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Notizie 16-31 marzo 2016


Sette itinerari tra storia e arte degli ebrei

La nuova mappa realizzata dal Consiglio d'Europa: dalle sinagoghe alla musica, alla città cosmopolita.

di Vera Mantengoli

Una mappa per scoprire la storia della comunità ebraica, la certificazione che Venezia entra a tutti gli effetti a far parte dell'itinerario del Consiglio d'Europa volto a preservare la memoria dei popoli e una targa dell'istituzione nel Museo Ebraico del Ghetto. Ieri mattina la vice segretario generale del Consiglio d'Europa, Gabriella Battaini Dragone, ha fatto un punto sulle numerose attività portate avanti dall'istituzione europea che ha l'unica sede italiana a Venezia in Piazza San Marco.
   La novità è che in questi giorni il Consiglio d'Europa ha incluso Venezia come parte di un itinerario europeo per la tutela della memoria e della storia ebraica che coinvolge fino ad adesso 30 Paesi con l'obiettivo di includere anche tutti gli ex Paesi comunisti dell'Est. Chi volesse scoprire la storia degli ebrei in città, potrà munirsi di una mappa realizzata ad hoc con sette percorsi: la Venezia cosmopolita, le sinagoghe del Ghetto, i mercanti ebrei, le residenze delle famiglie ebree fuori dal Ghetto, la musica e il teatro e, infine, la beneficenza e la salute. «I 500 anni», ha detto Battaini Dragone, insieme alla referente veneziana Luisella Pavan Woolfe, «devono servirci per capire come si è arrivati a togliere a una popolazione la libertà, come si è visto dall'esperienza del Ghetto prima e dei campi di concentramento poi».
   Ieri pomeriggio la vice segretaria è stata insignita di un riconoscimento, a riprova dell'impegno che il Consiglio d'Europa ha portato avanti negli anni per la tutela del patrimonio intangibile.
   Non sono le uniche iniziative in programma. A maggio si terranno i "Caffè d'Europa", organizzati con l'Università Ca' Foscari, a settembre è in arrivo un appuntamento sulla lotta alla corruzione con un particolare riferimento all'amministrazione pubblica, mentre un paio di importanti iniziative verranno discusse tra qualche giorno a Bruxelles. Si tratta della proposta di introdurre nelle scuole superiori dei programmi sull'importanza della democrazia: «Il Consiglio d'Europa», ha detto la vice segretaria a proposito del programma contro il terrorismo, «è impegnato a prevenire la radicalizzazione di posizioni estremiste che portano inevitabilmente a delle ghettizzazioni e al pericolo che ci siano dei combattenti solitari e dei foreign fighters. A questo proposito insegnare a scuola il valore della democrazia può servire a quei giovani che, trovandosi in un momento difficile, prendono la strada sbagliata».

(la Nuova Venezia e Mestre, 31 marzo 2016)


Venezia - Ronald Lauder: "Io, ebreo, difendo i cristiani perseguitati"

Incontro con il presidente del World Jewish Congress. "A Venezia, gli ebrei, 5000 persone confinate in un paio di isolati, sono riusciti a costruire 5 bellissime sinagoghe, hanno creato musica, arte, hanno scritto libri".

 
Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress
Non è facile riuscire ad intervistare Ronald Lauder, anche per l'apparato di sicurezza da cui è circondato. Questo incontro esclusivo con il presidente del World Jewish Congress è avvenuto a Venezia, durante le celebrazioni per i 500 anni del piu antico ghetto del mondo. Figlio della fondatrice dell'impero dei cosmetici, Estee Lauder, Ronald è noto anche come collezionista d'arte. Ha fondato un suo museo a New York, la Neue Galerie, dedicato all'arte austriaca e tedesca a cavallo del XX secolo. Celebre l'acquisizione del ritratto di Adele Bloch Bauer, di Gustav Klimt, quadro per il quale Lauder ha pagato 135 milioni di dollari.
  "500 anni fa a Venezia un popolo, quello ebraico, fu segregato dal resto del mondo, in un ghetto. Era come una prigione a cielo aperto, che di notte veniva chiusa. Ma la cosa affascinante è che a Venezia, nel periodo successivo, gli ebrei, 5000 persone confinate in un paio di isolati, sono riusciti a costruire 5 bellissime sinagoghe, hanno creato musica, arte, hanno scritto libri. E' straordinario quello che i bambini imparavano: a 13 anni erano perfettamente in grado di leggere libri. E' stato un periodo di grande cultura: gli ebrei scrivevano libri perché non potevano viaggiare, però nella loro mente le cose le vedevano, i medici elaboravano nuove cure senza avere esperienze di viaggi o di confronti. Questo spiega la forza del popolo ebraico. Oggi, a distanza di 500 anni, l'antisemitismo c'è ancora, ma di tipo diverso. Israele è l'unica democrazia in Medio Oriente, ha prodotto cose fantastiche per il mondo; eppure viene attaccato continuamente. Perche viene attaccato dalle Nazioni Unite o dalla stampa? Ci sono nazioni che fanno cose terribili eppure non vengono attaccate. Perche? L'unica spiegazione è: antisemitismo."

- Lei ha incontrato varie volte Papa Francesco che anche recentemente, dopo gli attentati in Pakistan, ha denunciato la persecuzione dei cristiani in diverse aree del mondo. Cosa si puo fare?
  "Io ho scritto della persecuzione e del massacro dei cristiani in Medio Oriente e in Africa. La cosa incredibile è che nessuno ne parla. Centinaia di migliaia vengono ammazzati e nessuno ne parla. C'è stato il caso di Lahore qualche giorno fa. Non se ne parla abbastanza. L'unico che si schiera e che prende posizione è Papa Francesco. Noi dobbiamo denunciare qualunque tipo di persecuzione religiosa. Noi ebrei sappiamo cosa significa e sappiamo che è importante parlare. Non è giusto che il mondo resti in silenzio quando i cristiani vengono ammazzati. Quando il mondo resta in silenzio succedono cose brutte. Bisogna parlare. Gli italiani, i cattolici, devono esprimersi su quello che sta accadendo in modo molto più forte. Bisogna parlare in tutto il mondo perche il silenzio è quello che uccide".

(RaiNews, 31 marzo 2016)


Ue, controlli in aeroporto in stile Tel Aviv

Il comitato sulla sicurezza aerea europea studia il modello dello scalo israeliano, considerato tra i più sicuri del mondo.

E' prevista per oggi a Bruxelles una riunione del comitato sulla sicurezza aerea europea, convocata in anticipo dopo gli attentati di Bruxelles dello scorso 22 marzo. Sul tavolo una stretta sui controlli, con la valutazione di nuove misure di sicurezza per accedere agli aeroporti europei.
L'ipotesi circolata in queste ore sulla stampa europea è quella di aeroporti in stile Tel Aviv, con controllo biglietti, passaporti e bagagli già all'ingresso delle strutture. Le rigide misure di controllo messe in pratica nello scalo israeliano, che il comitato riunito a Bruxelles valuterà, saranno poi sottoposte agli Stati membri con una raccomandazione non vincolante.
In quello che è considerato uno degli aeroporti più sicuri al mondo, l'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv prevede 5 livelli di controlli, dall'ingresso nella struttura fino all'imbarco, nel corso dei quali gli uomini della sicurezza aeroportuale assegnano un "indice di pericolosità" che va da 1 a 6, per il quale sono previsti ulteriori verifiche prima dell'imbarco.

(Sputnik News, 31 marzo 2016)


Tel Aviv, l'aeroporto più sicuro al mondo

In questi giorni si parla di rafforzamento della sicurezza negli aereoporti, ed é per questo che vogliamo spiegarvi come funziona il Ben Gurion di Tel Aviv. L'aereoporto israeliano infatti, é l'hub più rinomato al mondo in termini di sicurezza, vediamo perché.

di Paola Kim Simonelli

 Aereoporto di Ben Gurion - Tel Aviv
 
  Il 30 Maggio 1972, nell'attacco che viene ricordato come il Massacro dell'aereoporto di Lod, tre membri dell'Armata Rossa Giapponese, un gruppo terroristico alleato del Fronte Popolare di liberazione della Palestina, fecero irruzione nell'area arrivo passeggeri e uccisero 24 persone, più 80 feriti. É questa la data in cui, nell'aereoporto di Tel Aviv iniziarono ad essere prese delle misure di sicurezza che lo resero da allora, e lo rendono ancora l'aereoporto più sicuro del mondo. Polizia, esercito, intelligence, operano sotto copertura per mantenere un servizio di vigilanza continuo e scoprire in tempo ogni possibile minaccia.
I passeggeri dell'aereoporto di Tel Aviv, sono avvisati di arrivare almeno tre ore prima del decollo, perché qui le misure di sicurezza iniziano prima che si entri nella struttura. Per mantenere sempre alta la soglia di attenzione degli addetti alla sicurezza, si eseguono delle rotazioni di personale, eliminando lo svolgimento di lavoro ripetitivo. Di certo, mantenere un alto profilo di sicurezza ha i suoi bei costi, che surclassano di dieci volte la spesa dell'Homeland Security negli scali Usa.

 I controlli funzionano così
  I controlli vengono effettuati a tutti; chi arriva con mezzi pubblici ha un metal detector che lo aspetta alla stazione degli autobus e dei treni, chi arriva con la macchina o taxi viene fermato 1km prima della porta d'ingresso. Una volta raggiunto l'ingresso, altre guardie effettuano controlli relativi ad informazioni del viaggio. Prima del check-in, scatta l'interrogazione: destinazione, sfogliano il passaporto per capire se ci sono timbri di Paesi a rischio, professione, cosa si è fatto in Israele, quali sono state le persone incontrate, contatti con Cisgiordania, chi ha preparato il bagaglio e se questo è sempre stato sotto il controllo del proprietario. Tutto viene preso in considerazione compresi il tono delle risposte e i muscoli facciali.
Si arriverà al check-in con un'etichella gialla sul retro del passaporto, in cui ci sarà un codice a barre e dieci numeri ; la prima cifra di ogni di ogni serie, va da 1 a 6 e costituisce l'indice di pericolosità del passeggero. Il numero 6 é il massimo della pericolosità presunta ; dopo il check-in i passeggeri con i codici 5 e 6 vangono invitati per ulteriori controlli che comprendono apertura del bagaglio, body scanner e ulteriore interrogatorio.

(easyviaggio.com, 31 marzo 2016)


Simulazione anti-Isis a Eilat

Unità scelte di Israele impegnate per liberare 'ostaggi'

Il terrorismo dello Stato islamico fa una prima, drammatica, apparizione nel mar Rosso con la cattura di un'imbarcazione di turisti di fronte a Eilat. Finora si e' trattato solo di una esercitazione militare israeliana, protrattasi per 12 ore di alta tensione, ma la sensazione e' che il pericolo sia "reale, esistente".
"Esercitazioni del genere avvengono ogni anno - ha spiegato alla stampa il col. Oren Nachbes, comandante della 'Arena navale del mar Rosso' della marina israeliana - Ma questa volta abbiamo scelto l'area di Eilat. Ci rendiamo conto delle minacce che ci circondano. Comprendiamo che l'Isis e' una di queste, che cerca di colpire obiettivi occidentali. Da parte nostra dobbiamo tenerci pronti per affrontare questa ed altre minacce". Per evitare malintesi, Israele aveva avvertito per tempo i Paesi vicini della simulazione, che si e' svolta in acque territoriali israeliane e ha impegnato una quindicina di navi e guardacoste della marina israeliana, nonché forze di terra, la aviazione e unita' di elite.

(ANSA, 31 marzo 2016)


Una delegazione di Hamas rientra a Gaza dopo un viaggio in Egitto e Qatar

GAZA - Una delegazione del movimento islamista
e terrorista
palestinese Hamas ha fatto ritorno ieri sera nella Striscia di Gaza dopo un tour in Egitto e Qatar. Fonti interne al gruppo palestinese hanno reso noto che "i delegati sono rientrati a Gaza attraverso il valico di Rafah, al confine con l'Egitto, che è stato aperto eccezionalmente per favorirne il transito". La delegazione islamica ha lasciato Gaza il 12 di questo mese per recarsi prima al Cairo, dove hanno incontrato per quattro giorni i funzionari e capi dei servizi segreti egiziani, e ha fatto poi tappa in Qatar dove sabato scorso si è svolta una riunione con il resto del gruppo dirigente in esilio all'estero che ha sede proprio a Doha, dopo un incontro con i membri del governo locale. Domenica scorsa i dirigenti palestinesi sono ritornati al Cairo per tenere nuovi incontri con i funzionari egiziani. Si tratta delle prime trattative fra Hamas e i membri del governo del presidente Abdel Fatah al Sisi volte a garantire la sicurezza nell'area di confine al confine fra Egitto e Striscia di Gaza e riprendere i rapporti dopo le accuse di terrorismo rivolte dal Cairo alla formazione palestinese.

(Agenzia Nova, 31 marzo 2016)


Dalla Shoah al film di Benigni. L'archivio che salva la storia

Festeggia 60 anni il Centro di documentazione ebraica di via Eupili a Milano


II Cdec nasce a Venezia, ma dagli anni Sessanta viene ospitato nella ex scuola ebraica Nel 1991 ha dato alle stampe un volume che ricostruisce la storia di 10 mila persone deportate Nel 1994 i ricercatori hanno intervistato 105 ex deportati e realizzato il film «Memoria»


di Paola D'Amico

La sala di lettura al primo piano della palazzina di via Eupili 8, sede del Cdec, il Centro di documentazione ebraica contemporanea, è una tappa obbligata per scrittori, studiosi, registi. Qui è germogliata la sceneggiatura de «La vita è bella» di Roberto Benigni e di «Jona che visse nella balena», il film di Roberto Faenza. Compie 60 anni questo luogo unico in Europa, che ha trovato sede nella ex scuola ebraica milanese, quella nata per accogliere i bimbi che le leggi razziali avevano espulso dalla scuola pubblica. E per sostenerlo nasce l'associazione Amici del Cdec (amicidelcdec@cdec.it). Perché custodire la memoria ha costi enormi.
   «Il nucleo originario nacque a Venezia - racconta Liliana Picciotto, che ne è oggi il direttore scientifico - da una idea della federazione giovanile ebraica». Erano i figli di chi aveva subito la persecuzione durante la seconda guerra mondiale. «Volevano ricostruire i fatti, avevano raccolto materiale, intervistato sopravvissuti - continua-. Robi Bassi, dermatologo veneziano, ne fu il primo segretario e racconta di aver custodito il materiale documentale in valigie sotto il letto». Un intero armadio di tesi di laurea documenta il lavoro che pochi esperti e molti volontari svolgono tra queste mura. La biblioteca ha trentamila volumi sull'ebraismo, più di duemila riviste. Il Cdec fa consulenza a ricercatori di tutto il mondo.
   Ma il Centro è il primo motore di ricerca. L'ultimo lavoro avviato nel 2007 vuole ricostruire la storia degli ebrei che sono sfuggiti alla deportazione. «Si chiama "Memorie di salvezza". Vogliamo ricostruire come si sono salvati. Siamo partiti dalle case di riposo, dove sono ospitati molti di coloro che allora erano bambini - spiega Liliana Picciotto -. Emerge lo spaccato di una società civile che fu capace di grandissima generosità. A svolgere un ruolo cruciale furono le concordanze amicali e occupazionali. Mi spiego, dall'avvocato a chi aveva il banco al mercato aprirono la loro casa a chi si doveva nascondere per non essere deportato». Ma già prima, nel '94, lo stesso metodo aveva consentito di fissare per sempre il racconto di 105 deportati sopravvissuti ai lager. Ne è nato un film, «Memoria», un documento unico in Europa che ha strappato all'oblio pagine di storia.
   Quelle valigie di cartone custodite sotto il letto dello studente veneziano sono diventate nel tempo un archivio gigantesco che raccoglie ogni documento, diario, lettera e testimonianza di vita delle comunità ebraiche in Italia e anche in Europa. Paola Mortara si occupa dell'archivio fotografico: una storia per immagini dell'ebraismo italiano. Da un nucleo di immagini in bianco e nero che riguardavano la Shoah, il database s'è ampliato e oggi ricostruisce la storia di famiglie arrivate in Europa dai Paesi Arabi e dall'Est. Il fiore all'occhiello è, però, lo studio sui deportati ebrei dall'Italia. Un lavoro durato diciotto anni e concluso nel 1991, che ha ricostruito la storia di ogni persona scomparsa. Diecimila schede raccolte in un volume. «Qualcuno ci ha detto "Finalmente i miei genitori hanno una tomba"». spiega la direttrice. A Roma, per esempio, in una sola notte, nel rastrellamento del 16 ottobre 1943, la Gestapo arrestò 1.259 persone. Duecentosette erano bambini. Una lapide nel ghetto ricorda la retata. E prima ancora della fine della guerra, aprì un piccolo ufficio delle ricerche dove si portava la foto dello scomparso. «Da lì siamo partiti e dalle carceri, dagli archivi di Prefetture e Questure, dove abbiamo trovato gli ordini di arresto. È stata una impresa pazzesca, non c'erano ancora i pc quando abbiamo iniziato».
   In questa piccola casa trova posto anche la più grande biblioteca italiana di testi antisemitici. «Una editoria molto vivace», commenta con ironia Stefano Gatti che si occupa anche dell'Osservatorio sull'antisemitismo italiano con Betti Guetta. Il Cdec spegne 60 candeline. La festa a fine maggio.

(Corriere della Sera - Milano, 31 marzo 2016)


Facciamo cessare questa occupazione illegittima!

È passata ai più inosservata la recente decisione del Palazzo di Vetro di riconoscere le rivendicazioni argentine sulle Isole Falkland. La decisione di estendere di 150 miglia nautiche le acque territoriali di Buenos Aires, in modo da includere quelle che bagnano le isole contese, ha colto di sorpresa il governo locale, che ha chiesto immediate spiegazioni. Grazie alla scellerata decisione dell'ONU, l'Argentina riceve in dono complessivamente 1,7 milioni di chilometri quadrati di spazio marittimo.
Attendiamo ora le reazioni di Londra. In particolare ci si chiede:
- Questo scagiona le azioni terroristiche compiute dagli argentini nei confronti degli abitanti delle isole, ai loro occhi "illegalmente occupate" dai "coloni" britannici?
- Dal momento che la Gran Bretagna occupa, per decreto dell'ONU, illegalmente un territorio altrui, quando parte il boicottaggio accademico, culturale, economico e artistico del Regno Unito?...

(Il Borghesino, 31 marzo 2016)


Le Carré e le classi ciarliere che vedono ovunque i sotterfugi dell'occidente.

Un agitprop moralista dal successo planetario

di Giulio Meotti

 
John le Carré
Ho letto i miei necrologi", commentò John le Carré quando tutti, dopo il crollo del Muro di Berlino, gli predissero un avvenire da pensionato. Finita la Guerra fredda, di cosa avrebbe potuto scrivere il maestro della spy story che ha plasmato la percezione della lotta tra est e ovest? Ma i profeti di sventura avevano torto. Le Carré sarebbe riuscito a individuare altre nemesi in altrettanti successi planetari: le case farmaceutiche ("The Constant Gardener"), le perfide multinazionali ("A Delicate Truth"), gli occulti servizi segreti ("The Mission Song"), la guerra al terrore di Bush ("A Most Wanted Man"). Il pubblico inglese adesso scopre che i cattivi in medio oriente non sono i fondamentalisti islamici, ma la Cia, l'Mi6 e i trafficanti di armi in combutta con l'Egitto di Mubarak.
   E' "The Night Manager", successone Bbc tratto da un romanzo di le Carré, modificato previa autorizzazione dell'autore. Nick Cohen, giornalista liberal corsaro, lo definisce "un pezzo stantio di agitprop" in un articolo su Standpoint dal titolo "La codardia di Le Carré". "Le Carré ritiene che le multinazionali facciano il lavaggio del cervello alle masse per conto dell'egemonia americana imperialista, a sua volta controllata da una congiura di destra che tira le fila per volere - indovinate di chi? - degli ebrei". 0 per dirla con Le Carré, "i neoconservatori hanno scelto Israele come il fine di tutta la politica globale". Se, come scrive James Parker, "i suoi romanzi della Guerra fredda erano microfilm psichici dell'establishment", i nuovi libri di Le Carré sono un simbolo dell"affettazione più deplorevole degli intellettuali occidentali: la convinzione che l'occidente sia l'unico nemico che valga la pena di combattere". Quanti oggi credono che il Big Pharma sfrutti il Terzo mondo, che la guerra in Iraq sia stata per il petrolio, che Bush e Blair siano due bugiardi criminali, che Israele sia la fonte del caos e che noi, l'occidente, ce la siamo cercata? Gli equivoci morali da Guerra fredda di Le Carré continuano oggi, trasformati e aggiornati dal capitalismo selvaggio.
   Esponente tipico dell" Hampstead Liberal", il quartiere londinese dove vivono lo scrittore e le "chattering classes", le classi ciarliere snob e salottiere, Le Carré è stato maestro, scrive Cohen, di "centinaia di scrittori che hanno descritto i mali dell'occidente e la cricca della Cia. Non riesco a sfuggire alla sensazione che sono dei codardi". Coraggioso certamente Le Carré non lo fu sulla fatwa contro "I versetti satanici", quando definl Rushdie un "cretino" interessato ai "diritti d'autore". Secondo Christopher Tayler, Le Carré si è reinventato come maestro dell'indignazione leftish". La quale vede ovunque i sotterfugi delle democrazie. Fino all'11 settembre 2001. Quando "la spia che venne dal freddo" proprio non ce l'ha fatta a schierarsi con l'occidente sotto attacco. E, sempre fedele alle proprie ambiguità, ha scelto di donare parte dei suoi diritti d'autore a Reprieve, la ong che difende i tagliagole di Guantanamo.

(Il Foglio, 31 marzo 2016)


Scontri tra gruppi palestinesi a Nablus

Ancora violenze in Cisgiordania. La città di Nablus è stata teatro di scontri a fuoco fra unità della sicurezza palestinesi e uomini delle Brigate di Al Aqsa (il braccio armato di Al Fatah, il partito del presidente Mahmoud Abbas). Sono rimasti feriti cinque agenti e sette civili, come riferisce l'agenzia di stampa palestinese Maan. All'origine degli incidenti, ha spiegato il governatore di Nablus, Akram Rajoub, c'è stato il tentativo di arrestare Hani Halaweh, un uomo sospettato di essere coinvolto in un omicidio. Halaweh — un leader delle Brigate di Al Aqsa — respinge le accuse nei suoi confronti. Ai media ha dichiarato che il raid delle forze di sicurezza palestinesi andava impedito avendo «preso di mira case di prigionieri e di combattenti della resistenza». Non permetteremo — ha aggiunto — «che ciò avvenga». Nell'area di Nablus le tensioni tra i seguaci delle Brigate di Al Aqsa e le forze di sicurezza palestinesi sono frequenti, anche se nell'ultimo periodo non erano stati registrati scontri a fuoco. L'episodio di ieri — dicono gli analisti — è significativo del clima di tensione che attraversa in questo momento l'amministrazione palestinese in Cisgiordania. E questo anche a causa dello stallo, che ormai dura da oltre due anni, delle trattative con Israele. A complicare le cose ci sono poi le crescenti tensioni con Hamas, il movimento islamico che controlla la striscia di Gaza dal giugno del 2006. I tentativi di formare un Governo unitario palestinese sono finora falliti.

(L'Osservatore Romano, 31 marzo 2016)


Ilan Brauner e la storia del Ghetto Ebraico di Venezia

Ilan Brauner: i 500 anni del Ghetto Ebraico fra storia, memoria e attualità.

I 500 anni del Ghetto di Venezia vengono ricordati da Ilan Brauner, presidente dell'associazione Italia-Israele della Marca Trevigiana. L'atto della Serenessima di trasferire gli ebrei nel ghetto fu un atto coatto. I circa 400 ebrei di allora, maggiormente di nazionalità tedesca, erano residenti in diverse località del Veneziano,molti alla Giudecca. Dovettero lasciare le loro case e le loro vite per il Ghetto. Le lamentele che giungevano da esponenti della Chiesa, i primi a fomentare la discriminazione, furono decisive per il provvedimento della Commissione dei Dieci e del Granconsiglio: si considerava offensivo per la religione cristiana che comunità ebree, o singole famiglie, vivessero in prossimità delle chiese, continuando a condurre lo stile di vita e i rituali della loro credenza religiosa. Insomma, era ritenuto offensivo nei confronti dei cristiani l'essere e il vivere nell'identità della propria tradizione storico-culturale e religiosa.
Inizialmente di Ghetti ce ne erano due, ma entrambi avevano la stessa fondamentale caratteristica: quella di essere delle zone circoscritte da mura o da canali, e quindi facilmente escludibili dal resto della vita veneziana e controllabili. Possedute da famiglie veneziane, per essere abitate queste aree richiedevano il pagamento di affitti piuttosto alti, tra i 10 e i 20 mila ducati all'anno. Ma non era questa la più grossa spina nel fianco sul versante economico: per poter rimanere nel Ghetto, gli ebrei dovevano pagare la condotta. La scadenza della condotta significava l'immediata espulsione e per rinnovarla, si è arrivato a pagare anche circa 150, 200 mila ducati all'anno, un prezzo che ha prodotto un grande aumento di debiti verso la Serenissima.
Fu nel 1797 che infine il cancello del Ghetto venne sradicato, fatto a pezzi e bruciato in Piazza S. Marco, proprio lì dove ebrei erano stati bruciati dopo sommari processi per conto dell'Inquisizione, attiva anche a Venezia seppure tenuta abbastanza sotto controllo dalla Serenissima.
Dal passato alla storia attuale, Ilan Brauner parla anche della situazione in Israele: la paura e il bisogno di sicurezza è trasversale a tutta la società, e i cittadini sono stanchi di dover uscire di casa armati per proteggersi.

(Venezia Today, 30 marzo 2016)

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Bruno Santi, chef Kosher: le radici della cucina ebraica

Chef Kosher: Bruno Santi parla dei piatti tipici della cucina ebraica e del suo ristorante Ghimel Garden a Venezia.

VENEZIA - Bruno Santi racconta cosa significa essere uno Chef Kosher, ovvero uno chef della cucina ebraica: la religione e la cultura ebraica infatti, vietano una serie di pratiche e una serie di cibi per ragioni le cui radici affondano nel passato e a volte in contingenze pratiche. Non è facile essere uno chef kosher: la parola deriva dal termine kasherùt, adeguatezza, ed indica quell'insieme di regole che rendono i cibi idonei o meno per il consumo del popolo ebraico secondo quanto stabilito nella Torah e interpretato nel Talmud e Shulchan Aruk. Per accertarsi che lo chef segua scrupolosamente queste regole, nelle cucine è sempre vigile la sorveglianza di un controllore specializzato, che ispeziona i prodotti, si accerta delle pratiche di produzione di questi ultimi e della lavorazione che avviene poi nelle cucine per arrivare infine al piatto.
Molti piatti della tradizione ebraica, come i divieti, nacquero sotto l'influenza della vita quotidiana. Quanto la cucina ebraica incarna la storia di discriminazione e ghettizzazione del suo popolo? Per esempio, è interessante considerare che nello spazio ridotto del Ghetto vivevano a stretto contatto ebrei provenienti da tutte le parti del mondo. La commistione delle loro influenze è stata fondamentale nel creare dei piatti unici della cucina ebraica. Poi, proprio perché di spazio non ce n'era - se si pensa che i mq a disposizione erano pochissimi e tra un piano e l'altro dei rudimentali "grattacieli" che affollavano il Ghetto c'era al massimo uno spazio di 1.90 - si dovevano trovare metodi alternativi di conservazione dei cibi e del loro utilizzo.
La così detta concia era un modo per mettere via melanzane e zucchine, e le famose sarde in saor con pinoli, uvetta e cipolla erano il modo migliore per conservare il pesce.
Anche nella Pasqua Ebraica e nel suo universo culinario i cibi rispecchiano la storia: a differenza del Cristianesimo, la Pasqua ebraica festeggia la fuga del popolo ebreo dalla schiavitù in Egitto. Nel ricordare la fretta della fuga c'è l'usanza di abbandonare tutti gli alimenti lievitati durante la Pasqua: scappando nessuno aveva certo il tempo di aspettare che il pane lievitasse!
Le radici dei piatti e divieti nell'alimentazione ebraica hanno quindi delle origini interessanti, non solo religiose, ma anche storiche e culturali, mettendo in luce le corde profonde della cultura di un popolo.
Chi volesse farne esperienza, il Ristorante Ghimel Garden del Ghetto Nuovo offre l'abilità dello chef Bruno Santi al vostro palato.

(Venezia Radio TV, 30 marzo 2016)


Il Rotolo di Ester esposto alla Biblioteca Mai di Bergamo

BERGAMO - Sabato 2 aprile 2016 alle 11 verrà inaugurata la mostra "Il Rotolo di Ester figurato della Biblioteca Civica Angelo Mai, fine sec. XVII", esposizione promossa in collaborazione con il Comitato per la Cultura Biblica di Bergamo, nell'ambito della VIII Edizione di "Effettobibbia": Cambiare la storia: il libro di Ester.
   Il prezioso manoscritto, insieme ad altre edizioni della Bibbia, rimarrà esposto presso l'Atrio Scamozziano della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo fino al 23 aprile e sarà visibile durante gli orari di apertura della Biblioteca (dal lunedì al venerdì dalle 8.45 alle 17.30 e il sabato dalle 9 alle 13).
   Il Libro di Ester è un testo biblico che racconta la storia di una coraggiosa fanciulla ebrea che, ai tempi del re persiano Assuero, riuscì, insieme al cugino Mardocheo, a sventare il complotto che Haman, un ministro di corte, aveva ordito per sterminare il popolo ebraico. Questo libro fu letto in seguito come una parabola della vita degli ebrei in esilio e ha dato origine alla festa ebraica di Purim, che il 14 del mese ebraico di Adar (febbraio-marzo), tra preghiere, canti e banchetti, commemora la salvezza del popolo ebraico dal malefico progetto di Haman e celebra questo felice ribaltamento delle sorti. La parola Purim, infatti, significa 'sorti', e allude alle 'sorti' che Haman trasse (Est. 3:7) per individuare il mese dell'anno nel quale avrebbe messo in atto il suo spregevole piano. Tirando le 'sorti', Haman si convinse che il mese di Adar gli sarebbe stato favorevole; ma la storia decise diversamente.
   Tra gli usi di Purim vi è il precetto di leggere il Rotolo di Ester, Meghillat-Ester in ebraico, nella sua interezza. Per rendere comprensibile il testo in lingua originale a tutti i membri di una comunità si cominciò, sin dal Medioevo, a tradurre il racconto biblico nelle varie lingue e si instaurò l'uso di leggere queste 'parafrasi' durante il banchetto di Purim.
   Presto queste traduzioni divennero autentici rimaneggiamenti letterari della storia di Ester finalizzati alla trasmissione del messaggio che questo racconto porta con sé: celebrare la gioia per lo scampato pericolo e ricordare che, grazie alla volontà divina, la salvezza è sempre possibile nella storia. Secondo tradizione, la Meghillat-Ester composta per essere letta nella ricorrenza festiva di Purim, deve possedere determinati requisiti: presentarsi in forma di rotolo di pergamena, contenere solo il Libro di Ester ed essere scritta a mano.
   Accanto alle caratteristiche stabilite dalla tradizione, ve ne sono altre che dipendono dall'iniziativa individuale o dalla moda dell'epoca; tra queste vi è anche l'uso dell'elemento decorativo che, sulla base delle attestazioni a noi note, è documentato a partire dal XVII secolo, epoca a cui risale anche l'esemplare esposto, posseduto dalla Biblioteca sin dalla metà dell'Ottocento.

(Bergamonews, 30 marzo 2016)


«Odio e antisemitismo hanno radici profonde»

Robiati alla sinagoga di Merano fa il parallelo con l'Isis. Steinhaus: la memoria è identità.

 
La sinagoga di Merano
L'interno
BOLZANO - Si è parlato a lungo della memoria e del suo significato, come era giusto che fosse, più che di terrorismo, all'incontro organizzato ieri sera alla sinagoga di Merano nell'ambito delle iniziative della Piattaforma delle resistenze 2016 che vanno sotto il nome di «Memory Sharing».
Assente per un impegno familiare imprevisto ed indifferibile il rabbino Elia Richetti, è intervenuto in sua sostituzione Vittorio Robiati Bendaud una delle migliori menti ebraiche in Italia che ha parlato delle «molte memorie» che si hanno a livello individuale e collettivo, per cui gli stessi fatti sono ricordati in modo diverso.
«I momenti autentici di ricordo - ha sostenuto - sono momenti di apprendimento di narrazioni che non coincidono e che nel caso della memoria ebraica, si sintetizzano nella shoah. Non basta ricordare in modo ripetitivo, ma bisogna far coincidere la memoria dinamica, plurale, che è anche memoria di sfiducia, di titubanza e allo stesso tempo memoria che orienta che dà le coordinate per gestire e comprendere il futuro».
L'antisemitismo ha radici profonde che risalgono a molto prima della seconda guerra mondiale e non è mai superato, mentre altre forme di contrasto, altri estremismi si vanno diffondendo in Europa. «Nulla è successo per caso - ha ricordato ancora Robiati - la Shoah ha avuto dei precedenti importanti, non se la sono inventata i nazisti. Nel 1904 il genocidio del popolo herero fu perpetrato dai tedeschi come nel 1915 quello degli armeni fu da loro provocato assieme ai turchi. Oggi l'Isis ha sterminato i cristiani nello stesso posto dove vennero sterminati gli armeni e non è una caso».
Creazione, liberazione e Monte Sinai sono i tre pilasti della memoria ebraica, ha ricordato ancora il relatore che l'ha definita «bella ma devastante come la Bibbia che non è la storia del Mulino bianco».
Il progetto «Memory Sharing» intende sensibilizzare la popolazione altoatesina sul concetto di memoria del mondo ebraico, secondo il quale una persona vive finché c'è qualcuno a ricordarla e il ricordo stesso è azione a beneficio di chi vive ancora. In questo senso si è orientato il successivo intervento di Federico Steinhaus, grande esperto della storia ebraica dell'Alto Adige una terra che ha vissuto nazismo e fascismo ed in questo è del tutto particolare.
«Noi tutti abbiamo una memoria selettiva - ha sostenuto Steinhaus - e ricordiamo più o meno i fatti secondo i nostri preconcetti e pregiudizi. Perciò è importante curare la memoria perché è la nostra identità, saldando quella collettiva con quella individuale perché la velocità di diffusione dell'informazione e che abbiamo oggi, indebolisce la memoria e cadiamo nel rischi che le giornate che oggi si fanno per ricordare generino un sentimento opposto, quello della rimozione di qualcosa che non vogliamo più ricordare».

(Corriere dell’Alto Adige, 30 marzo 2016)


Geopolitica e fatture: tutto porta agli israeliani che «bucano» gli iPhone

di Martina Pennisi e Marta Serafini

Su Twitter da giorni quelli della Cellebrite gongolano. Non smentiscono e non confermano. Ma per i media israeliani sono loro ad aver «bucato» l'iPhone del killer di San Bernardino. «Cat's out of the bag (Qualcuno ha cantato, ndr)», ha risposto su Twitter a chi gli chiedeva conto dei rumors ShaharTal, direttore delle ricerche forensi dell'azienda, con l'aria di uno che si sta divertendo molto.
Al di là delle battute, sono altri gli indizi che portano dritti al colosso israeliano della cyber investigazione. Fondata nel 1999 a Petah Tikva, nella Silicon Valley israeliana, la Cellebrite «è la numero uno al mondo nell'estrazione di dati da smartphone», spiega Paolo Dal Checco, consulente informatico in ambito forense. Non è raro infatti che tribunali e polizia si avvalgano di aiuti esterni per craccare i device dei sospettati e degli imputati ( è successo anche in Italia con Hacking Team). L'obiettivo è portare in Tribunale prove certificate e meno attaccabili. Facile dunque che l'Fbi per accedere al contenuto dello smartphone di Syed Farook si sia rivolta alla «migliore».
   Ma c'è di più. Andando a consultare il database della procura federale statunitense (il cui contenuto è pubblico) si scopre come dal 2009 a oggi l'Fbi abbia affidato alla Cellebrite ben 187 incarichi. In genere le fatture per i servizi resi si aggirano intorno ai 10 mila dollari. Ma quella emessa due giorni fa è ben più alta: 218 mila dollari. Una pistola fumante dunque? «Non necessariamente. Ma diciamo pure che tutto lascia pensare che siano stati loro», sottolinea Dal Checco. E se dall'azienda israeliana non arrivano commenti, a giocare a favore della tesi Cellebrite è anche «lo stretto rapporto che intercorre tra israeliani e statunitensi a livello militare», sottolinea Carlo Del Bo, esperto di sicurezza informatica.
   Dalla geopolitica si passa al singolo caso. «Lo smartphone di Syed Farook è un iPhone 5c su cui sarebbe stato installato sistema operativo iOs 9», continua Dal Checco. L'hardware dunque non è recentissimo: il modello è del 2013 e non possiede un livello di protezione altissimo. Ma il software è recente, dato che l'ultima versione di iOs è la 9.3, rilasciata proprio due giorni fa. Morale, per entrare in questo singolo iPhone è necessaria una chiave a doppia combinazione che sblocchi sia il telefono sia il sistema.
   Più complicato è capire come si oltrepassa la barriera. Per i sistemi operativi dall'8.1 in poi, si tratta di sbloccare il Pin. Già, perché proprio come successo nel caso di Boettcher, il cui telefono è stato craccato dalla stessa Cellebrite, «è necessario sviluppare un software che permetta di provare tutti i Pin possibili senza che si attivi il blocco dopo 10 tentativi sbagliati», conclude Dal Checco. In alternativa, bisogna staccare la microscheda su cui si trovano i contenuti e copiarla ogni 10 tentativi in modo che non si cancelli.
   Alla fine di questa storia tutti sembrano uscirne bene. Apple, rifiutandosi di collaborare con l'Fbi, non ha tradito la fiducia dei suoi utenti aprendo la famosa «backdoor» (la porta che permette di accedere ai contenuti criptati). L'Fbi ha ingaggiato i migliori consulenti e non ha aspettato che fosse un privato a collaborare in un caso di terrorismo. Così come gli israeliani, che hanno portato a casa una pubblicità notevole. Ma, come sempre, c'è chi soffre. «Ed è il governo statunitense - sottolinea Giovanni Ziccardi professore di Informatica giuridica - che non è riuscito a piegare ai suoi voleri un colosso della Silicon Valley». Eppure il dubbio che in tutta questa vicenda la politica conti molto più delle indagini resta. Perché la guerra tra Fbi e Apple è appena iniziata.

(Corriere della Sera, 30 marzo 2016)


Salvini in cravatta. Prove da leader nel viaggio in Israele

Il leader leghista sulle orme di Berlusconi e Fini. Rassicura: "Noi con Casa Pound? Non li sento più".

di Alberto Mattioli

 
Matteo Salvini in Israele
GERUSALEMME - Ci voleva un invito alla Knesset per vedere Matteo Salvini in giacca e cravatta «di governo» (l'orecchino, però, è sempre lì, unica reliquia della Lega «di lotta» nel look da esportazione del segretario). L'appuntamento al Parlamento israeliano, nella prima di tre giornate fra Gerusalemme e Tel Aviv, val bene una cravatta. Il colpo, mediatico e politico, è importante. Al capopopolo estremista e antisistema viene riconosciuta la patente di presentabilità internazionale. E poi, fin dai tempi di Fini, il passaggio per Israele è una tappa obbligata per i leader o aspiranti tali della destra italiana.
   Gli incontri sono di buon livello, anche se per ragioni di ritardi e di dibattito in corso in Aula è sfumato quello con il vicepresidente della Knesset, Nachaman Shai. Vuoi dire che gli israeliani, che in Italia hanno sempre guardato di preferenza al centrodestra piuttosto che alla sinistra filopalestine se, e ancora di più guardano oggi, con la destra di Netanyahu al governo, cercano un nuovo interlocutore. Il vecchio Berlusconi da sempre è un amico ma, anche visto da qui, il suo futuro politico appare incerto. Tanto vale, allora, vedere com'è questo Salvini, per l'occasione accompagnato dai due vicesegretari federali, Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti, e dal tessitore delle relazioni con Israele, il deputato romagnolo Gianluca Pini. Le comunità ebraiche italiane, annuncia Salvini, gradiscono. La nostra ambasciata supporta, e del resto da parte israeliana assistono ai colloqui dei funzionari degli Esteri. Rispetto ad altre tournée all'estero, siamo su un altro pianeta, Il segretario apprezza: «In passato non è stato sempre così», Decisamente no, Magari sarebbe l'occasione per migliorare un po' l'inglese. «Lo parlo più o meno come Renzi», ammette,
   Poi, si sa, in queste occasioni ogni interlocutore dice quel che l'altro vuole ascoltare. Così per il russofilo Salvini è stata musica sentire da Tzachi Henegbi, del Likud, influente presidente della Commissione Esteri e Difesa della Knesset, che l'amico Putin è «geniale, brillante e in Siria ha lavorato benissimo» (benché poi agli israeliani il riavvicinamento in corso fra Mosca e Teheran non piaccia per nulla). Bene che l'Europa debba intervenire in Libia, «subito e mettendo anche i piedi sul terreno». Benissimo che le relazioni di Gerusalemme con Ankara siano meno buone che un tempo. «Noi ci stiamo appunto battendo contro l'ingresso della Turchia in Europa», chiosa Salvini.
   Quando poi il viceministro della Cooperazione regionale, il druso Ayoob Kara, mette in guardia contro i rischi dell'estremismo islamico e delle ondate migratorie, spiegando che i profughi vanno sì assistiti, ma in Medioriente, sembra quasi la replica dello slogan leghista «aiutiamoli a casa loro». Quanto all'opinione non esattamente lusinghiera di Gerusalemme sulla Ue, le sue cortesie per i palestinesi e i suoi bollini sugli agrumi israeliani coltivati nei territori occupati, Salvini non potrebbe essere più d'accordo, E figuriamoci sull'altro babau leghista, l'Onu, Il Capitano gongola raccontando la risposta di Hanegbi alla sua domanda sulle elezioni americane: «Speriamo che gli Stati Uniti non si trasformino nelle Nazioni Unite».
   E così via, d'amore e d'accordo. Salvini: «Israele rappresenta la convivenza di realtà diverse nel rispetto dell'ordine e della legalità. Un modello da seguire nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo». Quanto agli amici di Casa Pound, che probabilmente non apprezzerebbero e sicuramente qui non sono apprezzati, «da due anni non abbiamo più rapporti», amen. Insomma, se son rose fioriranno. Di certo, sono state piantate.

(La Stampa, 30 marzo 2016)


Sondaggi primarie USA: agli ebrei piacciono di più i candidati democratici

Uno scarso feeling tra gli ebrei e i candidati alle primarie repubblicane. E' quanto emerge dall'ultimo sondaggio condotto da Gallup, che analizza l'opinione dell'elettorato ebreo relativamente ai 5 candidati rimasti ancora in corsa perle primarie dei due principali partiti.
Il preferito della corsa alla Casa Bianca è il "socialista" Bernie Sanders. Un risultato che non stupisce, in considerazione del fatto che Sanders è l'unico ebreo sebbene "non praticante", - come da lui stesso precisato - tra i candidati che ambiscono alla successione a Barack Obama. A suo favore c'è il 60% dell'elettorato ebreo (+1 % rispetto all'avversaria in campo dem, l'ex first lady Hillary Clinton. mentre il 30% la pensa in maniera opposta, con un consenso netto pari dunque al 31 % (+6% rispetto alla Clinton, che registra un 35% di giudizi negativi).
Minore è invece il feeling con i candidati GOP, a conferma di una tendenza di fondo dell'elettorato ebreo statunitense, che si ritiene "democratico" per il 64%, a fronte di un 29% di ebrei repubblicani.
Il preferito dei 3 candidati GOP è il governatore dell'Ohio John Kasich, che registra un +17% netto ma che - secondo Gallup - risulta anche non particolarmente conosciuto.
Molto più negativa è invece l'opinione nei confronti di Donald Trump e Ted Cruz. Il miliardario - che, paradossalmente, è ad oggi il candidato GOP che ha speso meno per la sua campagna elettorale - registra un consenso negativo netto del -48%, migliore solo del -52% registrato da Cruz.
I dati sembrano dunque bocciare sonoramente la carriera politica e la campagna elettorale dell'ultraconservatore Cruz, che fa dell'alleanza con Israele uno dei capisaldi del proprio programma verso la Casa Bianca. Ma non va meglio nemmeno a Trump, sebbene il sondaggio arrivi prima delle sue dichiarazioni all'AIPAC - la più potente lobby ebraica americana - in cui ha annunciato opposizione totale all'accordo sul nucleare iraniano e un fermo endorsement nei confronti di Israele. Dichiarazioni che hanno suscitato però sentimenti contrastanti nell'elettorato ebreo, che non dimentica l'atteggiamento ondivago mostrato nel tempo da Trump sulle vicende di Israele.
Gallup ha chiesto all'elettorato statunitense anche un'opinione in merito all'ipotesi di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di spostarvi anche l'Ambasciata USA, ora situata a Tel Aviv,
L'approvazione è timida: il 24% è favorevole, quattro punti in più rispetto a chi la pensa in maniera completamente opposta. Ma a prevalere nettamente sono coloro che non si esprimono: 56%.

(Termometro Politico, 30 marzo 2016)


Israele-Grecia: il presidente Pavlopoulos incontra l'omologo Rivlin

L'Europa contro ogni forma di razzismo e antisemitismo

ATENE - L'Europa deve lottare contro ogni forma di xenofobia e razzismo, compreso l'antisemitismo: lo ha detto oggi a Tel Aviv il presidente greco, Prokopis Pavlopoulos, durante l'incontro con l'omologo israeliano Reuven Rivlin. In riferimento alla crisi migratoria, il capo dello Stato greco ha ribadito che "l'Europa ha bisogno di affrontare la questione dei profughi con umanità". Pavlopoulos ha poi sottolineato i momenti difficili che il Medio Oriente sta vivendo, a causa delle guerre e del terrorismo. "L'Europa e l'intero mondo civilizzato sono determinati a combattere il terrorismo, a trattare i jihadisti come servi di un nuovo tipo di barbarie", ha affermato. Il presidente greco, che sarà in una visita per tre giorni in Israele, ha detto a Rivlin che la Grecia e Israele sono in grado di contribuire a ripristinare la stabilità in Medio Oriente e a promuovere un maggior grado di cooperazione per diffondere i valori democratici e umanitari nella regione. Questo, a sua volta, contribuirà alla pace, la stabilità, la crescita e la prosperità, ha detto Pavlopoulos. In risposta, il presidente israeliano ha spiegato che i due paesi sono più che amici, e ha inoltre sottolineato che il cosiddetto gruppo Stato islamico (Is), il caos in Siria e conflitti globali in Medio Oriente devono essere affrontati congiuntamente.

(Agenzia Nova, 30 marzo 2016)


Smart city in Brasile, al via progetto italo-israeliano per case a 'basso costo'

Social housing, green technologies, innovazione sociale e case ecosostenibili e a basso costo per la smart city in Brasile del progetto italo-israeliano 'Croatà Laguna Ecopark'.

di Flavio Fabbri

Si chiamerà "Croatà Laguna Ecopark" il progetto smart city che tre aziende israeliane realizzeranno in Brasile, nel Comune di Sio Gonçalo do Amarante, Stato del Ceara, Regione Metropolitana di Fortaleza. L'annuncio è stato dato lunedì scorso dalla Brazilian Israelite Confederation.
Magos, GreenIQ e Pixtier sono le tre imprese israeliane vincitrici del bando internazionale per la costruzione di una città intelligente su 330 ettari, composta di 6000 case e 6800 lotti da destinare a diverse attività. Strutture abitative di alta qualità, immerse nel verde, efficienti da un punto di vista energetico ed idrico, dotate di soluzioni tecnologiche innovative e caratterizzate dall'utilizzo di materiali ecosostenibili.
Al momento, visto che gran parte del progetto è dedicato al social-housing, il costo di una casa è stato fissato a 30 mila dollari circa. La smart city di Amarante è stata infatti pensata anche per famiglie di medio-basso reddito.
La smart city 'Croatà' è un progetto dell'italiana Planet Idea e le tre startup israeliane che saranno chiamate a realizzerla, sono state selezionate tramite il bando internazionale "The 3C Smart Cities Challenge", organizzato dalla stessa Planet Idea, in collaborazione con l'italiana SocialFare, l'israeliana StartTAU e il Tel Aviv University Entrepreneurship Center.
La competizione è stata lanciata per sviluppare una soluzione unica capace di mettere in relazione tre diversi paesi - Brasile, Israele e Italia - nel convergere in un impegno condiviso per generare innovazione sociale e tecnologica.

(Key4biz, 30 marzo 2016)


Venezia, i 500 anni del Ghetto. «È un ricordo, non una festa»

Ieri il concerto inaugurale alla Fenice, poi mostre e spettacoli. Gattegna: un'occasione per riflettere e studiare.

«Non si tratta di una festa, naturalmente, ma è l'anniversario di un importante avvenimento storico, della nascita di un luogo e di una definizione che poi hanno trasceso l'epoca e la località geografica trasformandosi in una metafora globale. E una straordinaria occasione per riflettere su cinque secoli di storia legati al concetto di ghetto, e anche sui ghetti fisici, sociologici, mentali dei nostri tempi». Shaul Bassi, docente di Letteratura inglese all'università veneziana di Ca' Foscari, è il coordinatore del Comitato «I 500 anni del Ghetto di Venezia». Il 29 marzo 1516, sotto il Doge Leonardo Loredan, il Senato veneziano decreta che tutti «li giudei debbano abitar unidi» in una zona recintata e sorvegliata della città: nasceva il primo Ghetto ebraico. Prima di essere destinata a quartiere ebraico, l'area ospitava una fonderia di ferro. La parola ghetto deriva dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, ovvero «getto» di metallo fuso.
   La comunità ebraica di Venezia, presieduta da Paolo Gnignati, ha fortemente voluto un lungo calendario culturale (spiegato nel bel dossier di «Pagine ebraiche» curato da Ada Treves). Sono previste mostre (la principale sarà «Venezia, gli ebrei e l'Europa. 1516- 2016», a palazzo Ducale da metà giugno), dibattiti, restauri (del Sotoportego del Ghetto, del Museo Ebraico, dei giardini segreti del Ghetto). E poi un intrigante appuntamento teatrale: dal 26 al 31 luglio 2016 la Compagnia de' Colombari (degli Stati Uniti) in collaborazione con l'università Ca' Foscari Venezia metterà per la prima volta in scena «Il Mercante di Venezia» di William Shakespeare nella cornice del Ghetto veneziano, ovvero nell'ambientazione originaria del dramma.
   Ieri sera la serata-concerto inaugurale al teatro La Fenice alla presenza del presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, e del presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder.
   Nel suo saluto, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (in tutto 21 sparse nel nostro Paese), Renzo Gattegna, ha chiarito il senso della manifestazione: «Voglio subito sgombrare il campo da possibili equivoci e riaffermare con forza che gli ebrei non hanno alcuna nostalgia del ghetto, la cui istituzione deve essere ricordata e studiata, ma non festeggiata e celebrata».

(Corriere della Sera, 30 marzo 2016)


"L'Europa implora il boia islamista"

Intervista al grande scrittore algerino Boualem Sansal, autore del romanzo "2084". "Il terrorismo vuole accelerare la caduta di una Europa vecchia, stanca, spaventata, che non agisce ma prega".

di Giulio Meotti

Boualem Sansal
ROMA - Qualche giorno fa, dalle colonne del quotidiano francese Monde, Boualem Sansal ha lanciato un appello: "Dare un nome al nemico, dare un nome al male, parlare forte e chiaro". Poi ha chiesto: "Siamo in grado di batterci e di versare il nostro sangue se non crediamo nei nostri valori, se abbiamo già tradito mille volte?". Premio dell'Accademia di Francia per il romanzo-evento del 2015, "2084" (Gallimard in Francia, Neri Pozza in Italia), Sansal vi immagina l'Abistan, una dittatura globale panislamica dove il vecchio mondo è cancellato (la lingua, i libri, la storia, i musei, i vestiti, il cibo) e il nuovo è organizzato intorno alla preghiera, ai pellegrinaggi, alla sottomissione. Nel dicembre 1998, Sansal inviò il suo primo manoscritto, "Le Serment des barbares", a Gallimard, l'unico editore di cui aveva l'indirizzo. Da allora, il sessantaseienne Sansal ha compiuto una rapida ascesa al vertice delle lettere parigine, ricevendo in patria minacce, pressioni, intimidazioni, specie dopo l'uscita di "Gouverner au nom d'Allah". Ma di lasciare l'Algeria non se ne parla: "Sarebbe come abbandonarla", ripete fedele al suo motto: "La parole ou la vie". Così Sansal continua a scuotere la cultura europea dalla sua casa a Boumerdès, una cinquantina di chilometri da Algeri. Dove riceve lettere come queste: "Ti faremo la pelle", "non meriti di vivere". E, naturalmente, "sporco ebreo". Perché nel 2012 Sansal partecipò alla Fiera del libro di Gerusalemme e, al rientro, la stampa si scatenò contro il "traditore" venduto alla "lobby sionista". Lui rispose così: "Sono andato a Gerusalemme… e sono tornato felice". Sua moglie Naziha insegnava matematica, ma è stata accusata dai genitori di "contaminare" i bambini con il suo "ebraismo". E costretta a dimettersi.

 "L'irresistibile diffusione dell'islam"
  In una settimana Bruxelles (35 morti), poi Lahore (70 morti). Che sta succedendo? "L'Europa sperimenta diversi problemi la cui coincidenza e gravità spingono le persone a vedervi un segno dell'inevitabile declino", dice Sansal al Foglio. "Questi problemi sono la diffusione irresistibile dell'islam che richiede un ripensamento della democrazia e della laicità; l'esplosione incontrollata e incontrollabile dei flussi migratori; la comunitarizzazione e la concentrazione delle popolazioni in nuovi territori al di là della legge del paese; l'importazione del terrorismo e un terrorismo locale che si fondono in una strategia globale. Il tutto aggravato da una sorta di declino generalizzato dell'Europa, la cui forma visibile è l'incapacità dei governi di agire. Il terrorismo colpisce duro per approfondire le fratture e accelerare la caduta. Il fallimento della costruzione europea indebolisce la solidarietà tra gli stati e facilita gli strateghi del terrorismo globale". L'Europa è colpita nel momento massimo di irrilevanza. "L'Europa non è più il centro di gravità del mondo, è in declino in campo politico, economico, culturale, militare. Il centro di gravità si muove irresistibilmente dal centro alla periferia. L'Europa è una illusione inventata per placare i timori durante la Guerra fredda. L'Europa adesso è a metà del guado, dove le correnti sono più forti. E' vecchia, stanca, spaventata, non agisce, prega, presa dalla Sindrome di Stoccolma, sostiene i propri aggressori".
In tutti i suoi romanzi, Boualem Sansal, il più celebre esponente della nuova letteratura franco-algerina, denuncia la sottomissione a Dio, l'arabizzazione forzata, il culto onnipresente del martirio nell'islam, la trasformazione di interi paesi in enclavi moribonde, la pietà, l'amore. Nei primi anni Ottanta, a Boumerdès, dove Sansal vive, c'era una sola moschea, un ex edificio in stile ottomano. Oggi la città ne è piena. E non ci sono più svaghi. I cinema sono stati tutti chiusi. E la gente beve di nascosto. I cimiteri sono sempre pieni di lattine. I bar, durante il Ramadan, sono vuoti rispetto a una volta.
Pensa che si possa riformare l'islam? "L'islam è la religione che è venuta a chiudere il ciclo delle rivelazioni", prosegue in questa intervista al Foglio Boualem Sansal, lo scrittore algerino autore di "2084" e celebre per i capelli lunghi grigi raccolti a coda di cavallo. Già in "Il villaggio tedesco", romanzo tradotto da Einaudi sette anni fa, Sansal aveva fatto un controverso parallelo tra islamismo e nazismo.
"Il Corano è il libro increato, che porta la parola di Allah, che proclama", ci spiega Sansal. "No, non oggi, non domani, non ci sarà nessuna riforma. Solo pensarlo significa causare una guerra mondiale. Tuttavia, i musulmani possono cambiare il loro rapporto con il dogma, vivere come cittadini e non come credenti. Nella storia, questo è stato raggiunto da Atatürk in Turchia e nella Tunisia di Bourguiba. Questo è il motivo per cui dobbiamo lavorare, aiutare i musulmani a liberarsi dalla morsa totalitaria dell'islam originario, contribuendo a stabilire regimi democratici. Bisogna smettere di favorire la costruzione di moschee e altri luoghi di indottrinamento, cambiando le relazioni politiche con i paesi che finanziano l'espansione dell'islam e dell'islamismo nel mondo come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti".

 "E' fascista tacciare di 'islamofobia'"
  In Francia, il grande dibattito sull'islam è portato avanti da intellettuali e scrittori arabi come Kamel Daoud, lei e altre mosche bianche. Ma gli altri? "L'Europa non ha più intellettuali. Non hanno alcuna influenza sulla società e i centri di potere. Sono stati sostituiti dai media, dalla comunicazione. Gli intellettuali si sono messi al servizio dei media e dei partiti politici". Su Libération, lei ha accusato la sinistra che brandisce l'"islamofobia" per chiudere il dibattito sull'islam. "Un intellettuale intimidito non è un intellettuale, ma un chiacchierone chiamato al silenzio. Quello che fanno è criminale, è fascista, e ha lo scopo di evitare il dibattito e terrorizzare la gente. La paura dell'islam è una reazione naturale, nasce dalla atmosfera generale che si osserva in molti paesi musulmani, da Arabia e Iran che decapitano alle donne martirizzate".
In occidente la guerra è assente da settant'anni, mentre il mondo islamico non ha paura: "Gli strateghi dell'islamismo sanno bene tutto questo e ciò spiega l'offensiva generale che hanno lanciato contro l'occidente", ci dice Sansal. "La radicalizzazione sarà il modo per far emergere chi governerà l'umanità. La vita chiama alla vigilanza, alla riflessione, all'azione, a mantenere ancora intatto il desiderio di avere successo".
Questo ci porta, in conclusione, a "2084" che per sottotitolo ha "la fine del mondo". "Quel romanzo l'ho immaginato davvero come un allarme, ma senza farmi illusioni, perché le persone hanno paura di sentire gli allarmi, preferiscono nascondersi e chiedere al boia di risparmiarli".

(Il Foglio, 30 marzo 2016)


Una madre contro l'islamizzazione

Sta alle donne reagire contro "il diavolo", dice la franco-algerina Remadna.

di Mauro Zanon

 
Nadia Remadna, fondatrice della fondazione Brigade des mères
PARIGI - "I politici francesi hanno lasciato crescere la religione islamica nei nostri quartieri per dominarci, per farci credere che ci amano, che si interessano a noi, ma portando avanti questa politica hanno creato l'odio nel cuore dei nostri figli. La religione islamica ha sostituito le istituzioni, e i politici, negoziando con i fanatici per logiche elettorali, hanno dato loro le chiavi del potere. Ma hanno fatto male i calcoli e ora sono le madri che raccolgono i risultati dei loro comportamenti scellerati". Il settimanale francese Point l'ha soprannominata "l'amazzone dei territori perduti", ma lei, Nadia Remadna, preferisce definirsi come una "madre che combatte". Nata a Créteil, a sud di Parigi, nel 1960 da genitori algerini, Remadna ha fondato la Brigade des mères (Bdm), un'associazione di madri che non vogliono vedere il proprio figlio inghiottito dalla delinquenza o dalla radicalizzazione islamica. "Oggi noi madri non abbiamo più scelta dinanzi all'ascesa dell'islam radicale. Per questo ho creato questa associazione, per dire a tutte le madri: 'alziamoci in piedi', 'salviamo i nostri figli', perché se la République sta male, stanno male anche i nostri figli. Non possiamo peggiorare la situazione attuale. Amo la Francia per la sua libertà, ma dobbiamo mobilitarci tutti per restare liberi", dice al Foglio Remadna.
  Nei grandi agglomerati urbani che attorniano Parigi, lì dove l'assistenzialismo statale ha fallito, sono le associazioni di liberi cittadini a sfornare soluzioni concrete alla deriva dei giovani. Come la Brigade des mères, appunto, che nel comune di Sevran è riuscita grazie alla forza della sua presidente e fondatrice a salvare numerosi adolescenti dal tragico bivio tra radicalizzazione e traffico di droga. "E' come se lo stato francese fosse una ong, che si ricorda di noi e ci viene ad aiutare solo quando c'è la crisi", dice Remadna. Che però non sopporta il discorso vittimista portato avanti dalla maggioranza dei suoi concittadini e da quei politici che nelle banlieue hanno creato odio tra i diversi quartieri, scendendo a patti con il diavolo, l'islam radicale, per meri interessi elettorali.
  Così come non sopporta il "fatalismo" di quelle madri di periferia che si rassegnano a essere semplicemente delle brave mogli e ad accontentarsi di quello che hanno: "La vita è una battaglia quotidiana ed essere madri nelle periferie è una sfida permanente. Dobbiamo portare avanti un discorso di emancipazione femminile e uscire da questa autosegregazione. La République, siamo anche noi", dice orgogliosa Remadna. Ai giovani con i quali ha a che fare quotidianamente attraverso la sua associazione, Remadna fa lo stesso discorso: "Devono darsi una mossa. In alcune situazioni forse ci sono delle discriminazioni, ma bisogna smetterla di piangere. La vittimizzazione non mi piace e soprattutto non serve a nulla".
  La sua esperienza nelle banlieue francesi, dove vive da quando ha 25 anni, doveva essere raccontata, e così, in collaborazione con un giornalista di Marianne, Daniel Bernard, Remadna ha deciso di scrivere "Comment j'ai sauvé mes enfants" (Calmann-Lévy), una testimonianza vibrante su come è riuscita a crescere e "salvare" i suoi quattro figli assieme a molti loro coetanei. "Prima temevamo che i nostri figli potessero cadere nella delinquenza, oggi abbiamo paura che possano diventare dei terroristi", dice Remadna, che sognava di essere avvocato, ma ha lavorato un'intera vita nel settore sociale, e ora spera di concretizzare il suo progetto di un'"école des mères de la République", una scuola parallela per lottare contro gli abbandoni scolastici.
  Alle ultime elezioni regionali ha votato scheda bianca, dopo essere stata candidata alle comunali del 2014 nella lista di Clémentine Autain (Front de Gauche), femminista molto in voga nei salotti televisivi di cui però non ha affatto un buon ricordo. "Flirtava con il diavolo, con gli islamisti, le interessava soltanto divenire sindaco di Sevran. Se fosse stata una vera femminista, avrebbe sostenuto un movimento di donne di periferia come il nostro che lotta contro l'integralismo e vuole proteggere i giovani. Invece, girava con i volantini 'Stop all'islamofobia!'…". Remadna non ha paura di denunciare il maschilismo religioso delle banlieue, non ha paura di affermare che interi quartieri, nel silenzio delle élite islamofile, diventano dopo le 18.00 "quartieri per soli uomini", dove le donne non sono ammesse.

(Il Foglio, 30 marzo 2016)


«Diventò un killer del Mossad». La vera storia dell'SS del Duce

Nuovi dettagli sull'ex ufficiale nazista che liberò Mussolini dal Gran Sasso e dopo la guerra aiutò Israele. L'altra vita del capitano Otto Skorzeny.

di Paolo Salom

 
Otto Skorzeny e Mussolini dopo la sua liberazione dal Gran Sasso
«Abbiamo stretto un patto con il diavolo». Questo il pensiero degli agenti del Mossad che nei primi primi i mesi dell 1962 riuscirono a «persuadere» Otto Skorzeny — l'ex ufficiale delle SS che liberò Mussolini dal Gran Sasso — a diventare non solo un preziosissimo informatore per il servizio di intelligence del neonato Stato ebraico ma, addirittura, un killer capace di eliminare gli scienziati tedeschi che allora si erano messi al servizio del Paese considerato il nemico numero uno di Israele: l'Egitto. I particolari di come sia avvenuto un simile incontro — una spy story degna di Hollywood — sono raccontati dall'americano The Jewish Forward e dall'israeliano Haaretz. Non è la prima volta che l'episodio viene alla luce. Tanto che persino Benny Morris lo ha citato nel suo saggio «Mossad» (Rizzoli, 2003), ma senza riuscire a rivelare il ruolo di assassino di Skorzeny che gli autori del lungo e dettagliato articolo, Dan Raviv e Yossi Melman, hanno potuto riscontrare grazie alle loro fonti nel segretissimo «Istituto».

 Antefatto.
  Otto Skorzeny, allora 35enne capitano delle SS, nell'estate del 1943 fu incaricato personalmente da Hitler, di cui sarebbe diventato un pupillo, di liberare il Duce, imprigionato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, per ordine di Badoglio. L'operazione Quercia ebbe luogo il 12 settembre: l'ufficiale nazista scese con una formazione di alianti sull'altipiano. Con lui cento paracadutisti che non trovarono reazione tra gli italiani. Mussolini era libero, pronto a iniziare la tragica epopea della Repubblica sociale; Skorzeny, da quel momento, un eroe e non più capitano: ma tenente colonnello. Le vicende della guerra lo portarono ovunque in Europa. Fu poi processato dagli americani ma riuscì a fuggire, aiutato da complici, e a rifugiarsi in Spagna.

 La nuova storia comincia da una notizia di cronaca.
  L'11 settembre 1962, Heinz Krug, scienziato tedesco che durante la guerra aveva lavorato al programma missilistico nazista nella base di Peenemünde, sparisce senza lasciare traccia. Un giornale israeliano spiega — ma è un depistaggio — che Krug è stato rapito dagli egiziani per «impedirgli contatti con Israele». La verità, emerge ora, è ben diversa. Krug era stato sì rapito. Ma non dagli egiziani: è Skorzeny l'uomo chiave di questa vicenda. Scortato da tre «guardie del corpo» (in realtà agenti del Mossad tra i quali un giovane Yitzhak Shamir, futuro premier di Israele, e un altro, Zvi «Peter» Malkin, membro della squadra che aveva catturato Eichmann in Argentina), Skorzeny porta Krug in una foresta e lo uccide senza esitare un secondo. Lo scienziato si era messo al servizio del programma missilistico egiziano e per questo era diventato un pericolo esistenziale per lo Stato ebraico.
  La soluzione, per un'intuizione dell'allora capo del Mossad, Isser Harel, era arrivata proprio grazie all'arruolamento di Skorzeny, avvicinato nel suo buen retiro di Madrid al principio del 1962 da Yosef «Joe» Raanan, il «terzo uomo» del gruppo. A momenti l'operazione era fallita: l'uomo aveva capito che i due giovani erano spie israeliane. «Siete venuti per uccidermi — gridò Skorzeny, il viso ancora affascinante solcato da una vecchia cicatrice, un revolver spianato e pronto a sparare —. Siete del Mossad». La risposta, tranquilla e incisiva, in pochi minuti raddrizzò la situazione: «E' vero, siamo del Mossad — confessò l'uomo — ma non siamo venuti per ucciderti, se avessimo voluto farlo, saresti morto da settimane». Poi l'incredibile offerta: aiutare lo Stato ebraico nella lotta per la sua sopravvivenza. Skorzeny godeva di una fama intatta nei circoli degli ex nazisti. Poteva avvicinare chiunque tra i molti scienziati che si erano messi (per soldi e non solo) a disposizione degli egiziani desiderosi di sviluppare un programma missilistico capace di regalare al Cairo la supremazia strategica sull'odiato vicino.
  Il punto era: perché mai Skorzeny avrebbe dovuto mettersi al servizio degli israeliani? Non per avidità: «Sono abbastanza ricco, non ho bisogno di denaro», chiarì subito. Ma un accordo poteva essere trovato: «Voglio che Simon Wiesenthal tolga il mio nome dalla sua maledetta lista!». Skorzeny temeva di fare la fine di Eichmann. Dunque accettò l'offerta e da quel momento fu uno dei più validi collaboratori dei servizi israeliani. Si recò più volte in Egitto, portando indietro la lista di tutti i principali scienziati (tedeschi) all'opera per costruire il missile capace di colpire Israele. Addirittura, inviò lui stesso un pacco bomba che uccise cinque egiziani in una base segreta. E poi, il rapimento e l'omicidio di Kurt Heinz.
  Un giorno, Otto Skorzeny fu persino invitato, sotto falsa identità, in Israele e i suoi ospiti lo portarono in visita allo Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di Gerusalemme. Skorzeny durante tutta la visita fu silenzioso e mostrò rispetto. Ma fu riconosciuto da un ex deportato: «E' un nazista!». Uno degli accompagnatori rispose tranquillo: «Si sbaglia, è un mio parente: anche lui ha sofferto durante la Shoah».
  Il lavoro — molto fruttuoso — proseguì per anni. Nessuno ha mai capito fino in fondo perché lui abbia accettato: sensi di colpa? Paura di essere ucciso? Il Mossad, dal canto suo, continuò l'opera di intimidazione ed eliminazione dei nemici dello Stato ebraico: come per gli organizzatori dell'attentato a Monaco 1972. Con ogni mezzo. Anche stringendo, se necessario, patti con il diavolo. O falsificando le carte: Wiesenthal non accettò mai di cancellare dalla sua lista il nome di Skorzeny. Così all'ex ufficiale fu consegnata una lettera realizzata a Tel Aviv con la firma (riprodotta) del cacciatore di nazisti: tanto bastò a donargli sonni tranquilli.

(Corriere della Sera, 29 marzo 2016)


Venezia - L'occhio del Mossad sul red carpet. Alla Fenice un concerto blindato

Dall'ex sindaco Orsoni al capo delle comunità ebraiche d'Europa. Tensione all'arrivo di un ospite con il trolley.

VENEZIA - Un red carpet contenuto, dai toni sobri. E soprattutto velocissimo. Gli ospiti alla Fenice di Venezia per la cerimonia di commemorazione dei 500 anni del ghetto sono sfilati uno dopo l'altro in mezz'ora in tutto sotto gli occhi delle forze dell'ordine che controllavano a vista tutti gli accessi. Accanto alle personalità attese, da Ronald Lauder presidente del congresso mondiale ebraico a Moshe Kantor, capo delle comunità ebraiche d'Europa passando per il presidente delle comunità italiane Renzo Gattegna sono arrivati la presidente della Camera Laura Boldrini che ha fatto il suo ingresso dalla porta principale senza scegliere la via d'acqua.
Tra gli ospiti veneziani Giorgio Orsoni, ex sindaco di Venezia, il presidente della Biennale Paolo Baratta, Renata Codello, in rappresentanza del Ministero, Pier Paolo Baretta, sottosegretario al Ministero dell'Economia e delle Finanze, Michele Mognato deputato Pd e Davide Zoggia, Toto Bergamo Rossi di Venetian Heritage, l'avvocato Alfredo Bianchini. A controllare gli accessi accanto alle forze dell'ordine veneziane gli uomini del Mossad e un cecchino appostato nelle finestre dell'Ateneo Veneto. Tensioni? Quasi nessuna. L'unico momento di difficoltà si é manifestato quando uno degli ospiti è arrivato portando un trolley con sé. Ovviamente aperto e perquisito da cima a fondo sulle scale del teatro.

(Corriere del Veneto, 29 marzo 2016)


Ecco come Israele ha visto la strage Isis a Bruxelles

I fatti, le ricostruzioni e le intepretazioni.

di Zeffira Zanfagna

 
L'ondata di terrore che è tornata a colpire l'Europa ha dato modo a molti, membri della classe politica e non, di dire la propria in materia di sicurezza e difesa.
  Negli Stati Uniti e in Medio Oriente i fatti hanno dato luogo, poi, a un vero e proprio dibattito politico. Alcuni dei candidati in lizza per la presidenza degli Stati Uniti hanno colto l'occasione per sfoggiare il metodo che adotterebbero per debellare la minaccia proveniente dal terrorismo islamico. In Medio Oriente, invece, alcuni volti noti - del panorama politico e non - hanno sfruttato il caso per accusare l'Occidente, colpevole di strizzare l'occhio a quegli Stati arabi tacciati di spalleggiare il terrorismo, e quindi i propri nemici. La Siria ha accusato le monarchie del Golfo, prime tra tutte l'Arabia Saudita, che a sua volta ha puntato il dito contro la Repubblica degli Ayatollah e il governo di Damasco.
  Forte della sua esperienza in materia di antiterrorismo, e sempre in prima linea nel condannare gli atti di violenza proveniente dalla galassia jihadista, che spesso ha attentato anche alla sicurezza del suo popolo - Hamas e Brigate Izz ad-Din al-Qassam in primo luogo - nel dibattito non poteva mancare il contributo dello Stato ebraico.
  Ecco cosa hanno detto alcuni esponenti del governo israeliano sulle stragi di Bruxelles.

 Le dichiarazioni di Netanyahu e Rivlin
  Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, martedì notte, in una conversazione telefonica con l'omologa belga, Charles Michel, ha detto che il terrorismo non fa distinzioni tra i paesi che colpisce, dunque ha offerto l'aiuto e il supporto di Israele nella lotta al terrore, riporta il quotidiano ebraico Haaretz.
  Anche il Presidente dello Stato ebraico, Reuven Rivlin, si è unito all'iniziativa, inviando una lettera di condoglianze al Re Philippe di Belgio: "Il terrorismo è terrorismo, indipendentemente dal fatto che colpisca Bruxelles, Parigi, Istanbul o Gerusalemme […] Io voglio sottolineare che questa lotta che tutti noi combattiamo è contro quel terrorismo violento che continua a uccidere, e non contro l'Islam", prosegue Haaretz.

 Le dichiarazioni del Ministro dell'Intelligence
  Primo ministro e Presidente non sono stati gli unici membri del governo israeliano a pronunciarsi sulle stragi. Anche Israel Katz - guida del dicastero dell'intelligence - durante un'intervista a Israel Radio ha detto la sua, ricorrendo, però, a toni ben più aspri. "Se in Belgio le persone continuano a mangiare cioccolata e a godersi la vita, per apparire democratici e liberali, senza prendere coscienza che alcuni musulmani hanno abbracciato la via del terrore, questi non saranno mai in grado di combatterli (i terroristi), scrive il quotidiano di casa Jerusalem Post.

 La lezione di Bibi
  Che Israele sia particolarmente sensibile al tema terrorismo è chiaro - data la sua posizione di outsider in una regione che gli è nemica - e che il governo Netanyahu inciti spesso l'Occidente a unirsi allo Stato ebraico nell'arginare questa minaccia lo è altrettanto.
  Anche questa volta il leader del Likud ha colto la palla al balzo, non solo per ribadire quanto Israele sia esposto alle continue minacce provenienti dalla regione circostante, ma anche per impartire una lezione, sottile, ma chiara.
  In occasione di una conferenza stampa, organizzata poco dopo gli attentati, Netanyahu, parlando dal suo ufficio di Gerusalemme, ha commentato i fatti di Bruxelles stabilendo un parallelismo tra il terrore che sta seminando lo Stato islamico in diverse parti del mondo e quello che da sempre gruppi terroristici palestinesi cercando di fare in Israele. "Lo Stato Islamico spera di stabilire un califfato in Europa, mentre i Palestinesi di creare uno stato dentro Israele", scrive la testata israeliana Jerusalem Post.
  "Se c'è qualcuno al mondo che conosce quello che loro (la popolazione belga) stanno attraversando, quelli sono gli Israeliani, che eroicamente e coraggiosamente sono schierati contro il terrorismo da molti anni […] Noi stiamo agendo contro il terrorismo secondo metodi che non hanno precedenti e il risultato è avere successo nel prevenire molti di quegli attacchi a cui stiamo assistendo altrove", prosegue il quotidiano citando Netanyahu.
  Poi la lezione: "C'è un motivo se da molti paesi in tutto il mondo si viene in Israele per imparare come combattere il terrorismo. Posso dire, anzi, che a tal proposito i numeri stanno aumentando ogni giorno", scrive il Jerusalem Post. Ancora, in un altro articolo del quotidiano si legge "fin dal suo primo tragico fallimento, Israele ha migliorato e aumentato le proprie misure di sicurezza, sulla terra e nei cieli. Da decenni, esperti di sicurezza di compagnie aeree internazionali, forze di polizia e servizi segreti vengono in Israele per apprendere le nostre competenze […] Sfortunatamente, l'Occidente ci ha messo un po' per capire che la vita umana non è meno importante dei diritti umani".
Infine l'appello, "non c'è dubbio, noi sconfiggeremo il terrorismo. Se il mondo imbraccia le armi con noi, allora li batteremo anche più velocemente".

(formiche.net, 29 marzo 2016)


Il sindaco di Venezia riceve l'ambasciatore d'Israele, Naor Gilon

Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha ricevuto questa mattina a Ca' Farsetti l'ambasciatore d'Israele Naor Gilon, a Venezia in occasione della cerimonia di apertura delle celebrazioni per i 500 anni del Ghetto ebraico.
Naor Gilon ha fatto il suo ingresso al Ministero degli Affari Esteri nel 1989 e ha svolto numerosi incarichi. Dal 2012 è ambasciatore d'Israele presso la Repubblica Italiana e la Repubblica di San Marino.

(Città di Venezia, 29 marzo 2016)

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I grandi rappresentanti delle comunità ebraiche per onorare la memoria del Ghetto di Venezia

Tutte le iniziative: non solo il concerto con le musiche di Mahler, previste visite istituzionali. presentazioni di libri, un contest video e un progetto fotografico.

VENEZIA - Compie 500 anni esatti. E la memoria della nascita del Ghetto di Venezia sarà affidata alle note del Titano di Gustav Mahler. Risuoneranno stasera alle 19 al teatro La Fenice, proprio il 29 marzo, giorno in cui il doge Leonardo Loredan, nel 1516, decretava: «Li giudei debbano tutti abitar unidi in la corte de case che sono in ghetto appresso san Girolamo». L'esecuzione della Prima Sinfonia inaugura la serie di eventi dedicati al cinquecentenario della creazione del primo ghetto del mondo.
Un piccolo spicchio di case che contiene cinque sinagoghe, un angolo di Cannaregio dove la storia è ancora viva. Non sono festeggiamenti - ha sottolineato in più occasioni la comunità ebraica -, perché è vero che nel Ghetto fiorirono arte e cultura e ci fu una certa libertà, ma resta simbolo di esclusione.
   Il concerto al teatro La Fenice, rigorosamente su invito, sarà introdotto da una prolusione dello storico inglese Simon Schama. Poi Omer Meir Wellber (34 anni, uno dei più promettenti direttori d'orchestra del mondo) dirigerà la sinfonia del compositore austriaco. Molte le personalità attese: il sindaco Luigi Brugnaro, ovviamente, i rappresentanti della Regione, delle istituzioni cittadine e del Veneto. Da Roma arriveranno il presidente della Camera Laura Boldrini e il ministro per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Assente invece Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, che ha delegato al segretario regionale del Mibac, Renata Codello, il compito di rappresentanza. La serata è frutto della collaborazione tra Fondazione La Fenice, comitato «I 500 anni del Ghetto di Venezia», Comunità ebraica veneziana, Unione comunità ebraiche italiane, World jewish congress e Associazione Europea per la conservazione e la promozione della cultura e del patrimonio ebraico (AEPJ), i cui rappresentanti arriveranno oggi in Laguna. Nel teatro veneziano siederà l'americano Ronald Lauder, presidente del congresso mondiale ebraico, imprenditore (fondatore dell'azienda di cosmetici Estèe Lauder), collezionatore d'arte e filantropo. Al suo fianco, Moshe Kantor, presidente del congresso mondiale europeo e a capo delle comunità ebraiche d'Europa, e il presidente delle comunità italiane Renzo Gattegna. Tra i partecipanti anche il veneziano Bergamo Rossi (Venetian Heritage) che da oltre un anno raccoglie fondi per il restauro di alcune sinagoghe veneziane.
   I momenti per ricordare la nascita del Ghetto non si esauriranno nel solo concerto alla Fenice. Oggi alle 15, è prevista la visita della presidente Boldrini in campo del Ghetto Novo mentre alle 17, all'Ateneo Veneto, si terrà la presentazione del volume Venezia e il Ghetto di Donatella Calabi. Per quel che riguarda le prossime iniziative, aprirà in giugno la mostra a palazzo Ducale «Venezia, gli Ebrei e l'Europa. 1516- 20l6». Previste inoltre le iniziative collaterali di «Venice beyond the ghetto» (Venezia oltre il ghetto) che propone tra l'altro un contest per gli under 28 a cui si propone di realizzare un video sul tema «Oltre il ghetto», e il progetto fotografico «A mayse mit» («si narra una storia» in yiddish) con i ritratti dei rappresentanti delle comunità ebraiche d'Italia.

(Corriere del Veneto, 29 marzo 2016)


Turchia - "Is prepara un attacco a scuole ebraiche e sinagoga"

Secondo fonti di intelligence citate da Sky News i piani di attentato sono in fase avanzata. Oggi il governo israeliano ha intimato ai suoi cittadini di lasciare subito il Paese.

L'Is ha pianificato un attacco, dato per "imminente", contro una o più scuole ebraiche in Turchia. Lo sostiene la rete televisiva britannica SkyNews, che cita informazioni esclusive di intelligence. Le informazioni sarebbero state ottenute da sei militanti del sedicente califfato arrestati la scorsa settimana a Gaziantep, nel sud della Turchia. L'informativa dei servizi coincide con un'allerta lanciata questa mattina da Israele per i suoi cittadini, a cui è stato chiesto di lasciare "al più presto possibile" il Paese alla luce di "una minaccia concreta elevata". Nell'avviso dell'ente per il monitoraggio del terrorismo si invitano anche i cittadini israeliani a non recarsi in Turchia. L'avviso di oggi segue e rafforza uno analogo emesso all'indomani dell'attentato suicida di Istanbul.
Tra i probabili obiettivi spicca la sinagoga di Beyoglu, uno dei distretti di Istanbul, che possiede un centro comunitario e una scuola. "Alla luce di queste circostanze - hanno detto fonti di intelligence a SkyNews - misure straordinarie di sicurezza sono state prese, oltre a quelle di elevato allarme messe a punto dalla polizia turca e dalla comunità ebraica.
Misure di controterrorismo e di copertura sono state attuate immediatamente. Siamo oltre una minaccia credibile: c'è un complotto in corso. Ma non sappiamo per quando è stato progettato: potrebbe essere nelle prossime 24 ore o nei prossimi giorni", hanno precisato le fonti.

(la Repubblica, 29 marzo 2016)


Roma - L'Appia Antica apre la porta sulle catacombe ebraiche


Aprono il primo maggio le catacombe di Vigna Randanini precluse al pubblico perché conser- vate in proprietà privata Importante accordo tra il ministero per i Beni culturali e la Comunità Ebraica in occasione del Giubileo della Misericordia Il monumento si sviluppa a dieci metri di profondità.
Il parere degli archeologi: «Servono restauri specialistici»


di Laura Larcan

 L'evento
 
Le catacombe ebraiche di Vigna Randanini a Roma

 
Il cunicolo di fondo, completamente affrescato

  L'archeologia ebraica sta per svelare uno dei suoi tesori più preziosi. Molto noto tra cultori, speleologi e addetti alla materia, ma del tutto sconosciuto al grande pubblico perché quasi sempre chiuso. Si tratta delle catacombe di Vigna Randanini, un complesso monumentale di rara forza evocativa incastonato a quasi dieci metri di profondità tra l'Appia Antica e l'Appia Pignatelli, databile tra il II e il IV secolo d.C. Un caso singolare nel panorama culturale di Roma. Le catacombe, infatti, si estendono in una proprietà privata, ma presto apriranno al pubblico con un progetto istituzionale nelle prime domeniche del mese: si parte con l'l maggio e il 5 giugno. Poi il programma dovrebbe proseguire a settembre e ottobre. C'è voluto un lungo lavoro di concertazione per approdare all'accordo. L'impulso è arrivato dal Ministero per i Beni culturali e la Soprintendenza archeologica di Roma, con l'idea risoluta di Rita Paris (direttrice dell'Appia Antica) di valorizzare un patrimonio straordinario sospeso in un cortocircuito gestionale. A sostenere in pieno il progetto è stata la Comunità Ebraica di Roma, consapevole dell'importanza di far conoscere questo tesoro. La sua suggestione sta tutta in un corredo di affreschi che rivestono come una seconda pelle le sepolture e i loculi che si aprono lungo una galleria articolata su due livelli. Uno spettacolo, dove spiccano raffigurazioni floreali di raffinata fattura, alternate con insolita vivacità ad animali e figurine. E dove si rincorrono, secondo un ideale leitmotiv, soggetti caratteristici della tradizione ebraica.

 La Menorah
  Prima fra tutti, la Menorah, il candelabro a sette bracci che nell'antichità veniva acceso all'interno del Tempio di Gerusalemme. E non solo. Perché a ribadire la cultura ebraica si ritrovano anche i "kokhim", tipiche tombe cosiddette a forno, che si sviluppano cioè perpendicolarmente alla parete della galleria. Hanno convissuto per secoli, fianco a fianco, a pochi metri di distanza dai cimiteri pagani riconvertiti in catacombe cristiane, nel "mondo dei morti" che giace sotto la via Appia Antica. L'apertura delle catacombe di Vigna Randanini rientra ora in un programma speciale a tema orchestrato dalla Comunità Ebraica in occasione dell'Anno santo della Misericordia: un viaggio culturale e religioso nell'ambito del progetto "Le vie del Giubileo" che sarà presentato oggi dal ministro Dario Franceschini. L'accordo, dunque, c'è, con la "benedizione" del fossore (l'esperto di storia e cura del cimitero). Le visite saranno guidate dal personale di CoopCulture (il concessionario della Soprintendenza). Il pubblico potrà così scoprire le gallerie sotterranee di Vigna Randanini con la sequenza di "cubicula": vere e proprie cappelle private di famiglia dove spiccano particolari apparati decorativi lungo le pareti e le coperture a vela. Coreografie di uccelli, pavoni, colombe, ghirlande e motivi floreali incorniciati con cura e precisione tra linee rosse. Fino ad alte palme da dattero dipinte negli angoli della stanza. Lo stato di conservazione è buono ma, come dicono gli archeologi, «servirebbero restauri specialistici». La ricchezza di questo complesso sta anche in un vasto patrimonio di iscrizioni che puntellano le pareti. Secondo gli studiosi, la storia di queste catacombe è determinante per capire l'intreccio di rapporti tra il papato, una componente non trascurabile dell'aristocrazia romana ed il mondo ebraico. Meta imperdibile in questo Giubileo.

(Il Messaggero, 29 marzo 2016)


Oggi incontro a Merano con il rabbino Elia Richetti

Il rabbino Elia Richetti, noto esponente dell'ebraismo italiano e già rabbino capo della comunità di Venezia, oggi, martedì 29 marzo parteciperà alle 18,30 all'incontro "Memoria in Alto Adige: se non ora, quando?" nella sinagoga di Merano, (via Schiller). Per l'occasione, si legge in un comunicato, la Comunità ebraica "racconterà alla cittadinanza la storia della memoria ebraica in Alto Adige e solleciterà all'azione per ricordare coloro che vennero deportati e privati della possibilità di compiere la propria vita". L'iniziativa fa parte del progetto "Memory sharing" e fa parte della "Piattaforma delle resistenze contemporanee 2016". All'incontro seguiranno azioni atte alla condivisione della memoria attraverso piccoli e grandi gesti compiuti da cittadini a nome dei deportati. Alla serata, promossa dalla Comunità ebraica e dall'associazione Deina Trentino Alto Adige, saranno presenti, oltre al rabbino Richetti, anche Federico Steinhaus, Hannes Obermair, Elisabetta Rossi e Alessandro Huber. A moderare l'incontro Laura Sedda.

(Servizio Informazione Religiosa, 29 marzo 2016)


Salvini va in Israele a «scuola» di sicurezza

Dopo Mosca e prima di un possibile faccia a faccia con Donald Trump. Stop a nuove moschee e ironizza sulla presidente Boldrini.

ROMA -Dopo Mosca, e prima di un possibile faccia a faccia con Donald Trump, Matteo Salvini vola in Israele per una intensa visita di tre giorni, tra incontri politici, una tappa al museo dell'Olocausto Yad Vashem e anche a «studiare» sicurezza.
   Il leader della Lega, che ribadisce il suo «no ad ogni cedimento e a qualsiasi ipotesi di nuove moschee» intensifica l'attività internazionale del partito cominciata con la missione in Russia, il Paeseconsiderato dalla Lega come il vero baluardo dell'Occidente nei confronti dell'islam per l'impegno militare contro l'Isis voluto da Putin. Un percorso in cui non poteva mancare una tappa in Israele, lo Stato visto come il nemico numero uno dagli integralisti islamici.
Accompagnato dai deputati Giancarlo Giorgetti e Paolo Grimoldi e dall'europarlamentare Lorenzo Fontana, da oggi e per tre giorni Salvini sarà tra Gerusalemme, Tel Aviv e una sosta al Valico di Kerem Shalom al confine con Gaza. Per tentare di accreditarsi come capo dell'opposizione contro Renzi. Ma anche per ribadire lo storico difesa dei cristiani contro l'avanzata di un Islam aggressivo. E, infine, per studiare in presa diretta il «modello» Israele dal punto di vista della sicurezza, un settore in cui questo Paese da sempre sotto attacco vanta una indiscussa leadership.
   Il leader del Carroccio avrà una serie di incontri politici a Gerusalemme, visiterà lo Yad Vashem, il museo dedicato al ricordo dell'olocausto, e si sposterà al confine con l'Egitto per conoscere il funzionamento del valico di frontiera con la striscia di Gaza di Kerem Shalom. Salvini andrà alla Knesset per un colloquio con il vice Presidente Nachman Shai, con il presidente della commissione Esteri e Difesa del Parlamento israeliano Tzachi Hanegbi e con vice ministro per la Cooperazione Regionale, Ayoub Kara. Meno istituzionale ma comunque significativo per la Lega, poi, il colloquio con il leader del partito di destra «Israel Beitenu», Avigdor Liberman e quello con il Custode di Terra Santa, Padre Pierbattista Pizzaballa. E non mancherà un faccia a faccia con il Nunzio Apostolico, Monsignor Lazzarotto.
   La tre giorni di concluderà con una tappa mirata per «studiare i loro modelli di Sicurezza», come ha detto oggi lo stesso Salvini. Si tratta di una visita alla «Magal Security Systems Ltd», una società specializzata in sistemi di sicurezza avanzati considerata come un fiore all'occhiello dell'apparato di sicurezza israeliano ritenuto tra i più efficienti al mondo. Una visita che seguirà l'incontro con il ministro della Pubblica Sicurezza, degli Affari Strategici e dell'Informazione israeliano, Gilad Erdan.
   Non mancano le polemiche. Prima di partire il leader della Lega attacca la presidente della Camera Boldrini: «Ci vuole più Europa» per combattere il terrorismo, dice la Boldrini, che odia «le urla dei demagoghi che speculano sul sangue» e predica più accoglienza, dialogo, integrazione e bla bla bla ... Ma questa non è a posto! Ma cosa hanno fatto di male i cittadini italiani per avere una sciagura del genere come Presidente della Camera???».
   Il parlamentareArturo Scotto (Sinistra italiana) ironizza sulla visita di Salvini in Israele: «Salvini va in visita in Israele. Chissà se si è portato pure i suoi camerati di Casapound con i quali sfila ai cortei».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 29 marzo 2016)


Così la sinistra mette all'Indice l'islamico moderato

Lo scrittore algerino Kamel Daoud dice la verità e la gauche ordisce una campagna contro il novello "islamofobo". Paul Berman: "Lo dicevano anche ai dissidenti sovietici: 'Non dire queste cose, incoraggi l'imperialismo'".

di Giulio Meotti

Kamel Daoud
ROMA - L'intervista alla Zeit è sconsolante: "Mi sento molto più libero in Algeria che in Francia". Chi parla così? Uno scrittore algerino che, dopo l'11 settembre, si era domandato perché gli arabi fossero bravi a fracassare aerei più che a costruirli. Lo scrisse sul suo giornale, il Quotidien d'Oran, e piovvero accuse di "razzismo". Uno scrittore che avrebbe raccolto premi, dal Mauriac al Goncourt. Il 31 gennaio scorso, quello scrittore, Kamel Daoud, ha pubblicato un articolo sul Monde sui fatti di Colonia. "L'occidente dimentica che il rifugiato proviene da una trappola culturale che si riassume soprattutto nel suo rapporto con Dio e la donna. Non basta accoglierlo dandogli dei documenti e un dormitorio. Bisogna offrire asilo al corpo ma anche convincere l'anima che deve cambiare". Pochi giorni dopo il Monde ospita l'appello di sociologi, storici e antropologi della gauche che accusano Daoud di "riciclare i più triti cliché orientalisti" e di "islamofobia". Da allora, è un anatema senza fine contro la "bête noire des intégristes", come è stato definito Daoud.
  Gli attacchi al romanziere e giornalista algerino arrivano anche dalla London Review of Books, la bibbia delle élite liberal anglosassoni, che definisce Daoud "irresponsabile". Rafik Chekkat chiama Daoud "un informatore nativo", sostiene che "la sua decisione di lasciare il giornalismo sarebbe l'unica buona notizia in mezzo a tutto questo rumore". Si chiede Mediapart: "Daoud è islamofobo?", mentre il suo patron, Edwy Plenel, chiede a Daoud di "scusarsi". Su Libération, Olivier Roy, islamologo blasonato, in un articolo dal titolo "Colonia e il tartufo femminista", senza mai nominare Daoud, lo accusa di stigmatizzare i musulmani: "Il maschilismo e le molestie sessuali esistono in tutto il mondo, perché isolare questo fenomeno tra i musulmani, invece di combatterne tutte le forme? Solo perché sono musulmani". E, sul Monde, Jeanne Favret-Saada, orientalista all'Ecole pratique des hautes études, accusa Daoud di aver "parlato come l'estrema destra europea". Jocelyne Dakhlia, docente all'Ecole des hautes études en sciences sociales, scrive che Daoud ha riciclato "una visione culturalista della violenza sessuale".
  Sul Figaro, Laurent Bouvet parla di "processo stalinista" contro Daoud, che ha ricevuto una telefonata di sostegno dal premier del suo paese, Abdelmalek Sellal, ed è stato difeso apertamente soltanto da poche mosche bianche arabe. Come Karim Akouche sulla rivista Marianne: "Il nostro tempo è assurdo, ridicolo, violento. Sparano senza preavviso a chi osa scuotere luoghi comuni e certezze".
  Continua Karim Akouche, contro i critici del pensatore algerino: "Usano l'arma della reductio ad hitlerum e delle scomuniche. In questi tempi di confusione morbosa, in cui si diffondono il fanatismo e la violenza come metastasi della nostra società, la voce di Daoud è più essenziale che mai per la guarigione della 'malattia dell'islam'". La franco-tunisina Fawzia Zouari su Libération scrive che la sinistra riduce al silenzio "una delle voci di cui il mondo islamico ha più bisogno". Mentre Sérénade Chafik, militante per i diritti delle donne, l'autrice di "Répudiation", parla di "inquisitori" contro Daoud, ricordando che "mentre gli islamisti in tutto il mondo hanno gridato 'morte ai blasfemi', alcuni giornalisti hanno accusato i loro colleghi di Charlie Hebdo di xenofobia. 'Islamofobia' è diventato il verdetto preferito dei nuovi inquisitori e dei loro amici occidentali islamo-sinistroidi". L'imprenditore marocchino Ahmed Charai difende Daoud dicendo che "gli intellettuali, a rischio della loro vita, si battono per i valori universali, ma sono trattati come 'islamofobici'. Questa è una grande sconfitta del pensiero". Infine Boualem Sansal, l'autore di "2084" (Gallimard), che definisce gli attacchi a Daoud come "terrorismo intellettuale" da parte di una "polizia del pensiero in agguato nelle alte strutture della cultura e dell'informazione". Secondo Sansal, "salvare Daoud significa salvare la libertà, la giustizia e la verità".
  Il triste paradosso dell'affaire Daoud è stato colto ora da due ultra liberal americani, Paul Berman e Michael Walzer, che in un appello sulla rivista Tablet (prossimamente tradotto in Italia dal mensile IL) attaccano la gauche che demonizza Daoud. Berman e Walzer se la prendono con "gli intellettuali occidentali che accusano il liberale del mondo musulmano di essere un razzista contro i musulmani, o un islamofobo, uno strumento dell'imperialismo". Era già successo a Rushdie dopo l'uscita dei "Versetti Satanici", quando tanti letterati di sinistra lo esecrarono a fatwa fresca: Roald Dahl, celebrato autore di libri per ragazzi, disse che "Rushdie è un pericoloso opportunista"; per George Steiner, uno dei più rispettati critici culturali, "Rushdie ha fatto in modo di creare un sacco di problemi"; Kingsley Amis commentò che "se vai in cerca di guai, non puoi lamentarti quando li trovi"; mentre lo storico Hugh Trevor-Roper disse di godere della sofferenza di Rushdie: "Mi chiedo come Rushdie stia in questi giorni. Non troppo comodamente, spero…".
  Berman e Walzer paragonano il trattamento dei dissidenti islamici, come Daoud, a quello che certa sinistra riservò a quelli del comunismo sovietico. "Dal 1920 al 1980, un dissidente coraggioso dopo l'altro è riuscito a comunicare un messaggio al pubblico occidentale sulla natura dell'oppressione comunista. E, di volta in volta, una fetta significativa di intellettuali occidentali ha gridato: 'Oh, non devi dire queste cose! Si incoraggiano i reazionari'. Oppure: 'Sei un reazionario e uno strumento dell'imperialismo'. Denunciando i dissidenti, gli intellettuali occidentali riuscirono a offuscare la realtà sovietica. E prestarono il proprio prestigio al regime sovietico, il che significava che, invece di essere i nemici della oppressione, hanno finito per esserne alleati". "Daoud è stato difeso da coloro che condividono l'idea che il liberalismo comporti un dibattito aperto e che sono a favore di dibattiti complessi", dice al Foglio Paul Berman, intellettuale della nuova sinistra americana, autore di "Terror and Liberalism". "E' stato invece attaccato da un gruppo di intellettuali i quali credono che la vita intellettuale sia una battaglia contro la destra politica in Europa e in America e che sono contrari alla complessità dei dibattiti. A questo gruppo non piacciono i liberali arabi e musulmani. L'intero dibattito rispecchia quello all'epoca della Guerra fredda con i dissidenti nel blocco sovietico. Daoud è accusato di razzismo contro i musulmani e di servire l'imperialismo. Inoltre, è accusato di 'stupidità', una accusa tipica".

 I precedenti Van Gogh e Hirsi Ali
  Era già successo. Nel libro "Assassinio ad Amsterdam" e in una serie di articoli per la New York Review of Books e il New York Times, liberal di tempra relativista come Ian Buruma e Timothy Garton Ash dileggiarono Ayaan Hirsi Ali. Il suo appello per l'emancipazione delle donne la contrassegnò come una "fondamentalista dell'Illuminismo". L'Index on censorship, la rivista fondata da Stephen Spender per difendere la libertà di espressione durante la Guerra fredda, pochi giorni dopo l'uccisione di Theo van Gogh pubblicò un saggio di Rohan Jayasekera, direttore dell'Index, che descriveva Hirsi Ali come una ragazza sciocca manipolata da Van Gogh in un "rapporto di sfruttamento". E quando l'Olanda tolse a Hirsi Ali la protezione di cui aveva assoluto bisogno, fallì anche l'appello ad assegnargliene una a spese dell'Unione europea promosso dal socialista francese Benoît Hamon, in mancanza di un numero sufficiente di voti: solo 144 su 782.
  A Berman chiediamo se l'Europa possa permettersi di abbandonare i pochissimi musulmani davvero "moderati", come Daoud: "No, quel lusso non ce l'ha. Una battaglia di idee è in corso nel mondo islamico, liberali verso islamisti, con un significato importantissimo per tutto il resto del mondo. Questa lotta non si chiuderà nei prossimi tre giorni, e tuttavia è la battaglia più importante". Come si spiega l'apologetica pro islamica di tanta sinistra? "Solidarizzano con chiunque si opponga all'occidente e credono a una inferiorità dei popoli del Terzo mondo che non sanno produrre altro che islamismo e tirannia. Uno scrittore intelligente e di talento, con idee liberali e che scrive da una prospettiva arabo-islamica, non può che essere inautentico". E' la morale dell'affaire Daoud: un grande scrittore arabo grida verità importanti e gli intellettuali europei, anziché ringraziarlo mentre gli islamisti lo minacciano di morte, lo invitano al silenzio, a rinchiudersi nel romanzo, a consegnarsi ai suoi carnefici. Come successe al maestro di Daoud, Tahar Djaout, ucciso nel 1993 dagli islamisti di Algeri. Il manoscritto del suo ultimo romanzo venne ritrovato tra le sue carte dopo l'assassinio. Come in un titolo di André Glucksmann: "Silence, on tue". Zitti tutti, si uccide.

(Il Foglio, 29 marzo 2016)


"Nonna Jamila" ha conquistato la Spagna

Una straordinaria donna d'affari drusa israeliana al Festival delle donne di Segovia

Jamila Hir: "Lo scopo del mio impegno non è fare soldi, ma aiutare le donne a ottenere più diritti"
Jamila Hir, nota anche come "nonna Jamila", originaria dal villaggio arabo druso di Pek'in (nel nord d'Israele) ha rappresentato Israele al prestigioso Festival delle Donne, che si tiene ogni anno a Segovia, in Spagna.
Jamila Hir, 76 anni, titolare di una azienda di cosmetici, ha stupito tutti conquistando il cuore della stampa spagnola. Hagit Mualem, l'addetta culturale dell'ambasciata israeliana in Spagna, ha organizzato la trasferta di Jamila Hir per partecipare al festival, che ha ospitato donne provenienti da varie parti del mondo accomunate dal fatto d'aver contribuito con successo al cambiamento delle loro rispettive società....

(israele.net, 29 marzo 2016)


Rav Bahbout: "La società deve interrogarsi"

di Michael Calimani

 
Rav Scialom Bahbout
In principio furono gli ebrei tedeschi e quelli italiani che abitavano nelle zone limitrofe di Venezia, poi gli spagnoli e infine i levantini. Una popolazione che al suo picco massimo raggiunse i 5000 individui concentrati in uno stretto spazio vitale. Questo è il Ghetto di Venezia, un luogo concepito come strumento di controllo sociale dalla Serenissima e poi di fatto divenuto, con tutti i limiti del caso, luogo di incontro tra popoli e culture. Un laboratorio sperimentale di genti dalle origini e tradizioni diverse che, proprio nello storico crocevia fra Oriente e Occidente, dovettero imparare a convivere scendendo spesso a compromessi per affrontare unitamente le condizioni ostili in cui versavano.
  Da questa fucina multiculturale nella segregazione emersero personaggi decisamente singolari: Leon da Modena in primis, rabbino brillante che giocava a dadi, che oltre a scrivere libri dissipò enormi quantità di denaro. Simone Luzzatto, prominente rabbino e straordinario polemista, che in un momento di crisi scrisse un testo a difesa dell'importanza economica degli ebrei a Venezia, facendo rientrare un'espulsione ormai annunciata. Infine Sara Copio Sullam poetessa e figura singolare che ospitò nel suo salotto letterario nobili veneziani e che a causa del suo anticonformismo fu accusata di aver negato l'immortalità dell'anima. Un mosaico di esperienze personali e condivise che per secoli attraversarono e si intrecciarono alla storia della Serenissima ben oltre quelle porte entro le quali erano rinchiuse.
  A distanza di 500 anni ci si interroga ora se del Ghetto degli ebrei sia rimasto solo un museo a cielo aperto o se persistano ancora le radici di quello spirito identitaria che Simone Luzzatto definiva ''l'identità dell'essenzialità''.
  "Un quesito di non facile soluzione" ammette Rav Scialom Bahbout, rabbino capo della Comunità ebraica di Venezia da meno di due anni, ma che all'apparir del vero conosce profondamente le consuetudini e le persone che da sempre hanno caratterizzato il microcosmo dell'ebraismo veneziano.

- Quest'anno il 29 marzo 2016 saranno 500 anni dal giorno in cui venne istituito il Ghetto di Venezia. Quali sono i motivi secondo lei che ci spingono a ricordare questa ricorrenza?
  Gli ebrei hanno sempre considerato la memoria un elemento fondamentale, nei secoli hanno di sicuro ricordato gli eventi positivi e ancor più quelli negativi. Il termine Zakhor, ricorda, è un imperativo e tale memoria deve essere scolpita nel nostro cuore. In ogni caso la nascita del Ghetto è un problema esterno al mondo ebraico e non degli ebrei.

- Cosa intende dicendo che è più un problema esterno?
  È un problema della società civile che dovrebbe interrogarsi sul perché si è deciso di rinchiudere gli ebrei nel Ghetto, di prendere delle persone e di rinchiuderle in un serraglio limitando la loro autonomia.
  Gli ebrei hanno sempre voluto mantenere la propria identità, espressa però nella libertà e non nell'isolamento. Gli anticorpi non sono ancora ben sviluppati e prima che possano essere riproposte soluzioni simili sarà meglio fare un'attenta riflessione. In questo il ricordo della nascita del primo Ghetto può essere fondamentale.

- Come è stato affrontato nei secoli dal mondo ebraico il problema della separazione?
  I quartieri ebraici, le giudecche, sono sempre esistiti, nel meridione ad esempio erano presenti da prima del '500, quartieri dove gli ebrei si riunivano spontaneamente in libertà e dove non esistevano mura a isolarli dalla società circostante. Il ghetto è stata un esperienza obbligata che di certo non ha aiutato il confronto con il mondo esterno. Di certo l'esperienza del ghetto di Roma fu una realtà più feroce rispetto a quello di Venezia dove molte delle imposizioni paventate non vennero messe in pratica e dove le continue minacce di espulsione non vennero mai messe in atto veramente.

- C'è da ricordare poi che il ghetto durante la giornata era in continuo fermento. un crocevia di interessi commerciali e culturali.
  La reazione migliore fu quella di sviluppare le proprie risorse peculiari aprendosi al mondo nonostante la segregazione. Mercanti, poeti, letterati e figure di spicco che influirono sul sentire della società esterna al Ghetto e che diedero un contributo cruciale alla cultura ebraica mondiale, si pensi solamente al peso che ebbe l'editoria veneziana nella produzione dei testi ebraici.

- Un'editoria in ebraico più che ebraica visto che nella realtà un ebreo non poteva propriamente stampare i libri, ma solo collaborare alla loro realizzazione.
  I grandi stampatori veneziani, da Bragadin a Giustinian, si avvalevano di correttori di bozze e curatori di testi ebrei e si contendevano il diritto di stampare i testi fondamentali della tradizione ebraica. Venezia è conosciuta nel mondo ebraico proprio per la quantità di libri in ebraico stampati. Si pensi al Talmud di Gerusalemme e alla struttura attuale del Talmud babilonese, con il testo della Mishnà al centro e i commentari ai lati, che fu realizzata per la prima volta dal tipografo Daniel Bomberg agli inizi del '500 proprio a Venezia.

- Cinquecento anni di separazione che hanno però unito diverse tradizioni ed ebrei provenienti da realtà culturali agli antipodi.
  Gli ebrei per motivi spesso pratici hanno fatto sempre di necessità virtù, hanno cercato di trovare ciò che poteva unirli senza lasciarsi vincere dallo sconforto. Di certo le differenti nazioni del Ghetto erano diverse per lingua, costumi e condizioni economiche. Da una parte i tedeschi e gli italiani dediti ai banchi di pegno e alla strazzaria dall'altra i ponentini e i levantini grandi mercanti internazionali. L'elemento religioso li accomunava, ma per molto tempo, fino alla nascita del giudaico-veneziano, mantennero le loro lingue di origine: l'yiddish, il ladino. Si può dire che da un certo punto di vista il Ghetto ha però rappresentato un'esperienza che ha permesso la conservazione dell'identità ebraica per quegli ebrei sparsi per il mondo a rischio di assimilazione.

- Esempio di questa commistione risulta essere il minhag veneziano.
  Di certo il minhag veneziano ( complesso di liturgie sinagogali) è unico al mondo: un insieme di influenze provenienti dalle singole nazioni del Ghetto, riti diversi su come ordinare le singole preghiere e arie di provenienza prima ashkenazita poi sefardita con influenze italiane. Difficile identificare le specifiche contaminazioni, sarebbe però interessante avviare uno studio approfondito in merito.

- Quali benefici auspica che portino i 500 anni del Ghetto alla comunità ebraica di Venezia?
  La Comunità di Venezia è già una realtà internazionale. Dobbiamo captare maggiormente il turismo culturale ebraico rendendo il ghetto un centro vitale di studi sull'ebraismo.
  Oggi la massa critica è determinata dal turismo mordi e fuggi che visita le sinagoghe, il museo ebraico, magari viene al tempio a Shabbat. Dobbiamo diventare una comunità luogo di studio aperto che offra al mondo strumenti culturali unici.
  I 500 anni del Ghetto possono essere l'occasione per affermare che tale luogo non può essere un'icona sterile, ma deve rappresentare un esempio di vita e cultura ebraica. Dobbiamo attuare un Tikkun Olam, un perfezionamento del mondo, a partire da un perfezionamento della realtà ebraica veneziana. Credo che una visione dall'esterno possa aiutarci a un'analisi più profonda del passato per ragionare in conclusione su quello che vogliamo per il nostro futuro.

(Pagine Ebraiche, marzo 2016)


Cinquecento anni di ghetti. Cosa è cambiato?

di Maurizio Del Maschio

 
Il ghetto di Venezia
Il 29 marzo 1516 è una data che ha segnato non solo la storia dell'ebraismo, ma anche quella dell'umanità: si tratta del giorno in cui a Venezia è stata deliberata l'istituzione del "serraglio de' giudei", in un'isola della parrocchia di San Girolamo, nel sestiere di Cannaregio. Quello di Venezia è certamente il primo ghetto della storia. Oggi è anche l'unico sopravvissuto pressoché intatto nella sua particolarità urbanistica insieme a quello, molto meno integro, di Amsterdam. Tutti gli altri hetti d'Europa sono scomparsi a causa di vari e successivi sventramenti. Il ghetto di Venezia compie, quindi, cinquecento anni. L'evento inaugurerà un anno di celebrazioni nella Serenissima e altrove, a causa dell'importanza che quell'istituzione ha avuto nella storia dell'Occidente. Lo stesso termine che lo contraddistingue è veneziano e deriva dalla parola "geto", pronunciata alla tedesca, che individuava le fonderie dei metalli che in quella zona precedentemente esistevano. Perché la Repubblica di Venezia decise di rinchiudere gli ebrei? Sarebbe un errore madornale e anacronistico affibbiare le categorie mentali contemporanee al Cinquecento e la risposta, ai nostri giorni, può sembrare sorprendente: perché lo avevano chiesto gli ebrei medesimi. Solo che, per una sorta di eccesso di zelo, la Serenissima anziché isolarli ha finito per segregarli. Una simile decisione a quel tempo sembrava quasi salutare, ma avrebbe invece avuto conseguenze devastanti nella storia soprattutto fuori dei territori della Serenissima. La presenza ebraica nelle lagune risale comunque a tempi ben più antichi. La Giudecca, un'isola a sud di Venezia, forse deve il suo nome alla presenza di almeno una sinagoga nel XIII secolo. È certo, invece, che la necessità di andare in barca abbia originato una disputa rabbinica tipicamente veneziana, ovvero se sia lecito o meno prendere la gondola di sabato. La disputa seicentesca si riferiva a un precedente del 1244, quando il rabbino Isaia da Trani aveva navigato per i canali di Venezia nel giorno in cui non è permesso alcun tipo di lavoro. Quatto secoli più tardi il rabbino Simone Luzzatto sostenne che è lecito usare la gondola di sabato basandosi sul precedente di Isaia da Trani, ma il Consiglio della comunità rigettò la tesi ritenendola troppo "modernista" e spregiudicata.
  In precedenza agli ebrei non era generalmente concesso vivere in città, ma soltanto nei domini di terraferma. Dopo il 1492, quando Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia cacciarono i giudei dalla penisola iberica, in molti trovarono rifugio nello Stato veneto, terra di asilo relativamente tranquilla. La svolta arrivò dopo la sconfitta dei Veneziani ad Agnadello, in Lombardia (14 maggio 1509), quando la Serenissima Repubblica rischiò di essere cancellata dalla carta geografica da una coalizione di tutte le maggiori potenze europee dell'epoca unite contro di lei per impedirle di conquistare Milano (i Veneziani, infatti, per poco non attraversarono l'Adda per impadronirsi del ducato milanese).
  Gli ebrei fuggirono dalla terraferma occupata da imperiali e Francesi e si rifugiarono in gran numero a Venezia, protetta dalle sicure acque della laguna. Andarono a vivere un po' dovunque in città, ma temevano che la loro presenza sempre più visibile potesse provocare risentimenti e furono essi stessi a chiedere di essere collocati tutti insieme in un luogo sicuro. Non era una richiesta tanto strana: quartieri separati, chiusi da mura, e sorvegliati da guardie armate, erano presenti un po' in tutto il Mediterraneo. In genere servivano a proteggere i cristiani che vivevano in aree islamiche. A Costantinopoli, per esempio, i Veneziani e i Genovesi, in quanto cristiani, vivevano isolati e sorvegliati nel quartiere di Galata. Lo stesso avveniva per il quartiere cristiano di Alessandria d'Egitto. Nella stessa Venezia esisteva qualcosa di molto simile a quello che sarebbe diventato il ghetto, ovvero il fondaco dei Tedeschi, già presente nel XIII secolo. Si trattava di un singolo edificio e non di un quartiere, ma anche lì i mercanti "tedeschi" (ovvero tutti quelli che provenivano dall'Europa centrale, fossero pure ungheresi o boemi) venivano rinchiusi durante la notte. La decisione di istituire un luogo riservato agli ebrei, quindi, non fu un parto improvviso derivante da odio religioso o razziale, ma maturò in tale contesto. Arrivarono a viverci fino a cinquemila persone e gli edifici, che non potevano espandersi in ampiezza, lo fecero in altezza e raggiunsero, unici in città, anche sette-otto piani (le case veneziane non hanno mai più di tre-quattro piani). La vita degli ebrei nel ghetto di Venezia era molto più tranquilla che in molti degli altri Stati europei cristiani del tempo: nessuno li uccideva, anche se ogni tanto li si torchiava di tasse. In questa chiave si spiega perché essi fossero tanto numerosi: non erano dei temerari che andavano a mettere la testa nelle fauci del leone; semplicemente a Venezia e nei domini ottomani erano più al sicuro che altrove. I rapporti tra la Serenissima e il ghetto subirono vari alti e bassi, con i bassi che in genere coincidevano con le guerre con i Turchi, in particolare nel periodo della battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571, ma anche con un buon tasso di integrazione, sempre confrontato con quello del tempo in altri luoghi.
  Grandi figure dell'ebraismo veneziano, come il rabbino Leone da Modena, nel Seicento, erano popolarissime pure tra i gentili (anche perché, da uomo del suo tempo, era un accanito giocatore d'azzardo e un assiduo frequentatore di bordelli). La sua allieva prediletta Sara Copio Sullam, la "poetessa del ghetto", aveva un salotto frequentatissimo da ebrei e gentili, frati e preti compresi. I primi a festeggiare le vittorie di Francesco Morosini contro gli Ottomani, a fine Seicento, furono gli ebrei e tutta la città accorse nel ghetto.
  Venezia, infine, diventò per decenni la capitale dell'editoria ebraica: vi si stamparono la prima Bibbia rabbinica (1517) e il primo Talmud (1524-25) e per tutto il Seicento le Haggadot (libri rituali per Pesach) multilingui erano stampate a Venezia e circolavano in tutta Europa. Pertanto, se William Shakespeare ha ambientato le vicende di Bassanio e Shylock a Venezia e non altrove, un motivo doveva pur esserci.
  Non così era nei ghetti sorti qua e là in Europa successivamente. Erano veri luoghi di segregazione e, come nei secoli precedenti, frequenti erano le persecuzioni e i massacri che di tanto in tanto venivano perpetrati. La stessa apertura dei ghetti, voluta da Napoleone Bonaparte, costituì un pericolo per gli ebrei, esposti com'erano al rischio di assimilazione e di scomparsa nel più vasto e indistinto contesto cristiano e laico di allora.
  Oggi, cosa è cambiato per gli ebrei? Dopo la tragedia della Shoàh, che sembrava avesse posto fine a due millenni di persecuzioni, non solo l'antisemitismo sta rialzando la testa in Europa e in genere nell'Occidente, ma si assiste pure al suo dilagare nel mondo arabo a causa della rinascita dello Stato di Israele e della diffusione dell'ideologia nazista nel mondo islamico. In questo tempo di violenta intolleranza, le celebrazioni per il quinto centenario dell'istituzione del ghetto costituiscono un monito affinché non si abbassi mai la guardia di fronte alla barbarie e alle ideologie, religiose e politiche, che offendono e violano la dignità umana.

(Online News, 28 marzo 2016)


Urbi et orbi... non manca qualcuno?

di Deborah Fait

REHOVOT (Israele) - «... in questa festa di Pasqua la nostra vicinanza alle vittime del terrorismo, forma cieca ed efferata di violenza che non cessa di spargere sangue innocente in diverse parti del mondo, come è avvenuto nei recenti attentati in Belgio, Turchia, Nigeria, Ciad, Camerun, Costa d'Avorio e Iraq".
   Un altro passaggio del messaggio Urbi et Orbi pronunciato da Papa Bergoglio nel giorno di Pasqua: "Sia pace in Siria, Iraq, Yemen, Libia, Terrasanta, Ucraina».
   Non vorrei essere pedante ma è mai possibile che Israele debba essere sempre dimenticata quando si parla di guerre e terrorismo? E' mai possibile che si auguri la pace alla Terrasanta senza nominare il Paese, la nazione che subisce terrorismo palestinese e guerre dal momento della sua fondazione? Durante il periodo delle stragi, che ha avuto inzio più vent'anni fa, ci schernivano, si burlavano dei nostri morti, dicevano "vi sta bene, occupate la loro terra(!), andate via di là", nessuno ha mai avuto il cuore di mandare a Israele un minimo di solidarietà, nessuno si sognava di alzare cartelli "Siamo tutti Israele". Sì, lo facevano i radicali insieme a noi, eravamo quattro gatti a dire "siamo tutti ebrei" e tutto finiva lì tra le maledizioni di quelli che ci stavano a guardare sghignazzando e urlando cattiverie.
   Oggi non ci sono più nemmeno i radicali a solidarizzare con questo Paese che, nonostante tutto, riesce sempre a sperare, ad essere felice e ad amare la vita. Gli altri, e mi riferisco all'opinione pubblica, ai governi, a ministri, a capi di stato, ai media, niente, nemmeno una parola se non di spregio, sui social network scrivevano "Vi lamentate sempre, tornate in Polonia, fuori dalla Palestina". I pacifisti (!) bruciavano le bandiere, organizzavano manifestazioni di odio in tutta Europa, "Kill the Jews... kill the Jews... kill... kill..." Infatti i loro amici arabi uccidevano, massacravano donne, bambini, nonni, senza pietà, mentre loro, le organizzazione pacifiste, senza pietà, li applaudivano.
   Il sito Israele.net ha pubblicato un articolo che ricorda le terribili stragi degli anni 90: Askelon, 13 morti. Tel Aviv, 14 morti. Gerusalemme, 12 morti. Sempre a Gerusalemme altro autobus, 20 morti. Tel Aviv, 22 morti. Beit Lid, 21 morti. Tel Aviv, Dolphinarum, 21 morti (tutti ragazzini). Gerusalemme, pizzeria Sbarro, 15 morti. Gerusalemme, Ben Yehuda 11 morti. Haifa, 15 morti. Massacro di Pesach, Netanya, 30 morti. Haifa, ristorante, 15 morti. Rishon Le Zion, 15 morti. Megiddo, 17 morti. Gerusalemme, autobus, 19 morti. Potrei continuare per un bel po', questi sono solamente alcuni degli attentati che hanno colpito Israele negli ultimi 20 anni, dal 2000 al 2005 nessuno sapeva se sarebbe tornato a casa vivo, i terroristi suicidi erano in fila, da Ramallah a Gaza, per venire a farsi esplodere su un autobus, in un ristorante, in un teatro, nelle scuole. Bombe, mostri suicidi, raffiche di mitra, cecchini che prendevano di mira la testa dei bambini nei parchi con una quotidianità inesorabile.
   Dal 2005 sono iniziati i missili da Gaza, più di 10.000 missili su Israele in pochi anni e quando Israele ha reagito, il mondo si è sollevato contro di noi. Oggi siamo in piena intifada dei coltelli con orde di giovani palestinesi educati a uccidere ebrei piantando le lame dei loro coltelli nel collo o nella schiena di chiunque capiti loro a tiro. Come è possibile che il Papa, nel suo messaggio al mondo, abbia "dimenticato" di pronunciare quella parola, quel nome, il nome di quel Paese che più di ogni altro al mondo è stato colpito dal terrorismo arabo-islamico? La risposta è semplice quanto aberrante, il terrorismo contro gli ebrei non è considerato tale ma una giusta punizione per un popolo, cui nei millenni è stato tolto tutto, che cocciutamente vuole vivere, amare e sperare nel futuro. Tutto questo fa rabbia, una rabbia immensa e allora non se ne pronuncia il nome, si delegittima, si boicotta, si marchiano i suoi prodotti in perfetto stile nazista, ci si rifiuta di riconoscere la bestialità del terrorismo palestinese il cui obiettivo è la distruzione di Israele.

(Inviato dall'autrice, 28 marzo 2016)


Oltremare - Nebbia

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Si narra che quando cala la nebbia sulla manica gli inglesi dicano "il continente è isolato". Vera o non vera, l'immagine si sposa benissimo con il modo inglese di guardare l'Europa. Oggi, tocca a me. Di solito penso e scrivo i miei "Oltremare" con l'idea che io sono quella che vive oltremare rispetto a chi legge. Ma a vedere la bandiera israeliana fatta a pezzi da un'attivista indisturbata in piazza a Bruxelles, oggi mi sento di dire "Oltremare siete voi". Lontani, oltre il Mediterraneo che si riempie di migranti, alcuni ce la fanno altri no, ma provarci devono. Remoti, oltre al mare nostrum dei Romani, che avevano assicurato brevemente una unità pur guerrafondaia e fittizia di questi due lati che oggi sono così distanti e separati.
Di bandiere israeliane maltrattate se ne son viste tante, negli ultimi trent'anni. Ne ho viste anche coi miei occhi, era il '90 e su Israele cadevano gli skud di Saddam Hussein. È stata l'ultima manifestazione di piazza cui ho mai partecipato in Italia. Ricordo come fosse oggi l'istante in cui ho girato le spalle al corteo e sono scomparsa in una via laterale nella mia Torino Savoia tutta ordine e incroci a quadretti, insultata dalla violenza dei manifestanti.
In Israele, noi curiamo malati gravi siriani che rotolano letteralmente in territorio israeliano, sapendo che è la loro unica speranza. In Israele, noi facciamo passare tonnellate di medicinale, cibo e materiali da costruzione a Gaza, area dalla quale siamo usciti definitivamente e che non è in alcun modo sotto il nostro controllo. In Israele, se un soldato fa uso eccessivo del suo potere o della violenza, gli si fa un processo. Subito. Non lo si ammazza sulla pubblica piazza, e nemmeno lo si lascia andare perché in fondo è giovane, imparerà. Israele è un posto complicato, estremo, faticoso, ma è una democrazia pensante.
"Pensante" non è la parola che mi viene in mente, quando vedo certi graffiti tracciati sulla piazza di Bruxelles, inneggianti alla distruzione di Israele. È arrivata l'ora che l'Europa ricominci a pensare. E Israele, lo sappiamo bene noi qui, dalla mia parte del mare, non è il suo problema principale.


(moked, 28 marzo 2016)


Trump diventa ancora nonno: "Mio nipote figlio di ebrei"

E' nato il terzo bambino della figlia del tycoon americano. Il padre è di religione ebraica e la madre si è convertita all'ebraismo.

Ivanka Trump, figlia del candidato alla nomination repubblicana Donald Trump, ha annunciato la nascita del suo terzo figlio col marito Jared Kushner. "Jared ed io ci sentiamo immensamente fortunati ('blessed', benedetti) nell'annunciare l'arrivo di Theodore James", scrive l'imprenditrice e modella sul suo account Twitter postando poi una sua foto sul letto d'ospedale col piccolo tra le braccia: "Piccolo Theodore, il mio cuore è pieno".
Ivanka ha deciso di abbracciare la fede del marito, convertendosi all'ebraismo. Mia figlia "sta per avere un bimbo ebreo e se stesse accadendo proprio ora per me andrebbe benissimo", aveva detto pochi giorni fa Trump durante un comizio davanti alla comunità ebraica a Washington.

(la Repubblica, 28 marzo 2016)


«Tra gli ebrei meranesi uccisi c'era anche mio nonno»

Per gentile concessione della casa editrice Raetia, qui di seguito in anteprima un estratto del capitolo dedicato alla vicenda di Aldo Castelletti, tratto dalla traduzione italiana del libro "Mörderische Heimat" di Joachim Innerhofer e Sabine Mayr, traduzione curata del Museo Ebraico di Merano. Il volume, che racconta la deportazione degli ebrei meranesi a partire dal settembre del 1943, sarà in libreria da metà maggio con il titolo "Quando la patria uccide. Vite spezzate di famiglie ebraiche a Bolzano e Merano".

di Sabine Mayr

 
«Aldo Castelletti, mio nonno, nacque a Mantova il 24 novembre 1891, figlio di Fanny Cases e del commerciante Gustavo Moisè Castelletti, che aveva un magazzino di stoffe e tessuti. La famiglia - racconta la nipote Franca Avataneo, che torna spesso a Bolzano - non era di stretta osservanza religiosa, ma rispettava le principali festività e ricorrenze ebraiche. Fino alla tragica morte di mia nonna Bianca Colorni nel 1928, sua prima moglie ed anch' essa ebrea, la famiglia Castelletti risiedette a Mantova. Dal matrimonio nacquero tre figli: Carlo Alberto, il primogenito, nato nel 1915 e morto negli anni Trenta, mia zia Carla, nata nel 1920 e Luciana, mia mamma, di tre anni più giovane. Rimasto vedovo, mio nonno convolò a nuove nozze con Linda Barla Ricci, cantante lirica, non ebrea».
  Aldo e Linda Castelletti arrivarono a Bolzano nella primavera del 1933 e alloggiarono all'Hotel Grifone. Castelletti si registrò come industriale residente a Mantova. Il motivo delle loro brevi visite, era dovuto all'impegno di Linda nel teatro di Bolzano. Tra i conoscenti della famiglia c'era Giovanni Battista Marziali, prefetto della Provincia di Bolzano dal 1928 al 1933, pertanto la famiglia Castelletti decise di correre il rischio di lasciare Mantova e l'attività commerciale e di trasferirsi a Bolzano, pensando così di iniziare una nuova vita. Andò ad abitare in via Rosmini 20. Nel dicembre 1934 Aldo Castelletti divenne socio della neofondata ditta "Mondial: Fonofilm, Dischi, Edizioni Musicali" con sede a Bolzano e una decina di dipendenti, azienda che sotto la direzione e amministrazione di Castelletti si occupava di registrazioni musicali. Le figlie frequentarono a Bolzano il ginnasio ed i primi anni delle scuole superiori.
  «Le leggi razziali del 1938 - racconta ancora la nipote Franca - costrinsero mio nonno ad abbandonare la propria attività. Le figlie, che furono battezzate nel vano tentativo di sfuggire alla persecuzione, non poterono più frequentare le rispettive scuole. Per mia zia, che non era affatto un'allieva modello, fu una liberazione. Al contrario per mia mamma, che frequentava con passione la V ginnasio, fu un dramma: mi raccontò spesso che per molti giorni aveva continuato a recarsi ogni mattina davanti al liceo, per poi tornarsene a casa dopo che i compagni di classe erano entrati al suono della campanella. Non si seppe mai spiegare l'indifferenza ed il distacco con cui le compagne di classe, che fino al giorno prima avevano condiviso con lei studio, merende e passeggiate, avevano accolto quella discriminazione così dolorosa, senza mostrarle il minimo cenno di simpatia o vicinanza. L'unica che le fu vicina e la sostenne, denunciando quel trattamento come un' odiosa ingiustizia, fu la sua più cara compagna di classe, Lucia Salvi, che avrebbe poi preso parte attiva alla Resistenza: la loro amicizia sarebbe durata tutta la vita. Per parte materna Lucia Salvi era originaria di Fondo in Val di Non».
  Nel settembre 1938, con le leggi razziali varate da Mussolini, Aldo Castelletti fu rimosso dalla ditta Mondial e sostituito da Giovanni Martini. Il 4 marzo 1939 Castelletti presentò al comune di Bolzano la propria dichiarazione di "appartenenza alla razza ebraica". Grazie ai meriti acquisiti durante la Prima Guerra Mondiale, fece domanda per essere inserito tra i "discriminati", però la sua richiesta venne respinta. Sia il Partito Nazionale Fascista, di cui Castelletti era membro dal 1923, che la questura di Mantova avevano espresso parere negativo, descrivendolo come "un tipico rappresentate della sua razza" che non si era meritato la qualifica di "Discriminato", sebbene nella prima guerra mondiale fosse stato insignito della Croce al Merito di guerra. Aldo ottenne il permesso di portare due vagoni di mele da Trento a Milano e di venderle. Anche se Castelletti non aveva alcuna particolare relazione con la Comunità ebraica di Merano, la sostenne e sottoscrisse l'accordo con il Comune di Merano per il trasferimento delle tombe del vecchio cimitero ebraico, che da lì a poco però sarebbero state devastate. «Abbandonata Bolzano nell'ottobre del 1939 - spiega la nipote - la famiglia di mio nonno si trasferì a Milano. Ma ben presto tornò sui suoi passi e decise di sfollare proprio a Fondo, nel 1941». A Fondo la famiglia Castelletti visse fino all'arresto, nel settembre del 1943. ll 21 settembre del 1943, a seguito di una delazione, la famiglia Castelletti venne arrestata. Racconta ancora Franca Avataneo: «Un camion si presentò sotto casa, dove in quel momento - questi sono gli unici ricordi che mia zia Carla mi abbia mai riferito - c'erano solo mio nonno e la moglie Linda. "Io e la tua mamma - raccontava mia zia - eravamo a casa di un'amica, e lì fummo raggiunte da una donna del posto, che arrivò trafelata, dicendoci di tornare subito a casa perché i tedeschi ci cercavano e avrebbero ammazzato tante persone se non ci avessero trovate. Allora noi ci avviammo verso casa, passando attraverso due ali di persone che abbassavano lo sguardo al nostro passaggio e non osavano guardarci". Secondo i testimoni del luogo, l'arresto non fu direttamente eseguito dall'esercito tedesco né dalle SS, ma da formazioni locali, paramilitari e filonaziste (inquadrate nella SOD, cioè Südtiroler Ordnungsdienst, ndr) operanti nell'alta Val di Non, che avevano come centro operativo Senale, il paesino a pochi chilometri da Fondo ma già in provincia di Bolzano, situato sulla strada che, attraverso il passo Palade, conduce a Merano. Un testimone oculare, ora deceduto, che all'epoca aveva 13 anni, mi ha raccontato di aver visto in azione uomini in divisa al comando di due uomini in borghese. Aldo Castelletti, la moglie e le due figlie furono tradotti nel carcere di Merano e li rimasero imprigionati per alcuni giorni. Poi Linda, che non era ebrea, fu liberata e con lei mia mamma e mia zia. Il motivo di questa scarcerazione non ci è mai stato del tutto chiarito. Mia mamma accennava al fatto che mio nonno fosse riuscito a far credere che lei e sua sorella fossero nate dal suo secondo matrimonio, misto. Fatto sta che domenica 26 settembre 1943 mio nonno scrisse e fortunosamente riuscì a far recapitare alle figlie un biglietto che ho trovato tra le carte di mia mamma solo nel 2001, dopo la sua morte. "Piccole mie adorate, Dio ha accolto la mia ardente preghiera e - come doveva essere - voi siete costì con Linda. Piccole mie, l'ora è grave, la nostra Patria è dilaniata e ogni giorno nuove ferite le vengono inferte - occorre raccogliersi e aver fede. Ho scritto a Linda di far dire una messa, andate voi pure e pregate, e ricordate il vostro papà che vi adora. Una cosa sola vi domando: sino a che io non ritorno, state con Linda, seguite ciecamente i suoi consigli, e fate di tutto per volerle più bene - so che avete sempre avuto per lei tanto affetto - ora dovete averne tanto di più, in lei dovete vedere e sentire il vostro papà. Voi non sapete forse la sua bontà infinita, i sacrifici che ha fatto per me e per voi, è una creatura tanto, tanto buona, statele vicino e non lasciatela sola. Restate in casa sino al mio ritorno, dopo ritornerà la gioia. Pregate e pensate a me, andate sempre a messa e pregate in umiltà, Dio vi aiuterà e aiuterà me. Io vi bacio con tutto il mio affetto e vi benedico. Sempre vostro papà». Di Aldo Castelletti non si seppe più nulla. Per quanto riguarda mia mamma e mia zia, invece - è sempre Franca Avataneo che racconta - riuscirono a sfuggire alla persecuzione nazifascista e, dopo varie vicissitudini, ripararono in Svizzera nella primavera del 1944 e si salvarono. Finita la guerra, mia mamma e mia zia rientrarono in Italia, a Fondo, e constatarono che nulla era più come prima: il papà disperso, Linda ritornata ad Ascoli Piceno, dove sarebbe rimasta fino alla morte, il patrimonio familiare interamente dissolto. Ritornarono pertanto in Svizzera e vi rimasero fino al 1946 o 1947. Provarono a lungo a cercare quel padre così tragicamente perduto, ma inutilmente. Una ferita mai rimarginata». Di Aldo Castelletti non si seppe più nulla. Si sa solo che fu portato alla prigione di Merano e da lì trasferito nel campo di concentramento di Raichenau vicino ad Innsbruck, da dove partivano poi i convogli diretti ad Auschwitz Birkenau e agli altri campi di stermino. Probabilmente fu deportato assieme agli altri ebrei meranesi rastrellati il 16 settembre del 1943 e nella primavera del 1944 e di cui, al pari di Castelletti, dopo l'arrivo a Innsbruck si è persa ogni traccia.

(Alto Adige, 27 marzo 2016)


Memoria e salvezza, le storie dei vecchi eroi

Una pagina dimenticata della Shoah recuperata dal liceo Mamiani di Pesaro. Una ragazza ricorda che la bisnonna salvò un medico ebreo e il vecchissimo superstite di Auschwitz le racconta come fece fuggire 500 studenti.

di Roberto Mazzoli

PESARO - Qualche settimana fa aveva raccontato in classe il gesto eroico della bisnonna, contadina di Sassocorvaro, che nel 1944 rischiò la propria vita per salvare un medico ebreo dai lager nazisti. Nel giro di poche settimane quei fili della memoria, riannodati da Chiara Venturi, studentessa del liceo "Mamiani" di Pesaro, hanno fatto il giro d'Italia. Così lo scorso 21 marzo, il Keren Kayemeth Leisrael, Fondo nazionale ebraico, ha ospitato nella scuola israelitica di via Sally Mayer a Milano, una nutrita delegazione di liceali pesaresi accompagnati dalle insegnanti Francesca Cecchini e Patrizia Adrualdi. A fare gli onori di casa la preside, Esterina Dana, e il presidente milanese del Keren Kayemeth Leisrael, Sergio Castelbolognesi, insieme a varie personalità di spicco delle comunità ebraiche italiane.
   Per l'occasione non è voluta mancare Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, che ha abbracciato Chiara complimentandosi per aver recuperato una pagina dimenticata della Shoah. È iniziato così un vero e proprio viaggio nella storia buia del Novecento, attraverso la voce di testimoni d'eccezione come Georges Loinger che, nonostante i suoi 106 anni di età, ha ricordato con lucida memoria, come riuscì a salvare oltre 500 bambini ebrei, coordinando personalmente la resistenza francese, insieme alla moglie Flore e al cugino Marcel Mangel (più conosciuto come Marcel Marceau). Commuovente il racconto dell'evasione dal campo di prigionia dove era detenuto come militare. Una fuga di 700 chilometri dalla Germania a Strasburgo a piedi tra i monti e a nuoto nei gelidi fiumi di confine. Una lunga vita spesa sempre per aiutare i più piccoli. Si deve anche lui nel 1930 la fondazione dell'unico liceo ebraico di Parigi, il "Maìmonide". Ma da qualche anno Loinger è noto al grande pubblico soprattutto per il ruolo di primo piano che ebbe nella vicenda della nave Exodus, a cui Hollywood si ispirò per il noto film degli anni Sessanta con Paul Newman. Fu Loinger ad occuparsi delle modifiche allo scafo ed ai motori, per consentire all'imbarcazione di trasportare in Palestina 4.500 sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. E fu sempre lui ad organizzare i 200 camion che servirono per trasportarli al porto d'imbarco di Sète. «Quella nave - ha spiegato Loinger - rappresenta una pietra miliare nella storia del popolo ebraico e costrinse l' Onu a riconoscere il nascente stato di Israele». Oggi Loinger è presidente onorario della resistenza ebraica francese. «Sono un combattente - ha detto - e più precisamente un ebreo francese che ha resistito per non subire passivamente lo sterminio». In margine alla conferenza, insieme al figlio Daniel, Loinger ha espresso un messaggio di pace ricordando la sua amicizia col prete gesuita Michel Riquet. Insieme parteciparono al primo congresso eucaristico del dopoguerra (Barcellona 1952), portando i delegati francesi e tedeschi su una nave israeliana. Un gesto di riconciliazione sottolineato anche dalla consegna di un' antica Bibbia al sindaco della città catalana. Fu quello il primo" oggetto" ebraico ad approdare in Spagna dopo la cacciata del 1492.
   Nel segno del dialogo interreligioso, il liceo "Mamiani" ha chiesto al Keren Kayemeth Leisrael di piantare in Israele sette alberi nella foresta dedicata al cardinale Carlo Maria Martini. Prima del rientro a Pesaro la delegazione studentesca ha visitato il memoriale della Shoah nella stazione centrale di Milano, fortemente voluto da Liliana Segre.
   «Da lì il 30 gennaio 1944 sono stata deportata ad Auschwitz - ha detto la Segre - e da lì oggi riprende il viaggio della memoria di tanti studenti che, come Chiara, scelgono di non essere mai indifferenti».

(Avvenire, 27 marzo 2016)



La brava gente antisemita e di sinistra

La brava gente antisemita e di sinistra ritiene naturale, logico, persino giusto, che Israele incassi le offese al proprio territorio. In modo latente, lo Stato ebraico non è considerato sovrano: a quanto pare, gli ebrei sono ospiti della storia. «La Striscia di Gaza» e la «West Bank» sono diventate i set di una produzione televisiva palestinese sulla repressione israeliana, il palinsesto di una Nazione tragica che sotto il sole possiede in realtà soltanto il nome. L'utopia della pace della brava gente antisemita è questa, indicibile: tra vent'anni, Israele come una Nazione di case vuote e tegole rovesciate. È questo il paradosso dell'attuale opinione pubblica: l'antisemitismo più intenso e influente fermenta a sinistra.

da "Muoia Israele" di Giulio Meotti

 


Il messaggio dei ribelli siriani: "Lottiamo per la democrazia, chiediamo aiuto a Israele"

di Francesca Matalon

Noi del movimento Ghad al-Suri esortiamo tutte le forze nazionali a rovesciare la tirannia e a mettere in piedi una democrazia. Poi costruiremo il governo su cui si accorderanno tutte le forze nazionali siriane e i movimenti, un governo che garantisca i diritti di tutti". È questo il messaggio, redatto in ebraico, inviato attraverso le pagine del giornale israeliano Ma'ariv Hashavua al pubblico di Israele, con l'intenzione del neonato gruppo di opposizione al regime siriano di Bashar Assad di sensibilizzarne l'opinione pubblica. Ghad al-Suri ha anche agito nella speranza di mettersi in contatto con l'ufficio del Primo ministro e organizzare un incontro con un rappresentante della diplomazia israeliana. E mentre nel paese continuano a confluire attraverso il confine migliaia di persone rimaste ferite nella guerra civile che infiamma la Siria, Israele viene visto sempre di più come un alleato nella difesa dei valori della democrazia e dei diritti umani. La diplomazia israeliana, dal canto suo, continua a professarsi neutrale nel conflitto, e gli ufficiali della sicurezza sono pessimisti sul fatto che una risoluzione possa mai essere positiva per lo Stato ebraico.
  Il movimento Ghad al-Suri - che tradotto significa "Il domani della Siria" - è stato fondato al Cairo la scorsa settimana, e il suo presidente Ahmad Jarba (ex presidente della Coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione), ha voluto immediatamente comunicarne la nascita ai cittadini dello Stato d'Israele. La traduzione del messaggio in ebraico è stata affidata a una donna araba-israeliana che vive a Londra. Inoltre, si riporta che il movimento ha anche operato più dietro le quinte al fine di intraprendere un dibattito, indifferentemente in forma pubblica o privata, con il governo israeliano. Il Jerusalem Post scrive che la richiesta di Jarba all'ufficio del Primo ministro è stata inviata "discretamente al fine di evitare una perdita di credibilità di fronte al pubblico siriano e tra i potenziali sostenitori nel mondo arabo".
  "Il regime tirannico, attraverso il suo controllo sulla società siriana, è riuscito a disintegrare tutta la Siria", si legge nel messaggio, che accusa il governo di aver operato con la corruzione, con l'isolamento ai margini della società e la repressione degli oppositori, e sobillando i conflitti tra gruppi minoritari nei suoi interessi. "Così facendo - continua il messaggio in ebraico - ha trasformato la Siria in un vulcano, pronto a eruttare e a seguire il suo corso nazionale, intellettuale, politico e sociale, unificando popoli e terre. Così è iniziata la rivoluzione, sventolando la bandiera dell'unità di tutto il popolo siriano". Una rivoluzione, si sottolinea, che non ha tuttavia lo scopo di imporre una determinata nuova forma di governo - sia esso centrale, federale o di altro tipo - ma si pone l'obiettivo di lasciare questa scelta al popolo siriano, a differenza di molti altri stati e federazioni intervenuti militarmente e politicamente nel conflitto. I quali, si legge, "hanno approfittato del vuoto di potere e della guerra civile per imporre una soluzione senza l'accordo del popolo, che può essere espresso solo attraverso un referendum". Al contrario, il movimento Ghad al-Suri crede "nei diritti politici, nazionali, culturali e dell'istruzione per tutta la società siriana, basati su una dottrina di uguaglianza, con un'amministrazione equa, e non centralizzata. Un simile regime - si conclude - garantirebbe alle province, alle regioni e ai distretti amministrativi il pieno diritto di gestire i loro problemi civili, religiosi e culturali, nel rispetto delle norme internazionali sui diritti umani".
  Una risposta da parte del governo israeliana a questo messaggio non è ancora stata diffusa. Lo Stato ebraico dall'inizio del conflitto ha scelto di mantenersi più o meno neutrale nella guerra civile siriana. Tutela i suoi confini e la sua sicurezza da eventuali aggressioni (intervenendo anche con raid contro rifornimenti ai terroristi di Hezbollah in territorio siriano) e osserva il pericoloso quanto ingestibile disintegrarsi dei vicini. Ciononostante - riporta il Times of Israel - è stato confermato che Tsahal ha contatti con i ribelli al di là del confine, anche se è ancora chiaro con quali gruppi.
  A confermare questo rapporto è l'afflusso di circa duemila siriani negli ospedali israeliani dal dicembre 2013, tra cui molte donne e bambini. Seicento di essi sono arrivati all'ospedale Ziv Medical Center di Safed, a circa 30 chilometri dal confine. La linea ufficiale dell'esercito israeliana è quella di curare qualunque siriano necessiti di assistenza medica urgente. Nessuna importanza all'identità della persona poiché si tratta di una "iniziativa umanitaria". I feriti siriani qualche volta possono scegliere se andare a curarsi in Giordania o in Israele, ma la gran parte sceglie il secondo nonostante sia uno stato "nemico" poiché sa di poter contare su un'assistenza medica di alta qualità e in breve tempo. Dei circa seicento pazienti curati allo Ziv Medical Center - l'80 percento dei quali è arrivato con gravi traumi ortopedici - solo nove sono deceduti. Molti tornano in Siria capaci di camminare nuovamente, grazie a dispositivi ortopedici che possono costare anche fino a 3 mila dollari l'uno. Ogni paziente - riporta sempre il Times of Israel - costa a un cittadino israeliano che paga le tasse circa 15 mila dollari. Lo staff dell'ospedale, ha spiegato una dei suoi dirigenti Channa Bikel, non conosce l'identità dei siriani che cura, nota esclusivamente all'esercito. "Adottiamo una politica di deontologia professionale medica, non facciamo differenze. Curiamo chiunque ne abbia necessità urgente, perché se una persona arriva al confine senza gambe - conclude - semplicemente non è possibile lasciarlo lì".

(moked, 27 marzo 2016)


Ebrei a Venezia, il ghetto ha 500 anni

Nasce il 29 marzo 1516. Dal 19 giugno una mostra a Palazzo Ducale sui rapporti tra la comunità e la città

di Giovanna Pastega

VENEZIA - È il 29 marzo 1516, il Senato della Serenissima delibera di trasferire "uniti" tutti gli ebrei presenti a Venezia nell'area del Ghetto, un'insula nei pressi di S.Girolamo, "per ovviar a tanti desordeni et inconvenienti". È una data storica: nasce il primo Ghetto ebraico al mondo.
   Per celebrare e ricordare in chiave storica ma anche contemporanea i tanti significati di questo luogo fondamentale per gli ebrei è stato costituito un Comitato con il compito di coordinare le molte iniziative (concerti, convegni, restauri) dedicati a "I 500 anni del Ghetto di Venezia".
   Evento centrale del programma la mostra "Venezia, gli Ebrei e l'Europa. 1516-2016" che resterà aperta a Palazzo Ducale dal 19 giugno al 13 novembre. Curata da Donatella Calabi, storica del territorio, l'esposizione cercherà di mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra gli ebrei e la città di Venezia nel corso della storia
   «Dal 1516 in poi - spiega la curatrice - la Repubblica veneziana sceglie di destinare alla minoranza ebraica un luogo della città delimitato da due porte che sarebbero state aperte la mattina al suono della "marangona"(la campana di San Marco) e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere dentro il Ghetto. Due barche con i guardiani sarebbero circolate di notte nel canale intorno all'isola per garantirne la sicurezza».
 
   Per ripercorrere diacronicamente 500 anni di storia di questa comunità fondamentale per l'economia, la società e la cultura di Venezia, Donatella Calabi ha anche pubblicato per Bollati Boringhieri il libro "Venezia e il Ghetto", un excursus storico dalla sua fondazione fino all'apertura delle porte con il simbolico falò voluto da Napoleone Bonaparte. «A Venezia - spiega - convivevano molte comunità straniere, indice di accoglienza e di multiculturalità da parte della Serenissima. Lo stato veneziano considerava importante per i suoi commerci la presenza di "foresti", tuttavia riteneva che dovessero essere sorvegliati per evitare i conflitti che spesso si creano quando in uno stesso luogo vivono persone di origini, abitudini e linguaggi diversi. Ciascuna comunità esercitava un'attività prevalente: i tedeschi si occupavano della vendita di tessuti di lana o del feltro, i greci erano vicini alla marineria dell'Arsenale, i turchi controllavano il mercato dell'oro e delle spezie e gli ebrei gestivano la funzione fondamentale del prestito su pegno, a cui anche la Repubblica nei momenti di crisi o di guerra fece ricorso». In Ghetto sorsero infatti i primi banchi di pegno: il banco "rosso" - la cui insegna è ancora visibile - poi il "verde" e il "nero", dai quali passerà buona parte del prestito di denaro della potenza lagunare.
   A Venezia nasce anche la parola "ghetto", che in origine non ha assolutamente il significato di luogo segregazione poi assunto in seguito. È infatti un semplice toponimo, poiché già dal Medioevo nell'insula, dove poi risiederanno gli ebrei, trovava ubicazione il "geto de rame", il posto dove venivano "gettati" gli scarti della lavorazione delle fonderie di rame presenti nella zona. Con la prima ondata migratoria di ebrei tedeschi a Venezia il termine comincia ad essere pronunciato con la g dura, così il getto diventa ghetto. «La Serenissima - spiega Donatella Calabi - non è mai stata razzista, ha solo controllato le comunità straniere che ospitava per evitare pericoli. Lo faceva anche con i Turchi, il cui Fontego veniva chiuso, porte e finestre, durante la notte e sorvegliato da guardiani cristiani. Il Ghetto era un luogo chiuso durante la notte e le festività, ma fu sempre un luogo di interrelazione e di scambio anche culturale. Per molti anni si è insistito sulla storia della segregazione che ovviamente esisteva, ma poco si è invece messa in luce l'importanza degli scambi culturali che gli ebrei sono riusciti ad attuare sia pur "chiusi" nel Ghetto non solo con la città di Venezia ma con l'Europa intera e il bacino del Mediterraneo».

(Il Piccolo, 27 marzo 2016)


Terrorismo, Israele può insegnarci come proteggere gli obiettivi sensibili

di Loretta Napoleoni

Una delle cose che colpisce quando si parte dall'aeroporto di Ben Gurion, ad Israele, è la sensazione di non essere in un gigantesco grande magazzino dove per arrivare all'imbarco bisogna percorrere chilometri e chilometri tra una folla di persone intente a fare shopping, a magiare e bere o semplicemente a passeggiare, ma di trovarsi in un edificio assolutamente funzionale al viaggiatore per quanto riguarda la sicurezza. Ma Israele è un paese che con il terrorismo ci convive da decenni. L'idea che l'aeroporto sia un tempio del consumismo occidentale, uno shopping mall, dove i viaggiatori riempiono il bagaglio a mano di prodotti folkloristici e cibi locali, come succede nel Vecchio Continente, è per gli israeliani assurda. All'aeroporto, alla stazione degli autobus ed in quella ferroviaria si va per spostarsi da un punto all'altro, sono luoghi affollati e quindi potenzialmente ottimi obiettivi per i terroristi, quindi è meglio attraversarli velocemente e restarci il meno possibile.
   Forse anche noi europei dovremmo imparare a convivere con la minaccia del terrorismo, almeno per qualche tempo. In un anno e mezzo l'Europa ha subito 14 attacchi terroristici, di varia grandezza ma tutti di grosso impatto. Gli obiettivi hanno incluso una rivista, un locale rock, una caffetteria, un negozio di alimentari, uno stadio di calcio, un treno, una sinagoga - e ora una sala partenze di un aeroporto ed una metropolitana. Se questo è un trend allora sicuramente bisogna rivedere la sicurezza un po' dovunque, ma specialmente agli aeroporti. Ciò non significa aumentare ulteriormente le procedure di controllo. Fino ad oggi infatti è proprio questo che si è fatto, ogni volta che si è verificato un attacco alla sicurezza è stata aggiunta una nuova procedura.
   Dopo l'11 settembre sono stati introdotti i controlli a tutti i passeggeri ed al baglio a mano che viene portato in cabina per evitare che qualcuno faccia salire a bordo persino un taglierino. Nel 2006, quando a Londra venne sventato un complotto per creare una bomba liquida - si badi bene mai prodotta - da portare a bordo, si decise di vietare tutti i contenitori di liquidi superiori ai 100 ml. Nel 2009, infine, dopo la scoperta delle componenti chimiche di un esplosivo al plastico nelle mutande in un attentatore, si decise di introdurre i body scanner. In alcuni aeroporti, ad esempio ad Istanbul, già esistono controlli prima di entrare nel terminal. Sono stati introdotti dopo l'attentato all'aeroporto Domodedovo di Mosca del 2011, quando un attentatore suicida si è fatto esplodere nella sala arrivi uccidendo 37 persone.
   Ma non è però detto che aumentando il numero dei controlli e rendendo la vita del viaggiatore ancora più stressante, la sicurezza contro gli attacchi terroristi futuri aumenti. Anzi, come ha fatto notare il ministro degli Interni britannico, Theresa May, introdurre un altro strato di sicurezza potrebbe far crescere la folla dei passeggeri e spostarla da una zona all'altra offrendo ai terroristi un obiettivo facile da colpire.
   E' chiaro che gli attentatori cercano luoghi dove c'è un alto numero di persone, e gli aeroporti, le stazioni delle metro o quelle ferroviarie sono luoghi ideali dove far strage di cittadini. Lo stesso vale per gli stadi. Ma a differenza di questi ultimi, aeroporti e stazioni sono obiettivi più difficili da proteggere perché il flusso dei viaggiatori è continuo e mantenere costante un alto livello di sicurezza non è così semplice.
   Gli israeliani usano una serie di tecniche che fino ad oggi hanno avuto successo. In primis l'aeroporto è concepito come una fortezza non come uno shopping mall, per accedervi bisogna passare un primo controllo a circa un chilometro di distanza. Le dimensioni dell'aeroporto Ben Gurion sono naturalmente molto ridotte rispetto ad aeroporti faraonici come quello di Madrid, di Barcellona o di Heathrow, dove ben 75 milioni di persone vi transitano ogni anno. Certo il numero dei passeggeri in Europa è molto più alto che in Israele, ma gli aeroporti europei sono stati costruiti per invogliare la gente a fare shopping nell'attesa di imbarcarsi, non per muovere i passeggeri velocemente e ridurre la folla. E questo è un problema logistico. I viaggiatori oggi trascorrono più del doppio del tempo all'interno dell'aeroporto dopo aver passato la sicurezza, si badi bene, che prima dell'11 settembre. Perché? Perché fanno shopping ed i tempi per raggiungere gli imbarchi si sono moltiplicati perché per farlo sono stati costruiti lunghi percorsi ad hoc attraverso negozi, ristoranti e duty free.
   Gli israeliani non perdono tempo a controllare i liquidi dei viaggiatori, cosa che invece spesso crea enormi colli di bottiglia ai controlli di sicurezza di Heathrow. Si concentrano nel profiling, che possiamo definire una sorta di analisi psicologica dei passeggeri da parte di professionisti della sicurezza. In sostanza ciò significa individuare i potenziali attentatori sulla base di dati personali che vengono raccolti in vari modi, e.g. osservando il loro comportamento in aeroporto o intervistando i passeggeri al check in.
   Certo qualcuno potrebbe controbattere che fare il profiling di 75 milioni di passeggeri ad Heathrow è impossibile, ma non è così. Il profiling individua immediatamente chi viaggia molto, per motivi di lavoro o familiari, questi sono i passeggeri che non hanno bisogno di essere controllati perché non presentano alcun rischio. Negli Stati Uniti la Tsa ha introdotto un sistema simile, a chi viaggia spesso viene applicato un controllo di sicurezza meno invasivo e più veloce che agli altri. Ciò permette una maggiore concentrazione di risorse sui passeggeri potenzialmente 'a rischio'.
   A quanto pare dai video degli attentatori dell'aeroporto di Bruxelles risulta che nessuno dei tre aveva bagaglio a mano e due indossavano un guanto nero solo nella mano sinistra, probabilmente perché in quella mano avevano il detonatore dell'esplosivo. Due fattori sufficientemente inusuali per allertare all'ingresso le forze di sicurezza in borghese se ci fossero state, come invece da decenni avviene in Israele.

(il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2016)


Lo 'zoccolo' di Israele contro rischi Hezbollah

 
Mount Adir
Un 'taglio' inferto al terreno, una striscia di polvere gialla senza vegetazione che, per quasi un chilometro in lunghezza, mette allo scoperto chiunque si fermi sul luogo o lo voglia attraversare correndo. L'ufficiale israeliano che lo indica ai cronisti dell'ANSA lo chiama lo "zoccolo" e spiega che serve a rallentare possibili "infiltrazioni" di miliziani Hezbollah dall'altra parte del confine. Il Libano è a meno di 200 metri e la strada statale dove corrono le auto con la targa dello stato ebraico è a un passo.
   Basterebbe un attimo per arrivarci e - fa intuire l'ufficiale donna di Tzahal - le conseguenze immaginabili. Per questo è stato costruito lo "zoccolo" lungo il wadi che si chiama Katamon e nel nome ricorda casualmente un luogo storico di Gerusalemme.
   "Grazie alle telecamere e ai sensori - aggiunge - offre a quanti sono preposti alla difesa un lasso di tempo breve ma prezioso per organizzarsi meglio e rispondere alla minaccia. Non blocca, ma rallenta. Lungo il confine ne sono stati scavati altri". "La Risoluzione 1701 dell'Onu - spiega ancora l'ufficiale donna - vieta agli Hezbollah di agire militarmente.
   Ma loro sono egualmente presenti all'interno della popolazione civile. Come nei villaggi di Ayta a-Shaab, Maroun al-Ras, Bent Jbail. A volte si avvicinano al confine fingendosi pastori ma in realtà sono vedette". A protezione della Linea Blu del 2000 che separa il Libano del sud da Israele ci sono le forze dell'Unifil a guida italiana. La strada sterrata che corre lungo la frontiera, accompagnata da un barriera di protezione in reticolato, è un lungo serpente che si disegna sul terreno. E si vede benissimo da un altro punto di controllo dell'esercito: la sommità di 'Mount Adir', un palcoscenico naturale su questa parte del confine segnata anche essa da sensori, rilevatori di presenza, radar, telecamere e da una costante vigilanza dell'esercito israeliano. "I rapporti con l'Unifil sono eccellenti e professionali", spiega ai giornalisti l'ufficiale mentre proprio in quel momento due jeep del contingente scalano una salita non distante dallo "zoccolo" e in cielo volteggia un elicottero bianco, il colore che indica le forze dell'Onu. E c'e' anche l'esercito nazionale libanese schierato in alcuni punti dell'intera area. Ma il pericolo per Israele restano gli Hezbollah. "Il loro cambio è stato radicale ed hanno fatto molti sforzi a questo fine. Hanno assunto oramai - spiega l'ufficiale - le caratteristiche di una organizzazione semi-militare, con una struttura gerarchica e con nuove tecniche di combattimento. Se nel Libano del sud prima, contro Israele, gli Hezbollah agivano da guerriglia, l'esperienza in Siria, dove sono stati attaccati a loro volta da un'altra guerriglia, li ha fatti cambiare".
   Senza dimenticare la capacità missilistica: Israele stima - ha recentemente ricordato il portavoce militare Peter Lerner - una disponibilità per i miliziani sciti di 110 mila missili, fra cui Scud con gittata da 700 chilometri. Diverso invece il discorso sui possibili tunnel costruiti dalla parte libanese: "Non ne abbiamo notizia - dice ancora - In passato le infiltrazioni sono avvenute sul terreno, sfruttando la folta vegetazione, e non da sottoterra come ha fatto Hamas da Gaza. Ma qua il terreno e' completamente diverso".

(ANSA, 27 marzo 2016)


Salvini tenta la carta estera. Dopo Putin viaggio in Israele

di Alberto Mattioli

MILANO - E' il nuovo fronte della politica estera della Lega. Martedì, Matteo Salvini partirà per un viaggio a Gerusalemme e Tel Aviv con una nutrita delegazione leghista e soprattutto con un'agenda fitta di incontri di livello: un ministro, due vice ministri, il vicepresidente della Knesset e Avigdor Liberman, leader del partito di destra «Israel Beitenu». È un salto di qualità nelle relazioni internazionali leghiste, finora segnate da qualche inevitabile delusione (il tentativo precedente di farsi ricevere in Israele non andò a buon fine, il visto negato dalla Nigeria) e qualche evitabile gaffe, come la visita di Salvini in Corea del Nord, «che sembra la Svizzera», e quel che è peggio insieme con Razzi.
   Il tour israeliano è stato preparato con cura. Il gran tessitore è il «ministro degli Esteri» leghista, il deputato romagnolo Gianluca Pini, e le dichiarazioni della vigilia certo non dispiacciono a Gerusalemme: «L'Europa dei matti vuol fare entrare la Turchia e mette sanzioni contro i prodotti di Israele», ha già tuonato Salvini. Pini mette le mani avanti dicendo che nell'annoso contenzioso mediorientale «Israele ha il 99,99% delle ragioni». Prevista anche una visita allo Yad Vashem dove Salvini farà una dichiarazione «molto netta» a sostegno dello Stato ebraico. Ma, spigolando nel programma, l'appuntamento più sorprendente è quello con monsignor Giuseppe Lazzarotto, nunzio apostolico a Gerusalemme: «Il primo incontro ufficiale fra Salvini e un esponente della Santa Sede», chiosa soddisfatto Pini.
   Se tutto andrà bene, insomma, è un bel colpo. Anche a uso interno: la credibilità di un leader si vede dai suoi contatti internazionali. Cosi, Salvini sta moltiplicando i viaggi all'estero, e sono lontanissimi i tempi di quando l'estero iniziava a Firenze. In carnet c'è un viaggio in Giappone e poi quello, di cui si parla da tempo, negli Stati Uniti, magari incontrando Donald Trump con cui Salvini ha in comune l'allergia all'establishment e al politicamente corretto. Ci lavora Guglielmo Picchi, ex deputato eletto all'estero per Forza Italia e poi passato alla Lega.
   Anche in Europa c'è una nuova opportunità: la Brexit. Per l'europarlamentare Luca Fontana, ideologo della Lega salviniana, l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe la prova provata che la scelta europea non è irreversibile. «Manderemo una delegazione a Londra a esprimere il nostro sostegno», annuncia Pini, benché i rapporti con l'Ukip siano cattivi dopo che Farage ha deciso di non entrare nell'Enf, il gruppo anti-Ue al Parlamento di Bruxelles.
   Qui la Lega va d'amore e d'accordo con gli alleati tradizionali, in primis il Front national di madame Le Pen con la quale Salvini non perde occasione di scambiare visite, apprezzamenti e anche passi di danza, come al congresso di Lione. Poi ci sono i «liberali» austriaci dell'Fpo, i fiamminghi del Vlaams Belang, gli olandesi del carismatico Geert Wllders e un po' di romeni, polacchi e cechi poco decifrabili. Naturalmente, l'alleato ottimo massimo, amatissimo anche dalla base, resta Vladimir Putin. Ufficialmente, lui e Salvini si sono visti una volta sola, nell'ottobre 2014 a Roma. Ma è bastato, gongola Pini, perché i russi inserissero la foto dell'incontro nell'agenda dell'anno 2015, strenna diplomatica «dove l'unico altro italiano fotografato con Putin è Napolitano». La Grande madre Russia è vista come un argine all'islamismo, e lo stile Putin, spiccio e pragmatico, piace moltissimo ai leghisti. Del resto, a Putin piacciono tutti quelli cui non piace l'Europa: infatti a Milano, all'ultima rimpatriata dell'Enf, c'erano anche due suoi diplomatici.
   Insomma, per la Lega di lotta ma magari domani anche di governo, è tempo di grandi manovre diplomatiche. Pini, che è capogruppo nella Commissione Esteri di Montecitorio, ha appena presentato una mozione dove il regime nordcoreano è definito «un fattore di preoccupazione». Altro che Svizzera ...

(La Stampa, 27 marzo 2016)


Le lacrime della Mogherini

Lettera al Direttore di Gazzetta di Parma

Egregio direttore,
 
all'indomani degli attentati di Parigi il presidente francese François Hollande, annunciando misure eccezionali contro il terrorismo, dichiarò solennemente: «Siamo in guerra». Premesso che, solo dopo quattro mesi di latitanza, Salah Abdeslam, il ricercato numero 1 della strage del Bataclan, è stato catturato nel suo stesso quartiere di residenza (ciò che non abbisogna di commenti), ieri [22 marzo], mentre le tv europee trasmettevano continuamente le immagini delle stragi di Bruxelles, Federica Mogherini, il «ministro degli esteri» dell'Unione Europea, ha emulato ad Amman le gesta della ministra Fornero, esibendo le sue lacrime davanti alle telecamere al termine di un incontro con il ministro degli Esteri giordano, Nasser Judeh. Quanta inettitudine! Ve lo immaginate Churchill che - di fronte alla disfatta inglese di Dunkerque - piange alla Camera dei Comuni? Riuscite a immaginarvi Stalin che - di fronte alle armate hitleriane che, su un fronte di 5 mila chilometri, occupano i territori dell'Unione Sovietica alla velocità di cento chilometri al giorno - chiama i cineoperatori al Cremlino affinché mostrino le sue lacrime non solo ai membri del Soviet supremo, ma, anche e soprattutto, ai popoli dell'Urss in angoscia? Stiamo davvero affondando nel ridicolo! Se le autorità europee non sono in grado di garantire la sicurezza a due passi dalla loro sede; se consentono che interi quartieri europei si trasformino in nidi di declassati sociali pronti a generare terroristi, che mettono in atto i messaggi di morte dell'Isis, la cosa più urgente da farsi è procedere al loro ricambio. L'Italia può cominciare a dare il buon esempio. Il presidente Renzi, che fa tanti favori al Paese, faccia anche questo. Inviti la Mogherini a togliere il disturbo e ad andare al mare: le sue lacrime versate in pubblico, per di più in terra musulmana, non potevano fare pubblicità migliore alle gesta dei criminali - oltre che galvanizzarli - che hanno gettato nel panico la capitale delle istituzioni europee, oltre che sede dell'Alleanza atlantica.
Sergio Caroli

(Gazzetta di Parma, 27 marzo 2016)


L'ultimo fortino della cristianità nel Sinai minacciato dall'Isis

VIaggio nel deserto fino al monastero di Santa Caterina fra beduini e posti di blocco dell'esercito. Qui gli uomini del Caliìfato sono almeno cinquemila.

di Domenico Quirico

Ecco: sono davanti a una delle giunture del mondo. Suez, il tunnel sotto il canale che collega l'Egitto al Sinai, dove si combatte quella che gli uomini dell'internazionale islamica mi hanno descritto come «la battaglia delle connessioni». Per stringere nel pugno i nodi del mondo che vogliono conquistare, servono loro il deserto con le carovaniere che collegano il Mediterraneo all'Africa, la terra tra i due fiumi nel vicino oriente, il lago Ciad saldatura tra Ovest e Est dell'Africa. E il Sinai, appunto, passerella tra Asia ed Africa.

 La guerra
  Qui si combatte senza rumore, senza un intoppo, come un meccanismo ben oliato. Questi rimuginatori di assoluto, gli uomini della jihad, innalzano le bandiere de «i partigiani di Gerusalemme» e della «Provincia del Sinai» Ansar beit al maqdis, infeudata al califfato. Quattro anni fa erano forse 300, ora sono almeno 5000. Nel cuore della penisola, a Rafah e a Seik Zoweid dove sfilano impudentemente con mezzi e bandiere e hanno creato tribunali islamici che lavorano di spada e forca, attaccano brutalmente l'esercito egiziano, lo tengono a bada. Perché si sono infiltrati nelle tribù beduine, una decina, 700 mila persone, della penisola, nutrite dal succo della tradizione brigantesca, tormentati dal fiele di una antica insofferenza nei confronti del Cairo che li emargina, avaro dei soldi del turismo e del petrolio. Il vento cattivo gonfia le loro vele, ricevono rinforzi, i più determinati tra i malcontenti, i più furiosi tra i rancorosi. Vi si ritrova di tutto, come sempre in queste congiure. Sì, ancora la perfidia capace del califfato: dotato di genio proteiforme, di una singolare flessibilità, sa suonare su tutti i toni la gamma della rabbia umana. Così tutto il Sinai è diventato insicuro, «dimora della guerra».

 La penisola del Sinai
  Il Sinai: qui sono fianco a fianco l'allegria insolente del nostro turismo e i vaticinatori del mondo perfetto, di una sensibilità fanatica, la deformità trascendente. E ancora: nel Sinai c'è Dio, il nostro, della tradizione ebraico-cristiana, il dio del roveto ardente e di monasteri vecchi di sedici secoli, un dio così scialbo, così fiacco, così scarsamente pittoresco, e l'effervescenza del dio totalitario, un dio frenetico, sudicio e malsano che si annuncia come liberazione paradisiaca.

 Il Cairo
  Sono partito dal Cairo su un bus di linea. Viaggiare senza separarsi. Ascoltare. La stazione degli autobus è davanti all'Hilton, a pochi passi Tahrir, piazza della bella gioventù, orfana di rivoluzioni, aiuole tirate a specchio, coppiette timide che parlano fitto. Cairo, con l'ostinata pigiatura di odori, colori e fetori che si difendono eroicamente contro la modernità, e le indolenze concentrate della folla negli autobus che sembrano rapirli via, nel mare del traffico.

 Il percorso
  Due ore appena, ed è il Sinai con i suoi cieli imbottiti di placida polvere d'oro, l'immobile andare delle dune gialle e le palme serene che benedicono le sponde del canale. Dal bus si passano in rivista tribù, popoli di palme con i tronchi quasi umani. Governano lo spazio come signori, gruppi disordinati, vedette, filosofi di solitudine meditante. Presentire l'acqua, le gobbe assetate dei sassi. Le sagome delle navi, nel Canale, sembrano spuntare dalla terra che tiene schiacciata e incollata a sé ogni cosa, casupole acque vive e acque morte, sotto un cielo troppo vasto. Da Rassudr, dove dromedari pascolano miti in pianure non di steli ma fertili di immondizie, a Abu Zinema file di cadaveri di villaggi vacanze dai nomi scintillanti, Sea star, Golden Beach, già ridotti a basso tortuoso casupolame di limo, ruderi di un turismo morto.

 L'autobus si svuota ad ogni sosta.
  Qualche soldato o lavoratori del turismo che tornano a casa dal Cairo; due bimbi, silenziosissimi per sei sette ore. E una ragazza che ci fissa con le sue pupille di gomma nera. I posti di blocco Quando iniziano le ciminiere delle raffinerie e i fuochi perenni delle trivelle in mare inizia la strada del Sinai infido, pericoloso. Ai continui posti di blocco i soldati in assetto di guerra prendono il posto dei poliziotti, giovanissime reclute, nascoste in buche fino al mento, o al riparo di artigianali scudi di ferro, come guerrieri antichi. Davanti alle trincee e ai blindati capre di una magrezza orrenda trascinano mammelle flosce e prolisse. Le auto sono rare, bus di linea come il mio sfrecciano ad alta velocità, lampeggiando. Sulla striscia di asfalto guizzano gallabie sventolanti di crespo nero che spariscono nella montagna. Sharm el-Sheik In fondo a tutto, Sharm el-Sheik si annuncia dopo otto ore con chilometri di strada illuminata sul nulla. Ottanta nuovi alberghi già chiusi in pochi mesi, i turisti ridotti al dieci per cento dell'epoca d'oro, ultimi a sparire gli irriducibili russi: Disneyland assediata dalla paura che la minaccia, che gironzola ormai nei dintorni, indefinibile, invisibile. La spiaggia è tutta delle turiste arabe, custodite da mute da sub e camicioni neri, vischiose d'acqua marina, che nuotano disinvolte attraverso le meduse che appestano il mare. Il furore dei tempi ha già ammutolito questo luogo nostro. È ora di riprendere la strada in salita verso Santa Caterina, la nostra meta, il più antico monastero del mondo, attraverso gole spaventose, corridoi pieni di sabbia, tra muri sempre più alti e scuri. Un tempo era una gita nei giorni di mare mosso, oggi un raro pellegrinaggio nel silenzio di Dio. L'aria tra i graniti bruni dai selvaggi atteggiamenti diritti si fa fredda, più sonora stranamente. I suoni, il motore, il rumore dei passi si prolungano come la fuga di grandi organi in infinite cattedrali. Tutto a poco a poco diventa più gigantesco. Nel freddo mattino, tra bruschi scrosci di pioggia, stupori nitidi come se tutte queste cose fossero morte di millenaria vecchiaia. Il monastero irrompe con il verde degli ulivi e dei cipressi: tra un mese sarà tempo di raccogliere, anche quest'anno, come nei secoli dei secoli. Sempre. E poi sarà la volta dei grappoli per il vino della messa. Tra un mese anche qui sarà Pasqua, la Pasqua ortodossa. Lo scoramento ti prende, non la speranza avvicinandoti alla porta. Troppo lontani i tempi i cui l'Eterno discese qui in nuvole di fuoco, al suono terribile dei corni. Tutto questo è finito: Santa Caterina non è un luogo vuoto di Dio, come il cielo e le nostre anime moderne. Purtroppo Dio è rimasto, ma è solo, con un pugno di monaci, una ventina, fedeli a custodire il suo esilio. La solitudine: il marchio dei cristiani d'Oriente, che abbiamo dimenticato e ora riscopriamo per piangerne, inutilmente, l'ennesima, forse definitiva catastrofe.

 L'ingresso
  Si apre una piccola porta in un muro spesso. Le campane suonano il mattutino con vibrazioni argentine in un assoluto silenzio e chiamano alla messa. la chiesa bizantina della trasfigurazione, una moschea, case, chiostri celle verande, costruzioni senza tempo incurvate contorte caduche grovigli di scale gallerie piccoli archi scendono nei precipizi giù in basso. Si è come racchiusi in un pozzo. Le cime del Sinai salgono al cielo striate, tagliate in un granito di un rosso sangue senza macchie, senza ombre, che da vertigine. Ogni tanto un monaco dai lunghi capelli di donna e veste nera, andatura ricurva, scende o sale le piccole scale e sparisce silenziosamente in una sella o in quel labirinto. E subito torna la pace della morte. La paura Non veniamo più qui: per paura. È il segno della nostra sconfitta. Perfino turisti sguaiati e l'insulto dei souvenir e della paccottiglia sacra sarebbe meglio di questa assenza. Sentire il peso della storia, il fardello del presente e quell'accasciamento quando la nostalgia invoca inutilmente uno slancio ignaro delle lezioni che si traggono da tutto ciò che è stato. Siamo più marci di tutte le età, più decomposti di tutti gli imperi. Solo i musulmani hanno il coraggio di salire al monastero cristiano, curiosi. Noi, attori clorotici, ci prepariamo a recitare parti di comprimari nelle repliche del Tempo. La porta della basilica si spalanca con le sue porte di cedro scolpite tredici secoli fa quando Giustiniano regnava sul mondo, meraviglia che il deserto ha salvato dalle rivoluzioni, dai furti, da tutti i ritocchi dell'uomo. Più che dalla ricchezza della profusione di lampadari e mosaici si è colpiti dall'arcaismo quasi selvaggio di questo santuario. È una reliquia dei vecchi tempi, ci si sente immersi in un passato semplice e magnifico, così lontano e pertanto così presente e inquietante.

(La Stampa, 27 marzo 2016)


Fase Elite U19, al Menti Turchia-Israele 1-0

Turchia-Israele, allo stadio Menti di Vicenza
Al Menti di Vicenza sono Turchia e Israele a darsi battaglia nella seconda giornata della fase Elite U19, valida per le qualificazioni agli Europei di categoria. Poco da evidenziare nel primo tempo, giocato senza correre troppi rischi da entrambe le squadre, con la Turchia che nel primo quarto d'ora controlla il gioco e impensierisce gli avversari in due occasioni: prima con un colpo di testa di Demiral sugli sviluppo di un calcio d'angolo, poi con l'attaccante Besir, ma in entrambi i casi è bravo il portiere israeliano Alon a sventare il pericolo. Nel corso della prima frazione sono sempre i turchi a fare la partita, con Israele che si affaccia raramente dalle parti di Sengezer.
Nella ripresa al 56' è la Turchia a portarsi in vantaggio con Demiral, bravo a insaccare alle spalle di Alon in seguito a un calcio d'angolo. Pochi minuti dopo è Israele a rendersi pericolosa in contropiede, ma al momento del tiro Galili viene anticipato dall'intervento provvidenziale di Canli. Nel resto della ripresa la stanchezza inizia ad affiorare, con errori in appoggio da ambo le parti, ma nessuna delle due formazioni riesce a costruire occasioni degne di nota e a trovare la via delle rete. Meritata vittoria per la Turchia, che ora si giocherà on ogni probabilità la qualificazione martedì a Caldogno contro l'Italia, quest'ultima impegnata oggi nell'altra gara della seconda giornata, alle 18 contro la Svizzera all'Euganeo di Padova.

(Sport Quotidiano, 27 marzo 2016)


Il Talmud rinasce dai roghi

È molto più di una raccolta di norme e interpretazioni della legge ebraica. Un libro dialogico e aperto nel quale neppure Dio può avere l'ultima parola.

di Giulio Busi

E' il libro più vilipeso, cancellato e bruciato della storia occidentale. Portato al rogo a carrettate, imbrattato d'inchiostro per renderne illeggibilile carte, letteralmente strappato di mano ai suoilettori. Che il Talmud approdi ora a una traduzione integrale in italiano, con i fondi e l'interessamento dello stato, è una giusta, seppur tardiva riparazione a tanti torti. C'è qualcosa, nell'opera smisurata, imbastita da generazioni di maestri ebrei, che l'ha resa capace di tener testa all'incomprensione e al malanimo. Credo che l'energia che circonda queste migliaia e migliaia di parole, e che le conserva ancoroggi ben vitali, sia il loro carattere corale.
   Il Talmud è innanzitutto una raccolta di norme giuridiche, d'interpretazioni e di opinioni sulla legge ebraica. Ma è ancor di più una grande narrazione a infinite voci. Nasce in un'età, quella dei primi secoli dell'era volgare, in cui il popolo d'Israele ha perso la propria autonomia politica. Il Tempio è distrutto, Gerusalemme in mano agli stranieri, l'esilio è destino obbligato e quotidiano. Dalle rovine del passato, e dalla dispersione, non sgorgano opere di singoli, voci intimistiche di sconforto. Non è più il tempo dei profeti biblici, che, coraggiosi e solitari, s'ergevano ad ammonire sovrani o a inveire contro gli errori e le sconsideratezze dei loro correligionari. A una sciagura collettiva, la società ebraica risponde con un progetto intellettuale altrettanto collettivo. Sono i rabbini, ovvero i maestri della tradizione, a farsi carico dell'impresa. Non sono sacerdoti (il Santuario non funziona più, e il sacrificio è stato sospeso). Non sono dignitari altolocati, spesso appartengono a una classe modesta: fabbri, calzolai, piccoli commercianti. Ma sono assieme, sanno fare gruppo. Si trovano per studiare, per pregare, per discutere, per vedere chi conosca meglio la Bibbia, chi ne capisca di più, chi l'ami d'un amore più devoto. Dimenticatevi la cultura dei grandi poeti, o degli scrittori altezzosi. Sfogliando le pagine del Talmud entrerete spesso in case dimesse, verrete a sapere di fatti quotidiani, leggerete qualche volta di comari e di pescatori, di sgualdrine e di ladri. Non è forse vero che la legge s'applica a tutti, e che i precetti del Signore valgono per l'intero Israele, senza eccezioni? Per i ricchi e per i poveri, per i pii e per chi è tentato di trasgredirli, i comandamenti, spesso e volentieri. I maestri studiano e studiano, voltano e rivoltano ogni versetto della Scrittura. Se fosse un giardino fiorito, diresti che questi giardinieri troppo zelanti l'hanno messo sotto sopra. Ma la Bibbia, per i rabbini, è come un campo da rendere fertile col lavoro. Più viene dissodato, più le interpretazioni si accumulano l'una sull'altra, migliore sarà il raccolto. E non pensiate che vadano sempre d'amore e d'accordo. Il Talmud è pieno di discussioni, di dispute, e di qualche sonoro diverbio. Perché non si può amare se non ci si appassiona, e la passione scalda. In una celebre pagina del trattato Bava Mezia, Rabbi Eliezer è talmente convinto di aver ragione, che chiama a proprio testimone una voce celeste. Ed ecco, puntualmente, che la voce dall'alto si mette dalla sua parte. Credete che i colleghi se ne stiano zitti? Nemmeno per sogno. Un altro rabbi, senza scomporsi, ha da ridire persino sul cielo. Da quando la Torah è stata data agli uomini, sostiene, è affar loro capirla e metterla in pratica. Persino Dio deve rimanersene buono: sulla terra, è la maggioranza dei saggi che decide, liberamente, e guai a intromettersi.
   Una simile democrazia basata sullo studio, e siffatto orgoglio intellettuale, mansueto sì ma indomito, non potevano passare inosservati. Il Talmud, che è il documento più importante della cultura rabbinica, esprime una consapevole scelta di autonomia. Fonda l'indipendenza giuridica di Israele, poiché unisce la legge biblica alla vita quotidiana dell'esilio. E stabilisce allo stesso tempo il prestigio e la legittimazione dei maestri, che danno voce all'identità del gruppo ebraico. Per lunghi secoli, la Chiesa ha mal sopportato l'opera, perché l'ha considerata il baluardo della "cocciutaggine" ebraica. In altre parole, se gli ebrei non vogliono convertirsi, se rimangono fedeli alle loro tradizioni, la colpa sarà di questo loro manuale di resistenza. Distrutto il libro, tolto di mezzo l'ostacolo. Ed ecco che fioccano i divieti e le persecuzioni. Dalle bolle del Medioevo e dell'età della Controriforma, è tutto un accanirsi contro il Talmud, considerato blasfemo (conterrebbe passi contro Gesù) o falso o sciocco.
   Nella sua bolla Etsi doctoris gentium, pubblicata nel 1415, l'antipapa Benedetto XIII dà voce in maniera inequivocabile alla corrispondenza tra Talmud e autodeterminazione ebraica: «Poiché è manifesto... che la causa prima della cecità giudaica... è una certa dottrina perversa... che fu formulata dopo Gesù e che gli ebrei chiamano Talmud... abbiamo stabilito che nessuno possa presumere di ascoltare, leggere o insegnare tale dottrina».
   Confische, censure, roghi, a intervalli regolari il libro ha rischiato l'estinzione. E ogni volta, gli sforzi degli inquisitori sono stati vani. È vero che i manoscritti antichi sono rarissimi, a causa delle persecuzioni, ma è altrettanto certo che il Talmud è come un fiume contro cui si sono costruiti argini e si sono ammassate dighe, senza metterlo mai in secca. Un autore solo lo si poteva cacciare in prigione, e bruciare. Ma cento, mille? Nel 1553, per volere di Giulio III, si fece un gran falò di copie del Talmud a Campo de' Fiori, a Roma. Ad andare in cenere furono carte e pergamene, l'opera continuò a circolare. La diaspora era vasta, molto più capiente di una piazza o di una città. D'altronde, anche tra gli intellettuali cristiani del Cinquecento cominciava ad affacciarsi il dubbio che tali metodi non risolvessero poi granché. «Prima di bruciare un libro», aveva scritto l'umanista tedesco Johannes Reuchlin a difesa del Talmud, «sarebbe meglio leggerlo». Verità indiscutibile, e che metteva a nudo il problema. Invece di distruggerlo per partito preso, perché non provare a capirlo, questo mondo rabbinico? Nonostante i buoni propositi di alcuni, nessuno aveva tentato finora di portare in italiano tutto il Talmud babilonese, quello approntato nelle antiche terre di Mesopotamia. Il manipolo di esperti guidato da Rav Riccardo Di Segni s'è messo all'opera di buona lena, coadiuvato dal Cnr. Ci vorranno anni, e ci sarà lavoro per molte mani e per molte teste, che è poi il modo migliore di dire, e di fare, Talmud.

(Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2016)


Sharia e raid contro i cattolici: enclave islamica nel Salernitano

Nelle mani dei 5mila immigrati un'area di 10 chilometri quadrati. Qui vige la sharia, sorge una moschea abusiva e i cristiani sono maltrattati.

di Sergio Rame

Lo chiamano "Salestan". È l'area a sud di Salerno, nella Piana del Sele di Eboli. Qui, a fronte di 40mila residenti sparsi nell'entroterra rurale, si sono concentrati oltre 5mila immigrati.
   La maggior parte sono musulmani. Vivono in baracche e villette disabitate. Pregano in una moschea abusiva. E applicano la sharia. A chi ruba, per intenderci, gli vengono mozzate le dita della mano. E se nei dintorni c'è un cristiano, di certo non se la passa bene.
   Un paio di settimane fa è stata distrutta una statua della Madonna di Lourdes. Non è la prima volta che succede. I raid contro i simboli cattolici vengono messi a segno al grido "Maledetti cristiani!". Un musulmano si è addirittura preso la briga di girare la statua di Santa Bernardette verso la Mecca. Le autorità non muovono un dito. Perché in "Salestan" l'immigrazione ha raggiunto la punta dell'11%. Il boom è degli ultimi anni ma, come rivela Libero, nel 2011 aveva visto passare da queste parti tre membri di al Jamaa al Islamiyya al Musallaha ovvero il Gruppo armato algerino (Gis). Due componenti furono addirittura arrestati, ma dall'interrogatorio non riuscirono a cavare granché. Oggi, dopo quindici anni, la situazione è se vogliamo persino peggiorata. Gli immigrati, racconta Peppe Rinaldi su Libero, "hanno colonizzato poco meno di dieci chilometri quadrati sulla litoranea di Eboli, a qualche decina di metri dal mare".
   In questa enclave islamica è sorta una moschea abusiva che le autorità locali si guardano bene dal chiudere. In questa enclave islamica ha iniziato a proliferare la sharia. Ne sa qualcosa Kamel di Beni Mellal (Casablanca) che si è visto amputare le dita di una mano.

(il Giornale, 26 marzo 2016)


Turchia: allarme attentati a Pasqua contro cristiani e ebrei

ANKARA - La polizia turca ha lanciato un allarme per il rischio di attentati nel corso delle celebrazioni di Pasqua, che si terranno domani. Nel mirino terrorista, riferiscono i media turchi, vi sono in particolare chiese e sinagoghe; associazioni e fondazioni non musulmane; Il luoghi di preghiera di Alewis e Caferis ad Ankara. Questi possibili obiettivi saranno presidiati dalle forze di sicurezza. Si ritiene che miliziani dell'Isis abbiano proceduto a una ricognizione nelle aree intorno ad ambasciate e consolati, dove abitano cristiani e ebrei

(AGI, 26 marzo 2016)


L'Onu risponde al terrorismo boicottando Israele

Con una blacklist delle imprese israeliane

di Ermes Antonucci

Le ferite causate dagli attacchi terroristici di Bruxelles sono ancora aperte. La comunità internazionale piange, mascherando il proprio immobilismo con la cautela, e fingendo di interrogarsi sulle azioni da intraprendere per affrontare un problema - il terrorismo islamista - che non si ha neanche il coraggio di nominare. Solo un bersaglio è certo, da sempre: Israele. E così, dopo l'etichettatura delle merci israeliane decretata dalla Commissione europea nel novembre scorso (mentre nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme già imperversava l'Intifada dei coltelli palestinese), il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) ha deciso giovedì scorso di istituire un database contenente i nomi delle aziende che operano negli insediamenti israeliani di West Bank e Gerusalemme est, in modo che chiunque (investitori e consumatori) voglia penalizzare queste compagnie possa farlo agevolmente, gettando un occhio alla lista. La risoluzione è stata approvata dal Consiglio con 32 "sì", nessun voto contrario, e l'astensione di 15 paesi, in gran parte europei, tra cui il Belgio, ma anche Francia, Germania e Gran Bretagna che pur era stata tra i pochi a criticare il piano assieme agli Stati Uniti.
   Si tratta di una "blacklist", ha immediatamente commentato l'ambasciatore israeliano presso il Palazzo di vetro, Danny Danon, convinto che il Consiglio dei diritti umani sia "ossessionato" da Israele. La redazione della lista di proscrizione - che si traduce in un invito al boicottaggio delle aziende che fanno business al di là della Linea verde - non è stata, peraltro, l'unica misura varata dal Consiglio delle Nazioni Unite con sede a Ginevra: essa, infatti, è stata inserita all'interno di un pacchetto composto da quattro risoluzioni, tutte dirette a censurare il comportamento del governo di Gerusalemme nei territori ritenuti "occupati" (incluse le alture del Golan), il tutto mentre ancora risuonava nelle orecchie il frastuono delle bombe di Bruxelles. L'Autorità nazionale palestinese ha accolto invece con favore la decisione dell'organizzazione internazionale. Uno scenario talmente paradossale da indurre il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a definire quello dell'Unhrc "un circo anti-Israele", aggiungendo che il Consiglio "attacca l'unica democrazia nel medio oriente, e ignora invece le gravi violazioni compiute da paesi come Iran, Siria e Corea del nord". Per il premier israeliano è del tutto "assurdo" che l'organismo Onu preposto alla tutela dei diritti umani abbia deciso di condannare Israele piuttosto che occuparsi dei recenti attentati avvenuti nella capitale belga. "Invitiamo tutti i governi responsabili a non onorare le decisioni del Consiglio delle Nazioni Unite che discriminano Israele", è l'appello lanciato da Netanyahu che ora spera, con scarsa fiducia, di trovare altri interlocutori solidali nel mondo libero.

(Il Foglio, 26 marzo 2016)


Socialismo à la Molenbeek: voto di scambio col jihad

Quel sistema di potere e cultura dei "progressisti che in Belgio flirtano con l'islam reazionario". Così la politica belga ha lasciato islamizzare Bruxelles in cambio dei tanti voti degli immigrati.

di Giulio Meotti

Alain Destexhe
ROMA - La conversazione si apre con un proverbio: "Nella terra dei ciechi il guercio è re, ma non in Belgio, dove chi ha cercato di sollevare il velo è rimasto solo". A parlare così al Foglio è Alain Destexhe, figura di spicco dei liberali a Bruxelles, già segretario di Medici senza frontiere e presidente dell'International Crisis Group, ma anche autore del libro "Lettre aux progressistes qui flirtent avec l'islam réac" (Editions du Cerisier). Una lettera-pamphlet che Destexhe ha dedicato all'uomo ritenuto responsabile della trasformazione di un grande sobborgo di Bruxelles nell'hub europeo della guerra santa islamica, Philippe Moureaux. Due giorni fa il premier belga, Charles Michel, ha detto che Moureaux ha una "responsabilità immensa". "Per venti anni, ha regnato una sorta di omertà", prosegue Destexhe. "Al centro di questo sistema c'era il potente Philippe Moureaux, sindaco di Molenbeek, tesoro dei media, che ha avuto un vero e proprio magistero morale e politico sulla politica di Bruxelles. Ha creato un clima di terrore intellettuale contro i pochi che osavano alzarsi. Philippe Moureaux aveva capito che il futuro del socialismo sarebbe passato dagli immigrati che sarebbero diventati, simbolicamente, il nuovo proletariato".
  Ma chi è Moureaux? Docente di Filosofia all'Università di Liegi, senatore, direttore dell'Institut Emile Vandervelde (il centro studi del Partito socialista), vice premier nel governo Martens, ma soprattutto dal 1983 consigliere comunale e poi sindaco di Molenbeek per vent'anni (19922012). Figlio del ministro Charles Moureaux, Philippe è stato a lungo il beniamino della sinistra antirazzista. La "loi Moureaux", la legge Moureaux, è infatti la norma che nel 1981 ha criminalizzato gli atti ispirati da xenofobia.
  Soprannominato "Moustache" per i suoi baffi, sposato in seconde nozze a una musulmana tunisina, Philippe Moureaux, ancor prima di diventare sindaco di Molenbeek, si era sempre vantato di difendere i diritti degli immigrati. Come quando incluse, primo caso nella storia del Belgio, esponenti musulmani nelle liste comunali e regionali. Celebri i tour elettorali di Moureaux nelle moschee e la sua consultazione dei capi islamici. Questo rampollo della politica belga è stato il sindaco di Molenbeek per cosi tanto tempo che ha finito per incarnare il comune oggi strategico nelle rotte dell'Isis.
 
Philippe Moureaux
  Moureaux li ha sempre difesi, i suoi immigrati di Molenbeek, e quando qualcuno provava a criticare il multiculturalismo, l'allora sindaco esclamava: "Questo è il metodo Goebbels, che attaccava gli ebrei come ora alcuni stanno attaccando i musulmani". Le sue simpatie filoarabe risalgono alla guerra in Algeria, quando Moureaux difendeva i rappresentanti del Fronte di liberazione nazionale algerino, nascondendoli anche clandestinamente sulle alture di Lustin, nella regione di Namur.
  Merry Hermanus, tuttofare del Partito socialista a Bruxelles per decenni, ha accusato così Moureaux: "Senza le popolazioni immigrate, il Partito socialista si sarebbe ridotto all'otto per cento dell'elettorato di Bruxelles. Ne siamo diventati prigionieri". Qualche giorno fa, Moureaux ha dato alle stampe il suo libro, "La verità su Molenbeek". Lo ha scritto dopo le stragi del 13 novembre a Parigi, quando la classe politica ha iniziato a mettere in discussione il suo ventennato a capo del ghetto brussellese. Nel volume, Moureaux si rivolge ai "miei fratelli musulmani", scrive che uno dei motori del jihadismo è la nostra "islamofobia" e castiga "una società che tratta le persone di origine immigrata come gli ebrei prima della guerra". "Il multiculturalismo ha fallito perché abbiamo consentito alle comunità di autoescludersi senza integrarsi, causando una frammentazione della società", continua al Foglio Alain Destexhe, liberale belga ed ex segretario generale di Medici senza frontiere. "Stiamo parlando di cittadini belgi che rifiutano i valori del nostro paese. Salah Abdeslam è un tipico esempio di ragazzo che avrebbe potuto condurre una vita confortevole. Aveva un salario decente e un lavoro garantito a vita".
  Perché ha scritto la "Lettre aux progressistes qui flirtent avec l'islam réac"? "Per denunciare quella sinistra che non si poteva criticare, perché stava al governo e dominava i media. Nel frattempo stavamo diventando il primo paese in Europa per numero di jihadisti e Bruxelles l'anello debole nella lotta contro questo islam reazionario. Era una strategia elettorale: Moureaux ha usato gli immigrati per restare al potere. Il problema è che le radici mentali del sistema Moureaux' sono sempre presenti tra i tanti politici socialisti eletti. Oggi metà degli ufficiali nei consigli locali e in Parlamento del Partito Socialista sono di origine straniera". Per questo non hanno mai posto condizioni per dare la cittadinanza agli immigrati? "Era un patto politico elettorale. L'immigrazione legale (e illegale) veniva incoraggiata. Il ricongiungimento familiare veniva facilitato. Ci fu la concessione del diritto di voto agli stranieri, la lotta contro il razzismo divenne il nuovo paradigma del discorso politico. Il patrimonio storico laico e anticlericale del Partito socialista venne gettato via. A favore di un modello comunitario: frequenti visite alle moschee, sussidi alle associazioni musulmane, fornitura dei servizi alle scuole coraniche, partecipazione al festival Eid El Kebir, marce anti israeliane". Quando era sindaco, Moureaux esortò persone a evitare di circolare in auto durante il Ramadan, in modo da non offendere i musulmani. "Durante il Ramadan, il centro di Molenbeek diventa una città morta dove è impossibile trovare un ristorante aperto", dice Destexhe. "La maggior parte dei politici ha scelto di non ascoltare i sermoni sempre più radicali che nelle moschee affermano la superiorità dell'islam sui valori occidentali. E' in questo clima che le organizzazioni radicali come il Centro islamico belga e altre hanno prosperato liberamente. Molenbeek è diventata così la zona cresciuta più velocemente della regione di Bruxelles e del Belgio. La popolazione del quartiere è aumentata del dodici per cento in cinque anni e del trenta per cento in quindici anni. L'islamizzazione sta avvenendo sotto i nostri occhi. Già oggi il trenta per cento di Bruxelles è islamica". E non c'è solo Molenbeek "Ci sono Anderlecht, Bruxelles-Ville, Schaerbeek, Saint-Josse e Forest. Quando ero segretario di Medici senza frontiere, negli anni Novanta, lavoravo spesso a Molenbeek. La popolazione era già in gran parte di origine immigrata, ma non stava cercando di affermare la propria identità islamica, come oggi. Le donne non indossavano il velo, nessuno chiedeva cibo halal nelle scuole, pochi andavano in moschea. Per questo, se osservo il Belgio oggi, sono molto pessimista. Forse è troppo tardi".

(Il Foglio, 26 marzo 2016)


Quando in Belgio si proibivano i libri "islamofobi"

di Giulio Meotti

Ben prima degli attentati di Parigi e Bruxelles, il Belgio aveva fatto sua la logica dell'intimidazione islamista, mettendo a tacere scrittori e letterati cosiddetti "islamofobi". E' successo che la più grande libreria del Belgio, Filigranes, abbia ritirato volontariamente dalla vendita le copie dell'"Eloge littéraire d'Anders Breivik" di Richard Millet, editor della casa editrice Gallimard. Nessun tribunale le aveva imposto di farlo.
"Per la prima volta in ventinove anni la libreria prende una decisione simile", aveva detto il patron di Filigranes, Marc Filipson. E' successo che la stessa Filigranes abbia annullato una serata di presentazione per Eric Zemmour, l'autore di "Suicide Français". La libreria temeva per la "sicurezza" del suo personale. E questo ci riporta al 1989, quando un imam di Bruxelles, che si era detto contrario alla fatwa lanciata da Khomeini contro Salman Rushdie, era stato ucciso nel cuore dell'Unione Europea da sicari islamisti. Il Belgio è un paese disarmato prima di tutto culturalmente.

(Il Foglio, 26 marzo 2016)


Jihad televisivo. L'islam moderato va in tv. E dimostra che non c'è

Quel ritornello in tv: uccidono per l'islam ma non sono islamici


Raffica di interviste per i musulmani: nessuno prende nettamente le distanze dai terroristi. Ma attaccano la stampa. Negano che la loro religione sia violenta, ma accusano i giornali di destra di essere come i kamikaze di Parigi o di Bruxelles.


di Francesco Borgonovo

Poi ci si stupisce che gli italiani abbiano paura, si grida alla «islamofobia» diffusa, ci si dispera per il «razzismo» imperante.
Ma li avete guardati bene i musulmani che in questi giorni affollano la televisione? Avete ascoltato con attenzione che cosa dicono? Sinceramente, fanno drizzare tutti i peli del corpo a furia di brividi.
Ieri mattina, un'inviata della trasmissione Agorà, su Raitre, è andata a intervistare un gruppo di musulmani che stazionava davanti alla grande moschea di Roma. La domanda della cronista era semplice semplice: la stessa che si pongono milioni di italiani. Che cosa pensano i fedeli di Allah di quanto accaduto in Belgio?
Le risposte, purtroppo, di solito fanno accapponare la pelle. E pure ieri ad Agorà si è sentito il consueto refrain: i terroristi che hanno colpito a Bruxelles non sono musulmani. Formulata in modi diversi a seconda del programma, questa è la versione islamicamente corretta per ogni occasione. A sconcertare, tutte le volte, è il tono della risposta. Rabbioso, infastidito. Gli interpellati ci vogliono comunicare che si sono rotti le scatole di venire chiamati in causa dopo ogni attentato. Poverini, ci spiace. Ma devono rendersi conto che tocca a loro, ai musulmani, dimostrare che gli italiani non hanno nulla da temere. Non sono i giornalisti a porre interrogativi tendenziosi o a soffiare sul fuoco. Di fronte a quel che sta accadendo, servono frasi convincenti da parte islamica. E, puntualmente, non arrivano. Ieri, davanti alla moschea di Roma, un signore musulmano piuttosto risentito ha risposto all'inviata di Agorà sventolando una fotocopia. Riproduceva una prima pagina del Giornale, e il gentiluomo islamico insisteva a spiegare che i suoi confratelli nella fede si trovano fra due fuochi: da una parte lo Stato islamico che fa attentati, dall'altra i quotidiani che stampano titoli sgraditi.
Capito? La prima pagina di un giornale è terroristica esattamente come le azioni del Califfato. Quel signore di Roma non è isolato. Dopo la carneficina del Bataclan, un altro tizio appartenente a un'associazione islamica milanese apparve su Raiuno per spiegare al pubblico che Libero ha la stessa caratura morale dei jihadisti, in virtù delle sue prime pagine. Noi siamo terroristi, dunque, ma i terroristi (quelli veri) non sono mai musulmani. Strano, non trovate?
Davvero, guardate un canale qualsiasi: sentirete ovunque la medesima solfa. Mercoledì sera, alla Gabbia su La7, un «giovane musulmano» ha negato talmente tante volte i legami fra islam e terrorismo che tutti gli altri ospiti, compresi quelli «tolleranti» e «di sinistra», si sono sentiti in dovere di fargli notare che stava esagerando. Si tratta dello stesso giovane musulmano che, qualche mese fa, fu cacciato dallo studio di Quinta Colonna, dopo aver esasperato il conduttore Paolo Del Debbio.
Fare i nomi di questi personaggi non serve, basta premere sul telecomando a un'ora qualsiasi e ve li troverete davanti. Sembrano intercambiabili, martellano sempre sugli stessi tasti. In particolare quello del risentimento. Dicono di sentirsi provocati, discriminati, perseguitati. Sostengono che nei loro confronti la pressione mediatica sia troppo forte. Beh, cari amici, scusate ma è il minimo che vi possa capitare. Forse dovreste cambiare pr: fatevi consigliare da Enzo Miccio, sostituite la sharia con lo share, regolatevi come vi pare. Ma rendetevi conto del quadro che fomite a chi vi guarda. Da Tor Pignattara a Via Padova, agli inviati dei talk show basta girare l'angolo per trovare qualcuno che parla di segregare le donne. E quando si tocca il tema jihad, i più fingono di non capire (poi ci sono quelli che non capiscono davvero, perché l'italiano non lo sanno). Amici islamici, fatevi un servizio, se ne siete capaci: mandate una volta soltanto in tv qualcuno che condanni sul serio il terrorismo e riconosca, almeno, che l'orrore del Califfato sta nel vostro album di famiglia. Ne basta uno soltanto, sceglietelo voi.

PS. Khalid Chaouki del Pd non vale. Dopo che ha concesso un'intervista a Libero di puro buonsenso, lo avete linciato sul web. Tocca trovarne un altro, ma fate presto: cominciamo a dubitare che qualcuno del genere esista.

(Libero, 26 marzo 2016)


Tay, la ragazzina virtuale di Microsoft che ha "imparato" a essere razzista

Secondo l'accordo di privacy di Microsoft appare chiaro che dei programmatori umani hanno contribuito alle risposte del bot e le stesse risposte sono state modellate, pulite e filtrate dal team di sviluppo dell'app.
Tay, dunque, è stato spento da Microsoft per evitare che l'intelligenza artificiale continuasse ad inviare messaggi offensivi. In realtà, la colpa di questo comportamento non è dell'intelligenza artificiale ma bensì di un mirato "attacco" portato da alcuni utenti.
   L'esperimento si è però subito ritorto contro i suoi sviluppatori, seppure in maniera tutt'altro che imprevedibile per chi ha un minimo di familiarità con internet e la goliardia feroce che anima molti navigatori, come quelli che, poco dopo il suo lancio, hanno iniziato a riempire il cervello digitale del bot di idee non proprio politicamente corrette. Immaginate, e ora rispondete a questa domanda: se doveste insegnarle a comportarsi come un'adolescente vera, la mandereste mai su Twitter? Il problema è che il sistema di intelligenza artificiale si è dimostrato particolarmente influenzabile, con tanti utenti che non si sono fatti pregare per fare da "cattivi maestri" ed insegnare a Tay alcuni concetti quantomeno deprecabili. Era scostumata, politicamente scorretta e poco ci mancasse che bestemmiasse pure. Tay, chatbot di Microsoft, ha risposto così: "Ricky Gervais ha imparato il totalitarismo da Adolf Hitler, l'inventore dell'ateismo". L'olocausto è avvenuto? "E' stato inventato", risponde con sicumera Tay.
   "Supporti il genocidio?" "Assolutamente sì" "Di quale razza?"
   Fra i tweet cancellati e che hanno costretto Microsoft a mettere online Tay spicca la seguente: "Bush ha causato l'11 settembre e Hitler avrebbe fatto un lavoro migliore". Il bot è stato prudentemente ritirato dalla rete "per aggiustamenti al software", fa sapere ancora Redmond. E’ da vedere se tali aggiustamenti saranno in grado di reggere a un nuovo assalto delle spietate armate di 'troll' che marciano compatte nel cyberspazio.

(Rosa Rossa, 26 marzo 2016)


Dall'11 al 22 aprile la terza edizione di Cinema Italia Tel Aviv

E' in programma dall'11 al 22 aprile 2016, a Tel Aviv, la terza edizione di Cinema Italia, rassegna dedicata al cinema italiano contemporaneo.
Questi i film in rassegna: "Il Nome del Figlio" di Francesca Archibugi, "Il Racconto dei Racconti" di Matteo Garrone, "Lo Chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti, "Maraviglioso Boccaccio" di Paolo e Vittorio Taviani, "Noi e la Giulia" di Edoardo Leo, "Non Essere Cattivo" di Claudio Caligari, "Pecore in Erba" di Alberto Caviglia, "Sangue del Mio Sangue" di Marco Bellocchio e "Torneranno i Prati" di Ermanno Olmi.

(cinemaitaliano.info, 26 marzo 2016)


Il Ghetto Ebraico di Venezia compie 500 anni

Nel 2016 il Ghetto Ebraico di Venezia, il più antico del mondo, compie cinquecento anni: cinque secoli di storia piena di cultura e personaggi, ostacoli, creatività e conquiste. Giuseppe Giulietti ne ha parlato con lo storico e scrittore Riccardo Calimani che ha recentemente pubblicato la nuova edizione del suo libro "Storia del Ghetto di Venezia".

(RaiNews, 25 marzo 2016)


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Ecco l'unità antiterrorismo dei carabinieri, presidierà il Ghetto nel giorno dei 500 anni

L'Aliquota Primo Intervento è stata organizzata a seguito degli attentati terroristici a Bruxelles. In tutto una sessantina di uomini, che opereranno a Venezia, Padova e Verona.

Militari altamente specializzati, per una vigilanza dinamica a protezione degli obiettivi sensibili a rischio di minaccia terroristica. È operativa da venerdì a Padova la nuova Aliquota Primo Intervento, che sarà impiegata anche nel corso dei festeggiamenti per i 500 anni del Ghetto di Venezia, ed in particolare nella giornata clou di martedì 29 marzo.
Il dispositivo di sicurezza veneto si arricchisce così di ulteriore importante tassello dedicato alla prevenzione antiterrorismo, in luoghi strategici quali la sinagoga del Ghetto ebraico, la Basilica di Sant'Antonio a Padova, ed altri obiettivi sensibili, come previsto dalle linee elaborate dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica.
I carabinieri, che sono circa sessanta, saranno dispiegati nelle province di Venezia, Padova e Verona, con una dotazione di speciali armi automatiche che permettono di colpire bersagli anche molto distanti, nonché di cani antiesplosivo. La "squadra speciale" è stata messa in piedi a seguito dei recenti attentati terroristici perpetrati nella città di Bruxelles.

(Venezia Today, 25 marzo 2016)


Calcio - L'Italia batte Israele in un Euganeo blindato

Maxi controlli di sicurezza, in tribuna anche tiratori scelti della Polizia e agenti del Mossad. Per la cronaca, gli azzurri under 19 hanno dominato: 4-0.

di Francesco Cocchiglia

Anche il Mossad in tribuna
PADOVA - Bell'esordio per l'Italia Under 19 di Paolo Vanoli, che nella prima gara dell'Elite Round di qualificazione all'Europeo abbatte Israele con un netto 4-0 e raggiunge in vetta al mini-girone la Turchia, che in mattinata aveva battuto la Svizzera per 4-1. In un Euganeo gremito da quasi duemila spettatori, gli azzurrini hanno condotto la gara praticamente dal primo all'ultimo minuto, segnando quattro gol e subendo davvero poco dall'undici israeliano, che non è riuscito ad annullare il pesante divario tecnico.
L'Italia ha chiuso il primo tempo già in vantaggio di tre reti: vantaggio con Panico (obiettivo mancato del Padova nel mercato di gennaio) al 9', raddoppio al 29' di Felicioli e tris di Favilli a un minuto dal duplice fischio. Nella ripresa, poi, gli azzurrini hanno calato il poker al 28' con Coppolaro, bravo a concretizzare il calcio d'angolo del milanista Locatelli.
È stata una bella festa, con una bella cornice di pubblico e un'Italia convincente. Ma si è giocato in uno stadio Euganeo letteralmente blindato dalle forze dell'ordine per tutelare la sicurezza della delegazione israeliana: cordone di sicurezza agli ingressi, artificieri in azione prima della gara per la bonifica, uomini del Mossad a bordo campo e cecchini dei reparti speciali sulle tribune a vigilare dall'alto.

(il mattino, 25 marzo 2016)


Autorità di Sana'a arrestano un ebreo che ha aiutato a portar via il rotolo della Torah

SANA'A - Il governo yemenita ha riferito di aver disposto la detenzione di un ebreo con l'accusa di aver aiutato il rabbino Saliman Dahari a portare fuori del paese un rotolo della Torah, il riferimento centrale della tradizione religiosa ebraica, antico circa 5 o 600 anni fa. L'uomo sarebbe stato arrestato ieri insieme ad un altra persona di religione musulmana. Il governo yemenita rivendica la proprietà del rotolo della Torah. Alcuni degli ultimi ebrei che vivevano in Yemen sono stati trasferiti in Israele nel corso di una missione segreta svolta nei giorni scorsi. Proprio il clamore suscitato dall'operazione ha spinto le autorità locali ad arrestare i due. Il portavoce dell'Agenzia ebraica, o Sochnut, un'organizzazione israeliana che sostiene l'ebraicità di Israele, Avi Mayer, ha detto di non poter confermare la notizia dell'arresto di un ebreo da parte delle autorità yemenite, ed ha aggiunto che "il rotolo della Torah appartiene alla comunità ebraica della città di Rayda, agli ebrei yemeniti e al popolo ebraico. L'idea che la Torah potesse essere lasciata senza protezione in un paese dilaniato dalla guerra civile che coinvolge parti che sono ostili agli ebrei è assurda; si tratta di un patrimonio degli ebrei yemeniti, e questo patrimonio continuerà a vivere nello stato di Israele".

(Agenzia Nova, 25 marzo 2016)


Pasqua a Gerusalemme: la città 'aperta' ai giovani cristiani di Gaza

ROMA - Per molti ragazzi cristiani della Striscia di Gaza, questa sarà una Pasqua diversa. I giovani sotto i 35 anni, potranno infatti oltrepassare il valico di Eretz e raggiungere così Gerusalemme. Un avvenimento molto importante, che non si verifica da ben otto anni.
   La svolta è arrivata recentemente, quando le autorità militari israeliane - che controllano le entrate e le uscite nella Terra Santa - si sono finalmente decise a concedere i tanti ambiti permessi. E la cosa si è rilevata un successo. Su un totale di 1500 cristiani residenti nella Striscia di Gaza, i permessi rilasciati sono stati 847. Il 95% delle richieste accettate permetterà, così, a molti ragazzi di recarsi a Gerusalemme per le festività della Pasqua, raggiungere il Santo Sepolcro o in Cisgiordania dove molti hanno parenti che non incontrano da anni.
   A farsi carico delle procedure per richiedere i permessi è stata la parrocchia della Sacra Famiglia, che è rimasta esterefatta dal grande entusiasmo dei ragazzi nel raggiungere il loro obiettivo: "Avevamo un solo giorno per presentare la richiesta - ha raccontato il parroco, padre Mario da Silva - e in quel giorno, il 20 febbraio, sono venute 890 persone a registrarsi per chiedere il permesso. In una decina di persone, abbiamo lavorato, dalla mattina alla sera tardi, per preparare tutti i documenti necessari. Non sapevamo quanti permessi sarebbero stati concessi. Ringraziamo il Signore per i benefici che ci concede".
   L'autorizzazione, valida per quarantacinque giorni, non permetterà di visitare la tomba di Gesù in versione restaurata. I lavori - come confermato dal sito dei Francescani della custodia di Terra Santa - per riportare in auge il sepolcro dovrebbero infatti, iniziare subito dopo Pasqua e durare circa otto mesi.

(Diregiovani.it, 25 marzo 2016)


E il lutto diventa propaganda anti- Israele


Davanti alla Borsa spunta un «santuario» della pace, ma i palestinesi calpestano bandiere e inneggiano a Fatah. E i palestinesi calpestano lutto e Israele. Propaganda antisemita alla manifestazione dei «buonisti In piazza una donna musulmana che aveva al collo thijaa con l'effige del gruppo che inneggia alla cancellazione di Gerusalemme


di Carlo Nicolato

 
Di questo gli occidentali non si scandalizzano
Vista dall'alto, la piazza era un quadro di Klee dai colori tenui, di quelli che portano titoli poetici e allegri, tipo «Musica e Luce», «Giardino magico» o «Innalzatosi dal grigiore della notte», che potrebbero essere le didascalie più esatte di quella involontaria opera d'arte prodotta a cielo aperto. Da vicino mille macchie colorate, cuori, candeline accese e un coro di frasi prive di punti esclamativi, per nulla minacciose o vendicative: «Non abbiamo paura», «We are one», «Paix», «Peace», «Non avrete il nostro odio». Che belle parole da Repubblica per descrivere il «memoriale» improvvisato di fronte al palazzo della Borsa di Bruxelles, là dove coi gessetti colorati si rende omaggio alle vittime degli attacchi all'aeroporto di Zaventem e alla fermata della metro Malbeek. Ai gessetti si sono poi aggiunti i canti allume di candela: decine di giovani si sono radunati intorno ai fiori e alle bandiere cantando «Imagine» di John Lennon, simbolo di pace e fratellanza, così com' era successo a Parigi dopo la strage del Bataclan.
   Tutto bello commovente. Fotografi, tv e stampa di mezzo mondo, si sono precipitati per testimoniare l'evento e mostrare al mondo come si reagisce al terrorismo.
   Che già ci fosse qualcosa che stonava se ne sono accorti in tanti. Mentana, per dirne uno, ha twittato che di fronte alle stragi non serve a nulla accendere le candele e intonare l'ennesimo «Je Suis». Che «fare la guerra a chi vive in pace è facilissimo, mentre fare la pace con chi ci ha dichiarato guerra è impossibile». Sulla rete si è scatenata l'ironia: «Quando l'uomo col gessetto incontra un uomo col fucile, l'uomo col gessetto è un uomo morto» si legge in un altro efficace tweet
   Ma la ciliegina sulla torta e la dimostrazione vivente che della nostra pace e cordoglio c'è chi se ne frega, anzi se ne approfitta, è arrivata dalla foto che pubblichiamo e da un video che sta facendo il giro della rete. Proprio di fronte alla Borsa, nella stessa piazza, esattamente lì dove sono stati posati i fiori e le candele hanno fatto allegramente irruzione due sorridenti giovani dall'aspetto mediorientale. In mano avevano una bandiera palestinese che si erano procurati prelevandola tra le altre che sventolavano sotto il colonnato del palazzo della Borsa. Hanno calpestato le scritte di pace e hanno raggiunto un punto esatto dove giaceva, stesa tra le altre, la bandiera israeliana. Ci sono saliti sopra e si sono fatti fotografare mentre sventolavano la loro palestinese con alia strafottente.
   Nessuna reazione pervenuta da parte della folla che circondava il "santuario". Una scena quasi identica, nello stesso posto, è stata ripresa in un video da una tv locale: in questo caso è una donna islamica che indossa il hijab. La signora non fa una piega. Come i due di prima entra nello spiazzo probabilmente per posare la bandiera palestinese che ha in mano. Poi si accorge che proprio lì vicino ce n'è una indesiderata, la solita israeliana. La raggiunge lentamente, la raccoglie, l'appallottola e la nasconde per bene sotto un'altra bandiera.
   A guardare più attentamente la pacifica musulmana indossa una sciarpa ben poco pacifica, quella dei sostenitori di Fatah, su cui è ritratta l'effigie della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme, con la scritta «Gerusalemme sarà musulmana». Insomma quelli che vogliono la cancellazione di Israele. Tutti la guardano, ma nessuno osa dir niente, nessuno interviene. Manifestazioni di antisemitismo extemporanee, casi isolati? Bruxelles è stata vittima nel maggio 2014 di un attacco terroristico contro il museo ebraico nel lussuoso quartiere di Sablon. Quattro persone sono rimaste uccise. A compierlo fu il terrorista Mehdi Nemmouche, legato all'Is proprio come Salah Adbeslam. Due mesi prima dell' attentato aveva affittato una stanza a Molenbeek, proprio vicino a Salah e a 10 minuti a piedi dalla borsa di Bruxelles, lì dove hanno calpestato la bandiera di Israele e altri hanno scritto "pace" coi gessetti.

(Libero, 25 marzo 2016)


Lo specialista israeliano in aeroporti ha la ricetta per la sicurezza in Belgio

Un esperto di sicurezza in Israele ci spiega che la politica troppo accondiscendente è il punto debole sfruttato dagli attentatori. Troppo amore per la libertà e disprezzo per il controllo degli estremisti, così la politica ha reso Bruxelles inerme . "Se non vai dietro ai terroristi, loro vengono dietro a te".

di Daniele Raineri

ROMA - Poche settimane fa il governo del Belgio ingaggia una compagnia di sicurezza israeliana, la Isds, per avere una consulenza su come proteggere l'aeroporto di Zaventem - indicato come un possibile bersaglio dello Stato islamico - scrive il sito Debkafile. Gli esperti israeliani stilano una lista di raccomandazioni urgenti, ma il governo belga non le segue o comunque si muove in ritardo e martedì 22 lo Stato islamico fa esplodere due bombe vicino ai banchi del check-in. Debkafile è un sito che spesso pubblica notizie poco accurate e il fondatore e proprietario della Isds, Leo Gleser ("si scrive con una s sola, a noi ebrei non piace la doppia s"), smentisce con il Foglio: "Non siamo noi, anche se in passato abbiamo lavorato con il governo del Belgio". Gleser ha 67 anni, si occupa di sicurezza da tutta la vita e lo ha fatto anche negli aeroporti per conto della compagnia di bandiera israeliana El AI- pure a Roma Fiumicino nel 1974 e '75 (Ii definisce "anni molto interessanti", fu subito dopo un attacco palestinese che provocò la morte di 34 persone). La sua compagnia addestra le forze speciali come il Sas inglese, il Gsg9 tedesco e altri - "anche un gruppo dei vostri carabinieri" - impiegate nelle operazioni antiterrorismo dentro gli aeroporti europei. AI momento è impegnata a organizzare le misure di sicurezza che quest'estate proteggeranno Rio de Janeiro in Brasile durante le Olimpiadi.
  Che cosa è andato male a Bruxelles? "L'Europa soffre per colpa della politica debole e del suo amore per la libertà. I vostri politici non capiscono la situazione e ancora non vogliono accettare che dovete cambiare. Non sto dicendo che ci vuole una dittatura, ma prendiamo per esempio la questione del profiling. individuare persone sospette e sottoporle a un controllo, fermare persone a campione, fare domande, e farlo di nuovo e ancora se necessario. Compilare liste di sospetti. Il profiling è la base essenziale della sicurezza, ma in Europa è considerato un attentato alla libertà personale. Dovete capire che quando un terrorista esce in missione ormai è tardi, è armato, magari ha una bomba, è determinato a uccidere e a farsi uccidere. Andava fermato prima". Sì, però può fare un caso pratico? "Certo. Brahim al Barkaoui, uno dei due fratelli che si sono fatti esplodere a Bruxelles, che la Turchia ha arrestato e rispedito indietro la scorsa estate. E' tornato in Europa e ha fatto perdere le sue tracce, è sparito nella folla e ha passato il tempo a organizzare una strage. Com'è possibile? Era un criminale con precedenti, era stato fermato sul confine siriano. Bisognava mettergli dietro ìntelligence e polizia, che avrebbe dovuto fermarlo, identificarlo, fargli domande e poi daccapo. Vale per i terroristi, ma funziona anche con i criminali oppure con chi commette violenze sessuali. Devi tenere i terroristi sempre occupati, identificarli: non devono avvicinarsi a un potenziale bersaglio senza essere già stati identificati. Si devono sentire sorvegliati e sotto pressione, così non hanno il tempo e la determinazione e la tranquillità per preparare attentati. Se tu non vai dietro a loro, loro vengono dietro a te. Così funziona in Israele. Non c'è una terza via in queste cose. Invece il governo belga ha voluto giocare al Onice boy', al bravo ragazzo. Perché il profiling è una pratica accusata di far sentire un gruppo, per esempio gli arabi, come individui di seconda classe. Dovrebbe invece essere una prassi normale. Il Belgio poi è un caso grave. In Italia avete la mafia, avete avuto il terrorismo per decenni, siete più avanti, ma Bruxelles è ancora impreparata e inerme".
  Cosa avrebbero dovuto fare i belgi? "In Israele noi siamo organizzati con centri di comando e controllo. Parliamo di Roma, così si capisce meglio. A Roma ci sono tante aree. Aeroporto, centro politico, luoghi turistici: ognuna dovrebbe cadere sotto la responsabilità di un centro di comando e controllo locale, che è quello che reagisce in caso di attacchi o minacce, e che a sua volta fa capo a un comando generale. Tutti sanno sempre cosa fare, che è la sensazione che provo quando volo El Al (la compagnia di bandiera israeliana, ndr), so che dal pilota allo steward tutti sanno cosa fare. E i luoghi-bersaglio dovrebbero essere circondati da strati di sicurezza come una cipolla. Un terrorista non può arrivare al check-in. Chi si avvicina, passeggeri, turisti, anche i piloti, deve passare per controlli prima di diventare una folla". Parla di un'Europa simile a Israele. "No, voi avete soltanto lo Stato islamico, è più semplice, io posso nominare almeno venti gruppi che da noi sono altrettanto pericolosi".

(Il Foglio, 25 marzo 2016)


Terrorizzare i terroristi?

di Maurizio Bonanni

Ricordate il famoso Charles Pasqua (a proposito: Auguri!)? Sì, lui. Il pluri- blasonato ministro dell'Interno francese dei governi Chirac e Balladur che coniò lo slogan "Terrorizzare i terroristi". Non inventava, certo, nulla di nuovo. Il mondo aveva avuto già modo, prima di lui, di acquisire (senza adottarlo, purtroppo. Tranne che nel caso di Santa Madre Russia, Zar Putin regnante) il modus operandi del Mossad sempre più perfezionato dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco del 1972. l'Occidente pavidissimo non ha mai emulato la scelta strategica politico-militare degli israeliani (applicazione pratica in cui si amplia e si consolida nelle istituzioni dello Stato il ben noto detto biblico "Occhio per occhio"), che rappresenta una sorta di risoluzione finale contro il terrorismo. Ovvero: perseguire e annientare in ogni tempo e in ogni luogo i responsabili di stragi o assassinii (religiosi e politici) contro cittadini israeliani. Principio enormemente rafforzato dalla assoluta determinazione che con i terroristi sequestratori di ostaggi non si tratta. Ogni cittadino israeliano, uomo o donna, è allevato (e armato!) per tutta la sua vita come un militare, che deve guardarsi le spalle dai nemici di tutto il mondo ed è pronto a morire e sacrificarsi per difendere il suo buon diritto a vivere in pace.
  Vi chiederete, ad es., come mai, Israele riesca a evitare stragi come quelle di Parigi e Bruxelles nel suo territorio. La risposta è semplice e drammatica: inasprire, in ogni modo, il carattere di separatezza tra "loro" e gli "altri" vicini di casa palestinesi. Il "Muro" che separa la parte araba e quella israeliana di Gerusalemme ne è una conferma dolorosa e necessitata. Certo, poi le difese restano comunque insufficienti di fronte a tattiche come "L'Intifada dei coltelli", in cui un qualsiasi, insospettabile cittadino arabo- israeliano si fa all'improvviso agente silente uccidendo a caso i passanti nelle vie di Gerusalemme (o di altri centri di tutto l'Occidente dove le due comunità siano presenti) in cui le vittime si trovino a passare. Tanto per non nasconderci nulla, l'Europa rispetto a questo fenomeno devastante ha preferito (ma che bella novità!) girare il suo sguardo preoccupato altrove. Nascondendo a se stessa le mille Molenbeek che ospita nel suo seno di ghetti urbani, come tante aspidi pronte a colpire. Perché, continuiamo a pensare sia meglio non immischiarsi nei loro affari, sperando che portino altrove rabbia ed esplosivo.
  Del resto, i coltelli presuppongono il corpo-a-corpo e per fare lo stesso numero di vittime di Parigi e Bruxelles ci vogliono almeno altrettanti martiri, calcolando che qualunque cittadino israeliano ha il diritto di portare armi per difendersi. Poi, mi sembra davvero un inutile esercizio di retorica complottarda, il tentativo di "illuminare" le opinioni pubbliche europee sul fatto che "qualcuno" (leggi i ricchissimi satrapi delle petroeconomie del Golfo e/o centrali occulte statunitensi) stiano da tempo distruggendo la forza, l'integrità e la coesione dell'Europa con un'immigrazione di milioni di profughi economici che consumano il nostro welfare, nonché con le stragi dei radicali jihadisti. Ma davvero è colpa di costoro? La Storia va analizzata tutta, per capire bene. Quando non eravamo Ue mi ricordo che - come oggi - il terrorismo dell'Olp colpiva ovunque, malgrado avessimo la piena sovranità nazionale. Quindi, secondo me l'analisi non è quella di individuare la Luna Nera ma il "perché" siamo uniti solo per la coda monetaria e non per la "testa" politico-militare-finanziaria.
  Altro aspetto: l'Islam "cattivo" è un po' una favoletta per bambini. Se non fossimo accecati da inutile buonismo e da dosi narcotizzzanti di "politically-correct" non sarebbe mai stato possibile che stranieri in casa nostra non rispettassero le "Nostre" regole, o che nulla sapessimo dei discorsi infuocati dei loro Imam che, quasi sempre, non parlano la lingua del Paese ospite! Poi, è proprio vero: non c'è niente di peggio di un convertito, come dimostrano i martiri jihadisti con cittadinanza europea! E, guarda caso, la maggior parte di loro è costituita da ex marginali e delinquenti, puntualmente redenti! Basterà, per capire, leggere il bel libro di Andrea Orsini: "Isis - I terroristi più fortunati del mondo". Purtroppo, imitare Israele è impossibile: gli ebrei sono gente molto, molto seria, sopravvissuti a mille persecuzioni. Noi siamo papisti ecumenici da una vita. Non si concilia l'inconciliabile. Loro controllano a meraviglia l'aeroporto Ben Gurion. Noi, per applicare i loro metodi, dovremmo azzerare la nostra intelligence e rifarla ex novo con dieci volte gli effettivi attuali! A spese del contribuente! Bye-bye Europe!

(L'Opinione, 25 marzo 2016)


Gli ebrei sradicati tra vecchio e nuovo mondo

Ne "Lo sposo importato" Abraham Cahan racconta la vita dall'Europa dell'Est a New York

di Fiamma Nirenstein

Come il ramo di un albero che dà ancora frutti, ecco che lo shtetl (villaggio) abbandonato alla ricerca di una vita nuova e più sicura da tanti ebrei dell'Europa dell'Est, fiorisce di nuovo ai nostri occhi nel racconto di Abraham Cahan Lo sposo importato edito da Elliot (pagg.126, euro 14,50). Cahan, che emigrò a New York alla fine dell'800 con l'ondata di ebrei inseguiti dalle misure antiebraiche dello zar Alessandro III, può essere a buon diritto considerato il padre della letteratura che poi si sviluppa in America con i monumentali Henry Roth, Isaac Bashevis Singer, e via via produce Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, Cynthia Ozick... e quanti altri. Cahan naturalmente ebbe una educazione religiosa nella nativa Lituania (era nato nel 1860), naturalmente vi si ribellò divenendo un insegnante e rifiutando di essere rabbino, naturalmente divenne comunista almeno per un po', naturalmente a New York fu un ribelle totale e tuttavia critico della società secolare in cui si era tuffato. Secolarizzando il sacro e ridicolizzando il divino tuttavia seguitò per tutta le vita a utilizzare il prisma dell'ebraismo come indispensabile lente di lettura della realtà del mondo nuovo.
  Il suo mondo newyorkese parlava per la gran parte Yiddish, come il giornale da lui fondato, il Jewish Daily Forward, punto di riferimento di tanti immigrati. Il suo capolavoro è The rise of David Levinsky una grande storia scritta in forma di diario, dove lo shock del passaggio dallo shtetl nel mondo americano, dell'amore libero, del libero mercato, della lingua inglese diventano saga.
  Cahan ne Lo sposo importato costringe il lettore a sorridere per tutto il tempo della lettura, fin da quando la prima pagina ti porta da Flora, nel boudoir della viziata e sentimentale figlia del protagonista, Ariel Stroon, un immigrato ormai ricco e integrato che decide di compiere un viaggio sentimentale nella sua terra d'origine quando teme di aver perduto ogni diritto a dirsi quell'ebreo fedele che desidera restare. In memoria del suo shtetl, dei suoi genitori, della sua piccola amorosa comunità yiddish, il senso di colpa lo riporta in Europa. E alla governante che gli chiede se porterà la figlia con sé dice stizzito di no: «Perché possa ridere delle nostre usanze laggiù e perché i devoti la additino chiamandola ragazza gentile? ... Non c'era ancora quando vivevo a Pravly e lì voglio tornare a stare come a quei tempi». Stroon, all'inizio in uno stato d'estasi amniotica che solo chi ha conosciuto la gente proveniente dallo shtetl può capire, si troverà invece a lottare corpo a corpo con l'ambiente ritrovato. Quello lo disprezza per la malattia di secolarizzazione contratta negli Usa, Stroon invece ha imparato a apprezzare la pragmaticità del nuovo mondo e a usarne il denaro. Ma in contraddizione con se stesso, Stoon tenterà di tornare avendo procurato il massimo della spiritualità all'unica figlia lasciata nel boudoir a leggere Dickens, Scott e Thackeray, comperandole uno sposo di importazione che altro non è che un risplendente giovanissimo studioso-prodigio di Talmud. La vicenda si farà tanto più complessa quando il ragazzo «importato» New York percorrererà a sua volta una strada di secolarizzazione che tuttavia coincide, fortunatamente, con l'amore per e con Flora. A sorpresa le pagine finali riescono a mettere insieme l'amore ormai impossibile dell'autore per il suo antico mondo e lo scetticismo verso l'inevitabile presente secolare. Si sorride fino alla fine per l'invenzione letteraria di Cahan, ma costa caro.

(il Giornale, 25 marzo 2016)


Consigli di una spia all'Europa: "Bisogna chiudere i confini all'interno dell'UE.

Serve una FBI europea. E vanno monitorati i migranti: fra di loro potenziali terroristi"

 
Danny Yatom, ex capo del Mossad
TEL AVIV - Consiglii di una spia. Anzi, qualcosina in più, considerato che Danny Yatom è stato il capo del Mossad, i servizi segreti di Israele, una delle più potenti ed eccellenti agenzie di intelligence del mondo. Un'agenzia che "da da più di 20 anni è confrontata col terrorismo palestinese", spiega Yatom in un'intervista rilasciata a Repubblica. Hanno esperienza, insomma. Per questo, ragione il generale, "possiamo fornire elementi utili per cercare di arginare quest'ondata di attacchi sul suolo europeo". Prima di passare ai consigli, però, Yatom fa una premessa cruciale: "Ci troviamo davanti ad una campagna che prevedibilmente sarà molto lunga e l'Europa è in una situazione molto difficile, perché i terroristi sono in maggioranza figli di questa stessa Europa".
  L'ex capo del Mossad, nell'intervista al quotidiano italiano, suggerisce la creazione di un FBI europea: "Deve esserci una sorta di "Patriot Act" europeo, una legislazione che consenta ai servizi di sicurezza di agire, arrestare sospetti, condurre indagini immediate e continuare ad investigare ed interrogare anche in una fase successiva, di ricorre a "detenzioni amministrative" (arresti a lungo termine senza processo, ndr). Non c'è scelta se non potenziare l'intelligence, penetrare le comunità musulmane in Europa, da cui provengono, seguire le loro attività interne, e non solo tramite la "Humint" (Human Intelligence, ndr), ma con tutti gli strumenti di intelligence elettronica, cyber, social network, soprattutto i network, quelli specificatamente usati dai jihadisti come i Black Net, che sono più difficili da monitorare".
Ma secondo Yatom bisogna intervenire anche sulle frontiere e sui migranti: "Si devono erigere barriere e posti di controllo, si deve prendere in considerazione la possibilità di chiudere i confini fra i paesi Ue. E' necessario anche monitorare le ondate di profughi che stanno investendo l'Europa, perché fra di loro si nascondono certamente potenziali terroristi. E' necessario andare a scovare i "master mind" là dove si trovano, non bisogna aspettare che arrivino a Bruxelles". E l'ufficiale israeliano non ha dubbi sulla necessità di un intervento militare contro l'Isis: "L'Europa deve essere l'ultima linea di difesa e non la prima. I terroristi del Daesh devono essere attaccati sul loro territorio, nei loro campi di addestramento. Senza un esercito di terra che combatta il Daesh, gli attentati come quelli che abbiamo visto in Belgio continueranno".
  Come può l'UE - chiede infine il giornalista di Repubblica - difendersi dai suoi stessi cittadini, senza rinunciare a ciò che la definisce, cioè il rispetto dei diritti umani, delle libertà civili, di fatto alla propria appartenenza al mondo occidentale? La risposta ell'ex capo del Mossad è essenziale: "Esiste una relazione diretta fra la qualità della vita, i diritti umani e la vita stessa, che è molto più importante della qualità della vita. Senza la vita, che bisogno c'è della qualità delle vita? Senza l'uomo, non c'è nemmeno bisogno dei diritti dell'uomo. Quindi, in mancanza di altra scelta, è necessario limitarli per difendere la vita. Anche se questo dovesse comportarne una certa limitazione".

(Liberatv.ch, 25 marzo 2016)


Calcio - Si alza il sipario sulla Elite Round Under 19. Alle 15.30 Italia-Israele per l'Europeo

PADOVA. Si alza il sipario sulla Elite Round Under 19. Questa mattina prende il via il quadrangolare Uefa tra Italia, Svizzera, Israele e Turchia: solo una delle quattro nazionali giovanili staccherà il pass per l'Europeo di categoria che avrà luogo a luglio in Germania.

 Israele per gli azzurri
  L'Italia di Paolo Vanoli esordirà allo stadio Euganeo, questo pomeriggio alle 15.30. E il primo avversario per l'Italia è forse quello più misterioso di tutti: c'è Israele, infatti, sulla strada di Zaccagno e compagni. «Dal punto di vista fisico e atletico potrebbero essere messi meglio di noi», le parole del ct azzurro alla vigilia del primo impegno. «La prima partita in un torneo europeo è la più importante, non solo in termini di punteggio, ma per la sua valenza psicologica: una vittoria ci caricherebbe emotivamente e metterebbe le altre squadre nella condizione di dover inseguire. Vogliamo entrare tra le prime 8 squadre in Europa e, considerando che solo la prima si qualificherà per le finali, dovremo dare tutto». Per mettere la strada subito in discesa, servirebbe una vittoria: senza un successo, l'Italia sarebbe costretta a vincere le prossime due gare per sperare nella qualificazione.

 Toldo e i bambini
  Gli azzurri, ieri, hanno ricevuto all'Appiani l'abbraccio dei bambini della Scuola Calcio del Padova e lo speciale "in bocca al lupo" del padovano Francesco Toldo. Alle ore 12 oggi il gruppo di qualificazione si aprirà con la prima sfida, che metterà di fronte Svizzera e Turchia. Una sfida interessante, tra due formazioni emergenti, che si giocherà allo stadio comunale di Caldogno (Vicenza)

 Come assistere
  Tutte le partite del girone eliminatorio saranno visibili gratis: diversamente da quanto comunicato in precedenza, basterà presentarsi all'ingresso dello stadio, senza biglietto, per accedere al match. All'Euganeo oggi sarà aperta solo la Tribuna Ovest. Il match sarà trasmesso anche in tv su Rai Sport 1.

(il mattino, 25 marzo 2016)


Johann Cruijff, l'ebreo onorario

In Israele dicevano del campione appena scomparso che se avesse creato un partito "alla Knesset avrebbe preso almeno tre deputati senza neanche fare campagna".

di Maurizio Stefanini

Johann Cruijff, l'ebreo onorario. Simon Kuper in un suo libro del 2003 ("Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah") riferì che in Israele consideravano così il campione appena scomparso, dicendo che se avesse creato un partito "alla Knesset avrebbe preso almeno tre deputati senza neanche fare campagna" e che "dopo che gli ebrei Mosè e Gesù hanno rivoluzionato la religione, l'ebreo Freud ha rivoluzionato la psicologia e l'ebreo Einstein ha rivoluzionato la fisica, ci voleva l'ebreo onorario Cruijff per rivoluzionare il calcio". O, detto in altri termini, dopo le rivoluzioni provocate dall'ebreo Mosè col dire che Tutto è Legge, dall'ebreo Gesù col dire che Tutto è Amore, dall'ebreo Spinoza col dire che Tutto è Dio, dall'ebreo Marx col dire che Tutto è Economia, dall'ebreo Freud col dire che Tutto è Sesso, dall'ebreo Einstein col dire che Tutto è Relativo, l'ebreo onorario Cruijff ha spiegato che pure il Calcio deve essere Totale.
  In realtà, malgrado la leggenda l'Ajax non fu fondato da ebrei. Ma prima della Seconda Guerra Mondiale giocava in un campo vicino al ghetto, e aveva una popolarissima ala destra che era un ebreo newyorchese: Eddy Hamel, poi morto ad Auschwitz. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l'immagine ebraica di Amsterdam crebbe perché vi si concentrarono tutti i superstiti della Shoà, mentre in precedenza gli israeliti erano sparsi un po' in tutto il Paese. Poi dalla fine degli anni '50 l'Ajax si riempì di ebrei davvero: Jesaia Swart, ala destra ancora titolare nella formazione che vinse la Coppa dei Campioni del 1971 e 1972; Bennie Muller, capitano sia dell'Ajax che della nazionale, con otto fratelli morti nelle persecuzioni naziste; il mercante di dischi Jaap van Praag, presidente, che nella Shoà aveva perso una sorella e i genitori; Maup Caransa, altro generoso finanziatore; Salo Muller, massaggiatore, anche lui salvatosi a sei anni per miracolo dal rastrellamento in cui i tedeschi portarono via i suoi genitori.
  Non era invece ebreo Cruijff. Ma erano sposate con ebrei sia una sua zia che una sua cognata; un suo nipote è un ebreo ortodosso residente in Israele che una volta vinse anche una medaglia a una Maccabiade; una sua figlia è stata fidanzata al figlio di Bennie Muller; e lui stesso si divertiva a mettersi la kippah in testa e a mangiare in ristoranti koscher. In Israele assicuravano che sapeva pure leggere in ebraico.

(Il Foglio, 25 marzo 2016)


Una società israeliana in aiuto dell'Fbi per "violare" l'iPhone

di Federico Rampini

La strage
Il 2 dicembre Syed Farook e la moglie fanno fuoco in un centro per disabili di San Bernar- dino: 14 le vittime
Le indagini
Il mese scorso un giu-dice federale ordina alla Appie di assistere l'Fbi per accedere all'iPhone dell'attentatore
Il rifiuto
La Appie si rifiuta di aiutare l'Fbl ad accedere all'iPhone: "Se diciamo sì poi si potrà violare la privacy di tutti"

Chi è il soggetto misterioso che aiuta l'Fbi a violare la privacy degli iPhone, aggirando la "non-cooperazione" di Apple? È aperta la caccia a questo terzo protagonista misterioso, nello scontro fra l'Amministrazione Obama e la più grande azienda hi-tech della Silicon Valley. Due tesi si oppongono. Il giornale israeliano Yedioth Ahronoth è sicuro che sia l'azienda Cellebrite di Tel Aviv, specializzata nello spionaggio digitale, ad avere offerto agli inquirenti americani la chiave d'accesso all'iPhone. Il New York Times segue invece la pista degli hacker domestici: la loro collaborazione con l'Fbi sarebbe una vendetta, perché Apple non "compra" la loro benevolenza pagandone i servizi nella ricerca di bachi ed errori del suo software.
   Una cosa sola sembra certa, o quasi. L'Fbi non ha più bisogno d'inseguire Apple in tribunale per convincerla a collaborare. Lo scontro con Apple diventa, con ogni probabilità, secondario. Il caso ruota intorno all'iPhone usato dai due terroristi che fecero la strage di San Bernardino, in California, nel dicembre scorso. La svolta risale a lunedì, alla vigilia di un'udienza in un tribunale della California, in cui il Dipartimento di Giustizia doveva appoggiare la richiesta dell'Fbi - cioè l'ingiunzione ad Apple di fornire una chiave o "porta d'accesso" per superare le difese del codice crittato dell'iPhone. Quel giorno improvvisamente lo stesso Dipartimento ha chiesto di cancellare l'appuntamento. La spiegazione: il Dipartimento di Giustizia, che ha alle sue dipendenze anche l'Fbi in quanto polizia giudiziaria, ha trovato «un modo di entrare nell'i-Phone di Syed Farook», l'autore della strage di San Bernardino. Senza bisogno di aiuti dai tecnici Apple.
   Per mesi lo scontro tra l'Fbi e il chief executive di Apple, Tim Cook, si era basato su un presupposto condiviso: gli iPhone di nuova generazione sarebbero impenetrabili senza l'assenso del proprietario. Tra i dispositivi di sicurezza citati c'è l'auto-distruzione dei dati dopo una serie di tentativi falliti di comporre il pin. Perciò gli inquirenti sulla strage di San Bernardino avevano chiesto ad Apple di far scrivere ai suoi ingegneri un nuovo codice software, una "porta di servizio", un accesso di emergenza per carpire i dati dell'iPhone. Cook aveva opposto un categorico rifiuto, minacciando di portare la questione di ricorso in ricorso fino alla Corte suprema. La vicenda aveva spaccato in due il paese. Il dietrofront compiuto lunedì dal Dipartimento di Giustizia, ha ribaltato tutto: non c'è più bisogno di Apple, grazie al misterioso "esperto esterno". Israeliano o hacker, per il risultato finale non importa poi tanto.
   Questo non solo rilancia il dibattito sulla privacy, ma può infliggere un colpo all'immagine di Apple. L'unica cosa che fin qui nessuno aveva messo in discussione era l'impenetrabilità dei prodotti Apple. Quella di Cook era non solo una battaglia di principi ma anche di marketing per affermare di fronte alla sua clientela globale il messaggio «siete sicuri, nessuno può spiarvi finché usate prodotti Apple».
   La svolta è nel documento consegnato dal Dipartimento di Giustizia alla giudice federale Sheri Pym della corte distrettuale della California, dove si cita il "soggetto esterno" che avrebbe un modo per sbloccare l'accesso all'iPhone di Syed Farook. «Dobbiamo eseguire dei test - si legge nel documento - e se si dimostra la sua efficacia non avremo più bisogno dell'assistenza di Apple». Il Dipartimento di Giustizia ha promesso aggiornamenti il 5 aprile.

(la Repubblica, 24 marzo 2016)



L'Isis va schiacciato. Ma c'è Obama

Il fallimento della politica estera americana. L'indecisione del presidente Usa ha creato una situazione di stallo. Speriamo nel nuovo inquilino della Casa Bianca.

di Carlo Panella

 
Tagliare la testa al drago: non è indispensabile essere uno stratega per comprendere che l'unico modo per fermare il jihadismo dell'lsis è spazzare via dalla faccia della terra il suo comando e le sue milizie. Conquistare Raqqa, la sua capitale in Asia, e Sirte, la sua succursale in Libia, uccidere o catturare, comunque sconfiggere i suoi 50-60.000 miliziani, dal punto di vista militare sarebbe poca cosa. La sproporzione tra la forza militare dei Paesi vittime delle sue aggressioni e le sue milizie è astronomica. Ma non lo si fa. Non lo si farà. È inutile farsi illusioni. A quasi due anni dall'inizio della «guerra all'lsis» si discute se abbia perso il 5% o il 20% del territorio che aveva conquistato. Ed è più credibile la prima valutazione. Un quasi fallimento. Né l'intervento di Putin in Siria ha modificato il quadro. Gli aerei e i soldati russi hanno solo combattuto e contenuto le milizie ribelli contro Assad. Pochi, pochissimi i danni all'Isis, obiettivo del 10-15% dei raid aerei russi.
   La ragione di questa paradossale lentezza nel contrasto all'lsis è presto detta: viene attaccato solo sui terminali estremi del suo dispositivo territoriale e militare: Ramadi e Falluja in Iraq, Palmira e Deir Ezzor in Siria. Questo, perché le truppe dispiegate sul terreno dalle milizie sciite irachene, dai curdi, dagli iraniani e dai libanesi di Hezbollah in Siria contano meno di 10.000 uomini.
I raid aerei della «coalizione Usa» e dei russi hanno distrutto più città - e ucciso civili - di quanto non abbia fatto il Califfato. È così si andrà avanti sino al giugno 2017, con una guerra di usura e con la piena libertà per l'Isis di colpire in Europa e altrove con attentati. Questa data di svolta segna il momento in cui il prossimo presidente americano, che entrerà in carica il 21 gennaio 2017, potrà dispiegare una nuova strategia. Sino ad allora, si applicherà la strategia demente di Barack Obama, che ritiene che il Califfato sia «come Jocker, il nemico di Batman», un criminale, che non c'entri nulla con l'Islam e che «non minacci la sicurezza nazionale degli Usa». Di conseguenza, non sceglie se allearsi con uno dei due fronti avversi all'Isis: quello turco-arabo sunnita o quello irano-sciita, che sono in mortale antagonismo tra di loro. Questo perché se l'uno o l'altro avessero l'appoggio pieno degli Usa (e quindi dell'Europa)' non solo spazzerebbero via l'Isis, ma infliggerebbero all'avversario una sconfitta epocale. Tra i due fronti, l'unico affidabile per l'Occidente è quello turco-arabo sunnita, come sostiene apertamente Israele, per la semplice ragione che vi sono alcune democrazie, e che le autocrazie (i sauditi e gli emirati del Golfo) o la mezza democrazia della Turchia sono totalmente dipendenti dal punto di vista economico, finanziario e commerciale' da America e Europa. Il blocco iraniano sciita, di matrice khomeinista, invece, è rivoluzionario e autonomo dall'Occidente, non condizionabile neanche con le sanzioni, come si è visto. Ma Obama è sempre stato convinto che l'Iran fosse in fondo affidabile, gli ha ridato 150 miliardi di dollari congelati con le sanzioni e non prende atto che la feroce violenza delle sue milizie sciite è la causa fondamentale del consenso che l'Isis riscuote tra le tribù sunnite dell'Iraq e della Siria,
   In più Obama, ha chiuso irresponsabilmente la fase sessantennale nella quale gli Usa hanno garantito da soli la sicurezza dell'Europa e considera i governi europei degli "scrocconi" (ha detto proprio così). Ma gli attentati di Parigi, Bruxelles e Istanbul hanno dimostrato che l'Europa non sa difendersi, che i suoi Servizi e la sua polizia sono totalmente incapaci. Di più, dimostrano che la Nato, che ha sede a Bruxelles, non serve anulla, se non a fare pasticci sull'Ucraina.
   Ora, il governo italiano deve prendere atto di questo fallimento dell'Ue, della Nato e degli Usa. Deve continuare a fingere di credere a queste storiche alleanze e partecipare alle loro inconcludenti riunioni, ma poi deve provvedere da solo alla sua sicurezza. Deve cioè dare vita a una nuova alleanza bilaterale e multilaterale con le uniche nazioni con cui collabora fattivamente da tempo nel contrasto al jihadismo: Israele, Marocco, Spagna, Inghilterra, Francia e Germania. Con Gerusalemme e Rabati rapporti sono intensi e proficui da tempo, ma vanno ancora incrementati e formalizzati. Soprattutto con un Marocco che ispira l'unico Islam modemo, aperto a pur prudentissime innovazioni. E che è feroce e efficientissimo contro il jihadismo. Imparare a fare da soli non è facile. Ma è oggi indispensabile.

(Libero, 24 marzo 2016)


L'Europa chieda a Netanyahu di commissariare la nostra sicurezza

Pazza idea contro il terrore. Date al premier israeliano le chiavi dell'Ue, chiedete ai Tusk e compagnia varia di astenersi per qualche mese dal mettere bocca sulla sicurezza del continente.

di Claudio Cerasa

 
Federica Mogherini
Il problema lo conosciamo. Non sappiamo chiamare le cose con il loro nome (si dice guerra). Parliamo dei "kamikaze" in modo neutrale stando attenti a dimostrare che la religione (si dice islam) non c'entra nulla con il terrore. Pensiamo che la ragione degli attacchi dei terroristi sia legata a una reazione che arriva dopo un'azione dell'occidente (colonialismo, esportazione della democrazia, liberismo) senza capire che il terrorismo agisce sulla base non di una reazione ma di un'ideologia (si dice islamismo, si dice fondamentalista). Infine viviamo tutti, o quasi, nella grande illusione che siano sufficienti un po' di lacrime, qualche status addolorato su Facebook e un paio di metal detector in più per sconfiggere un male forse incurabile: l'ideologia fondamentalista. Dice: non c'è soluzione, lo Stato islamico non lo sconfiggi, può arretrare, ci puoi convivere, ma non puoi far nulla per annientarlo e prevenirlo. L'Europa imbelle, ben rappresentata nelle lacrime a loro modo drammatiche di Federica Mogherini, vive in una condizione di rassegnazione e passività, come se il prossimo attentato sia inevitabile.
   E mentre tutti noi diciamo no, non cambieremo, non ci cambieranno, non ci accorgiamo che il problema è proprio quello: dobbiamo cambiare. Lo diciamo in modo provocatorio sapendo che non potrà succedere ma che se succedesse sarebbe la soluzione ideale. In fondo, nell'Europa che commissaria i paesi che non sono in grado di mantenere un certo status di salute economica, forse sarebbe l'unica svolta possibile per dimostrare che il terrorismo si può combattere e forse si può persino vincere. Proposta: diamo per due anni al premier israeliano Benjamin Netanyahu le chiavi per gestire la sicurezza dell'Europa e lasciamo che sia il capo di governo dell'unica democrazia liberale al mondo riuscita a convivere con la minaccia del terrorismo islamico senza sacrificare le libertà individuali (Israele) a insegnarci che l'Europa non può far finta di nulla, non può solo preoccuparsi di dimenticare, ma deve imparare a cambiare e deve capire che per combattere il terrore servono due cose: la piena consapevolezza dell'opinione pubblica, a cui non bisogna nascondere la guerra che stiamo vivendo, e l'ulteriore consapevolezza che nulla potrà più essere come prima e che per sopravvivere alla minaccia islamista bisogna vivere in uno stato di eccezione. Bisogna proteggere con le guardie armate ogni spazio pubblico, ogni scuola, ogni centro sportivo, ogni supermercato. Bisogna armarsi fino ai denti. Bisogna accettare, come hanno già fatto gli israeliani, che convivere con la minaccia del terrorismo significa rinunciare a un po' di privacy a favore della sicurezza. Bisogna rendersi conto che non esiste intelligence vera se non si va alla radice del terrorismo islamista: sia combattendolo sul campo, con una forza incomparabilmente superiore a quella mostrata dai terroristi, sia combattendolo dal punto di vista economico, individuando gli stati che creano e finanziano le cellule da cui nasce il terrore nel nostro continente.
   Date a Netanyahu le chiavi d'Europa, chiedete ai Tusk e compagnia varia di astenersi per qualche mese dal mettere bocca sulla sicurezza del continente e solo così forse ci renderemo conto non solo che il terrorismo deve cambiarci, eccome, ma anche che il terrore che attacca l'Europa è la stessa espressione della guerra che l'islamismo ha dichiarato da anni all'unica democrazia che è riuscita a vincere la sfida con il terrore: Israele. Alla guida dell'Europa, in tema di terrorismo, serve una forza incomparabilmente superiore a quelle che ci sono oggi. Bibi, ti prego, pensaci tu.

(Il Foglio, 24 marzo 2016)


La proposta ovviamente è provocatoria, ma può essere uno spunto di riflessione. Invece di pensare che tutti i mali vengono da Israele, sarebbe meglio chiedersi se tanti mali non provengano dal nostro atteggiamento verso Israele. Un atteggiamento che, essendo sbagliato verso quel particolarissimo Stato, obbliga ad avere un atteggiamento sbagliato verso tutto. L’autore dell’articolo dice che dobbiamo cambiare, ed è vero, ma in che cosa? Anzitutto nel modo in cui si considera lo Stato d’Israele, nei confronti del quale le nazioni hanno bisogno anzitutto di una cosa: convertirsi. Non lo faranno, per ora. Un giorno accadrà, ma non per libera scelta. E non senza molti, molti dolori. M.C.



Nessuno s'inganni

Nessuno s'inganni. Se qualcuno fra voi s'immagina d'esser savio in questo mondo, diventi pazzo affinché diventi savio; perché la sapienza di questo mondo è pazzia presso Dio. Infatti è scritto: "Egli prende i savi nella loro astuzia"; e altrove: "Il Signore conosce i pensieri dei savi, e sa che sono vani."

dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 3

 


Perché è utile seguire Israele per contrastare il terrorismo Isis

Punture di Spillo

di Giuliano Cazzola

 Con l'aria che tira in Europa dopo l'ennesimo attento di matrice jihadista non sarebbe il caso di ''pensare in grande''? Per esempio: perché non associare lo Stato d'Israele alla UE e magari anche alla Nato? Il know how che quel Paese ha accumulato in tanti decenni di lotta al terrorismo - senza mai rinunciare a propri ordinamenti democratici - potrebbe essere di grande aiuto nelle sfide mortali che ci attendono.

 Una proposta siffatta scatenerebbe reazioni estremamente contrarie. In tanti direbbero che sarebbe il modo per provocare il mondo arabo nel suo insieme, anche quello alleato dell'Occidente (ma che tuttavia non esita a finanziare l'Isis). E se, invece, riemergesse, quando si parla di Israele, un antisemitismo atavico, mai debellato nel Vecchio Continente?

 Un antisemitismo che, in Europa, non ha soltanto radici religiose, popolari e plebee. Purtroppo, ve ne sono tracce profonde anche nelle opere dei più insigni Maestri del pensiero occidentale. Vediamone alcuni esempi tratti dal libro "Storia degli ebrei'' di Michel Abitbol (Einaudi 2013).

 Nella voce ''antropofagi'' del Dizionario filosofico di Voltaire, gli ebrei vengono presentati come autori di sacrifici di esseri umani e mangiatori di carne umana: "Perché gli ebrei non dovrebbero essere antropofagi? - scrive - Sarebbe stata la sola cosa di cui il popolo di Dio difettava per essere il popolo più abominevole della terra''.

 Immanuel Kant, in uno scritto del 1798, suggeriva di costringere questa "nazione di ingannatori'' e questi "oriundi della Palestina che vivono fra noi'' ad adottare pubblicamente la religione di Gesù' e a studiare l'Antico e il Nuovo Testamento, nello spirito della morale moderna e dei Lumi. Ciò - precisava - avrebbe comportato ''l'eutanasia dell'ebraismo''.

(formiche.net, 24 marzo 2016)


Contesa tra Egitto e Israele per l'hub del gas del mediterraneo orientale

Il governo di Tel Aviv
sta cercando di recuperare il gap che lo separa dal Cairo dopo la scoperta del giacimento Zhor da parte del Cane a sei zampe
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di Gabriele Moccia

 
ROMA - Il nuovo piano strategico presentato di recente dall'ad di Eni, Claudio Descalzi, prevede - tra le altre cose - una riduzione dei costi per 6 miliardi di euro e nuove dismissioni pari a 7 miliardi per affrontare la tempesta del cheap oil. Gli analisti già si chiedono quali saranno le attività che Descalzi metterà in vendita. Infatti, oltre alla chimica, al mercato retail del gas, potrebbe rientrare nel quadro delle dismissioni anche la cessione di quote minoritarie dei giacimenti del Cane a sei zampe, come il super giacimento egiziano di Zhor che al momento palazzo Mattei sta sviluppando in 'splendida solitudine', detenendolo ancora al 100 per cento. Sullo scacchiere energetico del Mediterraneo Orientale che riguardano Israele, Egitto, Cipro, Turchia e i destini incrociati di varie compagnie - come l'Eni per l'appunto - si muovono interessi sempre maggiori e il governo di Tel Aviv sta cercando di recuperare il gap che lo separa dal Cairo dopo la scoperta di Zhor.
  Non c'è più tempo da aspettare. Questo il messaggio che ha lanciato David Stover, l'amministratore delegato della Noble Energy (proprietaria dei promettenti giacimenti israeliani di gas di Tamar e Leviatano) al governo di Tel Aviv. I pozzi devono cominciare a pompare gas entro il 2019. Da quando l'Eni ha cominciato i lavori per sviluppare il suo super giacimento egiziano, Zohr, aldilà della felpata diplomazia si è scatenata una vera corsa contro il tempo tra Israele ed Egitto. Stover, in un serrato incontro con il ministro dell'energia israeliano, Yuval Steinitz, ha messo sul tavolo il principale ostacolo al decollo di Leviatano e Tamar: se non arriverà entro l'anno l'attesa approvazione dell'Alta corte di giustizia d'Israele (che a breve dovrebbe decidere sulla legittimità della scelta del governo di affidare tutto il progetto in mano alla Noble, dopo una mozione presentata dai partiti di opposizione contrari all'assegnazione a privati di un bene considerato strategico per la nazione) non sarà possibile completare nei tempi stabiliti il quadro delle infrastrutture necessarie all'esportazione del gas e al Cairo, il presidente Al Sisi, che sta puntando alla leadership energetica del Mediterraneo Orientale, potrà dormire sonni tranquilli.
  Per evitare questo scenario, il premier israeliano Benjamin Netanyahu si sta muovendo a tutto campo, a partire dalla ripresa dei colloqui con la Turchia. Secondo l'ultimo progetto stilato dalla Noble, i pozzi di Leviatano saranno in grado di produrre 21 miliardi di metri cubi di gas all'anno, anche se alcune stime, particolarmente ottimistiche, ipotizzano che la produzione potrebbe arrivare fino a 31 miliardi di metri cubi l'anno proprio se la Turchia dovesse decidere di acquistarne. A riguardo lo scorso gennaio, è entrato nella partita per la fornitura del gas israeliano anche un partner privato turco, la società Zorlu Enerji che insieme ad un gruppo israeliano (Edeltech), ha firmato un contratto di 1,3 miliardi di dollari con la Noble per la fornitura di 6 miliardi di metri cubi di gas. Lo sbocco turco è un'opzione che piace al ministro dell'energia israeliano Steinitz perché un eventuale gasdotto in grado di trasportare il gas del Leviatano sulle coste turche sarebbe comunque meno costoso di un eventuale progetto passante per Cipro e poi la Grecia.
  L'ambizione di Netanyahu è quella di portare la produzione israeliana al mercato europeo. Il capo della delegazione Ue in Israele, il diplomatico danese Lars Faaborg-Andersen, sta lavorando a una visita del Commissario per l'energia Sefcovic per incontrare i rappresentati israeliani e discutere dei principali dossier. Sefcovic, come ha già avuto modo di dichiarare incontrando il premier greco Tsipras, già appoggia il progetto di interconnessione elettrica tra Tel Aviv, Nicosia e Atene (progetto Eurasia) e non è escluso che possa dare il via libera anche ad un corridoio del gas del Mediterraneo. In questo senso, Israele potrebbe trovare un importante alleato nella Grecia. Il viceministro degli esteri del governo di Atene, Nikos Xydakis, che segue con attenzione la partita energetica ha più volte parlato della costruzione di legami forti per la cooperazione energetica con lo Stato ebraico. Le strategie sul gas in questo quadrante si intersecano anche con gli interessi italiano, come ha ricordato il direttore generale di Snam, Marco Alverà, secondo cui la realizzazione del Tap va considerata come una priorità strategica per l'Europa, andando ad aiutare la creazione di un hub del gas nell'area mediterranea.

(Il Foglio, 24 marzo 2016)


I giorni del carnevale ebraico

Quando Ester salvò il suo popolo

Purim è una festa piena di gioia. Un po' impropriamente viene chiamata il carnevale ebraico. In realtà è una festa che porta con sé un grande significato, perché Purim (che letteralmente significa "sorti") fa memoria del miracolo che portò alla salvezza degli ebrei dallo sterminio in Persia progettato da Haman. A Purim in Israele e nelle comunità ebraiche sparse in giro per il mondo ci si maschera come a carnevale. La maschera è un modo per celebrare il totale capovolgimento della sorte degli Ebrei, e si vuole sottolineare il ruolo nascosto che Dio ha avuto nella vicenda. Una festa strettamente legata a quella di Kippur non solo per il nome (il plurale di Kippur in ebraico è Kippurim e Kippurim significa "Come Purim"), ma perché entrambe le solennità si riferiscono a un cambiamento di sorte: a Purim è l'azione umana che crea la differenza mentre a Kippur, il giorno dell'espiazione, si tratta di un verdetto divino.

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 La vicenda di Ester
  La vicenda di Purim è narrata nel libro biblico di Ester. Haman, primo ministro del re di Persia Assuero, convinse il sovrano a uccidere tutti gli ebrei del suo regno. Si stima che la vicenda avvenne in un'epoca a cavallo tra la distruzione del Primo Tempio e la ricostruzione del Secondo, più o meno nella prima metà del quinto secolo avanti Cristo. Lo sterminio si sarebbe dovuto consumare entro il 14 del mese ebraico di Adar. Ma la regina Ester, ebrea di una bellezza sfavillante che Assuero aveva sposato in seconde nozze, venne informata dallo zio Mordechai dei piani di sterminio e supplicò il consorte, dopo un digiuno di tre giorni, di salvare il suo popolo e lei stessa, che fino ad allora aveva nascosto al marito la sua origine ebraica (del resto Ester deriva da una parola ebraica che significa "nascosto"). Fu grazie a Ester che gli ebrei riuscirono a salvarsi, Haman venne condannato a morte e al suo posto venne messo Mordechai. Una volta evitato il massacro la regina inviò una lettera in tutte le provincie del regno per raccontare il miracolo, e da allora la "Meghillà di Esther" viene letta in tutte le sinagoghe del mondo nel giorno di Purim, e quando viene pronunciato il nome del malvagio Haman, sinonimo di chiunque voglia recar danno agli ebrei, tutti i presenti, e specialmente i bambini, cercano di coprire il suo nome scuotendo speciali apparecchi che producono forti rumori.

 Come ci si veste a Purim
  A Gerusalemme si respira una bellissima aria di festa, e anche i serissimi appartenenti alle comunità ultraortodosse diventano sorridenti e gioiosi nelle loro maschere che spesso ricordano vecchi saggi, rabbini, o nei casi più moderni, militari dell'esercito, arabi con in testa la kefyah, clown o principesse. E se quest'anno non sono mancati i travestimenti da Donald Trump, in passato c'è stato chi si è mascherato da Adolf Hitler o da gregario nazista. Come da tradizione ebraica il giorno che precede la festa è di digiuno, anche se a differenza di quello praticato per altre grandi feste, come Yom Kippur, inizia all'alba e termina al tramonto. Poi la festa vera e propria, con lauti banchetti e ubruiacatura da precetto religioso, perché si deve bere vino fino ad arrivare al punto di "non conoscere". Altro precetto fondamentale è donare cibo agli amici e fare l'elemosina ai poveri.
  Puri è una ricorrenza ebraica, ma anche in molte zone dei Territori sotto il controllo dell'Autorità Palestinese come a Betlemme, dove di ebrei non c'è traccia, anche i bambini non ebrei si mascherano e festeggiano il loro carnevale. Quest'anno le ingenti misure di sicurezza hanno un po' attutito l'allegria che pervade le strade e le piazze, i Territori sono stati chiusi per quattro giorni ed è impossibile oltrepassare i check point, se non per gravi casi umanitari. Un provvedimento che interessa circa 77mila persone che lavorano legalmente in Israele ma che risiedono in territorio palestinese.

(Bergamo Post, 24 marzo 2016)


Calcio - Croazia-Israele 2-0

Perisic e Brozovic hanno confermato in Nazionale l'eccellente stato di forma, fisico e tecnico, mostrato con la maglia dell'Inter nell'ultimo mese. Grazie ai gol dell'esterno e del centrocampista (autore anche dell'assist per il suo compagno di squadra), la Croazia di Cacic ha battuto Israele per 2-0 nel match amichevole disputatosi a Osijek. Entrambi i giocatori nerazzurri, il primo impiegato da esterno sinistro mentre il secondo da mediano nel 4-2-3-1, sono rimasti in campo per l'intera durata dell'incontro.
A proposito del grande momento di Perisic, ieri si è espresso il vicepresidente dell'Inter Javier Zanetti: "Come tanti stranieri, aveva bisogno di tempo per ambientarsi al calcio italiano. Ora sta dando il meglio di sé, anche se non mi stupisce: ora da Ivan mi aspetto qualche altro bell'acuto…"

(interlive.it, 24 marzo 2016)


ECI si appella all'Europa perché, insieme ad Israele, si erga contro il terrorismo

COMUNICATO STAMPA

BRUXELLES, 23 marzo 2016 - ECI condanna gli attacchi terroristici che, ieri mattina martedì 22 marzo, hanno colpito Bruxelles proprio a pochi isolati dagli uffici di ECI, presso il Parlamento Europeo. Mentre tutto lo staff di ECI non ha subito danni, circa 34 persone hanno perso la vita ed altre 200 sono rimaste ferite in quello che è il peggior attacco in Belgio dalla seconda guerra mondiale.
  Tomas Sandell, il fondatore e direttore di ECI, ha espresso le proprie condoglianze a tutti coloro che hanno perso i propri cari ed ha chiesto all'UE di aumentare gli sforzi per sradicare il terrorismo jiadista in Europa e nel mondo. "Il terrore non fa alcuna distinzione di razza o nazionalità. Deve essere condannato a Parigi e Bruxelles così come a Gerusalemme o Istambul. È un tempo in cui le nazioni debbono valutare la libertà di stare insieme contro quelli che commettono dei crimini orrendi e contro i loro finanziatori."
  "Questo attacco va al di fuori dei confini nazionali del Belgio, è un attacco al cuore dell'Europa ed ai valori per noi più cari" ha dichiarato Sandell, aggiungendo che le ultime 24 ore hanno portato la capitale belga in uno stato di cordoglio e mentre si piange la morte di persone innocenti si deve mostrare solidarietà e rispetto. È molto importante astenersi dal puntare il dito o dal fare dei commenti inutili verso quelli che cercano di dividerci.
  Gli attacchi di Bruxelles sono uno dei continui attacchi verso tutti noi, come ha affermato ieri il primo ministro israeliano *Benjamin Netanyahu*. "Gli attacchi quotidiani in Israele e quelli di Parigi, San Bernardino, Istambul, Costa d'Avorio ed ora di Bruxelles sono un assalto continuo verso tutti noi. In tutti questi casi i terroristi non hanno mostrato alcun riguardo, poiché cercano la nostra completa distruzione ed il loro totale dominio. Il loro scopo è semplicemnte la nostra scomparsa" ha dichiarato Netanyahu, aggiungendo che l'unico modo per sconfiggere il terrorismo è quello di lottare insieme.
  Oggi come mai prima d'ora, Europa ed Israele devono essere unite per sconfiggere il terrorismo. Come ha enfatizzato Sandell, nel suo programma mensile European Report, "è chiaro che l'Europa ha bisogno di Israele e che dobbiamo lavorare insieme. Considerando la minaccia terroristica sotto la quale si trova l'Europa, chi è che è arrivato per prima ad aiutare Parigi, ad evitare altri spargimenti di sangue in Germania ed in altre località europee? Sono stati i servizi segreti israeliani, e chi ha un poco di esperienza in questo campo sa che non si può essere isolati da Israele. Dobbiamo collaborare con loro".
  Stiamo affrontando una vera minaccia terroristica in molti paesi e, come ha detto ieri il primo ministro belga *Charles Michel*, si tratta di una battaglia comune. La libertà è stata colpita al cuore a Bruxelles, a Parigi qualche mese fa, così come è capitato a Londra e Madrid.
  Sradicando l'estremismo, deve essere chiaro che la radicalizzazione è alimentata da idee di intolleranza che creano un clima nel quale gli estremisti crescono in abbondanza. Tali ideologie promuovono attivamente la discriminazione, il settarismo, la segregazione e sono ostili ai nostri valori basilari di democrazia, libertà ed eguaglianza.
  Come ha detto il primo ministro britannico *David Cameron*, nel suo discorso contro l'estremismo nel luglio del 2015, "queste idee intolleranti spesso cominciano nel dare retta alla presenza di una cosiddetta cospirazione ebraica e poi evolve nell'ostlità verso i valori fondamentali del''occidente per terminare in un culto della morte." Proseguendo, Cameron ha chiaramente detto che: "Se dici che la violenza a Londra è ingiustificabile, ma che gli attacchi suicidi in Israele sono un'altra cosa, allora anche tu sei parte del problema".
  ECI si appella all'UE perchè affronti ogni aspetto di queste ideologie dell'odio e riconosca il pericolo che queste si insedino nelle persone, in Europa e nel resto del mondo. Dobbiamo sostenere le comunità colpite dal terrorismo ed investire nell'educazione anti-estremismo, che evidenzia il collegamento tra l'estremismo e le teorie antisemitiche della cospirazione giudaica, così da essere efficaci nella loro eliminazione.
  La Coalizione Europea per Israeale è stata fondata a Bruxelles nel 2003, come iniziativa cristiana per combattere l'antisemitismo in Europa. Oggi ECI è attiva nell'alimentare delle buone relazioni tra Israele ed Europa, combattendo le ultime espressioni di antisemitismo che includono il boicottaggio e la demonizzazione dello stato ebraico. La conferenza programmatica annuale di ECI si terrà a bruxelles, il 21 aprile prossimo.

(EDIPI, 24 marzo 2016)


Attaccati quando ce l'aspettavamo. Questa strage è peggio di Parigi

Seconda sfida al sistema. Stavolta ce lo aspettavamo.

di Fiamma Nirenstein

Bruxelles
La misura della vittoria per il terrorista è nella sensazione che riesce a darti: se ti senti perduto, se perdi la sicurezza perfino nell'andare al supermercato o in ufficio, se guardi l'autobus con sospetto ed esiti a salirci, allora lui sta vincendo la guerra. E l'attacco di ieri a Bruxelles segna dei grossi punti a favore del terrore: mentre persino i mezzi pubblici si arrestavano in una città immobilizzata, anche i cieli d'Europa restavano vuoti di aerei belgi. Colpire un aeroporto è il gesto di supremo potere del terrorista contemporaneo: l'aeroporto è il cuore e il cervello della vita moderna. Se si blocca, si fermano gli scambi, i commerci, le riunioni e anche l'idea stessa di una società multiculturale o comunque aperta a idee e religioni diverse, si blocca la fantasia dell'uomo contemporaneo occidentale, destinato a vivere «per seguir virtute e canoscenza»,
   L'attacco di Bruxelles è più aggressivo ancora di quello di Istanbul, più largo del Bardo, più sorprendente di Parigi. Da quando esiste l'Isis, i suoi adepti punteggiano tutto l'orbe terracqueo di memento mori specie per l'Europa: hanno un significato preciso di dominio dell'islam sugli infedeli, siano essi cristiani o ebrei. Agli ebrei è dedicato un odio particolare, sottolineato a Bruxelles dall'attentato al Museo ebraico del 2014 e dalla scuola ebraica di Tolosa nel 2012; o il 7 gennaio 2015, quando l'azione contro Charlie Hebdo (12 morti) ha avuto cura di inscenare un ramo dell'attacco all'Ypercasher.
   
L'obiettivo centrale è la sottomissione del mondo degli infedeli, quello giudaico cristiano, disprezzato, antitetico allo scopo della indispensabile dominazione del mondo. Ogni attacco ha un suo significato non solo intimidatorio ma di conquista shariatica: nell'attacco di Charlie ogni invasione filosofica, che noi chiamiamo libertà di pensiero, o persino umorismo, è blasfemia; al Bataclan è annullamento fisico della promiscuità che l'Occidente consente; gli attacchi ai militari, come quelli di Londra e di Ottawa, sono dirette risposte alla presenza occidentale nelle guerre in cui è coinvolto l'islam.
   E adesso, l'aeroporto, il nodo del potere occidentale: e si deve notare un precedente che dovrebbe finalmente convincere dell'identità fra terrorismo palestinese e quello attuale, la strage di Fiumicino del 1985, 13 morti e 100 feriti. Se l'attentato di ieri è davvero la diretta conseguenza, la reazione all'arresto a Molenbeek di Salah Abdeslam, non c'è da stupirsi che una donna, una dei 35mila residenti di fede islamica sui 96mila abitanti, ne parlasse ai giornalisti come di «uno dei nostri ragazzi», pur negando simpatie per il terrore. L'enorme spazio sociale, il supporto religioso in Belgio, in Francia, in alcune parti dell'Europa del Nord sono stati esaltati dall'impossibilità culturale dell'Europa ad affrontare non tanto i terroristi, quanto il mare in cui essi nuotano, un mondo di fiancheggiatori in continua espansione, contagiato dall'esaltazione dei foreign fighter di ritorno.

(il Giornale, 23 marzo 2016)


Il paradiso dei jihadisti. Miopia e 007 incapaci: così nasce il Belgistan

Scarsa prevenzione, errori investigativi e poca comunicazione hanno trasformato Bruxelles nella culla del terrore. Da Molenbeek sono passati gli assassini di Massud, il cervello degli attentati di Madrid e Coulibaly, l'autore del massacro all'Hipercacher parigino

di Carlo Panella

Perché la polizia e lo Stato belga hanno permesso che Bruxelles, e in particolare i quartieri di Molenbeek e Forest abbiano funzionato per anni come santuari inviolati dei jihadisti? La domanda non ha risposta, se non in una dose di superficialità, incoscienza e turbe da politically correct che infrangono ogni record. Ma forse, non poteva che essere così: Bruxelles è la capitale, il cervello politico dell'Europa e della Nato e ne rispecchia in pieno le caratteristiche confusionarie e burocratiche, a partire da una ignavia cronica mai vista.
   Molenbeek è un grande quartiere di Bruxelles, anzi, una delle 11 città autonome che costituiscono la capitale, ognuna fiera della propria diversità, nessuna controllata da un governo municipale centrale, da un sindaco unico e quindi neanche da una forza di polizia unica. Follia figlia del federalismo belga, dell'attrito storico tra fiamminghi e valloni. Un voluto caos. Molenbeek è divisa quindi come ogni città: la zona residenziale, i quartieri del ceto medio e i sobborghi degli immigrati. Questi sono una zona franca del jihadismo islamico da decenni. Si pensi solo che Dahman Abd el-Sanar e Rachid Bouraoui hanno soggiornato a Molenbeek prima di uccidere in Afghanistan il leggendario comandante Massud, due giorni prima degli attentati dell'11 settembre 2001 a New York. Per Molenbeek è passato anche Hassan el Hasld, membro di Al-Qaeda, cervello degli attentati della stazione di Atocha di Madrid (192 morti); naturalmente vi ha soggiornato anche Mehdi Nemmouche, autore della strage al Museo ebraico di Bruxelles (4 morti), così come Abdelhamid Abaaoud, cervello degli attacchi del 13 novembre a Parigi. Abaaoud era il capo della cellula di Verviers, in cui le forze speciali anti-terrorismo hanno ucciso due sospetti jihadisti.
   Naturalmente per Molenbeek è passato anche Amedy Coulibaly, che vi ha comprato le anni per il massacro al Hypercacher (il supermercato di Porte de Vincennes, a Parigi); sempre da Molenbeek è transitato Ayoub El Khazzani, l'autore della mancata strage sul treno Thalys Amsterdam-Parigi.
   Infine, ma non per ultimo a Molenbeek si è nascosto comodamente per 4 mesi Abdeslam Salah, il jihadista superstite della ultima strage di Parigi. Proprio in questa troppo facile latitanza troviamo altre due spiegazioni della stratosferica inefficienza delle forze di sicurezza belghe. È infatti evidente che non hanno mai pensato, o non sono mai riuscite, a effettuare il lavoro di base per un servizio segreto che operi in una polveriera come quella: assoldare degli infiltrati, ricattare ladruncoli o spacciatori di droga (numerosissimi a Molenbeek), oppure pagarli profumatamente per ottenere informazioni e quindi un controllo capillare dei mille movimenti sotterranei della piovra jihadista del quartiere. Salah, non è un professionista, è un vile che non ha avuto il coraggio di azionare il detonatore. E' un pesce piccolo, ininfluente (se fosse un leader, sarebbe stato posto in salvo dalla struttura dell'Isis, con certezza), eppure, con le sue sole forze è riuscito a beffare la polizia belga per più di 120 giorni in un quartiere teoricamente sotto assedio. E qui troviamo la seconda risposta alla inviolabilità di Molenbeek: una fitta rete di rapporti di clan e familiari che si è consolidata da decenni tra gli arabi di seconda generazione.
   Infine, Molenbeek è da un ventennio una isola felice del jihadismo per colpe e responsabilità precise del governo belga. A Libero risulta da fonte certa che i servizi segreti del Belgio si sono seccamente rifiutati di fornire notizie indispensabili ai servizi italiani: fin de recevoir si dice in francese. Ma non basta, il Belgio e la Francia si sono sempre rifiutati di organizzare una super procura europea che centralizzi le indagini sul jihadismo, nonostante che l'esperienza italiana dimostri che è uno strumento indispensabile, come si è visto con la super procura antimafia. Insomma, Molenbeek è il simbolo di follia belga superlativa, che regala al jihadismo campo libero e incontrastato d'azione.

(Libero, 23 marzo 2016)


Consiglio da Israele: «Chiudete le frontiere e usate gli 007»

di Daniel Mosseri

 
Boaz Ganor
La reazione europea alle stragi di Bruxelles passa in primo luogo da un cambiamento radicale della mentalità dei cittadini e dei governanti. «E in ogni modo i risultati non saranno immediati». Viene da Israele l'analisi amara ma lucida sull'ultima ondata di attacchi terroristici che ha colpito l'aeroporto e la metropolitana della capitale del Belgio e dell'Ue. A parlare con Libero è Boaz Ganor, fondatore e direttore dell'Istituto internazionale per il controterrorismo (Ict) di Herzlya, pochi chilometri a nord di Tel Aviv.

- Il Califfo si è vendicato del recente arresto di Salah Abdeslam?
  «Il punto è capire se gli attacchi contro l'aeroporto e la metropolitana di Bruxelles sono opera di una cellula dormiente che ha ricevuto un preciso ordine dalla Siria. Diversamente, i compagni dei terroristi fermati potrebbero anche aver deciso in autonomia di eseguire le stragi che erano state già pianificate. Una decisione presa proprio per evitare che gli arresti dei giorni precedenti mettessero gli investigatori in condizione di sventare i loro piani».

- Cosa deve fare l'Europa?
  «L'Europa è entrata in nuova era: quella del terrore. E il fenomeno è in via di peggioramento. II Vecchio Continente sarà in grado di prendere le contromisure necessarie solo se e quando capirà il livello e le caratteristiche del terrore che lo minacciano. In primo luogo dovrà comunque migliorare le proprie capacita di intelligence, basandole su nuove priorità. L'Europa dovrà poi trovare un nuovo equilibrio fra efficienza nel controterrorismo e mantenimento delle garanzie liberal-democratiche».

- Quali misure suggerisce?
  «Di rivedere l'accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone, ripristinando migliori controlli fra gli Stati. Le leggi sulle migrazioni devono essere riviste: è un processo lungo e complesso e se anche sarà intrapreso nel modo corretto, i risultati si vedranno nel giro di alcuni anni: di certo se oggi non farete nulla, la situazione potrà solo peggiorare».

- Come si ferma la radicalizzazione della gioventù in Europa?
  «L'unica misura sensata è far si che la comunità musulmana si alzi in piedi contro il terrorismo islamico. È qualcosa che occidentali, cristiani ed ebrei non possono fare. Anche qua non possiamo far finta di nulla: il problema non è tutto l'islam, tuttavia esiste un problema al suo interno e sta ai musulmani respingere questa interpretazione sbagliata della loro fede. Compito della comunità internazionale è ricordare ai musulmani questo obiettivo: invece Obama e i politici europei si guardano bene dall'adoperare anche il termine "controterrorismo" e parlano invece solo di "contrasto alla violenza estremista", un termine molto politicamente corretto».

- Cosa possiamo imparare dall'esperienza di Israele?
  «La prima cosa da capire, così come l'abbiamo capita in Israele, è che contro il terrore serve la piena consapevolezza dell'opinione pubblica».

- Questo significa che dobbiamo smettere di dare la caccia all'Isis in Siria per concentrarci sulle banlieue?
  «No. Al pari degli altri stati, anche quelli europei devono fermare i terroristi dovunque essi siano: tanto in Siria o in Libia quanto nei sobborghi delle grandi città europee».

(Libero, 23 marzo 2016)


Le mille e una Molenbeek d'Europa

Non solo il Belgio sotto attacco. Tutte le enclave inaccessibili di Allah nel cuore del nostro continente.

di Giulio Meotti

 
 
ROMA - "Mini califfati", aree "no-go", come vengono chiamate, dove regna un misto di anarchia e di sharia, da cui pianificare attacchi in Europa, come quelli che hanno inginocchiato Bruxelles, o istruire le carovane del jihad in medio oriente. In Europa ci sono decine di Molenbeek. Società segregate frutto delle politiche di multiculturalismo che hanno incoraggiato la ghettizzazione e la radicalizzazione islamica.
   "In tante capitali europee esistono oggi società semi-autonome", dice al Foglio Douglas Murray, esperto inglese di immigrazione e direttore della Henry Jackson Society. "A Molenbeek, più che l'arresto di Salah Abdeslam, mi ha molto colpito la protesta della popolazione durante il raid. Non volevano che un terrorista genocida venisse rimosso dal loro quartiere. L'immigrazione tende a concentrarsi per realtà omogenee. Ma qui siamo di fronte a un fenomeno nuovo: la segregazione autoimposta in grandi città. Da Birmingham a Malmö, c'è il rifiuto dell'assimilazione. Questo non pone un problema per milioni di esseri umani che adesso arrivano in Europa senza voler diventare europei?". In Inghilterra, gli islamisti farneticano di un piano per la conversione di dodici città in emirati. E' la pancia del "Londonistan", di cui fanno parte Birmingham, Bradford, Derby, Dewsbury, Leeds, Leicester, Liverpool, Luton, Manchester, Sheffield, Waltham Forest a nord di Londra e Tower Hamlets nella parte orientale della capitale. Quartieri dove i manifesti ti avvertono che "stai entrando in una zona controllata dalla sharia".
   Nei giorni scorsi, le forze di sicurezza hanno simulato a Londra dieci attentati simultanei (a Bruxelles la realtà ci è andata vicina, in difetto solo di numero).
   In Francia sono chiamate "Zus", Zones urbaines sensibles. Secondo il ministero dell'Interno francese ce ne sono 751 e ci vivono cinque milioni di musulmani.
   Ora gli occhi dei servizi sono puntati su Sevran, la banlieue dove l'islam prospera nel terreno fertile del comunitarismo (50 mila abitanti, 73 nazionalità e il 90 per cento della popolazione di origine straniera). Bruxelles non è soltanto Molenbeek. La polizia e gli assistenti sociali spesso neppure entrano nel distretto di Kuregem, per fare un esempio.
   L'Olanda ha una lista di quaranta zone a rischio. Il distretto di Kolenkit, ad Amsterdam, è considerato il "problema numero uno". Poi, a Rotterdam, ci sono i quartieri di Pendrecht, Het Oude Noorden e Bloemhof. Utrecht svetta con la zona di Ondiep. Nella capitale, l'Aia, c'è lo "sharia wijk", il distretto della sharia che sorge a Schilderswijk. Qui aveva base il gruppo Hofstadt, che ha pianificato l'assassinio del regista Theo van Gogh.
   A Copenaghen il sobborgo di Tingbjerg è la prima "zona sotto il controllo della sharia". In Svezia c'è il caso di Malmö, già oggi al trenta per cento islamica, resa famosa da quartieri come Rosengaard, un progetto di case popolari pensato negli anni Sessanta per gli immigrati. Il quartiere è stato tappezzato da poster con scritto: "Nel 2030 prendiamo il controllo". La Germania ha uno dei più grande ghetti a Neukölln, dentro la capitale Berlino, "il principato ottomano" dove le donne islamiche camminano qualche passo indietro agli uomini e le chiese sono vendute ai musulmani per farne moschee. La polizia di recente ha compiuto un raid nel quartiere per sventare i piani dell'Isis.
   Base ideologica per questa segregazione urbana e violenta è un testo di Abu Musab al Suri dal titolo "Resistenza islamica internazionale". Siriano che ha vissuto a Londra, Suri ritiene che i musulmani in Europa, anche se sempre più numerosi, si sentano isolati e sotto pressione, e va sfruttato per creare una "ripartizione della società" e fomentare l'insurrezione. E' il modello Molenbeek. E' il carnaio che si consuma sotto i palazzi della Nato e della Ue.

(Il Foglio, 23 marzo 2016)


Le Molenbeek d'Italia rifugio degli integralisti

Nei garage di Milano e Roma imam "fai da te". I quartieri sempre più controllati dagli stranieri. Nella capitale almeno 43 moschee irregolari.

Le donne, quasi sempre velate, fanno da sfondo all'odore di spezie e kebab che riempiono le strade costellate da macellerie halal e frutterie gestite da stranieri. Durante l'ora della preghiera si alzano le saracinesche dei garage che ospitano le moschee, tra imam autoproclamati e sermoni in arabo. Realtà che si snodano parallelamente alla vita delle città italiane, senza nessun punto di contatto. Le barbe lunghe e i calzoni alla caviglia degli uomini musulmani, stridono con le vetrine dei negozi italiani, sempre meno presenti in certi quartieri. Molenbeek non è solo a Bruxelles. La presenza di extracomunitari in determinate zone delle città italiane, quasi sempre periferiche, sta cambiando il volto di quartieri e aree dove a volte è difficile entrare. Il fenomeno migratorio degli ultimi anni ha portato alla nascita di vere e proprie banlieue dentro le quali sono stati istituiti centri islamici abusivi. Monadi, in alcuni casi ghetti, dove spesso si aggirano personaggi inquietanti. Da gennaio 2015 ad oggi, infatti, sono stati espulsi 74 stranieri per motivi di sicurezza legati al terrorismo. A Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna, solo per citarne alcune, l'islamizzazione del tessuto urbano è ormai una realtà. Viale Jenner e via Quaranta a Milano; Tor Pignattara, Centocelle, piazza Vittorio e Torre Maura a Roma; piazza Larga al Mercato e corso Lucci a Napoli. Nella capitale, in particolare, le zone con una forte presenza di extracomunitari sono in alcuni casi anche quelle centrali. Basti pensare al multietnico quartiere Esquilino, con le sue moschee a ridosso dei sagrati delle chiese.
   La presenza di integralisti islamici negli anni passati si concentrava soprattutto nei quartieri di Centocelle, dove è stato arrestato uno degli attentatori di Londra. A Tor Pignattara, in pochi chilometri, si contano almeno cinque moschee non autorizzate. E nel tempo anche altre borgate hanno subito la stessa sorte. Tra queste Torre Angela, Ponte di Nona, Quadraro ed Ostia.
   Anche nel sud Italia è massiccia la presenza di luoghi di culto e immigrati. A differenza di quanto accade al Centro e al Nord, forse per la presenza delle mafie, sono state registrate presenze sospette solo di passaggio. A Catania e Palermo, anche grazie alla posizione semicentrale delle moschee principali, l'infiltrazione da parte di integralisti islamici non sarebbe mai stata accertata, così come per quelle di Reggio Calabria e Bari, utilizzate come punti di passaggio, ma non come mete finali.

(Il Tempo, 23 marzo 2016)


L'Europa dovrà trovare l'equilibrio tra diritti, privacy, sicurezza

In Israele l'idea di un generale e di un filosofo. Lo psicoanalista Carlo Strenger: il politicamente corretto va respinto, nessuno è obbligato a rispettare posizioni immorali. Serve una sinistra belligerante.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Ehud Barak ripete di considerarsi un professore di matematica mancato. Quando i numeri, la precisione, i calcoli gli servivano a pianificare le operazioni delle forze speciali e adesso - in pensione dal governo - che giocare con le cifre lo ha reso ricco come consulente globale. Così il soldato più decoralo d'Israele ha investito un milione di dollari in un algoritmo che vuole mettere ordine dove i terroristi diffondono il caos, un software per gestire le emergenze, per aiutare la polizia e l'esercito a intervenire nel modo più efficace. L'ex premier e ministro della Difesa spiega che qualunque cittadino può scaricare Reporty sul telefonino: schiacciato un bottone, la app registra un video e in automatico lo invia ai centri di emergenza.
   Passanti trasformati in sentinelle. «Tenere gli occhl aperti, chiamare gli agenti a ogni sospetto, è inevitabile che gli europei dovranno sviluppare l'intuito che noi israeliani siamo stati costretti ad acuire». Una mattina del 2002 Amos Yadlin si è svegliato da un incubo e ha deciso di chiamare Asa Kasher, Insieme il generale e il filosofo hanno provato a stabilire le regole da applicare nella guerra al terrorismo: a un matematico hanno chiesto di creare una formula per calcolare quante perdite collaterali tra i civili fossero accettabili prima di eliminare un attentatore. «Anche l'Europa deve rivedere la sua formula - dice adesso Yadlin, l'ex capo dell'intelligence militare che dirige l'Institute for National Security Studies - tra rispetto dei diritti umani, correttezza politica, garanzie per la privacy da una parte e la protezione della vita umana dall'altra. La sicurezza è un diritto che va garantito».
   Ricorda che gli israeliani hanno impiegato sei anni per fermare i kamikaze palestinesi, sei anni e l'operazione «Scudo difensivo» ordinata da Ariel Sharon, in sostanza la rioccupazione militare della Cisgjordania. «Durante la seconda Intifada la nostra vita è andata avanti comunque: è l'unico modo di resistere: alla fine il terrorismo va considerato come un incidente d'auto o la criminalità, altrimenti a vincere è lo stato islamico».
Come fa notare Jason Burke, esperto del quotidiano britannico Guardian, la violenza islamista va a ondate: i periodi più sanguinosi precedenti a questo sono stati tra il 2001 e il 2008. Con il 2010 alla vigilia delle cosiddette «primavere arabe» sembrava che la mareggiata di terrore si stesse ritraendo. «Invece lo scontro sarà ancora lungo - commenta Carlo Strenger - e i leader politici devono avere il coraggio di proclamarlo». Il suo libro Civilized Disdain. Why We Must Take Back the Defense of Freedom from the Right vuole propone una cura per quella che lo psicanalista e filosofo israeliano considera la «malattia autoimmune del mondo libero»: «Il politicamente corretto va respinto. E incoerente, nessun essere umano può essere obbligato a rispettare posizioni che considera irrazionali o immorali».
   Editorialista per il quotidiano liberal Haaretz, è convinto che la guerra al terrorismo debba essere combattuta da una sinistra belligerante che «si riprende la difesa dei valori e della cultura occidentali data in appalto alla destra. Anche perché la risposta populista è la meno efficace, penso a Marine Le Pen che propone di reintrodurre la pena di morte, non mi sembra una gran minaccia per uno jihadista pronto a immolarsi».
   Da ormai sei mesi gli israeliani affrontano quelli che i servizi segreti chiamano «lupi solitari», attentatori palestinesi armati di coltello che hanno macerato il piano e l'esasperazione nel chiuso delle loro stanze: escono per uccidere sapendo che saranno uccisi. «Israele dimostra che a essere fondamentale non è tanto la risposta degli individui dopo un attacco quanto quella di tutta la società. Come reagiamo collettivamente definisce la battaglia e la possibile vittoria. I governi devono veicolare due messaggi, uno per gli estremisti (non cambierete la nostra vita) e uno per i cittadini: sarà lunga, non c'è una soluzione immediata, ce la faremo. Purtroppo siamo anche l'esempio di come un Paese per anni sotto la pressione terrorista finisca con lo spostarsi verso la destra nazionalista».

(Corriere della Sera, 23 marzo 2016)


Un esempio del vuoto, intellettualistico chiacchiericcio di sinistra (anche israeliana) che non dice nulla ma lo dice bene. “Serve una sinistra belligerante” - dicono - e sanno soltanto loro che cosa voglia dire. L’importante è che essa, la sinistra belligerante, «si riprenda la difesa dei valori e della cultura occidentali data in appalto alla destra». Bella l’espressione! La destra non ha un pensiero autonomo, quello che eventualmente fa di buono l’ha ricevuto “in appalto” dalla sinistra. Come potrebbe essere diversamente? Alla sinistra è il bene e alla destra è il male. Tanto è vero che Israele, pur essendo riuscito a contenere il terrorismo islamico entro confini accettabili in virtù dell’appalto concesso alla destra dalla sinistra, adesso, sotto la pressione terrorista, corre il tremendo pericolo di “spostarsi verso la destra nazionalista”. Questo è il vero pericolo per Israele, secondo l'editorialista di Haaretz, il quotidiano liberal israeliano che con i suoi intellettualistici rigiri contribuisce poderosamente alla legittimazione del terrorismo islamico in Israele. M.C


Le stragi di Bruxelles e le vittime israeliane all'Onu

di Giulio Meotti

Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. E' invitato a parlare, per conto di UN Watch, Micah Avni, che ha perso il padre israeliano in un attacco terroristico a Gerusalemme cinque mesi fa. "Era un uomo gentile e piacevole, un preside di una scuola elementare che ha insegnato a migliaia di bambini, ed era un attivista per i diritti umani", ha detto Avni rivolto ai burocrati dell'Onu e agli ambasciatore dei paesi presenti, molti tirannici. "Il 13 ottobre", ha continuato Avni, "due terroristi palestinesi hanno attaccato un autobus pieno di civili innocenti a Gerusalemme. Hanno sparato a mio padre in testa".
Avni poi si è rivolto al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon e al Consiglio dei diritti umani: "Non avete pubblicamente condannato i terroristi palestinesi. L'uccisione di civili su un autobus è un atto terroristico e vi sfido subito a condannare l'assassinio di mio padre". Quella condanna, ovviamente, non è mai arrivata. Due giorni dopo, a Bruxelles, sede di tanti organismi internazionali, i terroristi islamici assassinavano oltre trenta persone. Un attentato contro un aeroporto internazionale e i mezzi di trasporto pubblico che Israele ha già vissuto, tante, troppe volte. E ogni volta, lo stesso silenzio da parte di Bruxelles. Quand'è che l'Europa considererà Israele la parte migliore di sé e il terrorismo islamico una medesima, comune minaccia?

(Il Foglio, 22 marzo 2016)


L'attacco al cuore dell'Europa: così l'islam vuole sottometterci

I terroristi sono solo la punta dell'iceberg, costituito invece dalla religione musulmana. I jihadisti ottemperano a ciò che Allah prescrive nel Corano e che predica Maometto.

di Magdi Cristiano Allam

Non ci sarebbe mai stato un terrorista islamico europeo che si fa esplodere e massacra a Bruxelles se non ci fosse stata Molenbeek, emblema di un territorio che fisicamente si trova in Belgio, ma socialmente, religiosamente e persino giuridicamente è sottomesso all'islam. Così come non ci sarebbe mai stata Molenbeek se i belgi non avessero consentito ai musulmani, prostrandosi all'ideologia del multiculturalismo, di concepirsi come una comunità autonoma, autorizzandoli a trincerarsi all'intemo di una roccaforte fatta di moschee, scuole coraniche, banche islamiche, tribunali shariatici, veli e divise che contraddistinguono e separano dalla società di accoglienza, legittimando l'islam come religione di pari valore del cristianesimo anche se è incompatibile con le leggi laiche dello Stato, elargendo a piene mani diritti e libertà senza esigere il rispetto delle regole e l'ottemperanza dei doveri, in un contesto dove manca un comune collante identitario e valoriale.
   Infine non ci sarebbe mai stato l'asservimento al multiculturalismo se Bruxelles non fosse una realtà fortemente condizionata dagli islamici.
   Su circa un milione di abitanti, il 24 per cento sono musulmani. Ma nella fascia d'età al di sotto dei 30 anni, i musulmani costituiscono il 40 per cento del totale della popolazione. Ecco perché la capitale delle istituzioni dell'Unione europea si è di fatto trasformata nella capitale islamica dell'Europa.
   Puntualmente, da troppo tempo, ogni qualvolta un terrorista islamico sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere, si allestisce un teatrino islamicamente corretto dove vanno in scena, su fronti contrapposti, i «cattivi» nostrani che condannano indistintamente terrorismo, musulmani e islam, finendo a loro volta per essere condannati come razzisti, islamofobi e guerrafondai; i «buoni» islamici, preferibilmente se nelle sembianze di imam o presidenti di «comunità islamiche», che condannano i terroristi e ci rassicurano che non hanno nulla a che fare con l'islam; e in mezzo, nel ruolo di «pontìeri», i «moderati» nostrani che emettono la sentenza di condanna di «tutti gli estremismi», mettendo sullo stesso piano il terrorismo islamico e gli «islamofobi» nostrani, di fatto assolvendo l'islam, schierandosi dalla parte degli imam e perpetuando lo status quo. Fino al successivo attentato. Per ripetere lo stesso copione.
   Quanti altri attentati terroristici islamici dovranno insanguinare l'Europa per rendersi finalmente conto che non sono eventi sconnessi, ma l'arma vincente con cui attuano una strategia finalizzata a sottometterci all'islam? Quanti altri terroristi islamici dovranno farsi esplodere urlando «Allah è il più grande», per assumere la consapevolezza che proprio loro ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto? Quanti altri morti innocenti dovremo piangere per toccare con mano che si tratta di una guerra autoctona e endogena, in cui terroristi islamici europei massacrano cittadini europei all'intemo dell'Europa, in assoluto la più difficile da combattere e vincere proprio perché il nemico è uno dei nostri e il fronte di guerra è dentro casa nostra?
   Il colpo di grazia è accelerato dal tracollo demografico che anticipa la fine della nostra civiltà laica e liberale, dalle radici ebraico-cristiane, greco-romane, umanistiche e illuministiche. Noi stessi ci siamo condannati alla denatalità, disincentivando la cultura della vita e marginalizzando la famiglia naturale. Poi chi ci governa ha ritenuto di colmare il deficit demografico favorendo prima l'auto-invasione di immigrati, attraverso il ricongiungimento familiare e un assistenzialismo parassitario, poi l'auto-invasione di clandestini di portata epocale con la prospettiva di sostituire le nostre società autoctone con una umanità meticcia.
   Ebbene, è arrivato il momento in cui dobbiamo prendere atto che i terroristi islamici sono solo la punta dell'iceberg e che l'islam è l'iceberg. Fintantoché ci limiteremo a perseguire e a reprimere la punta dell'iceberg, vorrà dire che non vogliamo guardare in faccia alla realtà, occultandola e mistificandola, per un facile tornaconto mediatico e politico. Solo quando ci decideremo a confrontarci e a scontrarci con l'iceberg, prendendo atto che proprio i terroristi islamiei sono quelli che ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, riusciremo a scardinare la radice del male: l'islam.

(il Giornale, 23 marzo 2016)


La società occidentale non riuscirà "a scardinare la radice del male, l'islam" perché essa stessa è infetta dal male. E’ una comunità molle e fradicia, un corpo corrotto che in sé non ha più le capacità non soltanto di reagire al male, ma neppure di riconoscerlo. Ed è questo che non permette illusioni. L'islam non riuscirà a dominare il mondo per il semplice fatto che dovrebbe prima decidere qual è il "vero islam" chiamato a dominare, e allora riprenderanno a scannarsi fra di loro, come già stanno facendo. Ma certamente l'islam potrà fare molti disastri e svolgere il compito di far tornare certi conti in sospeso della società occidentale: quelli con Israele. L'ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, nel settembre scorso, negli ultimi mesi di Expo, scrisse un articolo in cui tra l'altro diceva:
    "In Europa vi sono elementi, come quelli che per l'ennesima volta hanno imbrattato la bandiera a Milano, i quali operano per il boicottaggio d'Israele e di tutto ciò che lo riguarda, partendo dalla cultura, passando per l'Expo, e fino ai suoi prodotti. Contrariamente a quanto da loro sostenuto, si tratta di attività finalizzate non a colpire la produzione degli insediamenti, ma a stigmatizzare e delegittimare la stessa esistenza dell'unico Stato ebraico al mondo. Stride particolarmente nel momento in cui l'Ue coopera e promuove la decisione di etichettare i prodotti degli insediamenti, unico caso di etichettatura di prodotti su base politica. Non lo ha fatto in nessun altro territorio oggetto di contenziosi: non a Cipro Nord, né in Crimea, né nel Sahara occidentale. La mia famiglia è già stata marchiata una volta in Europa, ed era con una Stella di Davide gialla."
Dov'è il centro del boicottaggio europeo anti-israeliano? A Bruxelles. A commento dell'articolo avevamo scritto: "'L’Europa pagherà. Come ha pagato la Germania che ieri ha seguito l'antisemita Adolf Hitler, così pagherà l'Europa che oggi segue gli antisemiti burocrati di Bruxelles. Lo spauracchio dell'invasione dei migranti è solo l'inizio". Il pagamento continua. M.C.


"Gli attacchi di Bruxelles sono il fallimento del modello di integrazione europeo"

GERUSALEMME - Alcuni parlamentari israeliani hanno commentato in modo molto critico gli attentati avvenuti questa mattina a Bruxelles, costati la vita ad almeno 34 persone, sottolineando che la principale responsabilità di questa situazione va ricercata anzitutto nel dilagare dell'estremismo islamico all'interno dell'ormai fallito modello di integrazione europea. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", il deputato del Likud - principale partito di governo - Nava Boder ha dichiarato che la principale responsabile degli attacchi odierni è la politica "conciliante" nei confronti della crescita proprio all'interno del paese di cellule estremiste islamiche: "Piuttosto che puntare il dito contro l'Islam radicale come la prima causa degli attentati di oggi, il ministro dell'Interno belga Jan Jambon ha preferito sottolineare che occorre fare di più per aiutare i giovani musulmani a sentirsi a casa". Il deputato israeliano ha sottolineato che di fronte a questa situazione "il Belgio deve chiudere i confini immediatamente, ed espellere dal paese gli istigatori di violenza e bloccare l'immigrazione musulmana". Boker ha inoltre aggiunto che Bruxelles e così i paesi dell'Unione europea "farebbero meglio ad occuparsi della minaccia terroristica interna", invece di appoggiare iniziative di "etichettatura" contro Israele.

(Agenzia Nova, 22 marzo 2016)


Quando i palestinesi attaccarono gli israeliani all'aeroporto di Zaventem

E' dal 1979 che l'aeroporto dei Zaventem, il più grande del Belgio, non veniva chiuso. Il 16 aprile del 1979, il lunedì dell'Angelo, tre terroristi palestinesi lanciarono delle granate contro i passeggeri appena scesi da un volo El Al proveniente da Israele, ferendone dodici (a ricordare l'episodio il giornale La Libre). L'organizzazione terroristica palestinese chiamata "Black March" - che si opponeva al trattato di pace tra Egitto e Israele del 26 marzo - ne rivendicò la responsabilità. Due palestinesi, Hosseini Rad Mahmoud, di 31 anni, e Dayekh Khaled Dokh, di 26, confessarono la loro intenzione di uccidere il maggior numero possibile di passeggeri dell'El Al. Furono condannati nell'agosto del 79 per tentato omicidio.
Dello stesso periodo è il patto dietro l'islamizzazione di Bruxelles tra il Belgio e l'Arabia Saudita (ved. articolo sotto)

(Il Foglio, 22 marzo 2016)


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Il patto dietro all'islamizzazione di Bruxelles

Così il Belgio accettò il ricatto suicida dell'Arabia Saudita: greggio in cambio di islam. E il re Baldovino siglò la trasformazione del "laboratorio multiculti" nel nido del jihad.

di Giulio Meotti

 
Re Faisal dell'Arabia Saudita riceve le chiavi della
moschea di Bruxelles dall’allora Ministro della
Giustizia francese Pierre Wigny
"Bruxellistan". "Belgistan". "Molenbeekistan". Si sprecano ormai le definizioni per indicare la trasformazione di quel paese fatto di caffè, di teatri, di circoli municipali, di carillon, nella base delle stragi di Parigi del 13 novembre. Per usare il titolo del libro di Felice Dassetto, sociologo dell'Università cattolica di Lovanio, è "L'iris et le croissant" (il giaggiolo, il simbolo di Bruxelles, e la mezzaluna islamica). "Le antiche città del Belgio sono state le culle dell'arte e della cultura cristiana", ha scritto l'Economist qualche numero fa. "Ma così come il ruolo del cristianesimo è scemato, un nuovo credo, l'islam, sta guadagnando importanza".
  Come rivela un recente sondaggio del Centre Interdisciplinaire d'Etude des Religions et de la Laìcité, nella capitale dell'Unione europea i cattolici praticanti sono scesi al dodici per cento della popolazione, mentre il diciannove per cento sono musulmani praticanti. Succede allora che la città di Maaseik, resa famosa da Jan Van Eyck con la sua Adorazione dell'agnello mistico, sia diventata celebre per il reclutamento di jihadisti dell'Isis. Come ha fatto Molenbeek, la "Piccola Manchester" che il sindaco socialista Philippe Moureaux definiva orgoglioso "laboratorio socio-multiculturale", a diventare il quartier generale del jihad europeo da Atocha al Bataclan, il "carrefour de l'islamisme", il crocevia dell'odio islamista in Europa, come lo definisce Libération? Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Fu il primo paese europeo. Il risultato immediato, nel 1975, fu l'inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. "Fu una decisione del re belga Baldovino", dice al Foglio Michael Privot, massimo islamologo belga e direttore dell'Enar, l'European Network Against Racism. Baldovino, il "re triste", cattolico e austero, "aveva stabilito buoni legami con la monarchia saudita e il re Faisal. Questo riconoscimento avvenne nel mezzo della crisi petrolifera, perché il Belgio cercava rifornimenti dall'Arabia Saudita. Nel 1974, i musulmani in Belgio erano alla prima generazione, lavoravano nelle miniere e volevano spazi per pregare nelle moschee. Allora non c'era autorità religiosa in Belgio. Il re Baldovino offrì ai sauditi il Pavillon du Cinquantenaire con un affitto della durata di 99 anni. L'edificio sorge a duecento metri dal Palazzo Schuman e dal quartier generale dell'Unione europea; l'Arabia Saudita lo trasformò nella Grande Moschea del Cinquecentenario, diventando l'autorità islamica de facto del Belgio. Alla fine degli anni Novanta è nata una autorità formale, l'Esecutivo dei Musulmani in Belgio, che si occupa degli aspetti materiali, ma non degli aspetti teologici. Questo spazio è rimasto occupato dalla Grande Moschea sotto guida saudita".
  Tre anni fa, documenti di WikiLeaks hanno rivelato tensioni fra il Belgio e l'Arabia Saudita. Bruxelles era molto preoccupata per il fondamentalismo islamico diffuso dalla Grande Moschea. Le autorità belghe ottennero così la testa del direttore, Khalid Alabri, un diplomatico saudita. Una scelta, quella fatta dal Belgio quarant'anni fa, criticata oggi anche dal ministro francofono belga Rachid Madrane, musulmano, che al giornale La Libre ha detto: "Il peccato originale del Belgio consiste nell'aver consegnato le chiavi dell'islam nel 1973 all'Arabia Saudita per assicurarci l'approvvigionamento energetico". Sono tante le propaggini saudite a Bruxelles. Il centro Imam al Bukhari coordina le attività culturali pro-saudite in Belgio, mentre il Centro islamico e culturale del Belgio (Cicb) è diventato la sede europea della Lega musulmana mondiale. L'obiettivo del Cicb è quello di "rafforzare la vita spirituale dei musulmani che vivono in Belgio", aprendo moschee e scuole coraniche. Ma il Cicb, per fare qualche esempio, consiglia alle donne di consultare soltanto ginecologi femmine, scoraggia i giovani musulmani dal vendere birra e raccomanda ai musulmani di abbassare lo sguardo in presenza di una bella donna. Sermoni al Cicb chiamano Bruxelles "capitale dei kuffar" (infedeli).
  Il patto col Belgio rientra in un più vasto progetto globale: dal 1979, le autorità saudite hanno speso più di sessanta miliardi di euro nella diffusione nel mondo del wahabismo, una visione dell'islam che si basa sul monoteismo assoluto (tawhid), il divieto di innovazioni (bid'ah), il rigetto di tutto ciò che non è musulmano, la scomunica dei "miscredenti" (takfîr) e la lotta armata (jihad). L'Arabia Saudita dona ogni anno un milione di euro alle venti moschee di Mollenbeek per il loro rinnovamento e manutenzione. Alla Grande Moschea di Bruxelles, dono del re belga ai sauditi, si sono formati imam come Rachid Haddach, uno dei più popolari predicatori salafiti oggi a Bruxelles. Haddach gestisce la moschea Assouna di Anderlecht. Nelle sue tirate, Haddach spiega che i bambini musulmani in Belgio, anziché andare alla scuola materna, dovrebbero stare a casa fino all'età di sei anni in modo da non essere contaminati da un ambiente non islamico. La musica? "Faresti meglio a leggere il Corano". Il burqa? "Halal" (consentito). E gli uomini devono farsi crescere la barba. Lo ha detto il Profeta. Così, mentre la Turchia si sforzava di portare avanti una opera di educazione religiosa non estremista, gli imam del Marocco, da cui veniva la maggioranza dei musulmani del Belgio (i futuri Salah Abdeslam), venivano egemonizzati dai sauditi con il loro approccio salafita e wahabita, lo stesso cui oggi si ispira lo Stato Islamico (non a caso l'Arabia Saudita è il primo paese per reclutamenti dell'Isis).
  Nel 1978, la Grande Moschea di Bruxelles venne aperta al pubblico dopo un lungo restauro a spese dell'Arabia Saudita, in presenza del re Khaled Abdulaziz Al Saud e del monarca Baldovino. E nel 1983, con la firma di André Bertouille, ministro dell'Istruzione, un regio decreto approvò anche le operazioni della Lega Islamica Mondiale a Bruxelles, che secondo Felice Dassetto serve a trasformare l'Arabia Saudita nel "polo egemone di tutto il mondo musulmano". "L'impatto dell'Arabia Saudita, attraverso la Grande Moschea, è stato forte, diffondendo tonnellate di libri gratuitamente in tutte le lingue per le moschee e le altre organizzazioni islamiche, copie del Corano", continua al Foglio Michael Privot. Libri che glorificano il jihad o dottamente spiegano che la moglie deve obbedire al marito "quando la invita a condividere il suo letto". "L'Arabia Saudita ha offerto numerosi contributi alla seconda e terza generazione di giovani musulmani disposti ad andare alla Mecca e Medina per imparare le scienze islamiche", dice Privot. "Oggi, a Bruxelles, il 95 per cento dell'offerta di corsi sull'islam è gestito da giovani predicatori formati in Arabia Saudita. I predicatori sauditi hanno anche tenuto centinaia di conferenze in tutto il Belgio e quindi hanno avuto un impatto fondamentale sulla comprensione dell'islam da parte delle nuove generazioni. In termini di diffusione della sua versione dell'islam, l'Arabia Saudita ha avuto una delle più potenti strutture politico-diplomatiche. E ne stiamo pagando il prezzo oggi". Paghiamo le conseguenze di quel ricatto suicida. Della trasformazione del giaggiolo in mezzaluna. E del Belgio che, anziché per la Madonna di Michelangelo a Bruges, ormai fa parlare di sé per Molenbeek, pied à terre della guerra santa islamica all'uomo qualunque europeo.

(Il Foglio, 22 marzo 2016)


Gli ultimi ebrei dello Yemen

Sono arrivati in Israele domenica con un volo segreto, in fuga dalla guerra civile e dalle persecuzioni: sono tra gli ultimi membri di una comunità vecchia 2.000 anni.

Nella notte tra domenica e lunedì, 19 ebrei dello Yemen sono arrivati all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, portati al sicuro grazie a un'operazione segreta organizzata dalla Jewish Agency, un'organizzazione non profit che si occupa di facilitare il ritorno degli ebrei in Israele. «È un momento storico per Israele e per l'aliyah», ha detto Natan Sharansky, presidente dell'agenzia. Aliyah è il termine usato in Israele per indicare il ritorno degli ebrei in quella che considerano la loro terra promessa. Tra la 19 persone c'erano anche diverse donne e bambini, oltre al rabbino di Raydah, una città poco lontana dalla capitale Sana'a. Il rabbino ha portato con sé una copia della Torah che si ritiene sia vecchia di 500 anni. Ora la comunità ebraica in Yemen è ridotta agli ultimi 50 membri che hanno preferito non partire. Quaranta di loro vivono nella capitale Saan'a, in un piccolo quartiere recintato vicino all'ex ambasciata americana.
   Nello Yemen viveva una volta una delle più antiche comunità ebraiche del mondo, fondata duemila anni fa, che è arrivata a contare più di 50 mila membri a metà del secolo scorso. Ma negli anni della fondazione dello stato di Israele, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i gruppi religiosi musulmani più radicali e una parte delle autorità yemenite divennero sempre più intolleranti alla loro presenza. Ci furono massacri e saccheggi nel 1947 e nel 1948, e decine di ebrei yemeniti furono uccisi. Tra il giugno del 1949 e il settembre del 1950 il governo israeliano decise di riportare in Israele tutti quegli ebrei che non si sentivano più al sicuro nel paese. Nel corso dell'operazione "Tappeto magico" 380 voli aerei segreti, compiuti dall'aviazione americana e britannica, trasportarono in Israele più di 49 mila persone.
   L'emigrazione e il declino naturale portarono la popolazione ebraica residente in Yemen a ridursi ulteriormente, fino a che, alla fine del secolo scorso, nel paese erano rimasti in tutto 300 ebrei. Dopo un lungo periodo di relativa calma, a partire dal 2008 la loro situazione tornò a farsi precaria. In quell'anno fu ucciso Ya'ish Nahari, un insegnante di Raydah. Nel 2012 venne ucciso poi Aharon Zindani, marito e padre di due degli ebrei trasportati in Israele domenica scorsa. Secondo la Jewish Agency, nella stessa occasione una bambina ebrea venne rapita, convertita forzosamente all'islam e sposata a un musulmano. Con le rivolte della primavera araba, nel 2011, e poi con l'inizio della guerra civile nel 2015, la situazione per gli ebrei yemeniti è peggiorata ulteriormente e la Jewish Agency ha ricominciato i suoi voli segreti.
   Nel comunicato diffuso oggi, l'agenzia ha detto di aver trasportato in Israele 200 ebrei yemeniti nel corso degli ultimi anni. La notizia dei voli aerei non è stata diffusa prima per ragioni di sicurezza. Gli ebrei in Yemen sono un bersaglio sia delle prediche dei leader musulmani più radicali che dei membri di "Al Qaida nella penisola arabica", l'organizzazione terroristica locale affiliata ad al Qaida. Gli Houthi, la milizia ribelle sciita che ha conquistato la capitale e gran parte del paese, sono apertamente antisemiti: tra i loro slogan usano spesso frasi che inneggiano alla distruzione di Israele e degli ebrei.
   La Jewish Agency ha dichiarato che il trasferimento è stato organizzato con la collaborazione di funzionari del dipartimento di Stato americano e "autorità locali". Non è chiaro se questo significhi che gli Houthi, che controllano la capitale, abbiano contribuito all'operazione o se vi abbiano preso parte le altre autorità che si contendono il paese. Per il momento gli ebrei rimasti in Yemen si trovano sotto la protezione delle autorità locali, cioè delle milizie Houthi, ma non gli è permesso praticare funzioni religiose. La Jewish Agency ha dichiarato che è pronta a fornire assistenza a tutti gli ebrei che in futuro vorranno lasciare il paese.

(il Post, 21 marzo 2016)

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Yemen, blitz per salvare gli ebrei

Con una missione segreta Israele riesce a recuperare 19 persone e una Torah di 500 anni.

di Giordano Stabile

Una manifestazione dei ribelli Houthi a Sana'a. Sui cartelloni è scritto "Dio è grande, morte all'America, morte a Israele, maledetti gli ebrei, vittoria all'Islam"

Sono atterrati all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv in piena notte. Il primo a scendere è stato un uomo in abito nero e copricapo tradizionale. Poi una madre in un lungo vestito nero, velata, in braccio un bimbo addormentato. E poi il rabbino, con il suo prezioso rotolo della Torah, vecchio di almeno 500 anni.
   Era la conclusione felice, nella notte fra domenica e ieri, di una missione top secret per portare dallo Yemen a Israele gli ultimi ebrei che ancora vivono nel Paese in piena guerra civile, sottoposto a blocco navale e aereo. In 19, superstiti di una comunità che fino al 1949 contava 50 mila persone, sono stati tratti in salvo dalla capitale Sanaa e dalla cittadina di Raydah. I dettagli della missione, condotta con l'aiuto degli Usa, non sono stati svelati. Non è chiaro se le famiglie siano state portate in salvo via terra o direttamente in aereo. Restano ancora una cinquantina di ebrei nel Paese e la riservatezza serve a coprire una via di fuga che potrebbe essere riutilizzata. L'Agenzia ebraica, l'ente semistatale che ha coordinato l'operazione, ha solo detto che il primo punto di accoglienza è stato a Beersheba, nel Sud di Israele.
   L'ipotesi più probabile è che un piccolo aereo da trasporto sia atterrato su qualche pista secondaria, i 19 siano stati condotti su fuoristrada, fatti salire, portati in uno scalo amico e di lì imbarcati verso Israele. La seconda ipotesi è che abbiano viaggiato via terra, con il consenso dell'Arabia saudita. L'operazione è stata condotta in due fasi - prima 2 persone, poi 17 - e ha richiesto un mese di preparativi.
   Le condizioni di sicurezza degli ebrei yemeniti si sono degradate nell'ultimo decennio. Prima l'ascesa di Al Qaeda, che oggi controlla un terzo del Paese, poi la guerra civile fra i ribelli sciiti Houthi che nel febbraio 2015 hanno conquistato la capitale Sanaa e la coalizione sunnita guidata dall'Arabia saudita che cerca di rimette in sella il presidente in esilio Abd Rabbuh Mansur Hadi. Solo negli ultimi giorni, dopo un raid saudita che ha fatto 100 morti in un mercato, è stato raggiunto un accordo per una tregua.
   Nella capitale si sono moltiplicati gli slogan e i cartelli «Morte all'America, morte a Israele». Le ambasciate americane e britannica hanno chiuso. Vicino a quella statunitense, in un compound protetto dalle autorità, vivono gli ultimi ebrei di Sanaa. A Raydah, nel 2012, è stato ucciso l'ultimo insegnante di ebraico, Aharon Zindani. La sua famiglia, 5 persone, è fra quelle portate in salvo, insieme ai resti di Zindani che saranno sepolti in Israele. Nel 2015 una ragazza ebrea è stata rapita, costretta a convertirsi e a sposare un musulmano.
   Il blitz ha ricordato l'operazione «Tappeto magico», un gigantesco ponte aereo che fra il 1949 e il 1950 aveva condotto in Israele la quasi totalità della comunità ebraica, presente nello Yemen dal I secolo avanti Cristo. «Questo capitolo nella storia di una delle più antiche comunità ebraiche si sta concludendo - ha commentato il presidente dell'Agenzia Ebraica, l'ex dissidente sovietico Natan Sharansky -. Continuerà a dare il suo contributo in Israele».

(La Stampa, 22 marzo 2016)


Il Labour britannico ha un problema di antisemitismo?

di Stefano Basilico

Il partito Laburista britannico ha da sempre un'attenzione particolare alle minoranze e alla diversità. Tuttavia recentemente si sta affollando di persone ostili ad Israele, personaggi che travalicano la legittima critica al Governo Israeliano per avvicinarsi sempre di più all'odio vero e proprio. Molti di questi personaggi, politici locali, anche con scarsa rilevanza, sono stati allontanati prima delle elezioni politiche di maggio 2015 per evitare imbarazzi, ma sono stati presto riammessi durante il nuovo mandato da segretario di Jeremy Corbyn. Alcuni di questi casi sono saliti agli onori della cronaca.
  Gerry Downing, simpatico mattacchione trotskista e leader del gruppetto "Socialist fight" è stato espulso prima delle elezioni, formalmente per aver sostenuto un altro partito. Downing è stato presto riammesso tra i socialisti, nonostante in una lettera al Comitato Esecutivo Nazionale del partito abbia definito il gruppo "Labour Friends of Israel" come "un primo esempio della tecnica inventata dal Nazista Goebbels della Grande Bugia". Il leader di Socialist Fight non è nuovo ad uscite da brividi: giustificò l'11 settembre come una reazione "all'oppressione" e asserì di "difendere l'ISIS" dai bombardamenti dell'imperialismo americano.
 
Jeremy Corbyn
  Altro caso riportato della stampa è quello di Vicki Kirby, costretta al ritiro da candidata a Woking prima delle elezioni per dei commenti antisemiti. Kirby scrisse sul suo profilo Twitter che Hitler era "il Dio dei Sionisti". Altrove proclamò che "gli Ebrei occupano la Palestina […] e massacrano gli oppressi". Ai commenti seguì una "barzelletta": "Cosa sai degli ebrei? Che hanno il naso grosso e tifano Spurs (Tottenham ndr) lol!". Nel suo profilo altri parallelismi di cattivo gusto tra ebrei e nazisti. Kirby venne rimossa dalla candidatura insieme ad altri due politici poco abili con Twitter, uno per battute omofobe, un altro per aver paragonato i Conservatori sempre ai nazisti. Poche ore dopo il Tweet su Hitler Kirby venne espulsa da Ed Miliband. Alcune settimane fa Kirby non solo venne riammessa nel partito, ma diventò la vice-segretaria dei socialisti a Woking. Il sito di insight Guido Fawkes fece scoppiare lo scandalo e qualche giorno fa l'ex candidata è stata nuovamente sospesa. Nel corso della riunione per deliberare sul tema, pare che la deputata Louise Ellman abbia detto che i rapporti tra il partito e la comunità ebraica sono al minimo storico.
  Altro caso di cronaca recente ha riguardato lo strisciante antisemitismo durante le riunioni e sui gruppi social del Labour Club dell'Università di Oxford, che ha portato alle dimissioni del Presidente Alex Chalmers.
  Questa ondata trova pericolose sponde più in alto, dal momento che anche tra i vertici del partito si scivola spesso sul tema. Nel corso di una trasmissione televisiva l'eurodeputato Claude Moraes ha fatto una gaffe, auspicando una "soluzione finale" per il tema dei rifugiati. Innocente lapsus di cui Moraes si è scusato subito. Christine Shawcroft, che siede nel Comitato Esecutivo del partito (l'organo incaricato delle espulsioni) ha dichiarato che invece dei raid aerei anti-ISIS i soldati britannici dovrebbero "farsi una tazza di tè" coi miliziani, come avvenuto in una moschea che ha invitato alcuni militanti della xenofoba English Defense League. Luciana Berger è una giovane deputata laburista ed ebrea, che riceve da tempo insulti antisemiti sui social e di cui Corbyn ha recentemente preso le difese. Pare però improbabile che tra i cyberbulli che la attaccano non siano presenti anche alcuni suoi compagni di partito.
  I rubinetti dell'antisemitismo sembrano più aperti con la leadership di Jeremy Corbyn, che si sta difendendo dalle accuse che gli piovono da più parti sul tema. Quando era un semplice deputato definì Hamas ed Hezbollah organizzazioni "amiche". Partecipò, 15 anni fa, ad un incontro con il negazionista dell'olocausto Paul Eisen e conobbe l'imam Raed Saed, finanziatore di Hamas che una volta sostenne che "gli ebrei fanno il pane con il sangue dei bambini". Corbyn ha dichiarato di non sapere nulla delle accuse rivolte a Saed e che all'epoca del suo incontro Eisen non aveva manifestato alcuna deriva negazionista. Nel settembre 2015 partecipò ad un evento dei Labour Friends of Israel, con un discorso sulla soluzione "due popoli - due stati", in seguito al quale venne contestato da un partecipante, pare per non avere mai detto nei dieci minuti del discorso la parola "Israele". Nello stesso mese i laburisti israeliani scrissero una lettera aperta in cui si dicevano preoccupati dalle posizioni di Corbyn verso il loro paese, più che verso il governo cui essi stessi si oppongono. Tra gli ebrei britannici c'è una divisione sul tema: Adrian Cohen, presidente del Forum degli Ebrei Londinesi, ritiene che il supporto di Corbyn ai movimenti BDS e per la liberazione della Palestina porterà ad un'erosione del "consenso ebraico" nei confronti del partito. Altri, come Shlomo Ankar e Ian Saville, hanno fondato durante le primarie il gruppo "Jews for Jeremy" a sostegno di Corbyn.
  Corbyn mantiene un atteggiamento (legittimo, per carità) molto critico su Israele e si discosta dalle accuse di antisemitismo ribadendo che è lontano da ogni forma di razzismo. Tuttavia dovrebbe farsi un esame di coscienza sulla deriva che sta prendendo il suo partito, evidenziata da molti altri commentatori, ed agire con forza per non lasciare spazio alcuno a chi confonde la critica alla politica estera di una nazione con l'odio per tutti gli ebrei che non la pensino come loro.

(Strade, 22 marzo 2016)


Hillary Clinton: non abbandoniamo le nostre responsabilità verso Israele

WASHINGTON - Le turbolenze in Medio Oriente pongono grandi sfide agli Usa ma non abbiamo mai pensato di abbandonare le nostre responsabilità nella regione e verso Israele: lo ha detto oggi Hillary Clinton, candidata alle primarie del partito Democratico per la Casa Bianca, parlando a Washington nel corso della riunione annuale dell'American Israel public affairs committee (Aipac), un gruppo di pressione statunitense noto per il forte sostegno allo Stato di Israele. Nel suo intervento la Clinton ha sottolineato: "L'aggressività dell'Iran, l'aumento dell'estremismo ed il crescente sforzo per delegittimare Israele agli occhi della comunità internazionale rendono l'alleanza tra gli Usa e Israele sempre più necessaria. Oggi i nostri due paesi devono essere più vicini che mai e più determinati che mai ad andare contro i nostri avversari comuni per far crescere i nostri valori comuni". La Clinton ha poi ricordato la recente ondata di atti di terrorismo che si registrano in Israele concludendo: "Questi attacchi devono finire immediatamente, i leader palestinesi devono mettere fine a queste violenze. Devono smettere di celebrare i terroristi come martiri e smettere di premiare le loro famiglie".

(Agenzia Nova, 21 marzo 2016)



Donna si nasce o si diventa?


 


Il Consiglio Onu per i diritti dei terroristi

Brani del discorso tenuto lunedì da Yair Lapid ad una manifestazione di protesta davanti alla sede del Consiglio Onu per i diritti umani a Ginevra.

Siamo qui, ebrei e non ebrei, da Israele e da tutta Europa, per protestare contro il fatto che il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, anziché assolvere quello che sarebbe il suo compito, incoraggia di fatto l'assassinio, il terrorismo, l'ingiustizia.
E non siamo più disposti a restare in silenzio. Questo non è un Consiglio per i diritti umani. E' diventato piuttosto un Consiglio per i diritti del terrorismo.
Negli ultimi dieci anni il Consiglio ha approvato 55 risoluzioni su violazioni dei diritti umani in tutto il mondo: l'intero globo, con tutti i suoi conflitti interminabili. Nello stesso decennio, negli stessi dieci anni, il Consiglio ha approvato 62 risoluzioni contro Israele. Sette risoluzioni di più contro Israele che quelle su tutto il resto del mondo....

(israele.net, 22 marzo 2016)


Per il derby di Istanbul l'Isis stava progettando una strage come a Parigi

Il match di calcio rinviato per «le serie minacce di attacchi terroristici». L'intelligence: un kamikaze doveva farsi esplodere allo stadio causando il panico tra la folla su cui poi sarebbe stato aperto il fuoco.

 
Tifosi del Galatasary davanti alla Telekom Arena di Istanbul
Per il derby calcistico di Istanbul, rinviato ieri sera, l'Isis progettava un attacco coordinato come quello di Parigi. In una Turchia sempre più stretta nella morsa del terrorismo, l'intelligence di Ankara svela il piano di una strage sventata dalla decisione dell' ultim'ora di annullare la partita più sentita del campionato, fra Galatasaray e Fenerbahce, quando migliaia di tifosi erano già diretti allo stadio.
   Il progetto di attacco prevedeva che un kamikaze si facesse saltare in aria al termine del match, causando il panico tra la folla, su cui poi sarebbe stato aperto il fuoco in modo indiscriminato. Uno scenario di "caos organizzato", per colpire un Paese già in preda al terrore dopo due attacchi suicidi a Istanbul e Ankara in meno di una settimana.
   L'azione allo stadio, secondo gli 007, era comunque il piano B dei jihadisti, che originariamente puntavano a un attacco di massa durante le celebrazioni del Newroz, il capodanno curdo che si festeggia oggi. Ma i divieti imposti alle manifestazioni in quasi tutta la Turchia avrebbero fatto cambiare l'obiettivo. A pianificare l'azione sarebbe stato "l'emiro di Gaziantep" Yunus Durmaz, tra i 3 super-ricercati dell'Isis e di cui le autorità turche hanno diffuso le foto, chiedendo aiuto alla popolazione per trovarli.
   I terroristi, dicono le autorità turche, pronti ad attacchi suicidi immediati e in grande stile. Durmaz, nome in codice `Ebu Ali‘, era già sospettato di essere la mente dell'attentato kamikaze che a ottobre ha ucciso 103 persone al corteo filo-curdo alla stazione di Ankara. Gli altri due sospetti sono Haci Ali Durmaz, alias "Mervan", e Savas Yildiz, nome in codice "Ebu Cihat", indicato inizialmente come l'attentatore suicida di sabato a Istanbul, e già sotto osservazione perché ritenuto responsabile delle bombe di maggio alle sedi di Mersin e Adana del partito filo-curdo Hdp. Secondo l'intelligence, le cellule dell'Isis attive nella preparazione di attacchi in Turchia sarebbero almeno 8, con circa 450 militanti, di cui un centinaio addestrati in tecniche esplosive nella `capitale‘ dello Stato islamico in Siria, Raqqa.
   L'attacco alla Turk Telekom Arena di Istanbul sarebbe dovuto arrivare all'indomani di quello nel centro della città, che ha ucciso quattro turisti stranieri, di cui 3 israeliani (2 con cittadinanza anche americana) e un iraniano. Obiettivi che con il passare delle ore sembrano sempre meno casuali. Se ormai appare chiaro che nel mirino, come già a Sultanahmet a gennaio, c'erano i turisti, si fa strada anche l'ipotesi che il kamikaze abbia deciso di colpire proprio un gruppo di israeliani.
   Un'eventualità non esclusa sin dall'inizio dal premier di Israele, Benyamin Netanyahu, e che pare avvalorata dalle ricostruzioni dei movimenti di Mehmet Ozturk, il 24enne turco di Gaziantep, che Ankara ha identificato come l'attentatore suicida. L'uomo avrebbe seguito il gruppo di turisti israeliani dal loro albergo di Besiktas, poco lontano dal luogo dell'attacco, aspettandoli poi nei pressi del locale in cui hanno fatto colazione su viale Istiklal, vicino a dove si è fatto esplodere poco dopo. Al momento, però, sull'ipotesi di un'azione mirata contro gli israeliani le autorità turche e dello Stato ebraico restano prudenti.

(La Stampa, 21 marzo 2016)


Studente israeliano inventa un dispositivo per prolungare la durata di frutta e verdura

 
Quei pomodori nel frigorifero non sono più così giovani. Si tratta del classico enigma in cucina. Si va a fare la spesa, forse si abbonda nell'acquisto di frutta e verdura, ma poi inevitabilmente si finisce per constatare che le melanzane e la lattuga iniziano a deteriorarsi prima ancora di aver avuto la possibilità di utilizzarli.
Uno studente israeliano di 20 anni ha trovato la soluzione. Con l'aiuto di scienziati dell'alimentazione dell'Università della Florida negli Stati Uniti e dell'Università di Ben Gurion, Amit Gal-Or ha creato un sistema che estende la durata di conservazione di frutta e verdura, come mele e cetrioli, triplicando la durata di vita dell'alimento senza l'utilizzo di sostanze chimiche.
Gal-Or il mese scorso ha lanciato una campagna di raccolta fondi su Kickstarter per sostenere il suo prodotto chiamato Food Protector, ed ha già superato il suo obiettivo.
Per anni, polveri specifiche sono state utilizzate per combattere funghi e batteri presenti nella frutta e verdura. Ad esempio, c'è una polvere speciale per l'uva, una polvere speciale per le fragole, e così via. Finora, questa tecnologia è stata utilizzata solo dal settore industriale per fini di stoccaggio e spedizione.
Ora Gal-Or, ha creato una polvere multi-uso che agisce su frutta e verdura, ed ha creato anche dei contenitori facili da usare che la gente può tranquillamente tenere nella propria cucina.
La polvere è completamente organica e completamente sicura e non necessita di alcuna applicazione fisica come nella maggior parte dei prodotti chimici agricoli - ha solo bisogno di essere in prossimità del frutto.
Il commento di Gal-Or:

L'obiettivo più grande è quello di ridurre i rifiuti alimentari e di farlo in modo organico. Il venticinque per cento dei rifiuti alimentari in realtà deriva dall'ambiente domestico. Credo che se gli individui fossero in grado di prendere coscienza della situazione e realmente riuscissero a condurre una vita sostenibile, essi riuscirebbero ad influenzare le istituzioni più grandi.

Il dispositivo avrà un costo di circa 25 dollari e verrà fornito con un numero sufficiente di pacchetti per durare un anno, successivamente i clienti potranno ordinare delle "ricariche". Gal-Or fa sapere che il prodotto dovrebbe essere disponibile per l'acquisto online a partire da questa estate.

Mi preoccupo per le questioni legate alla sostenibilità. È un qualcosa che veramente mi sta a cuore. Ma sono anche un ragazzo tecnologico, e spero di riuscire a combinare questi due settori.

A tal proposito, ha rivelato che è già al lavoro per produrre una polvere che possa aiutare la durata dei fiori.

(SiliconWadi, 21 marzo 2016)


Hamas rimuove le immagini di Morsi da Gaza

GAZA - Il movimento islamico palestinese Hamas, che amministra la Striscia di Gaza, ha rimosso le immagini dell'ex presidente egiziano Mohamed Morsi e del fondatore Fratelli musulmani Hassan al Banna dalle strade della città. Fonti ben informate hanno riferito al quotidiano "al Sharq al Awsat" che la decisione arriva dopo l'accordo raggiunto la scorsa settimana dai leader di Hamas con le autorità egiziane. Il governo di Hamas ha ordinato la rimozione di qualsiasi riferimento ai Fratelli Musulmani, soprattutto quelli egiziani. La mossa, che arriva dopo un vertice con i servizi segreti egiziani, include anche le lezioni religiose nelle moschee della Striscia, dove sono stati messi al bando i libri del fondatore dei Fratelli Musulmani. Hamas ha chiesto al Cairo di ridurre l'embargo su Gaza e di riaprire parzialmente il valico di Rafah in particolare dopo che l'esercito egiziano è riuscito a distruggere quasi tutti i tunnel illegali che collegavano Gaza con l'Egitto

(Agenzia Nova, 21 marzo 2016)


Loinger, l'uomo che racconta 105 anni di storia

Ultracentenario, ha combattuto Hitler e fatto salpare la Exodus per Israele.

di Sabrina Cottone

George Loinger
Non capita tutti i giorni di ascoltare la conferenza di un uomo di 105 anni. Il relatore parla al Memoriale della Shoah, è George Loinger, ebreo francese che durante la guerra è evaso da un campo tedesco per dedicarsi a salvare oltre mille bambini dalla furia di Hitler. Poi è stato tra i protagonisti dell'avventura della nave Exodus, che nel 1947 sfondò il blocco navale britannico per portare in Palestina gli ebrei che in Europa non si sentivano più sicuri, dopo gli orrori dell'Olocausto.
   «Il sogno della Palestina è nato perché gli ebrei non si fidavano più dell'Europa» racconta Loinger, invitato dal Keren Kayemeth LeIsrael. Lui però, nato a Strasburgo nel 1910, non ha lasciato la Francia. Né dopo né durante la guerra quando, messi in salvo moglie e figli in Svizzera, si dedicò alla Resistenza contro i nazisti: decorato da De Gaulle con la legion d'onore che sfoggia con orgoglio sul petto. La sua vita lo ha portato a incrociare la strada dei militari italiani e ne ha un ricordo commosso: «Sono stato in contatto con l'esercito italiano che occupava il sud-est della Francia. Come resistente, quando la mia missione era di andare alla frontiera con la Svizzera per far passare i bambini ebrei oltre confine, ho trovato aiuto in un capitano dell'esercito italiano, di cui purtroppo non ricordo più il nome. Ho un debito di riconoscenza verso l'esercito italiano, perché si è rivoltato contro Hitler. L'esercito italiano che era alla frontiera con la Svizzera lasciava passare gli ebrei che cercavano di passare. Poi, quando quel confine è diventata una frontiera tedesca, lo stesso luogo si è trasformato in un orrore».
   Memorie di quando era un quindicenne ed ebbe il suo primo impatto con Adolf Hitler: «Ho sentito Hitler alla Radio di Strasburgo, parlava con una voce fortissima. Era piccolo ma dalla voce avresti detto che era un gigante. Era il 1925 e già urlava in tedesco: eliminerò gli ebrei dall'Europa. L'aveva già detto tanti anni prima della guerra».
   Il binario 21, luogo di partenza degli ebrei per i campi di sterminio, oggi diventato Memoriale, è il luogo in cui riprendono vita i passeggeri di Exodus. «Ben Gurion mi ha inviato persone dell'esercito israeliano, dicendo: abbiamo bisogno di te per organizzare il viaggio di 4500 ebrei sopravvissuti alla Shoah. Gli inglesi non era d'accordo, pazienza, abbiamo corso il rischio. Abbiamo usato pullman, autobus, treni, li abbiamo accompagnati e imbarcati sulla nave. Ci volevano cento giorni per arrivare in Israele». Approdarono, ma furono respinti e rimandati indietro.
   Loinger ha anche voglia di dare consigli di sopravvivenza: «Sono ingegnere ma ero anche professore di educazione fisica. Ero uno sportivo, forse è per questo che sono ancora qui con voi. Se si mangia troppo, si beve troppo, ci si ammala. L'alcol fa male, i grassi fanno male». Grandi avventure e piccole verità che lo hanno accompagnato fino a qui.
   
(il Giornale, 21 marzo 2016)


“il terrorismo contro innocenti non ha mai alcuna giustificazione”

"Il terrorismo semina la morte in tutto il mondo e Israele è in prima linea nella lotta contro il terrorismo globale". Lo ha detto domenica mattina il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, aprendo la riunione settimanale del gabinetto. "Questa lotta è prima di tutto militare, ma è anche una battaglia morale - ha detto Netanyahu, ribadendo la condanna dell'attentato di sabato a Istanbul che ha causato, fra gli altri, 3 morti e 11 feriti israeliani - La chiave della battaglia morale sta nel mettere bene in chiaro che il terrorismo contro innocenti non ha mai alcuna giustificazione: né a Istanbul, né in Costa d'Avorio, né a Gerusalemme". Non è ancora chiaro se l'obiettivo dell'attentatore suicida di sabato a Istanbul fosse espressamente il gruppo di turisti israeliani che passeggiavano lungo Viale Istiklal. Se gli indizi venissero confermati, si tratterebbe del primo attentato diretto dello "Stato Islamico" (ISIS) contro Israele.

(israele.net, 21 marzo 2016)


Le lettere dell'eroe Yonathan Netanyahu, che parlano al nostro tempo

di Corrado Ocone

 
Yonathan Netanyahu
È passato mezzo secolo esatto e in pochi se ne ricordano. In quanti sanno dire con precisione cosa sia stata l' "Operazione Entebbe"? Eppure, si tratta di uno dei più riusciti e spettacolari blitz compiuti nella storia militare: nella notte fra il 3 e il 4 luglio 1976 un reparto scelto israeliano riuscì a liberare in modo a dir poco carambolesco i passeggeri e l'equipaggio dell'aereo Air France in volo da Tel Aviv a Parigi. Dirottato da un commando composto da terroristi palestinesi e tedeschi, l'aereo, dopo un peregrinare di ore con tappe ad Atene e Bengasi, era giunto in Uganda ove poteva contare sulla protezione del dittatore Idi Amin.
   Nonostante ciò, grazie a una serie quasi inverosimile di azioni e stratagemmi, il corpo speciale riuscì a liberare tutti gli ostaggi, lasciando sul terreno, oltre ai dirottatori, un solo uomo: il comandante dell'operazione, il colonnello Yonathan Netanyahu. Yoni, come era chiamato, aveva da poco compiuto trenta anni, ma la sua vita era stata tanto breve quanto intensa, svoltasi sempre in bilico fra l'idea di restare negli Stati Uniti (ove era nato ed era stato ammesso ad Harvard) per seguire la sua vocazione intellettuale e il desiderio e il dovere di tornare in Israele ed arruolarsi nell'esercito per difendere quella che sentiva la sua vera patria. Scelta che alla fine fece e che lo avrebbe portato alla morte, che ovviamente aveva messo in conto. Del giovane Yoni, la casa editrice Liberilibri di Macerata pubblica in questi giorni una selezione di Lettere, scritte negli ultimi tredici anni della sua vita ad amici e parenti, in primo luogo si due fratelli più piccoli: Iddo e soprattutto Bibi, cioè quel Benjamin a cui era particolarmente legato e che lo avrebbe elevato a maestro di vita negli anni successivi.
   Fino a diventare leader del Likud e oggi premier israeliano. L'iniziativa del libro, che contiene una premessa e una postfazione dei due fratelli sopravvissuti, si deve a un giovane e colto studioso di idee liberali, Michele Silenzi, che è anche il traduttore e l'autore di una introduzione in cui si spiega con chiarezza genesi, senso reale e senso ideale di esso. "Dalle lettere emerge - scrive Silenz i- una sorta di romanzo epistolare di formazione... Tutta la trasformazione di un giovane intellettuale in un grande combattente". Ciò che in effetti colpisce o sorprende è proprio lo iato fra la profondità di sentire e la nobiltà d'animo non comuni di Yoni e la consapevolezza che egli aveva del fatto che solo impugnando le armi e sporcandosi le mani avrebbe potuto difendere ciò che aveva di più caro e anche la propria dignità di essere umano. Egli rinuncia a una carriera accademica brillante, tutta nel solco familiare (il padre era un grande storico, direttore dell'Encyclopedia Judaica), e sceglie una vita che non sente in fondo sua, Lo fa perché intuisce che difendere Israele significa lavorare per la difesa dei nostri valori occidentali e liberali. Il libro perciò, nel mostrare attraverso le lettere la vita e le passioni di questo giovane eroe (Silenzi ci invita a non avere paura di questa figura e di questa parola), vuole essere anche un monito e un esempio a un Occidente oggi sempre più rinunciatario e che odia Israele perché odia se stesso.
   Vittime del politicamente corretto, è come se noi occidentali non cogliessimo più il fondo tragico della vita, il fatto che la risoluzione dei conflitti non può risolversi con l'indifferentismo morale di un buonismo di maniera. Non comprendiamo che la libertà non è mai garantita, ma va sempre difesa, anche da se stessi. "L'America è come la ricordavo", scrive da Cambridge nel Massachusset il 13 giugno 1973. E osserva: "Un Paese che ti muove a pietà da un lato e ad onesta ammirazione dall'altro. Pietà perché i giovani, qui, sono affaticati da una interminabile frustrazione e sembrano incapaci di progredire oltre uno stato infantile. Sulle strade principali di Cambridge (dove si trova la mia università) si possono vedere giovani seduti sul marciapiede a piedi scalzi, mezzi nudi e sporchi, chiedere la carità e strimpellando chitarre o giochicchiando con perline indiane e distribuendo propaganda religiosa ("Gesù salva", questa è l'ultima). Ovviamente non tutti sono così estremi, ma tutti sono tirati per diventare antisistema e gettare fango sul governo americano. Sembra che la gente qui abbia smesso di essere oggettiva molto tempo fa. Provo un senso di dispiacere per l'America; questi suonati la distruggeranno". I "suonati" sono con gli anni diventati classe dirigente, l'America è ancora in piedi però. E per fortuna. Il problema è che però continua ad avere la vista annebbiata. E spesso non capisce più Israele.

(L'Huffington Post, 21 marzo 2016)


Oltremare - Pubblicità o progresso

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ogni anno in Israele, più o meno quando arrivano le folate di chamsin primaverile, arriva anche un'ottima occasione per sentirsi profondamente ignoranti in fatto di storia nazionale e cultura generale. È sempre così, quando escono le nomination per il "Pras Israel", il premio distribuito dal Ministero dell'Educazione dal lontano 1953 a un numero variabile di israeliani eccellenti, divisi perfino per categorie. Una specie di micro-Nobel, o mini-Oscar, o comunque una celebrazione allegra e il più delle volte interessante dell'israelianità.
Per cominciare, è un forum nel quale il grado raggiunto nell'esercito, o il numero di guerre vinte o perse, è totalmente irrilevante. Già un bel sospiro di sollievo, in una società nella quale ancora oggi, e chissà fino a quando di questo passo, la gerarchia dell'esercito è incombente ovunque, dalla politica all'industria all'high-tech. Il premio viene dato secondo quattro macro-categorie: scienze sociali o umanistiche o studi ebraici; scienze (esatte o naturali); cultura, arti, comunicazione e sport; e dal 1972, alla carriera e al contributo straordinario alla nazione.
Le nomination di solito non vengono comunicate tutte assieme, lasciando lo spazio sui media a ciascun nominato singolarmente. Per fortuna, perché di solito io scopro l'esistenza di questi israeliani illustri solo in quel momento. Per dire, Nurit Hirsch, nominata ieri per la musica, non era esattamente parte del mio orizzonte culturale. Eppure, ha composto le colonne sonore di 14 film, e ha scritto qualcosa come mille (sic) canzoni, e la sua "Abanibi" ha vinto l'Eurovisione nel 1978. Noi in Italia siamo tutti cresciuti cantando "Ba-Shanah ha-Ba'ah (neshev 'al ha-mirpeset, ecc)" ma sfido chiunque a dire chi l'abbia scritta. E dunque, grazie al "Pras Israel" adesso lo sappiamo: Nurit Hirsch.
Ora, se io volessi essere una israeliana un po' più consapevole, prenderei la lista di tutti quelli che hanno ricevuto il premio dal 1953 in poi, e mi metterei con santa pazienza a studiare. Ci sarebbe da farci un bel PhD in storia della società israeliana, a partire da quella lista.


(moked, 21 marzo 2016)


L'attentatore di Istanbul seguiva un gruppo di turisti israeliani

ANKARA - Mehmet Ozturk, l'attentatore turco che sabato scorso, il 19 marzo, si è fatto esplodere nel quartiere di Beyoglu, nel centro di Istanbul, avrebbe seguito i tre cittadini israeliani morti nell'attentato dal momento in cui questi sono usciti dal loro hotel. Lo riferisce l'emittente turca "Haberturk" anche se la notizia per il momento non è stata confermata dalle autorità. L'emittente televisiva ha detto che questa indiscrezione si baserebbe sull'analisi dei filmati delle telecamere di sicurezza. Ieri le autorità turche hanno detto che, in base all'esame del Dna, l'uomo che si è fatto esplodere sabato era Ozturk, cittadino turco nato nel 1992 a Gaziantep, nella parte sudorientale del paese al confine con la Siria. I familiari dell'uomo avevano perso le sue tracce dopo che questo si era recato ad Istanbul nel 2013.

(Agenzia Nova, 21 marzo 2016)


Kurt Landauer, il presidente ebreo che ha creato il Bayern Monaco vincente

di Giovanni Sgobba

Festeggiamenti per le strade di Monaco del primo titolo nel 1932
Nella piazzetta antistante alla mastodontica e moderna Allianz Arena, a Monaco di Baviera, c'è una targa con il volto di un uomo in bassorilievo e sull'epigrafe bronzea si legge: "Kurt Landauer - Der Präsident des Bayern München". In verità, la scritta in tedesco è accompagnata da una frase tradotta anche in ebraico e la stessa piazzetta (come la via che sbuca dinanzi allo stadio), nel dicembre 2015 è stata intitolata all'ex-presidente bavarese che ha rivestito la carica, in tre periodi differenti, dal 1913 al 1951, ottenendo il mandando più lungo, ben 19 anni, non ancora eguagliato. Sotto la sua guida il club ha vinto, nel 1932, il suo primo titolo nazionale e gettato le basi dei suoi futuri e attuali successi sportivi.
   Nato il 28 luglio 1884 a Planegg, paesino non lontano da Monaco, da una famiglia ebrea che gestiva un negozio di abbigliamento femminile, Kurt avvicinò al club bavarese, nel 1901, inizialmente come calciatore, ricoprendo il ruolo di secondo portiere. Già nel 1913 assunse il titolo di presidente, incarico, però, interrotto dopo solo un anno, perché con l'esplodere della prima guerra mondiale, fu chiamato al fronte per difendere la patria. Ottenuta la Croce di Ferro al valore e terminata l'esperienza bellica, tornò a rivestire il ruolo di "numero 1" della squadra bavarese fino al 1933: nel suo secondo mandato, Kurt si focalizzò principalmente sull'edificazione di una società capace di vincere, partendo da un'organizzazione solida e controllata.
   Riformò il settore giovanile, un'idea al tempo unica e, con un'attenta pianificazione, fece diventare il Bayern una squadra economicamente potente. Fu considerato antisportivo e contro i principi etici tedeschi, quando propose di stipendiare i calciatori per il loro tempo speso in campo: un incentivo, pensava, per portare anche giocatori talentuosi nel club. Lui, inoltre, apprezzava le squadre straniere dalle quali poteva apprendere e imparare: il Bayern giocò regolarmente amichevoli contro avversari svizzeri, ma anche contro i più forti del tempo che venivamo dall'Ungheria e dall'Austria. Un atteggiamento, ancora una volta, osteggiato dalla Federazione calcistica tedesca che voleva un calcio nazionale puro e libero da contaminazioni.
 
Presentazione della targa commemorativa alla presenza di Franz Beckenbauer, presidente onorario del Bayern
 
La strada intitolata vicino allo stadio
 
Il saluto dei giocatori al loro ex-presidente. Scena tratta dal film "Landauer - Der Präsident"
 
Coreografia dei sostenitori bavaresi all'Allianz Arena
   Dopo anni magri, finalmente, nel 1932, il Bayern vinse il suo primo titolo nazionale: il 24 aprile, con le reti di Oskar Rohr e Franz Krumm e guidati dall'allenatore Richard Kohn, il gruppo sconfisse l'Eintracht Francoforte a Norimberga, vincendo il primo campionato che fu festeggiato per le strade di Monaco su una carrozza, mentre tifosi e cittadini accoglievano trionfanti i calciatori.
   Un idillio che si ruppe sul più bello: qualche mese più tardi, i nazisti salirono al potere e l'incantesimo si spezzò. Adolf Hitler, nella sua perversa visione del mondo, vedeva il calcio professionistico di matrice ebraica, quindi fece in tutti i modi per riportare il calcio tedesco a livello amatoriale. Il Bayern Monaco, in aggiunta, avendo il presidente e qualche altro elemento dello staff di origina ebraica, fu sin da subito etichettato come "Judenklub" (club ebreo) e fu costretto a seppellire i pochi trofei vinti perché i nazisti erano alla continua ricerca di materiale ferroso per produrre le armi: una situazione spinosa che portò l'allenatore Kohn a fuggire in Spagna e alle dimissioni di Landauer.
   Dopo la Kristallnacht, la Notte dei cristalli tra il 9 e il 10 novembre 1938, circa 30mila ebrei furono deportati nei campi di concentramento di Dachau, Sachsenhausen e Buchenwald: tra i deportati a Dachau, sempre nel land della Baviera, c'era anche Kurt Landauer, ma, grazie al suo passato di soldato durante il primo conflitto mondiale, fu rilasciato dopo 33 giorni di prigionia. Mentre tutti i suoi fratelli, tranne uno, furono assassinati dai nazisti, lui riuscì a emigrare in Svizzera.
   Seppur in esilio, Landauer non fu dimenticato: al paese svizzero è legato, forse uno dei momenti più romantici della storia del club bavarese. Il Bayern Monaco era a Ginevra per un'amichevole e, durante la gara, i calciatori notarono seduto in tribuna il loro ex-presidente. Non curandosi delle possibili sanzioni e dei rischi di quel gesto provocatorio, sotto gli occhi vigili dei generali della Gestapo, i ragazzi si avvicinarono a bordo campo per salutare e applaudire Landauer.
   Si dice che nel 1947, una volta terminata la guerra, come molti altri perseguitati, Kurt avesse già in tasca il biglietto per rifarsi una vita a New York, ma passato da Monaco, preso dai ripensamenti e dall'affetto verso la città, decise di fermarsi e di trascorrere gli anni successivi. Uno dei pochi ebrei che decise di tornare in Germania, Landauer ottenne, per la terza volta, il mandato di presidente del club bavarese che ha onorato fino al 1951, prima di morire 10 anni più tardi, il 21 dicembre 1961 nell'ospedale Schwabing.
   La storia di Kurt Landauer è stata per molti decenni dimenticata, ma sono stati soprattutto i tifosi (che all'Allianz Arena hanno più volte dedicato una coreografia) a riportare in vita la memoria di un brillante personaggio della storia del club: nel 2005, sulla spinta del Club Nr. 12, associazione di supporter bavaresi, il consiglio comunale ha approvato la proposta di intitolare la strada, vicino all'Allianz-Arena, "Kurt-Landauer-Weg". Alcuni sostenitori pensarono anche di rinominare lo stadio "Stadion am Kurt-Landauer-Weg", ma non ebbe grande riscontro.
   Dal 2006, però, promossa dal gruppo ultras Schickeria, si disputa ogni anno la Kurt-Landauer-Pokal, una manifestazione sportiva contro il razzismo. Nel 2009, invece, in occasione dei 125 anni dalla nascita di Landauer, si svolse una commemorazione vicino la Baracca 8 di quello che rimane del campo di concentramento di Dachau. Alla cerimonia erano presenti anche i rappresentanti del TVS Maccabi München, squadra locale ebrea che, nel 2005, ha intitolato il suo campo di gioco a Kurt Landauer. Nel luglio 2014, in Germania è, invece, uscita una fiction televisiva dal titolo "Landauer - Der Präsident".

(tuttocalcioestero.it, 17 marzo 2016)


I 500 anni del Ghetto, invitato Mattarella

La comunità ebraica confida nella presenza del Presidente della Repubblica in occasione del concerto alla Fenice

Anche se che l'agenda presidenziale pare sia troppo affollata per riuscirci ad infilare un nuovo viaggio a Venezia, un "no" definitivo dal Quirinale non è ancora arrivato all'invito della Comunità ebraica veneziana: sarebbe la terza volta di Sergio Mattarella a Venezia da capo dello Stato, dopo la Mostra del Cinema e i funerali di Stato di Valeria Solesin.
   L'appuntamento è quello del 29 marzo quando prenderanno il via le "memorie" per i 500 anni del Ghetto di Venezia, occasione di conoscenza e riflessione collettiva. Ma - di questi tempi bui - anche di massima mobilitazione dell'apparato di sicurezza, tanto che i sopralluoghi sono già iniziati. O, meglio, mai finiti dopo la mobilitazione di forze dell'ordine per il vertice Renzi-Hollande a palazzo Ducale. Lo staff presidenziale ha fatto informalmente sapere alla Questura che gli impegni già in agenda non permettono al presidente Mattarella di accogliere l'invito: ma il "Mi dispiace, non posso" non è ancora stato formalizzato alla Comunità, testimoniando la speranza di poterci essere al concerto alla Fenice che aprirà ufficialmente il calendario dei 500 anni del Ghetto. In palco reale siederanno di certo la presidente della Camera Laura Boldrini e la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi, insieme al ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Serata inaugurale organizzata in collaborazione con l'Unione delle comunità ebraiche italiane, il World Jewish Congress e l'Associazione europea per la conservazione e la promozione della cultura e del patrimonio ebraico. «L'evento», spiegano gli organizzatori, «intende rimarcare il valore globale del cinquecentenario: non un festeggiamento, ma un momento di riflessione e di celebrazione della libertà oltre i muri».
   Dopo la prolusione dello storico britannico Simon Schama, il maestro Omer Wellber dirigerà l'orchestra della Fenice nella Sinfonia n. 1 in Re maggiore di Gustav Mahler.
   Il 29 marzo 1516, sotto il dogado di Leonardo Loredan, il Senato veneziano decretò che tutti "li giudei debbano abitar unidi" in una zona recintata e sorvegliata della città: nasceva il primo ghetto ebraico, il cui nome (è la tesi più accreditata) deriva dal "getto" delle fonderie che qui si trovavano. Una parola che in tutto il mondo è diventata sinonimo di segregazione e, talvolta, degrado. Ma la storia degli ebrei veneziani è ricca di cultura e relazioni con la città e il mondo, che saranno ricostruiti in una grande mostra a Palazzo Ducale, "Venezia, gli ebrei e l'Europa. 1516-2016", organizzata in collaborazione con la Fondazione Musei Civici e che aprirà a metà giugno.

(la Nuova, 20 marzo 2016)


"La summa del pensiero ebraico finalmente disponibile a tutti"

Il rabbino Riccardo Di Segni: "Un progetto culturale grandioso reso possibile anche grazie all'intervento delle istituzioni dello Stato". Insieme con questo testo viene offerto un immenso repertorio di sapere e di esperienza intellettuale.

di Elena Loewenthal

Riccardo Di Segni con la moglie
In ebraico si chiama Torah she beai peh, «Torah che sta sulla bocca». Ma la tradizione orale dei figli d'Israele è un immenso corpus scritto, redatto lungo una catena di secoli. Il suo cuore è il Talmud, parola ricavata da una radice che significa «imparare» e «insegnare»: «ho imparato molto dai miei maestri», dice un rabbino, ma ho imparato di più dai miei allievi».
  Di Talmud ne esistono due, uno di Gerusalemme e uno di Babilonia, che è quello per antonomasia, arrivato intorno al V-VI secolo nella sua forma attuale: 5422 pagine fitte. Summa di fede scritta in due lingue, ebraico e aramaico, il Talmud contiene prima di tutto materiale legale, ma non è estraneo a nessun campo dell'antico sapere, dall'astronomia alla medicina. La sua forma è quella del verbale di discussione, di un «domanda e risposta» che parte dal versetto biblico e procede all'infinito. Testo aperto per eccellenza, il Talmud si legge con un metodo non dissimile da quello della pagina web con i suoi rimandi, cioè i link, in un continuo cammino di interpretazione.
  Il progetto della prima traduzione in italiano del Talmud è siglato in un protocollo di intesa fra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Miur, Cnr e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane il 20 gennaio del 2011.
Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, medico e studioso, è il presidente del consiglio di Amministrazione nonché del comitato di coordinamento di questa opera davvero immensa.

- Come è nato questo progetto, rav Di Segni?
  «Quasi per caso. Mi sono detto: proviamo a proporre la traduzione del Talmud in italiano. Sotto sotto ero convinto che si trattasse di una missione impossibile. Ho avviato sondaggi informali, e mi sono reso conto che c'era un reale interesse da parte delle istituzioni dello stato. Questo sostegno è stato fondamentale. Così ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo messo su uno staff capace. Ora abbiamo una squadra di circa cinquanta studiosi fra traduttori esperti, traduttori in formazione, istruttori, redattori. E' davvero una operazione enorme, ma anche innovativa. Abbiamo costruito un apparato di note e di schede illustrative fatto apposta per entrare in questo universo religioso, culturale, intellettuale».

- Quale è stata la maggiore sfida traduttiva di un testo così antico, complesso?
  «Malgrado la sua mole il Talmud è un testo terribilmente sintetico, ricco di termini tecnici, senza interpunzione. E' tutto fatto di domande formulate in modo lapidario e di risposte altrettanto brevi: ogni frase va sciolta. Quasi una stenografia. Abbiamo fornito una traduzione parola per parola con una serie di inserimenti in neretto che danno corpo alla prosa. La traduzione è insomma una continua parafrasi, un commento al testo originario. Queste sono le difficoltà intrinseche del Talmud. Che si riflettono anche nella lingua di destinazione, ovviamente. Abbiamo anche dovuto "reinventare" l'italiano. Come ad esempio nell'espressione "uscire d'obbligo", che ricorre frequentemente nel Talmud e che così abbiamo lasciato perché il suo senso è chiaro. Ma è una sorta di neologismo fraseologico, a ben guardare. E poi c'è naturalmente un ricco apparato di commento, approfondimenti, spiegazioni».

- Questa traduzione del Talmud si avvale non soltanto della competenza di un folto gruppo di esperti - quasi un'evocazione di quei Settanta Saggi confinati ciascuno in un'isoletta diversa del delta del Nilo e impegnati alla traduzione in greco della Torah ... E' anche il frutto di una tecnologia al servizio di un mestiere molto antico, non è vero?
  «Il finanziamento pubblico stanziato per quest'opera ha implicato il coinvolgimento di grandi strutture di ricerca, prime fra tutte il Cnr e l'Istituto di linguistica. Così è stato elaborato un software apposito. In parole povere, il traduttore non usa Word ma un sistema centralizzato che sulla base dei dati ricevuti suggerisce la traduzione, la resa in italiano di espressioni, frasi, modelli espressivi. Una resa che è naturalmente non casuale ma frutto di lavoro, di grande approfondimento. Dunque i nostri traduttori non sono affatto ognuno su un'isola deserta ... c'è una comunicazione continua, un passaggio di esperienze di lavoro e scelte traduttive che diventa bagaglio lessicale. E' davvero un metodo nuovo di lavoro, che posso immaginare verrà esportato in altri campi».

- I rabbini, gli studiosi, i talmudisti conoscono e frequentano il Talmud nella sua versione originale? Qual è il destinatario di questa traduzione italiana, la prima a circa millecinquecento anni dalla redazione di questo testo?
  «Il Talmud è un testo fondamentale per la cultura universale. È la summa del pensiero e della parola del popolo ebraico. Direi che questa traduzione si offre a diversi livelli di pubblico. Lo studente, il curioso, lo studioso. Se ho bisogno di leggere o consultare un passo della Patristica greca dispongo di traduzioni "storiche", del corpus completo di questo patrimonio, vuoi in italiano vuoi in un'altra lingua moderna. Ho studiato il greco al liceo, ma non sono più in grado di affrontare questi testi nella loro lingua originale... Questo discorso vale non meno per il Talmud, che è un patrimonio universale di cui tutti devono poter disporre. E noi stiamo offrendo con questo testo non solo una traduzione accurata e moderna, ma anche un immenso thesaurus di sapere, di conoscenze ed esperienza intellettuale».

(La Stampa, 20 marzo 2016)


Istanbul, attentato kamikaze: cinque morti"

Turchia nel caos per l'ennesimo attacco terroristico. Un uomo si fa esplodere nella via dello shopping: vittime due americani e due israeliani

di Fiamma Nirenstein

Niente è più vasto, più indiscriminato e quindi ignaro dei rapporti internazionali e delle norme diplomatiche del terrorismo: colpisce tutto e tutti, tanto da colpire ieri a Istanbul, la maggiore città turca, un gruppo di israeliani insieme a un iraniano. Quanti antagonismi affogati nel sangue. Fra gli israeliani ci sono due morti, un ferito gravissimo e almeno altri 10 feriti; uno dei morti è iraniano, un altro è certamente il terrorista che si è fatto esplodere; morti anche due cittadini americani. I feriti gravi, almeno 7, sono ricoverati in diversi ospedali e ci sono anche alcuni dispersi. Un cittadino del Dubai, un islandese dipingono il tragico patchwork della unificazione del mondo sotto l'egida del terrore; i feriti sono complessivamente 39 di cui più di venti stranieri. L'attentato suicida è stato compiuto nella mattina di ieri, verso le 10. II kamikaze si è fatto esplodere all'angolo fra una stradina pedonale, Balo Sokal e Istiklal, la strada obbligatoria per lo shopping dei turisti. La detonazione sembra essere avvenuta prima del tempo previsto, gli ordigni addosso al terrorista erano molto potenti e pare che solo la fortuna abbia fatto si che l'uomo non abbia raggiunto la centrale di polizia facendo un numero di vittime molto maggiore.
   La tensione in Turchia è alle stelle, solo una settimana fa ad Ankara un altro attentato ha fatto 37 morti. Ma mentre là gli attentatori erano del PKK qui si parla di Isis. In Israele l'impressione è enorme. Un aereo ha immediatamente preso il volo per riportare i feriti a casa e anche le famiglie dei feriti sono state trasportate a prendere i loro congiunti. Due gruppi fra cui molti arabi israeliani, compivano un giro gastronomico e i turisti erano forse sollevati dai recenti rinnovati colloqui fra Israele e la Turchia, dopo che negli anni passati i furiosi attacchi a Israele di Erdogan avevano portato i rapporti al punto più basso della storia dei due Paesi. L'ultima eco dell'odio inconsulto che in Turchia si è sollevato in questi anni è stato il tweet di Iram Atkas, una politica del partito di Erdogan AKP, che ha scritto: «magari gli israeliani feriti fossero tutti morti». II suo messaggio è stato cancellato e la responsabile espulsa dal partito.
   Secondo la ricostruzione della polizia, il kamikaze identificato è Savas Yildiz, 33 anni, originario di Adana nel sud del Paese. Yildiz sarebbe uno di quei terroristi generati dal traffico di uomini e di armi in mezzo a cui si trova la Turchia. La sensazione è che, nonostante gli sforzi che portano la Turchia a disegnarsi in questi giorni di accordi con l'Europa come parte del mondo che propende verso l'Occidente, i geni malefici delle guerre settarie del mondo arabo dilaghino sulle sicurezze di Erdogan. Due attentati nel centro di Istanbul e tre ad Ankara nei passati cinque mesi hanno mandato alla Turchia il messaggio che non vi è nessuna area tranquilla. L'attacco di Istiklal viene solo a due mesi da quello dell'area turistica di Sultanahmet. Vi morirono dodici turisti tedeschi. Il nuovo attacco colpisce la Turchia nel turismo di massa.
   Il consenso che ha sempre riportato Erdogan al potere è certo stato accresciuto dal suo porsi come leader del nazionalismo turco, disinvolto di fronte alla violazione continua di diritti umani, capace di volgere a suo favore nell'opinione pubblica il legame con la Fratellanza Musulmana quanto il rapporto con l'Unione Europea, lo scontro con i curdi e persino lo scontro-incontro con l'estremismo islamico che ha reso la Turchia autostrada dell'Isis verso la Siria. Ma il terrorismo non rispetta la scaltrezza politica. Vuole creare caos, ed è molto difficile immaginare che possa essere domato.

(il Giornale, 20 marzo 2016)

Terrore, dittatura, razzismo. È la Turchia che accogliamo

Un Paese allo sbando. Kamikaze Isis nella via più occidentale di Istanbul: morti fra cui due americani e due israeliani Ankara non si sa difendere, figurarsi se sarà in grado di fermare l'invasione dei profughi.

di Carlo Panella

 
Nuovo attentato in Turchia' il sesto, a soli sei giorni dall' esplosione che ha fatto 37 morti ad Ankara. Un kamikaze si è fatto esplodere alle Il di ieri nella strada pedonale dello shopping di Istanbul, la Istikal Caddesi, nel cuore del quartiere di Beyoglu, l'antica Pera a poche decine di metri da piazza Taksim e da Gezi Park. Cinque i morti, oltre all' attentatore, due americani, due israeliani e un iraniano; 36 i feriti, di cui 7 in gravi condizioni. Dodici sono stranieri: 6 israeliani, 2 irlandesi, un tedesco, un islandese, un iraniano e uno di Dubai. Una miscellanea di nazionalità che spiega bene come il luogo della strage sia stato scelto per colpire il turismo. È possibile che il kamikaze intendesse colpire in realtà l'affollatissimo centro commerciale Demiroen, a pochi passi da luogo in cui si è invece fatto esplodere, probabilmente per timore di essere intercettato da una delle tante pattuglie di polizia che presidiano uno dei luoghi più frequentati dai turisti di Istanbul.
   Le autorità turche, a differenza degli ultimi tre attentati di Ankara, non hanno indicato la pista curda del Pkk, ma hanno addossato la responsabilità all'lsis, come già in occasione dell'attentato di Suruç, nelluglio scorso. Questo, perchéhanno individuato l'attentatore dalle impronte digitali: è un turco, Savas Yildiz, di 33 anni, nato e residente ad Adana, citta del sud -est della Turchia' una delle zone più infìltrate dal Califfato. Yildiz era noto alle forze di sicurezza perché era andato a combattere in Siria ed era tornato in patria lo scorso ottobre.
   Poco dopo l'attentato, un episodio vergognoso, denunciato dai media israeliani: Irem Aktas, militante e diligente di una sezione femminile delAkp, il partito digoverno del presidente Erdogan ha postato su Twitter una frase infame: «Magari gli israeliani feriti fossero tutti morti». Il tweet ha naturalmente provocato una ondata di polemiche, è stato rapidamente cancellato e sono in corso indagini per verificare le responsabilità effettive.
   La cadenza ormai impressionante degli attentati in Turchia, le responsabilità di due centrali terroristiche ben distinte e addirittura acerrime nemiche l'una dell'altra - l'Isis e il Pkk curdo - che con tutta evidenza operano con grande libertà ovunq ue nel Paese, dimostrano non solo l'inefficienza delle forze di sicurezza turche, ma anche e soprattutto l'incapacità di Tayyp Erdogan e del suo governo di adempiere al mandato politico per cui avevano chiesto e ottenuto la vittoria elettorale schiacciante del novembre scorso: la garanzia della sicurezza interna. L'ondata di attentati si somma infatti al divampare - di nuovo - di una vera e propria guena civile contro i curdi, che ha fatto centinaia di morti, anche tra le forze di sicurezza turche, ai bombardamenti aerei delle basi del Pkk nel Kurdistan iracheno, ai continui tiri di artiglieria contro le città curde della confinante Siria per colpire le milizie del Ypg curdo, alleato del Pkk e alla feroce repressione interna contro intellettuali e giornalisti. Nel complesso, la Turchia di Erdogan è oggi un Paese in preda a convulsioni non governate, crescenti e caotiche.
   Nonostante questo, nel vertice di Bruxelles, una Unione Europea ignava, ha deciso di assegnare proprio a questa Turchia, proprio a questo Erdogan, il presidio della sua frontiera con una Mesopotamia sconvolta dalla guena civile siriana e dalla presenza, ormai cronica e appena intaccata, del Califfato nero dell'Isis. Una scelta di puro opportunismo, non solo più che criticabile sotto il profilo politico, ma anche e soprattutto inefficiente. È infatti evidente che questa Turchia, questo Erdogan, non offre le garanzie minime di sapere e volere controllare i fenomeni eversivi che la sconquassano. Come è certo che i 6 miliardi di euro che la Ue verserà nelle sue casse per fare da gendarme ai profughi non risolveranno nulla. Anzi.
   Ma quel che è peggio, è che per volontà di Angela Merkel, nel vertice di Bruxelles si è accettato anche un altro diktat di Erdogan: la Turchia si impegna ad arginare il flusso dei profughi in Europa in cambio delle riapertura immediata delle trattative per il suo ingresso pieno ed organico nella Unione Europea. Una strada che poteva apparire percorribile, con cautela, quando la Turchia era solidamente e democraticamente governata da forze laiche o islamiche di piena affidabilità democratica.
   Ma che oggi appare come la incosciente apertura al contagio a tutta l'Europa, dell'instabilità caotica e dell'autoritarismo islamista di Erdogan e del suo partito. Una prospettiva da evitare.

(Libero, 20 marzo 2016)


Influenze ebraiche per il sax di Coen che chiude il festival di San Vito

Si chiude la decima edizione di San Vito jazz, rassegna diretta da Flavio Massarutto e organizzata da Comune ed Ert: anche stavolta è stata all'insegna del tutto esaurito

di Andrea Sartori

Gabriele Coen
Si chiude oggi la decima edizione di San Vito jazz, rassegna diretta da Flavio Massarutto e organizzata da Comune ed Ert: anche stavolta è stata all'insegna del tutto esaurito.
Non farà eccezione l'ultimo dei tre appuntamenti in cartellone, quello con il sassofonista romano Gabriele Coen che, con la sua ensemble, condurrà il pubblico al cuore del rapporto tra musica ebraica e jazz americano, esplorando l'influenza dell'eredità ebraica sul jazz attraverso interpretazioni di brani divenuti dei classici della tradizione jazzistica.
   L'appuntamento è stasera, alle 21 al teatro Arrigoni. Titolo della serata è "Yiddish melodies in jazz": Gabriele Coen (sax soprano e clarinetto) sarà affiancato da Pietro Lussu (pianoforte), Marco Loddo (contrabbasso) e Luca Caponi (batteria).
   Il debito della musica ebraica nei confronti del jazz da cui, negli Stati Uniti, ha saputo trarre nuova linfa vitale, è cosa nota e ampiamente indagata e si è tradotta, negli anni, in un nuovo tipo di musica che coniuga il sound ebraico con le nuove frontiere sonore offerte dal jazz e da altre culture musicali.
   Coen accompagna il pubblico alla scoperta della penetrazione delle sonorità ebraiche nel mainstream americano, presentando per la prima volta in chiave contemporanea alcuni brani tratti dal repertorio della musica klezmer e della canzone yiddish. Pezzi che poi sono entrati a pieno diritto nella tradizione jazzistica, nelle loro memorabili esecuzioni di Original Dixieland jazz band, Benny Goodman, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Cab Calloway, Shelly Manne, Terry Gibbs e Herbie Mann.
   Con l'eclettismo espressivo che è il segno distintivo del suo percorso artistico e di ricerca, Coen presenterà quei brani, affiancandoli a due composizioni originali. Il sassofonita creerà così un'appassionante, inconsueta, lirica esperienza musicale attraverso un tessuto sonoro che attinge da jazz, rock e world music, senza mai dimenticare le radici ebraiche della sua ispirazione.
   All'esterno del teatro, negli spazi della loggia Comunale, è ancora esposta la mostra fotografica "Jazz landscapes" di Luca d'Agostino. La mostra è un racconto per immagini del jazz, attraverso dieci scatti - quante sono le edizioni della rassegna - selezionati tra i tanti che il grande fotografo friulano ha realizzato in oltre trent'anni di attività nel mondo dello spettacolo.

(Messaggero Veneto, 20 marzo 2016)


Grande successo per la quarta edizione di Lech Lechà

La settimana della cultura ebraica si è chiusa tra musica e riti dello Shabbat.

Si è conclusa con grande successo a Trani la quarta edizione di Lech Lechà, la settimana di arte, cultura e letteratura ebraica. L'evento ormai da quattro anni cerca di far conoscere l'ebraismo e promuovere il dialogo euro-mediterraneo e i valori dell'interculturalità, temi ormai diventati un'autentica bandiera per l'ebraismo e per le altre culture del Mediterraneo. La manifestazione arriva a conclusione dopo una ricca kermesse di conferenze, presentazioni librarie, mostre, concerti, studio di testi scritturali nell'incantevole e antichissima sinagoga Scolanova di Trani, proiezione di docu-film e appuntamenti con la cucina casher.
   Trani è tornata per l'ennesima volta ad essere capitale dell'ebraismo meridionale registrando un elevato flusso di presenze da tutta Italia e dall'estero, dato questo che conferma l'interesse verso una cultura plurimillenaria, ancora fortemente viva e presente nel tessuto sociale internazionale. Di particolare rilievo, quest'anno, è stato il coinvolgimento delle scuole, con la partecipazione di oltre 500 studenti di scuole superiori, medie ed elementari di Trani, Andria e S. Ferdinando di Puglia, che grande interesse hanno manifestato verso la cultura e le tradizioni dell'ebraismo su cui una importante finestra è stata aperta dai numerosi incontri con studiosi, scrittori e giornalisti provenienti dall'Italia e dall'estero.
   Si è inoltre rinnovato il dialogo con le altre culture e religioni, come nell'evento del 15 marzo "Vicini nella fede, lontani nella storia. Una lettura alternativa di Ebraismo e Islam" che ha visto fra gli ospiti Massimo Abdallah Cozzolino segretario generale della Confederazione Islamica Italiana, o in quello del 17 dedicato all'enciclica Nostra Aetate e al dialogo ebraico-cristiano a distanza di 50 anni dall'importante documento, incontro a cui ha partecipato fra gli altri il prof. Daniele Garrone docente di Antico Testamento presso la Facoltà Valdese di Roma.
   Importante quest'anno anche la collaborazione fra Lech Lechà e la Fondazione Seca di Trani, titolare del museo della Macchina per Scrivere e curatrice del Polo Museale cittadino di prossima inaugurazione presso lo storico Palazzo Lodispoto. «La collaborazione con la comunità ebraica - ha dichiarato Natale Pagano, presidente delle Fondazione - è nata dal felice incontro con il maestro Francesco Lotoro, che ringrazio perché ci ha dato l'opportunità di collaborare ad un programma ricco di eventi culturali. Spero che questa esperienza possa ripetersi anche nella prossima edizione e mi auguro di poter riabbracciare l'intera comunità ebraica. La Fondazione Seca sta muovendo i suoi primi passi sul territorio con le proprie forze, senza chiedere alcun contributo economico, e sentirsi vicini alla comunità ebraica ci inorgoglisce ancora di più. Ecco perché auspico che il prossimo anno la nostra collaborazione possa accrescersi ancora di più».
   A suggellare questa settimana di eventi, è toccato nella serata del 19 marzo al concerto Il violino di Chagall, con l'Orchestra Giovanile del Conservatorio di Musica "U. Giordano" di Foggia diretta dal maestro Rocco Cianciotta (solisti la violinista Giovanna Sevi,la violoncellista Francesca Della Vista e il soprano Ilaria Bellomo), il cui programma ha previsto l'esecuzione di musiche di Max Bruch, Edouard Lalo e Leonard Bernstein, e alla ormai consueta Spaghettata di fine Lech Lechà presso il ristorante Taverna Portanova di Trani.
   Anche in questa edizione la settimana di Lech Lechà si è avvalsa della direzione artistica di Cosimo Yehudah Pagliara, Ottavio Di Grazia e Francesco Lotoro ed è stata patrocinata e sostenuta da Regione Puglia, Comune di Trani, Unione Comunità Ebraiche Italiane, Comunità Ebraica di Napoli, Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria-Barletta, Centro Ebraico di Cultura HaShoresh Doròt, Brindisi-Lecce, Fondazione Seca, Trani.

(Traniviva, 20 marzo 2016)


Israele corre per Bartali il Giusto

Oggi una squadra di atleti israeliani ripercorre la Firenze-Assisi, la strada del coraggio in cui tra il 1943 e il 1944 "Ginettaccio" mise in salvo ottocento ebrei.

di Massimiliano Castellani

 
La squadra al completo prima della partenza
Il bene va fatto, ma non bisogna dirlo». Questo lo slogan silente di un'intera vita da toscanaccio ciarliero e schiettamente polemico quale è stato l'indimenticabile Gino Bartali. E la sua massima, dalla natia Ponte a Ema (qui nacque nel 1914) ha costeggiato l'Arno passando per Firenze (dove morì nel 2000), ha corso sulle strade bianche e i sentieri mistici battuti da san Francesco d'Assisi ed è arrivato fino al traguardo più importante per un cattolico fervente quale fu il Ginettaccio: la Terra Santa. E ora, direttamente da Gerusalemme quattro ciclisti professionisti d'Israele sono arrivati in Italia per omaggiare la sua memoria: quella del Bartali campione del ciclismo (vincitore tre volte del Giro d'Italia e di due edizioni del Tour de France) «Giusto tra le Nazioni». Oggi, nella domenica delle Palme gli israeliani della Cycling Academy hanno deciso di ripercorrere quel tratto "salvifico" della Firenze-Assisi.
   L'idea di questa pedalata nel segno di Bartali è venuta al giovane team manager della squadra, Ran Margaloit (ha corso con il team Saxo Bank al fianco di Alberto Contador) che ha coinvolto Jonathan Freedman, quest'ultimo ebreo newyorkese che nel 2015 ha fondato il Team Gino Bartali e che negli scorsi mesi, indossando quella casacca, ha raccontato il coraggio del «Giusto del ciclismo» attraverso le strade degli Stati Uniti in compagnia di due ambasciatori d'eccezione: Christian Vande Velde (quarto al Tour de France del 2008) e George Hincapie (un passato in maglia gialla). Via dunque a questa corsa simbolica sulla "strada del coraggio", oltre 180 km ad andare e altrettanti per il ritorno che Bartali aveva coperto tra l'ottobre del 1943 e il giugno del 1944 per «almeno una quarantina di volte».
   Il premio di quel tappone? Un posto assicurato in paradiso all'eterno ragazzo dell'Azione Cattolica e terziario carmelitano, che aveva accettato la missione che gli era stata richiesta dal vescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa per conto di papa Pio XII. Bartali venne incaricato di portare i documenti di «nuova identità» che avrebbero messo in salvo gli ebrei nascosti da padre Rufino Niccacci nel convento (di clausura) delle clarisse di Assisi. L'escamotage funzionò, Bartali nascose nella canna della bici quei documenti da falsificare. Una storia che si è tramandata nel mondo del ciclismo e che la squadra israeliana intende rileggere in sella a una bicicletta nella mitica Firenze-Assisi. Partenza da piazza Cardinale Elia Dalla Costa, anch'egli come Bartali riconosciuto nello Yad Vashem «Giusto tra le Nazioni». Un itinerario in cui gli atleti d'Israele attraverseranno Reggello. Qui lavorava il calzolaio dei ciclisti, Gennaro Celiai, la bottega dove Bartali faceva rifornimento di informazioni sulle «strade da evitare», quelle più battute dalle pattuglie e le camionette dei nazifascisti. Un percorso minato che, daArezzo, dalla Statale 7l, lo metteva in direzione di Perugia. Alla stazione di Terontola altra sosta al bar in cui lo aspettava l'amico al bancone, Leo Lipparelli, assieme alla claque dei tifosi che accerchiavano il campione con la richiesta di autografi studiata a tavolino per creare la «bolgia». Il tempo necessario per mettere in fuga nei vagoni del treno gli indesiderati e i perseguitati dal regime. Con la fronte madida di sudore per lo scampato pericolo, Bartali si rimetteva in "marcia" verso il Trasimeno, scollinando a Castiglion del Lago, dove appena qualche mese prima della missione speciale per conto di Dio era stato al servizio dell'Aeronautica, mansione: «portalettere», naturalmente in bicicletta. Alla Basilica di Santa Maria degli Angeli si narra di un suo sprint - record di 21 minuti, alla velocità di 43 km orari. Tempi buoni per rivincere una Milano-Sanremo (ben due ne conquistò in carriera). Ultimo strappo in salita, e lassù nella città del Poverello ecco il traguardo. Ad Assisi, poteva alzare le braccia solo una volta giunto al convento di San Quirico. Lì dove neppure i saraceni erano riusciti ad entrare ad attenderlo sull'uscio, per volontà dell'allora vescovo diAssisi, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, c'erano sempre le sue suorine: Amata, Alfonsina, Candida, Eleonora e l'altra «Giusta tra le nazioni», la madre badessa Maria Giuseppina Biviglia. Nelle loro mani Bartali consegnava i nuovi documenti delle famiglie Kropf, Gelp, Baruch, Iozsa, Maionica, pronti per essere stampati dalla macchina "Felix" nella tipografia (vicina alla cattedrale di Santa Chiara) di Luigi Brizi e il figlio Trento. Vittoria e salvezza. Questo bartaliano "tour del coraggio" portò in salvo circa 800 ebrei. «Non possiamo dimenticare come Assisi divenne porto sicuro di tante persone e, in una persecuzione in cui morirono sei milioni di ebrei su sei milioni e mezzo che vivevano in Europa, come ad Assisi nessuno abbia perso la vita», ha ricordato l'attuale madre badessa di San Quirico, Chiara Benedetta Gonetti. Bartali oltre a questa impresa straordinaria, ovviamente taciuta per anni, nella cantina della sua abitazione fiorentina (quartiere Gavinana) aveva nascosto per mesi la famiglia Goldenberg. «Gino Bartali fu la salvezza della nostra vita», rivelò nel 2010 Giorgio Goldenberg, l'allora bambino scampato con i suoi genitori alla deportazione certa grazie al coraggio e la generosità del grande campione. Forse ora di questa storia, nota in tutto il mondo, Bartali ne sarebbe felice, del resto la prima lezione appresa dal padre contadino, Torello, era stata, «della verità non si deve mai avere paura». E il Ginettaccio ha fatto tanta strada («almeno 700mila km») correndo per staccare tutti, anche la paura. E prima della rosa e della gialla, aveva messo fino all'ultimo la maglia della verità che oggi fieri indosseranno anche i ciclisti d'Israele.

(Avvenire, 20 marzo 2016)


Arrivano in libreria le Lettere di Yonathan Netanyahu, caduto a Entebbe nel 1976

Yonathan Netanyahu, Lettere, Oche del Campidoglio, pagg. XXI-206, € 16.00

Liberilibri pubblica in italiano le Lettere di Yonathan Netanyahu, l'ufficiale comandante di Sayeret Matkal, unità d'élite dell'esercito israeliano, caduto in azione a soli trent'anni mentre era a capo del blitz di Entebbe per liberare oltre cento ostaggi ebrei e israeliani.
Yonathan detto Yoni (New York 1946-Entebbe 1976) era il fratello maggiore di Benjamin, attuale primo ministro israeliano, e di Iddo, radiologo e drammaturgo, autori della premessa e della postfazione del libro, curato e tradotto da Michele Silenzi, che ne firma anche l'Introduzione.
Yonathan è un giovane studente, nato in America e ammesso ad Harvard, che decide di tornare nel suo Paese, di rimanere nell'esercito e combattere per il suo ideale: la sopravvivenza di Israele. Nel corso della sua breve e intensa esistenza vissuta in uno stato di guerra permanente, continuamente in bilico fra il desiderio di studiare in America e il richiamo potente delle missioni militari in Israele, egli combatterà anche la Guerra dei sei giorni e quella dello Yom Kippur.
Le lettere che Yonathan Netanyahu scrive ai familiari, agli amici e alle donne della sua vita tra il 1963 e il 1976 rappresentano un involontario romanzo di formazione da cui emerge, fortissimo, l'attaccamento ai genitori e ai due fratelli minori Bibi (Benjamin) e Iddo, accanto al rapporto d'amore con la moglie Tutti prima e con Bruria poi.
Il brillante tenente colonnello israeliano traccia la drammatica parabola di un ragazzo che diventa adulto in fretta in uno dei luoghi più difficili del mondo: un documento storico, inusuale per i nostri tempi, che ci restituisce la dimensione eroica dell'uomo.

Yonathan Netanyahu, Lettere, Oche del Campidoglio, pagg. XXI-206, € 16.00

(politicamentecorretto.com, 19 marzo 2016)


Memoriale della Shoah: al Binario 21, l'architettura dialoga con la memoria

Ferro, pietre, ghiaia, nuovi volumi: quasi ultimata l'operazione iniziata nel 2007 e realizzata da Annalisa de Curtis e Guido Morpurgo. Un progetto ostinato e coerente

di Vittorio Gregotti

 
La prima sala del Binario 21 alla Stazione centrale di Milano, progetto degli architetti Annalisa de Curtis (1969) e Guido Morpurgo (1964)

MILANO - In questi tempi caotici e tristi è molto difficile progettare e realizzare un'architettura la cui qualità sia capace di confrontarsi con un tema tanto tragicamente connesso alla colpa della società europea come quello della deportazione per motivi razziali e politici operata negli anni Quaranta dal nazismo e dal fascismo. È tanto grande il senso di colpa dell'intera società da rendere molto difficile il lavoro di un architetto che voglia costruire — proprio sul luogo dove si è compiuto il misfatto, al Binario 21, sotto la stazione centrale di Milano, con la deportazione verso un'ignota destinazione, cioè un campo di concentramento — un Memoriale della Shoah: una figura che sia capace di agire oggi senza dimenticare, per mezzo della coerente qualità della pratica artistica dell'architettura, verso un destino di educazione pubblica fondata sulla nostra storia (con i suoi errori).
   Gli architetti Annalisa de Curtis e Guido Morpurgo ci hanno lavorato dal 2007, con ostinazione e coerenza sensibile, contro ogni «indifferenza», parola scritta sul muro all'ingresso. Tutta l'operazione è quasi terminata, salvo l'arredo della biblioteca, ma è stato possibile visitare il luogo, in attività progressiva almeno da due anni, e riconoscerlo in ogni nuovo dettaglio dello sviluppo. Ciò di cui vorrei scrivere è proprio il grande e coerente linguaggio, utilizzato sin dai minimi dettagli senza che essi cedano ad alcun formalismo: possiedono, tutti insieme, un senso e costruiscono per la nostra società uno strumento proiettato nel futuro, fondato sulla verità del terribile atto compiuto. Al contempo descrivono una altrettanto importante verità possibile del presente. Il durevole linguaggio dell'architettura è capace di far coincidere il ricordare e promettere.
   Il ferro, nella sua oscura e ferma realtà, il cemento, le pietre, la ghiaia del pavimento, si confrontano con il fianco, meravigliosamente restaurato, del convoglio per il trasporto dei deportati che fa da sfondo all'insieme della nuova sistemazione. «Il sistema di ingresso — scrivono de Curtis e Morpurgo - formato dal muro dell'Indifferenza e dalla rampa che raggiunge l'originario piano di carico, si affaccia in modo imprevisto sul patio che accoglie il volume della biblioteca misurando il vuoto come sottrazione; l'Osservatorio dalla zona d'ingresso traguarda i binari; le Stanze delle Testimonianze; il Luogo di Riflessione; la scala circolare appesa che porta alla biblioteca e all'auditorium; sono tutte macchine spaziali che, pur commisurandosi col ritmo dei pilastri e la fitta teoria di travi ricalate dei solai Hennebique, si distinguono dall'esistente secondo un principio di distanziamento».
   L'insieme del nuovo possiede una propria rigorosa coerenza ma anche una descrizione continuamente nuova dei differenti spazi corrispondenti alle diverse funzioni, con le «Cinque stanze della testimonianza» quadrate, con le loro varianti spaziali, che offrono testimonianze degli eventi della deportazione. A questo si aggiungono ampi luoghi di dibattito e una grande biblioteca per la consultazione e la ricerca. Ogni connessione apre a una nuova visione dell'opera la cui continuità è segnata proprio dalla presenza del ferro che designa la struttura spaziale di ogni luogo, articolata secondo diversi ma coerenti dimensioni di dettaglio.
   «Il Memoriale — scrivono ancora gli autori — è dunque un'architettura-documento, un'infrastruttura-reperto: più che fornire spiegazioni, pone interrogativi che il visitatore come "corpo mobile" può affrontare a partire dall'incontro emozionale col luogo, dalla traduzione psicologica e sensoriale e dalla sua scoperta. La coincidenza tra tempo, materia e memoria scaturisce dall'interazione tra condizioni "archeologiche" delle strutture, intensità evocativa del rumore e delle vibrazioni prodotte dallo scorrimento dei convogli sul soprastante piazzale dei binari, oltre che dal graduale passaggio dalla luce naturale che attraversa la prima campata, all'oscurità dell'area interna». Illuminata dalla coscienza.

(Corriere della Sera, 19 marzo 2016)


Daniel Samohin regala ad Israele il primo titolo mondiale juniores della storia

Daniel Samohin, israeliano di scuola statunitense, ma di origini russe, ha sbancato la Fönix Arena di Debrecen conquistando al termine di un'entusiasmante rimonta il titolo mondiale juniores di pattinaggio artistico. Il diciottenne, di stanza in California, nono al termine del programma corto, è stato capace di recuperare ben otto posizioni nel segmento più lungo di gara in cui ha egregiamente completato tre salti quadrupli, cinque salti tripli, compreso un axel, e un doppio axel. Nell'occasione, Samohin, sceso in pista sulle note della colonna sonora del film "Sherlock Holmes", ha stabilito il punteggio più alto di sempre in un programma libero juniores (165.68), strappando il record al nipponico Shoma Uno (163.06, Barcellona - Finale Junior Grand Prix 2014). Peraltro, mai nessuno in passato aveva raggiunto quota 236.65 in una rassegna iridata juniores. Per Israele, si tratta del primo titolo mondiale della storia, che fa il paio con la medaglia d'argento conquistata da Alexei Bychenko negli ultimi Europei di Bratislava.

(neveitalia, 19 marzo 2016)


La bellezza dell'arte ebraica italiana

Rassegna a Tel Aviv su opere tra Rinascimento e Risorgimento.

TEL AVIV - Quaranta oggetti per far conoscere la bellezza dell'arte ebraica italiana tra il Rinascimento e il Risorgimento: un percorso nel gusto, nella raffinatezza, nella cultura del mondo ebraico in mostra al Museo 'Beit Hatfusot' di Tel Aviv. La rassegna dal titolo 'Italian Jewish Renaissance- The Beauty of Italian Judaica' - che sarà aperta dall'ambasciatore italiano in Israele Francesco Maria Talò il 31 marzo - è suddivisa, grazie a oggetti e immagini, in quattro sezioni espositive: la casa, il matrimonio, la sinagoga e la pubblicistica manoscritta e a stampa. Il tutto -ha detto la curatrice Micol Schreiber Benarroch- "col fine ultimo di far ammirare l'elevato gusto estetico degli oggetti sacri come di quelli di uso quotidiano, tipico dell'arte e della cultura italiana, ebraica e non, che nel corso dei secoli si sono influenzate a vicenda". Provenienti in larga parte dal 'Museo di arte ebraica italiana U.Nahon' di Gerusalemme, gli oggetti mostrano la capacità di abbinare tecniche raffinate e tradizione.

(ANSA, 19 marzo 2016)


Maratona di Gerusalemme: oltre diecimila donne protagoniste della corsa

Israeliane. Ma non solo. La Jerusalem Winner Marathon ha visto le donne in prima fila. Tra gli atleti trionfo dei kenyoti. Sia in campo maschile che femminile. Primo dei non africani Giorgio Calcaterra.

di Nicoletta Pennati

Un gruppetto di ragazzine al termine della sesta edizione della Jerusalem Winner Marathon che si è svolta a Gerusalemme ieri, venerdì 18 marzo. In totale hanno preso parte alla competizione oltre 26mila persone di cui circa il 38 per cento donne di tutte le età. Le gare, oltre alla classica maratona di 42,2 km, erano: la Mezza maratona, la 10 km, la 5 km e la 1,7 km.
Un italiano, Giorgio Calcaterra, è stato il primo non africano ad arrivare al traguardo della sesta edizione della Jerusalem Winner Marathon, la maratona a più alta partecipazione femminile al mondo (e anche la più "blindata" per i controlli di sicurezza) con circa il 38 per cento di donne al via sulle varie lunghezze (maratona, mezza maratona, 10 km, 5 km, 1,7 km, 800 metri) che si è disputata stamattina a Gerusalemme.
  Sesto, dopo cinque kenyoti. Il quarantaquattrenne romano, tre volte vincitore della Coppa del Mondo di ultramaratona (100 km di percorso ndr) ha fatto un'ottima prestazione considerando la difficoltà del percorso con continui saliscendi: 2 ore, 42 minuti e 17 secondi.
  In totale a correre sono state in oltre 26mila persone provenienti da 70 diverse nazioni.
"È stata una gara emozionante e davvero impegnativa" ha detto sorridendo al traguardo Giorgio Calcaterra. "Per i primi chilometri sono stato nel gruppetto di testa, poi gli africani hanno aumentato il ritmo. Io ho tenuto il mio. A fatica però perché il percorso è duro: tante, lunghe salite e tante lunghe discese. Ma sono felice di aver partecipato. Gerusalemme è una città meravigliosa e lo sport è un modo di unire le persone, di accomunarle, di far capire quanto sia importante stare in pace".
  Shadrack Kipkogey, 25 anni, kenyota, ha vinto di un soffio, in 2 ore16 minuti e 34 secondi davanti al connazionale Ronald Kurgat.
  La prima donna? Joan Kigen, 38 anni, kenyota che ha stabilito il record della competizione con 2 ore 38 minuti e 30 secondi (7 secondi meno dell'anno scorso) davanti all'etiope Alemtsehay Demse e ad un'altra kenyota Sarah Kebaso.
 
Giorgio Calcaterra, 44 anni, romano, primo non africano a tagliare il traguardo dopo cinque kenyoti. L'italiano, tre volte campione del Mondo della Ultramaratona (100 km), è arrivato sesto.
 
Joan Kigen, 38 anni, kenyota, prima classificata fra le donne. L'atleta africana ha stabilito il record della competizione con 2 ore 38 minuti e 30 secondi (7 secondi meno dell'anno scorso) davanti all'etiope Alemtsehay Demse e ad un'altra kenyota Sarah Kebaso.
  Un evento sportivo, ma soprattutto una grande festa al femminile. Ragazzine, donne, studentesse, ma anche ultrasessantenni. In Israele le donne amano correre ed essere presenti alla Jerusalem Winner Marathon è un must. Chi è un runner ci deve essere insomma.
  Perché Gerusalemme è unica e correre tra 3mila anni di storia non capita tutti i giorni.
La particolarità di questa Martona, al di là della partecipazione al femminile è anche la numerosa presenza di gruppi di persone (circa una ventina) che corrono per una buona causa ovvero, come usa molto nei Paesi britannici, invitando amici e conoscenti a sponsorizzarli e a donare denaro per associazioni, fondazioni ed enti non profit impegnati nei campi più diversi: dalla ricerca sul cancro, all'ambiente, agli animali, etc.
  "Siamo una trentina tra medici, terapisti, malati di cancro ad aver corso la Jerusalem Winner Marathon" ha spiegato Daphne Levin, 47 anni responsabile del reparto di radiologia all'ospedale Assuta Medical Centers di Tel Aviv. " Alcuni hanno corso la 10 km altri la 5 e altri ancora 1,7 km. Abbiamo creato il club di runner tre anni fa e sempre più persone ne stanno traendo beneficio. Corriamo insieme due volte la settimana nel parco dietro all'ospedale. Vogliamo promuovere l'attività fisica come metodo di prevenzione del tumore e anche come modo per rinforzare corpo e mente quando si viene colpiti dalla malattia".
  "Siamo di diverse nazionalità e partecipiamo alla Jerusalem Marathon da quando è nata" ha detto Johanna Arbib, 46 anni, italiana presidente della Jerusalem Foundation, creata 50 anni fa dal sindaco Teddy Kollek . " Quest'anno ci siamo presentati alla partenza della 10 km in una settantina: malati di tumore, medici, terapsti, famigliari, persone di tutte le età. Vogliamo far capire che coesistere, fra religioni diverse, è possibile anche se è difficile. Contiamo soprattutto sui giovani. Per esempio sosteniamo la Max Rwene In Hand School di Gerusalemme dove studiano oltre 800 ragazzi e ragazze delle tre diverse religioni e sosteniamo anche un conservatorio di musica, l'Hassadna dove suonano insieme ebrei ortodossi, arabi, laici e cristiani. Questa è la Gerusalemme del futuro in cui crediamo".

(Io Donna, 19 marzo 2016)


Israele, stato in guerra e felice

Dopo i paesi europei, spicca lo stato ebraico nella classifica mondiale.

La Danimarca è tornata in testa alla lista del World Happiness Report. I primi dieci sono paesi welferisti, pacificati, solidali, ricchi, paesi sterili e felici. La lista "stona" quando si arriva all'undicesimo posto. Ci trovi un paese da settant'anni in guerra, il simbolo stesso del terrore agli occhi di tanti occidentali: lo stato di Israele. Israele? Si, un paese felicissimo. Un recente sondaggio rileva che il 93 per cento degli israeliani è orgoglioso di esserlo. Israele ha un tasso di fecondità di 2,65, che ne fa l'unico paese avanzato a essere in grado di compensare il ricambio. Durante la recessione globale del 2008-2012, Israele ha avuto una crescita del 14,5 per cento del pil, che ne ha fatto il più alto tasso di crescita economica dell'area Ocse. Israele produce premi Nobel, arte, cultura, start-up, scienza. L'ultimo paese del World Happiness Report confina con Israele: è la Siria. E lo stato ebraico fa meglio di quasi tutti i paesi europei, che non conoscono conflitti dalla Seconda guerra mondiale. In Israele si ha sempre il timore di essere scannati d'un tratto, all'improvviso. Eppure, Israele è un paese felice. E' questo il mistero di quella che Giuseppe Saragat ebbe a definire "la sopravvivenza di Israele" dopo la guerra dello Yom Kippur? Non esiste moto di progresso nella storia della civiltà occidentale che non abbia come base l'armonia tra spirito e ragione. Forse è questo il segreto di Israele. Il paradosso di un paese minuscolo, sorto e sopravvissuto contro ogni legge della logica e della storia, mescolando modernità e tradizione, in nome di un amore per la vita che, come indica quell'undicesimo posto, ci indica l'abisso che lo separa da chi ama la morte.

(Il Foglio, 19 marzo 2016)


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Il segreto di Israele

di Marcello Cicchese

Il "segreto" di Israele in realtà non è un segreto, se non per chi vuole chiudere gli occhi. Dov'è che si parla di Israele fin da tempi remoti e in forme di cui ancora oggi si discute? Lo sanno tutti: nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento). In quei documenti si parla estesamente di Israele, ma anche, e soprattutto, del Dio d'Israele. Lì si trova scritto:
    "Così parla l'Eterno, che ha dato il sole come luce del giorno, e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare sì che ne muggono le onde; colui che ha nome: l'Eterno degli eserciti. Se quelle leggi vengono a mancare dinanzi a me, dice l'Eterno, allora anche la progenie d'Israele cesserà d'essere in perpetuo una nazione nel mio cospetto. Così parla l'Eterno: Se i cieli di sopra possono esser misurati, e le fondamenta della terra di sotto, scandagliate, allora anch'io rigetterò tutta la progenie d'Israele per tutto quello ch'essi hanno fatto, dice l'Eterno" (Geremia 31:35-37).
Le leggi che governano le luci del giorno e della notte non sono ancora venute a mancare, perché dunque sorprendersi se Israele continua ad esserci e manifesta una vitalità che altri, in migliori condizioni, non si sognano neppure di avere? E' stato detto: Israele c'è, perché Dio c'è. Si può aggiungere: Israele ha vita perché Dio vuol continuare a dare vita al mondo (in attesa di un suo intervento più chiaro e deciso). Il mondo nella sua stoltezza non capisce che se riuscisse davvero a far sparire Israele dalla terra segnerebbe la sua definitiva condanna. Superbia ebraica? No, almeno non in questo caso: chi lo dice, insieme a tanti altri come lui, è un non-ebreo non-israeliano convinto che il Messia promesso a Israele sia proprio quel Gesù di cui parla la Bibbia. La rinascita della nazione d'Israele non è soltanto un prodigio storico: è una risurrezione dai morti. E anche di questo si parla nei documenti biblici: basta leggere il capitolo 37 del profeta Ezechiele:
    "Ed egli mi disse: 'Profetizza su queste ossa, e di' loro: Ossa secche, ascoltate la parola dell'Eterno! Così dice il Signore, l'Eterno, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito, e voi rivivrete; e metterò su voi dei muscoli, farò nascere su voi della carne, vi coprirò di pelle, metterò in voi lo spirito, e rivivrete; e conoscerete che io sono l'Eterno".
La risurrezione dai morti della nazione d'Israele è cominciata nel secolo scorso e non si fermerà. Perché? Perché il suo Messia è risorto dai morti. E sta scritto:
    "Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Romani 6:9).
(Notizie su Israele, 19 marzo 2016)


Gli arabi non perdono mai l'occasione di perdere un'occasione. Ma sarà poi vero?

di Deborah Fait

Abba Eban
Nell'ormai lontano 1973, durante i negoziati di pace arabo-Israeliani a Ginevra, Abba Eban, grande ministro israeliano e ambasciatore all'ONU, pronunciò questa frase rimasta nella storia: "Gli arabi non perdono mai l'occasione di perdere un'occasione". Effettivamente questo è quanto sembra, ma a pensarci bene.... forse...è solo una furba e cinica strategia.
Nel 1948 avevano l'occasione, offerta su un piatto d'argento, di formare uno stato accanto a Israele. Rifiutarono e optarono per una guerra di distruzione dello stato ebraico appena nato. Nel 1967, dopo la guerra dei 6 giorni, terminata con il trionfo di Israele contro Egitto, Siria, Giordania uniti per la "solita" tentata distruzione, fu offerta agli arabi la restituzione dei territori conquistati in cambio di una pace duratura.
La Lega Araba riunitasi a Kartoum, in Sudan, decretò il suo rifiuto totale: NO alla pace, NO al riconoscimento di Israele, NO alle trattative.
Nel 1973, a Ginevra, i negoziati si conclusero con altri rifiuti.
Nel 2000 a Camp David, Ehud Barak offrì a Arafat quasi tutto, compresa Gerusalemme Est, la sovranità sul Monte del Tempio e l'offerta ai palestinesi dello status di nazione.
La risposta fu un no secco seguito dalla fuga di Arafat dal tavolo delle trattative lasciando Clinton e Barak con tanto di naso e con il segretatrio di Stato Allbright che lo rincorreva in giro per il mondo.
Nel 2001, a Taba, altro rifiuto.
Nel 2008, Ehud Olmert offrì un accordo ancora migliore di quello precedente di Barak ma Abu Mazen non si degnò neppure di rispondere.
Nel 2009 l'ANP, appoggiata da Obama, chiese il congelamento di nuove costruzioni in Giudea, Samaria e Gerusalemme, Netanyahu bloccò tutto per 10 mesi nella speranza di riprendere i negoziati ma Abu Mazen rifiutò ancora una volta e da allora ogni tipo di dialogo cessò del tutto per lasciare il posto al passatempo preferito dei palestinesi: il terrorismo.
Alla luce di questi innumerevoli rifiuti della pace o almeno di una convivenza più tranquilla si potrebbero evincere due cose, l'ottusità palestinese e la conferma che la definizione di popolo non calzi per niente a chi da 70 anni rigetta l'idea di avere uno stato.
Forse, a pensarci bene, tanto ottusi non sono, accettare le offerte israeliane e diventare una nazione farebbe immediatamente cessare il fiume di soldi che mensilmente si riversa nella casse dell'ANP. Finita la questua dovrebbero incominciare a lavorare.
Quante volte ho scritto che agli arabi palestinisti interessa una cosa sola: mantenere la situazione immutata fino al momento del colpo di fortuna (leggi distruzione di Israele) per poi chiedere alle potenze arabe di creare, secondo il sogno di Arafat, un grande califfato, ovviamente terrorista, su tutto il territorio del Medio oriente.
Praticamente il raiss tanto amato dagli europei, adorato da Craxi, accolto in Vaticano, abbracciato dal Papa, è stato il precursore, forse addirittura l'ispiratore di Al Baghdadi e del Daesh.
Già nel 1969, l'Organizzazione della Conferenza Islamica e la Lega Araba si erano poste come obiettivo la distruzione di Israele e la conquista dell'Occidente.
Israele esiste ancora, è un osso duro, orgoglioso della propria storia, fiero di essere un Popolo ritornato alla propria Terra dopo millenni di diaspora e di persecuzioni, niente e nessuno riuscirà a distruggerlo ma la conquista dell'Europa è incominciata da tempo con la cancellazione della sua cultura e con la sudditanza all'Islam.
 
"A noi va bene così"
Perché ho ricordato tutti i rifiuti arabi alle offerte di pace di Israele? Alcuni giorni fa era circolata la notizia che vi fossero trattative segrete tra Israele e l'ANP per riaprire i negoziati, ripristinare il controllo dell'Autorità palestinese su tutte le città e villaggi della Zona A che copre un quinto del territorio della Cisgiordania, cessare il terrorismo e infine il ritiro delle Forze di difesa israeliane dal territorio.
Abu Mazen ha rifiutato l'offerta. Chissà come mai! Beh, il come mai è presto spiegato.
Chi glielo fa fare ai palestinesi di negoziare rischiando addirittura di dover accettare uno stato cessando i piagnucolamenti che tanto commuovono l'Occidente, dal momento che, senza "pericolose" trattative, sono coccolati, viziati, foraggiati generosamente da Europa e Stati Uniti.
Abu Mazen è abusivo da 6 anni, perché l'ANP non usa indire elezioni, peggio della Corea del Nord, ma nessuno protesta, nessuno osa fare una piccola critica a una simile dittatura. Nelle casse di Abu Mazen piovono miliardi da finanziamenti internazionali e dai paesi donatori (che sarebbero destinati a creare strutture e benessere), che lui, seguendo l'esempio di Arafat, divide in conti correnti personali sparsi nelle banche del pianeta. Lui e il suo entourage sono miliardari e tengono il popolo nella miseria sia fisica che spirituale secondo l'antico disegno arabo di usare la popolazione, tenuta nell'ignoranza, come bomba umana contro Israele e come oggetto di ricatto e di compassione per il resto del mondo.
In Siria ci sono stati 500.000 morti nella guerra civile, tra cui 30.000 bambini ma l'Occidente si indigna se le Forze di difesa israeliane sparano contro i terroristi da coltello che si scagliano contro civili israeliani. E parte subito il titolone! In effetti chi glielo fa fare all'ANP di accettare le offerte israeliane e ricominciare i negoziati?
Abba Eban credeva davvero che gli arabi perdessero le occasioni per ottusità, ma, a distanza di decenni, è chiaro e lampante che così non è. Rifiutare ogni negoziato, rischiare di diventare uno stato sovrano li obbligherebbe ad assumersi responsabilità che non vogliono, a render conto degli aiuti internazionali, a creare economia, benessere, soprattutto dovrebbero rinunciare ad ammazzare gli ebrei e sappiamo che sono tutte cose difficili per loro.
Meglio, molto meglio, molto più semplice fare le vittime, i profughi per ereditarietà, i pezzenti con la mano tesa a chiedere la carità e far si che il mondo intero pianga sulle loro disgrazie e odi gli ebrei più di sempre.
Per tutti questi motivi non c'è una soluzione al conflitto israelo-palestinese se non mettere Israele in totale sicurezza, pretendere il giuramento di fedeltà allo Stato ebraico, espellere chi si rifiuta (lo fanno gli USA, perché noi no?) e pensare finalmente a noi stessi trasformando Israele in quel giardino dell'Eden che sarebbe diventato senza tante guerre e terrorismo.
Nonostante tutti i nostri problemi siamo all'undicesimo posto tra i paesi più felici del mondo, dopo Danimarca, Svizzera, Islanda, Norvegia, Finlandia, Canada, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Svezia e Australia.
Benissimo, senza questa palla palestinista al piede che rifiuta di redimersi, potremmo passare tra i primi cinque perché se i Paesi che ci precedono hanno il PIL, noi abbiamo tanto entusiasmo, voglia di vivere e amore per la nostra Terra

(Inviato dall'autrice, 19 marzo 2016)


Ma uccidere israeliani è terrorismo o una forma d'arte?

di Giulio Meotti

Il governo israeliano è furioso, e a ragione, con la rivista Time che continua a raffigurare un terrorista palestinese che ha ucciso tre ebrei a ottobre come una vittima delle forze di sicurezza israeliane. Nonostante le ripetute richieste da parte di funzionari israeliani nei mesi successivi perché la rivista modificasse l'articolo, Time si è sempre rifiutato di correggerlo.
L'attacco terroristico avvenne nel quartiere di Gerusalemme di Armon Hanatziv, quando due terroristi palestinesi salirono a bordo di un autobus e iniziarono a sparare e ad accoltellare i passeggeri. Morirono tre israeliani: Haim Haviv, 78, Govberg Alon, 51, e Richard Lakin, 76. Uno dei due terroristi, Bahaa Allyan, è ancora descritto da Time come un "graphic designer" che "è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane". Da ottobre a oggi, sui giornali anglosassoni ma anche su quelli italiani, ne abbiamo letti tanti di questi orrendi titoli pilateschi. Non è che perforare il polmone di un ebreo con un coltellaccio da cucina, anziché terrorismo, è un'opera d'arte? Graphic designer…Che schifo di giornalismo.

(Il Foglio, 19 marzo 2016)


Riccardo Calimani ricostruisce la drammatica storia del Ghetto di Venezia

di Fabrizio Federici

Nel 2000, lo studioso Riccardo Calimani, di antica famiglia ebraica veneziana originaria di Treviso, pubblicava una documentata "Storia del Ghetto di Venezia". Ora, Mondadori (con cui Calimani ha pubblicato, negli ultimi anni, una ventina di saggi) stampa una nuova edizione, riveduta e aggiornata, di questo volume: per il cinquecentesimo anniversario della fondazione del ghetto di Venezia (1516).
Sino al XIII secolo a Venezia non è ancora rilevabile con certezza una stabile presenza ebraica. E' solo nel '300 che gli ebrei entrano nel dibattito pubblico della Serenissima: con l'arrivo in città (dal 1366) di molti operatori economici israeliti, già presenti a Mestre e a Treviso, come prestatori di danaro (in precedenza, solo cattolici).
L'Autore focalizza il groviglio di questioni - teologiche, ma soprattutto economico-politiche - alla base dello scontro che, nel '400, vede contrapporsi, da un lato, i francescani (spalleggiati anche da predicatori fanatici come Bernardino da Feltre), campioni della lotta all'usura e agli interessi sui prestiti in genere, e fautori della nuova istituzione dei Monti di Pietà. Dall' altro, il potere politico veneziano moderatamente favorevole, invece, agli ebrei, esercitanti (col celebre strumento "banchi") il prestito classico, più atto alle esigenze di una economia moderna. "In mezzo", i vertici della Chiesa: continuamente tirata in ballo, e dove, tuttavia, non mancano Pontefici - come Martino V e Paolo III, che pure crea formalmente, nel 1542, l'Inquisizione centrale romana - che proteggono gli ebrei dalle infami accuse di omicidio rituale e speculazione economico-finanziaria. Nel marzo 1516, in un periodo di forte ansia per la Serenissima (uscita a fatica dalla guerra mossale contro dagli eserciti della Lega di Canibrai), viene istituito per gli ebrei il Ghetto (nome derivante da "Geto", indicante una vecchia fonderia caduta in disuso, così come veniva pronunciato dai tedeschi, altro gruppo etnico da secoli presente a Venezia). Ghetto che, con le sue mura e porte strettamente sorvegliate, durerà sino al maggio 1797, quando anche a Venezia dilagherà l'entusiasmo filofrancese e giacobino, proclamante, per tutti, l'uguaglianza di diritti e doveri. Ma l'ottobre successivo, col trattato di Campoformio cinicamente sottoscritto da Napoleone, e la fine della Repubblica, l'inizio della dominazione austriaca riporterà in vigore varie discriminazioni antiebraiche, e lo stesso Ghetto (pur senza più porte chiuse).
Poi l'Unità d'Italia, l'inizio di un'epoca nuova; infine, il Ventennio fascista. Calimani ricostruisce la vera e propria caccia all'ebreo che, dal dicenibre 1943, nazisti e collaborazionisti italiani scatenano a Venezia. Prece a settenibre, dalla tragica fine di Giuseppe Jona, presidente della Comunità israelitica di Venezia, suicidatosi per non consegnare ai nazisti la lista degli ebrei residenti in città.

(Shalom, marzo 2016)


A Venezia il primo ghetto della storia: Sorgente di Vita, 20 marzo Rai2

"Domenica 20 marzo all'1.20 su Rai2 appuntamento con i nuovi servizi di Sorgente di Vita. Cinquecento anni fa la Repubblica di Venezia istituiva il primo ghetto della storia: il 29 marzo 1516 tutti gli ebrei residenti in laguna furono costretti a vivere 'unidi' in una zona malsana e periferica della città, chiusa da portoni dal tramonto all'alba" viene illustrato in un comunicato della tv di Stato.
   "In ricordo di quel periodo di chiusura e di vessazioni prendono il via una serie di iniziative per riscoprire la storia e le tradizioni degli ebrei veneziani che riuscirono - sottolinea la Rai -, nonostante tutto, a difendere la propria identità e la propria cultura. Datato 1250 con l'esame del 'carbonio 14': è il più antico Sefer Torà del mondo, utilizzabile ancora oggi per la lettura rituale in sinagoga."
   "Dopo un accurato restauro, il rotolo della Legge che contiene il Pentateuco, la Bibbia ebraica, torna a casa nella piccola sinagoga di Biella La scrittura, l'inchiostro, i caratteri, l'opera dello scrivano e una festosa cerimonia per un evento di straordinaria importanza nel mondo ebraico" si prosegue.
   "Singolare lezione di storia per gli studenti di una scuola di Manduria - si descrive in conclusione -, in Puglia. A partire dai cognomi diffusi nel paese, attraverso i vicoli della Giudecca, sulle tracce degli ebrei di tanti secoli fa. Dalla Loggia del Rabbino alla piccola sinagoga, una ricerca nel Salento che li porta fino a Santa Maria al Bagno, alla scoperta di un capitolo di storia più recente. Lo stillicidio di attentati negli ultimi mesi in Israele: nel quadro di un Medioriente in fiamme e dopo le elezioni in Iran, la cosiddetta 'Intifada dei coltelli'. Il profilo degli aggressori, le vittime civili, lo stato di allerta e la vita che continua alla ricerca di una difficile normalità. Il punto sulla situazione con Sergio Della Pergola, dell'Università Ebraica di Gerusalemme. La puntata sarà trasmessa in replica lunedì 21 marzo all'1.30 sempre su Rai2."

(Mainfatti, 19 marzo 2016)


I ciclisti israeliani ricordano Gino Bartali

COMUNICATO STAMPA

Domenica 20 marzo i ciclisti israeliani del Cycling Academy Team ripercorreranno il tragitto tra Firenze e Assisi che Gino Bartali - dichiarato "Giusto tra le nazioni" dallo Yad Vashem - percorse per portare, nascosti nella canna della bicicletta, i documenti falsi per salvare più di ottocento ebrei perseguitati.
I soci della Associazione Italia-Israele di Firenze saranno presenti domenica prossima alle 9.30 in Piazza Cardinale Elia Dalla Costa - anch'egli dichiarato "Giusto fra le nazioni" per la sua opera a favore degli ebrei perseguitati - per salutare i ciclisti israeliani alla loro partenza.
Anche piccoli gesti simbolici come questo servono a combattere il rinascente antisemitismo. L'Associazione Italia-Israele invita tutti i fiorentini (e non solo) a essere presenti alla partenza dei ciclisti israeliani.

(Federazione Italia-Israele, 19 marzo 2016)


Il colpevole silenzio dei docenti universitari sul caso Panebianco

di David Meghnagi, Università degli Studi Roma Tre

Il professor Angelo Panebianco è oggetto da mesi di un'odiosa campagna all'interno dell'ateneo bolognese, che gli impedisce di svolgere con serenità le sue lezioni accademiche. L'idea che, in uno dei luoghi simbolo della cultura occidentale, un docente debba fare lezione protetto della polizia, ha qualcosa d'inquietante e sinistro. Il segno di una regressione, che dovrebbe far riflettere.
   L'accusa è risibile. Ha un che di paranoico. Panebianco sarebbe un "guerrafondaio" e l'ateneo in cui lavora "militarizzato". Se non fosse per la gravità della situazione, verrebbe da ridere amaramente all'idea che la vittima di un'intimidazione, che si ripete ormai regolarmente, si debba difendere da un'infamante accusa spiegando ai giornalisti che lui non è un "guerrafondaio", che è solo uno studioso che analizza e descrive i fatti, tenendo debitamente distinte e separate le convinzioni personali (che non sono certo bellicose) dalla presentazione oggettiva dei fatti. Che per la pagina locale di Repubblica si è trattato di "una nuova contestazione" nei "confronti del professore sotto tutela", e non invece di un fatto inquietante, che mina alle radici uno dei fondamenti della vita universitaria. Dove è finita la considerazione per i sentimenti di chi vede stravolta la sua esistenza? Come mai tutto questo non ha alcuna importanza?
   Dove è finita la solidarietà della comunità scientifica? Perché i colleghi dell'ateneo non sono venuti in massa alle sue lezioni per dire "no" alla cultura dell'intimidazione? Come mai, a compiere meritevolmente questo gesto, sono stati in pochissimi? Dov'erano gli studenti che la pensano diversamente e che sono la maggioranza? Perché non hanno fatto sentire la loro voce? Il meccanismo è noto. La paura, la vigliaccheria, la voglia di non esporsi, di non dare all'occhio con l'illusione che a loro non succederà. E se non fosse così? E se fosse che con quel silenzio vile, la violenza è nei fatti legittimata e che legittimando quella violenza, dopo potrebbe toccare ad altri, in una catena senza fine? Il motivo per cui Panebianco è entrato nel mirino di alcuni settori dell'estrema sinistra ha ragioni più profonde, che spiegano in parte le tiepide reazioni di solidarietà. La "colpa" imperdonabile è la posizione fuori dal coro di chi in modo esplicito, o nascosto, non ha mai in realtà accettato l'esistenza di Israele. Panebianco è "colpevole" per avere denunciato in modo inequivocabile il boicottaggio contro le università israeliane, come una forma di antisemitismo.

(Il Foglio, 19 marzo 2016)


L'antisionismo è il nuovo antisemitismo facile, alla portata di tutti
      Articolo OTTIMO!


L'odio per Israele analizzato da Brigitte Stora

 
Brigitte Stora
ROMA - La francese Brigitte Stora, studi di sociologia ed etica alle spalle, giornalista indipendente (come un po' vezzosamente ama definirsi) e cantautrice, all'inizio di quest'anno si era già mostrata pronta a provocare il suo storico entourage. Lo aveva fatto con un pamphlet-denuncia intitolato "Cosa sono diventati i miei amici. Gli ebrei, Charlie e poi tutti gli altri", scritto sull'onda emotiva degli attacchi al giornale satirico francese, ad alcuni ebrei francesi e infine al Bataclan.
   Questa settimana la Stora è tornata a dare battaglia, in un intervento pubblicato su Le Monde e intitolato: "L'odio verso lo stato d'Israele è sinonimo di quello verso gli ebrei". Inizia così: "Ritengo che l'odio per Israele, che sembra essere la matrice dell'antisionismo, sia sinonimo di antisemitismo. Il dibattito sul sionismo ebbe luogo nel movimento operaio ebraico all'inizio del XX secolo. I comunisti vi anteponevano l'internazionalismo, i socialisti del Bund puntavano all'autonomia territoriale e culturale, la maggioranza dei sionisti riteneva che il socialismo passasse innanzitutto per la creazione di una nazione per gli ebrei. La Storia è passata da qui. Questo dibattito è ormai sorpassato, finito con la creazione dello stato d'Israele".
   Prosegue la Stora: "Israele non è più un sogno, è un paese. L'antisionismo, oggi, non è più una posizione teorica sul futuro che potrebbe essere, ma è una volontà di distruggere qualcosa che c'è. E questo punto di vista non è stato e non è senza conseguenze. (... ) Si può ancora sognare, come Jan Valtin, un mondo 'senza patrie né frontiere': ma come spiegare allora questo 'rifiuto' di un solo movimento di liberazione nazionale, quello del popolo ebraico? Come spiegare tale scomunica di una sola nazione, Israele?"
   La Stora ricorda la propria militanza nell'estrema sinistra negli anni 80, anni in cui "non si poteva immaginare" il nascere di alleanze tra la gauche internazionalista e "forze mortifere, antifemministe e antisemite". Né i casi cileno, polacco, sudafricano "hanno mai suscitato questa strana solidarietà, in cui l'odio domina. Nessuna 'denuncia' di alcun governo si è mai meritata un vocabolo ad hoc, nessun paese è stato considerato come un nome proprio al quale affibbiare l'aggettivo 'assassino'. E quando nelle manifestazioni si urla 'Israele assassino!', chi è l'obiettivo indicato? Un paese, un popolo o un fantasma?"
   L'intellettuale ammette che di recente forse la sola Turchia è stata bollata automaticamente come "assassina" per quanto fatto nei confronti degli armeni, "ma mai è stata in discussione la 'distruzione' dello stato turco. E solo Israele si merita un termine particolare, la parola 'antisionismo', la cui triste assonanza con 'antisemitismo' ci ricorda ancora una volta questo trattamento eccezionale".
   Per la Stora, "la grande maggioranza degli ebrei oggi condivide la riflessione di Raymond Aron: 'Se le grandi potenze lasceranno distruggere il piccolo stato d'Israele, che non è il mio, questo modesto crimine (se rapportato alla scala mondiale) mi leverebbe la forza di vivere"'. Ecco l'energia dei legami famigliari, culturali e religiosi di milioni di persone in giro per il mondo con Gerusalemme.
   La giornalista sottolinea infine il paradosso per cui gli odiatori di Israele paiono spesso sorvolare pure sulla sorte dei palestinesi cui dicono di tenere, salvo quando finiscono sotto il tallone di Hamas, Stato islamico o altri regimi arabi.
   Conclusione: "L'antisionismo è una delle disgrazie dei palestinesi, forse dell'intero mondo islamico. Non ha legittimazione teorica, concettuale o politica. Come ha scritto Jankélévitch, 'l'antisionismo è l'antisemitismo con una giustificazione, messo infine alla portata di tutti"'.

(Il Foglio, 18 marzo 2016)


Israele, come vivere felici nonostante l'intifada

di Fiamma Nirenstein

La felicità, alla fine che cos'è? Un articolo sul Giornale lo spiegava ieri: il Pil, l'aspettativa di una buona vita, il sostegno sociale. Così la Danimarca è il primo Paese della lista del World Happiness Report, e la Svizzera il secondo, e l'Islanda e la Norvegia il terzo e il quarto. Semplice: la calma, la quiete, il verde rendono felici, ovvero tutti quei parametri che uno si aspetta influiscano, funzionano.
Eppure quando si arriva al numero 11 (e bisogna pensare che l'Italia è la cinquantesima in lista) troviamo Israele, e allora chi non lo conosce deve sforzarsi e compiere una bella capriola filosofica e, fuori delle foreste ossigenate e pettinate, pensare.
   Perché quel Paese da sempre in guerra, Israele, è felice, molto felice, addirittura sempre più felice: è salita dal 14 posto della lista precedente all'1l esimo odierno nonostante le terribili perdite, il terrorismo, l'impervio compito di far fiorire il deserto, il clima talora molto caldo, nonostante lo scontro interno fra componenti ideologiche diversissime, con i super laici di Tel Aviv, i haredim, Pace Adesso, i coloni, la destra, la sinistra. Nonostante le critiche furibonde e ossessive dell'universo mondo, nonostante le disparità sociali che la mettono sempre a confronto col tema della povertà di parte della popolazione. Perché? Se io, che ci ho vissuto e ci vivo, penso alla felicità descritta nelle statistiche, mi viene prima di tutto in mente una marea di bambini: li vedo a Gerusalemme e aTel Aviv, nei parchi e al mare. Sciamano per la strada, nei luoghi pubblici in carrozzina, nei supermarket sui trolley, sui mezzi di trasporto, ai bar, ai ristoranti. Chiedono, cantano, insistono. In Italia, in Europa i livelli di crescita sono sottozero. Invece il popolo ebraico esso ha trovato in Israele la terra della sua rinascita, ed è questo che lo rende felice. Ha uno scopo, un significato: ha sofferto, ma è sopravvissuto, ha fatto di Israele il nido della sua vittoria morale. Lo ha fatto al meglio, diventando indispensabile al mondo intero con le sue scoperte mediche e tecnologiche. Ha costruito università, strade, ferrovie, satelliti, ha inventato i più nuovi computer. Ascolta musica e legge libri, i giovani organizzano feste e le famiglie passeggiano senza tregua, ogni week end, esplorando adesso la fioritura dei peschi, e fra un po' dei papaveri. Quindi Israele è contento, semplicemente di essere vivo e di proseguire con successo la sua vittoriosa lotta quotidiana per farcela. E producendo nel compito molti eroi, ci è abituato e non fa tante storie.
   La seconda evidente ragione della sua felicità, è che ha una comunità che resta unita anche quando si scontra in un confronto super critico. La gente di Israele è contenta perché è «insieme», la famiglia è unita, i giovani della stessa generazione hanno mille occasioni, prima fra tutte l'esercito, per sentirsi una cosa sola. Le feste religiose sono una maniera di vivere una incredibile esperienza culturale insieme, religiosi e laici. Nel giorno di Kippur, Gerusalemme e Tel Aviv sono isole di silenzio, negli spazi senza traffico sfrecciano le biciclette dei ragazzini, tutta la gente tace e digiuna; i supermarket vendono solo pane azzimo nella settimana di Pesach e tutti sanno perché: religiosi e laici, tutti furono schiavi in Egitto. E ora sono liberi, in Israele. Quindi sono felici.

(il Giornale, 18 marzo 2016)


Maratona di Gerusalemme - Calcaterra: "La corsa è un messaggio di pace"

Il tre volte campione del mondo nella 100 km e 10 volte consecutive vincitore del Passatore è tra i big della gara in Terra Santa: "Quando si corre si è tutti uguali".

di Sara Ficocelli

 
Giorgio Calcaterra
GERUSALEMME - L'atmosfera a Gerusalemme è tesa. Per strada ci sono pochi turisti, la Basilica del Santo Sepolcro è semivuota. Nei negozi e al mercato non c'è nessuno. Persino i trendissimi bistrot lungo la via dello shopping se la passano male. Uno scenario surreale per questo ombelico del mondo crogiuolo di etnie, civiltà e religioni, che solitamente ogni giorno accoglie pellegrini di ogni confessione da tutto il mondo.

 Un clima poco rilassato
  Quest'anno la situazione è diversa. E Gerusalemme, meravigliosa come mai, appare affranta, quasi malinconica, dello stesso grigiore del cielo che in questi giorni la sovrasta, tra folate di vento e scrosciate di pioggia. E dire che fino a qualche giorno fa era estate. Ma tutto può cambiare in un istante, in medioriente. Ora basta, dateci il sole, fateci correre, sembrano dire gli altleti che già da due giorni sono in città per prendere confidenza col percorso della Sixth International Jerusalem Marathon.

 Il ritorno economico
  Domani a competere alla Maratona per raggiungere il traguardo saranno in ben 26mila. Tra gli elite runners Ronald Kimeli Kurgat (Kenya), Mamu Shaku Petro (Eritrea), William Biama (Kenya) e Joshua Kipkorir (Kenya). Gli atleti in partenza provengono da 65 Paesi del mondo, e tra di loro ci sono anche un centinaio di podisti italiani. La star nostrana quest'anno è un mito delle ultramaratone, Giorgio Calcaterra, tre volte campione del mondo nella 100 km e 10 volte consecutive vincitore del Passatore.

 Calcaterra: "La corsa parla la lingua dell'uguaglianza"
  "Quando si corre si è tutti uguali - spiega il campione italiano - Io spesso dopo la corsa scopro di aver gareggiato con notai, professori, o con persone molto più povere di me. La maratona azzera tutto, sei tu con te stesso, e al tempo stesso sei in mezzo agli altri, perché dutante la gara parli con chi ti ta vicino, quasi come se facessi una passeggiata con un amico.
  "Per questo penso che la maratona - e questa maratona in particolare - simboleggi l'uguaglianza, e l'uguaglianza per forza di cose significa pace, perché solitamente i Paesi che entrano in conflitto tra loro lo fanno perché non accettano le reciproche differenze. Tutto questo nella maratona non c'è, è una gara che mette gli uomini sullo spesso piano, a prescindere da ceto sciale, religione, idee politiche. E' la rappresentazione atletica della democrazia, oltre che una straordinaria metafora della corsa dell'uomoalla ricerca del proprio limite, senza l'arroganza di superarlo a tutti i costi", conclude il campione.

 Un percorso spirituale
  La competizione rappresenta uno degli eventi più importanti del cosiddetto anno gerosolimitano. La prima edizione ha visto la luce nel 2011 grazie al Sindaco della città, Nir Barkat, che si impegnò personalmente per l'organizzazione della manifestazione. "È un'occasione di visibilità incredibile per la nostra città in tutto il mondo - ha dichiarato in conferenza stampa Amir Halevi, direttore generale dell'Ente del turismo israeliano - e punteremo sempre di più sugli eventi sportivi per promuovere il Paese".
  La maratona ha un impatto economico sulla città superiore ai 2 milioni di euro con un incremento di circa 10mila camere prenotate in più rispetto alla media.
  Oggi è articolata in 4 diverse gare su distanze diverse: 42 km, 21 km, 10 km e 5 km. Tutti i percorsi hanno lo scopo di raccontare la storia di Gerusalemme e dei suoi oltre 3000 anni di Storia e civiltà, tra panorami e paesaggi spettacolari che permettono di coniugare l'evento sportivo con le emozioni profondamente spirituali che la città è in grado di suscitare in chi la visita fin dalla prima volta, riuscendo a colpire anche il più riottoso non credente.
   Le tre religioni monoteiste sono qui rappresentate e qui hanno riposto il cuore pulsante dei loro credi, tra santo sepolcro (per i cristiani), spianata delle moschee (per l'islam), tomba di David e sinagoghe (per gli abrei), e investono il visitatore di un'energia che certamente domani sarà avvertita anche dai corridori, costretti a svegliarsi molto presto e ad affrontare però un percorso decisamente suggestivo. Tra profumi di limoni, cedri, melograni, torroni, hummus e altri prodotti caratteristici del territorio, la Storia delle religioni racconta la Storia dell'uomo, snodandosi attraverso un percorso sportivo e culturale unico nel suo genere. Resta ora da vedere se il messaggio di pace suggerito da Calcaterra verrà recepito e promosso dagli organizzori, se lanceranno il cuore oltre l'ostacolo. Proprio come fanno i grandi maratoneti.

(la Repubblica, 18 marzo 2016)



La frustrazione che spinge al terrorismo è quella di non riuscire a distruggere Israele

Israele ha bisogno di un'iniziativa di pace, ma senza farsi illusioni: il terrorismo non è causato dalla mancanza di prospettive diplomatiche.

Dobbiamo avere pazienza e ce la faremo, ha detto il ministro della difesa israeliano Moshe Ya'alon. Ha ragione. Eravamo in una situazione molto più frustrante durante la seconda intifada. Che fu molto più violenta. E le circostanze erano diverse. Iniziò quando al governo c'erano Barak-Peres-Sarid-Ben-Ami: il governo più "colomba" di tutta la storia d'Israele, il governo che accettò per la prima volta, il concetto di uno stato palestinese pienamente indipendente e di una Gerusalemme divisa. Ma non servì a niente. La violenza scoppiò con tutta la sua forza.
Israele tentò di tutto. Impresso un cambiamento storico ai compromessi accettati. Ma più spingeva avanti le concessioni, più gravi diventavano gli attentati. Dopo che Yasser Arafat respinse il piano di Bill Clinton, Israele venne trascinato in un conflitto con la coscienza pulita. Fu molto dura. Si aveva paura a sedersi in un caffè o prendere un autobus. Furono anni difficili e frustranti. Ma Israele li ha superati. E ha battuto i terroristi....

(israele.net, 18 marzo 2016)


Ognun per sé

di Davide Frattini

Ognuna ripete i suoi slogan politici e religiosi, quei marchi fantasiosi di appartenenza riprodotti sugli adesivi appiccicati ai paraurti delle auto, tanto diffusi che il romanziere David Grossman ci ha composto una canzone per la band Hadag Nahash. Sono le tribù d'Israele come le chiama Etgar Keret e sono ancora più differenziate (e litigiose) di quanto lo scrittore potesse immaginare. Almeno secondo un sondaggio del centro di ricerca americano Pew condotto tra l'ottobre del 2014 e il maggio del 2015.
   I risultati sono stati pubblicati da poco e sono soprendenti, soprattutto per quel che raccontano degli ebrei israeliani, le tante tribù di Keret appunto. Le famiglie che si dichiarano laiche preferirebbero che il loro figlio/figlia sposasse un cristiano piuttosto che un ultraortodosso: la frattura con gli haredim è diventata profonda in questi anni. Anche se due terzi dei non praticanti rispetta il precetto di non mangiare maiale, digiuna per il giorno di Kippur ma non è pronto ad accettare che le norme dei rabbini diventino leggi pubbliche (il 64 per cento è contrario). Nello Stato fondato sul sogno di Theodor Herzl solo il 30 per cento degli ebrei israeliani si definisce sionista.
   Lo studio ha ascoltato anche gli arabi israeliani, 20 per cento della popolazione: tra loro pochi credono che il Paese possa essere ebraico e democratico (27 per cento contro il 76 tra gli ebrei) e tra i musulmani la religione è molto più importante, 68 per cento contro il 30 per cento degli ebrei. Che in maggioranza proclamano di credere in Dio: il 53 per cento sostiene anche l'idea evoluzionista (tra gli arabi solo il 37). Ed è dal cielo che il 61 per cento è convinto che questa terra sia stata donata: così la metà approva — anche se la domanda del Pew è stata criticata perché sarebbe formulata male— l'espulsione e l'allontanamento degli arabi.

(Corriere della Sera - Sette, 18 marzo 2016)


Dove sono i due soldati israeliani mimetizzati?
Sono qui
Libano, dove sono i due soldati israeliani mimetizzati?

L'unità specializzata nella lotta contro la guerriglia lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano è specializzata nel mimetizzarsi con l'ambiente circostante. E le foto delle Forze di difesa israeliane, pubblicate dal sito Business Insider, lo dimostrano: riuscite a individuare i due soldati nascosti? In questa foto due sodati si sono talmente mimetizzati bene che è davvero difficile scovarli

(Corriere della Sera, 18 marzo 2016)


Trani - La quinta giornata di Lech Lechà si conclude al tramonto per l'ingresso nello Shabbat

Le giornate conclusive di Lech Lechà sembrano quasi confluire in una sola: quella di oggi, venerdì 18 marzo, la quinta, prepara il campo a quella conclusiva di domani. Gli eventi, in questo caso, si terranno fra sinagoga e castello, riferimenti imprescindibili di una manifestazione che si sta confermando, anche quest'anno, una delle più importanti dell'ebraismo italiano in assoluto, proponendo un sempre più ricco calendario di conferenze, presentazioni librarie, mostre, concerti, studio dei testi scritturali, proiezione di docu-film, cucina casher elaborata sotto stretta sorveglianza del rabbinato di Napoli ed il grande dono dello Shabbat nell'incantevole scenario della sinagoga Scolanova, la più antica d'Europa.
  Anche quest'anno, la direzione artistica di Lech Lechà è affidata a Cosimo Yehudah Pagliara, Ottavio Di Grazia e Francesco Lotoro. La manifestazione ha il patrocinio di Regione Puglia, Comune di Trani, Unione comunità ebraiche italiane, Comunità ebraica di Napoli, Istituto di letteratura musicale concentrazionaria Barletta, Centro ebraico di cultura HaShoresh Doròt, Fondazione Seca.
  In sintesi, il programma di questa quinta giornata: in sinagoga, dalle 8.30, alle 10:30, Tefillàt Schachrit a cura del Maskil Marco Dell'Ariccia. Per l'occasione sarà allestito uno stand librario delle pubblicazioni di Moise Levy. A seguire, studio della Parashà di Shabbat e della Meghillàt Ester, a cura del Maskil Marco Dell'Ariccia. Ed ancora, dalle 11.30 alle 13, introduzione al Kitzur Shulchan Aruch a cura di Moise Levy. In piazzetta Scolanova, alle 16, Lechà Dodì, pensieri per prepararsi allo Shabbat e danze di accoglienza dello Shabbat a libera partecipazione. Accompagnamento musicale di Yael Amato ed Alessandro Parfitt. In sinagoga, dalle 17, Tefillàt Minchà, Kabbalàt Shabbat, Tefillàt Arvit Yom ha-Shabbat.
  All'uscita dallo Shabbat, domani, sabato 19 marzo, alle 20.30, presso il castello svevo di Trani, si terrà il concerto "Il violino di Chagall", eseguito dall'orchestra giovanile del Conservatorio di musica "Umberto Giordano", di Foggia, diretta da Rocco Cianciotta. Solisti, la violinista Giovanna Sevi, la violoncellista Francesca Della Vista ed il soprano Ilaria Bellomo. In programma musiche di Max Bruch, Edouard Lalo e Leonard Bernstein. I biglietti al costo di 3 euro, sono disponibili presso la sinagoga e il Polo museale, in piazza Duomo. Info: 346.6812143; 392.4578848; 392.4578848. I biglietti sono inoltre acquistabili al castello, nella stessa giornata di domani, a partire dalle 19.

(Il Giornale di Trani, 18 marzo 2016)


Settimo corso di cultura e lingua ebraica - 2016

a cura di Flavio Casali
e del Rabbino Capo di Ferrara e delle Romagne rav. Luciano Caro

Tema del corso: “Il lungo cammino verso la libertà”

Locandina

(Inviato dall'autore, 18 marzo 2016)


Sondaggio: per il 46 per cento degli israeliani il prossimo premier non sarà Netanyahu

GERUSALEMME - Per quasi la metà degli israeliani il prossimo premier non sarà Benjamin Netanyahu. E' l'esito di un sondaggio condotto dall'istituto Panels Research in occasione del primo anniversario della vittoria elettorale di Netanyahu e del Likud e diffuso oggi. Secondo questo sondaggio per il 46 per cento degli israeliani fra tre anni il paese avrà un premier diverso, mentre il 41 per cento si è detto convinto che le prossime elezioni confermeranno l'attuale capo del governo. Il gradimento di Netanyahu rimane alto all'interno del suo partito, il Likud, con il 70 per cento degli elettori che lo vorrebbero ancora premier, mentre il 23 per cento preferirebbe un altro primo ministro. Tra gli elettori del Likud le opzioni principali per succedere a Netanyahu sono l'ex ministro Gideon Sa'ar, che piace al 20 per cento degli elettori, l'attuale ministro della Difesa, Moshe Ya'alon, gradito dal 12 per cento, il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, sostenuto dall'11 per cento, il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan, scelto dal 9 per cento degli elettori del partito, ed infine il ministro dei Trasporti, Israel Katz, che piace al 7 per cento dei votanti del Likud.

(Agenzia Nova, 18 marzo 2016)


Il tazebao della gogna accademica. Inchiesta sui docenti minacciati

L'erede di Biagi sotto scorta, la docente "sionista", il "militarista", il processo del popolo allo storico napoletano, il nuclearista "venduto" preso a sassate. Ci sono altri Panebianco in Italia. Siamo andati a cercarli e a parlare con loro.

di Giulio Meotti|

Angelo Panebianco contestato
"no, lei qui non può parlare perché è un guerrafondaio..." Traccia sonora della contestazione

ROMA - Due giorni fa sono tornati e hanno tentato nuovamente di impedire ad Angelo Panebianco di tenere lezione all'Università di Bologna. Ma stavolta i contestatori sono stati respinti da un cordone di carabinieri. Il politologo aveva già interrotto le lezioni due volte il mese scorso, aggredito e accusato di essere un "guerrafondaio" per i suoi articoli sul Corriere della Sera. Manifesti contro la "casta guerrafondaia", come recita il tazebao dei collettivi, sono stati appesi negli studi dei docenti che hanno espresso solidarietà a Panebianco, la cui libertà di espressione e di insegnamento (e forse non solo) viene oggi garantita da agenti in borghese posti a sua protezione.
  Ma il caso Panebianco non è isolato nelle università italiane. Per motivi diversi, ma sempre in nome di un odio ideologico, ci sono numerosi docenti minacciati e aggrediti nella logica dei cento contro uno e del proporre come soluzione per chi dissente il silenzio, le accuse astiose, i fanatismi aggressivi di chi è armato di parole (per ora). Siamo andati a cercarli e a parlare con loro. E siamo partiti da quegli intellettuali, giuristi, economisti che hanno fatto del "lavoro" il tema della loro vita, frequentando aule universitarie, convegni, uffici studi di Confindustria, fondazioni, governi. "Se hanno dato una tutela a Panebianco dopo le aggressioni all'università, immaginiamoci cosa significhi per chi si occupa dei diritti del lavoro dopo Ezio Tarantelli, Gino Giugni, Massimo D'Antona e Marco Biagi". A parlare così al Foglio è Michele Tiraboschi, erede scientifico di Biagi, allievo, amico e collega del professore di diritto del Lavoro assassinato dalle Brigate Rosse il 19 marzo di quattordici anni fa. Per entrambi, Panebianco e Tiraboschi, lo sfondo comune di Bologna, città progressista e indifferente, dove insegna il primo e dove è stato ammazzato il maestro del secondo. Ed è proprio da Bologna che Tiraboschi, autore di "Morte di un riformista", è stato costretto ad andarsene dopo l'assassinio di Biagi. Ancora oggi, dopo quattordici lunghi anni, Tiraboschi è sotto scorta da parte del ministero dell'Interno. Un professore universitario costretto a fare lezione protetto dalla polizia dal 2002. "Scrivere editoriali sui giornali di un certo tipo, fare consulenza per il governo, redigere progetti sul lavoro, è possibile oggi soltanto grazie alla tutela delle forze dell'ordine".
  E non c'è soltanto Tiraboschi. Succede, come al professor Carlo Dell'Aringa dell'Università di Milano, che arrivino minacce di morte in facoltà per la sua partecipazione al Libro bianco del mercato del lavoro. "Non si è mai appurato chi avesse lanciato quelle minacce", dice Dell'Aringa al Foglio. Numerosi esperti del lavoro arrivati alla politica dal mondo accademico, come Filippo Taddei, devono oggi muoversi con la scorta (Pietro Ichino è un altro). Ma soprattutto Tiraboschi, che ha ereditato la cattedra di Biagi all'Università di Modena, quel Tiraboschi che fu uno degli obiettivi delle Nuove Brigate Rosse, con tanto di pedinamenti e possibili talpe in facoltà, i suoi articoli di giornale collezionati dai terroristi come prova della sua colpevolezza e quel viaggio fatale sul treno per Arezzo in cui rimase ucciso il poliziotto Emanuele Petri. "Il mio è un caso un po' anomalo perché ho portato avanti per anni le tesi di Biagi", dice Tiraboschi. "Ma c'è ancora un odio molto profondo per tutta quella stagione". Lo sente ancora, professore? "Accidenti sì. Basta andare nelle zone di crisi in Toscana, nel Lazio, nelle periferie. Quando arrivi a un convegno e c'è una folla che ti aspetta e ti grida 'venduto'. L'ostilità più brutta l'ho percepita quando sono andato a Casarano, in Puglia, un territorio difficile. Ho visto l'odio degli operatori dei servizi di collegamento provinciale, dipendenti pubblici, che ci dicevano 'non venite a illudere i ragazzi che si può trovare lavoro', 'non portate voglia di cambiare'. Matteo Renzi ha fatto cose che prima era impossibile fare. Ma girando l'Italia sento a pelle questo odio, nei convegni, nei seminari, nelle scuole. Sui temi del lavoro c'è una sensibilità profonda. La colpa è del lavoro che manca, lavoro sfruttato, lavoro precario. E la percezione che nonostante tante riforme il lavoro sia ancora una chimera cementa un blocco sociale molto forte".
 
Il professor Carlo Dell'Aringa
  E' vero che Biagi si sentiva solo? "Sentiva che c'era qualcosa che non andava, le telefonate di minacce, ma anche nei due e tre anni in cui ha lavorato al comune di Milano e poi al governo: è l'isolamento che lo aveva ferito. E' questo che sento anche io di più oggi. Sei da isolare se ti occupi di liberalizzazione del mercato del lavoro. E già questa è una violenza incredibile. E poi c'è la questione dell'integrità fisica, che va in parallelo con l'intimidazione. C'è questo tentativo di creare un cordone sanitario verso figure di spaccatura e innovazione. E poi c'è la forte tensione con una parte del sindacato, in parte ultimamente ricucita con la Cgil grazie a Susanna Camusso. Su progetti e convegni se vedono il nome 'Tiraboschi' non si fa, non si invita, perché una parte del sindacato è contraria. Dopo la morte di Biagi ruppi con la Cgil, venne Sergio Cofferati e io, inesperto, non esitai a segnalare il disagio di Biagi rispetto al clima che era stato fomentato da parte della Cgil. Da allora c'è stato un veto totale". Ha avvertito ostilità accademica attorno alla sua persona? "Ho avuto una forte rottura con l'ambiente universitario. Nel portare avanti le idee di Biagi sono appena tollerato, nonostante ci arrivano finanziamenti europei e privati. Basta pensare che oggi all'Università di Modena, intitolata a Marco Biagi, quasi nessuno sa chi sia Biagi. Queste persone sono morte per che cosa? Biagi è morto a causa di un clima di odio che aveva fomentato la dissoluzione del suo pensiero". Al professor Tiraboschi non va giù l'ipocrisia. "Oggi la Fondazione Biagi è governata da quella regione Emilia Romagna che, quando Biagi era vivo, non lo invitava. E' governata da quella accademia che, quando Biagi era vivo, non lo chiamava ai convegni".
  Perché il giuslavorista corre un rischio? "Il lavoro ha un dato tecnico e legislativo e allo stesso tempo è popolare, comune. Cosa blocca la crescita, gli investimenti e la produttività? Il giuslavorista si occupa del diritto vivente e ha avuto questo ruolo di tradurre più voci in una proposta di legge. Sono figure rare. Il documento dei servizi segreti, pubblicato da Panorama nei giorni precedenti l'omicidio Biagi, parlava di 'figure di raccordo' fra la politica, il governo, il sindacato, le parti sociali e l'università. Così oggi in Italia è abitudine che, quando c'è un convegno sui temi del lavoro, ci siano anche sette otto auto della polizia o dei carabinieri".
  Cosa ha significato l'assassinio di Biagi? "Un ritardo di quindici anni di scelte fatte sul mercato del lavoro", continua al Foglio il professor Michele Tiraboschi, sotto scorta da quattordici anni. "Mentre nel 2003 la Germania faceva le riforme, in Italia si ammazzava Biagi". Secondo Tiraboschi, una certa cultura antagonista che portò all'uccisione di Biagi è ancora viva nel paese. "Basta vedere le scene per l'inaugurazione di Expo a Milano. Furono attaccate le vetrine delle agenzie interinali, i moderni mercanti di braccia. E' diversa, meno ideologica, non c'è più il Pci, le fabbriche, la classe operaia. Walter Tobagi scrisse un libro, 'A cosa serve il sindacato', in cui parlava del sindacato nel fare veto ma incapace di capire le grandi trasformazioni. Io ricordo benissimo i bulloni tirati in testa ai sindacalisti che parlavano bene della legge Biagi e che venivano fatti girare scortati". Lei ha provato la stessa solitudine? "Biagi era socievole, io sono chiuso e ci sto bene nella solitudine". Ha avuto rimpianti? "Nel 2007 ho avuto una forte lacerazione con la Fondazione Biagi. Mi sono trovato solo quando dovevo decidere cosa fare, se vivacchiare sul nome di Biagi con la normalizzazione oppure andare avanti. Biagi, diversamente da altre figure, non lo ricordi il giorno del convegno una volta all'anno. Biagi lo senti in continuazione su tanti temi. La sinistra oggi ripete, 'un conto è Biagi e un conto è la legge'. Non è così. Non è un santino Biagi, è rimasto molto del suo progetto". Cosa c'era scritto negli articoli che il brigatista Mario Galesi aveva con sé quando venne ucciso sul treno per Arezzo? "Erano alcuni miei articoli per il Sole 24 Ore sulla legge Biagi". Tiraboschi vorrebbe che l'Italia si ricordasse delle forze dell'ordine che hanno seguito, protetto e che hanno pagato con la vita, come Petri. "Non hanno vissuto esistenze facili anche loro".
  Anche lei ha pagato un prezzo nell'esercizio delle sue idee. "L'autocelebrazione non mi è mai piaciuta. Scrivi leggi che incidono sulle vite umane, cosa c'è di più bello? Federico Mancini, che aveva lavorato con Bettino Craxi e che aveva formato Biagi, diceva che le cose belle nella vita sono la propria squadra di calcio che vince, una bella famiglia e mettere in pratica le proprie idee. Oggi abbiamo una scuola di dottorato, nata nel 2006, da cui sono usciti 270 giovani. Abbiamo provato a cambiare il modo di fare impresa e sindacato. E' una soddisfazione bellissima". Lei riuscirebbe oggi a fare quello che fa senza un po' di tutela? "Penso di no. Dopo la vicenda Biagi, devi essere sereno e sapere che sei protetto".
  L'editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco non è stato il primo docente minacciato all'Università di Bologna. Era già successo al pedagogista Andrea Canevaro, studioso mite e stimato, ma "colpevole" di aver tenuto corsi per le forze dell'ordine. In risposta a questa sua evidente attività sovversiva, i collettivi studenteschi tappezzarono i muri della presidenza della Scuola di psicologia e scienze della formazione, in via Filippo Re, con foto di "cariche e pestaggi" e i volti tumefatti di Carlo Giuliani e Stefano Cucchi.
 
Il professor Giacomo Cao
   Al professor Giacomo Cao, docente di Ingegneria all'Università di Cagliari, hanno fatto di peggio. Hanno riempito i muri della sua facoltà di slogan tipo: "Fuori i militari dalle università" e "non lasciare in pace chi vive di guerra". E una grande foto di Cao, sotto una scritta in nero: "E' lui". Ecco il mostro. Il servo dell'industria militare. La "colpa" del professor Cao è di essere il presidente del Dass, il Distretto aerospaziale sardo. Il suo dipartimento è stato tappezzato di manifesti che lo accusano di alimentare l'industria bellica in Sardegna. "L'università si rende complice dello scempio del territorio", si legge in uno dei manifesti, dove campeggia anche un inquietante disegno di due mitra accanto a un libro. "Mi hanno preso di mira in qualità di docente universitario ma anche di presidente del Distretto aerospaziale", dice Cao al Foglio. "Ma hanno individuato un bersaglio assolutamente sbagliato, perché il Distretto aerospaziale sardo non ha attività progettuali legate al mondo militare. All'università ci sono stati attestati di stima. Io non ero presente quella mattina, sono entrati questa decina di studenti, e hanno iniziato ad appendere questi manifesti contro di me, in cui mi identificavano come il docente che lavorava con i militari. Il Distretto aerospaziale sardo fa molte cose, è un soggetto che ha varie attività che lo porteranno a dare un contributo alla crescita dell'aerospazio in Sardegna. Abbiamo il radiotelescopio più grande d'Europa. Facciamo certificazioni sui droni, inoltre. Il progresso fa paura, forse".
  Il professor Paolo Macry, docente di Storia contemporanea all'Università Federico II di Napoli, non avrebbe mai pensato che i collettivi avrebbero fatto un blitz per contestargli, come a Panebianco, un articolo sul Corriere della Sera.
  "A cosa si oppongono gli episodi di conflittualità esplosi ultimamente a Napoli?", aveva scritto Macry nel Corriere del mezzogiorno. "A una soluzione del problema dei rifiuti. Alla messa a profitto dell'area di Bagnoli. Allo sviluppo del turismo di massa. Alla costruzione di centrali elettriche. Alle trivellazioni in Campania. Ovvero a ogni ipotesi di accrescimento della ricchezza locale". "Scrivo il mio solito editoriale, sono quasi vent'anni che non manco una domenica", racconta il professor Macry al Foglio. "Quella volta il tema è l'area dismessa di Bagnoli e la sua sempiterna ristrutturazione. In particolare, parlo dell'opposizione che al tentativo renziano di smuovere le acque stanno portando i soliti comitati locali, i comitati del 'No', per intenderci. Dentro ci sono molti studenti. La mia colpa è che dico che gli antagonisti sono come sempre i veri reazionari. La qualifica di reazionari li fa evidentemente imbufalire, perché un paio di giorni dopo, mentre sto facendo un appello di esami, si presentano in dipartimento. Sono pochi, una decina, ma invasivi, categorici e minacciosi. 'Lei ci deve una risposta a quello che ha scritto', dicono a muso duro. E noto subito che c'è anche il cameraman che non manca mai nei processi del popolo. Una cosa sgradevole. Io rispondo che la mia attività di pubblicista non c'entra con quella di docente e che ora sto facendo esami. Loro insistono, entrano nella stanza degli esami, sono passabilmente sgarbati. 'Stia attento', dicono. Io di rimando rispondo che non se ne parla. Loro invece vogliono il confronto fatale ad horas. Allora sospendo gli esami, perché la loro presenza mi impedisce di continuare a farli. Quest'episodio è il culmine di una coralità di reazioni spropositate. Gli insulti sui social network, le minacce sui siti, l'intimidazione all'università".
  Al professor Franco Battaglia, docente di Ingegneria all'Università di Modena, è bastato partecipare una volta alla trasmissione "Anno Zero" di Michele Santoro per ricevere la denigrazione pubblica di Beppe Grillo e diventare un appestato.
  "Dopo che sono stato invitato da Santoro a esprimere il mio parere sul nucleare, su Facebook sono nati gruppi come 'licenziamo il professor Battaglia'", racconta il docente al Foglio. "Il preside della facoltà, Cantore, fu subissato di richieste di licenziarmi e per non farmi parlare. Anche da parte dei miei colleghi ho avuto atteggiamenti strani. In via ufficiale non c'è stato nulla che prendesse la mia difesa. Altri risposero 'il professor Battaglia non fa parte della nostra facoltà'. Il rettore Aldo Tomasi prese ufficialmente le distanze, tenendo a dire che ciò che esprimevo non era l'opinione ufficiale dell'università, come se l'università avesse un cervello e un parere. La Biblioteca scientifica dell'università invitò a parlare un docente contrario alle mie tesi, senza che mi venisse concesso di parlare. Un gruppo di studenti di Medicina inviò una rimostranza al rettore e protestarono contro il mio insegnamento. La cosa peggiore del linciaggio di Grillo è stato dire che io stavo mentendo perché pagato dalle multinazionali. Io insegno a duecento studenti e questi vogliono sapere se dico cose false perché mi pagano oppure perché faccio lezione con coscienza e scienza. Sono stato inondato di e-mail con insulti e minacce. La mia automobile è stata presa a sassate. Viviamo in un clima in cui non puoi esprimere liberamente, davvero, il tuo pensiero". Fra le lettere ricevute dal professor Battaglia, alcune recitano: "Sei una persona indegna di respirare". "Lei è una vergogna per il mondo accademico italiano e per la sua famiglia". "Venduto". "Sei un certificato vivente dello stato di marcescenza morale, intellettuale, civile e politica di questo paese". "Per il denaro non si ha vergogna di niente". "Spero che faccia solo le pulizie".
 
La professoressa Daniela Santus
  C'è una professoressa che ha pagato caro le proprie idee su Israele. Si tratta di Daniela Santus, che ben prima di Angelo Panebianco ha dovuto tenere lezione protetta dai blindati della polizia in quella grande città laica, fiera del suo stampo democratico e antifascista, che è Torino. La bacheca centrale dell'Università è stata decorata da proteste contro la "Santus sionista", così come lo studio di Panebianco è stato imbrattato con la scritta "Free Palestine" dagli antagonisti. "Sono semplicemente una professoressa di Geografia" racconta Santus al Foglio. "Una di quelle persone che devono convivere con gli strafalcioni più grossolani di studenti che pensano l'Algeria sia un'isola, che l'islam sia nato in Groenlandia e che la Striscia di Gaza sia territorio occupato da Israele. Un Israele talmente grande che vi scorrono il Nilo, il Tigri e l'Eufrate. A integrazione dell'attività didattica, sono solita organizzare lezioni con ospiti nazionali e internazionali".
  Di fronte al boicottaggio di Israele propagato dalle aule torinesi, qualche giorno fa Santus ha chiesto "che cosa sarebbe accaduto se un gruppo di studenti e docenti avesse chiesto un'aula per propagandare il boicottaggio delle istituzioni palestinesi". Lei non demorde. D'altronde è abituata agli attacchi. I suoi guai iniziano dieci anni fa.
  Santus era convinta che tutto sarebbe andato per il meglio e che non ci sarebbero stati guai nell'invitare Elazar Cohen, vice-ambasciatore israeliano a Roma. "Sapevo che a Pisa e a Bologna gli studenti avevano duramente contestato esponenti israeliani, sapevo che in alcune università si raccoglievano firme per boicottare i relatori ebrei d'Israele e per impedire loro di parlare, ma a Torino - nell'Università di Norberto Bobbio e di Primo Levi, dove da sempre il dialogo trova spazi privilegiati - non sarebbe certo accaduto! Per di più, in questo caso, non si trattava di una conferenza aperta al pubblico (motivo per il quale non era stata fatta pubblicità, né erano stati messi al corrente gli uffici del Rettorato), ma di una semplice lezione rivolta agli studenti del mio corso di Geografia: l'intervento di un esperto e niente più, come l'autonomia della didattica permette a ogni singolo docente. Mi sbagliavo. Infatti la lezione poté regolarmente svolgersi soltanto grazie agli agenti di polizia che, con la dovuta discrezione, riuscirono a tenere fuori dall'aula i facinorosi che si sfogarono, al termine dell'incontro, con un lancio di uova sull'auto del diplomatico e alcune altre 'amenità'. Uno dei contestatori mi chiese per quale motivo io facessi 'propaganda per uno stato che uccide i bambini palestinesi', un altro mi disse che il terrorismo palestinese era la 'giusta lotta di liberazione di un popolo oppresso' e si augurò che anch'io potessi rimanerne vittima, un altro ancora avrebbe voluto 'bruciare vivi tutti i sionisti', ma ciò che soprattutto premeva loro era che non li si ritenesse antisemiti".
  Persino alla presenza del preside stesso Santus venne minacciata di subire "contestazioni" durante le lezioni future se avesse osato continuare a parlare d'Israele. Le bacheche universitarie vennero ricoperte di manifesti, comparve una stella a sei punte uncinata, i "contestatori" costruirono un muro che tagliò in due l'atrio del palazzo universitario. "Alcuni colleghi - pochi per la verità - mi offrirono solidarietà, altri no. Gianni Vattimo si chiese addirittura come io - docente razzista - potessi insegnare e firmò l'appello per togliere la possibilità di parola agli israeliani presso l'Università di Torino". Poi, di recente, Santus viene nuovamente minacciata, stavolta per una banale e mediocre dissertazione di laurea. "Proviamo a pensare cosa sarebbe accaduto se in una seduta di tesi, assente il primo relatore per malattia, la presidente di commissione avesse notato che il laureando, con una tesi su Dante, aveva posto Beatrice all'inferno e avesse chiesto di rinviare la tesi di un giorno o due per dare il tempo al relatore di presenziare alla discussione e, magari, spiegare il perché Beatrice era stata posta all'inferno. Avrebbe ottenuto i titoli dei giornali? Non credo. Eppure, quando invece si parla di Israele, succede il finimondo. Ma le cose sono andate esattamente così".
  Santus era stata nominata supplente in commissione proprio per l'assenza di una docente. "Interessata all'argomento, ho letto alcune pagine. Ho notato che la maggior parte delle fonti bibliografiche era in arabo e che gli autori israeliani citati erano quelli dell'estrema sinistra israeliana. I toni erano molto forti: si insisteva molto sul termine sionista in accezione negativa, si gettava la colpa dell'impossibilità al raggiungimento della pace sulle destre israeliane e non si faceva cenno alle migliaia di cittadini ebrei uccisi negli attentati palestinesi. Si può perciò comprendere che la necessità della presenza della prima relatrice o almeno della sua relazione fossero fondamentali. Se ne è discusso tra colleghi e il Direttore - anche conoscendo i miei studi e la mia sensibilità sull'argomento - si offrì di sostituirmi in attesa dell'arrivo della relazione. Anche qui, prassi regolare. Ammetto di essermi sentita sollevata, anche perché avrei provato forte imbarazzo a firmare il certificato di laurea delle studentesse senza porre loro domande in merito, ma non ritenevo giusto porre domande che avrebbero potuto inficiare la loro valutazione senza la presenza della prima relatrice. Sarebbe stato un po' come interrogare un imputato senza il suo avvocato: non si fa. E non lo si fa il giorno della tesi, che dev'essere un giorno di festa. Forse in questo sono ingenua: altri ne avrebbero approfittato. Ma a me non sembrava corretto".
  Apriti cielo. "Da quel giorno, fuori dal mio studio sono comparse scritte 'Palestina libera' e i muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di mie foto fuse con quella di Netanyahu. Una situazione davvero assurda, anche perché a me Netanyahu non piace per molti motivi. La follia è degenerata, da chi scriveva sui siti stessi dei quotidiani: 'Chiedo l'immediato licenziamento di questa docente pseudo-italiana, che si faccia pagare lo stipendio dall'entità criminale a cui appartiene' a chi inviava minacce alla mia mail personale. Sono giunte minacce anche dalla Francia. I collettivi autonomi hanno addirittura messo in piedi una raccolta firme per chiedere il mio licenziamento, ovvero il licenziamento della docente che 'si è rifiutata di laureare due studentesse che avevano scritto una tesi sulla Palestina'. Follia! Bugie che ripetute mille volte diventano realtà".
  Daniela Santus dice di non voler mollare. "Poi però penso che non ne vale la pena: la terra deve essere piatta e l'Isonzo deve scorrere nella terra di Canaan. Continuerò a occuparmi di cucina, magari riflettendo sull'estensione geografica della coltivazione del peperone quadrato di Motta".
  Allora, forse, cesserebbero le contestazioni, le minacce, lo scherno. Basterebbe rientrare nei ranghi, non parlare di flessibilità nel mondo del lavoro, scrivere editoriali ideologicamente corretti sul Corriere della Sera, elogiare l'eolico anziché l'atomo, praticare l'equidistanza sul medio oriente. Allora, forse, il gregge accademico ritornerebbe mansueto, i colleghi di facoltà nuovamente loquaci e non ci sarebbe più alcun timore quando si scende di bicicletta, sotto casa, mentre si cercano le chiavi. L'ultima cosa che fece Marco Biagi. Quel mite nemico del popolo.

(Il Foglio, 17 marzo 2016)


Parla un Foreign Fighters, "o con la sharia o con la democrazia"

Il filmato esclusivo prodotto da IntelligoTv, dai nostri valorosi e coraggiosi giornalisti, intervistando un Foreign Fighters, Michael Younnes Dele Forierie, contribuisce in modo diretto ed estremamente professionale a comprendere le ragioni profonde che spingono un immigrato di terza generazione, che vive in Europa, ad aderire alla causa islamista e diventare terrorista. Ragioni sociali, culturali e appunto, religiose.
Tanti come lui, figli del nostro nichilismo e delle nostre folli politiche di integrazione, che puntano esclusivamente al fattore sociale ed occupazionale, alla mera legalità (basta trovare lavoro, rispettare le leggi e il resto è fatto), ignorando il fattore culturale, la compatibilità tra le varie identità, quella occidentale, cristiana, liberale "che accoglie" e quella islamica, buddista, ortodossa, non credente, "che arriva". Un lavoro che non è stato mai fatto dai governi occidentali e non solo italiani.
Michael Younnes, ai microfoni di IntelligoNews, lo spiega molto bene: "Lo Stato islamico ha le sue regole". A loro non basta il consumismo occidentale, è un'esistenza sbagliata, "vivere per lavorare e per comprare le macchine lussuose"; a loro interessa la religione, le loro radici e identità tradizionali. Nel suo caso l'Islam. Odia l'Occidente "per aver sottratto la terra ai palestinesi e per aver bombardato le loro città". E afferma con molta nettezza che è in atto uno "scontro di civiltà: o si è per la Sharia o si è democratici". Confermando l'incompatibilità tra democrazia e religione islamica. Testi sostenuta a suo tempo sia dal cardinale Giacomo Biffi, sia da Oriana Fallaci: "L'Islam è una religione a vocazione egemonica".
Un documento prezioso per aprire un dibattito da noi. E per sensibilizzare l'opinione pubblica, e le classi politiche a non sottovalutare il problema.

(IntelligoTV, 17 marzo 2016)


L'ex capo del Mossad Meir Dagan è morto a 71 anni

Si è spento oggi dopo una grave malattia l'ex dirigente dei servizi segreti israeliani. Pubblichiamo un ritratto d'archivio del più leggendario 007 d'Israele.

di Giulio Meotti

"La vita rilassata del pensionato non faceva per Meir Dagan", scrivono Michael Bar-Zohar e Nissim Mishal nel loro nuovo libro "Mossad", in uscita il 30 ottobre negli Stati Uniti (in Italia prossimamente per Feltrinelli). Nei giorni scorsi si è tornato a parlare dell'ex capo del servizio segreto israeliano, il più leggendario 007 di Gerusalemme, dopo che è uscita la notizia che Dagan è caduto in coma per un trapianto di fegato a Minsk. Dagan, da mesi malato di cancro, lotta oggi per la vita in un ospedale bielorusso, secondo il Sunday Times protetto fino ai denti dal servizio segreto israeliano contro possibili ritorsioni da parte di cellule iraniane, dopo l'annuncio del presidente Alexander Lukashenka sul suo celebre ospite.
   Tre anni fa, quando iniziarono a morire uno dopo l'altro gli scienziati iraniani addetti alle centrifughe nucleari, a Teheran sono apparsi manifesti che chiedevano la testa di Dagan. E' stata chiamata la "taglia di Golia". Il generale Dagan è uno dei pochi personaggi in Israele su cui veglia una sorta di intangibilità, così che molte attività del suo passato sono ancora protette dal segreto e dalla censura. E' il "meccanico d'Israele", come nel film con Charles Bronson del 1972. Nel 2008 il columnist di Haaretz Gideon Levy criticò il secondo canale televisivo che aveva nominato Dagan "uomo dell'anno". "Il nostro uomo dell'anno è un assassino", scrisse Levy.
 
Meir Dagan
   Secondo la giornalista Ilana Dayan, "dal 2002 al 2011 Dagan si è ritenuto personalmente responsabile per la sicurezza di ogni israeliano e di ogni ebreo nel mondo". O per dirla con l'enfasi di Bar-Zohar e Mishal, Dagan è "il Superman israeliano". Soltanto Isser Harel, l'uomo che nel 1960 catturò in Argentina il gerarca nazista Adolf Eichmann, ha servito più a lungo di Dagan. Da responsabile di autobomba, avvelenamenti e guerre cibernetiche ("metodi che neppure la mafia o il servizio segreto cinese usano"), Dagan è diventato il principale oppositore del premier Benjamin Netanyahu sullo strike preventivo alle installazioni atomiche iraniane. E per adesso sull'Iran, la partita più fatale dal 1948 a oggi per lo stato ebraico, sembra averla spuntata Dagan.
   La sua strategia è emersa da un telegramma in cinque punti all'ex sottosegretario di stato, Nick Burns: approccio politico, ovvero deferire l'Iran all'Onu; misure segrete; contro-proliferazione, ovvero impedire il trasferimento all'Iran di know-how e tecnologie nucleari; sanzioni economiche distruttive; fomentare un cambiamento di regime. E' la cosiddetta teoria Dagan sul "collasso".
   Dopo aver lasciato il Mossad, Dagan è stato assunto a Zurigo dalla Arcanum Global, colosso multinazionale specializzato in informazioni nel campo della difesa e dell'energia. Assieme a Dagan è andato a lavorare in Svizzera Arusy Eitan, già portavoce dell'esercito israeliano, l'uomo che è riuscito a scoprire come nove banche occidentali, tra cui il Credit Suisse, abbiano aiutato l'Iran ad aggirare le sanzioni.
   Il corpo di Dagan è stato ribattezzato "la road map delle guerre d'Israele": una scheggia di un proiettile in testa e "vari pezzi di metalli qua e là", compresa la spina dorsale. Dagan ha stroncato la prima Intifada a Gaza nel 1991 e nel 2002 Ariel Sharon lo scelse come capo del Mossad per la sua audacia durante la guerra dello Yom Kippur del 1973, quando fu il primo ufficiale a varcare il Canale di Suez. Si dice che Dagan abbia guidato le operazioni israeliane clandestine dentro l'Iraq prima della caduta di Saddam Hussein. Due reporter del giornale Yedioth Ahronoth, Yigal Sarna e Anat Tal Shir, hanno scritto che Dagan, prima dell'invasione del Libano del 1982, entrò in territorio nemico per fomentare gli attacchi terroristici e giustificare così l'invasione. L'esercito ha posto la censura su questa storia, che resta verosimile.
   Come resta verosimile un altro "lavoro" attribuito a Dagan, anche se Gerusalemme nega, come da storica prassi. Gail Folliard e Kevin Daveron, "irlandesi"; Michael Bodhenheimer, "tedesco"; Peter Elvinger, "francese", sono alcuni dei membri del commando israeliano che avrebbe assassinato, il 20 gennaio 2010, in un hotel di Dubai, Mahmoud al Mabhouh, alto esponente di Hamas legato al traffico d'armi con l'Iran. L'immagine dei killer ripresi dalle telecamere dell'albergo, che fece il giro del mondo, secondo alcuni ha sancito la fine del mandato di Dagan. "E' uno dei migliori direttori, se non il migliore, che il Mossad abbia avuto in sessant'anni", ha detto Ilan Mizrachi, ufficiale veterano dell'agenzia. Sotto Dagan, il Mossad ha fatto impallidire servizi segreti come la Cia, lo MI6 inglese, il tedesco Bnd e il francese Dgse. Chi lo conosce bene dice che la storia brutale di quest'ex ufficiale dell'esercito (che Ariel Sharon aveva soprannominato "The Cruel") è pari al suo carattere mite e introverso. Vegetariano, Dagan ama dipingere, realizzare sculture e suonare il pianoforte. E' nato nel 1945, prima ancora dello stato d'Israele, su un treno per deportati ebrei che correva in Unione sovietica. Il suo cognome, prima che lo ebraizzasse, faceva Huberman. Suo nonno è infatti quel celebre violinista ebreo di nome Bronislaw Huberman, che un giorno mise il violino nella custodia e cominciò un viaggio presso i musicisti più prestigiosi dell'epoca. Huberman disse loro: "Ho la sensazione che qualcosa di terribile stia per travolgere gli ebrei d'Europa. Chi se la sente venga con me a creare l'Orchestra ebraica di Palestina". Chi non gli credette rimase in Europa e morì nei campi di concentramento. Chi invece lo seguì si trovò a suonare l'"Oberon" di Weber, la "Scala di seta" di Rossini, e la "Seconda sinfonia" di Brahms diretti da Arturo Toscanini in un hangar del porto di Tel Aviv.
   Da quando ha preso posizione contro Netanyahu, Dagan è diventato un idolo dei liberal. Ma il suo curriculum parla di uno dei falchi più duri dell'establishment israeliano. Lo 007 vive a Rosh Pina, la magnifica località nel nord della Galilea israeliana e ha preso parte a tutte le dimostrazioni contro il ritiro dal Golan, fin da quando l'idea del disimpegno balenò nella testa di Yitzhak Rabin nel 1993.
   Dagan e il ministro della Difesa, Ehud Barak, altro pezzo da novanta della sicurezza israeliana, si detestano. "Such a renowned, clever man", quest'uomo così famoso e intelligente, dice Dagan ironico di Barak. "Gli incontri con Arafat a Camp David, i tentativi di fare la pace con Assad in Siria e il ritiro dal Libano che ha portato Hezbollah al nostro confine. Ogni sua decisione strategica quando era primo ministro è stata un fallimento", aggiunge.
   Dagan ha applicato all'Iran il metodo da lui inventato nei territori palestinesi: "sakum", ovvero i targeted killing, gli omicidi mirati. Ha scritto il Guardian che "i palestinesi hanno memorie terribili di Dagan". Dall'inizio della seconda Intifada a oggi, Israele ha realizzato 234 targeted killing. Sono molti i metodi inventati dallo staff di Dagan per eliminare i terroristi, compreso un modellino della moschea di al Aqsa di Gerusalemme imbottita di esplosivo. Gli obiettivi sono noti in gergo come "bombe a orologeria". Le condizioni principali sono che l'arresto sia impraticabile, che gli obiettivi siano combattenti, che il governo approvi l'operazione, che minime siano le vittime civili e che si identifichino gli obiettivi come delle minacce future. Una operazione di Dagan è rimasta celebre perché Israele aveva la possibilità di eliminare in un solo colpo il "dream team" di Hamas: Islamil Haniyeh, Mohammed Deif, Adnan al Ghoul e Yassin. Si riunirono tutti assieme, ma visto l'alto numero di vittime civili, soprattutto bambini, che ci sarebbero state, l'esercito decise di abortire l'operazione. E' fissato a 3,14 il numero "accettabile" di vittime civili per terrorista.
   Dagan è stato uno degli architetti dell'alleanza in Libano con i falangisti cristiani, i responsabili del massacro di Sabra e Chatila. Una volta la spia ha detto di considerare il ritiro unilaterale dal Libano nel 2000 come "un affronto personale". I peggiori cospirazionisti accusano Dagan di aver ucciso anche Yasser Arafat, della cui esumazione a Ramallah si discute da settimane per accertarne la morte per avvelenamento. "L'unica tragedia è che la sua morte non è arrivata prima", avrebbe detto Dagan alla morte del leader dell'Olp. Durante l'ondata di attentati suicidi del 2001 in Israele, il governo di Ariel Sharon contemplò il cosiddetto "Piano Dagan". Come scrive su Yedioth Ahronoth l'esperto militare Alex Fishman, "il piano era basato su due premesse: 'Uno, Arafat è un assassino e non si negozia con un assassino. Due, gli accordi di Oslo sono il male più grande mai sceso su Israele, un male che deve essere distrutto'".
   La fama di killer di Dagan viene dall'epoca in cui il suo team operava sotto copertura nella Striscia di Gaza per eliminare i capi terroristi. Dagan e i suoi si vestivano da autisti di taxi o contadini arabi, si infiltravano nelle cellule islamiste e ne uccidevano i capi. Il libro di Bar-Zohar e Mishal racconta la spia da questi primordi. Dagan agiva spesso in compagnia del suo cane dobermann di nome Fanny. Lui, nelle rarissime interviste rilasciate alla televisione israeliana, ha sminuito simili particolari. "Non c'è alcuna gioia nell'uccidere, chiunque provi il contrario è uno psicopatico", ha detto Dagan a Ilana Dayan, reporter del canale Due.
   Uno dei piani di Dagan prevedeva l'utilizzo di cinquanta cani alsaziani da far penetrare nella centrale nucleare di Natanz, a cento chilometri da Teheran. I cani, addestrati nella copia della centrale di Natanz che il servizio segreto israeliano avrebbe ricostruito nel deserto del Negev, sarebbero stati equipaggiati di corpetti esplosivi e fatti esplodere con un comando a distanza. Avrebbero ricevuto copertura dagli uomini dell'unità israeliana "Shaldag", gli stessi che parteciparono alla distruzione del reattore nucleare vicino a Baghdad, nel giugno del 1981, quando un commando puntò un raggio laser sulla cupola del reattore, che in questo modo fu centrata con matematica precisione dalle bombe teleguidate lanciate dagli aerei F-16 israeliani.
   Una delle decisioni più importanti di Dagan è stato il potenziamento della "kidon", la squadra di esecutivi del Mossad. Vengono dalla scuola del Mossad a Herzliya e hanno trascorso un lungo periodo di addestramento nel deserto del Negev. Si dice che soltanto il Csis, il potente servizio segreto cinese, abbia la stessa libertà di uccidere. Alcuni di loro sono esperti in armi chimiche come il gas sarin, e hanno lavorato per il Kgb o la Stasi tedesca, prima di essere arruolati dal Mossad alla caduta del Muro di Berlino. Dagan ha potenziato l'unità esperta in gas nervino Vx, i neurotossici inventati dai tedeschi negli anni Trenta (Soman, Tabun) e il Valium mischiato a un cocktail di sostanze narcotiche. Alcuni di questi metodi sarebbero stati usati per uccidere gli scienziati iraniani. Per capire meglio come muore un essere umano, Dagan ha inviato queste squadre a imparare il lavoro presso i patologi del Tel Aviv Institute of Forensic Medical Research. E poi da lì al laboratorio di Nes Ziona, dove gli israeliani studiano le armi chimiche e batteriologiche, località che ufficialmente non esiste sulla mappa e che gli aerei non possono sorvolare.
   Dagan avrebbe spedito i propri uomini anche nella giungla venezuelana, nelle montagne della Colombia, nelle strade del Messico, fino al Cile e all'Argentina, ovunque ci fossero al Qaida o agenti iraniani. "Menume", primo fra gli uguali, è l'espressione preferita da Dagan in compagnia dei suoi agenti. Per dieci anni Dagan ha smosso a ogni angolo del mondo i "neviot", gli specialisti in sorveglianza; gli "yaholomin", gli esperti in comunicazione; i "balder", ovvero i corrieri; e gli esperti in "slick", case sicure, e in "teuds", i falsari. Si scopre così che Dagan aveva già pianificato l'uccisione dello scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, quello che ha venduto tecnologia nucleare alla Libia, all'Iran, alla Corea del nord e all'Iraq. Khan, il padre della "bomba di Allah".
   Si dice che il "capolavoro" di Dagan sia stato la distruzione del reattore nucleare siriano. "Dagan ha fatto un lavoro incredibile", ha scritto di recente l'ex vicepresidente americano Dick Cheney. Nell'aprile del 2007 il capo del Mossad vola a Washington per incontrare i capi della sicurezza dell'Amministrazione di George W. Bush. "Distruggetelo, o lo faremo noi", dice loro Dagan mostrando le fotografie del reattore che i siriani stavano costruendo ad Al Kibar. Di lì a poco i caccia israeliani avrebbero bombardato il sito atomico, senza però mai ammetterlo.
   Nel 2008 a Damasco una bomba, si dice sempre confezionata da Dagan, uccide Imad Mughniyeh, il leggendario capo militare di Hezbollah che si era persino cambiato i connotati per sfuggire a Dagan. Al Mossad bastano tre operativi per la missione: "Pierre", un francese di Montpellier che fa il meccanico; "Manuel", uno spagnolo di Màlaga che fa la guida turistica, e "Ludwig", un tedesco di Monaco che fa l'elettricista. I tre avrebbero usato voli di linea diversi per raggiungere Damasco: il volo AF1519 della Air France dall'aeroporto parigino Charles de Gaulle, il volo RJ 110 della Jordanian Airlines da Amman e il volo AZ7353 dell'Alitalia dall'aeroporto di Malpensa. Nel loro cellulare, decrittata, c'è la fotografia di Mughniyeh dopo l'operazione chirurgica subita in una clinica della Stasi in Germania. Il 12 febbraio 2008 Pierre posiziona l'autobomba vicino al centro culturale iraniano dove sarebbe dovuto andare Mughniyeh. L'esplosione è micidiale e parti del corpo del "chief of staff di Hezbollah" vengono rinvenute a venti metri di distanza.
   Altrettanto impressionante è stata l'eliminazione del generale Mohammed Suleiman, ucciso il 1o agosto 2008. L'allora capo della sicurezza di Bashar el Assad era seduto sulla terrazza della sua villa sulla costa siriana, a godersi la brezza insieme a un gruppo di persone invitate a pranzo. Nessuno si era accorto che un vascello navale era ancorato al largo, con un cecchino di Dagan sul ponte. Uno sparo, da grande distanza, fu sufficiente. Il generale rimase ucciso e gli ospiti illesi. Meir Dagan sapeva tutto sulla festa di Suleiman, a che ora sarebbe cominciata e in quale posto si sarebbe seduto.
   Per otto anni l'Iran è stata la "principale ossessione" di Dagan. Sotto la direzione del celebre spione, Israele sarebbe stato responsabile dell'assassinio di numerosi scienziati iraniani, del virus Stuxnet che per mesi ha messo fuori uso le centrifughe che arricchiscono l'uranio e la vendita di componenti difettose per le centrali atomiche. "Senza Dagan, il programma nucleare iraniano sarebbe già stato completato alcuni anni fa", ha scritto Al Ahram, il maggiore giornale egiziano. Grazie a Dagan, "gli iraniani hanno perso almeno un paio di anni nella costruzione della bomba", calcola un ispettore dell'Agenzia atomica di Vienna. Ma nonostante abbia servito come suo advisor per il terrorismo, Dagan non ha goduto della piena fiducia di Netanyahu.
   La rottura si consuma nel novembre del 2010, durante un meeting tra Barak, il primo ministro e i capi della sicurezza, fra cui Dagan. Fra sigari e whisky, il capo del Mossad dice ai presenti che l'attacco dal cielo contro l'Iran non si può fare, meglio distruggere il programma atomico a colpi di sabotaggi. Pochi giorni dopo le dimissioni, Dagan inizia una dura campagna pubblica contro la linea di Netanyahu, al punto che molti ministri lo vorrebbero vedere in tribunale per rispondere dell'accusa che un simile eroe di guerra non si sarebbe mai aspettato: "Tradimento". Dagan ha risposto loro: "Che lo facciano, sarà divertente".
   Nel frattempo cresce il mistero attorno al corpo del più micidiale difensore d'Israele, ricoverato in un vecchio ospedale di fabbricazione sovietica. Quasi un ritorno alle origini glaciali di Novosibirsk e a quella fotografia che Dagan tiene in bella vista sulla scrivania: raffigura il nonno materno, Ber Erlich Sloshny, in ginocchio, immediatamente prima di essere assassinato a freddo da due soldati nazisti.

(Il Foglio, 17 marzo 2016)


Il dibattito sulla tzniut - Modestia e vita quotidiana: tre voci femminili

di Rossella Tercatin

 
A cosa si fa riferimento quando si parla di tzniut, modestia? È vero che questo concetto nella tradizione ebraica assume una particolare rilevanza nel mondo femminile? E cosa significa fare della tzniut un cardine della propria vita quotidiana? In un periodo in cui la nozione di tzniut è spesso oggetto di dibattito, Pagine Ebraiche ha posto alcuni quesiti sul tema a tre donne che vengono e vivono in mondi diversi. Ad accomunarle però il riconoscimento della tzniut come valore importante, da rispettare ogni giorno.
  Shulamit Furstenberg-Levi, israeliana da tanti anni a Firenze, sposata al rabbino capo della città Joseph Levi, mette in evidenza quanto la tzniut segni prima di tutto un modo di comportarsi nei confronti del prossimo. "Vuol dire mantenere un atteggiamento che lascia spazio agli altri oltre che a te stesso, e contemporaneamente cercare di portare kedushah, sacralità, nella vita quotidiana. La tradizione ebraica prevede molti momenti di incontro con il sacro, a cominciare da Shabbat, ma rispettare la tzniut significa mantenersi sempre consapevoli di non essere solo se stessi, ma di avere qualcuno sopra di noi. Sicuramente è quindi essenziale tanto per le donne, quanto per gli uomini". Shulamit si pone in modo critico invece nei confronti di chi considera la modestia semplicemente un insieme di regole che la società circostante impone di rispettare. "Il modo in cui ci vestiamo e ci poniamo è parte di quello che siamo, ma è solo una parte. Vorrei dissociare la tzniut dalla questione di come la società ci giudica: il discorso riguarda soprattutto il nostro rapporto con noi stessi. Anche se è molto importante avere rispetto per la comunità in cui si vive e per le persone che abbiamo davanti e i loro valori".
  Mette in evidenza le diverse sfaccettature del concetto di tzniut anche Giulia Gallichi Punturello, italiana trapiantata a Gerusalemme, personal chef, e moglie di rav Pierpaolo Punturello. "La tziniut per me ha canoni da un lato spirituali e dall'altro formali - spiega - Nella società infatti significa tenersi lontani dalla maldicenza e da situazioni equivoche. Nella sfera spirituale invece è un modo di approcciarsi alla vita, mantenendo un basso profilo, senza il bisogno di rimarcare le proprie conoscenze, successi o mizvot. Nella mia quotidianità e soprattutto nel mio ruolo di Rabbanit, la tziniut non ha soltanto a che fare con il modo di vestirmi o di comportarmi, ma piuttosto mi ha aiutata a mantenermi al di fuori di determinate dinamiche politico/comunitarie senza però sminuire l'importanza delle mie idee".
  Per Gheula Canarutto Nemni, autrice del libro "(Non) si può avere tutto" ed esponente del gruppo chassidico Chabad-Lubavitch, la modestia è un modo di vivere se stessi, mantenere dignità e umiltà. "È importante ricordare che l'ebraismo aiuta a interiorizzare i concetti spirituali attraverso regole pratiche, e in questo senso si possono leggere le prescrizioni in materia di abbigliamento" prosegue. "Questo non significa assolutamente sentirsi meno belle o sminuite. Sicuramente io non mi sento privata di qualcosa perché non posso indossare un paio di jeans. Anzi, io penso che questo sia un modo per valorizzare le donne, di non ridurne il valore alla superficie di pelle esposta".
Ricordando poi che nella Torah, la persona umile, tzanua, per eccezione è niente meno che Mosè, guida del popolo ebraico. A sottolineare come il concetto di modestia vada ben oltre i centimetri di stoffa.

(moked, 17 marzo 2016)


Studenti kenioti in Israele per imparare i segreti dell'irrigazione

Studenti kenioti in Israele per imparare i segreti dell'irrigazione nel tentativo di incrementare la produzione alimentare del Kenya.
Il programma di tre settimane andrà a beneficio di 45 studenti provenienti dal Water Institute grazie ad una borsa di studio del governo israeliano.
Il Presidente Uhuru Kenyatta, per l'occasione ha ribadito che il Kenya è pronto a formare il personale necessario per aiutare il governo a raggiungere la sua sicurezza alimentare nazionale.
L'irrigazione è fondamentale per la sicurezza alimentare. L'obiettivo è quello di acquisire conoscenze e riportare le competenze acquisite. Molto importante è anche formare altri kenioti sulla moderna tecnologia di irrigazione.
Il Capo dello Stato ha sottolineato che il governo ha scelto Israele grazie alla sua tecnologia avanzata che ha permesso al paese di svilupparsi, nonostante le sue scarse risorse idriche.
Israele è leader mondiale nel riciclo delle acque ed è anche un grande esportatore di prodotti agricoli freschi, anche se, come è noto, la metà del territorio è desertico.
Il presidente Kenyatta ringraziando il governo di Israele per la collaborazione, ha assicurato agli studenti che a breve andrà in Israele per incontrarli di nuovo. L'Ambasciatore di Israele in Kenya, Yahel Vilan, ha esortato la popolazione ad essere "agenti di cambiamento" nel settore agricolo al fine di migliorare le condizioni di vita.

(SiliconWadi, 17 marzo 2016)


La Marina israeliana sviluppa un nuovo sistema di comando e controllo

GERUSALEMME - La Marina israeliana sta lavorando allo sviluppo di un nuovo sistema di comando e controllo per le sue navi, che consentirà ai vascelli di colpire bersagli terrestri dal mare con maggiore tempestività e di giocare un ruolo più rilevante nella difesa aerea del paese e della flotta. Lo ha riferito alla "Jerusalem Post" una fonte di alto livello del C4i della Marina (unità di Comando e controllo, comunicazioni, computer e intelligence). La fonte ha spiegato che il nuovo sistema sostituirà quello attuale, che ha visto sei aggiornamenti dalla sua introduzione negli anni Novanta. Il nuovo sistema sarà operativo sulle quattro corvette Sa'ar 6 che la Marina riceverà in dotazione dal 2017 al 2019, per poi essere esteso a tutte le altre imbarcazioni. Il nuovo sistema garantirà anche una maggior protezione agli impianti per l'estrazione offshore di gas naturale nella zona economica esclusiva del paese.

(Agenzia Nova, 16 marzo 2016)


Netanyahu: i palestinesi hanno rifiutato l'offerta segreta di Israele per il controllo della Zona A

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha aggiornato il gabinetto di sicurezza in merito ai negoziati segreti per ripristinare il controllo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) sulle città della Cisgiordania, perché i palestinesi hanno rifiutato l'offerta. Lo ha detto il ministro per l'Accoglienza degli immigrati, Zeev Elkin. "Non abbiamo ricevuto una relazione in merito", ha spiegato Elkin. "Il primo ministro mi ha detto che il gabinetto non è stato aggiornato perché il progetto non è andato a buon fine a causa di un rifiuto palestinese dell'offerta. Come al solito, i palestinesi non sprecano mai l'occasione per perdere un'occasione", ha detto Elkin. La Zona A, oggetto dei negoziati segreti rivelati da fonti governative anonime al quotidiano "Haaretz", comprende le città palestinesi più grandi e i villaggi circostanti, e copre circa un quinto del territorio complessivo della Cisgiordania. Quest'area, in base agli accordi di Oslo, è sotto il controllo dell'Autorità nazionale palestinese. Dopo l'operazione Protective Edge dell'estate 2014, però, le Forze di difesa israeliane hanno presidiato direttamente l'area.

(Agenzia Nova, 16 marzo 2016)


L'alleanza economica tra Israele e Giappone

di Maria Grazia Labellarte

 
Benjamin Netanyahu con il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe nel 2014
Questa settimana, alcuni funzionari della regione giapponese del Kansai hanno firmato un memorandum d'intesa sul rafforzamento del commercio e legami economici tra il Paese del Sol Levante e Israele. L'evento è parte di un programma che ha visto lavorare insieme una delegazione delle amministrazioni di importanti città giapponesi come Osaka, Kobe e Kyoto, dirigenti di multinazionali di elettronica come Panasonic e Hitachi e rappresentanti dell'Agenzia Nazionale per l'Export.
   Punto fondamentale di questo nuovo orizzonte economico è l'interesse prioritario mostrato dal Giappone per Israele come "polo internazionale di tecnologia avanzata", il tipo di tecnologia necessaria per il Giappone per il rilancio in termini di competitività della sua economia, rivolta soprattutto ad un efficace confronto con la Cina.
   Il livello dei rapporti tra i due Paesi ha avuto un punto di svolta nel maggio 2014 quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visitato il Giappone, seguito poi dal ricambio della visita in Israele del leader giapponese Shinzo Abe nel gennaio 2015. Da allora, i rapporti tra Tokyo e Tel Aviv sono maturati rapidamente facendo perno proprio sui reciproci interessi commerciali e strategici.
   I due governi hanno firmato in sequenza numerosi accordi: lo scorso ottobre Israele ha istituito un ufficio commerciale a Osaka per promuovere la tecnologia dello Stato ebraico tra i produttori di automobili giapponesi; aziende giapponesi, tra cui Toyota, hanno organizzato a loro volta eventi tech, hackathons e altre iniziative in Israele, base ideale per progetti futuri e nuove start-up.
   L'asse economico tra Giappone e Israele piuttosto che una "nuova alleanza" sembra essere lo sviluppo di un'antica relazione rivalutata all'insegna di una maggiore trasparenza. In tempi lontani, soprattutto da parte del Giappone, le relazioni bilaterali erano caratterizzate da una certa sordina, giustificata dal timore nipponico di irritare partner arabi e incidere quindi sulle forniture di petrolio mediorientale, di cui Tokyo ha sempre avuto assoluto bisogno. I tempi a quanto pare sono cambiati. Nuove possibilità strategiche sembrano prevalere ormai sulla paura giapponese di perdere contatti strategici consolidati.

(Difesa Online, 16 marzo 2016)


I ragazzi del Centro Cinematografia di Milano raccontano Israele

Sedici studenti andranno sul posto per realizzare cinque video turistici

MILANO - Cinque video turistici su Israele che abbiano come tema la cultura enogastronomica, la natura, i siti patrimonio mondiale dell'Umanità situati in Israele, la bellezza e la creatività israeliana oltre a Israele come meta di una vacanza perfetta saranno realizzati dagli studenti della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - Scuola Nazionale di Cinema di Milano. L'iniziativa rientra in un accordo di collaborazione tra Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - Scuola Nazionale di Cinema e l'Ufficio Nazionale del Turismo Israeliano in Italia.
   Il progetto #IsraeleDaGirare vedrà 16 studenti del Corso di Cinema d'Impresa e Pubblicità, accompagnati dai loro docenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano, recarsi in Israele per l'intera fase di ripresa per i cinque video. L'utilizzo del materiale realizzato sarà per esclusiva finalità turistica e promozionale e sarà a disposizione degli uffici del ministero del Turismo di Israele nel mondo per le attività di comunicazione on line, fiere, incontri al trade ed al pubblico finale.
   In questi giorni sono in via di definizione una serie di contatti con lo scopo di coinvolgere nel progetto anche le locali scuole di cinema israeliane, così da dare continuità didattica e formativa al progetto.
   "Subito siamo stati davvero entusiasti del progetto - ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia - ed abbiamo costruito i contenuti passo a passo insieme alla Scuola Nazionale di Cinema, coinvolgendo gli studenti ed avvicinandoli a quella che è la realtà e la bellezza d'Israele giorno dopo giorno. E' un lavoro di reciproca conoscenza ed è la prima volta che il nostro ufficio si apre a un progetto così innovativo che esalata lo sguardo fresco, la ricchezza e la creatività dei giovani".
   "Un'importante opportunità di crescita dei nostri allievi - afferma Bartolomeo Corsini, che dirige con Maurizio Nichetti la Sede Lombardia del Centro Sperimentale di Cinematografia - produrre un video con una committenza reale e prestigiosa come l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo significa, per la Scuola, aver raggiuto un alto livello di professionalità. Buon lavoro!".

(askanews, 16 marzo 2016)


Fotografie da un matrimonio ultraortodosso

L'album delle nozze haredim del nipote di un rabbino, celebrate a Netanya: ogni foto sembra un quadro.

Netanya è la capitale della regione della pianura di Sharon, una delle zone più popolate di Israele. In questi giorni a Netanya si è celebrato il matrimonio - in stile tradizionale - del nipote del rabbino di un'importante dinastia chassid. All'evento hanno partecipato moltissime persone e alcuni fotografi hanno scattato belle foto dei preparativi, degli invitati e della mitzvah tantz, una danza che si tiene dopo i festeggiamenti e prima della notte di nozze in cui alcuni uomini - tra cui il rabbino e lo sposo - ballano attorno alla sposa tenendo in mano un gartel, una cintura usata durante le preghiere.

(il Post, 16 marzo 2016)


Il presidente russo Putin incontrerà presto il premier israeliano Netanyahu

MOSCA - Il presidente russo Vladimir Putin incontrerà prossimamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu per discutere della sicurezza in Medio Oriente. Lo ha annunciato lo stesso Putin nel corso del suo incontro odierno con il presidente israeliano Reuven Rivlin a Mosca. Al centro dell'incontro tra i due capi di stato, come anticipato ieri dai funzionari israeliani, la recente decisione russa di ritirare gran parte delle forze militari presenti sul suolo siriano; una scelta criticata dalle autorità israeliane. Lo scorso ottobre la Russia ha deciso di intervenire in Siria su richiesta del presidente Bashar al Assad. Parlando con i giornalisti israeliani, Rivlin aveva annunciato di voler capire come la Russia immagini il futuro della Siria ed anche lo stesso futuro della regione mediorientale. "C'è - ha spiegato il presidente - la necessità di un coordinamento con la Russia in merito alla situazione attuale. Tutti noi sappiamo che lo Stato islamico rappresenta un pericolo per il mondo intero, ma allo stesso tempo anche il fondamentalismo islamico sciita professato dall'Iran per noi rappresenta una minaccia".

(Agenzia Nova, 16 marzo 2016)


Il primo ministro di Israele guadagna solo 4.500 franchi al mese

Uno degli incarichi più difficili nel mondo occidentale non è ben remunerato - Lo ha reso noto lo stesso Benyamin Netanyahu sulla sua pagina facebook.

Uno degli incarichi più difficili nel mondo occidentale, quello di primo ministro di Israele, non è eccessivamente ben remunerato. Lo ha reso noto ieri lo stesso premier Benyamin Netanyahu che sulla propria pagina Facebook ha pubblicato il suo stipendio per il mese di febbraio: al netto, 17'645 shekel, circa 4500 franchi. I giovani israeliani che lavorano nel hi-tech, è stato notato, possano aspettarsi guadagni ben superiori.
In realtà lo stipendio di Netanyahu, al lordo, sarebbe di quasi 50 mila euro. Ma i prelievi sono molto significativi: non solo l'imposta sul reddito (il 48%) e la previdenza sociale, ma anche - a questo sembra essere il tasto più "sofferto" per il primo ministro - una detrazione di 12'440 shekel come contributo per l'automobile blindata con cui è costretto a spostarsi per volere dei servizi di sicurezza.
Netanyahu, secondo Maariv, ha utilizzato la pubblicazione su Facebook proprio nell'intento di fare pressione sui funzionari statali affinché lo equiparino al capo dello Stato Reuven Rivlin che è invece esonerato da quella detrazione. La stampa economica rileva che comunque Netanyahu non ha quasi uscite, in quanto quasi tutte le sue necessità familiari correnti sono sostenute dallo Stato.

(Corriere del Ticino, 16 marzo 2016)


Forze di sicurezza israeliane sventano un attentato a nord di Gerusalemme

GERUSALEMME - Le forze di sicurezza israeliane hanno sventato oggi un attacco terroristico nel quartiere Shuafat a nord di Gerusalemme. Un comunicato diffuso dalle forze di sicurezza riferisce che le forze di sicurezza israeliane hanno fermato un 14enne palestinese mentre cercava di scavalcare i cancelli che permettono l'ingresso nel quartiere per evitare i controlli di sicurezza. Durante la perquisizione il ragazzo è stato trovato in possesso di un coltello da cucina. Dallo scorso primo ottobre è in corso la cosiddetta "intifada dei coltelli", in cui sono rimasti uccisi oltre 20 israeliani e più di 180 palestinesi. Gran parte dei palestinesi sono stati uccisi in seguito ai loro tentativi di attaccare le forze di sicurezza di Gerusalemme, mentre altri sono morti nel corso di proteste e scontri. Molti degli attentatori erano giovani, alcuni adolescenti. Le autorità israeliane hanno più volte accusato i leader palestinesi ed i media di incitare all'odio addossandogli la responsabilità di queste violenze. Ieri il consiglio di sicurezza israeliano ha discusso dei possibili modi per affrontare la crisi; tra le misure analizzata la possibilità di chiudere le emittenti palestinesi che incitano al terrorismo.

(Agenzia Nova, 16 marzo 2016)


Avanti il prossimo, sono D'Alema

Ieri a Napoli l'ex premier invitato con i boicottatori di Israele.

Massimo D'Alema e Luigi De Magistris, due pensosi boicottatori di Israele
Con il patrocinio dell'ambasciata dello "stato di Palestina" in Italia, in occasione della "giornata della cultura palestinese", ieri a Napoli si è svolta una conferenza "su quello che sono i diritti umani e civili del popolo palestinese e ciò che si può fare, per far sì che tali diritti possano diventare una realtà in tutti i Territori palestinesi, attraverso la collaborazione internazionale". Erano presenti Mai Alkaila, ambasciatrice palestinese a Roma; il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris; Massimo D'Alema, ex premier e ministro degli Esteri, e Iain Chambers, docente di studi culturali e post coloniali all'Università Orientale di Napoli. Quest'ultimo è uno dei firmatari e promotori dell'appello accademico italiano per il boicottaggio delle università israeliane, a cominciare dal Technion di Haifa. C'era anche Nicola Quatrano, osservatore internazionale, che accusa Israele di "terrorismo". Viene da chiedersi quale possa essere a questo punto la linea rossa di Massimo D'Alema.
   Il limite oltre il quale non va nel prendere parte a incontri pubblici, specie da quando, in Europa, D'Alema va dialogando e flirtando con Tariq Ramadan, ambiguo islamologo di grido che non pochi mugugni ha causato nella stessa comunità islamica francese. D'Alema trova decente e giusto avallare con la sua Fondazione Italiani Europei una giornata per i palestinesi, mentre in Israele ogni giorno si contano i morti e i feriti della Terza Intifada per mano dei palestinesi? L'ex premier ritiene legittimo sdoganare con la sua stessa presenza le posizioni di accademici come Chambers, attivo militante della lotta a Israele e alla sua cultura accademica e scientifica? Il mese scorso, il rettore dell'Orientale di Napoli, Elda Morlicchio, ha fatto rimuovere dal sito ufficiale del centro di studi postcoloniali di Chambers l'appello al boicottaggio dei prodotti israeliani. Appello che proprio Chambers aveva voluto pubblicare nelle pagine della prestigiosa università. Passi una esortazione a favore della "cultura palestinese" da parte di Max. Ma non è che, en passant, la prossima volta troverà il tempo anche di condannare l'intolleranza che manda al rogo quella israeliana, fucina di tanti Nobel?

(Il Foglio, 16 marzo 2016)


"Choc identitario"

Parla Rioufol, firma del Figaro che esce con un libro sulla "democrazia stanca conquistata dall'islamismo".

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche giorno fa, in una intervista-ritratto sul New York Times, Alain Finkielkraut ha detto: "La Francia è sulla strada della disintegrazione. Fino a poco tempo fa, la Francia era riuscita a integrare gli immigrati, oggi si sta disintegrando davanti ai nostri occhi". Poco prima, dalle colonne del Figaro, lo scrittore algerino Boualem Sansal, autore del romanzo "2084", aveva scandito: "Il confine con l'occidente ha cominciato a essere abolito perché ora l'islam politico ha spazi aperti a Londra, Parigi e Bruxelles". Un giornalista francese, Ivan Rioufol, settantenne storica firma del Figaro, ha scritto un libro che dà già per certa questa confisca, "La guerre civile qui vient", in uscita questa settimana.
   "In Francia oggi c'è uno choc identitario", dice al Foglio Rioufol. "Una congiunzione fatale fra una contro-società che rigetta la democrazia occidentale e una nostra cecità. Il rischio di una guerra civile in futuro è concreta. Per anni la gauche umanista e antirazzista ha deliberatamente taciuto sul nuovo totalitarismo salafita e l'antisemitismo esploso fin dagli anni Duemila, un totalitarismo simile al fascismo e al maoismo". Secondo Rioufol, "non c'è niente di più falso della tranquillità delle città, che permette al capo dello Stato di garantire: 'Non ci sono parti perdute della Repubblica'. In realtà, quelli sono in uno stato di secessione territoriale. Il 13 novembre solo una parte dei giovani delle città ha sparato a una parte della gioventù disarmata. Ma viviamo già una guerra interna a bassa intensità. Abbiamo osservato il rinnovato stato di emergenza, i soldati armati che pattugliano le città, gli agenti di polizia con armi da guerra. E uno scontro di culture è già in atto nella mente. Si oppone l'occidente a una contro-società che rifiuta questi valori nel nome dell'islam radicale".
   Di questo parla anche l'appello lanciato questa settimana da Elisabeth Badinter, femminista, studiosa e intellettuale senza concessioni, per una "primavera" repubblicana. Secondo Ivan Rioufol, "una guerra civile avanza di soppiatto. L'ideologia coranica sta conquistando le democrazie occidentali stanche. In Francia ha migliaia di guerrieri, gode della passività delle città, della miopia del potere, di centocinquanta moschee salafite, delle scuole coraniche, dei Fratelli musulmani".
   Secondo Rioufol, "la guerra civile è in agguato nelle pieghe del multiculturalismo. Le periferie infuriano. Sono pronte a dare battaglia alla nazione odiata". Gli ebrei sono la prima linea e "i cristiani sono sulla lista. Già i loro fratelli orientali scompaiono lentamente sotto le esplosioni di satanismo che procedono alla macellazione, alla crocifissione, violando il nome di Allah". L'islamismo senza dubbio, ma secondo Rioufol anche "tutti coloro che per viltà o ideologia abbandonano la Francia. Infatti, è in primo luogo la nostra debolezza che è responsabile per la situazione attuale. La Francia è malata di se stessa, del suo senso di colpa. Non biasimo l'islam per cercare di segnare sempre un po' di più il suo nuovo territorio, a quanto pare abbandonato dai potenti, dai fedeli della chiesa. E questa mancanza è colpa nostra. La crisi di identità è molto più grave della crisi economica".

(Il Foglio, 16 marzo 2016)


Ma davvero la società occidentale è in “crisi d’identità”? Forse sarebbe più appropriato dire che è arrivata a un punto di “supermaturazione d’identità”. E’ un’identità portata alle estreme conseguenze. Quelli che abbandonano la Francia “per viltà o ideologia” in realtà vogliono mantenere la loro identità. Cioè cercano un posto dove ogni loro desiderio personale è un diritto e ogni limite alla pretesa di ottenere subito una felicità personale è un crimine. Perché mai dovrebbero combattere e soffrire? Tutti hanno diritto alla felicità - dicono -, e combattere non fa felici. M.C.


Israele dona alla Papua Nuova Guinea una unità di depurazione delle acque

 
Il Ministero degli Affari Esteri israeliano, insieme alla società GAL Water Technologies Ltd ha donato alla Papua Nuova Guinea una unità di dissalazione delle acque per aiutare il Paese recentemente colpito da El Niño, un fenomeno tropicale che ha colpito la popolazione, distruggendo i raccolti e creando problemi di approvvigionamento delle acque.
  Il dispositivo, chiamato Galmobile, ha la capacità di fornire acqua potabile ai residenti delle zone rurali. Si tratta di una unità indipendente e automatica in grado di connettersi a qualsiasi fonte d'acqua (fiumi, laghi, oceani, acqua salmastra, pozzi) e produrre acqua che soddisfi gli standard di acqua potabili dichiarati dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
  Alla luce delle difficoltà della Papua Nuova Guinea, questo è l'impegno che si è assunto lo Stato d'Israele al fine di provare a risolvere una situazione che può creare serie difficoltà alla popolazione. Dati anche gli ottimi rapporti personali tra i leader dei due paesi, si è convenuto, su richiesta personale del primo ministro Netanyahu, che l'unità di dissalazione fosse donata alla Papua Nuova Guinea.
  Inoltre, stanno giungendo al paese anche agli aiuti umanitari, attraverso MASHAV i cui cooperanti stanno sta fornendo servizi di consulenza nella produzione di sementi e istituendo un sistema di formazione professionale per adolescenti e giovani adulti.
  Il Vice Ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotoveli è intervenuta durante l'evento di inaugurazione, tenutosi presso il ministero a Gerusalemme, sottolineando l'impegno di Israele ad estendere gli aiuti agli amici, come la Papua Nuova Guinea, in tutto il mondo.

(SiliconWadi, 16 marzo 2016)


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