e della laicità dell'Europa e dell'Italia e poi si scagliano contro l'unico Paese che realmente protegge la loro democrazia, le loro radici e il loro modo di vivere; quell'unico Paese che fornisce loro, ed ai loro cari, farmaci antitumorali, protesi, ricerca contro i tumori, pace-maker e tante altre scoperte che, i paladini del "boicot Israel" usano quotidianamente. Volete boicottare Israele? Non curatevi! Vi va bene lo scambio? Ma d'altro canto cosa possiamo aspettarci da questi "individui" umani, anagraficamente parlando, che volevano boicottare la Francia di Chirac per sette esperimenti nucleari e poi, visto il loro essere contro le centrali nucleari, ha costretto il nostro Paese ad importare energia elettrica dalla centrale termonucleare di Lione? Volevate boicottare la Francia? Non dovevate accendere la luce bensì vivere a lume di candela. Ecco la stessa cosa dovreste fare con i prodotti israeliani: non dovreste curare le vostre malattie cardiache, evitare le efficaci cure anti tumore, e tante altre malattie gravi o meno che siano. Siate coerenti una volta soltanto nella vostra vita.
   Se la mano è stata islamica, quest'atto dimostra la volontà di pace che questi "signori" hanno, se la mano è stata di sinistra dimostra l'ipocrisia di chi segue questa stolta e sanguinaria ideologia, in quanto dimostra la svendita della loro laicità e della difesa dei diritti umani in nome della teocrazia nemica degli ideali che sciorinano e se la mano è stata neo-fascista, definendosi quest'ultimi eredi degli ideali del Fascismo e a difesa della cristianità vorrei ricordare che proprio il vostro Leader Maximo di romagnole origini, fu talmente filo-islamico che, sia il padre spirituale del Pakistan, Muhammad Iqbal, sia Shakib Arslan, una delle figure principali della corrente salafita del '900, ebbero parole di elogio nei confronti del Duce. Alla faccia della difesa dei cristiani.

(Milano Post, 27 marzo 2015)


Sgambetto americano a Netanyahu: rivelati i segreti nucleari israeliani

Vendetta della Casa Bianca

di Daniel Mosseri

Una vendetta. Per il discorso pronunciato da N tanyahu al Congresso Usa nonostante l'aperta contrarietà della Casa Bianca. Per aver spiato i colloqui Usa-Iran sul nucleare e averne messo a parte stampa e parlamentari. Per essere stato rieletto. A Barack Obama i motivi per detestare il premier israeliano non mancano né il presidente degli Stati Uniti ha mai fatto mistero dell'antipatia che nutre per il leader conservatore. Un conto, tuttavia, sono i rapporti personali, un altro le relazioni fra gli Stati. E l'ennesimo atto di inimicizia di Washington all'indirizzo di Gerusalemme sembra chiaramente superare il primo livello, tracimando abbondantemente nel secondo. Il Pentagono, rende noto la stampa israeliana, ha desecretato un rapporto del 1987 dal titolo «Critical Technological Assessment in Israel and NATO Nations», 386 pagine incentrate sul livello nucleare raggiunto dalle diverse nazioni alleate. Con una differenza: ampi stralci del documento relativi a Italia, Francia e Germania sono rimasti top secret; quello sullo Stato ebraico no. Il messaggio a Israele è chiaro: non interferite fra noi e Teheran. Il primo alleato di Israele non ritiene dunque di dare alcun peso alle parole dell'ayatollah Khamenei, che a giorni alterni minaccia di distruggere Israele.
   L'Assessment descrive con cura i progressi nucleari di Israele negli anni '70 e '80, paragonando infrastrutture e laboratori con quelli americani. Lo denuncia Michael Karpin, reporter israeliano autore del libro "La bomba in cantina". Al pari di India e Pakistan, Israele non aderisce al Trattato di non proliferazione, eppure che la sua Difesa abbia a disposizione un centinaio di testate nucleari è un segreto di Pulcinella. È «l'ambiguità nucleare» giocata da 50 anni da Israele come carta della deterrenza nei confronti del mondo arabo. «lo ho alcune conoscenze su come Israele abbia sviluppato la sua capacità nucleare», scrive ancora Karpin, «ma dopo aver letto il rapporto in questione devo esprimere il mio stupore: non ho mai visto prima un documento Usa rendere noto in maniera così dettagliata temi che fino a ieri erano considerati segreti impronunciabili da entrambi le amministrazioni». Pur senza mettere nero su bianco che Gerusalemme ha sviluppato l'atomica, il rapporto spiega che nel campo della fissione «gli israeliani sono più o meno dov'erano gli Stati Uniti fra il 1955 e il 1960». Quando cioè gli Usa testavano la bomba all'idrogeno. Alla luce di questa nuova verità, sarà più difficile per Netanyahu proseguire con la politica dell'ambiguità nucleare e, ancor di più, negare all'Iran l'aspirazione a sviluppare un proprio programma nucleare.

(Libero, 27 marzo 2015)


Hakoah. Lo scudetto di Kafka

Gli "ebrei invincibili" di Vienna, passione del grande scrittore Kafka, nel 1925 conquistarono lo scudetto austriaco diventando dei miti anche a New York. Morirono quasi tutti nei campi di concentramento.

di Massimiliano Castellani

Bela Guttmann
 
Hakoah Vienna nello stadio Polo Ground di New York, maggio 1926. In piedi: Fabian, Eisenhoffer, Schwarz, Neufeld, Hess, Drucker, Häusler, Grünwald; davanti: Wegner, Pollak, Wortmann, Gold
«Come sono scampato alla deportazione? Mi ha aiutato Dio…». Fino alla fine dei suoi giorni Bela Guttmann (18991981), antesignano di tutti gli "special one", Mourinho compreso, ha ripetuto questa "sua verità" di ebreo errante del pallone, perseguitato dal nazismo , poi anche dallo stalinismo. Un "salvato" il mister ungherese, scudettato con il Milan nel 1955 e vincitore di due Coppa dei Campioni con i portoghesi del Benfica che salutò - la prima volta nel '62, lanciando l'anatema ancora in corso: «Senza di me questa Coppa non la vincerete mai più». Dal '39, fino alla fine della seconda guerra, Guttmann visse misteriosamente da "sommerso" e tra le tante battaglie combattute in campo poteva ricordare quelle da protagonista nella squadra degli «ebrei invincibili» di Vienna: la leggendaria Sport Klub Hakoah. Il club sionista, fondato nel 1909, dal cabarettista Fritz Lohner-Beda e dal dentista Ignaz Hermann Korner, in pochissimo tempo divenne l'espressione della migliore gioventù ebraica che eccelleva anche nello sport.
   Dalle prime Olimpiadi moderne, Atene 1896, a quelle di Berlino del '36, diciotto delle 52 medaglie austriache erano state vinte da atleti ebrei. L'Hakoah andò oltre la dimostrazione dell'agognata superiorità atletica, che Max Nordau identificava nel Muskeljundentum, il «giudaismo muscolare». La squadra che si presentava come «famiglia», scendeva in campo mostrando con orgoglio la casacca biancoblu dalla grande "H" stampata al centro e la stella di David cucita sul petto. Nel primo decennio dalla fondazione, quella dell'Hakoah (precursore di altre società di matrice ebraica: le israeliane Maccabi e Hapoel, il Tottenham e l'Ajax) fu un'autentica marcia di propaganda, con i migliori talenti della scuola danubiana che facevano a gara per farsi tesserare. La brama dipendeva anche dallo stipendio, "doppio" rispetto ai pur benestanti cugini del Rapid Vienna. Il mecenatismo dei finanzieri viennesi cavalcò il grande affare pubblicitario, ancor prima che sportivo, derivante dalle brillanti prestazioni della squadra, assoluta padrona del campo e del gioco . Il tifo per le "H" di Vienna contagiò l'intera comunità ebraica. Oltre 20mila tifosi (tanti sono gli ebrei odierni a Vienna), un decimo del popolo di David presente in Austria prima dell'Anschluss (l'annessione alla Germania, 1938) alla domenica affollavano gli spalti dello stadio del Secondo Distretto. In quel piccolo teatro dei sogni di cuoio , quando era di passaggio a Vienna non mancava mai di entrare un tifoso assai speciale, lo scrittore praghese Franz Kafka. E i giocatori dell'Hakoah sul terreno di gioco misero in atto un 'autentica metamorfosi calcistica. Esattamente novant'anni fa, stagione 1924-25, si consacrarono campioni d'Austria. Un trofeo da mostrare in giro per l'Europa, salendo fino a Londra nella tana dei supponenti maestri del football del West Ham, umiliati ad Upton Park con uno storico 5-0.
   Per la prima volta una squadra straniera andava a violare un campo inglese. A quel punto la formazione del portiere volante Alexander Fabian (era capace di trasformarsi anche in goleador) dell'imprevedibile campione olimpico - con l'Ungheria nel '24- Bela Guttmann (il più pagato, percepiva un quarto degli introiti della società) e del fantasista Erno Schwarz, divenne un vero e proprio circo calcistico itinerante. L'Hakoah volò negli Stati Uniti per una serie di esibizioni, in cui gli ebrei americani accorsero per assistere all'inedito spettacolo. Con ogni mezzo si presentarono al Polo Grounds di New York in 46 mila - record di presenze durato fino al 1977 -. Al termine di quella sfavillante tournèe , venne calcolato che almeno 200mila spettatori parteciparono dal vivo alle sfide di quei giocolieri dell'Austria felix. Non si sa se per intuizione o per ispirazione divina, ma nove dei componenti di quel primo "dream team" ebraico decise di non salire sulla nave che li avrebbe riportati a Vienna. Guttmann fu tra questi, lusingato dal "nuovomondo ", ma anche da un ingaggio faraonico che gli garantivano i New York Giants: 500 dollari mensili per il primo anno e 1000 al secondo più vitto e alloggio a carico della società. Nei ritagli di tempo «l'astuto ebreo», come lo chiamava Gianni Brera, si improvvisò anche manager degli "Hakoah All Stars" , prefigurazione dei giganti di Harlem, i Globetrotters del basket (fondati nel '27). I componenti di quella squadra rimasti a vivere negli Stati Uniti scamparono alla deportazione nei lager nazisti. Guttmann finito in bolletta, nel '32 riuscì fortunosamente a tornare a Vienna per allenare la prima delle tante squadre che avrebbe guidato in carriera, l'Hakoah. Rimase su quella panchina fino all'Anschluss, allorché le SS requisirono lo stadio e la lega calcio austriaca confiscò i trofei, cancellando ignobilmente dall'albo d'oro tutti i risultati conseguiti dalle mitiche "H", titolo nazionale del '25 compreso.
   Molti di quei campioni, furono caricati su un vagone chiodato di un treno solo andata per il campo di concentramento di Theresienstadt. Le ultime immagini li vede su un campo di calcio - rimediato - nel lager che con la maglia bianca stellata affrontano le casacche nerissime della formazione del Sonderkommando. Quelle scene le ha girate - sotto minaccia dei kapò - un deportato, il comico ebreo Kurt Gerron. «Credeva di riuscire a fare un film che piacesse abbastanza ai nazisti da risparmiargli la vita», ha scritto Franklin Foer. Gerron finì i suoi giorni in una camera a gas ad Auschwitz, assieme a molti di quei calciatori. Solo 6mila ebrei austriaci scamparono all'atroce destino e di quei giorni Primo Levi tragico ricordava che «l'uomo è divenuto cosa agli occhi degli uomini». Guttmann preferiva dribblare il discorso quando gli si chiedeva dell'Olocausto . Il ricordo della shoah fu, invece, il riscatto di Ignaz Feldmann, miracolosamente salvato dal suo carceriere, un ex calciatore dell'Austria Vienna che riconobbe quell'avversario delle temutissime "H". La memoria resiste ed è un'«Hakoah», una «forza», specie in epoca in cui negli stadi austriaci (ma anche nel resto d'Europa) sono riapparse le oltraggiose svastiche accompagnate dagli striscioni inneggianti contro lo «Juden». Anche per questo, dopo il tentativo fallito nel '49, nel 2000 l'orgoglio ebraico viennese ha rifondato lo Sport Club Hakoah. Una polisportiva con oltre cinquecento soci, la cui squadra di calcio che milita nei dilettanti è stata ribattezzata Maccabi Wien. Nome rispolverato e simboli adottati di nuovo dall'omonima formazione di New York, risorta anch'essa, nel 2009.
   Il tempo passa, ma nulla è cambiato. Anzi sì, A Vienna, il campo in cui giocano i " nipoti" dell'Hakoah, non è distante da quella via che un tempo era la base delle SS e ora reca il nome di Wiesenthal, il "cacciatore di nazisti". E quando vent'anni fa (nel '95), il governo austriaco ha chiesto pubblicamente scusa a tutte le vittime dell'olocausto, ricordando la straordinaria storia delle «"H" di Vienna», la memoria ha fatto finalmente gol.

(Avvenire, 27 marzo 2015)


Se sfugge a commentatori e giornalisti la differenza fra "oggi" e "mai"

Una soluzione a due stati non è possibile nelle circostanze attuali: è tutto qui quello che ha detto Netanyahu.

Cos'è che ha scatenato la ridda di commenti indignati e tendenziosi su Israele in generale, e sul primo ministro Benjamin Netanyahu in particolare? Tutto è iniziato con il New York Times, la testata che detta la linea, che lo scorso 16 marzo (vigilia delle elezioni in Israele) titolava: "Netanyahu dice no a uno stato per i palestinesi". L'editoriale di Thomas Friedman parlava del "totale rifiuto" di uno stato palestinese da parte del primo ministro israeliano. L'editorialista andava anche oltre, accusando Netanyahu d'aver "dichiarato" che non avrebbe "mai permesso una soluzione a due stati tra israeliani e palestinesi".
Ma ecco cosa aveva effettivamente detto Netanyahu, rispondendo a un giornalista israeliano: "Penso che chi oggi istituisce uno stato palestinese e sgombera dei territori, consegna all'estremismo islamista un territorio da cui attaccare lo stato di Israele". Tutto qui.
Come si può spiegare - senza pensare alla malafede - la miracolosa trasformazione dell'idea di Netanyahu che "oggi" uno stato palestinese non sia realizzabile, nell'accusa che egli lo rifiuti "totalmente" (outright) promettendo che non permetterà "mai" (never) una soluzione a due stati? Che giornalismo è quello che riferisce mai dove l'intervistato dice oggi?...

(International Business Times, 27 marzo 2015)


Le 7 App che rivoluzioneranno le vostre vacanze

Negli ultimi dieci anni, gli agenti di viaggio hanno progressivamente perso il loro dominio sulla pianificazione dei viaggi, sulle prenotazioni degli hotel e dei biglietti aerei, perché l'industria del turismo si è spostata su Internet. Nel frattempo, insieme a portali web come Expedia e Orbitz, sono sorte piccole imprese che si occupano di viaggi.
L'industria del turismo ha visto la nascita di molte startup in grado di rivoluzionare il mondo dei viaggi, trasporti e vacanze. In Israele, melting pot di innovazione e tecnologia, all'interno dell'annuale fiera internazionale Mediterranean Tourism Market sono state presentate alcune startup israeliane leader nell'organizzazione digitale di viaggi.
Quando si parla di viaggi, tecnologia e Israele, è impossibile non menzionare il successo dell'israeliana Waze, venduta a Google per 1,1 miliardi di dollari nel 2013.
Le 7 migliori compagnie tecnologiche israeliane che si occupano di viaggi:

 SuperFly
Se avete perso il conto dei punti Frequent Flyer, il rischio che vadano persi perché inutilizzati è molto alto. La startup israeliana SuperFly gestisce le miglia e i punti fedeltà di molteplici compagnie aeree, noleggio auto e hotel.

 EatWith
Dimenticate trappole per turisti e ristoranti sovraffollati; EatWith, fondata da Guy Michlin e Scemer Schwartz nel 2012, è spesso descritta come la Airbnb del cibo. Con circa 500 clienti attivi in 160 città di tutto il mondo, EatWith ha mostrato il potere della condivisione.

 Moovit
Una volta arrivati a destinazione, di solito si usa il trasporto pubblico. L'App israeliana Moovit ha cambiato il modo in cui le persone utilizzano i mezzi pubblici, utilizzando i dati in crowd-sourcing e informazioni in tempo reale da parte dei passeggeri, è possibile raccomandare le linee più veloci in quel determinato momento. Fondata nel 2011 da Nir Erez, Roy Bick e Yaron Evron, l'applicazione è stata lanciata in Israele nel 2012 e oggi è disponibile in 500 città di tutto il mondo, dove è stata integrata anche con i servizi di taxi, come GetTaxi. Moovit vanta 15 milioni di utenti ed ha un valore di 450 milioni di dollari.

 Roomer
Ogni viaggiatore ha sperimentato la frustrazione causata dall'aver dovuto cancellare una prenotazione alberghiera e lottare per essere rimborsati. Fondata nel 2011 da Gon Ben-David, Ben Froumine, e Adi Zellner, Roomer è la startup israeliana che ha raccolto la sfida di aiutare le persone ad evitare le spese di cancellazione. Il concetto di Roomer è quello di collegare i viaggiatori che annullano i loro viaggi con i viaggiatori che sono alla ricerca di un hotel.

 HopOn
L'App israeliana HopOn, creata nel 2012 da Ofer Sinai e David Mezuman, affronta la classica problematica del perdere l'autobus. HopOn si comporta come un portafoglio elettronico, che consente di pagare il titolo di viaggio con un semplice click. L'applicazione può essere utilizzata per gli autobus, la metropolitana e le stazioni di noleggio di biciclette. L'obiettivo principale di HopOn è quello di cambiare completamente l'esperienza di utilizzo dei mezzi pubblici e rendere più semplice il processo di pagamento del titolo di viaggio.

 GetTaxi
Con GetTaxi bastano pochi click e un taxi è già in arrivo. Gli utenti possono ottenere l'orario di arrivo previsto, ricevere informazioni sull'autista, compresa una foto, nome, numero di telefono e feedback da parte di altri utenti. L'applicazione realizzata da Shahar Waiser e Roi More, è disponibile in 32 città, e raggiunge 15 milioni di utenti.

 Guesty
Guesty offre servizi di gestione per gli host di Airbnb. Fondata da Amiad e Kobi Soto nel 2013, questo servizio consente a chi mette a disposizione la casa su Airbnb di scegliere tra una varietà di strumenti online per il 3% del prezzo della prenotazione. Alcuni di questi servizi includono lo screening degli ospiti per soddisfare le richieste del padrone di casa, l'invio di e-mail prima e dopo il periodo di permanenza dell'ospite, e anche la pianificazione delle pulizie.

(SiliconWadi, 26 marzo 2015)


Turchia, riapre Grande Sinagoga di epoca ottomana

Ankara ne vuol fare un simbolo della coesistenza delle religioni.

La Grande Sinagoga di Edirne (com'è adesso)
... com'era prima
ROMA, 26 mar. - Riaperta oggi in Turchia un'antica sinagoga di epoca ottomana, chiusa da diversi decenni, che il governo turco vuole diventi simbolo della coesistenza tra le diverse religioni in Turchia.
La cerimonia alla Buyuk Sinagog (Grande Sinagoga), nella città di Edirne, s'è tenuta di fronte a alti esponenti del governo, tra i quali il vicepremier Bulent Arinc, e leader della comunità turco-ebraica.
La sinagoga, che è stata utilizzata dalla comunità ebraica di Edirne  fino al 1983, è stata restaurata con 2,5 milioni di dollari e cinque anni di lavori.

(askanews, 26 marzo 2015)


Ecco chi ancora non si rassegna a Netanyahu

di Graziano Motta

É passata una settimana dalle elezioni israeliane e seguendo la grande stampa internazionale stupisce che analisti ed esperti non smettano di interrogarsi sulle ragioni della vittoria alla grande di Benjamin Netanyahu contro tutti i sondaggi. Specie quelli della vigilia che lo davano perdente, e poi contro gli exit polls che lo stabilivano appaiato alla "coppia" di rivali, il laburista Isaac Herzog e la centrista Tzipi Livini, fondatori e leader della "Unione sionista". Segno che la sua vittoria, da molti media non desiderata, non è stata nemmeno "digerita". E di converso, segno che a uscire sconfitta dalle elezioni è stata la campagna mediatica a lui ostile , senz'altro la più aspra nei 70 anni della storia politica di Israele, che non si è arrestata nemmeno "a bocce ferme", cioè a urne chiuse.
  Una campagna mediatica che si è accompagnata, ha sotteso, sovente si è sovrapposta, talvolta si è confusa con quella della delegittimazione della sua figura e della sua politica spingendosi fino alla delegittimazione di Israele, proiettandosi sulla natura e le caratteristiche della sua democrazia, giungendo persino a contestare l'esistenza della nazione ebraica. Scontato quindi prevedere che questa campagna sia destinata a proseguire per tutta la durata della nuova legislatura. L'obiettivo è sempre lo stesso, sintetizzato dallo slogan elettorale, "Mandarlo a casa comunque". Adesso viene evocata l'ovvia certezza che Bibi non possa durare in perpetuo, che possa cadere in un errore dalle conseguenze politiche invalidanti o vivere una situazione che interrompa la sua lunga permanenza al vertice della vita politica nazionale, ormai quattro mandati di premier, che regge, anzi supera, il confronto con quella del mitico fondatore dello Stato, David Ben Gurion.
  Netanyahu aveva già avvertito in occasione delle elezioni del dicembre 2013 (dalle quali ne era uscito vincente) segnali di un'acrimoniosa insofferenza; in queste ultime vi è stata nei media un'ulteriore caduta di "stile" perché ha assunto toni denigratori nei confronti di sua moglie Sarah, e critiche per nulla larvate sono state espresse nientemeno che dal Controllore dello Stato Joseph Shapira. L'attività di questa figura istituzionale, l'equivalente del nostro presidente della Corte dei Conti, è attentamente seguita dalla pubblica opinione; in particolare il suo rapporto annuale è un evento molto atteso, i giornali lo pubblicano per esteso impegnando alcune pagine. Stavolta però, la denuncia di uno scandalo inverosimile, definito come il "bottiglia-gate", con una serie di critiche alla moglie di Netanyahu ( presentata come una donna sregolata con il denaro pubblico e invece parsimoniosa con il proprio, che si arricchisce a spese dei contribuenti con la raccolta di bottiglie vuote, intascandosi il deposito del reso) è apparsa molto debole, al limite dell'inconsistenza. Come è apparsa pretestuosa - ma ha contribuito ancor più a far crescere sui media la campagna ostile ai Netanyahu - un'altra indagine del Controllore sull' impiego del fondi pubblici destinati alla manutenzione della residenza del Primo Ministro.
  «Le spese domestiche», ha denunciato, «non hanno soddisfatto nemmeno uno dei principi fondamentali di proporzionalità, ragionevolezza, economia ed efficienza». Eccessiva è stata giudicata «la spesa per il catering ed i pasti da asporto, nonché per la pulizia della residenza del Primo Ministro». Il pettegolezzo ha dilagato. Tanto da indurre una nota scrittrice, Naomi Ragen, a indagare sulla «devastante» immagine pubblica di Sarah Nethanyahu, a decidere di incontrare l'«altera spendacciona» (rea fra l'altro di aver abusato del servizio di un domestico) e a chiederle cosa ci fosse di vero dietro a tutte queste storie «scandalose e piccine, che anche se smontate svariate volte, continuavano a tornare sotto forma diversa». Sara, psicologa per professione, non ha cercato vie traverse e le ha detto schiettamente che «dietro a tutto questo» c'è un uomo, Noni (Arnon) Mozes. «Mozes, che alcuni considerano l'uomo più potente in Israele, è anche l'editore del quotidiano Yediot Aharonot, un giornale schierato a favore della sinistra, degli accordi di Oslo, del disimpegno da Gaza del 2005 e del Partito Laburista». E infine sostenitore del controverso disegno di legge contro il giornale Israel Hayom, (ne è stata chiesta la fine della distribuzione gratuita solo perché ad alta tiratura) fondato dal miliardario americano Sheldon Adelson a sostegno del Primo ministro e del suo partito Likud. In un post su Facebook Benjamin Netanyahu ha accusato Mozes di essere «il responsabile del fango che viene gettato contro di me e mia moglie».
  Su un altro e più "alto" piano si è sviluppata la campagna ostile dell'autorevole quotidiano di opinione Haaretz schierato apertamente a sostegno della "Unione sionista" di Isaac Herzog e Tzipi Livni. Non si finirebbe di spigolare tra le righe degli editoriali. Possono bastare due citazioni: «Gli elettori di Bibi sono troppo eccitati e hanno paura. Non vogliono vivere in una nazione democratica e liberale» (Ravit Hecht), «Non c'è speranza. La popolazione israeliana dev'essere sostituita, non è degna di esistere» (Gideon Levi). Fanno il paio con lo scherno degli ebrei religiosi in un comizio di Yair Garbor: «Sono analfabeti che baciano amuleti», ha detto per ridicolizzare i superstiziosi che portano sulle labbra la mano che ha appena sfiorato il rotolo della Torah o le scatoline, contenenti citazioni bibliche e preghiere , apposte agli stipiti delle porte di casa. Queste le due anime di Israele. Purtroppo la liberal-progressista e laica non riesce a incontrarsi, e tanto meno a intendersi, con quella conservatrice e popolare, verso la quale ha un animoso disprezzo; e mentre danneggia la sinistra autenticamente sionista, da sempre presente nella realtà nazionale, condivide i medesimi sentimenti della sinistra ebraica in Europa e negli Stati Uniti.
  Da questo intreccio, al limite del paradosso, scaturiscono due diversi modi di porsi dinanzi alle grandi problematiche di politica regionale e internazionale. Ne discende la condivisione o il rifiuto vuoi delle posizioni filo-palestinesi espresse da partiti di sinistra europei, vuoi delle iniziative diplomatiche per il processo di pace o per un controllo dell' industria nucleare iraniana maturate in seno all'Unione Europea e all'amministrazione Obama o espresse dal Quartetto per il Medio Oriente. E ne discende pure l'esistenza di lobbies politiche, di gruppi di interesse più nascosti che palesi, di giochi e strategie di rilevanza regionale e di proiezione sovente mondiale. Non ha sorpreso la rivelazione di Netanyahu che «a Washington ci sono Ong che hanno finanziato i miei avversari politici; qualcuna ha cercato di rovesciarmi ma non c'è riuscita».
  Le campagne mediatiche esprimono queste realtà . Nell'ultima battaglia elettorale non sono però riuscite a nascondere o minimizzare i pericoli per Israele dell'arma nucleare iraniana e della nascita di uno Stato palestinese nel momento in cui il Califfato islamico si espande prepotentemente nella regione, minacciando non solo i suoi confini, ma la sua stessa esistenza. Netanyahu ha avuto buon gioco nel rappresentare i grossi rischi per la sicurezza di Israele sfidando il presidente Obama addirittura dalla prestigiosa aula del Congresso degli Stati Uniti (era la terza volta che veniva invitato a parlare dalla sua tribuna, un onore riservato finora solo a Winston Churchill).
  I risultati di vedere affluire alle urne il 71,8 dei votanti - una percentuale che lava i tanti fanghi dell'apartheid versati sulla nazione, unica democrazia del Medio Oriente dove per cristiani musulmani ed ebrei sono stabiliti pari diritti - e di avere il Likud conquistato un quarto dei seggi della Knesset in una competizione disciplinata dal proporzionale puro, legittimano la vittoria di Netanyahu anche se non gli assicurano tempi tranquilli nell'affrontare i problemi in sospeso, primo fra tutti quello con gli arabi- palestinesi, in ballo dal 1947, e le frizioni con Obama in questi ultimi due anni di permanenza alla Casa Bianca.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 26 marzo 2015)


Il giorno di Saturno

Un nuovo metodo per determinare il periodo di rotazione di Saturno è stato presentato in un articolo sull'ultimo numero di Nature. A metterlo a punto, un gruppo di ricercatori guidato da Ravit Helled, dell'Università di Tel Aviv.

Saturno
Quanto dura un giorno su Saturno? Un po' meno di 11 ore, questo è sicuro. Ma agli scienziati, si sa, non piace accontentarsi di informazioni così approssimative e da anni, studiando il pianeta degli anelli, cercano di ottenere misure accurate del suo periodo di rotazione. Una informazione tutt'altro che marginale o di pura curiosità: conoscere con precisione questo valore può aiutarli a capire meglio altri aspetti del pianeta, come la sua struttura e composizione interna. Il compito però è alquanto difficile perché Saturno è un pianeta gassoso che non possiede strutture solide individuabili, al contrario della Terra o Marte, per esempio, che possono essere prese come facile riferimento per cronometrare in quanto tempo il corpo celeste compie una rotazione completa attorno al suo asse.
Ora però un nuovo metodo per determinare il periodo di rotazione di Saturno arriva dalle pagine dell'ultimo numero di Nature. A metterlo a punto, un gruppo di ricercatori guidato da Ravit Helled, dell'Università di Tel Aviv. La nuova tecnica, che si basa sulle misure del campo gravitazionale di Saturno e delle sue differenti configurazioni lungo gli assi nord-sud ed est-ovest, ha permesso di ricavare che un giorno di Saturno dura 10 ore, 32 minuti e 44 secondi.
«Negli ultimi venti anni, il periodo di rotazione standard di Saturno comunemente accettato è stato quello misurata dal Voyager 2 negli anni '80 del secolo scorso: 10 ore e 39 minuti, e 22 secondi», spiega Helled. «Ma quando la sonda Cassini è arrivata a Saturno 30 anni dopo, il periodo di rotazione calcolato dalle sue osservazioni è salito di otto minuti. Abbiamo capito così che questo valore non poteva essere dedotto dalle misure delle fluttuazioni di intensità delle onde radio associate al campo magnetico di Saturno, e dunque rimaneva di fatto sconosciuto. Ovviamente, negli ultimi anni, ci sono stati diversi tentativi teorici per trovare una risposta a questo enigma. Noi proponiamo la nostra, che si basa sulla forma e il campo gravitazionale del pianeta. Osservandone le proprietà globali, abbiamo determinato così il periodo di rotazione».
Il metodo proposto si basa su processi di ottimizzazione statistica che hanno coinvolto diverse soluzioni. Innanzitutto, queste soluzioni dovevano essere in grado di riprodurre nel modo più accurato possibile le proprietà osservative di Saturno, in particolare la sua massa e il suo campo gravitazionale. Le migliori tra quelle ottenute sono state infine utilizzate per ricavare il periodo di rotazione. Come verifica, il team ha applicato il metodo per calcolare il periodo di rotazione di Giove, ottenendo risultati in ottimo accordo con quelli ottenuti con altre tecniche, noti con precisione. Il prossimo passo è quello di estendere questo metodo ad altri pianeti gassosi del Sistema solare, come Urano e Nettuno. E magari anche oltre, fino a pianeti gassosi in orbita attorno ad altre stelle.

(Media Inaf, 26 marzo 2015)


L'ultima farsa del Palazzo di vetro

Per l'Onu c'è un solo stato al mondo che discrimina le donne: Israele

Indovinate chi è oggi il principale stato che viola i diritti delle donne nel mondo? Ma ovvio, è Israele. E' questa la conclusione della commissione dell'Onu sullo status delle donne. Lo stato ebraico è l'unico paese al mondo condannato per come tratta le donne (palestinesi in questo caso) dall'ultima sessione della commissione. Non la Siria, dove le forze governative utilizzano gli stupri come tattica di guerra e le milizie islamiche le schiavizzano se sono yazide. Non l'Arabia Saudita, dove le donne sono fisicamente punite se non indossano gli indumenti obbligatori, sono completamente escluse dalla vita politica, non possono guidare, non possono viaggiare senza un parente maschio, ricevono metà dell'eredità dei loro fratelli. Non il Sudan, dove la violenza domestica è legale. Non l'Iran, dove l'adulterio è punibile con la morte per lapidazione e una norma stabilisce che gli imputati debbano essere colpiti con pietre "né troppo grandi né troppo piccole", in modo da assicurare una morte lenta e dolorosa. Non la Somalia, dove la mutilazione genitale femminile è onnipresente, la violenza sessuale è dilagante, e le donne sono sistematicamente subordinate agli uomini. No. Questi regimi orrendi e odiosi ottengono dall'Onu un lasciapassare per i loro crimini e spesso sono persino premiati anche con un posto nella commissione sulle donne. L'ossessione che divora il Palazzo di vetro è lo stato ebraico. Per dileggiarlo, demonizzarlo e metterlo all'indice di fronte all'opinione pubblica internazionale, l'Onu è pronto a qualsiasi farsa. Compresa questa delle donne.

(Il Foglio, 26 marzo 2015)


Menachem e Ahmad sul campo da calcio Israele è un Paese unito

Quattordici bambini arabi e ebrei a Torino per un torneo. I baby calciatori che uniscono Israele.

di Andrea Rossi

«Ho dovuto scegliere chi far piangere». Quando ha saputo di avere solo sette posti a disposizione, Faied Shalbe ha pensato che il lavoro del selezionatore sa essere ingrato. Quest'insegnante di scuola aveva tra le mani un viaggio in Italia e ottanta pretendenti. «È stata dura. Li abbiamo scelti con cura, cercando di non fare un torto a nessuno, ma non è bastato: abbiamo dovuto consolare gli esclusi, asciugare qualche lacrima. Chi è venuto qui può dirsi fortunato».
Qui è il campo in erba sintetica del Cit Turin, sferzato da una pioggia tambureggiante, magliette inzuppate, gambe pesanti da far viaggiare. Negli anni 80, per strappare questo rettangolo in corso Ferrucci, davanti al Tribunale, la «squadra dei comunisti» si accampò con le tende.
Li chiamavano così perché arrivavano da un circolo Arei di Campidoglio, intitolato al partigiano Luciano Domenico, e s'erano messi in testa di sradicare l'emarginazione con il calcio. Cocciuti. Sono ancora lì ma adesso, sotto il diluvio, si rincorrono - mescolati - sette bambini arabi e sette israeliani. Abitano in due villaggi a una manciata di chilometri di distanza ma fino a una settimana fa non si erano mai visti, come se fossero divisi da una muraglia. Nord dello stato d'Israele: da una parte c'è Nazareth dall'altra la Cisgiordania e i territori occupati,
di qua c'è Afula, la capitale della valle del Jezreel, di là Iksal, città araba dentro lo Stato d'Israele. Di qua ci sono sette bambini di undici anni, di Iksal, scelti dal professor Shalbe, di là altri sette, ebrei, di Afula, selezionati da un allenatore di calcio, Yossi Haziza. Hanno formato due squadre miste sotto un unico slogan, «Peace Dreamers» e le insegne dell'Onu. Sono il cuore di un progetto guidato da un'organizzazione non governativa con sede a Gerusalemme, Universal Peace Federation: il calcio come grimaldello per mettere fine ai conflitti. Torino si è candidata a ospitarli per una settimana. «È la prima volta che mi allontano da casa, mia mamma era un po' preoccupata», ride Ahmad, tremando per il freddo.

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 La guerra alle spalle
  Sono gli ambasciatori di un mondo (forse) nuovo, una squadra di calcio per riportare la pace nelle loro terre, anche se il pallone qui è l'ultima o quasi - cosa che conta. «Non abbiamo scelto i calciatori migliori», spiega Faied Shalbe, «ma i ragazzi più aperti, disponibili all'incontro». Vogliono costruire un microcosmo virtuoso. È un percorso accidentato ma non impossibile: «Le loro famiglie nemmeno si parlavano». Per estinguere certe scorie ci vuole del tempo, e qui ci sono famiglie che in quella guerra lunga più di sessant'anni hanno perso per strada amici e parenti. Afula negli ultimi vent'anni è stata colpita più volte al cuore da attacchi kamizake. «Quest'avventura, però, li sta avvicinando. I genitori oggi si parlano: gli arabi sono stati ad Afula, gli ebrei a Iksal».

 Fine delle diffidenze
  Le diffidenze si superano nella quotidianità, dovendo gestire l'ansia per un figlio bambino per la prima volta lontano da casa, ben 2.500 chilometri. Così Faied e Yossi hanno creato un gruppo su WhatsApp e ogni giorno tengono una sorta di bollettino in tempo reale per le quattordici famiglie. Le inondano di foto: le amichevoli con Antico Borgoretto e Union Susa, l'allenamento a Vinovo con la Soccer School della Juventus, Juventus-Genoa allo Stadium, la lezione di calcio con il mister del Toro Giampiero Ventura, e infine il torneo al Cit Turin. Piove a dirotto, in strada ci sono due camionette dei carabinieri: per questi bambini le cose non sono mai facili, anche quando si tratta di una partita a pallone. Oggi, però, il cielo è l'unica cosa che stona. Shahar, Din, Minoy, Mahdi, Mohammad, Abdallah, Abed Elmagid, Ahmad, Moemen, Eyal, Ward, Menachem, Sahar, El Roei: per una volta non importa chi sta da una parte e chi dall'altra, chi parla l'arabo e chi l'ebraico, chi vive ad Afula e chi a Iksal. Non conta nemmeno chi ha vinto e chi ha perso.

(La Stampa, 26 marzo 2015)


Se la Spagna si scusa con gli ebrei

Dopo cinquecento anni.

di Roberto Toscano

Si pensa di solito che i grandi misfatti della storia siano irrimediabili, ed in effetti così è, se pensiamo alle vite stroncate, alle sofferenze, alle intere comunità eliminate dal genocidio o spinte con la violenza sulle strade dell'esilio. Eppure sarebbe sbagliato ignorare il valore morale del riconoscimento delle ingiustizie perpetrate anche quando il riconoscimento avviene da parte di chi in nessun modo ne potrebbe essere considerato responsabile. Non esiste certo una colpa collettiva, ma riconoscere l'ingiustizia commessa abbandonando il troppo diffuso e volgare giustificazionismo in chiave storica («erano altri tempi, vigevano altri principi») è un gesto nobile su cui sarebbe ingeneroso ironizzare.
   Ieri le Cortes, la Camera dei deputati spagnola, hanno compiuto questo gesto riconoscendo ai discendenti degli ebrei espulsi nel 1492 il diritto ad ottenere la cittadinanza spagnola. Si trattò allora di una colossale ingiustizia, e anche di un segno di ottusità che oggi definiremmo «fondamentalista», se pensiamo che gli ebrei non solo facevano parte integrante della società spagnola, ma ad essa contribuivano in modo molto sostanziale sotto il profilo economico e intellettuale. Quelle centinaia di migliaia di ebrei lasciarono «Sefarad» e si dispersero in tutta l'Europa, soprattutto nell'Europa mediterranea e in particolare nell'Impero Ottomano. Si racconta che il Sultano dell'epoca esprimesse tutta la sua sorpresa: «Curiosi questi sovrani spagnoli. Impoveriscono il loro regno ed arricchiscono il mio».
   Gli ebrei sefarditi si sono radicati in diverse realtà ma non hanno mai dimenticato la Spagna, spesso conservando quasi miracolosamente le loro tradizioni e soprattutto la lingua, il «ladino», uno spagnolo reso particolare dalle radici arcaiche e dalle influenze di altre lingue mediterranee. Dopo l'espulsione del 1492, la persecuzione degli ebrei rimasti in Spagna in quanto convertiti fu l'obiettivo principale dell'Inquisizione spagnola, alla caccia spietata di convertiti accusati di mantenere segretamente la loro fede e i loro riti. Quelli che erano definiti «judaizantes, o molto più brutalmente, «marranos» (porci).
   Ma la storia del rapporto fra Spagna ed ebrei non si riduce soltanto all'espulsione del 1492 e alla persecuzione dei convertiti. Quello che è interessante, e che non molti sanno, è che non solo i sefarditi non hanno mai dimenticato la Spagna, ma nemmeno la Spagna ha dimenticato i sefarditi. Non lo ha fatto per la consapevolezza - una consapevolezza che nemmeno il più radicato fanatismo religioso poteva cancellare - che anche loro erano Spagna, così come è Spagna l'eredità musulmana di AI-Andalus. Questo spiega perché durante la Seconda Guerra Mondiale i diplomatici della Spagna franchista abbiano in molti casi dato protezione agli ebrei, fra l'altro senza distinguere fra sefarditi e askenaziti, ebrei del CentroEst Europa. Molto probabilmente in Franco, astuto opportunista, c'era anche l'intento di costruirsi un'immagine positiva con gli Alleati, utile nel caso di una sconfitta tedesca, ma certamente non c'era solo questo.
   Non si sa quanti tra i teoricamente aventi diritto chiederanno la cittadinanza spagnola, ma si può prevedere che non saranno in pochi, soprattutto per il forte legame sentimentale con un passato e una terra mai dimenticati. Si può invece prevedere che non molti saranno quelli che si trasferiranno effettivamente in Spagna.
   Non mancano comunque le critiche, ad esempio per i requisiti imposti dalla nuova legge: sostanzialmente quello di essere in grado di dimostrare «un vincolo speciale con la Spagna» (come avere un cognome riconoscibile come sefardita o conoscere il ladino - requisiti che saranno verificati da parte degli «Istituti Cervantes». Ma qualcuno comincia anche a sollevare una questione ben più politica. Perché non approvare una legge analoga per i «moriscos», i musulmani spagnoli convertiti espulsi dalla Spagna all'inizio del '600? Anche loro erano una componente significativa di una Spagna culturalmente plurale, ricca e creativa prima che si imponesse l'opprimente morsa dell'uniformità.
   Si discuterà, ovviamente, di questo e di altro. Ma sarebbe ingeneroso non dare alla Spagna il riconoscimento di un gesto che andrebbe anzi imitato da altri Paesi al fine di riconoscere, e rimediare quanto meno simbolicamente, le troppe ingiustizie della storia. Ingiustizie che ben pochi possono sostenere di non avere commesse.

(La Stampa, 26 marzo 2015)


Lettera aperta a Noa

di Deborah Fait

Cara Noa,
 
ero fresca di aliyah quando, nel lontano 1996, a Tel Aviv, sono andata al teatro Habima per un tuo concerto. La tua voce ti aveva già resa famosa in Italia, paese da cui venivo, e l'idea di vedere dal vivo un'artista che, per la sua bravura, portava lustro a Israele, mi emozionava. Quando sei apparsa sul palcoscenico, tutta vestita di bianco, mi sono resa conto che c'era qualcosa che non andava, il teatro era stracolmo ma gli applausi non arrivavano, sei stata accolta da un gelo che si poteva tagliare col coltello. Hai cantato una prima canzone, benissimo come sempre, e sei tornata dietro le quinte seguita da qualche fischio. Io mi sentivo imbarazzatissima perché non capivo bene il motivo di tale freddezza nei confronti di un'artista così brava e per giunta israeliana.
   Il mio vicino di poltrona mi ha spiegato l'arcano: avevi fatto alcune dichiarazioni molto forti incolpando praticamente tutto Israele per l'assassinio di Izhak Rabin, avvenuto un paio di mesi prima, e avevi in un certo senso giustificato il terrorismo palestinese. Israele che per quella tragedia aveva pianto tutte le sue lacrime, non te lo aveva perdonato e da quel momento ebbe inizio il difficile e sofferto rapporto con il tuo popolo. Poi sei tornata sul palcoscenico con un foglio in mano, nel silenzio generale e con voce un po' tremante, hai letto una lettera di scuse a Israele. All'improvviso, come una cannonata, è scoppiato un applauso così forte da far tremare il teatro. Eravamo tutti in piedi a gridare il tuo nome colla gola chiusa e le lacrime agli occhi.
   Quanto poco ci vuole per commuovere gli israeliani, basta un po' d'amore in mezzo all'odio che ci circonda. Era tutto finto? Erano scuse interessate? La tua storia di questi ultimi 20 anni dice di si. Dopo quel concerto hai continuato imperterrita a fare la pacifinta e a esprimere giudizi velenosi contro Israele. Da alcuni giorni i media italiani e soprattutto i social network, parlano di come tu sia stata contestata al tuo ritorno in Israele, sei stata apostrofata a male parole e, sempre a parole, minacciata. Non doveva accadere ma, come si dice, chi la fa l'aspetti!
   Nessuno ti ha sfiorata eppure in Italia parlano di "Noa aggredita, Noa assalita all'aeroporto di Tel Aviv". Sono incapaci di usare le parole giuste, ai nostri nemici fa gioco imbrogliare la gente. Gad Lerner, dal suo blog, fa anche di più e di meglio, se no non sarebbe Gad Lerner cioè uno che non sopporta Israele, che come altri ex comunisti odia la nostra democrazia, che al pari di altri ritiene Israele responsabile di ogni male del mondo. Lerner, oltre a strepitare istericamente che eri stata aggredita in Israele, non incolpa solo i due che ti hanno insultata, ma tutti gli israeliani, ci accusa di razzismo e arriva a demonizzare, senza nominarlo, l'unico premier democraticamente eletto, con voti liberi e democratici, di tutto il Medio Oriente e anche di qualche nazione europea... e chi ha orecchie da intendere intenda!
   Nessuno ti ha aggredita, Noa, nessuno ti ha assalita, tu lo sai e dovresti dirlo, dovresti gridarlo forte per farti sentir bene fino in Italia dove vanno a nozze ogniqualvolta possono accusare Israele. Sei stata presa a male parole, "nemica di Israele" ti hanno gridato, " la pagherai". Io al posto tuo incomincerei a farmi un sano e doveroso esame di coscienza. Cara Noa, perché ti consideriamo, e mi ci metto anch'io, "nemica di Israele"? Per quale motivo un'artista del tuo calibro, che dovrebbe renderci gonfi di orgoglio, ci fa vergognare?
   Vediamo un po':
   Anni fa hai cantato davanti al Papa la più bella canzone israeliana, quella che tocca nel profondo il cuore di tutti noi, "Jerushalayim shel Zahav - Gerusalemme d'oro", eravamo felici, ecco la Noa che amiamo, avevamo pensato, e poi? Poi hai usato la censura, con un colpo di forbici, hai profanato il capolavoro di Naomi Shemer, hai offeso la sua memoria e tutto il popolo di Israele, togliendo l'ultima strofa, quella che fa:
    "Siamo ritornati alle cisterne d'acqua, al mercato e alla piazza,
    uno shofar risuona sul Monte del Tempio, nella Città Vecchia.
    E nelle grotte che ci sono nella roccia splendono mille soli:
    torneremo a scendere verso il Mar Morto, sulla strada di Gerico".
Hai avuto paura Noa? Hai temuto che ti considerassero troppo sionista? Andiamo avanti con le perle uscite dalla tua bocca. Durante la commemorazione dei caduti nel giorno del ricordo, Yom haZikaron, hai detto di voler ricordare anche i "caduti" palestinesi! Quali caduti, Noa? Quelli che venivano in mezzo a noi per farci esplodere? Hai offeso le famiglie "orfane" di figli, padri, sorelle, madri, tutti i morti in guerra e per terrorismo, hai di nuovo offeso tutto Israele. Perché? Sei diventata la paladina del pacifismo israeliano, cieco come tutti i pacifismi del mondo. Quel pacifismo ipocrita, che urla al razzismo se Netanyahu invita legittimamente ad andare a votare per contrastare il voto arabo che avrebbe potuto far vincere la sinistra, e poi, senza vergogna, insulta i religiosi ebrei, li demonizza, li accusa di essere un pericolo per Israele, invita la gente a non fare offerte, come si usa, per le famiglie indigenti, se ebree ortodosse. E' questo il tuo pacifismo, Noa? Come puoi essere complice di un simile orrore?
   La tua indiscussa bravura, la tua voce, la tua musica avrebbero potuto far amare Israele nel mondo invece hai scelto l'altra strada, quella del "mi vergogno di quella che sono... perdonatemi se sono israeliana... cercherò di farvelo dimenticare..."
   Ma non ti è servito a niente, Noa, chi odia Israele odia anche te e lo dimostrano tutte le contestazioni di cui sei stata oggetto in Italia:
   - Ti hanno contestata a Lecce durante la notte della Taranta, il comunicato dice: "Ci chiediamo perché la direzione artistica della Notte della Taranta avalli la complicità di Noa con i crimini dell'esercito di Israele. Ci chiediamo perché le amministrazioni pubbliche (Regione Puglia e Provincia di Lecce), finanzino questo evento senza prendere in considerazione il fatto che la presenza di Noa legittimi il regime di apartheid israeliano." Questo perché avevi scritto ai tuoi "amici palestinesi" mettendoli in guardia dal fanatismo di Hamas. Che ingenua, Noa, come potevi pensare che i palestinesi considerassero fanatico un gruppo di terroristi che tanto amano!
   - Ti hanno contestata al San Carlo di Napoli per lo stesso motivo.
   - Ti hanno contestata a Firenze. C'erano tutti, estrema sinistra, sinistra moderata, fascisti storici, filopalestinesi, neonazisti del BDS, associazioni pacifiste toscane, tutti a strillare del "genocidio di Gaza".
   Perché non hai mai avuto il fegato, Noa, di metterti a gridare che non esisteva nessun genocio, che era guerra, che sono loro, gli arabi, a voler eliminare noi! Perché non lo hai mai avuto questo coraggio? Perché chi può far sentite la voce giusta di Israele, non solo agli addetti ai lavori, politici e media, ma anche al popolo, a tanti tutti insieme durante un concerto, non lo fa? Perché? Ci vuole coraggio è vero, ma, cara Noa, alla fine il coraggio paga, non ha cachè, non aumenta il conto in banca ma ti fa sentir bene, felice, soddisfatta, orgogliosa di te. Purtroppo a te questo coraggio manca e hai scelto la strada più facile, quella del "io non sono come loro, i sionisti guerrafondai... io amo i nemici di Israele..."
   Ma nemmeno questo ti serve a niente perché hai il marchio, Noa, il marchio della "vergogna", per loro: sei israeliana, sei ebrea. Dovunque tu vada a cantare in Italia, là sei, sei stata e sarai contestata solo perché israeliana, Noa, fattene una ragione. Loro, i tuoi contestatori, se ne fregano se tu predichi la pace, se ne strafregano se tu vuoi commemorare i terroristi palestinesi nel Giorno del Ricordo dei caduti per Israele. A loro, a quelli che tu consideri compagni, interessa solo una cosa: sei israeliana, sei ebrea e questo è sufficiente per odiarti e impedirti di cantare. Il boicottaggio dell'odio, Noa, il boicottaggio dei pacifascisti, Noa. Non ti fa schifo tutto questo? Non ti faceva schifo quell'Arafat che tu difendevi mentre ci ammazzava? Non ti fanno schifo quei palestinesi che ballano di gioia ad ogni morto israeliano, all'attentato alle Torri Gemelle e ad ogni disgrazia che accade nel mondo occidentale che tanto odiano? Non ti fa schifo sentire Abu Mazen parlare di pulizia etnica se Giudea e Samaria diventassero arabe? Non ti fa schifo sentir minacciare di distruzione il tuo Paese? Non ti fa schifo renderti conto di quanto il mondo ci odi solo perché esistiamo? Non ti fa schifo pensare che tutti, da Obama alla Merkel, stanno tentando di rendere nullo il voto popolare e democratico di Israele? Non ti fa schifo sentirti nemica del tuo Paese, dove sei nata, dove hai fatto il soldato, dove hai studiato canto per diventare l'artista che sei? Non ti fa schifo sapere che quelli cui ti assimili hanno, per la quarta volta, imbrattato la bandiera di Israele, la tua, la mia bandiera, esposta, tra le tante, a Milano per l'Expo? Non ti fa schifo sentirti vicina a quelle centinaia di fantici andati ad applaudire Omar Barghouti, il capo di quel movimento fascista che vuole l'eutanasia di Israele?
   Per quale pace ti batti, per quale pace offendi Israele, per quale pace tenti inutilmente di scrollarti di dosso quel marchio indelebile, Noa? Per me, e come me tanti, quello è un marchio di orgoglio. Quando qualcuno mi guarda male, quando qualcuno mi offende, lo guardo negli occhi, a testa alta: "Si, sono israeliana, sono ebrea... problemi?"
   Mi dispiace per te, Noa, sei disprezzata dai nostri comuni nemici perché israeliana e, a causa di un'ideologia malata e vigliacca, sei disprezzata anche dagli israeliani. Su una pagina facebook in ebraico, una giovane, Gila Avidan, pur condannando quelli che ti hanno offesa all'aereoporto Ben Gurion, suggerisce di considerarti "inesistente, invisibile". Sì, diventerai invisibile per noi, Noa, e lo trovo molto triste. Non è un peccato?
   Se tu usassi la tua arte e il tuo talento per far amare Israele, per renderci orgogliosi di te come avremmo voluto, se tu capissi che i nostri nemici sono anche i tuoi nemici, dei tuoi figli, di ogni ebreo e di Israele! Difendere Casa, Noa, è un dovere dell'anima, soprattutto se la casa è costantemente minacciata. Ognuno dovrebbe farlo come può, come sa, chi scrivendo, come me e altri meglio di me, chi rischiando la vita come i nostri soldati, fratelli e sorelle, figli e figlie di tutti noi. Per difendere anche te e i tuoi figli, la tua casa e la tua famiglia come quelle di tutti gli israeliani, anche arabi. Se tu capissi, Noa!

(Inviato dall'autrice, 26 marzo 2015)


La svastica a Berkeley

L'antisemitismo divampa nei campus più liberal d'America. L'odio per Israele è ormai l'oppio dell'élite accademica. Professori che incitano al terrorismo e studenti aggrediti.

di Giulio Meotti

"Vorrei con tutto me stesso essermi sbagliato. Spero e prego perché l'ondata di antisemitismo che avverto sia una profezia sbagliata". Purtroppo per Lawrence Summers, allora presidente di Harvard (2001-2006), la sua profezia si è rivelata corretta. Alla University of California di Irvine, la confraternita ebraica ha trovato svastiche sugli edifici del campus, e lo stesso nei giorni scorsi è accaduto alla Vanderbilt University, alla University of Oregon e alla Emory University. Incidenti sempre legati alle attività antisraeliane. Newsweek lo chiama "il problema della svastica a Berkeley".
  L'antisemitismo attecchisce come una pianta malefica nella Ivy League, la lega dell'edera, i laboratori delle "equal opportunities" e della counter culture inebriata di benessere, del "Black is beautiful" e del continuo ricatto delle minoranze etniche o sessuali, dove il ragazzo nero del profondo sud siede nello stesso banco dell'erede Rockefeller, le oasi verdi fatte di sole, ginnastica, jogging, piazze animate da concerti, manifestazioni di studenti, in un reticolo di strade costellate di librerie, caffetterie, ristorantini, pizzerie. E in mezzo, i premi Nobel e i templi della conoscenza.
  E' possibile che i college più liberal del mondo stiano adesso incubando l'antisemitismo assieme al cinismo sull'occidente, al sospetto sul capitalismo e al politicamente corretto? I primi segni di quest'odio nuovo si ebbero proprio a Berkeley nel 2002, quando sulla scalinata della Sproul Hall nell'Università di Berkeley, dove nacque il Free Speech Movement, alzò la voce una nuova generazione di studenti. Stavolta contro Israele e il popolo ebraico. Il 54 per cento degli studenti ebrei del college oggi dice di aver subito aggressioni antisemite o di esserne stato testimone, secondo la ricerca pubblicata dal "Center for Human Rights Under Law" del Trinity College. E quando gli studenti hanno denunciato i disagi alle relative amministrazioni delle facoltà, le università non l'hanno quasi mai presa seriamente.
  Jessica Felber, una studentessa ebrea, ha denunciato Berkeley dopo essere stata aggredita da un altro studente, Husam Zakharia, mentre partecipava a una dimostrazione in favore di Israele. L'università era a conoscenza che Zakharia era un capo del gruppo "Studenti per la giustizia in Palestina", e che si era reso responsabile di altre aggressioni nel campus. Nelle facoltà dove professori e studenti cercano maggiormente di proteggere i diritti etnici e delle minoranze razziali, i discorsi dell'odio contro la comunità ebraica sono diventati un problema dilagante. Dopo l'ultimo conflitto a Gaza, la scorsa estate, sono apparse sui muri del campus di Berkeley le scritte "Morte a Israele" e "Uccidiamo tutti gli ebrei". Nei giorni scorsi è stata poi la volta dello slogan: "I sionisti dovrebbero essere mandati nelle camere a gas".
  A Berkeley la madrina delle campagne contro Israele è la professoressa Judith Butler, che ha inventato gli "studi di genere" così popolari oggi anche in Europa. La Butler finì sotto accusa per una intervista in cui denunciava i memoriali per le vittime dell'11 settembre: "Dopo 1'11/9, sono rimasta scioccata dal fatto che c'era un lutto pubblico per molte delle persone che sono morte negli attacchi al World Trade Center e nessun lutto pubblico per i lavoratori illegali del WTC".
  Gary Tobin nel suo libro "Uncivil University" scrive che "antisemitismo e antisraelismo sono sistematici nel campo dell'istruzione superiore e possono essere rilevati nei campus di tutti gli Stati Uniti". Ovunque nelle aule i professori dipingono i palestinesi come vittime degli "occupanti israeliani" e lo stato ebraico è ritratto come "razzista", "stato di apartheid", "genocida''. Negli edifici dei campus, i gruppi antisraeliani organizzano picchetti, conferenze per il boicottaggio, e i sostenitori di Gerusalemme sono quotidianamente interrotti, è loro impedito di parlare e studenti ebrei sono aggrediti, anche fisicamente. Nel giugno 2009, Tammi Rossman-Benjamin, che insegna all'Università di Santa Cruz, ha presentato una denuncia al dipartimento dell'Educazione degli Stati Uniti contro i campus universitari di Santa Cruz che sponsorizzavano conferenze e film "violentemente anti-Israele", usando i soldi del campus, per diffondere antisemitismo in contrasto con il "Civil Rights Act" del 1964. Nell'ottobre 2010 il Dipartimento dell'Educazione ha stabilito che le università finanziate a livello federale sono obbligate a eliminare ogni pregiudiziale antisemita.
  Non va dimenticato che il simbolo del pacifismo antisraeliano nel mondo è Rachel Corrie, una studentessa universitaria americana, rimasta uccisa a Gaza sotto un bulldozer israeliano, nel tentativo di bloccare la demolizione di una casa di terroristi. Il mito di Corrie ha ispirato opere letterarie, boicottaggi, e articoli in tutto il mondo. La sua storia ha contribuito a diffamare Israele in un modo persino peggiore della storia di Mohammed al Dura. Dopo la morte di Corrie, la Caterpillar è stata bersaglio di molte campagne e persino la Church of England ha venduto le azioni di quella società. Hamas ha adottato il suo viso come mascotte e l'Iran le ha dedicato una strada. Una delle navi della flottiglia per Gaza portava il suo nome, come se fosse stata un'inerme ragazza occidentale. Corri e, invece, era nella Striscia di Gaza per fare da scudo umano ai terroristi. Alla Evergreen State University, gli ex professori di Corrie alle cerimonie di laurea indossano pantaloni cachi e kefiah, in omaggio alla loro ex studentessa.
  Nei giorni scorsi il David Horowitz Freedom Center, un think tank conservatore in California, ha diffuso la lista nera dei peggiori campus d'America. Svetta in testa alla classifica la Columbia University. I primi a denunciarla sono stati alcuni studenti con un documentario, "Columbia Unbecoming'', prodotto da un gruppo di Boston chiamato The David Project, il cui obiettivo dichiarato è "contrastare l'atteggiamento ingiusto e sleale delle nostre università, dei mezzi di informazione e delle comunità". Il film mostra una serie di studenti che accusano i docenti della Columbia di allontanarli, intimidirli e offenderli quando fanno sfoggio di opinioni filo israeliane. "Quanti palestinesi hai ucciso?", chiede il professor Joseph Massad a uno studente che ha fatto la leva in Israele. Nel documentario, uno dei più illustri islamisti del paese, George Saliba, a una ragazza ebrea dice che non può vantare diritti sulla Palestina perché non aveva "occhi abbastanza semitici". La Columbia è l'ateneo di Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute di quella Università, che ha definito "legittima resistenza" il terrorismo suicida contro Israele e l'esercito israeliano "un'arma di distruzione di massa".
  La Columbia è un centro strategico perché è l'Università dove ha insegnato Edward Said, l'accademico palestinese più illustre del XX secolo. Said era la quintessenza dell'intellettuale occidentale, coccolato dai liberal e bestseller di lungo corso nelle librerie europee. E, al tempo stesso, l'esponente culturale più prestigioso del fronte del rifiuto palestinese. Celebre la foto in cui Said si fece ritrarre, al confine del Libano meridionale, mentre tirava sassi contro i soldati israeliani. Fu lui a inventarsi una patria palestinese, molto prima che Yasser Arafat piazzasse bombe negli aeroporti europei per rivendicarla. Fu Said a scrivere lo storico discorso con cui il rais si presentò nel 1974 all'Onu, con il ramoscello d'ulivo in una mano e nell'altra la pistola. La sua definizione dei palestinesi come "vittime delle vittime", "profughi dei profughi", ha avuto una risonanza straordinaria in occidente. E' l'attrazione fatale per la vittima che diventa carnefice. In una intervista del 1989 Said disse, senza equivoci: "Quello che fanno i palestinesi per mezzo della violenza e del terrorismo è comprensibile".
  Questa condiscendenza ha seminato nel profondo i campus americani. A Berkeley è stato tenuto un corso sulla "Politica e Poetica della Resistenza palestinese". Nemmeno a Georgetown, l'ateneo dei gesuiti lautamente finanziato dai mercanti arabo-islamici, si lesina moderazione. Yvonne Haddad, docente di storia dell'islam e di Relazioni cristiano-musulmane, ha detto che Intifada, quella dei kamikaze, significa "non mi rompere le palle". Hamid Dabashi, docente di Studi iraniani alla Columbia, ha fatto proiettare pellicole dove s'inneggia alla fine di Israele.
  A Yale è durato appena quattro anni l'Initiative for Interdisciplinary Study of Anti-Semitism, il primo centro accademico al mondo completamente dedicato allo studio dell'antisemitismo. Quattro anni dopo è stato chiuso, essendo stato accusato di "servilismo verso Israele", a causa della pressione dei diplomatici palestinesi negli Stati Uniti, del politicamente corretto e delle laute donazioni dei paesi arabi. Come ha scritto sul Washington Post il professor Walter Reich, che insegna alla George Washington University, "Yale ha ucciso il miglior istituto americano per lo studio dell'antisemitismo" perché "critico dell'antisemitismo arabo e iraniano".
  Nessuna polemica invece venne sollevata quando gli studenti del Jackson Center for Global Affairs di Vale vennero portati dai loro docenti a incontrare il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in visita all'Onu (in quell'occasione il leader iraniano negò nuovamente la Shoah).
  Ci sono diciassette centri di studi mediorientali negli Stati Uniti e quasi tutti ospitano ricercatori antioccidentali e antisraeliani. Lo scorso ottobre centinaia di antropologi in tutto il mondo hanno firmato un appello per il boicottaggio di Israele. C'erano anche tredici professori dalla Columbia University, nove da Harvard e otto da Vale. Tra loro nomi importantissimi del mondo dell'antropologia, come i professori J ean e J ohn Comaroff di Harvard, decani degli studi post coloniali e africani, e Michael Taussig della Columbia, lo studioso della mimesi e dell'America latina. L'American Studies Association ha recentemente aderito alla campagna internazionale di boicottaggio contro le università israeliane. E viene da Harvard il professore che ha scritto "Israel Lobby" (si tratta di Stephen Walt), la versione dei "Protocolli dei Savi Anziani di Sion" aggiornata a Israele.
  E' anche un problema di fondi che arrivano dai paesi islamici. Basta scorrere l'elenco delle donazioni dai potentati arabi del Golfo dal 1995 a oggi: Boston University (1,5 milioni), Columbia University (500 mila dollari), George Washington University (12 milioni), Georgetown University (16 milioni), Harvard (12 milioni), Mit (10 milioni), University of Arkansas (18 milioni). L'intolleranza intanto dilaga ovunque. Dall'Hampshire College, dove uno studente pro Israele è stato aggredito da parte di individui dai volti coperti al grido di "Baby Killer", alla Rutgers University, dove in un evento i palestinesi sono stati paragonati alle vittime dell'Olocausto. Intanto, dalla mensa della Università di Harvard, è scomparsa la Sodastream, azienda israeliana leader nella gassificazione dell'acqua. Il pensiero corre al 1934. L'anno in cui Harvard accolse Ernst Hanfstàngl, sodale di Hitler nonché finanziatore del "Mein Kampf". Quando un rabbino gli chiese delle violenze antisemite a Berlino, Hanfstangl rispose: "Sono in vacanza fra vecchi amici". E si avviò a prendere un tè con il presidente di Harvard, James Conant.
  Questa ondata di irrazionalità antisemita e di isteria antisraeliana nei campus d'America è l'inveramento della profezia non soltanto di Lawrence Summers, ma anche di Allan Bloom, il docente di Filosofia all'Università di Chicago che deprecò la caduta di questi santuari della conoscenza con un libro che destò scalpore, "La chiusura della mente americana". Dove tutto ormai deve essere istantaneamente gratificante. Compreso l'odio per Israele. Quest'oppio delle élite. L'ultima buona causa liberal e umanitaria.

(Il Foglio, 25 marzo 2015)


Maroni: "Impediremo che expo venga macchiato da gravi episodI"

Maroni a Tel Aviv
TEL AVIV - E' iniziata oggi mercoledì 25 marzo la tappa del World Expo Tour a Tel Aviv. Il presidente Roberto Maroni e l'assessore all'istruzione, formazione e Lavoro nonché la delegazione della Regione Lombardia parteciperanno alla "Design Week 2015: food for thought" al Design Museum di Holon, che dal 24 al 26 marzo dedica una serie di eventi e mostre al design e food made in Italy, in collaborazione con la Camera di Commercio e Industria Israel-Italia, l'Ambasciata d'Italia in Israele, l'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv e l'Istituto nazionale per il commercio estero Ice. Oltre al presidente Maroni, al Design Museum prenderanno la parola anche l'Ambasciatore d'Italia in Israele, Francesco Maria Talò e il presidente della Camera di Commercio e dell'Industria Israel-Italia, Ronni Benatoff. Il programma della mattinata proseguirà con una serie di visite in alcuni importanti centri di ricerca e sviluppo. In Israele l'evento di promozione di Expo Milano 2015, che caratterizza tutte le tappe del World Expo Tour del Presidente Maroni, si svolgerà mercoledì 25 marzo alle ore 19 all'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv.
  Nell'occasione sarà sottoscritto anche l'accordo di "Student internship" tra Regione Lombardia e KKL-JNF, Keren Kayemeth LeIsrael - Jewish National Fund. A seguire, il Presidente Maroni incontrerà la stampa. La missione istituzionale della Regione Lombardia in Israele si concluderà domani 26 marzo con l'incontro fra il presidente Maroni e il premio Nobel per la Pace Shimon Peres al Peres Center for Peace, sede dell'Organizzazione non governativa fondata dall'ex Presidente israeliano con l'obiettivo di promuovere la pace in Medio Oriente.
  "Noi siamo preoccupati per il tema della sicurezza per quello che sta avvenendo nel mondo. Nei giorni scorsi ho incontrato il ministro dell'Interno italiano e abbiamo parlato di questo, perché c'è questo clima di intolleranza diffuso nei confronti di tante comunità. E quelle israeliana ed ebraica sono quelle storicamente più sensibili. Con la comunità' ebraica Regione Lombardia ha un ottimo rapporto".
   Cosi' il Presidente Maroni a Holon in occasione della tappa del World Expo Tour in Israele, a margine dell'inaugurazione della Design Week, ha risposto a chi gli ha chiesto un commento sull'episodio accaduto nei giorni scorsi in piazza Cordusio a Milano, dove la bandiera di Israele e' stata imbrattata con vernice rossa. "Per Expo ci occupiamo di sicurezza sanitaria", ha spiegato Maroni. "Pero' abbiamo il nostro sistema di protezione civile e di polizia locale che è a disposizione per impedire che l'Esposizione di Milano sia macchiata da episodi di questo genere".
  Attraverso Expo Milano 2015 vogliamo diffondere i temi come la qualità' del cibo, della vita e la lotta alla contraffazione alimentare, che rappresenta un rischio serio per la salute oltre che un grave danno per le aziende italiane: 60 miliardi all'anno. Su Expo abbiamo investito, è un'occasione per vedere quanto è bella la Lombardia con i suoi 10 siti Unesco". Lo ha detto il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, intervenendo all'inaugurazione della "Design Week 2015: Food for Thought" al Design Museum di Holon, Tel Aviv. Il museo del design israeliano ospita dal 24 al 26 marzo una serie di eventi e mostre dedicati al design e food Made in Italy, in collaborazione con la Camera di Commercio e Industria Israel-Italia, l'Ambasciata d'Italia in Israele, l'Istituto italiano di Cultura di Tel Aviv e l'istituto per il commercio estero, Ice. Si apre così la tappa in Israele del World Expo Tour della Regione Lombardia per promuovere l'Esposizione Universale nel mondo, alla quale partecipa anche l'assessore alla Formazione, Istruzione e Lavoro, Valentina Aprea, in occasione della firma di un protocollo di "Student Internship" tra Regione Lombardia e KKL- JNF Karen Kayemeth LeIsrael - Jewish National Fund.

MILANO CAPITALE ECONOMICA - "Milano e' la capitale economica italiana, uno dei quattro motori d'Europa, siamo fieri di essere la prima regione manifatturiera e la prima dal punto di vista agricolo in Italia. Tutto questo è' particolarmente importante per Expo e il suo tema", ha spiegato Maroni al Design Museum di Holon.

BATTUTO OGNI RECORD - "Abbiamo già battuto il record di Paesi partecipanti, che rappresentano oltre il 90 per cento della popolazione mondiale. Non tutti i paesi potranno avere il loro Padiglione, i più piccoli sono insieme nei cluster e questo rappresenta una novità importante anche dal punto di vista simbolico", ha detto Maroni. All'inaugurazione sono intervenuti anche l'Ambasciatore d'Italia in Israele, Francesco Maria Talo', e il Presidente della Camera di Commercio e dell'Industria Israel -Italia, Ronni Benatoff. La prima giornata della tappa in Israele del World Expo Tour proseguirà con la visita ad alcuni importanti centri di ricerca e sviluppo. Alle 19 si svolgerà il momento di presentazione di Expo all'Ambasciata italiana di Tel Aviv.

(MI-Lorenteggio.com, 26 marzo 2015)


Nella moschea di Andria una scuola di terrorismo»

Hosni Hachemi Ben Hassen e il suo gruppo riconosciuti colpevoli di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo di matrice islamista. Il gup descrive la doppia vita dell'imam e degli altri condannati. La cellula venne sgominata nell'aprile 2013 dal Ros di Bari.

di Giovanni Longo

BARI. La Procura distrettuale di Bari aveva parlato di vere e proprie «scuole di terrorismo». Argomentazioni ritenute dal giudice «pienamente condivisibili». La moschea di Andria e un call center erano «momenti logistici importanti» per la presunta cellula terroristica che sarebbe stata guidata dall'imam Hosni Hachemi Ben Hassen, condannato lo scorso settembre insieme con altre cinque persone, per associazione sovversiva finalizzata al terrorismo internazionale di matrice islamista. Una sentenza pilota non solo in Italia quella emessa dal gup del Tribunale Antonio Diella lo scorso settembre. Le motivazioni, quasi 600 pagine, sono state appena depositate. Un lavoro delicato e anche rischioso. Il magistrato, infatti, è sotto protezione.
  La presunta cellula venne sgominata nell'aprile 2013 al termine di complesse indagini condotte dai Carabinieri del Ros di Bari, coordinati dai pm baresi Renato Nitti ed Eugenia Pontassuglia. La condanna più alta, a 5 anni e 2 mesi di reclusione, era proprio all'imam tunisino della moschea di Andria detto «Abu Haronne» di 48 anni, ritenuto il capo dell'organizzazione. Moschea e call center erano utilizzati dagli imputati - scrive Diella - «per la radicalizzazione ideologica e la frequentazione di siti da cui attingere notizie e sollecitazioni provenienti dai gruppi organizzati di matrice islamica in piena attività di guerra». Una scelta, sia chiaro, che riguardava solo gli imputati e non certo «la generalità dei soggetti presenti clandestinamente in Italia o in contatto con l'Hosni». Il gup, citando i documenti trovati in possesso degli imputati in occasione delle perquisizioni, sottolinea «l'opera di proselitismo» e la continua «ricerca di aspiranti mujaheddin» nelle due strutture ritenute basi logistiche del gruppo pugliese. E parla di «indottrinamento», «addestramento» e «istruzione anche bellica».
   Una scelta geografica non casuale, quella di Andria e della Puglia. «L'Italia è un ponte favorevole per raggiungere le zone di combattimento», spiega ancora il giudice, e «l'area territoriale di Bari e Foggia, notoriamente popolata da folte comunità di immigrati e sita a ridosso dei Balcani e pertanto in posizione di apertura ad Oriente e al Nord Africa, risulta attualmente tra le più sensibili e a rischio di diffusione del fenomeno» .
  Agghiacciante il contesto. Per Diella, infatti, c'è una «doppia vita del terrorista, una normale e l'altra segreta ed illecita» che lo rende «facilmente mimetizzabile nell'ordinario tessuto sociale» e «in grado di attivarsi nel quadro dell'orizzonte di lotta jihadista». In altre parole, il terrorista «lavora regolarmente nello Stato che lo ospita e si fa apprezzare per questo, ma contemporaneamente condivide il percorso radicalizzante del gruppo». Difficile difendersi. Nel provvedimento si analizza anche l'organizzazione utilizzata per sfuggire all'intelligence. Si parla di una vera e propria «conversione strategica dalla centralizzazione operativa alla grande galassia di piccoli nuclei organizzati». Un fenomeno che per questa ragione è «più pericoloso, meno facile da intercettare e più capace di diffondere una atmosfera di terrore destabilizzante». Sul punto il giudice fa anche un parallelo con le Brigate Rosse: i collegamenti «operativi e strategici tra le varie "colonne"» concorse «a disarticolare efficacemente l'organizzazione terroristica». Forse anche per questa ragione la «più recente politica globale di Al Qaeda» è «tesa a promuovere un vero e proprio spontaneismo jihadista». Minimo comune denominatore il «fortissimo collante non solo religioso ma anche ideologico e politico» rappresentato dal «comune odio contro ebrei, America e occidente». Il «culto della morte» portava al «desiderio irrefrenabile di andare a morire in guerra come mujaheddin».

(la Gazzetta del Mezzogiorno, 25 marzo 2015)


Il generale al Sisi contro il feroce Saladino

La "rivoluzione dell'islam" del presidente egiziano inizia dai libri di scuola

di Giulio Meotti

 
Il Saladino
Nello Zanichelli, il Saladino è stato chiamato affettuosamente "sovrano saggio d'Egitto". Ma per il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, il curdo conquistatore di Gerusalemme che riunì il mondo islamico a lungo diviso fra califfati rivali, il Saladino ha una influenza perniciosa sulla mente dei giovani arabi musulmani. Per questo l'Egitto ha deciso di revisionare i libri di scuola a partire dalla figura più venerata della storia islamica dopo Maometto, colui che Dante vide, "solo in parte", nel Limbo. Il ministero dell'Istruzione del Cairo ha annunciato che eliminerà o modererà dai curriculum scolastici le figure che "incoraggiano la violenza".
  La decisione è parte della campagna di Sisi contro il fondamentalismo islamico dello Stato islamico e della Fratellanza Musulmana. I giovani egiziani non dovranno più pendere dalle labbra di Uqba bin Nafi, l'islamizzatore dell'Africa del Nord, il compagno di Maometto che oggi dà il nome, guarda caso, a una organizzazione jihadista. "Il lavoro nei manuali scolastici ha due ragioni", dicono i funzionari del Cairo. "Questo materiale incita alla violenza e parte di esso era stato introdotto dalla Fratellanza Musulmana". Furiosi i salafiti, che dal partito al Nour dicono che "la decisione di non insegnare più le storie del Saladino e di ibn Nafi feriscono la nostra storia e identità". Il Saladino della storia non è quello ritratto da Ridley Scott in "Kingdom of Heaven" in modo simpatizzante nei panni illuminati dell'attore siriano Ghassan Massoud. Il Saladino era nato a Tikrit, aveva una passione per la guerra e il cavallo e divenne Sultano d'Egitto, della Siria e della Mesopotamia. Ogni condottiero arabo islamico recente, da Osama bin Laden a Saddam Hussein, si è ispirato a lui, che riunificò la rissosa Umma (la grande famiglia araba) e riconquistò Gerusalemme, già occupata dai Crociati e, oggi, capitale di Israele.
  Per gli islamisti che sognano la vittoria musulmana definitiva su ebrei e cristiani, il Saladino è il grande modello da seguire. Da lui quindi deve partire anche la "rivoluzione dell'islam" di cui ha parlato Sisi. Ad Hattin, il Saladino regalò all'islam la più grande vittoria contro l'occidente, con i franchi e Guido di Lusignano che barcollano, la furia incontenibile dei musulmani, i soldati cristiani che annegano nel loro sangue. Il Saladino si sfogherà anche contro gli sciiti, "eretici" dell'islam da riconvertire. Il portavoce del ministero dell'Istruzione del Cairo, Omar Turk, ha detto che gli sforzi si stanno concentrando sul tentativo di "generare uno spirito di tolleranza" e che fa parte di "una strategia di tre anni per la sicurezza intellettuale stabilito in risposta alle ripetute richieste di Sisi per una rivoluzione religiosa". Fra le misure contemplate, quella di posporre l'insegnamento del jihad alla scuola superiore, l'abolizione del crimine di "politeismo" (cristianesimo) e della distribuzione del bottino di guerra come incompatibile con la moderna dottrina militare. Mica male come passi concreti verso la tanto osannata "riforma dell'islam".

(Il Foglio, 25 marzo 2015)


Le spie israeliane e i leak al Congresso: l'ultimo screzio fra Obama e Bibi

di Mattia Ferraresi

New York. Un'inchiesta del Wall Street Journal sostiene che l'intelligence israeliana ha spiato gli americani durante le trattative nucleari con l'Iran per carpire informazioni sui negoziati che Washington non condivideva con Gerusalemme. A detta delle fonti americane del Journal, la parte più grave della faccenda non era lo spionaggio in sé, attività diffusa anche fra alleati e regolata dalle consuetudini informali della diplomazia, quanto il fatto che gli israeliani passavano le informazioni ai membri del Congresso per fomentare un fronte d'opposizione al "grand bargain" con gli ayatollah: "Un conto è spiarsi a vicenda, un altro è che Israele rubi informazioni riservate agli Stati Uniti e le passi ai parlamentari americani per sabotare la diplomazia", ha detto una fonte dell'Amministrazione. L'accusa è anche più grave di tutti gli attacchi volati in questi mesi fra l'Amministrazione Obama e il governo di Bibi Netanyahu, perché si tratterebbe di un'intrusione diretta nelle dinamiche di uno stato straniero, praticata usando informazioni riservate per influenzare le decisioni dei rappresentanti eletti dal popolo. Il Wall Street Journal spiega che, attraverso l'ambasciatore Ron Dermer, Netanyahu ha iniziato a fare attività di lobbying al Congresso a gennaio, dopo avere comunicato per l'ennesima (e ultima) volta alla Casa Bianca la sua opposizione a un accordo con l'Iran; poco dopo, diversi media israeliani hanno scritto che il sottosegretario del dipartimento di stato, Wendy Sherman, aveva bruscamente interrotto gli incontri informali nei quali aggiornava i funzionari israeliani sullo stato dei dialoghi di Ginevra. La notizia di Sherman è confermata dal Wall Street Journal, il quale sostiene che gli americani hanno smesso di parlare con Israele soltanto per "timore di leak", non per reazione alle iniziative di "backchannel" degli israeliani al Congresso. Sta di fatto che a un certo punto Netanyahu si è sentito tagliato fuori dalle trattative sul destino nucleare della più grande minaccia esistenziale per Israele, e la cosa non gli è piaciuta affatto.
  Negli incontri ginevrini di quel periodo, John Kerry ha insistito per continuare certe conversazioni con il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, a passeggio per la città, scelta complicata dal punto di vista della sicurezza e probabilmente non soltanto dettata dalla voglia di una boccata d'aria dopo tanto discutere a porte chiuse. Le immagini della diplomazia en plein air documentano in modo indiretto il rapporto di sfiducia fra Obama e Netanyahu. Secondo il Journal, l'invito rivolto dallo speaker della Camera, John Boehner, al primo ministro israeliano non è che il culmine dell'attività diplomatica parallela, fortemente contrastata da Obama con pressioni analoghe per favorire il "regime change" a Gerusalemme. Invece Netanyahu ha vinto un'altra volta le elezioni, circostanza che ha scatenato una massiccia campagna sotterranea a colpi di leak per screditare l'alleato riottoso. I protagonisti dell'inchiesta giornalistica negano. Boehner ha detto ieri che "nessun tipo di informazione è stata mai rivelata", mentre il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha negato qualunque attività di spionaggio nei confronti dell'alleato.
  La sostanza dell'articolo del Wall Street Journal proviene da anonimi funzionari dell'Amministrazione che all'unisono veicolano le stesse accuse nei confronti d'Israele, lasciando intravvedere in filigrana una certa coesione strategica in quello che è soltanto il capitolo più recente di una guerra in cui è difficile distinguere lo spin dallo scoop. Rimane però una domanda: se gli israeliani spiavano i negoziati per passare informazioni ai congressmen, significa che questi ultimi erano all'oscuro di quanto succedeva. Fossero stati aggiornati dalla Casa Bianca, come vuole la prassi costituzionale, le notizie origliate dalle spie israeliane avrebbero perso immediatamente il loro valore, rendendo inutili i leak sui quali è costruita l'ennesima accusa.

(Il Foglio, 25 marzo 2015)


Un'altra volta in Israele, fra le èlite gasate dalla propaganda e il popolo, ha vinto il popolo

di Riccardo Ruggeri

 
Riccardo Ruggeri
Un tempo, le elezioni che si tenevano in Occidente erano, per me, momento di eccitazione (i miei preferiti? Perdevano sempre), dopo la Grande Crisi è subentrata la sfiducia. Il voto popolare conta sempre meno, le organizzazioni sovranazionali che ci governano (i nostri Premier sono ormai podestà forestieri in Patria) fanno esclusivamente gli interessi dei loro azionisti, per nulla occulti, ma altri. Che in Usa vincano i democratici o i repubblicani poco cambia (dopo Reagan, si sono alternate leadershipinette, i due Bush, Clinton, Obama, banali figurine di un album di personaggi del gossip politico). Lo stesso dicasi in DK fra laburisti e conservatori, o in Francia fra Hollande e Sarkozy, non parliamo dell'Italia, con l'accoppiata imbarazzante di un giovane e di un vecchio che non sai neppure come definire.
  Seguo invece con affetto i due ultimi Paesi ancora «liberali», la Svizzera (ci abito pure) e Israele. Entrambi danno garanzie: avendo una legge elettorale proporzionale (garanzia di rappresentanza, un gradino sopra la governabilità) la sera delle elezioni, chi ha vinto deve darsi da fare per trovare una maggioranza (altro che pensare di governare senza opposizione per 5 anni, facendo ogni genere di sconcezze, in nome di ridicoli programmi elettorali, costruiti solo per le urne, ma infattibili, vedi Tsipras). La Svizzera è la più attrezzata, qua il rapporto «pesi-contrappesi» è perfetto: il popolo dispone pure dell'arma atomica del Referendum. Israele, vivendo fin dalla nascita sull'orlo del baratro, ha chiarissimo chi sono i suoi nemici (sarebbero anche nostri), un popolo che deve difendersi, da vicini che dichiarano pubblicamente che vogliono distruggerlo, l'Iran con l'atomica, l'Isis sgozzandoli uno a uno, meriterebbe ben altro, da noi occidentali; da vigliacchi ci nascondiamo giocando sulle parole antisemitismo e sionismo.
  Stante la mia età, l'Israele di cui mi innamorai a vent'anni coincise con l'epopea della sua nascita, seguendo l'autarchico «è l'aratro che traccia il solco, è la spada che lo difende». Costoro erano al contempo contadini e soldati, in gran parte ashkenaziti, cioè arrivati dall'Europa nord-orientale, seguiti dai sefarditi (di ceppo spagnolo), da sempre considerati i parenti poveri dei primi, creando così il bipolarismo destra povera-sinistra colta, e ricca. Gli ashkenaziti possedevano una intelligenza superiore, una capacità di lavoro mostruosa, grandi valori umani, uniti a una visione messianica della vita, poterono così creare lo Stato «tecnicamente perfetto», da loro sognato. Lo fecero crescere, lo difesero con coraggio, lo consolidarono con una pace strategica (Sadat):
  Israele divenne una potenza politico-economica di prima fascia.
  Gli ashkenaziti si identificarono con l'aristocrazia del Paese, al solito, figli e nipoti non furono all'altezza, non erano della stessa tempra. In questi casi, per nascondere la verità sul loro languore, si dice «sono una generazione cosmopolita», in realtà sono individui chiacchieroni, molti scrivono, inadatti per mantenere indipendente un Paese circondato da tagliagole variamente mascherati. Divennero «Classe Dominante» in base allo status, non al merito, si identificarono con i democrat americani e i giacobini europei. Per come ragionano, scrivono, parlano, è difficile distinguerli.
  In occasione delle elezioni di marzo, costoro, e la grande «mafia» liberal americana pensarono che il resto di Israele fosse come Kfar Shamaryahu o come Tel Aviv, e che gli israeliani si fossero stufati dell'impresentabile Netanyahu. Puntarono allora sul languido Herzog, fu supportato dall'establishment, dai giornali, dalle Tv. I media liberal euro-americani si associarono per demolire Netanyahu, raccontandoci un sacco di bugie, in realtà nei suoi consolati, il reddito degli israeliani è cresciuto più di qualsiasi Paese europeo, attira capitali, produce posti di lavoro qualificati, la disoccupazione è ai minimi. Persino i mitici istituti demoscopici israeliani, sedotti dalle chiacchiere di Obama, che confonde spesso i suoi osceni desideri con la realtà, hanno clamorosamente toppato.
  Le elezioni hanno dimostrato ancora una volta la superiorità del popolo rispetto alle élite. Obama, furibondo per le scelte degli elettori, è arrivato al punto di non distinguere il suo ruolo dal suo odio personale verso l'impresentabile Netanyahu (una specie di Salvini del deserto): vorrebbe punire Israele non usando il diritto di veto all'Onu a sua favore. Se lo facesse davvero, sarebbe un miserabile. In futuro, la partita fra l'aristocrazia e il popolo si giocherà, come ovvio, sulla demografia, l'attuale milione e mezzo di nazionalisti religiosi e di ultraortodossi raddoppieranno di numero, mentre l'aristocrazia laica, configurata secondo il nostro modello di sviluppo/suicidio «due genitori-un cane-un bambino» (puppies) scomparirà in una nuvola di cipria (cfr. Report Università Haifa: «Nel 2030 i partiti religiosi saranno maggioranza»),
  Perché dovremmo interessarci di più del futuro di Israele? Perché è l'avamposto dell'Occidente nel corpaccione del nostro nemico mortale. Questi ha in corso un processo di radicale ristrutturazione e di riposizionamento strategico, di cui noi tendiamo a osservare solo gli aspetti televisivamente più crudeli, trascurando quelli economici, culturali, religiosi, militari ben più profondi. Nel processo in corso i tagliagole dell'Isis passeranno, ma il disegno strategico resterà, ed evolverà. Non sappiamo come.

(ItaliaOggi, 25 marzo 2015)


Israele, alla faccia di Obama

di Corradino Pratoli

 
"Oggi in Israele giornata di voto e di scelte importanti, con una sola certezza: di Netanyahu ne ha abbastanza anche l'elettorato di destra". Questo il tweet di Gad Lerner il giorno in cui lo Stato ebraico era chiamato a rinnovare la Knesset. Neanche questa volta Lerner è andato a segno. Il leader del Likud si conferma di nuovo come leader della nazione.
   La sua scommessa delle elezioni anticipate si è rivelata una strategia vincente e ora il centro-destra governa con 67 seggi su 120. Prima mossa del vecchio-nuovo Primo Ministro, saldare i legami con il proprio ministro delle Finanze, Moshe Kachlon, che si è presentato alle elezioni nella coalizione di centro destra con la propria formazione: "Kulanu", orientato verso l'idea di "destra sociale".
   In realtà, Kachlon sembra essere l'uomo chiave di queste passate elezioni. E' grazie a lui che Bibi è riuscito a dare una forte impasse al Governo e la stabilità della coalizione dipende principalmente dal neo-Ministro delle Finanze. E questo nonostante i due siano di vedute completamente diverse. Uno più liberale, l'altro più orientato verso il sociale. Per questo nel 2013 il leader di Kulanu ha abbandonato il Likud. Ma questo non ha impedito ai due di correre insieme per le elezioni.
   I compiti di Kachlon ora sono principalmente due: risolvere il problema della crisi abitativa e cercare di calmierare i costi della vita.
   Sì, perchè anche se nella nostra parte di mondo sentiamo sempre parlare di Israele in relazione a qualche guerra, anche lì hanno problemi di crisi economica. Ed è per questo che Netanyahu si trovava tanto in difficoltà. Secondo alcuni dati diffusi da Al Jazeera, tra il 2008 e il 2013, lo stipendio necessario stimato per potersi permettere una casa è salito del 52%, visto che sempre nello stesso lasso di tempo i prezzi delle abitazioni sono saliti del 55%, mentre quello degli affitti al 41. E questo solo se parliamo di caro-casa. A Gennaio 2014 il prezzo del cibo era del 19% più alto rispetto alla media degli altri Paesi. Tutto questo accadeva, però, mentre il budget per la difesa continuava ad aumentare. Israele, infatti, è il Paese che spende di più in armamenti rispetto alle 11 grandi potenze economiche, Stati Uniti inclusi. Insomma, meglio avere fame, piuttosto che sentirsi indifesi. Che non ci vengano a raccontare che il voto della settimana scorsa non sia stato dettato dalla paura, ormai storico alleato del Primo Ministro. Tanto che i toni usati durante quest'ultima campagna elettorale sono stati definiti dal New York Times come "razzisti", "disperati" e "codardi".
   Se la retorica anti-Hamas e, più o meno moderatamente, anti-palestinese ha sempre funzionato, quest'anno rischiava di non essere sufficiente. Fortunatamente c'è l'Isis che con il suo bel da fare a
Non si può pensare che i territori occupati siano esenti dall'influsso islamista. Anzi, è già da tempo che Hamas incontra non poche diffi- coltà per questo motivo. Infatti, i "Fratelli Musulmani" di Palestina, nonostante le loro posizioni rigide, hanno dovuto fare i conti con la radicalizzazione di molti musulmani nelle proprie aree.
tagliare teste e con i finanziamenti di tutti i potentati arabi della zona è riuscito a suscitare non poche paure nella popolazione. Anche perchè non si può pensare che i territori occupati siano esenti dall'influsso islamista. Anzi, è già da tempo che Hamas incontra non poche difficoltà per questo motivo. Infatti, i "Fratelli Musulmani" di Palestina, nonostante abbia sempre assunto posizioni rigide, hanno dovuto fare i conti con la radicalizzazione di molti musulmani nelle proprie aree. Radicalizzazione che ha portato molti direttamente a combattere in Iraq, per servire la parola del Califfo Al Baghdadi. C'è poco da discutere. L'Isis sa fare un ottimo lavoro propagandistico e il risultato è che tira molto. E quelli che non sono riusciti ad unirsi alle fila dei tagliagole, non hanno potuto fare altro che aderire alle formazioni jihadiste in loco. E tutto questo a scapito di Hamas, che di conseguenza ha dovuto inasprire le sue posizioni per recuperare consensi.
   La domanda ricade su come si comporterà adesso che la destra ha confermato il potere. Alcuni team di analisti hanno ipotizzato che, nel caso in cui avesse vinto il centro-sinistra, Hamas avrebbe potuto optare per una linea relativamente morbida, senza magari arrivare allo scontro diretto sul campo. Cosa che invece è già accaduta più volte negli ultimi tre anni. ma ora che la situazione si profila come quella degli ultimi tempi, si prevede una riapertura delle ostilità nei prossimi mesi. D'altronde, assicurano alcune fonti dell'Intelligence, i Fratelli Musulmani palestinesi hanno già fatto il pieno di missili. E bisogna tenere presente che il conflitto armato fa sempre comodo in certe situazioni.
   Insomma, in pratica un po' la stessa dinamica che ha vissuto Israele negli ultimi tempi. Tra la guerra siriana, il sorgere del Califfato, i sempre maggiori riconoscimenti che stava ottenendo la Palestina sul campo internazionale, anche Tel Aviv
ha conosciuto la rinascita dei nazionalisti. In particolare dopo le elezioni di un paio di anni fa, dove il partito "Focolare ebraico", guidato dal nazional-religioso Naftali Bennet, aveva ottenuto un successo inaspettato. Per questo, Bibi Netanyahu ha optato per la linea dura durante quest'ultima campagna elettorale. Nessuno spazio per uno Stato Palestinese. La paura paga.
   Naturalmente, queste scelte hanno delle conseguenze, innanzitutto interne. I rapporti con l'Autorità Palestinese si stanno rapidamente deteriorando, mettendo a rischio la sicurezza del West Bank, dove continuano a sorgere gli insediamenti dei coloni. Questo naturalmente ha dato vita a numerosi episodi di violenza. Addirittura, come riporta l'emittente Al Jazeera, gli abitanti musulmani hanno dato vita ad un vero e proprio boicottaggio dei prodotti israeliani. La protesta sembra ormai andare avanti da tempo e sono molti i musulmani che scelgono di non far entrare prodotti targati Tel Aviv
nelle proprie case. E' dall'ultima battaglia a Gaza che in molti hanno aderito all'iniziativa. Nel frattempo, il presidente dell'Ap, Mahmoud Abbas, sta tentando di intensificare le misure unilaterali alle Nazioni Unite, per ottenere sanzioni più pesanti contro Israele.
   Oltre ai problemi interni, però, Tel Aviv deve vedersela anche e soprattutto con le questioni al di fuori dei propri confini.
A cominciare dalle zone limitrofe come Siria e Libano. Pare infatti che Hezbollah, il partito sciita libanese, stia avanzando vero i monti del Golan e si accentuano le possibilità di arrivare ad uno scontro con i militari di Gerusalemme di stanza lì. Ma più che dai nemici, Netanyahu deve guardarsi dagli amici. Naturalmente si parla degli Stati Uniti e dei gelidi rapporti con il presidente Barack Obama. Dopo aver liquidato il discorso del Premier israeliano all'Assemblea Nazionale con un "solo retorica", ora l'inquilino della Casa Bianca deve rifare tutto da capo. E la cosa non sembra semplice.
   Come scrive il quotidiano panarabo Al Arabiya, "gli Usa vorrebbero riorganizzare le loro relazioni con Israele" e questo piano potrebbe comprendere anche una "minore attività nella protezione" dello Stato
Non si può dire che l'amministra- zione Obama abbia voglia di assecondare gli storici alleati. Nel frattempo "La Casa Bianca ha reso evidente di aver poca fiducia nel tentativo di Netanyahu di tornare sui propri passi" riguardo alla scelta di non concedere spazio alla politica "due popoli in due Stati".
ebraico "nei forum internazionali". Questa sarebbe una mossa per dare un forte segnale a Tel Aviv
contro l'espansione degli insediamenti nel West Bank. Di sicuro non si può dire che l'amministrazione Obama abbia voglia di assecondare gli storici alleati. Nel frattempo, continua il giornale medio orientale, "La Casa Bianca ha reso evidente per il secondo giorno di fila di aver poca fiducia nel tentativo di Netanyahu di tornare sui propri passi" riguardo alla scelta di non concedere spazio alla politica "due popoli in due Stati". Si tratta, infatti, di uno dei punti cardine della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente. Anche perchè gode dell'appoggio di Naftali Bennet, fortemente contrario alle negoziazioni con i palestinesi, che riesce ad esercitare un fascino (e quindi un'influenza) sempre maggiore.
   Cosa faranno gli Usa adesso rimane ancora un mistero.
   L'alleanza con Tel Aviv
rimane necessaria, specialmente ora che la minaccia jihadista si fa sentire con prepotenza. Anche perchè è diventato impensabile contare sul sostegno dei Paesi della Penisola Arabica, che mentre tendono una mano all'Occidente, con l'altra elargiscono ingenti somme al Califfo del terrore. Inoltre, c'è sempre il problema Assad, che continua ad ingarbugliarsi ulteriormente grazie ai jihadisti 2.0. Correvano addirittura voci che gli Stati Uniti potessero concedere una sorta di tregua al dittatore siriano, pur di non favorire in alcun modo le milizie dello Stato Islamico. In effetti, è un po' che non si sente il Segretario di Stato americano, John Kerry, inveire contro Damasco. D'altronde ora gli sforzi si concentrano per contenere la minaccia islamica.
   In tutto questo, infine, sembra che ci si sia dimenticati del problema Iran. Rimane celebre la comparsata di "Re Bibi" alle Nazioni Unite, dove si presentò con un cartello con sopra disegnata una bomba stile fumetto, per indicare lo stato di avanzamento di un ordigno nucleare da parte di Teheran. Secondo le dichiarazioni di allora, l'arma di distruzione di massa avrebbe dovuto essere stata completata nell'estate 2013. Cosa che poi non si è verificata. Durante la campagna elettorale l'argomento è tornato alla ribalta, a quanto pare, con i soliti toni allarmisti. Nonostante tutto, però, sembra ormai poco plausibile che Tel Aviv
proceda da sola contro i progetti nucleari iraniani a meno che, naturalmente, Teheran non oltrepassi il limite. Dunque, per porre un freno a questo tipo di attività, Israele non ha scelta se non quella di appoggiarsi ai suoi alleati Occidentali. In pratica, come sempre, si ricade nel solito gioco della reciproca necessità.
   In tutto questo, insomma, sembra che l'unico vero vincitore sia ancora una volta Netanyahu, che si conferma non solo alla guida del Paese, ma anche come sua vera personificazione. Israele è lui, lui è Israele.

(L'ultima Ribattuta, 25 marzo 2015)


Carlo Antonio Zanini e il dialogo ebraico-cristiano

Quando si parla di sionismo cristiano, qualcuno forse pensa che sia una stranezza abbastanza recente. Non è così. Ringraziamo Rinaldo Diprose che ci ha messo a disposizione un suo articolo in cui si parla di un colloquio avvenuto nell'Ottocento tra un rabbino e un evangelista proprio sul tema del ritorno a Sion degli ebrei. E questo più di dieci anni prima che Leon Pinsker scrivesse il suo pamphlet "Autoemancipazione", e più di vent'anni prima che Theodor Herzl scrivesse "Lo Stato ebraico".

di Rinaldo Diprose

 Introduzione
  Siamo abituati a pensare che il dialogo ebraico-evangelico sia un fenomeno determinato dai tristi eventi del ventesimo secolo. Quindi ci sorprende lo scoprire la storia del dialogo svolto fra Carlo Antonio Zanini e la comunità ebraica del suo tempo in particolare a Mantova durante gli anni 1867 e 1872. A determinare questo dialogo, voluto dallo stesso Zanini sono state le sue convinzioni bibliche.

 La storia di questo dialogo
 
Carlo Antonio Zanini
 Durante gli anni 1867-1872 Carlo Antonio Zanini si è incontrato più volte con alcuni rappresentanti delle Comunità ebraica e cattolica romana nella sala di lettura della Biblioteca Pubblica di Mantova. Si stima che in quei tempi la comunità ebraica residente in tutta Italia contasse circa cinquantamila persone.
   I principali argomenti discussi a Mantova riguardavano il Messia e la concezione dei tempi messianici. Ci si poneva la questione se il popolo ebraico dovesse pensare seriamente a un suo ritorno nella Terra Promessa. Lo Zanini era l'unico a insistere sulla possibilità di questo ritorno. Il prof. Giuseppe Jaré, che in seguito divenne il rabbino capo di Ferrara, non espresse la sua opinione in materia, ma tutti gli altri esclusero una tale ipotesi, come la maggior parte del resto della comunità ebraica italiana di quel tempo1. Si pensava che la diaspora ebraica facilitasse il compimento della loro missione universale di preparare il genere umano per un futuro utopistico di pace e fratellanza. Questa convinzione fu espressa in un discorso di Marco Mortara, rabbino capo a Mantova in occasione della Pasqua ebraica, nel 18682. Trent'anni dopo, Giuseppe Jarè, rabbino capo di Ferrara espresse la stessa opinione3. Però, a differenza di Mortara, il rabbino Jaré intravedeva «il ristabilimento di Israele nella Terra Santa nella pienezza dei tempi attraverso la Divina Provvidenza in un contesto di pace universale»4.
   Il rapporto dello Zanini con il popolo ebraico è significativo. Egli faceva parte di un gruppo di evangelisti addestrati da Teodorico Pietrocola-Rossetti, uno dei conduttori delle Chiese Libere Italiane, durante gli anni 1857-60. Quando questo movimento si divise in «Chiesa Italiana Libera» e «Chiese Cristiane dei Fratelli»5, sia il Rossetti che lo Zanini rimasero con queste ultime.
   Lo Zanini acquisì dal Rossetti, oltre a una preparazione specifica anche un amore per lo studio in generale6. Questo lo portò a interessarsi della religione comparata7. Il suo interessamento particolare per la minoranza ebraica a Mantova e, in seguito, ad Alessandria e Ferrara (luoghi in cui è vissuto per svolgere la sua missione evangelistica), può essere considerato frutto di forti convinzioni maturate mediante la meditazione delle Scritture, insieme con una grande attenzione alle implicazioni pratiche delle verità studiate.
   È da notare che l'interesse culturale dello Zanini non lo indusse a nascondere le sue convinzioni. Infatti era disposto a sostenere la prospettiva biblica di un ritorno del popolo ebraico nella Terra Promessa contro l'opinione dei rabbini e dei rappresentanti della Chiesa Cattolica. Quando si azzardò a suggerire che la sua generazione avrebbe visto i primi segni del ristabilimento d'Israele in Terra Promessa, alcuni lo schernirono apertamente8. Ciò nonostante, alcuni eventi, in particolare il primo Congresso Internazionale sul sionismo tenuto a Basilea nel 1897, gli diedero ragione.
   Alcune fasi del dibattito tra lo Zanini e i conduttori della comunità ebraica di Mantova sono documentate su La Vedetta Cristiana (1871). Il primo scritto era dello stesso Zanini e fu intitolato: «Un segno dei tempi»9. L'articolo comincia con quest'affermazione: «È una credenza molto sparsa e radicata ne' cristiani fedeli alle Scritture, che gli Ebrei debbano essere ricostituiti nella loro nazionalità e riavere il paese dei padri loro. L'Antico e il Nuovo Testamento sono molto espliciti a questo riguardo»10.
    Sembra che lo Zanini fosse spronato a scrivere questo articolo a causa delle delibere di un Concilio di Rabbini tenuto all'inizio dello stesso anno, sotto il patronato della sinagoga di Wasserstrasse a Vienna. Tre di queste delibere suonavano cosi: rimuovere dalla liturgia della sinagoga ogni riferimento alla venuta di un Messia; non parlare del ripristino di sacrifici e non pensare a un ritorno del popolo in Palestina11. Gran parte dell'articolo fu dedicato a un'esposizione di alcuni brani della Scrittura il cui senso era stato negato in maniera palese, o non preso in debita considerazione, dai rabbini incontratisi a Vienna.
   La risposta di Marco Mortara all'articolo dello Zanini apparve anch'essa su La Vedetta Cristiana12. Secondo Mortara, l'evangelista non aveva compreso le delibere dei rabbini incontratisi a Vienna. Ciò nonostante, Mortara stesso spersonalizzò il concetto del Messia; inoltre, intese i tempi messianici come la missione ebraica il cui obiettivo era di promuovere valori quali la moralità e la cortesia in tutto il mondo13.
   Nella sua replica, pubblicata in parte nello stesso numero de La Vedetta e in parte nel numero successivo, lo Zanini affermò: «Noi, credenti nel Messia personale, crediamo per conseguenza nel suo regno millenniale, che il signor Mortara chiama "la futura età dell'oro del genere umano" e ciò accorda perfettamente con quanto egli disse esplicato dai veggenti d'Israele»14. Il rabbino Mortara aveva sfidato lo Zanini a spiegare come potesse avvenire la restaurazione d'Israele nella propria terra. Nella sua risposta, lo Zanini scrisse: «Se non ci è dato di sapere il come e il quando, ciò non vuol dire che la cosa è impossibile»15.
   Per rendere il concetto, lo Zanini elenca quarantatré brani biblici, di cui trentadue dall'Antico e undici dal Nuovo Testamento, che affermano in modo esplicito o alludono alle intenzioni di Dio di restaurare Israele nella sua terra, dopo un periodo di dispersione in tutto il mondo. Una volta lì, dopo essere stati preda dell'Anticristo, gli ebrei crederanno nel loro vero Messia e prenderanno parte al suo regno.
   Quanto all'accusa di deicidio, lanciata da teologi cristiani agli ebrei di ogni epoca, lo Zanini riconosce che la responsabilità ricadde tanto sui Giudei quanto sui Gentili. Egli fa la seguente osservazione perspicace: Che una tale opera fosse necessaria per l'umanità nella pienezza de' tempi, è evidente da ciò stesso che i rabbini medesimi aspettano dalla parte di Dio: "la maturezza de' tempi pel compimento della missione d'Israele, quale sacerdozio di pace e di lumi. Veggansi anche i seguenti passi". Is XLIX,8; Mr I,15; Ga IV,4.»16 Lo Zanini rassomiglia il «consiglio dei rabbini» alla Roma papale, a motivo della soppressione della luce della Scrittura. Secondo lui i rabbini avevano ignorato l'insegnamento biblico inerente alla peccaminosità dell'uomo e riguardo a come Dio sarebbe intervenuto, nella persona del Messia, per risolvere questo problema17.

 La diverse dimensioni del rapporto dello Zanini con la comunità ebraica
  Lo Zanini dialogava con i rabbini in qualità di evangelista. Con ciò intendiamo dire che, oltre alle singole questioni affrontate, egli cercava di presentare la vera identità del Messia e il vangelo della grazia di Dio ai suoi interlocutori ebrei. Lo si può dedurre tanto dal contenuto delle conversazioni di Mantova quanto dalla notizia di almeno un ebreo che nel 1880 fu battezzato come discepolo di Gesù in seguito al suo ministero.18
   Parecchi anni dopo i suoi dibattiti con la comunità ebraica di Mantova, ad Alessandria fra il 1886 e il 1888 lo Zanini coinvolse altri rabbini in simili conversazioni. Durante questo periodo propose che venisse costituita una fratellanza in favore degli ebrei a carattere internazionale, per assisterli nel loro ritorno nella Terra Promessa. Questo suggerimento fu fatto un decennio prima del primo Congresso Internazionale Sionista di Basilea. L'opposizione della comunità ebraica alla sua proposta fu cosi forte che lo Zanini dovette abbandonare temporaneamente il progetto. Più tardi, quando riprese a occuparsene, gravi problemi personali impedirono che se ne facesse alcunché di concreto.19
   Sappiamo del desiderio dello Zanini di assistere il popolo ebraico nella realizzazione della promessa biblica della loro rinascita nazionale, da un articolo che egli stesso scrisse nel 189720, poco dopo la conclusione del primo Congresso Internazionale Sionista di Basilea. In quest'articolo si domanda il perché della freddezza del papa verso il Sionismo. Secondo lui il papa voleva accreditare la «profezia» infondata secondo cui gli ebrei devono rimanere dispersi per sempre21. Per lo Zanini, la storia del XIX secolo aveva dimostrato l'infondatezza di questa pseudo-profezia. Infatti l'evangelista illustrò la crescita costante della comunità ebraica residente in quella che allora era conosciuta come la Palestina. Ad esempio, in pochi decenni la popolazione di Gerusalemme era cresciuta da cinque-seimila a circa quarantamila. Inoltre lui parla dell'esistenza in Palestina di alcune assemblee di ebrei messianici, ossia ebrei che avevano riconosciuto in Gesù di Nazaret il Messia d'Israele, pur mantenendo la propria identità culturale. Egli espresse l'opinione che altri eventi, come la costruzione del canale di Suez, avrebbero facilitato il ritorno di Israele alla propria terra.22

 Conclusione
  Ci sono due motivi per cui ritengo che i contatti dello Zanini con la comunità ebraica italiana siano «Un modello per la chiesa di oggi»: innanzitutto, perché egli mostrava grande rispetto per le convinzioni e le persone dei rabbini Mortara e Jarè, e quindi veniva anche lui rispettato da loro. In secondo luogo, perché teneva alta la Parola della verità, anche quando ciò comportava il rischio di vedersi respinto dai suoi interlocutori. In questo si vede che lo Zanini intraprese le sue conversazioni con i rabbini perché sapeva di avere delle verità importanti da condividere con il popolo ebraico.
   Inoltre, i tentativi dello Zanini di fondare una fratellanza internazionale in favore degli Ebrei, oltre che di evangelizzare la comunità ebraica residente in Italia, dimostrano che non era un teologoda salotto; bensì una persona pronta ad agire secondo le proprie convinzioni, anche quando queste risultavano impopolari.23


  1. Carlo Zanini, L'Italia Evangelica XVI n. 42 (1897), p. 331.
  2. Questo discorso fu ristampato, assieme a una lettera scritta dal Rabbino a Carlo Zanini, in La Vedetta Cristiana II 14, 15 luglio 1871, pp. 106-108.
  3. Si veda la lettera datata 20 Settembre 1897, scritta dal Rabbino a Carlo Zanini, pubblicata in L'Italia Evangelica XVII 42, 16 ottobre 1897, p. 331 .
  4. Si veda la lettera del 20 settembre.
  5. Questo avvenne tra il 1863 e il 1870.
  6. Daisy Ronco, Crocifisso con Cristo, Fondi, UCEB 1991, pp. 43-45.
  7. Lo Zanini diede almeno due contributi scritti alla letteratura sulla religione comparata, entrambi pubblicati su Civiltà Italiana, 1864- 1865 (Domenico Maselli, op. cit., pp. 264-265).
  8. L'Italia Evangelica, op. cit., pp. 330-331.
  9. Carlo Antonio Zanini, «Un segno dei tempi», La Vedetta Cristiana Il/10, 15 maggio 1871, pp. 73-75.
  10. Ibid., p. 173. Il parere dello Zanini relativo all'ampia intesa fra i Cristiani biblici su tale questione trova conferma in un articolo intitolato «Tribù» nel Dictionnaire de la Bible, I. A. Bost (ed.) (1865 ) citato da G. Callegari in La Vedetta Cristiana II/ 17, 1 Settembre 1871, p. 136: «Le dodici tribù d'Israele debbono essere un giorno ristabilite da Dio nel paese che fu promesso al loro padre Abraamo. Questa dottrina è stata professata in tutti i tempi nella chiesa cristiana; essa fu quella di tutti i padri, sia greci, sia latini... essa si lega d'una maniera intima e necessaria a tutte le speranze de' figliuoli di Dio sopra il regno di Gesu Cristo, sopra la risurrezione dei santi, sopra l'avvenimento del Salvatore; in una parola essa si unisce (se raache) a tutte le glorie fu del popolo di Dio».
  11. La Vedetta Il 10, 15 maggio 1871, p. 73.
  12. Ibid, 4, 15 luglio 1871, pp. 105-108.
  13. Ibid. p. 107.
  14. Ibid., p. 109.
  15. Ibid.
  16. Ibid., p. 112.
  17. Ibid., p. 110 e passim nei suoi contributi alla rivista La Vedetta.
  18. Domenico Maselli, Tra Risveglio e Millennio. Torino: Claudiana, 1974, p. 264.
  19. Lettera di Carlo Zanini al professor Giuseppe Jarè, rabbino capo di Ferrara, L'Italia Evangelica, XVII/42, 16 ott. 1897, p. 332.
  20. Ibid., pp.331-332.
  21. Ibid., p. 332.
  22. Ibid.
  23. Cfr. Daniele Garrone: «Prima di Auschwitz, l'unico ambito in cui si coltivasse l'interesse per l'ebreo contemporaneo era la missione cristiana fra gli ebrei, oggi comincia a diffondersi e radicarsi un interesse per l'ebraismo e gli ebrei scevro da ogni intento missionario . . . » (D. Garrone, «Chiesa-Israele: nuove prospettive teologiche», Protestantesimo 52 (1997 /4): p. 303. Questa dichiarazione ignora il contributo di molti evangelici come lo Zanini e John Wilkinson che, motivati da precise convinzioni, hanno abbinato alla missione cristiana fra gli Ebrei un interesse, talvolta molto concreto, verso la sua vocazione e il suo ristabilimento nella Terra Promessa. Trascura pure il posto centrale che Israele ha occupato nel pensiero teologico dispensazionalista da piti di centocinquant'anni (si veda Paul Boyer, Boyer, Paul. When Time shall Be No More. Cambridge, MA: Harvard University Press, 1992, p. 183; cfr. «Christianity», in The Encyclopedia of Judaism, Geoffrey Wigoder [a cura di], Jerusalem: Jerusalem Publishing House 1989, p. 164).


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Marco Mortara risponde a Carlo Zanini

Sullo scambio avvenuto nel 1871 tra il rabbino Marco Mortara e l'evangelista Carlo Antonio Zanini, aggiungiamo qui uno stralcio di un articolo di Bruno Di Porto, "Marco Mordekai Mortara, Dores Tov", comparso su "Materia giudaica. Rivista dell'Associazione italiana per lo studio del giudaismo (2010-2011)", ed. Giuntina.

di Bruno Di Porto

 
Marco Mordekai Mortara
Uditori dei sermoni di Marco Mortara, come accadeva in altre sinagoghe e per altri rabbini, erano anche non ebrei. Lo udì, nel 1868, in un sermone per Pesach, l'evangelista Carlo Zanini, esponente di un variegato protestantesimo risorgimentale, che trattò degli ebrei, nel numero del 15 maggio 1871, sul periodico La Vedetta Cristiana, della Chiesa libera, senza invero riferirsi a lui, ma toccando la corda dell'integrazione nelle nuove patrie, che gli stava molto a cuore. Avendo letto, in un Giornale serio-faceto di Firenze, che certi rabbini di Vienna abrogavano i riferimenti liturgici alla restaurazione messianica di Sion, Zanini vi reagiva, perché andavano in senso contrario alla fede millenaristica evangelica nella finale conversione al cristianesimo del popolo ebraico, una volta riunito nella biblica patria storica. Il pubblicista evangelico, non informato della divisione in corso tra ortodossia e riforma in seno all'Ebraismo, vedeva in quella risoluzione la degenerazione moderna di gran parte degli ebrei, che, paghi dei vantaggi conseguiti con l'emancipazione nella società dei goim, tradivano il fondamento della loro fede e tradizione, dando con ciò implicitamente ragione all'ortodossia ebraica nel non voler cancellare il riferimento al Sion.
   Mortara intervenne, ospitato dal giornale evangelico, senza spiegare la divisione in campo ebraico ma cautamente condividendo la linea di quei rabbini riformati, dei quali era probabilmente poco informato. Li difese dall'illogica illazione del Giornale Serio Faceto, secondo cui, rinunciando all'attesa del Messia, essi implicitamente confessavano che il messia era già venuto nella persona di Gesù. Attenendosi alla Torah vera e propria, come sola fonte sicuramente rivelata della religione ebraica, Mortara affermava che non vi era un dogma relativo alle messianesimo e considerava molto dubbio il riferimento a Siloh nella benedizione di Giacobbe ai figli (Genesi, 49,10), forse da intendere come un luogo piuttosto che un personaggio. Quanto alla riunione degli ebrei in Sion, non gli sembrava che il Nuovo Testamento la prevedesse, abbinandola alla loro finale conversione. Chiariva le differenze di fondo dell'ebraismo rispetto al cristianesimo circa il peccato originale, o il «peccato» in assoluto, e sul concetto cristiano che Dio per redimere l'umanità dal peccato avesse bisogno di offrirsi egli stesso all'espiazione sacrificale, quando nell'ebraismo perfino i sacrifici degli animali furono una concessione provvisoria a credenze e costumi dei tempi, venendo il loro valore ridimensionato o addirittura contestato nei libri profetici. A Mortara soprattutto premette di smentire il pensiero, implicito nella tesi di Zanini, che l'appartenenza degli israeliti alle patrie adottive comportasse una infedeltà ai fini della propria religione. Chiedeva peraltro quali concreti segni di ritorno degli ebrei in Palestina Zanini potesse scorgere. Pensava che l'ideale del futuro fosse, per quei rabbini di Vienna, come era infatti per lui, un sacerdozio di «pace», di «lumi», di «beatitudine» per l'intera umanità riunita nel riconoscimento dell'unico Dio. Concludeva col dire che le loro idee potevano non essere accettate da tutti gli israeliti, ma che essi non sarebbero stati considerati apostati, perché nell'ebraismo regnava la tolleranza delle diverse opinioni, E questa conclusione era rivolta in filigrana al campo ebraico per il pluralismo in eterno, in coerenza con l'esempio di armonizzazione e mediazione da lui dato, nei suoi scritti, tra le diverse componenti e tendenze manifestate nella storia dell'ebraismo.
   La direzione della Vedetta Cristiana, parlando con rispettosa stima del rabbino Mortara, si doleva, in apertura del numero, che egli negasse le categorie di peccato e di espiazione, così evidenti nella Bibbia. Quindi Zanini, nella risposta, marcava, lungo tutta l'estensione della Bibbia ebraica, l'anelito alla riunione dei figli dispersi nella terra di Israele, quale elemento essenziale anche per gli ebrei moderni, la cui fede non fosse «snervata o spenta». Effettivamente, in altri rabbini italiani, cominciando da Sadal e Benamozegh, il senso del popolo e il legame con la terra di Israele, restava profondo, pur nell'adesione ai benefici e ai doveri dell'emancipazione. Zanini ravvisava inoltre la contraddizione di Mortara nel ritenere davvero rivelato il solo Pentateuco e però nello sminuire il valore dei sacrifici animali, che lì hanno tanto peso, ricorrendo ad altri libri della Bibbia; e quanto al termine siloh, chiedeva cosa mai volesse dire, nella benedizione di Giacobbe, se fosse riferito ad un luogo invece che all'attesa messianica. Rifacendosi, infine, nella replica, al sermone di Mortara per Pesach, me criticò il taglio interpretativo moderno di un ammaestramento per il presente a ben usare, con moderazione, la libertà politica, perché era riduttivo ed anacronistico rispetto ai temi autentici dell'esodo, nella tensione del viaggio verso la terra promessa, tra comandi divini e peccati umani.
   Mortara riprese, a sua volta, il discorso, nel numero del 1 settembre 1871, anzitutto per togliere il dubbio che il patriottismo degli israeliti delle varie nazioni potesse essere in contrasto con lo spirito della loro religione. Egli poi svolse, in quella ospitale sede cristiana, la sua concezione sul ruolo provvidenziale del cristianesimo per avvicinare le genti al monoteismo, nella divisione dei compiti tra la conservazione ebraica della purezza monoteistica e la militante diffusione cristiana, fino a quando, trionfando su tutti gli errori, gli stessi cristiani, deposta la «fede in Gesù», abbracciassero la «fede in Gesù». Il rabbino di Mantova anticipava, con ciò, precisamente la formula di Salom Ben Horin nel dialogo ebraico cristiano.
   Un altro giornale evangelico, L'Eco della verità, si inserì frattanto nella discussione, osservando che le tesi di Mortara, chiaramente delineate, erano quanto mai rappresentative di un moderno ebraismo ridotto ad un «deismo scolorito e scarno», immensamente distante dai «sacri libri», ma gli dava ragione quanto all'irrilevanza della riunificazione di Israele dal punto di vista cristiano. A quest'ultimo punto reagiva, ne La Vedetta Cristiana del 1 agosto 1871, Giuseppe Callegari, ribadendo l'attesa millenaristica della riunione del popolo ebraico per la sua finale conversione.

da Materia giudaica. Rivista dell'Associazione italiana per lo studio del giudaismo (2010-2011) pp. 153-157

(Notizie su Israele, 25 marzo 2015)


A Gerusalemme i cantanti dell'opera si esibiscono al mercato

Cosa ci fa un gruppo di cantanti lirici professionisti intenti a cantare a voce piena nel bel mezzo di un vivace mercato all'aperto di Gerusalemme? Si tratta di una riuscita iniziativa promozionale, che ha lo scopo di pubblicizzare il Jerusalem Opera Festival, previsto per giugno. I cantanti, alcuni vestiti in abiti di scena altri in jeans e maglietta, hanno coinvolto i passanti, acquirenti e venditori del 'Mahane Yehuda', affollato mercato alimentare. Hanno cantato varie arie, fra cui 'Le nozze di Figaro', per la gioia dei presenti rimasti affascinati dalla loro bravura. "Crediamo che l'opera sia un'arte che può riguardare tutti, e che chiunque può essere affascinato da essa come è accaduto oggi", ha commentato Michael Eisenstadt, direttore artistico dell'Opera di Israele. E dopo la musica colta, spazio alla musica popolare: gli artisti hanno cantato assieme ai presenti la canzone 'Gerusalemme d'oro'.

(LaPresse, 24 marzo 2015)


Masha, Shie, Yosef, Hela e gli altri. Volti e nomi dimenticati

1945-1948 - Una pagina cremonese

CREMONA — Per i sopravvissuti all'Olocausto, l'Italia divenne il principale luogo di transito sulla via della Palestina. Nel 1947 oltre 40mila rifugiati ebrei provenienti per lo più dall'Europa dell'Est, vennero ospitati nei 124 DP Camps italiani, campi di accoglienza organizzati dalle Nazioni Unite. Dp stava per Displaced Persons, ovvero sfollati, profughi, 's pos ta ti', insomma quella eterogenea massa di persone che si trovava al di fuori dei confini dei propri paesi d'origine e che aveva necessità di essere 'ricollocata'.
   Cremona fu uno dei maggiori DP Camps del nord Italia, tra il 1945 e il 1947 ospitò fino a 1.200 persone, in maggioranza ebrei polacchi, ma numerosi furono gli ungheresi, i baltici, gli jugoslavi. Ragazzi, adulti e anziani all'ombra del Torrazzo trovarono un rifugio sicuro. Uno spicchio di storia rimossa dalla memoria e riportata alla luce dalla appassionata relazione che Angelo Garioni, architetto e studioso di storia locale, ha tenuto nell'ambito della rassegna 'Un tè in biblioteca 2015', promossa dalla Biblioteca del Seminario.
   Garioni ha brevemente inquadrato il momento storico- politico all'indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale per poi entrare — con il supporto di un ricco apparato iconografico — nella storia culturale e sociale della vita del DP Camp cremonese. In città i profughi furono accolti nei grandi spazi del parco dei Monasteri: San Benedetto, Corpus Domini e Santa Chiara (le ex caserme Pagliari, Sagramoso e San Martino) e nell'oratorio di Sant'Ilario. L'apice degli arrivi risale a 1946: si trattava per lo più di ebrei polacchi sopravvissuti prima alla persecuzione sovietica, poi a quella nazifascista e che dalla Polonia erano fuggiti dopo le improvvise e feroci manifestazioni di antisemitismo scoppiate a Varsavia e nelle maggiori città del paese baltico. Attraverso il Brennero e Tarvisio di notte, a piccoli gruppi e fra mille difficoltà, avevano raggiunto Milano dove vennero accolti e indirizzati verso i DP Camps.
   Si erano ritrovati senza casa e senza cittadinanza, provenivano da culture diverse e da diverse esperienza di vita. Parlavano polacco, yiddish, bielorusso, ucraino, tedesco. Svilupparono però un senso di coesione molto forte tanto da formare vere e proprie comunità attive e dinamiche. Cremona era soltanto una tappa del viaggio verso la Palestina, la patria dei loro avi, oppure verso gli Stati Uniti, la terra della libertà. Dopo il 1948 a Cremona non ne rimase nessuno. Qualcuno tornò quarant'anni dopo per ricordare il passato, rivedere quei luoghi e abbracciare quelle persone che li avevano accolti e aiutati a ristabilirsi in salute, imparare un mestiere, ricostruire la dignità perduta.

(La Provincia, 24 marzo 2015)


Roma - Il liceo Tasso ricorda i suoi studenti ebrei, espone "Memoria"

Scultura gigante in aula magna per i 42 studenti vittime Shoah

 
ROMA - Una scultura per gli studenti vittime delle leggi razziali del fascismo. Si inaugura un mese di "memoria" al liceo Torquato Tasso di Roma, a ricordo dei 42 liceali del blasonato istituto della capitale, che dovettero interrompere gli studi nel 1938: fisicamente allontanati, scomparsi. L'installazione dello scultore Roberto Almagno al centro dell'aula magna rappresenta un imponente bosco di legno nero cotto a fuoco su base di cenere.
La scultura corale, realizzata nel 2000, è stata già esposta più volte, anche al palazzo dei Diamanti di Ferrara e alla Rosenfeld Gallery di Londra. Per trenta giorni al Tasso è liberamente visitabile.
Per ricordare e imparare dal passato, spiega il professor Fringuelli, docente di storia dell'arte del Tasso e fra i curatori dell'esposizione: "Memoria, riflessione su ciò che è stato e motivo di trasformazione e di cambiamento. Ci sono episodi che hanno caratterizzato la storia di questo istituto, e fra questi anche la conseguenza delle leggi razziali del 38 con l'espulsione di 42 studenti di religione ebraica dalla nostra scuola".

(askanews, 24 marzo 2015)


Israele: Design e cibo, l'eccellenza italiana arriva a Holon

Da designer a chef in vista Expo 2015; domani anche Maroni

di Massimo Lomonaco

Design e cibo: due temi che da sempre hanno contraddistinto l'eccellenza italiana e che in Israele hanno riscosso da sempre un grande successo. Un binomio vincente specie se si pensa ai prossimi due appuntamenti internazionali come il 'Salone del Mobile' (14/19 aprile) e, soprattutto, di Expo 2015, entrambi a Milano. Per questo l'ambasciata italiana in Israele - in collaborazione con la Camera di Commercio italo-israeliana, l'Ice, Agenzia per il Commercio con l'Estero, e l'Istituto Italiano di Cultura - ha organizzato fino al 26 marzo la manifestazione '#Italy#Food#Design' che avra' domani, come momento centrale, l'evento 'Food for Thoughts'. E, per far risaltare ancora di piu' il legame tra design e cibo in tutte le declinazioni ha scelto come occasione la 'Settimana del Design' di Holon, cittadina a poca distanza da Tel Aviv, nell'avveniristico Museo del Design di Ron Arad, un fascio di lamiere dalle linee lisce e morbide costruite in Italia. A discutere, in piu' sessioni, di cibo e design - e domani sara' presente anche il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni - saranno architetti, designer e chef, tra cui lo stesso Ron Arad, Carlo Ratti del MIT, Carlo Cracco, nonché importanti aziende del settore come Dada Cucine, Alessi e Guzzini. E proprio all'opera di Alessi e alle sue creazioni oggi ad Holon e' stata presentata la Mostra 'In-possible': uno sguardo, curato da Francesca Appiani, su 50 oggetti simbolo che rivelano il 'dietro le quinte' di una azienda che vanta tra i suoi disegnatori nomi come Philippe Starck, Zaha Hadid, Patricia Urquiola ed Ettore Sottsass. In questo scenario, la conferenza 'Food for Thoughts' indaghera' nel rapporto tra cibo e design in tutte le sue declinazioni.
  Partendo dal cibo come oggetto stesso di design, al design degli utensili che servono a lavorare il cibo, al design degli spazi che arredano le cucine, i bar ed i ristoranti. L'immagine guida dell'iniziativa è una foto dalla Mostra 'Colorfood' di Dan Lev, che sarà ad Expo 2015 nel padiglione israeliano dal 14 al 31 maggio e che si completa domani con la foto che sarà realizzata sull'opera dal vivo dello Chef Carlo Cracco. Alla manifestazione partecipano inoltre alcune delle più importanti scuole di design israeliane che avranno l'opportunità di presentare i propri lavori ad una giuria di esperti. Il migliore volera' a Milano con Alitalia e vedra' esposto la sua creazione al Padiglione Israeliano di Expo 2015. Ma non e' tutto: chef italiani (Giancarlo Piccarreta, Riccardo Benvenuti e lo stesso Cracco) e israeliani daranno prova della loro eccellenza gastronomica in una serie di workshop in alcuni tra i piu' importanti ristoranti di Tel Aviv per mostrare le ultime tendenze ma soprattutto la solidita' della ristorazione italiana. ''La parola 'italiano' - ha detto oggi l'ambasciatore Francesco Maria Talo' - e' assioma di eccellenza, segno di perfetta capacita' artigianale. Il 'Made in Italy' personifica l'arte del vivere. E forse in nessun altro campo come il cibo e il design noi italiani sappiamo dimostrarlo. Con queste iniziative vogliamo offrire 'un assaggio' di cio' che la gastronomia, l'innovazione e la capacita' creativa italiane sanno fare''.

(ANSAmed, 24 marzo 2015)


Kosher, gli ebrei certificano la qualità dei prodotti campani

NAPOLI - Mozzarella, limoncello, pasta di Gragnano e altri rinomati prodotti alimentari. Il made in Campania si prepara ad invadere le tavole di milioni di ebrei nel mondo.
"Kosher" sono gli alimenti selezionati per la dieta ebraica, che devono rispondere a rigorosi requisiti di qualità e controlli su tutta la fase della lavorazione. Sono kosher solo le carni scelte di particolari animali. Anche i criteri di macellazione devono essere conformi alla Torah, la legge ebraica, nel rispetto assoluto dell'animale.
Oggi il kosher è un mercato in continua crescita. A Parigi, New York e Roma rappresenta la nuova frontiera del gusto. Sempre più aziende chiedono la certificazione kosher per i propri prodotti, che altrimenti sarebbero completamente esclusi dal mercato ebraico. In Campania, il kosher è approdato da poco, ma già comincia a fare proseliti nei settori più dinamici dell'imprenditoria e del turismo.
Le opportunità di sviluppo sono elevate, in particolar modo in due direzioni: export dei prodotti locali d'eccellenza e ospitalità. Gli alberghi kosher, infatti, sono rarissimi nel Mezzogiorno, nonostante la richiesta dei tour operator sia alta.

(pupia.tv, 24 marzo 2015)


Due verità su Rechnitz

Un massacro di ebrei al termine della seconda guerra mondiale ha legami anche con la Svizzera

Sono passati 70 anni dal massacro di Rechnitz, una strage di ebrei poco conosciuta al confine orientale dell'Austria che ha legami con la Svizzera e il Ticino. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo del 1945 i nazisti che uccisero almeno 180 prigionieri erano infatti ospiti di una festa nel locale castello organizzata dalla contessa Margit Batthyany Thyssen, che dopo la guerra si trasferì a Villa Favorita, sul lago di Lugano.
Secondo una ricostruzione dei fatti del 2007, pubblicata su diversi giornali, la contessa aveva organizzato la festa, compreso il massacro finale degli ebrei che erano tenuti prigionieri nella villa.
Sacha Batthyany, pronipote della contessa e giornalista al Tages Anzeiger, da allora studia la questione e sostiene una versione dei fatti diversa. Nel corso della serata organizzata dalla contesa sarebbe arrivato un convoglio ferroviario carico di ebrei ungheresi, così come l'ordine di ucciderli. Un gerarca nazista avrebbe allora preso con sé alcuni ospiti per portare a termine il massacro.
La vicenda ha pure ispirato lo spettacolo teatrale "L'angelo sterminatore", della premio Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek, in cartellone ormai da 5 anni allo Schauspielhaus di Zurigo.

(RSI News, 24 marzo 2015)


Le iniziative al museo ebraico di Soragna

Da domenica 29 fino ad ottobre il programma delle manifestazioni e delle visite

 
Roberto Modiano
La Comunità Ebraica di Parma ed il Museo Ebraico Fausto Levi z.l. di Soragna presentano il calendario eventi 2015. Volto culturale della Comunità Ebraica di Parma e luogo di arte, di proposte educative e didattica, il Museo propone quest'anno ben sette eventi vari per tipologia, rispondendo alle esigenze di un pubblico variegato.
  La rassegna comincerà già a partire da domenica 29 marzo con un incontro dal titolo Storielle e Risate, a cura di Roberto Modiano della Comunità Ebraica di Napoli. Ingegnere di professione, appassionato di archeologia e guida turistica nei luoghi ebraici della sua città, Modiano è diventato negli ultimi anni un vero e proprio punto di riferimento quando si parla di comicità in chiave ebraica. I suoi spettacoli, che hanno già animato Napoli, Trani e altre numerose città italiane, uniscono sapientemente l'innata comicità napoletana con le storielle degli ebrei su loro stessi. Caratterizzato da un ritmo serrato, lo spettacolo è suggestivo, imperdibile e insolito.
  Il 26 aprile si parlerà di libri, in un incontro dedicato alla nuova acquisizione del Museo, una raccolta di antichi libri di famiglia, donati dalla Famiglia Bondì. I donatori racconteranno con la loro voce questa raccolta attraverso storie di famiglia, aneddoti curiosi, e prelibate ricette familiari in un percorso che abbraccerà l'intero Novecento.
  L'1 e 3 maggio, in concomitanza con la Fiera di Soragna, la Comunità Ebraica di Parma organizzerà un piccolo bazar, ovvero un mercatino delle pulci nella sala di Lettura del Museo. E' un'iniziativa di partecipazione condivisa promossa dai membri della Comunità allo scopo di autofinanziare le attività culturali del Fausto Levi.
  Il 7 giugno si svolgerà la premiazione del Concorso scolastico Shevilim, dedicato alle scuole. Ogni anno il Museo prepara per i ragazzi un momento dedicato dove si presentano gli elaborati vincitori e si valorizza il lavoro degli alunni e degli insegnanti, alla presenza delle autorità che hanno promosso le iniziative (la Provincia di Parma, i Comuni di Parma e Soragna, l'UCEI). A seguire si racconterà la Coraggiosa storia di Camillo Treves, vicende di un perseguitato politico convinto antifascista narrate dalla voce dei suoi familiari e accompagnata da intermezzi musicali a cura del maestro Moretti.
  Sono in programma anche due importante incontri di carattere storico, quello del 10 maggio e quello dell'11 ottobre. Nel primo due ricercatrici italiane, Donatella Melini e Roberta Tonnarelli, racconteranno una recentissima scoperta avvenuta tra il 2013 ed il 2014: ovvero il riuso di pergamene ebraiche all'interno di antichi strumenti musicali. L'incontro verrà accompagnato dagli intermezzi musicali a cura di Maria Caruso e Richard Benecchi, dell'associazione Silentia Lunae che non solo mostreranno, ma suoneranno gli strumenti musicali raccontati nell'incontro, in un appassionante viaggio tra storia e musica, tra antichi manoscritti e misteriosi liutai. In ottobre la ricercatrice romana Emma Abate racconterà uno degli aspetti più affascinanti del mondo ebraico, quello relativo alla qabbalah e alla magia.
  Ultimo ma non per importanza l'annuale appuntamento con la Giornata
  Europea della Cultura Ebraica il 6 settembre. Il titolo sarà Ponti, connessioni e links, ovvero l'anima ebraica raccontata attraverso gli elementi di collegamento tra popoli e culture. E' già definita la presenza del Progetto Davka, un ensemble di spicco nel panorama musicale ebraico italiano, che per l'occasione presenterà il nuovo spettacolo dal titolo la Cantica del Mare, musiche ebraiche sulle coste mediterranee.

(la Repubblica, 24 marzo 2015)


Gli Usa continuano a promuovere il piano di "Due Stati"

Il 23 marzo, il capo dello staff della Casa Bianca Denis McDonough ha ribadito che gli Usa continueranno a promuovere il processo di pace tra Israele e Palestina sulla base del piano dei "Due Stati" e dei confini precedente alla guerra nel 1967.
Lo stesso giorno a Washington, nel suo discorso ad un'organizzazione no profit che sollecita gli Usa a guidare la soluzione del conflitto israelo-palestinese, McDonough ha affermato che nonostante le difficoltà, gli Usa non smetteranno di impegnarsi per la realizzazione del piano dei "Due Stati" e per la pace duratura tra Israele e Palestina. Gli Stati Uniti considerano un principio fondamentale della politica estera l'attenersi scrupolosamente al piano dei "Due Stati" e si oppongono alla continua costruzione di insediamenti ebraici in territorio palestinese, in quanto tale atto nuoce alle prospettive di pace.

(CRI online, 24 marzo 2015)


E’ comprensibile che negli anni ‘90 qualcuno abbia creduto al progetto dei “Due Stati” come via della pace, ma che qualcuno continui a pensarlo oggi, con l’Isis che avanza, Hamas che conferma i suoi propositi, l’Iran che dichiara di voler distruggere Israele, è una cosa di cui è perfino difficile trovare gli aggettivi per esprimerla. Come si fa a non vedere che lo “Stato di Palestina” non interessa a nessuno nel mondo arabo? Non appena qualcosa di questo tipo si fosse realizzato, si passerebbe subito con maggiore convinzione alla fase successiva del programma, verso il vero obiettivo desiderato: la definitiva eliminazione dell’intralcio ebraico. Parlare di “Stato di Palestina” è una cosa che interessa soprattutto gli spettatori occidentali della guerra mediorientale, come l’Unione Europea e gli Stati Uniti di Barack Obama, perché rappresenta la costante spina nel fianco che impedisce ad Israele di ottenere un assestamento abbastanza stabile della situazione. Dire “Due Stati” significa inoltre Gerusalemme divisa. Qualcuno può veramente affermare, senza mettersi a ridere, che con una Gerusalemme divisa ci sarebbe pace in Medioriente e nel mondo? Qualcosa di questo genere potrà forse ottenerla un giorno l'Anticristo; ma certamente non sarà una pace stabile. Tutt'altro. M.C.


Green Knesset: 4,650 mq di pannelli solari installati sui tetti del Parlamento israeliano

Domenica 29 marzo, a Gerusalemme, ci sarà l'inaugurazione del più grande campo solare di qualsiasi parlamento del mondo. Il progetto, chiamato Green Knesset, permetterà al Parlamento israeliano di risparmiare circa 1,5 milioni di NIS all'anno grazie all'installazione, sui tetti del palazzo, di 4,650 mq di pannelli solari.
Green Knesset, lanciato appena un anno fa, è già realtà. Il portavoce della Knesset Yuli Edelstein afferma:
    Green Knesset è un progetto che diffonde la visione della sostenibilità attraverso l'idea "da Sion arriva la Torah". Sono orgoglioso che la Knesset sia diventata un modello per il mondo in materia di sostenibilità e che abbia già firmato una serie di accordi internazionali per la cooperazione ponendo l'accento sul progetto Green Knesset.
Nelle ultime settimane, delle giganti gru hanno scaricato circa 1500 pannelli solari sui tetti della Knesset che avranno la capacità di produrre circa 450 kw di energia. Il pannello solare, che è costato alla Knesset 2,4 milioni di NIS, creerà circa il 10% dell'elettricità del Parlamento e, insieme ad ulteriori misure di risparmio energetico, contribuirà a ridurre il consumo complessivo di un terzo....

(SiliconWadi, 24 marzo 2015)


Requisitoria di un Nobel. Naipaul contro "l'islam che abolisce la storia"

"Il mondo che tiene alle libertà ideologiche e materiali deve annientare l'Isis, una forza anti civiltà

di Giulio Meotti

Vidia Naipaul
ROMA - "Immaginate un mondo in cui un giovane uomo è rinchiuso in una gabbia, inondato di benzina e dato alle fiamme per essere bruciato vivo. Immaginate un bambino che a distanza ravvicinata spara a un uomo inginocchiato con le braccia legate dietro la schiena. Immaginate lo spettacolo di un centinaio di decapitazioni. Immaginate uomini gettati nel vuoto, accusati di essere gay. Sì, tutte queste scene potrebbero aver avuto luogo nel mondo medievale, ma si tratta di scene di ieri, di oggi e di domani nel nostro mondo". Si apre così il poderoso saggio sull'islam che il premio Nobel della Letteratura, Vidia Naipaul, ha consegnato domenica scorsa al Daily Mail. E' il più importante capo d'accusa al mondo islamico scritto da un letterato di fama mondiale. Naipaul ha esplorato l'Asia e l'Africa, narrato dall'interno le società colonizzate e i fantasmi del loro passato, con accenti comici, ma anche tragici e sferzanti. Il nome di Naipaul (Vidiadhar Surajprasad Naipaul) viene accostato spesso a quello di Joseph Conrad, perché, come Conrad, Naipaul è uno straniero sradicato che ha scelto l'Inghilterra come terra d'asilo e d'adozione, e l'inglese per esprimersi, e, ancora, perché come Conrad Naipaul racconta per lo più storie ambientate in quello che adesso viene chiamato Terzo mondo.
  E' impossibile accusare Naipaul di fare della politica identitaria. Perché il premio Nobel è un uomo senza radici. Non è indiano e non è inglese. Non ricorre a una metafora quando dice di essere un esule, un profugo permanente. Naipaul ha molte radici e sono tutte aggrovigliate le une alle altre: la religione braminica dell'infanzia, gli studi a Oxford, la famiglia indù, la moglie inglese e il cottage a un piano del Wiltshire. Per la sua libertà di tono, Naipaul è stato demonizzato da molti accademici liberal. Come il professor Edward Said, il palestinese della Columbia University che descrisse Naipaul sul Nation come "un avvoltoio" pronto a gettarsi sugli errori del postcolonialismo, piuttosto che denunciare quelli del'imperialismo. Gli intellettuali di Trinidad lo accusano di "snobismo", per quella frase "non c'è niente di più autodistruttivo del razzismo dei negri". Derek Walcott, anche lui poeta laureato dell'area caraibica, lo ha chiamato "Mr. Nightfall" (signor Crepuscolo). Sull'islam, Naipaul non misura le parole, né quando dà giudizi letterari, né quando scrive di politica e religione.
  Il Nobel adesso scrive sul giornale inglese che l'islamismo "nega il valore e addirittura l'esistenza di civiltà che hanno preceduto le rivelazioni del Corano. Non c'è spazio per il passato pre-islamico".
  Naipaul sintetizza questo fanatismo con una frase: "L'idea della fede che abolisce la storia". Da qui la determinazione a negare, eliminare e cancellare il passato tramite la distruzione dell'arte, dei reperti e siti archeologici di grandi imperi. "Distruggere il toro alato fuori delle fortificazioni di Ninive soddisfa lo stesso impulso riduttivo dietro la distruzione da parte dei talebani dei Budda in Afghanistan", scrive Naipaul. "L'Isis è proteso a un olocausto contemporaneo, l'omicidio di sciiti, ebrei, cristiani, copti, yazidi. Ha spazzato via le popolazioni civili di intere regioni e città. L'Isis potrebbe abbandonare l'etichetta di 'Califfato' e farsi chiamare 'Quarto Reich'". Con una differenza: "Se i nazisti pretendevano di essere i custodi della civiltà, in quanto hanno rubato le opere d'arte per preservarle, l'Isis distrugge tutto ciò che nasce dall'impulso umano di bellezza". Naipaul attacca quei leader europei che negano il carattere islamico del terrorismo, "i politici di Europa e America, tra cui David Cameron, Barack Obama e François Hollande, che dopo ogni oltraggio islamista lo descrivono come una frangia lunatica". Naipaul sostiene che nulla possa cambiare la mente ai musulmani europei radicalizzati. "L'islamismo è semplice. Ci sono delle regole da obbedire, un jihad contro la civiltà, un paradiso dove andare da martire. L'arte non può distrarvi, non c'è ambivalenza offerta dalla civiltà 'occidentale', nessuna fedeltà al paese che ti ha dato una libera istruzione e delle prestazioni sociali. Una pistola, una preghiera e la semplicità di una caverna. Ecco perché partono (i volontari dell'Isis, ndr). Sono dei volontari della morte".
  Non c'è soluzione di mezzo fra la civiltà occidentale e questo nemico. "Negli ultimi tre o quattro secoli dai tempi di Cartesio, Leibniz e Newton, l'islam è rimasto congelato nelle rivelazioni del Corano e degli Hadith del VI secolo. L'Isis deve essere visto come la più potente minaccia per il mondo dai tempi del Terzo Reich. Il suo annientamento militare come forza anti civiltà deve essere oggi l'obiettivo di un mondo che tiene alle proprie libertà ideologiche e materiali". Adesso si capisce perché l'Independent ebbe a definire Naipaul, dopo le sue prime stoccate sull'islam, come "il flagello dei liberal".

(Il Foglio, 24 marzo 2015)


Comunità ebraica di Milano. Due liste a pari voti. Una donna sarà l'ago della bilancia

di Paola D'Amico

Sono arrivate a pari merito le due liste contrapposte, i tradizionalisti di Wellcommunity e i laici di Lechaim. Piazzano 8 candidati a testa nel nuovo consiglio della Comunità ebraica. A fare da ago della bilancia, sarà necessariamente Antonella Musatti, 67 anni, per 12 direttrice della Casa di Riposo e unico candidato eletto (con 795 preferenze è anche il secondo più votato) tra quelli che si sono presentati al di fuori delle due liste contrapposte.
In testa con 824 voti s'è piazzato Raffaele Besso, che non nasconde la speranza di essere il futuro presidente. Ma il futuro assetto del consiglio si deciderà il prossimo 31 marzo. C'è tempo per alleanze e accordi. Dopo le aspre polemiche delle settimane di campagna elettorale non sarà semplice. Ma non si può escludere che si arrivi ad una grande coalizione. Ecco i nomi dei 17 consiglieri eletti:
Raffaele Besso, Antonella Musatti, Milo Hasbani, Davide Hazan, Sara Modena, Claudia Terracina, Daniele Misrachi, Rami Galante, Vanessa Alazraki, Davide Romano, Ilan Boni, Daniele Schwarz, Ioyce Bigio, Margherita Sacerdoti, Davide Nassimiha, Andrea Levi e Gadi Schoenheit. Primo dei non eletti, per pochissimi voti, Michele Boccia della lista Community in Action.

(Corriere della Sera, 24 marzo 2015)


Milano - Ancora imbrattata la bandiera israeliana

Di nuovo imbrattata la bandiera di Israele in piazza Cordusio, fra quelle esposte per Expo.
Lo denuncia il consigliere comunale Ruggero Gabbai del Pd: «È la quarta volta che imbrattano la bandiera di Israele in via Dante-Cordusio - afferma -. Come sempre ho già provveduto ad avvisare i vertici di Expo per sostituirla e rimetteme una nuova».
«Non ci piegheremo ai facinorosi antisemiti che si nascondono dietro ad un barattolo di vernice rossa», scrive sulla sua pagina Facebook.

(il Giorno, 24 marzo 2015)


Archeologi scoprono il covo segreto dei nazisti nella giungla

Gli storici stavano esaminando alcune rovine al confine con il Paraguay in Argentina, quando hanno notato alcune di strutture di pietra ormai ricoperte da erbacce.

 
Un team di archeologi potrebbe aver scoperto il covo segreto dei nazisti in Argentina. Gli storici stavano esaminando alcune rovine nella giungla al confine con il Paraguay quando hanno notato alcune di strutture di pietra ormai ricoperte da erbacce. Solo con l'aiuto di un machete sono riusciti a farsi strada tra le sterpaglie per poi trovarsi di fronte ad un tesoretto di monete tedesche risalenti alla fine degli anni 30 oltre a frammenti di porcellana "Made in Germany" e simboli nazisti sulle pareti. Sebbene non sia stato ancora accertato che si tratti proprio del rifugio utilizzato dai gerarchi fuggiti dalla Germania al termine della guerra gli archeologi spiegano che sarebbe difficile trovare un altro motivo per cui qualcuno dovesse costruire un rifugio segreto, così ben fatto, in un luogo totalmente inaccessibile e lontano dalla comunità locale, per poi riempirlo di cimeli nazisti.

IL RIFUGIO - «A quanto pare - spiega al Telegraph Daniel Schavelzon, dell'università di Buenos Aires - a metà della seconda guerra mondiale i nazisti avevano un progetto segreto di costruzione di rifugi per gli alti dirigenti del partito in caso di sconfitta. Siti inaccessibili nel bel mezzo del deserto, in montagna, su una scogliera, o al centro della giungla come questo. Tale sito, ha anche il vantaggio di permettere ai tedeschi di raggiungere il Paraguay in meno di 10 minuti. È protetto, difendibile, e perfettamente vivibile».

MAI UTILIZZATO - Il rifugio però non fu mai utilizzato, perchè dopo la caduta del regime nazista i gerarchi sono stati accolti apertamente in Argentina. Migliaia di nazisti e fascisti italiani e croati, ebbero la benedizione del presidente Juan Peron che, alla guida dell'Argentina dal 1946 al 1955, accolsee circa 5000 nazisti. Nel 1960 Adolf Eichmann venne catturato a Buenos Aires da un commando israeliano e portato a Ramle, dove venne giustiziato per impiccagione. Anche Joseph Mengele, responsabile dei terribili esperimenti sui prigionieri di Auschwitz si nascose in argentina dopo la guerra. «Quando la guerra finì alcuni tedeschi sono stati utili a costruire le nostre fabbriche aiutandoci a sfruttare meglio le nostre risorse» spiegò Peron.

(Giornalettismo, 23 marzo 2015)


Il nuovo vice 'scienziato capo' di Israele è un palestinese

Per Abu Hamed, di Gerusalemme Est, ruolo top a Ministero Scienza

Uno degli incarichi più prestigiosi nell'apparato pubblico israeliano - quello di assistente allo 'Scienziato capo' nel Ministero per la scienza, la tecnologia e lo spazio - e' stato affidato ad un palestinese di Gerusalemme est.
Secondo l'emittente israeliana I24 Tareq Abu Hamed e' divenuto cosi' il più alto esponente palestinese dell'apparato governativo israeliano.
Abu Hamed, 42 anni, un medico, ha diretto il Centro per l'energia rinnovabile prima di entrare nel ministero, due anni fa. I suoi superiori sono rimasti colpiti dalle sue capacita' nel mondo scientifico e sono persuasi che la sua nomina sarà coronata da successo.
Alla stampa israeliana Abu Hamed ha detto intanto che il passaggio continuo fra la realtà israeliana e quella palestinese gli risulta piuttosto ''schizofrenico''.

(ANSAmed, 23 marzo 2015)


Livorno - I parà della Folgore di guardia alla sinagoga

Una pattuglia ha stazionato fino alle prime ore del mattino davanti al luogo di culto israelita.

 
La sinagoga di Livorno in piazza Benamozegh
Militari della Folgore al lavoro
LIVORNO - Dopo gli allarmi sulla posibilità che i terroristi dell'Isis o qualche loro simpatizzante possano mettere a segno attentati anche sul nostro territorio nazionale, si è rafforzata la sorveglianza sugli obiettivi sensibili in tutta Italia utilizzando anche personale delle forze armate.
Proprio in questo senza va sicuramente letta la presenza di una pattuglia di paracdutisti della Folgore che ha stazionato di guardia fino alle prime ore del mattino nella zona della sinagoga, in piazza Benamozegh. I tre militari, che componevano la pattuglia, armati di tutto punto e giunti sul posto a bordo di una jeep, hanno tenuto d'occhio la zona controllando a piedi. La conferma dell'aumento del controllo rispetto agli obiettivi sensibili arriva dalla Prefettura: "Come stabilito da recenti disposizioni govemative, nella giomata di lunedì 23 marzo - si legge - ha preso avvio a Livomo l'attivita di vigilanza e protezione dei principali obiettivi sensibili, che verra attuata dai militari della Brigata Paracadutisti "Folgore" in relazione alle straordinarie esigenze di prevenzione e contrasto al terrorismo".

(Il Tirreno, 23 marzo 2015)


Pescara chiama Israele: l'ambasciatore Gilon lancia la delegazione adriatica

PESCARA - La Camera di Commercio candida la citta' di Pescara come hub dell'intera macroregione adriatica per un progetto internazionale con Israele. L'iniziativa e' stata al centro di un meeting che si e' svolto, questa mattina alla presenza dell'ambasciatore d'Israele in Italia, Naor Gilon.
   Presenti anche il presidente dell'ente camerale pescarese, Daniele Becci, il governatore abruzzese, Luciano D'Alfonso, e il sindaco del capoluogo adriatico, Marco Alessandrini. Nel suo intervento l'ambasciatore ha ricordato che Israele, "un Paese altamente specializzato in tecnologia e ricerca scientifica, secondo solo agli Stati Uniti in tema di innovazione", conta "un livello di disoccupazione giovanile pari a zero, numerosi centri di ricerche e sviluppo che danno lavoro e circa 50mila persone e il piu' alto numero di start up al mondo per persona (5mila ogni anno). E' la terza volta che vengo a Pescara - ha aggiunto - Sono convinto che si possa cooperare in modo efficiente, fondendo le proprie competenze, eccellenze ed aspettative".
   "Un mercato di piccole dimensioni, quello di Israele - ha detto Becci - ma di grande interesse per le nostre aziende. Il progetto di cooperazione internazionale, vede la citta' di Pescara come hub per un lavoro di rete che punta al superamento del provincialismo e dell'isolamento, nemici numero uno dell'internazionalizzazione". "L'idea - ha spiegato Gabriele Rossi, coordinatore del progetto - e' nata proprio da una richiesta dell'ambasciatore di Israele per comporre una delegazione macroregionale adriatica che sensibilizzasse e coinvolgesse il mondo impresa ed il mondo universitario".
   "Ci invoglia cio' che Israele sa fare sull'acqua e sulla geotermica - ha detto il presidente D'Alfonso - esempi di successo da cui possiamo solo apprendere. In generale ritengo che Israele e' una di quelle realta' da cui si esce migliorati". "Un'occasione privilegiata che, sfruttando la posizione baricentrica di Pescara, ci consente - ha sostenuto il sindaco - di confrontarci con una realta' diversa dalla nostra ma con la quale percorrere un vantaggioso percorso insieme". Entusiasta il mondo universitario di Abruzzo, Marche e Molise, i cui rappresentanti hanno evidenziato come "sia chiara la connessione tra la crescita di un territorio e gli investimenti nei campi della ricerca e dello sviluppo".

(Cityrumors, 23 marzo 2015)


Ferrara - Una storia gloriosa che torna a vivere grazie agli appunti di Silvio Magrini

Dalle origini al 1943, tra grandi rabbini e piccoli episodi di vita. Per comprendere la storia ebraica locale occorre parlare dei Sefarditi, cioè degli ebrei di Spagna e Portogallo espulsi nel 1492.

di Vittorio R. Bendaud (*)

Una via del Ghetto di Ferrara
Una nuova, particolare e interessante storia della gloriosa Ferrara ebraica quella fresca di stampa a firma di Silvio Magrini. Chi si addentra in simili studi e ricerche come può non ricordare, tra gli altri, il ferrarese Aron di Leone Leoni, figlio del rabbino capo di Ferrara e di Venezia Leone Leoni? Al riguardo, basti pensare alle sue opere La nazione ebraica spagnola e portoghese negli Stati estensi (1992) e La nazione ebraica spagnola e portoghese di Ferrara, 1492-1559 (2011). Tuttavia il bel libro Storia degli ebrei di Ferrara. Delle origini al 1943 di Silvio Magrini, pur essendo appena edito, precede di alcune decadi le altre opere appena ricordate. E dunque un libro sopravvissuto. Sopravvissuto al suo autore, morto martire ad Auschwitz, e sopravvissuto all'oblio, dato che le pagine dattiloscritte dell'opera, fittamente annotate e corrette, sono state fortunatamente scoperte e salvate nel corso di un trasloco interno di casa Magrini. Ma chi era il Professor Silvio Magrini? Ferrarese anch'egli, figlio di Mosè Magrini e di Fausta Artom, si laureò a Bologna in Fisica, per convolare a nozze con Albertina Bassani.
  Alla fine degli anni XX aderì al Sionismo, recandosi in Eretz Israel (Terra di Israele) nel '31. Nel 1930 divenne il presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, ricoprendo la gravosa carica sino al novembre del 1942, quando venne arrestato, internato nel campo di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz, ove trovò immediatamente la morte. C'è di più, almeno da un certo punto di vista: prima di morire, infatti, Giorgio Bassani disse che per Il Giardino dei Finzi-Contini si era ispirato alle vicende tragiche della famiglia "del vecchio professore Magrini". Si trattava di Silvio Magrini, la cui opera adesso ha una propria nuova vita. Sin dalle prime pagine, il lettore si sentirà preso per mano da un esperto conoscitore delle vicende narrate, che doveva avere a lungo meditato e studiato sui personaggi che, di volta in volta, di epoca in epoca, decise di estrarre dalla polverosa teca della storia, restituendo loro parole e azioni. Ed ecco rianimarsi, veicolati da uno stile particolare eppur piacevole, sospeso tra cronaca e narrazione, rabbini e medici, notabili e indigenti, nobili e duchi, frati, monaci e intellettuali, donne di coraggio e di genio e papi risoluti. E la Ferrara medievale riappare, vede distintamente comparire i suoi ebrei e il primo cimitero ebraico, per poi dissolversi, facendo largo al riverbero delle luci rinascimentali, per poi offuscarsi anch'esse, facendo riapparire dalle nebbie quartieri cambiati e ghetti sbarrati, giungendo, tra luci e ombre, alle tenebre del 1943. Se si è parlato dell'Autore e dell'opera, vale la pena spendere qualche parola in relazione alla casa editrice, dato che a Ferrara, come ad Ancona, a Pesaro, a Venezia e - certamente! - a Livorno, la parola d'ordine per comprendere la storia ebraica locale è: Sefarditi. Chi sono (siamo, nello specifico) i Sefarditi? Sono gli ebrei di Spagna e di Portogallo espulsi successivamente al 1492, costretti alla conversione al cristianesimo o all'esilio (in quest'ultimo caso lasciando però i loro beni alla Corona), che si rifugiarono o nei Paesi islamici (con sorti spesso maggiormente favorevoli, ma comunque non facili, e sempre in qualità di dhimmi, ossia di popolazioni subalterne tollerate e umiliate, sottoposte a speciale tassazione per dimorare in quei luoghi) o in alcune città europee: Venezia, Amsterdam, Ferrara, Ancona, Pesaro, Londra e, ovviamente, Livorno.
  Era l'epoca in cui il Tribunale Rabbinico di Venezia era temuto in tutto il Mediterraneo e oltre; in cui a Ferrara i rabbini studiavano, come a Padova, medicina e filosofia; in cui la sinagoga di Amsterdam copiava il modello architettonico della grande sinagoga di Livorno (oggi scomparsa) e in cui la pianta cittadina di Livorno venne ripresa per ripensare l'urbanistica di Londra. E, arrivando all'Ottocento, le stamperie ebraiche a Livorno stampavano i libri liturgici ebraici per tutti gli ebrei sefardi ti del Mediterraneo, dal Marocco all'Afghanistan, giungendo a New York e a Philadelphia, a Londra e ad Amsterdam. Una di queste case editrici, la Salomone Belforte, fu diretta dal rabbino e pensatore Elia Benamozegh, preannunciatore del rinnovato incontro tra ebraismo e cristianesimo. Questa gloriosa casa editrice, che tanto anche ha contribuito all'arte italiana, tra Milano e Livorno, fortunatamente ancora esiste, resiste e risplende, grazie a Guido Guastalla e alla sua splendida famiglia. E ora ci regalano un libro su Ferrara e gli ebrei.


(*) Coordinatore del Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia

(il Resto del Carlino, 18 marzo 2015 - Segnalato da Andrea Iardella)


Un arabo israeliano arrestato per essersi unito ai ribelli in Siria

Un arabo israeliano è stato condannato a undici mesi di prigione per essere andato in modo illegale in Siria per unirsi ai ribelli che combattono il regime del presidente Bashar al Assad. L'accusato è stato riconosciuto colpevole da un tribunale di Kvar Saba, a nord di Tel Aviv, di aver raggiunto la Siria attraverso la Giordania per "morire da martire insieme ai ribelli e, secondo le sue credenze religiose, andare in paradiso", secondo quanto scritto dal tribunale.
Due giorni dopo essersi infiltrato in Siria, l'uomo, di circa vent'anni, è stato arrestato dalle forze armate del regime. Per otto mesi è stato interrogato e torturato. Ha dato indicazioni su una base israeliana, alla fine è stato liberato il 12 dicembre e passando attraverso la Giordania è tornato il 19 dicembre in Israele, dove è stato arrestato dai servizi di sicurezza israeliani.

(Internazionale, 23 marzo 2015)


Kahlon dice sì a Netanyahu

Il Primo ministro avrebbe così la maggioranza per il nuovo esecutivo

Con il sì alla sua premiership da parte di Moshé Kahlon del partito di centrodestra 'Kulanu', Benyamin Netanyahu ha in mano la maggioranza di seggi (61 su 120) per formare una possibile coalizione di governo. Kahlon ha indicato l'attuale premier nelle consultazioni dei partiti in corso da parte del presidente Reuven Rivlin. ''Bisogna rispettare la volontà popolare'' ha detto, citato dai media, Kahlon a Rivlin. E' probabile che Rivlin assegni l'incarico a Netanyahu questo stesso mercoledì.
Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha cominciato a Gerusalemme la seconda giornata di consultazioni con i partiti nell'ambito della formazione del nuovo governo. Tra i primi gruppi quello dei centristi di 'C'e' futuro' guidati dal deputato Yael German che ha confermato - citata dai media - la volontà del partito di restare, alle condizioni attuali, all'opposizione di un eventuale governo presieduto da Benyamin Netanyahu. Le consultazioni dovrebbero finire oggi attorno alle 15 locali.

(ANSA, 23 marzo 2015)


Antisemitismo (di sinistra) pure nell'Australia Felix

Che cosa accomuna il mite autunno soleggiato di Sydney all'autunno spaventoso di una Berlino d'anteguerra? Un manipolo di ratti. Rossi.

di Mario Rimini

 
La fine di marzo, a queste latitudini, dal punto di vista dell'alternarsi delle stagioni equivale alla fine di Settembre nel vecchio continente. Era proprio la fine di un Settembre lontano - il 29 del mese - quando nella Germania di Goebbels il silenzio delle foglie caduche fu sovrastato dal rumore sinistro di un ennesimo proclama antisemita: l'esclusione degli ebrei da tutti gli eventi culturali e di spettacolo, compreso il teatro. Le voci degli ebrei non dovevano più risuonare su un palcoscenico e dalla pellicola di un film, esprimersi nelle colonne di un giornale o parlare dalle pagine di un libro. Come le betulle autunnali, l'albero dell'ebraismo teutonico si ritrovo' d'improvviso spoglio e nudo. Il primo atto verso l'abbattimento.
   Un'organizzazione ebraica australiana, Hillel, aveva in progetto nel 2015 di mettere in scena una serie di rappresentazioni legate alla memoria dell'Olocausto. Per questo si rivolse a un piccolo teatro del territorio municipale di Marrickville, sobborgo occidentale nel centro della metropoli del Sud, chiedendo di affittarlo per l'occasione. La risposta, recapitata per posta elettronica, lascerebbe esterrefatti. Se non si trattasse del copione di un dramma già andato in scena altrove.
   "The Red Rattler" - il teatro il cui nome associa in un gioco di parole lo scricchiolio di vecchie locomotive all'immagine volutamente sciatta e radical chic del ratto - così ha argomentato il rifiuto di concedere lo spazio all'associazione ebraica: "La nostra politica non appoggia il colonialismo/sionismo. Per questo motivo non ospitiamo gruppi che supportano la colonizzazione e l'occupazione della Palestina".
   Non è il primo segno di un antisemitismo di sinistra che striscia arrogante tra i sobborghi perbene d'Australia. Avevano iniziato, qualche anno fa, dove si iniziò allora anche a Berlino: dal boicottaggio economico. Anche stavolta, e non per caso, attore protagonista era stato il municipio di Marrickville. I suoi consiglieri - tutti appartenenti al partito dei Verdi - proposero una crociata miserabile che avrebbe fatto impallidire i grigi contabili di Eichma: la redazione di una minuziosa lista di ogni azienda che avesse rapporti con Israele, e il successivo boicottaggio, con l'interruzione e la cancellazione di ogni contratto e cooperazione economica.
L'episodio del teatro non fa che confermare una teoria ormai ineccepibile: non solo che esiste un antisemitismo di sinistra, ma che esso si annida non tra le classi subalterne e i gironi dell'esclusione e della rabbia popolare, bensì tra i cappuccini di soia e le esistenze confortevoli all'essenza di Ylang Ylang della borghesia illuminata d'Occidente.
   E' tutto li', in quella email di rifiuto, l'alpha e l'omega dell'antisemitismo di sinistra. C'è l'odio ideologico contro un gruppo colpevole solo di rappresentare la cultura ebraica. C'è il pregiudizio che lega ogni ebreo al sionismo (Hillel è invece un'associazione apolitica); c'è, in nero su bianco, l'equazione antisemita del sionismo come crimine; c'è la teoria ma c'è anche l'azione, il boicottaggio - l'arma "perbene" per ridurre le vittime al silenzio, all'emarginazione, per spegnerne la voce e negarne l'immagine e l'espressione.
   Il tutto in nome di una cultura di sinistra rivendicata da quell'aggettivo - Red, Rosso. Lo conferma esplicitamente la stessa compagnia teatrale, che spiega il proprio nome sottolineando che "il colore rosso ha un legame di lunga data con la politica di sinistra, la rivoluzione e l'anarchismo".
   Gli adepti di questo nuovo dogma antisemita, che sostituendo i semiti con i sionisti crede di poter scrollarsi di dosso e dalla coscienza il peso sconveniente del pregiudizio e dello sterminio, non li troverete a marciare al passo dell'oca lungo vie austere immerse nel freddo pungente delle brughiere del Brandeburgo d'antan. Non vestono camice nere, e avrebbero difficoltà nel distinguere una svastica da un tatuaggio tribale. E' probabile invece che li incontriate al mercato biologico della domenica, tra una bancarella vegana e la giovane dai capelli rasta che vende candele agli olii essenziali. Li vedrete sudati e sorridenti di ritorno da una sessione di bikram yoga, infilarsi nella pace surreale di una SPA ayurvedica per il massaggio abyhanga settimanale. Come in un villaggio dell'utopia felice, tutto è vicino, buono, naturale. Una vita etica a emissioni zero, tra il naturopata e la dieta paleo.
   Li trovate oggi, gli antisemiti di sinistra, in tanti quartieri riscopertisi trendy - come appunto Marrickville - tra palazzetti art deco ed eleganti edifici vittoriani che l'oblio, la decadenza e la marginalità di ieri hanno preservato dall'amalgama mediocre del capitalismo edilizio.
   Marrickville, d'altronde, appare così lontana dalla Berlino del 1933. I suoi alberi sono carichi di verde anche nel cuore dell'inverno. Gli eucaliptus che regnano in questa fetta di mondo conservano le foglie tutto l'anno, sicchécon l'eccezione di qualche boulevard dei più sofisticati quartieri orientali, piantati ad alberi europei da coloni nostalgici, in una giornata di sole autunnale vi sarebbe perdonato di credervi, in giro per Sydney, immersi in una tiepida estate boreale.
   Marrickville chic invece non è mai stata. Sobborgo dell'Inner West, il ventricolo occidentale alternativo e sinistroide nel cuore della metropoli australiana, Il quartiere fu per gran parte della propria storia una tipica propaggine semi industriale e periferica, come gran parte dei villaggi inglobati nella più grande metropoli d'Australia che soltanto negli ultimi due decenni hanno scoperto di avere fascino e carattere.
   Nelle successive ondate migratorie interne che hanno caratterizzato e stravolto la demografia di Sydney nel nuovo millennio, una folta popolazione di studenti senza mezzi, artisti senza mecenati, minoranze sessuali e in generale di reietti della vertiginosa ascesa del costo delle abitazioni si è riversata sempre più a Ovest, occupando quartieri sino ad allora senza lustro. Trovata una parte, vi è' così fiorita anche l'arte.
   Accanto ai mutamenti demografici, la medesima storia marginale ha regalato a queste aree una fortuna che oggi paga: la relativa assenza di speculazione edilizia, che altrove ha sventrato quartieri e demolito gioielli architettonici in una devastazione che talora ricorda il destino delle città europee del dopoguerra, ha risparmiato quasi interamente diversi rioni dell'ovest cittadino. Il risultato è la grazia vintage che oggi si respira in posti come Newtown, abbellita dalle facciate color pastello della più lunga strada vittoriana d'Australia, palcoscenico ideale per una miriade di ristoranti, caffè, negozi d'ogni sorta - soprattutto però biologici, equo-solidali e alternativi per antonomasia. Marrickville non è molto dissimile. E' accaduto che gli studenti squattrinati di ieri nel frattempo abbiano iniziato a guadagnare bene, e le classi subalterne di due decenni fa siano diventate a pieno titolo benestanti classi medie. Salvo credersi ancora hippies ed eterni bohémiens.
   Questi progressisti nostrani non sembrano tuttavia scalfiti dalle inquietanti similitudini con gli eventi che sconvolsero l'Europa d'anteguerra.
   Se Il boicottaggio economico contro Israele del municipio di Marrickville è fallito, non è per un ravvedimento tardivo. A conti fatti dai minuziosi amministratore delle finanze pubbliche, venne fuori che sarebbe costato ai contribuenti almeno 4 milioni di dollari. Il sindaco annuncio' dunque che non avrebbe appoggiato in toto la risoluzione presentata dai suoi consiglieri per colpire l'economia dello stato ebraico. Rimase però la volontà di fondo di appoggiare un boicottaggio che non avesse un impatto negativo sulle tasche dei cittadini. Cioè antisemiti si, ma gratis.
   Quanto al Red Rattlers, vedremo se i suoi avventori avranno qualcosa da ridire, o se continueranno ad affollarne la sala senza lasciarsi turbare dal pensiero che il loro teatro, che ieri era proibito ai cani, da oggi lo è anche agli ebrei.

(Il Foglio, 23 marzo 2015)


Oltremare - Mar Rosso

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ai buoni ebrei, si sa, piace la storia, e se non quella con la S maiuscola, almeno quella che ci tocca personalmente, trasmessa di generazione in generazione, con buon peso di approssimazione ma basi forti.
Non si spiegherebbe altrimenti la tignosa costanza con la quale ogni santo anno che Dio manda in terra, tutto il popolo d'Israele, i religiosi e i laici, sefarditi e ashkenaziti, si siede a raccontare e farsi raccontare quel pezzetto di Storia che ci ha resi popolo a tutti gli effetti.
Per molti, la parte più scenografica dell'uscita dall'Egitto, il passaggio del Mar Rosso, ha un posto d'onore nel racconto e nella tradizione, e non solo durante il Seder.
Già a fine gennaio, quando si legge la Parashà di Beshallach, inizia l'"Operazione Pesach": viene naturale cominciare a fare programmi per il Seder, mentre si prepara in cucina il Frisensal, o Ruota del Faraone, e quando poi al sabato mattina si legge dell'uscita dall'Egitto, si parla di azzime e di Mar Rosso che si apre, per miracolo o pragmatismo divino.
E se io cerco i voli migliori per l'Italia, considerando una certa flessibilità geografica che dipende da dove si riunirà la famiglia quest'anno, molti invece fanno il progetto contrario: dall'estero prenotano a decine di migliaia per arrivare qui per Pesach.
E provo a volte una punta d'invidia per quelli che, invece di ritornare alla piovosa e freddina primavera europea, arrivano a popolare le spiagge israeliane, già pienamente estive ora di aprile.
In particolare per quelli che scendono a Eilat - luogo di meraviglia geologica e marina ma anche vagamente claustrofobico per via dei due confini con Giordania ed Egitto.
Eilat a Pesach è il non plus ultra della storia materializzata: anche se non fosse proprio ad Eilat che i nostri avi hanno attraversato il Mar Rosso, è comunque proprio quel mare lì, quello su cui oggi volano i windsurf e si affacciano i delfini, che ci ha permesso di sfuggire al nemico e iniziare la nostra Storia.


(moked, 23 marzo 2015)


Israele guarda a oriente e mette ai margini l'Europa

Energia, armi, sicurezza. Netanyahu guarda a Cina e Giappone e si fida sempre meno di Usa e Ue

di Davide Vannucci

Non ha mai disdegnato le iperboli, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, detto Bibi, e a gennaio, dopo il massacro all'Hypercacher di Parigi, in un meeting con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, ha associato l'Europa Occidentale a una triade di concetti, "islamizzazione", "antisemitismo" e "antisionismo", come se uno spettro si aggirasse per il Vecchio Continente, facendo di ogni ebreo un potenziale bersaglio.
Platea non casuale, quella scelta dal premier più longevo della storia d'Israele, un primato che condivide con il fondatore dello Stato, Ben Gurion. Sì, perché nel processo logico e retorico di Netanyahu le conseguenze di quest'ondata anti-ebraica sono anche di ordine economico: «Il nostro Paese deve assicurarsi un futuro guardando ad altri mercati, in tutto il mondo, soprattutto ad Est. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dall'Europa Occidentale».
La Ue è ancora il primo partner commerciale di Gerusalemme, ma l'ascesa dell'Asia è incalzante, a tal punto che il continente nel 2014 ha superato gli Stati Uniti al secondo posto di questa graduatoria. E il futuro vede un'Israele con la testa, e i capitali, sempre più verso Oriente e sempre meno verso Occidente. La vittoria del Likud nelle elezioni di martedì non è stata accolta di buon grado dalle cancellerie europee, che auspicavano un cambio della guardia e tifavano (segretamente
ma non troppo!
) per il candidato laburista Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni.

(LINKIESTA, 23 marzo 2015)


Il primo Tricorder di Star Trek sviluppato dall'Università di Tel Aviv

 
La startup israeliana Unispectral, utilizzando la tecnologia sviluppata presso il Dipartimento di ingegneria dell'Università di Tel Aviv ha creato una lente ottica che, accoppiata con un software di elaborazione di immagini, è in grado di trasformare qualsiasi smartphone in sensore iperspettrale in grado di analizzare la composizione chimica di oggetti da remoto, come per esempio "vedere" attraverso il corpo umano. Questa tecnologia è simile al tricorder utilizzato nell'universo fantascientifico di Star Trek, per la diagnosi da remoto di malattie.
Il nuovo concept utilizza un filtro ottico sofisticato e un software di elaborazione delle immagini complementare, sviluppato nei laboratori dell'Università di Tel Aviv, migliorando la risoluzione della fotocamera. Il sistema è compatibile con i sensori fotografici della maggior parte degli smartphone e funziona bene sia per le sequenze video sia per le immagini fisse.
La lente permette di allargare lo spettro di colori catturati e di doppiare la quantità di luce che entra nel software preservando la nitidezza dell'immagine. Ogni oggetto possiede la sua firma iperspettrale, una sorta di impronta digitale chimica. Una volta che i dati di immagine vengono acquisiti si passa alla trasmissione ad un elaboratore che analizza i componenti dell'immagine, restituendo informazione allo smartphone.
Unispectral è attualmente alla ricerca di un processore in grado di analizzare i dati che provengono dalle immagini ed è in trattative in tal senso con i principali produttori di smartphone, aziende automobilistiche e le agenzie di sicurezza. Questo "analizzatore" deve essere in possesso di un database di firme iperspettrali.
Molti sono i campi in cui questa tecnologia potrebbe essere applicata, tra cui salute, dispositivi mobili e internet.
Una possibile applicazione immediata potrebbe essere l'individuazione di latte in polvere contraffatto in Cina, responsabile delle morte di alcuni bambini: secondo i membri del team, la fotocamera Unispectral sarebbe in grado di catturare l'impronta chimica del latte al fine di determinare se è autentico o falso.
Lo sviluppo dell'invenzione è stata finanziata dai fondi della Ramot Momentum, la società di trasferimento di tecnologia dell'Università di Tel Aviv, i cui principali investitori sono il Gruppo indiano Tata, la società d'investimento Temasek, con base a Singapore, e la società americana SanDisk specializzata nella memoria flash.

(SiliconWadi, 23 marzo 2015)


Israele avverte: timore di attentati islamici in Europa

Avvertimento ai turisti israeliani per le vacanze di Pasqua.

Nell'imminenza delle vacanze pasquali, durante le quali decine di migliaia di israeliani vanno all'estero, l'Ufficio del primo ministro ha reso noto che alla luce dei recenti attentati islamici esiste il pericolo che nuovi attacchi si verifichino nell'Europa occidentale e settentrionale, anche contro obiettivi ebraici o israeliani. Di conseguenza gli israeliani in viaggio dovranno mantenere la massima cautela.

(ANSA, 23 marzo 2015)


Tel Aviv - Illusionista sospeso a mezz'aria per cinque ore

Guardate! C'è un uomo sospeso a mezz'aria che si regge alla parete con una mano sola!". Sarà stato questo il commento dei centinaia di pedoni di Tel Aviv che con i nasi al cielo si sono fermati a guardare la performance dell'illusionista Hezi Dean, rimasto appeso al muro senza alcun supporto per ben cinque ore.

(il Giornale, 23 marzo 2015)


Le elezioni del dopo Charlie i musulmani vanno a destra

Tre anni fa avevano votato in massa per Hollande, ora si sentono traditi. Un bacino che vale due milioni di voti ma che la sinistra non ha intercettato.

di Francesca Pierantozzi

PARIGI - Tanti si sentono come Abdallah, 52 anni, gestore di una panineria a Hoenheim in Alsazia, sbarcato nel '75 dal Marocco nella periferia pura e dura di Mulhouse: delusi, traditi. Abdallah ha votato a destra, la destra di Sarkozy, per la prima volta da quando ha avuto la nazionalità, nel '97. Al contrario di tanti musulmani d Francia, soprattutto i più giovani, Abdallah non se l'è sentita di non andare alle urne: «Da quando sono francese ho sempre votato, sempre, mai saltata un'elezione, nessuna. E oggi, per la prima volta a destra. La sinistra ha tradito».

LE STATISTICHE
Qualsiasi sondaggio, indagine sociologica, inchiesta lo conferma: i musulmani di Francia hanno sempre votato a sinistra. Fino ad oggi. Anche se le statistiche "etniche" sono ufficialmente vietate, un ampio studio di un anno fa dell'Ifop rivelava che gli elettori musulmani - circa 2 milioni, ovvero il5% del totale - avevano scelto in massa il candidato Hollande alle presidenziali del 2012: addirittura 1'86% contro appena il 14% per Nicolas Sarkozy. Secondo l'Ifop, i musulmani erano diventati addirittura la «categoria» più a sinistra di Francia, più degli operai o degli intellettuali.
Nonostante le difficoltà di integrazione, la disoccupazione che nelle periferie "difficili", abitate al 90% di immigrati, supera il 40%, i musulmani non sono mai stati sedotti dal Fronte Nazionale. Il "nuovo corso" di Marine Le Pen non ha fatto dimenticare la xenofobia radicale di papà Jean-Marie, né lo slogan ancora in voga: «la France aux français, la Francia ai francesi.
In due anni e mezzo molte cose sono però cambiate. La crisi economica più brutale di qualsiasi previsione, la politica economica troppo liberai della sinistra al potere, la disoccupazione in costante aumento nonostante le promesse, le disuguaglianze sempre più profonde, e sempre più a carico degli «ultimi», di quelli che non abitano in centro, che non parlano bene il francese, che non arrivano quasi mai oltre la maturità.

GLI ATTENTATI
E poi gli attentati. Lo choc del 7 gennaio. La Francia di Charlie fieramente schierata compatta contro la barbarie, per la libertà di espressione, ma troppo timida nel distinguere i musulmani e l'Islam dal terrorismo. La Francia che manifesta a Parigi sempre troppo «lontana» dalle periferie. E allora, come Said, operaio di Lille citato dal quotidiano Liberation, tanti hanno fatto un passo indietro: «Certo, ho votato Hollande nel 2012 e certo, sono deluso. Ho sempre votato e voto anche questa volta: scheda bianca. Quando ho visto 4 milioni per le strade per i 17 morti degli attentati, mi sono detto che dovevamo essere 4 milioni a manifestare anche per l'occupazione, per il potere d'acquisto».
Perché i musulmani non votano «musulmano - come spiegano da sempre i sociologi: il voto non è «legato alla confessione religiosa ma alle traiettorie socio economiche». Alla sinistra, i musulmani di Francia hanno sempre chiesto integrazione, uguaglianza, un'istruzione pubblica forte e non discriminante. Più conservatori sul piano sociale, non sono scesi in massa per le strade a manifestare per le nozze gay ma, come Abdallah che ieri ha messo la croce sull'Ump dell'ex nemico Sarkozy, avrebbero voluto riforme «di sinistra» sul piano economico e invece: «Che ci fa Macron (ministro dell'Economia) al governo? E' un banchiere, un capitalista!». Le "profezie" di Michel Houellebecq, che nel suo libro "Sottomissione" mette in scena una Francia islamizzata con un presidente musulmano nel 2022 sembrano fantapolitica, anche se a queste dipartimentali ha esordito a Marsiglia, cantone numero 12 del dipartimento delle Bouches-du-Rhone, l'Unione dei Democratici musulmani di Francia. «I partiti tradizionali - assicura Nagid Arzegui, il presidente - sono del tutto estranei ai problemi della vita quotidiana». Ma non ha superato il primo turno.

(Il Messaggero, 23 marzo 2015)


Da Recanati a Tel Aviv. Antichi rapporti nel Mediterraneo

MISTERO - Il nome della città di Leopardi risuona da secoli nella cultura ebraica grazie a uno dei più grandi esegeti della cabala. Utilizzato anche da una banca e da uno dei vini più famosi di Israele potrebbe essere presto oggetto di indagini.

di Donatella Donati

Copertina del libro "Recanati justissima civitas"
Alcuni anni fa un gruppo di imprenditori ebrei provenienti da Tel Aviv, invitati da un imprenditore italiano, furono a Recanati per esplorare la possibilità di costruire in contrada Chiarino, di fronte al mare, una struttura alberghiera di lusso integrata nell'ambiente. Non se ne fece niente per motivi paesaggistici ben comprensibili. Uno di loro mi disse che era stato molto stupito di conoscere l'esistenza di una città dal nome Recanati perché gli unici Recanati che lui conosceva erano il cabalista ebreo del XIII secolo Menahem Recanati, il banchiere Recanati proprietario di una delle più importanti banche di Tel Aviv chiamata appunto banca Recanati, e il vino Recanati che si produce sulle colline intorno a Tel Aviv.
   Ho contattato l'imprenditore di Porto Recanati che li aveva ospitati e mi ha confermato l'importanza della banca Recanati che ha stretti rapporti con l'imprenditoria del luogo anche se forse oggi il suo proprietario non vive più a Tel Aviv. Fu l'occasione per scrivere nel bel volume Recanati justissima civitas pubblicato nel settembre del 2008 a cura di Giancarlo Càpici con interventi di vari autori esperti della storia della città e fotografie di prima qualità, per dare molte notizie sugli ebrei che per molti secoli vissero e operarono pacificamente in quella città. Menahem Recanati così chiamato in tutto il mondo dal luogo di provenienza è stato uno dei più grandi cabalisti se non il migliore in assoluto che nell'interpretazione dei testi sacri ha saputo mettere insieme scienza e fede risolvendo a suo modo un problema che fino ad oggi coinvolge tutta la filosofia cristiana. Al suo tempo gli ebrei recanatesi erano soprattutto prestatori di denaro al Comune e mercanti di prodotti provenienti dall'altra sponda dell' Adriatico e dall'Umbria e dalla Toscana. Quella recanatese era la più importante comunità marchigiana dopo quelle di Pesaro, Fano e Ancona che avevano il vantaggio dell'affaccio sul mare. I rapporti con i cristiani regolati dal patto di Omar del IX secolo consentirono loro sufficienti libertà per prosperare, avere una sinagoga e un cimitero di cui sono rimaste tracce fino al tempo di Leopardi perché Monaldo fa allusione ad una lapide sulla sua presunta tomba.
   Giacomo parlava correttamente l'ebraico e quando degli studiosi ebrei anconetani vennero al palazzo per consultare testi nella biblioteca, si stupirono della scioltezza superiore alla loro con cui il giovanissimo studente lo sapeva parlare. Ma torniamo a Tel Aviv dove in questi giorni si festeggia la rielezione di un capo al quale andrebbe augurato un maggior senso di tolleranza e di apertura nei confronti dei concittadini arabi. Se Menahem Recanati è conosciuto anche da lui saprà come i principi fondamentali della sua cabala fossero la coerenza e l'integrazione delle varie parti. Di lui è anche molto noto il Libro delle preghiere che presto, tradotto da Giancarlo Sonnino, professore anconetano, sarà dato alle stampe (edizioni Il Prato) anche in Italia dopo anni di ricerca di un editore disposto a farlo. Chi a Recanati se ne sarebbe potuto occupare, dopo che Foschi ne aveva affidata la traduzione proprio a Sonnino, il Comune o il Centro studi non hanno risorse da impiegare in questa pubblicazione. Interessanti le informazioni che mi sono state date da Sonnino circa l'esistenza di manoscritti di Menahem a Gerusalemme che dovrebbero essere un prezioso oggetto di studio. Chissà se dopo la pubblicazione del Libro delle preghiere, nel nome di Menahem di salda fede ebraica ma di grande apertura mentale, non si possa fare un convegno utile a conoscere meglio quello che succede oggi nei rapporti tra religioni.

(Cronache Maceratesi, 22 marzo 2015)


Israele muove l’esercito vicino a Gaza

Esercitazione a sorpresa nel Neghev

Le forze armate israeliane hanno iniziato una esercitazione a sorpresa nelle aree del Neghev a ridosso della striscia di Gaza. Lo ha reso noto un portavoce militare. Le manovre - che si concluderanno in nottata - impegnano forze di terra e l'aviazione. Gli abitanti della zona sono stati informati preventivamente che nel corso della giornata sentiranno gli echi di esplosioni.

(TGCOM24, 22 marzo 2015)


L'Halakhah e la sicurezza

di Rachel Silvera

 
Divampato nella notte di venerdì, in pieno Shabbat, il drammatico incendio che ha colpito una famiglia ortodossa di Brooklyn strappando alla vita sette giovani in età compresa dai 5 ai 16 anni è stato causato da uno strumento frequentamente utilizzato per chi osserva il dovere di non tragredire le proibizioni del sabato: la plata, la piastra sulla quale si riscalda il cibo cucinato precedentemente, un mezzo utile per mangiare un piatto bollente senza dover trasgredire la norma di accendere il fuoco.
   I tragici fatti newyorkesi portano così all'attenzione il tema della salvaguardia della vita umana, uno dei fondamenti dell'ebraismo. Anche gli ebrei più attenti alle leggi religiose si pongono l'interrogativo rispetto al fatto che ognuno dei diversi e complessi dettami dell'Halakhah, l'insieme delle normative che si fondano sulle 613 mitzvot (i doveri di un ebreo) e leggi talmudiche, debba essere rivalutato di fronte alla necessità di tutelare la vita umana.
Ma come prevedere che un oggetto del genere possa trasformarsi in uno strumento tanto pericoloso?
Uno studio israeliano ha rivelato ad esempio che l'uso della plata e del bollitore che mantiene l'acqua calda durante lo Shabbat aumentano significativamente il rischio di pericolosi incidenti domestici.
   Poche ore dopo l'incendio, gli uomini del dipartimento dei vigli del fuoco sono passati casa per casa per consegnare un manuale sulla sicurezza e il fuoco dedicato agli ebrei osservanti.
   "Vogliamo poter permettere ai cittadini ebrei di osservare le norme del sabato, ma di farlo garantendo la loro sicurezza", ha spiegato il capo dei pompieri Daniel Nigro. Il piano di sicurezza, già pubblicato sul sito del governo dal 2010 stila delle norme da seguire che invitano ad essere molto attenti, sorvegliare la cucina, non lasciare vicino oggetti infiammabili e creare un'area per i bambini; vi è inoltre un capitolo particolare sulle candele lasciate accese durante Shabbat o la festività di Chanukkah.
   Il sindaco di New York Bill de Blasio ha raggiunto quel che rimaneva della casa dei Sassooon e ha dichiarato sconvolto: "Si può vedere letteralmente quello che significava questa casa per una famiglia così forte e numerosa. Ora ogni camera è vuota, carbonizzata, distrutta. Questa è una tragedia, di cui pochi esempi mi vengono alla mente: così difficile, così dolorosa".
   La madre Gayle e la figlia Siporah, le uniche che si sono salvate, si sono lanciate dalla finestra come ultimo gesto disperato che restava da fare.
Il padre, che non era a casa perché partecipava ad una conferenza rabbinica, ha appreso dell'accaduto molte ore dopo. Secondo quanto ricostruito dalle autorità, per diverso tempo il fuoco si è espanso in cucina senza che nessuno se ne accorgesse, solo quando ha raggiunto il piano dove la famiglia dormiva, le fiamme hanno diviso Gayle dai suoi figli. Una volta riuscita ad uscire di casa, Gayle, racconta un vicino, ha tentato di urlare con la voce flebile: "Salvate i miei bambini, i miei figli".
   Nonostante i tentativi di una squadra di 15 pompieri per i piccoli non c'è stato nulla da fare; Gayle e Sipporah invece sono adesso ricoverate entrambe in ospedale in gravi condizioni.
   Tra i commenti, da segnalare un intervento del rabbino Bernhard Rosenberg: "In momenti come questi - le sue parole - tutta l'umanità si riunisce di fronte a questa tragedia. In quanto ebrei, tutti abbiamo delle differenze ma dubito che ogni ebreo di fronte a questa notizia non sia in lacrime. Proprio questa unità è da preservare. So che alcuni si stanno chiedendo perché sia accaduto, perché D. lo abbia permesso e se forse non sarebbe accaduto se non fossero stati religiosi. Non ci sono risposte, dobbiamo solo conservare la nostra fede e andare avanti. Solo D. ha la risposta".

(moked, 22 marzo 2015)


Perché i jihadisti non tollerano la democrazia araba in Tunisia (e in Marocco)

di Carlo Panella

ROMA - Marocco e Tunisia sono gli unici due paesi arabi in cui la lotta, durissima, contro il terrorismo jihadista è condotta da governi e parlamenti democratici. Il governo marocchino si è consolidato in una democrazia nascente, ma robusta, mentre il governo tunisino fa i primi passi sulla strada della democrazia rappresentativa, dopo che la forte presenza di forze laiche ha neutralizzato la spinta eversiva islamista dei Fratelli musulmani di Ennahda. Come si sa, la Tunisia è l'unico paese in cui una primavera araba - che là è nata - non ha avuto sbocchi drammatici (Siria, Libia, Yemen) o autoritari (Egitto), ma si è incanalata in una dinamica democratica. Il Marocco, invece, e non a caso, è l'unico paese arabo immune alle "primavere", un record assoluto, che ha una ragione interessante: la rappresentanza politica e sociale ha funzionato e ha incanalato le spinte ribelli e riformatrici nei canali di istituzioni operative.
  Indagare oggi su questa positiva anomalia dei due paesi arabi è non solo utile, ma indispensabile. Innanzitutto per appoggiare i due unici sistemi-paese arabi in grado di contrastare il terrorismo jihadista con la determinazione e l'efficacia strategica che solo le democrazie garantiscono. Ma anche per uscire dalle sterili secche del dibattito su "islam e democrazia", evitando la Scilla dei negazionisti alla Magdi Allam e l'ancor più pericolosa Cariddi del politically correct che ne attesta la compatibilità a prescindere, per volontarismo astratto.
  Sul piano politico, i due paesi hanno oggi un assetto democratico perché dagli anni Cinquanta sono stati gli unici che - invisi alla sinistra comunista e terzomondista europea, che li considerava "lacchè dell'imperialismo" - hanno combattuto il contagio nasseriano e panarabista. Rifiuto militante, sì che Habib Bourguiba e il re del Marocco Muhammed V, d'intesa, tentarono in tutti i modi di contrastare l'ascesa sanguinaria del nasseriano Fnl algerino, favorendo l'opposizione anticoloniale moderata del Movimento nazionale algerino di Ahmed Messali e di Ferat Abbas, purtroppo eliminati manu militari dal Fnl con non meno di 12 mila morti. Il rifiuto del nasserismo era a tutto campo, a partire dallo strategico riconoscimento arabo dell'esistenza dello stato di Israele che con straordinario coraggio Bourguiba propose il 30 marzo 1965, confliggendo così con l'essenza del nasserismo: il jihad per l'eliminazione di Israele (il Marocco riconosce Israele dal 1994).
  Ma sia Bourguiba sia i re (sultani) marocchini hanno consolidato le fondamenta della democrazia su un più profondo terreno: sono andati controcorrente rispetto alla riforma shariatica tradizionalista delle Costituzioni arabe iniziata negli anni 70 (con abbandono dei codici ereditati dai protettorati europei) e hanno riformato in senso paritario i Codici di Famiglia. Precursore fu Bourguiba che nel 1956 affidò al grande e popolare giureconsulto musulmano Tahir al Haddad l'incarico di riformare il diritto di famiglia, abolendo le prescrizioni shariatiche tradizionali, ma sempre nel rispetto, modernizzante, del Fiqh, il diritto islamico. Nel 2004 il re del Marocco compì la stessa riforma, interna al contesto islamico, imponendo - quale discendente diretto del Profeta - a un Parlamento riottoso, la Moudawana, il nuovo diritto di famiglia. Eliminato così dal nucleo famigliare (in principio, la prassi si consolida con lentezza) il criterio di sopraffazione violenta (jihadista) del maschio sulla donna, parificati i diritti di uomo e donna, abolita la poligamia e il ripudio, in Tunisia e Marocco si sono consolidate società plasmate sul loro nucleo basilare - la famiglia - in grado di costruire rapporti di democrazia sostanziale, che non si esaurisce nel principio del voto universale e del check and balance istituzionale. Sommate a una alfabetizzazione di massa (carente negli altri paesi arabi, Egitto in testa), quelle riforme hanno plasmato gli unici paesi arabi con dinamiche riformatrici. Questa è la base reale delle due sole democrazie arabe che combattono il terrorismo jihadista.

(Il Foglio, 22 marzo 2015)


Rohani e Obama: un accordo ora è possibile

"L'accordo finale è vicino, è possibile". Parola del presidente iraniano, Hassan Rohani, che vede il traguardo all'orizzonte. Un ottimismo condiviso dal presidente americano Barack Obama.

ROMA 22 mar. - "L'accordo finale è vicino, è possibile". Parola del presidente iraniano, Hassan Rohani, che vede il traguardo all'orizzonte. Un ottimismo condiviso dal presidente americano Barack Obama che ammette che "l'Iran si è mosso e che esiste una possibilità anche se Teheran non ha ancora fatto tutte le concessioni necessarie per raggiungere un accordo finale sul suo programma nucleare". Sta all'Iran, in sostanza, fare uno sforzo per superare gli ultimi ostacoli. Ostacoli che ancora ci sono e che se non rimossi potrebbero impedire di chiudere la partita. Partita sulla quale, si è detto convinto Obama in un'intervista all'Huffington Post "la vittoria di Netanyahu non avrà un impatto tangibile".
   L'appuntamento per il rush finale sul nucleare di Teheran è per metà della prossima settimana, quando mancheranno meno di sette giorni dalla 'deadline' del 31 marzo fissata per siglare la bozza di intesa che dovrebbe portare ad un accordo definito entro il 30 giugno.
   E quella del 31 marzo è una scadenza che nelle ultime ore la Francia è tornata a criticare, definendola "una tattica sbagliata che rischia di diventare controproducente e pericolosa". Per Francois Hollande meglio sarebbe stato concentrarsi sull'accordo complessivo e definitivo da raggiungere entro giugno. E di questo ha parlato con Obama nell'ultima telefonata in cui sarebbero emerse alcune frizioni.
   Anche per questo oggi Kerry è volato a Londra per incontrare i suoi alleati europei per fare il punto della situazione e per rafforzare il clima di unità. Quell'unità che sarà fondamentale alla ripresa delle trattative con Teheran la prossima settimana in Svizzera, insieme ai negoziatori di Russia e Cina. Parigi in particolare farebbe resistenza all'ipotesi di alleggerire immediatamente le sanzioni verso l'Iran appena raggiunta un'intesa, come invece auspica Obama. Hollande vorrebbe inoltre un arco temporale più ampio per le restrizioni imposte al programma nucleare di Teheran. "La Francia - ha detto il ministro degli esteri Laurent Fabius - vuole un accordo, ma un accordo forte che garantisca realmente che l'Iran possa avere accesso al nucleare civile ma non alla bomba atomica".
   A Teheran comunque stavolta ci credono davvero, e le parole di Rohani ne sono una prova. Ma a parlare è stato anche l'ayatollah Khamenei, che in un comizio per celebrare il Nowruz (il capodanno persiano) ha messo in chiaro come il negoziato con gli Stati Uniti e con le altre potenze mondiali sia solo sul programma nucleare, nell'ambito del quale l'Iran "non firmerà alcun assegno in bianco. Non stiamo parlando con gli Usa delle questioni regionali - ha quindi aggiunto - dove abbiamo obiettivi completamente diversi e opposti rispetto all'America". Anche se un obiettivo comune, seppur inconfessabile sia a Washington che a Teheran, c'è ed è quello della lotta allo stato islamico.

(RaiNews24, 22 marzo 2015)


Ecco come Obama venderà Israele ai suoi nemici

Barack Hussein Obama non ha affatto digerito la rielezione di Netanyahu alla guida di Israele, lo fa capire chiaramente in una intervista al Huffington Post nella quale fa chiaramente intendere quale sarà la sua prossima strategia per "punire" Israele per questo grave affronto, cioè come venderà Israele ai suoi nemici.
Obama parte dicendo di aver preso sulla parola Netanyahu quando ha detto che sotto il suo mandato non ci sarà la nascita di uno Stato palestinese e che per questo "l'America valuterà le misure da adottare affinché la regione non cada nel caos". Obama non solo evita di dire che Netanyahu non ha detto che non accetterà un Stato palestinese ma che non lo accetterà alle attuali condizioni, cioè senza il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato Ebraico. Non è la stessa cosa, Obama lo sa benissimo, e il riconoscimento di Israele come Stato Ebraico deve essere una precondizione non negoziabile. Solo che il Presidente americano cerca la scusa buona per togliere a Israele il suo supporto alle Nazioni Unite e punta decisamente su questo "casus belli" per farlo....

(Right Reporters, 22 marzo 2015)


«Amos, Amos, perché mi deridi?» (9)

22 marzo 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco   


Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz   
se mi dilungo a riferire quello che ha preceduto il mio arrivo alla fede in Gesù, non è perché ci sia in questo qualcosa di particolarmente strano e unico, ma, al contrario, perché negli aspetti spiritualmente essenziali è simile a esperienze che migliaia di altre persone, di tutti i tipi e in tutti i tempi, hanno fatto nella loro vita. Il descriverlo dunque può servire a mettere in evidenza alcuni tratti fondamentali del modo in cui il Dio della Bibbia, che è l'unico vero Dio, si pone oggi in relazione con gli uomini.

- IMPORTANZA DEL TESTO BIBLICO
  Del mio percorso di avvicinamento a Dio vorrei mettere anzitutto in risalto un aspetto fondamentale che è stato la chiave che mi ha aperto la porta della fede: il valore insostituibile del testo biblico. Questo elemento non era parte del patrimonio religioso ricevuto con la mia educazione cattolica, ma è entrato a far parte della mia riflessione quando sono venuto in contatto con ambienti evangelici. So che oggi ci sono evangelici di tutti i tipi (come ci sono ebrei di tutti i tipi), ma uno degli elementi fondamentali (anche se non l'unico) per continuare a dirsi tali è il riconoscimento dell'ispirazione divina della Scrittura e del suo carattere di ultima, decisiva autorità. La possibilità di diverse interpretazioni resta aperta, perché al contrario di quello che ha insegnato per secoli la chiesa cattolica non esiste un'autorità umana a cui spetta l'ultima parola, ma di ogni interpretazione o applicazione che si voglia dare, ciascuno è tenuto a fornire un convincente riferimento al testo biblico e ad assumersene la responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini.
  Avendo capito quello che mi veniva presentato, e avendolo accettato come strumento della mia ricerca, il mio problema con Dio aveva ormai preso la forma di un confronto con il testo biblico.

- CONTINUAI A LEGGERE
   Continuai dunque a leggere, e per capire l'importanza che davo alla cosa, dico qualcosa sul particolare momento di vita in cui allora mi trovavo. Ero alla fine dell'ultimo anno di liceo e mi stava davanti lo spettro angosciante dell'esame di diploma degli anni cinquanta: prove scritte e orali in tutte le materie, senza nessuna distinzione fra importanti e meno importanti, senza nessuna pietà per i poveri studenti, il cui cammino di sofferenza cominciava i primi di giugno e terminava quasi alla fine di luglio. Ero indietro con la preparazione, quindi nel mese di maggio avevo preso a studiare molto più di quello che mi veniva richiesto a lezione. Nonostante ciò, avevo deciso di leggere regolarmente il Nuovo Testamento, e per poterlo fare senza modificare il mio programma di studio mi alzavo presto la mattina, e prima di andare a scuola, nel silenzio della casa che ancora dormiva, leggevo lo strano libro che mi avevano messo fra le mani.
  Avevo ormai capito che il Dio della Bibbia non si sente obbligato a sottoporsi a interrogatori umani e può anche decidere di non farsi trovare da chi avanza pretese inaccettabili. Mi adattai allora alla situazione, e decisi di chiedere cortesemente a Dio che, nel caso esistesse, trovasse il modo di farmelo sapere. Non avevo la minima idea di come questo sarebbe potuto accadere, e neppure ero nella trepida attesa di qualcosa di sensazionale da un momento all'altro. In fondo - pensavo - è un problema suo. Dopo aver fatto la mia semplice, diretta richiesta, feci quello che mi sembrava la cosa più naturale: continuai a leggere.
  Avvenne così che una mattina, quando ero già arrivato abbastanza avanti nella mia lettura del Nuovo Testamento, per motivi che non saprei dire decisi di tornare a leggere un passo che avevo già letto: i capitoli 5,6,7 del Vangelo di Matteo: il famoso Sermone sul Monte di Gesù. Torno a dire: l'avevo già letto, ma la mia prima lettura non aveva attratto il mio interesse, non vi avevo trovato niente di particolare.

- LA RISPOSTA
  Questa volta invece fu diverso. E' difficile, forse impossibile, rendere la diversità. Si può provare a fare un'analogia. E' come se nel passato tu avessi già visto un personaggio muoversi in un vecchio film muto e avessi cercato di capire quello che fa, quello che dice, ma con scarsi risultati. Dopo qualche tempo vai a rivedere il filmato sperando di capirne qualcosa di più e a un tratto, inaspettatamente, senti che il personaggio parla. Sei stupefatto, non solo perché odi una voce che prima non sentivi, ma anche per le parole che senti uscire da quella bocca. "Gesù, vedendo le folle, salì sul monte; e postosi a sedere, i suoi discepoli si accostarono a lui. Ed egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo..." Ecco, sì, è proprio come se Dio a un tratto avesse messo il sonoro: adesso sentivo la sua voce. Prima, no. E questo dipendeva da Lui, non da me. Andai avanti nella lettura e il suono di quella voce, il susseguirsi di quelle parole, mi faceva avvertire quasi fisicamente il peso di una grandezza infinita che le rendeva incomparabili con quelle di chiunque altro: avevano il peso della verità. Alla fine della lettura ero certo: queste non sono parole di un uomo. Di chi allora? La risposta non poteva che essere una sola: di Dio.
  Dalla lettura fatta in quel momento non sarei stato capace di trarre nessuna delle numerose applicazioni morali o dottrinali che si trovano scritte nei libri; una sola cosa si era impressa in modo ormai indelebile nella mia mente e nella mia coscienza: l'autorità della persona di Gesù. Un'autorità su tutti e su tutto, universale dunque, ma anche personale. Me ne accorsi proprio durante la lettura, quando fui colpito dalla risposta precisa che ricevetti alla richiesta che avevo fatta giorni prima. Mentre ascoltavo Gesù parlare, sempre più avvinto da quel discorso che pareva farsi sempre più incalzante, quasi alla fine del sermone fui come folgorato da parole che sentii rivolte personalmente a me: "Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia". Era la risposta alla mia richiesta: Dio si era rivelato a me. Non avevo più dubbi, era impossibile dubitare: certezza al cento per cento.

- UNA VERITÀ D'AMORE
  Avevo ormai la piena certezza della verità, ma non di una verità astratta, teoretica, perché fin dall'inizio avvertii che è una verità d'amore. Il discorso di Gesù infatti continua così: "Qual è l'uomo fra voi, il quale, se il figlio gli chiede un pane gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente? Se dunque voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!" Gli avevo chiesto una cosa buona, Dio me l'aveva data. Che cosa ci può essere infatti di più buono di un Dio onnipotente che ti ama?
  Un'esperienza del tutto personale - penserà qualcuno - che in ogni caso non obbliga altri a credere alle stesse cose e nello stesso modo. E' assolutamente vero: era quello che pensavo anch'io a quel tempo e continuo a pensare ancora oggi. Ed è conforme al dato biblico: nessuno oggi può, né deve, imporre la fede con la forza, né fisica, né morale. Quello che Dio vuole dai suoi discepoli è che siano testimoni. Di che cosa? Della risurrezione di Gesù. "Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamo testimoni" (Atti 2:32). "Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù" (Atti 4:33).

- TESTIMONI DI GESÙ
  
I primi testimoni di Gesù sono i testimoni oculari: coloro che hanno incontrato Gesù dopo la sua risurrezione dai morti e prima che fosse assunto in cielo. Sono secondi testimoni di Gesù tutti coloro che lo hanno incontrato nella sua Parola, riportata nel testo scritto e sostenuta dallo Spirito Santo.
  La fede cristiana è in primo luogo ed essenzialmente fede in Gesù risuscitato dai morti. Chi vuole porsi contro questa fede non ha bisogno di fare lunghi discorsi storici, politici, sociologici, teologici; è sufficiente che dica: la risurrezione di Gesù non è mai avvenuta, quindi il credervi è una sciocchezza. Chi sostiene questo dovrebbe essere poi tanto onesto e coerente da aggiungere che è una sciocchezza anche il cercare di difendere la figura di Gesù pur dicendo che non è risuscitato dai morti. Un sano modo di pensare deve portare a dire che se Gesù non è veramente risuscitato, allora quella persona è un impostore o un pazzo mitomane. Non c'è alternativa. “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione, e vana pure è la vostra fede” (1 Corinzi 15:14).
  Con il racconto di alcuni fatti della mia vita ho voluto soltanto "rendere testimonianza di Gesù", secondo l'indicazione biblica (Apocalisse 1:9, 12:17, 19:10), cioè dichiarare che Gesù è risuscitato dai morti, portando come testimonianza il racconto del mio incontro con Lui. Questo non ha niente di eccezionale, perché dirsi cristiani significa innanzi tutto essere testimoni, per esperienza personale, di Gesù risuscitato. Chi pensa di non poter fare questo, sarebbe bene che evitasse di dirsi cristiano.

- UN DIO CHE PERDONA
  Torniamo allora al tuo romanzo e diciamo qualcosa sul titolo che ho dato alle mie lettere di commento. Come sono certo che Gesù ha udito la mia preghiera: "O Dio, se esisti, rivelati a me", così sono certo che Gesù ha udito le parole che tu gli fai dire sulla croce: "mamma, mamma". Se a Saulo di Tarso Gesù risuscitato ha chiesto con forza e autorità: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?", potrebbe un giorno dire a te: "Amos, Amos, perché mi deridi?" Gesù però non ha fulminato Saulo; e non ha neanche fulminato te; né oggi vuole farlo. Certamente, anzi, come ha fatto con Saulo, vorrebbe fermarti nel tuo cammino sulla via della stoltezza, perché in questo tempo e fino al momento del suo ritorno in gloria Gesù ha il compito di perdonare, non di condannare. E se sulla croce ha detto: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23:34), oggi potrebbe dire: "Padre, perdona Amos, perché non sa quello che dice".
  Questo mi dà lo spunto per aggiungere un altro tassello al racconto della mia conversione. La prima cosa che ho riconosciuto nel Gesù presentato nei Vangeli è la sua divina autorità: di questo avevo assolutamente bisogno per andare avanti nel mio cammino di fede, perché a nessuna persona o chiesa o organizzazione religiosa ero disposto a concedere piena fiducia a questo riguardo. Subito dopo ho capito che Gesù è un'autorità d'amore, e me ne sono sentito attratto. Ho desiderato dunque conoscerlo sempre meglio, e ho capito che questo era possibile soltanto continuando a camminare sulla via per la quale l'avevo incontrato: nella Sacra Scrittura, che ho quasi subito accettato come lo strumento della sua Parola. Non sono quindi ritornato nella mia "casa" d'origine, la chiesa cattolica, ma ho cercato altri fratelli in fede che avessero lo stesso tipo di rapporto con Dio e con la sua Parola.

- GIUSTIFICATI PER FEDE
  Ripresi a leggere, ma adesso tutto era diverso, tutto aveva un'altra naturalezza, tutto era diventato più chiaro; anche quando non riuscivo a capire qualcosa, l'incomprensione era uno stimolo all'approfondimento, non un intoppo che bloccava. Un'esperienza di questo tipo fecero all'inizio anche i discepoli, quando con loro sorpresa incontrarono Gesù risuscitato: "Allora [Gesù] aprì loro la mente per intendere le Scritture e disse loro: «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni»" (Luca 24:45-49).
  Andando avanti nella lettura, consapevole adesso dell'autorità che quelle parole avevano su di me, feci la "scoperta" di una cosa che in qualche modo già sapevo, ma a cui come tutti non avevo dato molto peso: scoprii di essere un peccatore. Nessuno pensi al riconoscimento di qualche orrendo crimine fino ad allora tenuto nascosto agli uomini; no, ero quel che si dice "un bravo ragazzo", secondo gli usuali standard. Che però non sono quelli di Dio. I suoi standard, li trovai nella sua Parola: è in essa che si trova infatti, oltre a una diagnosi spietata della malattia spirituale di cui ogni uomo soffre, il decisivo rimedio: la morte espiatoria di Gesù sulla croce. "Noi crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Romani 4:25-25).
  Accettai la diagnosi del mio male e il rimedio che mi era offerto.
  E oggi, a tanti anni di distanza dai fatti che qui ho narrato, posso dire di continuare ad essere fra coloro che dicono con convinzione: "Giustificati per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio" (Romani 5:1-2).
    Il mio desiderio sincero è che anche tu, un giorno, possa fare tue queste parole. Senza per questo cessare di essere ebreo.
  Shalom,
  Marcello



(Notizie su Israele, 22 marzo 2015)


Egitto: l'esercito distrugge 194 tunnel verso Gaza

di Silvia Di Cesare

L'esercito egiziano ha affermato di aver distrutto 194 tunnel sotterranei che collegavano l'Egitto con la Striscia di Gaza, nel nord del Sinai.
Il portavoce dell'esercito Mohammed Samir ha dichiarato che "le guardie di frontiera sono riuscite a trovare e distruggere 194 tunnel dal 1o febbraio al 19 marzo".
Dall'ottobre scorso le autorità egiziane stanno costruendo una "zona cuscinetto" al confine tra Egitto e Striscia di Gaza, in particolare nella città di Rafah. Questa dovrebbe servire a combattere il terrorismo, secondo il governo egiziano.
I tunnel sono stati costruiti per il trasporto di merci tra la Striscia di Gaza, sotto embargo dal 2006, e l'Egitto. Utilizzati per il trasporto di alimenti, medicinali, materiale edile e anche per il contrabbando di armi.

(Arabpress, 21 marzo 2015)


Israele, quarto governo Nethanyau: vent'anni di destra democraticamente al potere

di Claudia De Martino*

Dopo lo shock elettorale dello scorso 17 marzo -in cui il Likud, il partito di destra al potere, ha stravinto le elezioni con uno scarto di ben 6 seggi sul partito rivale (l'Unione Sionista)-, il risultato che è uscito dalle urne è quella di una riconferma di Nethanyau al governo per il suo quarto mandato. Ciò significa che la destra si riconferma stabilmente alla guida del Paese da quasi vent'anni, seppure con una breve pausa -il biennio 1999-2001- di guida laburista (Ehud Barak).
  Il primo dato che emerge da queste elezioni alla 20a Knesset è che la stragrande maggioranza degli analisti e i giornali, israeliani e non, si sono sbagliati: appoggiandosi su sondaggi stilati dai principali canali televisivi (Channel 2 and Channel 10 della TV israeliana, ma anche i principali quotidiani nazionali come Ha'aretz, IsraelHayom, Yediot Ahronot), i commentatori avevano previsto una lieve vittoria dell'Unione Sionista che non solo non si è avverata, ma è stata violentemente contraddetta dai fatti. Camil Fuchs, statistico dell'Università di Tel Aviv, che ha curato personalmente molti sondaggi per i canali israeliani, ha ammesso che vi sono molte ragioni per cui le previsioni hanno sbagliato con scarti così ampi: innanzitutto, la resistenza di molti cittadini non politicizzati a farsi intervistare; poi la tendenza ad affidarsi a internet e a sondaggi virtuali, senza entrare in contatto diretto con gli intervistati ed, infine, l'impossibilità materiale dei sondaggi di tenere conto dell'impatto di fattori nuovi ed improvvisi, come il rilancio della campagna elettorale personale attuato dal Premier Nethanyau ad una settimana dalle elezioni.
  La campagna, che è risultata vincente e ha spronato molti israeliani tradizionalmente lontani dalle urne ad andare a votare, si è giocata su alcuni punti centrali: la paura dell'affluenza elettorale degli arabi, il discredito della "Sinistra" che sarebbe potuta tornare al potere attentando alla "sicurezza", la denuncia dei "finanziamenti esteri" ricevuti dall'Unione Sionista, dai gruppi di pressione ad essa vicini (V-15) e da varie Ong impegnate a difesa dei diritti umani; la capacità del premier di sfruttare a proprio favore la tensione con l'amministrazione Obama, ritraendo Israele (e sé stesso) come un Paese incompreso dalla comunità internazionale e perfino dai propri alleati (gli Usa). Una campagna elettorale fondata sulla "paura": degli altri -intesi come "arabi, la Sinistra, gli stranieri e le influenze estere"-, ma non strettamente legata alla minaccia nucleare iraniana, che appare solo come un pezzo del puzzle e non come la chiave di volta dei problemi di sicurezza israeliani.
  Lo affermano con candore alcuni giovani attivisti del Likud, le cui opinioni sono state raccolte da Ha'aretz: "Herzog avrebbe potuto entrare in una coalizione con i partiti arabi e dividere il Paese un'altra volta (dopo il disimpegno unilaterale da Gaza) e si è già visto che questo non funziona e che ogni volta che Israele cede territorio, quel territorio diventa una base per il terrorismo." Molti altri, giovani e non- ma il Likud ha trionfato soprattutto tra i giovani ed in particolare tra i soldati di leva e quelli che sono stati appena smobilitati- si considerano realisti e ripetono che "Israele non è la Svizzera" e che la sicurezza deve sempre rimanere al primo posto. Altri, elettori di mezza età, sostengono di essere contrari a potenziali tagli alla Difesa e di ritenere il Likud l'unico partito che veramente unisca l'elettorato e il Paese, quando gli altri partiti lo dividono lungo fratture ideologiche, religiose od etniche. Tutti motivi sufficienti per votare ancora Nethanyau, nonostante la crisi economica e il malcontento sociale crescenti, legati ad un drastico aumento delle disuguaglianze che non accenna ad arrestarsi.
  La lezione, per molti analisti, giornalisti e commentatori israeliani e non, è che il "Paese normale" che Herzog e Livni avevano auspicato in campagna elettorale non esiste ancora. Al contrario, l'Operazione militare a Gaza ha notevolmente rafforzato il blocco elettorale di destra e contribuito ad ostracizzare i pacifisti e coloro che ancora si battono per una soluzione equa del conflitto israelo-palestinese (PeaceNow, Hadash, Meretz ed una parte dell'Unione Sionista, già Partito laburista), bollati come "elementi antipatriottici", "radicali" e, ancora peggio, "intellettuali". Non a caso, la vittoria del Likud può essere letta in molti modi e secondo varie angolature, ma anche con una forte declinazione territoriale: Tel Aviv (dove l'Unione Sionista è risultata in testa con il 34% contro il 18% del Likud) ha perso contro Gerusalemme, il Nord e il Sud del Paese (che presentano un risultato invertito: con il Likud al 23,3% e l'Unione Sionista al 18%). Ma come avrebbe potuto essere altrimenti? La "Città Bianca" e i suoi opinion leaders si rivelano estremamente influenti nei dibattiti televisivi e culturali e altrettanto poco rappresentativi della maggioranza dell'opinione pubblica israeliana, a cui spesso non viene data voce nei talk show e nelle conferenze internazionali, ma che pure è andata in massa a votare alle scorse elezioni, provando di essere il vero ago della bilancia.
  Vi erano segnali per cogliere la conferma di un'ulteriore"virata a destra" del Paese? In realtà, non si è compiuta nessuna "virata a destra". L'elettorato del Paese è rimasto fermamente ancorato ai valori tradizionali della Destra, che essa assumesse i contorni del razionalismo illuminato ed impegnato sulle questioni sociali di "Tutti noi" di Moshe Kahlon, del nazionalismo-religioso della "Casa ebraica" di NaftaliBennet, del nazionalismo ultraortodosso del partito sefardita "Shas" di AryehDeri o di quello più laico del "Nostro Israele" di Avigdor Lieberman (che insieme costituiscono un blocco di 31 voti). Tutti insieme, i Partiti di Destra costituiscono la maggioranza netta del futuro Parlamento: 61 voti, in presenza di un'opposizione frammentata tra sionisti (40 seggi, composti da Unione Sionista, Meretz e YeshAtid) e non-sionisti (Ebraismo della Torah Unito e Lista Araba Unita, per un totale di 19 seggi).
  Oltre alle letture politologiche delle elezioni, però, è possibile trarre alcune lezioni antropologiche: aveva ragione il quotidiano di estrema destra ArutzSheva quando, appena una settimana fa, si domandava retoricamente come la nuova generazione di ventenni cresciuta sotto i razzi e l'esperienza diretta della più grande stagione terroristica che abbia sconvolto il Paese (la Seconda Intifada) potesse, nel momento del bisogno, non unirsi intorno al premier Nethanayu. ArutzSheva aveva ragione, e questo è esattamente quello che si è verificato: le maggiori forze sociali che compongono il Paese -i soldati, l'esercito, i coloni, i nazionalisti-religiosi, i sefarditi (o mizrahim), la classe media, gli immigrati russi, i giovani e perfino i nuovi immigrati etiopi- hanno scelto a maggioranza Nethanyau a rappresentarli, ancora una volta in nome della "sicurezza", ma anche di un'immagine ideale di Israele come: uno Stato forte, uno Stato degli ebrei e per gli ebrei, una società unita, fondata sulla religione, pronta a lottare per i propri valori e a trionfare sui nemici interni ed esterni. E' questo il significato più profondo dell'elezione di Nethanyau.
  E forse ad averlo compreso per primi sono proprio i palestinesi, che nello sconforto di Abu Mazen - che aveva cercato disperatamente di evitare si verificassero attentati nel periodo pre-elettorale, che potessero arrecare ulteriori vantaggio a Nethanyau- sanno che con questa vittoria il simulacro dei negoziati è stato distrutto per sempre e che da oggi l'ANP si trova ad affrontare una strada tutta in salita, in bilico tra il collasso per motivi politici ed economici e il tramonto della propria causa (uno Stato palestinese). Anche gli arabo-israeliani che, dando prova di unità, sono riusciti ad emergere come la vera novità e il terzo partito di queste elezioni (13 seggi), sono condannati inesorabilmente ad un'opposizione sterile e senza possibilità di convergenze ad una maggioranza di governo che li considera quasi alla stregua dei "nemici esterni", Hamas, Hezbollah e Ansar Beit al-Maqdis (Egitto).
  Difficile leggere, quindi, nei risultati di queste elezioni alcuna buona notizia per Israele, il Medio Oriente e la comunità internazionale nel suo complesso, ma altrettanto difficile sostenere che non si sia trattato di una vittoria democratica e rappresentativa dell'anima e del sentire di un Paese in lotta, che si sente sempre più lontano da Stati Uniti ed Europa e sempre più impegnato in una battaglia esistenzialista quotidiana fatta di muri, attentati, colonie, minacce nucleari, antisemitismo arabo e antisemitismo europeo.


* Dottore di ricerca in storia del Mediterraneo presso l'Università Ca' Foscari di Venezia e ricercatrice UNIMED

(il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2015)


Quando Sanremo stipendiava un medico ebreo

Il medico era molto preparato ed era anche a conoscenza di arti erboristiche e coltivava la scienza cabalistica secondo la scuola di Narbonne nella vicina Provenza.

di Pierluigi Casalino

Nel XV secolo il Senato di Sanremo pagava un regolare stipendio ad un medico ebreo, forse di origine sefardita (spagnola) se pur qualche fonte lo facesse appartenere alla famiglia Viterbo, famiglia sterminata dai nazisti durante l'ultima guerra e proprietaria di un splendida villa divenuta per un certo periodo sede di un ufficio di polizia.
L'ebreo aveva a suo servizio un servo 'turco barbaresco', che in realtà era un arabo o 'moro' maghrebino, date le confusioni ricorrenti che si facevano all'epoca tra le genti della mezzaluna. Il medico era molto preparato ed era anche a conoscenza di arti erboristiche e coltivava la scienza cabalistica secondo la scuola di Narbonne nella vicina Provenza. La nomea degli ebrei non era buona anche in Liguria, ma a Sanremo la cultura cosmopolita e le tradizioni tolleranti consentivano il permanere di condizioni di civile convivenza non comuni. Il medico si chiamava Abraham ed era di formazione liberale; svolgeva un incarico di tutela della pubblica igiene nella città matuziana e dintorni e certificava inoltre la possibilità per gli ebrei residenti di consumare cibi e bevande in conformità al rito ebraico. In particolare il vino per il locale rabbino arrivava tramite una carrozza dalla città francese dove il vino era di produzione ebraica in ossequio ad una decisione di quel collegio rabbinico. Si dice che la tomba di questo medico si trovi ancora da queste parti, ma non si hanno elementi sufficienti per individuarla tra quelle destinate ad accogliere i resti di ebrei nella sezione ebraica del cimitero della Foce.

(SanremoNews, 21 marzo 2015)


Expo, Arena e sinagoga. Verona si scopre a rischio

Previsti anche grossi flussi di turisti. Già pronto il piano della viabilità per le festività Pasquali.

La sinagoga di Verona, obiettivo ritenuto sensibile
Emergenza terrorismo e gestione dell'afflusso turistico durante le festività Pasquali con un occhio puntato già sull'Expo. Sono i due temi principali di cu si è discusso nel Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica che si è tenuto in prefettura.
Erano presenti, oltre al prefetto Perla Stancari, i vertici delle forze dell'ordine, dell'assessore comunale Antonio Lella, della polizia municipale, delle autostrade, dell'Anas, delle ferrovie e dell'aeroporto. Prima di tutto si è affrontato il nodo delle vacanze pasquali che porteranno in città migliaia di turisti da ogni parte del mondo. Dal punto di vista viabilistico, quindi, la città si prepara a un assalto di pullman, vetture e camper. Il piano studiato dal comitato prevede la gestine dei flussi di traffico, ma anche dei parcheggi con il ricorso a tabelle luminose di avviso e segnaletica dedicata. Il tutto in prospettiva di creare minori disagi possibili.
Ma si stanno iniziando a programmare i servizi anche sull'Expo che si terrà quest'anno e che coinvolgerà anche Verona. Da fonti organizzative dell'Expo si è, infatti, appreso che la nostra città sarà una delle mete più visitate. Già nelle prime cinque in Italia per numero di visitatori l'anno è già stata inserita da diversi tour operator che si occupano dell'Expo tra le tappe d'obbligo del viaggio in Italia. In sostanza, molti propongono un pacchetto con tappa principale a Milano e altre due o tre tappe successive in città quali Verona, Venezia e Firenze.
Le proposte riguardano già diversi paesi orientali e asiatici. E gli addetti ai lavori sono già all'opera per monitorare questi flussi di viaggiatori e per capire come organizzare i loro spostamenti. È chiaro che l'evento porterà a Verona numerosi visitatori che si aggiungeranno a quelli che tradizionalmente arrivano durante tutto l'anno. Una mole enorme che imporrà un piano straordinario che ha già cominciato a prendere forma, ma che dovrà essere perfezionato nei prossimi mesi.
Parallelamente, forze dell'ordine e amministratori dovranno occuparsi di un altro problema non di poco conto: quello della sicurezza.
Ieri per esempio il Tg5 ha rilanciato l'ipotesi che tra gli obiettivi sensibili che potrebbero finire nel mirino dei terroristi jihadisti ci potrebbe essere anche l'Arena con la sua stagione lirica, in quanto è uno dei maggiori attrattori di turisti in Italia. Quello che i servizi e l'intelligence stanno cercando di chiarire in questi giorni, inftati, è se l'obiettivo di Tunisi era solo il Parlamento e quindi era di natura politica, o se invece i terroristi vogliono mettere in ginocchio l'economia turistica dell'Occidente, da una parte spargendo sangue e terrorizzando le popolazioni, dall'altra demolendo uno dei pilastri economici. Verona, tra le cinque città turistiche più importanti in Italia, è quella che ha il maggiore trend di crescita negli ultimi anni e già questo è un elemento che il sistema di sicurezza del Viminale va considerando. In secondo luogo in città c'è una sinagoga punto di riferimento della comunità ebraica, altro simbolo nel mirino dei terroristi. Infine, la nostra città ha anche un aeroporto dal quale partono, soprattutto nella stagione primavera-estate, voli per il Nord Africa, Egitto e Tel Aviv.
È ovvio quindi che il livello di sicurezza sia massimo, anche se poco propagandato per non creare allarme, ma è un dato di fatto che negli ultimi tempi sono state potenziate le telecamere in città, sia nei punti ritenuti sensibili che in quelli più affollati. Tra l'Expo e poi da dicembre l'apertura dell'Anno santo, gli eventi di richiamo non mancheranno in Italia.

(L'Arena, 21 marzo 2015)


Israele, dopo la magia di Bibi

Lettera a Beppe Severgnini

Cari Italians, le elezioni in Israele hanno sorpreso un po' tutti. Sinceramente non pensavo ad un consolidamento cosi forte da parte del Likud, anzi. Evidentemente Bibi (Netanyahu), come lo chiamano qui, ha fatto davvero una grande magia. Cosa ci si aspetta per il futuro? Difficile a dirsi, e non credo andremo molto lontani da quello che e' il recente passato purtroppo. Israele e' indubbiamente uno Stato che ha bisogno di sicurezza, e su questo non ci piove, ma come tutti gli altri, ha necessita' di una maggiore attenzione per quanto accade internamente in termini di costo della vita, economia, e tanto altro. In questi ultimi anni, nonostante manifestazioni molto forti (ricordiamoci le tende in giro per la citta' per Tel Aviv per dimostrare contro il costo degli affitti), poco e' stato fatto. Aldila' di questo, rimango sorpeso dal terzo partito che ha guadagnato piu' seggi, i partiti arabi. Questo mi fa riflettere a proposito di quando Israele viene definito "Stato di Apartheid". Trovatemi uno Stato dove succede l'opposto, o quantomeno ci sono cittadini di diverse religioni che possono concorrere alla vita politica. Come vedreste cittadini arabi italiani se fondassero un partito e si candidassero alle prossime elezioni per sedersi in Parlamento? Ne avrebbero il diritto come ce l'hanno qui gli arabi israeliani. Si puo' dire cio' che si vuole di Israele, ma la realta' e' che rimaniamo l'unica vera democrazia del Medio Oriente. Shalom.
Gabriele Bauer

(Corriere della Sera - blog, 21 marzo 2015)


Nigeria - Schiave uccise: così non sposano i cristiani

di Fiamma Nirenstein

Non usiamo più la parola orrore, ormai è pura retorica. Bisognerebbe ormai usare le parole azione, salvezza, muoviamoci...
Sono forse una settantina le donne che in Nigeria sono state massacrate nella città di Abubakar Shekau dai terroristi di Boko Aram in una logica passesca e nello stesso tempo congeniale alla visione jihadista. Le donne avevano sposato, costrette a forza, i guerrieri del califfato. Quando sono dovuti partire in missione, hanno immaginato che un eventuale loro «martirio» avrebbe lasciato le mogli libere di unirsi a dei cristiani... e hanno preferito ammazzarle tutte. Una di loro, scampata al massacro, Salma Mahmud ha raccontato che mentre le macellavano i mariti promettevano loro che si sarebbero ritrovati in paradiso. Questa è solo una delle inimmaginabili sofferenze cui le donne sono costrette a sottoporsi in gran parte del mondo. Ma le istituzioni se ne infischiano. Ridiamo per non piangere: chi è nel mondo il peggior violatore dei diritti delle donne? No, non è l'islam estremo. È Israele, secondo la più importante delle organizzazioni dell'Onu per i diritti delle donne il Csw. L'incontro annuale ha condannato solo Israele fra tutti i suoi 193 membri. Un esempio che dà la misura delle balle catastrofiche che si dicono su Israele. Scrive Anne Bayefsky sul suo famoso blog Eye on the U n che il Csw non si occupa della Siria dove il governo usa la violenza e le torture sessuali contro le donne come armi di guerra, e dove 240mila civili sono stati uccisi mentre donne e bambini sono profughi; non l'Arabia Saudita dove il burka è obbligatorio, l'esclusione dalla vita pubblica totale, le donne valgono la metà dell'uomo in tribunale; non in Sudan dove non c'è età minima per il sesso consensuale, o Gaza e gli altri Paesi arabi dove le bambine vanno in sposa a dei pedofili che si dicono mariti; non l'Iran dove le donne «adultere» vengono lapidate... La risoluzione ripete che «l'occupazione rimane il maggior ostacolo per le donne palestinesi nei confronti del loro avanzamento». Ah sì? Gli israeliani ce l'hanno con le donne palestinesi? E non saranno per caso i costumi arretrati che consentono a tutto il Medio Oriente di trattare le donne come cittadini di seconda classe? In Israele le donne costituiscono il 57,8% del personale accademico, il 32,5 dei manager, il 35,5 dell'high tech? Con Golda Meir è stato il terzo Paese ad avere un primo ministro donna e sono innumerevoli le minsitre e le parlamentari. Le studentesse sono il 57,3%, e quante ragazze arabe si vedono, fiere e forti, fra di loro! Le palestinesi soffrono perché la loro condizione sociale e culturale è soggetta ai pregiudizi tipici della loro gente, non a causa di Israele, e l'ossessione il Consiglio per i Diritti Umani, l'Hcr, di cui il Csw fa parte è solo una vergogna. Perfavore, Csw, non difendermi mai come donna.

(il Giornale, 21 marzo 2015)


Il vero sconfitto in Israele è Obama

di Luca Rampazzo

 
MILANO - Obama, in fatto di complimenti ai politici, è di bocca buona. Saluta e si complimenta con tutti. Tranne che con Nethanyau. Il che non è affatto una coincidenza. Nelle ultime elezioni a Tel Aviv sono andate in scena due rese dei conti separate, ma ugualmente sanguinose. Da una parte il Likud ha sfidato il blocco Sionista, è partito svantaggiato ed ha ribaltato sondaggi ed exit poll. Ha dimostrato una fierezza rara. Almeno qui, dalle parti della Terra Santa è tutta un'altra storia. In ogni caso, questo scontro si è basato sulle priorità del paese. Ha vinto l'idea che non ci possa essere libertà, non ci possa essere progresso e non ci possa essere prosperità con il nemico alle porte. Un nemico chiamato Iran. La tesi del centro sinistre era di negare che il nemico facesse così paura. E non era un tesi Israeliana. Nessun Israeliano lo avrebbe mai potuto, in coscienza, affermare. E Bibi non ha nemmeno perso tempo a replicare alla Livni od a Herzog sul tema. Ha preso un aereo ed è arrivato a Washinghton per ricordare ai Democratici ed a Obama che loro possono anche accarezzare il leone Iraniano, ma solo perchè non ci devono vivere a fianco. In Campidoglio è stato un discorso vibrante, accolto dalla maggioranza Repubblicana con un caloroso applauso. Un discorso da comandante in capo. Un discorso da leader. Un discorso che Obama non potrebbe mai pronunciare.
   Nethanyau in Usa ha dato il via alla seconda battaglia. Quella tra Democratici e Repubblicani in vita delle presidenziali Usa. Israele è, ormai, uno degli Stati dell'Unione. E là i Democratici hanno perso nella maniera più netta. Non per strategie lungimiranti. Non per tattiche brillanti avversarie. Ma sul campo con meno appelli e vie di fuga: quello dei principi. Obama nel 2008 incarnava un Mondo stanco di fare la cosa giusta, che si illude che l'inazione sia la risposta al Male. Nethanyau nel 2015 incarna il Mondo che si riscuote dal torpore al suono delle bombe del nemico che decimano la tua popolazione, con le urla dei martiri che chiamano alla guerra e con gli occhi dilatati dei tuoi figli che ti chiedono di essere protetti dagli uomini in nero. Nel 2016 gli Usa hanno bisogno di un altro commander-in-chief, comandante in capo, come fu Bush jr e Bush senior prima di lui. Sarà il fratello? Chi lo sa, di certo la destra non è più minoranza. La Destra Usa, Bibbia e fucile, si è riscossa. Vedremo se saprà esprimere un candidato. Vedremo se questo candidato avrà la stessa fierezza dimostrata da Nethanyau. Se saprà domare iene e leoni.
   Di certo, peggio di Herzog e Livni, lo sconfitto oggi resta Obama. E con lui il Partito che vorrebbe vedere Hillary candidata. Non è più il tempo di melliflui compromessi. Di una diplomazia persa nella trama della propria superbia. Devono tornare a rullare i tamburi della guerra. Gli Israeliani lo sanno e si sono preparati. E gli Usa? Lo scopriremo a Novembre 2016.

(Milano Post, 21 marzo 2015)


La vuota retorica dello stato palestinese, il realismo d'Israele

Kissinger e l'impossibilità di "stati westfaliani" in terra islamica. Perché Netanyahu deve guardare a Egitto e Giordania

di Antonio Donno

Nel suo ultimo libro "World Order", Henry Kissinger ritiene che Israele, nel momento della sua nascita, potesse rappresentare uno stato di tipo westfaliano, cioè uno stato che, sull'esempio della pace di Westfalia, potesse rappresentare soltanto "un pratico adattamento alla realtà", all'interno di un sistema di stati mediorientali anch'essi inclini ad accettare la realtà regionale senza pretese. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto svolgere il ruolo di difensore di quest'ordine internazionale westfaliano. Ma il medio oriente non si è mai adattato a far parte di tale sistema, fondato sull'equilibrio delle forze. E questo a causa dell'islam. Kissinger: "Gli stati e le fazioni presenti in medio oriente consideravano (…) l'ordine internazionale da un'ottica interna alla sensibilità islamica". Ciò ha impedito un approccio alla realtà secondo i criteri di opportunità, ragionevolezza, concretezza, addirittura d'interesse nazionale. Perciò, secondo Kissinger, il dato dominante è sempre stato l'instabilità cronica della regione e la perdurante difficoltà di Israele di essere accettato in quest'ordine mediorientale. La situazione attuale è ancora più complicata. La freddezza nei rapporti tra Israele e Stati Uniti di Obama, il montare dell'antisemitismo in Europa, ma soprattutto la distruzione del sistema mediorientale degli stati arabi, pongono problemi vitali per Gerusalemme. Quale che possa essere il tipo di governo in Israele, ciò non potrà mai alterare una realtà bloccata intorno al pregiudizio islamico verso l'ebraismo e soprattutto la concezione dell'islam come visione del mondo superiore e inconciliabile con il resto dell'umanità.
  Israele deve elaborare una politica più attiva verso il contesto mediorientale. La vittoria di Netanyahu è stata netta e senza discussioni. Quasi un trionfo. L'elettorato ha scelto la sicurezza. Fino a qualche anno fa, sicurezza voleva dire contrastare i paesi arabi nemici e batterli. Ora il quadro è completamente mutato, il sistema statale arabo è per buona parte collassato e l'Iran sta divenendo il padrone della scena mediorientale. In fondo, il pericolo dello Stato islamico, per quanto grave, come si è visto di recente a Tunisi, non sembra avere la forza politica, diplomatica e militare rispetto al processo, neppure troppo graduale, di penetrazione di Teheran nel medio oriente, una penetrazione che tende, come nel caso di Hamas sunnita, a superare le tradizionali, feroci divisioni tra sunniti e sciiti. Un processo continuo grazie anche alla debolissima visione della realtà mediorientale da parte di Obama. Sia gli Stati Uniti sia l'Europa contano ormai poco o niente nella situazione mediorientale, avendo perso progressivamente le chiavi di lettura di una realtà che ormai sfugge loro per indifferenza, inettitudine, ipocrisia. Netanyahu deve riprendere una politica attiva verso quei paesi arabi con cui a suo tempo ha stipulato la pace e che hanno tutto l'interesse a riportare l'area in una condizione più accettabile. In realtà, nonostante l'obbligatoria retorica, Egitto e Giordania hanno veramente a cuore la nascita di uno stato palestinese? L'esempio di Gaza è istruttivo. Quando nel 2005 Sharon abbandonò Gaza, quale fu l'esito? Il radicamento in quella realtà dei terroristi di Hamas che minacciano Israele. Perché l'abbandono della Cisgiordania da parte di Israele porterebbe alla coesistenza pacifica tra i due stati e non, invece, a una nuova presa di potere da parte di entità terroristiche? A questo punto, la minaccia contro Israele coinvolgerebbe anche Giordania ed Egitto. Perciò è necessario che Netanyahu superi l'attuale isolamento di Israele nel suo contesto e proponga a Egitto e Giordania, che per vari motivi condividono interessi e pericoli di Gerusalemme, un'esplicita alleanza politico-militare contro l'avanzata dell'Iran nell'area mediorientale.

(Il Foglio, 21 marzo 2015)


La Regione Toscana permetta a Suamy di curarsi in Israele: parte anche una petizione nei bar

Montopoli Valdarno - Appello dei genitori di una ragazzina con una grave malformazione cerebrale: "Il servizio sanitario toscano riconosca le terapie del centro israeliano".

di Giacomo Pelfer

Giorgio e Cristina, i genitori della piccola Suamy affetta da una rara malattia
MONTOPOLI VALDARNO - Il primo viaggio della speranza risale al 2012. Da allora ne sono seguiti altri tre, sempre in Israele, grazie alla solidarietà incredibile che la piccola Suamy è riuscita a mettere in moto. Una mobilitazione generale che ha permesso di sperimentare le cure alternative di un centro specializzato nei pressi di Tel Aviv. Oggi, dopo tre anni dall'inizio di quell'avventura, la vita di Suamy, 11 anni, appare decisamente migliorata: le crisi epilettiche che un tempo si ripetevano anche 30 o 40 volte al giorno, limitandone le capacità di attenzione, si sono ormai ridotte stabilmente a poche unità. E il merito - ne sono convinti i genitori - è proprio di quella cura alternativa che in questi anni ha alimentato la speranza.
Una cura, però, non riconosciuta dal servizio sanitario regionale della Toscana. È per questo che papà Giorgio e mamma Cristina hanno deciso di tornare a chiedere ascolto alla Regione, affinché riconosca l'effetto benefico del trattamento accordando il rimborso delle spese fino all'80%, come avviene del resto anche in altre regioni italiane. «Perché vogliamo che la cura continui - dicono - ma la solidarietà della gente ha già fatto anche troppo. Per andare avanti abbiamo bisogno che la Regione ci sostenga». Per questo prenderà il via da domani una raccolta firme organizzata dal comitato "Il Sogno di Suamy", per portare la voce di un'intera comunità alle orecchie di chi, già nel 2012, decise di respingere la richiesta dei genitori.

LA STORIA - Rarissima la malattia con cui Suamy è costretta a convivere. I medici parlano di una malformazione celebrale che sarebbe alla base di ricorrenti crisi che la costringono a vivere su una sedia a rotelle, alimentandosi artificialmente e limitandone le capacità di apprendimento. Nel 2012, convinti dell'inadeguatezza dei trattamenti antiepilettici prescritti dal servizio sanitario, i genitori Giorgio Pistolesi e Cristina D'Agostino, di Capanne, decisero di tentare una strada alternativa: quella del Biocorrection Center di Tel Aviv, dove il professore russo Vitali Vassiliev cura casi come quelli di Suamy attraverso il controllo della dopamina. «L'idea - ricordano i genitori - fu quella di un ciclo fatto di tre viaggi per verificare l'efficacia della cura». Viaggi che dovrebbero ripetersi con cadenza semestrale e che ogni volta, oltre alle spese per le cure, richiedono almeno 10 giorni di permanenza in Israele. Un peso economico consistente per una famiglia che deve pensare anche ad altri due figli, e che si aggiunge alle sedute di fisioterapia che i genitori hanno deciso di accollarsi.

LA SITUAZIONE - Alla luce di risultati, tuttavia, con le crisi ridotte dalle oltre 30 di una volta alle appena 5-6 di adesso, Giorgio e Cristina si sono convinti della necessità di andare avanti. «A Pasqua dell'anno scorso abbiamo fatto il quarto viaggio - spiegano -. Poi, a causa di una frattura che ha costretto Suamy ad un lungo ricovero, nonché ai problemi legati alla guerra nella striscia di Gaza, siamo ancora in attesa di poter effettuare il prossimo viaggio».

IL BILANCIO - Nell'attesa di mettere assieme le risorse, il padre traccia un bilancio dell'incredibile corsa di solidarietà di questi anni. Una corsa sostenuta da associazioni, enti e liberi cittadini, attraverso manifestazioni, raccolte fondi e donazioni. «In tutto questo tempo il comitato ha raccolto circa 90mila euro, e ciascun viaggio è costato più o meno 20mila. Dobbiamo veramente ringraziare tutti quanti - afferma Pistolesi - ma siamo anche consapevoli di non poter continuare a fare affidamento solo sulla solidarietà. Per questo torniamo a chiedere aiuto alla Regione».

LA PETIZIONE - I genitori raccontano infatti di altri casi analoghi, tre in Veneto e uno nel Lazio, in cui il sevizio sanitario regionale ha riconosciuto il rimorso per le cure del Biocorrection Center. Da qui la petizione che prenderà il via domani. In tutti i bar e negozi del territorio montopolese saranno disponibili i moduli per sostenere la battaglia di Suamy verso una vita migliore e più serena.

(Il Tirreno, 21 marzo 2015)


Gaza, due cuccioli di leone come mascotte di un campo profughi

Venduti da uno zoo al collasso, vivono con quattro bambini

GAZA - Si fanno accarezzare e spupazzare dai bambini come se fossero dei gatti, e in risposta lanciano dei timidi ruggiti , forse anche per rivendicare la loro vera identità. Questi due cuccioli di leone sono diventati le mascotte di un campo profughi a Gaza. Uno zoo in crisi a Rafah è stato costretto a venderli. "A causa della situazione economica e del blocco nessuno ha i soldi per visitare lo zoo. Ho dovuto vendere i cuccioli per poter comprare il cibo per gli altri animali", spiega Ahmed Jomaa, proprietario dello zoo.
L'acquirente è Saadi Jamal, un impiegato di sicurezza dell'Autorità Palestinese, che li ha portati a casa. "Vivono con noi, ormai sono dei membri della nostra famiglia, giocano in casa e dormono con i nostri bambini. Potrei fare molti soldi affittandoli. Ho avuto molte richieste ma per ora ho rifutato", racconta Saadi. Per lui questa famiglia allargata ha comunque un prezzo. I piccoli leoni per crescere divorano mezzo chilo di carne al giorno. E il cibo costa caro a Gaza col blocco imposto da Israele. Ma al momento i leoni restano in famiglia, per la gioia dei suoi quattro figli e di tutti i loro vicini.

(askanews, 21 marzo 2015)


Netanyahu: due Stati ma via Hamas

Passo indietro del premier israeliano all'indomani della vittoria alle urne. In campagna elettorale aveva più volte ribadito di essere contrario alla soluzione dei due Stati.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa dietrofront. Dopo gli annunci fatti in campagna elettorale, in cui aveva ripetutamente affermato di essere contrario ai due Stati come soluzione del conflitto mediorientale, di ieri sera la parziale smentita.
Intervistato dall'emittente all news Msnbc, Netanyahu ha affermato di volere "una soluzione con due Stati pacifica e sostenibile, m per questo — ha ammonito — le circostanze devono cambiare".
Spiegando poi il punto, il premier israeliano ha detto non di avere cambiato politica: "Ciò che è cambiata è la realtà. Abu Mazen rifiuta di riconoscere lo Stato ebraico". Netanyahu ha poi aggiunto che il sostegno dell'Anp ad Hamas non è accettabile. "Hamas invoca la distruzione dello stato ebraico — ha detto — noi vogliamo che questo cambi, così che si possa realizzare una visione di pace sostenibile".

(Sputnik Italia, 20 marzo 2015)


Per certi aspetti le cose in Israele sono fin troppo semplici, al punto che molti sentono il bisogno di complicarle per poter continuare a dire quello che a loro piace di più. Chi parla di “due stati che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza” dovrebbe sentire immediatamente la necessità di indicare prima di tutto come affrontare il problema di Hamas, la cui presenza a Gaza ha come unico scopo quello di distruggere Israele, e non di "convivere con lui in pace e sicurezza". Di che si parla invece? Di Netanyahu. Mai nessuno che faccia una proposta precisa e articolata su come si potrebbe impedire ad Hamas di costruire tunnell e lanciare missili contro Israele. Questo compito viene lasciato a Netanyahu, che quando è costretto a svolgerlo viene accusato di essere un guerrafondaio. M.C.


Funivie Urbane: Tel Aviv e Gerusalemme si preparano per il trasporto del futuro

 
 
Il primo tram a Gerusalemme, costruito dall'azienda francese Alstom, dopo alcuni problemi che ne fecero slittare l'avvio, è attivo dal 2011.
Allo stato attuale, i treni scivolano in silenzio e, affollati di passeggeri, sono uno dei mezzi di trasporto preferiti dalla maggior parte della cittadinanza.
In questi giorni i funzionari comunali hanno confermato l'avvio di un progetto francese presentato al comitato di pianificazione della città. Il fine è quello di decongestionare le aree turistiche della città con la funivia.
Il progetto mira a risolvere i problemi di trasporto nella zona del centro storico, ed è stato scelto perché non richiede l'impiego di infrastrutture pesanti e non danneggia i siti importanti della città vecchia.
In particolare, il progetto prevede il miglioramento delle zone attorno a Gerusalemme Est e Ovest, rendendo i loro quartieri ancora più accessibili a visitatori e turisti.
La municipalità di Gerusalemme ha stimato un investimento di circa 60 milioni di euro. Lo studio di fattibilità è stato affidato a SAFEGE mentre la POMA si occuperà dell'impianto via cavo su cui si basa il progetto.
La funivia del futuro trasporterà fino a 4.000 passeggeri all'ora, riducendo nettamente i tempi di viaggio.
Anche per la città di Tel Aviv è in arrivo una super funivia per il trasporto urbano. Tra i moltissimi progetti presentati alla municipalità, sembra che i funzionari abbiano scelto quello dell'azienda americana Skytran, perché appare come la più avveniristica e risponde positivamente a tutti gli studi sulla fattibilità.
Il progetto prevede una sorta di funivia urbana che attraverserà le strade della città, alla velocità di circa 240km/h, dall'alto.
Nel corso di questo anno Israele provvederà allo sviluppo del nuovo sistema, sperimentando la prima tratta di circa 500 metri che trasporterà merci e persone.
Questo progetto oltre ad essere futuristico è anche a basso impatto ambientale e sarà alimentato da una combinazione di fonti energetiche , tra cui quella solare. I veicoli saranno dotati di WiFi e servizi di infotainment e la prenotazione dei posti sarà possibile tramite smartphone.

(SiliconWadi, 20 marzo 2015)


Primo capolavoro restituito

Le opere della collezione Gurlitt iniziano a tornare ai legittimi proprietari

"Due cavalieri in spiaggia" di Max Liebermann
Il quadro "Due cavalieri in spiaggia" di Max Liebermann tornerà presto al legittimo proprietario. La ministra della cultura tedesca Monika Grütters ha firmato oggi (venerdì) l'accordo di restituzione, il primo di un'opera appartenente alla collezione Gurlitt, nota anche come "il tesoro di Hitler".
Stando al settimanale der Spiegel, il dipinto, di cui è stata provata la provenienza illecita, andrà a un avvocato di New York, pronipote di colui che in quanto ebreo subì l'espropriazione sotto il nazismo.
La collezione, di 1'500 pezzi, era venuta alla luce nel 2013 in due appartamenti di proprietà di Cornelius Gurlitt, a sua volta figlio di un mercante d'arte vicino al Führer. L'uomo morendo la lasciò in eredità al Kunstmuseum di Berna, un lascito ora contestato in tribunale da una cugina.

(RSI.ch, 21 marzo 2015)


Canada - Sventato un attentato su un treno. Condannati un tunisino e un palestinese

OTTAWA, 20 mar. - Una giuria canadese ha dichiarato colpevoli un tunisino e un palestinese che progettavano di far deragliare un treno tra Toronto e New York con il sostegno di Al Qaeda. I due rischiano l'ergastolo e la pena sara' resa nota nei prossimi giorni. I giudici hanno accertato che il tunisino Chiheb Esseghaier, 32enne ricercatore universitario, e il 37enne palestinese Raed Jaser, arrestati dall'Fbi nell'aprile 2013 in seguito ad intercettazioni telefoniche d dopo un anno di indagini, avevano ordito il piano perche' contrari all'invio di truppe occidentali in Afghanistan. I due volevano far deragliare il treno, probabilmente facendo esplodere una bomba a bordo e durante le indagini emersero legami con elementi di Al Qaeda in Iran.

(AGI, 20 marzo 2015)


Viaggio tra le Sinagoghe

Aspettando Enrico Finzi, ricercatore sociale, su "La vita è piena di trucchi" (Edito da Bompiani).

 
Enrico Finzi
CASALE MONFERRATO — Un viaggio dettagliato, ricco di immagini aneddoti curiosità, ma soprattutto alla scoperta di un patrimonio immenso e semisconosciuto: quello delle Sinagoghe d'Italia. Centinaia di edifici di culto, ognuno con le proprie storie, tutte raccontate nei particolari da Franco Bonilauri e Vincenza Maugeri, due storici dell'arte che hanno dedicato buona parte della loro carriera allo studio dell'ebraismo in Emilia Romagna e che ora hanno fatto il "salto" a livello nazionale. Il risultato è un volume davvero esaustivo, presentato domenica 14 marzo alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato, anche attraverso uno spettacolare slide show che ha ripercorso stili e curiosità di ogni edificio. All'incipit della storia è è apparso ovviamente l'interno della Sinagoga di Casale, ritenuta dai due storici degna di una capitale regionale piuttosto che una comunità locale. Si passa poi alle storiche comunità italiane: Venezia, Ferrara, Livorno, si scoprono le sinagoghe dimenticate dei centri minori e quelle di cui esiste solo il ricordo. Ma è proprio la volontà di lasciare una testimonianza per preservare quello che resta a fare di questo lavoro, sicuramente uno dei più importanti e completi sull'argomento.
Questo fine settimana la rassegna culturale ospita un personaggio famoso soprattutto per la sua capacità di raccontare: Enrico Finzi, ricercatore sociale, giornalista professionista, docente universitario e direttore d'importanti istituti di ricerca (Fondazione Agnelli, InterMatrix, Demoskopea e AstraRicerche). Soprattutto un grande affabulatore.
Sarà a Casale Monferrato domenica 22 marzo alle ore 16 in Sala Carmi, proprio per raccontare una storia, quella che ha raccolto nel suo ultimo libro "La vita è piena di trucchi" (Edito da Bompiani).
E' la sua biografia, ma la sua vita è soprattutto una traccia per mostrare un'Italia che cambia dal secondo dopoguerra ai primi anni settanta, vissuta nei ricordi di un bambino e poi di un ragazzo che cresce in una famiglia di sinistra, ebrea e laica, colta e nevrotica. Una galleria di piccoli personaggi memorabili, raccontati con affettuosa ironia, tra aneddoti esilaranti e ombre delle cupe tragedie del Novecento, una microstoria capace di restituire il sapore di un'epoca.
Con un'idea centrale: la vita è una rappresentazione teatrale, imbevuta di trucchi, di maschere e di artifizi, d'imbrogli e di magie. Rapporti familiari, amori, sesso, valori, religione, impegno civile, studi, lavoro: ovunque si scoprono i marchingegni dell'esistenza, a volte sporchi, a volte salutari.

(Il Monferrato, 20 marzo 2015)


Firenze - scritte contro i militari alla sinagoga

Sono apparse venerdì mattina.

FIRENZE, 20 mar - Da due settimane i militari pattugliano il perimetro della sinagoga a Firenze, a gruppi di tre. Si tratta di una delle nuove misure di sicurezza varate dal comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica per fronteggiare l'allerta terrorismo in presenza di obiettivi potenzialmente sensibili.
Alle 8.15 di venerdì in Via farini la pattuglia ha trovato delle scritte contro la loro presenza nelle strade e subito hanno fotografato la scritta, firmata con la A di Anarchia.
I militari non sorvegliano solo la sinagoga: il progetto "Città Sicure" vede la loro presenza anche accanto ai cantieri dell'alta velocità.

(055 Firenze, 20 marzo 2015)


Netanyahu, con una campagna magistrale, ha costretto Israele a scegliere

E ha vinto così l'intera posta elettorale

di Alberto Pasolini Zanelli

Benjamin Netanyahu, detto Bibi, rimarrà premier di Israele. Ha raggiunto il traguardo che aveva perseguito con tutti i mezzi. Ma meriterebbe soprattutto un altro premio: il Nobel della strategia elettorale. È difficile trovare, frugando nella storia non soltanto di Israele ma di tutto il mondo dagli usi democratici, un capolavoro all'altezza della sua campagna 2015. Un mese fa lo davano in difficoltà, due settimane fa alle corde, una settimana fa per morto. Quando si sono aperte le urne, i più ottimisti fra i suoi simpatizzanti lo davano alla pari del suo antagonista e i primi exit poll parevano confermarlo. Invece, al traguardo, Netanyahu è arrivato solo e con un margine più netto che in altri suoi successi elettorali.
  Adesso si accorgono tutti, alleati, nemici e i pochi «spassionati», della perfezione di una tattica a rischio totale che però non aveva alternative. Il massimo cui un altro politico avrebbe potuto cercare di rassegnarsi era ridurre le dimensioni della sconfitta. Bibi ha fatto il contrario: è partito all'attacco, osando missioni che i più consideravano «suicide». Ha sfidato l'America attraverso l'America. Ha cancellato comizi nella sua piccola patria ed è volato a Washington per partecipare alla campagna lanciata dai repubblicani contro la Casa Bianca. Si è presentato in Congresso su invito dell'opposizione e, dal cuore della Superpotenza, ne ha aggredito le scelte in politica estera, poi gli ha passato la mano e loro hanno confezionato una «bomba» ancora più detonante: una lettera al governo iraniano in cui lo si incita a rompere le trattative con Obama. Netanyahu ha lasciato che la polemica rimbombasse per qualche giorno e poi ha ripreso il microfono per un'altra dichiarazione «incendiaria»: no alle «due Palestine». Una promessa nel cui mantenimento da tempo nessuno crede, ma che tutti o quasi fingono di considerare fattibile, compreso Bibi che anni fa aveva solennemente promesso l'appoggio suo e del suo partito. Gli hanno rovesciato addosso accuse di incoerenza, ma proprio da lì è cominciato il suo blitz dell'ultima ora. Aveva capito gli umori dei suoi compatrioti, degli ebrei di Israele per cui di Palestina ce n'è una sola, anche se il nemico principale oggi non sono i palestinesi bensì l'Iran.
  Coloro che seguono tale inclinazione avevano votato in precedenza per partiti minori di destra o di estrema destra, dai religiosi ortodossi al blocco elettorale dei nuovi immigrati, che contano su una prosecuzione degli insediamenti. Alleati di Netanyahu, ma scomodi e a un tempo «concorrenti». Quel jamais aveva loro per bersaglio: una volta che Bibi ha preso quell'impegno,non è più necessario essergli soltanto alleati. Ci si può affidare a lui. E infine l'ultimo tocco di genio, uno slogan vincente a campagna elettorale conclusa, a urne aperte: «State attenti, rischiamo di perdere, gli arabi si affollano alle urne, ce li portano in autobus». Conclusione, «non disperdere i voti», l'appello della paura. Il conto è tornato alla perfezione: il «testa a testa» con il moderato Herzog è diventato una vittoria per Bibi con un chiaro margine in seggi, che probabilmente toglierà al presidente della repubblica il motivo per portare avanti il proprio progetto di un governo di «unità nazionale» con Netanyahu premier ma l'opposizione dentro.
  Così, invece, i giochi paiono fatti, molto probabilmente lo sono. Israele ha scelto. Adesso devono scegliere gli altri: i palestinesi, gli iraniani, gli americani. Obama aveva probabilmente sperato in una sconfitta di Netanyahu e in un interlocutore più «ragionevole» al suo posto. Adesso, invece, la strada delle trattative è ancora più ardua e sassosa. I rapporti fra la Casa Bianca e lo Stato ebraico, interlocutore storicamente privilegiato ma a volte tanto scomodo, continueranno a soffrire di una fondamentale differenza nella valutazione delle crisi mondiali. Che riflette, per cominciare, le diverse dimensioni degli interlocutori. L'America è grande e potente, ha il bisogno e il dovere di uno sguardo globale. Israele è piccola, anche se agguerrita' e comincia a guardare il mondo dalla porta di casa. Per Netanyahu e almeno metà dei suoi concittadini l'Iran, con le sue ambizioni nucleari e intrighi diplomatici, è più pericoloso perfino di Isis con le sue strategie del terrore, che minacciano tutti (compresi i musulmani e soprattutto l'Occidente) e non soltanto qualche milione di ebrei. Con dimensioni così diverse è davvero rimarchevole che due paesi siano rimasti così alleati attraverso le crisi planetarie. Alleati scomodi. Ancora di più forse da mercoledì, quando Bibi è stato premiato proprio per quelli che il resto del mondo considera i suoi pericolosi difetti.

(ItaliaOggi, 20 marzo 2015)


Ma per Obama l'emergenza è Israele

Continua la lite a distanza con Netanyahu. E come alleato contro il Califfato Barack preferisce gli ayatollah.

di Fausto Carioti

Con la strage di Tunisi l'Isis ha annunciato al mondo il proprio arrivo sulla costa nordafricana del Mediterraneo. TI sangue dei turisti uccisi è solo «la prima goccia di pioggia», annunciano i mujaheddin: presto ne seguiranno altre. È uno di quei momenti in cui si attende un segnale forte dagli Stati Uniti, che nel Mediterraneo hanno la Sesta Flotta e ritengono (ritenevano?) questo spicchio del pianeta strategico per i loro interessi. La prima mossa fatta da Barack Obama dopo il massacro al museo del Bardo è rivolta proprio al Mediterraneo, ma va in una direzione che sino a poco tempo fa sarebbe stata impensabile: individua il fattore destabilizzante della regione nello Stato di Israele, che ancora una volta gli elettori hanno messo nelle mani del leader conservatore Benjamin Netanyahu.
   Tramite il New York Times, la Casa Bianca ieri ha fatto sapere che gli Stati Uniti stanno valutando l'idea di appoggiare la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che prevede la creazione di due Stati e un confine con lo Stato palestinese ricalcato su quello del 1967. Gli uomini dell' amministrazione Obama hanno anche fatto sapere che le trattative con Israele saranno condotte dal segretario di Stato Iohn Kerry, non dal presidente, poiché costui «non intende perdere tempo».
   L'ultimo di una serie di schiaffi che Obama sta riservando a Netanyahu, colpevole di avere indurito la propria posizione sulla questione palestinese durante la campagna elettorale (scelta che non sarà piaciuta al presidente americano, ma che gli elettori israeliani hanno molto apprezzato). Nei giorni scorsi l' amministrazione Obama è stata messa sotto indagine dal Senato, perché il Dipartimento di Stato avrebbe finanziato OneVoice, un'organizzazione no-profit impegnata in attività politica e di propaganda contro Netanyahu. «Il presidente Obama ha perso le eIezioni israeliane» è la battuta che gira adesso a Washington.
   La creazione di uno Stato palestinese non vede contrario Netanyahu, che lo ha detto anche ierì in un'intervista alla rete televisiva americana Nbc. Il ritomo ai confini del 1967, invece, è ritenuto semplicemente impossibile, e non solo da lui: per un lungo tratto, all'altezza della città di Netanya, il territorio israeliano compreso tra il Mediterraneo e il «nuovo» confine orientale previsto dalla risoluzione sarebbe largo appena 14 chilometri; in altre parole, basterebbe un minimo di artiglieria pesante per tagliare in due Israele. Gli israeliani hanno votato Netanyahu anche perché sanno che non accetterebbe mai una soluzione simile.
   Quanto al «problema Isis», l'unica cosa concreta fatta sinora dall'amministrazione Obama è stata dare via libera all'Iran, confidando che i suoi combattenti sciiti provvedano a decimare i mujaheddin sunniti dello Stato islamico. Cosa che l'Iran sta facendo e intende continuare a fare, ma in cambio chiede agli Stati Uniti quell'accordo sullo sviluppo del programma nucleare civile che a Gerusalemme vedono come l'ultimo passo per la costruzione di una bomba atomica destinata a essere sganciata su Israele. Meno esplicito, ma altrettanto chiaro, è il desiderio dell'Iran di diventare la potenza dominante della regione, estendendo il proprio controllo su ciò che resta dell'Iraq.
   L'amministrazione Obama eleva così il regime degli ayatollah a fattore di stabilizzazione e indebolisce la leadership israeliana uscita vincitrice dalle elezioni. Una scelta che sta attirando critiche non solo dai rivali repubblicani. Nei giorni scorsi John Kerry ha dovuto sudare per spiegare ai senatori americani che gli Stati Uniti non stanno creando un nuovo mostro nella regione a spese dell'unico, storico alleato su cui possano contare in quell'area.
   Intanto i terroristi dell'Isis proseguono la loro marcia verso l'Europa. «At the White House, there's nobody home»: alla Casa Bianca non c'è nessuno, ha scritto ieri l'esperto di storia militare Victor D avis Hanson. Esagerando, ma fino a un certo punto.

(Libero, 20 marzo 2015)


Ma l'Occidente non ha colpe

L'ultimo eccidio non è conseguenza di un'«integrazione fallita». Il nemico è alle porte: e sono loro ad averci dichiarato guerra.

di Pierluigi Battista

E adesso, dopo l'ennesima strage islamista di Tunisi, che colpa ci vogliamo dare? Come ce la siamo andata a cercare, stavolta? Quanti pentimenti per aver creduto scioccamente nelle «primavere arabe»? Stavolta in Tunisia la Primavera araba aveva funzionato. Da qui, dal gesto di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco dopo aver subito i maltrattamenti della dittatura, è cominciato tutto.
  Tutti a dire che è stata una disgrazia, che è colpa nostra se l'Isis è finito in Libia, mentre Gheddafi, che sarà pure stato un despota pagliaccio, ma era pur sempre il «nostro» despota pagliaccio, che è colpa nostra l'Iraq, che è colpa nostra la Siria e duecentomila morti ammazzati da Assad, che è colpa nostra se qualche giovane musulmano in Francia fa una carneficina nella redazione di Charlie Hebdo , che è colpa nostra se musulmani di seconda generazione in Gran Bretagna si fanno esplodere dentro la metropolitana provocando una strage mostruosa, che è colpa nostra se ammazzano gli ebrei in una pizzeria di Gerusalemme e di Tel Aviv, che è colpa nostra se irrompono in un dibattito in Danimarca e danno l'assalto alla Sinagoga di Copenaghen, adesso che colpa nostra esattamente sarebbe se hanno compiuto un eccidio in un museo di Tunisi? Che colpa avevano i turisti che lo stavano visitando? E che colpa aveva l'escursionista francese che venne decapitato in Algeria?
  I terroristi islamisti adesso hanno voluto colpire la Primavera araba riuscita. Volevano assaltare a mano armata il simbolo della democrazia: il Parlamento di Tunisi. Un Parlamento dove è consistente, determinante una presenza «laica». L'Occidente ha commesso innumerevoli errori, ma la vulgata salmodiata dai paladini delle nostre infinite colpe, offre una spiegazione fuorviante perché non vuole ammettere che la guerra che sta facendo un numero impressionante di vittime non è stata scatenata da «noi», ma da «loro». Ecco il non detto, il non dicibile. Ora non possono sostenere: guardate che avete combinato con le vostre fisime democratiche in Libia, ci fosse ancora Gheddafi non avremmo il nemico alle porte. Il nemico è alle porte, è nel cuore di Tunisi, e non c'è stato nessun errore catastrofico dell'Occidente: c'è una democrazia viva e funzionante. Dicono: guardate che avete combinato in Siria. Ma in Siria la Primavera araba non ha mai vinto, Assad ha represso nel sangue e nel gas mortale ogni barlume di dissenso, nel silenzio imbelle dell'Occidente e dell'Onu, ma si continua con la litania del «è colpa nostra» come se la Primavera araba avesse espugnato Damasco.
  E l'Iraq? L'intervento americano e inglese è del 2003, l'Isis ha conquistato parte del territorio iracheno nel 2014: undici anni. Ma la colpa delle bandiere nere che sventolano minacciose e che vogliono arrivare a coprire San Pietro di chi è? Ma di George W. Bush naturalmente. I terroristi islamisti che hanno colpito a morte Copenaghen e Parigi avevano studiato, vivevano una condizione sociale dignitosa, ma la colpa è della nostra «discriminazione», dell'«emarginazione», della mancata «integrazione» della nostra cultura imperiale e prepotente. Questa capacità di non vedere la realtà non è il frutto di un accecamento. Ma della paura di riconoscere che una guerra santa è stata scatenata e che ogni simbolo di quello che noi riteniamo importante e decisivo nella nostra scala di valori — la libertà d'espressione e l'arte custodita nei musei, la tolleranza e il pluralismo religioso, la scuola e la libera stampa, la libertà della donna e i diritti civili — è considerato qualcosa di peccaminoso, di sporco, meritevole di essere calpestato e distrutto. Boko Haram in Nigeria demolisce le scuole e fa strage di studenti e soprattutto di studentesse, perché il suo motto, la sua insegna è «L'istruzione occidentale è peccato». Ammazzano gli ebrei in Israele e in Europa non perché vogliono uno Stato palestinese, come è legittimo e giusto, ma perché non vogliono vedere traccia di ebraismo e di «crociati» nella terra santa dell'Islam. Massacrano dodici tra vignettisti, collaboratori e agenti a Parigi perché i disegni della rivista sono strumenti del demonio.
  E invece no, le migliori menti delle nostre generazioni spendono la loro sottile e ammirata intelligenza a dire che è «colpa nostra», che non avremmo dovuto sperare nelle primavere arabe, che siamo noi a «provocare», che siamo noi che «ce la cerchiamo». E non vogliono capire. Mentre a Tunisi la democrazia scaturita dalla Primavera cerca di difendersi, supplica di non essere lasciata sola, chiede al mondo di essere considerata un baluardo, una trincea. Per difendersi da una guerra cruenta che vuole uccidere la democrazia. Teniamocela stretta, finché possiamo.

(Corriere della Sera, 20 marzo 2015)


Contractors israeliani contro i "lupi solitari" del jihad

di Pietro Orizio

 
Ottawa, Sidney, Parigi e Copenhagen: Queste le capitali vittime dei "lupi solitari" dello stato Islamico. Attacchi terroristici che, oltre a disseminare il terrore in tutto l'occidente, hanno aumentato gli introiti delle Compagnie di Sicurezza israeliane di un buon 30%, come riportato dal Jerusalem Post.
   Gli israeliani sono stati chiamati a gestire ciò che per l'Europa è quasi una novità; non tanto il terrorismo quanto la sua più recente sfumatura. I "Lone Wolves" sono singoli individui o cellule autonome che decidono di colpire (anche con armi improvvisate) senza un ordine preciso o un collegamento diretto con i gruppi terroristici principali, al solo scopo di diffondere morte, paura ed un destabilizzante senso di vulnerabilità.
   Scuole, imprese e centri commerciali, sedi televisive e di giornali, palazzi istituzionali e luoghi di culto sono alla ricerca di personale di protezione altamente preparato da sostituire ai soldati finora dispiegati. Salvo alcuni casi particolari infatti, il militare, sia per tipo di addestramento che di armamento, non è adatto a ricoprire tali incarichi.
   Tuttavia, si preferisce ancora procedere con quello che viene definito il "teatrino della sicurezza": mimetiche, giubbotti antiproiettile, fucili d'assalto spianati e magari qualche blindato per tranquillizzare i cittadini! Purtroppo, ciò non basta ed a Nizza è stato dimostrato da un uomo che ha accoltellato (lievemente per fortuna!) tre soldati impegnati a presidiare un centro ebraico
   Chi può contrastare al meglio questo tipo di minaccia sono proprio le Private Security Companies e le prime della classe sono israeliane. Nel 2005, l'allora capo della polizia di Washington D.C. ha parlato di Israele come "la Harvard dell'antiterrorismo."
   Decenni a fronteggiare minacce esterne, interne ed a convivere con guerra e terrorismo, le forze di sicurezza di Tel Aviv e di riflesso gli uomini delle PSCs - tutti ex membri di reparti speciali di polizia, forze armate ed intelligence - hanno maturato un know-how unico ed ineguagliabile, hanno elaborato e testato tattiche sul campo, hanno lavorato molto su protezione di civili, obiettivi sensibili e prevenzione. Roni Eliav, direttore della M.E. Roy Security & Training Academy, dichiara che il loro approccio consiste nel "focalizzarsi sulle persone. Non sull'equipaggiamento, non sulle soffiate, ma sulle persone. Riconoscerle prima che il problema si manifesti o l'attacco abbia luogo".
   Si adotta l'approccio meno invasivo e più discreto possibile, si ispeziona e si valuta, s'identifica immediatamente la minaccia e si reagisce senza esitazione. Ron Elmaliach, istruttore e CEO della società Tactical Zone aggiunge che se ci fosse stato un operatore israeliano, tutto si sarebbe risolto molto più velocemente a Parigi.
   Il settore della sicurezza privata israeliana, con più di 100.000 addetti ed equivalente a circa il 7% dell'economia nazionale (nel 2008), è formato da un network di realtà pubbliche e private. Attraverso ministri e funzionari governativi nonché propri media, ne viene pubblicizzata la grande competenza e propensione all'esportazione. Sul sito del Ministero dell'Industria, Commercio e Lavoro israeliano si dice che: "Israele ha più di 300 società (nel 2010, ora sarebbero circa 600) dell'Homeland Secuirty (HLS) che esportano una gamma di prodotti, sistemi e servizi.
   Tali soluzioni sono state concepite per la sopravvivenza di Israele e sviluppate in risposta all'incessante minaccia terroristica… Nessun'altro Paese ha a disposizione un simile pool di esperti di sicurezza (ex militari o poliziotti) e nessun altra nazione è stata in grado di testare sul campo ed in tempo reale i suoi sistemi e soluzioni.
   A differenza dei grandi produttori di armamenti, il comparto HLS annovera principalmente società di modeste dimensioni per le quali vengono organizzate conventions ed uno speciale padiglione a cui vengono invitati potenziali clienti e committenti stranieri, al fine di promuovere contatti e relazioni. Decine di società israeliane operano a livello globale, specialmente negli Stati Uniti o Europa, anche se il cliente numero 1 risulta esser l'Africa, nell'ambito del nuovo "Scramble for Africa" e alla luce degli attuali conflitti che affliggono il continente.
   Abbiamo visto il loro impegno diretto o di consulenza ed addestramento ad Atene 2004, Pechino 2008, Sochi e Brasile 2014, a garanzia della buona riuscita degli eventi. Impiego decisamente più caldo è stato durante l'attacco di Al Shabab al Westgate Mall di Nairobi, nel 2013: il blitz dei militari kenioti si è svolto sotto la guida di istruttori israeliani. Tra i clienti illustri che inviano il proprio personale presso le strutture addestrative in Israele abbiamo Macy's, Bloomingdales ed i governi di Lituania o Nigeria. Bill Bowder, fondatore dell'Hermitage Capital, fondo d'investimento britannico, nel suo recente libro ha raccontato che dopo aver subito minacce da funzionari russi corrotti ed oligarchi, è stato affidato alla protezione di una quindicina di agenti israeliani.
   L'esportazione di servizi di sicurezza è così importante da non esser diretta solo a gli alleati, ma anche a nemici o "diversamente amici". Secondo fonti egiziane, la sicurezza di navi da crociera e mercantili transitanti nel Canale di Suez sarebbe stata affidata (con tanto di licenza) all'israeliana Seagull Maritime Security. Sempre a questa società sarebbero state garantite licenze anche per operare nei porti di Giordania, Emirati Arabi e Oman.
   Consistente anche la fornitura di avanzate tecnologie di sicurezza - videosorveglianza, body scanners, cybersecurity - strettamente correlate al settore delle PMSCs e dove, nuovamente, Tel Aviv gioca un ruolo di primordine con circa 200 società specializzate ed un export di sistemi anti-hackeraggio del valore di $ 3 miliardi. Sul suolo patrio, le PMSCs israeliane svolgono diversi ruoli che sono andati aumentando vertiginosamente a partire dalla Seconda Intifada del 2000, con la crescente necessità di vigilare i luoghi pubblici. Un compito importante consiste nella protezione degli insediamenti nella West Bank e di Gerusalemme Est dall'inizio degli anni 90, quando contractors privati vennero dispiegati a protezione dell'abitazione dell'allora ministro degli alloggi, Ariel Sharon.
   Tali servizi di sicurezza residenziale statica vengono assicurati oggi attraverso due società di sicurezza private che si occupano di una settantina di compounds (circa 2.500 residenti) con 370 guardie per un costo annuo di circa $19 milioni. Altri servizi consistono nella sicurezza di edifici e strutture pubbliche come porti, aeroporti, uffici governativi e, da qualche anno, anche la gestione dei valichi di frontiera con i Territori Palestinesi. Si occupano anche della cattura di criminali e della ricerca di persone scomparse. Essere i primi tuttavia non vuole assolutamente dire infallibili.
   Gli attentati purtroppo, anche se in minima parte, hanno comunque luogo così come abusi di potere, eccessi di difesa ed incidenti vari nei confronti dei quali, spesso, le autorità israeliane dimostrano uno scarso interesse nel procedere.
   Secondo gli esperti, le principali tipologie di attacchi terroristici sono effettuate con ordigni esplosivi (IEDs, autobombe, granate, kamikaze, ecc.) ed armi da fuoco (gruppi di fuoco, tiratori di precisione ecc.), quindi il maggior impegno viene dedicato alla gestione di questi tipi di minacce, tuttavia, ci si addestra a contemplare qualunque cosa, sia su vasta scala che a livello dei singoli episodi di "lupi solitari".
   Controlli accurati e diffusi infatti, hanno reso sempre più difficili (ma non impossibili!) attentati "vecchio stampo", perciò chiunque e qualunque arma - oggetti di uso comune inclusi - diventano strumenti efficaci: un automobile, un coltello ecc. Basti pensare agli attacchi con ruspe ed escavatori, agli investimenti di pedoni e agli attacchi con coltelli e mannaie da cucina. In Cina, un singolo attentato all'arma bianca è costato la vita a 33 persone.
   Tra i più recenti provvedimenti adottati dal governo israeliano per fronteggiare l'imprevedibilità degli attentatori solitari è quella di consentire alle guardie private di circolare armate anche fuori servizio, sia per deterrenza che per fornire una risposta efficace ed immediata in caso di bisogno.
   Nonostante i costi per i servizi di sicurezza privata siano decisamente alti, arrivando anche a milioni di dollari per proteggere una singola struttura, le recenti minacce ed appelli di al-Shabab a colpire centri commerciali occidentali, lasciano presagire ad un ulteriore incremento di fatturato e di quote di mercato per i professionisti israeliani. Si stima che nei prossimi anni l'Europa destini al comparto Homeland Security circa 50 miliardi di dollari e minacciando l'Italia lo Stato Islamico ha fatto appello ai Lupi Solitari nostrani.

(Analisi Difesa, 20 marzo 2015)


L'antisemitismo raccontato dai giovani ebrei tedeschi

Spiegel Online ha intervistato alcuni studenti di origine ebraica

online ha intervistato sette studenti, che raccontano come siano percepiti dai loro coetanei. In Germania, come in tanti altri Paesi europei, essere ebrei è tornato a essere un problema. L'antisemitismo è un sentimento diffuso, e i giovani ebrei intervistati dal sito di informazione tedesco più letto hanno deciso di non nascondere la loro identità.

GIOVANI EBREI - Il sedicenne Alexander Gottlieb, di Amburgo, rimarca come all'inizio del suo percorso scolastico avesse celato agli altri compagni di classe di essere ebreo. Quando l'ha rivelato, alcuni ne son stati sorpresi, altri invece sono rimasti indifferenti, visto che si trattava semplicemente di un'altra religione. Diversi ragazzi, rimarca Alexander, hanno un'immagine falsa dell'ebraismo, ricca di pregiudizi relativi a ricchezza vasta, avidità e naso a punta. La maggior parte dei suoi compagni di classe si rapportano normalmente con gli ebrei. Alexandra Lachmann, di 14 anni, racconta di aver percepito notevole curiosità sul fatto che lei sia una giovane ebrea. A volte non sa rispondere alle domande che le vengono poste sulla sua religione, visto che lei non è credente. Alexandra ha testimoniato alcuni episodi inquietanti, anche se lei non li definisce antisemiti. Una volta in classe un suo compagno ha disegnato una svastica sulla lavagna, come ha più volte osservato ragazzi farsi il saluto nazista. Secondo Alexandra questi episodi sono però frutto di un'ignoranza sul vero significato di simili gesti, piuttosto che manifestazioni di razzismo contro i giovani ebrei.

ANTISEMITSMO - Lionel Reich ha 17 anni e racconta a Spiegel Online di esser rimasto molto colpito quando a una festa ha sentito dei ragazzi insultare gli "sporchi ebrei", espressione tipica dei nazisti. Lionel confessa di non voler esser apostrofato come ebreo quando i suoi compagni di classe si rivolgono a lui in quel modo, anche se non hanno intenzioni antisemite. A Lionel invece piace quando i suoi amici gli chiedono dell'ebraismo e dei suoi giudizi sulla politica israeliana. Roman Udler, un ragazzo di 18 anni, ha subito invece un grave episodio di antisemitismo, che ha denunciato al preside della sua scuola. Una volta un ragazzo, che aveva perso una scommessa, l'ha minacciato di gasarlo mostrandogli un accendino. Il suo compagno di classe è stato in seguito trasferito. Kristina Varvarych confessa di aver sofferto per come sia stata trattata male da tanti suoi compagni di classe. Essi le dicevano come si notasse che fosse ebrea, una frase che le ha procurato molti turbamenti. Michael Movchin racconta come tutti i suoi conoscenti sappiano che lui sia un giovane ebreo, visto che è molto attivo nella comunità di Monaco di Baviera. A scuola non ha mai subito episodi di antisemitismo, anche se quando ha organizzato una manifestazione in solidarietà di Israele l'estate scorsa, ai tempi del conflitto con Gaza, ha ricevuto diversi insulti. A Berlino invece Michael si è scontrato con l'antisemitismo di un venditore di kebab, che dopo aver visto la stella di Davide esposta sul suo vestito gli ha spiegato di non voler avere clienti ebrei.

(Giornalettismo, 20 marzo 2015)


Netanyahu vince perché spara. E Obama ora trema

Gli israeliani lo hanno premiato perché hanno a cuore la sicurezza del Paese. Su Iran e Palestina il presidente Usa dovrà fare i conti con lui.

di Carlo Panella

Vittoria netta di Bibi Netanyahu e dèbacle totale dei sondaggi: questo in estrema sintesi il responso delle urne israeliane dopo il conteggio dei voti che hanno ridicolizzato non solo le previsioni della vigilia, ma anche gli exit polls. Con trenta seggi conquistati, il Likud migliora il suo risultato del 2013 e per di più può sicuramente contare sui 10 seggi conquistati dal suo ex ministro delle telecomunicazioni Moshe Khalon (popolarissimo per aver imposto l'abbattimento delle tariffe telefoniche) col suo nuovo partito Kulanu. Nessuna difficoltà quindi per raggiungere e anzi superare largamente la soglia di maggioranza alla Knesset di 61 seggi, cumulando ai propri 30, gli 8 seggi conquistati "partito dei coloni", il Focolare Ebraico di Naftali Bennet, i sei seggi di Yisrael Beitenu del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman a cui si sommano i 14 seggi dei partiti religiosi Shas e Torah Unita nel Giudaismo. Nel complesso Netanyahu potrà contare su una maggioranza di 68 seggi.
   Tralasciando la riflessione sul flop dei sondaggi (ennesimo, a riprova che lo strumento è in crisi), l'elemento di maggiore interesse di queste elezioni è da ricercare nelle ragioni della sostanziale sconfitta della sinistra israeliana di Werner Herzog e Tizpi Livni che hanno conquistato solo 24 seggi, a cui si somma il ridimensionamento del Meretz, lo storico partito dell'estrema sinistra israeliana che ha perso un seggio e si attesta a soli 4 seggi (due in meno rispetto al 2013). L'analisi deve iniziare da un dato di fatto: la prima motivazione del voto degli israeliani (con l'economia) è la sicurezza. Non la trattativa con i palestinesi (questa è preoccupazione solo dell'Occidente), ma la capacità di un governo di garantire ai cittadini di non essere vittime di stragi e di attacchi con i missili da Gaza. Evidentemente, anche su questo terreno, il governo uscente è stato capace di rassicurare gli lettori, usando con straordinario successo il Dome", lo scudo contro i missili piovuti da Gaza, alleandosi con l'Egitto di al Sisi per combattere e isolare la Gaza di Hamas e governando con efficienza la sicurezza interna.
   Di fatto, oggi Israele è l'unico Paese del Mediterraneo che dimostra di avere un sistema capillare di controllo del territorio che funziona perfettamente, nonostante la presenza di un milione di arabi e le centinaia di migliaia di palestinesi che passano ogni giorno nei due sensi i confini con i Territori occupati. Sistema di sicurezza che ovviamente impone misure restrittive, controlli continui, perquisizioni, dispiegamento di militari e forze di polizia ovunque. Esattamente quello che i paesi arabi - la Tunisia insegna - non riescono a mettere in pratica all'interno dei loro confini.
   Ma i sondaggi hanno sbagliato anche nel prevedere l'influenza negativa del dato economico sul voto. Le tensioni sociali prodotte dalla mancata ridistribuzione del reddito a favore delle classi medio-basse erano infatti palpabili (soprattutto sul tema della scarsità di abitazioni) e venivano indicate dai tutti i sondaggisti come causa certa del previsto scrollo di Netanyahu e della vittoria di Herzog. Previsione sbagliatissima, che porta al cuore del problema: in Israele, come in Europa, la sinistra socialdemocratica e non sa più elaborare una proposta politica affascinante neanche sui temi economici. È appesantita da vecchi schemi sindacalesi che l'elettorato non segue. A questo, si somma una carenza di leadership che si incarna nella figura evidentemente giudicata scialba dagli elettori del suo candidato premier Herzog.
   Infine, ma non per ultimo, in queste elezioni c'è un altro perdente: Barack Obama. D'ora in poi Netanyahu sarà l'affilato punto di riferimento della comunità ebraica americana contro la sua politica di appeasement con l'Iran. Una spada, non una spina, nel fianco per tutti i Democratici Usa. Anche per Hillary Clinton, che dovrà comunque recuperare quel rapporto con Netanyahu che Obama ha perso, tanto che non si è congratulato con lui per la vittoria.

(Libero, 19 marzo 2015)


Atti antisemiti quasi triplicati nella Svizzera tedesca

Il tono utilizzato contro gli ebrei si è fatto nettamente più aggressivo

BERNA - Forte aumento degli atti antisemiti nella Svizzera tedesca: la Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) e la Fondazione contro il razzismo e l'antisemitismo (GRA) hanno registrato 66 casi, quasi il triplo rispetto al 2013. Anche la loro gravità è aumentata.
La cifra non tiene peraltro conto dei propositi antisemiti espressi attraverso internet e le reti sociali, sottolineano le due organizzazioni in una nota. La maggior parte dei casi registrati l'anno scorso riguardano lettere dal contenuto antisemita.
Il tono utilizzato contro gli ebrei si è fatto nettamente più aggressivo. Particolarmente numerose sono state le minacce espresse attraverso Facebook, ciò che ha portato anche all'apertura di diversi procedimenti penali.
Stando al rapporto presentato dalle due organizzazioni, le persone che hanno incitato all'odio contro gli ebrei sui social media sono in maggioranza giovani uomini fra i 15 e i 30 anni d'età che a giudicare dai rispettivi profili hanno legami con il mondo musulmano.
Gli atti antisemiti sono aumentati l'anno scorso anche nella Svizzera romanda. La progressione è stata del 79% rispetto al 2013, secondo un rapporto presentato lunedì dal Coordinamento intercomunitario contro l'antisemitismo e la diffamazione.

(tio.ch, 19 marzo 2015)


Netanyahu, trionfo da record, batte pure la campagna dell'odio

di Fiamma Nirenstein

Ha ragione il negoziatore americano Aaron David Miller, mentre Obama fa dire ai suoi che collaborerà con qualsiasi governo eletto dal popolo israeliano: "La Casa Bianca dovrà lasciare lo champagne in ghiaccio per un altro po'". E non brinderanno nemmeno parecchi notabili dell'Unione Europea che si erano già preparati, nei giorni in cui i sondaggi gli davano quattro seggi di meno della sinistra (21 a 24) a gettare Benjamin Netanyahu nella spazzatura della storia. Il coro dei giornalisti che piamente difendono sempre i palestinesi contro Israele, non brinderà.
  E naturalmente è in stato di shock Buji Herzog, il capo dell'Unione sionista, incredulo che Israele possa avere improvvisamente voltato le spalle all'ipotesi di averlo come Primo ministro di un governo di sinistra. Eppure Bibi ha preso fra i 29 e 30 seggi, e Buji è fermo a 24: la distanza, dopo un primo pareggio via via è aumentata durante la notte, e il Likud ha festeggiato il suo leader che combattendo una personale "Guerra dei Sei giorni" dopo che i sondaggi avevano iniziato a condannarlo alla sconfitta ha trascinato ai seggi col suo carisma personale, con la voce profonda, col curriculum di combattente e ardente sostenitore dello Stato ebraico, con la richiesta di aiuto contro una prospettiva pericolosa per l'esistenza stessa dello Stato... Un mare di elettori, e ha anche convinto i partiti del blocco di destra che era meglio votare per lui piuttosto che mantenere in piedi una propria casetta politica che non avrebbe poi ottenuto tutto quello che invece Bibi può gestire con la fede nel popolo ebraico (Bibi non è religioso) e con la grinta che lo caratterizza. Così per esempio Naftali Bennet, capo del partito di destra "Casa ebraica" si è accontentato di 8 seggi, Yachad, il partito religioso di Eli Ishai è sparito dalla scena, e Ysrael Beitenu, il partito di Yvette Liberman, che ha avuto anche guai giudiziari, ha solo sei seggi. Una notevole variante è il "Partito arabo unito", il terzo in assoluto con 14 seggi, che nelle prime ore della serata sembrava aver deciso di passare al blocco di sinistra, ma che via via ha visto riaprirsi le sue divisioni interne.
  Se Herzog stia prendendo in considerazione, invece del governo di sinistra che sognava l'idea di un governo di coalizione,non si sa ma è altamente probabile. Netanyahu però soffre il trauma del passato governo, aveva coperto Tzipi Livni di onori col ruolo di ministro della Giustizia e negoziatore coi palestinesi per poi vedersi attaccato furiosamente, e Lapid, ministro delle Finanze, ha chiesto agli elettori con vero odio di distruggere Netanyahu. Bibi opterà forse per un governo di destra anche con i religiosi, ma che incameri anche i dieci seggi di Moshè Kahlon, un personaggio che può conferire a Bibi credibilità nel campo sociale, la strada su cui aveva perso terreno.
  Come ha fatto Bibi a recuperare così rapidamente i voti perduti di fronte all'unione che aveva come slogan "Chiunque fuorché BIbi?". Lo si accusava di essere un fissato sulla sicurezza, lo si biasimava per aver distrutto i rapporti con Obama in nome della mania dell'Iran nucleare, si vedeva in lui la causa efficiente della rottura coi palestinesi e quindi delle costruzioni nei territori. Per controbattere, Bibi è semplicemente stato se stesso in modo intensivo. Ha parlato ovunque, ha spiegato di nuovo e di nuovo le ragioni della scelta prioritaria della sicurezza, ha puntato su chi non gli aveva dimostrato odio, ovvero la destra, ma non ha mai rinnegato un passato in cui c'è lo sgombero di Hevron, l'incontro di Wye Plantation con Arafat con conseguenti concessioni, ma anche la secessione dal suo padre spirituale Ariel Sharon quando decise di sgomberare Gaza nel 2005.
  Bibi è un realista, puoi non essere d'accordo con lui ma alla fine le sue analisi, e questo è ciò che i cittadini hanno percepito, sono sempre molto concrete in economia, in strategia. Il suo primo mandato come Primo Ministro lo ebbe dopo essere stato un famoso, diretto, ambasciatore all'ONU, un'organizzazione ostile e aggressiva in cui la fece da domatore. Era il 1999 quando vinse contro Shimon Peres se fu Primo Ministro. Poi la sconfitta subita da Ehud Barak,il ritiro alla vita priva e il ritorno nel 2002, ministro degli Esteri. Il suo maggiore successo lo ottenne da ministro delle Finanze espandendo la privatizzazione, liberalizzando la circolazione del denaro e riducendo il deficit. Dal 2009 Bibi è stato di nuovo Primo Ministro di questa barchetta nel mare in tempesta del Medio Oriente. Un ruolo di primo piano che sembra non volere abbandonare, e che pare non voglia abbandonarlo finché, come diceva la sua più chiaccherata pubblicità elettorale, lui sarà il deciso "Bibi sitter" di Israele in un mondo in fiamme.

(il Giornale, 19 marzo 2015)


Israele autorizza l'ingresso di un carico di cemento a Gaza

di Roberta Papaleo

Le autorità israeliane hanno permesso l'ingresso di un carico di 1.000 tonnellate di cemento nella Striscia di Gaza, il primo dalla guerra della scorsa estate. Il materiale edile è stato pagato dal Qatar, che la scorsa settimana aveva annunciato il lancio di un progetto di ricostruzione di 1.000 abitazioni nell'enclave palestinese.
La notizia è stata diffusa dall'ente israeliano per il coordinamento delle attività politiche nei territori palestinesi (COGAT) ed è stata confermata da alcuni funzionari israeliani, che hanno dichiarato che 175 camion carichi di cemento sono entrati a Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom.

(ArabPress, 19 marzo 2015)


Bibi ha sconfitto i rampolli dell'aristocrazia. Perciò lo odiano
Articolo ottimo!


Il "Secondo Israele" ha sconfitto l'élite. Ecco che cosa c'è dietro il ventennato di Benjamin Netanyahu.

ROMA - Una delle icone della cultura israeliana, Joshua Sobol, durante la campagna elettorale contro Benjamin Netanyahu, ha definito gli ebrei religiosi "stupidi che baciano le mezuzah". La mezuzah è l'astuccio che contiene il piccolo rotolo di pergamena montato sugli stipiti delle case degli ebrei. In questa perfidia antireligiosa c'è il segreto della sconfitta del Campo Sionista di Isaac Herzog e la vittoria impressionante del Likud di Netanyahu. E' la distanza che separa la sinistra che li chiama "parassiti" e i religiosi che rispondono con parole di disprezzo contro quel pezzo d'Israele che non sa più che cos'è, da dove viene, in che consiste. In queste elezioni ha perso l'élite del paese, schiacciata dal "secondo Israele", come è noto il popolo che incorona Bibi, Netanyahu ha vinto nonostante avesse contro tutto l'establishment: i giornali, le televisioni, gli ex ambasciatori, gli ex capi del Mossad, gli ex generali in pensione, gli scrittori e gli artisti, le ong, Haaretz, il quotidiano simbolo dei caffè di via Shenkin, rifugio della bohème pacifista.
   Si comprende questa spaccatura dalla mappa elettorale. Il Likud ha stravinto nella capitale, Gerusalemme, e nel nord e nel sud del paese. La sinistra ha dominato Tel Aviv e altre città del centro (a
Netanyahu ha sfondato in città periferiche, remote e minacciate dai missili di Hamas e Hezbollah, come Kiryat Shmona e Nahariya a nord, e poi Sderot, Ashdod, Ashke- lon, Beersheba a sud. Anche Arad, la città del deserto meridionale dove ha preso casa lo scrittore Amos Oz, ha premiato in massa il Likud e bastonato i laburisti.
Gerusalemme Herzog ha ottenuto soltanto l'otto per cento dei consensi), i bastioni dell'Israele cosmopolita, sofisticato, edonista, urbano e letterario. Netanyahu ha sfondato in città periferiche, remote e minacciate dai missili di Hamas e Hezbollah, come Kiryat Shmona e Nahariya a nord, e poi Sderot, Ashdod, Ashkelon, Beersheba a sud. Anche Arad, la città del deserto meridionale dove ha preso casa lo scrittore Amos Oz, ha premiato in massa il Likud e bastonato i laburisti. Ashdod, la terza città più povera di Israele e una di quelle che cresce di più demograficamente, si è confermata un bastione della destra. Netanyahu ha con sé l'Israele che si sente, a torto o a ragione, ai margini della affluent-society
   Le elezioni hanno fatto emergere un paradosso: la sinistra è votata dalla parte ricca di Israele, mentre il Likud governa con il consenso maggioritario della pancia del paese che vive nei sobborghi di case basse dove abita quel sottoproletariato che ha incoronato "Netanyahu re d'Israele". Come Gerusalemme, città poverissima dove capita che dieci centesimi di shekel siano una cifra significativa, che uno shekel (dieci centesimi) sia materia di discussione quando si tratta il prezzo. Il Likud è popolarissimo nelle sue strade povere ed eleganti, orlate di piante poco curate e piccoli edifici di pietra, con le sue yeshivah, le scuole religiose da dove entrano ed escono ragazzi in abiti religiosi, con gli tzitzit che si affacciano dalla giacca. Sempre in polemica con l'ambiente laico che li circonda, e ricambiati.

 I ricchi stanno con la sinistra
  Gli scrittori molto snob che in queste settimane hanno tifato il Labor non sopportano Gerusalemme, con le mani fanno un gesto come a spazzarne via la complessità, beati di essere andati a vivere a Tel Aviv o in qualche moshav hippie. Se Tel Aviv vive di potere e acquisizione, Gerusalemme vibra di identità. Molti elettori del Likud sono sefarditi, provenienti da paesi asiatici o africani; nemici del Labor prima che fan del Likud. Tutti devoti al rabbino Ovadia Yosef, che non risparmiò attacchi feroci alle femministe, alla Corte suprema, alla sinistra ("non tiene conto dell'essere umano, le interessa il potere").
   Netanyahu non è benvoluto a Kfar Shamaryahu, forse la città più ricca di Israele, dove vivono molti milionari. Prendiamo la lista degli israeliani più ricchi, da Idan Ofer a Stef Wertheimer (che ha venduto a Rupert Murdoch il suo impero): tifavano tutti per Herzog e Tzipi Livni.
   Di contro, Netanyahu ha avuto dalla sua gli ebrei etiopi, ancora affondati in un mistero medievale, che ricordano gli inquieti vagabondi del deserto che furono per secoli.
   E' uscito sconfitto alle elezioni l'acerrimo nemico di Benjamin Netanyahu, Noni Mozes, il misterioso editore del quotidiano Yedioth Ahronoth con vaste proprietà nelle televisioni, che aveva fatto della cacciata
Hanno perso i rampolli dell'élite ashkenazita, i figli e i nipoti di quegli ebrei, giunti dall'Europa, che Israele lo hanno costruito con la vanga, con la loro intelligenza messianica che li spinse alla conquista del paese, e con il fucile con cui lo difesero dagli arabi.
di Bibi una crociata personale. Hanno perso i rampolli dell'élite ashkenazita, i figli e i nipoti di quegli ebrei, giunti dall'Europa nord-orientale, che Israele lo hanno costruito con la vanga, con la loro intelligenza messianica che li spinse alla conquista del paese, e con il fucile con cui lo difesero dagli arabi. Anche oggi in Israele il gusto della cultura cosmopolita, il grande amore per il teatro e, soprattutto, per la musica, sono di timbro tipicamente ashkenazi.
Gli altri, i sefarditi, che significa spagnoli, hanno sempre avuto il ruolo dei parenti poveri che si sono adattati mugugnando, fino a crearsi un complesso d'inferiorità che ha rasentato quello della persecuzione. Eppure, sono loro oggi a costituire "il grosso" di Israele, sia nelle unità dell'esercito sia come contributo demografico. Uno studio dell'Università di Haifa presentato alla Knesset recita: "Il paese avrà una leadership religiosa nel 2030. Oggi ci sono 700 mila nazionalisti religiosi e 700 mila ultraortodossi. Entro pochi anni, entrambe le comunità avranno due milioni e mezzo di membri. Gli unici figli delle famiglie laiche sono i 'puppies"'. Ovvero due genitori, un figlio e un cane.
   E' alle famiglie numerose che il Likud di Netanyahu ha offerto il riscatto con un misto di capitalismo e patriottismo. Il kibbutz, con il suo rigido astrattismo ideologico alimentato di tecnicismo e dialettica persino sofistica, li ha sempre sgomentati e hanno preferito la sistemazione in città dove sembrava più facile arrangiarsi adattandosi a umili mestieri. E' in quelle città che ha stravinto martedì Netanyahu. E' da quelle città che viene anche il nuovo volto dell'esercito israeliano. "Tsahal diventa un esercito di periferie", scrive Yedioth Ahronoth, perché il contributo maggiore fra i soldati giunge - oltre che dalle colonie - dalle periferie povere e religiose. Tutti bacini di voti del Likud. Come il marocchino, l'iracheno, l'algerino che fino a ieri hanno vissuto nel deserto, nella casbah, o nel ghetto. Come gli ebrei yemeniti, dai grandi occhi verdi, le barbe appuntite, i capelli avvolti in boccoli sulle spalle, il naso sottile, che li fa sembrare antichi medaglioni assiri. Continuano ad arrivare e, quando scendono dall'aereo, si curvano a baciare la terra e piangono. Il medico, l'architetto, l'ingegnere con doppio passaporto francese, americano o inglese - spesso fra quelli che in Israele protestano contro Bibi - è sempre in grado di andarsene da Israele per reinserirsi in quelle società. Ma un un ebreo religioso può tornare in Siria, in Iraq, in Libano o in Egitto? Nel dopo Kìppur, quando una parte della sinistra proponeva l'abbandono d'Israele, i sefarditi fecero blocco. Dissero ieri e ripetono oggi: "Noi restiamo".

(Il Foglio, 19 marzo 2015)


"Gli elettori hanno parlato. Ora bisogna costruire sul consenso anziché sul conflitto"

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

Scrive Eitan Haber su YnetNews: "I risultati elettorali presentano la nuda verità: tutti i movimenti di sinistra, i mass-media e molti elettori dell'Unione Sionista, del Meretz e altri vivono in una bolla e sanno poco o nulla della vita al di fuori della bolla. Gli esponenti della sinistra si esaltano a vicenda nei caffè, nei cineclub e nei circoli letterari di Tel Aviv. Ma le persone che vivono al di fuori di Tel Aviv e della Cineteca di Gerusalemme, al di fuori del mondo accademico e delle redazioni di giornale e tv, hanno punti di vista totalmente diversi. La sinistra ama discutere con se stessa e mostra disprezzo verso il proverbiale signor Masuda di Sderot. Il fatto è che, il giorno delle elezioni, la scheda del signor Masuda di Sderot è uguale alla scheda del rinomato accademico: ha lo stesso peso, solo che il voto è diverso". E conclude: "Ancora una volta abbiamo dolorosamente preso atto che il quartiere radical-chic di Tel Aviv nord fraintende completamente Sderot".
Scrive Boaz Bismuth su Israel HaYom: "Gli elettori, con tutta la loro faccia tosta, hanno deciso che Benjamin Netanyahu guiderà per la quarta volta il governo israeliano. Come hanno osato votare in questo modo, nonostante quel che dicevano gli esperti, i giornalisti, i sondaggisti e gli ex giardinieri della residenza del primo ministro, tutti impegnati a dipingerlo come l'Uomo Nero?". E prosegue: "Non c'è dubbio che questo paese merita di più: una migliore qualità della vita, più tempo libero, più denaro nelle tasche, mutui più bassi e più beni da tramandare. Ma la gente non è stupida e capisce bene che Israele non è un paese normale e che, con tutto il rispetto per il prezzo del budino al cioccolato, la parola "sicurezza" ha un certo peso: prima di occuparsi del carovita, bisogna difendere la vita. Proprio questo mese, le potenze mondiali potrebbero firmare con l'Iran un pessimo accordo sul nucleare che il primo ministro israeliano non è disposto ad accettare. La gente non è stupida: capisce abbastanza bene che in realtà, con tutto il rispetto per il Premio Nobel per la Pace, su questo punto Netanyahu è più affidabile"..

(israele.net, 19 marzo 2015)


Così Herzog è rimasto intrappolato nella sua bolla radical chic

di Rolla Scolari

 
Ci ha creduto veramente la sinistra israeliana. Guidata da un rampollo della più blasonata "aristocrazia" laburista, sperava di tornare a governare dopo quindici anni. Isaac "Buji" Herzog, il figlio del presidente Chaim, il nipote di un rabbino capo e di un iconico ministro degli Esteri, con l'atteggiamento fresco del ragazzo nato e cresciuto tra i viali alberati e la spiaggia di Tel Aviv rompe con la figura sottotono degli ultimi leader del partito, e si oppone alle maniere brusche del suo rivale Benjamin Netanyahu.
   I comizi e le tribune di questa passata campagna elettorale assomigliavano un po' a lui, all'idea di sinistra che rappresenta: i palloncini colorati - bianco e blu di Israele ma anche il rosso del partito - le birre artigianali ai gazebo, le spille in stile corsa presidenziale americana, i giovani israeliani squattrinati e frustrati dal costo della vita, figli dei professionisti soddisfatti delle città, gli incontri dell'ultima ora di campagna organizzati in un bar del centro di Tel Aviv, tra i festoni dorati, i cocktail, gli slogan: "Cambiamento", "Bibi torna casa". E quella maglietta, dove l'immagine stilizzata di Buji su sfondo blu ricorda il design della campagna di Barack Obama 2008 ma ha anche qualcosa di vagamente JFK, con quello sguardo che punta lontano.
   Con il consolidarsi dei numeri e della sconfitta, Herzog ha chiamato ieri mattina il suo rivale per congratularsi. Nella notte elettorale, gli exit poll avevano fatto sperare gli attivisti non soltanto in un pareggio ma in un ottimo risultato: 27 seggi per un partito che fatica a imporsi a livello nazionale dopo il trauma dell'assassinio di Yitzhak Rabin. Ne ha ottenuti invece 24, soddisfacendo comunque le aspettative dei sondaggi e degli attivisti. Perché, numeri alla mano, quello di martedì per la sinistra israeliana è un buon risultato. Azzerato, livellato, spianato da un esplosivo, sorprendente successo di re Bibi.
   "E' esattamente quello che ci aspettavamo di ottenere", dice al Foglio Eitan Schwarz, uno dei candidati della lista dell'Unione sionista, nella squadra del sindaco di Tel Aviv. Nel 2013, quando a guidare il partito c'era la corrucciata giornalista Shelly Yachimovich e i laburisti correvano da soli, senza alleati come l'ex ministra della Giustizia Tzipi Livni, avevano ottenuto 15 seggi. "Non siamo noi che abbiamo perso - continua Eitan - E' Netanyahu a essere riuscito in maniera fenomenale a raccogliere il voto degli elettori di altri piccoli partiti della destra". Non è "mobilitazione", sostiene, ma "cannibalismo politico". E per vincere, Herzog "baby face", faccia d'angelo, il rilassato ragazzo di Tel Aviv, avrebbe dovuto essere un po' come Bibi, avrebbe dovuto essere anche lui un po' cannibale. "Non ha capito che per essere più grande del Likud avrebbe dovuto strappare i voti ai piccoli partiti attorno", ha spiegato al Foglio Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz. Avrebbe dovuto fare meno sorrisi e puntare a quegli undici seggi di Yesh Atid (C'è Futuro) del ministro Yair Lapid. Avrebbe dovuto fare quello che ha fatto aggressivamente negli ultimi minuti della campagna elettorale il più navigato stratega della sopravvivenza politica in Israele, che ha rosicchiato voti a partiti come quello nazionalista duro del suo stesso alleato Naftali Bennett, più a destra: "Se resto premier non ci sarà uno stato palestinese", aveva detto Netanyahu lunedì, rivolgendosi proprio a quegli elettori che votano Bennett perché contrario a una soluzione a due stati del conflitto. "C'è un rischio reale che la sinistra arrivi al potere", ha gridato il premier protetto da un vetro antiproiettile due giorni prima del voto a migliaia di sostenitori dalla piazza simbolo della sinistra. Avrebbe dovuto fare lo stesso anche Herzog, gridare più forte contro Bibi e puntare di più al voto dei piccoli partiti.

 Il paragone con il candidato Kerry
  In Israele era idea condivisa che il malcontento sociale, il prezzo stratosferico di case e affitti, del budino e dei formaggini avrebbero almeno in parte mosso l'elettorato. Quello che forse ci si era scordati è che, a dispetto dei sondaggi che indicavano un apprezzamento per l'Unione sionista tra gli strati più poveri della popolazione, la sinistra israeliana resta il partito della classe media. E che gli strati più poveri della popolazione sono da tempo la base della destra del Likud: "Tendono però a essere più religiosi, nazionalisti, di destra - spiega il giornalista Pfeffer - Non votano per chi ha una migliore politica sociale ed economica", ma per chi ha un più robusto discorso nazionalista e promette di garantire la sicurezza, l'identità nazionale. Quando John Kerry sfidò George W. Bush nella corsa alla Casa Bianca del 2004, il Financial Times si chiese quale era il tipo umano che gli americani avrebbero preferito avere come presidente: il raffinato "aristocratico" della sinistra radical chic che nella sua East Coast sorseggia un whiskey su un divano Chesterfield, o il texano in stivali che beve una birra al bancone del bar e gioca a freccette. Di "radical" e di "chic", scherza Pfeffer, la sinistra israeliana non ha molto, ma il paragone con Kerry è calzante: "Ci sono una classe media, un'intellighenzia che è andata all'università e pensa di capire tutto, ma in realtà vive in una bolla staccata dalle classi più popolari".
   Queste due realtà, la bolla radical chic della classe media e lo zoccolo duro del nazionalismo, potrebbero nominalmente riconciliarsi nelle prossime settimane se, come qualcuno in Israele sui giornali e nelle tribune politiche ha già ipotizzato - e come spera per primo il presidente Reuven Rivlin - il premier sopravvissuto decidesse di smussare gli spigoli di una coalizione che sarà costruita attraverso alleanze con partiti ultra religiosi e nazionalisti. E chissà se, per evitare un principio di isolamento internazionale, per mettere una faccia moderata al suo futuro governo e al suo futuro politico re Bibi non decida di tentare un'alleanza con quella sinistra un po' radical chic così lontana dai suoi modi, dalla sua base, ma che con 24 seggi alla Knesset rappresenta oggi più di prima una parte di Israele stufa dei suoi modi e del suo lungo regno.

(Il Foglio, 19 marzo 2015)


Anna e Alberto, ebrei di Trastevere scampati per un soffio al massacro di Tunisi

«Abbiamo sentito gli spari e siamo riusciti a fuggire». La figlia: «Erano felici, la crociera era il loro sogno»

IL RACCONTO
ROMA - «Ariel aiuto, non so dov'è tuo padre». È il grido di aiuto disperato di Anna Di Porto, 60 anni, romana di Trastevere riuscita a fuggire dal museo prima che i terroristi prendessero ostaggi. Ha subito telefonato al figlio Ariel Di Porto, rabbino capo della Comunità ebraica di Torino. «Abbiamo sentito gli spari, le forze di sicurezza gridavano "via, via, tutti, fuori" e siamo fuggiti dal museo» ha detto Anna figlio con un'unica preoccupazione nel cuore: avvertire la famiglia in Italia per dire che erano scampati alla strage, che erano ancora vivi.
«Papà è inciampato e si è fatto male a una gamba - ha proseguito Anna nel racconto - l'hanno messo su una barella ma è caduto. Sono stata scortata in un' area di sicurezza, non so in quale ospedale sia tuo padre, aiutaci». Anna e Alberto Di Porto, 71 anni, si trovavano a bordo della nave Costa, poi sono scesi per una escursione.

LA PAURA
Di Porto, ora in pensione, è stato agente di commercio nel settore delle piastrelle, è un appassionato della cultura ebraica e di libri antichi e appartiene a una delle famiglie ebraiche romane più antiche.
«Siamo sotto choc, sono riuscita a sentire mia madre per pochi minuti, la linea cade, credo mi stia chiamando da un numero tunisino - racconta Daniela, l'altra figlia della coppia rinchiusa nella casa di famiglia a Trastevere - non sappiamo neanche in quale ospedale si trovi mio padre e non so perché lo trattengano». Di Porto, cardiopatico, è stato trattenuto per diverse ore in ospedale per accertamenti. «Era il loro sogno andare in crociera - racconta Daniela - si sono fatti un regalo, erano entusiasti prima di partire e invece hanno rischiato di morire, mia madre è disperata perché non riesce a ritrovare papà».
«Adesso ogni mio sforzo è di riportarli al più presto a casa» dice Ariel. Solo a tarda serata Anna e Alberto si ritroveranno. Di nuovo insieme, di nuovo sulla nave, in attesa di riabbracciare i figli.

(Il Messaggero, 19 marzo 2015)


Riccardo Pacifici: "Noi ebrei colpiti come occidentali"

La presenza ebraica nel Nordafrica è ormai quasi scomparsa.

di Andrea Valdambrini

Abbiamo appreso di una coppia di pensionati che si trovavano tra gli altri nel gruppo della crociera in Tunisia. Non sappiamo con esattezza se hanno avuto malore durante la strage o se uno di loro è stato ferito. Ma per fortuna sono slavi". Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, parla di due fra gli italiani coinvolti nell'attentato del museo di Tunisi. Si tratta dei genitori del rabbino capo di Torino Ariel di Porto. "Per un certo tempo si sono perfino perse notizie della signora Di Porto. Quello che sappiamo al momento è che entrambi verranno messi sulla nave per l'Italia: vogliono essere rimpatriati ad ogni costo".

- Come è stata vissuta la giornata dagli ebrei italiani?
  
ovviamente con grande preoccupazione. È stata una giornata strana per tutti noi, cominciata con le notizie sui risultati elettorali in Israele. Quando ho appreso la notizia dei Di Porto coinvolti nell'attentato al museo di Tunisi ero a Cosenza per una lectio magistralis. Abbiamo vissuto tutti momenti di panico.

- Quali sono i rapporti tra comunità italiana e quella tunisina?
  
In realtà non ci sono ebrei a Tunisi, sono fuggiti tutti negli anni passati. Unica piccola enclave ebraica è l'isola di Djerba, nella cui sinagoga si è anche verificato un attentato. Tuttavia, gli ebrei che sono sull'isola ci rimangono perché si tratta di un vero e proprio paradiso turistico. Diversa ovviamente la questione dei signori Di Porto: due semplici pensionati che erano in vacanza come tanti altri, in crociera con una nave della Costa.

- Anche in Libia non ci sono più ebrei?
  
Il primo pogrom è stato dopo il '67 al termine della guerra dei 6 giorni. Poi all'arrivo di Gheddafi nel '70 la situazione per tutti loro è diventata insostenibile. Agli ebrei viene concesso di partire con 20 sterline e una sola valigia. Così, alcune migliaia di ebrei libici avrebbero rifugio in Italia, principalmente tra Ostia, Latina e S. Maria Capua Vetere. E grazie a Elio Toaff (già rabbino capo di Roma) è stata una storia di integrazione che ha fatto bene a tutta la comunità italiana. Oggi a Roma ci sono ancora 4 sinagoghe di rito libico.

- Nel caso di Tunisi non sembra che si possa parlare di una matrice antisemita. Ma in tutti gli attentati precedenti, la componente anti-ebraica è stata molto forte.
  
Quando si colpiscono gli ebrei come a Tolosa, si vuole non solo colpire in termini fisici, ma anche dare un segnale al mondo libero. Storicamente proprio noi ebrei abbiamo costruito la cultura delle minoranze in occidente. Tutti gli attentati degli islamisti - Al Qaeda prima, Isis poi - hanno lo scopo di terrorizzare quell'Europa e quell'Occidente che hanno costruito le loro democrazie anche sulle ceneri della Shoah.

- Qual è la morale di tutta questa vicenda?
  Che Israele ha appena dato, con il voto, una prova di democrazia. È un insegnamento anche per gli islamofobi europei da Le Pen a Alba Dorata. E Salvini, che secondo me non ci crede fino in fondo ma usa comunque il modello Le Pen per costruire consenso in Italia. Noi ebrei siamo preoccupati dalla deriva dell' estrema destra lepenista: se per combattere l'Islam abbiamo gli xenofobi, allora il problema è grosso. Dico sì alla forza e alla sicurezza contro il terrorismo, ma sicuramente no all'odio e all'islamofobia.

(il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2015)


L'islam ci massacra ma qui l'emergenza sembra l'islamofobia

Marciamo verso il suicidio: c'è chi non vuole vedere che l'Isis ha programmato di annientarci. Basta leggere il Corano per capire da dove viene la vera minaccia.

di Magdi Cristiano Allam

Altro che l'allegoria dello struzzo che affossala testa sottoterra. La rappresentazione più veritiera di quest'Italia è dell'aspirante suicida, che pur di perseguire una tragica fine, nega e stravolge la realtà dei fatti. La strage perpetrata dai terroristi islamici a Tunisi, per noi italiani particolarmente traumatizzante per il gran numero di connazionali coinvolti, è l'ennesima conferma che siamo in guerra, una guerra che ci è stata dichiarata.
   Ma è anche una guerra che ci ostiniamo a tal punto di ignorare che, a livello di governo, si farnetica su accordi politici tra fazioni islamiche che in realtà si combattono all'ultimo sangue, mentre a livello di chi dovrebbe diffondere informazione corretta, si ideologizza la realtà sostenendo che il problema vero sono gli islamofobi nostrani, quei giornali che parlano male dell'islam.
   Ebbene se quest'Italia è votata al suicidio, non solo è da escludere in partenza che potremmo vincere una guerra che comunque subiamo, ma non siamo neppure in grado di rappresentare correttamente la realtà dei fatti. Continuiamo a far finta che il sedicente «Stato islarnico» dell'Isis non ci ha già additato come un nemico da combattere, che tutta la costa libica e sempre più pozzi petroliferi sono nelle mani di bande terroristiche islamiche, che l'Italia avrebbe già dovuto intervenire militarmente per salvaguardare la propria sicurezza considerando il rilievo strategico della Libia. Continuiamo a chiamare «foreign fighters», combattenti stranieri, con un'accezione neutra, dei pericolosissimi terroristi islamici tra cui ci sono circa 10mila con cittadinanza europea, che attestano che ormai il nemico è dentro casa nostra. Continuiamo a chiamare «lupi solitari», con una connotazione riduttiva, la realtà vincente di una struttura multitentacolare di micro-cellule - come quelle che hanno perpetrato le stragi di Tunisi, Parigi e Copenaghen - che proprio perché sono formate da pochissimi elementi e sono del tutto autonome sul piano organizzativo, risulta impossibile prevenire gli attentati e difficile reprimere la piovra dai mille tentacoli. Continuiamo a contrastare questo terrorismo islamico, che è ormai autoctono ed endogeno, con risorse umane valide professionalmente ma culturalmente inadeguate, perché non si è ancora compreso che la vera arma non sono le bombe, i kalashnikov e le cinture esplosive, ma il lavaggio di cervello che, all'interno delle moschee e dei siti che propagandano la guerra santa islamica, trasforma le persone in bombe umane la cui massima aspirazione è il «martirio».
   Ma soprattutto continuiamo a ripetere acriticamente e automaticamente dei luoghi comuni, «l'islam è una religione di pace» e «i terroristi non hanno nulla a che fare con l'islam», finendo per sostenere che islam e cristianesimo sono la stessa cosa, a prescindere da ciò che Allah ha prescritto nel Corano e da ciò che ha detto e fatto Maometto. Ecco perché, oggi più che mai, dobbiamo leggere il Corano, che per i musulmani è Allah stesso, opera increata e della stessa sostanza di Allah, per prendere atto della legittimazione divina della violenza dell'islam: «Allah ha comprato dai credenti le loro vite e i loro beni dando in cambio il Paradiso, poiché combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi» (9,lll).
   Domando: se l'odio, la violenza e la morte sono prescritti da Allah nel Corano, hanno ispirato la vita di Maometto, continuano ad essere la prassi dei terroristi islamici che ci sgozzano, decapitano e sterminano per il semplice fatto che siamo ebrei, cristiani, miscredenti, apostati, adulteri e omosessuali, descrivere correttamente questa realtà corrisponde a informazione corretta o islamofobia? Solo leggendo il Corano acquisiremo la certezza della verità che ci fortificherà dentro e affrancherà dalla vocazione al suicidio.

(il Giornale, 19 marzo 2015)


Va bene invitare a leggere il Corano al fine di “non essere disavveduti” (Efesini 5:17), ma forse un cristiano dovrebbe prima di tutto invitare a leggere la Bibbia. “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32) scrive Magdi Allam all’inizio del suo libro “il Corano”. Ma Allam sa benissimo che in quello stesso Vangelo di Giovanni Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Soltanto la verità che è in Gesù rende totalmente liberi. Una conoscenza che sa soltanto instillare paura non rende veramente liberi, ma fa soltanto passare da una schiavitù all’altra: dalla schiavitù dell’ignoranza a quella della paura. M.C.


Israele - La destra vince la corsa al voto degli ebrei fuggiti dall'Europa

Vengono soprattutto dalla Francia e chiedono mano dura con gli arabi.

di Eric Salerno

GERUSALEMME «È scritto nella Torà che la terra d'Israele è nostra e per questo sono venuta qui; per rispondere al comandamento di Dio». Yael Yosef, ha trentuno anni. È arrivata nella città santa con una ventina di immigranti dalla Francia pochi giorni dopo l'attentato nel supermercato di Parigi. Era tempo che voleva compiere il grande passo, lo stesso di 6,600 dei suoi concittadini francesi, ebrei, che nel 2014 si sono trasferiti in Israele. Un bacino di voti che tutti i partiti hanno corteggiato in queste settimane offrendo visioni diverse del futuro di questa nazione alla ricerca ancora della sua vera identità.

- IL NUOVO ESODO
  Oltre ai francesi (la maggioranza dei nuovi arrivati) sono approdati diciottomila ebrei dal resto del mondo. Famiglie intere e dunque con bambini e giovani che non possono votare, ragazzi e ragazze in età da militare, adulti in età lavorativa e pensionati. Chi spinto dalla paura per l'antisemitismo crescente, chi dalla guerra in Ucraina, chi dalla situazione socio-economica in Russia o altrove, chi alla ricerca di una vita migliore come molti di quelli venuti dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall'America sia Nord che Sud, e dall'Etiopia. Quasi tutti avevano preparato da tempo la mossa, come i francesi Simon e Odette Alfasi. «Vivremo vicino al resto della nostra famiglia, a figli e nipoti». O Lor Alkoby, 23 anni, anche lui dalla Francia ora a Gerusalemme. «Ho lasciato tutto alle spalle, lavoro, famiglia. Da sempre volevo venire qui perché è il mio paese, il mio sogno».
  Per molti ebrei della diaspora, Israele è una sfida. Quasi tutti sono stati qui almeno una volta. Molti conoscono la lingua e questo li aiuterà. Chi è in pensione e ritrova famiglia e vecchi amici si adatta rapidamente. Soprattutto se non ha difficoltà economiche: Israele è oggi uno dei paesi più cari del mondo. Il problema della casa è stato uno dei temi scottanti della campagna elettorale, così come il carovita in generale. Per chi deve integrarsi nel mercato del lavoro, la realtà è ancora più dura. E non sempre superabile. Secondo uno studio pubblicato di recente, il quaranta per cento dei nuovi arrivati da Francia e Stati Uniti pensa già di tornare nei loro paesi d'origine.
  La misura dell'incertezza può essere ricavata anche dai dati riguardanti il numero dei cittadini israeliani che si sono trasferiti dall'estero. Quasi un milione dei sei milioni di ebrei di qui ha scelto una vita lontana dalla loro patria. «Non sapremo mai quanti israeliani ci sono negli Stati Uniti», commentava recentemente un funzionario preposto al censimento. L'Australia è un'altra meta preferita. E persino a Berlino, all'ombra dei ricordi dell'Olocausto, si vive meglio, sembrano dire i ventimila nuovi residenti ebrei-israeliani della capitale tedesca. Le difficoltà economiche sono tra i maggiori fattori. Sicurezza e tensione, altre. Ben, giornalista in pensione, ha lasciato dopo venticinque anni. «Sono in pensione. Voglio stare tranquillo». È stato qui per una breve visita ed è tornato in America pochi giorni fa senza nemmeno aspettare di votare.

- LE SCELTE ELETTORALI
  Il fenomeno preoccupa. Netanyahu ha fatto di tutto per sfruttare l'antisemitismo in Europa e convincere gli ebrei a emigrare. E la sua macchina elettorale ha cercato di convincere i nuovi arrivi a votare per lui. Qualcosa avrà sicuramente ottenuto. La stragrande maggioranza degli immigrati dalla Francia sono ebrei sefarditi (dai paesi del Magreb) tradizionali, religiosi, conservatori e come i loro fratelli e sorelle in Israele tendono a votare per il Likud o i partiti religiosi. Sono contrari a uno stato palestinese e per paura o ignoranza chiedono mano dura con gli arabi.

(Il Mattino, 18 marzo 2015)


Vi spiego perché Israele ama Netanyahu. Parla il prof. Ugo Volli

di Michele Pierri

Conversazione di Formiche.net con Ugo Volli, semiologo e filosofo del linguaggio, professore ordinario all'Università di Torino e autore della prefazione del libro "Ebrei contro Israele" di Giulio Meotti (Belforte, 2014). Su Twitter scrive: "Difendo Israele, lotto contro l'antisemitismo".

 
La riconferma di Netanyahu nelle elezioni israeliane di ieri, lo schiaffo a Obama, i riflessi sul negoziato nucleare con l'Iran e tutti gli ostacoli alla formazione di uno Stato palestinese.
Ecco alcuni dei temi affrontati in una conversazione di Formiche.net con il semiologo e filosofo del linguaggio Ugo Volli, professore ordinario all'Università di Torino e autore della prefazione del libro "Ebrei contro Israele" di Giulio Meotti (Belforte, 2014). Su Twitter scrive di sé: "Difendo Israele, lotto contro l'antisemitismo".

- Professore, perché gli israeliani hanno riconfermato Netanyahu?
  
Cominciamo col dire che la sua è stata una vittoria inaspettata. I sondaggi non lo vedevano favorito e nemmeno opinionisti e analisti, forse troppo influenzati dalla propaganda dei Democratici americani. Invece lo stesso Obama, criticandolo, lo ha rafforzato agli occhi dell'elettorato. Penso infatti che gli israeliani abbiano dato il proprio consenso a chi ha detto di voler compiere scelte politiche che tutelano in modo migliore la sicurezza dei cittadini.

- Credeva che le questioni economiche, di cui si è molto discusso sui media, avrebbero avuto maggior peso nell'orientamento al voto?
  
No, perché sui media, soprattutto quelli occidentali, c'è stata una pessima informazione riguardo a ciò. Il reddito dei cittadini israeliani è cresciuto molto più di qualsiasi Paese europeo negli ultimi anni. Attrae capitali da tutto il mondo e ha un'economia avanzata, che produce posti di lavoro qualificati, soprattutto nel settore tecnologico. La disoccupazione è ai minimi. E anche la questione abitativa è un falso problema. Ovvio, comprare casa nel centro di Tel Aviv è oggettivamente caro, così come lo è acquistarla nel centro di Roma o Milano, ma ciò non vuol dire che non sia possibile. Anche in Israele ci sono disuguaglianze, ma non più che in altri Stati.

- Che tipo di coalizione proverà a costruire Netanyahu?
  
La coalizione è già in qualche modo fatta. Al Likud, che conta già su una trentina di parlamentari, si uniranno alcuni partiti di destra. Penso a Israel Beytenu di Avigdor Lieberman e al partito dei coloni Focolare Ebraico di Naftali Bennet. Così mancherebbero circa 3 o 4 voti dalla maggioranza. Questi dovrebbero arrivare dal movimento centrista Kulanu di Moshe Kahlon, ex componente del partito di Netanyahu che ha avuto buon riscontro. Questo dovrebbe consentire al premier di avere una maggioranza di 64-66 parlamentari su 120.

- I rapporti tra Netanyahu e la Casa Bianca non sono compromessi, ma sicuramente tesi. Come è stata presa a Washington la sua riconferma secondo lei?
  
Obama ha cercato con finanziamenti e uomini di impedire la rielezione di Netanyahu. Non ci è riuscito. Israele e Usa sono e resteranno solidi alleati per una lunghissima serie di ragioni, ma certamente le divergenze su alcuni dossier, come quello iraniano, si fanno sentire. Ma su questo, come altri temi, il popolo israeliano ha dimostrato di sostenere la linea del premier uscente.

- Negli Usa vive però una delle più grandi e influenti comunità ebraiche al mondo. Crede che Obama potrà non tenere conto del risultato del voto?
  
Penso che non potrà far finta di niente. Dovrà necessariamente trovare una linea di equilibrio su alcuni dossier, sia quello iraniano sia quello della nascita di uno Stato palestinese. Questo equilibrio potrebbe partire da un gesto semplice: tenere conto delle preoccupazioni espresse da Netanyahu e confermate nelle urne dagli israeliani.

- Cosa divide gli israeliani e Washington sul dossier iraniano?
  
Bisogna porre con chiarezza dei limiti tecnici che impediscano all'Iran di dotarsi per sempre dell'arma atomica. Secondo i termini discussi finora, Teheran non avrebbe problemi ad avere un'arma nucleare nel medio periodo. E tutto ciò è inaccettabile per Tel Aviv. In primo luogo perché la Repubblica Islamica ha più volte ripetuto che uno dei suoi obiettivi è cancellare Israele dalla cartina geografica. E poi perché l'Iran è al momento un Paese che porta avanti una politica imperialista che minaccia la stabilità dell'intera regione, come dimostrano le sue ingerenze in Siria, Libano, Irak.

- E quali sono i dubbi sulla nascita di uno Stato palestinese?
  
Anche in questo caso, non c'è una chiusura pregiudiziale. Ma resta un dato di fatto che i confini discussi finora siano a un tiro di schioppo da obiettivi sensibilissimi per Israele. A 3 Km dall'unico aeroporto internazionale del Paese e a 10 da Tel Aviv. Ovviamente chi non vive la realtà israeliana non si rende conto di questi aspetti. Al momento non ci sono le condizioni per la pace, anche perché sono gli stessi palestinesi a non riconoscere lo Stato d'Israele. Per non parlare poi del problema terrorismo, di Hamas e non solo. Dunque, premere su un progetto che allo stato attuale non fa sentire sicuri gli israeliani, produce solo più tensioni. Obama dovrebbe comprendere anche questo e prendere atto che tutta la sua politica estera si è rivelata inconcludente.

(formiche.net, 18 marzo 2015)


Tutte le sfide di Netanyahu su difesa e sicurezza

di Michele Pierri

Il partito Likud del premier Benjamin Netanyahu ha conquistato 30 seggi nella futura Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, davanti di 6 scranni all'Unione Sionista di Herzog e Livni, che ne ottiene 24. Ciò consentirà a "Bibi" di tentare la formazione di un nuovo governo di centrodestra, che avrà numerose sfide in settori come la difesa e la sicurezza dello Stato ebraico, temi sui quali l'elettorato ha premiato le posizioni nette del premier uscente.

IL DETERIORAMENTO IN CISGIORDANIA
Chiusa la competizione elettorale, spiega il Jerusalem Post, il vincitore incontrerà quasi immediatamente i capi dell'esercito - l'Idf - e dell'intelligence israeliana, con i quali confrontarsi per decidere le future mosse da compiere. Il primo nodo è il progressivo deterioramento della situazione in Cisgiordania (o West Bank), dove "sono in crescita disordini e attacchi terroristici spontanei e non pianificati e, secondo fonti di sicurezza, sono destinati a crescere ancora in primavera ed estate". Anche Israele, dunque, deve confrontarsi con quel tipo di terrorismo molecolare che ha sconvolto più volte l'Europa, recentemente a causa della strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo. "Mentre i servizi d'intelligence - rileva il quotidiano - sono stati finora in grado di tenere sotto controllo il terrorismo palestinese, non possono precorrere attacchi imprevisti realizzati da coloro che non sono membri di organizzazioni note, come Hamas" o altre forme di radicalismo islamico. Anche nella striscia di Gaza - ha ricordato in una conversazione con Formiche.net Umberto Minopoli, il primo ministro avrà poche buone opzioni sul tavolo. Hamas, sottolinea il JP, sta conducendo "un ambizioso programma di riarmo di razzi e di ricostruzione di tunnel in vista di un prossimo scontro, che l'esercito israeliano considera" per certi versi "inevitabile". E al qual si sta preparando.

IL PERICOLO HEZBOLLAH
Ma le minacce in via di sviluppo a Gaza, prosegue il giornale israeliano, sono sminuite da quella posta da Hezbollah nel sud del Libano. "La buona notizia - si legge - è che Hezbollah, il gruppo terrorista più pesantemente armato al mondo, in possesso di un vasto arsenale di razzi, non è interessato a uno scontro con Israele in questo momento. La cattiva è che questo proxy iraniano si sta muovendo dalla sua base principale nel sud del Libano verso la Siria meridionale, dove sta combattendo per conto del regime di Assad, e allo stesso tempo cerca di stabilire un nuovo fronte di jihadisti sciiti contro Israele". Netanyahu non potrà sottovalutare questa situazione, che rischia di degenerare nei prossimi mesi.

IL DOSSIER IRANIANO
Infine vi è il dossier iraniano. Tel Aviv considera inaccettabili i termini dell'accordo sul programma nucleare di Teheran, che starebbe per essere chiuso dopo un lunghissimo negoziato e che ha visto confrontarsi il gruppo dei cosiddetti 5+1 e i vertici della Repubblica Islamica. Netanyahu l'ha ribadito forte e chiaro alla vigilia delle elezioni, nel contestato discorso al Congresso che ringalluzzito i Repubblicani e raffreddato i rapporti già tesi con la Casa Bianca. Questa sua linea dura, ricorda Reuters, ha pagato nelle urne, e dunque difficilmente muterà. Gli israeliani hanno confermato la volontà di mantenere l'asse del Paese su posizioni di destra e nei prossimi mesi, questa scelta inciderà sicuramente negli equilibri internazionali, soprattutto in Medio Oriente, dove Tel Aviv sta tessendo relazioni di mutuo interesse con Stati come Egitto, Arabia Saudita e Giordania, allo scopo di contenere lo Stato Islamico, ma soprattutto l'Iran, che guadagna posizioni in Libano, Siria e Irak.

IL LEGAME CON GLI USA
Un primo effetto concreto, nel frattempo, la vittoria di Netanyahu lo ha già sortito: obbligare Washington a tenere conto del successo di Bibi. Per alcuni osservatori non poteva essere altrimenti. Il semiologo e filosofo del linguaggio Ugo Volli, sentito da Formiche.net, ha rimarcato come, nonostante le tensioni recenti, i legami tra "la Casa Bianca e Israele rimangano forti a prescindere da chi vada al governo. Ma Obama non potrà fingere che il popolo israeliano non abbia premiato le posizioni del premier uscente su temi come l'Iran o la nascita di uno Stato palestinese alle condizioni odierne". Una posizione confermata dal New York Times, che sottolinea come il capo di Stato Usa e il suo entourage non sprizzino certo gioia per l'affermazione di Netanyahu, inattesa alla vigilia, ma siano disposti a scendere a compromessi. "È importante per la nostra sicurezza nazionale, sostenere la sicurezza di Israele", sono state nelle scorse ore le parole più che eloquenti della deputata californiana Nancy Pelosi, uno dei leader democratici più critici nei confronti del discorso di Netanyahu al parlamento americano.

(formiche.net, 18 marzo 2015)


Cena Kasher con l'Associazione culturale Italia-Israele di Ventimiglia

La prima cena di incontro armonioso fra due culture

Chi ritiene che il modo migliore di conoscere una nuova cultura sia attraverso la scoperta di piatti tradizionali avrà, letteralmente, pane per i propri denti nel corso della prossima iniziativa dell'Associazione Culturale Italia- Israele, di Ventimiglia, il 29 marzo.
La presidente, Maria Teresa Anfossi e tutto il suo gruppo, ha organizzato una cena Kasher, che in ebraico significa: valido, adatto, buono. Si dicono Kasher gli alimenti che possono essere consumati dagli esponenti delle comunità ebraiche, in seguito a lunghi processi di controllo, secondo le regole alimentari stabilite nella Torah.
La cena Kasher comprenderà un connubio di piatti tipici ebraici assieme a quelli cucinati nel ghetto ebraico di Roma. Ecco il menù: tortino alciotti e indivia, bigoli all'acciuga salata su crema di broccolo romanesco, baccalà gratinato all'ebraica, vignarola di carciofi, piselli e fave, crostata alla marmellata, ricotta con gelato al fior di latte e caffè.

Per informazioni contattare l'Associazione: ventimiglia@federazioneitaliaisraele.it
tel 389 0628931

(Sanremo News, 18 marzo 2015)


Israele ha vinto

di Marcello Cicchese

Netanyahu dunque ha vinto. In modo netto. Imprevisto, dicono molti. Perché imprevisto? Sulla base di quali fondamenti si fanno certe previsioni? Sarebbe interessante rileggere, a cose fatte, la miriade di articoli "intelligenti" con cui editorialisti preparati e documentati, sorretti da "scientifici" sondaggi, hanno annunciato l'inevitabile declino dello storico intralcio al raggiungimento della "pace": Benjamin Netanyahu. Eppure, diversi segni avrebbero potuto far capire che questo risultato poteva benissimo rientrare tra quelli possibili, se non probabili, come poi si è visto. La spiegazione di questa incapacità di lettura dei segni sta nella loro natura, perché sono segni che hanno a che fare con il "fattore Dio" (il Signore mi perdoni per questa dizione, usata a scopi esclusivamente giornalistici). Con Israele, e in particolare con Gerusalemme, i commentatori di tutte le tendenze continuano a "fare i conti senza l'Oste", perché non danno importanza al menù, con relativi prezzi, che pure già da secoli è appeso fuori dell'entrata di Gerusalemme. Chi invece cerca di essere attento a quei segni, non per questo ha la certezza di sapere in anticipo tutto quello che avverrà, ma davanti a differenti possibilità riguardanti il paese, prima ancora di arzigogolare su quello che lui ed altri riescono ad immaginare intorno a fatti che potrebbero avvenire nel futuro, si chiedono: ma che cosa ha già detto Dio a questo riguardo nel passato? Che cosa ne penserà oggi? Che cosa deciderà di fare? Per rispondere a queste domande non si va certamente a leggere gli articoli di Repubblica, e nemmeno quelli del Giornale, ma si riflette su quello che sta scritto nella Bibbia.
Esaminiamo allora alcuni fatti che hanno preceduto questa votazione. Credo che molti abbiano notato la straordinaria concordia degli oppositori dell'attuale Primo Ministro israeliano; i motivi potevano essere i più diversi, ma tutti cantavano in coro: Netanyahu se ne deve andare, è lui l'ostacolo, senza di lui tutto andrà meglio. Qualcuno forse non se ne sarà accorto, ma chi è abituato a tener conto del "fattore trascurato" avrà capito che molti dicevano Netanyahu per sottintendere Israele. So bene che molti negheranno questo, anche fra gli ebrei, anche fra gli ebrei israeliani, ma la loro buona fede non è decisiva per capire come stanno le cose.
Ecco alcuni elementi che possono aver indotto a dubitare dell'inevitabile caduta di Netanyahu, alcuni dei quali sono stati già indicati su queste pagine.
  1. La preghiera pubblica di Noa: «Shma Yisrael, Adonai eloheynu. (Ascolta Israele, il Signore è il nostro unico Dio). Buon Dio, eccomi, sono Achinoam, la ragazzina (...). T'imploro di inviare saggezza e compassione ai cuori dei nostri cittadini, che votino per liberare il Paese del governo razzista, distruttivo, arrogante di Benjamin Netanyahu e le sue coorti. Ti prego, Dio, mandali a casa!» Avevamo aggiunto, in calce all'articolo che avevamo riportato, una breve osservazione: "Chissà se sarà contento Dio di questo uso del suo nome a scopi elettorali". Certamente, ci sono altre persone che silenziosamente e non in pubblico hanno chiesto al Signore di intervenire in modo diverso da quello chiesto da Noa, pur sottomessi alla sua suprema volontà. Per quel che mi riguarda, dico soltanto che nella mia preghiera c'era la richiesta evangelica indicata da Gesù: "Sia santificato il tuo nome". Ed è indubbio che nella preghiera di Noa, dettata da una non incolpevole ignoranza, sono presenti elementi di menzogna con i quali non si può chiedere il coinvolgimento del nome del Signore. E il Signore, a quanto pare, non ha voluto esserne coinvolto.
  2. Netanyahu ha avuto la determinatezza, anche davanti a un "potente" del mondo come Obama, di cui dovrebbe essere messa in evidenza non l'antipatia per Netanyahu ma l'avversione per Israele, insieme al determinato proposito di indebolirlo fino a metterlo nell'impossibilità di difendersi, di continuare a manifestare la ferma volontà di difendere il suo paese da un nemico dichiarato come l'Iran. Netanyahu, da navigato politico qual è, si è fermato qui, ma forse nella sua mente avrà pensato che col suo discorso stava difendendosi anche da un nemico non dichiarato, ma per questo più temibile. La sua era un'azione giusta da fare, quali che fossero le conseguenze politiche che secondo gli immancabili previsionisti ne sarebbero scaturite.
  3. Netanyahu ha dichiarato pubblicamente che con lui al governo Gerusalemme non sarebbe stata divisa. Questa è una esplicita volontà dell'Oste, ed è con lui che bisogna fare i conti, non con i maestri di menzogna che dirigono le Nazioni Unite. A onor del vero, Netanyahu, al contrario di altri importanti personaggi politici molto ossequiati dai media, ha sempre detto che Gerusalemme non deve essere divisa, ma ha anche cercato di non sottolinearlo troppo. In questa occasione invece l'ha ripetuto esplicitamente, e vi ha aggiunto un'inevitabile conseguenza che fino a poco fa non aveva espressa: la negazione della possibilità di uno stato di Palestina. Il fatto in realtà è ovvio, ma per qualche motivo non si sottolinea abbastanza: dire sì a uno stato palestinese significa dire sì alla divisione di Gerusalemme. Netanyahu ha detto che con lui al governo questo non sarebbe avvenuto, e con ciò ha indicato la direzione giusta in cui muoversi: una direzione in linea con la già dichiarata intenzione di Dio.
Tutto questo poteva ragionevolmente far pensare che Dio avrebbe potuto, ancora una volta, farsi beffe delle parole degli uomini. "Dio conosce i pensieri dei savi, e sa che sono vani", "Dio prende i savi nella loro astuzia": così sta scritto nella Bibbia e così è avvenuto. La cosa migliore che commentatori e giudici di Israele dovrebbero fare è decidersi a inserire tra i loro elementi di valutazione il "fattore Dio". Si può farlo in modi sbagliati, ma il non farlo conduce inevitabilmente a conclusioni sbagliate.
Detto questo, non so che cosa avverrà fra poco, né quello che lo stesso Netanyahu farà di sua spontanea volontà o sarà costretto a fare nei prossimi mesi. Ma resta il fatto che per quel che riguarda questione Israele, quello che si dice pubblicamente è più importante di quello che si fa. Perché ciò che realmente avviene, in ultima analisi, non dipende da quello che prevedono e decidono gli uomini, ma da come Dio valuta quello che dicono e fanno gli uomini, per fare alla fine quello che Lui stesso ha deciso di fare.

(Notizie su Israele, 18 marzo 2015)


Netanyahu è il vincitore "contro tutte le previsioni" delle elezioni israeliane

Il suo Likud conquista 30 seggi. La sinistra di Herzog ferma a 24. Ora inizia la partita delle alleanze

di Rolla Scolari

 
Lo chiamano re Bibi, Mister Sicurezza, Bibi e basta, ma in queste ore Benjamin Netanyahu è soltanto il vincitore "contro tutte le previsioni", come ha detto lui, delle elezioni israeliane. Se con l'arrivo degli exit poll ieri sera - parità a 27 seggi tra il suo Likud e l'Unione sionista del laburista Isaac Herzog - la sua performance elettorale poteva considerarsi già un successo, questa mattina Israele si risveglia con una vittoria certa - "soundly", dice il New York Times - di un politico abile.
   Secondo i siti dei maggiori quotidiani israeliani, con il 99 per cento delle schede scrutinate il Likud di Netanyahu avrebbe raggiunto 30 seggi, l'Unione sionista 24. Herzog negli ultimi sondaggi prima del silenzio imposto alla vigilia del voto aveva un vantaggio di quattro seggi. Se ieri sera sia Bibi che Buji, il nomignolo di Herzog, si attribuivano il successo, questa mattina non è più il tempo di una doppia narrativa di vittoria. Il premier, che ieri dopo la mezzanotte è arrivato al quartier generale elettorale dove da ore si cantava e ballava con le bandiere bianche e blu del Likud dispiegate a uso e consumo delle telecamere dei giornalisti, ha detto che ha già contattato i capi dei principali partiti israeliani e che pensa di poter formare un governo in due o tre settimane.
   Per governare in Israele occorre formare equilibri e intese capaci di garantire al futuro primo ministro 61 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento. Il presidente di Israele, Reuven Rivlin, dopo consultazioni con i leader di tutte le fazioni, darà l'incarico al politico con più possibilità di realizzare l'intricato incastro matematico, quasi sicuramente Netanyahu. Il capo di stato, però, ha subito fatto capire ai due principali sfidanti di questo voto all'ultimo seggio di essere favorevole a un governo di unità nazionale, ipotesi che il premier aveva già scartato a priori prima del voto e che adesso, promettendo un esecutivo di destra, mette proprio da parte.
   Nelle prossime ore, nei prossimi giorni, la corona di re è nelle mani di un politico diventato in queste elezioni l'ago della bilancia. Moshe Kahlon è un ex ministro delle Telecomunicazioni del Likud, popolare in Israele per una riforma che ha abbassato i prezzi della telefonia mobile. Dopo aver lasciato il partito di Bibi ha fondato Kulanu (Noi Tutti), un partito centrista focalizzato sui temi socio-economici cari alla sinistra. Al mercato delle alleanze e delle fragili intese della politica israeliana, la creazione di un governo e il futuro di premier dipendono da chi saprà assicurarsi i suoi dieci seggi.
   Se l'ipotesi di un governo di unità nazionale pare più lontana, non è detto che Netanyahu non possa invitare proprio il suo rivale Herzog a sedere con lui nel governo, spiega al Foglio Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz. La presenza del laburista in un esecutivo formato da Bibi potrebbe servire a moderare gli spigoli - ci saranno in coalizione partiti religiosi e della destra più radicale - e servire al premier soprattutto nelle aspre relazioni con la comunità internazionale.

(Il Foglio, 18 marzo 2015)


Il trionfo di Netanyahu e tutte le possibili alleanze di governo

di Yasha Reibman

In Israele i sondaggi sono stati traditi, ma i risultati elettorali oramai definitivi potrebbero lasciare spazio a sorprese quando si formerà il governo. Doveva essere la sconfitta del primo ministro Benjamin Netanyahu e la rivincita della gauche sionista tuttora orfana di Itzhak Rabin e dei padri nobili che hanno costruito il paese. E' stata la sconfitta della sinistra. I laburisti hanno fatto grandi passi avanti, ma non hanno sfondato; Isaac "Bougie" Herzog, figlio dei "Kennedy" israeliani, e l'alleata Tzipi Livni non hanno riportato il partito al centro del paese. Meretz, il partito del kibbutz e dei diritti civili, ha perso un terzo dei seggi e la segretaria Zehava Galon ha già dato le dimissioni.
   E' stata la sconfitta di chi, pur alleato nel precedente governo, si è opposto al primo ministro Netanyahu in questi anni, primo tra tutti Yair Lapid, leader di Yesh Atid, uscito quasi dimezzato. E' stata la sconfitta dei partiti della destra più dura, Yachad non è nemmeno entrato nella Knesset, mentre Naftali Bennet e Avigdor Lieberman sono stati cannibalizzati dal climax che Netanyahu ha saputo creare nelle ultime settimane.
   Hanno vinto gli arabi israeliani, che per la prima volta son riusciti a presentare una lista unita per non disperdere i voti, ma che da domani resteranno divisi tra loro e all'opposizione. Da ultimo, è stata la sconfitta del presidente degli Stati Uniti Barak Obama. Già ieri sera Netanyahu ha proclamato la vittoria, ma al risveglio il sorriso di Bibi e della moglie Sara, denigrata e attaccata a lungo nella campagna elettorale, è diventato ancora più largo. Eppure i dati dicono anche altro. La Knesset è formata da 120 deputati, Netanyahu dovrà ora riuscire a superare la soglia dei 61 per continuare a governare. Sulla carta i giochi sembrano fatti. Il Likud, il partito del premier, avrà 30 deputati, Bennet e Lieberman insieme occuperanno altri 14 seggi. Se anche Netanyahu volesse imbarcare i religiosi arriverebbe a 57.
   Diventano allora decisivi Moshe Kahlon, leader di Kulanu (10 deputati), e Lapid (11 seggi). Lapid dovrebbe essere alternativo ai religiosi e, sebbene sia dato per scontato l'accordo, non è detto che Kahlon voglia dare il via libera a un governo molto spostato a destra, in cui finirebbe per ricoprire l'ala sinistra e dove si ritroverebbe con alleati con i quali è difficile trattare per le riforme economiche al centro del suo programma. Sebbene questa possibilità sia data dai bookmaker come remota, se Kalhon e Lapid si mettessero di traverso e si opponessero a dare il via libera alla "coalizione di destra", potrebbe aprirsi la strada alla grande coalizione con i laburisti. Una soluzione auspicata dallo stesso presidente di Israele, Reuven Rivlin. Si profilerebbe una stabilità maggiore, con la minor necessità di aver molti partiti coinvolti e con una larga maggioranza su cui contare. Questa soluzione potrebbe convenire a Kahlon e Lapid, che arriverebbero a rappresentare il centro nello schieramento governativo. Netanyahu sarebbe indebolito. Bennet e Liberman potrebbero restare fuori dal governo e riprendere i voti persi. Eppure, questa soluzione potrebbe anche essere segretamente desiderata dallo stesso Netanyahu, poiché gli permetterebbe di uscire dalla retorica elettorale senza doverla tradire platealmente e favorirebbe le relazioni internazionali con America ed Europa.
   
(Il Foglio, 18 marzo 2015)


Soldati israeliani giocano a calcio con bambini palestinesi

Il video è stato caricato sulla pagina Facebook "jewish standard" e in pochi minuti ha ricevuto migliaia di commenti, di "mi piace" e di condivisioni.

ROMA - Soldati che giocano a calcio con bambini. Tra pallonate che sfiorano le mitragliette puntate a terra, in una piccola strada cittadina. Un'immagine di per sé spiazzante, ancor di più se i soldati sono israeliani e i bambini palestinesi. Il video è stato caricato sulla pagina Facebook "jewish standard", il settimanale ebraico indipendente più antico (la fondazione risale al 1931) in New Jersey. Il video è stato accompagnato da questo post (ovviamente scritto in lingua inglese): "Momenti come questo, dove i soldati delle forze di difesa israeliane di pattuglia ingaggiano una partita di calcio con giovani palestinesi, spesso non fanno notizia. Una delle meraviglie di Facebook è come facilmente si può trasmettere un momento come questo alle persone che si conoscono. Israele e il conflitto sono complicati. Gli esseri umani che costituiscono i momenti banali, quotidiani che non fanno le notizie sono ciò che rende il futuro così fiducioso". Nelle immagini si nota il blindato, su cui probabilmente viaggiavano i soldati, parcheggiato di lato, come se i militari non avessero resistito alla tentazione improvvisa di accostare l'auto e tirare due calci al pallone. Il video, della durata di pochi minuti, si è subito fatto intercettare dal popolo dei social, che a migliaia l'hanno commentato e condiviso sulle proprie bacheche.
(Quotidiano.net, 17 marzo 2015)


Camera e università italiane pronte a ospitare il boicottatore di Israele

di Giulio Meotti

Dal 18 al 20 marzo, le università italiane promuoveranno nelle loro aule la campagna di Omar Barghouti. Lui è il fondatore del Bds, il movimento internazionale per il boicottaggio di Israele. È il padrino di tutte le recenti campagne che hanno spinto banche, aziende, chiese, sindacati, università e corporazioni a disinvestire dallo stato ebraico. Barghouti ha anche scritto la bibbia del movimento antisraeliano, "Boycott, Divestment, Sanctions".
Prima tappa italiana di Barghouti sarà la Camera dei deputati, poi l'Università di Roma Tre (Dipartimento di Scienze Politiche), infine l'Università di Torino. Molte le ong italiane coinvolte in questa iniziativa antisraeliana, dall'Arci a Pax Christi.
I rettori delle università avrebbero dovuto negare una platea accademica a Barghouti. Non si tratta, infatti, di un docente o un intellettuale critico di Israele, in quel caso sarebbe valsa la benedetta libertà di espressione. Barghouti è a capo di una campagna che nega a Israele il diritto di esistere. Accusa lo stato ebraico di "apartheid", "crimini di guerra e contro l'umanità", "pulizia etnica" e perfino di "nazismo".
La scelta del BDS di Barghouti delle società da boicottare in Israele rivela un odio per l'esistenza stessa di Israele. Infatti, i loro obiettivi sono il popolo ebraico, non gli insediamenti. BDS boicotta società che semplicemente portano l'etichetta "Made in Israel". Un veleno che non doveva entrare nelle nostre università.

(Il Foglio, 17 marzo 2015)


Ronde di soldati col mitra alla sinagoga

Scattate le misure straordinarie per i principali obiettivi della comunità ebraica.

Tre militari a perlustrare le strade intorno alla sinagoga, in mezzo ai passanti e con tanto di fucile mitragliatore a tracolla. Le nuove misure di sicurezza per le principali strutture della comunità ebraica, disposte sulla scia dell'allerta terrorismo, sono già scattate. Dallo scorso fine settimana una pattuglia di tre soldati si è andata ad aggiungere alla sorveglianza fissa della sinagoga. I controlli, divisi su più turni, prevedono frequenti passaggi in strada, armi alla mano, in particolare lungo via Farini, via Carducci, piazza Sant'Ambrogio e via dei Pilastri. Una presenza che ha finito anche per sollevare qualche malumore tra residenti e commercianti: «Vederli sfilare sul marciapiede con il mitra in mano, in mezzo alla gente, mette un po' di ansia — si lamenta un abitante — mi chiedo se lo stesso tipo di servizio non si poteva fare in modo meno invasivo. A volte si fermano anche per qualche secondo nella piazza, in questo modo si rischia di trasmettere l'immagine di un quartiere militarizzato». «Meglio così — scherza invece un altro residente — forse ci saranno meno balordi in giro».
Il servizio di ronda è stato disposto dal comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal prefetto Luigi Varratta. Il comitato ha deciso di impiegare sul versante dei controlli antiterrorismo i trenta soldati arrivati nei giorni scorsi a Firenze, sulla base di un progetto del ministero che prevede l'impiego di contingenti di militari per attività di "sicurezza urbana". Oltre che per i potenziali obiettivi legati alla comunità ebraica, i rinforzi sono stati impiegati anche sul fronte della sicurezza dei cantieri dell'Alta Velocità. Nel complesso, in tutta la Toscana sono stati inviati soldati nelle province di Firenze, Prato, Lucca e Livorno.

(la Repubblica, 17 marzo 2015)


Fansino: la migliore App dell'anno è israeliana

Siliconwadi.it lo aveva già anticipato con un post di Facebook, al Mobile World Congress 2015, il più grande evento del settore dei dispositivi mobile che ha avuto luogo recentemente a Barcellona, il premio per la Migliore Applicazione dell'Anno è stato consegnato alla startup israeliana Fansino che ha battuto altri 800 concorrenti.
Questa applicazione israeliana per dispositivi mobili, sviluppata dagli israeliani Haran Yaffe e Omri Erez, permette ai fan della musica di interagire con i musicisti. Offre anche la possibilità agli artisti di comunicare e connettersi con i loro fan in tempo reale, ovvero mentre questi ultimi ascoltano il loro brano preferito. Sempre dedicata ai fan, l'applicazione permette loro di ricevere informazioni sugli artisti, sulle date dei concerti, incoraggiando anche l'interazione sui social network....

(SiliconWadi, 17 marzo 2015)


L'amnesia d'Israele e la memoria di ferro dei suoi nemici

di Mario Rimini

 
Israele vive oggi un'allucinazione fallace e pericolosa, di cui le elezioni hanno messo a nudo i sintomi. Lontano dal fervore pionieristico degli inizi; rimosso dall'ardore disperato di guerre di sopravvivenza; orfano del pudore carismatico della ormai estinta generazione dei padri della patria, lo Stato ebraico vuole credersi normale. E' un gran conforto, sentirsi normali. E così gli israeliani vogliono credere che la sabbia di Tel Aviv sia davvero Ipanema. Che Cesarea sia davvero Nizza. Che Eilat sia davvero la Florida. Che la Galilea sia davvero la Provenza. Che le spa sul Mar Morto siano davvero le stazioni termali dell'Europa e del Mediterraneo. Che le fertili terre coltivate siano davvero un'eterna Pianura Padana. Che partecipare all'Eurovision faccia di Israele uno stato europeo. Che i tornei di calcio e il turismo e la movida notturna siano davvero come a Barcellona, o a Milano. Gli israeliani si sono convinti - paradossalmente, anche grazie alla relativa sicurezza e prosperità che il lungo regno di Netanyahu ha garantito - di questa normalità che però purtroppo, quasi 70 anni dopo la fondazione precaria del loro stato, ancora non esiste. Anzi, esiste sempre meno. (leggi anche "L'incoscienza d'Israele").
  Dunque abbiamo appreso che le preoccupazioni degli israeliani alla vigilia delle elezioni erano rivolte al costo nella vita, ai prezzi nei supermercati, alla giustizia sociale, alle pensioni. Questioni rilevanti, certo. Ma non quando si è al fronte. E Israele sembra voler smantellare un lungo periodo di governo del centro-
Hanno dimenticato, gli israeliani in cerca di normalità, che la loro capitale non è riconosciuta da nessuno. Neanche dagli amici. Che vivono entro confini fittizi e indeterminati che il mondo intero contesta, amici compresi. Che ieri c'erano le serre e i pomodori a Gaza, mentre oggi ci sono i tunnel di Hamas.
destra in nome di valori, problemi e priorità che sarebbero perfettamente razionali in Danimarca, o in Canada. Dimenticando che Gerusalemme non è Ottawa, né Copenaghen. Hanno dimenticato, gli israeliani in cerca di normalità, che la loro capitale non è riconosciuta da nessuno. Neanche dagli amici. Che vivono entro confini fittizi e indeterminati che il mondo intero contesta, amici compresi. Che ieri c'erano le serre e i pomodori a Gaza, mentre oggi ci sono i tunnel di Hamas. Che se oggi esistono le università della Cisgiordania e le città sulle colline della Giudea, esse sono come colonie su Marte, avamposti artificiali in un pianeta ostile dell'atmosfera che uccide. Dimentica, Israele, che su scala nazionale lo Stato non è poi molto dissimile dal ghetto del passato. I vicini sono nemici, sempre più armati, sempre più risoluti nel loro progetto di sterminio. E l'economia, in guerra, non è la priorità.
  Dimenticano che la pensione è di per sé un progetto a lungo termine - e il futuro lontano, nell'equazione di Israele, non smette mai di essere variabile per farsi finalmente constante. Dimentica, Israele, che solo la forza militare, ancora solo quella, le permette di esistere, e che se i nemici sono numerosi e possono permettersi di essere divisi e antagonisti, gli israeliani questo lusso non lo hanno. Dimenticano, gli israeliani che si dicono imbarazzati dall'isolamento internazionale in cui versa il paese, che tante volte in passato gli ebrei furono imbarazzati dell'essere ebrei in una società antisemita. E così tanti ebrei fecero di tutto per integrarsi, per essere buoni cittadini, per essere addirittura patrioti di nazioni non loro. Ma ciò non li salvo' mai dai pogrom, ne' risparmio' loro i treni di Auschwitz. Dimenticano, gli israeliani che credono alle sirene della normalità che la sinistra sfrutta un po' per malizioso inganno e un po' perché vittima genuina della stessa malattia che diffonde, che gli europei che si stracciano le vesti per Gaza e organizzano le flottiglie della Pace e montano le campagne di boicottaggio anti israeliano nelle università, non saranno contenti che Israele smantelli le colonie in Samaria e abbandoni Gerusalemme Est e scenda dal Golan e lasci la valle del Giordano. Loro vogliono Tel Aviv e Haifa e il Negev. Non sono poi così dissimili dagli Ayatollah che promettono morte ai sionisti. Entrambi hanno lo stesso obiettivo, e l'unica pace cui hanno interesse è quella senza più Israele.
  Questa terribile amnesia collettiva è stata la cifra principale delle elezioni israeliane. E' l'illusione che come per ogni altro paese normale, basti sostituire il capo del governo e la sua coalizione, per risolvere i problemi. Per aggiustare il costo della vita, per garantire la pace sociale, o per non sentirsi i paria del mondo, recuperando credito agli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Come se questi problemi dipendessero davvero da Benjamin Netanyahu. E come se fossero davvero questi, i problemi di Israele.
  La realtà è ben diversa. Ed è tutto qui il significato profondo dello scontro ideologico tra il Likud di Bibi e la sinistra di Herzog e Livni. E' l'abissale distanza mentale tra chi vede la realtà di Israele - la sua anormalità, la sua insicurezza, la perenne linea del fronte che non solo non è arretrata ma non è mai stata
Se l'America oggi è quasi ostile per Israele, sarà colpa di Bibi, sostengono a sinistra. È lui che Barak Obama non sopporta. Semplice equazione fondata su un errore di giudizio imperdonabile. La politica estera di Obama è infatti un infinito disastro, che ha scardinato le fragili fondamenta della pace globale e ha gettato nel caos la regione in cui Israele e' costretta a sopravvivere.
così vicina e minacciosa - e chi, invece, è il pifferaio magico di una fasulla promessa di normalità, che porta con sé il pericolo fatale della vulnerabilità. Un esempio per tutti è la questione dei rapporti con gli Stati Uniti (leggi anche "Il voltafaccia"). Se l'America, che da sempre è al fianco di Israele, oggi è a disagio e mostra nella persona del suo presidente una insofferenza quasi ostile per Israele, sarà colpa di Bibi, sostengono a sinistra. D'altra parte, è lui che Barak Obama non sopporta. Semplice equazione - fondata però su un errore di giudizio imperdonabile, e non innocente. La politica estera di Obama è infatti un infinito disastro, che ha scardinato le fragili fondamenta della pace globale e ha gettato nel caos, in primis, proprio la regione in cui Israele e' costretta a sopravvivere. Le scelte di Obama sono responsabili della tragedia siriana, della disfatta irachena, della destabilizzazione di una gigantesca porzione della terra, dal Nord Africa all'Asia meridionale e persino al cuore dell'Europa.
  Obama avrà pure ottenuto qualche modesto successo interno - una manciata di posti di lavoro, più sanità, qualche apertura a tematiche sociali e di diritti civili. Ha insomma migliorato l'umore della ciurma, mettendo un po' di colore alle pareti della nave, tenendo le dispense piene, le stive pulite, e diffondendo messaggi di buon umore per un equipaggio che in fondo non ha idea di cosa ci sia, là fuori. Obama ha organizzato una bella festa allegra e rispettosa. Ma nessuno è rimasto al timone. E così la nave americana ondeggia in un oceano in tumulto, trascinando con se' la flottiglia alleata, che la segue in ordine sparso.
  Ma l'America è grande. Alle frontiere ha il Canada e il Messico. E' ancora la superpotenza globale. L'Europa è malconcia e insicura ma nonostante tutto, forte di mezzo miliardo di persone, della più grande economia mondiale, e della confortevole protezione della Nato. C'è tempo per un altro ballo. E poi c'è Israele. Israele coi suoi confini troppo simili alle finestre del ghetto. Israele la cui popolazione non riempirebbe una grande città europea, e il cui esercito è potente ma non inesauribile e sconta, a differenza degli eserciti nemici, l'handicap nobile dell'alto valore dato alla vita dei suoi giovani. Israele con i grattacieli a tiro di cannone, anche se non ci fosse un'aviazione nemica. Israele i cui nemici fanno proseliti come uno tsunami che cresce sotto le scosse dell'odio genocida, e i cui alleati non sono più' così sicuri che valga la pena. Il disordine di Obama al massimo farà del male all'America. Ma l'America è - anche - un paese normale. Israele no.
  Certo, non è mai cool interrompere il party, gridando che al largo si avvicina minaccioso un iceberg. Ed è questa l'offesa imperdonabile che chi si rifiuta di vedere la profonda anormalità israeliana rimprovera a Netanyahu, e al suo discorso al Congresso. Bibi ha stracciato ridicoli protocolli diplomatici - per lanciare un allarme esistenziale. Così facendo, ha esasperato la stizza di Obama, non ha probabilmente salvato la propria leadership - ma ha regalato a se stesso un posto meritato nell'Olimpo dei padri della patria. Da sempre una figura secondaria rispetto alla grandezza di un Ariel Sharon o di una Golda Meir, Netanyahu ha infine colmato la distanza, mostrando un coraggio e un carisma che relega i suoi oppositori politici al rango di ragionieri di partito. E non saranno le spese per il gelato della moglie a giudicarlo e a condannarlo nei libri di storia. E' semmai un'ironia amara che abbia raggiunto l'apice della propria statura di leader nel momento un cui rischia di essere deposto - da un esercito di nani.
  Israele si risveglierà forse senza la guida controversa di Bibi Netanyahu. La sinistra, se andrà al potere, sarà subito invitata alla festa sul ponte di Obama. Ci sarà giubilo e chissà, forse persino il latte costerà un po' meno. Yie bseder. Tutto andrà bene. Certo Israele ce l'ha fatta anche senza David, Golda, Menachem, gli Ytzhak, Ariel. Con una differenza cruciale però. Nessuno di loro ha mai creduto che Israele fosse normale. E l'ultimo dei grandi, Bibi, è stato anche l'ultimo disposto a rischiare la popolarità, e la carriera, per continuare a non crederlo.

(Il Foglio, 17 marzo 2015)


Elezioni, la mia prima volta

di Michael Sierra

Michael Sierra
Si dice che ci sia sempre una prima volta. E delle prime volte si dice anche che siano speciali: il primo amore, il primo bacio, il primo figlio, la prima parola. Oggi voto per la prima volta!
In realtà non è esattamente la prima volta: ho già votato per le elezioni municipali, in quanto in Israele è possibile prendervi parte già all'età di 17 anni. Oggi però è la prima volta che voto alle elezioni politiche per il Parlamento.
Non è mia intenzione fare in queste righe propaganda elettorale. Voglio invece semplicemente condividere i miei sentimenti: l'emozione della prima volta, l'orgoglio di essere uno dei 5883365 israeliani aventi diritto di voto, e la grande responsabilità di cui mi sento investito.
Quello di voto è un diritto che costituisce la base della democrazia, ed è particolarmente significativo in Medio Oriente, dove Israele è l'unico Stato in cui si possa esercitare in completa libertà.
Per fare dell'ironia potrei addirittura affermare che l'unico privilegio dei cittadini dei Paesi arabi è la possibilità, per così dire, di prevedere il futuro, di conoscere in anticipo i risultati elettorali.
Sono inoltre consapevole del fatto che il mio voto influenzerà anche il destino degli israeliani residenti all'estero, a cui non è concesso votare per corrispondenza. Tra essi ci sono anche miei amici: studenti all'estero per un breve periodo, lavoratori, viaggiatori per lavoro o anche turismo.
I cittadini israeliani residenti all'estero sono diverse migliaia di persone, i cui voti corrisponderebbero a numerosi seggi, tanto che il dibattito sull'argomento in Israele è stato ampio.
Ma sento anche che il mio voto, forse inconsapevolmente, avrà una ricaduta sul destino di tutti gli ebrei della diaspora, fra qui anche la mia famiglia in Italia, e amici e conoscenti. Per quanto alcuni affermino di non sentirsi rappresentati da Israele - e c'è chi addirittura rifiuta di riconoscerla o si schiera pubblicamente contro le decisioni del suo governo - essi sono comunque influenzati dalla sua politica, da ciò che vi avviene e dalle decisioni che vi vengono prese.
Potrei parlare a lungo delle mie opinioni in campo economico o legislativo ma anche in generale di una campagna elettorale a mio avviso priva di contenuti in cui spesso i partiti non facevano altro che esprimere disprezzo nei confronti del rivale, in particolare i due maggiori, Likud e Unione Sionista.
Desidero tuttavia concludere invece con un pensiero positivo, raccontando un programma dell'associazione Dor le Dor intitolato "Kol Hadorot". Il titolo contiene un gioco di parole dato dall'ambiguità del termine "kol", e può dunque significare sia "tutte le generazioni" sia "la voce delle generazioni". All'interno di questo programma, frequentato da me e da tanti miei amici, ragazzi giovani aiutano persone anziane ad arrivare al "kalpi", cioè ad avvalersi del loro diritto di voto. Questo programma non ha uno scopo politico, i giovani non si presentano indossando magliette con slogan di partiti, bensì lo scopo meramente sociale di permettere a queste persone di esercitare un loro diritto.
Per me queste elezioni costituiscono davvero un evento speciale e una prima volta indimenticabile. Dopo la recente visita del cantante Gianni Morandi in Israele, per usare sempre una metafora tratta dalla musica italiana, il mio cuore canta "votare, oh oh!".
Mi auguro quindi che queste elezioni nonostante le discussioni, i conflitti e gli intrighi della campagna elettorale, mantengano il popolo unito, senza che dimentichiamo i valori che ci accomunano, il nostro dovere sociale e soprattutto la necessità di agire in prima persona.

(Notiziario Ucei, 17 marzo 2015)


Michael Douglas: "Essere ebrei oggi è pericoloso"

L'esperienza occorsa al figlio 14enne durante una vacanza nel Sud Europa ha fatto tornare in mente all'attore due volte premio Oscar il suo primo "incontro" con l'antisemitismo, al liceo. Questa la motivazione che l'ha spinto a scrivere un lungo post sul L.A Times: "L'antisemitismo è come una malattia che va in letargo e divampa all'improvviso con un nuova causa politica scatenante... L'Europa è ora sede di 25 a 30 milioni di musulmani, due volte tutta la popolazione ebraica del mondo. All'interno di ogni comunità religiosa ci sarà sempre una frangia estremista".

di Davide Turrini

 
Michael Douglas
"Essere ebrei oggi è pericoloso". Lo afferma il celebre attore hollywoodiano Michael Douglas che in un lungo intervento su Los Angeles Times dove racconta delle difficoltà provate da una persona di religione ebraica come lui di fronte a semplici pregiudizi e a veri e propri atti di violenza, si sofferma in particolar modo sulla vicenda del figlio Dylan, insultato da un uomo perché indossava un vestito con la stella di David.
  L'attacco antisemita ha avuto luogo nell'estate 2014 mentre la famiglia Douglas si trovava in vacanza nel Sud Europa. Durante il soggiorno in un hotel, il 14enne Dylan, avuto da Michael con la seconda moglie Catherine Zeta-Jones, va a fare il bagno in piscina e viene aggredito verbalmente da un altro turista. Sconvolto corre in camera dal padre che gli chiede si è comportato in modo anomalo, ma il ragazzo gli risponde di no. "Lo fissai. E all'improvviso ho capito che la terribile reazione dell'uomo poteva essere stata causata dal fatto che Dylan indossasse una stella di David", ha spiegato l'attore, due volte premio Oscar sul LATimes. "L'ho calmato. Poi sono andato alla piscina e ho chiesto ai presenti di segnalarmi l'uomo che aveva urlato a mio figlio. Abbiamo parlato. E non è stata una piacevole discussione. Dopo sono tornato da mio figlio, mi ci sono seduto davanti e gli ho detto: 'Dylan, hai appena avuto un primo assaggio di antisemitismo'.
  Il padre di Michael, il 98enne Kirk, tra i più grandi attori hollywoodiani del dopoguerra, è figlio di immigrati bielorussi di origine ebraica e all'anagrafe risulta nato come "Issur Danielovitch"; mentre la madre, l'attrice Diana Dill, non è ebrea. Michael non ha ricevuto un'educazione religiosa formale dai genitori, come allo stesso modo non l'hanno ricevuta Dylan e Carys Zeta, i bimbi avuti da Catherine Zeta-Jones, pur crescendo con un papà ebreo come lui. Il ragazzino però, come spiega lo stesso Douglas nell'articolo, si è avvicinato attraverso i suoi amici alla religione ebraica sviluppando un profondo legame con l'ebraismo, iniziando ad andare alla scuola ebraica e studiando per il suo bar mitzvah. Percorso che ha portato lo stesso attore di Basic Instinct a riappropriarsi della religione ebraica del padre: "Mentre alcuni ebrei credono che non avere una madre ebrea non ti fa essere ebreo, ho imparato nel modo più duro che coloro che odiano non fanno queste distinzioni sottili". L'esperienza occorsa al figlio 14enne ha fatto tornare in mente a Douglas il suo primo "incontro" con l'antisemitismo: "Ero al liceo e con un amico vediamo passeggiare due persone con abiti che riconducono alla religione ebraica. L'amico senza intento provocatorio mi disse: 'Michael, tutti gli ebrei imbrogliano negli affari'. 'Di cosa stai parlando?', gli dissi. 'Michael, dai, si sa', rispose. Con poca conoscenza di ciò che vuole essere un ebreo, mi sono trovato a difendere appassionatamente il popolo ebraico. Ora, mezzo secolo dopo, devo difendere mio figlio. L'antisemitismo è come una malattia che va in letargo e divampa all'improvviso con un nuova causa politica scatenante".
  "A mio parere ci sono tre ragioni per le quali l'antisemitismo riappare con vigore", ha continuato l'attore. "La prima è che, storicamente, cresce sempre di più quando e dove l'economia va male. In un momento in cui la disparità di reddito è in crescita, quando centinaia di milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà, alcuni trovano negli ebrei il capro espiatorio piuttosto che guardare la vera fonte dei loro problemi". "La seconda è un odio irrazionale e fuori luogo verso Israele. Troppe persone lo vedono come uno stato di apartheid e incolpano gli abitanti di un'intera religione per ciò che, in verità, sono le decisioni nazionali di politica interna. Qualcuno crede davvero che le vittime innocenti di quel negozio kosher a Parigi e in quel bar mitzvah in Danimarca avessero qualcosa a che fare con le politiche israeliane e palestinesi o la costruzione di insediamenti a duemila miglia di distanza? La terza ragione è semplice demografia - continua - L'Europa è ora sede di 25 a 30 milioni di musulmani, due volte tutta la popolazione ebraica del mondo. All'interno di ogni comunità religiosa ci sarà sempre una frangia estremista, le persone che sono radicalizzate e guidate dall'odio, respingono le religioni che hanno bisogno di predicare il rispetto, la tolleranza e l'amore. Stiamo vedendo gli effetti amplificati di quel piccolo elemento radicalizzato. Con Internet, il virus dell'odio può poi accelerare da nazione a nazione".
  Douglas invita così ad assumersi ognuno le proprie responsabilità nello spegnere quest'odio virulento. E lo fa sia citando alcune manifestazioni di pace e dialogo tra credenti di diverse fedi (l'anello di pace creato attorno ad una sinagoga di Oslo tra musulmani e cristiani ndr), sia elogiando il primo ministro francese Manuel Valls ("ha messo in chiaro che l'antisemitismo viola la morale e lo spirito della Francia e che gli atti antisemiti violenti sono un crimine contro tutti i francesi"); Papa Francesco ("E' una contraddizione che un cristiano sia un anti-semita. Le sue radici sono ebree"); e il cardinale di New York, Timothy M. Dolan, che ha costruito concretamente ponti tra le due religioni. "Mio figlio è forte - ha concluso - Ed ha la fortuna di vivere in un paese dove l'antisemitismo è raro. Ma ora ha imparato il pericolo che un ebreo deve affrontare oggi. E' una lezione che non avrei voluto insegnargli, e che spero non dovrà mai insegnare ai suoi figli".

(il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2015)


Polemiche e divisioni, la comunità ebraica al voto

Domenica 22 marzo urne aperte per il rinnovo delle cariche: in lizza 25 candidali in rappresentanza di sei liste Clima elettorale surriscaldato dall'inchiesta che ha scoperto l'ammanco di 10 milioni provocato da un dipendente.

di Paola D'Amico

Clima teso nella comunità ebraica milanese alla vigilia del rinnovo delle cariche, domenica prossima. Ad accendere la polemica tra l'ala progressista, rappresentata dalla lista «Lechaim/Ken nuova vita per la Comunità», e l'ala conservatrice, che s'identifica nella lista «Wellcommunity», è stato l'appello lanciato dal presidente uscente Walker Meghnagi, domenica mattina, dal portale della comunità: «Per cortesia: Vota e fai votare la mia lista! Non mi sono candidato ma il mio cuore è con Wellcommunity». Appello preambolo di un invito ad un incontro organizzato sul tema della sicurezza, con il prefetto e il questore di Milano come ospiti, che gli è costato un duro attacco di «strumentalizzazione delle istituzioni a fini di propaganda elettorale» e l'immediato dietro front sulla convention.
   Sono 25 i candidati in lizza per 19 poltrone, distribuiti in 6 liste. Due hanno un solo nome: Antonella Musatti e Giuseppe Chalom. Altre due liste schierano rispettivamente due e tre candidati: Pro Israele per la Comunità (Claude Shammah, sorella della regista Ruth e Mayer Silvera) e Community in Action (Mare Geoffrey Davis, Michele Boccia e Gabrielle Fellus). Mentre Lechaim/Ken e Wellcommunity si presentano con 9 candidati a testa, il massimo possibile.
   Ecco i loro nomi. Per Lechaim/Ken, che ha già dato anche le indicazioni dei proprio assessori, in caso di vittoria: Milo Hasbani, Daniele Misrachi, Claudia Terracina, Davide Hazan, Margherita Sacerdoti, Gadi Schoenheit, Arnaldo Alberto Levi, Joyce Bigio, Gabriele Massimiliano Tedeschi. Per Wellcommunity: Raffaele Besso , Davide Romano, Vanessa Alazraki, Ilan Boni, Abramo Galante, Daniele Leoni, Sara Modena, Davide Nassimiha, e Daniele Schwarz.
   Il presidente uscente Meghnagi è stato protagonista di un mandato, breve e tormentato. Prima per lo scoperta del dirigente infedele - oggetto di un'inchiesta della Procura - che, negli anni, aveva sottratto alla Comunità non meno di 10 milioni di euro, poi per aver perso il ruolo di maggioranza, dopo l'uscita dal consiglio di due compagni di lista. Le sue dimissioni hanno portato al!'inevitabile scadenza elettorale. Egli rivendica «la paternità di quell'inchiesta, di aver trovato il ladro» e ha fatto anche causa e chiesto i danni all'Istituto bancario che «per anni ha accettato assegni a un dipendente che non aveva la firma sul conto».
   Ma, a scoperchiare il pentoIone, ha contribuito anche la decisione di Claudia Terracina, esperta in controllo di gestione e personale, che per rimettere ordine nell'organico della Comunità aveva avviato il licenziamento proprio del dirigente infedele. Da quel momento è stato possibile accedere a file riservati. Fino alla sconcertante scoperta di ammanchi che sono tra le cause del «rosso» dei bilanci della Comunità.
Ruggero Gabbai, consigliere comunale, che tiene i rapporti tra comunità e amministrazione cittadina («Siamo riusciti ad avere un ottimo rapporto con il Comune»), si augura che gli iscritti non disertino le urne. «È proprio in un momento delicato come questo che occorre riacquistare la fiducia».

(Corriere della Sera, 17 marzo 2015)


Netanyahu ringrazia Chuck Norris per il sostegno

Lo ha scritto in un tweet, dopo che Norris ha pubblicato un video che invita gli israeliani a votare per Netanyahu.

L'attore Chuck Norris ha pubblicato sul suo canale YouTube un video di sostegno al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e alla sua campagna per la rielezione al voto di martedì 17 marzo. Nel video Norris dice di essere rimasto colpito dal discorso di Netanyahu di fronte al Congresso americano e invita gli israeliani a votarlo. Netanyahu si è rivolto all'attore con un tweet in cui lo ringrazia per averlo sostenuto, condividendo il video di Norris.

(il Post, 17 marzo 2015)


"Anche noi vogliamo elezioni democratiche"

di Khaled Abu Toameh (*)

Mentre gli israeliani si recano oggi alle urne, i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza si chiedono se anche loro avranno mai il privilegio di indire elezioni libere e democratiche.
  E così, nelle ultime settimane, i palestinesi hanno lanciato una campagna per chiedere che ciò avvenga. Ma a quanto pare, finora, la campagna non ha trovato alcun riscontro. Tutto che ciò che rimane da fare ai palestinesi è sedersi e guardare con invidia come gli elettori israeliani esercitino il loro diritto di eleggere nuovi rappresentanti. L'età media della leadership dell'Olp è di 75 anni. Le stesse facce dirigono Hamas da vent'anni. L'ultima volta che i palestinesi si sono recati alle urne è stato nel gennaio 2006, quando votarono per un nuovo parlamento, il Consiglio legislativo palestinese, e vinse la lista "Cambiamento e Riforma" affiliata a Hamas. Esattamente un anno prima, i palestinesi ebbero un'elezione presidenziale, che portò al potere il leader di Fatah Mahmoud Abbas.
  Le prossime elezioni parlamentari avrebbero dovuto tenersi nel 2010, mentre quelle presidenziali erano previste per il 2009. Ma i palestinesi non sono più riusciti a recarsi alle urne a causa della disputa esistente tra Fatah e Hamas, che ha raggiunto l'apice con la violenta occupazione di Gaza da parte di Hamas nel 2007. Oggi, è la quarta volta che gli israeliani vanno a votare dal 2006, anno in cui i palestinesi videro invece per l'ultima volta le urne nei loro seggi elettorali. I due partiti rivali palestinesi continuano a ritenersi reciprocamente responsabili della mancanza di elezioni. Qualche settimana fa, Abbas ha detto in un discorso pronunciato davanti al Consiglio centrale dell'Olp a Ramallah di essere pronto a indire nuove elezioni se solo Hamas fosse d'accordo. Il presidente dell'Autorità palestinese ha dichiarato che il gruppo islamista non è affatto interessato a tenere nuove consultazioni.
  In risposta, il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha asseritoo che era Abbas a ostacolare le elezioni e a "violare l'accordo di riconciliazione" da lui siglato con il movimento islamista lo scorso anno. La verità è che Fatah e Hamas non sono interessati a indire nuove elezioni parlamentari e presidenziali - ciascuno per le proprie ragioni. La fazione di Fatah guidata da Abbas continua a subire contrasti e divisioni interne, che si sono intensificati dopo la morte del suo ex leader, Yasser Arafat, nel novembre 2004. Sono numerosi gli alti funzionari di Fatah in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza che sono stati espulsi dalla fazione in questi ultimi anni, per sfidare Abbas e i rappresentanti della vecchia guardia. La corrente contraria a Abbas dentro Fatah è guidata (e a quanto pare finanziata) da Mohamed Dahlan, un ex comandante della sicurezza nella Striscia di Gaza che attualmente risiede negli Emirati Arabi Uniti.
  Dahlan e i suoi fedelissimi hanno anche accusato Abbas di ostacolare i tentativi di indire nuove elezioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Essi affermano che l'unico obiettivo del presidente dell'Autorità palestinese è rimanere al potere fino all'ultimo giorno della sua vita. Oltre alla lotta intestina dentro Fatah, quest'ultima ha ancora bisogno di lavorare sodo per ridare credibilità tra i palestinesi, soprattutto alla luce della mancata attuazione di riforme di vasta portata e per dare nuovo slancio alla sua leadership. All'inizio di quest'anno, sono falliti i tentativi di indire la settima conferenza di Fatah, per scegliere nuovi rappresentanti, a causa di "marcati" disaccordi tra i leader di Fatah.
  Questi ultimi sostengono che sarebbe comunque impossibile tenere nuove elezioni se Hamas mantiene il controllo della Striscia di Gaza. Fatah insiste sul fatto che non ci sono garanzie che il movimento islamista consentirebbe un voto democratico e libero, soprattutto quando si continua a reprimere i sostenitori di Fatah a Gaza. Ma anche Hamas dice di opporsi a nuove elezioni perché non si fida di Abbas e Fatah. I leader del movimento islamista sostengono che non ci possono essere elezioni libere se le forze di sicurezza dell'Autorità palestinese arrestano ogni settimana decine di sostenitori di Hamas in Cisgiordania. Mentre le due fazioni continuano a combattersi l'un l'altra, alcuni palestinesi hanno deciso di lanciare un'iniziativa per fare pressioni sulle due parti, porre fine alla loro disputa e concordare nuove elezioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Dunya Ismail, che figura tra gli organizzatori della campagna, ha detto che "ogni palestinese dovrebbe sbarazzarsi della disperazione e della frustrazione, ed essere motivato a esercitare pressioni sulla leadership politica affinché si tengano nuove elezioni il più presto possibile". La donna e gli altri promotori della campagna sono scesi in strada per diffondere il messaggio, ma finora con scarso successo. Per ora i palestinesi non dovrebbero avere nuove elezioni, almeno non in un prossimo futuro.
  La lotta per il potere tra Hamas e Fatah, che sembra intensificarsi, ha distrutto il sogno dei palestinesi di costruire una società libera e democratica. "Diciamo tutte queste cose cattive su Israele, ma almeno la gente lì ha il diritto di votare e godere della democrazia", ha osservato un giornalista palestinese di Ramallah. "Invidiamo davvero gli israeliani. I nostri leader non vogliono le elezioni. Vogliono rimanere in carica per sempre."


(*) Gatestone Institute


(L'Opinione, 17 marzo 2015 - trad. di Angelita La Spada)


Tavelli: "Tel Aviv di corsa, così è andata la mia maratona"

di Fabio Tavelli

Lo devo ammettere: faccio parte di quella non scarna pattuglia di runners che hanno tra i propri obiettivi quello di farsi una grande mangiata dopo una corsa. Non come filosofia unica di vita d'atleta di una volta in perenne lotta contro la pigrizia. Ma certamente una delle ispirazioni più concrete mentre corro mi arriva dal pensiero del desco imbandito dopo il traguardo. Correre fa bene, asciuga il fisico e sviluppa endorfine.

LA DECISIONE - Ho deciso di correre la mia prima maratona intorno ai 40 anni. Ci sono riuscito, ahimè, a 45 suonati. No, non mi sono allenato 5 anni. Magari. Diciamo piuttosto che ho abbandonato molto spesso, troppo spesso, l'idea di confrontarmi con i 42 km e 195 metri. Ma questa volta non potevo sottrarmi al richiamo della foresta.

TEL AVIV - Stato di Israele, 28 febbraio 2015. Quello era il luogo, quella era la data. Perchè Tel Aviv? Me lo chiedono in tanti. E siccome la spiegazione è molto lunga e non ha niente di realmente interessante io rispondo "perchè no?". E lì finisce il discorso. Tel Aviv, correre nella strada che bordeggia la spiaggia e divide il bagnasciuga dai grandi alberghi. Sembra Miami, mi ha detto che è stato in Florida. In effetti se penso a Miami mi viene in mente la skyline che ho visto a Tel Aviv.

LE MIE GAMBE... E LA MIA TESTA - Allenato? Poco e non benissimo. Un fastidioso stiramento alla coscia sinistra un mese e mezzo prima della data fatidica sembrava avermi messo ko. Certamente mi aveva buttato a terra il morale. Ma come? Non mi sono mai infortunato ai muscoli in 45 anni e proprio adesso....Va beh, niente paura. Mi sono convinto ad andare in un centro fisioterapico di Pavia dove mi hanno rimesso in piedi a tempo di record. Mi restava un mese o poco più per mettere un po' di km nelle gambe e provare ad arrivare in TerraSanta nel modo più dignitoso possibile. Le previsioni meteo sentenziavano: caldo, molto caldo. Gli organizzatori avevano previsto la partenza della maratona alle 6.30.

LA PARTENZA - Un orario non certo propizio per chi come me lavora sempre fin tardi la sera e ha un fisico più abituato a far tardi che a svegliarsi con il buio. Due giorni prima la ferale notizia: partenza anticipata alle 5.45 a causa del caldo torrido previsto già dalla prima mattina. Disastro...sveglia alle 3, come la tigre quando deve uscire dal bosco a cercare la sua preda. Tre e trenta puntuale al ritrovo sotto l'albergo. Alle 4 avrebbero chiuso le strade e per poter arrivare al ritrovo di partenza in auto bisognava adeguarsi a questa tabella di marcia. Risultato? Entro nel tendone del ritrovo alle 4 meno un minuto.

L'AMBIENTE - Un'ora e tre quarti prima dello start! E' buio e fa pure un freddo cane. L'albergo non poteva garantirci la colazione a quell'ora. Sapete bene quanto sia fondamentale alimentarsi bene la mattina della gara, mettere in corpo quella benzina necessaria per fare questa traversata del deserto. Loro, gentilissimi, ci hanno preparato un piccolo contenitore con dentro: una mela, un pomodoro, un panino formato da due fette di pan carrè e una, dicasi una, fetta di formaggio, due yogurt e due mini vasetti di marmellata. Una cosa francamente al confine tra l'inutile e il dannoso.

LE RISERVE - Per fortuna avevo una buona scorta di integratori ma certamente non poter fare una colazione come Dio comanda mi ha un po' penalizzato. Va detto che la sera prima avevo per fortuna fatto un buon carico di carboidrati al "pasta party". Cos'è il pasta party? E' una festa che gli organizzatori allestiscono sotto il tendone dove si va a ritirare il pacco-gara. Il pacco-gara è, appunto, un pacco con dentro il pettorale, la maglietta e il chip da mettere tra le stringhe delle scarpe. Il pasta-party si celebra la sera prima della gara e, intuibilmente, consiste nel fornire ai corridori una bella quantità di pasta. E quindi di energia. Non mangiavo pasta da qualche giorno perchè volevo perdere un po' di peso e quando ho visto quelle enormi pentole con dentro spaghetti, penne e fusilli mi ci sono buttato con l'entusiasmo di uno che usciva di galera. E fa niente se la cottura non era proprio come noi italiani gradiamo.

"SPAGHETTO, TU ME PROVOCHI..." - Mi sono sembrati gli spaghetti più buoni mai mangiati da molto tempo. Potenza dell'appetito...Dopo un sontuoso bis e un altrettanto robusto tris ci (uso il plurale perchè nessuno al pasta-party mangia mai meno di due-tre piatti) siamo messi in direzione dell'albergo. La sveglia, come detto, sarebbe stata impietosa.

PRONTI...PARTENZA... VIA! - Start puntuale alle 5.45. Primi tre/quattro km a chiedermi chi me l'avesse fatto fare, perchè mai ero venuto fino a Tel Aviv per rischiare di procurarmi un infarto e soprattutto il vero, grande punto interrogativo: quando arriverà la crisi? E poi, siccome è certo che arriverà, come affrontarla? Ritirandosi dando colpa al caldo, alla minaccia di attentati e al destino cinico e baro oppure stringendo i denti per poter tornare a casa dicendo "ce l'ho fatta!"? Ho scelto la seconda via, soprattutto quando intorno al 38esimo km i miei due arti inferiori hanno deciso di inchiodarsi. Sembravano due tronchi, le ginocchia ormai non facevano nemmeno più la loro torsione. 38esimo, 39esimo e 40esimo km li ricorderò sempre come la salita sul Golgota. Ma non potevo mollare lì, non potevo rinunciare al piacere orgasmico di vedere lo striscione con la scritta "Finish" avvicinarsi sempre di più. Forse sono arrivato alla fine proprio per questo.

CI SIAMO... - Non ero io che andavo verso di lui ma accadeva esattamente il contrario. Se è andata davvero così non svelatemi mai il segreto e lasciatemi credere di aver passato il traguardo in 3 ore 39 minuti e 56 secondi. Il tempo non era importante, anche se in cuor mio speravo di stare sotto le 4 ore. Ma il vero obiettivo ero solo uno: finire. Possibilmente vivo. Scherzo? No, purtroppo no. A Tel Aviv due anni fa un maratoneta è morto in corsa, stroncato da un infarto. Anche quest'anno il caldo ha messo ko parecchi runners al punto che gli organizzatori hanno dovuto sospendere la gara quando hanno visto che in troppi accusavano malori e in 75 erano già in ospedale. Con la mia brava medaglia al collo mi sono goduto le ore successive alla gara.

I CONSUMI - Goduto per modo di dire visto che l'acido lattico si è preso gran parte dei miei arti e muovermi diventava un'operazione sempre più complicata. Ma era tale la gioia per essere riuscito a coronare un sogno che non ho fatto minimamente caso al mio deambulare un po' buffo. Fame? Zero. In corsa ho consumato oltre 3.600 calorie. Quando ho visto questo dato sul cardiofrequenzimetro ho pensato: "ora vado al ristorante e mangio anche le gambe dei tavoli". Invece niente. Tanta acqua, Sali minerali e niente di solido. Verso le 17 però ecco il primi morsi. E allora via, verso la passeggiata sul mare. Dove un provvidenziale bar esalava profumi di carne alla griglia. Erano solo hamburger ma mi potete credere se vi dico che in due bocconi ne ho divorato subito uno prima di chiedere il bis. Il tutto innaffiato da una meritatissima birra. Lo stomaco era riaperto come il mar Rosso prima della traversata.

E' FATTA - A Tel Aviv la cucina è ottima, si mangia carne e pesce di eccellente livello. A cena mi hanno portato nella zona centrale in un ristorante molto elegante. La tradizione, mi hanno spiegato, è di farsi servire antipasti in grande quantità. Tipo in Spagna con le tapas. E vi assicuro che il livello era davvero alto. Ho scelto di mangiare carne perchè ho pensato a riempire più possibile uno stomaco decisamente vuoto, Filetto di grande qualità e vino rosso del territorio. Vino corposo, di grande consistenza. Dolci come se piovesse, con una cosa chiamata Halva che ha reso indimenticabile una crema di pistacchio. Il giorno dopo l'ho dedicato alla visita della città, soprattutto al vecchio porto di Jaffa. E anche lì grande cena a base di carne. I sensi di colpa erano spariti. Potevo dar sfogo all'antico istinto primordiale di mangiare fino a sazietà. Avevo ottenuto il mio risultato, ora potevo premiarmi…e mangiare di conseguenza.

(SkySport, 17 marzo 2015)


Open restaurant, il dietro le quinte del cibo in Israele

Diventato in breve un appuntamento da non perdere per i foodies

di Massimo Lomonaco

 
A Tel Aviv e' oramai tra gli appuntamenti da non perdere e riscuote un successo crescente: si chiama 'Open restaurant', giunto alla sua seconda edizione. La ricetta (visto che di cibo si tratta) e' semplice: mostrare cosa si nasconde, in termini di lavoro, creatività, ricerca e fatica, nel piatto che dalla cucina arriva sulla tavola del cliente di un ristorante fino a finire, magari, in una fotografia postata su Instagram. Ma anche come si costruisce un menù, dove fanno la spesa gli chef, che aspetto ha la cucina di un ristorante che serve centinaia di clienti ogni giorno.
   L'idea di 'Open restaurant' e' dell'imprenditrice Merav Oren che si e' ispirata per questa sua versione gastronomica - e per il momento solo israeliana - ad 'Open House', fenomeno oramai planetario. Cosi' come questo rivela al pubblico, per pochi giorni e gratuitamente, luoghi chiusi, inaccessibili o riservati agli addetti ai lavori di 26 citta' nel mondo, 'Open restaurant' svela il dietro le quinte della ristorazione in Israele.
   ''Sono stupita io stessa del successo dell'iniziativa'', racconta all'ANSA Oren al ristorante Cassis di Giaffa. Un luogo privilegiato, sulla spiaggia, a due passi dal Centro Peres per la Pace (costruito dall'archistar italiana Massimiliano Fuksas), dove la Chef Ayelet Perry ha dato dimostrazione di come si prepara una tipica colazione all'israeliana a base di focaccia, salmone marinato 48 ore nella rapa rossa, formaggi, uova, cipolla e condimenti speziati.
   ''Tutto - spiega Oren - è cominciato tre anni fa con un'edizione pilota in collaborazione con 15 ristoranti nell'area di Giaffa e circa 400 partecipanti ai workshop e agli appuntamenti in programma. Dopo due anni, grazie anche alla partnership con il comune di Tel Aviv, abbiamo collaborato con oltre 70 ristoranti da Giaffa a Herzlyia (da sud a nord di Tel Aviv). Alcuni di questi sono kosher (che rispettano le norme religiose sull'alimentazione) al loro debutto nella manifestazione. Dopo pochissime ore dal lancio online del programma già 2000 persone avevano prenotato appuntamenti e laboratori, facendo registrare il tutto esaurito fin da subito''.
   Per accontentare un pubblico di foodies che è sempre più attento e numeroso, quest'anno sono stati aggiunti al programma di 'Open Restaurant' visite a Shuk HaCarmel e Shuk Levinsky, due imperdibili mercati della citta', punto di ritrovo dei gourmet.
   E anche la cucina italiana ha richiamato una fetta notevole di pubblico con i workshop per adulti dedicati alla pasta e quelli per i bambini dedicati alla pizza. Oren sta lavorando ora per portare il format in altre città del mondo: ''in Europa - si augura - e, naturalmente, in Italia''.

(ANSA, 16 marzo 2015)


Esplosione d'antisemitismo nella Svizzera romanda

Nel 2014 in Romandia registrato un aumento del 79%

Gli atti antisemiti nel 2014 in Romandia sono cresciuti del 79% rispetto ai 151 dell'anno precedente. A rilevarlo è il Coordinamento intercomunitario contro l'antisemitismo e la diffamazione (CICAD) che ha registrato un totale di 270 episodi ed affermazioni che prendono di mira la comunità ebraica e lo Stato di Israele. Una situazione che l'organismo con sede a Ginevra ritiene "inquietante".
L'anno scorso, rileva il CICAD, è stato soprattutto segnato "dalla liberazione della parola antisemita". Un fenomeno che è stato registrato in particolare nei commenti che circolano su internet ad articoli d'attualità su temi riguardanti il Vicino Oriente e l'umorista francese Dieudonné.
Il rapporto del CICAD (che non tiene conto di tutta la realtà dei social poiché gli autori molto spesso non sono localizzabili) stila anche una graduatoria a livello di gravità di quanto constatato: un episodio è considerato grave (un violento alterco in un esercizio pubblico di Ginevra avvenuto il 22 agosto), 21 atti sono definiti seri. Gli altri 248, infine, rientrano nella categoria "preoccupante".

(RSI News, 17 marzo 2015)


Israele alla vigilia delle legislative: sfida all'ultimo voto tra Netanyahu e Herzog

Alla vigilia delle elezioni legislative di martedì in Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu, che domenica ha chiamato a raccolta gli elettori del Likud nella piazza Isaac Rabin di Tel Aviv, non è più il favorito, ma potrebbe essere comunque chiamato a guidare una coalizione di governo tra diverse formazioni di destra.
I suoi appelli all'unità di Gerusalemme hanno un obiettivo: quello di far passare per arrendevole alle richieste dei palestinesi il suo principale avversario politico, Isaac Herzog, in testa nei sondaggi. Alla guida della coalizione centrista Unione sionista, insieme all'alleata Tzipi Livni, questo avvocato di 54 anni vuole rilanciare il processo di pace, ma senza smantellare le colonie israeliane in Cisgiordania.
Il sistema elettorale proporzionale potrebbe però affidare a Moshe Kahlon e al suo partito di destra Kulano il ruolo di ago della bilancia nella formazione del prossimo esecutivo. Pur essendo più vicino a Netanyahu, non ha escluso un'alleanza con Herzog.

(euronews, 16 marzo 2015)


Se le donne ortodosse sfidano i maschi

di Maurizio Molinari

Ruth, Noa e Keren: la rivoluzione politica è donna nel mondo degli ultraortodossi. Gli «Haredim» compongono circa il 18% della popolazione israeliana e votano in gran parte per i partiti religiosi. Ma sono forze di matrice ashkenazita o sefardita - originarie dell'Europa dell'Est o del mondo arabo - composte solo da uomini. «Tutti uomini sono i leader e solo uomini sono gli eletti e i candidati» afferma Ruth Colian, 33 anni, che dopo essere stata respinta un'ultima volta nella richiesta di correre per il Parlamento ha scelto la sfida frontale fondando «B'Zhutan» (Per diritto delle donne) ovvero «le donne ultraortodosse vogliono il cambiamento». È un partito che chiede alle donne «haredi» di non votare più per i partiti religiosi «maschilisti» e si propone di avere un impatto che va ben oltre la Knesset, puntando a diventare un movimento per «rafforzare i diritti delle donne fra gli ortodossi» come dicono Noa e Keren portando sul terreno della politica l'emancipazione femminile nel mondo ebraico che Barba Streisand interpretò in «Yentl».

(La Stampa, 16 marzo 2015)


Il Good Deeds Day fa tappa alla scuola ebraica

di David Moresco

 
Inizia anche tu a fare del bene insieme Good Deeds Day, partecipa e coinvolgi i tuoi amici, ogni persona può fare qualcosa di buono.
Questa è l'idea di base del Good Deeds Day, manifestazione internazionale di beneficienza che da otto anni promuove una giornata dedicata alle buone azioni.
Shari Arison, imprenditrice ed ideatrice di questo evento, assieme alla sua famiglia, ha deciso che la tappa del Good Deeds Day 2015 dovesse essere Roma.
La famiglia Arison, assieme al presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, all'assessore alle Politiche educative Ruth Dureghello e l'ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon, si sono recati presso le scuole ebraiche romane, le quali hanno contribuito in modo consistente e con grande carisma a questa attività, facendo una raccolta alimentare e di giocattoli che poi la famiglia ha distribuito ai più bisognosi nelle giornate di sabato e di domenica ai Fori Imperiali, animati da oltre 80 associazioni.
Ha introdotto l'evento Riccardo Pacifici:"Conosciamo tutti Israele, conosciamo le sue divisioni interne e questo evento, il Good Deeds Day, è stato in grado di non creare tensioni, di combattere tutti per un fine positivo: la tzedakà".
"Il mondo ci inonda di immagini vere e violente e noi abbiamo due risposte - ha proseguito Pacifici - o ci facciamo impaurire e ci fermiamo, oppure andiamo avanti e non ci facciamo spaventare; la nostra spiritualità è più forte del terrore, non ci spaventiamo e ci incontreremo con tutti: ebrei, cristiani e musulmani, perché non abbiamo paura".
In seguito ha preso la parola Ruth Dureghello:"Voglio sottolineare che c'è stato un grande lavoro di sinergia, ringrazio in particolare la Deputazione Ebraica e tutti i bambini che sono qui".
Alla famiglia Arison sono stati donati alcuni bouquet di fiori realizzati da alcuni studenti della Scuola Ebraica che, da circa due anni, seguono un stage di design floreale ed un percorso di Green Therapy, con la collaborazione dell'assessore alle disabilità della Comunità Ebraica di Roma, Loretta Kajon.
La mattinata si è conclusa nel modo più gioioso possibile: kabbalat shabbat, canti, balli di gruppo e molte risate, il tutto colmato da un ricco buffet.

(Comunità Ebraica di Roma, 16 marzo 2015)


Israele verso il voto, Netanyahu: terrò Gerusalemme unita

GERUSALEMME - "Con noi Gerusalemme resterà sempre unita": il premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu spara gli ultimi colpi nella campagna elettorale per il voto politico di martedì ponendosi come garante dell'unità della città santa e attaccando il laburista Isaac Herzog. Netanyahu ha continuato ad accusare il rivale di essere pronto a dividere la città in due, una parte israeliana e una palestinese.
"Noi proteggiamo l'unità di Gerusalemme, noi costruiamo a Gerusalemme. E, certo, questa non è la linea della sinistra. Non è la linea di Tzipi e Bougie", ha detto dal palco a Tel Aviv alludendo ai leader Livni ed Herzog. E ancora: "Una fortuna dall'estero sta foraggiando le ong di sinistra nel tentativo di rimpiazzare il Likud al potere con un governo sostenuto dal partito arabo unito", ha detto il premier.
Martedì Israele elegge una nuova Knesset in un voto dall'esito molto incerto che deciderà se Netanyahu, dopo sei anni alla guida del Paese, sarà chiamato a formare il prossimo governo. Gli ultimi sondaggi danno in vantaggio la lista guidata da Herzog. Ma nel frammentato sistema israeliano non è automatico che il leader della lista vincente alle elezioni sia chiamato a formare il governo. Piuttosto è favorito chi riesce a creare una coalizione tra vari partiti che raccolga la maggioranza dei 120 deputati.

(askanews, 16 marzo 2015)


Si dice che queste elezioni sono un referendum pro o contro Netanyahu. Potrebbe essere invece che la posta in gioco sia l'unità di Gerusalemme. Su questo tema Netanyahu ha parlato chiaro, perché i suoi avversari non fanno altrettanto? M.C.


L'ambasciatore di Israele: "L'Italia non perda il treno innovazione"

Naor Gilon: "Il vostro Paese ha gli ingredienti giusti per crescere: i soldi non mancano e neanche il venture capital. Ci sono molti giovani interessati a fare innovazione"

di Mila Fiordalisi

"L'Italia ha dalla sua parte una forte economia industriale, seconda solo a quella tedesca. Fa parte delle grandi economie mondiali. Ha un sistema formativo eccellente e giovani volenterosi. Se in questo contesto si iniettasse una massiccia dose di innovazione si otterrebbero benefici enormi". Ne è convinto Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia, che a CorCom spiega gli ingredienti della ricetta che hanno fatto di Israele uno dei Paesi più innovativi al mondo. "L'Italia deve spingere sull'innovazione almeno per due buone ragioni: da un lato perch? l'innovazione accresce inevitabilmente la competitività di un Paese e dall'altro perch? è in grado di abbattere fortemente la disoccupazione giovanile", dice l'ambasciatore.

- Ambasciatore Gilon, crede che l'Italia sia pronta per il cambio di marcia?
  
Questo è il momentum. L'Italia ha gli ingredienti giusti. I soldi non mancano, perch? gli investitori, anche esteri, sanno riconoscere un buon progetto e di certo non si fanno sfuggire le occasioni. E non manca neanche il venture capital. Ma soprattutto, ci sono molti giovani interessati a fare innovazione e lo si vede dal livello di crescita delle startup. Per non parlare delle eccellenze nel campo della formazione, soprattutto universitaria: dal Politecnico di Torino a quello di Milano passando per l'università di Firenze, Roma Tre tanto per citarne alcune ed anche il Sud è molto attivo, penso alle iniziative in corso a Bari, Palermo e Catania. Poi ci sono grossi "incubatori" in grado di sostenere l'innovazione e lo sviluppo dei progetti.

- E allora cosa manca?
  
Il punto è che le iniziative non sono accompagnate dalla creazione di un ecosistema che possa garantirne lo sviluppo al di là dei confini locali. In Israele è il ministero dell'Economia a coordinare le varie iniziative anche e soprattutto in termini di reperimento delle risorse economiche da dirottare sui singoli progetti. Insomma, servirebbe maggior coordinamento. E ciò è fondamentale. Spesso si dice dell'Italia che gli elevati costi del lavoro scoraggino le assunzioni e gli investimenti; ebbene in Israele sono persino più alti eppure ciò non ha impedito l'arrivo di parecchie aziende estere - ad oggi sono circa 250 per un totale di 50mila dipendenti diretti - che hanno aperto sedi locali e laboratori di ricerca e sviluppo, al punto da essere secondi solo alla Silicon Valley. Israele investe in R&D il 4,5% del Pil, la più alta percentuale al mondo. Ma tenga conto che stiamo parlando di un Paese piccolo e quindi come ordine di grandezza, sebbene l'Italia investa appena l'1%, in realtà la grandezza economica è superiore.

- Secondo lei il governo Renzi sta facendo bene?
  
Il premier Renzi punta molto sull'innovazione e ha molta consapevolezza del ruolo che l'innovazione investe nella ripresa economica e nella nuova crescita. E non a caso la visita ufficiale che farà presto in Israele vedrà l'innovazione protagonista.

- Ci sono progetti condivisi?
  
Con l'Italia stiamo portando avanti una serie di progetti, fra i quali anche alcune iniziative legate al sostegno alle startup innovative.

- Perché le aziende investono in Israele?
  
Inizialmente venivano nel Paese per studiare il nostro modello e portarsi via le nostre migliori risorse, poi hanno capito che investire sul territorio è il modo migliore per reperirne sempre di nuove e quindi per stare al passo con l'innovazione e hanno deciso di aprire sedi locali nonostante, ripeto, gli elevati costi del lavoro. È vero che in parte questi costi sono compensati dalle agevolazioni fiscali per chi investe, ma la vera forza di Israele sta nei giovani talenti. E non è un caso se molti dei progetti più importanti delle società estere nascono proprio in Israele.

- In Italia però il contesto è diverso.
  
Le similitudini fra Italia e Israele sono molte di più di quanto non si pensi e di sicuro sono maggiori di quelle fra Israele e Stati Uniti: il pil pro-capite ad esempio è simile ed i capitali da investire non sono di certo ingenti come quelli americani. La differenza è che Israele crede molto nei giovani, li sostiene anche con finanziamenti e fondi appositi e che il sistema della formazione deve di fatto autosostentarsi poiché solo il 50% delle risorse proviene dallo Stato, per il resto è necessario reperire fondi all'esterno e per farlo non si può che puntare su iniziative innovative. Ad esempio sono molte le aziende nate come spin off universitari che hanno ideato progetti che oggi valgono miliardi di dollari. E fra le nostre appena sette università, quattro sono al top delle 150 mondiali. Insomma l'Italia deve puntare sulla trasformazione culturale e puntare molto di più sulle giovani generazioni, anche mettendo in conto che innovare può far rima con fallimento. In Israele ci sono 5mila startup - nel solo 2014 ne sono nate un migliaio - e un terzo delle iniziative fallisce. Ma ciò non ha scoraggiato gli investimenti. E non ha scoraggiato i giovani.

- Su cosa si stanno concentrando gli investimenti?
  
In Israele l'innovazione ora è molto focalizzata sulle iniziative che riguardano l'informatica e grande spazio sta acquistando la cybersecurity. Al Sud del Paese, l'università del Negev sta lavorando molto su questo fronte e posso scommettere che in breve tempo diventerà un'eccellenza mondiale. Il punto di forza di Israele è di essere un paese giovane e con molti giovani che hanno voglia di crescere e sono dotati di forte senso di responsabilità e indipendenza. Gli anni di servizio militare sono determinanti da questo punto di vista. Abbiamo molti giovani israeliani già diventati ricchissimi, basti pensare al caso Waze, l'azienda israeliana venduta a Google per oltre un miliardo di dollari. Di fatto sono i giovani i nuovi ricchi e lo saranno sempre di più in futuro. Per questo bisogna investire su di loro e spingere l'innovazione.

- Innovare spinge la crescita. Quanto è cresciuto Israele?
  
L'innovazione mette in moto quel circolo virtuoso che stimola la crescita. E non è un caso se la crisi economica mondiale abbia investito Israele molto meno che altri. Nel 2014 siamo cresciuti del 3% e si tratta di un "record" al ribasso rispetto ai nostri ritmi, ma quest'anno la crescita sarà più sostenuta. Il 50% del Pil di Israele arriva dalla alta tecnologia e un altro quarto dalla media tecnologia. Esportiamo molto soprattutto in Europa (36%), sempre meno negli Usa (28%) e sempre più in Asia (26%).

- È una ricetta replicabile in Italia?
  
Israele è un Paese che sull'innovazione punta molto ma la ricetta israeliana non può essere valida universalmente. Ciascun Paese deve trovare la sua strada tenendo conto delle specifiche peculiarità e degli obiettivi che si vuole dare. Ma di sicuro in Italia gli ingredienti per crescere ci sono tutti.

(Cor.Com, 16 marzo 2015)


Oltremare - Machshava Tova

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Non c'è come uscire dalla città, delle volte, soprattutto quando si prepara una manifestazione ingombrante in Kikar Rabin cui non si ha motivo di partecipare. E non c'è come immergersi anche se temporaneamente nella Israele vera, quella che non passeggia su Rothschild e vive indipendentemente da qualunque elezione. L'occasione o la scusa me l'ha data ieri sera l'anniversario dei dieci anni di attività di "Machshava Tova" - che si può tradurre come buon pensiero ma si perde così la radice che in ebraico vuol dire sia pensiero sia computer. Si è festeggiato con discorsi brevi e un concerto degli EthniX che ha trasformato l'ordinato auditorium del Centro Culturale dell'Aviazione di Herzlyia in un concerto rock.
Machshava Tova è lei stessa un gran bel pensiero, nato dalla considerazione fatta da Astorre Modena, milanese e fondatore in Israele di Terra Venture Partners, che mentre Israele prospera al Nasdaq grazie alle invenzioni delle Hi-Tech, ci sono settori interi della società che non hanno neanche la più basilare istruzione all'uso di un computer.
Lo scopo è quello di dare a tutti quelli che ne hanno particolarmente bisogno (giovani, ma anche anziani, e anche persone con disabilità) gli strumenti con i quali colmare la distanza fra loro e la società pulsante e un po' caotica intorno. L'uso del computer come l'alfabetizzazione: tastiera oggi come pennino e calamaio ieri. E siccome Israele è ancora un piccolo paese fatto di città ma anche di periferie non sempre raggiunte da servizi, l'organizzazione i computer li porta fisicamente, classi volanti su camioncini, per insegnare anche dove non arriverebbero mai - compreso il cuore dei quartieri ultra-ortodossi, e i rifugi per giovani e donne vittime di maltrattamenti.
Machshava Tova insegna a usare i computer, e anche a ripararli. Riceve vecchi computer in donazione da grandi uffici ed industrie, che i giovanissimi studenti rimettono a nuovo perché vengano utilizzati nei centri della stessa organizzazione. Oltre trentamila persone finora hanno imparato a usare un computer grazie a Machshava Tova. Una goccia nel mare, forse, ma certo è un ottimo inizio.

(moked, 16 marzo 2015)


Una App israeliana introduce i video live su Twitter

Una nuova applicazione israeliana propone la tecnologia che Twitter avrebbe dovuto sviluppare già da molto tempo. Infatti Meerkat è una applicazione di video streaming che offre agli utenti la possibilità di condividere automaticamente in tempo reale (o di pubblicare in differita) un live stream su Twitter, che consente agli abbonati di visualizzare il flusso dei video in diretta. Questa applicazione, che ha già creato un certo clamore, conta più di 15.000 utenti tra cui l'attore Ashton Kutcher, ed ha prodotto già 8.000 live stream.
Come funziona questa applicazione?
È molto semplice, basta scaricare l'applicazione sull'iPhone, collegarla all'account Twitter e poi girare il video che verrà direttamente pubblicato su social network tramite un link. Gli utenti possono poi seguire il video in diretta senza scaricare l'applicazione....

(SiliconWadi, 16 marzo 2015)


Maschera del dio Pan ritrovata in Israele
Maschera del dio Pan trovata tra gli scavi in Israele

Siamo nel nord di Israele, sulle montagne a circa 2 km dal Lago di Tiberiade, nel Parco Nazionale di Hippos-Sussita, l'antica città di Antiochia Hippos. Qui, grazie ad uno scavo condotto dall'Università di Haifa è stata scoperta ieri 15 marzo una grande maschera in bronzo raffigurante il dio Pan. Si tratta di un reperto unico nel suo genere.
Infatti secondo Michael Eisenberg, direttore degli scavi, maschere di bronzo di quel taglio sono estremamente rare e di norma non raffigurano il dio Pan o alcuna altra immagine della mitologia greca e romana.
Il dio Pan, nella mitologia greca, era una divinità non olimpica, mezzo uomo e mezzo caprone, nato dall'unione del dio Ermes e della ninfa Driope. Omero lo descrive come un dio potente e selvaggio, raffigurato con gambe e corna caprine, zampe irsute e zoccoli, busto umano e volto barbuto. Principalmente indicato come dio Signore dei campi e delle selve nell'ora mediana, Pan vaga per i boschi, spesso all'inseguimento di ninfe, mentre suona e danza. Protegge le greggi e gli armenti e indossa una nebris, ossia una pelle di cerbiatto.

(ArtsLife, 16 marzo 2015)


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