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Notizie 1-15 marzo 2018


Milano intitola una piazza a Ho Feng Shan, il console cinese che salvò migliaia di ebrei

A Vienna durante il periodo nazista, fece espatriare migliaia di cittadini ebrei a Shanghai. Cerimonia tra via Sarpi e via Lomazzo.

MILANO, 15 marzo 2018 - "Un riconoscimento che ha un grande valore simbolico per il luogo in cui abbiamo deciso di intitolare questa piazzetta, nel cuore della Chinatown milanese, nel cuore della comunità cinese che ormai è sempre più parte integrante della città e questo riconoscimento credo sia molto importante e significativo perché è un messaggio di pace e fratellanza". Lo ha detto Filippo Del Corno, assessore comunale alla Cultura, a margine della cerimonia di intitolazione della piazza all'incrocio tra via Paolo Sarpi e via Paolo Lomazzo a Ho Feng Shan, console cinese a Vienna durante il periodo nazista, che fece espatriare migliaia di cittadini ebrei a Shanghai, concedendo i visti tra il 1938 e il 1939.
A lui sono stati dedicati anche un albero e una targa nel Giardino dei Giusti del Monte Stella, alla presenza del sindaco Giuseppe Sala. Nel suo discorso, Del Corno ha sottolineato l'importanza della comunità cinese di Milano, ricordando la "catena di solidarietà che questa mise in piedi in occasione del terremoto di Amatrice".

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Erano presenti anche Ho Manli, figlia di Ho Feng Shan, Luca Sheng Son, presidente dell'Uniic, l'Unione Imprenditori Italia Cina, da cui è partita la richiesta al Comune per questo riconoscimento, e Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, l'associazione mondiale del Giardino dei Giusti, che ha ricordato come si tratti di "un giorno importante per Milano e per tutta la comunità cinese, perché viene ricordata la storia di un uomo straordinario, di cui, fino quasi agli anni 2000, non si sapeva assolutamente nulla".
A ripercorrere la storia di Ho Feng Shan ha pensato la figlia, Ho Manli, che ha detto di aver "scoperto la storia di suo padre solo nel 1997, dopo che lui era venuto a mancare. Una storia che ha ancora dei vuoti da riempire". "La storia - ha detto invece Luca Sheng Song - è scandita da momenti straordinari, è forgiata da eroi, comuni umani che scelgono di intraprendere imprese straordinarie, come quella di Ho Feng Shan. È un momento molto importante per tutta Milano". A dispetto della pioggia battente, circa 70 persone si sono riunite nella nuova piazzetta Ho Feng Shan per ascoltare gli interventi dei relatori, sventolando insieme bandiere italiane e cinesi.

(Il Giorno, 15 marzo 2018)


Comunità Ebraica di Vercelli - Adam Smulevich presenterà il suo libro "Presidenti.

Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma". Nel libro storie di uomini e storie di Presidenti, passati dal calore dei cori da stadio al freddo rinnegamento e all'imbarazzo degli estimatori, colpevoli di essere ebrei, oppure ebrei convertiti, ma di fondo sempre della razza sbagliata

Adam Smulevich
La Comunità Ebraica di Vercelli ospiterà domenica 25 marzo, alle ore 17 in Sala Foa (via Foa 70) Adam Smulevich che presenterà il suo libro "Presidenti. Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma", edito nel 2017 da Giuntina. Ad introdurre l'autore sarà la Presidente Rossella Bottini Treves e a condurre la presentazione sarà il vercellese Fabio Ponzana, storico e critico letterario noto in città anche come grande tifoso della Pro Vercelli, anch'essa citata nel libro di Smulevich.
   L'autore, giornalista in forza alla sezione comunicazione e redazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, è reduce dalla presentazione del suo saggio in molte città italiane, su Skysport24 e sulle reti Rai e Mediaset. Il volume è il saggio sportivo più recensito del 2017. Smulevich sarà presente a Vercelli su invito della Presidente Treves che vuole così continuare il percorso sulla memoria della Shoah affrontando quel nero periodo che ebbe funeste conseguenze anche sul mondo calcistico. Il saggio, sorta di raccolta precisa e specifica di informazioni e documenti narrate con il piglio di un romanzo storico, ricorda le figure di Raffaele Jaffe, colui che regalò a Casale un incredibile scudetto alla vigilia della Grande Guerra, sfidando il successo della Pro Vercelli, di Giorgio Ascarelli, fondatore del Napoli, di Renato Sacerdoti, padre della AS Roma Calcio e presidente più longevo.
   Tre uomini di calcio, in un'Italia che a giorni alterni vive per il calcio, ma anche tre uomini pesantemente toccati dalle leggi razziali del '38: Ascarelli, che era già deceduto nel 1930, ne subì le conseguenze postume; Jaffe e Sacerdoti ne furono investiti, emarginati e rinnegati, il primo addirittura, arrestato e deportato, fu ucciso appena arrivò ad Auschwitz. Storie di uomini e storie di Presidenti, passati dal calore dei cori da stadio al freddo rinnegamento e all'imbarazzo degli estimatori, colpevoli di essere ebrei, oppure ebrei convertiti, ma di fondo sempre della razza sbagliata. Smulevich racconterà a Vercelli non solo il suo libro, ma anche il lungo lavoro di ricerca e documentazione che lo ha portato alla stesura del testo. La presentazione avrà luogo in Sala Foa (via Foa 70) alle ore 17.

(Vercelli Oggi, 15 marzo 2018)


È la guerra fratricida a impedire la nascita di uno Stato palestinese

Hamas e Fatah si sono dimostrati incapaci di arrivare a una stabile pacificazione. Così Israele ne approfitta per arroccarsi sulle posizioni intransigenti della sua destra al governo.

di Carlo Panella

I palestinesi non hanno e non avranno mai un loro stato per una ragione semplicissima: non sono in grado di averlo. Da sempre. L'attacco di martedì 13 marzo contro il premier Rami Hamdallah, appena entrato a Gaza, è solo l'ultimo di una serie infinita di attentati -e spesso di morti- di leader palestinesi organizzati da palestinesi dal 1920 ad oggi. Un atto che -questo è il punto- Abu Mazen attribuisce non a generici terroristi (e ve ne sono molti a Gaza) ma che viene da lui addebitato chiaramente e direttamente ad Hamas. Accusa feroce e politicamente esplosiva. Di più, quello contro Hamdallah non è solo un attentato, ma è l'ennesimo episodio di una vera e propria guerra civile palestinese che si combatte con ferocia dal 1930 (avete letto bene: 1930), che ha provocato decine di migliaia di vittime palestinesi uccise da palestinesi e che ha visto i suoi episodi più recenti a ridosso della liberazione di Gaza nel 2005 da parte delle truppe israeliane agli ordini del premier Ariel Sharon.

 Palestinesi contro palestinesi
  La Striscia che gli israeliani, unilateralmente e senza condizioni, consegnarono allora al governo della Autorità nazionale Palestinese, grazie agli investimenti propri e ai coloni, aveva goduto di uno straordinario sviluppo economico e decine di migliaia dei suoi abitanti avevano trovato lavoro in Israele. Ma i palestinesi su questo primo lembo di terra a loro interamente e completamente assegnato fecero quel che hanno sempre fatto: guerra civile tra di loro, distruzione di risorse e trasformazione della Striscia in una roccaforte per una guerra suicida "contro gli ebrei". Quando Abu Mazen si recò a Gaza appena liberata dagli israeliani, fu bersaglio di un attentato palestinese da cui scampò per caso, nel quale furono uccise due sue guardie del corpo. Passò un anno e Hamas diede il via a una mattanza di militanti di al Fatah (fu buttato giù da un grattacielo persino il cuoco di Abu Mazen) che mai più vi godettero di agibilità politica. Decine di miliardi di dollari di aiuti europei e internazionali erano pronti a riversarsi su Gaza per trasformarla in un territorio pienamente sviluppato. Ma Hamas preferì trasformare tutta la Striscia in un bunker lancia missili e in un immenso covo di terroristi dando il via all'operazione che portò al rapimento e alla detenzione del caporale israeliano Gilad Shalit. Il seguito è noto.

 E Israele ne approfitta
  Dunque, mai, mai, la pacificazione tra palestinesi - non con Israele, tra palestinesi - si è sviluppata. Mai in ben 12 anni vi è stato un governo unitario Hamas-Abu Mazen che abbia retto per più di una settimana. Ancora una volta, l'attentato di martedì contro Hamdallah segnala con plastica evidenza che l'accordo per un nuovo governo unitario tra Abu Mazen e Hamas imposto recentemente dall'egiziano al Sisi è l'ennesima fola. Insomma, questa endemica guerra civile a bassa o alta intensità tra palestinesi è la prova provata della totale immaturità, incapacità della leadership palestinese di presentarsi al mondo e a Israele come una forza "di unità nazionale" in grado di gestire uno Stato. Una tragedia tutta interna alla leadership palestinese della quale, naturalmente, Israele approfitta per arroccarsi sulle posizioni intransigenti della sua destra al governo.

(Lettera43, 15 marzo 2018)


Polonia - Una festa in onore di chi salvò gli ebrei

Il 24 marzo sarà una giornata di festa nazionale in Polonia in omaggio ai cittadini che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei durante l'Olocausto. Ieri il Senato ha approvato il provvedimento con 58 voti a favore e 14 contrari e ora si aspetta solo la firma del presidente Andrzej Duda. La nuova festa fa parte della strategia messa in atto dal governo nazionalista per sottolineare l'eroismo della Polonia durante la Seconda guerra mondiale e smascherare il tentativo di attribuire al Paese i crimini compiuti dalla Germania nazista È questo il senso della legge sulla Shoah, approvata a febbraio da Varsavia, che prevede fino a tre anni di carcere per chi parla di «campi di sterminio polacchi».

(Corriere della Sera, 15 marzo 2018)


Hariri vuole smarcarsi da Hezbollah

Quali sono gli obiettivi della conferenza di Roma di oggi?

di Giordano Stabile

Saad Hariri
La stabilità del Libano passa per l'esercito. Può sembrare un paradosso in un Paese nel quale le forze armate arrancano con vecchi blindati e jeep ancora degli Anni 70, e con un passato molto poco glorioso, fatto di guerre perse e spaccature settarie che avevano portato al loro dissolvimento di fatto negli Anni 80. Le cose stanno cambiando. L'offensiva vittoriosa contro l'Isis lungo la frontiera della Siria, l'anno scorso, ha ridato lustro. Il consenso fra la popolazione è alto, al di là delle differenze confessionali. L'arrivo alla presidenza del generale Michel Aoun ha rimesso i militari al centro. Ma le forze armate, che per tradizione debbono essere guidate da un cristiano maronita (un altro Aoun, Joseph), hanno adesso come alleato di ferro il premier sunnita Saad Hariri. Un esercito forte è la prima condizione per il ridimensionamento di Hezbollah e quindi la garanzia di un «Libano neutrale», fuori dai conflitti regionali e al riparo dal braccio di ferro fra Iran e Arabia Saudita. Oggi l'esercito conta su 65 mila uomini, contro i 40 mila combattenti dichiarati di Hezbollah, ma svolge anche funzioni di polizia e, soprattutto, non ha mezzi. Hariri, dopo il «sequestro» a Riad nel novembre scorso, ha riallacciato con i sauditi, con in testa un progetto che avrà una tappa fondamentale oggi in Italia per la Seconda conferenza di Roma dei Paesi amici del Libano. Quaranta nazioni, più il Segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, chiamate a portare aiuti e finanziamenti. Hariri conta su Europa, Usa, e Paesi del Golfo, per ottenere quei 4 miliardi di dollari che servono a creare un esercito moderno, e che Riad aveva ritirato dopo l'ingresso di Hezbollah nel governo. L'Italia è in prima linea e fornirà soprattutto addestramento. Ha già formato con la missione bilaterale Mibil 1200 soldati, la Guardia presidenziale, reparti alpini. Le nuove unità potranno prendere il controllo anche del Sud, dove impera Hezbollah. E il Partito di Dio? È in evoluzione. L'alleanza elettorale con Aoun lo ha spinto a compromessi: sottotraccia, ha limitato la sua presenza in Siria. Aoun sogna di trasformarlo in una «forza territoriale», libanese e non al servizio di Teheran. Un successo della Conferenza di Roma potrebbe dare impulso a un progetto difficilissimo. È la strada migliore per evitare una nuova guerra civile, o con Israele.

(La Stampa, 15 marzo 2018)


Celebrando lo Stato di Israele con le foto del 'lungo cammino'

Guido Ottolenghi: «Per riflettere contro i pregiudizi»

Dal 22 marzo
Saranno esposte le immagini del Museo di Tel Aviv. E il 21 una serie di eventi ad invito
Il presidente del Meb
«L'antisemitismo esiste. Il pericolo è oggi l'affermazione nel campo politico»

di Cesare Sughi

Due anniversari in uno. Due date che cuciono insieme, tra la storia e la memoria, tra la vicenda personale e l'impresa collettiva, il percorso cruciale della nascita dello stato d'Israele (70 anni fa, il 14 maggio 1948, concluso definitivamente il trentennale protettorato britannico; prima ricorrenza) riletto come una drammatica lunga marcia attraverso le inedite immagini fotografiche del centro di documentazione del Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv, sorto nel 1978, 40 anni or sono; ed ecco la seconda data aurea.
  Tutto questo a Bologna, al Museo Ebraico di via Valdonica - in sigla Meb -, dove sarà aperta per il pubblico dal 22 marzo al 2 settembre la mostra Celebrating lsrael. Il tutto preceduto il 21 da una serie di eventi ad inviti: alle 17 visita al nuovo Tempio Piccolo della sinagoga di via Finzi (rinnovato nel gennaio di un anno fa), alle 18 inaugurazione della mostra al Meb e alle 19, in Palazzo Malvezzi, evento di gala e concerto del Gabriele Coen Trio. Una festa della comunità e dell'intera città. E anche l'occasione per presentare (con relativo crowfunding) il piano di ampliamento del Museo di Tel Aviv. C'è naturalmente un padrone di casa, Guido Ottolenghi, bolognese 52enne, manager laureato alla Bocconi, amministratore delegato dell'azienda di famiglia ramo logistica portuale. Dall'11 giugno 2014, succedendo a Emilio Campos, è il presidente del Meb. E spiega: «Grazie all'intensità e alla qualità del lavoro del museo - 80 appuntamenti all'anno - si sono intensificati i rapporti con numerose istituzioni museali italiane e straniere. L'anno scorso, per la giornata della cultura, allestimmo con il Museo del Popolo Ebraico una mostra più piccola di questa sulla complessità della tradizione ebraica in vari paesi del mondo. Quest'anno quel rapporto si consolida con un'esposizione decisamente prestigiosa».

- Qual è la strategia del Meb?
  «Oltre all'attività rivolta alle scuole, tengo molto a rimarcare le collaborazioni con tutte o quasi le realtà culturali cittadine. I 25mila ingressi del 2017 e il trend in crescita di questi primi mesi paiono darci ragione».

- Ripensando, con la mostra 'Celebrating lsrael 70', alla traversata del deserto degli ebrei verso uno Stato per loro, che cosa la colpisce di più?
  «E stata la realizzazione di un sogno bimillenario e di una serie ininterrotta di quotidiani sforzi dei singoli, non senza contrasti e incomprensioni. La mostra è un viaggio di riflessione su convinzioni e pregiudizi di ognuno».

- A proposito di pregiudizi, esiste ancora un pregiudizio antiebraico?
  «L'antisemitismo permane, esiste sempre. Oggi il pericolo è la legittimazione di certi atteggiamenti, la loro affermazione nello scenario politico. Le immagini e i pannelli illustrativi documentano il volto dell'antisionismo e la lotta contro Israele a cui si nega persino il diritto di esistere».

- Come difendersi dall'intolleranza diffusa?
  «Ho ripetuto spesso quanto sia centrale la cultura anche nell'impresa, nell'economia, nella vita pubblica. Ma che cos'è la cultura di cui abbiamo bisogno? E la scienza della convivenza, non è fatta di leggi, è un dato interiore, se non ne fossimo convinti, non basterebbero cinque poliziotti a impedirci di violare le regole. La cultura è condivisione».

(il Resto del Carlino, 15 marzo 2018)


Gli Usa vogliono riscrivere l'intesa sul nucleare iraniano

A maggio l'amministrazione americana si pronuncerà nuovamente sull'accordo e a meno di cambiamenti non intende «certificarlo»

di Roberto Bongiorni

Non è un caso se il primo commento di Donald Trump dopo aver liquidato il suo Segretario di Stato, Rex Tillerson, abbia toccato il più scottante dei dossier internazionali: il nucleare iraniano. «Mi stava simpatico ma su alcune cose non andavamo d'accordo. lo penso che l'intesa sul nucleare con l'Iran sia terribile, a lui andava bene. lo voglio cancellarla o rifarla, lui aveva idee diverse», ha spiegato.
   È legittimo pensare che agli occhi di Tillerson l'intesa sul nucleare, se non il migliore degli accordi possibili, era comunque un apprezzabile risultato ispirato ai principi della realpolitik. Perfettibile - lui stesso intendeva apportavi delle migliorie - ma necessario per scongiurare scenari ben peggiori.
   D'altronde quali erano le alternative? L'Iran avrebbe proseguito ad arricchire l'uranio in modo autonomo, con il rischio concreto di dotarsi di un arsenale atomico. E per impedirlo a un certo punto sarebbe stato necessario un massiccio raid militare, se non una guerra aperta, caldeggiato da Israele e Arabia Saudita. Scenari capaci di incendiare l'intero Medio Oriente in un periodo peraltro già drammatico.
   Anche senza ricorrere all'opzione militare, la soluzione caldeggiata da Trump - un nuovo round di sanzioni, fino al ripristino dell'embargo petrolifero - potrebbe non essere così efficace. Lo stralcio unilaterale di un documento siglato nel luglio del 2015 dal gruppo 5+1 (Usa,Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania) sarebbe interpretato come un via libera a chi quelle sanzioni vorrebbe aggirarle, in prima linea Russia e Cina. Bruxelles è stata risoluta: l'accordo non si tocca. Trump non è legittimato a farlo.
   Tillerson sapeva che far terra bruciata di tutta la politica internazionale costruita dal presidente Barack Obama avrebbe creato una gravissima crisi diplomatica con gli alleati europei. Soprattutto in questa circostanza, quando sono tutti compatti.
   Il suo successore, l'ex capo della Cia Mike Pompeo, sposa invece la linea di Trump . Anche lui si è espresso sull'opportunità di stralciare il dossier nucleare. Il fatto che sia stato promosso in questo momento al vertice della Diplomazia americana non è un caso. Manca poco al termine per ricertificare il rispetto da parte dell'Iran al programma nucleare, come una legge americana prescrive debba essere fatto ogni 90 giorni. Obtorto collo, per due volte Trump ha rinunciato alle sanzioni. Lo sorso ottobre il Congresso ha riconfermato il loro congelamento rimandando la palla alla Casa Bianca. A maggio le cose potrebbero andare diversamente. Il team del presidente lo aveva subito precisato: «Questa sarà l'ultima volta che le sanzioni contro l'Iran saranno congelate, a meno che l'accordo sul nucleare di Teheran non venga migliorato».
   Ma come? Finora l'Agenzia internazionale per l'Energia atomica ha confermato che l'Iran sta rispettando i termini dell'accordo. Ma per Trump, se non nella forma, l'intesa è stata ripetutamente violata nello spirito. E da tempo chiede che il team dell'Onu compia anche ispezioni in siti militari ritenuti sospetti e che venga incluso nel dossier nucleare anche quello sui test missilistici iraniani.
   Pur avendo espresso contrarietà e preoccupazione per i test balistici, Bruxelles preferisce mantenere i due dossier separati, escludendo a priori ulteriori modifiche. Una calda primavera diplomatica sta bussando alle porte.

(Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2018)


Israele, crisi di governo rientrata. La coalizione trova l'accordo

Non ci saranno elezioni anticipate in Israele. Almeno per il momento infatti la crisi all'interno della maggioranza guidata dal Primo ministro Benjamin Netanyahu è rientrata. Ad evitare il ritorno alle urne anticipato, un'intensa giornata di colloqui condotti dal Premier Netanyahu e la scelta della coalizione di arrivare al compromesso sulla discussa legge sull'esenzione dei haredim dalla leva obbligatoria: una commissione ministeriale ha deciso all'unanimità di concedere la libertà di voto sul controverso progetto di legge in questione. Come raccontato anche su questo portale, nei giorni scorsi il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, leader del partito Israel Beytenu, aveva minacciato di uscire dalla coalizione di maggioranza se fosse passata la legge, che verrà votata questa sera dalla Knesset. Il fatto che sia stata decisa la libertà di voto per i membri della coalizione, permetterà al ministro Sofa Landver (parlamentare di Israel Beytenu) di votare contro la discussa legge sulla leva obbligatoria senza subire conseguenze. Infatti, secondo un accordo di coalizione, i ministri che votano contro le decisioni di governo dovrebbero essere automaticamente licenziati. La carta bianca lasciata al ministro di Israel Beytenu evita così una sanzione che avrebbe portato il partito - come annunciato da Lieberman - ad uscire dalla coalizione.
Netanyahu ha parlato alla Knesset poco dopo l'annuncio dell'accordo, dicendo di aver mantenuto la sua promessa di evitare di sciogliere l'attuale esecutivo. Il premier ha anche ringraziato i suoi alleati di coalizione per aver "mostrato responsabilità" nel raggiungere il compromesso.

(moked, 14 marzo 2018)


"Le violenze sulla Mavi Marmara furono scatenate dagli attivisti"

E' quanto emerge da un gruppo antisemita britannico recentemente scoperto su Facebook, di cui era membro anche Jeremy Corbyn

di Robert Philpot

 
Una eminente attivista filo-palestinese coinvolta nell'impresa della "flottiglia di Gaza", che nel maggio 2010 tentò di violare il blocco navale israeliano anti-terrorismo, ha confermato con le sue parole la versione sempre sostenuta da Israele degli eventi che portarono allo scontro sanguinoso a bordo della nave Mavi Marmara, in cui restarono uccisi dieci attivisti turchi del gruppo islamista IHH.
  Nei post scoperti di recente in un gruppo segreto britannico anti-sionista e antisemita su Facebook chiamato Palestine Live, Greta Berlin, co-fondatrice e portavoce del Free Gaza Movement, afferma che i soldati israeliani non aprirono il fuoco finché Ken O'Keefe, un ex marine statunitense a bordo della Mavi Marmara, non strappò di mano l'arma a uno di loro. Nel 2014, durante un acceso dibattito on-line al sicuro del gruppo Facebook di attivisti anti-israeliani a cui si poteva accedere solo su invito e previa approvazione, Greta Berlin ha ripetutamente rintuzzato i commenti di altri membri che lodavano O'Keefe. "Fu responsabile di alcune delle morti a bordo della Mavi Marmara - ha scritto Berlin - Se non avesse disarmato un soldato terrorista [sic] israeliano, loro non avrebbero iniziato a sparare. Basta. La maggior parte di voi non ha idea di ciò di cui sta parlando".
  La settimana scorsa, un rapporto del ricercatore e blogger David Collier ha portato alla luce una quantità di materiale antisemita e anti-israeliano postata su quel sito, fra i cui membri a un certo punto figurava anche Jeremy Corbyn prima di diventare il leader del partito laburista inglese. L'analisi di Collier ha portato alla luce anche i clamorosi commenti sugli eventi di otto anni fa a bordo della Mavi Marmara, che fra l'altro innescarono un aspro scontro diplomatico tra Turchia e Israele.
  Come a tutte le navi dirette a Gaza, ufficialmente per portare aiuti umanitari ai palestinesi, anche alla Mavi Marmara Israele chiese di ispezionare il carico e di sbarcarlo nel porto di Ashdod da dove le merci non suscettibili d'essere usate per terrorismo sarebbero state trasportate a Gaza. Mentre le altre cinque navi della "flottiglia" acconsentirono, gli attivisti a bordo della Mavi Marmara si opposero e per questo i commando israeliani dovettero calarsi sul ponte dagli elicotteri. Le Forze di Difesa israeliane dichiararono successivamente che i soldati, immediatamente aggrediti con mazze, spranghe e coltelli, aprirono il fuoco solo dopo che un attivista aveva strappato l'arma a uno di loro. "Purtroppo i membri di quel gruppo volevano a tutti costi lo scontro", spiegò alla BBC il portavoce del governo israeliano Mark Regev. Gli attivisti, invece, e tutti i loro sostenitori, hanno sempre affermato che le forze israeliane avevano iniziato a sparare non appena salite sulla nave. In uno dei loro primi resoconti, Greta Berlin disse al New York Times che gli israeliani avevano "aperto il fuoco sui civili addormentati alle quattro del mattino". La stessa versione la ripeté ad altri mass-media internazionali nel corso di tutta quella giornata, dando vita alla versione poi tanto diffusa della "spietata aggressione israeliana". Fecero seguito innumerevoli proteste e condanne internazionali, anche da parte di governi e agenzie. Durante le dimostrazioni a Londra, Corbyn, allora semplice parlamentare laburista, accusò Israele d'aver commesso un "crimine di guerra" e "un atto di pirateria" etichettando lo stato ebraico come "stato canaglia".
  Il post di Berlin, afferma il blogger Collier, conferma che "i soldati israeliani non aprirono il fuoco mentre abbordavano la nave, e non lo fecero fino a quando non si imbatterono in un imprevisto livello di violenza e alcuni di loro erano stati anche catturati". Dunque, il rapporto israeliano presentato nel 2011 alla commissione delle Nazioni Unite era "corretto". "È arduo dare una lettura logica diversa del commento di Greta Berlin - sottolinea Collier - Lei era chiaramente al corrente che i fatti si erano svolti in modo diverso da come li stavano raccontando". Gli attivisti anti-israeliani mentivano, e lo sapevano. Persino la commissione Onu, pur criticando l'"inaccettabile" perdita di vite umane, stabilì che i soldati avevano dovuto affrontare "una resistenza notevole, organizzata e violenta" che li aveva costretti a "usare la forza per la propria difesa". Ma di fronte alla diversa versione offerta dagli attivisti turchi (che ora si scopre menzognera), la commissione non era riuscita a trarre conclusioni definitive su quando i soldati avessero aperto il fuoco.
  Collier ha scoperto anche altri post di Berlin sul gruppo Facebook che sembrano corroborare la versione israeliana. Ad esempio, in un post in polemica con altri membri del gruppo, a un certo punto Berlin scrive: "Pensi che sia stato intelligente strappare l'arma a questi pazzi [sic] a bordo della Mavi Marmara? E poi correre in giro per il ponte dicendo che aveva l'arma?". In un altro commento, ribatte a un interlocutore che Ken O'Keefe, membro di Palestina Live, "non è un eroe e le sue azioni misero a rischio gli altri sulla Mavi Marmara", e parla della "folle idea di Ken di attaccare i soldati impazziti e armati", definendolo "un provocatore" e "una minaccia".
  Sia O'Keefe che Berlin sono da lungo tempo attivisti anti-israeliani. Lui in passato ha definito Israele uno stato "razzista, da apartheid e da genocidio" che "deve essere distrutto", e ha affermato che il Mossad è "direttamente coinvolto" negli attentati dell'11 settembre. O'Keefe appare regolarmente su Press TV, la testata in lingua inglese dell'emittente iraniana. Lei, già sposata con un palestinese e coinvolta nell'attivismo anti-israeliano dopo la guerra del 1967, trascorse in seguito del tempo in Cisgiordania per conto dell'estremista International Solidarity Movement e suscitò vivaci polemiche nel 2012 quando diffuse un video in cui affermava che i sionisti erano responsabili della Shoà (salvo poi sostenere che non lo aveva guardato prima di postarlo). Berlin ha definito Israele una "entità illegale" e "un paese fondato sul terrorismo".
  Nel 2010 la nave Mavi Marmara era gestita dall'associazione "di beneficenza" turca IHH, bandita da Israele sin dal 2008. Secondo l'Intelligence and Terrorism Information Center Meir Amit, "oltre a legittime attività umanitarie, IHH sostiene le reti terroristiche islamiste, e in modo rilevante Hamas". Anche dopo che nel 2016 Turchia e Israele hanno ristabilito le relazioni diplomatiche, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha continuato a ripetere pubblicamente che è "impossibile" che sulla Mavi Marmara i soldati delle Forze di Difesa israeliane abbiano agito per autodifesa.

(ebreieisraele.forumfree.it, 14 marzo 2018)


La tv pubblica Israeliana trasmetterà anche in arabo i prossimi mondiali di calcio

La televisione pubblica israeliana trasmetterà i Mondiali di calcio di Mosca non solo in ebraico ma, per la prima volta, anche in arabo. A riportarlo il Jerusalem Post, secondo cui l'emittente statale Kann offrirà telecronache e commenti in arabo con l'aiuto di giornalisti sportivi e di noti giocatori di calcio arabi, tutti cittadini di Israele.
I telespettatori arabofoni potranno fruire gratuitamente via satellite di quelle trasmissioni, in quella che di fatto è quasi una rottura del monopolio del Qatar. Secondo il giornale infatti il Qatar esige 45 dollari per ogni utente interessato a seguire le partite disputate in Russia. Una cifra piuttosto esosa per molte famiglie che vivono nel Medio Oriente, e che ora potranno scegliere se seguire l'evento sportivo sull'emittente israeliana.
Ai mondiali di Mosca - ricorda l'agenzia Ansa - parteciperanno le nazionali di quattro Paesi di lingua araba: Marocco, Tunisia, Arabia Saudita ed Egitto.

(Primaonline.it, 14 marzo 2018)


Forze israeliane e Usa si esercitano in un finto villaggio del Medio Oriente

di Lorenzo Vita

L'esercito israeliano e i marines statunitensi sono stati coinvolti in esercitazioni congiunte in Israele che hanno simulato i combattimenti in un teatro operativo urbano. La simulazione ha avuto come luogo delle operazioni un modello di un tipico villaggio mediorientale. Case basse, colori caldi, terreno arido e polvere. Sono state anche ricostruite una finta moschea e dei muri con graffiti in lingua araba. In mezzo al paesino ricreato per le manovre, i soldati delle forze armate americane e delle Israel Defense Forces (Idf), impegnati in un conflitto casa per casa.
   "Siamo disposti a lavorare e addestrarci insieme, e se Dio lo vorrà, se mai avremo bisogno di stare fianco a fianco, allora lo faremo", ha detto a Reuters il tenente colonnello Marcus Mainz della 26a unità di spedizione dei marine durante l'esercitazione nella base israeliana di Tze'elim.
   Le truppe del tenente colonnello Mainz si sono unite ai nuclei operativi delle forze speciali israeliane per migliorare la sinergia fra le forze. In particolare, secondo quanto riportato dall'agenzia, le truppe si sono esercitate sulla formazione da utilizzare sul campo di battaglia, studiando anche le tattiche in caso di dispiegamento di elicotteri e durante le evacuazioni mediche dal villaggio-prototipo.
   Le manovre di questa settimana sono parte di un più ampio esercizio biennale di difesa congiunta noto come Juniper Cobra, che quest'anno si è svolto in un periodo estremamente delicato, con l'intensificarsi della preoccupazione israeliana e statunitense riguardo all'arsenale missilistico dei guerriglieri di Hezbollah e con le azioni israeliane in Siria per distruggere qualsiasi base essi ritengano un avamposto delle forze iraniane.
   Per Mainz le esercitazioni sono state particolarmente utili. L'ufficiale americano ha detto che le sue truppe hanno appreso dalle esperienze degli israeliani nella lotta contro i guerriglieri di Hamas a Gaza, le tattiche per operare in particolare teatri di guerra, mentre i marines, a loro volta, hanno condiviso il loro know-how appreso nei fronti in cui sono impegnati.
   "Gli israeliani hanno insegnato cosa osservare quando sono nella Striscia di Gaza o da qualche altra parte sul campo di battaglia, per noi in Afghanistan e in Iraq, e insegnano a quel giovane soldato cosa cercare", ha detto. "E quello che succede è che i ragazzi iniziano ad esaltarsi e stanno parlando di 'qui ho imparato questo'".
   Le esercitazioni congiunte sono sempre un momento importante per le forze armate degli Stati alleati. Si saldano i rapporti, si consolidano le sinergie in caso di conflitto, ma soprattutto si testano le rispettive capacità nell'ottica di un futuro scontro. Israele e Stati Uniti svolgono queste esercitazioni periodicamente, ma adesso la situazione in Medio Oriente è divenuta incandescente, soprattutto al confine con Israele.

(Gli occhi della guerra, 14 marzo 2018)


Cresce l'antisemitismo sui social. La procura: troppo poche le denunce

Il punto degli ex allievi della scuola ebraica

di Fabrizio Alessandri

Secondo i dati Ue, il 70 per cento dei post razzisti segnalati vengono cancellati entro 24 ore. Ma anche se le piattaforme collaborano, «aumentano i profili e i gruppi antisemiti su Facebook e Twitter carichi di insulti e stereotipi antiebraici», sostiene Stefano Gatti, dell'osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec, che solo nel 2017 ha mappato ben 330 siti Web di stampo antisemita, 130 dei quali di matrice neonazista, 120 cospirativisti: si calcola che nel mondo esca un post antisionista ogni 83 secondi. E per quanto riguarda il negazionismo «spesso non è considerato dalle policy delle piattaforme un discorso d'odio, così alcuni post non vengono rimossi». Su un fenomeno che appare in crescita, quello dell'odio sul Web per il «diverso», e verso gli ebrei in particolare, l'associazione Ex allievi e amici della Scuola Ebraica di Torino ha organizzato un convegno: «Il fenomeno sta assumendo livelli inauditi», dice il presidente dell'associazione, Giulio Disegni.
   «Non so se sia in crescita l'antisemitismo, quello che è in aumento è la sua manifestazione attraverso la rete, che dà un megafono a chi diffonde messaggi d'odio», spiega Cesare Parodi, procuratore aggiunto a Torino. Le denunce, però, sono poche. «Spesso le vittime non vogliono rivivere la violenza subita con i tempi della giustizia - aggiunge Parodi - riteniamo che sia un fenomeno sommerso, come l'usura». Un fenomeno difficile da combattere, tanto che lo stesso procuratore si è detto pessimista: «Nonostante le leggi e i validi strumenti investigativi, non è purtroppo possibile una repressione sistematica. Bisognerebbe anche lavorare sulle cause a monte».
   C'è chi ha il coraggio di denunciare, come Lidia Krieger, guida turistica, che amministra una pagina Facebook con migliaia di iscritti. «Uno di questi, con un nickname fittizio, iniziò ad insultarmi, dicendo che noi ebrei non dovremmo esistere e altre cose del genere. Ho fatto denuncia alla polizia postale». E un invito a denunciare è arrivato anche da Fabiola Silvestri, dirigente della polizia postale di Torino: «Collaboriamo con realtà come l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, ma anche con i cittadini che segnalano». A volte per risalire a chi scrive un post «serve una rogatoria internazionale, e ci sono altri ostacoli: non è facile trovare l'autore se usa una rete wifi senza registrarsi». Non solo. «Per quella che per noi è diffamazione, negli Usa si appellano al primo emendamento». Eppure, come ha confermato Enrico Manera, ricercatore dell'Istituto storico della Resistenza di Torino «sono in aumento gli attacchi fascisti sul web, anche attraverso i troll», cioè gli utenti spesso anonimi che bombardano le discussioni online con i loro commenti talvolta violenti.

(La Stampa - Torino, 14 marzo 2018)


Gaza, attentato jihadista contro il premier palestinese

Abu Mazen accusa Hamas Ma dietro l'assalto potrebbero esserci i salafiti. Il piano è trasformare la regione in una base per la guerra contro Israele.

di Giordano Stabile

Un attentato al premier palestinese appena entrato dal valico di Erez rischia di riaprire la guerra fra Al-Fatah e Hamas e far precipitare Gaza in una disperazione ancora più profonda. Ma dietro l'attentato c'è probabilmente uno dei tanti gruppi salafiti che stanno cercando di scalzare il movimento islamista dalla Striscia, per impedire ogni riconciliazione con Abu Mazen e attaccare con più forza Israele.
   Erano passate da poco le 10 di ieri mattina quando una moto si è avvicinata al convoglio di Rami Hamdallah, a 200 metri dal principale posto di frontiera con Israele. Il passeggero ha lanciato un ordigno esplosivo che ha colpito l'ultimo fuoristrada. Hamdallah, e il capo dell'Intelligence palestinese Majed Freij, sono rimasti illesi, i passeggeri dell'auto hanno riportato ferite leggere.
   Ma l'assalto ha innescato l'ira del presidente Abu Mazen che ha accusato Hamas di «attacco vigliacco». L'organizzazione ha ribattuto di essere estranea, ha condannato «l'orribile crimine» e detto di aver aperto un'inchiesta. Hamdallah ha poi partecipato lo stesso all'inaugurazione di un impianto di depurazione dell'acqua finanziato dall'Autorità nazionale palestinese, di cui la Striscia aveva disperato bisogno, ma ha tagliato corto la visita e alle 11 e 20 era già uscito dallo stesso valico di Erez.
   Il viaggio serviva anche a rilanciare il dialogo con Hamas. Dopo l'accordo di «riconciliazione» mediato dall'Egitto, i rapporti sono di nuovo tesi. Gli islamisti non hanno consegnato Gaza ad Hamdallah come previsto. E tantomeno hanno disarmato il loro braccio armato, le Brigate Ezzedim al-Qassam, forti di 20 mila combattenti. C'è l'attaccamento al potere che si sono presi con la forza nel 2007 dopo il successo nelle elezioni del 2006. Ma anche la pressione «da destra» dei gruppi salafiti, decisi a fare della Striscia una base per la guerra santa a Israele e all'Egitto.
   Le quattro principali formazioni si sono rafforzate nella crisi senza via di uscita della Striscia, con 1'80% dei giovani disoccupato. Sono state galvanizzate dal sorgere del Califfato dell'Isis, che ha una sua «provincia» nel confinante Sinai egiziano. La più pericolosa è Al-Tawhid wa al-Jihad, Monoteismo e Jihad, che in passato ha collaborato con Hamas ma ora l'accusa di «corruzione», intesa con il «nemico sionista» e promesso di «rompere le ossa» ai suoi dirigenti. Nei mesi scorsi le forze speciali di Hamas hanno compiuto numerosi raid per stroncare l'organizzazione, ma senza grandi risultati.
   Anche il continuo lancio di missili su Israele è attribuibile in gran parte a gruppi salafiti, come «I soldati di Allah», l'Esercito dell'Islam o l'Esercito della nazione islamica, sempre più vicini all'Isis, tanto che nei loro video di propaganda copiano canti di guerra e spezzoni di video dello Stato islamico. Lo Stato ebraico reagisce con raid sulle postazioni di Hamas, perché lo ritiene comunque responsabile di «mancata sorveglianza», ma intanto le posizioni salafite si rafforzano, tanto che Colin P. Clarke, analista del Centre for Counter Terrorism dell'Aja, teme che si ripeta lo scenario di fine Anni Ottanta quando Hamas, più estremista, cominciò a soppiantare l'Olp. Ora c'è il rischio che i gruppi salafiti si trasformino «nel più pericoloso nemico di Israele».

(La Stampa, 14 marzo 2018)


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Quella bomba che spacca la Palestina

Attacco fallito contro il premier Hamdallah. La faida tra Fatah e Hamas.

di Fiamma Nirenstein

Chi ha cercato ieri di far fuori a Gaza il primo ministro palestinese di Fatah? «Se fossimo stati noi», ha detto Mahmoud Al Zahar, «avremmo riportato alla Mukata un cadavere a pezzi». Al Zahar è uno dei capi di Hamas e respinge le accuse di avere attentato, appena dentro i confini di Gaza, repubblica islamica agli ordini di Yehie Sinwar (oggi leader nominato dopo lsmail Hanije) e di Khaled Mashal, al primo ministro palestinese Rami Hamdallah, che viaggiava insieme al capo dei servizi segreti di Abu Mazen, Majid Faraj. Due colonne del regime pericolante di Abu Mazen.
   Una bomba è esplosa proprio appena il convoglio di Hamdallah entrava dentro Gaza, lasciandolo tuttavia incolume. La bomba è esplosa colpendo le ultime tre jeep del convoglio, ma sono stati solo feriti lievemente sette uomini della sicurezza, che Israele si è subito offerta di prendere in cura. Il 56enne Hamdallah, che stava andando a tenere un discorso per inaugurare un nuovo impianto di depurazione molto atteso nella zona, ha parlato in modo quieto, esaltando l'unità recentemente acquisita dalle due parti, Fatah e Hamas, che dal 2007, con alterne vicende, sono state in guerra fra di loro. Ultimamente l'Egitto, mentre maturava la crisi di Hamas con Doha e quindi scarseggiavano i soldi del Qatar, ha potuto mostrarsi generoso verso la Striscia dominata dai suoi peggiori nemici, i Fratelli Musulmani di cui Hamas fa parte. Ma l'accordo firmato da Abu Mazen e Hamas sotto gli auspici di al Sisi vive nella minaccia di tagli di fondi e si nutre, dato che le elezioni non sono in vista, della speranza di Hamas che le analisi mediche di Abu Mazen promettano presto piazza pulita. Intanto si scontrano a tutta forza Mohammad Dahlan, espulso da Fatah e benvenuto da Hamas e in Egitto, e Jibril Rajoub, un tipo molto portato alla lotta dura contro gli israeliani che si vende da tempo come successore designato. Se non è stato Hamas, che nega accusando Israele (che però non ha interesse a uccidere Hamadallah) ci sono altre due ipotesi: l'Isis, che ha i suoi gruppi salafisti in zona; e forse, ma va detto con cautela, Mohammed Dahlan, che Abu Mazen odia e interdice da Ramallah.
   Ma chi sa, dal tempo della guerra del 2007 Fatah e Hamas si sono sparati, imprigionati, condannati a morte, torturati. Oggi siamo a un'altra delle mille puntate di questo viaggio, per il quale le due parti, pur non differendo molto nell'ambizione finale di cancellare lo Stato d'Israele, si odiano vìeppiù mentre si affaccia il tramonto di Abu Mazen. Intanto il rais rifiuta qualsiasi dialogo sul nuovo piano di Trump per il Medio Oriente, cercando invece un'identità ideologica con Hamas che non può avvantaggiarlo. È una gara inutile e dannosa per i palestinesi, sempre più nell'angolo da quando Trump ha riconosciuto che Gerusalemme è la capitale di Israele. Abu Mazen non può farcela sul terreno della concorrenza estremista. Potrebbe invece finalmente aprire quella lettera di Trump che li invita a colloqui di pace, e vedere cosa c'è scritto.

(il Giornale, 14 marzo 2018)


Da Israele un trattamento per il Glaucoma in un "batter d'occhio"

BELKIN Laser, è una startup israeliana che ha presentato un esclusivo trattamento laser della durata di un secondo per combattere il glaucoma. L'obiettivo è rivoluzionare l'accesso alla cura, diventando la scelta di prima linea per i pazienti di tutto il mondo.
Si stima che 64 milioni di persone in tutto il mondo soffrano di glaucoma. Questo numero dovrebbe raggiungere 112 milioni di pazienti entro il 2040. Oggigiorno, gli specialisti utilizzano un laser tradizionale (laser trabeculoplastica LTP) motivo per cui BELKIN Laser è stato progettato per rendere il trattamento del laser per il glaucoma accessibile tramite tutti gli oftalmologi.
Ciò significa che oltre 200.000 oculisti di tutto il mondo avranno la possibilità di offrire ai loro pazienti la terapia di BELKIN laser.
Come funziona il Belkin Laser
  • Trattamento annuale: in sostituzione del quotidiano con l'uso dei colliri;
  • Più confortevole per il paziente: non invasivo, senza contatto, istantaneo e indolore;
  • Rapido: il medico oculista attiva il laser con la singola pressione di un pulsante ed il trattamento dura un secondo;
  • Facile apprendimento ed utilizzo per i medici: curva di apprendimento automatizzata.
La facilità d'uso e l'economicità del trattamento BELKIN Laser risolveranno il problema della disponibilità di terapia per il glaucoma in tutto il mondo.
Le conseguenze umane, sociali ed economiche del suo successo sono incalcolabili.

(SiliconWadi, 14 marzo 2018)


«La legge su Auschwitz? La Polonia ha sbagliato tutto»

Il direttore del Museo: ma l'antisemitismo è in crescita in tutta Europa

La formula «campi polacchi» è stata molto usata all'estero, dove i lager sono «nazisti» e non «tedeschi». In Europa abbiamo ridotto la guerra a retaggio del passato, ma così la Storia è un campo di battaglia.

di Maria Serena Natale

OSWIECIM-AUSCHWITZ - «Questo è un luogo che grida, e chiama ciascuno di noi». Piotr Cywinski è il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, prima linea nella guerra della memoria scatenata in Polonia dalla nuova legge sulla Shoah, monumento di ciminiere e filo spinato che continua a interrogare la coscienza dell'Europa e del mondo, 75 anni dopo la liquidazione del Ghetto di Cracovia. Era la notte fra il 13 e il 14 marzo 1943, a 60 chilometri da questi binari ottomila persone furono rastrellate e inviate nei campi di concentramento. Scompariva la storica comunità ebraica della città dei re polacchi.

- Comunità che lentamente si ricostituisce. Ora c'è il timore che la legge sulla Shoah alimenti un nuovo odio in quella parte di Polonia che si sente sotto assedio.
  «L'antisemitismo è in crescita ovunque in Europa, in modalità differenti. Nella versione più accettata si presenta come militanza anti-israeliana con i vari appelli al boicottaggio dello Stato ebraico, ma analizzandolo in profondità ci si scontra sempre con il vecchio nucleo antisemita. È una forma di xenofobia e come tutte le fobie ha un fondo irrazionale, impossibile da scalfire con gli strumenti della logica. Quanto al ritorno degli ebrei, oggi a Cracovia c'è una piccola comunità, tra le più vivaci del Paese, e i suoi giovani sono straordinari, ma temo che si tratti di un fenomeno residuale, perché la macchina di morte tedesca ha fatto il suo lavoro e il passato non si cancella».

- Questa è sempre stata terra di frontiera attraversata da contaminazioni culturali. Il Paese che dice no all'immigrazione e si allontana dal resto d'Europa tradisce se stesso?
  «Qualsiasi costruzione sociale che tenti di slegarsi dalle proprie radici è destinata a crollare. La Polonia non è mai stata una nazione monoculturale, come ad esempio la Francia moderna dove l'essere cittadino coincideva con l'essere francese. La chiusura attuale è anche frutto del veleno inoculato dal comunismo, effetto collaterale dell'omogeneità imposta nel Dopoguerra».

- Il ripiegamento su identità etnicamente connotate è un tratto marcato in molte società occidentali. Quale ruolo vede per la Storia nelle nostre democrazie?
  «La Storia ha sempre due possibili obiettivi, uno politico e strumentale che mira alla creazione di identità fondate sull'orgoglio nazionale, l'altro autenticamente scientifico che punta a riconoscere tracce, segnali e allarmi per costruire una responsabilità condivisa per il futuro. I due approcci entrano spesso in conflitto. Condanniamo il silenzio e l'inazione di chi non si oppose al male ad Auschwitz, ma i memoriali di domani denunceranno l'indifferenza sui Rohingya, il Sud Sudan, il Ruanda. In Europa abbiamo ridotto la guerra a retaggio del passato, ma in questo modo la Storia è diventata il simbolico campo di battaglia sul quale si affrontano comunità e Stati, talvolta ancora prigionieri di traumi non elaborati».

- In questo campo di battaglia si colloca la legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore, che vieta l'uso dell'espressione «campi di sterminio polacchi». Vista da Auschwitz, che senso ha questa norma?
  «La consapevolezza storica non è e non può essere materia di legge, matura attraverso lo studio e la conoscenza. Ecco perché la politica deve restare fuori da luoghi come questo, e noi fuori dalle stanze della politica. Purtroppo la formula "campi polacchi" è stata molto usata dalla stampa internazionale, che altrimenti tende a definire i lager "nazisti" e non "tedeschi". La logica geografica poi non vale in altri contesti - Guantanamo per fare un esempio recente si trova a Cuba ma naturalmente è "americana". Nel merito, questa legge è scritta male ed è radicalmente sbagliata. Se si affrontano i diritti fondamentali come la libertà di espressione occorre essere chiari e concreti, interpellare tutti i soggetti coinvolti. Non è stato così».

(La Stampa, 14 marzo 2018)


"L'80 per cento dei cristiani iracheni non c'è più". Numeri da genocidio

Fughe, fosse comuni, stragi quotidiane

di Giulio Meotti

ROMA - Lunedì le chiese irachene hanno suonato a lutto dopo l'ennesima strage di cristiani avvenuta il 9 marzo. Il giovane cristiano Samer Salah Eddin e un'intera famiglia di tre persone sono stati trucidati a Baghdad. Erano assiri. Ha scritto il New York Times che "i cristiani assiri, il popolo indigeno dell'Iraq, gli eredi dell'antica civiltà mesopotamica e i primi convertiti al mondo al cristianesimo, sono a rischio di essere completamente sradicati dalla loro patria".
   Tutti i sacerdoti iracheni lunedì hanno indossato per l'occasione una fascia nera in segno di cordoglio nazionale. Il medico Hisham Shafiq al Maskuni, 61 anni, sua moglie e sua madre, sono stati accoltellati nella capitale. "Ciò significa che non c'è posto per i cristiani", ha affermato padre Biyos Qasha della chiesa di Maryos a Baghdad. "Siamo visti come agnelli da uccidere in qualsiasi momento". Il 2 marzo, le milizie sciite hanno rinvenuto una fossa comune con i corpi di quaranta cristiani nella piana di Ninive, l'ex roccaforte dello Stato islamico dove molte famiglie cristiane sono tornate da quando il Califfato è stata sconfitto. I corpi, tra cui quelli di donne e bambini, appartengono a cristiani rapiti e uccisi dall'Isis e molti avevano con sé delle croci.
   Ieri un rapporto della Iraqi Human Rights Society ha rivelato che le minoranze irachene, come i cristiani, gli yazidi e gli shabak, sono vittime di un "genocidio lento", silenzioso, ma che sta spolpando quelle comunità antichissime fino a decretare la loro scomparsa. I numeri parlano chiaro.
   Il rapporto rivela che l'81 per cento dei cristiani dell'Iraq non c'è già più. Ancora più grande la cifra dei Sabei, i Mandei devoti a san Giovanni Battista: il 94 per cento è scomparso. Vestono di bianco, simbolo di pace, e praticano l'immersione rituale, che rievoca in tal modo l'inondazione del mondo durante il diluvio universale. Anche il 18 per cento degli yazidi se ne è andato dall'Iraq o è morto.
   Un'altra organizzazione per i diritti umani, Hammurabi, ha fatto sapere che settecento cristiani sono stati uccisi in Iraq per la loro identità. Baghdad aveva seicentomila cristiani, oggi sono centocinquantamila. Per questo Charles de Meyer, presidente di Sos Chrétiens d'Orient, ha appena denunciato l"'estinzione dei cristiani".
   Anche la popolazione armena è drammaticamente diminuita. L'ambasciata armena a Baghdad stima che circa tredicimila armeni vivano nel paese. Gli armeni giunsero in Iraq secoli fa, alcuni si stabilirono nel sud e hanno avuto diocesi a Bassora dal 1222. Il loro numero raggiunse i trentasettemila. Oggi ne resta appena un terzo. La campagna contro lo Stato islamico lanciata tardivamente da Obama e intensificata sotto Trump ha bonificato i territori iracheni dove vivevano i cristiani, ma quelle minoranze stanno beneficiando poco o nulla degli aiuti umanitari e di stabilizzazione da parte di Stati Uniti e Onu.
   Alcune comunità, come le piccole enclave cristiane di Mosul, sono quasi certamente perse per sempre. Alcuni villaggi cristiani di Ninive hanno iniziato il doloroso processo di ricostruzione con fondi donati principalmente da alcune organizzazioni internazionali di soccorso come i Cavalieri di Colombo e Aiuto alla chiesa che soffre, e il governo ungherese, e tenuto vivo con aiuti dalle diocesi cattoliche e ortodosse locali. Dopo gli sfollamenti di massa e le fosse comuni, adesso per chi resta serve ricostruire le terre martirizzate dai fondamentalisti islamici. Altrimenti verrà persa per sempre anche la più piccola speranza di sentire ancora il suono delle campane a Ur dei Caldei.

(Il Foglio, 14 marzo 2018)


Assisi presenta il Giro d'Italia con Salvatore Puccio e Israel Cycling Academy

Tutta la città invitata alla presentazione del programma di 'Assisi città di Tappa'

 
                                                      La nuova maglia della Israel Cycling Academy                                                                                           Salvatore Puccio
ASSISI, 13 marzo - Sarà una grande festa per la città l'evento di domani 14 marzo ad Assisi quando alle 17.30 nella Sala della Conciliazione di Palazzo dei Priori arriverà in città il grande campione del ciclismo Salvatore Puccio e la Israel Cycling Academy: due presenze di rilevanza assoluta per presentare il programma degli eventi che accompagneranno Assisi verso la tappa del Giro d'Italia del prossimo 16 maggio.
   Il campionissimo Salvatore Puccio, siciliano di origini, nel 2002 si trasferì a 13 anni con la famiglia a Petrignano di Assisi ottenendo tantissimi successi da esordiente di secondo anno con l'UC Bastia; nel 2004 iniziò l'esperienza con la maglia dell'UC Petrignano, squadra con cui, da allievo e junior, ottenne oltre 20 vittorie.. Nel 2008 passò tra gli Under-23 e cominciò a collezionare ulteriori vittorie che lo portarono in Toscana. Dell'inizio del 2012 l'ingresso nel team britannico Sky e il 5 maggio 2013 indossa la prestigiosa maglia rosa. Salvatore Puccio dunque domani tornerà in Assisi concedendosi ai suoi cittadini, ai ragazzi delle scuole e ai giovani sportivi del territorio che potranno confrontarsi con il grande campione che racconterà loro la sua esperienza.
   Altra presenza di rilievo alla presentazione al Giro d'Italia quella della Israel Cycling Academy nata nel 2014 dall'incontro fra Ron Baron, uomo d'affari israeliano e Ran Margaliot, ciclista professionista. I due fondarono la prima squadra israeliana di professionisti al mondo. Una start up per consentire a giovani ciclisti di talento di competere nell'arena internazionale. A tre anni dalla fondazione la Israel Cycling Academy ha partecipato a centinaia di gare, vincendone a decine e promuovendo la crescita della cultura del ciclismo in Israele. L'ICA è l'unica squadra il cui budget è basato principalmente sulla filantropia e, sebbene sia una squadra israeliana, è aperta a tutti i ciclisti indipendentemente dalla religione o dalla nazionalità. Una occasione unica quella di poter conoscere Ran Margaliot, domani ad Assisi per raccontare il suo ambizioso progetto.
   Tantissime le iniziative che saranno annunciate domani dalla Città di Assisi in occasione della 11a tappa del Giro d'Italia che partirà da Santa Maria degli Angeli il prossimo 16 maggio. Prima della presentazione porteranno i loro saluti Stefania Proietti - Sindaco di Assisi e Donatella Porzi - Presidente del Consiglio regionale dell'Umbria. Previsti gli interventi di Domenico Ignozza - Presidente CONI Umbria; Daniela Isetti - Commissario FCI Umbria; Gioia Bartali - nipote di Gino Bartali; Ran Margaliot- Israel Cycling Academy; Fr. Adriano F. Bertero - Segretario provinciale OFM e S.E. Mons. Domenico Sorrentino - Vescovo della Diocesi di Assisi, Nocera Umbra e Gualdo Tadino. A presentare il calendario di eventi Veronica Cavallucci - Assessore allo Sport del Comune di Assisi. Fra gli ospiti oltre al campione Salvatore Puccio - Team Sky sarà presente anche Adam Smulevich - giornalista e scrittore.

(Assisi News, 13 marzo 2018)


Ladispoli e l'emigrazione russa del 1989. Un pezzo sconosciuto di storia italiana.

Nel 1989 migliaia di emigranti russi decisero di partire alla volta degli Stati Uniti in cerca della libertà. Un accordo diplomatico saltato, li bloccò per molto tempo nell'allora cittadina di Ladispoli.

di Luca Grandicelli

Circa trent'anni fa ci svegliammo una mattina e ci ritrovammo catapultati in uno scenario post sovietico. Decine di centinaia di emigranti russi che, per qualche motivo allora a noi ignoto, avevano stranamente deciso di stazionare nella nostra città.
Forse i più giovani non lo potranno ricordare, ma nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, migliaia di rifugiati provenienti dall'ex Unione Sovietica furono letteralmente "parcheggiati" in Italia in attesa di imbarcarsi alla volta degli Stati Uniti.
Molti di questi, che oggi chiameremmo "migranti economici", erano per lo più ebrei russi allettati dalle politiche d'immigrazione statunitensi, che allora decisero di aprire le porte e di dare il benvenuto a chiunque volesse immigrare dall'ex URSS.
Purtroppo la diplomazia era molto fragile all'epoca e gli accordi potevano essere cancellati repentinamente. Fu questo, all'incirca, il caso; così, fra tutte le località italiane a disposizione, venne proprio scelta l'allora piccola cittadina balneare alle porte di Roma. E fu proprio qui che migliaia di russi disperati e in fuga dalla fame trovarono le frontiere sbarrate.
In questo video possiamo rivivere tutto il dramma di quel popolo, oltre che sbirciare nella Ladispoli del 1989. Per chi, come me, ha vissuto quegli anni svegliandosi una mattina con le scritte alla stazione in italiano e cirillico, e per tutte quelle famiglie divise e fermate ad un passo dalla libertà del tempo, queste immagini sono un tuffo al cuore.
Si tratta di un pezzo di storia ai più sconosciuto, ma che meriterebbe di essere (ri)portato alla luce rendendogli giustizia, una volta per sempre.

(Baraonda News, 13 marzo 2018)


Israele - Intesa di governo, evitate le urne

Crisi di governo sventata in extremis in Israele. La coalizione di Benyamin Netanyahu ha raggiunto un'intesa per evitare elezioni anticipate sulla legge di esenzione degli ebrei ortodossi dalla leva. In base all'intesa - secondo i media - la prima lettura della legge comporterà, in deroga alla norma, libertà di voto per i partiti di governo. In seconda e terza lettura saranno inserite modifiche che terranno conto delle obiezioni del ministro della difesa Avigdor Lieberman contrario all'attuale provvedimento.

(ANSAmed, 13 marzo 2018)


Riunione alla Casa Bianca su Gaza, presenti funzionari israeliani e del Golfo

GERUSALEMME - Funzionari della sicurezza nazionale israeliana si sono seduti oggi alla Casa Bianca allo stesso tavolo con le controparti di Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Oman ed Emirati Arabi Uniti, per discutere della situazione umanitaria nella Striscia di Gaza. Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Il summit su Gaza, convocato da Jared Kushner, genero e consigliere del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e da Jason Greenblatt, rappresentante speciale di Trump per il Medio Oriente, segna un momento "senza precedenti per la diplomazia israeliana, dal momento che i colloqui con funzionari degli Stati arabi sono pubblicamente riconosciuti per la prima volta", evidenzia "Jerusalem Post".
L'incontro di oggi ha visto anche la partecipazione di rappresentanti dell'Egitto, della Giordania, del Canada e di alcuni paesi europei. Assenti i rappresentanti dell'Autorità nazionale palestinese. "Ci dispiace che l'Autorità palestinese non sia qui con noi oggi", ha detto Greenblatt nel suo discorso di apertura alla conferenza. "Non si tratta di politica. Riguarda la salute, la sicurezza e la felicità del popolo di Gaza e di tutti i palestinesi, gli israeliani e gli egiziani", ha aggiunto Greenblatt. "Come sapete, siamo qui oggi per prendere in considerazione le idee su come affrontare le sfide umanitarie a Gaza - un argomento che è stato a lungo in prima linea", ha proseguito Greenblatt.
Dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale ufficiale di Israele lo scorso 6 dicembre da parte di Washington, i funzionari palestinesi si sono rifiutati di incontrare rappresentanti statunitensi e non riconoscono più gli Stati Uniti come mediatore nel processo di pace in Medio Oriente. Greenblatt e Kushner stanno mettendo a punto gli ultimi ritocchi su un piano di pace globale per porre fine al conflitto israelo-palestinese, di cui la risoluzione della crisi di Gaza è parte integrante. Al momento, i funzionari della Casa Bianca stanno decidendo come attuare il piano entro poche settimane o pochi mesi.

(Agenzia Nova, 13 marzo 2018)


Gaza, attentato contro il premier palestinese. Abu Mazen accusa Hamas

Il leader palestinese Rami Hamdallah è illeso. Abu Mazen: "attacco vile"

GAZA - Attentato questa mattina nella Striscia di Gaza contro il convoglio su cui viaggiavano il premier palestinese Rami Hamdallah e il capo dell'intelligence Majed Freij. L'esplosione di un ordigno posizionato al lato della strada ha travolto le vetture verso le quali sono poi stati rivolti diversi colpi d'arma da fuoco. Secondo quanto riportano le agenzie di stampa palestinesi il premier è illeso ma nell'esplosione sarebbero rimaste ferite cinque persone. Lo scoppio è avvenuto passato il valico di Beit Hanoun, poco dopo l'ingresso del convoglio nel territorio di Hamas, il movimento ai ferri corti con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) presieduta da Abu Mazen.
La visita di Hamdallah nella Striscia era stata programmata con cinque mesi di anticipo, ma il premier è stato costretto a rientrare dopo essersi recato all'impianto di desalinizzazione che ha inaugurato come parte del processo di riconciliazione tra Hamas e il partito di governo Fatah. "C'è un grande complotto contro noi tutti. Ciò che è accaduto oggi rafforza la nostra determinazione a ottenere la riconciliazione, tornerò nella Striscia di Gaza", ha detto il premier ai microfoni dei media locali.
Poco dopo l'attentato, il presidente palestinese Abu Mazen, tramite una nota ufficiale ha condannato l'accaduto tramite una nota ufficiale, definendolo "un gesto vile" e puntando il dito contro Hamas, anche se non è ancora arrivata alcuna rivendicazione ufficiale. Mentre la polizia di Hamas ha affermato di aver arrestato due potenziali sospetti, su Twitter le autorità del movimento islamico hanno fatto sapere che "Hamas condanna l'attacco criminale al primo ministro palestinese Rami Hamdallah, ritenendolo un tentativo concepito per destabilizzare la sicurezza a Gaza e per far fallire gli sforzi per una riconciliazione nazionale".

(Quotidiano.net, 13 marzo 2018)


Esenzione degli ultra-ortodossi dalla leva. Netanyahu «scommette» sulla crisi di governo

Accordo con i partiti religiosi: Lieberman minaccia di lasciare la coalizione. Il premier ha raggiunto un'intesa con Torah Unita, scontentando il suo ministro della Difesa. Ma ostenta sicurezza: «Se ci saranno elezioni, vincerò ancora».

di Susan Dabbous

GERUSALEMME - In caso di elezioni anticipate vincerebbe di nuovo lui, allora perché far cadere il governo? E un appello all'unità con pochi margini di negoziazione quello che ha fatto ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu agli alleati di governo (in cui coabitano laici e religiosi). Ha invitato i suoi a superare la crisi provocata dalla legge sull'esenzione dalla leva degli ebrei ultra-ortodossi, quando in realtà sono in molti a insinuare che vorrebbe andare a voto anticipato, già a giugno, sicuro di avere la vittoria in tasca. Nonostante il premier sia indagato in cinque scandali di corruzione, secondo i sondaggi, la popolarità raggiunta sul campo della sicurezza e della politica estera (con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte degli Stati Uniti) è tale da garantire al suo partito, il Likud, una maggioranza più ampia di quella che gode attualmente.
   Al momento, nella coalizione con il Likud ci sono sia i laici del falco Avigdor Lieberman, ministro della Difesa e leader del partito Yisrael Beitenu, che i religiosi di Shas e Torah unita nel giudaismo. Questi ultimi hanno minacciato di non approvare il bilancio del 2019 se non verrà votata una legge che limiti fortemente i religiosi (quasi ad escluderli) dalla leva militare. Un provvedimento che Lieberman ha bollato come «fake legge».
   Per evitare la crisi imminente, l'esenzione è stata approvata ieri mattina in prima lettura dalla Commissione legislativa del Parlamento, ma Lieberman ha minacciato di lasciare il governo se il provvedimento passerà in via definitiva, e se abbandonasse davvero il governo la maggioranza si ridurrebbe a 61 seggi, uno solo più della metà. La questione del servizio militare (obbligatorio per tutti gli israeliani, rispettivamente 2 anni e otto mesi per gli uomini e due anni per le donne) divide sia eticamente che politicamente lo Stato ebraico. Da un lato, i laici trovano ingiusto che soltanto i loro figli debbano rischiare la vita per difendere il Paese. Dall'altro, gli haredim (ultra-ortodossi) considerano i loro studi un contributo all'ebraismo che equivale e supera (per valore morale) il servizio militare. La leva obbligatoria, al contrario, è percepita come una forma di "persecuzione religiosa" che li spinge verso uno stile di vita più laico e non consono alle loro convenzioni. L'esenzione militare ai religiosi è stata garantita sin dalla nascita dello Stato d'Israele, quando erano una sparuta minoranza. E rappresentano invece il 10 per cento della popolazione. E nel 2015 [sic!], secondo le stime demografiche, arriveranno al 25. Forse anche per questo, la Corte Suprema israeliana ha dichiarato l'esenzione militare agli ultra-ortodossi illegale, in quanto discriminatoria. L'adeguamento della politica a questo nuovo principio giurisdizionale è stato lento e difficile, fatto sostanzialmente di elusione che non accontenta, del tutto, nessuno.
   Nel 2015 il governo ha proposto infatti un disegno di legge che chiama al servizio un numero prefissato di studenti delle Yeshivah (le istituzioni educative ebraiche dove si studiano i testi religiosi tradizionali), ammettendo comunque una certa quantità di esenzioni. Coloro che rifiutano, però, rischiano il carcere, e questo manda su tutte le furie gli ultra-ortodossi, mentre il ministro della Difesa Lieberman ritiene che il grande numero di eccezioni violi il principio di equa responsabilità. In caso di caduta del governo però, gli ha ricontato il premier, a rimetterci sarebbe solo lui.

(Avvenire, 13 marzo 2018)


Cuneo - I ragazzi dell'Itis ai mondiali studenteschi in Israele

Martedì 13 marzo la partenza per Tel Aviv, mercoledì 14 e venerdì 16 le prime due partite contro Cipro e Croazia

di Enrico Giaccone

 
Partenza per Tel Aviv, martedì 13 marzo, per i ragazzi dell'Itis Mario Delpozzo di Cuneo che iniziano così ufficialmente la loro avventura ai campionati mondiali scolastici di calcio a 5. I giovani studenti e atleti cuneesi, campioni d'Italia studenteschi nel futsal, rappresenteranno l'Italia nella rassegna iridata che si svolge in Israele, a Rishon Le Zion, dal 13 al 21 marzo.
La comitiva cuneese è partita all'alba, con destinazione Milano-Roma-Tel Aviv, con arrivo previsto alle 18. La prima partita è in programma mercoledì 14 marzo alle 14.30 contro Cipro, la seconda si disputerà venerdì 16 alle 12.30 contro i rappresentanti della Croazia. Ai quarti di finale si qualificano le prime due classificate del girone (composto anche dall'India, che però ha dato forfait). È possibile seguire le partite sulla pagina facebook dell'Itis o sulla pagina ufficiale www.isfisrael.org.

(LaGuida.it, 13 marzo 2018)


Prorogata la legge spagnola per la cittadinanza agli ebrei sefarditi

MADRID - Il governo di Madrid ha deciso oggi di prorogare fino all'ottobre 2019 la legge del 2015 che consente ai discendenti degli ebrei sefarditi ("spagnoli" in ebraico) cacciati dal paese nel 1492 di ottenere la nazionalità spagnola.
Grazie a questa misura, finora 6432 ebrei sefarditi hanno potuto ottenere la cittadinanza spagnola senza doversi trasferire nel paese e senza rinunciare alla cittadinanza di origine. Si ritiene che circa 3,5 milioni di persone in tutto il mondo discendano dagli ebrei spagnoli costretti all'esilio nel 1492 a causa della decisione dei sovrani Isabella di Castiglia e Ferdinando II di Aragona che, con il decreto dell'Alhambra, li obbligavano alla conversione forzosa al cattolicesimo, pena l'espulsione immediata.
Almeno duecentomila ebrei, secondo dati concordanti, vennero costretti ad andarsene, trovando rifugio soprattutto nei paesi dell'Europa meridionale e dell'Africa del Nord (in particolare Marocco e Algeria).

(L'Osservatore Romano, 13 marzo 2018)


Si parli di Hezbollah alla Farnesina

Cosa deve emergere alla conferenza di Roma sull'esercito libanese

La conferenza si svolgerà a Roma il 15 marzo al ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale. Lo scopo dell'evento è quello di costituire una piattaforma per governi e organizzazioni e intervenire come donatori dell'esercito libanese, "l'unica forza legittima del Libano". Un evento sicuramente positivo, tuttavia è Hezbollah "il capo" nel sud del Libano. Pertanto, l'evento di Roma dovrebbe essere una piattaforma anche per trasmettere un messaggio alla comunità internazionale. E quel messaggio dovrebbe essere: "Liberate il Libano da Herzbollah".
   Come la missione dell'Onu Unifil, l'esercito libanese in questi anni ha visto impotente crescere la forza militare e numerica dell'organizzazione terroristica guidata da Hassan Nasrallah, facendo spesso da foglia di fico alle sue attività criminali. L'Unifil è per definizione una forza interinale, provvisoria, ma si trova in Libano da quarant'anni. Una parte decisiva del suo mandato consiste nell'aiutare il governo e l'esercito libanese a garantire che nella zona vicino al confine con Israele non vi siano armi fuori dal controllo del governo di Beirut. Per questo a settembre Israele ha esortato i caschi blu a fare molto di più per ispezionare e denunciare le violazioni di Hezbollah, per questo l'ambasciatrice degli Stati Uniti all'Onu, Nikki Haley, ha poi criticato il capo dell'Unifil, l'irlandese Michael Beary, accusandolo di ignorare il riarmo nemmeno troppo segreto di Hezbollah da parte dell'Iran.
   Gli analisti stimano in centomila il numero dei missili che Hezbollah ha stipato a sud del fiume Litani. Nasce da qui la preoccupazione, i raid aerei mirati e l'attivismo politico d'Israele in seno alla comunità internazionale. La conferenza di Roma non dovrebbe limitarsi a portare soldi e sostegno politico all'esercito libanese. Dovrebbe anche essere l'occasione per la stampa e i partecipanti di porre le giuste domande: come intende questo esercito libanese fermare Hezbollah nel caso di conflitto con Israele? E come si schiererebbe la comunità internazionale se la stabilità mediorientale venisse seriamente compromessa?

(Il Foglio, 13 marzo 2018)


La creatività del ghetto

in Italia la cultura ebraica fiorisce proprio nella fase della segregazione. Un saggio di Giacomo Todeschini (Carocci) esplora le vicende attraversate dalle comunità israelitiche nel nostro Paese in epoca medievale. La questione cruciale del credito e la svolta determinata dalla creazione dei Monti di Pietà.

di Paolo Mieli

Prima di addentrarsi nell'indagine storica su Gli ebrei nell'Italia medievale (così il titolo del suo importante libro che sta per essere pubblicato da Carocci), Giacomo Todeschini mette in chiaro un punto di importanza decisiva: questa storia può essere scritta con modalità dotate di una qualche coerenza solo a partire dal X secolo. Perché? Per il fatto che va accantonata una volta per tutte la rappresentazione postrisorgimentale di un'Italia come «soggetto storico naturalmente e tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione cristiana», rappresentazione che «ha influenzato in modi diversi, talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza israelitica nel nostro Paese». Per decenni, secondo Todeschini, abbiamo introiettato uno stereotipo storiografico mai esplicitamente dichiarato, che può essere riassunto nell'idea «alquanto divulgata della storia degli ebrei nell'Italia medievale come storia di una convivenza felice, repentinamente interrotta dalle polemiche antiebraiche del Quattrocento culminate nell'età dei ghetti». Un'idea che ci porta fuori strada.
  E vero, sì, che già dal 380, cioè dall'editto di Tessalonica, l'Impero romano assunse il cristianesimo come culto ufficiale e si comportò di conseguenza. Ma a ben guardare la cristianizzazione della Penisola, iniziata tra il IV e il VI secolo, decollò effettivamente solo a partire dal VII e VIII secolo in seguito alla «decisiva alleanza» fra l'episcopato romano e la dinastia carolingia. E comunque la presenza ebraica in area italiana era preesistente. Sicché gli ebrei per secoli non furono «né tollerati, né sistematicamente avversati», dal momento che «l'inesistenza di una maggioranza forte dal punto di vista politico-religioso» e «la natura ancora elitaria e ristretta a circoli aristocratici decisamente acculturati della religione imperiale cristiana» facevano dell'Italia ostrogota, romana e longobarda «un arcipelago di usanze e di norme, di pratiche religiose e di abitudini rituali, nell'ambito delle quali la specificità ebraica non spiccava particolarmente».
  Fino all'anno Mille, e anche per qualche secolo successivo, fu dunque assente «una qualsiasi forma di compattezza e di autorappresentazione sociale» che - a differenza di quella costruita, tanti secoli dopo, nell'ambito degli Stati nazionali moderni - fosse in grado di stabilire «una netta distinzione tra coloro che, in quanto cittadini e membri della collettività statale, erano dentro il sistema politico-sociale e civico e coloro che, in quanto stranieri, estranei e irriconoscibili dal punto di vista religioso e civico, erano esclusi da quel sistema».
  Per circa mille anni, dal IV al XIV secolo, le relazioni tra cristiani ed ebrei nella Penisola sono altalenanti. Fino a quando cambia qualcosa che si avverte nell'attività di predicazione antiebraica degli Ordini mendicanti - in particolare quello francescano (ma anche il domenicano) - a partire dagli anni Trenta del Quattrocento. A dire il vero alcune «occasionali manifestazioni di avversione nei confronti degli ebrei» si erano avute in Sicilia, a Venezia (ma anche altrove) già nel corso del Trecento. E però dal primo Quattrocento che «in zone assai differenti d'Italia si nota un mutamento deciso del clima politico per ciò che riguarda la presenza ebraica e in particolare l'attività di prestito a interesse». A Napoli la sovrana Giovanna II nel 1427 irrigidisce le norme concernenti «la presenza degli ebrei nel Regno», laddove a Siena già nel 1420 il Comune aveva messo in discussione «l'utilità pubblica degli ebrei» accusandoli di «peggiorare, con la loro gestione del credito al consumo, le condizioni di vita dei cittadini più poveri». Da quel momento, a Firenze, Bologna, Milano e in Piemonte la convivenza tra ebrei e cristiani - pur in un'atmosfera «apparentemente tranquilla» - comincia ad essere caratterizzata «oltre che dalla sottolineatura dell'eccezionalità» evidenziata dal segno distintivo sull'abito, dalla «incostanza e dalla precarietà del soggiorno degli ebrei, il cui diritto a vivere e agire nelle città e nelle regioni veniva alternativamente affermato, negato, ripristinato o ammesso». Ancorché «formalmente ignorato».
  La presenza delle comunità israelitiche - ben definite dal punto di vista religioso e rituale, giuridico e familiare - assume progressivamente «un carattere di estraneità» e gli ebrei appaiono, in Italia, «sempre più alieni e inquietanti». Tutto ciò come conseguenza del- 1' «epocale trasformazione della società italiana tardomedievale, oltre che dell'impennata di mortalità provocata dalle epidemie del secondo Trecento, della accelerazione finanziaria della vita economica, della accentuata proletarizzazione dei ceti meno abbienti e della sempre più visibile configurazione oligarchica, centralizzata e sovrana dei poteri governativi».
  Al centro dell'attacco c'è la polemica contro il prestito a interesse per come viene gestito dagli ebrei. Ebrei che da questo momento vengono presentati alla stregua di «un pericolo per la sopravvivenza dei cittadini cristiani più poveri», di «un ostacolo alla libera circolazione della ricchezza nei mercati cittadini», di emissari «d'una minacciosa ingerenza straniera nell'economia dei territori cristiani attivamente impegnata a esportare i beni di questi territori acquisiti in forma di pegni a garanzia dei prestiti a interesse». Il che dà vita a tre importanti stereotipi: la rappresentazione degli ebrei come «usurai che impoveriscono», come «monopolisti che concentrano» e come «esportatori che sottraggono la ricchezza».
  Bernardino da Siena, caposcuola dell'Osservanza francescana, negli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento - cioè poco prima della morte, nel 1444 - offre una sintesi dottrinale alla polemica nei confronti del prestito a interesse. Gli israeliti vengono rappresentati, volta a volta, come banchieri, medici, membri di una comunità religiosa che rifiuta le Verità cristiane e in quanto tali sono divenuti «un pericolo per la società italiana all'interno della quale si trovano a vivere». Bernardino, secondo Todeschini, sintetizza varie modalità che, a suo parere, descrivono l'esistenza degli ebrei nelle città italiana «servendosi dell'immagine metaforica del nemico che combatte i suoi avversari con armi diverse, alcune più e altre meno esplicite». Le tappe fondamentali di questo «percorso di ostilità» saranno nel 1462 la fondazione dei Monti di Pietà (il primo verrà fondato proprio quell'anno a Perugia) e, nel 14 75, un terribile processo a Trento contro i presunti responsabili di un omicidio rituale. Processo che si conclude con una serie di condanne a morte.
  Ma fino al 1462 le relazioni fra poteri italiani e gruppi ebraici erano state caratterizzate, secondo lo storico, da una «tradizionale ambiguità». Ambiguità che al Centro Nord aveva assunto «la forma dell'indifferenza o della non percezione della specificità comunitaria ebraica». E al Sud della «catalogazione essenzialmente fiscale delle comunità ebraiche». Poi, dopo l'istituzione dei Monti di Pietà - tra il 1492 e il 1510 - si era avuta l'espulsione degli ebrei dai Regni di Sicilia e di Napoli. E, dal 1516, la fondazione dei ghetti. Sostanzialmente, però, l'istituzione dei Monti di Pietà non determinò mai, nell'Italia centro settentrionale, l'eliminazione totale del prestito a interesse gestito dai banchieri ebrei. Anche se - sostiene lo studioso - ne mutò il significato politico ed economico portando a compimento la «ridefinizione del ruolo civico degli ebrei nei territori italiani». Agli ebrei restò concesso di gestire un credito «in grado di finanziare le attività di chi non aveva diritto di accedere a quello dei Monti, a mitigare dunque il bisogno di chi, cristiano o povero, non era tuttavia a sufficienza riconoscibile come abbastanza moralmente integro e virtualmente produttivo da poter ottenere un prestito dal Monte». Oppure di chi chiedeva in prestito «somme di cui non poteva giustificare l'impiego». Ciò che determinò «il raggiungimento di un punto critico nella relazione tra poteri cristiani e comunità ebraiche», già «messa in discussione da circa un secolo».
  I francescani, nello stesso momento in cui miravano a sostituire il credito erogato dai Monti di Pietà a quello che «gli ebrei mettevano a disposizione della parte ritenuta più attiva della popolazione delle città e dei territori», lasciavano ai banchi ebraici la gestione delle «forme di credito irriconoscibili come produttive per gli Stati cristiani». E così determinavano una rappresentazione politica dei gruppi ebraici che ne sottolineava la «natura parassitaria e totalmente riassumibile in termini monetari». La realtà civica, giuridica, teologica ed economico-politica che, in varie forme, le comunità costituivano veniva in tal modo negata ed elusa, «benché nello stesso tempo essa fosse, almeno in parte riconosciuta da una minoranza intellettuale quale poteva essere quella dei circoli umanistici fiorentini, romani o napoletani».
  Il discorso politico ed economico dei frati dell'Osservanza ha perciò l'effetto di produrre, anzi di «determinare», una «minimizzazione del significato pubblico dell'identità rituale e religiosa degli ebrei in sé stessa coerente con la più tradizionale disattenzione cristiana per la particolarità culturale o giuridica del mondo ebraico». A questo punto - prosegue Todeschini - la religione degli ebrei e la loro interpretazione delle Scritture - seppure come in passato passibili in sede teologica di un'imputazione di «colpevole resistenza alla vera fede» - perdono gradualmente «quanto ne aveva fatto una ragione in grado di legittimare in sede etico-politica la presenza in terra cristiana». In quest'epoca gli ebrei cessano di essere per la Chiesa la «prova storica della veridicità del messaggio cristiano» e della «legalità sacra dell'edificio politico scaturitone» e cominciano ad essere intesi come «presenze economicamente utili» ancorché «politicamente inquietanti». Sicché decadono nel discorso pubblico delle città-Stato o dei regni e vengono considerati come una «minaccia da tenere compiutamente sotto controllo, da inquisire ed eliminare per la via breve del battesimo forzato, oppure da rinchiudere nel chiuso dei ghetti in modo da poterle efficacemente circoscrivere».
  Ma, a sorpresa - proprio tra Quattro e Cinquecento se ci si sottrae agli stereotipi storiografici, o ad essere più precisi, agli stereotipi «resistenti nel tempo e spesso accolti acriticamente dalla storiografia» - si nota una moltiplicazione di «prodotti culturali attestanti la complessa vivacità letteraria, talmudica, filosofica e poetica, memorialistica e sociopolitica» delle comunità israelitiche. Nell'Italia del Quattrocento si registra dunque una «contraddizione» fra l'esistenza e la fioritura di una cultura ebraica giuridica, filosofica e politica e «l'assenza sempre più netta di una percezione da parte dei poteri cristiani della specificità di queste comunità». Ed è così che nell'arco temporale che va dal 1462 - anno di fondazione del Monte di Pietà perugino - al 1515, quando il pontefice Leone X della famiglia de' Medici dichiarerà la liceità degli interessi esigibili da parte dei Monti (che segna l'inizio della conversione dei Monti in banche di Stato e Casse di risparmio locali), «la condizione degli ebrei verrà ridisegnata indipendentemente dalla "tolleranza" che continuò ad ammetterli nelle città o dalla "intolleranza" che ne produsse l'espulsione». Comincia qui per le comunità ebraiche, è la datazione di Todeschini, «il lungo periodo durante il quale, "tollerati" o "non tollerati", segregati o espulsi, gli ebrei italiani dovranno resistere alla cancellazione del loro significato pubblico, civico e culturale, producendo nuove forme della convivenza, della memoria e dell'esistenza quotidiana». E per secoli la cristianità perderà l'opportunità di conservare un rapporto virtuoso con loro.

(Corriere della Sera, 13 marzo 2018)


Martin Boehm: «Vogliamo fare chiarezza e restituire le opere d'arte ai legittimi eredi»

Dorotheum. La casa d'aste viennese fu complice del nazismo nella "arianizzazione" delle grandi collezioni d'arte appartenute a famiglie ebraiche austriache. Anche dopo la guerra, non collaborò al recupero delle opere né a fare giustizia. Solo ora, con la nuova proprietà, le cose sono cambiate.

di Daniele Liberanome

 
La casa d'aste Dorotheum a Vienna
 
Dorotheum, interno
Trasformare la Dorotheum di Vienna, da casa d'aste nonché strumento del regime nazista durante la Shoah, a entità vicina alla Comunità ebraica austriaca con un ufficio di rappresentanza a Tel Aviv - non è poca cosa. E molto lo si deve a Martin Boehm, rampollo di una famiglia di imprenditori tessili, che nel 2002 ne è diventato amministratore delegato dopo averla rilevata dallo Stato insieme a una cordata di investitori. Da allora ha ottenuto risultati ragguardevoli, guardando al futuro, ma senza dimenticare il passato. Non ha avuto peli sulla lingua a parlarmi della casa d'asta ai tempi della Shoah, quando l'ho incontrato nel bel palazzo-sede dell'azienda - inaugurato da Francesco Giuseppe.

- Dorotheum ha svolto un ruolo importante nella vendita di opere d'arte sottratte dai nazisti ai proprietari ebrei…
  «Al tempo dei nazisti, posizioni chiave nella gerarchia di Dorotheum vennero effettivamente affidate a sostenitori del regime. La struttura venne utilizzata per vendere all'asta proprietà "arianizzate" e anche se Dorotheum non venne coinvolta direttamente nelle confische, ne beneficiò ampiamente agendo come intermediario commerciale per la vendita di opere affidatele da vari uffici amministrativi come la Gestapo, la dogana e le autorità finanziarie della città di Vienna. Del resto, la comunità ebraica della città era composta per gran parte da collezionisti e amanti d'arte che svolsero un ruolo centrale nella vita culturale del tempo».

- Sembra che Dorotheum non abbia aiutato nel recupero delle proprietà confiscate dai nazisti agli ebrei, prima che venisse venduta a investitori privati e che lei venisse nominato amministratore delegato. È corretto? E quale politica ha adottato a questo proposito da quando è entrato in carica?
  «Quando Dorotheum è stata privatizzata nel 2001, il nuovo management si è fortemente impegnato a entrare nel merito delle attività di Dorotheum durante il periodo nazista, facendo di questo uno degli elementi cardine della gestione operativa. Innanzitutto, a seguito della privatizzazione di Dorotheum , l'ÖIAG - l'agenzia di investimento e di privatizzazione della Repubblica austriaca - come ex proprietario della casa d'aste versò 32 milioni di dollari nel General Settlement Fund for Victims of National Socialism con sede a Vienna, come compenso per la collaborazione data da istituzioni austriache al regime nazista nelle persecuzioni antiebraiche. Nel 2006 ha visto la luce un rapporto di esperti storici indipendenti (Lütgenau, Schröck, Niederacher, "Zwischen Staat und Wirtschaft. Das Dorotheum im Nationalsozialismus", Oldenbourg editore, 2006) sulla storia di Dorotheum dal 1938 al 1945.
  Abbiamo poi consegnato tutto l'archivio storico aziendale all'Archivio di Stato austriaco per renderlo disponibile a tutti gli interessati. La nuova proprietà ha poi deciso di istituire nel 2003 un dipartimento di ricerca sulla provenienza delle opere, un passo rivoluzionario nell'Europa centrale e unico del genere fra tutte le case d'asta nell'Europa continentale».
  Come a dire che moltissimo dipende dalle iniziative dei singoli, e che molto resta da fare. E i risultati pratici dipendono non poco dal modo in cui le dichiarazioni del management vengono tradotti in passi operativi. E quindi Boehm, passa la parola a Felicitas Thurn, che per suo conto dirige l'ufficio di ricerca sulla provenienza delle opere.

- Come operativamente accertate la provenienza delle opere d'arte che potrebbero essere state confiscate dai nazisti?
  «Innanzitutto pubblicizziamo ampiamente a livello internazionale le opere che mettiamo in asta attraverso i cataloghi oppure online, e quindi i potenziali interessati hanno una buona opportunità di identificare le opere che ritengono possano essere state frutto di furto o confisca. Abbiamo poi introdotto un programma di due diligence (è il corretto comportamento, nel gergo legale, ndr), per evitare vendite involontarie di arte rubata da parte di Dorotheum. Il primo passo è identificare una provenienza problematica nelle opere che ci vengono consegnate per l'asta. Esaminiamo le informazioni a diposizione, ponendo attenzione a lacune, a nomi sensibili o date di vendita, a segni sull'oggetto stesso. Poi eseguiamo un controllo attraverso fonti specializzate e database su arte rubata dai nazisti, come lost art.de; il database dell'ERR; il database MNR della Francia, gli elenchi delle collezioni di Hitler e Göring disponibili presso il DHM, Berlino, il database Getty provenance, i dati riguardanti le vittime di procedimenti anti-ebraici negli archivi pubblici austriaci e molti altri. In particolare collaboriamo strettamente con all'Art Loss Register, il più grande database privato al mondo di arte persa e rubata, che analizza tutte le opere in catalogo.
  Agiamo anche autonomamente nel raccogliere informazioni su collezioni pubbliche e private dell'anteguerra, sui singoli oggetti saccheggiati e sulle persone interessate (vittime, nazisti, collaboratori), che vengono aggiunti alla "lista bandiera rossa", una lista di migliaia di persone coinvolte nel bottino artistico. Siamo anche grati alla Comunità ebraica di Vienna per la collaborazione che ci offre sulle questioni di provenienza. Oltre a condividere informazioni su opere d'arte e persone coinvolte nel bottino d'arte da entrambe le parti, abbiamo creato un database sulle vendite d'arte in Austria 1938-1945 (anche in collaborazione con il Museum of Applied Arts di Vienna) e un altro database sulle vendite forzate di oro, argento e perle».

- E una volta individuata un'opera rubata dai nazisti, che cosa fate? Come procedete?
  «Una volta che un'opera viene definita come "bottino artistico di guerra", effettuiamo ulteriori ricerche per raccogliere tutte le informazioni storiche sulle circostanze specifiche del caso. L'oggetto viene ritirato dalla vendita, discutiamo la situazione con il mittente e salvaguardiamo il lavoro fino a quando non si raggiunge una soluzione soddisfacente o fino a quando la provenienza contaminata non viene cancellata. Non essendo noi i proprietari delle opere e agendo come intermediari tra le parti, cerchiamo di risolvere le richieste in modo pragmatico e stragiudiziale. Incoraggiamo il titolare di un'opera a entrare in dialogo con l'ex proprietario o i suoi eredi e serviamo da facilitatori in questa discussione. È necessario un approccio prudente e il principio delle soluzioni "giuste e giuste" deve anche considerare la situazione del possessore in buona fede. Questo vale anche per il diritto alla privacy per tutte le parti».

- Può farci un esempio pratico?
  «Abbiamo identificato il dipinto "Blick über die Dächer auf St. Stephan / Wien" di Luigi Kasimir (olio / tela 100x74 cm) come parte della collezione del dentista Dr. Heinrich Rieger, che nel 1935 aveva raccolto una collezione di 750 opere di artisti contemporanei, tra cui importanti opere di Egon Schiele. Come parte della nostra procedura di due diligence, abbiamo controllato il retro del lavoro, che portava un francobollo dal "Künstlerhaus" di Vienna. Con il numero e l'anno, abbiamo potuto identificare attraverso l'archivio del "Künstlerhaus" che il signor Rieger era proprietario dell'opera nel 1935. Essendo di origine ebraica, fu costretto a vendere, dal 1938 in poi, molte opere decisamente al di sotto del valore di mercato.
  Tuttora non è noto dove si trovi la maggior parte della sua collezione. Friedrich Welz e Luigi Kasimir erano tra gli "amici" di Rieger, che "aiutarono" lui e sua moglie Bertha a mantenersi a Vienna fino alla loro deportazione a Theresienstadt nel 1942.
  Ma sia Welz che Kasimir erano ferventi nazisti, avevano personalmente "arianizzato" gallerie d'arte ebraiche e entrambi acquistarono numerosi lavori della collezione di Rieger a prezzi incredibilmente bassi. Grazie al materiale contenuto negli archivi della Commission for Provenance Research di Vienna, abbiamo appreso che il dipinto consegnato a Dorotheum è stato sequestrato nello studio di Luigi Kasimir nel 1947 insieme ad altre opere della collezione Rieger e che Kasimir dovette affrontare un processo per tradimento. Per non affrontare le accuse, Kasimir riconobbe che i dipinti appartenevano giustamente agli eredi di Heinrich e Bertha Rieger, entrambi periti nei campi di concentramento nazisti. La restituzione agli eredi legittimi e l'esportazione negli Stati Uniti seguirono, ma il dipinto la cui provenienza era in dubbio rimase dall'avvocato di Kasimir e presso la sua famiglia a Vienna. Andava quindi considerata come opera d'arte non restituita alle vittime del nazismo e Dorotheum non l'avrebbe inclusa in una vendita senza il consenso degli eredi di Rieger. Il venditore dell'opera ha risposto positivamente alle richieste della famiglia Rieger, ha trovato un accordo, il dipinto è stato venduto nel novembre 2011 e i proventi sono stati divisi».
  Nell'Austria in cui spirano venti politici non tranquillizzanti, questa è una boccata di aria fresca.

(Bet Magazine Mosaico, 12 marzo 2018)


Viaggio cinematografico in Israele

di Daniela Addea

The Women’s Balcony, di Emil Ben-Shimon

Non è facile analizzare uno stato complesso come Israele, combattuto tra la modernizzazione secolare e il mantenimento di un antico retaggio etnoreligioso, in cui convivono equilibri precari e conflitti ineffabili: per comprendere una situazione che non è riconducibile a un diagramma o un algoritmo, occorre suddividere singolarmente le sue componenti in diverse mappe disegnate su carta velina, i cui layer si sovrappongono l'uno sull'altro. Solo al termine è visibile il quadro generale. In questo senso, la rassegna "Nuovo Cinema Israeliano" presso lo Spazio Oberdan di Milano offre al pubblico la possibilità di decodificare la cultura israeliana ed ebraica attraverso il suo cinema contemporaneo.
  L'itinerario della Fondazione Cineteca Italiana tocca diversi ambiti, dal documento Ben Gurion, Epilogue, di Yariv Moter, un'intervista al padre dello Stato di Israele Ben Gurion che ripercorre gli eventi trascorsi dal suo kibbutz a Sde Boker, fino a Don't Forget Me di Meran Nehari, che segue i turbamenti di due giovani abitanti di Tel Aviv, in cui il caos della metropoli diventa rifugio e specchio per i loro deliri. Il percorso segue anche rotte oltremare, finendo nel bel paese con Iom Romi di Valerio Ciriaci, che documenta la vita quotidiana della comunità ebraica a Roma e il rapporto secolare tra la città eterna e Gerusalemme, e salendo verso la Toscana con Shalom Italia di Tamar Tal, che accompagna tre anziani fratelli alla ricerca del nascondiglio che li salvò dalle deportazioni della seconda guerra mondiale.
  Il pensiero ricorrente che emerge da questa rassegna sembra riguardare il ruolo della fede al giorno d'oggi, soprattutto quando questa si trasforma in estremismo. È il caso della commedia The Women's Balcony di Emil Ben-Shimon, in cui religione e tradizione si incontrano/scontrano. La vita della comunità di Etty (Evelin Hagoel) e Tzion (Yigal Naor) entra in crisi quando crolla il matroneo della sinagoga; a salvare la situazione è David (Aviv Alush), giovane carismatico rabbino ultra-ortodosso che spinge la comunità verso uno stile di vita rigoroso, creando però ulteriori conflitti.
  La pellicola si concentra sul ruolo delle donne nel giudaismo ortodosso moderno, senza mai cadere nel drammatico, e David, aiutato da un buon senso dell'umorismo, viene visto come un degno antagonista. La verve satirica non si ferma qui, e con Holy Air di Shady Srour viene affrontato il tema del turismo religioso, tradotto come perdita del concetto stesso di religiosità: quale miglior modo di rafforzare la morale della trama, se non con la grottesca storia di un personaggio che tenta di vendere l'aria "santa" di Nazareth?
  Emerge così una caratteristica comune alle "nuove" pellicole israeliane: è possibile condividere la devozione religiosa, ma il disaccordo tra le comunità è insostenibile. In tal senso i documentari risultano maggiormente incisivi e inediti. È il caso di Outsider, cortometraggio di Travelers - 5 Cortometraggi, che esplora la vita di un giovane charedì che abbandona una comunità ultra-ortodossa per esplorare la società moderna e secolare, e How to ride an elevator on Shabbat, che esplora la vita di Nadav, un ragazzo gay e osservante diventato leader della comunità LGBT.
  Inedito per noi è il conflitto raccontato in Habesha, tra le comunità ebraica-israeliana e quella ebraica-etiope: in una società in cui il razzismo è istituzionalizzato, la rivolta ricorda quanto non basti condividere una religione e come sia spesso più facile viverla appartenendo a un etnia piuttosto che a un'altra.
  Fiore all'occhiello della rassegna è Foxtrot - La danza del destino. Il regista Samuel Maoz affronta un tema ostico e controverso per Israele: la militarizzazione dello stato. Il film si apre con forza. La coppia di genitori Daphna (Sarah Adler) e Michael (Lior Ashkenazi) scoprono che il figlio Jonathan (Yonaton Shiray) è venuto a mancare. La notizia scatena i più profondi turbamenti nella famiglia, che si dispera ed è in preda alla confusione. L'abilità di Maoz è quella di far emergere la sofferenza umana attraverso la sua storia e la sua tecnica cinematografica, e non è un caso che il secondo atto cambi completamente registro.
  Un'ellissi di montaggio fa saltare la narrazione verso un remoto checkpoint israeliano percorso unicamente da cammelli, in cui i giovani soldati combattono la monotonia delle loro giornate: le sequenze silenziose vengono scandite dai racconti e dai quesiti dei ragazzi sul senso di tutto questo. Realismo e surrealismo metafisico, due facce della stessa medaglia. Foxtrot è rappresentazione della tragedia insensata, e parla un linguaggio specifico e universale per insegnare che la nostra esistenza è come l'omonimo ballo: nonostante tutti gli sforzi, si torna sempre al punto di partenza.

(1977 magazine, 13 marzo 2018)


Celeste Di Porto, storia della delatrice nel ghetto di Roma

di Alessandra La Ruffa

 
A sinistra Celeste di Porto. A destra la lapide nel ghetto di Roma che rievoca il rastrellamento del 16 ottobre 1943
Si chiamava Celeste Di Porto e, quando i Tedeschi in quel sabato di ottobre del 1943 rastrellarono il ghetto di Roma, aveva appena diciotto anni. Alta, slanciata, occhi neri e profondi, era la quinta di otto figli e viveva con la sua famiglia nel quartiere ebraico. Di umili origini, aveva iniziato a lavorare in giovane età prestando la propria attività come domestica di alcune famiglie ebree fino a quando venne assunta al ristorante Il Fantino, luogo di ritrovo di numerosi fascisti. Riuscita a sfuggire al rastrellamento insieme alla sua famiglia, Celeste, soprannominata per la sua eccezionale bellezza la stella di Piazza Giudia, abitava in Via della Reginella. Quel volto d'angelo diventerà per molti suoi correligionari il viso della morte. Sarà lei con un cenno del capo a denunciare gli ebrei e a venderli alle milizie fasciste.

 Chi era Celeste Di Porto
  Un ebreo maschio in età da lavoro valeva 5000 lire, una donna 3000 ed un bambino 1500, questo era il tariffario che i delatori conoscevano bene. Dopo la razzia del 16 ottobre 1943, i nazisti lasciarono agli italiani il compito di arrestare gli ebrei che erano scampati al rastrellamento e che si erano nascosti ed allontanati dalle loro abitazioni. Alcuni vagavano nella città, altri avevano trovato rifugio da parenti, altri ancora, non sapendo dove andare, erano tornati a vivere nelle loro case. Le bande di fascisti che erano in azione a Roma avevano il compito, tra le altre cose, di andare a caccia degli ebrei da consegnare ai nazisti. Oltre al famigerato questore Caruso e alla banda guidata dal militare Pietro Koch, operavano milizie di civili, privati cittadini che si erano aggregati per supportare l'azione fascista. Una di queste era la banda di Cialli Mezzaroma, di cui faceva parte Vincenzo Antonelli, uomo che frequentava Il Fantino e con cui probabilmente la giovane ebrea Celeste Di Porto ebbe una relazione.
  A seguito di quell'incontro, Celeste diviene una delatrice al soldo dei fascisti, una collaborazionista. Nei vicoli del ghetto si comincia, infatti, a sussurrare che è lei a vendere gli ebrei, che le basta fare un cenno, un movimento del capo, salutare qualche suo correligionario per indicarlo alle milizie fasciste e farlo arrestare. Tra le sue vittime c'è Lazzaro Anticoli, un ragazzo di 26 anni che il 23 marzo 1944 a Via Arenula viene catturato da tre fascisti e condotto alla prigione romana di Regina Coeli per essere ucciso il giorno dopo alle Fosse Ardeatine. Nella sua cella del carcere con un chiodo scrive: "Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi". Era accaduto che all'ultimo momento, in sostituzione di Angelo Di Porto, fratello di Celeste, era stato catturato il giovane pugile ed era stato inserito nella lista delle 335 persone che dovevano essere fucilate dai Tedeschi il giorno dopo per vendicare l'attentato di Via Rasella. E non vendette soltanto lui. Alla pantera nera (questo il nuovo soprannome che le viene dato) si deve la morte di altri 26 ebrei uccisi nell'eccidio delle Fosse Ardeatine.

 Celeste Di Porto dopo la liberazione di Roma
  Nel 1944 con la liberazione di Roma da parte delle truppe anglo-americane, Celeste Di Porto cambia nome e diventa Stella Martinelli. Si trasferisce a Napoli per non destare sospetti e ricominciare una nuova vita ma due ebrei romani che si trovano nella città partenopea la riconoscono e la fanno arrestare. Il 5 marzo 1947 inizia il processo in un clima di tensione altissima. Celeste ha sempre lo sguardo fisso, puntato sui suoi accusatori; non lo abbassa mai neanche quando dall'aula le gridano 'A morte!'. Il Pubblico Ministero chiede per lei 30 anni di reclusione in un tribunale incandescente. Il 9 giugno 1947, dopo otto ore di camera di consiglio, il giudice la condanna a 12 anni ritenendola colpevole di sequestro di persona e di furto dei gioielli che aveva sottratto alle sue vittime. Grazie all'indulto concesso nel febbraio 1948, il 10 marzo dello stesso anno lascia il carcere di Perugia da donna libera ed il 15 abbraccia la fede cattolica battezzandosi. Lo sdegno da parte della comunità ebraica è unanime, contro di lei comincia a circolare lo slogan De Gasperi l'ha graziata, il papa l'ha battezzata. A fine anno, durante una cena in un ristorante romano, rischia di essere linciata da alcune persone che la riconoscono. È il segno che deve lasciare nuovamente la sua città e trasferirsi altrove. Andrà prima a Trento, forse a Milano poi tornerà a Roma dove morirà nel 1981.

(Passaggi Lenti, 12 marzo 2018)


Israele: i kibbutz sfidano il governo sulle espulsioni di migranti africani

Pronti a ospitare e dare lavoro a migliaia di migranti distribuiti sul territorio

A due settimane dall'inizio dell'''allontanamento'' graduale da Israele di migliaia di migranti africani il movimento dei kibbutz (aziende agricole collettive) ha deciso adesso di sfidare il governo di Benyamin Netanyahu. Ieri il suo segretario generale Nir Meir ha fatto appello a tutti i kibbutz di Israele affinché si prodighino ad ospitare nei prossimi mesi e se possibile a dare lavoro ai migranti e alle loro famiglie.
   “Siamo ora messi alla prova'' ha scritto Meir nel sito del suo movimento. ''Dobbiamo reagire, alla luce dei nostri valori collettivistici, ebraici ed umani''.
   In Israele risiedono circa 40 mila migranti sudanesi ed eritrei. Il governo ha dato loro tempo fino alla fine di marzo per lasciare Israele spontaneamente, con incentivi economici di 3.500 dollari a testa. Potranno raggiungere in Africa un ''Paese terzo'' (il governo non precisa quale, ma la stampa concorda nell'indicarlo nel Ruanda) dove avranno modo - secondo Israele - di aprire una nuova pagina. Quanti si rifiutassero rischierebbero una incarcerazione e poi una espulsione vera propria, senza più incentivi. Per primi saranno ''allontanati'' migliaia di scapoli.
   Ma adesso i kibbutz sono scesi in campo per contrastare la politica del governo. Avi Ofer, del kibbutz Maanit (fra Tel Aviv e Haifa) ha detto alla stampa che 2.250 famiglie si sono già iscritte per dare ospitalità a migranti in difficoltà. Avranno la precedenza non solo quelli per i quali la minaccia delle espulsioni e' ormai imminente, ma anche quanti versano in condizioni sociali degradate: ad esempio le madri 'single'. Mentre il governo si e' fissato l'obiettivo di allontanare da Israele l'intera comunità africana, sia pure a scaglioni, il movimento dei kibbutz propone invece per loro una politica diversa basata sulla loro dispersione sul terreno nazionale. In realtà, affermano diversi economisti, possono dare un contributo alla economia specialmente nel settore alberghiero, nei ristoranti e nell'agricoltura. Se la espulsione di decine di migliaia di migranti africani fosse portata a termine nei prossimi mesi, avvertono questi economisti, Israele dovrebbe sostituirli con manodopera alternativa proveniente dal Terzo mondo o dai territori palestinesi.
   La loro dispersione sul terreno servirebbe inoltre ad allentare le tensioni creatasi nei rioni poveri di Tel Aviv, dove negli ultimi anni si sono stipati i migranti. Là, aggiungono i dirigenti del movimento dei kibbutz, il governo dovrebbe fornire aiuti immediati utilizzando ad esempio i fondi risparmiati con la chiusura del 'Centro di accoglienza' per i migranti, nel Neghev.

(ANSAmed, 12 marzo 2018)


Israele: approvato il disegno di legge sull'esenzione della leva per gli ultra-ortodossi

GERUSALEMME - La Commissione ministeriale legislativa ha approvato oggi il progetto di legge sull'esenzione della leva per gli ebrei ultra-ortodossi nel tentativo di stabilizzare la coalizione. Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Il partito Yisrael Beytenu, che detiene sei seggi alla Knesset, ha votato contro. Yisrael Beytenu, partito della coalizione, è guidato dal ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, che aveva minacciato di opporsi al progetto di legge che esenta gli haredi (ebrei ultra-ortodossi) di svolgere il servizio militare. La votazione di oggi rientra nel compromesso raggiunto tra i partiti ultra-ortodossi di United Torah Judaism (Utj) e Shas con il premier Benjamin Netanyahu per evitare di sciogliere la camera ed andare ad elezioni anticipate. Utj e Shas, infatti, hanno minacciato di non votare la fiducia alla finanziaria 2019 se prima non fosse stato approvato il disegno di legge sulla leva per gli haredi. Le parti hanno raggiunto un accordo proposto dal deputato dello Shas Yoav Ben-Tsur, sul voto favorevole al disegno di legge in Commissione ministeriale e in prima lettura alla Knesset. Rimane tuttavia un punto interrogativo sull'approvazione finale della legge perché sia il procuratore generale, Avichai Mandelbit, sia Lieberman si oppongono.

(Agenzia Nova, 12 marzo 2018)


Nel bunker di Tel Aviv dove si battono i pirati

Siamo entrati nella CyberGym dove nerd, cx hacker cd cx militari insegnano a difendersi a banche, aziende, Stati. Perché gli attacchi sul web passeranno da smart tv e lampadine. E «sarà uno tsunami».

di Paolo Ligammari

 
A un'ora di macchina da Tel Aviv, nel complesso della centrale elettrica di Heftziba, i due ragazzi smanettano sui notebook all'interno di una villetta isolata, in una stanza resa gelida dall'aria condizionata. Sulle pareti, tra i volti dei cattivi di Star Wars, due maxi schermi: sul primo, scorrono veloci stringhe incomprensibili; sull'altro, strisce luminose si accendono e svaniscono su un planisfero, come scie di missili immaginari. Sono i segnali - reali - della guerra elettronica che si consuma lontano dai nostri occhi, a ogni ora del giorno e della notte. Cyber attacchi portati da misteriosi scantinati della Cina verso gli Stati Uniti, dalla Russia a Londra, dall'Iran a Israele. E viceversa. Attacco, parata e risposta. Come in un assalto di scherma all'infinito.
  I due giovani, con le felpe hip-hop a nascondere il capo, lavorano per CyberGym, una delle centinaia di startup partorite ogni anno nello stato ebraico, con nerd cibernetici, hacker, ingegneri, esperti di intelligence ed ex militari. La società, che ora ha dipendenti in 30 Paesi e clienti in 70, è nata per difendere dai pirati dei bit la rete elettrica, com'è facile intuire una delle infrastrutture strategiche di un Paese. Ora insegna a fronteggiare gli attacchi informatici a banche, aziende energetiche e istituzioni pubbliche in quattro continenti.

 Affari miliardari
  «Gli hacker hanno cambiato pelle, i lupi solitari sono virtualmente estinti», dice il ceo, Ofir Hason, ex militare come tanti imprenditori israeliani della cyber sicurezza. Ora, i bad guys del cyberspazio lavorano in branchi addestrati da menti geniali, foraggiati dai governi. E mirano in alto: «Alle reti telematiche che governano treni e aerei, ospedali, grandi industrie. Vogliono mettere in ginocchio un Paese intero», dice Hason. CyberGym è una tra le decine di società e startup che si sono presentate a investitori e venture capital al CyberTech 2018 di Tel Aviv, la più grande fiera sulla sicurezza fuori dagli Usa. Un mercato in ascesa impressionante, valutato in 105 miliardi di dollari nel 2015 e che secondo Zion Research raddoppierà il giro d'affari entro il 2021. Quando si prevede che salgano a mille miliardi di dollari i costi che le aziende nel mondo dovranno sostenere per far fronte agli attacchi informatici. Israele gioca un ruolo di primo piano: controlla il 10% del mercato e raccoglie il 15% degli investimenti, 600 milioni di dollari solo nel 2016. Militari e intelligence, università e ricerca scientifica, capitali privati e investimenti statali (il 4,3% del Pil è investito in ricerca, più di ogni altro Paese) puntano nella stessa direzione: trasformare Israele nella culla dell'hi-tech.
  Non stupisce che tra gli stand del CyberIech lo stesso Mossad faccia recruitment o che tra i relatori ci sia David Petraeus, ora un consulente del fondo Kkr, ma ex direttore della Cia fino al 2012, quando fu travolto dallo scandalo delle rivelazioni all'ex amante-biografa e finite in un libro (non un grande esempio come spia). «È vero, in Israele siamo ossessionati dalla sicurezza quasi quanto dal cibo», scherza il venture capitalist Rami Efrati, imprenditore ed ex ufficiale della leggendaria Unità 8200, i pionieri dello spionaggio elettronico. A loro è attribuita la decrittazione dei messaggi che indicavano l'imminenza dell'attacco egiziano nella guerra del Kippur del 1973.

 Gli obiettivi
  Tempi lontani? Non troppo, se si pensa che proprio durante CyberTech, l'ex veterano dello Shin-Bet e attuale responsabile della Cyber Technology Unit del governo israeliano, Yigal Unna, ha rivelato che il nuovo obiettivo dei pirati informatici è l'aviazione civile: «Dal lancio del Dreamliner (il gigante dei cieli, ndr.) i cyber attacchi si sono moltiplicati». Oggi, non 40 anni fa. E i nemici sono ovunque: persino Hezbollah, dal vicino Libano, sta investendo massicciamente nella cyber guerra. «Possono hackerare tutto, è solo questione di tempo e di soldi», dice Udi Mokady, ex militare anche lui e fondatore di CyberArk, che in pochi anni è diventata un colosso della cyber sicurezza e una delle quasi 70 società israeliane quotate sul Nasdaq. Perciò, a Stati e aziende conviene fare sul serio. «Quando si parla di Cyber Warfare - dice Efrati - si ha sempre l'impressione, sbagliata, che il peggio toccherà a qualcun altro».
  Il mondo intero, però, si è accorto che la minaccia è reale in un solo giorno. Era il 12 maggio 2017. Il malware WannaCry, diffuso sul Darkweb anche grazie alle soffiate dell'ex tecnico della Cia Edward Snowden, mise al tappeto banche, ferrovie, ospedali, scuole, cioè i servizi essenziali, in più di cento Paesi: per riattivarli bisognava pagare un riscatto in Bitcoin. Il futuro non sarà meno complicato: basti pensare all'Internet of Things, i device connessi alla Rete: tv, videocamere, persino le lampadine «intelligenti». Tutti potenziali portatori di virus. Gli strateghi della Idf, le forze armate israeliane, sono già oltre: parlano già di IoE (Internet of Everything) e di 30-45 miliardi di dispositivi connessi al web nei prossimi anni. E chi non ha una strategia di difesa? «Verrà spazzato via - dice una fonte anonima -. Sarà uno tsunami tecnologico».

(Corriere della Sera, 12 marzo 2018)


Concerto di musica antica in omaggio alla cultura ebraica

di Valerio Convertini

Come si è arrivati all'inno nazionale ebraico

BARI - Un concerto di musica antica in omaggio alla cultura ebraica. L'appuntamento, a cura dell'associazione turistica Pro Loco, si terrà stasera, lunedì 12 marzo, alle 19,30, nell'Auditorium comunale di Locorotondo. Sul palco salirà il gruppo «Ensemble Concentus», una formazione strumentale, fondata nel 1992, specializzata in musica antica. L'ensemble è composta da Vania Palumbo (canto), Gianluca Milanese (flauti), Pier Paolo Del Prete (vìella), Maurizio Ria (viola da gamba), Angelo Gillo (chitarra spagnola) e Roberto Chiga (percussioni). Il repertorio spazia dal Quattrocento al Classicismo, tra musica sacra e profana, rievocazioni storiche e spettacoli di danze sociali e di corte. Il programma odierno darà spazio ai brani di diversi compositori ebrei vissuti in Italia sotto la protezione di nobili casate. Il concerto, intitolato «La rosa enflorese», si concluderà con il canto «Fuggi, fuggi, fuggi da questo cielo», noto anche come «Ballo di Mantova» o «Mantovana». Questa popolarissima melodia ebbe larga diffusione in tutta Europa e, dopo la rielaborazione nei primi anni del Novecento da parte del compositore moldavo Samuel Cohen, divenne l'inno di Israele, «HaTikvah», «La Speranza».

(La Gazzetta di Bari, 12 marzo 2018)


Il buco al cuore dell'occidente

Le nostre libertà nascono dai codici giudeo-cristiani minacciati dai fondamentalisti (anche della politica). Il saggio di Melanie Phillips sul mensile Standpoint.

Si sarebbe dovuto asportare il pregiudizio dal cuore dell'uomo. Invece la decostruzione ci ha lasciato un grande vuoto. In Europa i banchi delle chiese sono vuoti, il cristianesimo sta morendo e con esso la civiltà. L'occidente diventerà qualcosa di molto diverso.

E' diventata ortodossia in occidente l'idea che la libertà, i diritti umani e la ragione derivino tutte dal secolarismo e che la più grande minaccia per tutte queste buone cose sia la religione". Così si apre il lungo saggio di Melanie Phillips, giornalista inglese di origini ebraiche e firma di punta del Times. "Voglio spiegare che è vero il contrario. Mettendosi al servizio di questa ortodossia, l'occidente sta minando e distruggendo gli stessi valori che ha di più caro come le caratteristiche distintive di una società civile. La guerra è combattuta contro la cultura occidentale all'interno della quale c'è in sostanza una guerra contro il cristianesimo e le sue origini morali nella Bibbia ebraica. Attaccando queste basi bibliche in nome della ragione e dei diritti umani, i guerrieri della cultura del secolarismo stanno segando il ramo su cui sono seduti. L'unico modo per difendere la civiltà occidentale è riaffermare e ripristinare le sue basi bibliche. Viviamo in un'era che esalta la ragione, la scienza e i diritti umani. Si dice che siano essenziali per il progresso, una società civilizzata e il miglioramento dell'umanità. Si dice che la religione sia la loro antitesi, la fonte invece del mumbo-jumbo superstizioso, l'oppressione e il pensiero arretrato. Alcune di queste ostilità sono guidate dalla minaccia del terrorismo islamico e dell'islamizzazione della cultura occidentale. Tuttavia, questo animus contro la religione ha radici molto più profonde e può essere fatto risalire a quello che è considerato il luogo di nascita della ragione occidentale, l'Illuminismo del XVIII secolo ( ... ) Lontano dall'essere una utopia, tuttavia, questo pensiero ha portato a qualcosa di più simile all 'inferno sulla terra. Perché l'adorazione dell'uomo attraverso la ragione ha condotto direttamente al totalitarismo. Questo tipo di fanatismo ha ispirato i tre grandi movimenti tirannici che sono stati spinti fuori dal pensiero illuminista: la rivoluzione francese, il comunismo e il fascismo.

 La nuova ortodossia
  Negli anni Sessanta, la generazione del baby boom acquisì pesantemente l'idea suggerita da Herbert Marcuse e da altri radicali marxisti che la via per trasformare l'occidente non stava nel controllo politico o economico ma la trasformazione della cultura. Questo obiettivo è stato raggiunto nell'ultimo mezzo secolo attraverso quella che è stata definita la 'lunga marcia attraverso le istituzioni', l'infiltrazione in tutte le istituzioni della cultura - università, media, professioni, politica, servizio civile, chiese - di idee che sarebbero dovute diventare l'ortodossia. Dal multiculturalismo all'ambientalismo, dal postnazionalismo alla dottrina dei 'diritti umani', i progressisti occidentali si sono fissati su idee universalizzanti che rifiutano i valori ancorati nei particolari della religione o della cultura.
  Tutto ciò che conta è un futuro teorico in cui la guerra, il desiderio e il pregiudizio saranno aboliti: il ritorno dell'umanità decaduta in un Eden perduto. E come tutti i progetti utopici, che sono per definizione impossibili e irraggiungibili, questi dogmi sono applicati attraverso la coercizione: bullismo, intimidazione, assassinio, esclusione professionale e sociale. La dottrina centrale è l'uguaglianza ( ... ) La famiglia tradizionale è stata cacciata dal suo trespolo. La moderazione sessuale è stata abolita. L'educazione non poteva più trasmettere una cultura attraverso le generazioni, ma doveva insegnare che la nazione occidentale era innatamente razzista e sfruttatrice. Non c'era più alcuna verità assoluta. In questo modo il bigottismo e il pregiudizio sarebbero stati asportati dal cuore umano, gli oppressi del mondo in via di sviluppo sarebbero stati liberati dai loro oppressori occidentali e invece della nazione occidentale ci sarebbe stata la fratellanza degli uomini. Al centro di esso c'era un assalto contro i codici morali del cristianesimo. Quei codici morali sono in realtà le leggi mosaiche della Bibbia ebraica.
  La cristianità è alla base dell'occidente. Ma il cristianesimo riposa a sua volta sui precetti della Bibbia ebraica. Dopo tutto, Gesù era ebreo. E' il giudaismo, la nave madre del cristianesimo, che ha stabilito la legge morale che ha posto vincoli sul comportamento personale nell'interesse degli altri, un credo rivoluzionario che costituisce il fondamento stesso della moralità occidentale ( ... ) Al fine di proteggere gli altri, le leggi morali della Bibbia ebraica mettono catene all'appetito umano. Mettono limiti al comportamento individuale al fine di avvantaggiare la comunità e il primo comandamento della rivoluzione culturale laica è rimuovere tutti i vincoli sull'individuo, i cui desideri sono ora considerati vincenti su tutte le regole esterne. Le ideologie distruggono inevitabilmente la ragione perché ridisegnano la realtà, che deve essere fatta per adattarsi all'idea di governo.

 Contro il popolo ebraico
  E' un fatto notevole che ogni ideologia laica millenaristica che forma l'odierna ortodossia e che distorce o nega la verità, la realtà o la moralità occidentale, sia intrinsecamente ostile ai valori ebraici, al popolo ebraico o allo stato di Israele.
  L'anticapitalismo implica la convinzione che gli ebrei siano dietro al capitalismo. L'antiamericanismo implica la convinzione che gli ebrei controllino la politica estera americana. L'egualitarismo implica la negazione della responsabilità per i comportamenti individuali stabiliti nelle leggi mosaiche.
  Il multiculturalismo nega la superiorità della società basata su quelle leggi su società che non lo sono. L'ambientalismo attacca la tesi della Genesi della formazione del mondo. Lo scientismo, o la convinzione che il materialismo sia la spiegazione di tutto, compresa l'origine dell'universo, nega la credenza biblica secondo cui l'origine di tutta la materia giace oltre la materia. E l'antisionismo è naturalmente la negazione del diritto del popolo ebraico all'autodeterminazione nella loro patria ancestrale. Dal riscaldamento globale provocato dall'uomo a Israele, dalla politica estera degli Stati Uniti all'origine dell'universo, l'occidente ha rimpiazzato la verità con l'ideologia. Ora, l'occidente si trova di fronte a un nemico esterno, l'islamismo jihadista aggressivo.
  Tuttavia le corrispondenze tra i 'progressisti' occidentali e gli islamisti sono davvero notevoli. Entrambi stanno tentando di creare delle utopie per riscattare i peccati passati; entrambi non permettono dissenso dall'unica verità rivelata; entrambi demonizzano e cercano di sopprimere i loro avversari; entrambi proiettano il loro cattivo comportamento sugli altri; entrambi sono consumati da teorie paranoiche della cospirazione. Entrambi esprimono un istinto totalitario che implica un rifiuto totale della ragione. L'occidente ha intrapreso questa strada per consentire la piena fioritura dell'individuo autonomo e il soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri.
  Gli islamisti hanno intrapreso questa strada per soggiogare l'individuo al dogma religioso L'emarginazione della religione biblica ha creato un vuoto che è stato riempito dal pensiero superstizioso intorpidito e magico. Ha anche creato un'opportunità per gli islamisti radicali che comprendono molto bene il buco spirituale nel cuore dell'occidente. Capiscono anche che senza la fede religiosa per sostenere i suoi valori, una società non è nulla. La civiltà occidentale oggi sarà salvata solo se riaffermerà le sue radici religiose. Ciò significa riaffermare non solo il cristianesimo, ma le sue radici a sua volta nella Bibbia ebraica.
  Molti leader della chiesa si tirano indietro dal diffondere un messaggio religioso robusto perché pensano che sia semplicemente impossibile contrastare le prove del materialismo con i misteri indimostrabili della fede religiosa. Penso che sia il modo sbagliato di avvicinarsi a questo. Come ho suggerito, la nostra era laica non ha rinunciato alla spiritualità. Ha rinunciato al cristianesimo. Il modo di avvicinare le persone è rispondere a questo desiderio di significato. Ciò vuol dire non fissare tutto sulla credenza in eventi soprannaturali, né sulla necessità di aderire alle regole morali, né sulle formalità del comportamento sacramentale.
  Tutto questo viene dopo, dopo la spiegazione del perché ciò che la Bibbia contiene è così importante per la vita, la felicità e il benessere delle persone. La gente deve essere resa consapevole dei valori che ama profondamente: razionalità, coscienza, dignità di ogni essere umano, rendere il mondo un posto migliore, che vengono dalla Bibbia e che senza di essa quei valori spariranno.
  In Gran Bretagna e in Europa, dove le chiese hanno perso la loro connessione con l'ebraismo e la Bibbia ebraica e sono anche ostili alla popolazione ebraica nello stato di Israele, i banchi sono vuoti, il cristianesimo sta morendo e la loro civiltà con esso. In America, il grande cuore centrale è pieno di chiese evangeliche fedeli alle Scritture che sono piene di energia e formano un baluardo nella lotta titanica che va avanti contro ideologie laiciste. Perché senza questa connessione con l'ebraismo, il cristianesimo non è nulla. E senza il cristianesimo, l'occidente diventerà davvero qualcosa di molto diverso. La chiave per la difesa dell'occidente risiede nella religione che la sostiene. Tutto ciò che serve è la volontà di vederlo".

(Il Foglio, 12 marzo 2018 - trad. Giulio Meotti)


Forte crescita dell’economia israeliana

L'economia israeliana registra "una performance notevole, con una forte crescita". Tuttavia, benché le disuguaglianze di reddito siano diminuite, ci sono ancora gap economici e mancanza di coesione sociale. E' quanto emerge da un rapporto dell'OCSE pubblicato domenica. Complessivamente la crescita dell'economia israeliana ha raggiunto il 3,3%, un tasso più elevato rispetto a molti paesi OCSE: un dato che il rapporto attribuisce, in parte, alla sostenuta crescita demografica e al "dinamico settore high-tech" del paese. Il rapporto sottolinea la "prudente" politica finanziaria d'Israele, con un debito pubblico relativamente basso e in calo, ed evidenzia il miglioramento del tenore di vita medio grazie a tassi di occupazione più elevati. Il rapporto registra tuttavia che i tassi di occupazione fra gli ebrei ultra-ortodossi e fra gli arabi israeliani rimangono bassi, determinando indici di povertà più alti che in altri paesi paragonabili.

(israele.net, 12 marzo 2018)


Haredi, cresce l’occupazione

Donne ultra-ortodosse al lavoro in un'azienda high-tech
La questione dell'occupazione del mondo haredi (ultraortodossi) in Israele è un evergreen. Essendo un problema che tocca uno dei settori più complessi della società israeliana - criticato perché sostenuto da cospicui sussidi statali e su cui non grava l'obbligo di leva (seppur sia in atto un contestato tentativo di imporlo che però incontra più di una difficoltà) - i dati pubblicati dall'Istituto centrale di statistica israeliano e dall'Istituto della democrazia israeliana nel 2016 erano da registrare come segnali positivi. Secondo questi risultati, che analizzano i dati provenienti da diverse istituzioni, il tasso di occupazione tra gli uomini ultraortodossi ha recentemente superato la soglia del 50 per cento, ancora molto sotto all'87 per cento degli uomini ebrei non-haredi, ma con un incremento del 14 per cento rispetto al 2003. Tra le donne haredi invece il tasso di occupazione è pari al 73 per cento rispetto al 81 delle donne ebree non haredi, con un aumento del 21 dal 2003 a oggi. Si tratta evidentemente di un cambiamento significativo ma molto graduale e che ancora deve fare sentire i suoi effetti sul tasso di povertà che ancora affligge la realtà haredi. Se il problema occupazionale è cosa nota, infatti, altrettanto lo è quello del livello di indigenza in questo settore: il tasso di povertà tra i haredim è al 52 per cento contro il 19 della popolazione generale. A causa di un sensibile taglio agli assegni famigliari nel 2003 - spiega un articolo del sito di informazione israeliano davarl - questo livello era passato dal 45 al 58 per cento nel 2006, attestandosi poi al 52 attuale nel corso di diversi anni, nonostante il graduale aumento dell'occupazione. Il dato più preoccupante è quello legato all'infanzia: ancora oggi un quarto dei bambini haredi non ha la sicurezza alimentare. Il fatto è che il livello dei redditi del mondo cosiddetto ultraortodosso è ancora basso per cui l'impatto sui livelli di povertà tarda a farsi sentire, ma è questione di tempo. Siamo comunque, spiegano gli analisti, davanti a un positivo dato occupazionale, vista anche l'ostilità di una parte di questa realtà - ancora piuttosto forte - verso il mondo del lavoro.
   Ad emergere, il ruolo sempre più significativo delle donne haredi nell'imprenditoria hightech, racconta il quotidiano economico Bloomberg: "Nella comunità haredi, - scrive Bloomberg - a molte donne è affidato il compito di portare il pane a casa, mentre i mariti si concentrano sullo studio di Torah. Un risultato è che l'imprenditorialità è spesso il modo migliore per le donne haredi per provvedere alle famiglie numerose”. “Ci è stato insegnato molto presto che il nostro ruolo come donne è quello di essere capofamiglia - la testimonianza di Sari Roth, 40 anni, amministratore delegato di Bontact e madre di sette figli - Questo significa che dobbiamo combattere, non rinunciare e fare di tutto per non fallire".
   Secondo la sociologa Lee Cahaner, una serie di processi stanno portando al cambiamento all'interno del mondo femminile haredi: ad esempio, più della metà delle donne partecipa ora agli esami di maturità, ben di più rispetto al 30% di un decennio fa; più di due terzi (72%) degli studenti ultra-ortodossi che accedono all'istruzione superiore sono donne; e la percentuale di donne ultra-ortodosse che usano internet è quasi raddoppiata. In questo quadro si inserisce l'imprenditorialità femminile haredi nel settore high tech, un ambito che da tempo lavora per reclutare personale qualificato tra religiosi e non. Michal Tzuk, vice direttore del Ministero del Lavoro israeliano, ha detto che il numero di donne haredi che scelgono di diventare imprenditrici sta crescendo più velocemente del numero delle donne secolari. Ciò non sorprende chi vive nella comunità haredi, dove le ragazze studiano matematica e scienze e spesso vanno all'università, mentre 1 ragazzi sono orientati agli studi religiosi.

(Pagine Ebraiche, marzo 2018)


"Aiutatemi a identificare i due carabinieri che ci salvarono dai tedeschi"

L'episodio il 7 settembre del 1943 a Bernezzo. Anziana di religione ebraica cerca i nominativi di chi aiutò lei e la sua famiglia.

di Matteo Borgetto e Barbara Morra

 
Storica parata durante il fascismo a Caraglio
 
Dada Portaleone in una foto recente
BERNEZZO - «Due persone che, a rischio della propria vita, hanno salvato me e la mia famiglia». Dada Portaleone, torinese, 82 anni, di religione ebraica, ricorda così i carabinieri di Caraglio «che il 7 settembre 1943» si presentarono nella casa di Bernezzo dove lei, con papà, mamma e la sorella, era sfollata, per avvisarli che presto sarebbero arrivati i tedeschi e bisognava scappare. Ha scritto una lettera a «La Stampa» per chiedere di indagare sull'identità dei due militari, «che vorrei fossero inseriti nel Libro dei Giusti», cioè l'onorificenza concessa dal Memoriale ufficiale di Israele, fin dal 1962, ai non ebrei che hanno salvato la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista.

 Aveva sette anni
  «Avevo 7 anni e stavo giocando in cortile, quando vidi arrivare i due carabinieri - racconta Dada Portaleone -. Chiesero di parlare con mio papà, dissero che il giorno dopo sarebbero venuti ad arrestarci. Dovevamo lasciare la casa facendo finta di andare a fare una passeggiata, senza bagaglio, al massimo una borsina come se dentro ci fosse la merenda».

 Tre paia di mutande
  Prosegue: «La mamma ci fece infilare tre paia di mutandine una sopra l'altra, due magliette e due golfini, e ci allontanammo alla spicciolata». La famiglia venne ospitata in due case, poi finì sulle montagne di borgata Sant'Anna, insieme ai partigiani.

 Fuga a Roddino
  «Dopo Bernezzo andammo a Roddino, in una casa dove tornai molti anni dopo con mia madre e incontrammo un'anziana che si ricordava di noi - aggiunge -. Sempre nel periodo della guerra rientrammo a Torino perché mi ammalai e mio padre mi fece ricoverare all'ospedale infantile. Per sicurezza, venne tenuta anche mia sorella che era sana e mia madre andò nel reparto maternità, perché incinta di mio fratello. Queste peripezie durarono tre anni perché nel '46 ricordo di aver ricominciato ad andare a scuola».
Quasi impossibile risalire ai nomi dei due carabinieri che portarono il messaggio alla famiglia Portaleone. «Né alla stazione di Caraglio, né al comando di Cuneo esistono documenti dell'epoca, purtroppo distrutti - spiega il tenente colonnello Marco Pettinato, comandante provinciale del Reparto operativo -. Ho contattato l'ufficio storico del Comando generale, dove sono arrivate tante richieste simili. Ma quei gesti eroici ovviamente avvenivamo in clandestinità e non risultano».

 Il brigadiere capo
  Del caso si sta occupando anche il presidente dell'Associazione nazionale Carabinieri di Caraglio, brigadiere capo Luigi Carrini: «Andrò a trovare il mio predecessore, Egidio Giannitti, ormai anziano, ma che nel 1948 era in servizio a Caraglio. Spero di risalire ai nomi».

 Lo storico
  Un aiuto è arrivato dallo storico caragliese ed ex insegnante, Adriano Armando: «Escludo che si tratti di Francesco Riba (zio dell'ex sindaco Mario Falco, ndr), carabiniere dall'8 settembre e partigiano in valle Grana, trucidato a Centallo il 17 aprile 1945, al quale è dedicato un cippo alla caserma di Caraglio in via Cesare Battisti. Non era qui in quel periodo».
Poi precisa. «All'epoca la caserma era in via Tevere, dove l'8 settembre 1943 venne richiamato dal congedo il maresciallo Luigi Giorgis (morto a Caraglio nel 2002), perché sapeva il tedesco. I nazisti occuparono il paese il 12 settembre '43, e fu lui a presentare l'ufficiale tedesco al podestà».

 L'aneddoto
  L'aneddoto prosegue: «Il tedesco disse "Ecco un'altra faccia di merda", ma Giorgis tradusse "L'ufficiale è molto felice di conoscerla". Il tedesco, che sapeva l'italiano, gli fece i complimenti per la diplomazia». Armando avanza un'ipotesi sui carabinieri che salvarono i Portaleone: «Graduati o non graduati, difficile che abbiano preso l'iniziativa per conto loro. Era Giorgis ad avere il polso della situazione. Forse c'era anche lui, o forse li ha solo mandati lui, perché non voleva esporsi».

(La Stampa - Cuneo, 12 marzo 2018)


Pietre di inciampo a Vicenza?

di Paola Farina

 
Paola Farina
A Vicenza le Pietre di Inciampo? Non è una mia iniziativa, ma sono stata contattata prima dall'Istrevi (Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea della Provincia di Vicenza) e non ho voluto fornire informazioni e poi dall'Assessorato all'Arredo Urbano, al quale ho fornito due nomi. Sì solo due, perché ho imparato che le cose vanno somministrate a piccole dosi, perché poi sono bravi in tanti a farsi onore con i meriti altrui... E poi un assessorato va studiato, analizzato. Ora sto aspettando risposte. Per me è sempre un'emozione cercare di ricongiungere vite presenti con vite passate e in questo credo di essere brava e fortunata. E' una questione di pancia e di pelle.
   Appena contattata dall'Assessore all'Arredo Urbano, Cristina Balbi, ho telefonato al Rabbino Elia Enrico Richetti e gli ho chiesto "Elia non è che siano tuoi parenti diretti o indiretti?"... "No- ha detto il Rabbino di primo acchito, i miei venivano dal Friuli" ed io ho insistito, "ma guarda che erano nativi dalla Toscana" e lui, dopo un attimo di riflessione, "Hai ragione tu, sono nostri".
   Io non posso competere con il Rabbino sulle questioni religiose e su tante altre, i rabbini sono uomini di una cultura straordinaria, siano di rito italiano, sefardita, askenazita, Lubavich, Haredim e mi fermo qua altrimenti entro in una galassia dalla quale non riesco più a uscire... se non con le ossa rotte, ma sulle questioni di vita ebraica di tutti i giorni, sulla quotidianità, sul vissuto delle persone di Vicenza io sono più brava dei Rabbi... perché piaccia o no, degli Ebrei di questa città io sono la memoria. E forse non solo di Vicenza visto le confidenze raccolte che mi porto dentro.
   Tramite il Rabbino Richetti sono entrata in contatto con un parente di Padova e poi qualche giorno dopo mi ha chiamato una signora da Roma. "Signorina Paola, sapesse, quanto mi sono emozionata quando mio cugino Manuel mi ha chiamato raccontandomi delle Pietre di Inciampo. Ho passato due giorni di ansia perché non sapevo se potevo disturbarla di sabato e di domenica"... Tenera signora Lia, certo che poteva disturbarmi in qualsiasi giorno e a qualsiasi ora. Mi ha chiamato "signorina", un termine così gentile che non sentivo più dai tempi del Gran Rabbino Toaff, Giovanni Spadolini e Michele Ciffarelli, confesso. Ho trovato il termine antico, ma di classe, una classe ritrovata che nel collettivo odierno non esiste più.
   La signora Lia mi ha raccontato il quadro familiare e di sua mamma Dina, era sorella di Angelina, moglie di Guido, entrambi deportati e assassinati nel campo di sterminio di Auschwitz. Lia è del 1937, era solita frequentare la casa di Angelina e Guido Orvieto, in via San Francesco e dietro c'era un giardino, ricorda di un parco immenso con il ruscello (presumo Parco Querini), ma non ho i dettagli perché Lia ed io non ci siamo ancora incontrate. Ricorda anche del negozio in centro storico e qui sono io a mettere assieme i puzzle, adesso ho capito perché i vecchi chiamavano quel negozio "la bottega degli ebrei", non perché i titolari fossero ebrei, ma perché lo avevano comprato da cittadini italiani di religione ebraica...
   La Signora Lia me la immagino in armonia, tra la complessità del suo essere contemporaneo che comprende il retaggio del passato, il coraggio di un nuovo inizio dopo la guerra e di un vissuto, la serenità attuale sostenuta da un'atavica energia vitale, quella ebraica. Me la immagino elegante, ma con le ciabatte comode in casa, alle prese con la velocità della comunicazione on line e il telefonino e la lentezza del rito del thè.
   Signora Lia, la prego di scusarmi se l'ho disturbata, se le ho creato l'illusione che il Comune di Vicenza lavorasse per velocizzare le posa delle Pietre di Inciampo in onore dei suoi Parenti, mi sono illusa anch'io che l'attuale amministrazione comunale volesse agire in fretta e non con la lenta agonia della burocrazia, perché è stato il Comune a contattarmi.
   Signora Lia conservi quella serenità che mi ha trasmesso telefonicamente, non si preoccupi, perché, se non sarà questa Amministrazione a posare le Pietre di Inciampo, sarà la prossima. Ho l'abitudine di sedermi in un caffè, aspettare un po' per vedere se si fa avanti qualcuno, ma se questo qualcuno non si fa avanti o lo fa nei modi non consoni, ci penso io, cercando nuovi equilibri e nuovi percorsi che siano in grado di recuperare il passato e testimoniare la storia che i suoi Cari hanno sofferto. Vorrei scrivere più a lungo sulla signora Lia e sulla sua Famiglia, ma la ricerca va approfondita e spero di farlo per il 25 aprile.
   Lascio il tempo a questa amministrazione che si è fatta promotrice di una onorevole iniziativa di concretizzarla, diversamente le Pietre di Inciampo per gli Ebrei le posso promuovere anch'io con il contributo dei miei amici. Gli esseri umani vanno rispettati e non strumentalizzati o peggio ancora illusi, i sogni devono diventare vita.

(VicenzaPiù, 11 marzo 2018)


Netanyahu: una maggioranza risicata non è un'opzione

GERUSALEMME - Una maggioranza di governo con 61 seggi sui 120 della Knesset, senza la presenza del partito Yisrael Beytenu, "non è un'opzione" perché "non può durare". Lo afferma oggi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, intervenendo sull'ipotesi di elezioni anticipate, nel corso dell'incontro con i membri del suo partito, il Likud. Nelle ultime settimane la tensione è cresciuta dopo che il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beytenu (6 seggi nella Knesset) ha minacciato di lasciare la coalizione se dovesse passare il progetto di legge che esonera gli ultra-ortodossi dal servizio di leva. Quest'ultimo è stato proposto dal partito United Judaism Torah (sei seggi alla Knesset) che minaccia a sua volta di non votare la finanziaria 2019 se prima non passerà la legge sull'esenzione del servizio militare per gli ultra-ortodossi. "Stiamo lavorando per un governo stabile che continuerà fino alla fine del mandato nel novembre 2019", ha detto Netanyahu, mentre alcuni sostengono che il premier stia sfruttando la crisi per indire elezioni entro i prossimi tre mesi che potrebbero rafforzare il suo governo. "Affinché ciò accada", ha detto il primo ministro, "tutte le fazioni devono raggiungere un accordo e decidere di continuare insieme. Stiamo lavorando per cercare di raggiungere questo obiettivo perché i cittadini israeliani vogliono un governo stabile che duri il tempo previsto".
   Nel 2015 il governo Netanyahu aveva prestato giuramento con una maggioranza risicata di 61 seggi in parlamento. Nei mesi successivi, il premier ha lavorato per includere nella coalizione di maggioranza anche Yisrael Beytenu, nominando Lieberman ministro della Difesa nel 2016 ed accrescendo i seggi a suo favore. La solidità della coalizione di maggioranza potrebbe anche essere messa in discussione dal ritiro del partito Kulanu (dieci seggi) a causa della possibile dimissione del suo leader, il ministro delle Finanze Moshe Kahlon, se non passerà la finanziaria.

(Agenzia Nova, 11 marzo 2018)


"Gerusalemme sia il Comune di tutti. Io palestinese mi candido sindaco"

Il tabù sfidato da Ramadan Dabash: dal 1967 gli arabi boicottano il voto

di Elena Loewenthal

 
Ramadan Dabash
Gerusalemme è una città dove il tempo ha le sue misure. E' apparentemente immobile come la pietra chiara di cui sono fatte le sue case, eppure ha una straordinaria e imprevedibile capacità di cambiare e far cambiare le cose.
   Mentre il mondo discute intorno alle dichiarazioni di Trump e aspetta di vedere quando e come l'ambasciata americana (seguita a ruota, forse, da quella di altri paesi come il Guatemala e la Repubblica Ceca i cui presidenti si sono espressi in tale direzione) salirà da Tel Aviv a questa città tanto eterna quanto fragile, lassù succedono cose fino a poco tempo fa impensabili.
   A ottobre di quest'anno ci saranno infatti le elezioni municipali in questa città che dal 1967 in poi ha visto avvicendarsi soltanto quattro sindaci - il mitico Teddy Kollek fino al 1993, Ehud Olmert (1993-2003), Uri Lupolianski (2003-2008) mentre da dieci anni ormai è saldamente guidata da Nir Barkat. Sempre nel 1967, all'indomani della Guerra dei Sei Giorni e di quella che per Israele fu la riunificazione della città e per i palestinesi l'inizio dell'occupazione, questi ultimi, che rappresentano circa il 37 per cento della popolazione totale di Gerusalemme, sancirono un boicottaggio politico sino ad oggi mai smentito. Partecipare alle elezioni municipali, sia da votanti sia da candidati, avrebbe per loro significato accettare in qualche modo la sovranità israeliana su Gerusalemme. Qui vivono infatti ebrei e arabi con passaporto israeliano oltre a residenti della zona est della città che hanno assistenza sociale e diritto di voto nelle consultazioni amministrative.
   «Ritengo che per la popolazione sia giunto il momento di votare. Secondo alcuni questo sarebbe una forma di normalizzazione e "israelianizzazione" di Gerusalemme, ma io dirò loro che questo deve essere il comune di tutti, il paese di tutti», ha dichiarato Ramadan Dabash annunciando la creazione di un partito palestinese pronto a correre nelle prossime consultazioni.
   Dabash è un ingegnere che vive a Gerusalemme est, ha il suo studio nella parte occidentale della città, ha studiato al Technion di Haifa e poi a Mosca, insegna a Tel Aviv, è presidente del consiglio locale del quartiere di Tzur Baher, ha quattro mogli, un sacco di figli e un programma politico animato di sano pragmatismo: «Non ho nessuna intenzione di rinunciare alla moschea di Al Aqsa, di convertirmi all'ebraismo o abbandonare il nazionalismo palestinese. Ma dobbiamo avere il nostro posto in consiglio comunale».
   La mossa di Dabash ha subito destato reazioni tanto animate quanto contrastanti. Per molti palestinesi di Gerusalemme esercitare il diritto dì voto alle prossime elezioni municipali è ancora un tabù, ma tanti altri sono dell'avviso che le cose debbono cambiare, e così la pensa anche quel 60 per cento di israeliani della città favorevole alla partecipazione politica dei palestinesi. Proprio lo stallo del processo dì pace e la crescente frustrazione con cui guardano all'inerzia dell'Autorità Palestinese potrà indurre le nuove generazioni di palestinesi di Gerusalemme a prendere l'iniziativa sul piano locale, prima dì tutto andando a votare.
   Dabash è fortemente motivato, sa che dovrà affrontare una strenua opposizione interna e per questo non ha aspettative troppo ambiziose. Ma il suo gesto è di per sé il segno non soltanto di un futuro cambiamento che sarà presumibilmente tanto lento quanto inevitabile, e che prima o poi trasformerà il volto della dirigenza gerosolimitana. E' prima di tutto la testimonianza di quanto Gerusalemme sia per davvero al centro del mondo, per lo meno del suo - di quel Medioriente che per sopravvivere alla propria storia non può che diventare una palestra di convivenza: perché se di qui è uscita la parola del Signore, come dice la Bibbia, di qui e non altrove potrà venire anche quella "parola" creativa in grado di offrire soluzioni politiche praticabili, in un delicato ma necessario equilibrio fra passato e futuro.

(La Stampa, 11 marzo 2018)


Scontri a Hebron

Un giovane palestinese è stato ucciso ieri durante scontri tra manifestanti e soldati israeliani a Hebron, in Cisgiordania. Lo hanno reso noto le autorità locali palestinesi. Secondo quanto riporta l'agenzia di stampa Wafa, Mohammad Zain Al Jabari, 24 anni, disabile, è rimasto ferito da colpi d'arma da fuoco esplosi dalle forze israeliane ed è poi morto in ospedale.
   L'esercito israeliano ha detto che il ragazzo colpito a morte aveva in mano una molotov. Lo ha riferito il portavoce militare israeliano, citato dal quotidiano «Haaretz». Durante gli incidenti a Hebron — ha precisato il portavoce militare — «verso i soldati sono state lanciate bottiglie incendiarie; i militari hanno sparato verso il sobillatore principale». In ogni caso, l'esercito ha riferito che è stata aperta un'inchiesta interna su quanto accaduto.
   Gli scontri a Hebron sono solo l'ultimo episodio di una grave escalation di violenze nella regione. Almeno trenta palestinesi sono morti durante gli scontri con i soldati israeliani dopo l'annuncio, il 6 dicembre, del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele da parte del presidente statunitense Donald Trump.

(L'Osservatore Romano, 11 marzo 2018)


La via al ghetto, così Elio Toaff torna a casa

di Gabriele Isman

Elio Toaff tornerà a casa. Il viale dedicato al rabbino storico della comunità ebraica romana, scomparso nel 2015,nascerà nel cuore del ghetto, tra via Catalana e via del Portico d'Ottavia, praticamente strada dove il Moreno - come gli ebrei romani chiamano affettuosamente il rabbino - visse fino alla fine. A deciderlo è stata la giunta Raggi, che in passato aveva avuto un contrasto sulla scelta toponomastica quando aveva indicato in un primo tempo una zona all'interno di Colle Oppio. «Area vicina a una sede fascista, indifendibile», aveva protestato la comunità. La sindaca peraltro voleva creare allo stesso tempo viale Toaff e viale Arafat, in una sorta di par condicio della toponomastica a Cinque stelle. Da lì ulteriore protesta della comunità fino al congelamento, l'estate scorsa, della delibera. Ora il dietrofront è completo, come la vittoria della comunità su tutta la linea. Dopo il passo indietro imposto dalla stessa Comunità romana al professore Fioramonti che in passato aveva sostenuto il boicottaggio anti Israele, i Cinque stelle di Luigi Di Maio corteggiano ancora gli ebrei romani e non solo.

(la Repubblica, 11 marzo 2018)



«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia»

Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro; oppure sarà fedele all'uno e disprezzerà l'altro; voi non potete servire a Dio e a mammona. Perciò io vi dico: Non siate con ansietà solleciti per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Osservate gli uccelli del cielo: essi non seminano non mietono e non raccolgono in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura un solo cubito? E perché siete in ansietà per il vestire? Considerate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico, che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera l'erba dei campi, che oggi è e domani è gettata nel forno, quanto più vestirà voi o uomini di poca fede? Non siate dunque in ansietà, dicendo: "Che mangeremo, o che berremo, o di che ci vestiremo? Poiché sono i gentili quelli che cercano tutte queste cose, il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque in ansietà del domani, perché il domani si prenderà cura di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 6

 


Fonti di stampa: incontri "segreti" al Cairo tra funzionari israeliani e sauditi

GERUSALEMME - Alti funzionari israeliani e sauditi si sarebbero incontrati in segreto al Cairo la scorsa settimana, in vista dell'annuncio del presidente statunitense, Donald Trump, del suo tanto atteso piano di pace in Medio Oriente. Lo riferisce la stampa internazionale. Un funzionario dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha dichiarato ieri, 9 marzo, al quotidiano del Golfo "Khaleej Times" che i funzionari egiziani stanno mediando nei colloqui. Secondo il rappresentante dell'Anp si tratta di "uno sviluppo significativo" nei legami che stanno lentamente avvicinando Gerusalemme e Riad. Inoltre, per il funzionario palestinese questo andamento sta minando l'autorità di Ramallah. "Le tiepide relazioni tra Israele e Arabia Saudita stanno danneggiando l'Autorità nazionale palestinese", ha detto. "Sembra che Israele non sia più il più grande nemico della regione", ha aggiunto.

(Agenzia Nova, 10 marzo 2018)


Liberman contro gli estremisti israeliani

Avigdor Liberman
«Israele è stato sequestrato dagli estremisti» con questa dichiarazione Avigdor Liberman ha innescato una polemica nuova nell'ambito politico israeliano.
Il nodo della controversia è la nuova legge sul servizio di leva, del quale il ministro della Difesa si sta facendo promotore e che i partiti ultra-ortodossi rifiutano.
Tale legge costringerebbe alla leva anche ambiti ultra-ortodossi finora esenti a motivo a del loro credo religioso. Una querelle non nuova in Israele, ma rinnovata dall'iniziativa di Liberman.
La dura opposizione degli ultra-ortodossi ha provocato l'inusuale dichiarazione di Liberman, che pure è figura forte della destra israeliana dei quali questi sono parte più che significativa.
Il ministro della Difesa è stato addirittura accusato di anti-semitismo. Scontro più che acceso, dunque, anche sul piano sociale.
Venerdì scorso, infatti, riporta Times of Israel, nel quartiere ultra-ortodosso di Mea Shearim, a Gerusalemme, nel corso di una manifestazione promossa da oppositori della legge, alcuni dei partecipanti hanno inscenato l'impiccagione di un'effige raffigurante un soldato dell'esercito israeliano, mentre un'altra immagine speculare è stata data parzialmente alle fiamme.
Un'iniziativa che Liberman voleva fosse condannata dai leader ultra-ortodossi, che invece hanno soprasseduto, come stigmatizzato successivamente dallo stesso..
Altre controversie ha acceso una manifestazione promossa dai seguaci di Rabbi Shmuel Auerbach (da poco scomparso), anche questa rivolta contro il disegno di legge, che ha visto scontri con la polizia in funzione anti-sommossa.

 La strategia politica di Liberman
  I partiti ultra-ortodossi hanno accusato Liberman di finalità politiche nascoste: ovvero cercherebbe di allargare i suoi consensi nell'ambito della destra israeliana.
Accusa alquanto fondata. È evidente che, in un momento di grande difficoltà per il premier Netanyahu (inseguito da inchieste giudiziarie serrate), Liberman stia tentando di proporsi come possibile futuro leader di tale area.
Mentre Netanyahu si trova in America in cerca di puntelli per il suo personale destino e di convergenze sul contrasto all'Iran, Liberman ha lanciato la sua personale Opa sulla destra. Una prospettiva forse velleitaria quella del ministro della Difesa, stante il suo scarso seguito politico.
Ma che cerca sponde in ambiti diversi: sta tentando infatti di virare al centro, come dimostra la polemica contro gli ultra-ortodossi; e cerca sponde nell'apparato di intelligence e militare, come segnala l'iniziativa legislativa in questione che gode appunto del favore di tali apparati.
Il dissidio sta creando difficoltà al governo. Già traballante a causa della nuova fragilità di Netanyahu. Potrebbe non reggere alla lacerazione. Da qui la volontà del premier, e di altri alleati di governo, di trovare un compromesso.
Ma al di là della politica intera, e della tante sfaccettature del caso, il particolare va segnalato come indice che il conflitto che abita nel profondo Israele tra le istanze proprie di alcuni movimenti religiosi e la laicità dello Stato non è affatto sedato, come apparso durante il lungo percorso politico di Netanyahu (una vera era in politica).
E che tale conflitto non abita solo la contrapposizione tra la destra e la sinistra politica, ma anche il composito e ampio ambito della destra. Ciò complica ancor più la già complessa politica israeliana, immettendo nel sistema variabili di imprevedibile sviluppo. Con riflessi sull'intera regione.

(piccolenote, 10 marzo 2018)


Giovani a Gerusalemme per promuovere l'imprenditoria giovanile italiana

Gli studenti italiani, grazie a Erasmus+, imparano modelli positivi e sostenibili. Giacomo D'Arrigo: "Israele è uno Stato all'avanguardia nel settore della social innovation e della nascita di imprese.

 
L'Agenzia Nazionale per i Giovani sarà a Gerusalemme dall'11 al 15 marzo nell'ambito della "Visita di studio con attività di costruzione di partenariati e di progettazione sullo spirito e l'educazione imprenditoriale per i giovani e la social innovation in Israele" organizzata in collaborazione con il Comune di Gerusalemme ed in partenariato con altre Agenzie Erasmus+ per il Capitolo Gioventù (Ungheria, Gran Bretagna e Danimarca).
   "Israele - sottolinea Giacomo D'Arrigo, direttore generale dell'Agenzia Nazionale per i Giovani - è uno Stato all'avanguardia nel settore della social innovation e della nascita di imprese e per noi è importante sviluppare e consolidare iniziative concrete che possano aiutare i giovani italiani, grazie a Erasmus+, a imparare modelli positivi e sostenibili. Il consolidamento della collaborazione con la municipalità di Gerusalemme è un'ulteriore testimonianza del riconoscimento internazionale per l'Agenzia e conferma la nostra leadership maturata in questi anni in politiche di integrazione, inclusione e occupazione nel Mediterraneo rivolte ai giovani under 30".
   "L'Agenzia - prosegue D'Arrigo - è capofila e leader dell'organizzazione di questa visita di studio, nata dalle frequenti e strette relazioni sviluppate da anni con i Paesi e organizzazioni dell'Europa del Sud, dell'area Mediterranea e del Medioriente; relazioni che hanno permesso di realizzare e sostenere già numerose iniziative e progetti che hanno permesso ad Ang di essere un punto di riferimento di primo livello per le attività e politiche che promuovono partecipazione e mobilità giovanile, nonché dialogo interculturale e la cooperazione transnazionale. " L'Agenzia si occupa infatti, nell'ambito di Erasmus +, anche di attività rivolte all'Area del Mediterraneo. In 10 anni di attività sono oltre 11.000 i giovani coinvolti in progetti con Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia con un investimento di oltre 17 milioni di euro. L'Agenzia ha inoltre favorito il processo di empowerment delle organizzazioni giovanili dell'area mediterranea supportando il loro accreditamento per potere organizzare progetti di Servizio Volontario Europeo.
   Il progetto in questione infatti si inserisce nella partnership strategica avviata nel 2013 con diverse altre Agenzie Erasmus+ in Europa, e vede l'Italia in prima fila e sede della tappa di avvio, altri appuntamenti si sono già realizzati in Svezia e Gran Bretagna, Paese che ospiterà anche il prossimo incontro a fine marzo.
   I partecipanti alla tre giorni sono 30, rappresentanti di organizzazioni e enti di diversi natura e status, provenienti da: Italia, Cipro, Danimarca, Ungheria, Portogallo, Spagna, Gran Bretagna, e appunto Israele.
   Il progetto si svolgerà dall'11 al 15 marzo presso l'Agron Guest House Hostel, con il supporto della Municipalità di Gerusalemme, e vedrà anche la presenza di ospiti e rappresentanti istituzionali: Giacomo D'Arrigo - Direttore Generale dell'Agenzia Nazionale per i Giovani; S.E. Gianluigi Benedetti - Ambasciatore italiano presso lo Stato di Israele; Francoise Kafri Direttore dell'Ufficio Relazioni e scambi internazionali e Ariela Rejwan - Direttore del Dipartimento per la Cultura e le attività sociali del Comune di Gerusalemme; Giuseppe Gualtieri - Coordinatore del Programma Erasmus+ capitolo Youth presso l'ANG; Ildikó Gulàcsi, rappresentante della Tempus Public Foundation - Agenzia Nazionale Ungherese responsabile per ERASMUS+ YOUTH; Sàndor Szelekovsky, responsabile del dipartimento economico e commerciale della Delegazione dell'Unione Europea presso lo Stato di Israele. Con quest'ultima istituzione è previsto un incontro presso la sede di Ramat Gan (Tel Aviv). Obiettivo dell'iniziativa è quello di fornire nuove competenze, supporto e ispirazione ai giovani, a chi lavora con i giovani e ai professionisti, al fine di scoprire cosa voglia dire fare imprenditoria sociale. In questa occasione ci sarà l'opportunità di visitare a Gerusalemme diverse imprese sociali e strutture che forniscono assistenza a tal fine.

(Gazzetta del Sud, 10 marzo 2018)


Palestina in cerca di un successore per Abu Mazen. In pole Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat

L'anziano leader è stanco e il suo stato di salute si sta aggravando. Avanzano le chance dell'ex ambasciatore all'Onu, promotore di una "intifada diplomatica"

di Umberto De Giovannangeli

Nasser al-Qudwa
C'è un Arafat nel futuro della Palestina. Un cognome pesante, pari all'eredità politica lasciata. Da tempo all'interno del campo palestinese è all'ordine del giorno la successione alla guida dell'Autorità Nazionale del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L'anziano leader (83 anni) è stanco, e il suo stato di salute si sta aggravando. Negli ultimi giorni di febbraio, il leader dell'Anp si è trattenuto negli Usa per una serie di accertamenti clinici. Il responso non è stato incoraggiante. Lo stress risulta sempre più insopportabile tanto che i medici gli avrebbero consigliato di ridurre drasticamente gli impegni e i viaggi.
  Lo stato di salute, oltre che l'età, di Abu Mazen fanno della scelta del suo successore un punto cruciale non più rinviabile a data da destinarsi. Perché, dice ad HP una fonte qualificata a Ramallah, "nei prossimi mesi saremo chiamati a scelte estremamente impegnative, di una valenza strategica, sotto ogni punto di vista". L'inaugurazione, forse con la presenza di Donald Trump, dell'ambasciata Usa a Gerusalemme (il 15 maggio, settantesimo anniversario della nascita dello Stato d'Israele) rappresenta, anche sul piano simbolico, uno spartiacque tra il prima e il dopo, e poi vi sono i rapporti da consolidare con i Paesi arabi, in particolare con le petromonarchie del Golfo, senza il cui sostegno finanziario, l'Anp rischia il default, il che significa decine di migliaia di funzionari senza stipendio, per non parlare dell'ulteriore peggioramento della già tragica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza.
  Per questo, i tempi della successione si accelerano. Il discorso non riguarda solo l'Autorità Palestinese, ma anche al-Fatah, il movimento fondato da Yasser Arafat e del quale Abu Mazen è formalmente il presidente. Ma la situazione rischia di esplodere in una contesa interna della quale a trarne vantaggio sarebbe Israele e, in campo palestinese, Hamas. La morte dichiarata degli Accordi di Washington, il sostegno incondizionato offerto dalla Casa Bianca all'inguaiato (per ragioni giudiziarie) primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, uno scollamento crescente tra la vecchia guardia e le nuove generazioni cresciute all'ombra del Muro in Cisgiordania e sotto embargo (11 anni) a Gaza, l'emergere di linee sempre più divaricate tra radicali e "moderati", impongono, spiega la fonte, un investimento più che una investitura per il dopo Abu Mazen.
  Sulla piazza non esistono leader carismatici, ma qualcuno che porta su di sé una storia non cancellata, a cui abbinare una esperienza internazionale consolidata e importanti appoggi interni, sì. E quel "qualcuno" risponde al nome di Nasser al-Qudwa, 55 anni, ex ambasciatore palestinese all'Onu e nipote del presidente scomparso. Nelle ultime settimane la sua candidatura ha superato quella dell'altro "papabile" alla presidenza dell'Anp: Mohamed Dahlan, l'ex uomo forte di Fatah a Gaza, sponsorizzato dagli Emirati Arabi Uniti, un passato nei servizi di intelligenze palestinesi. Ma Qudwa avanza non solo e tanto per il suo legame parentale con quello che resta comunque il simbolo della causa palestinese, Yasser Arafat, ma per l'esperienza maturata sul terreno che in questa fase, la dirigenza palestinese intende come centrale: quello diplomatico. Una esperienza maturata al Palazzo di Vetro e nei rapporti da lui tenuti con la Lega Araba.
  Lo strappo consumato da Trump su Gerusalemme brucia ancora, e dentro l'Autorità palestinese e in Fatah si rafforza l'ala più radicale, quella che reclama una rottura totale con gli Usa, ritenuti, sotto la presidenza Trump, controparte e non mediatori, accompagnando tutto questo con il ritorno indietro rispetto al riconoscimento di Israele, che Arafat impose all'Olp per aprire il negoziato che portò, nel settembre '93, agli Accordi di Washington, suggellati con la storica stretta di mano in mondovisione, sul prato della Casa Bianca, tra Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin (con Bill Clinton "benedicente").
  Qudwa si posiziona a metà strada tra radicali e moderati. Evoca una "intifada diplomatica" lasciandosi però una exit strategy. Il che significa congelare ogni relazione con Israele senza però arrivare a disconoscere lo Stato ebraico. Così anche con gli Stati Uniti: linea dura, sì, ma attenta a non rompere i ponti con figure ritenute più aperte nell'amministrazione Trump: tra queste, il segretario di Stato Rex Tillerson.
  Per il nipote di Arafat, l'"intifada diplomatica" significa usare ogni spazio, ogni organismo, ogni istituzione internazionale dentro la quale l'Anp opera o è rappresentata, per vedere riconosciuti i propri diritti e inchiodare Israele alle sue responsabilità o presunte tali. Altro capitolo ritenuto cruciale, in questa "intifada diplomatica" è quello del riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del '67 e con Gerusalemme Est come capitale.
  Per l'ex ambasciatore all'Onu, spiega ad HP un suo stretto collaboratore, non è oggi tanto un discorso di quantità ma di qualità. In altri termini: la priorità non è il numero dei Paesi che ci riconoscono, ma quanto essi pesino davvero sullo scacchiere mondiale. Un discorso che riguarda in particolare l'Europa. Nel suo recente viaggio a Bruxelles, Abu Mazen aveva chiesto ufficialmente a tutti i ministri degli Esteri dei Paesi Ue un atto che "andasse in direzione di una pace giusta, duratura, tra pari: il riconoscimento dello Stato di Palestina". Il seme è stato gettato, ma al momento il raccolto è deficitario: l'unico governo europeo che ha riconosciuto unilateralmente lo Stato palestinese resta quello della Svezia. "Occorre partire dai 25 Paesi dell'Ue che all'Assemblea generale delle Nazioni Unite si sono pronunciati contro la decisione americana su Gerusalemme", annota ancora la fonte.
  In Fatah, Qudwa ricopre attualmente il ruolo di responsabile della comunicazione, e questo gli permette di rafforzare i suoi rapporti con i media internazionali, a cominciare da quelli arabi. Sulla soluzione a due Stati, il nipote di Arafat ha più volte ribadito che respingerla "significa respingere il processo di pace" e ha sottolineato che qualunque alternativa provocherebbe "un confronto doloroso e sanguinoso, aggiungendo che l'abbandono della soluzione a due Stati non comporterà la scomparsa o l'indebolimento dell'idea palestinese per uno Stato indipendente e che quella soluzione a uno Stato unico dove tutti i cittadini avrebbero uguali diritti è " semplicemente senza senso e impossibile". Ma se Qudwa ha sorpassato Dahlan nella corsa alla successione è grazie soprattutto ad un endorsement di quelli che contano e tanto: il sostegno di Marwan Barghouti, segretario generale di Fatah in Cisgiordania, uomo simbolo della seconda Intifada, rinchiuso da anni in un carcere di massima sicurezza israeliano, dove sconta una condanna a cinque ergastoli. Barghouti è anche il referente politico dei 6.500 palestinesi detenuti in Israele (800mila dal 1967 sono passati per le carceri israeliane, non c'è famiglia palestinese che non ne abbia avuto uno). ). E nella società palestinese i "prigionieri" hanno una voce importante nelle scelte politiche e di lotta. Un viatico perché un Arafat torni alla Muqata.

(L'HuffPost, 10 marzo 2018)


Italia-Israele: una partnership all'insegna dell'industria aerospaziale

Si rafforza la collaborazione in campo militare delle comunicazioni e della cyber-security

di Luca D'Ammando

 
Alenia Aermacchi M-346 Lavi-Israel-Air Force
E' partito da Israele il piano di rilancio internazionale di Leonardo. Alessandro Profumo, l'amministratore delegato del grande gruppo italiano attivo nel campo della difesa, aerospazio e sicurezza, a gennaio ha incontrato a Tel Aviv i rappresentanti delle grandi aziende nazionali del settore. «Israele per noi è un partner di eccellenza: il Paese, le sue forze armate e le imprese giocano un ruolo chiave per Leonardo in molte aree differenti», ha spiegato Profumo. Lo Iai (Israel Aerospace Industries), il ministero della Difesa e le aziende Rafael ed Elbit Systems, rappresentano il vertice della collaborazione con Leonardo. Tra i punti centrali della partnership c'è l'M-346, l'aereo d'addestramento avanzato realizzato dall'azienda italiana, che Israele possiede in 30 esemplari ribattezzati "Lavi". Come ha spiegato un generale israeliano al Jerusalem Post, il «programma Lavi consente ai piloti di addestrarsi in condizioni che prima erano impensabili». D'altra parte lo stesso Profumo sottolinea come «se i piloti israeliani si dicono molto soddisfatti del nostro sistema, anche Leonardo impara moltissimo lavorando insieme a loro». Questo modello di velivolo, inoltre, è alla base del sistema T-100, la soluzione offerta da Leonardo per partecipare alla gara per il sistema di formazione dei piloti Usa, il T-X dell'Us Air Force. Il sistema T-X è quello con cui il Pentagono vuole sostituire lo storico aereo da training T-38 Talon, risalente agli anni Sessanta, con un biposto più moderno e tecnologico.
   Va ricordato inoltre che il comparto industriale d'Israele partecipa al sistema M-346 non solo per i velivoli in uso presso le Forze aeree italiane e israeliane, ma anche per quelli destinati all'export, ad esempio con il casco Targo (Helmet mounted display) utilizzato
dai piloti, che rende l'addestratore di Leonardo l'unico trainer sul mercato con questa dotazione innovativa.
   Ma i sistemi di addestramento M-346 sono solo una parte della partnership, che comprende anche il sistema di difesa Oto Melara e gli elicotteri, con un sistema di training per i piloti e la fornitura dei AW-119 alle forze armate. «In particolare con Rafael», ha sottolineato Profumo, «siamo al lavoro con la nostra società Usa Leonardo Drs», azienda considerata leader nella fornitura di prodotti, servizi e supporto logistico integrati per le Forze Armate, le agenzie d'intelligence e i prime contractor nel settore della Difesa a livello mondiale.
   Altro capitolo fondamentale della collaborazione tra Leonardo e le aziende israeliane è quello relativo allo spazio con il satellite OpSat3000 costruito a Tel Aviv e lanciato in orbita lo scorso agosto dal centro spaziale di Kourou, in Guyana francese: in questo caso Leonardo (attraverso Telespazio e Israel Aerospace Industries hanno lavorato fianco a fianco per il ministero della Difesa italiano, realizzando un sistema d'eccellenza che oggi è operativo. In via di sviluppo c'è poi la missione Shalom, per la quale il gruppo guidato da Profumo sta sviluppando uno strumento iperspettrale di ultima generazione dedicato all'osservazione della terra che fornirà a Italia e Israele dati fondamentali per la protezione dell'ambiente.
   Infine, a tutto questo si aggiunge la cyber-security, settore in cui Israele è leader, e tutto il campo dell'innovazione. «Su questo abbiamo incontrato gli esponenti dell'Israel Innovation Authority - ha fatto sapere Profumo - perché ci piacerebbe capire come lavorare con loro».

(Shalom, febbraio 2018)


La Francia non è più un paese per bambini ebrei. Boom di attacchi

Macron li rassicura, ma i numeri sono terrificanti

di Giulio Meotti

ROMA - Ha usato parole chiare e dure Emmanuel Macron. "La Francia non rinuncerà mai agli ebrei", ha detto il presidente al Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia. "L'antisemitismo è la vergogna della Francia, l'antisemitismo è l'opposto della Repubblica". Macron ha ricordato anche l'"omicidio spregevole" di Ilan Halimi nel 2006, "la prima volta che un ebreo è stato ucciso in Francia perché ebreo dalla Seconda guerra mondiale". E da allora, altri undici ebrei francesi sono stati uccisi dai terroristi islamici. Ha provato a rincuorarli Macron, ma gli ebrei francesi sono terrorizzati.
   Non passa settimana senza che si registri un grave attacco antisemita. Le ultime cifre ufficiali mostrano che la violenza antisemita è aumentata del 26 per cento in un anno. Soltanto nell'ultimo mese, a Sarcelles, periferia nord di Parigi, una ragazzina tornava da scuola indossando una collana con la stella di David quando un uomo l'ha sfregiata al volto; sempre a Sarcelles, un ragazzino di otto anni che indossava una kippah è stato preso a calci e pugni da due adolescenti; poi dell'acido è stato gettato nel passeggino di un bambino ebreo a Lione; infine, una settimana fa, un'altra aggressione fuori da una sinagoga ai danni di un ragazzo. Gli aggressori irrompono anche nelle case degli ebrei. Roger Pinto, che guida una organizzazione filoisraeliana in Francia, è stato rapinato e picchiato in casa. Sarah Halimi, un'anziana signora ebrea, è stata torturata nel suo appartamento di Parigi, infine gettata dal balcone. I graffiti sulle case degli ebrei avvertono i proprietari di "fuggire immediatamente" se vogliono vivere. Lettere anonime con proiettili vengono lasciate nelle cassette postali degli ebrei. La parola "ebreo" è dipinta su negozi e ristoranti ebraici. Nel terzo anniversario dell'attentato al supermercato kosher a Parigi, un altro negozio ebraico è stato bruciato e distrutto. Gli ebrei che possono lasciare il paese, se ne vanno. Chi non ha ancora deciso di andarsene, si trasferisce in quartieri più sicuri. La maggior parte delle partenze è frettolosa; molte famiglie vendono le case al di sotto del prezzo di mercato. Nel 2000, la comunità ebraica era stimata a 500 mila e il numero è oggi inferiore a 400 mila. Distretti ebraici rinomati sono oggi sull'orlo dell'estinzione.
   Molte sinagoghe di Senna-Saint-Denis, come quelle di Saint-Denis o Clichy-sousBois, sono chiuse per mancanza di persone. A Pierrefitte c'è stato un calo del 50 per cento di fedeli in tredici anni. Stessa cosa a Bondy, Nel 2000 c'erano ottocento fedeli a Yom Kippur, oggi sono 350. A Chelles, la sinagoga non riesce più a raggiungere il quorum di dieci persone per la preghiera. A La-Rainey, dove tante famiglie si sono trasferite, davanti alle sinagoghe la regola per i fedeli è di non indugiare. Niente scialli di preghiera. Le due telecamere che monitoravano il posto negli anni Ottanta sono diventate sei. La chiusura di una sinagoga isolata impone ai fedeli lunghe camminate per lo Shabbat. Così spesso si abbandona un quartiere. A La Courneuve, ad esempio, da 300 famiglie ebree nel 2000 sono passati a 80. A Tremblay-en-France o Aulnay, le comunità si stanno estinguendo e le sinagoghe sono deserte. L'Ufficio nazionale di vigilanza contro l'antisemitismo (Bnvca) dice ora che si è passati da 77 attacchi nel 2016 a 97 nel 2017. Le violenze contro i luoghi di culto ebraici sono aumentate del 22 per cento rispetto al 2016. Le aggressioni sui minori ebrei - spesso commesse da altri minorenni - sono aumentate del 40 per cento. La Francia non è più un paese per bambini ebrei.

(Il Foglio, 10 marzo 2018)


Israele e il tema della sicurezza informatica

"Gli italiani snobbano la sicurezza informatica". Allerta per le aziende: sanzioni fino al 4% del fatturato a chi non si adegua al GDPR. Intervista a Daniel Rozenek, modenese di origine israeliana a capo di Tekapp. Il futuro del mondo passa da Tel Aviv.

Daniel Rozenek
Daniel Rozenek è il Chief Executive Officer (CEO) di Tekapp, una delle aziende italiane più importanti nel settore della Cybersecurity. Questa impresa, con sede a Formigine (MO), non si occupa solamente di sicurezza informatica ma spazia dallo studio di soluzioni di networking avanzati alla realizzazione e alla messa in opera di reti. L'idea da cui nasce questa attività è quella di poter aiutare le piccole e le grandi imprese a migliorare la propria struttura informatica. Per poter fornire il miglior servizio possibile l'aggiornamento costante delle proprie conoscenze è fondamentale, infatti il Sig. Rozenek ha partecipato, insieme ad alcuni suoi collaboratori, a Cybertech di Tel Aviv in Israele ovvero una delle più grandi esposizioni in materia di sicurezza informatica al di fuori dei confini degli Stati Uniti.

- Salve Daniel Rozenek, potrebbe spiegarmi in cosa consiste il Cybertech?
  
Il Cybertech è la più grande esposizione worldwide, fuori dai confini americani, in materia di Cybersecurity. Questa mostra parte da Tel Aviv poiché Israele è Leader mondiale in sicurezza informatica. Farà tappa anche a Roma, dove saremo presenti anche noi dal 26 al 27 settembre. Detta in parole "semplici", in questa fiera le migliori aziende mondiali esponevano i propri prodotti e le proprie innovazioni riguardanti la Cybersecurity.

- Ma è una fiera "per tutti" oppure è un'esposizione di settore?
  
Diciamo che se non hai dimestichezza con la sicurezza informatica è di difficile comprensione. Non è una mostra con show pirotecnici o spettacoli, è un'esposizione di settore per le imprese di Cybersecurity.

- Quante aziende erano presenti in questa mostra?
  
In questa fiera erano presenti oltre 120 aziende mondiali provenienti da almeno 70 paesi. Inoltre ci sono stati più di 15.000 partecipanti oltre 160 delegazioni provenienti da 80 paesi, 170 speaker, 120 compagnie e 90 startup.

- Erano presenti anche aziende italiane?
  
No, o perlomeno molto poche e questo è un segnale molto importante da analizzare.

- In questa fiera è stato affascinato da qualche novità in particolare?
  
Novità non ne ho viste, ma parlare di questa fiera in questi termini mi sembra riduttivo. Il mondo della Cybersecurity è in continuo cambiamento. Gli attacchi hacker mutano di giorno in giorno e per poter proteggere i nostri clienti dobbiamo evolverci in continuazione. L'unica differenza che ho notato è che il Trend del 2018 ha spostato il proprio focus dai prodotti (o soluzioni) ai servizi dell'azienda.

- In che senso?
  
Le aziende oltre a farti vedere il prodotto che utilizzano per la sicurezza dei propri clienti, vendono il servizio che l'impresa offre a chi la sceglie. Spiego meglio; il mondo hacker è in continua evoluzione dunque un singolo prodotto non può prevenire tutti questi mutamenti, per questo motivo le aziende hanno deciso di investire di più sui servizi che propongono. I servizi possono essere automatismi, software automatici oppure hacker professionisti i quali controllano la rete informatica e prevengono gli attacchi.

- Dunque, parla di web analytics?
  
Esatto, web analytics applicata alla cybersecurity. Controllare tutto ciò che arriva dal web non più con un prodotto ma con un servizio fisico o software.

- Nel suo blog ha parlato di internet of things, di cosa si tratta?
  
L'Internet of things è l'internet delle cose, ovvero tutti quei dispositivi nati senza connessione web che con il tempo si sono evoluti e l'hanno integrata, come per esempio gli smartwatch.

- Anche a Cybertech si parlava di questo argomento?
  
Diciamo che si parlava della sicurezza di questi dispositivi. Per esempio, lo smartwatch che monitora la tua frequenza cardiaca mentre fai sport potrebbe essere hackerato, trasmettere i tuoi dati sensibili a degli sconosciuti e creare delle campagne pubblicitarie specifiche e fastidiose, oltre alla violazione della privacy. E' sempre meglio prevenire questi attacchi, anche ad oggetti che ti sembrano invulnerabili.

- Cambiamo discorso, perché non vi erano aziende italiane, secondo lei?
  
Le aziende italiane che fanno prodotti di cyber, fatti bene, sono davvero poche e non si "scomodano" ad andare fino a Tel Aviv (Leader mondiale del settore). Inoltre, era presente pochissimo pubblico italiano.

- Come mai la Cybersecurity è così "snobbata" in Italia?
  
In Italia manca la cultura della Cybersecurity. La sicurezza informatica per le nostre aziende è catalogata sotto "costi senza profitto" e di conseguenza non si investe in questo settore. Solo quando vengono hackerate capiscono l'importanza di proteggere i dati sensibili che hanno sul web, ma ormai è troppo tardi…

- Secondo lei, questa beata ignoranza è solo un malcostume italiano o c'è alle spalle qualcosa di più "oscuro"?
  
Penso sia solo un malcostume, non credo faccia comodo a nessuno. In questo settore l'Italia è una terra vergine dunque se uno vuole fare un po' di "numeri" questo è un settore in continua crescita. Questo atteggiamento nei confronti della Cybersecurity è la naturale conseguenza dell'atteggiamento che gli imprenditori hanno verso questa tipologia di protezione. Inoltre, in Italia il problema non è solo la sicurezza informatica ma proprio l'informatica in sé.

- In che senso l'informatica è un problema?
  
Per gli imprenditori tutto quello che ruota intorno all'informatica è un costo inutile, dunque tenta di risparmiare il più possibile da questo settore. Abbiamo una mentalità arretrata con oggetti avanzati. Quello che pochi tengono in considerazione è che l'IT(Information Technology) possa essere un grande business development ovvero quel mezzo che serve per fare affari e per crescere la mia azienda.

- L'informatica è snobbata perché se ne parla poco?
  
Si, assolutamente sì Durante l'ultima campagna elettorale nessuno ha parlato di informatica o di sicurezza informatica. Alcuni hanno parlato di portare la fibra ottica in tutte le grandi città, senza tener conto che nella maggior parte degli stati europei questo "comfort" esiste già. Ti faccio un esempio, hai mai sentito parlare di GDPR?

- No…
  
Il GDPR è una normativa europea che obbliga le aziende a munirsi di dispositivi o servizi di sicurezza dei dati sensibili. Nessuna azienda reggiana si è attivata per sopperire alle proprie mancanze sotto questo aspetto senza tenere conto che dal 25 maggio inizieranno le sanzioni europee per chi non è conforme a questa normativa. Il GDPR, per chi non si adegua, porterà a multe che varieranno dal 4% del fatturato annuo precedente fino a 20 milioni di euro, in base alla cifra più alta.

- E le aziende sono ancora in tempo per "salvarsi"?
  
Partendo dal fatto che non si possono chiedere proroghe poiché è una normativa europea, diciamo di sì. Per le aziende medio-piccole la messa in sicurezza dei dispositivi richiede poco tempo, per le grandi imprese le tempistiche si dilatano fino ad arrivare ai 3/4 mesi. La disinformazione rischia di costare caro alle aziende.

- Sono finite qui le brutte notizie?
  
No, dal 1o gennaio 2019 entrerà in vigore la fatturazione elettronica obbligatoria e ben pochi lo conoscono. Nessuno informa le aziende e le aziende non si informano. Per le piccole imprese è un problema minore, per le grandi aziende invece è un'incognita abbastanza difficile da "sbrigare in pochi minuti". E per oggi le brutte notizie sono finite (ride ndr).

- Ottimo, cambiamo discorso. Da dove nasce l'idea fondatrice di Tekapp?
  
Essendo per metà israeliano sono sempre stato a contatto con la Cybersecurity e ho deciso di provare ad aprire questa azienda qua in Italia, poiché è un terreno ancora vergine. Oltretutto ho uno spiccato senso degli affari. A parte gli scherzi, arrivare per primo in un settore ti permette di essere "per sempre" un leader in materia e di lasciare qualcosa nella storia di questo paese (con le dovute cautele).

- Come ultima domanda non posso che chiederle come sarà, per lei, questo settore fra 10 anni?
  
Gli attacchi hacker saranno sempre più forti e frequenti. Però sono abbastanza fiducioso che tra qualche anno in questo paese ci sarà finalmente un cambiamento di "trattamento" nei confronti dell'informatica, a causa del passaggio generazionale. Ti lascio con una domanda, come saranno i giovani in futuro?

(Sassuolo 2000, 9 marzo 2018)


Svastiche a Isola sulla targa della staffetta partigiana

La lettera della nipote di Dina Cambi Fioravanti

Le svastiche sulla targa intitolata a Dina Cambi Fioravanti
"Ormai frequento poco Isola, piccola frazione del Comune di San Miniato dove i miei nonni paterni hanno vissuto dagli anni '50 fino alla morte, e dove mio padre è cresciuto.
   Non ho molti ricordi di mia nonna, è morta quando avevo sei anni in seguito a una brutta malattia. Mi ricordo però quando mi portava a far l'erba per gli animali, il muso del maiale quando gli buttavamo da mangiare, i conigli nelle loro gabbiette. Ricordo quando rimanevo a dormire da lei e dormivamo nello stesso letto, l'armadietto col borotalco, lei che sgranava il rosario, al buio, mentre provavo ad addormentarmi mentre le fronde dell'albero sull'aia facevano un'ombra alla finestra che pensavo fosse quella dell'omo nero.
   Della sua vita, ho scoperto tutto crescendo. Durante la guerra fu staffetta partigiana, nel dopoguerra si spese e batté per i diritti dei lavoratori e dei contadini, per i diritti delle donne. Fu tra le prime donne elette nel Consiglio Comunale di San Miniato, in quota PCI. In camera, ho sempre avuto la foto di lei che stringeva la mano a Togliatti. Ho scoperto che quel rosario lo ha sgranato tutta la vita in memoria della suocera, fervente cattolica, la mia bisnonna che morì di infarto qualche giorno dopo aver sentito il prete, dal pulpito, scomunicargli tutti e quattro i figli perché comunisti.
   L'impegno di mia nonna è sempre stato conosciuto e riconosciuto, sia dai paesani che dall'amministrazione comunale, che nell'ottobre del 2014 ha deciso di intitolarle una piazza proprio nella sua Isola.
   Dicevo, all'inizio, che ormai frequento poco Isola. Una delle poche occasioni in cui negli ultimi anni sono lì è proprio la sera dell'8 marzo, quando il Circolo di paese organizza una cena in occasione della giornata internazionale della donna. Durante la cena, ho rivisto alcune delle foto di mia nonna lì appese (quella con Togliatti, una di lei che guida il trattore durante una manifestazione, con lo sfondo rosso di uno striscione, quel sorriso così uguale a quello del mio babbo e forse anche al mio). Mi son fermata a parlare con donne che in me riconoscono lei e alle quali fa piacere ricordare quando aiutavano mia nonna nella raccolta di firme o per questa o quella iniziativa.
   Ero arrivata di corsa, ero in ritardo, ho parcheggiato a pochi passi da quella targa senza guardarla. Al ritorno no, mi son fermata a salutarla, ed è stato lì che ho visto quelle svastiche. La targa è alta, bisogna arrampicarsi su una piccola ringhiera che dà proprio sulla strada principale per arrivarci. Abbiamo controllato, sono state incise nel marmo.
   Sono tornata subito al circolo, a parlarne col presidente, che ha sempre tenuto a mantenere vivo il ricordo di mia nonna. Non sapeva niente, non le aveva viste. Qualche timida voce ha fatto presente che è già da un po' che sono lì, quelle tre svastiche (la terza si vede a malapena, è appena accennata).
   Perché scrivo tutto questo? Per dire che più ci penso, meno quelle svastiche mi appaiono come una possibile "ragazzata". Sarebbero potute essere su un muro, eppure son proprio lì, a fianco del suo nome, a infamarne la memoria. Scrivo anche e soprattutto perché, oltre al gesto, mi ha colpito profondamente come siano molto visibili, come in effetti qualcuno le avesse viste ma nessuno avesse detto niente. Perché questa settimana è morto un uomo senegalese a pochi chilometri da qui, ucciso perché la sua vita valeva meno di quella di altri, e nonostante questo si continua a minimizzare, quasi a lasciar correre (in un caso come nell'altro). Non ci possiamo (più) permettere il lusso dell'indifferenza.
   Se davvero crediamo in una società antifascista, dove non vi sia discriminazione, dove non vi sia violenza, dove non possa tornare il fascismo sotto nessuna delle sue mille sfaccettature, dobbiamo immediatamente iniziare a non tralasciare niente, ad aver cura del nostro passato e del nostro presente. Aver cura significa essere presenti, essere partecipi di tutto ciò che ci circonda. Non cedere un millimetro di spazio. Se invece in quei valori non ci crediamo profondamente, magari ci crediamo solo di facciata, non dobbiamo che continuare sulla strada che ormai da anni abbiamo intrapreso. Tra non molto, temo, non saremo nemmeno più costretti a fingere.
   Ringrazio l'amministrazione di San Miniato, che decise di intitolare a mia nonna quella piazza, ed in particolare il sindaco, che non appena avvisato di quanto accaduto, si è immediatamente impegnato nell'affrontare la situazione. Per questo, a breve, la targa sarà probabilmente rimossa in modo da poter cancellare quell'onta".
Giulia Fioravanti

(#gonews.it, 9 marzo 2018)


Dopo Tel Aviv la Jerusalem Marathon con 25 mila atleti al via

Dalla Knesset alla Città Vecchia: tremila anni di storia hanno accompagnato i 25mila atleti che hanno partecipato a una delle gare più affascianti del mondo, la maratona di Gerusalemme.

Dopo Tel Aviv (23 febbraio) il 9 marzo si è svolta la seconda grande maratona d'Israele: la Jerusalem winner marathon. Oltre 25 mila gli atleti che si sono presentati sulla linea di partenza divisi sulle quattro distanze previste: la 42,2 km, la mezza maratona (21,1 km) la 10 km e la 5 km.

 Il fascino
  La caratteristica di questa maratona è il fascino: il tracciato infatti attraversa siti storici unici al mondo che uniscono il moderno a vestigia antiche che risalgono fino a 3000 anni fa. Quindi si passa dalla Knesset, il parlamento di Israele, al mercato Mahanè Yehuda, al Monte Scopus, alla Città Vecchia, alla Torre di Davide fino alla passeggiata Armon Hanatziv .

(Corriere della Sera, 10 marzo 2018)


Nell'ospedale di Haifa una donna siriana salva la sua vita e quella del suo bambino

Una donna siriana e il suo neonato sono entrambi vivi grazie ai medici del Rambam Medical Center di Haifa. La donna è tornata mercoledì alla sua casa in Siria dopo essere stata ricoverata per due settimane nell'ospedale israeliano a causa di una complicanza che l'avrebbe costretta a scegliere tra la propria vita e quella del suo bambino. I medici in Israele sono invece riusciti a eseguire due complessi interventi chirurgici che hanno salvato entrambi. Lo scorso febbraio, in base ai test ecografici un medico siriano aveva detto alla donna, al nono mese di gravidanza, che non avrebbe avuto altra scelta a causa di complicazioni della placenta dovute a precedenti cesarei, e che solo in un ospedale molto moderno avrebbero potuto risolvere le cose. La donna a quel punto decise di provare ad attraversare il confine con Israele. Oggi sia lei che il neonato sono in buone condizioni.

(israele.net, 9 marzo 2018)


In Israele i barbagianni fanno le colombe

I rapaci diventano messaggeri di pace: nell'83 un kibbutz ne utilizzò 15 contro i roditori nei campi. L'esperimento è riuscito. E ne è nato un progetto a cui collaborano giordani e palestinesi.

di Martina Saporiti

 
                                                    Yossi Leshem                                                                                                 Alexandre Roulin
 
Un palestinese e un arabo-israeliano durante un seminario organizzato da Israel Ornithology Center
 
Contadino giordano
La mia visione della pace in Medio Oriente è fatta anche di uccelli che uniscono le persone». Yossi Leshem è un ornitologo israeliano e coltiva un sogno ecologico di riconciliazione. Nel 1983 scelse un kibbutz, una di quelle comunità agricole del suo Paese dove la proprietà delle terre è collettiva, per avviare un progetto di lotta biologica alla piaga numero uno dei raccolti, i roditori. L'idea di Leshem, docente di zoologia dell'Università di Tel Aviv, era combattere la battaglia nei campi senza ricorrere ai pesticidi: approfittando del regalo ricevuto dallo zoo universitario, quindici esemplari di barbagianni (Tyto alba), montò nei campi nidi artificiali per "convincere" i rapaci a mettere su casa e fare il loro mestiere di predatori.
   Il progetto fu un successo e da allora centinaia di agricoltori si sono persuasi che i barbagianni sono alleati migliori (e meno costosi) dei pesticidi per tenere i roditori lontani dalle coltivazioni.
   Oggi i nidi installati nei kibbutz israeliani sono quattromila e l'impiego degli antiparassitari è diminuito dell'80-90 per cento. Una conquista per la salute e per l'ambiente: i pesticidi si infiltrano nel terreno inquinando le falde acquifere e avvelenano gli animali che mangiano i roditori uccisi, anzitutto gli uccelli che ogni anno attraversano a milioni il Medio Oriente seguendo le rotte migratorie tra Europa e Asia. «In Israele migliaia di uccelli sono morti avvelenati. ecco perché ho pensato che i barbagianni potessero essere un'alternativa vincente».
   Stiamo parlando di formidabili predatori: sono rapaci molto silenziosi grazie a una struttura alare che attenua il rumore provocato dall'attrito con l'aria; possiedono una visione stereoscopica e pupille iperdilatabili che permettono loro di valutare con precisione posizione e distanza delle prede anche di notte; hanno un udito venti volte più fine di quello umano e zampe robuste dotate di artigli dalla presa d'acciaio. Soprattutto, aggiunge Leshem, «si trovano a loro agio con gli uomini: se non vengono minacciati. frequentano sia le aree urbane sia quelle agricole. E hanno un appetito insaziabile: ogni famiglia di barbagianni può mangiare tra i duemila e i seimila roditori l'anno».
   Le idee viaggiano oltre confine e non c'è check-point che possa fermare il volo degli uccelli. A pochi anni. dall'inizio del progetto, Leshem si accorse così che le nuove generazioni di barbagianni nate in Israele iniziavano a spostarsi in Giordania e nei Territori palestinesi con il rischio di finire ancora una volta avvelenate dai pesticidi. Il problema si trasformò in un'opportunità grazie all'incontro con Abu Rashid, un ex generale dell'esercito giordano, tra gli artefici della pace del 1994 con Israele. Rashid, affascinato dal progetto, iniziò a fare proseliti tra i contadini arabi e Leshem capì che i barbagianni potevano diventare ambasciatori di pace. Non senza qualche iniziale difficoltà: «Per alcuni musulmani (ma lo stesso vale in altre culture) i barbagianni sono portatori di malaugurio. E poi questi rapaci spaventano le persone perché volano di notte come fantasmi».
   Ma i pregiudizi sono stati superati e il progetto sperimentato in un piccolo kibbutz è diventato un programma di cooperazione transfrontaliera che ha unito agricoltori, ricercatori, organizzazioni governative e senza scopo di lucro di Israele, Giordania e Territori palestinesi. Nulla però sarebbe stato possibile senza la Svizzera. partner del progetto dal 2009. «Il mio Paese ha un ruolo neutrale di mediazione e si impegna a ottenere i finanziamenti necessari per portare avanti il lavoro sul campo e organizzare i progetti di educazione nelle scuole. nonché i meeting per far incontrare le diverse comunità» ci dice Alexandre Roulin, dell'Università di Losanna, un super-esperto di barbagianni, che li studia da quasi trent'anni.
   Oggi anche la Giordania e i Territori palestinesi hanno i loro nidi, 520 in tutto, e gli agricoltori che hanno scommesso sui rapaci hanno visto incrementare la loro produzione del 20 per cento. Per Roulin il progetto è anche un'opportunità di ricerca. «Ho scoperto che i piccoli barbagianni negoziano vocalmente per il cibo invece di farsi la guerra, il che "' è piuttosto inusuale per un predatore. Inoltre, altro comportamento bizzarro per un rapace, si nutrono gli uni con gli altri e si lisciano le piume a vicenda».
   Inoltre le osservazioni banno consentito a Roulin di elaborare una teoria secondo cui il colore bianco della pancia dei barbagianni (Tyto alba significa appunto "gufo bianco") fa crescere le chance di successo nella caccia. I roditori, spaventati dal bagliore riflesso dalle loro piume (particolarmente intenso nelle notti di luna piena). si immobilizzano facilitando il loro lavoro.
   Lo scorso gennaio i ricercatori si sono incontrati in Giordania per discutere della possibilità di esportare il progetto barbagianni anche in Marocco. Grecia e Cipro. Intanto si godono i risultati del lavoro. «La nostra è una storia simbolica che per una volta non parla di guerra in Medio Oriente» sottolinea Roulin. «Abbiamo creato un progetto di pace e salvaguardia dell'ambiente estraneo alla politica, ma capace di riunire persone diverse attorno allo stesso tavolo per risolvere un problema nell'interesse di tutti».

(la Repubblica - il venerdì, 9 marzo 2018)


Quegli strani cristiani sionisti amici degli ebrei

Originale saggio di Elia Baccara edito da Giuntina

di Paola Abbina

In opposizione al tradizionale storico antigiudaismo della Chiesa, sono esistiti piccoli gruppi che difendevano il messaggio dell'ebraismo. Lo racconta il saggio "Sionisti Cristiani in Europa" (Elia Baccara, Sionisti Cristiani in Europa, Giuntina, 2017, pagg. 228, € 16), è un libro e una bella scommessa. Perché parlare di Sionisti Cristiani? Spiega Marco Morselli nella prefazione che "nella lunga storia dell'antigiudaismo cristiano - che non si è ancora conclusa - ci sono delle eccezioni" e queste eccezioni sono proprio quelle tendenze cristiane del passato "che vedono nel ritorno degli ebrei a Sion un compimento delle profezie, anche se molto spesso considerano tale ritorno come primo passo verso la conversione".
   E Elia Baccara ha individuato in questo libro quei cristiani e quelle correnti di pensiero "non conformiste" del passato che hanno maturato un atteggiamento fraterno nei confronti degli ebrei, auspicandone il ritorno nella propria patria.
   È con l'obiettivo di comprendere di quale natura fosse il favore accordato da parte di questi "sionisti cristiani" al ritorno degli ebrei nella loro terra, quali le cause e i fini che Baccara inizia un lungo viaggio che, nell'arco di circa tre secoli, tocca alcune delle principali città europee come Parigi, Lisbona, e Londra per finire nel sud Italia. Il libro inizia con Jean Racine, un drammaturgo francese autore di una pièce de théàtre dedicata a Esther. L'analisi di Baccara è attenta e meticolosa sia nel rintracciare le fonti di Racine basate su testi midrashici oltre che sulla Vulgata e sulla traduzione dei Settanta sia nel portare alla luce una libera interpretazione del drammaturgo che avrebbe dipinto la figura di Assuero come sionista ante litteram per aver incoraggiato il ritorno degli ebrei in Israele.
   Il viaggio continua in Portogallo, con Antonio Vieira che nel 1646 propose al Re di sospendere le persecuzioni del Tribunale dell'Inquisizione nei confronti dei marrani, prosegue in Francia con l'Émile di Rousseau, che auspicava uno Stato libero per gli ebrei con scuole e università, passa in Inghilterra e ci illumina sulla figura del Lord Cromwell e sui Nonconformisti, tra cui i Sabbatariani, i Battisti, i Congregazionisti e i Presbiteriani che si presentavano come vicini alla sensibilità ebraica. Baccara non tralascia niente e passa a parlare della scrittrice inglese George Eliot, che l'autore definisce come "la più moderna dei sionisti inglesi" e "precoce discreta annunciatrice di un prossimo Stato ebraico".
   Non potevano mancare pagine dedicate a Balfour e a Theodor Herzl, ma soprattutto a William Hechler che Herzl incontrò a Vienna dove era cappellano. William Hechler divenne suo amico e compagno di ideali da quando per caso si era trovato a leggere Der Judenstaat, fino alla morte di Herzl.
   Il viaggio di Baccara si conclude in Calabria. con Benedetto Musolino, patriota e politico del Risorgimento. Nel 1851 Musolino compose una lunga opera in cui proponeva uno stato ebraico, garantito dall'Inghilterra e parte dell'Impero Ottomano considerando che la Palestina era strategicamente importante in quanto punto di arrivo di importanti traffici commerciali.
   A conclusione del libro non può mancare un accenno all'attualità: "In fin dei conti, afferma Baccara, il nazionalismo arabo è il più recente tra i nazionalismi ed è naturale che nel XIX secolo non se ne parlasse".
   L'autore, partendo dal dato di fatto che oggi la terra è abitata da due popoli, non può che concludere con la speranza di arrivare alla pace.

(Shalom, febbraio 2018)


Polonia, la purga del '68. L'antisemitismo e la storia che si ripete.

L'autore di questo articolo è uno dei massimi intellettuali del centroest europeo. Il testo che segue è il discorso che ha pronunciato ieri a Varsavia allo storico raduno organizzato mezzo secolo dopo la purga antisemita.

di Adam Michnik

 
Adam Michnik
Cinquant'anni fa nessuno si aspettava che qui in Polonia un'intera generazione dicesse no al partito comunista. Ma quel potere reagì violando le sue stesse leggi e distrusse la cultura nazionale con la purga antisemita. Sentimmo sulla nostra pelle che non potevi nemmeno manifestare contro violazioni della legge da parte delle autorità. Io organizzai dimostrazioni e finii in prigione per un anno e mezzo. La campagna antisemita mi colpi cosi. Mi sbatterono in prigione quindi non fui espulso dalla Polonia. Sono uno storico e studiai quanto era successo con quella purga. Lessi i giornali di quel marzo '68 e la stampa cecoslovacca dello stesso periodo, i mesi della Primavera. Fu illuminante scoprire linguaggi cosi diversi in due paesi vicini. I cecoslovacchi stavano assaggiando la libertà, noi con la purga piombammo nel buio del fango e dell'abominazione. Eppure non lasciai la Polonia: sarebbe stato un tradimento ingrato. Mi dissi che dovevo restare fino a vedere la fine del regime comunista. E ci riuscimmo. Oggi non sento parlare nessuno di quelli che allora ci insultavano come cattivi polacchi o falsi polacchi. Sono scomparsi. Mezzo secolo dopo spero che finirà cosi anche con chi oggi usa linguaggi antisemiti. Allora era un linguaggio disgustoso, ma allora nessuno parlava dei campi né usava il termine "feccia" come invece si fa oggi. Stereotipi stabili si sono radicati. La situazione ora è completamente differente, eppure viviamo la mutazione della purga del marzo '68. Certo, in un'altra situazione politica. Non c'è la dittatura di un partito unico, ma alcuni stereotipi mentali sono divenuti molto forti. L'ultimo scandalo sulla legge sulla Shoah mostra che noi allora lottavamo per il meglio e invece ancora oggi come allora l'abitudine si ripete. Non era intenzione del partito di governo attuale, del presidente o del leader della maggioranza Jaroslaw Kaczynski, far esplodere un simile conflitto con comunità ebraiche, Usa, Israele. Eppure è successo. Ora, comunque, hanno scatenato lo scandalo antisemita 50 anni dopo, e non possono fermarlo altrimenti il loro partito si spaccherebbe. Sono diventati ostaggi del loro elettorato radicalmente antisemita e Kaczynski non sa ammettere di potersi sbagliare.
   Oggi, quando il premier Morawiecki dice che i polacchi non vanno biasimati per la purga del '68 ma solo i comunisti, egli mente. È un modo di pensare sovietico, come dire che il bolscevismo non era russo ma solo ebreo. Recentemente sono stato a Budapest, mi hanno chiesto chi sia peggio, se Orban o Kaczynski. Ho risposto che non lo so, ma che penso che tra i due il più stupido non sia Orbàn. Non sarebbe mai capace di gettare il paese in una simile crisi come quella aperta dalla legge sulla Shoah 50 anni dopo la purga antisemita dei comunisti.
   Il presidente Duda e il premier Morawiecki hanno espresso simpatia per me e per le altre vittime della purga e della repressione del marzo '68. Alla tv polacca mi hanno chiesto cosa ne penso. Ho risposto: non basta lodare qualcuno che ha avuto un ruolo ieri, bisogna augurarsi che presidente e premier abbiano il coraggio di opporsi a Kaczynski come 50 anni fa noi repressi, perseguitati, alcuni di noi espulsi, avemmo il coraggio di opporci al regime di Gomulka.

(la Repubblica, 9 marzo 2018)


L'Ambasciata Usa di Gerusalemme su una striscia di "terra contesa''

di Giordano Stabile

Il terreno scelto per la sede dell'ambasciata americana a Gerusalemme rischia di gettare altra benzina sul fuoco nel conflitto fra Israele e i palestinesi. La sede provvisoria sarà nell'attuale consolato, nel quartiere di Arnona, vicino alla Linea Verde che fino al 1967 divideva in due la Città Santa. Il New York Times ha però scoperto che il consolato sarà ampliato, per poter svolgere tutte le funzioni di una vera ambasciata, e parte del terreno per le nuove costruzioni ricade sulla No Man's Land, la terra di nessuno che separava fino a cinquant'anni fa i territori controllati da Israele e dalla Giordania.
La terra di nessuno si era creata dopo il conflitto del 1948-49 ed era rimasta disabitata finché nella Guerra dei sei giorni del 1967 Israele ne ha conquistato il controllo. Gerusalemme è stata poi unificata e annessa dallo Stato ebraico nella sua interezza, ma per l'Onu quello spicchio di città continua a far parte dei territori occupati, dove la sovranità israeliana non è riconosciuta a livello internazionale.
Washington ha ribattuto che il sito provvisorio dell'ambasciata ad Arnona «è stato ininterrottamente in uso da Israele dal 1949», tanto che «oggi è un quartiere misto residenziale commerciale». Per i palestinesi però la No Man's Land «è un territorio occupato» come ha ribadito Ashraf Khatib, del dipartimento per i negoziati dell'Olp, e quindi qualsiasi status permanente dovrebbe essere deciso in un negoziato».
L'inaugurazione dell'ambasciata è prevista per il 14 maggio, ottantesimo anniversario della fondazione di Israele. Potrebbe esserci anche il presidente americano Donald Trump, che ha fatto del riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico una delle sue bandiere nella politica estera. Ma il pezzo di "terra di nessuno" contesa potrebbe guastare la festa.

(La Stampa, 9 marzo 2018)


Forse adesso Trump sarà costretto a dire qual è la parte di Gerusalemme che lui riconosce come capitale di Israele. Per ora quello che ha fatto è soltanto un gesto, che deve ancora essere riempito di significato reale. Se ne dovesse discendere che per Trump la vera capitale di Israele è mezza Gerusalemme, il suo intervento risulterebbe essere più grave delle peggiori sentenze anti-israeliane dell'ONU. M.C


Da Israele alla moda, Bin Salman smantella altri divieti in Arabia Saudita

Il sovranismo per davvero dell'erede al trono

di Daniele Raineri

Mohammed Bin Salman
ROMA - Non è ancora chiaro il giudizio che si può dare del principe ereditario al trono saudita, Mohammed bin Salman, ma è già chiaro che sotto di lui il regno sta cambiando faccia a una velocità che era difficile da immaginare fino a pochi mesi fa. Bin Salman sta smantellando i pilastri della vecchia Arabia Saudita come la conoscevamo e se dal medio oriente non arrivassero in continuazione notizie di guerra che catturano di più l'attenzione questa sarebbe la storia araba dell'anno. Lunedì il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha confermato che la compagnia aerea indiana Air India ha fatto un accordo con i sauditi e dal 22 marzo potrà volare attraverso il loro spazio aereo per raggiungere Israele - e questo mette fine a un divieto di sorvolo che durava da settant'anni. I sauditi avevano proibito alle compagnie aeree dirette verso Israele di passare sopra la penisola araba come parte dello stesso pacchetto punitivo che include l'azzeramento delle relazioni diplomatiche. Il risultato è che-tra queste rappresaglie diplomatiche e le zone di guerra - i voli che devono attraversare il medio oriente sono costretti a compiere lunghi giri. Ora il divieto comincia a cadere. Air India dice che così il volo sarà più corto di due ore mentre la compagnia di bandiera israeliana, la El Al, protesta perché è fuori dall'accordo e quindi i suoi voli non potranno sfruttare la nuova rotta più corta (disgelo sì, ma era difficile che il passo fosse compiuto tutto in una volta).
   Dal primo giorno di aprile, pochi giorni dopo il 22 marzo, sarà possibile atterrare in Arabia Saudita con un visto turistico che varrà trenta giorni e sarà valido anche per le donne straniere di più di venticinque anni non accompagnate. Il regno era tradizionalmente chiuso e difficile da visitare se non per i pellegrini musulmani o gli uomini d'affari. Il nuovo visto turistico invece fa parte di un piano per portare entro il 2030 almeno trenta milioni di turisti all'anno in Arabia Saudita - che come ordine di grandezza è più o meno il numero che passa per Roma.Negli anni Ottanta il paese aveva tentato di aprirsi un poco ai turisti, ma obbligava tutte le donne a essere accompagnate dal marito oppure da un fratello secondo l'uso musulmano del mahram, il familiare che deve scortare una donna in viaggio e non lasciarla mai sola. Ora anche quest'obbligo cade dopo che altri divieti contro le donne sono già stati aboliti nei mesi scorsi, come per esempio il divieto di guidare che termina ufficialmente a giugno oppure quello di accedere agli stadi che è già finito. Se si aggiunge che la polizia religiosa saudita dall'anno scorso non può più effettuare arresti in flagranza nelle strade, ma soltanto far notare le violazioni della sharia, si ha la percezione della rivoluzione di costume in corso - e senza che la temuta fazione dei predicatori religiosi ultraconservatori abbia per adesso osato alzare la voce.
   Oltre a spazio aereo, turismo e divieti contro le donne un altro pilastro tradizionale dell'Arabia Saudita che sta svanendo è quello della resistenza al divertimento dentro i confini nazionali. L'uso vuole che i sauditi vadano a distrarsi altrove, per esempio nelle città-stato del Golfo come Dubai oppure a Beirut, e che in casa si comportino secondo canoni più rigidi e quieti. Ma alla fine di febbraio il governo ha annunciato che nel giro dei prossimi dieci anni intende investire 64 milioni di dollari in infrastrutture dedicate al tempo libero, come per esempio un teatro dell'opera (del resto i trenta milioni di turisti qualcosa dovranno pur fare) e che per l'anno prossimo sono in programma cinquemila eventi come concerti e festival del fumetto. Questa campagna, che per ora è rivolta ai sauditi ed è chiamata "Non viaggiare" (s'intende all'estero per divertimento) sta già funzionando così bene che gli impresari osservano un'inversione di flusso: da fuori vengono a vedere cosa succede in Arabia Saudita. Tra le altre cose, nell'ultima settimana di marzo ci sarà la prima settimana della moda saudita. E questo appetito per moda e musica potrebbe spiegare perché due settimane fa il fondo pubblico di investimento saudita ha comprato con duecento milioni di dollari in contanti una quota dell'americana Penske Media Corp, che controlla Women's Wear Daily, Variety e Rolling Stone, tre magazine molto forti in questi settori.

(Il Foglio, 9 marzo 2018)


Bennet: "Mi candiderò come premier se Netanyahu uscirà di scena"

ROMA - Ministro dell’Istruzione di Israele: "Mi candiderò come premier se Netanyahu uscirà di scena" - Il ministro dell'Istruzione israeliano, Naftali Bennett, si candiderà per ricoprire la carica di primo ministro se l'attuale premier, Benjamin Netanyahu, dovesse uscire di scena. Lo ha dichiarato oggi lo stesso leader del partito Bayit Yehudi (Casa ebraica) nel corso di un'intervista all'emittente radiofonica dell'Esercito. "Non ho intenzione di estromettere Netanyahu, ma se uscirà di scena, mi candiderò come premier", ha affermato Bennett. Il ministro dell'Istruzione ha aggiunto: "Se Netanyahu decide di voler andare alle elezioni, ci saranno le elezioni". Al contrario, ha spiegato Bennett "se Netanyahu vuole la stabilità, il governo attuale resterà in carica". Le dichiarazioni del ministro giungono in un momento di tensione politica nello Stato ebraico. Da un lato, infatti, Netanyahu, è coinvolto in almeno tre presunti casi di corruzione. Dall'altro, l'approvazione di una legge che esonererebbe gli ultraortodossi a non svolgere il servizio militare potrebbe mettere in pericolo la maggioranza. A tal proposito, infatti, il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha minacciato di lasciare la maggioranza se verrà approvata la legge.

(Agenzia Nova, 8 marzo 2018)


Israele, nuove elezioni all'orizzonte

 
Se il sondaggio elettorale del quotidiano Israel Hayom rappresenta davvero le intenzioni di voto degli israeliani, allora Benjamin Netanyahu potrebbe effettivamente optare per le elezioni anticipate. Il giornale, notoriamente schierato a favore del Premier israeliano, ha infatti diffuso un sondaggio secondo cui il Likud di Netanyahu, nel caso in cui le elezioni si tenessero oggi, guadagnerebbe 34 seggi alla Knesset - quattro in più di quelli attuali - mentre il suo diretto avversario, Yair Lapid di Yesh Atid rimarrebbe a quota 24 (nell'immagine, il grafico del sondaggio di Israel Hayom: la colonna azzurra indica i seggi attuali, la blu quelli che i partiti otterrebbero se si votasse oggi. In ordine da sinistra a destra, Unione Sionista, la Lista dei partiti arabi, HaBayt HaYehudi, Yesh Atid, Likud). Questo nonostante gli scandali giudiziari a cui il Primo ministro è associato da mesi e che sembravano aver incrinato la sua popolarità. "Questa sarà una campagna elettorale di Bibi contro tutti", scrive il giornalista Moti Tochfeld su Israel Hayom. "L'ordine del giorno è già fissato: i media, il pubblico ministero, la polizia e l'opposizione combatteranno la battaglia della loro vita per abbattere Netanyahu, la cui parte risponderà al fuoco e non prenderà prigionieri in una guerra per rinnovare il suo mandato pubblico e tornare a guidare" il Paese. A parte i toni un po' enfatici di Tochfeld, sembra effettivamente che la possibilità di elezioni anticipate si stia palesando all'orizzonte: Netanyahu, sull'aereo di ritorno da Washington, ha chiesto alla sua coalizione di trovare un accordo a larga maggioranza sul divisivo tema della legge sull'obbligo di leva per i haredim e di garantire che il governo regga fino alla sua conclusione naturale, ovvero novembre 2019. Ma al momento proprio la legge sull'obbligo di leva ha creato diverse spaccature: il ministro della Difesa Avigdor Lieberman - del partito Israel Beitenu - ha duramente contestato i partiti religiosi, contrari a che gli studenti di Yeshiva servano nell'esercito, prendendo anche in giro il viceministro alla Salute Yaacov Litzman, invitandolo a prendere il suo posto. Ma Lieberman ha soprattutto minacciato di lasciare il governo se dovesse essere approvata la legge in discussione che esonererebbe gli ultraortodossi dallo svolgere il servizio militare. Una norma che invece Litzman vorrebbe fosse approvata il prima possibile, perché, spiega il Jerusalem Post, lo scenario di nuove elezioni è sempre più plausibile.

(moked, 8 marzo 2018)


Il vero Abu Mazen? Quello che nega la legittimità storica di Israele

In pubblico si professa mediatore di pace, ma davanti ai suoi sostenitori il presidente palestinese cambia la storia e rifiuta ogni compromesso con gli israeliani.

di Ugo Volli

Ci sarebbe di che essere disperati. Per chi crede che la soluzione dei problemi di Israele e magari di tutto il Medio Oriente o del mondo intero consista nella pace da fare coi palestinesi e che questa pace vada fatta con la leadership dell'Autorità Palestinese (o dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina o di Fatah, che sono le stesse persone sotto cappelli diversi e con politiche sempre più estremiste via via che ci si allontana dalle luci della ribalta) c'è davvero da essere disperati.
   Non solo perché questa leadership è sempre più autocratica e autoreferenziale, composta ancora dall'apparato terrorista che gli accordi di OsIo ebbero il torto di importare dalla Tunisia: basta guardare alla figura di Muhammed Abbas, già negazionista della Shoà nella sua tesi di laurea all'Università Lumumba di Mosca, già furiere della strage di Monaco, entrato ormai nel quattordicesimo anno di una presidenza che per legge dovrebbe durarne quattro, senza neanche quel minimo di ipocrisia democratica che a tempo debito in Siria, a Cuba e perfino in Corea del Nord si tengano dei simulacri di elezioni.
   E' quel che questa leadership dice, per bocca del suo dittatore: "Lo Stato di Israele è stato costituito come 'un progetto coloniale' che non ha nulla a che fare con ebrei ed ebraismo al solo scopo di servire gli interessi europei." Nulla a che fare con gli ebrei che hanno preferito morire per mano nazista piuttosto che venire in Terra di Israele. "Gli ebrei non volevano emigrare nemmeno con omicidi e massacri. Anche durante la Shoà, non emigrarono. Nel 1948, gli ebrei in Palestina non erano più di 640.000, per la maggior parte provenienti dall'Europa". Tanto che "il primo premier d'Israele, David Ben-Gurion, fu obbligato a importarli: "Ben-Gurion non voleva che venissero gli ebrei del Medio Oriente - ha detto Abbas - ma quando vide la vastità della terra, fu costretto a importare ebrei mediorientali che non volevano venire. Dallo Yemen ne hanno portati in aereo 50.000, poi sono andati in Iraq, che aveva grandi riserve di ebrei". Accordandosi col governo iracheno "per togliere la cittadinanza agli ebrei e costringerli a emigrare. Ma non bastavano, e così rastrellarono tutti gli ebrei dei paesi arabi, dal Marocco all'Algeria e Tunisi, dalla Libia, dall'Egitto, dalla Siria e dal Libano". Per Abbas i complotti ebraico-britannici sulla Palestina risalgono addirittura a Oliver Cromwell che nel 1653 "pensava di spostare gli ebrei dall'Europa al Medio Oriente perché volevano farne una frontiera per proteggere traffici e interessi provenienti dall'Europa verso oriente". Ce n'è anche per Herzl, che secondo Abbas avrebbe detto: "Dobbiamo spazzare via i palestinesi dalla Palestina in modo che la Palestina sia una terra senza popolo per un popolo senza terra".
   I brani che ho citato sono tratti dal discorso che il dittatore ha pronunciato davanti al Comitato Centrale della sua organizzazione all'inizio di gennaio, nella ricostruzione che ne ha dato il principale giornale del fronte dell'accordo a tutti i costi con l'Autorità Palestinese. Erano passate un paio di settimane dal riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. Non si può dunque parlare di una reazione a caldo e del resto nessuno meglio di Abbas e dei suoi collaboratori sa che Gerusalemme è effettivamente da quasi settant'anni la capitale di Israele, il luogo in cui si governa e si decide.
   La causa di queste esternazioni - ridicole se non fossero tragiche - non è dunque una reazione politica alla mossa di Trump, è semmai la rabbia per la complessiva perdita di centralità e di prospettiva del progetto palestinista. Nel momento in cui non possono più sperare che la "comunità internazionale" possa e voglia costringere Israele alla resa e assegnare loro una vittoria che sanno da decenni di non poter ottenere sul campo, cadono le censure diplomatiche ed emerge con chiarezza la loro posizione vera. Che è semplicemente la negazione di qualunque legittimità allo stato di Israele, grazie alle più fantasiose invenzioni storiche. Da questa negazione di legittimità non può derivare il progetto di un accordo, ma semplicemente di distruzione. Israele per loro è un' "entità" artificiale e coloniale, "peccaminosa" come ha detto lo stesso Abbas a proposito di Gerusalemme capitale, estranea non solo alla regione ma alla stessa storia ebraica, che non può essere certo recuperata con un accordo. Anche perché la legge islamica vieta agli ebrei di governare i musulmani, di difendersi con le armi, ancor meno di avere uno stato su un territorio che fa parte delle terre dell'Islam.
   Insomma, quel che emerge dalle dichiarazioni di Abbas è la falsità dell'adesione al progetto di pace, la stessa che Arafat aveva fatto emergere subito dopo la firma degli accordi di OsIo in un discorso tenuto in arabo in una Moschea del Sudafrica: li aveva paragonati all'Accordo di al-Hudaybiyya che Maometto in difficoltà militare concluse con i nemici della Mecca salvo rinnegarlo un anno dopo quand'era più forte.
   Ce ne sarebbe abbastanza per portare alla disperazione coloro che credono che la pace vada fatta con lui, se badassero ai fatti e non all'ideologia. Ma per chiunque badi alla realtà, questo è un forte indizio del fallimento della strategia palestinista, che è solo una fase della guerra ormai quasi centenaria, scatenata dal mondo arabo, e più in generale dall'Islam contro il progetto sionista. Forse presto, fallita anche questa strategia di distruzioni, si avrà la possibilità che finalmente questa guerra finisca. La condizione è una sola, semplicissima: basterà che il mondo islamico accetti di aver perso una sua conquista, un piccolo territorio tornato in mano ai suoi abitanti. Se gli arabi si rassegneranno al fatto che Israele è degli ebrei, che non è possibile eliminarli e che dunque bisogna accettare la loro presenza e il loro diritto - il contrario di quel che ha detto Abbas - la pace finalmente sarà possibile.

(Shalom, febbraio 2018)


Quanto nuoce a Israele il "mito Israele"

Si pretendono da Israele standard che nessun paese "normale" potrebbe soddisfare. E non sempre la pretesa nasce da ragioni limpide e oneste.

Ecco una frase che sento ripetere spesso: Israele, si dice, è una democrazia malata. A settant'anni dall'indipendenza, dicono questi critici, il suo sistema di governo è un totale disastro.
Perlopiù questi detrattori - e fra loro non mancano ebrei colti e informati - avanzano tre argomenti. Innanzitutto additano il sistema di governo basato su coalizioni. Il che, spiegano con sussiego, significa attribuire un potere di veto e dunque di estorsione a partiti piccoli come quelli ultra-ortodossi che siedono nell'attuale governo. Quando ogni partito è in grado di far cadere il governo, la capacità del primo ministro di avviare importanti riforme diplomatiche, economiche o sociali ne risulta severamente limitata....

(israele.net, 9 marzo 2018)


Cosmoprof, le aziende israeliane raddoppiano la presenza

Linea con olio di semi di canapa organica di Elemin Cosmetics
Quest'anno le aziende della bellezza israeliane arriveranno in forza alla prossima edizione di Cosmoprof Worldwide Bologna, che si svolgerà nel capoluogo emiliano dal 15 al 19 marzo. L'Israeli Pavillion infatti ospiterà 20 aziende del Paese mediorientale (l'anno scorso erano 10), con l'intenzione di espandersi in nuovi mercati, soprattutto in Italia, dove cercano un distributore o una partnership per l'ingresso nel Paese.
La particolarità dell'industria cosmetica israeliana è quella di essere un avamposto di tecnologia e di innovazione, perché questo piccolo Paese ha i laboratori di ricerca più avanzati del mondo e grazie a un 'ecosistema' peculiare (fatto di finanziamenti governativi, ricerca dell'industria militare, studi accademici, venture capitalist e incubatori) sostiene l'industria. Nitzan Paicov, manager del settore cosmetics & toiletries di Israel Export Institute, afferma che Israele è leader nello sviluppo di nuovi ingredienti: "I nostri laboratori sono i primi al mondo a isolare alcuni principi attivi, che poi vengono acquistati dalle multinazionali. È quello che sta succedendo, ad esempio, con la ricerca sull'estrazione dei principi attivi da semi della cannabis". La sperimentazione sull'olio di canapa ad uso cosmetico infatti sembra essere partita proprio da questo Paese e ora si sta diffondendo in altre aree del pianeta. Elemin Cosmetics è un'azienda che sarà presente infatti a Cosmoprof e che sta lanciando una linea che è tra le poche a utilizzare olio di semi di canapa 'organico'.
Novità anche per altri ingredienti, come i principi attivi che vengono dal food utilizzati da Secret of Youth, le cellule staminali dell'argan e i minerali del Mar Morto di Edom, di Alona Shechter, i peptidi e le microincapsulazioni di Peer Pharm, nonché i device wireless di Synoia che combina, unica al mondo, quattro differenti tecnologie con capsule intercambiabili. Le macchine per centri estetici sono oggetto di maggiore sperimentazione e infatti Leonardo e Active Optical System porteranno nuove tecnologie alla rassegna bolognese.
In tutto, le collettive dei Paesi presenti all'edizione 2018 di Cosmoprof sono 27, provenienti da 24 nazioni e, per la prima volta, arriverà una rappresentanza della Svezia.

(Pambiancobeauty, 8 marzo 2018)


Risultati elettorali incompleti

Riceviamo la seguente segnalazione, ringraziando per la collaborazione.

Per quella corretta informazione che "Notizie su Israele" cerca sempre di dare ai suoi lettori, segnalo che i risultati elettorali degli italiani residenti in Israele che sono stati pubblicati riprendendoli da Moked sono non completi, mancando infatti i voti espressi dagli italiani residenti a Gerusalemme che, per lo stato italiano, fanno parte di una diversa circoscrizione.
Gli italiani residenti a Gerusalemme hanno dato una maggioranza relativa al PD.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 8 marzo 2018)


Il cuore pulsante di Israele: Il discorso di Netanyahu all'AIPAC

di Niram Ferretti

 
Mentre in Israele Benjamin Netanyahu è oggetto della pressione numerica dei casi giudiziari che lo riguardano, e Avi Gabby, il leader di una annaspante opposizione che si aggrappa disperatamente alle procure per disarcionarlo, afferma, "L'era di Netanyahu è finita", a Washington al meeting annuale dell'AIPAC, è un'altra storia. E' la storia del più tonico, longevo e carismatico dei leader israeliani sulla piazza, l'unico che sappia presentare con l'autorevolezza di una lunga e rodata consuetudine politica, il presente di Israele e forse, ancora il suo futuro.
   Il mestiere della scena e della efficacia oratoria sono consumati e ascoltarlo parlare dopo l'intervento, sempre davanti alla platea dell'AIPAC, di Gabbay, genera un confronto devastante. Se la fine è nel principio, il futuro di Gabbay, al cospetto di quello della vecchia volpe della politica israeliana, sembra già segnato. No, non c'è storia. Al netto di apologie e agiografie. Semplicemente constatando oggettivamente i fatti.
   Netanyahu tiene in pugno la platea, gigioneggia come suo solito, ringiovanisce, i guai a casa sono scomparsi, dimenticati, sembrano una scia di fumo alle spalle dei successi di Israele in campo economico, militare, tecnologico, che il premier israeliano snocciola uno dopo l'altro con esibita e giustificata soddisfazione. Israele appare per quello che è oggi, una piccola grande potenza, un gigante tecnologico in espansione, una turbina incessante di innovazioni, ricerca, scommesse vinte, mentre tutt'intorno a lui, satrapie, teocrazie e dittature, evidenziano plasticamente il fallimento socio-culturale di realtà politiche che allo sviluppo e al progresso hanno anteposto rigorismo religioso, fanatismo, terrorismo, una spaventosa corruzione.
   Netanyahu si muove sul palco, sotto i riflettori, e mostra come Israele corra e continui a correre. Annuncia gongolante, "La popolazione di Israele è tra gli otto e nove milioni, un decimo dell'uno per cento della popolazione mondiale. Sapete quale è l'ammontare globale degli investimenti privati per la cyber security di cui godiamo? Il 20% mondiale. Duecento volte sopra il nostro peso". Ma poi, dopo avere decantato i successi indubbi conseguiti è il turno delle cattive notizie, dell'oscurità "che sta scendendo sulla nostra regione", così dice con un linguaggio dal voluto sapore biblico per indicare la maggiore minaccia regionale rappresentata dall'Iran e dalla sua estensione. "L'Iran sta costruendo un impero aggressivo" e poi elenca le tappe di questa estensione, "l'Iraq, la Siria, lo Yemen, il Libano, Gaza". Procede quindi a illustrare l'obbiettivo iraniano in Siria, quello di costruire una base militare permanente nel paese e un ponte di terra che colleghi Teheran a Tartus per potere così giungere al Mediterraneo.
   "Israele non permetterà che accada, io non permetterò che accada". E quell'"io", suona come la garanzia migliore per Israele, ora e ancora in seguito, di una guida che sappia garantire al meglio la sicurezza del paese. Il riferimento al Libro di Esther e all'antico tentativo persiano di annientare il popolo ebraico serve subito dopo per assicurare che Israele non permetterà mai all'Iran di dotarsi di armi nucleari, e qui si esplicita la sintonia piena con l'Amministrazione Trump, la quale, dal proprio insediamento, ha indicato nell'Iran la maggiore minaccia in Medioriente. Segue il riferimento alla concordanza che, su questo punto esiste anche con stati arabi come l'Egitto e la Giordania e altri non nominati, ma è implicito il riferimento tacito all'appoggio non dichiarato dell'Arabia Saudita. "Sanno che Israele non è un loro nemico, ma un alleato indispensabile".
   E di fronte alle conquiste di Israele, al suo sviluppo economico, al suo avanzamento nel futuro, appare per contrasto impietoso e drammaticamente indicativo il confronto con i 350 milioni di dollari all'anno che l'Autorità Palestinese paga alle famiglie dei terroristi, il 10% circa dei fondi a disposizione, soldi sottratti alle infrastrutture, all'educazione, alla sanità, e un incentivo ad uccidere gli israeliani in modo da essere premiati.
   Il discorso di Netanyahu all'AIPAC non è solo la conferma dell'autorevolezza di una leadership che in questo momento non ha rivali, ma soprattutto quello di una luminosa evidenza: solo Israele in Medioriente è a tutela della nostra libertà, dei nostri valori, di quel progresso faticosamente costruito che l'Occidente si è da secoli intestato.

(L'informale, 8 marzo 2018)


Toscana - 8 marzo: la galleria del Consiglio intitolata alla partigiana Mattei

Teresa Mattei
Da giovane
E' stata accolta dal Consiglio regionale della Toscana la richiesta, da parte di Sì Toscana a Sinistra, di intitolare la galleria del Consiglio regionale a Teresa Mattei, la partigiana che ha inventato la mimosa come simbolo dell'8 marzo e la più giovane deputata della Costituente.
Lo spiega, in una nota, il capogruppo in consiglio regionale di Sì Toscana a Sinistra Tommaso Fattori: "Dopo che il presidente Giani annunciò di voler intitolare le principali aule del Consiglio a Piero Calamandrei, Giovanni Spadolini, Amintore Fanfani e Sandro Pertini abbiamo chiesto una correzione del tiro: in termini cromatici mancava il rosa e il rosso - aggiunge Fattori - per questo ho chiesto di porre rimedio, proponendo il nome di Teresa Mattei, una donna straordinaria, una partigiana, una comunista italiana autonoma e libertaria".
Fattori ne ricorda il profilo istituzionale: "E" stata la più giovane deputata dell"Assemblea Costituente, eletta nel collegio Firenze - Pistoia, e fece parte dell"Ufficio di Presidenza della Costituente, contribuendo a scrivere l"articolo 3, uno dei più belli della nostra Costituzione. Ha speso la sua vita per i diritti delle donne e dell"infanzia e fu lei a inventare la mimosa come simbolo dell"otto marzo. C"è un episodio che rivela limpidamente la personalità di Teresa Mattei: ancora ragazzina, fu espulsa dal liceo classico Michelangiolo di Firenze e da tutte le scuole del Regno perché si rifiutò, in occasione delle leggi razziali, di accettare l"insegnamento della teoria della razza e l"allontanamento dei suoi compagni di classe e degli insegnanti ebrei", ha concluso il consigliere.

(Controradio, 8 marzo 2018)


Berlino si scopre a passeggio con gli intellettuali della Repubblica di Weimar

Altro che guide turistiche di una volta

di Andrea Affaticati

C'è modo e modo di visitare una città, in particolare una città come Berlino. Certo, con le app che affollano gli schermi degli smartphone, la guida stampata d'un tempo, più che d'antan appare giurassica. A parte il fatto che le sezioni dove mangiare e dormire già ai tempi di massima diffusione della guida tradizionale, rischiavano di essere sorpassate già al momento della pubblicazione.
   Le guide cartacee dunque, sono a rischio di estinzione. Certo c'è chi tutt'ora non si muove senza la famosa guida rossa del Touring o, per i più cosmopoliti, sempre di rosso rilegata, la tedesca Baedeker. Ma si tratta di antiquariato puro, nel senso dell'oggetto ovviamente.
   C'è però un altro genere di vademecum che rimane intramontabile, al di là delle moderne diavolerie. Si tratta dei libri che raccontano di una città, un paese per bocca di chi vi ha vissuto, ci vive o ne ha studiato la storia attraverso un personalissimo approccio. E' il caso del volume appena pubblicato (Neri Pozza) "Berlino - Città d'altri". A scriverlo è stato Luigi Forte, germanista e ordinario di Letteratura tedesca presso l'Università di Torino. Lui usa la chiave degli scrittori che nella capitale tedesca dai primi del Novecento agli anni tra le due guerre, cercano qui un punto di approdo, un nuovo inizio ma anche la loro perdizione. Forte racconta, come recita anche il sottotitolo, "Il turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar".
   Nella capitale tedesca erano approdati tra l'altro Robert Walser e Franz Kafka. Lo scrittore svizzero esattamente come il suo collega praghese in fuga, desiderosi di cominciare tutto da capo. Il primo alla ricerca di un riconoscimento letterario che a casa gli veniva negato, nonostante gli apprezzamento per i suoi scritti "I fratelli Tanner" , "Jakob von Gunten" espressi da Hermann Hesse, Max Brod, Kurt Tucholsky. A Berlino Walser capitò la prima volta nel 1910 con molte speranze e altrettante paure. Forte cita un passaggio del breve racconto "Würzburg", nel quale Walser scrive: "Credo che Berlino sia la città destinata a vedere il mio crollo e la mia rovina, oppure il mio sviluppo e la mia fortuna. Una tale città mi farà prendere coscienza che forse non sono totalmente privo di buone qualità. A Berlino imparerò, presto o tardi, con mio grande piacere, ciò che il mondo vuole da me e ciò che, da parte mia, voglio da lui". Anche Kafka sperava, non tanto nella fama, già ottenuta, ma in un nuovo inizio, come giornalista. All'amica Greta Bloch nel marzo del 1914 scrive fiducioso: "Credo però di sapere con certezza che dalla situazione libera e indipendente in cui mi troverò a Berlino (sia pure misera nel rimanente), trarrò l'unico senso di felicità del quale sono ancora capace". Per entrambi non andò così, per quanto Kafka riuscì a intrecciare anche un rapporto amoroso con Felice Bauer, che lo portò per cinque anni a fare il pendolare tra Praga e Berlino.
   Per chi conosce Berlino, man mano che procede nella lettura, è come se comprendesse, almeno per un attimo, il perché del suo magnetismo. Basta allontanarsi dai percorsi turistici per captare qua e là quel fascino vagamente decadente e proprio per questo così irresistibile.
   Tutt'altro motivo aveva spinto, invece, la diaspora degli intellettuali ebrei della Mitteleuropa a cercare un nuovo Zuhause, posto dove stare. Tra questi Joseph Roth, per il quale la capitale tedesca rappresentava, come racconta Forti, "lo sfondo inquietante di oscure trame, di tensioni devastanti. (...) Lohse, protagonista del romanzo 'La tela di ragno', è un prodotto storico, il primo esemplare di una generazione stregata dal populismo, da pifferai cinici e sanguinari". Ed è dalle pagine di Roth che viene a comporsi l'immagine di Berlino come una "Babilonia tedesca che lui sviscera in ogni suo aspetto contribuendo criticamente al mito della metropoli degli anni Venti e offrendo ai posteri un affresco singolare dell'epoca". Una Babilonia che tra le due guerre costituirà un richiamo irresistibile per i cosiddetti Oxford Boys, cioè Christopher Isherwood, Wystan Hugh Auden e Stephen Spender.
   Ma tornando a Roth, alla sua Berlino, deve rileggere lo scritto "L'autodafé dello spirito" pubblicato nel 1933, quando già si trovava a Parigi, nei "Cahiers de Juifs". Lì Roth sottolinea che sono stati soprattutto gli scrittori ebrei arrivati nella capitale tedesca a valorizzare il suo paesaggio urbano. Sono stati loro a scoprire i caffè e le fabbriche, il bar e l'hotel, la banca e la piccola borghesia della città. Vale la pena, dunque riprenderli in mano.

(Il Foglio, 8 marzo 2018)


Realtà virtuale: studenti israeliani sviluppano occhiali per trattare l'Autismo

 
Alcuni mesi fa, il Ministero israeliano del Lavoro, del Welfare e dei Servizi Sociali ha pubblicato dei dati che mostrano come il numero di persone affette da Autismo in Israele sia triplicato in un decennio, ammontando a circa un bambino su 187.
Non esiste un farmaco efficace per l'autismo e le aziende che affrontano il problema stanno cercando di aiutare i pazienti e le loro famiglie ad affrontare la sfida. La Facoltà di Tecnologie Didattiche del Holon Institute of Technology (HIT) è una delle istituzioni che partecipano allo sforzo con il Dott. Dan Kohen-Vacs, ricercatore senior della facoltà di informatica.
Uno dei sistemi sviluppati dall'HIT si chiama Calma ed è stato progettato per utilizzare la realtà virtuale per affrontare i problemi di regolazione sensoriale, una delle difficoltà causate dall'autismo che produce un'eccessiva reazione a stimoli come rumori e alle luci, solo per citare due esempi.
Uno dei metodi comuni di trattamento è chiamato "stanza bianca". I bambini vengono messi in una stanza senza stimoli, e successivamente vengono introdotti diversi oggetti, l'uso di una tale stanza ha diverse conseguenze: è necessario uno spazio fisico con i relativi costi. L'idea degli studenti israeliani è quella di creare un ambiente di fiducia con l'utilizzo di occhiali di realtà virtuale.
Il team ha progettato un ambiente subacqueo, in cui aggiungere o rimuovere stimoli audio e visivi, ad esempio pesci, coralli, bolle e subacquei. Il terapeuta può anche aumentare o abbassare la musica di sottofondo che i bambini sentono.
Il sistema Calma può aiutare i bambini affetti da iper-eccitazione, che li rende facilmente stanchi.
Come spiegato da Kohen-Vacs in un'intervista su Globes, in questi casi, è possibile creare un ambiente per i pazienti con pochi stimoli, che li aiuta ad essere equilibrati e calmi. Nei casi di bambini che presentano indifferenza o sotto-eccitazione, possono essere aggiunti più stimoli.
Il bambino indossa occhiali e un terapeuta con un monitor si siede accanto a lui. Il terapeuta può vedere ciò che il bambino vede e aggiungere o sottrarre elementi.

(SiliconWadi, 8 marzo 2018)


Lombardia - Al Pirellone seminario su donne nella Shoah, con Liliana Segre

Regione Lombardia ospitera' domani, giovedi' 8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della donna, un seminario di aggiornamento per docenti sul tema 'Punti di luce: le donne nella Shoah' organizzato dall'Associazione Figli della Shoah in collaborazione con l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme.
Dopo i saluti istituzionali, sono previsti gli interventi di Iael Nidam Orvieto, direttrice dell'Istituto di ricerca 'Yad Vashen' su 'Le donne nella Shoah'; Roberta Ascarelli, presidente dell'Istituto italiano di Studi germanici su 'Donne, Shoah e Memoria'; di Liliana Segre, Presidente dell'Associazione 'Figli della Shoah' che parlera' sul tema 'In ricordo di Janine' e di Birte Hewera, responsabile italian desk 'Yad Vashem' che parlera' de 'Il valore didattico delle testimonianze femminili'.
Sara' presente la neo senatrice Liliana Segre Presidente dell'Associazione Figli della Shoah.
Nel corso della mattinata verra' comunicata la ratifica della Dichiarazione d'Intenti appena firmata tra Regione Lombardia, Associazione Figli della Shoah e Istituto Yad Vashem da cui nascera' una stretta collaborazione tesa a creare nuovi progetti dedicati al mondo della scuola sul tema della Shoah.
Il seminario e' patrocinato dall'Ambasciata di Israele in Italia e dall'Ufficio scolastico regionale e si svolge in collaborazione con O.P.P.I. e Fondazione Memoriale della Shoah di Milano. Agli insegnanti verra' rilasciato un certificato di partecipazione valido come attivita' formativa di aggiornamento O.P.P.I., ente accreditato presso il Miur.
Inizia alle ore 8, a Palazzo Lombardia (piazza Citta' di Lombardia, 1
Milano), auditorium 'Giovanni Testori'.

(Varese Report, 7 marzo 2018)


Roma - Il Comandante Generale dell'Arma visita la Comunità Ebraica

Il Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri si è recato questa mattina in visita alla Comunità Ebraica di Roma. Ad accoglierlo il rabbino capo Riccardo Di Segni e la presidente della Comunità Ebraica Ruth Dureghello.
Durante l'incontro, i vertici della Comunità hanno rivolto al Comandante Generale Nistri gli auguri per il prestigioso incarico assegnatogli ed hanno ribadito la riconoscenza delle istituzioni ebraiche verso l'Arma dei Carabinieri che garantisce la sicurezza dei luoghi di culto ebraici. Diversi i temi al centro del colloquio tra cui l'importanza della presenza ebraica a Roma e il rapporto, lungo e duraturo, che lega la Comunità Ebraica all'Arma dei Carabinieri.
Successivamente il Comandante Generale Nistri, accompagnato dalla presidente Dureghello, è stato in visita al Tempio Maggiore e al Museo Ebraico.

(Campobello News, 7 marzo 2018)


Energia: non pervenuto il boom petrolifero iraniano

WASHINGTON - L'industria petrolifera e del gas in Iran avrebbe dovuto decollare dopo l'Accordo sul nucleare, ma il settore è tra quelli che più patiscono al livello mondiale. Sono molte le compagnie internazionali, riferisce il quotidiano "Wall Street Journal", che esitano ad investire a causa delle minacce dell'amministrazione del presidente Donald Trump di stracciare l'accordo del 2016 ed imporre di nuovo sanzioni in cambio di restrizioni al programma di energia atomica iraniano. Le previsioni di Teheran parlavano di 10 miliardi di dollari derivanti da investimenti stranieri in petrolio e gas, ma solo 1,3 miliardi di dollari sono stati impegnati prevalentemente dalla Cina. Dopo un iniziale rialzo, la capacità di produzione di greggio iraniana si è fermata a 3,85 milioni di barili al giorno, secondo dati dell'Agenzia internazionale per l'energia (Aie), ben al di sotto delle stime di Teheran. La francese Total aveva firmato un accordo per 1 milione di dollari il giorno dell'insediamento di Trump lasciando sperare che seguissero altri investimenti occidentali, ma quello della Total è rimasto quasi l'unico episodio. L'azienda automobilista francese Peugeot e la statunitense Boeing hanno stretto accordi commerciali in Iran, ma il settore dell'energia è rimasto indietro perché gli investitori temono la forte visibilità che avrebbero con gli Stati Uniti. A Teheran c'è chi si oppone strenuamente agli investimenti esteri contrastando il piano del presidente Hassan Rouhani di rendere appetibile il settore per le compagnie petrolifere.

(Agenzia Nova, 7 marzo 2018)


Israele-Oltrepo Mantovano, la collaborazione continua

di Cristina Bombarda

Dal 4 all'11 marzo 12 musicisti israeliani saranno ospiti della Scuola di Musica di San Benedetto Po, nell'ambito del Progetto VIVACE, finanziato su fondi Erasmus+ dedicato alla mobilità dei giovani.
Mercoledì 7 marzo, alle ore 21 presso la Sala Teatro Beatnik di Via Montale 6/a a San Benedetto Po, si terrà il concerto di musiche e danze da Israele, proposte dal gruppo di giovani musicisti israeliani. Il concerto, ad ingresso gratuito, suggella la partnership dell'Associazione Musicale Polironiana con YOFI - Youth Forum Israel, associazione no-profit che coordina i giovani musicisti provenienti da diverse scuole di musica di Gerusalemme. YOFI - Youth Forum Israel, fondata nel 2003 da un gruppo di persone coinvolte con l'addestramento giovanile ed EuroMed Youth Program, si propone come scopo principale quello di creare un ambiente che supporta il lavoro giovanile, ed è molto attiva nella partecipazione di programmi di scambio giovanile con altre città in Israele e paesi vicini, come i membri EU.
La settimana di permanenza nel mantovano dei musicisti israeliani il concerto proposto è solo una parte del programma di collaborazione. Il prossimo luglio, infatti, un gruppo di insegnanti e consiglieri della Scuola di Musica di San Benedetto Po si recherà a Gerusalemme, realizzando così l'ottica di scambio culturale prevista dal Progetto Europeo.
Un'esperienza suggestiva, che giunge proprio in questo 2018 in cui la Scuola di Musica di San Benedetto Po festeggia il proprio trentennio d'attività con un calendario che sarà ricco di altri eventi.

(Albun News, 7 marzo 2018)


Sempre più voci sul ritiro di Abu Mazen

Peggiorano le condizioni dell'anziano presidente palestinese

Si infittiscono le voci di un prossimo addio di Abu Mazen dalla leadership palestinese. Lo riportano varie fonti che indicano anche un recente peggioramento delle condizioni dell'anziano presidente (83 anni) dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il quotidiano libanese Al-Akhbar - che cita fonti a Ramallah - ha scritto che Abu Mazen potrebbe dimettersi "a causa del deteriorarsi delle sue condizioni di salute". Le voci - di cui anche gli israeliani hanno cominciato ad occuparsi - sono state rafforzate dal recente intervento dello stesso Abu Mazen al Consiglio rivoluzionario di Fatah in cui, dopo essersi scagliato contro la politica Usa, avrebbe detto che "quello poteva essere il loro ultimo incontro" e che non "voleva lasciare la scena da traditore". Mohamed Shtayieh, suo stretto consigliere, ieri a Ramallah ha annunciato che Abu Mazen convocherà a maggio il Consiglio nazionale palestinese, che non si riunisce dal 1996, "immettere nuovo sangue ai vertici della leadership palestinese".

(ANSAmed, 7 marzo 2018)


I nazisti collezionisti d'arte, opere pagate con la morte

"Hitler contro Picasso e gli altri": un docufilm su Sky Arte racconta sulla scorta di documenti inediti americani la lunga e crudele razzia avvenuta in molti Paesi europei

di Mirella Serri

Due ragazzini guidano una piccola Bugatti a pedali nella splendida tenuta di campagna nei pressi dell'Aia. Pochi giorni dopo l'occupazione nazista dell'Olanda, il critico d'arte Walter Hofer attraversa quello stesso giardino per incontrare i genitori dei due bambini: il 54enne Fritz Gutmann e sua moglie Louise. Friedrich detto Fritz appartiene a un'importante famiglia di banchieri e suo nonno gli ha lasciato una magnifica collezione di ori e di argenti rinascimentali, nonché dipinti preziosissimi, da Lucas Cranach il Vecchio a Francesco Guardi. Un ben di dio sul quale gli occupanti con le bandiere con le svastiche hanno subito puntato i loro occhi avidi.

 La pinacoteca di Göring
  
 
Con bellissime immagini inedite, tratte in parte dagli archivi d'oltre oceano, per due soli giorni, il 13 e il 14 marzo, sarà nelle sale italiane il docufilm Hitler contro Picasso e gli altri. L'ossessione nazista per l'arte (con la regia di Claudio Poli, è stato prodotto da 3D Produzioni con Nexo Digitai e SkyArte Hd). Il filmato prende spunto da alcune recenti grandi mostre che a Berna, Bonn, Parigi e Deventer sono state dedicate agli immensi tesori trafugati dai nazisti (le opere razziate in Europa furono più di 5 milioni). E ci restituisce, con la voce narrante di Toni Servilio, una storia fino a oggi mai interamente esplorata di vittime e di carnefici: a fianco di Hitler e del maresciallo del Reich Hermann Göring - che collezionò ben 250 sculture, 168 arazzi e una pinacoteca di 1.376 pezzi del valore di 50 milioni di marchi, corrispondenti a 18 milioni di euro - vi fu una task force di storici, mercanti, critici d'arte. Questi mediatori si mobilitarono per minacciare, torturare e derubare un numero incredibile di proprietari ebrei.
  Così gli sventurati Gutmann - che non si aspettavano le pressioni dei nazisti in quanto la loro famiglia si era convertita al cattolicesimo - furono torchiati da Hofer, responsabile della collezione di Göring (che non pagò mai nulla di tasca propria ma solo con soldi dello Stato). Il banchiere, pressato anche da un altro di questi mercanti «maledetti», Karl Haberstock, cedette parte del patrimonio per ottenere un visto di espatrio. Ma il permesso non arrivò mai e il conto in banca dei Gutmann fu congelato. L'uomo di affari fece intervenire suo cognato Luca Orsini, senatore dell'Italia fascista, che trattò con Himmler e con Göring in modo che la coppia potesse lasciare la Germania. Il
  26 maggio 1943 due SS a bordo di una Mercedes nera prelevarono i coniugi (i figli erano già all'estero) annunciando che sarebbero stati liberati e portati a Firenze. Invece furono destinati al lager di Theresienstadt dove l'esecuzione di Fritz, come racconta un testimone oculare, avvenne a bastonate, mentre Louise venne accompagnata alle camere a gas.

 Nel dopoguerra
  Altri ebrei espropriati con la violenza, le cui vicende vengono raccontate dal filmato, furono il gallerista francese Paul Rosenberg, grande amico di Picasso, Braque e Matisse che aveva aperto nel 1910 l'importante galleria di 21, rue La Boétie e che riuscì a espatriare in America, e il ricco olandese Jacques Goudstikker la cui vedova fu costretta a privarsi di tutto da un altro «critico d'arte» nonché uomo di Göring, Alois Miedl. Quest'ultimo nel 1943 si liberò anche di due suoi contabili ebrei mandandoli al lager.
  Quale sorte riservò il dopoguerra a questi aguzzini? Tutta la numerosa truppa degli esperti di arte si salvò e in molti continuarono a fare gli antiquari e i galleristi. Hofer e Haberstock, con i soldi guadagnati lavorando per il regime, allestirono un punto di vendita di arte antica a Monaco e si stabilirono nella stessa palazzina abitando uno sopra e l'altro sotto.

(La Stampa, 7 marzo 2018)


«Ora tre nuovi assessorati»

Intervista al nuovo governatore di Milano, Attilio Fontana

Il neogovernatore e la sua giunta: «Welfare e Casa, piccoli comuni e montagna tra i futuri incarichi. Vado
in Israele, rapporto ottimo»
Con l'ambasciatore si ricuciono i rapporti con la comunità ebraica. Lunedì sera l'incontro con il rappresentante di Israele in Italia.

di Giambattista Anastasio

MILANO - Il primo incontro da presidente in pectore della Regione Lombardia, il primo una volta consolidatosi il verdetto delle urne, è stato lunedì sera con l'ambasciatore di Israele, Ofer Sachs, e con i benefattori del Keren Hayesod, l'ente di raccolta fondi del Movimento Sionista.

- Un modo, Attilio Fontana, per ricucire con la comunità ebraica, alla quale non piacquero le sue parole sulla necessità ,di tutelare la razza bianca?
  «E stato un bell'incontro e una bella serata, i malintesi provocati da quella mia dichiarazione sono ormai alle spalle: mi sono già scusato e il rapporto con la comunità ebraica è tornato ad essere ottimo come è sempre stato».

- E la sua prima missione all'estero da presidente della Regione potrebbe essere in Israele, conferma?
  «Sì, è possibile che la mia prima missione sia in Israele in occasione del Giro d'Italia che quest'anno parte da Gerusalemme».

- Stamattina (ieri ndr) il governatore uscente Roberto Maroni le ha consegnato il dossier su quanto è stato fatto negli ultimi 5 anni e su quanto resta da fare. Alla luce di ciò, conferma che il suo primo provvedimento sarà ampliare la platea dei beneficiari della gratuità dell'asilo nido?
  «Assolutamente sì. La misura sui nidi sarà la prima sul piano amministrativo. Ma entro la fine del 2018 voglio anche approvare l'azzeramento del canone d'affitto per gli over 70 che abitano nelle case Aler e che hanno sempre pagato quanto dovevano. Sul piano più politico, le priorità restano, invece, il lavoro e l'autonomia della Lombardia, che con Matteo Salvini premier otterremo senza alcun dubbio: speriamo in un Governo di centrodestra».

- Si è intrattenuto a lungo con Salvini stamattina (ieri ndr): avete discusso dei nomi per la Giunta regionale?
  «Con Matteo abbiamo affrontato anche il tema della Giunta ma senza soffermarci troppo, lui non vuole interferire nonostante possa farlo perché le sue scelte sono state fondamentali anche per la mia vittoria qui in Lombardia. Abbiamo parlato molto di più di quanto c'è da fare, temi concreti».

- Una persona che vuole fortemente avere in squadra?
  «Darò spazio al merito e ai territori ma non faccio nomi: ho in mente alcune persone, come ovvio, ma non è il momento di pronunciarsi perché devo ancora discutere con gli alleati, dei quali ho il massimo rispetto».

- È vero che l'assessorato alla Sanità potrebbe finire ad un leghista in barba al tacito patto che prevede sia assegnato a Forza Italia?
  «Devo ancora confrontarmi con i miei alleati, quindi in questo momento non c'è nulla di deciso in alcun senso. Ma sottolineo la volontà di decidere insieme a Forza Italia e agli altri partiti della coalizione. Di sicuro la mia Giunta avrà tre assessorati nuovi».

- Quali?
  «Avremo due assessorati mai istituiti finora. Uno unirà riforme, autonomia, enti locali e piccoli Comuni nell'ottica di una Regione che renda protagonisti i territori: le province di oggi, ad esempio, così svuotate, sono assurde. L'altro assessorato nuovo sarà quello alla Montagna e, terza novità, unirò l'assessorato al Welfare e quello alla Casa».

(Il Giorno, 7 marzo 2018)


La musica degli ebrei ultra-ortodossi

di Giulia Laregina

 Le cento porte di Mea She'arim
 
Mea Shearim
  Cosa si prova la prima volta che si entra a Mea She'arim, il quartiere di Gerusalemme abitato esclusivamente da ebrei ultra-ortodossi (o ebrei haredim)? Sembra di fare un passo indietro nel tempo, ci si sente fuori luogo e soprattutto osservati. Incrociando una scolaresca di bambini del posto, state certi che guarderanno le vostre sneakers e i vostri jeans con lo stesso interesse con cui voi guarderete le loro piccole kippah (il copricapo indossato dagli ebrei osservanti) e i loro payot (letteralmente "riccioli laterali"). Ci si sente spaesati, perché si è improvvisamente catapultati in un mondo che non si comprende: perché gli uomini sono vestiti tutti allo stesso modo? Perché molte donne indossano un berretto di lana nonostante ci siano venticinque gradi? Perché alcune persone hanno una scatolina di plastica legata alla fronte?

 Ed Sheeran? No, grazie.
  La Città Vecchia di Gerusalemme è tanto solenne quanto questo quartiere - uno dei primi ad essere costruiti al di fuori delle mura - è vitale. Percorrendo l'affollatissimo marciapiede della sua strada principale si può sbirciare nelle vetrine che esibiscono cibo kasher, costosissimi articoli religiosi, vestiti esclusivamente neri, e anche album musicali.
Nella comunità ortodossa, l'uso di internet è poco diffuso, e questo spiega perché il negozio di dischi del quartiere sia solitamente strapieno di gente. Molti ortodossi non ascoltano musica secolare, e questo significa che la classifica dei dischi più venduti dal negozio non è dominata da Ed Sheeran, ma da tale Yossele Rosenblatt, cantore di origini ucraine morto 85 anni fa.
Descrivere la musica religiosa ebraica è difficile, perché non si tratta di un genere musicale, ma piuttosto di un universo a sé stante. Con il loro cantato solenne e le loro basi musicali abbastanza scarne, i brani degli hazzanim (cantori) sono molto vicini all'idea che ognuno di noi ha di musica religiosa. Non è così invece per molte altre canzoni. Artisti come Mordechai Ben David (MBD) - considerato "The King of Jewish Music" - e Avraham Fried, hanno scelto invece di fondere la musica religiosa tradizionale alla musica popolare, creando brani musicalmente molto simili alla musica secolare dei loro contemporanei. Altri si sono spinti ancora oltre: il gruppo a cappella The Maccabeats, ad esempio, ha costruito un repertorio in parte composto da parodie di canzoni celebri, dal tormentone Despacito a Dynamite di Taio Cruz.

 Un mondo nascosto
  I video musicali prodotti per questi brani sono (a volte involontariamente) divertenti, stranianti, ma soprattutto illuminanti. Ci permettono infatti di dare una fugace occhiata ad un mondo musicale - e prima di tutto umano - generalmente poco conosciuto, sicuramente poco compreso. Un mondo che, come ogni cosa sconosciuta, intimorisce e affascina allo stesso tempo.

(Lo Sbuffo, 6 marzo 2018)


Il voto degli italiani in Israele

Prima il centrodestra, poi il Pd. Appena il 4 per cento per i 5S

Netta maggioranza per la coalizione di centrodestra, cui sono andate oltre il 44 per cento delle preferenze (44,84%). A seguire, dietro di undici punti percentuali (33,79%), il Partito Democratico. Quindi, con poco più del 12%, + Europa di Emma Bonino (12,16%). Appaiate invece con un modesto 4,36 % Liberi e Uguali e Movimento Cinque Stelle. In coda, con lo 0,46 %, la lista Civica Popolare della Lorenzin.
Questo il voto espresso per la Camera dei deputati dagli italiani residenti in Israele, con al momento quattro sezioni scrutinate su cinque. Percentuali molto simili al Senato, dove calano di pochi decimali centrodestra (43,71%) e Partito Democratico (33,09%) mentre la lista della Bonino sfiora il 14% (13,99%). A seguire Cinque Stelle (4,59%), Liberi e Uguali (4,08%) e Civica Popolare (0,51%).
Nel 2013, alla Camera, Il Popolo della Libertà era stato scelto dal 55,97% dei votanti, il Pd dal 21,24%, la lista Monti dal 19,03%, i grillini dal 3,76%. Al Senato invece al centrodestra era andato il 48,5% dei consensi, mentre il Pd ne aveva conquistati il 25,78%, Monti il 22,07% e il Movimento il 3,59%.

(moked, 6 marzo 2018)


Busto Arsizio ricorda il dottor Habermann, il giusto che salvò ebrei e tedeschi

La città ha ricordato la figura del medico ungherese che operò a Busto Arsizio e salvò dai campi di sterminio numerosi ebrei, non ebrei e anche due tedeschi che si dissociarono dal Reich.

 
Si è svolta oggi, martedì, la cerimonia davanti alla lapide che ricorda il dottor Habermann nel giardino dell'ospedale di Busto Arsizio in occasione della giornata dei Giusti. Il monumento all'interno dell'area dell'ospedale fu posato nel 2014 da Gigi Farioli che lo inserì tra le pietre vive della città.
   Aladàr Hàbermann (detto Aldo) è stato un medico ungherese che abitava in città. Nato nel 1904 a Csàtalja, il dottor Hàbermann era ebreo, ma, benché convertito, fu perseguitato dalle leggi razziali. Salvò decine di persone ricercate dai nazifascisti, come scrive la figlia Anna Maria Hàbermann: "nello stesso periodo in cui la sua famiglia veniva perseguitata in Ungheria e poi sterminata dai nazisti, mio padre - coadiuvato validamente dalla moglie Rosa e dal fratello di lei, Mario De Molli - aveva costituito in Italia una rete clandestina di "salvatori di vite", riuscendo a sottrarre alle persecuzioni nazifasciste più di 50 fra partigiani e perseguitati politici, e parecchi ebrei, sia italiani che stranieri. Grazie a questi meriti civili egli ricevette l'agognata cittadinanza italiana dal presidente Einaudi nel 1951, epoca in cui non era facile per uno straniero divenire italiano".
   Anna Maria, la figlia del dottor Habermann, ha presenziato alla cerimonia insieme al sindaco Emanuele Antonelli, al direttore dell'Asst Valle Olona Giuseppe Brazzoli e ad una delegazione di studenti del liceo Tosi. Ha letto alcune lettere inedite scritte da testimoni che sono stati salvati dal medico ungherese. Ebrei, non ebrei, due tedeschi che si erano si dissociati, dissidenti politici e tra questi alcuni li tenne nascosti per mesi in casa. Una delle lettere porta la firma di Enrico Tosi che è stato anche parlamentare negli anni successivi alla fine della guerra.
   Il sindaco ha invitato gli studenti presenti, che hanno fatto un lavoro di ricerca e avevano approfondito le figure di Cosimo Orrù e Habermann, anche alla cerimonia del 24 aprile che si svolge in Procura, davanti alla lapide di Orrù.

(Varese News, 6 marzo 2018)


Israele - I ministri Lieberman e Khalon minacciano di lasciare coalizione

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, e il titolare del dicastero delle Finanze, Moshe Khalon, hanno minacciato ieri di abbandonare la coalizione di governo, capeggiata dal partito Likud del premier Benjamin Netanyahu. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post". All'origine della possibile decisione dei due alleati del capo dell'esecutivo, le questioni della leva obbligatoria degli studenti haredi ed l'approvazione della finanziaria 2019. Il leader del partito Yisrael Beytenu (Israele è la nostra casa), compagine che vanta sei seggi alla Knesset, ha annunciato che uscirà dalla coalizione se il capo del partito United Torah Judaism, Ya'acov Litzman, farà in modo che gli haredi siano esentati dal prestare il servizio militare. Il partito della destra nazionalista guidato da Lieberman, infatti, è contraddistinto da un marcato anticlericalismo e si oppone al sionismo religioso. "Non vogliamo le elezioni e nessuno può volontariamente decidere di astenersi dagli obblighi della leva", ha affermato Lieberman. "Ma se la legge passerà dopo tre letture, non avremo scelta. Spero nel buon senso. Non vedo nessuna ragione per lasciare la coalizione o romperla", ha aggiunto il leader di Yisrael Beytenu. Da parte sua, da Washington Netanyahu ha invitato Lieberman e il ministro del Turismo, Yariv Levin, ad agire con urgenza per risolvere la crisi. A sua volta, il ministro delle Finanze Kahlon ha informato il partito che guida, Kulanu, con dieci seggi alla Knesset, che si dimetterà se la finanziaria 2019 non passerà immediatamente. L'eventuale abbandono dei due alleati di Netanyahu avverrebbe in un momento in cui il premier è al centro di tre diversi casi di presunta corruzione.

(Agenzia Nova, 6 marzo 2018)


Netanyahu: spazio aereo saudita aperto per voli con Israele

Decisione storica di Riad che non riconosce Stato ebraico

ROMA - L'Arabia Saudita ha concesso alla compagnia di bandiera indiana (Air India) l'autorizzazione per voli sul proprio spazio aereo attraverso nuove rotte da e per Tel Aviv. E' quanto ha rivelato il premier israeliano Benjamin Netanyahu in una dichiarazione non confermata da responsabili sauditi, come riferisce oggi la tv satellitare panaraba al Jazeera.
La dichiarazione di Netanyahu sono state fatte a corrispondenti della stampa israeliana a Washington al termine del suo incontro con il presidente americano Donald Trump.
Il primo collegamento autorizzato, secondo fonti aeronautiche citate da media israeliani, sarebbe quello fra New Delhi e Tel Aviv, gestito da Air India. In questo modo il tempo di volo fra le due città si accorcerà di due ore e mezzo, dalle otto attuali a cinque e mezzo. La compagnia risparmierà anche carburante e potrà ridurre i costi dei biglietti. Ma il significato politico è di gran lunga più rilevante in quanto l'Arabia saudita non riconosce lo Stato ebraico.

(askanews, 6 marzo 2018)


«In "Fratelli traditi'' racconto il dramma dei cristiani in Siria»

Intervista a Gian Micalessin

di Francesco Mannoni

"Fratelli traditi", di Gian Micalessin, Cairo, pag. 301, € 16,00
«La guerra potrà essere finita, ma l'odio continua a galleggiare in Siria». Le parole dell'interprete siriano dello scrittore e giornalista Gian Micalessin, da trent'anni inviato in quella parte turbolenta del mondo, spiegano bene una situazione drammatica. La guerra in Siria iniziata il 15 marzo 2011 non è ancora finita, anche se i media sembrano aver dimenticato un conflitto in cui sono morte oltre 200 mila persone, molte delle quali erano cristiani.
«Il conflitto - afferma Gian Micalessin - imperversa ancora in tutto il Nord della Siria dove la Turchia è entrata con le sue truppe e usa gli ex ribelli per combattere i curdi e affermare la sua presenza, con la creazione di uno Stato cuscinetto dove per i cristiani rischia di non esserci più posto ", Discuto della situazione con Gian Micalessin che in un libro crudo e documentato, «Fratelli traditi» (Cairo) racconta «La tragedia dei cristiani in Siria», documentando giorno per giorno la «cronaca di una persecuzione ignorata».
«Contro i cristiani era in atto una specie di sterminio - commenta amaramente Micalessin -. Quelli che sono andati via, erano cristiani abituati a vivere in un paese dove avevano libertà e possibilità di commerciare: oggi la Siria è un paese che difficilmente potrà essere riportato alle condizioni preesistenti di prima della guerra. Il conflitto ha spazzato via quel clima di convivenza che nel bene e nel male una dittatura come quella di Bashar al-Assad e di suo padre prima aveva sempre preservato. Per questo il ritorno e il ruolo dei cristiani rischia di essere compromesso nonostante la guerra non sia stata vinta dai ribelli estremisti».

 Qual è ora la situazione dei cristiani in Siria?
  I cristiani in Siria sono stati traditi, abbandonati e dimenticati. Me l'ha detto Padre Hanna Jallouf, proveniente da un villaggio isolato di una lontana provincia controllata dai ribelli, che mi ha raccontato anche dei loro massacri quando tutte le notizie dicevano che i massacratori erano i soldati del regime di Bashar al-Assad. Ad Aleppo liberata nel 2016 dai russi, il Vescovo latino mi ha detto: i ribelli non venivano per salvarci o liberarci, ma per ucciderci, cacciarci dalle loro città; tutti dicevano di voler combattere l'Isis ma poi solo i russi ci hanno aiutati a liberarci. Tutti sembrano aver dimenticato i nostri fratelli cristiani, che in Siria è nato il cristianesimo dal quale hanno preso forma le idee di tolleranza che sono una premessa alla democrazia e alla crescita degli stati liberali.

 Ma chi orchestrava questa confusione?
  L'Europa ha ascoltato ciecamente la politica imposta dall'amministrazione Obama che puntava ad una insana alleanza con i Fratelli Musulmani e il Qatar, pensando che questi ribelli come anche quelli della Libia e dell'Egitto potessero essere educati alla tolleranza democratica: un'illusione, perché dietro questi ribelli si nascondevano i fratelli musulmani, i gruppi jihadisti e i grandi burattinai, ovvero il Qatar, l'Arabia Saudita e la Turchia.

 Intento degli islamisti, come scrive Alberoni nell'introduzione, è davvero quello di distruggere la più antica comunità cristiana al mondo?
  Sì, perché i cristiani rappresentano un pericolo essendo un antidoto all'estremismo e al fondamentalismo e sempre hanno svolto un ruolo importantissimo in tutto il Medio Oriente: in ogni contingenza hanno fatto da ammortizzatore fra i contrasti delle varie comunità perché i cristiani non hanno mai accettato la logica della violenza e del sangue assai diffusa in Medio Oriente. Dopo la caduta di Saddam Hussein però sono stati perseguitati in Iraq, e poi in Egitto e in Siria con l'intento di mettere fine a una secolare convivenza religiosa.

 I cristiani siriani, vittime sacrificate alle ragioni di Stato internazionali?
  Sacrificati perché l'obiettivo della guerra in Siria era spezzare l'asse sciita che consente all'Iran d'essere presente in tutto il Medio Oriente, minacciare Israele e imporsi come grande potenza. Spezzando quell'asse, il gioco di potere dell'Iran sarebbe finito. Il calcolo fu fatto dall'Amministrazione Obama anche per aiutare Israele che vede in Iran il suo principale nemico e mai avrebbe permesso un accordo sul nucleare, ma il contraltare che l'amministrazione Obama offriva agli israeliani era spezzare l'asse sciita e non permettere più il collegamento diretto tra l'Iran e gli hezbollah. Ma tutto ciò è stato pensato senza fare i conti con la capacità di resistenza del regime di Bashar al-Assad, dell'intervento iraniano e di quello risolutivo di Putin che ha visto nella Siria un modo per tornare a giocare un ruolo importante e di grande potenza in Medio Oriente.

(Gazzetta di Parma, 6 marzo 2018)


Intesa Trump-Netanyahu per fermare Teheran

di Giordano Stabile.

In quella che potrebbe essere la sua ultima visita alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu invita Donald Trump a Gerusalemme, il 14 maggio, a «tagliare il nastro» dell'ambasciata americana trasferita nella Città Santa, come promesso in campagna elettorale. E soprattutto cerca di saldare il fronte anti-Iran con una nuova iniziativa contro il programma missilistico della Repubblica islamica, volta a proibire ogni vettore con una gittata superiore ai 300 chilometri.
   L'intesa fra i due leader, in sintonia ancor prima che Trump venisse eletto presidente degli Stati Uniti, è stata totale, almeno a parole: Iran, Siria, trattative di pace con i palestinesi, che dovranno accettare il «fatto compiuto» di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. La luna di miele però potrebbe finire presto. Il premier israeliano è assediato dalle inchieste giudiziarie. Ieri uno dei suoi stretti collaboratori ha accettato di testimoniare. Il cerchio si stringe. Anche Trump è sotto assedio, con il Russiagate che infuria fin dentro la Casa Bianca.
   Poco importa. Ieri era il momento delle celebrazioni. «È la prima volta che ci incontriamo a Washington dopo la decisione su Gerusalemme», ha esordito Netanyahu. Trump ha replicato di essere «molto orgoglioso» della scelta «apprezzata in una grande parte del mondo», anche se in realtà finora soltanto il piccolo Guatemala, visitato domenica dal premier israeliano, lo ha seguito. Netanyahu ha parlato poi di decisione che sarà «ricordata nei secoli», come la fine dell'esilio babilonese ai tempi di Ciro il Grande, la dichiarazione di Balfour, o il riconoscimento di Israele da parte di Harry Truman, ottant'anni fa.
   A differenza dei tempi di Ciro il Grande, però, il pericolo maggiore ora è l'erede dell'Impero persiano, l'Iran degli ayatollah, la «più grande sfida che dobbiamo affrontare in Medio Oriente». L'Iran «va fermato», ha ribadito Netanyahu, con i toni del discorso alla Conferenza di Monaco, quando ha mostrato al mondo un pezzo del drone iraniano abbattuto sul Golan il 10 febbraio. Iran e Siria sono visti da Israele come un tutt'uno, un fronte unico, ma funzionari della Difesa, citati dal quotidiano Haaretz, hanno fatto trapelare il loro disappunto perché, su Iran e Siria, «non stiamo vedendo nessuna azione concreta da parte dell'America».
   Questa è oramai la consapevolezza di tutto l'establishment israeliano. Nonostante i toni duri, le minacce, i discorsi di fuoco «non esiste una politica per contenere Teheran». Vista dallo Stato ebraico la battaglia della Ghouta è soltanto una tappa che avvicinerà l'esercito di Bashar al-Assad e le milizie sciite al Golan e alla frontiera con Israele. Il tempo comincia a scarseggiare. La guerra civile, che doveva mettere in ginocchio il regime, rischia di finire con un Assad militarmente più forte e la Siria trasformata in una testa di ponte dell'Iran sul Mediterraneo.
   Per questo Netanyahu, sempre secondo Haaretz, ha presentato a Trump un piano per «contenere» gli ayatollah. Proibire, sotto pena di sanzioni durissime, la produzione di missili con una gittata superiore ai 300 chilometri e costringere i pasdaran a lasciare la Siria, o almeno ad allontanarsi dal confine. Il piano avrà bisogno dell'appoggio europeo ma sui missili, a differenza che sull'accordo nucleare, Bruxelles sembra più disposta ad allinearsi.
   Un successo su questo fronte sarebbe anche ossigeno per il Netanyahu politico, mai così in difficoltà. Domani sarà al convegno annuale dell'Aipac, la più importante lobby ebraica in America, a mietere applausi. Ma in patria lo attendono sviluppi preoccupanti. Uno dei più stretti collaboratori, lo «spin doctor» Nir Hefetz, ha accettato di collaborare con i magistrati e di consegnare registrazioni compromettenti per Netanyahu e la moglie Sarah sull'ultimo caso aperto: favori al gigante telefonico Bezeq in cambio di articoli «positivi» sul suo sito Internet, Walla.

(La Stampa, 6 marzo 2018)


Israele costruisce un nuovo muro col Libano

 
Costruzione di un muro al confine tra Israele e Libano
All'estremo Sud del Libano, a qualche chilometro dalla spiaggia di Naqoura, una delle più belle del paese, Israele ha cominciato a costruire un nuovo muro. Composto di blocchi di cemento allineati, di circa 7 metri di altezza e 500 di lunghezza, il muro si arresta a qualche metro dal mare. Israele ne ha deciso la costruzione dopo le minacce del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di lanciare azioni offensive verso la Galilea nel corso di un'eventuale guerra contro lo stato ebraico. Sulla lunghezza finale del muro circolano voci contraddittorie, ma secondo la stampa libanese la barriera dovrebbe ricalcare la cosiddetta linea blu fino a Chebaa, più di 80 chilometri a Nord di Naqoura. Il problema è che il Libano contesta 13 punti lungo tale frontiera. «Israele può costruire un muro grande come la Muraglia cinese fintanto che non si trova su uno di questi punti. Altrimenti noi reagiremo, poiché è una violazione della nostra sovranità», spiega una fonte governativa. Nel 2012 Israele ha costruito un primo muro di 2 chilometri lungo la frontiera. Sul lato libanese il muro è ricoperto delle foto di «martiri» e dei disegni pro Hezbollah realizzati dagli allievi delle scuole della regione.

(ItaliaOggi, 6 marzo 2018)


Assad sequestra i convogli umanitari. "Gli aiuti finiscono nelle mani degli islamisti"

Civili allo stremo a Ghouta. L'esercìto punta al confine con Israele

di Giordano Stabile

L'esercito di Bashar alAssad è a un passo dal tagliare in due l'enclave della Ghouta, ma a pagare il prezzo più alto sono ancora i civili, con almeno 46 vittime nella sola giornata di ieri. E nemmeno l'arrivo del primo convoglio umanitario dopo due mesi e mezzo è riuscito a portare sollievo più di tanto, perché gran parte delle forniture sono state sequestrate dai militari, per impedire che finissero in mano «ai combattenti islamisti». La situazione, ha denunciato l'Onu, «è ormai oltre la soglia critica».
   Ieri mattina, dopo cinque tentativi andati a vuoto, i 46 camion carichi di cibo e medicine per «27 mila persone» erano stati fatti finalmente incolonnare verso il checkpoint di Wafidin e il corridoio che da Damasco porta verso Douma, la città più importante nella periferia orientale della capitale. Ma all'ultimo momento tutti i kit salvavita e il materiale chirurgico, come quello per le trasfusioni, sono stati bloccati. Secondo i funzionari dell'Onu, il «70 per cento» del totale.
   Per il regime di Damasco queste forniture vanno a curare i ribelli feriti e quindi li aiutano a resistere. Ma in questo modo neanche i civili feriti possono essere curati.
   E ieri, con oltre 40 civili uccisi dai raid e dall'artiglieria, ce n'era ancor più bisogno. La comunità internazionale è tornare a premere sulla Russia e su Damasco, con il presidente francese Emmanuel Macron che ha chiesto a Vladimir Putin di far passare «tutti gli aiuti» e di rispettare la tregua votata dal Consiglio di Sicurezza.
   Assad ha ribadito che le operazioni «andranno avanti», anche perché sente la vittoria a portata di mano.
   In un settimana di offensiva di terra l'esercito ha riconquistato oltre un terzo della sacca. La linea di difesa fortificata sul lato orientale è crollata, i combattenti si stanno trincerando nei principali centri urbani, Douma, Arbin, Zamalka. Migliaia di civili sono in fuga, in gran parte verso le zone più interne dell'enclave. Le avanguardie dei governativi sono ora a meno di tre chilometri da Harasta, sul lato occidentale, e stanno per tagliare in due il territorio ribelle.
   È un'avanzata molto più rapida, finora, rispetto alla battaglia di Aleppo del 2016. Assad ha concentrato ben sei divisioni, circa 100 mila uomini, per sigillare la sacca e poi conquistarla. Ci sono le due più potenti unità a sua disposizione, la Quarta divisione meccanizzata, guidata dal fratello del raiss, e le Qawet al-Nimir, le «Tigri».
   Ma anche la Sesta e Nona divisione, unità regolari completamente ristrutturate. Rispetto ad Aleppo il regime ha voluto che l'operazione fosse tutta in mano all'esercito. Ci sono certo consiglieri militari dei Pasdaran, e russi, ma la presenza di milizie sciite è minima, e comunque tenuta in secondo piano.
   La strategia di Damasco, e di Mosca, vede nella battaglia della Ghouta un «test» per le forze armate siriane e un passo decisivo per «normalizzare la guerra». Le milizie, nei piani, saranno inviate a sorvegliare fronti secondari, nei territori poco popolati dell'Est. Questo perché, dopo aver eliminato l'ultima importante sacca ribelle, l'esercito tornerà al suo compito tradizionale, alla frontiera Sud-occidentale, dove c'è il «nemico strategico» cioè Israele.
   È un esercito molto diverso dal 2001. Ha dimezzato gli effettivi, da 250 mila uomini che aveva, adesso può schierarne poco più di 100 mila, ma è più efficiente. Le unità sono state snellite e riorganizzate, le migliori sono formate in gran parte da volontari con fedeltà certa al raiss, e con una potenza di fuoco da 3 a 4 volte maggiore, grazie ai nuovi armamenti forniti dai russi, soprattutto blindati moderni e i potenti carri T90 adattati alla guerra urbana.
   Dopo la Ghouta, l'obiettivo è riconquistare tutta la provincia di Daara, al confine con la Giordania e Israele. E la tensione è destina a salire ancora.

(La Stampa, 6 marzo 2018)


Il medico siciliano che salvò ebrei certificando false malattie

di Claudia Brunetto e Marta Occhipinti

Ottobre 1943. Nel reparto di Malattie infettive del Policlinico universitario di Roma, durante un ordinario giro di visite, un pediatra scopre un paziente ricoverato senza alcuna patologia confermata da un referto ufficiale. «Mi hanno trovato il male di Kesselring», esclamò il finto malato, ispirandosi al nome dell'ufficiale nazista a capo delle truppe italiane. E il medico decise subito di trattenerlo, dandogli la falsa qualifica di "aiuto medico".
   Pochi mesi dopo nella clinica che sarebbe stata denominata "degli appestati", furono ricoverati su ordine del pediatra e infettivologo siciliano Giuseppe Caronia, classe 1884, intere famiglie di ebrei italiani, militari in fuga e rifugiati politici: tutti con finte diagnosi di tifo, morbillo e broncopolmonite per giustificare dei soggiorni terapeutici all'interno del reparto medico più temuto dai tedeschi, dal quale i nazisti si tennero sempre alla larga perché temevano di essere contagiati dalle epidemie.
   Giuseppe Caronia, originario di San Cipirello, nascose, salvandole da morte certa, intere famiglie ebree condannate dalle leggi razziali. Oltre 89 persone, tra cui molti bambini, i cui nomi sono stati raccolti tutti in una lista, scoperta solo alla fine degli anni Novanta nelle carte private del medico, eletto "Giusto tra le Nazioni" nel 1998, ventuno anni dopo la sua morte. Fu uno Schindler siciliano, la cui storia rimase sepolta per oltre cinquant'anni tra le carte al buio dell'archivio di "Villa Rossa", la sua casa di Taormina, e le memorie silenziose dei piccoli ebrei che salvò.
   Oggi Palermo lo celebra per la "Giornata europea dei giusti". Le lettere, gli articoli e gli studi privati saranno resi pubblici grazie a una donazione all'Archivio storico comunale e sarà affissa una targa nel giardino dei Giusti di via Alloro.
   Uno dei più piccoli salvati dal medico fu Eugenio Sonnino, appena cinque anni. Caronia ricoverò suo padre dopo avergli fatto iniettare dei virus inattivi per provocare i sintomi del tifo e giustificarne il ricovero. Lui e la famiglia furono nascosti al Policlinico. Dalle finestre dell'ospedale videro cadere le bombe sul quartiere romano di San Lorenzo, ma anche i volti sorridenti dei soldati americani, i primi di giugno del' 44. Divenuto professore di Demografia alla Sapienza, Sonnino cominciò a fare ricerche su quel pediatra «gentile e sicuro» che accoglieva i suoi pazienti in una sala d'attesa con mobili a misura di bambino. Sono proprio i materiali raccolti da lui negli anni a confluire oggi nell'archivio di Palermo.
   Quella di Caronia fu una lezione di coraggio e di solidarietà negli anni più duri della lotta al fascismo. Un atteggiamento che non divise l'uomo dal professionista. Perché per lui «la dote più importante per un medico è il senso di umanità» che lui esercitò rischiando la vita. Soprattutto salvando i bambini, una ventina quelli ricordati nella sua lista. Lui, che figli non ne ebbe mai.
   A San Cipirello la scuola media del paese oggi porta il suo nome. In Sicilia, Caronia tornò poche volte, eppure fu sempre legato alla sua terra, tanto da consigliare al presidente Alcide De Gasperi, di cui fu medico di fiducia, di trasferirsi in Sicilia anziché in Trentino, in un famoso articolo comparso nella rivista "Concretezza" di Giulio Andreotti.
   Il ricordo del medico giusto perseguitato dal fascismo negli ultimi cinque anni è diventato oggetto di studio di un giovane studente di Studi storici dell'Università di Palermo, Enrico Isidoro Guida, che alla sua figura ha dedicato due tesi di laurea. Nella sua casa in corso Calatafimi custodisce parte dell'archivio originale composto da duecento fotografie, lettere autografe e documenti della vecchia villa sulla scogliera di Taormina. «La storia di Caronia mi ha appassionato fin dal primo momento - racconta Guida - è un personaggio controverso e fascinoso».
   Così rivive il ricordo di un medico che disse sempre a chi lo ringraziò di non aver fatto altro che il suo dovere. E che salutava con gentilezza dicendo: «Pace, Shalom per sempre!»,

(la Repubblica - Palermo, 6 marzo 2018)


Per ricordare la Shoah, task force a guida italiana

Oggi a Berlino il nostro Paese assume la presidenza annuale, mentre si celebra la Giornata europea dei Giusti

di Ada Treves

BERLINO - Indifferenza. Responsabilità Due parole da considerare con attenzione, due visioni opposte della vita, due scelte possibili che per troppi hanno fatto la differenza tra la vita e la morte.
Una, «indifferenza», scolpita per volontà della neo senatrice a vita Liliana Segre al Binario 21, il Memoriale della Shoah che a Milano si trova nel luogo da cui i deportati, tra cui la stessa Segre, venivano inviati ad Auschwitz.
L'altra, «responsabilità», è stata al centro della prima conferenza organizzata dalla presidenza italiana dell'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea. Una presidenza apertasi poco prima di un altro passaggio diplomatico importante: oggi all'ambasciata italiana a Berlino l'ambasciatore Sandro De Bernardin, capo delegazione presso l'International Holocaust Remembrance Alliance, assumerà per l'Italia la responsabilità della presidenza 2018, a ottant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali del 1938.
La rete intergovernativa nata nel 1998 come «Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research» (Itf) riunisce due volte l'anno le 41 delegazioni nazionali per una settimana di riunione plenaria, dove ministri, ambasciatori e rappresentanti del mondo accademico lavorano suddivisi per commissioni. Gli appuntamenti italiani per il 2018 saranno a Roma, a maggio, e poi a Ferrara, a novembre, in collaborazione con il Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah. È ininterrotto invece il lavoro dei delegati: studi e ricerche volte a promuovere azioni concrete di formazione e insegnamento, documenti da presentare alle organizzazioni internazionali e un'azione costante sviluppata con i governi per riportare il tema dell'attenzione alla Shoah, al razzismo e all'antisemitismo nella politica contemporanea. Non casualmente è il Miur il ministero di riferimento per la delegazione italiana: per il 2018 l'impegno sarà soprattutto sul fronte dell'educazione.
Il passaggio di consegne avviene nella ricorrenza della Giornata europea dei Giusti, proclamata nel 2012 dal Parlamento europeo per commemorare coloro che si sono opposti ai crimini contro l'umanità e ai totalitarismi. Per sottolineare ulteriormente l'importanza della responsabilità, questa volta individuale.

(La Stampa, 6 marzo 2018)

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Francobollo dedicato alla Presidenza italiana dell'Alleanza Internazionale per l'Olocausto

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha emesso oggi, 5 marzo, un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica "Il Senso civico" dedicato alla Presidenza italiana dell'Alleanza Internazionale per la Memoria dell'Olocausto (International Holocaust Remembrance Alliance - Alleanza Internazionale per la Memoria dell'Olocausto). Il francobollo è stampato dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A., in rotocalcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente. Nella vignetta realizzata dalla bozzettista Cristina Buscaglia, su uno sfondo tricolore che richiama la bandiera italiana, si evidenziano alcuni fili spinati le cui spine si trasformano in farfalle.
A destra, rispettivamente in alto e al centro, sono riprodotti la Stella di David, rappresentativa della civiltà e della religiosità ebraica, e il logo della Presidenza italiana 2018 per l'IHRA. Completano il francobollo la leggenda "PRESIDENZA ITALIANA ALLEANZA INTERNAZIONALE PER LA MEMORIA DELL'OLOCAUSTO", la scritta "ITALIA" e il valore "€ 0,95". Per l'occasione è stato realizzato anche un folder in 5000 esemplari, contenente il francobollo, una cartolina allestita e una busta primo giorno, in vendita al costo di 12 euro. La presentazione del francobollo è avvenuta questa mattina a Roma presso lo Spazio Filatelia di piazza San Silvestro, alla presenza del capo delegazione italiana all'Ihra Sandro De Bernardin e del Responsabile Filatelia di Poste Italiane Fabio Gregori
La Presidenza italiana dell'IHRA inizierà il 6 marzo 2018 e avrà durata un anno. L'IHRA è un organismo intergovernativo che, sulla base di una Dichiarazione sottoscritta a Stoccolma nel 2010, stimola e coordina l'impegno di 31 Stati nel promuovere l'educazione, il ricordo e l'approfondimento storico della Shoah.

(Cagliari Post, 5 marzo 2018)


Generale israeliano: Hamas si sta avvicinando a Hezbollah e Iran

GERUSALEMME - Il movimento islamista palestinese Hamas si sta avvicinando maggiormente all'Iran e alla formazione sciita libanese Hezbollah. Lo ha detto oggi il responsabile del comando meridionale di Israele, generale Eyal Zamir. Secondo l'alto ufficiale, Hamas "sta giocando una partita pericolosa". Nel corso di una conferenza che si è svolta a Sderot, Zamir ha sottolineato che "le minacce lungo il confine non sono terminate e che siamo impegnati a restare in guardia e ad essere preparati alla guerra". Nell'eventualità di un conflitto, "siamo pronti a vincerlo", ha aggiunto. Parlando della situazione lungo la linea di demarcazione fra Israele e Striscia di Gaza dal 2014, dopo l'operazione Protective Edge, Zamir ha spiegato che la "prosperità è il risultato di una società forte che ha mostrato un'immensa forza". Infine, l'ufficiale ha ricordato che "Israele investe molto nella costruzione di ostacoli sotterranei ed in superficie".

(Agenzia Nova, 5 marzo 2018)


Samarathon 2018: tre giorni di fuoco nel deserto israeliano

Siamo tornati dalla Samarathon 2018 ed è arrivato il momento di raccontarvi la nostra esperienza.
Avete mai pensato di prendere la mountain bike e andare a pedalare nel deserto? Noi abbiamo avuto l'opportunità di farlo e di conoscere un nuovo mondo e una nuova terra dalle bellezze che mai ti aspetteresti di vedere.
La Samarathon, per chi non ci avesse seguiti in precedenza, è una gara marathon a coppie che si svolge in Israele, nella parte sud del deserto di Arava, nel Parco del Timna. E' un evento a tappe di tre giorni per un totale di 200 km e circa 2500 metri di dislivello. Tre giorni immersi in una natura all'apparenza "arida e fredda", ma in grado di regalarti emozioni mai provate prima....

(MtbCult, 5 marzo 2018)


Medioriente bollente. È già partita la corsa alle armi nucleari

di Fiamma Nirenstein

Sarebbe molto interessante, in queste ore di frenetica verbalizzazione delle intenzioni politiche sul futuro dell'Italia, capire come intende muoversi il nostro Paese nell'ambito di una crisi mondiale che rischia di vedere il Medio Oriente prendere fuoco a causa degli appetiti iraniani e della reazione di chi intende difendersi, da Israele a tutti i Paesi arabi moderati. Gli Usa da una parte, Putin dall'altra, Israele pronta all'azione, i Paesi Arabi si armano contro gli ayatollah, le milizie iraniane si espandono a decine di migliaia con gli Hezbollah, le loro intenzioni imperiali minacciano ben più dell'Isis. Naturalmente la promessa dei 5 stelle di una ministra degli esteri, come ha scritto il Foglio, sostanzialmente antioccidentale e amica dei seguaci di Chomsky, lo riteniamo uno scherzo di cattivo gusto. Ma sarebbe bello, invece, capire come si intende reagire alla macelleria di Bashar Assad coadiuvato dagli Hezbollah, armato e difeso dagli iraniani mentre seguita a uccidere i suoi compatrioti, supportato dai russi fino nel Consiglio di Sicurezza insieme al suo schieramento sciita omicida, fino al recentissimo veto di chiedere a Teheran di smettere di mandare armi agli Huti, «proxy» degli iraniani a Teheran. Cosa si pensa sull'inasprirsi dello scontro stile Guerra Fredda delle due grandi potenze, della melensa inutile ripetizione di principi terzomondisti dell'Europa, della questione della Corea del Nord?
   Il viaggio di Benjamin Netanyahu verso la Casa Bianca intrapreso ieri disegna un incontro col presidente Trump in cui si parlerà di nuovo di Iran: a 10 km da Damasco un satellite ha scoperto una base iraniana operata dalle forze Quds in cui si allineano missili a medio raggio che possono colpire qualsiasi parte di Israele. Una struttura simile fu distrutta a dicembre. Mentre questo avviene, dato che i missili sono stati disseminati dall'Iran a decine di migliaia anche presso gli Hezbollah, si prevede che sia in Siria sia in Libano le cose potrebbero svilupparsi fino alla necessità di fermare la situazione con un intervento di terra. Ma la prospettiva più drammatica è disegnata da Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Algeria, Tunisia, Sudan, Emirati, intenti a dotarsi tutti quanti di strutture nucleari travestite all'inizio, prendendo esempio dall'Iran, da strutture civili. Si riporta di accordi palesi e occulti sia con la Russia che con la Corea del Sud per costruire le strutture, mentre tutti questi Paesi hanno abbastanza materiale fissile. Farsi una bella struttura nucleare è lo status symbol che manifesta la determinazione di ogni rais e sceicco a difendersi dall'Iran. Se Trump non si decide a far qualcosa, e Israele si limita a difendersi a episodi, gli arabi non sono dello stesso parere: l'Iran ha occupato tutto lo spazio lasciato libero da Saddam nel 2003. Manca poco a uno scontro multicomprensivo. Solo Hamas e i palestinesi occhieggiano da quella parte, i toni degli altri sunniti verso Israele sono diventati moderati, gli accordi si moltiplicano ( come quello clamoroso dell'Egitto con Israele sull'energia) e ormai non ha più senso la narrativa del conflitto arabo-israliano, in cui l'Europa sembra credere ancora, ma piuttosto quella del conflitto arabo-iraniano. Magari dopo le elezioni qualcuno si accorgerà che la strada è ardua e che richiede decisioni politiche audaci.

(Il Giornale, 5 marzo 2018)


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Pericolo al nord: Netanyahu deve spingere Trump ad agire

Riportiamo soltanto la conclusione di un lungo articolo dell'analista Ron Ben Yshai, pubblicato sul quotidiano israeliano ynet il 3 marzo scorso.
    «La conclusione è che Israele deve battere duramente il pugno sul tavolo di Washington e chiedere al presidente Trump di impegnare il suo paese in modo più deciso - diplomaticamente e forse militarmente - in tutta la Siria e non solo ad est dell'Eufrate.
    Questo servirà anche gli interessi strategici della Giordania e di altri paesi del campo pro-occidentale arabo sunnita. Abbandonare l'arena siriana ai russi, al contrario, permetterà all'Iran di raggiungere i suoi obiettivi strategici.
    Con tutto il dovuto rispetto per un evento simbolico di alto profilo come la cerimonia di inaugurazione di un nuovo ufficio dell'ambasciatore statunitense in Israele a Gerusalemme, questo non servirà nemmeno di una virgola a promuovere gli interessi strategici esistenziali di Israele. Se Trump è un vero amico di Israele, come afferma, deve dimostrarlo in Siria. E deve dimostrarlo adesso.»
Com'era da temere, lo sbandierato trasloco dell'Ambasciata Statunitense a Gerusalemme si sta rivelando per quello che è: un intervento cosmetico di facciata. Israele dovrà alla fine convincersi che tra le nazioni non ha amici stabili, ma soltanto occasionali partner d'affari che per un certo tempo trovano conveniente avere rapporti amichevoli di mutuo interesse. Per Israele il rapporto che conta è stato sempre quello verticale. M.C.

Articolo originale: "Danger in the north: PM Netanyahu must push Trump to act"

(Notizie su Israele, 5 marzo 2018)


Ecco cosa passa nella testa dell'Iran. La paura dell'isolamento che li porta a dominare

L'astuto Vali Nasr analizza la mentalità di Teheran, potenza egemone in un medio oriente nel caos completo, scrive Foreign Affairs.

Nel corso degli ultimi sette anni, sconvolgimenti sociali e guerre civili hanno lacerato l'ordine politico che aveva definito il medio oriente da quando dopo la Prima guerra mondiale le autocrazie una volta solide sono cadute nel dimenticatoio". Così Vali Nasr, analista iraniano-americano di prim'ordine. "Agli occhi dell'amministrazione Trump e di una serie di altri osservatori e funzionari a Washington e nella regione, c'è un unico responsabile dietro il caos: l'Iran. Non c'è dubbio che molti aspetti del comportamento dell'Iran pongono serie sfide agli Stati Uniti. Né vi è alcun dubbio che l'Iran abbia beneficiato del crollo del vecchio ordine nel mondo arabo, che era solito contenerlo. Eppure la sua politica estera è molto più pragmatica di quanto molti in occidente comprendano. L'Iran, come ha mostrato la sua volontà di impegnarsi con gli Stati Uniti nel programma nucleare, è guidato da calcoli testardi di interesse nazionale, non dal desiderio di diffondere la rivoluzione islamica all'estero.
  Il medio oriente ristabilirà la stabilità solo se gli Stati Uniti faranno di più per gestire i conflitti e ristabilire l'equilibrio. Ciò richiederà un approccio sfumato, incluso il lavoro con l'Iran, non affrontandolo di riflesso. L'Iran è più vicino alla Russia e alla Cina moderne che ai loro predecessori rivoluzionari. Come loro, è un potere revisionista, non rivoluzionario. Si oppone a un ordine regionale progettato per escluderlo. La visione dell'Iran del mondo è modellata meno dai pensieri di Lenin e Mao che da quelli di Vladimir Putin e Xi Jinping. Ed è guidato meno dallo zelo rivoluzionario che dal nazionalismo. Ciò che caratterizza l'attuale prospettiva dell'Iran risente non solo della Rivoluzione iraniana del 1979, ma anche della dinastia Pahlavi, che ha governato il paese per i cinquant'anni che hanno preceduto la rivoluzione. Oggi i leader iraniani intrecciano le loro espressioni di fedeltà agli ideali islamici con antichi miti nazionalisti. Come la Russia e la Cina, l'Iran ha ricordi vivaci del suo passato imperiale e le aspirazioni di uno status di grande potenza. E come quei due paesi, l'Iran vede un ordine regionale guidato dagli Stati Uniti come un ostacolo alle sue ambizioni. Le invasioni statunitensi di Afghanistan e Iraq hanno posto centinaia di migliaia di soldati statunitensi ai confini dell'Iran e hanno convinto Teheran che sarebbe stato sciocco pensare che le forze iraniane potessero contrastare i militari statunitensi sul campo di battaglia. Ma l'occupazione americana dell'Iraq ha dimostrato che, una volta finita l'invasione iniziale, le milizie sciite e gli insorti sunniti avrebbero fatto proprio questo, persuadendo gli Stati Uniti a ritirarsi. L'Iran teme di essere sopraffatto dai suoi tradizionali rivali.
  L'Iran vede anche le minacce dal mondo arabo. Dal 1958, quando una rivoluzione rovesciò la monarchia irachena, l'Iraq rappresenta una minaccia continua per l'Iran. Il ricordo della guerra Iran- Iraq negli anni Ottanta plasma le prospettive dell'Iran sul mondo arabo. Molti alti leader iraniani sono veterani di quella guerra, durante la quale l'Iraq ha annesso il territorio iraniano, usato armi chimiche contro le truppe iraniane e terrorizzato le città iraniane con attacchi missilistici. E dal 2003, le crescenti tensioni tra sunniti e sciiti in tutta la regione hanno rafforzato la percezione che il mondo arabo metta a repentaglio la sicurezza del paese. L'Iran si preoccupa anche di essere sopraffatto dai suoi tradizionali rivali.Una logica simile è alla base del programma missilistico a lungo raggio dell'Iran (e, prima dell'accordo del 2015, dei suoi sforzi nucleari). Teheran ha inteso questi programmi come ombrello protettivo sulle altre sue forze, una strategia utilizzata con successo dal Pakistan contro l'India. Il comportamento dell'Iran oggi appare più minaccioso di quanto non fosse una volta, non perché l'Iran è più intento a confrontarsi con i suoi rivali e seminare disordine rispetto a prima, ma a causa dei drastici cambiamenti che il medio oriente ha attraversato nell'ultimo decennio e mezzo. E' scomparso l'ordine arabo sul quale Washington si è affidata per decenni a gestire gli affari regionali e limitare il margine di manovra dell'Iran. In molti modi, l'instabilità ha accresciuto il relativo potere e l'influenza del paese in tutta la regione; con così tanti altri centri di potere indeboliti, Teheran appare più grande di prima. Sono convinti che anziché ritirarsi, l'Iran deve mostrare forza proteggendo il suo territorio in medio oriente. In definitiva, la posizione degli Stati Uniti in medio oriente riflette la sua più ampia ritirata dalla leadership globale. Gli Stati Uniti non hanno la capacità di annullare i guadagni iraniani e riempire il vuoto che così facendo lascerebbero indietro. A Teheran è emerso un consenso intorno a legami più stretti con la Russia.
  L'Iran si trova in una posizione geografica importante ed è un paese ricco di energia e di 80 milioni di persone, con una rete di alleati e clienti che attraversa il medio oriente, tutti al di fuori della sfera di influenza degli Stati Uniti. Ciò rende l'Iran un premio per Putin, che è desideroso di respingere gli Stati Uniti ovunque sia possibile. Lavorando insieme nella guerra civile siriana, le forze armate iraniane e russe e le comunità di intelligence hanno stretto profondi legami, il che aiuterà l'Iran a resistere alla futura coercizione americana. L'Iran è una componente indispensabile di qualsiasi ordine sostenibile in medio oriente. Lo scontro militare non farebbe altro che incoraggiare Teheran a investire ancora di più nella difesa in avanti, portando a una maggiore ingerenza iraniana e a una maggiore instabilità. Stati stabili come il Bahrain, la Giordania, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, potrebbero inciampare, e quelli deboli, come l'Iraq e il Libano, potrebbero scendere nel tipo di violenza che hanno caratterizzato la Libia e lo Yemen negli ultimi anni. Oltre a ciò, gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare crisi umanitarie e gruppi terroristici che avrebbero ripreso da dove l'Isis ha lasciato. Invece di concepire un ordine regionale progettato per contenere l'Iran, gli Stati Uniti dovrebbero promuovere una visione per il medio oriente che includa l'Iran. Dovrebbe convincere Teheran che sarebbe meglio lavorare con Washington e i suoi alleati piuttosto che investire le sue speranze in un ordine regionale sostenuto dalla Russia. Per riuscirci, gli Stati Uniti dovrebbero fare più affidamento sulla diplomazia e meno sulla forza".

(Il Foglio, 5 marzo 2018)


Le cyber spie iraniane Chafer prendono di mira il Medio Oriente

Chafer, le cyber spie dell'Iran, puntano il Medio Oriente. Nel 2017 ci sono stati attacchi a Israele, Giordania, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Ma non solo.

di Francesco Bussoletti

Il gruppo di cyber spie Chafer, che fa capo all'Iran, sta espandendo le sue operazioni in Medio Oriente. Lo hanno scoperto i ricercatori di sicurezza informatica di Symantec, che hanno pubblicato un rapporto a riguardo. La formazione di hacker di stato di Teheran, l'anno scorso impegnata soprattutto in azioni di sorveglianza interna, sta rivolgendo l'attenzione in tutta la regione. Tanto che alla fine del 2017 si sono registrati diversi cyber attacchi contro obiettivi in Israele, Giordania, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti (UAE).
Symantec: gli hacker di stato di Teheran prendono di mira i trasporti aerei e marittimi per sorvegliare e tracciare i loro bersagli
Tra i settori colpiti da Chafer non ci sono solo i soliti, anche se uno dei maggiori provider della regione, l'anno scorso è stato compromesso dalle cyber spie iraniane. I bersagli degli hacker di Teheran sono anche compagnie aeree, società di servizi aeroportuali e aziende tecnologiche che operano nell'ambito dei trasporti marittimi e aerei. Nel rapporto di Symantec, infatti, si precisa che "ci sono stati tentativi di attacchi informatici alle più grandi aziende di prenotazioni di viaggio", nonché a una compagnia aerea africana. L'obiettivo primario degli attori della cyberwarfare, rimane però lo spionaggio cibernetico. In particolare la sorveglianza e il tracciamento di soggetti specifici. Tanto che la maggior parte delle cyber aggressioni sono portate proprio a reperire informazioni sui bersagli.
Le capacità di cyberwarfare dell'Iran sono in aumento. Per l'Arabia Saudita è il paese più pericoloso
Le cyber spie Chafer, comunque, non sono un nuovo gruppo. Symantec si era già occupato di loro nel 2015, sottolineando che gli hacker principalmente spiavano persone in Iran. Ma già allora, gli esperti informatici di Teheran cominciavano a prendere di mira le società di TLC e le compagnie aree in Medio Oriente. Il "salto di qualità" è avvenuto l'anno scorso, quando hanno cominciato a usare nuovi tool per lanciare i loro cyber attacchi. Uno di questi, peraltro, è stato impiegato nel corso delle campagne ransomware WannaCry e NotPetya. D'altronde, che le capacità della Repubblica sciita nella cyberwarfare siano crescenti è ormai assodato. Tanto che a febbraio il ministro degli Esteri saudita, Adel Al-Jubeir, ha detto alla CNBC che l'Iran è la "nazione più pericolosa" per quanto riguarda le minacce cibernetiche. "E' l'unico paese che ci ha attaccato ripetutamente - ha sottolineato - e che continua a provarci. Tentano su base settimanale".

(Difesa & Sicurezza, 5 marzo 2018)


Ogni goccia d'acqua dovrebbe essere utilizzata due volte

Il metodo israeliano contro la siccità

"Ogni goccia d'acqua dovrebbe essere utilizzata due volte per far fronte alla sempre più grave penuria di risorse idriche", ha dichiarato Dan Shechtman, vincitore del premio Nobel per la chimica 2011, in una recente intervista esclusiva con Xinhua, una delle agenzie di stampa della Repubblica Popolare Cinese.
Molte persone in tanti paesi soffrono di una grave penuria di risorse idriche e questo è un grosso problema, ha detto Shechtman.
Un rapporto del World Bank spiega che quasi un quarto dei paesi del mondo sta soffrendo la carenza di risorse idriche. Stime approssimative dimostrano che ben due terzi della popolazione mondiale soffrirà di una crisi idrica entro il 2025.
Il problema dell'acqua nel mondo è un problema cruciale e gli sforzi dovrebbero iniziare fin da ora per giungere ad una soluzione.
Siamo in grado di fornire acqua pulita a tutti nel mondo ma richiede una pianificazione a lungo termine sul mondo, non solo sui singoli paesi.
Pertanto, agli occhi di Shechtman, è vitale sviluppare e implementare tecnologie per salvare, gestire e sfruttare appieno le risorse idriche al fine di far fronte alla carenza di risorse.
Con l'obiettivo di combattere la carenza di risorse idriche, Israele, dove circa il 60% del territorio è arido, ha sviluppato tecnologie avanzate per la gestione delle acque, tra cui la desalinizzazione, l'irrigazione a goccia e il sistema di riciclaggio delle acque reflue.
"Non soffriamo di siccità per due motivi", ha detto Shechtman, "uno è la desalinizzazione che ci consente di avere acqua pulita e fresca e l'altro è il sistema di riciclaggio dell'acqua".
Finora, Israele ha costruito e gestito sei grandi impianti di desalinizzazione e l'80% dell'acqua potabile in Israele è offerta da questi sistemi. Inoltre, il Paese sta esportando le sue straordinarie tecnologie in circa 150 paesi e zone.
Attualmente, nel Negev, situato nel sud di Israele e coperto dal deserto, il 70% dell'agricoltura è irrigato da acqua riciclata.
Questa tecnologia, che sembra essere molto semplice, fa grandi cambiamenti. Ecco perché Israele non solo ha abbastanza frutta e verdura in una zona che soffre di una grave siccità, ma vende frutta e verdura anche in Europa.
Shechtman si è dedicato all'introduzione di tecnologie avanzate israeliane per la gestione dell'acqua in paesi che soffrono di carenza idrica e in paesi desiderosi di migliorare l'utilizzo delle risorse idriche, compresa la Cina.
Finora, oltre 400 aziende tecnologiche coinvolte nel settore della gestione delle risorse idriche in Israele stanno servendo lo Stato stesso e altri paesi del mondo. Già negli anni '90, la Cina condusse una cooperazione grazie alla quale nel paese è stata ampiamente utilizzata la tecnologia dell'irrigazione a goccia.

(SiliconWadi, 5 marzo 2018)


8 marzo. Una mostra al Memoriale sulle donne nella Shoah

MILANO - "Ci sembra importante, in una data così significativa in tema di libertà ed emancipazione, ricordare e celebrare la forza e il coraggio di tutte le donne che hanno affrontato le atrocità della Shoah". Così spiega Roberto Jarach, Vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, presentando la mostra "Spots of light. To be a woman in the Holocaust" che si inaugura giovedì 8 marzo, in occasione della Giornata internazionale della donna, presso il Memoriale della Shoah.
   "Questa mostra ci pone degli interrogativi non solo sul passato, ma anche sul presente: gli episodi di violenza e prevaricazione che ancora ricorrono nella nostra società dimostrano che non bisogna mai smettere di educare all'uguaglianza, nel rifiuto di qualsiasi tipo di atteggiamento discriminatorio e nel rispetto della dignità e dell'identità femminile".
   La mostra, che rimarrà esposta fino a domenica 8 aprile, dà voce alle donne che hanno vissuto la tragedia delle persecuzioni razziali e si focalizza su alcuni temi: Amore, maternità, cura, femminilità, resistenza, amicizia, fede, cibo e arte.
   Trenta pannelli raccontano la tragedia della Shoah dal punto di vista delle donne, le loro scelte e le loro reazioni davanti alla brutalità e alla disumana ferocia che sono state costrette ad affrontare.
   In particolare, l'esposizione - disponibile sia in lingua italiana che inglese - esplora nove aspetti della vita quotidiana delle donne ebree durante questo dramma: l'amore, la maternità, la cura per gli altri, la femminilità, la resistenza, l'amicizia, la fede, il cibo e l'arte, indagati nei loro significati più profondi e in relazione all'orrore del periodo più buio della nostra storia recente. A raccontare ciascuno di questi nove aspetti, alcune storie di vita personale narrate in prima persona.
   La mostra rientra nei progetti espositivi curati da Yad Vashem, Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele dedicato alla documentazione e al ricordo degli ebrei vittime della Shoah e di quanti hanno rischiato le proprie vite per aiutare gli ebrei durante il periodo nazifascista.
   Sarà possibile visitare l'esposizione "Spots of light. To be a woman in the Holocaust" il lunedì dalle 9.30 alle 19.00, dal martedì al giovedì dalle 9.30 alle 14.30 e la prima domenica del mese dalle 10.00 alle 18.00.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2018)


Il patrimonio del Libro, un mese per una città che ama leggere

 
 
MILANO - "Sarà un'edizione inclusiva, leggera allegra e varia". Così Andrea Kerbaker, nuovo direttore di Tempo di Libri, nel presentare la seconda edizione della rassegna milanese promossa dall'Associazione italiana editori, e da Fiera Milano. Cinque giorni - dall'8 al 12 marzo - dedicati ai libri e alla lettura con 900 autori coinvolti e cinque sentieri tematici" da sviluppare: Donne, Ribellione, Milano, Libri e immagine, Mondo digitale. Gli incontri seguiranno il filo rosso tracciato dai percorsi, esplorando le tante diramazioni del mondo editoriale: da quello enogastronomico (Tempo di Libri A Tavola) alle narrazioni sportive (Bar Sport IBS.IT), dagli incanti del libro antico (C'era una volta il libro) ai prodigi del digitale (Da Gutenberg a Zuckerberg), senza tralasciare il MIRC Milan International Rights Center dedicato alla trattativa e vendita dei diritti, il programma per le scuole e il settore professionale. E ovviamente non mancano anche gli intrecci con il mondo ebraico: a partire dalla presentazione del Trattato Berakhòt del Talmud Babilonese tradotto in italiano da parte del curatore rav Gianfranco Di Segni, coordinatore del Collegio rabbinico italiano.
   Novità di quest'anno, invece, il Frankfurt - Milan Fellowship, una stretta collaborazione fra AIE e Buchmesse in occasione di Tempo di Libri. Nei giorni precedenti la Fiera, arriva a Milano una delegazione di operatori stranieri per approfondire la conoscenza dell'editoria italiana visitando case editrici, librerie e biblioteche. "L'internazionalità è un asse fondamentale per Tempo di Libri" ha commentato Ricardo Franco Levi, presidente AIE. "La collaborazione con Buchmesse, riconosciuta unanimemente come l'evento per eccellenza dell'industria editoriale libraria a livello mondiale, rende il progetto particolarmente prestigioso e rappresenta un occasione straordinaria per l'internazionalizzazione del nostro settore". "La partnership con Tempo di Libri consente ai partecipanti al Fellowship di conoscere a fondo la nuova fiera internazionale del libro di Milano e il mercato del libro italiano" ha detto Juergen Boos, direttore della Frankfurter Buchmesse. "Per 20 anni, il Frankfurt Fellowship Programme ha riunito editori, agenti e editor di 16 Paesi. Questo ha portato allo sviluppo di una vivace rete industriale". Una rete che ora vuole coinvolgere Milano dove, come in altre città italiane, il libro ha un ruolo centrale. Sono state quasi 400 le città del Bel Paese che lo scorso anno hanno aderito al progetto legato al Centro per il libro e la lettura, l'organo del Ministero per i beni e le attività culturali che si occupa di promuovere il libro e la lettura. E quest'anno Tempo di Libri è l'occasione per fare il punto con un primo incontro per parlare dei risultati iniziali del Centro e le prospettive del progetto.
   Tra gli appuntamenti di questa edizione diversi hanno un'impronta ebraica: gli studiosi Marco Belpoliti e lan Thomson, per esempio, parlano dell'uomo Primo Levi, una personalità complessa, scrittore raffinato, chimico, voce fondamentale della Shoah. E la Memoria, ma nella sua trasfigurazione architettonica e per immagini, è al centro del confronto tra Wlodek Goldkorn, scrittore e autore di numerosi saggi sull'ebraismo e l'Europa centro-orientale, e l'architetto Guido Morpurgo, autore del Memoriale della Shoah nella Stazione Centrale di Milano. Libro e immagine sono anche il cuore dell'appuntamento con un libro a cui Pagine Ebraiche ha dedicato ampio spazio nel numero di gennaio: La ragazza con la Leica, Guanda di Elena Janeczek, con l'autrice a ricordare il ruolo dimenticato di Gerda Taro, fotografa d'eccezione ricordata troppo spesso per il solo fatto di essere stata la compagna di Robert Capa. Tra Aleppo, Parigi e Milano si muove invece il libro di Colette Shammah, che a Tempo di Libri racconta il tortuoso percorso della sua famiglia ebraica siriana. Nell'era della Demenza digitale, Milano ospita poi l'uomo che ha praticamente coniato questo termine: Manfred Spitzer, uno dei più rinomati studiosi di neuroscienze, chiamato però a parlare di un altro elemento del mondo 2.0, la solitudine digitale. Tanti incontri dunque con al centro il libro che sarà nuovamente protagonista a fine mese con Book Pride, (23-25 marzo al Base), la Fiera Nazionale dell'Editoria Indipendente, organizzata da ODEI - Osservatorio degli Editori Indipendenti e per la prima volta diretta da Giorgio Vasta. Un appuntamento che segna un ponte con l'altro grande momento per gli amanti della letteratura, il Festival del libro di Torino con cui la Fiera dell'editoria indipendente ha siglato un accordo di collaborazione lo scorso dicembre.

(Italia Ebraica, marzo 2018)


Nel Golan la nuova paura d'Israele: "Ecco l'Iran alle nostre porte"

Sette anni di conflitto a Damasco hanno rafforzato Teheran e i suoi alleati Hezbollah È questa la miccia che potrebbe precipitare l'intera regione in una nuova guerra.

L'abbattimento di un caccia con la stella di David qualche settimana fa è stato un segnale grave La dimostrazione di un equilibrio tesissimo che può spezzarsi da un momento all'altro

di Vincenzo Nigro

MOUNT BEN TAL (Alture del Golan) - «L'Iran è qui, di fronte a noi, ai nostri confini. Li vediamo, li seguiamo, li ascoltiamo parlare in persiano alle loro radio. Questa è la vera novità che ci è stata annunciata quando hanno abbattuto il nostro F-16: abbiamo l'Iran alle porte».
Benvenuti al confine più caldo di tutto il Mediterraneo, a quella che ormai è la frontiera diretta fra Israele e Iran. Appuntamento a mezzogiorno sul Mount Ben tal, al "Kofi Annan", il caffè-ristorante che gli israeliani ironicamente hanno battezzato in onore del segretario dell'Onu che riorganizzò Unifil. Da qui gli ufficiali delle IDF, le Israeli Defence Forces, ci offrono uno sguardo e un briefing da questo
monte che sovrasta il confine con la Siria, qui nel Golan strappato da Israele ad Assad- padre nella guerra del 1973.
   Il viaggio da Tel Aviv è lungo 3 ore in auto attraverso il Nord di Israele: da Tel Aviv si sale fino a intercettare la statale 65, si continua fino alla 91, a Gadot si attraversa il Giordano, che da sempre è il confine naturale con la Siria, e si risalgono le alture del Golan, verdi e rigogliose come un Chianti del Medio Oriente. «Ormai il fronte è una linea unica che parte dal confine con il Libano, lungo il quale sono già piazzati e nascosti migliaia di missili e razzi di Hezbollah», dicono gli ufficiali. «Prosegue lungo tutto il confine siriano, sorvegliato da una missione di osservatori Onu, che inevitabilmente saranno costretti a tirare la testa dentro i bunker il giorno che dovesse scoppiare una nuova guerra». Nel Libano del Sud ormai Israele ritiene che quasi dentro ogni abitazione ci sia una postazione militare di Hezbollah: «Hanno nascosto lì dentro missili, razzi, officine, stazioni di collegamento radio, punti di spionaggio, depositi». Dal monte Bental si può vedere a chilometri di distanza. Un colonnello di IDF, illustra il "panorama". «Quella montagna a Ovest ricoperta di neve è il Monte Hermon: in cima c'è una nostra stazione d'osservazione elettronica. Più ad Est il monte sale, fino a 2.814 metri, è territorio siriano ma adesso la cima è in mano all'Onu, hanno una postazione che chiamano "Hotel Hermon", Scendendo a valle, lungo il confine della "Alfa line" tracciata dall'Onu, ci sono una serie di paesi, città e villaggi. Adesso sono tutti in mano a gruppi di ribelli». Il primo è Jubat al Khashab, controllato dai ribelli già dal 2012; Ancora più ad Est c'è Khan Arnaneb, e avvicinandosi alla Alfa line, verso le linee israeliane, c'è la vecchia cittadina di Quneitra, che fu devastata e poi abbandonata con la guerra del 1973.
   IDF spiega che «lungo tutto il confine siriano ci sono una cinquantina di gruppi di ribelli "moderati", ma immediatamente dietro, anche a 10-20 chilometri dal confine, ci sono le postazioni di Hezbollah e dei pasdaran iraniani. Per esempio quella collina con due gobbe in fondo ad Est la chiamiamo "l'elefante che dorme": c'era sempre stata una postazione per la raccolta di SIGINT dei siriani, la signal intelligence con cui controllano i segnali emessi dai nostri apparati. Da qualche mese abbiamo iniziato a sentirli parlare iraniano: non ci sono più i soldati di Assad, ma i pasdaran del generale Qasem Suleimani», «Non è vero che non è cambiato niente quando il 10 febbraio hanno abbattuto l'F16: perdere un aereo, anche se è il primo dopo 30 anni, è duro ma non è una tragedia. Ma è stato un segnale d'allarme serio». Dal 10 febbraio a Tel Aviv si sono messi a studiare, ragionare, decrittare. «Abbiamo ricostruito lo scontro: dopo le 4 del mattino un drone iraniano si alza dalla base T4 vicino Palmira, ben dentro la Siria. Non punta diretto verso di noi, vola lungo il confine giordano, quasi per allontanarsi, poi entra in Israele dalla valle di Beit Shean. Novanta secondi più tardi viene abbattuto da un nostro elicottero. Partono gli F-16 per la ritorsione, colpiamo non solo il camion-lanciatore da cui era partito il drone, ma anche le installazioni della base, e poi allarghiamo la ritorsione a 8 obiettivi siriani e 4 iraniani. Rientrando verso Israele, il nostro F-16 rimane per troppo tempo ad alta quota, per controllare gli effetti dell'attacco a Palmira. Per la prima volta da 30 anni, la contraerea siriana lancia 20 missili contemporaneamente, quasi a saturare l'area in cui volavano i nostri aerei. Uno l'hanno abbattuto».
   A Tel Aviv Sima Shine, una analista di un centro studi che è stata vicedirettore del Mossad, giorni fa ragionava su alcuni elementi "politici": «Se gli iraniani hanno deciso di venire a provare le nostre difese, c'è stata sicuramente una decisione politica, avallata a Teheran. Non credo bastino i comandanti in Siria, forse neppure lo stesso Qassem Suleiman (il generale iraniano che coordina le operazioni all'estero dei pasdaran, ndr). E allora: cosa sapevano il presidente Rouhani, il ministro degli esteri Zarif? Perché questo è un colpo anche alla loro credibilità internazionale».
   Su una cartina molto dettagliata, IDF ha indicato le decine di installazioni piccole e grandi che ormai l'Iran gestisce direttamente in Siria. «La mappa che ha pubblicato il New York Times è molto realistica, e a questo dobbiamo aggiungere le installazioni, le basi, le caserme di Hezbollah e delle altre milizie sciite che hanno schierato in Siria».
   Per difendere Bashar el Assad, l'Iran infatti ha mobilitato una efficiente "legione straniera" fatta di milizie arruolate fra gli sciiti innanzitutto di Iraq, Afghanistan e Pakistan e fra i rifugiati in Iran. Solo studiare il modo in cui l'Iran ha mobilitato questa legione sciita da mezzo Medio Oriente sarebbe interessantissimo, e utile per capire i timori di Israele.
   Sulle alture del Golan, nella pace apparente di queste colline sospese sull'orlo di un inferno, l'unico pensiero che conta è come fermare i tamburi della guerra.
   Chi può farlo, come farlo? Come evitare che Iran e Israele vadano alla devastazione finale?

(la Repubblica, 4 marzo 2018)


Israele e USA avviano esercitazioni di difesa missilistica su larga scala

Israele e Stati Uniti hanno iniziato esercitazioni congiunte delle forze di difesa missilistica che coinvolgono migliaia di soldati di entrambi i paesi. Lo ha reso noto l'ufficio stampa dell'esercito israeliano.
Le esercitazioni militari "Juniper Cobra" si terranno in Israele per la nona volta dal 2001. Si tratta di manovre ordinarie e non sono associate ad eventi geopolitici particolari, sottolineano i militari. Il loro obiettivo è la "collaborazione continuativa" per contrastare tutte le minacce missilistiche.
"Le esercitazioni coinvolgeranno più di 2500 militari americani di stanza in Europa, insieme a 2000 soldati israeliani… Insieme lavoreranno ad una simulazione computerizzata di varie minacce missilistiche in diversi scenari di guerra", riferisce il comunicato.
La parte principale dell'esercizio si svolgerà dal 4 al 15 marzo, ma alcune attività congiunte si estenderanno fino alla fine del mese.

(Sputnik, 4 marzo 2018)


Non dimenticare il Giusto

E nello stesso giorno l'Italia subentra alla Svizzera nella presidenza dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA)

di Giulio Busi

Molti mestieri cambiano, si adeguano, si rinnovano. Chi potrebbe vantarsi di usare la tecnica e gli strumenti di 2500 anni fa? Forse non c'è tanto da gloriarsene, ma uno storico lavora sempre allo stesso modo, con un solo attrezzo. Il suo scalpello sono le domande. E il martello, altre domande, che battono e ribattono sullo stesso punto. Per vocazione, per dovere, per missione, lo storico ricerca, interroga le fonti, chiede ai testimoni, vuol vedere con i propri occhi. Historein, chiama Erodoto tutto questo instancabile inquisire. E perché, poi, darsi tanta pena? Non sarebbe meglio decidere una volta per tutte che il dossier delle risposte è abbastanza voluminoso? Perché ricominciare sempre daccapo, una generazione dopo l'altra, con febbrile inquietudine? Gli storici vorrebbero tanto cambiar lavoro, deporre i loro punteruoli aguzzi di dubbi. Ma è la storia che non dà pace, né a loro né a se stessa. E quando il nodo delle incertezze è grosso e aggrovigliato, più fitte fioccano le domande, più difficili e stentate sono le risposte.
   Proprio nel mezzo della civile Europa, a una manciata di decenni da noi, c'è una voragine che sembra senza fondo. La Shoah è come un cratere che non si riempie mai. «Basta, se n'è parlato fin troppo». L'insofferenza serpeggia ormai da parecchio. Perché questa pagina della storia dovrebbe essere diversa dalle altre, che lentamente sono sbiadite, finite nei libri e uscite dalla vita comune? Che gli storici continuino pure, se vogliono, a farsi le loro domande accademiche. Ma che lascino gli altri liberi di andare oltre, scuotersi il peso di dosso, tornare alla normalità. Quale normalità?
   Che se ne dovesse parlare il meno possibile era già il programma degli sterminatori. Tanto fu chiassosa e roboante la propaganda antisemita quanto lo sterminio venne avvolto da un velo di cinico riserbo. Fare e non dire, ovvero uccidere e nascondere, cremare, negare, minimizzare. La normalità della persecuzione è il silenzio, l'indifferenza, la tacita approvazione. Martedì 6 marzo cade una doppia ricorrenza. Si celebra la Giornata europea dei Giusti e l'Italia subentra alla Svizzera nella presidenza dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).
   Istituire celebrazioni è relativamente facile. Può servire a sgravare le coscienze, a dare l'impressione che si è fatto abbastanza. Molto più difficile è attribuire un contenuto a queste date. Dar senso alle istituzioni preposte al ricordo è un compito infinito. La memoria collettiva non è in questo diversa da quella individuale, di ciascuno di noi. Va continuamente riempita, riattivata, controllata, poiché tende inesorabilmente a svuotarsi. L'IHRA è un'organizzazione internazionale, fondata nel 1998, che comprende 31 Paesi membri, 10 Paesi osservatori e 7 partner internazionali permanenti. Una struttura ampia, formale, ad alto livello, che ha lo scopo di aggregare e coordinare gli sforzi, affinché i governi e le guide sociali dei diversi Stati s'impegnino per l'istruzione, la memoria e la ricerca sulla Shoah. Poco nota al grande pubblico, ma importante nelle sue funzioni, l'IHRA serve insomma da strumento "riempi-memoria". La politica dispone e facilita. Ma chi agisce sul campo? La scuola, innanzitutto. Poiché sono i più giovani quelli che ancora non sanno, ed è a loro, agli adulti di domani, che dev'essere insegnato e ricordato. L'Italia è membro dell'IHRA dal 1999, e la presidenza del 2018 giunge in un momento particolarmente significativo. Ci sono voluti 80 anni perché la "macchia indelebile" delle leggi razziali del 1938 - come l'ha definita il Presidente Mattarella nel suo significativo discorso del 25 gennaio scorso - risaltasse finalmente in tutta la sua bruttura. È vero che la memoria tende di solito ad affievolirsi col tempo. Ma talvolta avviene il contrario. A distanza si ricorda meglio. E il nostro Paese deve prendersi ora la piena responsabilità delle ruberie, dei soprusi e delle tragedie causate dalla discriminazione razzista, voluta dal fascismo e accettata da gran parte degli italiani di allora, talvolta con entusiasmo, quasi sempre con colpevole indifferenza. Gli storici continuano imperterriti a porre i loro interrogativi. Troppo a lungo? Ci sono voluti otto decenni per dirsi chiaramente, o meglio per cominciare a riconoscere quello che è avvenuto. Ottant'anni per vincere la retorica consolatoria degli "Italiani brava gente" e del "ma da noi è stato diverso". È evidente che di spazio per domande scomode ce n'è ancora, eccome. Il passaggio ufficiale delle consegne tra Svizzera e Italia, che avverrà martedì all'ambasciata del nostro Paese a Berlino, può valere come un piccolo, necessario passo su questa strada di presa di coscienza collettiva. Il bisogno di consapevolezza storica nasce anche dal carattere ibrido, a un tempo anacronistico e pseudo-moderno dell'antisemitismo e del razzismo. È una caratteristica già notata con acutezza da Victor Klemperer, nella sua LTI, la lingua del Terzo Reich, diario tenuto nei 12 anni di potere nazista. L'antisemitismo hitleriano fu una commistione di stereotipi e accuse medievali e di apparente modernità, falsamente scientifica, unita a una gestione industriale delle uccisioni. Del resto, il nocciolo atavico, immutabile, legato al passato del pregiudizio e dei meccanismi di separazione razzista è lì, davanti ai nostri occhi anche oggi, pronto a ibridarsi con l'innovazione. Efficienza tecnologica dei lager di allora, velocità e moltiplicazione di post-verità digitali e di odio, ora. L'antisemitismo e il razzismo camminano all'indietro, con gli occhi fissi ipnoticamente a un'idea distorta di passato. Ed è per questo che bisogna ridirlo, il passato, per filo e per segno, come è stato nella sua verità fattuale ed emotiva. Senza stancarsi. Gli storici sono chiamati al loro mestiere vecchio di millenni. Ma ce n'è un altro, di mestieri, ancora più antico e difficile. Il mestiere di esseri umani.

(Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2018)



"Se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza"

"Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino ad ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza."
Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 8

 

L'Iran sta costruendo una nuova base in Siria

di Paolo Mauri

A dare la notizia per prima è stata Fox News, poi confermata da altre agenzie stampa - tra cui la Tass - ma soprattutto da fonti di intelligence occidentali: l'Iran avrebbe stabilito un nuovo insediamento militare permanente in Siria 12 km a nord ovest di Damasco.
  Dalle immagini satellitari dell'area risulta la presenza di strutture di grandi dimensioni (circa 30 metri per 20) che si ritiene siano hangar per immagazzinare missili tattici a medio e corto raggio ma che molto probabilmente fungono da ricovero per i sistemi missilistici da difesa aerea come quelli che hanno abbattuto l'F-16 israeliano recentemente.
  Non è un caso infatti che la base sia sita nei dintorni di Damasco - già in precedenza Teheran aveva costruito una base a sud della capitale poi distrutta da un raid di Tel Aviv - dato che le difese aree siriane sono ridotte ai minimi termini rispetto ai tempi precedenti la guerra: le forze contraeree siriane sono solo il pallido riflesso della struttura che contava 60 mila uomini prima del 2011, e l'aiuto iraniano fa il paio con quello russo in funzione del mantenimento di una parvenza di difesa dei capisaldi del regime di al-Assad, capitale compresa ovviamente.
  Sebbene più fonti, comprese quelle israeliane, sostengano che la nuova base serva come punto di partenza per le operazioni della Forza Quds iraniana, ovvero di quel reparto speciale facente parte delle Guardie della Rivoluzione dedito ad atti di sabotaggio, spionaggio e controguerriglia comandate dal generale Soleimani, non si hanno ancora conferme in questo senso e dalle tipologie di strutture che si evincono dalle immagini satellitari anche l'ipotesi di una base per i sistemi antiaerei resta comunque valida. Intanto però, il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, nega qualsiasi presenza di questo tipo.
  Le truppe iraniane sono già da anni presenti in Siria per affiancare Damasco nella sua lotta contro lo Stato islamico e contro i ribelli del FSA e sebbene Teheran continui a definirli solamente "consiglieri militari" è ormai assodato che siano organizzate in reparti autonomi che si affiancano alle forze lealiste nei combattimenti: un esempio è dato dalla 65esima Brigata Aviotrasportata (i "Berretti Verdi" iraniani) - specializzata in azioni di commandos - che è stata dispiegata in Siria già da due anni ed opera spesso autonomamente nel conflitto.
  Sempre secondo Israele, per bocca del suo portavoce all'Onu Danny Danon, l'Iran avrebbe in Siria direttamente sotto il suo comando circa 82 mila uomini composti da 60 mila siriani, 9 mila membri di Hezbollah, 10 mila milizie sciite reclutate in diverse aree del Medio Oriente ed infine 3 mila soldati di Teheran, ma le stime sembrano propagandisticamente in eccesso.
  Quello che invece è certo è che l'Iran sta contribuendo attivamente alla difesa della Siria fornendo non solo truppe e mezzi ma anche tattiche diverse che sono subito state integrate da Damasco per far fronte all'emergenza contingente.
  L'abbattimento del F-16 israeliano è infatti la diretta conseguenza del cambiamento di tattica avvenuto per opera degli insegnamenti iraniani (e russi): dopo il collasso delle forze armate siriane - e del sistema di difesa aerea - è stato necessario stabilire dei "punti di forza" per garantire la protezione alle più importanti installazioni militari e centri nevralgici siriani da possibili air strike.
  Damasco sconta l'assenza e la distruzione di buona parte del suo sistema di early warning pertanto le batterie siriane - rinforzate da nuovi arrivi russi e iraniani - sono costrette a operare per "hot spot" a protezione di bersagli paganti o di vie obbligate per l'aviazione avversaria.
  La tattica quindi è quella di usare il meccanismo della "provocazione - reazione" per invitare Israele a raid in profondità nel territorio siriano (come per la base T4) a cui si risponde con sistemi missilistici mobili e a corto raggio. L'abbattimento del caccia di Tel Aviv non è pertanto un evento casuale o fortuito ma attentamente pianificato e frutto del cambiamento di tattica della difesa area siriana, pertanto è ragionevole pensare che la nuova base a poca distanza da Damasco possa fornire un'esca e nascondere siti missilistici in grado di tendere un'imboscata all'aviazione di Israele.
  La difesa aerea siriana non è infatti formidabile e dispone di batterie anche obsolete - si annoverano SA-5, SA-17, SA-3 ed SA-6 - quindi va impiegata con una strategia puntuale in modo da avere un effetto di "saturazione" in una determinata zona geografica; tra le possibili forzatamente quella intorno alla capitale è una di queste essendo sede non solo del potere politico ma avendo diversi depositi di armi che sono utilizzati non solo dall'Esercito di Damasco ma anche da Hezbollah.
  Una strategia come questa non sarebbe possibile senza uno stretto coordinamento e pianificazione delle attività tra gli asset iraniani e la rete SAM siriana, quel tipo di coordinazione che ha portato proprio all'abbattimento dell'F-16 con la stella di Davide.

(Gli occhi della guerra, 3 marzo 2018)


Le relazioni fra Israele e Polonia restano salde, nonostante alcune incomprensioni

VARSAVIA - Le relazioni fra Polonia e Israele restano molto salde ed è inappropriato parlare di crisi in merito alla legge sull'Istituto di memoria nazionale di Varsavia. Lo ha dichiarato oggi il viceministro degli Esteri polacco Bartosz Cichocki, come riferisce l'agenzia di stampa "Pap". Cichocki ha parlato in seguito all'incontro dei due gruppi di esperti polacchi e israeliani a Gerusalemme. "Non parlerei di una crisi, ma piuttosto di incomprensioni. Fra i nostri paesi sussistono troppi legami in diversi settori, dalla difesa alla cultura", ha spiegato il viceministro polacco.

(Agenzia Nova, 3 marzo 2018)


Da Israele riflessioni sul voto italiano

di Deborah Fait

La festa di Purim si è conclusa in allegria, come sanno essere allegri gli israeliani, sempre pronti a godere di ogni gioia come fosse l'ultima! Abbiamo letto la Meghillah di Ester mentre grandi e bambini, tutti in maschera, urlavano BUUU, facevano girare velocemente le cicale di legno e battevano i piedi sul pavimento della sinagoga ogni volta che veniva letto il nome del visir del re Assuero, quel Haman che voleva commettere genocidio del popolo ebraico.
   Sono passati più o meno 2500 anni da allora eppure siamo ancora allo stesso punto, il popolo ebraico corre ancora il pericolo di essere sterminato dallo Haman di turno, il mostro iraniano che si incarna negli ayatollah, i maledetti preti iraniani tanto amati da una vile Europa. Con la caduta dello Shah Reza Pahlavi, nel 1979, la Persia non esiste più, è stata trasformata in Iran dal folle orco/ayatollah Khomeini, ed è ricominciato l'incubo del genocidio del popolo ebraico.
   Da millenni non è passato secolo senza che qualcuno tentasse di sterminarci, è storia, secolo dopo secolo, qualcuno si è sempre levato contro gli ebrei nel tentativo di eliminarci, tutti, senza pietà e nell'indifferenza generale. Anche all'epoca di Ester, mentre gli ebrei si difendevano dal massacro e fuggivano per ritornare in Israele, la popolazione persiana guardava dall'altra parte. Il solito gioco delle tre scimmie, non vedo, non sento , non parlo, che ci ha perseguitati da sempre lasciandoci completamente soli a difenderci dai massacri.
   Oggi nello stesso luogo in cui Ester e Mordechai hanno salvato il loro popolo, esiste un orologio che scandisce le ore che ci separano, secondo gli ayatollah, dall'eliminazione di Israele. Oggi in quello stesso luogo, i due orchi vestiti di nero, Alì Khamenei, leader supremo, e Hassan Rouhani, presidente, hanno dato ordine ai pasdaran di costruire una base missilistica vicino a Damasco, dopo aver urlato a mezzo mondo che Tel Aviv sarebbe stata spazzata via, e con Tel Aviv tutta Israele.
   Il mezzo mondo che ha sentito le minacce, che ha saputo dei missili puntati su Israele, ha detto qualcosa? Le due vestali dei preti iraniani, Federica Mogherini e Emma Bonino, hanno proferito parola? Qualcuno ha condannato quei macellai che passano il tempo a minacciare di morte gli ebrei di Israele?
   Non ho sentito niente, Mogherini tace come sempre di fronte alle nefandezze islamiche, Bonino pensa a piùEuropa e mi chiedo se si rende conto che presto sarà più islam, probabilmente si ed è per questo che sia lei che Mogherini fanno periodicamente la "prova-velo". Innamorate delle dittature teocratiche.
   Il Papa? Lui tesse i rapporti di fratellanza con i mostri generati dall'islam.
   Un silenzio orribile, mostruoso, disumano, lo stesso silenzio che ha accompagnato la Shoah, che ha scavato le fosse comuni, che ha costruito i forni. Lo stesso silenzio che ha visto, indifferente, il fumo misto a fuliggine alzarsi dai camini.
   Israele però ha detto MAI PIU'. Un drone israeliano ha scoperto le installazioni di missili pronti a colpire Israele, Netanyahu e Trump continuano a chiedere all'Europa di svegliarsi ma non accade niente, si danno uno scossone solamente quando Israele va a bombardare qualche missile pericoloso, condannano lo stato ebraico, brutto cattivo che va a provocare, e poi ritornano nel loro sonno vigliacco.
   Pensiamoci domenica quando andremo a votare, pensiamoci bene, dalla sorte di Israele dipenderà il destino d'Europa.
   Non è che se un domani non ci fosse più lo stato ebraico, l'Italia e il resto dell'Occidente starebbero bene, ricordatevelo. L'Islam è qui, alle porte che aspetta, sta eseguendo diligentemente e silenziosamente, approfittando degli allocchi europei, la sostituzione della popolazione, europei che scappano, musulmani che arrivano, poi, al momento giusto, sferrerà il colpo finale.
   Eppure, anche se incomprensibilmente per ogni essere dotato di cervello e cuore, pare che l'odio per Israele sia più forte di tutto. Supera ogni cosa, annulla le preoccupazioni di guerre mondiali, dimentica la minaccia del terrorismo, ignora i massacri di cristiani e di kurdi, le invasioni in atto. Niente è così importante come odiare Israele e, da un annetto, anche Trump e la sua America. I due demoni degli europei, Netanyahu e Donald Trump. Le minacce iraniane cadono vergognosamente nel vuoto delle teste dei responsabili politici. I massacri di Erdogan lasciano indifferenti, sta bombardando i cristiani ad Afrin ma tutto tace anche dalle parti del Vaticano.
   I mostri che l'islam ha generato hanno ridotto il Medio Oriente in un enorme cimitero mentre i politici europei e il Papa fanno loro i salamelecchi. Abbiamo solo un mezzo per salvarci, lo dico sempre, abbiamo il voto e dobbiamo pensare molto bene domenica, il momento è grave e molto serio.
   Israele ha detto MAI PIU' e mai più sarà, questo è certo! Facciamo in modo che anche l'Italia dica no ai genocidi presenti e futuri, che dica no alla fuga della sua gente. Pensiamo all'Italia di Michelangelo, non a quella di Beppe Grillo o delle teste velate di Mogherini e Bonino. Facciamo partire proprio dall'Italia, pensando al coraggio di Israele, un'Europa migliore, più coraggiosa, dove nessuno più possa essere tanto vigliacco da urlare a quelli che la difendono "Maledetti, dovete morire tutti". Difendiamo la democrazia, la vita, la cultura, il futuro dei nostri figli e facciamolo con un voto consapevole.

(Osservatorio Sicilia, 3 marzo 2018)


Il treno veloce viaggia in ritardo

La lunga storia del collegamento tra Gerusalemme e Tel Aviv, 60 km tutti da guardare.

di Rossella Tercatin

 
Ieri
 
Oggi
L'ultima notizia è quella di un rinvio. E a dire la verità non sono stati in molti a stupirsi: il treno veloce che collegherà Gerusalemme a Tel Aviv in 28 minuti non verrà inaugurato alla fine di marzo come annunciato dal ministro dei trasporti Israel Katz solo qualche settimana fa, ma non prima di altri sei mesi, necessari per ulteriori test e i permessi relativi alla sicurezza del mezzo. Chiunque abbia viaggiato per le strade israeliane sa che di questo treno c'è un bisogno disperato. Per percorrere i 60 chilometri circa che separano le due principali città del paese nelle ore di punta ci possono volere anche due ore e mezzo di autostrada (in macchina o autobus). Quindi niente treno? La verità è che un treno attualmente c'è. Non è diretto e ne parte uno all'ora: non esattamente efficiente se si tratta di raggiungere il posto di lavoro. Ma un'opportunità incredibile di guardare dal finestrino angoli dimenticati di un'Israele nascosta. Il convoglio parte da Gerusalemme, Stazione Malcha, al sesto minuto di ogni ora. Destinazione Bet Shemesh, nel centro del paese, una trentina di chilometri a ovest percorsi in tre quarti d'ora, dove parte poi la coincidenza che porta alle varie stazioni di Tel Aviv. L'atmosfera è tranquilla, il treno è pieno ma non troppo e per chi lo desidera tra un vagone e l'altro si organizza un gruppo per la preghiera mattutina. Fuori dal finestrino intanto lo spettacolo è da non perdere: colline spumanti di alberi e cespugli, saliscendi rossi e rocciosi, un ruscello dalle acque smeraldine e nessuna traccia di presenza umana, se non per quei binari incastonati nel paesaggio che corre incontro al treno, perfino con qualche rara comparsa della fauna locale, gli uccelli, le gazzelle. Così pur lento e un po' traballante, il viaggio diventa un modo per tornare a scoprire quelle vedute che nel boom di grattacieli e nella rapidissima corsa alla modernizzazione si potrebbe pensare di aver perso. La ferrovia d'altra parte, anche con i suoi ritardi, racconta molto della storia di Gerusalemme e del paese.
   I primi passi furono intrapresi quando la regione era ancora parte dell'Impero Ottomano: nel 1892 veniva inaugurato il collegamento tra Jaffo e Gerusalemme, e nel 1906 la linea tra Haifa e Damasco. Durante la Grande Guerra poi i binari raggiungono il sud, Gaza, il Sinai, collegando Rafah, Beer Sheva, Lod, in uno sforzo da parte degli eserciti coinvolti, prima quello turco e poi quello britannico, di garantire approvvigionamento alle truppe. L'espansione continuerà durante il mandato britannico e poi nel corso del secondo conflitto mondiale, al termine del quale Damasco, Beirut, Haifa, Gerusalemme, il Cairo e Amman si ritrovano collegate via locomotiva. Tra il 1946 e il 1948 però le linee subiscono numerosi attacchi, soprattutto da parte dei gruppi di resistenza ebraica che puntano a impedire la possibilità per gli Stati arabi di inviare i propri eserciti, al punto che alla nascita dello Stato di Israele rimane funzionante solo il tratto nella regione di Haifa. Da lì comincia pian piano un'opera di costruzione e ricostruzione: il treno torna a raggiungere Gerusalemme nel 1949 e negli anni Cinquanta nuove stazioni vengono inaugurate a Tel Aviv e Beer Sheva.
   Dopo oltre un secolo di vita, l'antica stazione della Capitale, ormai ridotta in pessime condizioni, viene chiusa nel 1998. Ma dopo 15 anni di abbandono, nel 2013 viene restituita ai suoi cittadini: niente treni ma ristoranti e negozi nei suoi antichi edifici, eventi culturali, fiere e giostre negli spazi antistanti e una delle più belle passeggiate della città lungo gli antichi binari denominata Derech HaRakevet, la Via della Ferrovia appunto. Da allora l'unica stazione ferroviaria rimasta operativa è la decentrata Malcha. Il treno veloce invece partirà da una nuova fiammante stazione sotterranea, costruita all'ingresso della città, a due passi dal ponte di Calatrava. Il paesaggio della nuova linea, tutta costruita tra ponti e tunnel per compensare gli 800 metri di altitudine a cui è situata Gerusalemme e che hanno reso il completamento della linea tecnicamente difficoltoso, promette di essere interessante. Ma soprattutto i pendolari potranno finalmente contare su un sistema rapido per fare la spola tra le due città. E per vedere le gazzelle che corrono su per le colline macchiate di arbusti ci si potrà sempre dedicare a uno dei passatempi preferiti degli israeliani di tutti i tempi: le escursioni zaino in spalla.

(Pagine Ebraiche, marzo 2018)


Netanyahu interrogato. "Una caccia alle streghe"

di Rolla Scolari

È l'ottava volta che il premier israeliano Benjamin Netanyahu viene interrogato dalla polizia negli ultimi 14 mesi per sospetta corruzione. Questa volta, però, per la stampa israeliana il dossier numero 4000 rappresenta una reale minaccia al lungo potere del primo ministro. Gli inquirenti lo hanno ascoltato per cinque ore nella residenza ufficiale di Gerusalemme. Anche la moglie Sarah è stata interrogata dall'unità anti-corruzione, la Lehav 443, sempre sullo stesso caso.
Il sospetto è che il premier abbia elargito favori al maggior azionista della società di telecomunicazioni Bezeq - Shaul Elovitch - in cambio di una copertura favorevole da parte del popolare sito di informazione Walla!, di proprietà dello stesso.
Il caso è scoppiato la settimana scorsa con l'arresto di Elovitch, e di due consiglieri del primo ministro, uno dei quali, Shlomo Filber, è stato rilasciato dopo aver accettato di comparire come testimone dell'accusa.
Secondo la radio militare, ieri un altro funzionario dello stesso ministero sarebbe stato fermato, mentre la tv «Channel 10» ha rivelato che la polizia avrebbe in mano messaggi scritti dalla First Lady Sarah alla moglie di Elovitch che rafforzerebbero i sospetti di favori.
Per Netanyahu, che lunedì incontrerà Donald Trump a Washington, si tratta di una «caccia alle streghe». Subito dopo l'interrogatorio di 5 ore il premier con un video su Facebook ha ringraziato i cittadini che lo sostengono e garantito loro che nulla «verrà fuori» dall'inchiesta.
Il caso 4000 non è l'unico a minacciare il potere del leader israeliano, che conta sulla tenuta di una coalizione di governo compatta attorno a lui.
Nelle ultime settimane, la polizia ha consigliato alla magistratura di indagare su altri due casi di corruzione in cui Netanyahu è tra i sospettati. Il dossier 1000 riguarda un affare di regali, per quasi 300 mila euro in arrivo dal produttore di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario australiano James Packer in cambio di favori. Nel file numero 2000, Netanyahu è sospettato di aver cercato un accordo con Arnon Mozes, editore del quotidiano israeliano, «Yedioth Ahronoth»: una copertura mediatica favorevole in cambio dell'indebolimento del tabloid rivale Israel Ha Yom, di proprietà di un alleato del premier. Netanyahu è implicato indirettamente anche nel caso 3000: un affare di tangenti nella compravendita di sottomarini tedeschi. E sua moglie Sarah è sospettata di aver usato 100mila euro circa di danaro pubblico per cene alla residenza ufficiale.

(La Stampa, 3 marzo 2018)


Chomsky a 5 stelle

Il "ministro" degli Esteri grillino ha firmato un appello sulle ''responsabilità occidentali nell'lsis".

di Giulio Meotti

 
Emanuela Del Re
ROMA - E' scelta dal candidato premier del 5 stelle Luigi Di Maio come suo ministro degli Esteri. E' Emanuela Del Re, professoressa all'Università telematica Unicusano e studiosa di medio oriente. Dopo le stragi di Parigi (130 morti) da parte dell'Isis, la professoressa Del Re ha firmato un appello, pubblicato il 24 novembre 2015 sul Guardian. E' la più importante presa di posizione pubblica di Del Re sul terrorismo che ha colpito l'Europa.
   Dopo aver pianto le vittime di Parigi, i firmatari dell'appello sul Guardian, dove compare anche il nome della "ministra" degli Esteri 5 stelle Emanuela Del Re, ricordano "che gli interventi occidentali hanno ucciso o sfollato milioni di persone in tutto il mondo dall'11 settembre e l'inizio della 'guerra al terrore'. Il ricordo di tutte le vittime è essenziale".
   Dopo questo sfoggio di equivalenza morale, si passa all'analisi dell'Isis: "I governi occidentali e i loro alleati regionali, tra cui l'Arabia Saudita e la Turchia, hanno, intenzionalmente o no, alimentato e facilitato gruppi come l'Isis". Gli stragisti del Bataclan sarebbero dunque il parto dell'occidente. Poi si spiega che "la più grande minaccia alla nostra sicurezza collettiva" sono "le rappresentazioni semplicistiche e imprecise che spiegano questi attacchi come puramente un prodotto di 'estremismo islamico' ignorando il contesto geopolitico". Si incolpa piuttosto "la diffusa islamofobia".
   La prima firma è quella di Noam Chomsky, il celebre linguista del Mit di Boston icona della sinistra radicale e antiamericana, andato a portare solidarietà ai terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza e a quelli di Hezbollah a Beirut. Ma non c'è soltanto Chomsky fra i firmatari. Accanto al nome di Del Re, e di molti altri docenti e attivisti, c'è quello di Moazzam Begg.
   Ex detenuto della prigione di massima sicurezza per terroristi di Guantanamo, da cui è uscito pulito, Begg è stato il volto della campagna, fatta propria da Amnesty International e dal titolo "Prigionieri in gabbia", che perora il rilascio dei detenuti di Guantanamo. La vicenda esplode quando Gita Sahgal, dirigente internazionale di Amnesty, fa trapelare al Sunday Times il suo sfogo rimasto senza risposta con i vertici dell'organizzazione umanitaria. "La campagna costituisce una minaccia agli stessi diritti umani - scrive Sahgal il 30 gennaio in un messaggio di posta elettronica ai suoi capi - Apparire assieme al più famoso sostenitore britannico dei talebani, trattandolo come un difensore dei diritti umani, è un grosso errore". Apparire in un appello assieme a Begg non era invece un problema per il "ministro" degli Esteri dei 5 stelle.
   Come non ha avuto problemi a firmare l'appello sul Guardian assieme a Ismail Patel, il portavoce degli "Amici di al Aqsa", dal nome della moschea di Gerusalemme. Una organizzazione di apologeti di Hamas e dell'estremismo islamico palestinese. Per chiudere il quadretto, l'appello è firmato anche da Asim Qureshi della ong inglese Cageprisoners, la stessa di Moazzam Begg. E' lo stesso Qureshi che ha definito il decapitatore dello Stato islamico Jihadi John "un uomo magnifico" e che davanti all'ambasciata americana di Londra ha incitato a "sostenere il jihad dei nostri fratelli e sorelle in Iraq, Afghanistan, Palestina e Cecenia". E ancora: "Quando vediamo Hezbollah sconfiggere le armate di Israele, sappiamo dov'è la soluzione e la vittoria. Allahu Akbar!". Un altro video mostra Qureshi parlare di sharia e di lapidazione:
   "Sono d'accordo con i concetti islamici su come gestire le punizioni". Il direttore di Cage ha anche obiettato sull'uso dell'espressione "suicide bombings'', sarebbe meglio chiamarle "operazioni di martirio".
   Come può un docente universitario che aspira a guidare la Farnesina firmare un appello dopo gli attacchi di Parigi in cui si addossa parte della responsabilità del terrorismo islamico sull'occidente e dove campeggiano i nomi di personalità che prestano il fianco all'ideologia islamista che ha dato vita a quel terrorismo?

(Il Foglio, 3 marzo 2018)


Il rapporto tra la Calabria e l'ebraismo

La ricostruzione dei passaggi da Reggio Calabria degli erranti del 'popolo eletto'.

di Filippo Diano

"Rosh Shel Calabria" (Capo della Calabria) è il titolo dell'ultimo lavoro dello storico Tonino Nocera (Città del Sole edizioni, 2018) sulla presenza degli ebrei a Reggio, in Calabria e più in generale nel Mezzogiorno. Un libro che riporta nei suoi documentati contenuti non soltanto le sofferenze e le persecuzioni degli ebrei nell'arco dei secoli, ma il complesso delle vicende umane ricostruito tra le due sponde dello Stretto.
"Una storia nascosta, quella degli ebrei calabresi e meridionali - scrive Nocera - ma non persa, dentro un mosaico di cui sono visibili solo alcune tessere. Quelle smarrite vanno però recuperate".
L'autore riprende il filo della sofferenza del 'popolo errante', ricordando l'editto di Ferdinando il Cattolico che nel novembre del 1510 impose l'espulsione di tutti gli ebrei dal regno di Napoli, così come avvenne prima agli ebrei residenti in Spagna. Non tutti però partirono da Reggio Calabria, lasciando le loro case, il lavoro e gli affetti, per affrontare l'ignoto. Ma non mancò chi accettò di convertirsi al cattolicesimo, i così detti marrani.
   "Gli ebrei - scrive Tonino Nocera - non erano presenti solo a Reggio Calabria, ma esistevano giudecche a Bova, San Lorenzo, Motta San Giovanni, Pentadattilo, Sant'Eufemia, ed è ampiamente dimostrato da ritrovamenti importanti come il mosaico della sinagoga a sud di Bova, in località San Pasquale".
Primeggiavano nell'artigianato lavorando la seta ed erano esperti di colorazione, irrobustendo gli scambi commerciali con Messina e la Sicilia.
   "Un nucleo, quello reggino e calabrese, che ben presto si assottigliò fino a scomparire - ricorda Tonino Nocera - per il pregiudizio e le persecuzioni continue cui erano sottoposti i figli di Davide. E' solo grazie a Carl Rothschild, nella prima metà del 1800, dopo l'apertura di una filiale della sua banca a Napoli, che gli ebrei ritornano nel sud dell'Italia. Il banchiere aveva infatti disposto che all'interno della sua abitazione, Villa Pignatelli Acton, fosse ricavato un oratorio aperto agli ebrei in transito per partecipare alle funzioni religiose".
   Tra i calabresi misconosciuti dalla Storia, Tonino Nocera ricorda la figura di Benedetto Musolino, "fervente rivoluzionario originario di Pizzo Calabro, appartenente ad una famiglia liberale".
Musolino, fondatore della setta carbonara 'Figliuoli della Giovine Italia', combatté con Garibaldi nell'impresa dei Mille per l'Unità d'Italia.
   "La sua curiosità e la passione per la geopolitica - rileva Nocera - lo avevano spinto persino sulle rive del Bosforo. Nel 1851 iniziò a pensare, con molto anticipo dei tempi, alla fondazione di uno Stato ebraico pubblicando il libro 'Gerusalemme e il Popolo Ebreo', scritto che fu ristampato nel 1951 a cura della 'Rassegna Mensile d' Israel', con la prefazione del prof. Gino Luzzatto. Un anticipo del sionismo come teoria della creazione di uno Stato per soli ebrei, ma che avrebbe dovuto avere effetti benefici per l'intera area vicina in termini di crescita economica e sociale. Come insegna da sempre la tradizione del popolo ebraico, il passato è davanti a noi, noto. Alle nostre spalle, il futuro, ignoto. A noi il compito di costruirlo".

(Calabria On Web, 2 marzo 2018)


E se la Turchia invade la Grecia la Nato che fa?

di Dimitri Buffa

Recep Tayyip Erdogan sembrerebbe intenzionato a creare un nuovo fronte bellico terribilmente vicino all'Europa. Quello con la Grecia.
   Complice la ferita aperta dell'isola di Cipro da decenni divisa in due, una sotto l'egida greca e l'altra a trazione turca. Con l'intento di mettere le mani sui giacimenti di petrolio e gas naturale al largo di quei mari. Come abbiamo già visto con l'incidente diplomatico con la nave italiana dell'Eni che ha dovuto rinunciare alle trivellazioni.
   Ma la domanda che incombe su tutto ciò è veramente inquietante: se la Turchia islamista di Erdogan dovesse aggredire o addirittura invadere un territorio della Grecia, la Nato che dovrebbe fare? Quale dei due Paesi appartenenti alla medesima alleanza dovrebbe aiutare in una simile guerra solo apparentemente fratricida? E il "solo apparentemente" vuole significare il paradosso di continuare a tenere nell'alleanza atlantica non più un Paese laico sia pure in mano ai militari, ma un Paese che in questi ultimi quindici e passa anni di dominio del sultano si è via via trasformato nel primo finanziatore dell'Isis, in un nemico dell'America, dell'Europa e di Israele.
   Sono problematiche geopolitiche di fronte alle quali l'Europa rappresentata da Federica Mogherini ha deciso di mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Così come, mutatis mutandis, ha scelto di fare con l'Iran del finto moderato Rouhani. Ma i problemi come i nodi prima o poi vengono al pettine e presentano conti molto salati da pagare. L'analista turca Uzay Bulut, una giornalista turca musulmana moderata che vive a Washington, lo scorso 21 febbraio ha lanciato l'allarme in tal senso in un bell'articolo molto dettagliato scritto per il "Gatestone Institute".
   Tra le altre cose che ha sottolineato, la Bulut racconta di una sorta di "ossessione" di Erdogan, in questo fiancheggiato persino dai pochi partiti di opposizione rimasti in Turchia, di invadere quelle isole greche che, come Cipro, considera di proprietà ottomana. Una sorta di guerra di Troia alla rovescia colorata da appelli alla jihad. Come questo fatto proprio da Erdogan in un comizio dello scorso 12 febbraio ad Ankara: "Quello che abbiamo fatto finora è nulla in confronto agli attacchi ancor più grandi che stiamo pianificando per i prossimi giorni, inshallah".
   Resta da vedere quale sarà la scelta dell'Europa e soprattutto della Nato. Che, se pure avvertite con largo anticipo, c'è da giurarci che si faranno cogliere di sorpresa.

(L'Opinione, 3 marzo 2018)


Alla scoperta di Israele: di corsa a Tel Aviv

Di corsa per la Tel Aviv Marathon, il più grande evento running di Israele, con oltre 40 mila runners e partenza alle 6.15 del mattino. L'inviata di Samsung racconta com'è andata.

di Irene Righetti

 
  Tel Aviv Marathon 2018
È la seconda volta che vado in Israele e sempre per un evento running. L'occasione è stata la Tel Aviv Samsung Marathon, la più grande manifestazione sportiva del Paese, con oltre 40 mila partecipanti, di cui 2500 runners stranieri (105 gli italiani). Un evento che presenta, oltre alla maratona, anche la 21 km, la 10 km e la 5 km, competizioni che si snodano nel cuore della città, passando per l'antica Giaffa, e il lungomare punteggiato di palme, grattacieli ed edifici in stile Bauhaus.

 Partenza di venerdì!
  Era buio pesto quando ho aperto gli occhi e la città era ancora immersa in una quiete infinita. Ed era venerdì, l'equivalente del nostro sabato, il giorno precedente lo shabbat, quando tutto (ma proprio tutto!) riposa, persino le uova che non puoi trovare strapazzate ma solo sode perché cotte precedentemente.
Svegliarsi alle 4.00 del mattino non è mai piacevole, ma se hai come obiettivo di tagliare un traguardo è tutta un'altra storia. Così, con gli occhi ancora gonfi e assonnata, parto in bus insieme ad altri runners, in direzione Rokah boulevard, dove si trova l'area che ospita una ruota panoramica e un grande parco pieno di verdissime palme. Entro nella tensostruttura perché fa freddo; è totalmente vuota visto che sono appena le 5.00 ma campeggiano già dei carretti traboccanti di mele, banane e datteri. Ed è qui che mi rifocillo con molta calma, in attesa della mia partenza.

 Finalmente il via
  Alle 6.15 c'è lo start della mezza maratona (vinta da Joel Kiptoo in 1:06:26, e in campo femminile dall'atleta di casa Sari Pindak, 1:37:17), quarantacinque minuti dopo quello della maratona (primo il keniano Ernst Kebenei in 2:19:53, e tra le donne la connazionale Margaret Njuguna, 2:58:18). Quindi alle 8.45 c'è la partenza della 10 km (vincono Moket Fetene, 00:31:25 e Efrat Shema Vekovitz, 00:50:54).
Il sole inizia a scaldare e buca la pesante coltre grigia e lattiginosa. Il giro previsto per chi come me ha scelto i 10 km passa all'interno della città, con l'attraversamento di alcune delle vie più note di Tel Aviv.
Le mie gambe non brillano, sono piuttosto pesanti, così decido di andare a passo tranquillo, godendo di ciò che mi circonda, e dando tanti "five" ai bambini che incontro lungo le vie che attraverso.
Quando mancano ancora due km il caldo si fa sentire. Tel Aviv, di giorno, sembra non conoscere il freddo e d' inverno (questo periodo) fa registrare già 25 gradi!
Ci siamo, taglio il traguardo, medaglia conquistata, un po' più piccola rispetto a quella della maratona ma sempre bella, come tutte le cose guadagnate con il sudore. E ora che si fa? Un bel massaggio decontratturante. Ci pensa il team di fisioterapisti messi a disposizione dalla maratona. Un vero toccasana, anche per chi come me ha corso solo pochi chilometri.

 Giaffa
  Dato che i chilometri macinati non sono poi così tanti, si va alla scoperta di Giaffa o Jaffa. La raggiungo dal lungomare, circa quattro chilometri dal Prima Tel Aviv Hotel, nella parte sud. La prima cosa in cui m'imbatto è il porto vecchio, pieno di locali e ristorantini che si affacciano sul molo chiassoso e coloratissimo. La Giaffa vecchia è in stile arabo, all'ingresso ad accoglierti c'è la Torre dell'Orologio in stile ottomano, e quindi si apre in un reticolato di stradine acciottolate e gradoni, che portano nella parte alta, dalla quale si può ammirare lo skyline della moderna Tel Aviv. È bello perdersi nelle viuzze, perché si scoprono scorci inediti popolati da gatti sonnacchiosi (non ne ho mai visti così tanti!).

 Carmel Market
  Poi è il turno del Carmel Market, il più importante mercato della città israeliana, ubicato in HaCarmel, a pochi passi dal quartiere Neve Zedek, a sud di Tel Aviv. A guidarmi nelle delizie del paese ci pensa una guida speciale: Inbal, ex avvocato di New York, nonché istruttore di yoga; nel 2011 ha deciso di cambiare vita per seguire il proprio cuore e la passione per il cibo, fondando la società Delicious Israel.
Brava, lo dico sempre che bisogna ascoltare il cuore e cercare di realizzare i propri sogni!
Si parte dal falafel cucinato nell'angusto e polveroso locale posto a pochi metri dal mercato, che offre grosse polpette fritte fatte di ceci, aglio, cipolla e coriandolo, accompagnate da una deliziosa salsa di colore verde. Poi via lungo le stradine brulicanti di gente e bancarelle che offrono ogni ben di dio. È la volta delle fragole, dolcissime e rossissime e soprattutto made in Israele. Poi si va di pita, cotta al momento dalle sapienti mani di una signora corpulenta, ripiena di verdure e spezie, quindi hummus in tutte le salse, e uno squisito dolce fatto con i semi di sesamo: l'halvah, perfetto per il post gara! E poi tanta frutta fresca, secca, dolci tipici traboccanti di miele, e soffici panetti dorati. Provo tutto naturalmente, e alla fine non resisto e compro il dolce di sesamo arricchito di noci pecan. Una bomba che ho gustato giusto questa mattina a colazione, al rientro da Israele, nella mia Ferrara tinta di bianco.

(Runner’s World, 3 marzo 2018)


Rovigo - Guarda oltre il muro: dal cimitero ebraico all'antica sinagoga

L'antica Comunità ebraica rodigina ha lasciato nel tessuto urbano cittadino una serie di tracce della propria esistenza quasi a suggerire il recupero della sua memoria per farne "luogo" di riflessione in cui il passato può divenire "nutrimento" per il futuro.

 
 
Camminando per via Mure Soccorso, nel centro storico di Rovigo, lo sguardo viene rapito da alcune "finestre" nel muro che la costeggia e lasciano intravvedere un'area verde disseminata di lapidi di marmo.
Un luogo misterioso dominato da alberi e piante cresciute in modo disordinato, circondato da un alto muro, un'oasi verde in cui il tempo sembra essersi fermato. Seguendo il muro, poco più in là, ci si trova davanti ad un cancello in ferro con uno strano simbolo: un candelabro.
Sbirciando oltre il cancello, disegnato sul pavimento, ne appare un altro… una stella a sei punte.
Sono i simboli che ci richiamano alla mente il popolo ebraico. Cosa ci fanno a Rovigo? Dove siamo finiti? Siamo nell'antico cimitero ebraico di Rovigo, uno dei luoghi rimasti che conservano ancora oggi la memoria storica della Comunità ebraica rodigina presente in Città sino al 1930.
Le prime notizie della presenza ebraica in Città risalgono al XIII secolo e al 1391 risale l'istituzione del primo banco di prestito di denaro, attività che sosteneva in modo determinante l'economia del territorio ma severamente proibita ai cristiani. Nel corso dei secoli in Italia, come in Europa, periodi di relativa tolleranza nei confronti delle Comunità ebraiche si alternarono a fasi di persecuzione che portarono all'espulsione degli ebrei dalla Spagna e all'emanazione della bolla papale Cum nimis absurdum (1555), che pose una serie di limitazioni ai diritti delle comunità ebraiche presenti nello Stato Pontificio, obbligandole a vivere in quartieri separati e a portare segni distintivi di riconoscimento.
Fu così che a Venezia nacque il primo Ghetto (1516), un'area controllata e isolata dal resto della città in cui erano costretti a vivere gli ebrei.
Anche a Rovigo nel 1627 venne creato il ghetto ebraico nella zona confinante la Chiesa e il Convento di S. Antonio Abate (ora S. Domenico) fino a Porta di San Bortolo dove risiedevano già alcuni componenti della Comunità, area che coincide grossomodo con l'odierna Piazza Merlin.
Le abitazioni del ghetto erano separate dall'esterno da un muro che aveva più accessi e un portale di entrata nell'odierna via X luglio; a causa del grande numero di persone costrette ad abitare in poco spazio si rese necessario costruire edifici alti 4 o 5 piani che spiccavano fra gli altri edifici di Rovigo molto più bassi. Nel 1797 le truppe francesi aprirono le porte del ghetto scalpellando la lapide del portale per cancellare ogni ricordo di una segregazione e discriminazione che tanto contrastava con gli ideali di cui si facevano portatori.
Molti componenti della comunità ebraica rodigina parteciparono con fervore alla vita politica e culturale del neonato regno d'Italia. In questi anni la maggioranza delle famiglie ebraiche lasciarono il ghetto e, poiché Napoleone proibì di seppellire i morti all'interno delle mura cittadine, venne inaugurato un nuovo cimitero in via Stacche non lontano dal cimitero cristiano che è tuttora funzionante; infine, nei primi decenni del XX secolo, venne costruita la nuova Sinagoga in via Corridoni, oggi abitazione privata.
Il progressivo spostamento di molti membri della Comunità verso centri economici più ricchi fece sì che essa venisse soppressa e passasse sotto la giurisdizione patavina e, di pari passo, il degrado e l'abbandono della "cittadella del ghetto" portò le autorità comunali a deciderne l'inderogabile distruzione nel 1930, periodo in cui le leggi razziali e il secondo conflitto mondiale si preparavano a portare morte e devastazione in tutta Europa.
Oggi dell'antico ghetto, vera e propria "cittadella" sorta nel cuore della Città, rimangono il portale collocato nel muro esterno di Piazza Annonaria e le costruzioni restaurate adiacenti la Piazza che si distinguono nettamente dagli edifici circostanti per la loro altezza anomala.

(Associazione Culturale TeradaMar, 2 marzo 2018)


Fagin l'Ebreo: Will Eisner riscrive Dickens contro l'antisemitismo

di Stefano Feltri

Negli anni Trenta, il più grande fumettista americano del Novecento, Will Eisner, era autore di una serie tanto popolare quanto innovativa, The Spirit: come ogni supereroe anche quello di Eisner aveva una spalla, un ragazzino nero (all'epoca si diceva "negro") che assecondava ogni stereotipo razzista, a cominciare dal nome sarcastico, Ebony White. Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale, Eisner torna a New York con meno pregiudizi: il suo Ebony inizia a parlare come un ragazzo normale, smette di essere una macchietta e i lettori afroamericani trasmettono al fumettista il loro apprezzamento. Eisner si trova così a riflettere su quante responsabilità abbia la narrativa popolare nel creare (o distruggere) stereotipi che condizionano la percezione - e la vita - di interi gruppi sociali. Nel 2003, due anni prima di morire, Eisner realizza uno di suoi graphic novel meno conosciuti, pubblicato ora in Italia in uno splendido volume da 001 Edizioni: Fagin l'Ebreo. Eisner, lui stesso ebreo e grande raccontatore dei successi e delle miserie degli ebrei newyorchesi, riscrive l'Oliver Twist di Charles Dickens, rendendo protagonista quello che là era la sintesi lombrosiana del male. Il capo dei ladri ragazzini, la spia, il mercante infido: Fagin non era un personaggio negativo di origine ebraica, no, era malvagio proprio in quanto ebreo. Anche Dickens poi si pentirà di aver assecondato l'antisemitismo dell'epoca e farà qualche tentativo per rimediare. Eisner non stravolge il personaggio di Dickens, resta un fallito che vive di espedienti poco legali, ma restituisce umanità a Fagin, la cui vita non è meno nobile, anche se più sfortunata, di quella dello stesso Oliver Twist. Il tutto con la forza epica e la tecnica fumettistica inarrivabile dell'inventore del graphic novel.

(il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2018)


Polonia, legge sulla Shoah: una fondazione polacca fa causa a un sito argentino

Per l'organizzazione è stata danneggiata la reputazione dei polacchi

ROMA - Appena entrata in vigore, la controversa legge in Polonia sull'Olocausto ha fornito le basi per una prima denuncia. Venerdì un'organizzazione ha citato in giudizio un sito di notizie in Argentina per "danneggiamento della nazione polacca".
Questa legge, voluta dal presidente polacco ed entrata in vigore giovedì, prevede una pena fino a tre anni di carcere per coloro che attribuiscono "la responsabilità o la corresponsabilità della nazione o dello stato polacco per i crimini commessi dal terzo Reich tedesco".
La legge ha provocato forti tensioni con Israele e molte organizzazioni ebraiche in tutto il mondo, che hanno criticato Varsavia per aver negato la partecipazione di alcuni polacchi al genocidio degli ebrei o addirittura impedito ai sopravvissuti ebrei di raccontare le loro storie. La Lega polacca contro la diffamazione (RDI) si è basata su questo nuovo testo per presentare una denuncia ai danni del sito argentino Página 12.

(askanews, 3 marzo 2018)


Israele e l'Unione Europea tirano Trump in direzioni opposte sul dossier Iran

L'ora della decisione. Nei prossimi quindici giorni il presidente americano dovrà dare risposte che lasceranno molti alleati scontenti.

di Daniele Raineri

 
Rex Tillerson e Donald Trump
ROMA - Da una parte ci sono i diplomatici dell'Unione europea che corrono per salvare il salvabile e impedire che il presidente americano, Donald Trump, stracci l'accordo con l'Iran del luglio 2015 che riguarda il congelamento del programma di ricerca nucleare. Dall'altra ci sono i diplomatici israeliani che fanno pressioni sull'Amministrazione Trump perché abbia un ruolo più deciso nell'impedire che l'Iran trasformi la Siria in una piattaforma militare per aggredire Israele. Sono due richieste in diretta contrapposizione, l'una rende impossibile l'altra. E in mezzo c'è il presidente più disorientato e imprevedibile della storia americana, che dovrà fornire risposte chiare a entrambe le parti nel giro di quindici giorni.
   Si comincia lunedì con la visita del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che si è fatto anticipare dal discorso del suo ministro per la Sicurezza interna, Gilad Erdan. Il malumore che si respirava nel Consiglio di sicurezza di Israele è diventato pubblico quando di recente Erdan ha parlato dal podio della conferenza delle organizzazioni ebraiche più grandi d'America: "Amici, lasciate che io vi parli con franchezza. C'è bisogno di un coinvolgimento più grande dell'America per essere sicuri che l'Iran non trasformi la Siria in uno stato pupazzo. Ogni giorno in cui l'Iran scava una trincea più profonda in Siria ci porta più vicini alla guerra. Non ci sarà un vuoto: se l'America sceglie di non essere un attore importante nel dare forma al futuro della Siria, allora altri lo faranno - e credetemi non saranno i rappresentanti del popolo siriano eletti democraticamente". Netanyahu tornerà molto probabilmente deluso dal viaggio, come spiega il giornalista israeliano Barak Ravid di Channel 10. Due giorni fa il generale Joseph Votel, comandante del CentCom, la divisione del Pentagono che si occupa di quello che succede in medio oriente, ha detto in audizione davanti al Congresso che per ora fronteggiare l'Iran in Siria non è tra le priorità dell'America. Il compito più urgente di cui occuparsi resta quello degli anni passati: la guerra contro lo Stato islamico. Due giorni fa, tuttavia, sono circolate le immagini satellitari di una nuova base iraniana vicino alla capitale siriana Damasco abbastanza grande per contenere missili in grado di colpire Israele. A partire dal gennaio 2013 il governo di Gerusalemme ha messo in atto un piano di contenimento fatto di raid aerei frequenti-circa uno ogni due settimane - contro gli iraniani e i loro alleati in Siria, ma c'è un'escalation come dimostra l'abbattimento di un jet israeliano il 10 febbraio (il primo abbattimento dal 1982).
   Il secondo appuntamento difficile sarà il 15 marzo a Berlino per i colloqui transatlantici. Lo staff che circonda Trump alla casa Bianca - il segretario di stato Rex Tillerson, il segretario alla Difesa Jim Mattis e il consigliere per la Sicurezza nazionale Herbert McMaster- hanno finora impedito per tre volte che il presidente rompesse l'accordo con l'Iran del luglio 2015 - che per Barack Obama fu il culmine di una lunga e cautissima strategia di pace e che per il suo successore è "il peggior accordo mai firmato". Trump ha imposto un ultimatum che scade a maggio per ottenere un accordo più severo e ora i diplomatici europei, italiani inclusi, stanno affannosamente tentando di elaborare un capitolo aggiuntivo dell'accordo che - parole raccolte dal New York Times - "faccia sembrare a Trump che c'è stato un cambiamento anche se non c'è stato un cambiamento". L'Amministrazione americana ha risposto facendo circolare un documento che chiarisce i punti che devono essere risolti se non si vuole che l'accordo salti: imporre nuovi limiti ai test missilistici dell'Iran; garantire l'accesso illimitato degli ispettori alle basi iraniane; un allungamento della scadenza dell'accordo, che oggi permette all'Iran di ricominciare a produrre combustibile nucleare dopo il 2030. Gli europei sono perfettamente consci che se accontentassero Washington gli iraniani si sentirebbero liberi di uscire dall'accordo del 2015 - che richiese più di due anni per essere definito e firmato. Per scrivere il capitolo aggiuntivo e più severo oggi restano meno di tre mesi di negoziati.

(Il Foglio, 2 marzo 2018)


Successione ad Abu Mazen, Hamas gioca la carta Dahlan

Le voci di una presunta grave malattia del leader palestinese hanno rilanciato la lotteria dei candidati alla presidenza Anp. E Hamas sembra puntare sempre di più su Mohammed Dahlan.

di Michele Giorgio

Mohammed Dahlan
GERUSALEMME - Giovane docente all'Istituto per la Politica Estera della Johns Hopkins University, il palestinese Fadi Salameen è noto nei Territori occupati per i suoi attacchi al presidente dell'Anp Abu Mazen. Attacchi, via Facebook e Twitter, volti a far apparire l'anziano leader come un incapace senza carisma e autorità. Non pochi palestinesi sui social li approvano ma Salameen in realtà non ha una visione politica diversa e più radicale rispetto a quella di Abu Mazen. Più semplicemente è un noto sostenitore di Mohammed Dahlan, ex potente capo dei servizi di sicurezza palestinesi espulso da Fatah e divenuto il rivale più accanito e pericoloso di Abu Mazen. Così quando qualche giorno fa Salameen ha lanciato la bomba del cancro allo stomaco che affliggerebbe Abu Mazen, tanti sono rimasti un po' freddi. Si sono riscaldati invece nell'entourage del presidente e ai vertici di Fatah che hanno minacciato «provvedimenti punitivi» nei confronti di coloro che diffondono «notizie prive di fondamento».
   «È difficile valutare l'onestà delle fonti di Salameen» ci dice il giornalista Nasser Atta «personalmente non credo che Abu Mazen abbia il cancro allo stomaco. Ma non è in salute. Ha 83 anni, malattie note da tempo e dopo aver pronunciato (il 20 febbraio, ndr) il discorso all'Onu è andato in un ospedale americano per sottoporsi a controlli medici. I suoi collaboratori dicono che i risultati sono stati buoni ma qualcuno sussurra che (Abu Mazen) faccia uso di cortisone, per cosa non è chiaro». Comunque stiano le cose, l'ingresso del presidente in quell'ospedale statunitense, ha ridato vita al Game of Thrones, al Trono di Spade palestinese, come qualcuno descrive la lotta per la successione alla testa di quell'entità priva di sovranità reale che è l'Autorità nazionale palestinese. «Era scontato» aggiunge Nasser Atta «accade sempre quando si parla della salute di Abu Mazen. Solo che questa volta è più serio, perché c'è di mezzo la crisi dei rapporti con gli Stati Uniti cominciata con la dichiarazione di Trump su Gerusalemme come capitale d'Israele». E i media statunitensi hanno subito lanciato la lotteria dei candidati alla presidenza puntando l'attenzione su quelli che piacciono agli Usa e a Israele dove si parla di un Abu Mazen "irrilevante" dopo la sua rinuncia alla mediazione americana.
   Sono nomi già noti: il capo dell'intelligence Majd Faraj, il numero due di Fatah Mahmoud al-Alul, l'ex ambasciatore all'Onu Nasser Kidwa, un alto dirigente di Fatah Jibril Rajoub e, appunto, Mohammed Dahlan. Quest'ultimo piace agli Usa e a Israele ma deve superare l'ostilità di gran parte di Fatah e dei servizi di sicurezza dell'Anp se vuole avere della possibilità reali. E non sarà facile. Dahlan comunque usa bene le sue risorse finanziarie, frutto dei rapporti stretti che ha con Egitto ed Emirati. I suoi milioni di dollari hanno già costruito una base di consenso in Cisgiordania. Ma è a Gaza che Dahlan gioca le sue carte migliori. I leader del movimento islamico Hamas, suoi antichi avversari, dopo aver escluso per lungo tempo un'alleanza organica con lui, mercoledì al ritorno dal Cairo dove hanno avuto colloqui con i vertici egiziani, hanno fatto sapere che potrebbero formare con Dahlan un «governo di salvezza nazionale per il bene di Gaza». Hamas, ha spiegato un portavoce del movimento islamico, Ahmad Yusef, al giornale on line Watan Voice, non intende «ritornare ogni volta sui passati legami» di Dahlan con Israele. «Dahlan - ha aggiunto - era un rivale politico ora è un palestinese che cerca di costruire ponti con noi». Ancora più esplicito è stato un alto dirigente di Hamas, Osama Hamdan: «Dobbiamo abituarci a considerare Abu Mazen come qualcuno che fa parte del passato».

(il manifesto, 2 marzo 2018)


Di Stefano rilancia contro Israele

Per Manlio Di Stefano, deputato M5S responsabile del programma di politica estera del Movimento, «non c'è nulla di strano nel boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie. È una pratica che accomuna centinaia di migliaia di persone nel mondo e Paesi interi come la Svezia. Anche se io non l'ho mai proposto». Quello che propone Di Stefano, e che si dice favorevole a portare in Parlamento in un eventuale governo M5S è «l'etichettatura dei prodotti provenienti da quei territori occupati». Per Di Stefano «l'argomento non va trattato come se fosse delicato. Il problema, semmai, è voler leggere la storia partendo dal punto in cui conviene di più».

(La Stampa, 2 marzo 2018)
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Sul caso Fioramonti, la coscienza grillina chiede il bis contro Israele

Lorenzo Fioramonti, "ministro" dello Sviluppo in un eventuale governo di Luigi Di Maio, ieri si è difeso dalle accuse di boicottaggio di Israele, da lui praticato in qualità di professore all'Università di Pretoria (Fioramonti si rifiutò di partecipare a un convegno sulla crisi idrica del Sudafrica assieme all'ambasciatore israeliano, ricevendo il sostegno del Bds, il boicottaggio di Israele). E' naturale, persino giusto, che Fioramonti cerchi di minimizzare quanto è successo. Ma il popolo grillino sui social e nei suoi forum esulta, chiede il bis, plaude alla decisione del loro beniamino di ostracizzare Israele, tacciato di "apartheid" e "colonialismo", spacciando ai propri eletti un complotto (giudaico-massonico?) per mettere fuori uso il loro "ministro". Questa ovazione antisionista è sempre stata lì, nel sito di Beppe Grillo ad esempio, dove basta una semplice ricerca per scoprire quanto profonda sia la foga del vaffa contro Israele.
   La verità è che non esiste in Europa un partito antisionista come i 5 stelle, antisionismo che è il risvolto del loro terzomondismo antioccidentale. Perché Israele, nella coscienza pentastellata, è una pianta aliena in un medio oriente che doveva rimanere araboislamico. Forse soltanto il Labour di Jeremy Corbyn, diventato un caso da manuale per il suo antisemitismo sfacciato praticato dai più triti Livingstone, si avvicina al livore grillino contro l'unica democrazia del medio oriente, Israele. Da Livorno a Roma, nelle città dove hanno amministrato i grillini, il risentimento, la demonizzazione e il sussulto antisraeliano si sono infiltrati per la prima volta in Italia grazie ad amministrazioni che hanno prestato il fianco alla delegittimazione. Ma cosa accadrebbe se i 5 stelle salissero al governo del paese? A Torino un rettore, Gianmaria Ajani, considerato dai 5 stelle un punto di riferimento, è nella bufera per aver ospitato nelle proprie aule una serie di convegni antisraeliani dove si perora apertamente il boicottaggio dello stato ebraico. Quali ripercussioni avrebbe un governo grillino per i rapporti economici fra Italia e Israele? E per la libertà di ricerca fra i due paesi? E per la violenza verbale e politica contro i simboli dello stato ebraico? Sono domande che tutti, anche e soprattutto coloro che dicono di avere a cuore la "soluzione due stati", dovrebbero porsi e su cui dovrebbero meditare. Perché quella con cui flirtano da anni i 5 stelle è la "soluzione di un solo stato". E non è quello ebraico.

(Il Foglio, 2 marzo 2018)


“Non odierò"

Una pièce sul dramma israelo-palestinese è in tour nei campus USA

 
Un momento dello spettacolo
Nel libro I shall not hate (non odierò), Izzeldin Abuelaish con l'aiuto dell'amico Shay Pitovsky, racconta la tragedia occorsa alla sua famiglia durante il conflitto tra Israele e Hamas, l'organizzazione che governa a Gaza, nel 2008-2009. Izzeldin è un medico palestinese, laureato a Harvard e attivo da sempre in Israele. Lavora in un ospedale di Gaza e vi si trova assieme a sua moglie e alle sue tre figlie, quando improvvisamente, un tank israeliano lancia un missile che colpisce l'ospedale. Il dottore perde le sue figlie. Attraverso un percorso lancinante, ma ricco di umanità, deciderà che poiché ha sempre lavorato e vissuto a fianco degli israeliani, non li odierà. Ora vive in Canada e il suo libro è diventato uno spettacolo teatrale, I shall not hate, appunto. Protagonista, l'attore palestinese Gassan Abbas.
Questo show, prodotto da Mosaic e affidato alla direzione artistica di Ari Roth, è in tour in queste settimane nei campus americani. Un compito non semplice. Roth ha spiegato al Washington Post che è stato spesso difficile trovare i teatri dove metterlo in scena. Questo si deve anche al fatto che è un po' come "portare l'atmosfera di Gaza nella provincia rurale americana". Molti studenti interpellati dallo stesso giornale però stanno trovando questo scossone commovente e salutare, un grido contro l'indifferenza e una prova che ebrei e palestinesi possono vivere e anche elaborare i propri traumi insieme.
Insieme alla pièce, viene spesso proposto un documentario girato negli ultimi tre anni in Medio Oriente, Via Dolorosa. Tutti modi offerti al pubblico americano più giovane di non perdere mai il contatto con ciò che è lontano da noi, nemmeno in tempi di "America first".

(Gariwo, 1 marzo 2018)


«Perseguitata ma non troppo, la donna ebrea restituisca il vitalizio»

di Angela Pederiva

VENEZIA - Dalla promulgazione delle leggi razziali sono trascorsi 80 anni. Tanti quanti l'età della signora Laura, che difatti in quel tragico 1938 aveva pochi mesi, quando suo papà Giorgio perse il lavoro di impiegato alla direzione delle Assicurazioni Generali di Venezia e fu costretto insieme ai suoi cari a lasciare la città, al punto da poter tornare in Veneto solo dopo un'odissea terminata nel 1945: erano ebrei. Difatti a quella bimba, diventata nel frattempo anziana, era stato riconosciuto il diritto a percepire l'assegno di benemerenza destinato alle vittime delle persecuzioni. Ma adesso la Corte dei Conti, attraverso una sentenza della terza sezione giurisdizionale centrale d'appello, ha deciso che il vitalizio deve esserle revocato perché in fondo lei non ha patito nulla di speciale: «La quasi totalità del popolo ebraico, infatti, visse in condizioni di semi clandestinità in quel periodo». E quindi, par di capire, mica lo Stato può chiedere scusa a tutte le vittime dell'infamia...
  Ma ripartiamo da quel terribile settembre del 1938, ripercorrendo i fatti ricostruiti dai giudici contabili. Dopo l'emanazione delle prime disposizioni contro gli ebrei, Giorgio, la moglie Bruna e la figlioletta Laura furono obbligati a trasferirsi a Padova, dove trovarono sistemazione nell'alloggio della nonna paterna Bice. Nell'ottobre del 1943, però, scattò l'occupazione nazista. La famiglia decise allora di scappare in treno verso Sud e, scrivono i magistrati, «dopo un angoscioso viaggio con una prima tappa a Ferrara per la ricerca dei nonni materni, dimostratasi peraltro vana poiché già fuggiti verso Roma», arrivò a Firenze, dove dimorò per alcune settimane. Cioè fino a quando l'amico Raffaele avvertì i veneziani che la loro presenza era stata segnalata alla Questura, tanto da indurli a ricominciare la disperata corsa verso la Capitale: «Costretti a nascondersi per tutto il periodo seguente alloggiando in una piccola pensione, con cibo scarso e nel terrore di essere coinvolti in una delle continue retate fatte dai tedeschi, gli zii ed il cugino il 16 ottobre del 1943 erano stati deportati da una pattuglia di SS tedesche, fconti furono aiutati da coraggiosi amici cattolici che procurarono loro documenti falsi».
  Nonostante la liberazione di Roma avvenuta il 4 giugno 1944, per lunghi mesi i fuggiaschi non ebbero notizie dei parenti rimasti al Nord e solo nel giugno del 1945 riuscirono a far ritorno a Padova, «dove la casa della nonna che li aveva ospitati era stata saccheggiata dai fascisti che avevano asportato quasi tutti i mobili di arredo, mentre ben undici persone del gruppo familiare erano state deportate nei campi di sterminio nazisti, senza più dare notizia di sé».
  Ecco, per la signora Laura ce n'era abbastanza nel 2008 per presentare la richiesta del vitalizio (di importo pari ad una pensione sociale e previsto da due leggi del 1955 e del 1980) e nel 2012 per impugnare il diniego opposto nel 2010 dall'apposita Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali (secondo cui non risultava che la bambina avesse subìto atti persecutori «neanche sotto il profilo della violenza morale»). Così nel 2014 la Corte dei Conti , sezione giurisdizionale per il Veneto, aveva accolto il ricorso della donna: «Ad integrare gli estremi della violenza morale è sufficiente ricordare lo stato di prostrazione psico-fisica in cui ha versato la ricorrente, allora fanciulla, in quanto ingiustamente privata della serenità e dell'equilibrio indispensabili in un periodo tanto delicato quale l'infanzia, costretta a nascondersi, nel terrore di essere catturata e subire ancor più gravi atti di violenza (deportazione), e a vivere in condizioni di costante pericolo ed estremamente disagiate, trovando sistemazioni di fortuna e versando nella più completa incertezza della sorte che il futuro le avrebbe riservato».

 La beffa
  Queste argomentazioni sono però state ribaltate dai giudici di appello, a cui si era rivolto il ministero dell'Economia, malgrado le testimonianze acquisite con atto pubblico dal notaio Maria Luisa Semi. Si legge nelle motivazioni: «Seppure la signora ebbe a subire atti di persecuzione a causa della sua appartenenza alla razza (sic) ebraica, tuttavia, il Collegio non può fare a meno di rilevare che manca la prova dello specifico atto di persecuzione, soggettivamente caratterizzato, idoneo a legittimare l'erogazione del beneficio». Laura non fu sottoposta «a veri e propri atti limitativi della libertà personale (quali l'internamento in campi di concentramento, la detenzione in carcere, il confino di polizia, le condanne penali e quant'altro)». No, per fortuna no, a quella piccina venne risparmiato almeno quell'orrore. Ma a questa 80enne, nell'ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali con tutta la retorica che lo accompagna, non sarà risparmiata questa beffa: dover restituire dieci anni di assegno vitalizio di benemerenza ad uno Stato che reputa la sua sofferenza di bambina non abbastanza degna di essere onorata.

(Il Gazzettino, 1 marzo 2018)


Erdogan e la bambina "martire": scene da una Turchia che non vogliamo vedere

di Stefano Magni

 
Comizio del partito islamico Akp, al governo in Turchia, a Kahramanmaras, nel sud del paese. Parla il presidente Erdogan. Nel pubblico c'è Amine Tiras e ha sei anni. E' vestita con l'uniforme completa dei berretti bruni, le forze speciali attualmente impegnate in Siria, nell'enclave curda di Afrin, contro le milizie dell'Ypg.
Erdogan la chiama sul palco. Lei, visibilmente emozionata, chiusa nella sua divisa che le sta molto larga, si sente particolarmente a disagio e si mette a piangere. "Una soldatessa dei berretti bruni non piange, lo sai?" la rimprovera dolcemente il presidente turco. Poi le trova una bandiera turca in una delle tasche e trova il suo modo per consolarla e incoraggiarla: "Ha la bandiera turca in tasca. Se diventerà una martire, a Dio piacendo, la avvolgeremo con quella. Sei pronta a tutto, non è vero?". Certo, come no. Il modo migliore per consolare una bambina, che infatti continua a piangere. Bacio del presidente sulla guancia e tanti auguri di buon martirio.
Queste scene siamo solite vederle nella Tv palestinese o libanese, in quei programmi di incoraggiamento all'omicidio-suicidio, con protagonisti bambini con le divise dei movimenti terroristi Hamas, Brigate Al Aqsa o Hezbollah.
Si tratta di una delle peggiori espressioni della cultura della morte jihadista. Un doppio abuso, un incoraggiamento a uccidere e morire, per di più su bambini-soldato. Un insegnamento che rovina la vita, anche ai sopravvissuti.
Ma siamo, appunto, abituati a vedere queste scene nei movimenti terroristi. Non in una grande, militarmente potente ed economicamente ricca nazione che aspira a diventare membro dell'Ue. La Turchia è alle porte, sta cambiando e sta diventando qualcosa di completamente diverso da quella che ci immaginavamo che fosse?
Nella scena di Erdogan e la bambina, ormai diventata famosa e virale, oggetto di dibattito soprattutto in Turchia, ci sono sia elementi di continuità che di novità. L'elemento marziale è sempre stato presente nella Repubblica Turca fondata da Ataturk e il martirio è tema frequente anche fra i più laici dei militari. Ogni bambino è un futuro soldato, per tradizione.
E ogni soldato deve essere pronto a immolarsi. Il bambino armeno, personaggio non secondario del film di propaganda I leoni di Gallipoli, si converte all'islam e si immola in un attentato omicida-suicida per uccidere il vescovo armeno e i suoi complici, intenti a cospirare contro l'esercito turco: e questo in un film del 1964, quando la Turchia era laicissima insospettabile di derive islamiche.
Lo stesso mito fondativo della Repubblica Turca, la battaglia di Gallipoli, la vittoria ottenuta (fra gli altri anche da un giovane Mustafa Kemal, futuro Ataturk) contro le potenze dell'Intesa nel 1915, è una gigantesca esaltazione al martirio e al suicidio. I turchi vi persero 100mila uomini, il doppio delle perdite subite dalle potenze sconfitte, in sei mesi di innumerevoli cariche suicide, alla baionetta, contro le teste di sbarco trincerate dei nemici.
Quindi non è cambiato nulla? In parte sì. Perché nel frattempo, nel quasi-ventennio di Erdogan e Akp al potere, l'islam si è espanso in ogni settore della vita associata turca. Non è una tendenza spontanea, ma politicamente diretta.
Erdogan e il suo partito stanno utilizzando come strumento di indottrinamento il Ministero degli affari religiosi, in turco Diyanet. Stabilito nel 1924 per il motivo opposto, cioè controllare la religione musulmana, adesso ha l'obiettivo di "formare una generazione pia", ligia ai precetti della sharia.
E' un'istituzione dotata di un budget immenso, pari a 1 miliardo e mezzo di euro e forte di 140mila funzionari in tutto il paese, con le sue televisioni, un suo sito Internet molto attivo e un numero verde per rispondere ad ogni singola curiosità o dubbio sull'applicazione quotidiana della legge coranica da parte dei cittadini.
Secondo un reportage pubblicato su Le Monde, il 3 febbraio Diyanet ha ricordato a tutti che si deve usare solo la mano destra per mangiare, perché "i demoni mangiano e bevono con la sinistra". Qualche mancino ha protestato. La polemica peggiore era scoppiata lo scorso autunno, quando sempre Diyanet aveva pubblicato un dizionario dei concetti religiosi in cui annunciava che l'età minima per il matrimonio era di 9 anni per le femmine.
Di fronte alla polemica virulenta e internazionale che ne era seguita, il sito aveva cancellato il passaggio e negato di aver mai inteso promuovere i matrimoni minorili. Diyanet si sta espandendo nelle università, aprendo sale di preghiera al loro interno e progettando di costruire nuove moschee universitarie.
Il tutto per promuovere una cultura che è anche platealmente anti-scientifica, anti-razionale in senso lato. Come si può già vedere in alcuni esempi eclatanti, come quello di Tolgay Demir, capo della gioventù dell'Akp di Istanbul, che insiste nel dire che la terra sia piatta, in un articolo pubblicato sul sito del partito. Chi non è d'accordo, a suo modo di vedere, è vittima di una congiura dei massoni e delle foto false della Nasa.
E quindi: sì, la Turchia ha un problema. Un problema anche nuovo rispetto al vecchio nazionalismo. La scenetta di Erdogan e la bambina rappresenta solo la punta dell'iceberg di questo problema, di fronte al quale l'Europa non può più permettersi di voltarsi dall'altra parte.
Per ora i rapporti fra Ue e Ankara sono stati improntati sulla fredda cordialità. L'Ue contesta la violazione dei diritti umani, talvolta ottiene qualcosa, nella maggior parte dei casi chiude un occhio o due se la politica di Ankara è aggressiva, in Siria così come sul fronte dell'Egeo, paga Erdogan per la gestione dei profughi dalla Siria, perché non sbarchino più sulle coste egee della Grecia. E comunque mantiene aperta l'opzione di un accesso turco all'Europa. Manca un tassello importante, in questa politica: quello culturale.
Un'Ue che vanta il suo agnosticismo dei valori non è probabilmente in grado di capire che la Turchia rappresenta, prima di tutto, una formidabile sfida ideologica e culturale alle nostre porte.

(Analisi Difesa, 1 marzo 2018)


Conferenza sulla spiritualità femminile ebraica

di Lia Tommi

La professoressa Yarona Pinhas
ALESSANDRIA - Domenica 4 marzo , alle ore 17, nella Sinagoga di via Milano, 7, ad Alessandria, si terrà, nell'ambito del “Marzo Donna”, la conferenza di Yarona Pinhas: "La saggezza velata: il femminile nella Tora' ".
La conferenza della professoressa Yarona Pinhas affronta il problema della spiritualità femminile ebraica, attraverso l'esame di figure bibliche femminili che racchiudono, segnalano, mostrano il valore e l'azione di tale spiritualità e rappresentano un esempio pratico per le donne di oggi.
Di altissimo contenuto, la conferenza sarà comunque fruibile anche a chi non abbia particolari conoscenze dell'argomento.
Con questo appuntamento, i soggetti promotori: Comunità Ebraica di Torino -Sezione di Alessandria e Associazione SpazioIdea , intendono valorizzare la Sinagoga di Alessandria, non solo come luogo spirituale, ma anche come luogo di dibattito culturale a partire dell'ebraismo.
Yarona Pinhas, nata in Eritrea, giunta in Israele con la famiglia nel 1975, si è laureata in storia dell'arte e linguistica all'Università Ebraica di Gerusalemme, presso la quale ha svolto attività di ricerca. Di particolare interesse i suoi lavori sugli oggetti di culto ebraici italiani e sulla documentazione di oggetti e sinagoghe dell'ebraismo marocchino, turco e ceco. Lettrice all'Orientale di Napoli, ha insegnato anche a Roma presso diverse istituzioni, quali il Pitigliani e l'Agenzia ebraica, sull'ebraismo e sull'arte ebraica.

(Alessandria Today, 2 marzo 2018)


Sauditi e Israele: uniti contro l'Iran, divisi dalla Palestina

di Giuseppe Dentice

Tra Israele e Arabia Saudita è nata una vera alleanza o ci troviamo di fronte a una convergenza tattica? Siamo pronti a vivere una nuova stagione di relazioni bilaterali e multilaterali in Medio Oriente o quel che accade tra i due storici nemici è un fuoco di paglia? Sono tante le domande e forse ancor di più sono le trame, a tratti oscure, che avvolgono le diplomazie di Israele e Arabia Saudita, che dal 2015 si studiano e si parlano sempre meno ufficiosamente, legate da un comune obiettivo: il contenimento dell'Iran. La "questione iraniana" infatti ha assunto una nuova centralità nell'agenda politica di questi due influenti players, che tacitamente si trovano di fatto a essere degli alleati, per quanto improbabili soltanto alcuni decenni fa. Al di là della rispettiva insofferenza verso il re-engagement internazionale di Teheran, l'evidente unità di intenti israelo-saudita rischia di dar vita a un nuovo paradigma regionale che si fonda, a loro dire, sulla necessità da parte del nuovo asset di contenere le azioni del governo iraniano, il quale punta gradualmente a (re)inserirsi a pieno titolo nei principali dossier dell'attualità mondiale. Ma non solo: Teheran vuole anche divenire un influente - e in alcuni casi determinante - decision maker negli scenari di
Intorno al 2002 i sauditi hanno provato a dialogare con il governo israeliano sulla cosiddetta "road map per la pace", sebbene storicamente Riyadh non abbia mai provato una grande simpatia verso i palestinesi e la loro causa.
crisi mediorientali, dalla Siria all'Iraq, passando per i teatri del Golfo (Bahrain e Yemen) e quelli ancora potenziali del Levante arabo (Libano e Striscia di Gaza).
L'avvicinamento tra questi due improbabili partner ha avuto inizio informalmente intorno al 2002 quando i sauditi hanno provato a dialogare con il governo israeliano sulla cosiddetta "road map per la pace", ossia il piano saudita per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, sebbene storicamente Riyadh non abbia mai provato una grande simpatia verso i palestinesi e la loro causa. Da lì in poi, i due paesi hanno iniziato a confrontarsi su diverse questioni strategiche regionali, come ad esempio Hezbollah in Libano o la questione del disimpegno politico e militare statunitense dal Medio Oriente, oltre al già citato dossier nucleare iraniano. Questo allineamento si è tradotto anche in un'intesa indiretta tra le parti, ossia quella relativa al trasferimento delle isole egiziane di Tiran e Sanafir dall'Egitto all'Arabia Saudita (aprile 2016), in virtù della quale Riyadh, con il beneplacito israeliano, ha ottenuto l'accesso al Golfo di Aqaba. L'intesa prevede che, in caso di escalation militare nell'area, Riyadh potrebbe interdire l'ingresso marittimo alle navi iraniane. Un significativo successo politico e diplomatico che non ha modificato strutturalmente uno dei pilastri securitari del Trattato di pace di Camp David, lasciando inalterati gli equilibri tra israeliani e sauditi.
   Tuttavia, per dare piena effettività a questo strano asse mediorientale, è necessario che le parti affrontino in maniera definitiva il principale tema di divisione bilaterale, ossia il nodo palestinese, con il beneplacito degli Stati Uniti, direttamente interessati a trovare una sponda regionale nel cosiddetto "fronte arabo pragmatico" contro l'Iran. Infatti se la firma dello storico accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 ha accelerato questo processo di avvicinamento diplomatico, la causa palestinese e i suoi riflessi regionali rappresentano ancora un terreno scivoloso sul quale tale convergenza potrebbe rimanere strumentale e limitata, a causa dei singoli interessi divergenti perseguiti dai troppi attori interessati nel panorama mediorientale.
   La crisi israelo-palestinese, che ha vissuto un nuovo vigore dopo le tensioni dello scorso dicembre su "Gerusalemme capitale", congiuntamente con le dinamiche in corso a Gaza - le quali devono considerarsi per certi versi disgiunte dagli sconvolgimenti propri del conflitto israelo-palestinese - hanno assunto di recente un rinnovato interesse per l'Iran. Sin dal 1979 Teheran ha posto il proprio cappello in qualità di sponsor morale e politico sulla questione israelo-palestinese, concentrando almeno fin dall'inizio degli anni duemila i propri sforzi retorici e politici più che sulla causa stessa - veicolo strumentale di querelle politica in Medio Oriente da qualunque parte la si voglia guardare - su un aiuto sempre più diretto a Hamas, la principale sigla al governo della Striscia di Gaza. Proprio l'organizzazione islamista è diventata all'indomani del nuclear deal uno dei tanti terreni di scontro sul quale si fronteggiano da un lato il fronte arabo-sunnita a guida saudita, supportato diplomaticamente da Israele, dall'altro l'Iran e i suoi alleati regionali (Hezbollah su tutti). Una partita a tutto campo che vede i diversi attori coinvolti (Israele, Egitto, Arabia Saudita e Iran) contrastarsi ferocemente, affrontando situazioni intricate e spesso suscettibili di subire evoluzioni impreviste. Un esempio concreto è quanto andato in scena a Gaza nel corso della seconda metà del 2017, dove Hamas, pur essendo formalmente impegnata in colloqui di distensione politico-diplomatica con Egitto e Fatah, continuava a mantenere il proprio canale di dialogo con l'Iran, inviando una delegazione del suo ufficio politico lo scorso 20 ottobre.
   Parallelamente, il fronte sunnita - con in testa Egitto e Arabia Saudita - spingeva per un reinserimento di Hamas all'interno del fronte anti-iraniano anche in funzione di assicurazione securitaria nei confronti di Israele, il quale non potrebbe mai accettare di trovarsi nel proprio cortile di casa un'organizzazione
Il peggior incubo strategico inimmaginabile per Israele è la definizione di un continuum  terrestre che parta dall'Iran fino al Libano, passando attraverso l'Iraq e la Siria per infine giungere al Mediterraneo attraverso la Striscia di Gaza e lo stesso Libano.
islamista potente e strutturata sul "modello" di Hezbollah in Libano, che potrebbe contare sia su una forte sponsorship politica (ed economica) iraniana sia su un addestramento militare da parte della milizia sciita libanese. In sostanza il peggior incubo strategico inimmaginabile per Israele: la definizione di un continuum terrestre che parta dall'Iran fino al Libano, passando attraverso l'Iraq e la Siria per infine giungere al Mediterraneo attraverso la Striscia di Gaza e lo stesso Libano. Per tutte queste ragioni, il processo è costantemente suscettibile di variazioni, con un timore fondato che Hamas possa compiere un ruolo da agente doppiogiochista sia nei confronti del fronte sunnita a guida saudita sia dell'Iran.
   Tuttavia, se non fosse bastato il fattore Hamas a rendere incandescente quel quadrante del Vicino Oriente, le autorità della Repubblica islamica hanno cercato di trarre dei buoni margini di manovra anche nella questione di "Gerusalemme capitale". Secondo la stampa mediorientale e l'ex ministro della Difesa israeliana Moshe Yaalon, il generale iraniano Qassem Suleimani, a capo delle forze al-Quds, avrebbe preso contatti con alcune frange più radicali del contesto palestinese, come Sarayat al-Quds, il braccio armato della Jihad islamica palestinese, quest'ultima in aperta competizione con la stessa Hamas per la leadership della galassia armata locale, promettendo loro vicinanza morale e politica, oltre che finanziamenti, addestramento e supporto logistico clandestino. Tutto questo avveniva nel momento in cui si fanno sempre più insistenti le voci di un ruolo definito dei sauditi nel piano di pace per la Palestina promosso dagli Stati Uniti, nel quale Riyadh punterebbe essenzialmente a un finanziamento dei piani economici nei confronti dei palestinesi imponendo la decisione anche all'Autorità nazionale palestinese (Anp). In questo modo, l'Arabia Saudita, pur tradendo la causa e le aspettative stesse dei palestinesi, i quali si troverebbero ancora una volta abbandonati in un momento cruciale della loro storia, riuscirebbe a salvaguardare i propri interessi geopolitici nel mantenimento di un rapporto saldo con Israele.
   In questo gioco di specchi mediorientale, il tentativo di normalizzazione delle relazioni israelo-saudite rappresenta di fatto una grande incognita. Più che a Israele, la quale parte da una posizione di vantaggio dettata dal fatto che non ha bisogno di nascondere le proprie opzioni strategiche a differenza dell'Arabia Saudita, starà proprio a Riyadh capire quanto la scelta di un'alleanza imperfetta con Tel Aviv, con tutto il suo carico di conflitti e instabilità varie, possa essere audace e/o a tutto profitto dell'Iran. La partita per l'egemonia nella regione è dunque lanciata.
   A supporto di ciò nell'agosto 2017, il nuovo leader di Hamas, Yahya al-Sinwar, ha affermato che l'Iran è diventato il più grande sostenitore dell'ala armata del movimento islamista, le Brigate Izzeldin al-Qassam, confermando indirettamente come siano sempre più fondate le voci di forti tensioni all'interno dello stesso gruppo al potere nella Striscia di Gaza.

(ISPI, 1 marzo 2018)


Israele-Polonia: funzionari del ministero degli Esteri ricevono una delegazione polacca

GERUSALEMME - Alcuni funzionari del ministero degli Esteri israeliano hanno ricevuto oggi una delegazione polacca, con cui hanno discusso della legge sull'Olocausto. Secondo quanto riporta la stampa di Gerusalemme, le parti hanno discusso della controversa legge della Polonia che condanna coloro che accusano il paese di aver commesso crimini nazisti durante la Seconda guerra mondiale. La decisione delle autorità polacche ha suscitato numerose proteste in Israele. "Non è un segreto che la questione della legge polacca sull'Olocausto abbia destato preoccupazione in Israele e tra gli ebrei di tutto il mondo", ha affermato il direttore del ministero degli Esteri israeliano, Yuval Rotem, prima dell'incontro. "Dobbiamo garantire che la verità storica sia preservata e che non ci siano limiti alla libertà di parola e di ricerca, e che il timore di punizioni penali in questo contesto sarà discusso e risolto". Inoltre, Rotem ha annunciato che "allo stesso modo, solleveremo la nostra preoccupazione per il sostanziale aumento degli episodi antisemiti di recente. Siamo consapevoli che la leadership polacca ha condannato queste espressioni [di antisemitismo], ma intendiamo discutere la questione".

(Agenzia Nova, 1 marzo 2018)


Israele è il terzo paese più istruito al mondo

di Nathan Greppi

"Girando per Tel Aviv, Haifa o Rehovot si ha una ottima possibilità di incrociare un Premio Nobel, uno scienziato, un ricercatore, un antichista o un luminare": con queste parole il giornalista Giulio Meotti ha commentato, sul suo profilo Facebook, la notizia che l'OCSE ha inserito Israele al terzo posto nella sua classifica dei paesi più istruiti al mondo.
Secondo l'emittente televisiva CNBC, l'OCSE misura il livello di istruzione di un paese in base alla percentuale di abitanti, tra i 25 e i 64 anni, che hanno conseguito una laurea. Nel 2016, in Israele questa percentuale era al 49,9%, superata solo dal Canada (56,27%) e dal Giappone (50,5%). Nello stesso periodo, l'Italia era al 35o posto, con il 18% di laureati.
Anche le università israeliane compaiono nelle classifiche delle migliori al mondo: nel 2017, l'Academic Ranking of World Universities (ARWU) inseriva il Technion di Haifa al 93o posto, e al 44o tra le migliori per le scienze e la matematica.
Alla base di ciò sta il fatto che Israele è un economia sempre più fondata sull'innovazione e la tecnologia, e c'è una costante richiesta di persone laureate in materie scientifiche e tecnologiche (nel maggio 2016 il tasso di disoccupazione in Israele era al 4,8%, il più basso in 33 anni; in Italia, nello stesso periodo, era all'11,5%).

(Bet Magazine Mosaico, 1 marzo 2018)


La sfida di Teheran a Israele. Base missilistica a Damasco

I satelliti fotografano l'installazione militare dei pasdaran in Siria I razzi in grado di colpire lo Stato ebraico. Ancora raid a Ghouta.

80 razzi
Sono quelli che in certi giorni vengono lanciati da Ghouta su Damasco dai ribelli
600 morti
Sono quelli uccisi negli ultimi dieci giorni nei raid di Damasco su Ghouta

di Giordano Stabile

 
I pasdaran costruiscono una nuova base missilistica vicino a Damasco e sfidano ancora una volta Israele, mentre nella periferia della capitale siriana infuria la battaglia della Ghouta, con il bilancio delle vittime che in dieci giorni è salito a 600. Bashar al-Assad e Vladimir Putin vogliono finire la «guerra civile interna», schiacciare le ultime sacche ribelli, per prepararsi alla prossima fase, che vedrà le potenze regionali e mondiali duellare direttamente. Le nuove installazioni sono state scoperte da un satellite israeliano a 13 chilometri a Nord-Ovest di Damasco. Mostrano depositi con missili in grado di colpire Israele, gestiti dall'unità d'élite dei pasdaran, Al-Quds.
   L'aviazione israeliana ha distrutto due di queste installazioni alla fine dell'anno scorso. Il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, sembra però escludere un raid immediato e ha spiegato che lo Stato ebraico «agirà a livello internazionale per ottenere tutto quello che è possibile». Può essere una «finta» per poi scatenare la rappresaglia, o può essere il primo indizio verso una nuova strategia, tratteggiata dal premier Benjamin Netanyahu alla Conferenza di Monaco: «Agiremo se necessario non soltanto contro gli alleati dell'Iran ma contro l'Iran stesso», aveva detto con in mano un pezzo di un drone iraniano abbattuto, mentre dietro le quinte la diplomazia americana premeva sugli europei per un'azione più incisiva sulla Repubblica islamica.
   Il segretario di Stato Rex Tillerson punta, con l'aiuto alleato, a ottenere il miglioramento del trattato sul nucleare, con lo stop ai test missilistici, l'accesso degli ispettori Onu ovunque, e l'allungamento a tempo indeterminato del divieto di fare l'arricchimento. Finora però le pressioni internazionali non hanno fermato Teheran in Siria. La scorsa settimana il «New York Times» ha pubblicato una mappa con decine di basi dove operano i pasdaran, compresa la T4, vicino a Palmira, da dove è partito il drone che è penetrato nella spazio aereo israeliano. La stessa base è stata subito dopo presa di mira da un raid e quell'azione, il 10 febbraio, ha scatenato una battaglia aerea, con un F16 israeliano abbattuto. Da allora Israele ha evitato nuovi raid e i russi hanno rafforzato ancora il loro dispositivo di difesa con l'invio dei cacciabombardieri invisibili Su-57, la risposta russa agli F-22 Usa.
   Gli schieramenti si studiano, in vista di quella che potrebbe essere una resa dei conti dopo la battaglia della Ghouta, quando si vedrà se Mosca è disposta ad appoggiare Assad nella sua volontà di «riconquistare ogni centimetro quadrato di territorio», di riprendere il controllo delle frontiere a Nord, dove ci sono truppe turche e americane, e a Sud, verso il Golan. Il confronto con lo Stato ebraico diventerà incandescente. Nell'enclave ribelle le cinque ore di tregua mattutine hanno permesso, secondo Mosca, l'evacuazione di un primo gruppo di civili. Ma raid aerei e colpi di artiglieria sono continuati, in appoggio all'avanzata sempre più rapida delle truppe governative. Ad Harasta, l'ingresso occidentale della Ghouta, vicino al centro di Damasco, la Quarta divisione meccanizzata ha conquistato due quartieri; sul Iato opposto le Qawet al-Nimir, le «Tigri», hanno preso le cittadine di Hawsh al-Dawahirah e Al-Shifouniyah. Il bilancio delle vittime, dal 18 febbraio, è salito a 600 morti. Assad andrà avanti nella riconquista della Ghouta, lo ha ribadito Putin: «Non tollereremo all'infinito i bombardamenti dei ribelli dalle zone sotto loro controllo», ha spiegato: «In certi giorni arrivano 80 colpi di razzi e di mortaio e colpiscono perfino l'ambasciata russa».

(La Stampa, 1 marzo 2018)


La Giornata del Design italiano presentata a Tel Aviv

Italiano 1/3 del fatturato mondiale, spiega ambasciatore Benedetti

TEL AVIV - "Il design è diventato una caratteristica chiave della produzione italiana e una forza economica trainante. Il design italiano rappresenta oltre un terzo del fatturato dell'industria mondiale del settore, che ammonta a 100 miliardi di euro" in totale. Così l'ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, ha introdotto la Conferenza "Design, Creativity and Manufacturing", svoltasi nella sua Residenza per la "Giornata italiana del design", che si celebra in 100 città in tutto il mondo e che è parte del progetto di promozione integrato "Italia, Culture, Mediterraneo", promosso dal ministero degli affari esteri e dalla cooperazione. E sono 100 gli 'ambasciatori' del design italiano (architetti, designer, accademici, imprenditori, eccetera) che hanno preso parte alle iniziative promosse.
   A rappresentare il design italiano in Israele è stato il professore Stefano Micelli, Direttore della Venice International University e attualmente curatore del progetto 'New Craft' della XXI Triennale di Milano, che si occupa di trasformazioni del sistema industriale italiano e studia il design e la creatività quali fattori su cui ripensare il vantaggio competitivo delle imprese.
   Dopo di lui è toccato a Dov Ganchrow, designer indipendente e professore di disegno industriale all'Accademia Bezalel, una delle più importanti di Israele. Sia con questa sia con l'altra stella del design israeliano, l'Istituto Shenkar di Tel Aviv, l'Italia ha in corso numerosi progetti di collaborazione. "Il design italiano - ha ricordato Benedetti - è nato nelle officine degli artisti del Rinascimento". Da allora - è stato aggiunto - la ricerca nel settore del disegno industriale si è sviluppata nel nostro Paese attraverso un continuo dialogo fra scuole di design e correnti artistiche, mettendo in collegamento la spiccata tradizione artigianale italiana con l'innovazione tecnologica. Un "saper fare" che è "un elemento di differenziazione" del sistema produttivo italiano e "uno degli aspetti più interessanti dell'offerta produttiva del Made in Italy del futuro". E' stato poi annunciato che la mostra 'Bicycle Renaissance', inaugurata oggi a Milano alla Triennale, verrà in Israele in occasione della partenza del Giro d'Italia da Gerusalemme il prossimo 4 maggio. A questo proposito erano presenti ieri sera all'evento anche una delegazione di ciclisti italiani composta da Alessandro Ballan, Gilberto Simoni, Andrea Tafi, Paolo Savoldelli e Maurizio Fondriest, ospiti in questi giorni del ministero del turismo israeliano. La Conferenza è stata organizzata insieme all'Istituto di Cultura di Tel Aviv e con il supporto di Maserati/Ferrari di cui alcune produzioni storiche erano in mostra.

(ANSAmed, 1 marzo 2018)


I 5 stelle e la grande sete di boicottaggio d'Israele

Il "ministro" Fioramonti e la penuria d'acqua in Sudafrica (che ha chiesto aiuto all'aridissimo Iran)

di Giulio Meotti

ROMA - Il 9 luglio sarà il "Giorno zero", quando le riserve d'acqua in tutta Città del Capo raggiungeranno il 13,5 per cento della capacità. A quel punto, secondo il sindaco Patricia de Lille, inizieranno i razionamenti e i 3,7 milioni di abitanti dovranno recarsi in uno dei duecento punti di raccolta dell'acqua. Se il Sudafrica avesse accettato l'offerta di aiuto da parte di Israele, leader mondiale nel settore, il paese avrebbe avuto molta meno sete. Lo ha spiegato la Reuters lo scorso 5 febbraio: "Il governo sudafricano, fortemente allineato con la causa palestinese, ha snobbato le offerte di aiuto fatte dall'ambasciatore israeliano. L'anno scorso la sola presenza di un ambasciatore israeliano in un comitato per discutere la gestione dell'acqua ha suscitato una tale protesta che una conferenza è stata cancellata". Una settimana fa è uscito anche un articolo del Wall Street Journal: "Città del Capo andrà a secco a causa dell'avversione a Israele".
   "Siamo disposti a condividere le competenze per aiutare il Sudafrica con i suoi problemi di siccità". aveva detto Michael Freeman, portavoce dell'ambasciata israeliana in Sudafrica. "Non vediamo l'ora di aiutare".
 
Lorenzo Fioramonti
   A far precipitare l'organizzazione della conferenza la decisione di un italiano, Lorenzo Fioramonti, docente all'Università di Pretoria, che si è ritirato da quel convegno a causa del "boicottaggio accademico internazionale contro gli ufficiali israeliani". La sola presenza dell'ambasciatore israeliano, Arthur Lenk, fu sufficiente ad annullare l'incontro e la collaborazione. "Ci sono prove sufficienti per mostrare come le politiche di Israele abbiano portato via l'acqua dalle comunità palestinesi" disse Fioramonti al Daily Vox. "E' anche grazie al mio ritiro e al dibattito che ha generato nei media e nella società civile che molti sudafricani stanno imparando cosa sta succedendo con l'acqua in medio oriente". Fioramonti spiegò anche che i sudafricani "sono sensibili alla situazione in medio oriente e alle somiglianze con l'apartheid".
   Il docente di Pretoria è stato indicato due giorni fa da Luigi Di Maio, candidato premierper i 5 stelle, come suo eventuale ministro dello Sviluppo economico. Fioramonti rivendicò anche su Twitter quel gesto, taggando "BDS South Africa", il boicottaggio israeliano. "Il boicottaggio accademico, propugnato da Fioramonti, è ancora più odioso del boicottaggio economico" dice al Foglio Alessandro Litta Modignani, presidente dell'Unione della Associazioni pro Israele. "Inoltre vorrei ricordare che queste non sono posizioni della sola base dei 5 stelle, ma del suo vertice. Beppe Grillo ha detto che gli occidentali pensano che l'Iran sia una dittatura perché tutto è filtrato dal Merori e l'onorevole Bernini pensa che il sionismo sia una 'piaga'", Duro l'onorevole Emanuele Fiano del Pd: "E' una vergogna senza scusanti, un fatto immorale". Davide Romano, segretario dell'Associazione amici di Israele ed esponente di spicco della comunità ebraica di Milano, al Foglio riassume così la posizione 5 stelle: "Nulla contro tutti gli stati del mondo, comprese le dittature sanguinarie, tutto invece contro la democrazia israeliana. Sarà perché è il paese dove vivono tanti ebrei? A voi la non ardua risposta. Resta comunque un fatto grave che il possibile ministro dello sviluppo economico boicotti uno dei paesi più innovatori al mondo".
   Resta da capire se la posizione di Fioramonti (anche in economia, come spiegato nell'articolo in pagina) sia condivisa da Luigi Di Maio, che ieri si è limitato a discolpare il suo "ministro" senza entrare nel merito della vicenda.
   "Vorremmo capire se le posizioni espresse da Fioramonti di appoggio al boicottaggio di Israele, ignaro del fatto che questo movimento è fuori legge in molti paesi del mondo, siano condivise dal 5 stelle", dice al Foglio Barbara Pontecorvo, presidente dell'Osservatorio Solomon sulle discriminazioni e l'antisemitismo.
   Due mesi dopo la cancellazione del convegno con l'ambasciatore israeliano Lenk e il professor Fioramonti, i ministri sudafricani volarono non a Gerusalemme, ma a Teheran, tornando a casa con un memorandum di collaborazione per lo sviluppo delle fonti idriche sudafricane. Purtroppo per Città del Capo l'Iran, a differenza di Israele, non ha alcuna esperienza in materia, ma un poco invidiabile record di crisi idriche spaventose. Il 19 gennaio scorso il New York Times ha dedicato un articolo alla mancanza d'acqua in Iran. David Michel, un analista dello Stimson Center, ha spiegato che il tasso di esaurimento delle acque in Iran è oggi tra i più rapidi al mondo, tanto che, secondo i calcoli di Miche), 12 delle 31 province del paese "esauriranno completamente le loro falde acquifere entro i prossimi 50 anni". Il lago Urmia, una volta il più grande lago salato della regione, è diminuito del 90 per cento in appena mezzo secolo.
   I sudafricani a questo punto vorrebbero una risposta dal professor Fioramonti e dai 5 stelle: quando arriverà il "Giorno zero", cosa dovrebbero bersi, un litro di boicottaggio antisraeliano e di rivoluzione iraniana?

(Il Foglio, 1 marzo 2018)


In Israele c'è chi sblocca tutti gli iPhone. O almeno così dice

L'azienda israeliana Cellebrite sostiene di poter sbloccare tutti gli iPhone, anche con l'ultima versione di iOS. Cosa c'è di vero, e soprattutto cosa si saranno inventati per abbattere le protezioni di Apple?

di Emanuele Villa

Qualche giorno fa Forbes pubblicò la notizia secondo cui l'azienda israeliana Cellibrite avrebbe scoperto un modo (non meglio precisato) per sbloccare praticamente tutti gli iPhone in commercio, iPhone 8 e X inclusi. La memoria va immediatamente a inizio 2016 quando l'FBI, non riuscendo a sbloccare l'iPhone 5C di uno dei killer di San Bernardino per esaminarne il contenuto, entrò in rotta di collisione con Apple che negò fin da subito l'assistenza in qualsiasi procedura di hack dei suoi prodotti. FBI poi, per dovere di cronaca, riuscì ad accedere ugualmente al contenuto del telefono anche senza l'assistenza di Cupertino.
  Tornando a oggi pare che Cellebrite, fornitore di alto livello del governo a stelle e strisce per quanto concerne la sicurezza informatica, stia facendo girare la voce tra i suoi clienti di essere in grado di sbloccare ogni iPhone, ultima generazione inclusa. Nonostante il clima di assoluta segretezza, l'esplosione della notizia ha 'costretto' Cellebrite a diffondere una dichiarazione ufficiale: gli israeliani sarebbero in grado (o così dicono) di sbloccare tutte le versioni di iOS fino alla 11.2.6, cioè fino all'attuale, e questo senza bisogno di alcun jailbreak. L'azienda sarebbe in grado di accedere all'intero file system e, di conseguenza, scaricare email, dati delle applicazioni di terze parti, log vari ed eventuali e geolocalizzazione del terminale. I clienti Cellebrite, che sono principalmente agenzie governative, forniscono il telefono così com'è e lo ricevono sbloccato, oppure ricevono i dati richiesti in forma crittografata. Ovviamente nessuno all'interno di Cellibrite si sogna di svelare cosa ci sia dietro il sevizio di Advanced Unlocking & Extraction, ma c'è chi ha già fornito alcune ipotesi.

 Cosa dicono gli esperti di sicurezza
  Questa storia ha alcune certezze: in primis Cellebrite ha bisogno fisicamente dello smartphone, quindi si esclude la possibilità che un qualche hack di diverse forme o nature possa sbloccare un iPhone lanciando un programmino scaricato da chissà dove nel web. Cioè non vi preoccupate, nessuno accede ai vostri dati a meno che qualche governo, per motivi che non vogliamo sapere, ritenga fondamentale entrarne in possesso. Ma anche in quel caso, ha bisogno del vostro iPhone.
  Gli esperti di sicurezza, secondo l'ottimo approfondimento di ArsTechnica, ritengono quanto meno improbabile che Cellebrite sia riuscita a abbattere il sistema di encryption usato da iOS per proteggere i suoi contenuti. Piuttosto, la maggior parte delle voci consultate pare concorde sul fatto che con il servizio di Advanced Unlocking & Encryption Cellebrite abbia trovato un modo per bypassare il blocco di iOS sul numero di volte che PIN/passcode possono essere inseriti prima di rendere il telefono inutilizzabile. A questo seguirebbe un 'semplice' meccanismo di brute force per rilevare la sequenza corretta eseguendo tentativi su tentativi.
  ArsTechnica fa giustamente notare che i primi tentativi di rimuovere il blocco di cui sopra necessitavano di interventi hardware, resi via via meno efficaci a partire da iPhone 5S e soprattutto dal processore SEP (Secure Enclave Processor) dedicato esclusivamente alla sicurezza. Si deduce dunque che il sistema posto in essere da Cellebrite sia di natura software e che dunque possa essere bloccato da Apple fin dall'aggiornamento iOS 11.3 o uno successivo. Secondo Dan Guido, CEO dell'agenzia di sicurezza informatica Trail of Bits, "Cellebrite non può magicamente scoprire il tuo passcode. Possono bypassare i counter ma alla fine hanno bisogno di effettuare un brute force sul tuo passcode. Può essere semplice se è di 4 cifre, può essere molto più complicato se inserisci un mix complesso di lettere e numeri. Finchè il tuo passcode è di lunghezza sufficiente, Cellebrite può andare avanti all'infinito a cercarlo, ma senza successo". Capita la lezione?

(DDay, 1 marzo 2018)


No, Israele non ha scatenato nessuna guerra di religione contro i cristiani in Terra Santa

Come mai una disputa fiscale ha portato leader cristiani e palestinesi a gridare alla "persecuzione" (e chiudere il Santo Sepolcro) quando persino papa Francesco dice che le proprietà commerciali della chiesa devono pagare le tasse?

Come è tipico in Medio Oriente, una mediocre disputa finanziaria relativa alla riscossione di tasse sulle proprietà delle confessioni cristiane a Gerusalemme è rapidamente degenerata in una crisi politica e religiosa su vasta scala. I leader cristiani hanno adottato la misura pressoché senza precedenti di chiudere a fedeli e pellegrini la Basilica del Santo Sepolcro, i capi arabi e palestinesi hanno descritto la questione come l'ennesimo esempio delle politiche discriminatorie d'Israele e della sua usurpazione dei luoghi santi non ebraici. E questo stesso giornale, Ha'aretz, ha paventato che Israele stesse "bruciando i ponti col mondo cristiano".
Il governo israeliano è corso ai ripari agendo in modo responsabile: ha accantonato la controversa proposta di legge che avrebbe permesso allo Stato di confiscare terre vendute dalle Chiese a privati, e ha convinto la Municipalità di Gerusalemme a congelare il tentativo di riscuotere forzatamente le tasse di proprietà su beni ecclesiastici usati per attività commerciali....

(israele.net, 1 marzo 2018)


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