Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 1-15 marzo 2020


Il coronavirus salva Netanyahu, processo per corruzione rinviato di due mesi

I casi salgono a 200. Il rivale Gantz pronto a entrare in un governo di unità nazionale

di Giordano Stabile

Il coronavirus fa saltare anche il processo per corruzione nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu. La prima udienza era prevista per il 17 marzo, martedì prossimo, ma è stata rinviata al 24 maggio a causa dell'emergenza. Tutti i tribunali hanno ridotto al minimo le attività, per evitare il rischio d contagio, come ha annunciato questa mattina il ministro della Giustizia Amir Ohana. Il Covid-19 ha scompaginato anche i piani politici. Netanyahu sembrava all'angolo, con il rivale Benny Gantz che si era messo d'accordo con il leader della destra laica Avigdor Lieberman per impedire il reincarico al premier dopo il voto del 2 marzo. E invece, di fronte all'emergenza sanitaria, ieri sera Gantz si è detto per la prima volta disponibile a entrare in un governo di unità nazionale guidato da Netanyahu, cosa che non aveva concesso nonostante tre elezioni di seguito e uno stallo politico permanente alla Knesset, dove nessuno dei due blocchi ha ottenuto la maggioranza di 61 seggi su 120.

 Software anti-terrorismo contro il Covid-19
  La situazione è seria, perché la curva di aumento dei casi, questa mattina saliti a 200, fa presuppore uno scenario simile a quello nei principali Paesi europei. Per questo ieri sera Netanyahu ha varato un piano aggressivo per contenere i contagi, anche con l'uso di un software sviluppato dai militari per prevenire gli attacchi terroristici. Il premier ha promesso, in un discorso alla nazione in tv, che "non solo supereremo questa crisi, sconfiggeremo il virus". Soprattutto con l'uso di "una tecnologia invasiva", cioè un software per la difesa antiterrorismo, di concezione militare, per tracciare il diffondersi del contagio e stroncarlo, anche attraverso il controllo degli spostamenti attraverso i cellulari, con l'appoggio dei Servizi interni, lo Shin Bet. Una guerra cibernetica "al nemico invisibile".

(La Stampa, 15 marzo 2020)


Israele traccia gli spostamenti delle persone con i telefonini

di Giordano Stabile

Netanyahu annuncia dal suo ufficio di Gerusalemme le misure che saranno prese per combattere il coronavirus
In Israele l'epidemia accelera, il numero dei contagiati passa da 127a 193 in un solo giorno e Netanyahu interviene, parla alla nazione per prepararla alla battaglia, mentre il capo dell'opposizione Gantz annuncia che è pronto a entrare in un governo di unità nazionale guidato dal rivale. La curva del contagio indica che presto lo Stato ebraico potrebbe trovarsi in una situazione simile a quella italiana. Il premier promette che «non solo supereremo questa crisi, sconfiggeremo il virus». Soprattutto con l'uso di «una tecnologia invasiva», cioè un software per la difesa antiterrorismo, di concezione militare, per tracciare il diffondersi del contagio e stroncarlo, anche attraverso il controllo degli spostamenti attraverso i cellulari, con l'appoggio dello Shin Bet. Una guerra cibernetica «al nemico invisibile».
   Il primo passo è però cercare di «non infettarsi e non infettare altre persone». Per questo il governo ha annunciato nuove misure. Scuole e università rimarranno chiuse fino a dopo il Passover, tutte le attività ricreative sospese e gli assembramenti oltre le 10 persone proibiti. Ci saranno anche controlli della temperatura nei supermercati. Netanyahu ha valutato tre scenari per il futuro. In quello più drastico chiuderanno tutte le aziende a parte quelle che forniscono servizi essenziali: acqua, carburanti, elettricità, gas, sanità, sicurezza. Ai militari di leva è stato ordinato di tornare in caserma, dove dovranno restare «fino a un mese». Israele non ha ancora imposto il blocco dei voli, come l'Arabia Saudita, ma le norme imposte ai visitatori stranieri, che devono dimostrare di avere un posto dove stare per 14 giorni in quarantena, hanno di fatto bloccato gli arrivi.
   Nei Paesi vicini, il Libano si prepara a una chiusura totale in stile Italia, che sarà annunciata oggi, mentre il principale focolaio di contagio resta l'Iran. Ieri i casi sono saliti a 12.729, i morti a 611. Ma la realtà potrebbe essere peggiore. Foto satellitari hanno mostrato come il cimitero di Qom abbia allestito una nuova area grande come un campo da calcio, medici parlano di «centinaia di morti al giorno», mentre le autorità hanno arrestato un noto calciatore, Mohammad Mokhtari, per aver scritto su Instagram che «le cifre ufficiali sono una piccola percentuale della verità». Anche i contagi nel Golfo stanno esplodendo: 337 in Qatar, 211 in Bahrein, 104 in Kuwait,103 in Arabia Saudita, 85 negli Emirati.

(La Stampa, 15 marzo 2020)


Telemedicina ed esercitazioni, l'esempio Israele

di Luciano Bassani

Lo Stato di Israele a metà gennaio del 1991 per un mese e mezzo si trova sotto attacco. Bersagliato dai missili di Saddam Hussein dovette prepararsi a questa aggressione riorganizzando anche il suo sistema socio sanitario e soprattutto la gestione delle grandi emergenze e delle cure domiciliari. Questa riorganizzazione presenta al mondo un sistema decisamente all'avanguardia. Da allora anche in Italia vari esperti sanitari hanno collaborato con i colleghi israeliani per costruire un sistema socio sanitario universale ottimale. Questo è accaduto specialmente in Lombardia che da anni è un'eccellenza in Italia in questo campo.
   Gli Usa, i Paesi dell'Europa Occidentale e l'Italia però non hanno mai seguito veramente le linee guida indicate da Israele non riuscendo a costruire un sistema capace di fronteggiare grandi emergenze, perché sempre illusi che nulla potesse mai accadere. Così si arriva all'attuale emergenza e il mondo intero si trova impreparato e indifeso. Purtroppo in una situazione drammatica come questa emerge la mancanza di addestramento che è fondamentale per affrontare questa realtà così complessa e imprevedibile.
   In questi contesti è necessario potere raddoppiare rapidamente la capacità dei principali ospedali potendo trasferire dei pazienti meno gravi all'assistenza domiciliare per seguirli con la telemedicina. Basta un medico e pochi infermieri per monitorare i parametri vitali del paziente e in caso di aggravamento predisporre un auto medica o un ambulanza per ricoverarlo.
   Lo Stato di Israele è grande circa come la Lombardia e ha una popolazione di 9 milioni di abitanti, ha 9 grandi ospedali chiamati trauma center, il tempo di degenza per un paziente mediamente è di 1,5 / 3 giorni.
   In caso di maxi emergenza la macchina organizzativa si muove rapida ed efficiente, approntando ospedali mobili, raddoppiando i posti letto , distribuendo a tutta la popolazione presidi di sopravvivenza. In poche ore tutti i pazienti non a rischio vengono dimessi e vengono assistiti a domicilio dove viene attivato un servizio di telemedicina.
   Tutto questo deriva da un'organizzazione capillare e soprattutto da tante esercitazioni continue e dalla formazione che prepara la classe medica, paramedica e la popolazione a gestire l'emergenza.
   Non si può destinare a politici e tecnici impreparati, seppur volenterosi , una tale emergenza e l'attuale classe dirigente e diversi media e social network partendo da comunicazioni errate e spesso molto imprecise innescano una catena che genera panico e confusione. Per tutti quei movimenti sempre pronti ad accusare Israele e a cercarne un sistematico boicottaggio, è davvero arrivato il momento di tacere e imparare.

(La Verità, 15 marzo 2020)


La preghiera che sfida il contagio. I precetti a confronto con i divieti

Così ebrei, musulmani e valdesi si adeguano alle prescrizioni sanitarie

di Irene Famà

 
La sinagoga di Torino
Ci sono molti modi per pregare. In gruppo, da soli, nella propria stanza, sul luogo di lavoro, mentre si cammina per strada. L'emergenza Coronavirus impone, una preghiera solitaria. Chiese, sinagoghe e moschee sono chiuse, stando alle norme per prevenire il contagio.
   Oggi i valdesi avrebbero dovuto celebrare il Culto nel loro tempio. «L'abbiamo registrato su YouTube e trasmesso sul nostro sito web alle 10,30 — spiega Maria Bonafede, pastora titolare della Chiesa Valdese di Torino — E sarà così per tutte le domeniche sino a quando sarà necessario». Domenica 8 marzo alla Santa Cena avevano partecipato una sessantina di persone, tutte a un metro di distanza l'una dall'altra. Poi le norme si sono fatte più stringenti e si è pensato ad altre forme di preghiera. «Come pastori stiamo chiamando quotidianamente chi è solo — aggiunge Bonafede — Facciamo "visite telefoniche" per garantire un collegamento, una vicinanza a chi ha bisogno».
   Ieri gli ebrei hanno celebrato il giorno di Shabbat. «La preghiera del Sabato per noi è la più importante — spiega Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino —. Il sabato non è ammesso l'utilizzo di mezzi informatici, ma non li stiamo utilizzando nemmeno per le preghiere degli altri giorni. Abbiamo invitato i fedeli a pregare in famiglia per riscoprire la dimensione domestica, un aspetto un po' dimenticato. È un'occasione per riscoprire la spiritualità a livello individuale».
   E di preghiera in famiglia parla anche Brahim Baya, portavoce della moschea Taiba di via Chivasso: «La preghiera del Venerdì dev'essere fatta in gruppo ed è importante la presenza fisica. Per questo non ci sono state dirette streaming, ma c'è l'invito a pregare con il nucleo familiare». E venerdì ha pregato con la sua famiglia anche Abdelghani Elrhalmi, presidente della moschea di via Genova: «A casa siamo in cinque — racconta — E mio figlio ha anche disegnato l'arcobaleno». Un segno di speranza. Speranza riposta proprio nella preghiera.

(La Stampa, 15 marzo 2020)


La libertà antidoto alla solitudine

di Gavriel Levi

Forse è sorprendente, ma abbastanza vero e da riflettere. Le grandi catastrofi umanitarie, che colpiscono intere popolazioni con una logica probabilistica, mettono alla prova (una prova personalissima) tanti singoli individui.
   Davanti ad una grande catastrofe umanitaria gli individui si sentono terribilmente soli. Capiterà proprio a me? Oppure rimarrò disperso nella folla anonima e proprio non toccherà a me? Nella percezione della fatalità, per il nostro umanissimo inconscio, la scelta mirata del destino ed il capriccio della casualità arbitraria tendono a confondersi.
   E davanti a questa esperienza straniante, l'individuo (la persona) oscilla fra sentirsi incredulo ma con presagi, paralizzato ma con una pulsione di libertà.
   Sarò inevitabilmente passivo? Oppure saprò inventare una risposta attiva e imprevedibile?
   Il cerchio si chiuderà intorno a me, restringendomi nella mia prigione? Oppure per non spegnermi davanti al mio specchio, cercherò l'ombra dell'altro?
   In fondo, questa è la domanda fondamentale di Albert Camus: sia quando bisogna nascondersi di fronte alla peste, sia quando ci si scopre come uno straniero di fronte alla morte. In ambedue le esperienze, la sfida esistenziale è la stessa. Davanti all'abisso l'assurdo è sentirsi assolutamente inutile oppure assolutamente umano? Per implodere nel silenzio o per inventare il dialogo?
   Nel pensiero ebraico dell'800, Mordekhai Leiner ed il figlio Iaqov si sono posti queste domande come un interrogativo esistenziale-religioso continuativo.
   Ogni persona si trova in ogni momento di vita davanti ad una scelta costante. Sentirsi determinato, in un percorso senza alternative e già previsto oppure viversi incredibilmente libero, davanti ad un bivio sempre da decidere.
   La risposta è paradossale. Se si è capaci di scegliere anche davanti alle apparenti casualità delle situazioni contingenti, si diventa momento per momento liberi. Se si è capaci di esperimentare la responsabilità come un messaggio vincolante, l'assurdo è un dialogo (collettivo) con l'Infinito.
   Davanti alle catastrofi umanitarie, ogni singolo passo può essere una scelta: rompere la casualità e l'assurdo ascoltando ogni traccia della doppia domanda (propria ed altrui) "dove sei?"
   E' dunque nelle catastrofi umanitarie che si può e si deve scegliere se e come essere un umano. Inventando qualcosa che si chiama libertà. Nella solitudine non si è liberi.

(La Stampa, 15 marzo 2020)


Quanto ci manca Tony Judt

I saggi rivelano l'inesausta curiosità e la familiarità con i maggiori dibattiti del XX secolo.

di Mario Ricciardi

«La Londra postbellica, dove sono cresciuto, era un mondo alimentato dal carbone e azionato dal vapore, nel quale i venditori ambulanti usavano ancora i cavalli, le automobili erano rare e i supermercati (e gran parte di ciò che vendono) sconosciuti. Per la sua geografia sociale, il clima e l'ambiente, le relazioni di classe e gli allineamenti politici, le attività industriali e l'abitudine alla deferenza sociale, nel 1950 Londra sarebbe stata immediatamente riconoscibile a un osservatore di mezzo secolo prima». Questo brano, che apre la recensione di un libro di John Lewis Gaddis sulla Guerra Fredda, restituisce con efficacia una delle caratteristiche di Tony Judt. Storico della contemporaneità, una categoria dal confini continuamente rimessi in discussione, Tony aveva il dono di riportare alla vita il passato recente, mostrando quanto esso sia ancora qui, a condizionare il nostro modo di parlare, di pensare e di vivere. Quando si venne a sapere della malattia che lo avrebbe portato alla morte, a soli sessantadue anni, nel 2010, ne fui profondamente colpito.
Tony era un uomo straordinariamente attivo e vitale, sempre in movimento tra le due sponde dell'Atlantico, e si scopriva affetto da un male che lo avrebbe lentamente privato della possibilità di muoversi, e infine di parlare, ma senza togliergli la lucidità, per poi ucciderlo. Un destino crudele. Chiunque altro sarebbe stato schiacciato da questa sentenza di morte, ma non lui. Al contrario, gli ultimi mesi di vita, ormai confinato a letto, privo della possibilità di parlare, furono una lotta contro il tempo per portare a termine il libro sul Ventesimo Secolo che poi vide la luce postumo nella forma di un'intervista con Timothy Snyder (Novecento, Laterza, 2012).
  Lo stesso editore che ha pubblicato quel volume, e buona parte dei lavori più importanti di Tony Judt, ci mette ora a disposizione una raccolta di scritti (recensioni e saggi) del periodo che va dal 1995 al 2010. Si tratta di un genere letterario poco praticato dagli storici italiani, che prediligono le monografie, ma che si adattava splendidamente alla inesausta curiosità di Tony, un lettore instancabile e vorace, che padroneggiava diverse lingue, e aveva familiarità con buona parte dei grandi dibattiti della cultura europea del Novecento. Con lui si poteva conversare di teoria politica e di letteratura, di istituzioni e di fenomeni di costume, sempre imparando qualcosa.
  Era cresciuto nella Londra del dopoguerra, traendo beneficio, come egli stesso ha ricordato, da un sistema di educazione pubblica (ormai quasi del tutto smantellato da anni di riforme neoliberali) il cui scopo era dare opportunità a giovani promettenti ma privi di mezzi. Diversamente da buona parte dei suoi colleghi (aveva studiato a Cambridge) si era lasciato alle spalle il Regno Unito per misurarsi con altri ambienti. Parigi, dove si era formato all'Ecole Normale Supériore, e poi gli Stati Uniti. Quando l'ho conosciuto era professore di European Studies alla New York University, dove dirigeva il Remarque Institute, un centro il cui compito era promuovere il dialogo tra Stati Uniti ed Europa. Tra le iniziative cui teneva di più c'erano i seminari residenziali di Kandersteg, in Svizzera, dove giovani studiosi provenienti da diversi Paesi si incontravano per discutere di temi di interesse comune. Dopo le sessioni di lavoro, cui partecipava con intelligente discrezione, facendo in modo che la discussione procedesse fluida, anche quando si affrontavano argomenti "sensibili" (poco dopo l'11 settembre c'era solo l'imbarazzo della scelta), Tony proponeva spesso una passeggiata nei dintorni, per continuare la conversazione.
  Sfogliando Quando i fatti (ci) cambiano, ritrovo molti dei temi che ci appassionavano nel corso di quelle passeggiate: il 1989 e le sue conseguenze, la Guerra Fredda, le diverse culture politiche europee, l'ascesa del neoliberalismo e la crisi della socialdemocrazia. Grandi intellettuali come Leszek Kolakowski, François Furet, e Isaiah Berlin. Un autore amato da entrambi, col quale credo Tony avvertisse una speciale affinità, per via di un percorso simile: ebrei europei le cui famiglie erano state private di una patria dal Nazismo e dalla guerra, che avevano trovato rifugio in un'Inghilterra che, prima ancora che un Paese, era un luogo dello spirito. Quel Paese sospeso tra un passato di grande potenza e un presente di declino, che affiora in diversi saggi di questa collezione, e che tuttavia riscattava il proprio passato coloniale con la sua cultura liberale.
  Tra gli altri, credo siano due i saggi da segnalare in questa raccolta per la loro attualità. In primo luogo «Europa: la grande illusione», una disamina lucidissima e urticante dei limiti del progetto europeo, scritta da un intellettuale che, come lui stesso diceva, non era affatto un euroscettico, ma un europessimista. Cioè una persona che cercava di andare oltre la retorica per portare alla luce i conflitti di interesse, le miopie, gli errori che mettevano in pericolo il sogno europeista. Pagine che rilette oggi, dopo la crisi del 2008, mentre i migranti vengono respinti al confine greco, e in un'Italia in lockdown per via del coronavirus, sono sinistramente preveggenti.
  Seguendo l'esempio dei grandi intellettuali del Novecento alla cui lezione si era formato, Tony Judt era convinto che il compito dell'intellettuale non sia di fare l'apologeta di una politica, anche se il progetto di cui si parla è animato dalle migliori intenzioni. Chi studia e ragiona deve mantenere la capacità di mettere in luce gli errori della politica, per aiutarla a correggerli. Per questo non si può avere una democrazia sana senza intellettuali indipendenti e senza una sfera pubblica vivace.
  L'altro saggio che consiglio ai lettori è «Che cosa è vivo e cosa è morto nella socialdemocrazia?». Anche in questo caso si tratta di un testo profetico. Scritto nel 2009, a pochi mesi dal crollo di Lehman Brothers, denunciava con efficacia il vuoto lasciato, dopo il 1989, dall'eclissi del socialismo nella politica occidentale. Un vuoto che andava colmato in qualche modo, ammoniva Judt, perché solo così saremmo riusciti a preservare il compromesso virtuoso che ci ha regalato decenni di coesistenza pacifica tra Capitalismo e democrazia. Quando Tony scrisse quel saggio, Bernie Sanders era un politico democratico quasi sconosciuto fuori dal Vermont, e Alexandria Ocasio-Cortez una ventenne alle prese con la scelta di un futuro. L'ammonimento con cui si chiude quel saggio sulla socialdemocrazia fa riflettere: «Perché abbiamo avuto tanta fretta di indebolire le dighe laboriosamente innalzate dai nostri predecessori? Siamo così sicuri di non andare incontro a inondazioni?». Come molti altri, in questi anni mi sono chiesto cosa avrebbe detto Tony della Brexit, di Trump, dei muri (lui che era uno che intellettualmente non conosceva confini, e sapeva costruire ponti tra culture).
  Leggere questo libro non può colmare il vuoto che Tony Judt ha lasciato, ma ci aiuta a guardare avanti, come lui ha sempre fatto, perché «se si vuole davvero cambiare il mondo, bisogna essere pronti a lottare a lungo».

(Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2020)



La vita vostra è nascosta con Cristo in Dio

Se dunque voi siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di sopra dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Abbiate l'animo alle cose di sopra, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste, e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria.

Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Colossesi, cap. 3

 


Gli effetti del coronavirus sulla formazione del governo israeliano

di Futura D'Aprile

Il 2 marzo i cittadini israeliani si sono recati per la terza volta in un anno alle urne per eleggere i rappresentanti della Knesset, ma il risultato è stato lo stesso di aprile e settembre: nessun partito è riuscito ad ottenere la maggioranza necessaria, dando vita all'ennesimo stallo politico. Mentre nelle precedenti tornate elettorali i leader del Likud e di Blu&Bianco avevano vagliato l'idea di formare insieme il nuovo Governo, alla vigilia delle ultime elezioni il generale Benny Gantz aveva escluso questa possibilità aprendo al centro-sinistra e ai partiti arabi. Netanyahu aveva invece cercato l'appoggio della destra e dei partiti legati ai coloni, forte anche del Piano di pace americano svelato a pochi giorni dall'apertura delle urne. Nessuno dei due poteva sapere che i loro calcoli sarebbero stati sconvolti dall'arrivo del coronavirus.

 Un governo d'emergenza
  Ad oggi, sono 109 i soggetti risultati positivi al Covid-19 in Israele ma il numero è destinato ad aumentare nonostante le misure già prese per contrastare la diffusione del virus. Per far fronte a questa situazione, il premier uscente ha chiesto al leader di Blu&Bianco di mettere da parte le divergenze politiche e formare un Governo d'emergenza che tuteli la salute dei cittadini. L'esecutivo avrebbe una durata di circa sei mesi, trascorsi i quali si tornerebbe al punto di partenza: i partiti riprenderanno le trattative e creeranno un nuovo Governo sulla base dei risultati delle elezioni di marzo e delle alleanze che riusciranno a intessere. Gantz, pur avendo escluso categoricamente ogni alleanza con Netanyahu, ha dovuto cambiare idea e aprire alla proposta del leader del Likud. Uno dei primi problemi emersi circa la formazione del nuovo Governo riguarda però la sua composizione. Trattandosi di un esecutivo d'emergenza, Gantz ha chiesto che tutti i partiti che hanno ottenuto dei seggi nelle elezioni di marzo possano farne parte, ma Netanyahu ha risposto con un deciso No. "I sostenitori del terrorismo non faranno parte del Governo, né in tempi normali né in quelli di crisi". Il riferimento è alla Lista araba unita, con cui il leader di Blu&Bianco era invece in trattativa per la creazione del prossimo esecutivo. Il piano di Gantz era governare con l'appoggio di Yisrael Beytenu di Liberman, la coalizione Labor-Gesher-Meretz e la Joint List raggiungendo così 62 seggi, ma il generale era ancora ben lontano dal raggiungere gli obiettivi prefissatisi. A minare ulteriormente i piani di Gantz è stata poi la diffusione del coronavirus e la relativa proposta di Netanyahu di formare un esecutivo d'emergenza. La richiesta del premier uscente è stata supportata anche dal ministro della Difesa Naftali Bennett, dal leader di Shas Arye Deri, da Avigdor Liberman e dal capo di Stato Rivlin, pronto a fare da mediatore tra Netanyahu e Gantz. Il rischio infatti è che lo stallo politico che ha marcato le precedenti elezioni si ripresenti nuovamente, minando le capacità di Israele di rispondere all'emergenza coronavirus e costringendo i cittadini a recarsi alle urne per la quarta volta. "Sarà un Governo d'emergenza limitato nel tempo, e combatteremo insieme per salvare migliaia di vite", è stato il messaggio lanciato da Netanyahu a Gantz. Per ora non resta che attendere il risultato delle trattative e vedere se il coronavirus sarà sufficiente ad indurre i due principali partiti a mettere da parte le loro divergenze, almeno temporaneamente.

(Inside Over, 14 marzo 2020)


Covid-19: arma biologica ebraica. Cresce la teoria della cospirazione

La cosa veramente sconcertante è che con la complicità dei social media milioni di persone credono alle più disparate teorie della cospirazione. L'importante è che ci sia l'associazione con la parola "ebreo".

di Maurizia De Groot Vos

 
La foto che ha scatenato la teoria della cospirazione. Fabio Wajngarten (a destra) con il Presidente Trump
Cresce in maniera dirompente la teoria della cospirazione sul COVID-19 (o Coronavirus) secondo la quale sarebbe un'arma biologica inventata dagli ebrei per svariati motivi a seconda da chi diffonde la bufala.
Erdogan manda avanti i suoi fedelissimi per sostenere alla televisione turca che il COVID-19 è un'arma biologica progettata da ebrei e sionisti per riprogettare il mondo, conquistare paesi e sterilizzare la popolazione mondiale
Sul web, nella totale indifferenza di Facebook e Twitter, la teoria diffusa dai suprematisti secondo la quale «gli ebrei stanno usando questo virus come arma di guadagno traendo vantaggio dal crollo dei mercati attraverso l'insider trading», è sempre più diffusa.
A segnalarlo è la Anti-Defamation League (ADL) che in questi giorni sta monitorando tutti i maggiori social network e che denuncia come nonostante le segnalazioni, specialmente a Facebook e Twitter, i social non rimuovono i contenuti segnalati e che anzi sono messi sempre più in evidenza.
Secondo Alex Friedfeld della ADL, la situazione è molto seria perché c'è addirittura chi sponsorizza questi contenuti che quindi vengono messi in evidenza sui maggiori social network ed essendo sponsorizzati non vengono nemmeno rimossi.
Un'altra teoria molto diffusa è quella del cosiddetto "deep state", sempre a guida ebraico-sionista, che avrebbe studiato il tutto per abbattere il Presidente Trump.
Secondo diversi gruppi antisemiti la prova di questa "cospirazione contro Trump" starebbe nel fatto che il segretario alle comunicazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, Fabio Wajngarten (ebreo), fotografato in piedi di fianco al Presidente Trump, si sarebbe contagiato apposta proprio per contagiare a sua volta il Presidente Trump.
Purtroppo non è la prima volta che gli ebrei vengono accusati di essere "untori". Sin dai tempi della peste nera quando decine di comunità ebraiche vennero massacrate perché accusate di diffondere la peste (1348-1351), ogni occasione è stata buona per lanciare accuse contro il popolo ebraico, accuse mai coadiuvate da alcuna prova. Basta la parola "ebreo" e tutto diventa improvvisamente e tragicamente vero. Le prove non le chiede mai nessuno.

(Rights Reporters, 14 marzo 2020)


Israele e il Coronavirus: saliti a 109 i casi positivi

di Roberto Zadik

Anche Israele, in questi giorni complicati, lotta contro il dilagare del Coronavirus: finora nel Paese sono 109 le persone contagiate e nessun morto a causa di questa misteriosa e imprevedibile malattia cinese che ormai da un mese sta sconvolgendo l'Italia e il mondo. Questi i dati diramati dal sito Times of Israel e dal Ministero della Salute che giovedì 12 marzo ha aggiornato il numero dei contagiati.
   Come in Italia, in questi giorni, il Governo ha annunciato la chiusura di università e scuole e fra i pazienti positivi al "Corona" il Ministero ha descritto con previsione alcuni casi. Un bambino di sei mesi, un ragazzo di 10 anni, tornato da poco da una vacanza in Spagna con suo padre, una 11enne e due turisti risultati "infetti" dopo aver visitato vari luoghi, hotel, ristoranti e discoteche da Gerusalemme a Tel Aviv, nella settimana dal 3 al 10 marzo.
   Cosa succederà in questi mesi? Questa la grande domanda globale, ma come ha rivelato il Times citando Ynet le autorità israeliane stanno prendendo serie contromisure sanitarie. Il Governo sta pensando allo sbarramento totale di scuole e università aumentando i test, dalle 600 persone giornaliere si cerca di estendere gli esami a più di duemila individui. In tema di provvedimenti circa mille studenti e insegnanti, prosegue il sito, sono stati rispediti alle loro dimore, da diverse scuole, dalla scuola femminile ortodossa nell'insediamento di Modiin Illit nell'area del West Bank dove una sessantina di studenti sono stati messi in quarantena alla Scuola Battista Cristiana di Nazareth.
   Le autorità stanno dunque lavorando assiduamente in questa settimana per impedire la propagazione del contagio e il peggioramento della situazione. A questo proposito fra i casi di Coronavirus in Israele, il Ministro della Salute e il Sindaco di Efrat Oded Revivi ha annunciato che un'altra persona, il Rabbino Dov Singer, capo della yeshiva Makor Haim è risultato infetto a causa dell'epidemia. Oltre a quest'ultimo, un 60enne impiegato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è finito ricoverato d'urgenza all'Ospedale Ichilov e attualmente è in condizioni molto serie, attaccato a un respiratore. Dettaglio importante è che a quanto pare egli non sarebbe uscito dal Paese e non avrebbe avuto nessun contatto con nessuna persona malata e dopo aver avuto sintomi influenzali è stato rilasciato all'indomani dall'ospedale senza nessun test per sapere se risultasse affetto dal Coronavirus.
   Grande emergenza nello Stato ebraico e ferme decisioni dal Primo Ministro Netanyahu che ha ricordato come si tratti "di un evento globale senza precedenti. Il numero potenziale dei morti è davvero elevato e dobbiamo agire subito per prevenirlo". Nel suo discorso dal suo ufficio a Gerusalemme egli ha paragonato questo virus all'influenza spagnola del 1918 che contagiò milioni di persone, uccidendo a quanto pare, secondo il Times of Israel il 27 percento della popolazione mondiale a quell'epoca. Contenere la diffusione del virus e rallentarla in modo da evitare l'afflusso massivo e incontrollabile di pazienti e il sovraccarico del personale sanitario, sembra essere la priorità.
   Banditi tutti i raduni di massa, inclusi preghiere e matrimoni e ribadite, da parte di Rafi Peretz, Ministro dell'Educazione, tutte le misure di prevenzione, mantenere distanze, lavarsi le mani, evitare qualsiasi contatto. Preoccupato per la situazione corrente Netanyahu ha invitato il suo antagonista Gantz a formare un governo d'emergenza anche se "per un periodo limitato combattendo assieme" ha dichiarato "per salvare la vita dei nostri cittadini".

(Bet Magazine Mosaico, 13 marzo 2020)


Coronavirus, nel laboratorio israeliano che lavora al vaccino

Parlano i ricercatori del team che sta studiando il modo con cui fermare il virus: “Ci servono ancora poche settimane per i test sull'uomo".

Si lavora notte e giorno per fronteggiare l'emergenza sanitaria causata dalla diffusione del coronavirus. Intanto, mentre in Italia si combatte il virus nei reparti di malattie infettive e nelle terapie intensive, in Israele si lavora alla creazione di un vaccino. Le telecamere di "Quarto Grado" sono andate nei laboratori di Ness Ziona, vicino a Tel Aviv, dove si stanno compiendo importanti passi in avanti nella comprensione del virus.
"Abbiamo scoperto quasi per caso che il coronavirus ha una struttura molto simile a quella di un altro virus che stavamo studiando - spiegano i ricercatori - per questo possiamo dire di essere già a un buon punto. Ora abbiamo bisogno ancora di un paio di settimane per iniziare a testarlo sull'uomo e i un paio di mesi potrebbe essere già pronto".

(TGCOM24, 13 marzo 2020)


"Noi separati da un nuovo muro"

di Fiamma Nirenstein

Quando ero piccola il corpo reale non era sostituibile col cyberspace. Adesso il computer, lo smartphone, cercano di compiere la magia: allora, quando mio padre era trattenuto nella Polonia comunista e il confine era invalicabile, noi, mamma e figlie, non potevamo vistarlo né lui poteva raggiungerci; solo un telefono nero su un tavolino a Firenze era tutto quello che travalicava la separazione che durò ben quattro anni. Quando ci ritrovammo alla stazione di Firenze e lui arrivò trasfigurato, magro, portando in regalo delle corone di funghi secchi e delle bambole di legno, niente restò uguale. La vita che era enormemente cambiata con la sua lontananza cambiò alle radici con la sua vicinanza. Fu illuminata dalla libertà dell'uomo di andare, di muoversi, di scegliere il luogo in cui essere, in compagnia di chi vuole. La dichiarazione Universale dei Diritti dell'UOMO ne parla all'articolo 13 , "ognuno ha il diritto di lasciare qualsiasi Paese e di ritornarci".
   Oggi la guerra contro il coronavirus ci ha portato a spogliarci di questo diritto primario, io quaggiù in Medio Oriente, a Gerusalemme con parte della mia famiglia, e un'altra parte è lassù in Italia; noi, con disposizioni dure e importanti, le scuole chiuse, le riunioni limitate nel numero, migliaia di segregati rientrati dall'estero, ma con un numero relativamente basso di contagiati e nessun morto, grazie alla tempestività delle misure; e di là, i miei cari e i miei amici nelle loro stanze, in segregazione, col numero dei contagiati e anche dei morti che fa lampeggiare la parola "pericolo" in rosso. Fra noi, gli aeroporti vuoti, trasformati in monumenti marmorei all'era che non è con noi. Non posso più andare arrivare in tre ore nei paesaggi e nel linguaggio della mia vita, fra i miei affetti. Seguo i dibattiti in Italiano, ascolto i miei amici giornalisti cercare di spremere saggezza e idee su una situazione impraticabile, sudo con loro, vedo in tv Nicola Porro malato e mi spavento, chiamo e richiamo su WhatsApp e su Skype le persone della mia vita, e certo, sono fortunata a travalicare il confine su internet e non col telefono nero con cui scambiavamo due dispendiose parole di amore col babbo prigioniero. Ogni minuto, il telefonino cinguetta che è arrivata una barzelletta, una battuta in italiano. Insieme, oltre il Mediterraneo. Ma il ritiro dallo spazio fisico verso lo spazio virtuale acuisce la nostalgia, ogni chilometro pesa senza la libertà di percorrerlo. Quando ho scoperto la caduta del Muro di Berlino vidi i bambini entrare in massa nei grandi magazzini a Ovest; arrivarono di corsa e restarono ipnotizzati, fermi, di fronte ai cioccolatini e ai giocattoli che vedevano per la prima volta. Quei pochi isolati di libertà inauguravano un mondo emotivo e conoscivo. Muoversi, come sapevano bene i "refusenik" in lotta da decenni per lasciare il mondo comunista, è la libertà stessa. Ci vuole quel genio di Tocqueville: "La libertà trae i cittadini dall'isolamento… Li scalda e li unisce ogni giorno con la necessità di capirsi, di persuadersi, e di favorirsi scambievolmente". Qui e là stiamo combattendo una battaglia indispensabile e anche grande, e questo scavalca il mare.

(il Giornale, 14 marzo 2020)


Gli israeliani le fanno meglio (le fiction)

Abitudine al conflitto e pochi soldi: così le produzioni vengono adattate in tutto il mondo

di Edoardo Balcone

 
Se non hai mai guardato una serie tv israeliana, molto probabilmente hai guardato una serie tratta da un'altra serie israeliana. Il caso più famoso è quello di Homeland, uno dei titoli più amati degli ultimi dieci anni (l'ottava stagione, che sarà anche quella conclusiva, è in onda su Fox). La serie comincia con il ritorno negli Stati Uniti del marine Nicholas Brody, scomparso nella guerra in Iraq e liberato dopo otto anni di prigionia durante i quali si è convertito all'Islam. Non è un format originale: Homeland infatti è un adattamento dell'israeliana Hatufim (Prisoners of War), che inizia con il ritorno in patria di tre soldati israeliani rimasti prigionieri per 17 anni.
  Nell'ultimo decennio Israele, che fino al 1993 aveva un solo canale televisivo e che oggi ha una ventina di scuole di cinema e tv, si è trasformato in un "granaio delle idee" per gli autori. Il cambiamento è cominciato con BeTipul, la prima serie esportata in tutto il mondo. Trasmessa dal 2005, seguiva le sedute dello psicoterapeuta Reuven Dagan. Hbo ha acquistato i diritti e nel 2008 è uscita la versione americana, In Treatment, poi altri Paesi hanno seguito a ruota (nella versione italiana lo psicologo è Sergio Castellitto ). BeTipul ha aperto la strada alle altre. La sitcom Ramzor negli Usa è diventata Traffic Light; Yellow Peppers, su un bambino autistico, è stata adattata in Gran Bretagna e in Grecia; Hostages della Cbs è tratta da un'omonima serie israeliana; Your Honor, con Bryan Cranston, è ispirata a Kvodo. Uno dei casi più recenti è quello di Euphoria, il teen drama di Sam Levinson che ha fatto molto discutere per via delle scene di sesso e violenza. È l'adattamento di una serie creata da Ron Leshem e trasmessa in Israele dal 2012.
  Ma cos'hanno di tanto speciale le serie tv israeliane? "Vivere qui è come stare in conflitto ogni giorno: facciamo esperienza del conflitto sin dalla nascita e il conflitto è il punto di partenza di ogni storia" ha spiegato Leora Kamenetzky, una delle menti dietro a False Flag e Fauda. Un altro aspetto interessante è quello delle disponibilità economica. "Non abbiamo soldi, quindi dobbiamo andare davvero a fondo dei personaggi" ha detto Keren Margalit, creatice e regista di Yellow Peppers. Per Gideon Raff, showrunner di Hatufim, "i budget sono scarsi e dobbiamo per forza essere unici nel modo in cui raccontiamo le storie. I nostri show sono estremamente israeliani, locali, personali: ma tutti ci si possono ritrovare". "Quello che succede in Israele è sempre eccezionale ma le nostre storie sono universali" ha confermato il creatore di BeTipul Hagai Levi.
  Sarebbe però un errore pensare che i prodotti israeliani possano funzionare all'estero soltanto dopo un adattamento. In una classifica del New York Times, che ha messo in fila le migliori 30 serie non americane dello scorso decennio, compaiono ben quattro titoli: Hatufìm occupa la prima posizione, Fauda l'ottava, mentre Our Boys e Shitsel si sono meritate una menzione speciale. Fra le serie italiane, giusto per fare un confronto, il Nyt ha scelto soltanto Gomorra. La produzione israeliana si sta facendo più varia anche a livello tematico. La guerra e il terrorismo continuano a essere gli argomenti più trattati: False Flag (in Italia su Fox) racconta di cinque persone normali accusate da un giorno all'altro di far parte di un commando; Fauda (Netflix) segue un gruppo di agenti sotto copertura a caccia di terroristi palestinesi; Quando gli eroi volano (Netflix) si concentra su quattro veterani della guerra del Libano che si ritrovano 11 anni dopo. Ma nel frattempo si è sviluppato anche il filone ortodosso. E allora ecco Srugim, la versione ortodossa di Friends, e la celebratissima Shitse1 (Netflix), in cui l'ultimo genito di una famiglia molto religiosa si innamora di una giovane vedova.
  E poi ci sono le nuove coproduzioni internazionali. Come Our Boys, di Hagai Levi, sul rapimento e l'uccisione del 16enne palestinese Mohammed Abu Khdeir. O The Spy (Netflix), di Gideon Raffe con Sacha Baron Cohen, sulla vita di un agente del Mossad negli anni Sessanta. La miniera delle storie in Israele sembra davvero inesauribile.

(il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2020)


Benny Gantz apre a un governo di unità nazionale con Netanyahu

L'emergenza coronavirus spinge Israele verso un governo di unità nazionale. Non c'erano riuscite tre elezioni di seguito, trattative infinite, le pressioni accorate del capo dello Stato Reuven Rivlin. Ma di fronte a un' epidemia che continua ad accelerare, nonostante misure sempre più restrittive messe in campo dal governo, il leader dell'opposizione Benny Gantz è adesso pronto a entrare in un esecutivo di salvezza nazionale assieme al rivale, il premier Benjamin Netanyahu. L'ipotesi è divenuta molto concreta ieri pomeriggio, quando l'ex generale ha riunito lo stato maggiore del suo partito, Kahol Lavan, arrivato secondo al voto del 2 marzo, con 33 seggi contro i 36 del Likud, per prendere una decisione collegiale.
   Il momento è critico. Ieri il numero di contagi è salito a 109, il balzo maggiore in due settimane. Due pazienti sono in gravi condizioni, anche se per ora non si registrano decessi. Ma è la progressione a fare paura, con quasi 40 nuovi contagi in poco più di un giorno. Netanyahu ha chiuso mano a mano sempre più le frontiere. Gli stranieri che vogliono fare ingresso nel Paese devono adesso dimostrare, prima di mettersi in viaggio, di aver un posto dove stare in quarantena per 14 giorni. Una misura che ha quasi azzerato gli arrivi, mentre 170 mila stranieri sono usciti dal Paese nelle ultime due settimane.
   E' un colpo tremendo al turismo ma l'alternativa è un'epidemia incontrollabile. Netanyahu si appellato all'opposizione ha chiesto un "governo di emergenza, senza esitazioni" per un periodo di tempo "limitato". Tutti assieme, ha spiegato, "possiamo salvare migliaia di vite dei nostri concittadini". Il presidente Rivlin ha subito appoggiato l'iniziativa ed esortato a "fare tutto il possibile per concentrarci su questo compito" e cioè battere il Covid-19.
   I dirigenti di Kahol Lavan hanno convenuto che di fronte a una minaccia del genere "le piccole manovre politiche" rischiano di bruciare tutto il credito politico di Gantz, che pure era a un passo dal mettere Netanyahu all'angolo e costringerlo a rinunciare alla carica di primo ministro. Il premier ha ottenuto con la sua coalizione soltanto 58 seggi su 120, mentre l'ex alleato e adesso rivale acerrimo Lieberman si era accordato con lo stesso Gantz per impedirgli di ottenere un nuovo incarico, in quanto rinviato a giudizio per corruzione. Martedì ci sarà la prima udienza, ma l'emergenza coronavirus potrebbe aver già stravolto tutto per quella data.

(La Stampa, 13 marzo 2020)


*


Netanyahu propone a Gantz un governo contro il coronavirus

di Michele Giorgio

Israele. Il premier ha avanzato la sua proposta di fronte al diffondersi del contagio. Per il capo di Blu Bianco sarà difficile sottrarsi alla richiesta ora che è fallito il suo tentativo di formare un esecutivo di minoranza con l'appoggio dei partiti arabi
   
Tramontata la formazione di un governo di minoranza con l'appoggio esterno dalla Lista unita araba (Lua), il leader del partito centrista Blu Bianco, Benny Gantz, probabilmente dovrà accettare ciò che prima del voto del 2 marzo aveva categoricamente escluso: un governo assieme al suo rivale, il premier Benyamin Netanyahu. Il primo ministro e leader del Likud (destra) ieri sera ha chiesto pubblicamente a Gantz di dare vita insieme a un governo unitario per affrontare l'emergenza-coronavirus e i suoi riflessi sulla salute e l'economia. I numeri del contagio in Israele restano relativamente bassi (109 fino a ieri sera, tra i palestinesi sono 31) ma si prevede una crescita significativa di casi positivi nei prossimi giorni.
A spingere Gantz verso l'unità con il nemico Netanyahu è anche il capo dello stato Rivlin. Il presidente è convinto che solo un'alleanza di governo tra il Likud (destra) e Blu Bianco potrà evitare nuove elezioni politiche: sarebbero le quarte in Israele dal 9 aprile 2019. Con il problema coronavirus, i guai con la giustizia di Netanyahu passano inevitabilmente in secondo piano ed inoltre non sono più così immediati. Il premier non andrà sotto processo il 17 marzo, per rispondere di accuse di corruzione, frode e abuso di potere. L'emergenza Covid-19 presto porterà alla sospensione, in gran parte, anche delle attività giudiziarie, come è avvenuto per le scuole e le università.
   Gantz ha provato a fare lo sgambetto a Netanyahu. Il leader della destra ha vinto le elezioni ma il Likud e i partiti alleati mettono insieme 58 deputati, tre in meno della maggioranza minima di 61 seggi su 120 della Knesset. Perciò Gantz ha avanzato l'idea di formare un esecutivo di minoranza con i 47 deputati dei partiti sionisti di centrosinistra, appoggiato dall'esterno dai 15 eletti nella Lista unita araba, l'unica forza di opposizione che il 2 marzo ha fatto un passo in avanti.
   Ottenuto l'appoggio del leader nazionalista laico Avigdor Lieberman, il capo di Blu Bianco per la prima volta ha incontrato alla luce del sole e non dietro le quinte i rappresentanti dei quattro partiti arabi uniti affermando di voler formare un esecutivo «che serva tutti i cittadini israeliani, arabi ed ebrei». La Lista non ha promesso nulla. Ma il fatto che all'incontro siano andati i delegati di tutti e quattro i partiti della minoranza palestinese (21% della popolazione) ha segnalato la volontà di dialogo con Gantz che pure gli arabo israeliani contestano per le sue dichiarazioni e azioni anti-palestinesi. «Lo abbiamo incontrato in nome della fine dell'era Netanyahu e per ribadire le nostre richieste - ha spiegato al manifesto il deputato palestinese Sami Abu Shihade - vogliamo l'annullamento della legge che proclama Israele-Stato degli ebrei e non di tutti i suoi cittadini, la fine delle demolizioni di case nei centri arabi e una politica profondamente diversa nei confronti palestinesi sotto occupazione».
   Non è noto cosa abbia promesso di fare Gantz. In ogni caso a far naufragare il suo tentativo è stata prima l'instabilità in Blu Bianco dove due deputati hanno bloccato l'iniziativa del loro leader, e poi il secco no ad un esecutivo che coinvolga i partiti arabi, espresso dalla deputata Orly Levy Abekassis, eletta grazie ai voti del centrosinistra (Laburisti e Meretz).

(il manifesto, 13 marzo 2020)


*


Fra Iran, Hamas, Hezbollah e coronavirus

Un appello a Gantz e Netanyahu: Israele non può permettersi di perdere altro tempo in battibecchi politici

Ci sono momenti nella vita in cui i sentimenti di insofferenza vengono superati da una vera preoccupazione. Dopo tre lunghe ed estenuanti campagne elettorali piene di pericolosa retorica divisiva, quel momento è ormai alle porte.
Insofferenze a parte, adesso c'è una vera preoccupazione per noi cittadini, il nostro paese, il nostro discorso politico, il nostro sistema politico e la mancanza di fiducia in esso. Negli ultimi anni il mondo della politica israeliana si è divaricato. Pertanto non possiamo stupirci per il quadro che è uscito dalle recenti elezioni. Nessuno dei principali partiti parla di una coalizione di unità nazionale. Eppure le loro posizioni sono molto simili su tanti importanti temi politici. La decisione di varare un governo di unità nazionale ci permetterebbe di affrontare finalmente le vere questioni con cui il paese deve fare i conti....

(israele.net, 13 marzo 2020)


Attacco aereo americano in Iraq come risposta all'attentato di mercoledì

Nella scorsa notte in Iraq aerei da caccia americani hanno attaccato e distrutto almeno cinque basi e depositi di armi appartenenti alla milizia sciita Kata'ib Hezbollah, armata e finanziata dall'Iran, in risposta all'attentato di mercoledì contro una base americana in Iraq nel quel sono morti due americani, un inglese e sono rimaste ferite almeno 12 persone.
Ad annunciarlo è stato un portavoce del Pentagono il quale ha affermato che gli attacchi sono stati «difensivi, proporzionati e in risposta diretta alla minaccia rappresentata dai gruppi della milizia sciita appoggiati dall'Iran che continuano ad attaccare le basi che ospitano forze della coalizione».

 L'antefatto
  Mercoledì scorso un gruppo terrorista, poi identificato con Kata'ib Hezbollah, ha attaccato con 18 missili Katyusha la base americana di Camp Taji, a nord di Baghdad.
Nell'attacco sono rimasti uccisi un militare americano, uno britannico e un contractor statunitense. Almeno 12 i feriti, alcuni gravissimi.
Le indagini per risalire ai responsabili del vile attentato, subito iniziate sotto la supervisione americana, hanno portato a ritenere responsabile dell'attentato la milizia sciita Kata'ib Hezbollah.
Quello di mercoledì è stato l'ultimo di una lunga serie di attentati missilistici che nelle ultime settimane hanno colpito obiettivi americani e della coalizione in Iraq, ma è stato il primo a provocare la morte di due militari della coalizione e di un contractor statunitense.
La tensioni tra le forze USA in Iraq e gruppi sciiti armati e finanziati da Teheran è altissima da quando gli americani hanno ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani, che coordinava in Iraq i vari gruppi terroristici legati all'Iran.

(Rights Reporters, 13 marzo 2020)


Due amici ebrei lontani e inseparabili

Scholem emigrato in Palestina. Benjamin rimasto nell'Europa divorata dal nazismo. Il carteggio finalmente in italiano.

di Barbara Chitussi

Nel 1977 il grande studioso della mistica ebraica Gershom Scholem entrava in possesso delle lettere che tra il '32 e il '40 aveva inviato all'amico e filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, morto suicida sul confine tra la Francia e la Spagna durante una fuga rocambolesca e disperata dai nazisti. Se nel 1980 Scholem poté dare alle stampe il carteggio (quasi completo) che testimonia di uno dei più straordinari sodalizi intellettuali del Novecento, fu solo a causa di circostanze del tutto imprevedibili. l manoscritti e la corrispondenza che Benjamin aveva abbandonato a Berlino e a Parigi erano stati infatti sequestrati dalla Gestapo. che avrebbe dovuto distruggerli. Grazie a uno scambio casuale, però, seguito a un atto di sabotaggio, parte di questi materiali si era miracolosamente salvata ed era giunta in Russia per essere poi trasferita negli archivi di Potsdam e infine di Berlino. Il destino concedeva dunque una sopravvivenza almeno alla scrittura.
   Le strade dei due uomini, che si erano unite negli anni dell'università tra letture comuni e intense discussioni, si erano divise nel periodo in cui dilagava l'antisemitismo: Scholem si era trasferito a Gerusalemme, aveva ottenuto una cattedra e si dedicava completamente alle sue ricerche. Ma si sentiva legato alla causa dell'ebraismo «fino alla rovina e alla disperazione»; avrebbe potuto Benjamin trovare salvezza in Palestina, proseguire lì liberamente i suoi lavori così europei, prendere parte attiva alla vita di quel paese se il suo legame con esso non si fosse dimostrato altrettanto saldo? Mentre nelle lettere serpeggia l'eventualità sempre rinviata del trasferimento, l'esule Benjamin si sposta in Italia, poi a Ibiza, va in Danimarca da Brecht e ancora nell'amata Parigi, perseguitato dalla miseria, costretto a scrivere su commissione e riuscendo, malgrado tutto, a dar luce ai capolavori - come il saggio sul Narratore, il grande libro incompiuto sui Passages parigini o le Tesi sul concetto di storia - che l'hanno reso uno dei filosofi più letti e influenti della contemporaneità.
   Il carteggio, che esce per la prima volta in versione integrale grazie alla cura attenta e con la ricca postfazione di Saverio Campanini (Archivio e camera oscura, Adelphi) permette di seguire quelle strade lontane e inseparabili, dove le luminose riflessioni su Kafka o su Baudelaire si intrecciano alle cupe vicende della storia. È una vicinanza che lascia stupefatti.

(la Repubblica - il Venerdì, 13 marzo 2020)


Cancellato il 75° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Flossenburg

di Miriam Spizzichino

"Non è stata una decisione facile per me, né per nessuno di noi qui al Memoriale del campo di concentramento di Flossenbürg, tuttavia abbiamo un triste annuncio da fare: alla luce degli eventi in corso in relazione alla diffusione del coronavirus, dobbiamo annullare tutte le cerimonie commemorative e il programma relativo al 75° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg tra il 23 aprile e il 26 aprile. Tutti gli eventi sono ora cancellati", a fare questo annuncio è il direttore Jörg Skriebeleit.
   Questa difficile decisione è stata fatta in stretto coordinamento con il "Bavarian Memorial Foundation", fondazione responsabile dei luoghi della memoria a Dachau e Flossenbürg. Una scelta compiuta per tutelare la salute di tutti i visitatori ed evitare assembramenti che potrebbero portare a contagi.
   Attualmente, però, si sta valutando di far ricevere a questa data storica importante un giusto riconoscimento politico e mediatico. Il direttore conclude con un invito per il prossimo anniversario di liberazione, il 76esimo, che si terrà nell'aprile 2021.

(Shalom, 13 marzo 2020)


Israele, soldati IDF messi in quarantena per il coronavirus

Circa 1.262 soldati sono attualmente in quarantena domestica per 14 giorni in quanto 'sospettati' di aver contratto COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus, secondo quanto riferito dall'Unità portavoce dell'IDF.
Secondo il rapporto, la maggior parte dei soldati IDF attualmente in quarantena sono tornati dalle vacanze all'estero, mentre alcuni erano nel paese ed erano entrati in contatto con corrieri confermati del virus.
Mentre il virus si diffonde, l'IDF ha vietato a tutte le truppe di lasciare il paese. Anche tutti gli esercizi e le esercitazioni militari che coinvolgono eserciti stranieri sono stati annullati .
Il numero di persone in quarantena, secondo Channel 12, ha raggiunto almeno 80.000 persone, poiché il Ministero della Salute ha inserito nella lista di controllo altri stati europei, ordinando a tutti gli israeliani che tornano da tali stati di rimanere in quarantena per 14 giorni all'arrivo.

(Reporters.Press, 12 marzo 2020)


*


Coronavirus: Israele verso la chiusura di tutte le scuole

E' atteso fra poche ore l'annuncio del premier israeliano Benjiamin Netanyahu con il quale il governo chiudera' tutte le scuole di ogni ordine e grado fino a dopo Pasqua ebraica. Lo ha annunciato la radio militare e Canale 13. Da stamane le voci su una possibile chiusura si sono rincorse sui media e nelle chat delle scuole. Il sindacato israeliano degli insegnanti ha inviato una lettera con la richiesta di chiusura al premier Netanyahu, proponendo insegnamenti via internet. Per gli insegnanti, dal momento che le scuole e gli asili sono degli incubatori di malattie, "rappresentano un serio ed immediato pericolo per gli studenti, gli insegnanti e le famiglie".
   La paura del contagio e, soprattutto, della diffusione del coronavirus nel paese, ha obbligato il ministro della salute a convocare una riunione in tarda mattinata per discutere dell'argomento. La proposta di chiusura e' stata gia' presentata sul tavolo del primo ministro Netanyahu che sarebbe d'accordo a chiudere tutte le scuole fino a dopo pasqua ebraica, che finisce il 15 aprile. In vista del rientro dalla festa di Purim, oggi e domani, molte scuole si sono gia' attrezzate aumentando la dotazione di gel disinfettante. Il premier ieri sera aveva gia' emanato un decreto con il quale vieta qualsiasi incontro o riunione nel quale ci siano piu' di 100 persone, comprese feste e riti religiosi. Al momento nel paese ci sono 104 casi di persone infette da coronavirus, con uno in serie condizioni. Fino ad oggi, il paese ha messo in quarantena 41.317 persone, 34.474 delle quali sono attualmente in quarantena, mentre sono stati effettuati tamponi su 5264 persone.

(AGI, 12 marzo 2020)


Israele in aiuto delle comunità ebraiche italiane

L'Agenzia ebraica per Israele e il Keren Hayesod hanno unito le forze per offrire supporto e assistenza alle comunità ebraiche italiane per esprimere solidarietà alle persone colpite. Lo riporta il Jerusalem Post in un articolo.
   Il presidente dell'Agenzia ebraica per Israele, Isaac Herzog e il presidente di Keren Hayesod, Sam Grundwerg (da sinistra nella foto), hanno parlato con i leader di Roma e delle comunità ebraiche di Milano e hanno scritto una lettera di sostegno al presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello.
   "L'agenzia ebraica, insieme al Keren Hayesod, è pronta a supportare la vostra comunità per aiutarvi a superare questi momenti difficili", ha continuato. "Faremo appello alle comunità ebraiche di tutto il mondo, così come alle principali organizzazioni ebraiche, per aiutarvi e fornire supporto, secondo quello che dice il vecchio proverbio: "tutti gli ebrei sono responsabili l'uno dell'altro ".
   Grundwerg, presidente di Keren Hayesod, ha dichiarato: "La connessione tra le comunità ebraiche nel mondo e Israele è a doppio senso. I nostri fratelli nel mondo ebraico hanno lavorato con dedizione per la società israeliana per tutti gli anni, regolarmente e in tempi di emergenza. Ovviamente, durante il periodo difficile che stanno passando gli ebrei d'Italia, saremo al loro fianco".
   Il presidente della Comunità ebraica di Milano Milo Hasbani ha spiegato al quotidiano israeliano le misure prese per mantenere la calma nella comunità. "La nostra scuola e la casa di riposo sono state chiuse per tre settimane. Stiamo organizzando vari canali per aiutare i membri della comunità, specialmente le persone più anziane che sono in quarantena e non possono andare a fare la spesa.Siamo anche partiti con la didattica a distanza per i ragazzi della scuola, investendo in disinfettanti e preparando il team della sicurezza comunitaria per qualsiasi situazione".
   "E' per noi un grande conforto sapere che Israele è con noi, e soprattutto l'Agenzia Ebraica e l'assistenza che essa fornisce", ha concluso Hasbani.

(Bet Magazine Mosaico, 12 marzo 2020)


Coronavirus: cento casi in Israele, anche due bambini

Sono ormai 100 i casi confermati di coronavirus in Israele, dopo che altre persone sono risultate positive ai test per la Covid-19. Lo riferiscono i media locali che rilanciano notizie confermate dalle autorità sanitarie. Secondo il ministero della Sanità, sono almeno 91 le persone ricoverate, due delle quali versano in gravi condizioni, mentre tre sono guarite. Tra le ultime persone che hanno contratto il virus, si legge sul Times of Israel, ci sono almeno due piccoli israeliani, un bambino di 10 e una bambina di 11. Il bambino è tornato di recente da un viaggio in Spagna con il padre. Fra gli ultimi casi, anche quello di due 60enni rientrate il 9 marzo nel Paese da New York via Mosca. In Israele, sottolinea il portale di notizie Ynet, è ricoverata anche una turista americana, che però non è inclusa nel bilancio dei 100 casi dal momento che non si tratta di un cittadino israeliano.

(Adnkronos, 12 marzo 2020)


Michael Walzer - Dietro gli argomenti degli antisionisti i pregiudizi dell'antisemitismo

Sulla rivista "Vita e Pensiero" il pensatore di punta della sinistra Usa contesta le posizioni estreme della cultura liberal. Criticare il governo di Israele non dovrebbe comportare un’opposizione alla sua esistenza. Ci si è opposti alla brutalità dei francesi in Algeria, o di Pechino contro i musulmani nell'Ovest della Cina, ma nessuno chiede l'abolizione dello Stato francese o di quello cinese.

«Antisionismo, una versione dell'antisemitismo» è il titolo del saggio di Michael Walzer che esce oggi sul nuovo numero di Vita e Pensiero, il bimestrale culturale dell'Università Cattolica di Milano. Filosofo della politica americano tra i più autorevoli al mondo, professore emerito a Princeton e condirettore della rivista della sinistra americana Dis.sent, nel suo testo Walzer sottopone a critica la posizione di quanti, a sinistra, hanno sempre appoggiato le aspirazioni dei popoli ad avere un loro Stato-nazione, «i vietnamiti, gli algerini e tutti gli altri». «Ma allora», si domanda, «perché non gli ebrei». La risposta nello stralcio che qui anticipiamo.
   Le risposte più comuni sono le seguenti. In primo luogo, la creazione dello Stato d'Israele ha richiesto lo spostamento di 700 mila palestinesi. Israele è uno Stato di «occupazione coloniale» - come pressappoco tutti gli Stati, se risaliamo sufficientemente lontano nel passato; ma lasciamo da parte questo ragionamento, la storia recente è più istruttiva. Non c'è stato spostamento di arabi palestinesi negli anni Venti e Trenta del Novecento: malgrado la colonizzazione sionista, la popolazione araba è aumentata grazie alla natalità ma anche grazie all'immigrazione, essenzialmente dalla Siria (nel 1922, il primo censimento britannico contava 660.267 arabi; erano 1.068.433 nel 1940). E neppure vi è stato spostamento durante la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui l'immigrazione ebraica era meno forte.
   La creazione dello Stato di Israele è stata proclamata nel 1947 dapprima dall'Onu, in seguito a Tel Aviv nel 1948, prima dell'inizio dello spostamento su grande scala: l'idea secondo cui lo Stato «richiedeva» uno spostamento noin può dunque essere corretta. E l'invasione del nuovo Stato da parte di cinque eserciti arabi che ha costretto alla fuga un gran numero di arabi palestinesi (gli ebrei non fuggivano, non avevano un luogo dove andare) da un lato, all'espulsione di molti altri abitanti (gli ebrei non sono stati espulsi perché gli eserciti arabi hanno perso la guerra) dall'altro.Il dibattito sul rapporto tra coloro che sono fuggiti e coloro che sono stati espulsi è ancora vivo; le cifre sono importanti in entrambi i casi. Resta il fatto che il dibattito non esisterebbe se la guerra non fosse avvenuta, e vi sarebbero ben pochi rifugiati oggi nei campi. La Nakba [l'esodo palestinese del 1948, ndr] è una tragedia provocata da due attori, da due movimenti politici, e dai soldati delle due parti.
   Cosa ne è delle fughe e delle espulsioni che avvennero altrove - in particolare nel corso della creazione degli Stati moderni turco o pakistano? E curioso che gli autori di sinistra non contestino la legittimità di questi Stati, anche quando criticano, come è giusto, le politiche dei loro governi. [ ... ]
   Il secondo elemento spesso invocato per giustificare l'antisionismo è questo: Israele opprime i palestinesi, in Israele e nella Cisgiordania occupata. Questo è vero e i miei amici sionisti, in Israele, si mobilitano da anni per l'uguaglianza di tutti nello Stato e contro l'occupazione e il trasferimento dei coloni. Ogni critica severa del governo attuale mi sembra giustificata, e più è severa meglio è. [ ... ]
   Le critiche di questo tipo non hanno niente a che vedere con l'antisionismo o l'antisemitismo. Si tratta di politiche governative, e i governi non fanno altro che governare gli Stati, non li incarnano. I governi vanno e vengono-almeno è quel che speriamo - mentre gli Stati si iscrivono nella durata per proteggere la vita comune dei loro cittadini, degli uomini e delle donne. Di conseguenza, criticare il governo d'Israele non dovrebbe comportare un'opposizione alla sua esistenza. E stato necessario opporsi con fermezza alla brutalità dei francesi in Algeria, ma non ricordo nessuna voce che mettesse in discussione l'esistenza dello Stato francese. Il trattamento brutale dei musulmani nell'Ovest della Cina invoca la stessa fermezza, ma nessuno chiede l'abolizione dello Stato cinese (anche se, in pratica se non in teoria, la Cina è uno Stato-nazione dell'etnia han).
   Alcuni, a sinistra, affermano che i lunghi anni di occupazione e il nazionalismo di destra del governo Netanyahu rivelano l'«essenza stessa» dello Stato ebraico. Questo argomento dovrebbe suonare strano alle orecchie di tutte quelle persone di sinistra che hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti-essenzialìstì». La lunga storia dell'interventismo degli Stati Uniti in America Centrale rivela l'essenza stessa» degli Stati Uniti? Forse sono gli oppositori all'intervento e all'occupazione a essere più «essenziali». Comunque sia, uno Stato ha davvero un'«essenza»?
   Oggi molti a sinistra approvano il nazionalismo palestinese senza preoccuparsi del suo carattere «essenziale» e senza riflettere sul programma dei nazionalismi che chiedono, spesso esplicitamente, il grande tutto: «Dal fiume al mare». Vi sono oggi, al governo d'Israele, ebrei sionisti che chiedono il grande tutto con analogo fervore. La sinistra dovrebbe dunque opporsi a entrambe le rivendicazioni con la stessa determinazione. Quanti, a sinistra, reclamano «uno Stato», con pari diritti per gli ebrei e i palestinesi, direbbero senza dubbio che fanno esattamente questo, perché il loro programma sembra tradurre un disprezzo fermo del nazionalismo e dello Stato-nazione - fermo, sì, ma applicato a un solo caso.
   In realtà, «uno Stato» significa l'eliminazione di uno Stato: lo Stato ebraico esistente. In che modo i partigiani di «uno Stato» hanno in mente di realizzare questo programma? Qual è il loro piano per distruggere lo Stato ebraico e il movimento nazionale che gli ha dato nascita? E come vedono la disfatta del nazionalismo palestinese? A cosa assomiglierebbe questo nuovo Stato? Chi deciderebbe le politiche d'immigrazione (è la questione che ha fatto fallire il bi-nazionalismo immediatamente prima e dopo la Seconda guerra mondiale)? Infine, ed è l'esito più probabile, cosa accadrebbe se il nuovo Stato somigliasse al Libano di oggi? La storia recente del Medio Oriente e quelle di Israele e della Palestina mostrano che la coesistenza pacifica è una pia illusione. Anzi, nemmeno un'illusione.
   Se si vuole permettere ai due movimenti nazionali di ottenere (o di mantenere) la sovranità cui aspirano, è sicuramente opportuno aggiungere uno Stato piuttosto che sottrarne uno all'equazione. La soluzione dei due Stati è forse anch'essa un'illusione - esiste in effetti dai due lati uno schieramento significativo di forze che vi si oppongono - ma l'idea è più realistica. Sappiamo, infatti, come creare degli Stati-nazione; abbiamo una lunga esperienza in materia. Non sappiamo come creare la comunità politica ideale che i partigiani dello Stato unico dicono di desiderare, ma non vogliamo - e non dovremmo volere - il genere di Stato che essi creerebbero, se lo potessero.
   Edificare Stati-nazione, questa è la politica che la sinistra ha difeso nel periodo post-coloniale. La Jugoslavia è l'eccezione degna di nota: la maggioranza delle persone di sinistra si sono opposte alla creazione di sette nuovi Stati-nazione, preferendo a essi il regime tirannico che li aveva un tempo mantenuti uniti. E questa è un'ulteriore incoerenza: se l'alternativa alla liberazione nazionale è la tirannia, la sinistra dovrebbe optare, e in genere ha optato, per la liberazione. E' la scelta giusta, perché sappiamo che le nazioni hanno bisogno di Stati, non fosse altro che per proteggerle dall'oppressione straniera. Ne è prova la storia degli ebrei, o degli armeni, dei curdi, dei kosovari e dei palestinesi. Le inchieste mostrano che, in ognuna di queste nazioni, larghe maggioranze desiderano uno Stato per sé stesse. E se gli altri lo vogliono, perché non gli ebrei?

(La Stampa, 12 marzo 2020)


«Uno Stato ha davvero un'«essenza»?» chiede il pensatore ai suoi colleghi di sinistra. E implicitamente dà una risposta: «le persone di sinistra hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti-essenzialisti». Le cose però in questo caso non stanno così: le essenze esistono e portano a conflitti di esistenza. L’esistenza dello stato ebraico deriva dalla sua specifica essenza; e l’essenza dello stato palestinese consiste nel suo deliberato proposito di cancellare l’esistenza dello stato ebraico. In altre parole: l'essenza dello stato ebraico è vita, l'essenza dello stato palestinese è morte. M.C.


EPOS 11 - Rimandato il festival di Tel Aviv dove erano presenti due film italiani

di Simone Pinchiorri

Alla luce delle disposizioni del governo israeliano sul coronavirus, il Festival EPOS è stato rinviato. I biglietti resteranno validi per la nuova data. Il Festival si riserva di pubblicare maggiori informazioni man mano che la situazione si andrà chiarendo e ringrazia per la pazienza, la comprensione e la fiducia.
Nell'ambito dell'undicesima di EPOS - International Art Film Festival dovevano essere proiettati due film italiani: il 12 marzo 2020, alle ore 19:30, al Museo d'Arte di Tel Aviv. "Fellini Fine Mai" di Eugenio Cappuccio, in occasione del Centenario della nascita di Federico Fellini; ed il 14 marzo, alle ore 17.00, sempre al Museo d'Arte di Tel Aviv. "Cinecittà - I mestieri del cinema. Bernardo Bertolucci: no end travelling" di Mario Sesti.

(cinemaitaliano.info, 12 marzo 2020)


Rav Arbib: teshuvà, tefillà e tzedakà per uscire dalla crisi

di Rav Alfonso Arbib

Stiamo vivendo un periodo difficile e complicato in cui siamo nella condizione di cambiare le nostre abitudini, anche le nostre abitudini migliori; abbiamo sospeso le tefilloth pubbliche al Bet Haknesset, una cosa che abbiamo intrapreso con molto dolore perché è una cosa molto brutta esser costretti a sospendere le tefilloth. La tefillà al tempio è fondamentale e essere nella condizione di non poterla fare è veramente molto difficile.
   Però era importante farlo perché siamo in una situazione pericolosa. La Halachà stabilisce che se siamo in una situazione di pericolo dobbiamo prendere tutte le precauzioni possibili. Bisogna essere molto attenti alla nostra salute e alla salute degli altri, bisogna stare attenti a non farsi del male e a non fare del male. Anche senza volerlo. Quindi dobbiamo stare molto attenti alle norme sanitarie che ci vengono prescritte e molto rigorosi nell'osservarle.
   Questa situazione sta cambiano le nostre vite e le nostre abitudini. Ma dobbiamo anche stare attenti a che questa situazione non sconvolga le nostre vite, a non essere concentrati soltanto sulle nostre paure e perdere in questo modo cose belle e fondamentali delle nostre vite.
   Siamo in un momento di crisi, ma tutte le crisi possono essere anche un momento in cui si fa qualcosa di positivo. E quindi l'invito è a cogliere questo momento anche come una opportunità. Siamo chiusi in casa e possiamo fare molte cose: occuparci maggiormente delle nostre famiglie, che è estremamente importante, possiamo dire tefillà (non meglio che in un BetHaknesset, perché la tefillabesibbur, la preghera pubblica, è fondamentale nell'ebraismo) ma possiamo dire una tefillà privata con grande concentrazione, senza avere il problema del tempo che passa, come capita spesso al Tempio, dove a volte dobbiamo fare tefillà in fretta perché non c'è tempo. Ora di tempo ne abbiamo tanto quindi è importante fare tefillà ma farla anche meglio, leggendo le parti che a volte si saltano per fare più in fretta.
   Tra poco festeggeremo Pesach, la festa dell'uscita del popolo ebraico dall'Egitto, la festa della liberazione dalla schiavitù. Vorrei ricordare che questa liberazione è cominciata con una tefillà, il primo atto del popolo ebraico che ha portato Dio a intervenire è stata una preghiera che il popolo ebraico ha rivolto a Dio. Da quel momento le cose cominciano a cambiare, comincia quel processo che porterà alla liberazione dall'Egitto.
   La tefillà è importantissima. C'è un passo che leggiamo a RoshHashanà e a Kippur, nel rito italiano e ashkenazita, che dice "La teshuvà, il pentimento, la tefillà, preghiera e la tzedakà, l'occuparsi del prossimo, aiutare chi è in condizioni di difficoltà economica, fanno passare il decreto cattivo". Beh, è l'occasione per mettere in pratica tutte queste cose. Dobbiamo cogliere l'occasione per fare teshuvà, per farci un esame di coscienza e chiederci che cosa c'è di giusto e di sbagliato in ciò che facciamo nella nostra vita. Dobbiamo pregare con molta kavvanà, con molta concentrazione. Dobbiamo aiutare il prossimo; una mitzvà fondamentale sempre e particolarmente adesso, anche perché nelle situazioni di crisi è ancora più difficile per chi ha delle difficoltà economiche. Dobbiamo quindi occuparci proprio in queste situazioni delle persone che sono in difficoltà.
   Dopo di che dobbiamo fare qualcos'altro. Dobbiamo continuare la nostra vita ebraica, nei limiti delle condizioni che ci vengono imposte per tutelare la nostra salute, ma continuare in ogni modo, l'osservanza delle mitzvòt, continuare lo studio della Torà anzi migliorarlo, abbiamo l'occasione di studiare per conto nostro, abbiamo tempo per farlo.

(Bet Magazine Mosaico, 12 marzo 2020)


Fondane, mistico senza religione

di Massimo Giuliani,

Tra i pensatori ebrei critici verso la modernità occorre annoverare, dopo Scholem e Strauss, anche Benjamin Fondane, il discepolo di Lev Šestov. Nato a Iaşi nel 1898, crebbe in una famiglia assimilata ma che aveva dato all'ebraismo della Romania un paio di importanti studiosi: uno storico e un riformatore scolastico. Intellettuale perspicace e poeta precoce, si formò negli anni della crisi europea d'inizio Novecento 'alla scuola di Nietzsche' e ne divenne un esemplare: sradicato e inquieto, insensibile a ogni nazionalismo (sionismo incluso), in esilio senza ben sapere da cosa, alla perenne ricerca di un maestro che alla fine, al suo arrivo a Parigi (cacciato di fatto dal suo paese natale ormai infetto da febbri antisemite) nel 1923, trovò nell'esule russo Šestov, nato Schwarzmann (Kiev 1866-Parigi 1938). Divenuto quasi il suo personale messia, questi gli indicò la strada di un ritorno all'ebraismo di impronta biblica: antirazionalista, antimoralistico, semiascetico e filoprofetico nel solco di Geremia e di Giobbe. Tra i moderni, il faro non poteva che essere Kafka. Fu un mistico Fondane? Sì, ma senza religione. Uno strano ba'al teshuvà, che non cercava la fede ma l'illuminazione, e che da ultimo scelse (sebbene potesse evitarlo) di salire sul treno per Auschwitz, nella tarda estate del 1944, per non abbandonare la sorella.
  La figura di Fondane riflette il crogiuolo di tutte le opzioni che oltre un secolo fa si aprivano all'ebraismo nel cuore dell'Europa: per farsene un'idea basta immergersi nei suoi 'scritti sull'ebraismo' che Giuntina ha pubblicato da poco con il titolo "Tra Gerusalemme e Atene" (a cura di Francesco Testa e Luca Orlandini, pp.302). Titolo di per sé non originale, ma che richiama l'opus magnus del suo maestro, quell'"Atene e Gerusalemme", scritto in russo e divulgato in francese, di cui proprio Fondane ci ha dato la sintesi là dove, celebrando l'essenza ebraica di Šestov nella di lui 'ricerca del giudaismo perduto', nel 1936 scrive: "Molti ebrei di nascita - Bergson, Freud, Einstein - non lo sono affatto 'essenzialmente'; lo sono meno rispetto a un Pascal e un Kierkegaard, giacché l'uno fa appello al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, mentre l'altro abbandona platealmente Hegel per volgersi a Giobbe e ad Abramo". E aggiunge: "Se gli ebrei intendono essere ebrei, come i tedeschi sono tedeschi e gli indigeni del Guatemala guatemaltechi, è arrivato il momento di affermarlo: se la loro intenzione è quella di essere 'il popolo eletto' a buon mercato, sarebbe ora che aprissero gli occhi". Gli occhi degli ebrei, a suo avviso, sono stati a lungo chiusi per eccesso di razionalismo e di retorica progressista, e il solo capace di aprirli è quell'isolato ma originalissimo filosofo ebreo-russo sempre controcorrente, che lottò contro Hegel e Husserl (altro ebreo che volle ignorare di esserlo), icone di Atene, e che indagò il messaggio di Gerusalemme in Shakespeare e Pascal, in Nietzsche e Dostoevskij. Nella sua lotta contro le evidenze, eroe di pensiero tragico e della precarietà dell'esistenza, Šestov è per Fondane "il filosofo ebreo per eccellenza" che stimola un ebraismo accecato dai miti moderni a "tornare indietro".
  Tornare indietro significa, per maestro e discepolo, recuperare dottrine rimosse o obliate: l'idea di peccato originale (di cui il cristianesimo si è appropriato); il senso dei miracoli; la vena tragica del pensiero biblico; la coscienza dell'elezione divina. "Ha ancora senso un popolo 'eletto'? - si chiede Fondane - E in questo caso, non siamo forse, nella storia, la più insolente delle assurdità? Ammettiamolo: se l'ebreo, unico esempio nell'antichità, ha testimoniato l'effettiva presenza di Dio, nel nostro mondo moderno egli potrebbe come minimo testimoniare con altrettanta angoscia l'assenza di Dio! Solo, nel mondo moderno, ed esempio unico nell'ebraismo, Lev Šestov rappresenta questa angoscia". Commentatore e ideale continuatore pressoché unico del suo maestro, Fondane è 'orientale' tra gli occidentali e 'occidentale' tra gli orientali, un mistico tra i filosofi e il più filosofico dei mistici, anti-spinoziano e anti-maimonideo, tra i pochissimi in tutta la storia ebraica capace di schierarsi dalla parte di Rabbi Eliezer, sconfitto dalla maggioranza dei suoi colleghi e che persino il Cielo tentò di difendere. Ricordate Rabbi Eliezer in Bava Metzià 59b, la storia del forno di Aknai? A sostegno della sua tesi questo maestro chiese agli alberi di sradicarsi, e quelli si sradicarono; chiese all'acqua del fiume di scorrere contro corrente e quella lo fece; chiese ai muri della sinagoga di inclinarsi e quelli s'inclinarono… Ma i saggi fecero finta di non vedere, o quando videro - invece di arrendersi ai miracoli - li dichiararono 'argomenti non validi'. La conclusione è sorprendente: anche il giudaismo, elevando a verità l'opinione della maggioranza, "ha legato le mani a Dio stesso" rifiutando la testimonianza dei miracoli. Benjamin Fondane, nel solco di Šestov, difende Rabbi Eliezer: ne comprende la desolata solitudine, ne condivide l'angoscia, dà voce alla sua delusione che il Talmud invece lascia inespresse. Si può dissentire ma difficile non rendere al mistico rumeno quel kavod - rispetto e onore - che ogni opinione di minoranza, se sincera, merita.

(moked, 12 marzo 2020)


Chi attacca i cristiani palestinesi?

di Bassam Tawil*

Mentre i leader cristiani sono impegnati a condannare Israele e a diffondere calunnie del sangue contro lo Stato ebraico, i cristiani di Betlemme vengono colpiti da teppisti e balordi.
   L'ultima vittima di queste violenze anticristiane è il dottor Salameh Qumsiyeh, un ginecologo di Betlemme che il 18 febbraio scorso è stato brutalmente aggredito da non identificati criminali mentre era al voltante della sua auto, nel centro della città.
   Secondo quanto riferito da testimoni oculari, quattro aggressori mascherati hanno fermato l'auto di Qumsiyeh e lo hanno picchiato con bastoni e strumenti affilati per poi darsi alla fuga. Il medico è stato portato d'urgenza in ospedale dove gli sono state riscontrate gravi ferite.
   La famiglia dell'uomo, che appartiene a uno dei più grandi clan dell'area di Betlemme, ha rilasciato una dichiarazione fortemente critica dell'aggressione, definendola "immorale e spregevole, perpetrata da un gruppo di codardi e di trasgressori delle leggi e delle norme nazionali e sociali". Il clan si è detto poi sconcertato per l'attacco e ha affermato che è stato compiuto da "mercenari". Ha esortato le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese a fare quanto possibile per "arrestare i codardi e consegnarli alla giustizia".
   Anche le fazioni palestinesi dell'area di Betlemme hanno denunciato la "brutale e vile" aggressione al dottor Qumsiyeh. "Condanniamo fermamente questo atto vile e sospetto, che è estraneo alle nostre tradizioni", affermano le fazioni in una dichiarazione.
   L'Holy Family Hospital di Betlemme ha stigmatizzato l'aggressione e ha esortato le forze di sicurezza palestinesi a individuare i responsabili e consegnarli alla giustizia.
   L'episodio è avvenuto solo poche settimane dopo la morte di una donna cristiana della città di Bet Jala, nei pressi di Betlemme, quando agenti di polizia palestinesi hanno fatto irruzione nella sua casa per arrestare lei e suo figlio Yusef per debiti non pagati. La donna è stata identificata come Terez Ta'amneh, 63 anni.
   Sua figlia, Marian al-Hajal, ha accusato le forze di sicurezza palestinesi di aver "ucciso la madre" e ha affermato che da cristiana non ha fiducia nella legge e nella polizia palestinese. "I sette poliziotti che hanno fatto irruzione nella nostra abitazione", ha dichiarato la donna, "erano guidati da Jamal Hmeid, nipote di Kamel Hmeid, governatore palestinese di Betlemme".
   Alla vigilia dello scorso Natale, la 76enne Fairouz Ijha, una donna cristiana di Betlemme, si è lamentata di essere finita in tribunale negli ultimi due anni, per tentare di riappropriarsi di terreni di proprietà della sua famiglia confiscati illegalmente dai musulmani. "Ogni volta che chiedo al giudice il permesso di parlare, lui mi risponde che 'non è ancora il mio turno'", ha dichiarato la donna. "Se fossi musulmana verrei trattata in modo diverso".
   Una maestra cristiana che si è identificata come "Diana" ha rilevato che la discriminazione contro i cristiani non è una novità ed è di fatto aumentata. "La polizia [palestinese] applica norme distinte per i musulmani e i cristiani", ha affermato la donna. "Se, ad esempio, si verifica un incidente d'auto che coinvolge un cristiano e un musulmano, la polizia si schiera sempre dalla parte del musulmano".
   La difficile situazione dei cristiani che vivono sotto il governo dell'Autorità Palestinese in Cisgiordania e sotto quello di Hamas nella Striscia di Gaza viene spesso ignorata dalla comunità internazionale e dai giornalisti presenti in Medio Oriente.
   È opportuno osservare che la popolazione cristiana presente nell'area di Betlemme ha subìto un drastico calo passando dall'86 per cento del 1950 a meno del 12 per cento di oggi. In Cisgiordania, i cristiani ora rappresentano meno del 2 per cento della popolazione, sebbene negli anni Settanta fossero il 5 per cento.
   Nella Striscia di Gaza governata da Hamas la situazione dei cristiani è ben peggiore. Il numero dei cristiani che vivono lì è passato da 4.200 nel 2007 a poche centinaia di oggi.
   "Gli uomini di Hamas hanno assunto il controllo della mia casa e l'hanno trasformata in un centro operativo", ha detto Kamal Teresi, un cristiano che di recente ha lasciato la Striscia di Gaza.
    "Sono finito in diverse prigioni e nel carcere di Hamas si subiscono pestaggi e torture psicologiche. Noi cristiani non siamo di passaggio in Palestina: siamo qui da 2000 anni; non siamo ospiti. Hamas perseguita e colpisce i cristiani, e anche le istituzioni, le chiese e le associazioni cristiane. Non posso tornare a Gaza, se lo facessi firmerei la mia condanna a morte".
Mentre i comuni cristiani affermano di non sentirsi più al sicuro sotto l'Autorità Palestinese e Hamas, i loro leader continuano a mentire al mondo in merito alla situazione della loro comunità. Invece di alzare la voce contro la persecuzione dei cristiani da parte dell'Autorità Palestinese e di Hamas, questi leader cristiani sono impegnati a cercare di incolpare Israele.
   Questi leader cristiani, forse per evitare di essere colpiti, sembrano voler far credere al mondo che i cristiani fuggono da Betlemme e dalla Striscia di Gaza a causa delle misure di sicurezza israeliane contro i terroristi e non per le brutalità perpetrate dalle autorità palestinesi e dai musulmani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
   Se le loro affermazioni fossero vere, allora perché anche i musulmani non fuggono a causa delle presunte misure israeliane? Tali misure, per inciso, non sono dirette contro i cristiani, ma contro i musulmani palestinesi per il loro coinvolgimento nel terrorismo. Pertanto, sono i terroristi musulmani e le loro famiglie coloro che avrebbero buoni motivi per fuggire, e non i pacifici e vulnerabili cristiani, la maggior parte dei quali non sono coinvolti in attività anti-israeliane o terroristiche.
   Cosa stanno facendo i leader cristiani palestinesi per difendere la loro comunità? Purtroppo, nulla. Qualcuno si unisce perfino a quei musulmani che diffondono calunnie del sangue contro Israele.
   Uno di questi religiosi è il capo della diocesi della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, l'arcivescovo Atallah Hanna, che di recente ha accusato Israele di aver tentato di ucciderlo "avvelenandolo". Hanna, che è noto per il suo feroce incitamento anti-israeliano, ha detto di aver inalato una pericolosa dose di gas velenoso spruzzato dalla finestra della sua stanza nel patriarcato ortodosso di Gerusalemme.
   In seguito si è scoperto che le accuse di Hanna erano del tutto infondate ed erano il prosieguo di una spregevole campagna di diffamazione contro Israele.
   Un'indagine delle autorità israeliane ha rivelato che la chiesa aveva invitato una ditta israeliana a spruzzare la sostanza pesticida nei locali del patriarcato. "Ci aspettiamo che un religioso dica la verità", ha dichiarato il ministero degli Esteri israeliano, "e che i religiosi di tutto il mondo denuncino questi scandalosi falsi proclami ed evitino di diffondere tale calunnia".
   Hanna, come altri leader cristiani palestinesi, non è solo un bugiardo: è un traditore della propria comunità. Hanna non ha detto una parola contro l'aggressione al dottor Qumsiyeh e contro altri episodi di violenza ai danni dei cristiani di Betlemme. A lui non importa della sofferenza inflitta al suo popolo sotto il governo islamista di Hamas nella Striscia di Gaza.
   Ignorando la vera ragione per cui i cristiani fuggono dalla Cisgiordania e da Gaza, i leader come Hanna incoraggiano i musulmani anticristiani e consentono loro di continuare a perpetrare attacchi contro i cristiani che vivono lì.
   Per quanto riguarda la comunità internazionale e le istituzioni cristiane di tutto il mondo, è loro dovere esaminare tali calunnie del sangue diffuse dai leader cristiani palestinesi per verificare se vi sia un'accuratezza fattuale. Se non lo faranno, verrà il giorno in cui non ci sarà un solo cristiano a Betlemme, nella Striscia di Gaza e molto probabilmente in Medio Oriente, ad eccezione di Israele, dove il numero dei cristiani è in aumento.

* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 11 marzo 2020 - trad. di Angelita La Spada)



Laboratorio Israele

Dalla quarantena alle start up mediche: così lo stato ebraico sta combattendo l'epidemia. Quarantena e innovazione. Lo stato ebraico è all'avanguardia. Si preparava da anni all'epidemia.

di Giulio Meotti

ROMA - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha definito il corona virus "la peggior epidemia in cento anni", ha annunciato che la quarantena obbligatoria (quattordici giorni) riservata finora a turisti e cittadini che arrivino da determinati paesi europei e asiatici sarà estesa "a tutto il mondo".
   Nonostante i casi di coronavirus in Israele siano appena 58 a oggi, 80 mila israeliani sono già in autoquarantena. Israele ha nove milioni di abitanti. L'Italia, che ne ha sessanta, ha visto finora appena duemila autoisolamenti. La popolazione israeliana era pronta a "stare a casa". "Il mondo non finirà, se non possiamo batterlo conviveremo con il coronavirus", ha detto Eyal Waldman, il ceo dell'azienda di chip Mellanox, anche lui in quarantena. Del modello israeliano fa parte anche questo ottimismo.
   Boaz Lev, che dirige l'unità delle epidemie del ministero della Sanità, ha detto che la quarantena dipende dal fatto che gli israeliani "agiscono come cittadini modello". Eyal Zimlichman, il medico che sovrintende all'isolamento allo Sheba Medical Center, il nono miglior ospedale del mondo, ha detto che Israele "è come un laboratorio vivente" nella risposta all'epidemia. I pazienti di cui si sospetta il contagio portano i dispositivi della start up israeliana TytoCare, permettendo ai medici di ascoltarne da remoto cuore e polmoni. Sotto i materassi, un sistema di sensori della società israeliana EarlySense ne monitora la respirazione. Prima che qualcuno sapesse che il coronavirus avrebbe raggiunto il medio oriente, i medici israeliani erano già in azione. I tessuti sviluppati dalla Sonovia, in teoria per pazienti chemioterapici, sono stati trasformati in maschere che potrebbero uccidere, non solo bloccare, il coronavirus. I laboratori in Cina stanno testando questo tessuto, inventato da due professori di chimica dell'Università Bar-Ilan e che infonde meccanicamente nanoparticelle antivirali e antimicrobiche di zinco e ossido di rame nei tessuti per mascherine e altri prodotti protettivi. Anche Horizon 2020 della Commissione europea gli ha assegnato un finanziamento. E il Migal Galilee Research Institute ha rapidamente iniziato a lavorare a un vaccino contro il coronavirus. Indipendentemente dal fatto che il vaccino della Migal alla fine abbia successo o meno, lo sforzo è emblematico dell'atteggiamento di Israele nei confronti delle crisi. Non solo. Lo stato ebraico sta usando gli adesivi wireless della BioBeat per monitorare la pressione sanguigna. Zimlichman ha spiegato che "il 30 per cento degli operatori sanitari di Wuhan ha contratto la malattia dal contatto coi pazienti". E anche in Italia molti medici e operatori sanitari si ammalano. Così, gli ospedali nel sud-est asiatico, tra cui Cina, Giappone, Corea e Hong Kong, utilizzano un'altra invenzione israeliana, il robot Temi, per ridurre al minimo il contatto con i pazienti. E' una delle cento migliori invenzioni del 2019, secondo Time.
   "Israele si sta preparando per questo tipo di evento da vent'anni", ha detto il professor Nadav Davidovitch, direttore della School of Public Health dell'Università Ben-Gurion nel Negev. "Israele potrebbe essere l'unico paese occidentale che non ha avuto infezioni non giustificate", afferma Tomer Hertz del Dipartimento di microbiologia, immunologia e genetica della Shraga Segun University. Israele ha già il terzo tasso di test da coronavirus più alto a livello globale (383 test per milione), dietro alla Corea e all'Italia. E sono alla ricerca di test più economici e rapidi. Come quello della Batm, che rileva il virus dai campioni di saliva in mezz'ora. Joe van Zwaren, presidente di JLM-BioCity - un gruppo di professionisti biomedici - ha compilato un elenco di venti società israeliane che stanno aiutando a fermare la pandemia.
   In Israele ci sono nove centri medici in grado di raddoppiare i posti letto convertendo i sotterranei. Iniziarono a pensarci quando la Galilea finì sotto i razzi katiuscia di Hezbollah. L'ospedale sotterraneo più avanzato del mondo con duemila posti letto sorge a diciassette metri sotto terra al Rambam di Haifa, che nel 2006 fu sotto attacco per un mese. Al tempo, i pazienti finirono in scantinati e corridoi. Si decise che avrebbe dovuto funzionare anche in tempo di guerra. Ed è guerra anche questa combattuta con microscopi e medicine. Israele, democrazia-guarnigione di soldati e premi Nobel, ha fatto di necessità virtù.

(Il Foglio, 11 marzo 2020)


Minacce a sicurezza ed economia riavvicinano Israele e i Paesi del Golfo

Sembra che i Paesi del Golfo, tradizionalmente ostili a Israele, si stiano riavvicinando Tel Aviv, secondo il rabbino Marc Schneier, consigliere del Re del Bahrein. Tuttavia, non sarà possibile instaurare relazioni diplomatiche solide fino a quando la questione palestinese non sarà risolta.

Alla luce dei risultati della terza tornata di elezioni di Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha tenuto un discorso poco dopo l'annuncio dei primi risultati, ha promesso che il suo governo lavorerà per "conseguire grandi risultati" per Israele.
  "Estenderemo la sovranità di Israele, annienteremo la minaccia iraniana, stringeremo un patto di protezione con gli Stati Uniti e firmeremo accordi di pace con le principali potenze musulmane e arabe..." ha promesso alla folla di suoi sostenitori.

 Riscaldare i rapporti
  Negli ultimi 2 anni Israele ha rafforzato i legami che intratteneva con i Paesi musulmani i quali prima erano ostili allo Stato ebraico.
  Ad esempio, nel 2018 il Primo ministro si è recato per una breve visita in Oman, dove ha incontrato leader del Paese, il sultano Qabus bin Said, venuto a mancare di recente. Durante l'incontro i leader hanno discusso delle relazioni bilaterali e degli sviluppi a livello regionale.
  Un anno dopo, nel 2019, Netanyahu ha sorpreso molti con la sua visita in Ciad e la ripresa delle relazioni con lo Stato africano. Ha promesso che seguiranno altri incontri e ha mantenuto la parola: infatti, il mese scorso il primo ministro ha incontrato il presidente ad interim del Sudan, Abdel Fattah Al-Burhan, riscaldando i rapporti tra i due Stati.
Ma flirtare con Israele è un fenomeno relativamente nuovo dato che la storia è ricca di esempi di ostilità araba verso lo Stato ebraico. Per esempio, nel 1948, subito dopo la creazione dello Stato di Israele, alcuni Paesi vicini gli dichiararono subito guerra.
I Paesi del Golfo non hanno mai partecipato attivamente alle guerre contro Israele, ma hanno sostenuto i palestinesi con altri mezzi, quali il denaro, l'invio di volontari, il boicottaggio e le sanzioni.
  La situazione è cambiata solo negli anni '90 quando il Consiglio di cooperazione del Golfo, un'unione politica ed economica di 6 Paesi della penisola arabica, ha smesso di partecipare al boicottaggio di Israele e lo Stato ebraico ha firmato una serie di accordi con gli arabi, tra cui l'accordo con i palestinesi nel 1993 a Oslo e il trattato di pace con la Giordania nel 1994.
  Il rabbino Marc Schneier, presidente della Fondazione per la comprensione etnica che ha lavorato negli ultimi 17 anni per migliorare le relazioni tra ebrei e musulmani, ritiene che tali relazioni non possano che migliorare nel tempo.
"Il dialogo interreligioso è diventato popolare negli Stati del Golfo. I leader di questi Paesi mi chiedono aiuto per costruire strutture rivolte a un pubblico ebraico", ha spiegato.
Il Qatar è solo uno di questi esempi. In vista dei Mondiali di calcio del 2022, le autorità stanno lavorando per aprire strutture kosher nella capitale in modo da soddisfare le esigenze degli ospiti ebrei.
  Anche altri Paesi del Golfo stanno prendendo provvedimenti per avvicinarsi a Israele.
  Lo scorso novembre è stato reso noto che le autorità emiratine avrebbero permesso ai turisti israeliani di visitare l'esposizione mondiale di Dubai, che si terrà nell'ottobre 2020. Di recente Israele ha permesso ai suoi cittadini di entrare in Arabia Saudita per motivi di lavoro, una misura rivoluzionaria dato che, fino ad allora, le visite al Regno erano consentite solo per scopi religiosi.

 Chiedere aiuto a Israele
  Secondo Schneier, la ragione di questo cambiamento è duplice: in primo luogo, è legata alla "minaccia iraniana" che accomuna Israele a Paesi sunniti moderati come l'Egitto, la Giordania e, più recentemente, gli Stati del Golfo.
  L'Arabia Saudita, così come altri Paesi della regione, stanno monitorando con fare sospettoso il programma nucleare iraniano sostenendo che Teheran starebbe mettendo a punto armi di distruzione di massa che potrebbero essere usate contro i Paesi arabi in caso di conflitto. La Repubblica Islamica nega di aver commesso qualsivoglia violazione sottolineando che il programma nucleare serve esclusivamente a scopi pacifici.
"Un altro fattore che contribuisce al riavvicinamento a Israele è la minaccia economica", sostiene Schneier. Poiché i Paesi del Golfo dipendono principalmente dalle esportazioni di petrolio e gas, il calo della domanda di queste risorse sta costringendo i leader del Golfo a riconsiderare le loro rotte e i loro piani per il futuro.
"Vediamo una giovane generazione di leader istruiti in Occidente che vogliono aprire i propri Paesi ai turisti ebrei, un nuovo settore che potrebbe portare miliardi di dollari in patria. Ma per farlo, devono diventare più amichevoli, più aperti e più inclusivi".
  I leader degli Stati del Golfo non sono gli unici a credere che la cooperazione con Israele possa essere vantaggiosa per i loro Paesi. L'opinione pubblica sembra dirigersi nella medesima direzione.
  Secondo il Ministero degli Affari Esteri israeliano, che conduce regolarmente sondaggi nei Paesi arabi per verificare l'apprezzamento di questi Paesi nei confronti dello Stato ebraico, il 75% degli intervistati ha affermato che le relazioni con Tel Aviv potrebbero essere utili per i propri Stati.
"Quando il presidente Trump decise di trasferire l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, le previsioni erano alquanto preoccupanti. Anche se, in realtà, non è successo nulla. Anche la promulgazione del piano di pace proposto da Washington non ha causato alcun sentimento anti-israeliano", ha spiegato Schneier.
 Bahrain, il pioniere
  Dei 6 Stati del Golfo il Bahrein sarà il primo a riconoscere Israele, secondo il rabbino consigliere del monarca del Bahrein. Negli ultimi anni, Manama ha più volte fatto capire a Tel Aviv di essere pronta a riallacciare i rapporti.
  È stato il Bahrein a indurre il Consiglio di cooperazione del Golfo a considerare Hezbollah, un'organizzazione sciita che si ritiene affiliata all'Iran, un'organizzazione terroristica. È stato il Bahrein a inviare una delegazione ufficiale a Gerusalemme poco dopo che Trump aveva deciso di trasferire lì l'ambasciata americana, ed è stato il Bahrein ad ospitare il vertice Peace for Prosperity a Manama il quale aveva come intento la ricerca di una soluzione economica del conflitto israelo-palestinese.
  
Tuttavia, come afferma Schneier, il pieno riconoscimento non sarà possibile fino a quando la questione palestinese non sarà risolta.
"Si pensa erroneamente che la questione palestinese non sia più una fonte di preoccupazione per i leader del Golfo", ha affermato Schneier commentando l'intervento del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il quale aveva ipotizzato che fosse possibile stringere accordi con i Paesi arabi indipendentemente dagli sviluppi concernenti la questione palestinese.
"Questa idea è fallace. Sono preoccupati per il destino dei palestinesi, per la loro dignità e si aspettano alcune linee guida su come comportarsi con i palestinesi. Non verranno instaurate relazioni diplomatiche solide fino a quando il conflitto non sarà completamente risolto. Ma almeno ora c'è un piano di pace e so che sono contenti che si discuta di questo tema".

(Sicurezza Internazionale, 11 marzo 2020)


David Kertzer: "I silenzi di Pio XII? Temeva lo scisma dei cattolici tedeschi"

Dopo l'apertura degli archivi vaticani, il premio Pulitzer è in Italia per studiare le carte di papa Pacelli

David Kertzer
Per l'apertura degli archivi vaticani su papa Pacelli sono arrivati accademici e storici da molti Paesi per studiare i documenti che potrebbero rivelare e aggiungere informazioni sulla storia del pontificato che fa discutere da decenni. Tra questi c'è David Kertzer, studioso e storico di fama mondiale, premio Pulitzer per Il patto col diavolo (tradotto per Rizzoli), in cui racconta la storia dei rapporti tra Pio XI e Mussolini; Kertzer è autore tra gli altri di Prigioniero del Papa Re (Bur; sarà la base di un film di Spielberg), sulla storia di Edgardo Mortara, il bambino ebreo battezzato, rapito e cresciuto da cattolico nell'800. Per Kertzer l'apertura dell'archivio su Pio XII «è una grande opportunità di conoscenza. Ma non si può riscrivere la storia».

- Quale è il significato dell'apertura degli archivi sul pontificato di Pio XII?
  «Gli archivi ci danno la possibilità di conoscere meglio una storia europea, non soltanto ebraica o della Chiesa. La domanda generale è come nella civile Europa sia stato possibile uccidere milioni di persone. Forse con questa apertura capiremo meglio come si comportò la Chiesa, quali erano le dinamiche, e chi consigliava il Papa su questi temi. Spero che conosceremo la dinamica all'interno del Vaticano quando si doveva decidere se protestare sulle deportazioni degli ebrei romani il 16 ottobre '43, e cosa spinse papa Pacelli verso il silenzio pubblico. Il rischio è quello che si tenti di riscrivere la storia».

- Che cosa intende?
  «Adesso c'è la tendenza generale a presentare solo un aspetto della storia. E questa tendenza appartiene in particolare all'Italia: in questo Paese ci sono moltissimi istituti sulla Resistenza, non ce n'è neanche uno in cui si studia il fascismo, come se gli italiani fossero stati tutti dalla parte degli Alleati. Gli ebrei catturati dai nazisti lo furono in buona parte grazie all'aiuto degli italiani. Anche una parte della Chiesa vuole presentare una storia "diversa". In questi giorni nell'archivio apostolico vaticano vedo storici del mondo cattolico molto seri e rigorosi, altri che difendono a spada tratta Pio XII e più in generale il ruolo della Chiesa durante il fascismo.
  «Le prime "rivelazioni" all'indomani dell'apertura degli archivi hanno il sapore del sensazionalismo, mentre non possiamo prescindere dalla storia già scritta: Pio XII non ha mai protestato contro le leggi razziali, il suo predecessore era invece risentito, perché Hitler voleva creare una società pagana: lui percepì le leggi razziali come segno di avvicinamento alla Germania nazista, e parlò pubblicamente contro il razzismo, cosa che Pio XII non fece. Pio XI protestò contro le leggi che colpivano i matrimoni misti, e lo fece non per proteggere gli ebrei, ma quelli battezzati. Papa Pacelli cambiò strada, seppellì "l'enciclica mancata", quella in cui doveva esprimersi a favore degli ebrei contro il razzismo e contro l'antisemitismo, e non spese una parola pubblica sulle deportazioni, neanche sulla razzia degli ebrei romani».

- Cosa avrebbe potuto fare Pio XII per osteggiare le deportazioni?
  «La prima deportazione degli ebrei italiani avvenne nel ghetto di Roma, sotto le finestre del Vaticano. Papa Pacelli avrebbe potuto fare molto, minacciare Hitler di denunciare il nazismo, oppure fare un gesto come fece il 19 luglio del '43, quando Roma fu bombardata. Però lui non era quel tipo di leader, non era certo contento dell'omicidio di più di 1000 ebrei di Roma, ma non voleva rischiare di compromettersi».

- Può raccontarci qualcosa dei documenti inediti che ha visionato in questi primi giorni di lavoro nell'archivio?
  «C'è un documento molto interessante in cui l'arcivescovo di Bologna chiese a papa Pacelli nel '40 di benedire L'Avvenire d'Italia, il quotidiano cattolico più letto del Paese. Il Papa rifiutò con la motivazione di non voler dare la benedizione apostolica perché i giornali erano controllati dal regime, e non erano liberi. Sembrerebbe un aspetto positivo, ma a mio giudizio il Papa in realtà non voleva compromettersi. Lasciò libero il clero italiano di sostenere o meno la guerra. Il documento è importante perché sottolinea alcuni aspetti della personalità di Pio XII e i suoi comportamenti su questi temi».

- Ovvero?
  «Spesso si sostiene che papa Pacelli voleva essere neutrale per timore delle ritorsioni di Hitler sul mondo cattolico. Ma c'è un motivo più profondo: lui sapeva che milioni di cattolici erano nazisti, e temeva che criticando il nazismo avrebbe rischiato uno scisma all'interno della Chiesa. All'inizio della guerra si pensava che Hitler avrebbe vinto, e questo probabilmente ha mosso il Papa nella direzione di capire come proteggere il Vaticano. Poi quando è diventato chiaro che avrebbero vinto gli Alleati, nel '42, e ancora con la caduta di Mussolini, la Chiesa dovette riposizionarsi. Tutto questo è dimostrato nelle decine di migliaia di documenti che ho studiato in altri archivi e fonti, come la stampa vaticana dell'epoca, quella italiana, e la stampa cattolica nazionale ad esempio, oppure l'Archivio Centrale dello Stato, che conserva i rapporti delle spie di Mussolini, e vari archivi nel mondo, dove ci sono le corrispondenze degli ambasciatori presso la Santa Sede».

- Quali sono i suoi timori, se ne ha, sullo studio degli archivi su Pio XII?
  «Papa Pacelli era un uomo molto cauto, e non voleva mettere tutto per iscritto. Quindi alcune cose probabilmente non le sapremo mai».

(La Stampa, 11 marzo 2020)


L'Israele di Netanyahu all'indomani del voto

Dopo le elezioni del 2 marzo, il futuro governo israeliano rimane un'incognita.

di Nathan Greppi e Francesco Scomazzon

Festeggia il Premier uscente, Benjamin Netanyahu, dopo essersi visto vincitore nelle ennesime elezioni. Per la prima volta dalla sua nascita, Israele ha dovuto ricorrere a una terza chiamata alle urne (quella del 2 marzo 2020), in un anno. Questa è stata caratterizzata da un'affluenza tanto minacciata dall'emergenza Coronavirus, quanto alimentata dalla volontà di chiudere questo capitolo elettorale. La lotta per la formazione del governo, a oggi, non si è ancora risolta poiché al Likud, il partito nazional-liberale di Netanyahu, servono altri 3 seggi per avere la maggioranza assoluta nella Knesset (l'organo legislativo israeliano). Al contempo i partiti di opposizione non si perdono d'animo e - forti delle accuse che vedono il primo ministro sotto processo per frode, corruzione e abuso di ufficio - tenteranno l'approvazione di una legge ad hoc per bloccare la riconferma di Netanyahu a capo dell'esecutivo. In un momento storico di profonde incertezze per la stabilità del Medio Oriente, chi avrà l'ultima parola sul futuro di Israele?

 Netanyahu, reo o innocente?
  Grazie alla sua vittoria elettorale, Benjamin Netanyahu si riconferma essere il primo ministro israeliano più longevo. Da undici anni ininterrottamente al potere, dopo un precedente mandato nel triennio 1996-1999, il leader israeliano aveva già l'anno scorso surclassato David Ben Gurion, fondatore di Israele e primo premier del Paese. Eppure non è tutto oro quel che luccica. Netanyahu, infatti, è il primo premier israeliano in carica a essere formalmente incriminato. Secondo il Post, dei tre capi d'accusa, quello più grave lo vede indagato per corruzione, "avendo favorito l'azionista di maggioranza di Bezeq, la più grande società di telecomunicazioni d'Israele, in cambio di una copertura mediatica favorevole su un popolare sito di news israeliano". E se ciò non ha scoraggiato molti suoi connazionali a votarlo, l'opposizione - guidata da Benjamin Gantz del partito centrista Blu e Bianco, assieme ai laburisti di Avodah e a Nitzan Horowitz, leader di Meretz, partito radicale di sinistra - vorrebbe far passare una legge per congelare l'attuale primo ministro.
  La risposta degli esponenti di destra non s'é fatta attendere. Il ministro della difesa, Naftali Bennett, sostiene che "L'iniziativa di Ahmad Tibi e di Ofer Shelah di far passare la legge per la squalifica di Netanyahu è una manovra estremamente anti-democratica e uno sputo in faccia a metà dell'elettorato israeliano". Viceversa Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv, ritiene che un nuovo mandato a Netanyahu determinerebbe "una disfatta per lo Stato di diritto", una svolta autoritaria che, scrive The Globalist Syndacation, pone "il Parlamento al di sopra della Corte Suprema per consentire al premier di sopravvivere ai propri misfatti". Il processo contro Benjamin Netanyahu inizierà il 17 marzo ed è probabile che durerà diversi mesi.

 Israele oggi
  Come spiegato in un'analisi del settimanale ebraico-statunitense Algemeiner, Israele negli ultimi tre decenni è passata dall'essere uno Stato del Terzo Mondo all'essere una potenza del Primo, venendo riconosciuta come tale tanto dai suoi alleati quanto da coloro che la vorrebbero distrutta. Nessuno si sarebbe mai sognato un simile risultato da una neonata nazione con appena 71 anni di governo. Ma ai benefici economici di questa "startup nation" si affiancano anche i relativi problemi. Alla crescita delle città corrisponde infatti un sistema dei trasporti inefficiente con frequenti intasamenti delle reti stradali urbane. Anche la necessità di ospedali più capienti è il risultato della crescita demografica. Vi è inoltre il disagio sociale per le disuguaglianze salariali: molte persone appartenenti ai ceti più poveri si sentono lasciate indietro. A queste non interessa che lo Stato riesca nel suo intento di attirare grandi aziende high-tech, in grado di rivaleggiare con quelle della Silicon Valley, se sono poi solo quest'ultime ad arricchirsi. Infine con l'accumularsi degli interessi, il mondo della politica viene paralizzato, incapace di portare a termine delle riforme legislative, quindi inadeguato a risolvere i problemi strutturali del Paese.
  Alla risoluzione di queste difficoltà interne, il prossimo governo dovrà coniugare un continuo sviluppo della diplomazia nello scacchiere internazionale, minacciato dalla politica espansionistica del Likud in Cisgiordania, e più precisamente nella Valle del Giordano e nella sponda nord del Mar Morto. Come riportato dal Fatto Quotidiano, infatti, l'attuale esecutivo ha comunicato di voler portare avanti i progetti per la realizzazione di 1.739 nuove case nei Territori occupati". Queste iniziative alimentano i forti contrasti con l'Unione Europea, suo storico alleato, che le considera illegali ai sensi del diritto internazionale. Viceversa c'è un via libera dagli USA che l'anno scorso hanno riconosciuto a Israele la sovranità delle alture del Golan. La questione dei territori non sta tuttavia intaccando i rapporti con i paesi arabi, che al contrario sono in costante miglioramento.

 Gli altri partiti
  Proviamo ora ad analizzare i vari partiti che si sono sfidati. Partendo dal Likud, il partito di Benjamin Netanyahu, che ha ottenuto 4 seggi in più rispetto alle elezioni di settembre, occasione in cui il Likud aveva sorpassato il partito Blu e Bianco del rivale Gantz. Secondo un editoriale di Giovanni Quer, ricercatore italiano che lavora all'Università di Tel Aviv, ciò è dovuto a vari fattori: in primo luogo, il Likud ha fatto molta campagna per convincere gli indecisi nel Sud d'Israele, l'area storicamente più di destra del paese. Inoltre, Netanyahu si è anche rivolto ad alcune minoranze sotto-rappresentate, promettendo loro maggiore sostegno socioeconomico. Oltre agli ultraortodossi che vivono nei territori israeliani, il premier si è rivolto poi agli ebrei di origine etiope, la cui appartenenza al popolo ebraico viene a volte messa in dubbio da molti. A questi, Netanyahu ha promesso che faciliterà i permessi per i loro parenti rimasti in Etiopia per immigrare in Israele. Infine, il premier ha prestato attenzione anche agli arabi israeliani, sostenendo di poter offrire loro quegli aiuti sociali che i politici arabi e la sinistra non riescono a garantirgli.
  Chi invece a destra ha perso voti, sono i partiti nazionalisti Yisrael Beitenu e Yamina, guidati rispettivamente da Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, entrambi con un seggio in meno. Il calo di Lieberman è significativo: egli è di fatto il motivo per cui si continua ad andare alle elezioni, in quanto non vuole più stare in coalizione con Netanyahu. La ragione sta anche nel fatto che, mentre Bennett e molti alleati del primo ministro sono ortodossi, Lieberman è un nazionalista laico, in quanto il suo partito rappresenta soprattutto gli immigrati di origine russa. La maggior parte di essi è conservatrice sul piano politico ma non sul piano religioso e Yisrael Beitenu vuole una separazione netta tra religione e stato. Dopo le elezioni, Lieberman ha persino dato il suo appoggio alla legge contro Netanyahu proposta da Gantz e dalla sinistra.
  Più complesso si fa il discorso per quanto riguarda i partiti di sinistra e di centro: nonostante la crescita di Netanyahu, Gantz non ha perso seggi rispetto alle scorse elezioni. È anzi riuscito a sottrarre ulteriore consenso ai partiti di sinistra tradizionali, la cui coalizione ha perso 3 seggi. Non a caso Gantz si è consolidato nei grandi centri urbani come Tel Aviv e Haifa - da sempre in mano al partito di centro-sinistra Avodah - e nei kibbutzim - villaggi nati con un'impostazione socialista e storico bacino elettorale della sinistra radicale di Meretz. Tuttavia, Gantz ha basato la sua campagna più sugli attacchi contro gli avversari della destra piuttosto che sui contenuti del suo programma, il che gli ha permesso di consolidare la sua base ma non di ampliarla.
  Un risultato degno di menzione è invece quello della Lista Araba Unita, coalizione formata da 3 partiti che rappresentano gli arabi israeliani e dal partito comunista Hadash. Essi hanno guadagnato 2 seggi in più e ciò, secondo il ricercatore Quer, è dovuto sia a un maggiore coinvolgimento degli elettori arabi, sia all'attrazione di alcuni elettori ebrei di estrema sinistra delusi da Meretz.
In conclusione, la coalizione guidata da Netanyahu ha ottenuto in totale 58 seggi, di cui 36 sono andati al Likud, contro i 33 ottenuti da Gantz e i 15 della Lista Araba. Tuttavia, per formare il governo servono almeno 61 seggi, e ciò crea diverse incognite future, anche perché nessuno vuole tornare a votare per la quarta volta in un anno.

(ParmAteneo, 11 marzo 2020)


Dopo tre elezioni, Israele ha bisogno di unità

L'editoriale del Jerusalem Post si fa interprete di un auspicio condiviso da molti israeliani

Unire il popolo ebraico è notoriamente compito assai arduo. Benjamin Netanyahu e Benny Gantz non sono in grado di farlo. Ciò che invece possono fare - anzi, ciò che devono fare per il bene del paese - è dare vita a un governo di unità nazionale.
Il popolo d'Israele ha bisogno di un governo, merita un governo ed è compito dei politici garantirgliene uno. Il paese deve sapere che, in caso di crisi, le decisioni prese dal primo ministro e dal governo saranno oggettive e che qualsiasi questione verrà affrontata senza tener conto di considerazioni elettorali di corto respiro.
Se questo è vero in tempi "normali" quando sono costantemente in agguato dietro l'angolo le crisi della sicurezza, è ancora più vero ora che il coronavirus sta sconvolgendo la vita quotidiana. In questo momento, con una crisi sanitaria ed economica alle porte, se non già dentro casa, il paese deve poter contare sul fatto che la crisi venga gestita indipendentemente da considerazioni politiche. Oltre a tutte le altre preoccupazioni che il virus sta gettando su Israele, la gente non deve avere il dubbio - come hanno alcuni - che Netanyahu stia esagerando l'emergenza allo scopo di dimostrare che in queste circostanze è necessario un leader forte e deciso....

(israele.net, 11 marzo 2020)


Usa. Il paradosso di Sanders, il candidato ebreo anti-israeliano

di Luca D'Ammando

Una nuova cruciale tappa nella corsa delle primarie Usa. Oggi si vota in Idaho, Missouri, Mississippi, North Dakota, Washington e soprattutto Michigan. Ed è il primo appuntamento in cui fronteggiano i due candidati rimasti, Joe Biden e Bernie Sanders (è vero, c'è anche la 38enne deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, ma non ha alcuna chance per la nomination). In ballo ci sono 353 delegati. Da questo mini Super Tuesday si capirà meglio se l'ex vicepresidente Biden ha trovato lo slancio decisivo o se il senatore del Vermont può ancora puntare a essere l'uomo che sfiderà Trump alle presidenziali di novembre. In tal caso Sanders diventerebbe il primo ebreo candidato alla Casa Bianca. Un paradosso.
   Infatti Sanders, la cui famiglia ebrea emigrò negli Stati Uniti dalla Polonia, in questa campagna elettorale non ha risparmiato dichiarazioni allarmanti su Israele e sulla linea politica che intende portare avanti, se mai dovesse diventare presidente degli Stati Uniti. Già prima del voto israeliano ha definito Benjamin Netanyahu un «razzista reazionario» e s'è impegnato «a rivalutare» la decisione di spostare l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme presa da Donald Trump, utilizzando le solite formule ambigue: «Deve essere assicurata l'indipendenza e la sicurezza di Israele, ma non si può ignorare la sofferenza del popolo palestinese». Dichiarazioni definite «scioccanti dal ministro degli Esteri Israel Katz, che ha ricordato come già in un'altra occasione il candidato democratico «abbia parlato contro lo Stato di Israele su temi base del credo e della storia ebraici e della nostra sicurezza. La prima volta aveva parlato di Gaza senza comprenderne la realtà, la minaccia, i razzi e quello che fronteggiamo in quanto attaccati dall'Islam radicale, vuole negarci il diritto all'autodifesa». Ancora più duro era stato l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Dannon: «Chiunque definisca il primo ministro israeliano un "razzista" è un bugiardo, un idiota ignorante o entrambe le cose».
   Nonostante abbia ripetuto più volte di essere «orgoglioso di essere ebreo», il senatore settantottenne, che da giovane ha vissuto alcuni mesi in un kibbutz, fa molto poco per dimostrarlo. Lo scorso mese era stato criticato per la decisione di disertare l'annuale conferenza dell'American Israel Public Affairs Committee (Aipac). Come motivazione, aveva sostenuto che l'associazione appoggia «leader che esprimono intolleranza verso i palestinesi». Ancora più emblematico il manifesto sull'antisemitismo che Sanders ha pubblicato su Jewish Currents lo scorso 11 novembre. Un testo con alcune prese di posizione chiare e molte inesattezze, da cui emergeva soprattutto un silenzio ingiustificabile sull'antisemitismo endemico della sinistra statunitense. I rapporti tra Stati Uniti e Israele sono storicamente un tema centrale delle primarie e poi delle presidenziali statunitensi. Finora in questa sfida democratica la questione è stata poco dibattuta, se non, appunto, da Sanders, il primo ebreo in corsa per la Casa Bianca che non piace a Israele.

(Shalom, 10 marzo 2020)


Coronavirus, Netanyahu dispone la quarantena obbligatoria per chiunque arriverà in Israele

Il premier Netanyahu ha indicato la quarantena obbligatoria come una misura severa, ma adeguata a salvaguardare la salute pubblica

di Gerry FredaMar

 
Aryeh Deri, Ministro dell'Interno israeliano
Il governo israeliano ha deciso di introdurre la quarantena obbligatoria nei riguardi di chiunque metterà piede nel Paese, al fine di prevenire i contagi da coronavirus.
   Lo Stato ebraico ha finora registrato sul proprio territorio nazionale quarantadue casi di Covd-19, ma nessun decesso. Sempre con lo scopo di evitare l'esplosione dell'epidemia, Gerusalemme aveva in precedenza chiuso i confini alle persone provenienti dai Paesi in cui il morbo avanza, tra cui figura soprattutto l'Italia.
   Ad annunciare l'introduzione della quarantena obbligatoria per coloro che arriveranno in Israele dal resto del mondo è stato, ha riportato ieri la Bbc, il premier Netanyahu in persona. Egli, tramite un messaggio pubblicato sui social, ha appunto dichiarato: "Dopo un giorno di riflessioni approfondite, abbiamo finalmente preso questa decisione: chi giungerà nel nostro Paese provenendo dall'estero verrà sottoposto a un isolamento di quattordici giorni".
   Il provvedimento precauzionale è stato poi indicato dallo stesso primo ministro come "una misura severa, ma anche fondamentale per salvaguardare la salute pubblica, poiché quest'ultima viene prima di tutto". Il regolamento appena varato dall'esecutivo israeliano resterà in vigore, precisa l'emittente, per due settimane.
   Ulteriori precisazioni su come verrà attuata tale quarantena sono state fornite dal ministro dell'Interno Aryeh Deri. Egli, citato dal network, ha infatti puntualizzato che la misura prudenziale è immediatamente efficace nei riguardi dei cittadini israeliani residenti all'estero che dovessero rimpatriare.
   Nei riguardi degli stranieri che metteranno piede nello Stato ebraico, invece, l'isolamento obbligatorio sarà attuabile a partire da questo giovedì. Gli stessi, inoltre, una volta arrivati nel Paese mediorientale, dovranno dimostrare alle autorità di Gerusalemme di avere a disposizione, in territorio israeliano, alloggi adeguati per trascorrervi la quarantena.

(il Giornale, 10 marzo 2020)


Rivlin: "Prevalga senso di responsabilità

Serve un governo, non nuove elezioni"

Un giorno per consultare tutti i partiti della Knesset e accelerare così i tempi per affidare l'incarico per la formazione di un nuovo governo a Benjamin Netanyahu o Benny Gantz. Il Presidente d'Israele Reuven Rivlin prova in questo modo a dare un segnale alle forze politiche del paese: serve un governo il prima possibile, a maggior ragione in un momento di emergenza sanitaria globale. In una lettera inviata ai rappresentanti dei partiti, Rivlin ha spiegato: "Israele è in una doppia crisi, politica e sanitaria. Queste circostanze impongono che le consultazioni si svolgano rapidamente". Anche, è stato spiegato, limitando il numero dei partecipanti delle delegazioni.
   In ossequio alle nuove norme dettate dall'infezione da coronavirus (50 i casi confermati nel Paese) non ci saranno conferenze stampa, ma gli incontri con i rappresentanti dei partiti saranno diffuse via web, come già in passato. Per Rivlin la politica deve agire in modo responsabile, mirare a "creare fiducia nell'apparato di governo da parte dei cittadini israeliani e formare un esecutivo il più presto possibile, senza la necessità di una quarta elezione in un anno".

(moked, 10 marzo 2020)


Gantz e Lieberman sempre più vicini, Netanyahu in difficoltà

 
Il leader del partito centrista Blue and White, Benny Gantz, ha incontrato quello del partito nazionalista laico Yisrael Beytenu, Avigdor Lieberman, nel tentativo di formare un nuovo governo di coalizione in Israele. La riunione è stata definita "buona" da entrambe le parti e Gantz ha specificato che i due partiti sono intenzionati seriamente a "cooperare con lo scopo di costruire un governo, portare Israele fuori dalla melma in cui si trova ed evitare nuove elezioni".
   L'incontro, avvenuto lunedì 9 marzo, è giunto in seguito alla decisione del capo di Blue and White di accettare le condizioni avanzate da Lieberman per una sua eventuale partecipazione al governo. Il leader dei nazionalisti laici ha imposto 5 precondizioni, tutte indirizzate ad una secolarizzazione della società, ritenute accettabili da Gantz ma difficili da condividere per il premier Benjamin Netanyahu, a capo di una coalizione di destra dove è forte la presenza dei partiti religiosi. Le richieste di Lieberman riguardano i trasporti, la legge sulla leva degli ortodossi da riprendere alla Knesset, i matrimoni civili e l'allentamento delle attuali norme sulle conversioni, ritenute troppo rigide. "Concordo, andiamo avanti", ha scritto Gantz su Facebook dopo aver valutato le proposte di Lieberman.
   Dopo aver ottenuto l'appoggio dei nazionalisti laici, Gantz ha dunque iniziato a corteggiare i partiti arabi della Joint List. In una dichiarazione indirizzata ai leader Ayman Odeh, Ahmad Tibi e Mansour Abbas, il capo di Blue and White ha affermato che il suo intento è quello di costruire un'amministrazione che funzioni sia per gli ebrei che per gli arabi israeliani. "Voglio prevenire una quarta elezione", ha sottolineato nuovamente Gantz.
   "Ho parlato con Benny Gantz e gli ho chiarito che la Joint List potrebbe lavorare per soddisfare gli interessi di tutti i cittadini", ha invece commentato Odeh. "Siamo impegnati nel nostro obiettivo di sostituire l'eredità del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e inizieremo onorando la voce unita del popolo arabo e dei nostri partner ebrei", ha aggiunto il leader della Joint List.
   Il desiderio di Gantz, Lieberman e della Joint List di rimuovere Netanyahu dalla sua carica potrebbe significare una disfatta per il primo ministro. Insieme, Blue and White e Yisrael Beiteinu possiedono 45 dei 61 seggi del Parlamento israeliano, necessari a formare una coalizione di governo. Supponendo che la lista laburista-Gesher-Meretz si unisca alla coalizione con i suoi 7, Gantz cercherà di avvalersi del sostegno della Joint List, che alle ultime elezioni ha vinto 15 seggi. In ogni caso, si tratterebbe di un governo molto variegato e la stessa inclusione dei partiti arabi potrebbe essere motivo di discordia all'interno della coalizione.
   Alle elezioni del 2 marzo, il Likud ha ottenuto 36 seggi, mentre Blue and White ne ha conquistati 33. Nessuno dei due è stato in grado, ancora una volta, di raggiungere la quota che serve a ricevere il mandato per formare il nuovo governo. In particolare, pur unendosi con la sua coalizione di destra, Netanyahu giunge a quota 58 seggi, un numero di poco inferiore ai 61 richiesti ma comunque insufficiente. Nonostante si tratti delle terze elezioni in un anno per i 6.4 milioni di elettori di Israele, il Paese si trova nuovamente ad un punto di partenza e sono in molti a temere una perdurante fase di stallo. Il partito arrivato terzo, con 15 seggi, è la Joint List.
   Nonostante l'evidente impasse che ancora una volta emerge dai risultati elettorali, Netanyahu ha continuato a rappresentarsi come un vincitore, alla testa di un partito che è "riuscito a mettere ko" tutti gli altri. Interrogato sul fatto che non disponesse ancora una volta della maggioranza necessaria a formare un nuovo governo, il premier israeliano ha preferito non rispondere. Si è poi scagliato contro la Joint List, dicendo che non dovrebbe nemmeno essere presa in considerazione l'ipotesi di integrare l'alleanza araba all'interno dell'esecutivo.
   Il presidente israeliano inizierà presto le consultazioni con i partiti, che esprimeranno ciascuno la propria preferenza in merito a chi dovrebbe guidare il nuovo governo. In genere, al candidato con il maggior numero di preferenze viene chiesto di provare a formare l'esecutivo. Come leader del partito che ha ottenuto più voti, probabilmente toccherà a Netanyahu, anche se, visto come si sono conclusi i precedenti tentativi, non è escluso che la strada da seguire questa volta sia un'altra. La via più semplice per uscire dallo stallo sarebbe un accordo di condivisione del potere tra Gantz e Netanyahu, i cui partiti controllano insieme la maggioranza parlamentare. Il leader di Blue and White, tuttavia, ha escluso una partnership di questo tipo, almeno finché Netanyahu sarà alla guida del Likud. Se nessuno dei due candidati sarà in grado di formare un governo entro il tempo assegnato, ci sarà il rischio che Israele affronti una quarta elezione senza precedenti.

(Sicurezza Internazionale, 10 marzo 2020)



Israele all'Europa: "Collaboriamo per fronteggiare l'emergenza coronavirus"

La proposta del primo ministro Netanyahu ad alcuni leader del Vecchio Continente durante una videoconferenza.

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - Israele invita l'Europa alla collaborazione e all'assistenza internazionale reciproca nel trattare con il coronavirus. Questa mattina, intorno a un tavolo virtuale, si sono riuniti in video conferenza il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e molti leader europei, tra cui il premier italiano Giuseppe Conte. Si è discusso della necessità di assicurare catene di approvvigionamento, di uno scambio di buone pratiche e di cooperazione scientifica e tecnologica. «Migliorare i test è assolutamente fondamentale - ha commentato il premier israeliano al termine della riunione - così come la ricerca di un vaccino. Non si tratta di chi ci arriva prima, ma di come ci arriviamo tutti per primi» e tra gli obiettivi più urgenti c'è lo sviluppo di test domestici per il Covid-19, che siano facili, veloci ed economici quanto un test di gravidanza.
   La Start-Up Nation sta affrontando le sfide di questa crisi sanitaria con gli attributi che il mondo le riconosce: innovazione e "hutzpa", tecnologia e pensiero fuori dagli schemi. Un'ondata di speranza si è propagata attraverso i media e i social all'annuncio, da parte del MIGAL Galilee Research Institute, di un vaccino che potrebbe essere pronto in tre mesi. Fonti ufficiali del ministero della salute e dell'istituto stesso ci tengono a precisare che si tratta di un prototipo e che il processo per arrivare alla produzione richiederebbe come minimo un anno di test e sviluppo.
   E nel frattempo, si chiedono in molti? Nell'attesa di capire se effettivamente il caldo e l'umidità del clima estivo impattino sul virus, indebolendolo, start-up e aziende israeliane stanno proponendo soluzioni che rispondono all'impatto del Covid-19 sulla vita degli individui. Le società BATM e MeMed sono impegnate ad abbattere i tempi e a migliorare la precisione della diagnosi. Il kit di BATM è in grado di rilevare il coronavirus nei campioni di saliva in meno di mezz'ora. La sfida resta renderlo disponibile su larga scala e a un prezzo accessibile. Il test ImmunoXpert di MeMed è già in grado di esaminare un campione di sangue e stabilire, nel giro di due ore, se la malattia è virale o batterica. Il team di scienziati è al lavoro per anticipare alla fase pre-sintomatica l'individuazione dei pazienti infetti. Sul fronte tecnologico, ci sono invenzioni nate per scopi diversi da quelli diventati improvvisamente urgenti oggi ma che si stanno rivelando di grande aiuto. Dalla collaborazione tra l'azienda Soapy e il dipartimento di virologia dell'organizzazione Volcani Center per la ricerca agraria, microstazioni per il lavaggio delle mani già in uso in molti paesi sono state potenziate con un sapone che contiene una sostanza di origine vegetale capace di debellare virus anche più resistenti del Covid-19. Per aumentare l'efficacia della prevenzione, un'interfaccia di visione artificiale controlla che il lavaggio delle mani sia stato eseguito correttamente. I risultati dei test condotti su 72 campioni dimostrano che la combinazione del reagente creato nei laboratori del Volcani con la tecnologia della macchina Soapy è efficace al 100%. Dare alle mascherine di protezione una marcia in più è l'obiettivo dei tessuti antimicrobici sviluppati da Sonovia e da Argaman.
   Anche in questo caso, la ricerca delle due aziende era partita con obiettivi diversi, in campo medico ma anche militare, cosmetico e di prodotti per l'igiene e la pulizia della casa. Sembrerebbe adesso che questi nuovi tessuti riescano a uccidere, non solo bloccare, il coronavirus. Mentre le maschere Bio-Block con i tessuti trattati da Argaman sono già in fase di produzione, laboratori in Cina e Singapore stanno testando il prodotto di Sonovia.

(La Stampa, 10 marzo 2020)



“Apologia dell’ebraismo”

Dante Lattes, Apologia dell’ebraismo, ed. La Zisa, 2011

Dalla quarta pagina di copertina

Quest'opera di Dante Lattes, pubblicata per la prima volta dall'editore Formiggini nel 1923, all'interno di una collana di Apologie, continua ad essere un valido strumento per un primo, esaustivo approccio alla religione e alla cultura ebraica, ancora oggi poco o approssimativamente conosciute in Italia, ma alle quali tutti siamo largamente debitori. Se a ragione l'uomo moderno "non può non dirsi cristiano", non è meno vero che la storia dell'umanità avrebbe preso una strada diversa, e senza dubbio peggiore, senza l'apporto fecondo e determinante del popolo ebraico. Conoscere l'ebraismo è, dunque, necessario per riflettere sulle nostre radici e, nel contempo, valutare se il nostro percorso ha pienamente tenuto conto degli insegnamenti morali e sociali elaborati dalla Chiesa e dalla intellighenzia di Israele.
Dante Lattes (1876-1965), uno dei maggiori rappresentanti dell'ebraismo italiano, è stato scrittore, giornalista ("Il corriere israelitico", "lsrael", ''La Rassegna Mensile di Israel", del quale è stato direttore fino alla morte), traduttore, educatore, rabbino.



Riportiamo l’introduzione al libro fatta dallo stesso Lattes
   
Mentre il mondo si alimenta da secoli dell'idea ebraica, la quale ha permeato di sé le più alte manifestazioni dello spirito e conquistato scuole ed altari, dovrebbe esser superflua un'apologia dell'Ebraismo. L'idea d' Israele non si. affida alle carte incomprese. Essa è da millenni aperta agli uomini di tutte le razze e di tutte le lingue ed è l'humus ideale su cui l'umanità va seminando faticosamente i germi delle sue messi morali. Nessun popolo ormai si sottrae alle sue luci. La Bibbia ebrea e le sue derivazioni sono gli strumenti più puri ed universali dell'educazione umana, la scala delle ascensioni degli uomini. L'apologia dell'ebraismo è stata compiuta dalla storia. Dovette avere una grande bellezza questa idea ebraica se, affidata alle mani di un piccolo ignoto popolo del Mediterraneo, cinto e insidiato dai grandi imperi che confluivano nel suo breve territorio, riuscì a valicare le età antiche, nonostante i pericoli e i traviamenti che ne minacciarono la vita senza tregua; se, nonostante le catastrofi del popolo, resistette fino ai suoi primi trionfi universali ; se, senza ausilio di forze materiali e non accompagnata che da folli apostoli solitari e da martiri, conquistò le genti ; se di tanti conforti, sorrisi e speranze accarezzò gli uomini seminando di fiori e di luci l'aiuola della loro vita ; se al popolo che l'aveva espressa nei tempi eroici e nei tempi drammatici dette così singolar forza di resistenza perché sopportasse il suo martirio millenario ; se ancora, dopo tanti progressi, essa rappresenta nella sua sostanza l'ideale massimo ed immutabile cui tendano gli uomini. L'apologia dell'Ebraismo è scritta dovunque sorga un Tempio od una Chiesa ; sopra ogni altare cristiano, nelle preci alzate a Dio Padre, fra lo splendore dell'arte che glorifica gli eroi dell'idea d'Israele, i suoi padri, i suoi profeti, i suoi apostoli, i suoi martiri ; è impressa nella severità orientale delle moschee in cui si adora l'Iddio universale, immateriale e morale della Bibbia; in tutta la civiltà che non può ignorare questo sole che gli ebrei gettarono nei cieli degli uomini.
   Tutto ciò che nel mondo è morale porta impresso il suggello dell'idea e del travaglio d'Israele. L'umanità non sarebbe quale è se il genio dell'ebraismo non fosse intervenuto a dare un nuovo indirizzo alla sua storia interiore. Da questo segno ebraico la storia morale degli uomini non potrà più liberarsi. Perciò ogni passo che gli uomini fanno verso l'alto è un passo ch'essi fanno verso il concretamento dell'idea ebraica, verso la maturazione del suo germe, verso l'avvento del suo Messia, L'umanità per andare innanzi deve necessariamente muoversi sulla via diritta tracciata dalla creazione del genio d'Israele, deve seguire il suo solco incancellabile. Negarlo è follia, impedirlo è follia. L'idea può risplendere nei cicli o raccogliersi nel sottosuolo, può velarsi per le nebbie che salgon dalle città e dagli alveari umani o alzarsi come faro lungo le strade del progresso, ma non può spegnersi. Nessun altro sole può sostituirsi a questo sole. L'apologia di quest'idea è perciò l'apologia dell'ideale umano, di quanto v'ha di sacro, di puro, di grande nei nostri sogni e nelle nostre volontà ; di quanto vuol essere attuato per la pace del mondo, nella vita di ciascun uomo e nella vita di tutti gli uomini; di quello che non è ancora raggiunto ma dev'essere raggiunto.
   Non è la glorificazione dell'idea d'una gente quella che noi facciamo, né della dottrina di una chiesa. Israele è sopra alle genti e alle chiese, perché ha voluto avere per orizzonte l'umanità piantata in questa terra da cui deve trarre il pane e protesa coll'anima verso l'eternità delle generazioni innumerevoli, sotto il cielo severo e clemente in cui posa il suo capo.
   Far l'apologia dell'idea ebraica non vuol dire cancellar dalla storia gli errori, le cadute, le colpe tra cui gli uomini ebrei passarono, né le conquiste o le benemerenze che nella storia religiosa ed etica dell'umanità spettano anche ad altre genti. Israele riconosce d'aver avuto tra gli uomini collaboratori e discepoli, fors'anche maestri ; ed apprezza le fatiche di quanti, uomini o chiese, profeti o filosofi, santi o martiri, geni o folle, han santificato nel mondo, inconsapevolmente, per grazia divina, il suo ideale, cioè il suo Dio che è Dio degli uomini.

(Notizie su Israele, 10 marzo 2020)


Visitare Gerusalemme con la realtà aumentata: il tour diventa un'avventura

di Serena Console

Per far fronte all'emergenza coronavirus, il turismo religioso a Gerusalemme diventa anche virtuale. Con 'The Holy City', il gioco dalla realtà aumentata, i partecipanti possono accedere ai luoghi sacri della città durante la celebrazione delle festività religiose cristiane, musulmane ed ebraiche, affrontando diverse sfide. Il progetto inizialmente era stato pensato come proposta turistica, ma di fronte all'epidemia di Covid-19 ha assunto un valore diverso: permetterebbe di conoscere la storia e la vita religiosa della città Santa anche nel caso in cui i grandi raduni venissero vietati come misura precauzionale.

(La Stampa, 9 marzo 2020)


Olio extravergine: in Israele le selezioni con 31 aziende

Sono iniziate sabato a Zichron Yaakov, a pochi chilometri da Tel Aviv, le selezioni delle 31 aziende iscritte al Sirena d'Oro per partecipare alla sezione speciale dedicata ad Israele. Il panel di assaggiatori è guidato dal direttore dell'Israel Olive Oil Council, Uri Yogev.
   "Auguriamo buon lavoro agli amici israeliani - ha commentato l'assessore all'Agricoltura del Comune di Sorrento, Lorenzo Fiorentino - L'emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci ha impedito di essere presenti all'evento, ma seguiamo con interesse e partecipazione il lavoro degli assaggiatori che selezionerà il miglior olio della sezione speciale istituita nell'ambito del Sirena d'Oro e inviamo il nostro saluto al direttore Uri Yogev".
   Il Sirena d'Oro, giunto alla 18ma edizione è dedicato agli oli extravergine di oliva a Denominazione di Origine Protetta, Indicazione Geografica Protetta e da Agricoltura Biologica di produzione Italiana, ed è promosso dal Comune di Sorrento e dalla Coldiretti Campania, con il patrocinio di Unioncamere Campania, in collaborazione con Associazione Oleum, Gal Terra Protetta, Associazione Aprol Campania, Unaprol e Associazione Nazionale Donne dell'Olio.

(Italia Israele Today, 9 marzo 2020)



Quarantena per chiunque entri in Israele

La proposta al vaglio del governo

 
Aeroporto internazionale Ben Gurion
Israele potrebbe presto chiedere a chiunque arrivi nel paese di porsi in una quarantena di 14 giorni. Senza distinzione rispetto alla nazione da cui si arriva. "Non stiamo parlando di chiudere i nostri confini, ma di quarantena per chi viene dall'estero", ha chiarito il Primo ministro Benjamin Netanyahu nelle scorse ore. Israele sta già mettendo in quarantena o rifiutando l'ingresso a persone che arrivano da un gran numero di paesi europei (tra cui l'Italia) e asiatici e la nuova misura al vaglio costituirebbe un ulteriore passo per fermare il più possibile il contagio; ma bloccherebbe del tutto il turismo e avrebbe ripercussioni pesanti sul fronte economico. "Ci sono cose che dobbiamo considerare, compresa l'economia, ma l'economia non è la questione decisiva. Lo è la salute pubblica", ha dichiarato in conferenza stampa il ministro della Sanità Yakov Litzman. Secondo il direttore generale del ministero, Moshe Bar Siman-Tov, gli israeliani devono prepararsi a un peggioramento della situazione - il paese al momento conta 39 contagi - ma che le severe misure adottate dal paese in queste settimane hanno permesso di salvare delle vite.
   Rispetto alla situazione sociale, il politologo Yonatan Freeman, esperto di preparazione alle emergenze all'Università Ebraica di Gerusalemme, intervistato dal Times Of Israel sostiene che Israele sia "uno dei posti migliori, o il posto migliore, per essere in una situazione di emergenza, compreso il coronavirus". Nella sua analisi, Freeman spiega che la rapida risposta di Israele al coronavirus ha permesso ai funzionari statali di preparare l'economia, le istituzioni mediche e militari agli effetti del contagio. Secondo lui l'opinione pubblica israeliana, nonostante le sue divisioni - esplicitate in modo significativo alle ultime elezioni, da cui non è emerso nessun vero vincitore - ha fiducia nelle autorità politiche di fronte a questa emergenza. "Un fatto importante è che quando si tratta del benessere delle persone, abbiamo fiducia nel governo e confidiamo che se succede qualcosa aiuterà la gente". Governo che al momento è provvisorio poiché dal 2 marzo non è uscita una maggioranza chiara: né Netanyahu né Gantz hanno al momento i numeri per governare da soli e - con l'emergenza a complicare la situazione - le prossime settimane saranno decisive.

(moked, 9 marzo 2020)


Netanyahu chiede il rinvio dell'apertura del processo per corruzione

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, impegnato nei negoziati per formare un nuovo governo nel suo Paese, ha chiesto il rinvio del suo processo per corruzione che dovrebbe iniziare il 17 marzo, affermando di non avere avuto accesso a determinati documenti dell'inchiesta. Gli avvocati del primo ministro israeliano hanno inviato una lettera alla corte di Gerusalemme chiedendo un rinvio di 45 giorni dell'apertura del processo. Netanyahu, unico capo di governo nella storia di Israele ad essere accusato durante il suo mandato, è sotto inchiesta per corruzione e appropriazione indebita. Contrariamente a quanto previsto per i ministri, la legge israeliana non impedisce a un capo di governo indagato di rimanere in carica. Il premier, però, non può contare su alcuna immunità davanti alla giustizia. Netanyahu proclama la sua innocenza e afferma di essere vittima di una "caccia alle streghe" da parte della giustizia penale e dei media. La data prevista per l'apertura del suo processo coincide con la scadenza entro la quale il presidente Reuven Rivlin deve designare il responsabile della formazione del governo.

(QdS, 9 marzo 2020)


«Solo 5 i letti in rianimazione. La Lombardia ora imiti Israele»

La ricetta di Mairov: «Raddoppiare la capienza usando i sotterranei, svuotare i reparti e assistenza domiciliare. Avete tanti medici bravi, però gli ospedali non sono digitalizzati. I non gravi vanno dimessi e seguiti a casa con le telecamere».

399
I ricoverati in terapia intensiva negli ospedali lombardi per Coronavirus, sono aumentati di 40 unità in un giorno. I ricoverati per la stessa causa ma non in terapia intensiva sono in totale 2.211, più 556 rispetto al giorno prima.
45%
Quasi la metà dei ricoverati in Lombardia in terapia intensiva ha meno di 65 anni. Significa che molti sono i pazienti non anziani affetti da patologie gravi causate dal Coronavirus e che necessitano di cure d'urgenza.
+133
Il numero dei morti in regione è aumentato in sole 24 ore di ben 133 unità, portando il totale dei decessi a 251. Le persone guarite e dimesse sono salite a 550, con un incremento in un giorno di 26. Alcune di loro terminano l'isolamento a casa.

di Gian Micalessin

Il dottor Enrico Mairov
«Ancora cinque posti letto in tutta la Regione, fra poco dovremo a smistare pazienti nelle altre regioni». Il grido d'allarme, secondo fonti de il Giornale si diffonde nel pomeriggio di sabato e in breve fa il giro di tutti i reparti di terapia intensiva della Lombardia. Reparti dove medici e infermieri allo stremo affrontano anche una possibile carenza di mascherine e farmaci. Tre settimane di emergenza sembrano dunque aver messo alle strette un servizio sanitario considerato l'eccellenza del paese. Come mai? Il dottor Enrico Mairov mi guarda e sorride. «Semplice perché avete medici bravissimi, infermieri capacissimi e strutture eccellenti, ma vi mancano preparazione, addestramento e mentalità ovvero le condizioni indispensabili per affrontare le emergenze».
   Il dottor Enrico Mairov bulgaro di nascita, israeliano per religione e storia personale, italiano d'adozione dopo le nozze con un'italiana parla con cognizione di causa. Dopo essersi laureato in Italia e aver combattuto come ufficiale medico tra le fila di Sayeret Matkal, l'unità d'eccellenza delle forze speciali israeliane, è diventato il capo progetto per la gestione delle grandi emergenze nello Stato ebraico. Una carriera proseguita in Italia all'interno del 118 lombardo dove fino al pensionamento dello scorso novembre, ha continuato a dedicarsi alle emergenze. «Se una situazione del genere si verificasse in Israele - spiega Mairov - la risolveremmo in tre ore con due mosse programmate da tempo. La prima è il raddoppio della capacità dei principali ospedali. La seconda è lo svuotamento dei reparti e il trasferimento dei pazienti all'assistenza domiciliare. Ma questi due obiettivi richiedono una programmazione e una mentalità abituata alle emergenze. Dopo l'esame degli errori della guerra del Kippur (1973, ndr) Israele ha rivisto prima il sistema sanitario militare e poi quello civile. Oggi a fronte di poco più di 9 milioni di abitanti, contro i 10 della Lombardia, abbiamo nove grandi centri medici capaci di raddoppiare i propri posti letto attraverso una trasformazione dei piani sotterranei adibiti a mense o magazzini. Questo è stato sperimentato con successo nel 2006 quando Haifa si ritrovò sotto i missili di Hezbollah».
   Ma l'altra grande innovazione - che Mairov sostiene di aver inutilmente tentato di esportare in Italia - è la capacità di dimettere i pazienti in tempi brevissimi per poi seguirli a casa attraverso la telemedicina. «In Italia disponete dai tre ai cinque posti letto per mille abitanti contro l'appena 1,5 per mille di Israele. Questo perché avete tanti medici bravi, ma una scarsa digitalizzazione. Anche in situazioni normali gli ospedali israeliani dimettono i pazienti e li affidano a 4 grandi aziende socio sanitarie, equivalenti alle vostre vecchie Usl, che li prendono in carico e li seguono a domicilio. In cambio di un abbonamento che va dai quaranta agli ottanta euro mensili i malati ricevono un modem collegato non ai telefonini, difficili da usare per gli anziani, ma ai televisori. E nelle abitazioni vengono installate telecamere in tutti i principali locali. A quel punto i pazienti vengono seguiti da presidi medici che li tengono sotto controllo 24 ore su 24. Un medico e pochi infermieri possono monitorare i parametri vitali di decine di pazienti, chiamarli per avere informazioni in caso d'incidenti banali come una caduta in casa o inviare un'auto medica nel caso d'improvviso aggravamento. Così i pazienti si sentono più seguiti che all'ospedale e sono felicissimi di poter starsene a casa loro».
   Ma un sistema del genere secondo Mairov esige innanzitutto una politica all'altezza. «Il sistema socio sanitario è per una nazione l'equivalente di esercito o polizia. Quelli la difendono dai nemici esterni ed interni, la sanità dalle malattie. Ma tutti e tre esigono una leadership capace di decidere. Noi abbiamo avuto leader come Dayan, Rabin e Sharon formatisi sui campi di battaglia e abituati a comandare. Voi avete formato dei medici bravissimi, ma vi manca una politica in grado di decidere».

(il Giornale, 9 marzo 2020)


I Guardiani della Memoria. "Fermiamo la profanazione dei cimiteri ebraici''

Gruppi di volontari sorvegliano le tombe in Alsazia, culla storica del giudaismo, dopo i 50 episodi di vandalismo del 2019.

di Adam Nossiter (da The New York Times)

WESTHOFFEN (Francia) - Alcune delle lapidi dimenticate, nel vecchio cimitero ebraico, appaiono sospettosamente pulite: è stato necessario sfregare con vigore per rimuovere le svastiche. Lo scempio delle tombe avvenuto in dicembre nel cimitero di Westhoffen; un sonnacchioso paesino dell'Alsazia, non è un caso isolato. Nelle campagne alsaziane, in assenza di ebrei reali, le loro sepolture sono diventate un facile bersaglio in una regione che ha un rapporto difficile con il suo passato dei tempi della guerra, e una marcata tendenza a votare a destra.
   Lo scorso anno ci sono stati 50 episodi simili contro gli ebrei in Alsazia. culla storica del giudaismo francese. dove la presenza degli ebrei risale al Medioevo. Cimiteri, scuole e muri delle case in molti paesini sono stati ricoperti di svastiche o criptici riferimenti al Terzo Reich. Nel cimitero di Westhoffen sono state profanate 107 lapidi; in un altro cimitero a Quatzenheim altre 96.
   Ottant'anni fa l'Alsazia fu annessa alla Germania nazista e i funzionari locali durante la guerra eseguivano gli ordini dei nazisti. La svastica era dappertutto. Gli ebrei venivano espulsi, deportati e uccisi, Ma le autorità locali dei giorni nostri hanno trovato intollerabile l'immagine di antiche lapidi ebraiche nella Francia contemporanea deturpate con il simbolo nazista e hanno adottato una misura inconsueta; organizzare volontari per pattugliare i cimiteri ebraici a rischio nelle campagne della regione, proteggendo alcune di queste vestigia dimenticate di un'epoca in cui gli ebrei, esclusi dalla città, furono costretti a insediarsi e prosperare nelle campagne. I volontari sono 20: insegnanti in pensione, agricoltori, casalinghe e studenti. Il fatto che nessuno di loro sia ebreo accentua il simbolismo interreligioso. Ognuno di loro è equipaggiato con un grosso tesserino su cui c'è scritto "Guardiani della Memoria". «Di fronte ad atti del genere, per me è importante non semplicemente dire qualcosa, ma fare qualcosa, agire concretamente per combattere questo fenomeno, cercare di fermarlo e far passare il messaggio che azioni simili in realtà rafforzano la società civile», dice Axel Imhof pastore protestante 28enne che si è registrato come Guardiano della Memoria nel suo paesino, Laterbourg.
   Anche prima dell'imprimatur ufficiale, alcuni dei Guardiani, che in alcuni casi vivono in prossimità dei cimiteri, li stavano già tenendo d'occhio. «Avevo amici i cui genitori non erano tornati» dopo la fine della guerra, dice Lise Tornare, 75 anni, spiegando perché lei e suo marito Robert si sono impegnati a proteggere il cimitero ebraico vecchio di due secoli sotto casa loro a Wintzenheim, vicino a Colmar.
   Queste ronde sono uno sforzo simbolico. Nessuno pretende di sostenere che i volontari riusciranno a impedire prossima "profanazione", come vengono definiti questi episodi ricorrenti. Alcuni di questi vecchi cimiteri vulnerabili sono isolati tra i boschi alsaziani e le autorità non hanno mai trovato i responsabili. «C'è silenzio tra la popolazione circostante», dice Freddy Raphaél dell'Università di Strasburgo, il decano degli storici del giudaismo alsaziano. «Non è possibile che in un paesino succeda una cosa del genere senza che nessuno ne sappia nulla. È un silenzio che paragono, purtroppo, al silenzio che ci fu quando gli ebrei furono cacciati, nel 1940».
   I funzionari dicono che l'antisemitismo non è più una minaccia significativa in Alsazia. Gli ebrei non ne sono così sicuri. «Di certo è presente nella regione», dice Francine Weill, che ha parenti sepolti nel cimitero di Westhoffen. Fa scorrere lo sguardo sulle tombe ripulite di recente, una pendice di lapidi che si estende fino ai vigneti oltre il paese. I vialetti di erba alta e le file di lapidi trascurate, con il rivestimento di pietra chiazzato di muschi e licheni, sono il segno dei mondo perduto degli ebrei da queste parti.
   Francine racconta che ai suoi nonni diedero un'ora per lasciare la loro casa, nel luglio del 1940. Maurice Dahan, presidente di un'organizzazione della comunità ebraica nella zona di Strasburgo, dice che il problema deriva in parte dal fatto che «dopo la guerra la nostra regione non ha fatto i conti con il suo passato», in particolare il ruolo di quelli che avevano combattuto per i tedeschi. Inoltre, gli ebrei sopravvissuti che tornarono dopo il 1945 scoprirono che i loro ex vicini non intendevano rinunciare agli appartamenti e alla mobilia che avevano confiscato con l'aiuto dei tedeschi, dice Raphaél. I ricordi di quella storia rendono ancora più doloroso quanto succede.
   Al primo turno delle presidenziali nel 2017 l'estrema destra del Fronte nazionale aveva fatto man bassa nelle campagne alsaziane, rendendo le autorità locali sensibili al «difficile rapporto» che la regione ha avuto storicamente con i suoi ebrei, come dice Raphaél, Organizzazioni estremiste e suprematiste affiorano regolarmente da queste parti e ci sono stati raduni dell'estrema destra a Strasburgo; I funzionari che organizzano i Guardiani della Memoria e i volontari stessi non vogliono «che si pensi che l'Alsazia sia solo questo», cioè gli attacchi contro i cimiteri, dice Philippe Ichter, funzionario regionale che ha contribuito a organizzare la mobilitazione. «È un atto di resistenza», dice Ichter. «Il momento è serio. Ma possiamo impegnarci».

(la Repubblica, 9 marzo 2020 - trad. di Fabio Galimberti)


Hunters, la caccia ai nazisti che indigna anche gli ebrei

Nella discussa serie, una scacchiera dove le pedine sono i deportati: le SS sparano ai "pezzi" che vengono mangiati. Critiche da Auschwitz. Memorial: ''Così si fa il gioco dei negazionisti".

La storia distopica
Il racconto del complotto per destabilizzare la democrazia e instaurare il Quarto Reich negli Stati Uniti d'America
Giustizia o vendetta
Il cacciatore Wiesenthal e il miliardario 0ffermann hanno fini diversi: il secondo vuole uccidere chi cattura

di Leonardo Coen

 
"Oh, finalmente ho il modo di vedere la tua piccola banda alla luce del giorno!", esclama sardonico il celebre ed implacabile cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal accogliendo nel suo ufficio di New York, con ostentata riluttanza, Meyer Offermann, il miliardario ebreo che pure lui si è votato alla caccia dei nazisti, ma con un solo obiettivo: la vendetta. Ossia la liquidazione della preda.
   È il luglio del 1977. Il contesto storico in cui si sviluppa la prima stagione di Hunters, la discussa serie appena uscita sulla piattaforma di Amazon Prime. Nella fiction scritta da David Weil, l'incontro tra i due cacciatori di nazisti avviene quasi alla fine, all'ottava puntata. Sappiamo che c'è un complotto per destabilizzare la democrazia ed instaurare il Quarto Reich, grazie al fatto che le autorità Usa hanno portato in America nel dopoguerra spie, scienziati, ingegneri, medici nazisti, dandogli nuove identità ed inserendoli sino ai vertici del Paese.
   Dunque, lo spettatore è portato a stare dalla parte di Offermann e dei suoi compagni, "siamo in guerra e in guerra le regole saltano". Il giovane co-protagonista Jonah, a cui i nazisti hanno ammazzato la nonna, è però attraversato da dubbi, almeno all'inizio, mentre all'ottava puntata, dopo varie vicissitudini, è diventato più determinato e furente dello stesso Offermann.
Ed è proprio nell'incontro con Simon Wiesenthal che affiora la sottotraccia ideologica della storia. Wiesenthal e Offermann, interpretato da Al Pacino, sono sullo stesso fronte ma divisi da un dissidio profondo, squassante. Nella cultura ebraica, lo spirito di vendetta e rappresaglia è molto forte. Ancora oggi, gran parte degli ebrei pensa sia stato giusto braccare i criminali nazisti e sia un dovere continuare a farlo nei confronti dei loro epigoni. Il nazismo è sempre in agguato. Va combattuto senza pietà, è il credo di Offermann. Il quale, a differenza di Wiesenthal, i nazisti che cattura non li consegna alla giustizia. Li giustizia. È un dilemma squassante quello sempiterno che sancisce la differenza fra giustizia e vendetta. Sono i limiti in cui si intrecciano morale e giurisprudenza.
   In Hunters il tema è spiazzante. Fin da subito lo spettatore vacilla sotto i colpi bassi e scorretti della regia. Pigliamo per esempio la stessa sigla. Si vede una scacchiera. Come pedine bianche, gli Hunters, come pedine nere, i nazisti. Bianchi i buoni. Neri, i cattivi. I mostri.
   Nella prima puntata, infatti, la scacchiera diventa emblematico supplizio. In un flashback rigorosamente in bianco e nero, per distinguere il passato (la Shoah), dal presente (il thriller), scorgiamo, in una radura poco fuori le baracche del lager, la scacchiera. Dove le pedine sono umane. Sono i deportati di Auschwitz. Ogni volta che un pezzo viene catturato, le Ss sparano ed uccidono. Una pura invenzione che ha indignato parecchie associazioni ebraiche, a cominciare da Auschwitz Memorial. Quei luoghi, ha sottolineato in un tweet, sono intrisi di sofferenze e dolori e sopraffazioni e morte ben documentati dai sopravvissuti, inventare una perversione che non c'è stata può fare solo il gioco dei negazionisti. Weil ha risposto alle critiche dicendo che non era sua intenzione fare un docufilm, ma rappresentare il sadismo e la ferocia dei nazisti nei confronti delle vittime. Altrimenti, se ne perde la memoria, e il senso: "Il più grande dono degli ebrei - dice Offermann - è la nostra capacità mnemonica". Come dire: non dobbiamo mai dimenticare. Mai. In America, il problema è all'ordine del giorno: i giovani hanno scarsa coscienza di ciò che è stato.
Però, nell'ottava puntata - non a caso intitolata "la questione ebraica" - la sceneggiatura cerca di riequilibrare gli scompensi narrativi, sino a quel momento squilibrati a favore del biblico monito "occhio per occhio". Come a far capire che il nitido schema dei buoni contro i cattivi, non è poi così netto, al contrario mostra ampi squarci di opacità. Il dialogo fra Offermann e Wiesenthal ne è la prova, quasi didascalica.
   Così, al saluto ostile di Simon, Meyer risponde provocatorio: "Mandiamo uomini e donne responsabili dell'omicidio della nostra gente a conoscere il Creatore...".
   "Davanti a quale tribunale? Davanti a quale giuria?", lo incalza Wiesenthal.
   "Davanti a una giuria di sei milioni di ebrei che reclamano dalle loro tombe giustizia. Li senti gridare, Simon?".
   "Ho dedicato la mia vita a trovare compensazione per le loro proteste. Ma noi dobbiamo essere consacrati ad una legge superiore. Il cacciatore di nazisti è il culmine del nostro popolo ma questa è una professione di angeli, amico mio. Gli angeli non si sporcano le ali di sangue".
   "Ma forse l'era degli angeli è finita".
   "Uccidi queste persone a sangue freddo, Meyer"
   "Puoi scommetterci".
   "E questo è ebreo?"
   "Mi chiedi cos'è ebreo. Mosè, Esther, Giuda. I nostri avi, che si sono battuti per il loro diritto di esistere, come facciamo noi. Ma quello che non è ebreo, che non può più essere ebreo, è permettere a questi assassini di colpire ancora. Se facciamo a modo tuo, Simon, estirperanno gli ebrei ancora prima che possiamo provare a dar loro battaglia".
   "Sì, ma Meyer, se facciamo a modo tuo a scapito dei nostri principi, che sono ciò che ci definisce, allora noi ebrei ci estirperemo da soli, smetteremo di essere ebrei. Diventeremo un altra creatura... dei Golem magari".
In fondo, Wiesenthal è il vero Hunter, al quale David Klein, si è ispirato, ma dal quale ha preso un certo distacco. Sullo sfondo di una New York del1977 che ha "tagli" di fumetti, pulp e West Side Story, i cacciatori dei nazisti sembrano una squadra di supereroi Marvel declinati in ebraico, sollecitati dal miliardario scampato ad Auschwitz che vuole stroncare il piano dei nazisti e dei loro complici statunitensi. La storia inziga, l'argomento "tira": i nazisti che tramano all'ombra delle democrazie sono sempre attuali e le loro storie molto seguite. Ucciderli è mitzvah, è meritevole, ripete Offermann, il messaggio è plateale e anche la spettacolarizzazione della Shoah, altra grande (ingiusta) accusa, è sopportabile. Grazie ad una regia furba e sapiente che mixa stili, linguaggi e convenzioni narrative degli Anni Settanta con quelli delle serie tv di questi ultimi anni, si arano i terreni angosciosi dell'etica e della politica.

(il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2020)


Il coronavirus in Iran è il sintomo di un declino che porterà al crollo del regime

La Repubblica islamica ha condannato il paese alla stagnazione economica e culturale. Ma non si vede un'alternativa all'orizzonte.

Scrive il Wall Strect Journal (1/3)

Dopo la Cina, l'Iran è il luogo in cui il coronavirus ha avuto l'impatto maggiore", scrive Robert D. Kaplan sul Wall Street Journal: "Le autorità hanno confermato che almeno 54 persone, tra cui un ex ambasciatore 81enne, sono morte a causa dell'epidemia. Il numero reale di vittime potrebbe essere molto più alto. L'edizione persiana della Bbc ha contato 210 vittime negli ospedali. Sette importanti uomini di stato hanno contratto la malattia, tra cui la vice presidente Masoumeh Ebtekar, che da giovane è stata la portavoce del gruppo terroristico che ha tenuto in ostaggio i funzionari dell'ambasciata americana a Teheran. Il viceministro della Salute Iraj Harirchi sudava il 24 febbraio mentre rassicurava i cittadini che l'epidemia era sotto controllo. Il giorno dopo ha annunciato di avere contratto anche lui la malattia. Il presidente Hassan Rouhani ha insistito nel sostenere che l'epidemia non è altro che 'uno dei complotti orditi dal nemico'. Nel frattempo, i cittadini hanno reagito con grande apatia. L'affluenza nelle elezioni parlamentari di febbraio è stata del 25 per cento a livello nazionale e del 43 a Teheran, i numeri più bassi nella storia della Repubblica islamica.
   Questi sono i sintomi di un malessere più diffuso. L'Iran è stato lasciato indietro dal progresso globale degli ultimi decenni, malgrado alcune condizioni favorevoli che ne avrebbero dovuto incoraggiare il successo. Il paese occupa una posizione strategica in Eurasia e ha una popolazione istruita di 85 milioni di abitanti. Forse la più grande tragedia culturale, economica e geopolitica della nostra epoca è la quasi assenza della nazione iraniana in un mondo adatto alle sue caratteristiche. La storia spesso viene determinata dalle circostanze. Negli anni Settanta lo scià Mohammad Reza Pahlavi aveva il cancro, che lo rese meno lucido ed efficace. Il presidente Jimmy Carter era solito titubare e fraintese le intenzioni del movimento clericale iraniano. L'allora vicepresidente iracheno Saddam Hussein espulse l'Ayatollah Ruhollah Khomeini dalla città santa sciita di Najaf, costringendolo all'esilio a Parigi da cui Khomeini radunò le masse di fedeli e sedusse i media occidentali.
   Senza queste congiunture, l'Iran oggi potrebbe assomigliare alla Corea del sud - una potenza economica vibrante e all'avanguardia della globalizzazione. I Pahlavi avrebbero potuto essere gradualmente retrocessi da sovrani assoluti a monarchi costituzionali. Invece, l'Iran è andato indietro politicamente ed economicamente. Nel 1977 l'economia iraniana valeva il 26 per cento in più di quella turca, il 65 per cento in più di quella sudcoreana ed era cinque volte più grande di quella vietnamita. Nel 2017, prima che fossero imposte le sanzioni dell'Amministrazione Trump, l'economia turca era 2,5 volte maggiore di quella iraniana, quella sudcoreana era sette volte più grande, e il divario con il Vietnam si era ridotto dal 70 al 20 per cento. Non ostante la povertà sia calata in Iran, il 40 per cento della popolazione continua a guadagnare meno di 10 dollari al giorno. Cosa è andato storto? 'Le politiche del governo per promuovere lo sviluppo industriale avrebbero sfruttato il potenziale di una popolazione giovane e istruita', spiega l'analista Nadereh Chamlou. 'Una politica estera orientata verso l'integrazione globale e regionale avrebbe consentito all'Iran di beneficiare della sua posizione geografica unica'. Il paese avrebbe dovuto sfruttare la cooperazione strategica con Israele mantenendo allo stesso tempo un buon rapporto con l'Arabia saudita e il mondo arabo sunnita. Anche i leader delle ex repubbliche sovietiche sarebbero molto attratti dall'Iran se non fosse per la sua arretratezza e l'estrema religiosità. Invece, la Repubblica islamica è una nazione isolata e pauperista. I suoi unici alleati in medio oriente sono le milizie assassine che sostiene in vari stati oltre al regime di Bashar Assad in Siria. Paesi arabi come l'Egitto e l'Arabia saudita - non l'Iran - hanno stipulato degli accordi sulla sicurezza con Israele, nonostante i persiani abbiano avuto dei migliori rapporti con gli ebrei per millenni. Allo stesso tempo, il regime clericale si è impegnato a oscurare la memoria della vecchia Persia - che ha preceduto l'islam di oltre un secolo - riducendo una civiltà ricca a Lumpenproletariat. La teocrazia ha anche alimentato il cinismo verso la religione. Le folle si radunano a Shiraz per rendere omaggio alla tomba di Hafez, il poeta del vino e del romanticismo. Molte librerie conservano i suoi libri, un simbolo di resistenza silenziosa alle autorità islamiche. In Iran una struttura di potere burocratica - quella dello scià - ha dato vita a un altro regime, quello dei chierici. Ma la rivoluzione iraniana è in una fase decadente. Come l'Unione sovietica in epoca brezneviana, il regime appare stabile eppure viene percepito come illegittimo dalla popolazione, e dunque rischia di sfaldarsi, comportando delle conseguenze disastrose.
   Il crollo sovietico sotto Mikhail Gorbaciov ha condotto a una rivolta sociale ed economica, suscitando dei violenti conflitti etnici nella periferia dell'Impero russo e il ritorno di una dittatura guidata da Vladimir Putin. La nascita spontanea di un ordine costituzionale potrebbe essere una speranza eccessiva per l'Iran. Il crollo del regime potrebbe dare vita a un sistema di governo ancora più autoritario guidato dalle Guardie rivoluzionarie, dato che la società civile è stata decimata nel corso degli anni. L'Amministrazione Trump cerca di mettere in ginocchio l'Iran, ma dovrà pensare a ciò che verrà dopo. Con un'economia in calo, un'epidemia dilagante e un leader anziano, l'Iran nei prossimi anni promette di essere sempre più interessante e pericoloso".

(Il Foglio, 9 marzo 2020 - trad. Gregorio Sorgi)


Israele: è di nuovo stallo politico

di Ugo Volli

La situazione politica in Israele si ingarbuglia di nuovo. Per capire quel che succede bastano pochi numeri. I membri del parlamento sono 120 (maggioranza 61). Il blocco di centrodestra ha 58 eletti, quello di centrosinistra 40. La lista antisionista e sostenitrice della "resistenza", cioè del terrorismo (votata in maggioranza dagli arabi, ma anche da ebrei che sono contrari al progetto dello stato nazionale ebraico) ne ha 15. Lieberman che è uscito dallo schieramento di destra per odio contro Netanyahu, 7. Gli ultimi tre numeri non si possono sommare per formare un governo, dato che Lieberman e gli "arabi" si sono dichiarati reciprocamente incompatibili. Ma sono uniti, anche al resto del centrosinistra, dall'odio per Netanyahu. E in effetti la sola proposta comune che hanno in questo momento è una legge per squalificare i deputati rinviati a giudizio dalla candidatura a primo ministro. Al momento ce n'è uno solo, Netanyahu; Gantz è indiziato di gestione fraudolenta della sua azienda, ma non è stato (ancora) rinviato a giudizio. Questa legge è uno schiaffo in faccia alla maggioranza di chi aderisce al progetto sionista (escludendo i 15 "arabi": 58 contro 47) che ha votato per Netanyahu e praticamente il suicidio per Gantz. Infatti o il Likud deciderà per un altro candidato, cui Lieberman non potrà dire di no, e i bianco azzurri andranno all'opposizione, probabilmente destinati a sfasciarsi. Oppure si andrà alle quarte elezioni e la destra avrà buon gioco nel far pagare ai Bianco Azzurri la slealtà di un provvedimento di interdizione mai proposto in campagna elettorale e contrario alle scelte dell'elettorato. Mentre Israele ha da affrontare una situazione internazionale difficile e anche i problemi dell'epidemia, l'odio personale danneggia il paese e anche chi se ne lascia ottusamente guidare.

(Shalom, 8 marzo 2020)


*


Israele, tra ingovernabilità e guai giudiziari di Netanyahu

Analisi a breve termine di una situazione di stallo e carica di incognite

di Claudio Vercelli

Benjamin Netanyahu ha vinto ma lo stallo permane. Un po' come dirsi che si è di nuovo ai blocchi di partenza. La qual cosa non promette bene in alcun modo poiché, a questo punto, la tentazione di forzare la situazione potrebbe prendere la mano ad una parte dei protagonisti. Sta di fatto che continuando a ripetere con costante maniacalità sempre lo stesso schema - ovvero, ricerca di una maggioranza politica, conseguente stallo parlamentare, decorrenza dei termini per la formazione dell'esecutivo, rinvio alle urne, votazioni e poi di nuovo tutto daccapo - il rischio che il gioco elettorale venga percepito in maniera crescente come una farsa, ossia come una simulazione fine a se stessa, diventi concreto. Fermo restando che i problemi non si riducono solo a quest'ultimo aspetto, trattandosi semmai del caso per cui Israele non ha un esecutivo nel pieno dei suoi poteri da, oramai, più di un anno. Non è il primo caso al mondo (si pensi al Belgio, per fare un esempio) e non è neanche detto che tutto il male venga per nuocere. Ma non si può pensare di andare avanti ancora per molto in questi termini, poiché è l'intero sistema istituzionale ad essere sottoposto a frizioni persistenti e cumulative. Rischiando quindi un progressivo sgretolamento.
  La preoccupazione del presidente Reuven Rivlin è esattamente questa, insieme al timore che la separazione tra poteri venga progressivamente messa in discussione. Netanyahu vince sul piano del gradimento (e del gradiente) elettorale così come sul versante dell'esposizione pubblica, raccogliendo un ottimo seguito personale. Non la stessa cosa, in tutta probabilità, si potrebbe altrimenti dire del suo partito, il Likud, che senza di lui rischia di rivelarsi una compagnia di attori priva di partitura e, soprattutto, di regista. Netanyahu vince soprattutto sulla capacità di dettare l'agenda collettiva, che è oramai ricondotta ad un perenne plebiscito su di sé. Vince con la sua presenza ingombrante, con il suo leaderismo personalistico, con il suo stile che sembra volere suggerire ad una parte degli israeliani, l'idea per cui: "se mi date il consenso, salteremo a piè pari tutti i colli di bottiglia che una democrazia ci impone sempre più spesso, rendendoci oltremodo inutilmente faticosa l'esistenza".
  Peraltro, già da alcuni anni King Bibi si andava presentando come colui che avrebbe avuto la forza e la determinazione per affrontare di petto i nodi della cristallizzazione delle democrazie liberali e sociali. In ciò, trova ancoraggi con quelle leadership carismatiche che hanno fatto dell'identitarismo, prima ancora che del populismo e del sovranismo, la propria radice. Qualcosa del tipo: "sono il prototipo decisionale di un nuovo modello di governo nella complessità sociale, valorizzando la radice identitaria di cui ognuno di voi è titolare, cari elettori".
  Un tempo questa genere di proposta sarebbe stata rubricata sotto l'indice del «nazionalismo». Oggi, in età di globalizzazione spinta, laddove i confini e le sovranità nazionali sono sottoposte a dura prova, il vero recinto nel quale riconoscersi è quello della reciprocità identitaria. Che in Israele è una vera scommessa, essendo la popolazione quanto di più pluralistico e differenziato si presenti sul versante delle origini e, quindi, anche dell'attuale assemblaggio. Ma forse proprio per questo, chi riesce ad affermarsi come campione di una tale ricomposizione, riesce anche ad essere convincente. Se non altro perché sposta l'asse della discussione dal groviglio dell'incertezza generata dalle trasformazioni sociali ed economiche in atto alla ricerca di una identificazione forte, che viene presentata come «identità» e «tradizione», quando è invece soprattutto il bisogno di avere una guida nella quale identificarsi. A Netanyahu, ovvero per tutti coloro che si riconoscono in lui, ciò riesce bene. Finché qualcuno non si incaricherà di buttarlo giù dal cavallo. Quel qualcuno non c'è, non almeno ora.
  Andiamo però ai dati, quelli che sembrano essere certi, per poi riprendere il discorso su un orizzonte meno asfittico di quello consegnatoci dalla mera cronaca quotidiana. A conteggi ultimati, attraverso il riscontro della Commissione elettorale nazionale, il Likud con il 29,5% dei voti ha 36 seggi (un incremento di 4); Kahol Lavan, con il 26,6, rimane inchiodato a 33; la Lista unita araba, al 12,6%, 15 (due in più); Shas, al 7,7%, se ne garantisce 9; Yisrael Beiteinu, con il 5,1%, se ne assicura 7 (uno in meno); Campo democratico-Gesher-Meretz di Amir Peretz, con il 5,8%, ne ha 7 (tre in meno) Yahadut HaTorah, con il 6%, si ferma a 7; Yamina di Naftali Bennett, con il 5,2%, 6 (uno in meno). Tutto ciò, in un paese dove le coalizioni sono tutto, significa che il blocco di destra è a 58 seggi (Likud, Shas, Yahadut HaTorah, Yamina), il blocco definito di sinistra a 55 (Kahol Lavan, le tre liste di Peretz, e il gruppo dei partiti arabi). Ad aprile del 2019, la destra contava su 60 seggi, a settembre su 55. Se consideriamo invece il "blocco anti-Bibi" nel suo complesso, allora si sale a 62 seggi. Ma sono conti fatti in assenza dell'oste.
  La questione, a questo punto, è la prospettiva di uno scontro, non più solo parlamentare, così come in prospettiva ancora una volta elettorale, ma anche e soprattutto istituzionale, con due iniziative contrapposte ma al medesimo tempo convergenti verso l'impatto frontale: il fronte contro Netanyahu si muoverebbe per fare sì che venga approvata una legge che impedisca a chiunque sia incriminato di assumere la carica di premier. Una norma ad hoc, va da sé, per estromettere per via giudiziaria un uomo che già il 17 marzo andrà a giudizio con le accuse di corruzione e frode. Netanyahu medesimo, a sua volta, cercherà invece di imbarcare qualche deputato dell'opposizione, promettendo e garantendo chissà cosa, dopo una campagna elettorale, da poco conclusasi, decisamente «crudele» (copyright Reuven Rivlin), nella quale pressoché nessun attacco è stato risparmiato dagli uni contro gli altri, in una sorta di zuffa continua.
  Re Bibi ha costruito il suo indiscutibile successo personale, comunque andranno a finire le cose in futuro, sia sull'occupazione di tutto il campo politico della destra da parte propria - una strategia compatta, che porta avanti dal 1996 - sia attraverso la sistematica demolizione dei suoi avversari. In quest'ultimo caso, di Benny Gantz. In Israele la lotta politica è sempre stata durissima, al limite della ferocia. In un paese che macina ancora moltissima politica, dove le divisioni (e le ricomposizioni) da sempre accompagnano, come persistenti faglie di rottura, le incerte identità collettive, alla rivendicazione di essere i titolari ed i campioni del trinomio «sicurezza-nazione-tradizione» (una correlazione che è stata dettata nell'agenda politica nazionale, a partire dal 1977 in poi, dal «blocco nazionale», una destra sempre più egemone del linguaggio di senso comune) si accompagna da subito l'accusa, rivolta impietosamente ai propri avversari, di essere dei «traditori».
  L'accusa di tradimento che Bibi ha rivolto a Benny è stata quella di essere un «codardo», un uomo non in grado di rispettare gli standard che Israele richiede per la propria sicurezza. Per un ex capo di stato maggiore, già alla guida delle forze armate, si tratta di uno schiaffo a pieno volto, assestato con calcolata determinazione. I pettegolezzi, fatti circolare ad arte, su business privati, su gusti e condotte sessuali, in buona sostanza sull'inattendibilità dell'avversario stanno dentro questa cornice, derivata dalle campagne elettorali americane dove, per riempire il vuoto delle proprie proposte (oppure celare le proprie effettive intenzioni) si sposta il target contro la persona dell'avversario.
  Il leader di Kahol Lavan ha risposto piccato e determinato, accusando Netanyahu di debolezza nei confronti di Hamas e dei pericoli che accompagnano la regione (non è un secreto per nessuno che Bibi, dei diversi premier che si sono succeduti, non sia stato quello più implacabile; ha fatto scelte molto mediate dalla sua formazione di assicuratore e poi di diplomatico, che sono le uniche radici che in lui siano rimaste ben impiantate, al netto della professione di politico e di costruttore di coalizioni che ha poi rivestito abilmente nel tempo), paventando continuamente anche il suo essere una via di mezzo tra il malandrinaggio di potere e la menzogna in funzione antidemocratica.
  Per molti dei suoi avversari, Bibi è quindi diventato una calamità nazionale, qualcosa che rasenta lo psicodramma. Sarebbe già stato defenestrato da tempo se non avesse potuto contare fino ad oggi sulla letargica debolezza dei suoi contendenti. Gantz non solo non buca lo schermo ma rischia di procurare qualche sbadiglio tra gli ascoltatori. È rigido, attento a difendere la linea del fronte, apparentemente privo di una strategia di rottura dello stallo a cui lui stesso rischia, adesso più che mai, di concorrere. Le indiscrezioni che durante la trascorsa campagna elettorale sono mefiticamente fuoriuscite dallo staff dello stesso Benny, dove il coordinatore delle attività di Blu e bianco, il serafico Yisrael Bachar (già spin doctor di Naftali Bennet e dello stesso Netanyahu), ha affermato che al candidato premier mancherebbero le «palle» per fronteggiare la minaccia iraniana, più che rivelare la debolezza di quest'ultimo ha portato allo scoperto l'inconsistenza di un progetto, quello di un partito anti-Bibi, che non riesce ad essere carne né pesce.
  Kahol Lavan segue cronologicamente l'esperienza di Kadima, ma di questo non ha raccolto la capacità di cercare di rompere gli schemi destra/sinistra, ossidatisi dopo la fine ingloriosa delle trattative con i palestinesi. Sharon era un animale politico, uno spregiudicato combattente, molto simile a certe figure di militari riciclatisi in altri paesi come leader non prima di essersi rilavati e sciacquati i panni. Portava in dote il suo passato, la sua ruvida intransigenza, il suo disprezzo per ciò che considerava come inesistente, i palestinesi medesimi, ai quali invece sostituiva gli «arabi», quelli sì esistenti e pericolosi. Disgustava molti, che lo vedevano come un truce «criminale di guerra», già ai tempi dell'Unità 101 (molti decenni e diversi chili prima di diventare capo del governo) e poi dell'assedio di Beirut del 1982, quando ruppe le uova nel paniere a Menachem Begin non senza però farsi impantanare nelle sabbie mobili libanesi. Proprio perché era così, ovvero si faceva con calcolata compiacenza disegnare in questo modo, poté quindi imporre ad un paese, che era già in lutto preventivo, la perdita di Gaza. Dopo essersi consultato con un board di esperti che gli avevano detto che c'erano solo due vie possibili: preservare la democrazia "ebraica" oppure fare una «Grande Israele» che si sarebbe trasformata in un contraddittorio coacervo di gruppi tra di loro in costante conflitto. A supporto del suo progetto - imporre ai palestinesi una pace, non contrattandola - aveva raccolto, dal morente laburismo israeliano, Shimon Peres, il prestigioso perdente di lusso, quello che era sempre caduto in piedi, e dalla declinante destra, tra gli altri, Ehud Olmert, Tzipi Livni, Shaul Mofaz.
  Gantz, di tutto ciò, dopo la morte nel 2015 di Kadima, quest'ultima una via di mezzo tra un congegno elettorale, un partito-taxi e l'ispirazione incompiuta verso un nuovo orizzonte politico nazionale, che cosa ha raccolto? Superata la inconcludente e crepuscolare retorica laburista, Kahol Lavan si è affidato alla scelta di non fare scelte. Ha quindi giocato sul piano più congeniale a Netanyahu, buttandola sul "personale". Ha detto agli elettori che ciò che andava fatto non era votare un programma, peraltro del tutto inesistente, ma non votare Bibi. Musica per le orecchie di quest'ultimo. Poiché il partito degli ex generali, al di là della probità di ciascuno di essi, non ha un progetto su e per Israele che non sia il collage tra i rimandi alla laicità dello Stato (minacciata dalle "orde" ultraortodosse) e il richiamo ad una visione di «Law and Order» che più e meglio proprio la destra sa invece incarnare.
  Quando Trump è intervenuto a gamba tesa per aiutare il premier uscente, con «The Deal of the Century», d'altro canto Benny è rimasto ancora una volta a bocca asciutta, masticando amaro. Si è di nuovo fatto sottrarre la scena. L'esatto opposto di Calamity Bibi, che è invece una sorta di lottatore di sumo della politica, un trascinatore di folle, un rullo compressore che si fa beffe della marzialità e del tono troppo impettito del bel generale che gli dà sempre addosso. Anche per queste ragioni se lo si accusa di essere un avventuriero, un manipolatore, uno «Snakes Charmer», si rischia di fargli quasi una cortesia.
  Netanyahu non crede in molte delle cose che lascia invece dire a coloro che lo circondano: è troppo legato alla sua formazione globalista, di uomo di mondo che diventa uomo del mondo, per rintanarsi nell'incubo identitario. Lascia che siano gli altri a farlo, sapendo che in questo modo li potrà tenere in trappola. In questo, è appieno un politico della generazione dei cosiddetti populisti-sovranisti: non perché si riconosca integralmente in quanto lascia liberamente circolare ma poiché riconosce che ciò che imprigiona gli altri è quanto lo manterrà libero. Anche per questa ragione è senz'altro oramai disposto a lanciare un'inclemente ed implacabile azione contro il potere giudiziario e la sua autonomia.
  Il punto dolente di questa traiettoria è che Netanyahu si alimenta, a proprio beneficio, di un cono d'ombra che è esattamente ciò che inquieta i suoi antagonisti. Ha infatti archiviato una parte della storia del Likud, e dei suoi padri fondatori - che fu anche storia durissima, feroce per l'appunto - per presentarsi come colui che saprà amministrare un regime di «post-democrazia». Giocherà, come già da diverso tempo avviene in altri paesi, contrapponendo la sua investitura elettorale, il giudizio assolutorio che ha ricevuto da molti israeliani il 2 marzo scorso, alla farraginosa complessità delle procedure legalitarie che potrebbero vederlo, in tutta probabilità, non solo condannabile, quale già in potenza sarebbe, ma condannato. Lo farà poiché sa che il trend dominante, nella crisi delle democrazie liberali e sociali, è quello per cui all'identificazione con le anonime istituzioni si sostituisce quella con il corpo e le parole del leader, soprattutto quando questo sa farsi apprezzare per la capacità di ricorrere in maniera spregiudicata al potere, rassicurando al contempo la collettività. Allo spettacolo del potere si è sostituito il potere dello spettacolo, dell'auto-rappresentazione. I media sono con Netanyahu, da questo punto di vista, avendone fiutato da tempo il pragmatismo. Non c'è nessun complotto in atto ma una «feroce» trasformazione del modo di vivere insieme, a partire dai criteri con i quali ci si sente e ci si riconosce reciprocamente come israeliani. Ancora una volta si tratta di un discorso che supera le frontiere del paese, per arrivare all'Europa e, in primis, alla stessa Italia.

(JoiMag, 8 marzo 2020)


Business news: israeliana El Al cancella altre destinazioni in Europa

GERUSALEMME - La compagnia aerea israeliana El Al ha annunciato la sospensione dei voli verso altre destinazioni in Europa a causa della scarsa domanda in concomitanza con la diffusione del coronavirus. Nelle ultime settimane, il vettore aereo di bandiera aveva sospeso i collegamenti con Cina, Hong Kong, Thailandia e Italia, dopo che il ministero della Sanità ha imposto il divieto di ingresso a tutti i non israeliani provenienti da questi paesi. Le rotte interessate dalle nuove misure sono quelle dirette a Vienna, Budapest, Bruxelles e Francoforte. Domenica, primo marzo, El Al ha annunciato che saranno licenziati 60 piloti e 100 membri dell'equipaggio assunti di recente che non hanno ancora completato la fase addestrativa. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, e il ministro dei Trasporti, Bezalel Smotrich, hanno promesso aiuti governativi alla compagnia aerea per arginare l'impatto economico del coronavirus.

(Agenzia Nova, 8 marzo 2020)


Torna in Russia la libertà di religione

Intervista a Berel Lazar, Rabbino Capo a Mosca

di Alain Elkann

 
Berel Lazar è un rabbino ebreo ortodosso hassidico Chabad-Lubavitch. Nato in Italia, ha studiato in America, ha iniziato il suo servizio in Russia nel 1990 ed è diventato rabbino capo nel 2000.

- Come rabbino capo della Russia e presidente della Federazione delle comunità ebraiche, qual è il suo lavoro e il suo obiettivo?
  «Il mio compito principale è aiutare le persone nella loro vita, materialmente, spiritualmente; dando loro consigli, mostrando loro ciò che la Torah ha da dire, come vivere il giusto tipo di vita. Il mio obiettivo principale è ricostruire la comunità ebraica perché tomi a essere vitale e vivace qui in Russia. Prima della rivoluzione la Russia aveva una delle comunità ebraiche più grandi e più forti del mondo. Il comunismo in pratica la distrusse completamente, chiudendo le sinagoghe e le scuole e proibendo qualsiasi tipo di attività ebraica».

- Quanti ebrei c'erano nell'impero russo prima della rivoluzione?
  «Cinque o sei milioni, forse anche di più. Poi ci furono i pogrom, le persecuzioni, l'assimilazione, la seconda guerra mondiale. Più di un milione di ebrei lasciarono la Russia negli anni '90 per andare in Israele, e prima anche in America. La comunità qui è stata decimata».

- Quanti ce ne sono adesso?
  «In Russia sono rimasti almeno un milione di ebrei. In Ucraina e nelle repubbliche intorno all'Ucraina - Uzbekistan, Kazakistan, Bieloussia, Moldavia - ce ne sono almeno un altro mezzo milione».

- Che cosa pensa di Israele?
  «Israele ha bisogno di una benedizione molto speciale. C'era un grande sentimento patriottico per Israele. Il popolo ebraico è tornato alla sua terra d'origine e voleva ricostruirla e tutti insieme l'hanno fatto. Oggi per motivi politici c'è una divisione che non dovrebbe esserci. Siamo alla terza consultazione elettorale in un anno e non riescono ancora a trovare un'idea comune che li unisca».

- Che ne è degli ebrei rimasti in Russia?
  «Erano completamente laicizzati, persino assimilati, ma oggi sempre più escono allo scoperto e dicono: siamo orgogliosi e felici di far parte della comunità ebraica».

- Ora c'è molto meno antisemitismo in Russia?
  « In epoca comunista l'antisemitismo era in realtà propaganda governativa che incolpava gli ebrei di tutto ciò che andava male. Questo è completamente cambiato dal 1990, ma poi c'è stato un sacco di caos e di instabilità nel paese e c'erano ancora attacchi antisemiti. Dal 2000 a oggi, grazie a Dio, c'è stato un forte declino e gli atti di antisemitismo sono quasi scomparsi. L'atteggiamento del governo è completamente cambiato. Il presidente viene a visitare la comunità ebraica e invia saluti speciali prima di ogni festa. Gli ebrei che erano soliti passeggiare a testa bassa sono finalmente orgogliosi di essere ebrei».

- Quante comunità ebraiche e sinagoghe ci sono?
  «Quasi 200 comunità in 200 città. Nelle grandi comunità la quantità di persone che frequentano la sinagoga è in costante crescita».

- Lei e la sua famiglia siete diventati russi?
  «Sono diventato russo e tutti i miei 13 figli sono tornati in Russia».

- Non dev'essere facile avere 13 figli nel mondo di oggi?
  «E più facile quando ne hai molti, si aiutano a vicenda a crescere».

- Come sta la Russia oggi?
  «Non sta attraversando un periodo facile, compresi i rapporti con l'America. Non è venuto nulla di buono dalle sanzioni contro la Russia o dalla guerra economica contro la Cina. Il mondo intero si trova in una situazione molto difficile. Vorremmo vedere più pace nel mondo».

- Vede spesso il presidente Putin?
  «Abbastanza spesso, sì. Cerco il più possibile di far sentire la mia voce. Credo che anche lui ci stia provando. Credo che molte persone ci stiano provando».

- Ha detto che le religioni portano la pace, ma ci sono molte guerre di religione in tutto il mondo?
  «Le persone molto ciniche abusano della religione per i propri scopi. Non c'è nulla che avvicini le persone più della religione».

- Questo non sembra essere il caso in Medio Oriente?
  «A Gerusalemme tutte le diverse religioni sono nella stessa città e vivono in pace. Se si vuole accade. In realtà la religione potrebbe unire le persone a differenza dell'interesse politico».

- Cosa ne pensa di questo moderno mondo tecnologico?
  «La tecnologia è come qualsiasi strumento che ci viene dato. Puoi usare un coltello per operare qualcuno e salvargli la vita, e puoi usarlo per uccidere. Utilizzato nel modo giusto la tecnologia potrebbe riunire le persone e aiutarle a migliorare la vita in molti modi. Purtroppo, alcuni usano la tecnologia per fomentare l'odio e rovinare la vita delle persone, e allora può diventare uno strumento molto pericoloso».

(La Stampa, 8 marzo 2020)


Coronavirus: l’Anp chiude i territori palestinesi per un mese

L'Autorita' nazionale palestinese (Anp) ha deciso di chiudere e sigillare tutti i territori per trenta giorni per timori di diffusione del coronavirus. Il Paese non e' attrezzato a fronteggiare l'emergenza, esplosa con la conferma di sette casi nel governatorato di Betlemme. I contagiati sarebbero stranieri e dipendenti di un albergo dove hanno soggiornato dei turisti greci che, al ritorno in patria, sono risultati positivi. Tutti i tamponi vengono inviati ad un ospedale israeliano per i controlli del caso. Il premier palestinese, Mohammad Shtayyeh, ha annunciato in un discorso alla televisione locale la decisione di chiudere il Paese per un mese. Il suo discorso e' in linea con quanto aveva gia' fatto sapere ieri sera il presidente Abu Mazen, che aveva dichiarato per un mese lo stato di emergenza a partire dalla 8.00 di venerdì. Il premier ha chiarito che per un mese resteranno chiuse le scuole, tutte le localita' turistiche e religiose, i parchi nazionali. Sono state cancellate inoltre tutte le prenotazioni negli hotel per i turisti stranieri. Cancellate, fino a data da stabilire, tutte le conferenze internazionali, le riunioni, e qualsiasi manifestazione. Il premier ha inoltre invitato la popolazione ad evitare il piu' possibile gli spostamenti tra una citta' e l'altra, e ai residenti a Betlemme, dove si sono verificati i sette casi, di star quanto piu' possibile a casa. Il governo, ha detto il premier palestinese, sta studiando una misura per bloccare anche le frontiere esterne. A tutti i turisti e' vietato restare nei Territori palestinesi e tutte le cerimonie religiose sono al momento proibite, facendo temere per la Pasqua. Vietati anche i comunicati stampa tranne quelli autorizzati direttamente dall'ufficio del primo ministro.

(Shalom, 8 marzo 2020)



«... le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che stanno per accadere»

Io Giovanni, vostro fratello e compagno nell'afflizione, nel regno e nella costanza di Cristo Gesù, ero nell'isola chiamata Patmos, a motivo della Parola di Dio e della testimonianza di Gesù Cristo. Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore e udii dietro a me una forte voce, come di una tromba, che diceva: "Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, e ciò che tu vedi scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese che sono in Asia: ad Efeso a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea".
Io mi voltai per vedere la voce che aveva parlato con me. E, come mi fui voltato, vidi sette candelabri d'oro e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un Figlio d'uomo, vestito d'una veste lunga fino ai piedi e cinto d'una cintura d'oro al petto, Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come bianca lana, come neve, e i suoi occhi somigliavano ad una fiamma di fuoco, I suoi piedi erano simili a bronzo lucente, come se fossero stati arroventati in una fornace e la sua voce era come il fragore di molte acque, Egli aveva nella sua mano destra sette stelle e dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, acuta, e il suo aspetto era come il sole che risplende nella sua forza.
Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli mise la sua mano destra su di me, dicendomi: "Non temere! Io sono il primo e l'ultimo, e il vivente; io fui morto, ma ecco sono vivente per i secoli dei secoli amen; e ho le chiavi della morte e dell'Ades. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che stanno per accadere dopo queste, il mistero delle sette stelle che hai visto nella mia destra e quello dei sette candelabri d'oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri che hai visto sono le sette chiese".

Dal libro dell’Apocalisse, cap. 1

 

La speranza da Israele: «Vaccino in arrivo»

Annuncio di un centro di ricerca: il farmaco verrà prodotto entro 90 giorni». Sarà in pillole, per facilitare la somministrazione.

di Maddalena Guiotto

Sarà messo a punto in Israele in tre settimane e disponibile in 90 giorni il primo vaccino contro il coronavirus. La notizia, pubblicata sul Jerusalem Post, si basa sui risultati dei ricercatori del Galilee research institut (Migal) che hanno messo a punto una nuova tecnologia per la somministrazione dei vaccini per via orale, che testeranno proprio sul terribile Sars-Cov-2. Chen Katz, leader del gruppo biotecnologico del Migal, ha spiegato che «il vaccino si basa su un nuovo sistema che permette di far passare la proteina in grado di scatenare la risposta immunitaria (antigene virale) nei tessuti delle mucose». Le cellule, inglobando l'antigene, indurrebbero l'organismo a formare anticorpi contro il virus. Il gruppo sta studiando da quattro anni questa tecnologia e l'ha testata per il coronavirus Ibv (che causa una bronchite nei polli).
   Negli studi preclinici - quindi su animali - sono riusciti a dimostrare che la vaccinazione orale induce alti livelli di anticorpi specifici anti-Ibv. Visto che la tecnologia dovrebbe essere la stessa per qualsiasi virus «abbiamo deciso, data l'urgenza globale, di scegliere il coronavirus come modello per testare il nostro sistema sull'uomo», ha dichiarato David Zigdon, capo dell'istituto Migal. L'approvazione dovrebbe arrivare entro 90 giorni, secondo Zigdon. Tempi così rapidi sono dovuti a una fortunata coincidenza. L'acido nucleico (Rna), che permette al Sars-Cov-2 di replicarsi, ha infatti una sequenza molto simile a quella del virus che colpisce il pollame, tanto che utilizza lo stesso meccanismo di infezione. Questi fattori hanno velocizzato tantissimo la ricerca, tanto che in poche settimane dovrebbe essere già pronto il lotto per la somministrazione orale. Nella lotta conto il tempo, l'Istituto israeliano sta individuando già potenziali partner che potrebbero accelerare la fase di sperimentazione sull'uomo, il completamento dello sviluppo del prodotto finale e il processo regolatorio di registrazione per rendere il prodotto disponibile entro i prossimi tre mesi.
   Sempre la tecnologia, in particolare l'intelligenza artificiale, è in prima linea anche per la diagnosi dei casi di Covid-19. L'istituto di ricerca cinese Damo Academy ha infatti annunciato di aver messo a punto degli algoritmi che in 20 secondi danno una diagnosi con un'accuratezza del 96%. La ricerca è stata finanziata da Jack Ma, fondatore del colosso del commercio online asiatico Alibaba, che ha messo a disposizione più di 14 milioni di dollari per progetti utili a debellare Covid-19. Il nuovo metodo sfrutta complessi processi di analisi basati su sistemi informatici in grado di elaborare i dati a partire da un campione di oltre 5.000 casi confermati di Covid-19, secondo le linee guida delle ultime ricerche effettuate sull'epidemia che si è rapidamente diffusa a livello globale. Mettendo a confronto le Tac, l'intelligenza artificiale sarebbe dunque in grado di distinguere i casi di Covid-19 da quelli di una comune polmonite, in poco tempo e con un margine di errore minimo. Questo significa una riduzione dei tempi di diagnosi, dato che di solito un medico impiega tra i 5 e i 15 minuti per leggere una Tac ed elaborare una diagnosi, mentre questi sistemi in 20 secondi scansionano anche 300 immagini.
   Il nuovo sistema diagnostico è stato già testato negli ospedali cinesi ed è in funzione nella struttura di Qiboshan, a Zhengzhou, nella provincia di Henan. Secondo i media asiatici, dovrebbe essere adottato in più di 100 ospedali della provincia focolaio dell'Hubei. Intelligenza artificiale anche nel consorzio pubblico-privato Exscalate4CoV (E4C), a trazione italiana, che si è aggiudicato 3 milioni del bando europeo Horizon 2020 per fronteggiare l'emergenza coronavirus. Il consorzio italiano, guidato da Dompé farmaceutici, aggrega 18 istituzioni e centri di ricerca in sette Paesi europei. Fulcro del progetto è Exscalate, il sistema di supercalcolo più performante a livello globale che, grazie alla sua «biblioteca chimica» di 500 miliardi di molecole, è in grado di valutare più di 3 milioni di composti al secondo per individuare il farmaco più promettente contro specifici costituenti virali, ma anche le sostanze capaci di inibire la capacità infettiva del coronavirus e contrastare contagi futuri. E' intanto pronto, in America, all'Istituto nazionale delle allergie e malattie infettive (Niaid), il primo lotto di vaccino per il Covid-19 da testare sull'uomo. I risultati sono attesi per agosto. Il giorno in cui ci sarà il vaccino che immunizzerà da SarsCoV-2 si dovrà forse ringraziare anche il comune padovano di Vo' Euganeo, che con i suoi 3.300 abitanti fornirà dati importanti per capire la strategia e prevedere le mosse del virus. Il piccolo comune infatti è l'unico cluster al mondo ad avere nella stessa popolazione 3.000 tamponi al tempo del primo caso e dopo due settimane. Da ieri e fino a domenica, su base volontaria, gli abitanti di Vo' si sottoporranno allo screening. Entro alcune settimane si potrebbe avere qualche arma in più contro il coronavirus.

(La Verità, 7 marzo 2020)


La madre di tutte le fake news sul Coronavirus? Prodotto in Israele

Se la questione del Coronavirus non fosse così maledettamente seria ci sarebbe da fare una sonora risata di fronte a cotanta stupidità.

di Franco Londei

  s
Vi mancava qualche buona fake news sul Coronavirus? Vi mancavano teorie complottiste che come al solito dessero addosso ai "malvagi ebrei"? Tranquilli, ci hanno pensato quelli della "razza superiore" a sopperire al problema.
   E bisogna ammettere che non sono andati nemmeno tanto per il sottile visto che per farlo hanno usato un nome ridondante come quello di Philip Giraldi, uno con un curriculum da fare invidia ad ogni nazistello del pianeta.
   Ex specialista in antiterrorismo e ufficiale dell'intelligence militare della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti (CIA) nonché convinto suprematista, noto amante dell'ideologia nazista e altrettanto noto odiatore di tutto ciò che è ebraico.
   Il buon Philip Giraldi mi va a scrivere un articolo, poi ripreso da mezzo mondo complottista e anti-ebraico, nel quale ipotizza (naturalmente senza alcuna prova) che il Coronavirus sarebbe stato creato dagli americani e dagli immancabili cattivissimi israeliani per danneggiare l'economia cinese e gli iraniani, che guarda caso sono i due punti dove il Coronavirus ha colpito più duramente.
   Quali sono le prove che il buon Giraldi porta a sostegno della sua teoria? Secondo lui ce ne sono di inoppugnabili, come per esempio il fatto che il Presidente Trump abbia da sempre sollevato il problema relativo alla crescente competitività dell'economia cinese che danneggia quella americana.
   Con il Coronavirus la Cina si sarebbe trovata immancabilmente in difficoltà, sia a livello commerciale che a livello militare e strategico. Quindi è chiaro che non possono essere stati che gli americani a studiare un piano così subdolo, naturalmente con il fondamentale supporto israeliano.
   D'altra parte americani e israeliani è una cosa che hanno già fatto in passato quando hanno creato il virus Stuxnet con il quale sono riusciti a ritardare lo sviluppo del programma nucleare iraniano.
   C'è solo un piccolo dettaglio: Stuxnet era un virus informatico in grado di infettare al massimo qualche computer e non un microrganismo patogeno in grado di aggredire l'uomo. Ma questi sono dettagli insignificanti per i numerosi seguaci della teoria del complotto.
   Poi c'è un'altra cosa importante che non poteva sfuggire all'ex agente nazista della CIA e ai suoi adepti. Gli scienziati del Galilee Research Institute israeliano sostengono che tra qualche settimana avranno un vaccino contro il Coronavirus che sarà pronto per la distribuzione e l'utilizzo entro 90 giorni.
   Come diavolo fanno i perfidi ebrei ad avere un vaccino in così poco tempo? Sono bravi? Sono attrezzati? Sono al top mondiale nelle ricerca? Certo che no. Lo hanno chiaramente inventato loro e adesso vorrebbero anche prendersi il merito di averlo sconfitto. Non prima naturalmente di aver sterminato gli iraniani e aver fatto fallire la Cina per fare un favore a Trump.
   Capite come tutto torna? Capite come di fronte a queste prove non ci rimane altro che prendere per buone le allucinazioni dell'ex agente nazista della CIA e cominciare a pensare come fargliela pagare ai perfidi israeliani e ai loro amici americani?
   Qualcuno potrebbe sollevare la questione che il Coronavirus ha aggredito anche Israele e gli Stati Uniti, ma anche a questo c'è una risposta. Gli è sfuggito di mano. Semplice no? Gli americani e gli israeliani sono così stupidi da aver creato un virus incontrollabile e per di più senza nemmeno curarsi di aver creato una cura prima, anche se la promettono in tempi brevi.
   Se la questione del Coronavirus non fosse così maledettamente seria ci sarebbe da fare una sonora risata di fronte a cotanta stupidità. Ma la cosa è seria e francamente non c'è nulla da ridere anche perché i cretini pronti a crederci non mancano. Diffondere odio attraverso l'individuazione di un "untore" è tipico dei nazisti e stati certi che questa fake news sul Coronavirus diventerà ben presto virale. È la loro specialità.

(Rights Reporters, 7 marzo 2020)



Striscia di Gaza, il ministero della Sanità invita cittadini a non lasciare il territorio

Il ministero della Sanità nella Striscia di Gaza ha consigliato ai cittadini palestinesi di non lasciare l'enclave e ha chiesto loro di prendere le precauzioni necessarie per non infettarsi con il coronavirus.
Il ministero, in una dichiarazione divulgata sabato, ha affermato che, a meno che non vi sia un urgente bisogno di viaggiare, i cittadini non dovrebbero lasciare la Striscia, per il momento.
Ha aggiunto che tutti coloro che tornano nella Striscia attraverso il valico di frontiera di Rafah saranno tenuti in quarantena per la sicurezza di tutti i residenti.
Nessun caso di coronavirus è stato rilevato a Gaza mentre 16 casi sono stati segnalati in Cisgiordania.

(infoPal, 7 marzo 2020)


Una vera storia in una valigia

Era del padre di Bobby Lax. L'ha trovata sotto le cianfrusaglie nel suo garage di Londra. Racconta la persecuzione nazista. Ora vuol farci un film.

di Roberto Giardina

BERLINO - Due piccoli fatti collegati, tra la Germania e la Gran Bretagna, che ci riguardano da vicino.
   Nei giorni scorsi, a Berlino, sono state poste tre Stolperstein, le pietre d'inciampo, innanzi al palazzo della Springer Verlag. A Londra, Bobby Lax, 52 anni, ha scoperto in garage una valigia zeppa di ricordi del padre, foto, lettere, ritagli di giornale, che raccontano il destino della famiglia, vittima del nazismo. Le tre pietre innanzi alla casa editrice ricordano Jacob Lax, nato nel 1880, sua moglie Amalie, nata nel 1883, entrambi uccisi a Auschwitz lo stesso giorno, il 14 gennaio del '43. La terza pietra porta il nome di Edgar, nato nel 1922, l'unico scampato, fuggì prima in Olanda, poi in Gran Bretagna. In Germania le pietre ricordano anche gli ebrei vittime della persecuzione, ma che riuscirono a salvarsi.
   Sono i nonni e il padre di Bob. La valigia è in cuoio rosso, malandato, la serratura arrugginita. Per decenni è rimasta dimenticata o, meglio, nascosta sotto decine di casse, in una villetta alla periferia di Londra. «L'ho scoperta solo quattro anni dopo la morte di mio padre», ha raccontato Bob, che vuol girare un film sulla sua famiglia: «Non ne sapevo nulla, mio padre raccontava poco
e malvolentieri del passato. Voleva dimenticare la tragedia, o risparmiare i suoi figli». Dove oggi si trova la Springer, alla fine degli Anni Trenta, i Lax abitavano in un appartamento di sei stanze, nella Zimmerstrasse. Berlino è stata sconvolta dalla guerra, e dalla divisione, il palazzo è scomparso sotto le bombe, la strada oggi ricorda Rudi Dutschke, il leader del '68. I Lax erano benestanti, avevano un negozio di moda per signore. Prima della guerra i grandi sarti berlinesi erano ebrei. A lungo, anche durante il III Reich, le mogli dei gerarchi nazisti compravano le toilettes nei loro negozi e sartorie. E innanzi alla Springer altre 84 Stolperstein ricordano gli ebrei che vivevano nei palazzi scomparsi.
   Il 30 dicembre del '38, i Lax ricevono una lettera, il permesso di lasciar partire il figlio Edgar, minorenne, con un Kindertrasport, un treno di bambini per Eindhoven, in Olanda. Gli avranno affidato la valigia con la storia di famiglia. Edgar andrà poi a Londra: gli inglesi accoglieranno un migliaio di bambini e ragazzi ebrei come lui. Altri 500 rimarranno in Olanda, e verranno uccisi. Eppure, Radio Londra, evitava di denunciare la Shoah, quanto avveniva nei Lager, nel timore che molti ascoltatori sarebbero stati d'accordo. Amalie e Jacob fuggono in Olanda il 13 aprile del '40, ma non riescono a varcare la Manica, saranno sorpresi dall'invasione nazista e deportati.
   Ancora una contraddizione: i giovani del '68 andavano a manifestare contro i giornali di Axel Springer, perché continuava a far scrivere Ddr (Germania orientale, comunista) tra virgolette, era uno dei pochi a sperare nella riunificazione, e quindi era un nostalgico del passato. Eppure i giovani si rivoltavano contro le colpe dei padri, piccoli collaboratori del regime, e allo stesso tempo erano contro Israele, e contro gli ebrei, colpevoli dei crimini del capitalismo. Le stesse accuse rivolte dai nazisti: gli ebrei colpevoli di tutto. Springer era un amico di Israele ma era anche contro Willy Brandt, temeva che la sua Ostpolitik avrebbe portato al definitivo riconoscimento della Germania Est. Invece fu il primo passo verso la caduta del muro e la riunificazione.
   Oggi gli inglesi solidali verso i tedeschi perseguitati da Hitler, escono dall'Europa, per loro l'Ue guidata dalla Germania, persegue la politica di dominio di Hitler, e i caricaturisti rappresentano Angela con i baffetti del Führer. E in Gran Bretagna come in Francia cresce l'antisemitismo, in Germania gli ebrei non sono più sicuri di mostrarsi per strada. La valigia ritrovata nella villetta di Londra ricorda la nostra storia, di quanti oggi si battono contro il razzismo, e di altri che chiudono gli occhi, credono che Auschwitz sia una fake news, votano per partiti nostalgici.

(ItaliaOggi, 7 marzo 2020)


Il governo tedesco respinge il biasimo delle Nazioni Unite sul BDS

Il governo federale ha respinto una denuncia dell'ufficio dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. A ottobre, cinque relatori delle Nazioni Unite hanno criticato la decisione del Bundestag contro il movimento anti-israeliano BDS presentandola come un tentativo di "restringere sproporzionatamente" la libertà di espressione, di assemblea e di associazione.
Si tratta soltanto di una "dichiarazione politica" del parlamento tedesco, i diritti individuali non sono in alcun modo interessati, secondo la risposta del Ministero degli Esteri federale all'agenzia delle Nazioni Unite a Ginevra. Il governo federale sostiene "l'importante lavoro dei difensori dei diritti umani e delle organizzazioni della società civile" che "cercano una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese". Il Ministero degli Esteri federale scrive che non è antisemita criticare il governo israeliano, ma il governo federale farà sempre sentire la sua parola ogni volta che il diritto all'esistenza di Israele fosse messo in discussione.
"Per quanto riguarda il movimento BDS, il governo tedesco ha dichiarato che rifiuta fermamente qualsiasi richiesta di boicottaggio di Israele e condanna categoricamente ogni forma di antisemitismo".

(Der Spiegel, trad. www.ilvangelo-israele.it)


POLIN, il Museo della storia degli ebrei polacchi, tra difficoltà e strumentalizzazioni

 
POLIN, Museo della storia degli ebrei polacchi
Zygmunt Stępiński, dopo le molte polemiche che hanno animato il Museo della storia degli ebrei polacchi, il POLIN, ha accettato l'incarico come direttore del museo per i prossimi tre anni. Una storia controversa, che però si avvale tra gli altri anche del supporto di Dariusz Stola, mentore di Stępiński e direttore non più riconfermato del POLIN. "Il museo continuerà a insegnare la tradizione, la cultura, la religione e il patriottismo degli ebrei che hanno sempre fatto parte e faranno sempre parte della multietnica Repubblica della Polonia", ha dichiarato il nuovo direttore. Vi riproponiamo la ricostruzione delle vicende del POLIN prima della nomina di questo ultimo direttore
   L'apertura di POLIN, il Museo della storia degli ebrei polacchi, era stata accompagnata da una serie di forti dubbi: a puntare tutto sulle installazioni multimediali invece che sulla tradizionale esposizione di oggetti non si rischierà la spettacolarizzazione? Il professore di storia Dariusz Stola, nominato Direttore, sarà all'altezza del ruolo?
   Sei anni e mezzo dopo, scrive Konstanty Gebert su MomentMag, il Museo è una sorpresa positiva. È apprezzato dai visitatori - ebrei e non - ed è stato nominato nel 2016 Museo Europeo dell'Anno. E il merito va soprattutto alla direzione di Stola, del quale all'inizio tutti diffidavano: "Stola ha diretto il museo in modo competente e creativo; non solo, la sua conoscenza della storia ebraica è impressionante e la sua abilità di danzare nel campo minato della politica lascia senza parole. Per esempio, ha criticato apertamente l'infame legge del 2018 che prevedeva la perseguibilità penale per chiunque parlasse di responsabilità polacca nella Shoah".
   Una storia a lieto fine? Non proprio: l'indipendenza e la qualità del Museo sono a rischio. L'incarico di Stola è terminato a febbraio e la sua rinomina - che tutti davano per scontata, considerato l'ottimo lavoro svolto - ancora non si è vista. Dietro questo stallo, sembrerebbe esserci il Ministro della Cultura, Piotr Gliński. Interrogato sulla decisione di non riconfermare Stola, egli ha fornito un pretesto, più che una risposta - il presunto rifiuto del Museo di ospitare una conferenza dedicata all'ex Presidente della Repubblica Lech Kaczynski - che in realtà è da cercare altrove: "La vera ragione per la mancata riconferma di Stola", spiega Gebert, "è il suo rifiuto di cedere a quella linea di partito che insiste nel negare ogni tipo di torto che i polacchi e la Polonia potrebbero aver commesso verso le altre nazioni e soprattutto verso gli ebrei".
   Il sospetto è che ad assegnare a Stola il posto d'onore sulla lista nera sia stata una mostra temporanea del 2018, dedicata al cinquantenario dei moti antisemiti del 1968. Un evento storico per il quale - parole del primo ministro Mateusz Morawiecki - la Polonia non può essere ritenuta responsabile perché, con Mosca che in quel periodo aveva in mano tutto, letteralmente "non esisteva": "La mostra (che in Polonia si è rivelata la più popolare mostra storica di sempre) non affrontava apertamente la questione della responsabilità. Ma l'ultimo oggetto esposto era una lavagna con delle citazioni, anonime ma riconoscibili, di personaggi pubblici dell'odierna Polonia, affiancate a dichiarazioni antisemite molto simili pronunciate 50 anni prima. Il messaggio implicito era: a prescindere da chi fu responsabile allora, l'odio oggi continua".
   Per il momento, a occuparsi di POLIN c'è un Direttore ad interim, ma gli eventi sono fermi e i donatori si stanno allontanando. "Temono l'infiltrazione politica in un'istituzione indipendente", scrive Gebert e conclude: "Dal punto di vista politico al governo non conviene cedere: la rinomina di Stola costerebbe al partito di maggioranza la perdita dei voti dell'estrema destra".

(JoiMag, 6 marzo 2020)


Israele: "Riteniamo che il coronavirus sia in una fase pandemica"

di Fabiana Magrì

TEL AVIV - «Anche se l'Oms non ha ufficialmente proclamato la pandemia, riteniamo di essere in una fase pandemica, un evento internazionale in piena regola», ha dichiarato Asher Shalmon, direttore delle relazioni internazionali del Ministero della sanità israeliana. A oggi sono 16 i casi di persone che hanno contratto il coronavirus in Israele. E circa 50 mila individui sono in quarantena. Si dice consapevole e preoccupato, Shalmon, per l'imminenza - tra aprile e maggio - delle festività pasquali, ebraiche e cristiane, e per il Ramadan.
   Circostanze che, ogni anno, smuovono numeri considerevoli di turisti e pellegrini. E preannuncia che, se le cose non miglioreranno o, addirittura, dovessero peggiorare nelle prossime settimane, saranno impediti grandi raduni ed eventi perché, assicura, «adesso è questo il modo giusto di agire». Da oggi, in Israele, è entrata in vigore un'ulteriore restrizione per chi proviene non solo da Cina, Hong Kong, Thailandia, Singapore, Macao, Corea del Sud, Giappone e Italia ma anche Austria, Germania, Spagna, Francia e Svizzera: «Non permetteremo ad alcun cittadino straniero che abbia visitato queste nazioni nelle ultime due settimane di entrare nel Paese. A meno che - specifica il dirigente del ministero - non possa dimostrare di essere in grado di restare in quarantena per 14 giorni».
   E alcune compagnie aeree interrompono i voli sulla tratta da e per Israele. Primo paese al mondo ad aver applicato serie limitazioni per i viaggiatori, lo stato ebraico non batte ciglio di fronte alle critiche di eccesso di rigidità e mostra compattezza nel giustificare come necessarie le misure prese, seppure dure e severe fin dall'inizio. Oltre a limitare gli ingressi, il paese sta impiegando ogni sforzo per ricomporre la catena delle persone entrate in contatto con soggetti ritenuti a rischio contagio per metterle a loro volta in quarantena. Come nel primo caso dei turisti coreani in visita ai luoghi sacri della Terra Santa all'inizio di febbraio, che risultarono positivi al coronavirus una volta rientrati in Patria. E come, la notizia è emersa ieri, nel caso della comitiva di turisti greci in vacanza in Israele e Cisgiordania, tra il 19 e il 27 febbraio. Anche tra di loro, qualcuno, tornato a casa, ha sviluppato la malattia. Israele e l'Autorità nazionale palestinese si stanno scambiando informazioni per ricostruire nei minimi dettagli tutti gli spostamenti del gruppo per stabilire chi - avendolo incontrato - dovrà entrare in isolamento. Con uno sguardo ai trattamenti e alle cure, nonostante gli sforzi internazionale per arrivare allo sviluppo di un vaccino, il funzionario del ministero invita a non cadere nelle false speranze che la soluzione possa essere disponibile prima di un anno. Ma, rassicura Shalmon, moltissime start-up israeliane si stanno facendo avanti con proposte creative e tecnologiche per affrontare l'emergenza.

(La Stampa, 6 marzo 2020)


Lieberman sceglie Gantz: sì al governo anti-Netanyahu

Avigdor Lieberman, il nazionalista laico diventato l'ago della bilancia della politica israeliana, ha scelto con chi schierarsi: è intenzionato a raccomandare al presidente Reuven Rivlin l'incarico di governo al leader centrista Benny Gantz di Blu-Bianco. Una tegola per il premier Benyamin Netanyahu che vede sfilacciarsi sempre di più la vittoria riportata lunedì scorso dal suo Likud. Secondo i dati della Commissione centrale elettorale certificati ieri, il blocco delle destre si è fermato infatti a 58 seggi contro i 55 del centrosinistra (partiti arabi compresi). Nel mezzo c'è Lieberman che dispone dl 7 preziosissimi seggi. L'annuncio dell'ex ministro della Difesa (Lieberman fece parte di un precedente governo di Netanyahu) può cambiare gli equilibri. La coalizione di centrosinistra arriverebbe ad un totale di 62 seggi, uno in più della maggioranza richiesta, lasciando la destra a 58. Il presidente Rivlin potrebbe dunque dare l'incarico per primo a Gantz - anche se il Likud ha più seggi (36) di Blu-Bianco (33) - per formare il governo. Per di più Lieberman ha annunciato l'appoggio alla proposta di legge di Gantz che mira ad impedire che un deputato incriminato possa diventare premier. Un provvedimento destinato evidentemente a fermare Netanyahu che, il 17 marzo, dovrà affrontare la prima udienza del processo in cui è imputato a Gerusalemme per corruzione, frode e abuso di potere.
 Resta aperta però la questione di un appoggio da parte dei partiti arabi a Gantz, finora inedita.

(Il Messaggero, 6 marzo 2020)


Il successo della lista palestinese in Israele sfida l'identità dello Stato ebraico

La coalizione dei partiti arabi batte diversi record elettorali e si propone come la "nuova sinistra". Soprattutto, lancia una sfida di lungo termine al discorso identitario di Nethanyahu.

di Lorenzo Trombetta

 
 
Il risultato delle elezioni legislative israeliane, le terze in meno di un anno, conferma che la retorica e la pratica del premier Benjamin Nethanyahu, forte del sostegno del presidente americano Donald Trump, convincono ancora la maggioranza relativa degli israeliani.
  Ma indica soprattutto che la "nuova sinistra" israeliana è incarnata, almeno per il momento, dalla coalizione di partiti "arabi", palestinesi-israeliani, riuniti nella Lista comune (al-Qa'ima al-mushtaraka in arabo, Joint List in inglese).
  Quest'ultima ha battuto diversi record elettorali. In primo luogo, ha portato nel parlamento israeliano, la Knesset, 15 deputati (due in più rispetto alla passata legislatura). Di questi, 14 sono palestinesi ("arabi") e uno ebreo. Inoltre, in maniera per alcuni inaspettata, la coalizione capeggiata da Ayman Odeh ha raccolto numerosi voti non solo ad Haifa, una delle storiche città palestinesi di Israele, ma anche nella capitale Tel Aviv: il doppio rispetto alla tornata elettorale dello scorso autunno.
  Ancora, dei 15 deputati 4 sono donne: una percentuale più alta rispetto a quella degli altri partiti israeliani. Un dato numerico interessante soprattutto se letto alla luce dalla condizione delle donne israeliane coinvolte in politica. Un altro elemento degno di nota è che una delle quattro donne neo elette, Iman Khatib, porta il velo: sarà la prima deputata israeliana della storia della Knesset a indossare l'hijab.
  La Lista comune è un'alleanza di quattro movimenti politici palestinesi-israeliani molto diversi e divisi al loro interno in correnti in cui si rintracciano comunisti, socialisti, ecologisti, sostenitori di movimenti islamici e nazionalisti palestinesi. Divisi sull'accettazione o rifiuto della formula dei "due popoli, due Stati", sono però tutti contrari all'ideologia sionista; rivendicano pari diritti e opportunità in base al principio di cittadinanza, al di là delle appartenenze religiose ed etniche; chiedono la fine dell'occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza; rifiutano il terrorismo quale che sia la matrice.
  Inoltre, condividono l'opposizione alla legge della nazione approvata dalla Knesset nel 2018, che discrimina ulteriormente i palestinesi israeliani dagli ebrei israeliani, e respingono con forza il piano di annessione di parti della Cisgiordania presentato nei mesi scorsi dall'amministrazione di Donald Trump.
  Dall'altra parte della barricata ci sono i partiti della destra israeliana, divisi sull'appoggiare o meno il Likud di Netanyahu, al quale mancano tre seggi per raggiungere la maggioranza nella Knesset (61 seggi). Chi ha votato per il Likud è desideroso di essere rassicurato rispetto alle percepite minacce esterne (Iran, Hezbollah) e interne (Gaza, "bomba" demografica palestinese), è soddisfatto della legge della nazione e sembra attratto dall'idea di espansione territoriale in Cisgiordania.
  Il piano Trump prevede tra l'altro che alcune città situate in Israele ma a ridosso del confine con la Cisgiordania passino nei Territori palestinesi. Circa 350mila palestinesi attualmente israeliani perderebbero dunque il loro status per finire come i loro vicini di Cisgiordania e Gaza: di fatti prigionieri in un regime di apartheid, apolidi, senza diritti e prospettive.
  Secondo i media israeliani due fattori principali spiegano la sorprendente affermazione elettorale della Lista comune. Il primo è l'altissima affluenza alle urne, soprattutto da parte dei palestinesi: il 65%, un dato in crescita rispetto alle elezioni della primavera (49%) e dell'autunno (59%) 2019. È il più alto dal 1999.
  Quest'ultima si è sentita offesa da come Gantz e gli altri partiti di sinistra abbiano di fatto respinto nei mesi scorsi ogni possibilità di accordo elettorale con Ayman Odeh. Gli aventi diritto al voto in Israele sono in tutto circa sei milioni e mezzo. L'elettorato palestinese ("arabo") corrisponde a circa il 20%, vale a dire poco meno di un milione di aventi diritto. Di fatto, quasi la totalità (88%) di questo milione di palestinesi israeliani ha votato per la Lista comune. In Israele c'è chi parla di "terremoto".
  Inoltre, mentre il Likud sembra aver stravinto nelle periferie la Lista comune ha intercettato i voti, probabilmente di protesta, dell'elettorato ebraico-israeliano delle principali città, anch'esso non più convinto che gli anti-Netanyahu siano Gantz o Peretz. Tutto questo ha indotto Ayman Odeh a pronunciare una frase che forse rimarrà celebre: "Siamo noi la vera sinistra di Israele".
  L'elettorato palestinese ("arabo") ha trovato un canale di espressione politica forte. La Lista comune è ora il terzo partito della Knesset, sarà difficile per chiunque voglia fare un governo escluderla tout court e far finta che non esista. Perché la questione non riguarda solo la prossima formula di governo, ma va dritta al cuore del problema: l'identità dello Stato ebraico.
  Il discorso politico della Lista comune e la composizione dei suoi candidati e neodeputati dimostrano che non è più possibile descriverla come una lista araba, di musulmani, palestinese, "altra", comunque non ebraica. Guardando al suo elettorato, ci si rende conto ancora meglio di come non sia più espressione soltanto delle istanze delle comunità dei palestinesi del 1948.
  Non è dunque solo il fattore palestinese ("arabo") che entra in Israele dalla porta elettorale, ma anche il contrario: è Israele, dunque in parte il sionismo, che entra nel discorso e nella pratica politica palestinese-israeliana. I deputati della Lista comune sono israeliani. Parlano ebraico moderno. Centinaia di migliaia dei loro elettori, che vivono nelle cittadine a rischio di essere annesse alla Cisgiordania, temono di perdere proprio lo status di cittadini israeliani.
  In base alla controversa legge della nazione del 2018 sono sicuramente più discriminati di prima, in quanto palestinesi ("arabi"), e sono coscienti di non vivere nel migliore dei mondi possibili. Ma hanno votato per un partito che intende permettergli di rimanere, in quanto palestinesi, nello Stato di Israele.
  Interessante a tal proposito notare come anche numerosi sindaci delle città e cittadine palestinesi di Israele si siano apertamente schierati a favore della Lista comune, mentre in precedenza tendevano a evitare di parteggiare politicamente per non perdere la carica. Un segno che la battaglia elettorale è stata percepita più di altre volte come cruciale per gli equilibri locali, in un contesto di livello nazionale.

(Limes, 6 marzo 2020)


Clima: tecnologia e competenze sono meglio di santi e processioni

Mentre in Sicilia si prega per la pioggia, in Israele si rende potabile l'acqua di mare

di Darlo Scannapleco

 
L'impianto di desalinizzazione di Sorek in Israele
Nei giorni scorsi nel Nisseno, vista la siccità che sta colpendo la Sicilia, 600 persone hanno partecipato a una processione per invocare la pioggia.
Negli stessi giorni la Bei avviava l'analisi del finanziamento del secondo impianto di dissalazione di Sorek, in Israele. Un impianto del costo di 400 milioni di euro che potrà produrre 200 milioni di metri cubi di acqua all'anno. Sarà realizzato inpublic-private partnership- Ppp in gergo - proprio come il primo impianto, che produce 220 milioni di metri cubi di acqua all'anno e che all'epoca della sua realizzazione, dieci anni fa, era il maggiore impianto di desalinizzazione al mondo. Costò oltre 300 milioni di euro e anch'esso fu cofinanziato dalla Bei. Con il nuovo impianto la capacità di produrre acqua da desalinizzatoli in Israele raggiungerà i 750 milioni di metri cubi annui. Considerando i consumi medi giornalieri, in Italia tale capacità basterebbe per quasi 10 milioni di persone.
[...]

(Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2020)


Chiude pure Betlemme

Dopo i casi sospetti in Cisgiordania, porte chiuse in chiese e moschee

Chiusa anche la Chiesa della Natività a Betlemme per 14 giorni. Lo hanno deciso le autorità palestinesi dopo la notizia di alcuni casi sospetti nella località della Cisgiordania. Le autorità hanno disposto la chiusura di tutte le moschee e di tutte le chiese di Betlemme. Lo ha reso noto il ministero della Sanità palestinese al termine di una riunione straordinaria convocata dopo la segnalazione di casi sospetti nell'Angel Hotel di Betlemme, come riporta l'agenzia di stampa Wafa. E stato quindi chiesto di cancellare tutte le prenotazioni effettuate negli hotel della città, mentre le persone presenti nell'Angel Hotel verranno poste in quarantena. Il ministero ha quindi chiesto che venga rafforzato lo stato di emergenza a Betlemme, Gerico e nelle città e nei villaggi vicini. La Wafa spiega inoltre che sono state cancellate tutte le attività e gli eventi previsti a Betlemme, compresi quelli sportivi, e sono state chiuse tutte le scuole, le moschee e le chiese per 14 giorni.

(Il Tempo, 6 marzo 2020)


Il "babbeo" che non vide il Lager

Nei campi gli ebrei stavano bene, concluse la croce rossa nel 1944. un libro-intervista di Claude Lanzmann rievoca quell'inganno

di Andrea Cavalletti

Nel maggio del 1944, dopo due anni di rifiuti, la Croce Rossa internazionale fu finalmente autorizzata a ispezionare il ghetto di Theresienstadt. Il capo della delegazione era però impegnato a Ginevra e l'incarico toccò al suo subalterno, Maurice Rossel: fu lui a informarsi dalle SS, a scambiare qualche parola con gli internati, a scattare molte foto e a redigere un memoriale. Rossel era giunto a Berlino nel '42, evitando un noioso destino da ufficiale delle truppe elvetiche di frontiera. «Avevo venticinque anni, ero ancora un ingenuo... un babbeo uscito dal suo villaggio, che aveva studiato a Ginevra, e non conosceva nulla» dirà nel 1979 davanti alla cinepresa di Claude Lanzmann (l'autore del celebre documentario Shoah, 1985); e poi, nel '97, autorizzando la trasmissione dell'intervista (col titolo Un vivant qui passe), aggiungerà: «Ormai non ricordo molto dell'uomo che ero allora... Sia caritatevole, non mi faccia apparire troppo ridicolo». Che cosa disse il ridicolo Rossel dell'ingenuo che era stato? Fra l'altro, che aveva scritto un rapporto onesto, impossibile da rinnegare e ancora valido. In effetti, a Theresienstad egli aveva assistito, riuscendo sostanzialmente a credervi, alla farsa di una cittadina modello apprestata dai nazisti con mesi di prove, scenografie e attori costretti a recitare, sotto lo sguardo vigile dei loro registi-aguzzini, persino davanti alla finzione atroce e beffarda di un padiglione per neonati. L'allestimento propagandistico divenne allora verità storica documentata dalla Croce Rossa e sfruttata dal Ministero degli Esteri tedesco, e il terribile luogo di transito verso Auschwitz o Treblinka poté apparire una sistemazione definitiva, persino non troppo infelice, degli ebrei perseguitati. Le fotografie attestavano la testimonianza oculare di un delegato pieno di pregiudizi antisemiti, che era già stato capace di farsi ingannare ad Auschwitz: la perfetta coincidenza del punto di vista del babbeo con quello del cosiddetto "obiettivo" negava il reale lasciando fuori campo l'artificioso.
   Nel 2005 avrà ragione l'anziano Lanzmann a scagliarsi contro l'idolo odierno dell'immagine come attestato di verità. La trascrizione di Un vivo che passa, suggerisce Federica Sossi che ha curato questa nuova edizione per Cronopio,ci parla anche di questo: delle immagini delle nostre vittime, edulcorate malgrado tutto, proficuamente ingannevoli, paradossali produttrici del non visto.

(il venerdì di Repubblica, 6 marzo 2020)


Due culture che si intrecciano. Si ricorda la figura di Angelo De Fiore

L'Associazione Italia-Israele-Cosenza. "Un giusto tra le Nazioni" ricorda Angelo De Fiore, coraggioso Questore di Roma in periodo nazista.

di Antonio Clausi

L'Associazione Italia-Israele-Cosenza "Un giusto tra le Nazioni" Angelo De Fiore è nata in seguito ad un progetto multiculturale denominato "Lo straniero accanto a me", svoltosi a Santa Maria del Cedro il 4 ottobre 2019 per celebrare la figura di Angelo De Fiore. Si tratta del Questore di Roma negli anni tragici dell'occupazione nazista, che si spese per proteggere centinaia di ebrei perseguitati. Il collegamento con il frutto sacro alla Comunità Ebraica, il cedro, simbolo della festa delle capanne (Sukkot), è stato d'obbligo. Il progetto ha posto in primo piano l'inclinazione del popolo calabrese, e in particolare di Angelo, nell'accogliere lo straniero e difenderlo dalle persecuzioni. Un passaggio "dal frutto calabrese agli eroi della nostra terra".

 Chi era Angelo De Fiore
  L'Associazione è stata fortemente voluta da Lucia De Fiore, cugina di Angelo e professoressa dell'Istituto Comprensivo Cosenza III di via Negroni. Nasce con la volontà di svolgere attività culturali, educative, pedagogiche, di promozione sociale e solidarietà, nonché di promuovere la pratica della difesa delle libertà civili, individuali e collettive.
  Angelo De Fiore, uomo colto e accorto, è nato a Rota Greca il 17 luglio 1895 e morto a Roma il 18 febbraio 1969. Preferì essere considerato un incompetente, senza alcuna personalità, piuttosto che essere compartecipe di odiosi crimini. Infatti alle richieste naziste di un elenco di nomi egli sabotò gli archivi, falsificò documenti e rispose loro "non ho nomi da dare". Mise quotidianamente a rischio la propria vita per salvare quella di altri uomini, animato da un grande senso di giustizia, di rispetto della legalità e della dignità umana. Di grande struttura morale, uomo coraggioso, sensibile e caritatevole, eroe dei nostri giorni, esempio di vita da tramandare alle future generazioni per non dimenticare la solidarietà e la dignità e per indicare la strada da percorrere: "una vita per la vita".

 Le parole di Lucia De Fiore
  Le parole di Lucia De Fiore illustrano in modo efficace i progetti che l'Associazione intende portare avanti. «Dopo l'iniziale coinvolgimento degli alunni dell'Istituto Comprensivo nell'uscita didattica a Santa Maria del Cedro, sotto la guida della dirigente Marina Del Sordo, il 24 gennaio 2020, presso lo stesso, si è svolta una cerimonia in occasione della Giornata della Memoria. Oltre ad aver ricordato le vittime dell'Olocausto, mi ha dato l'opportunità di rammentare la figura storica, eroica e umana di Angelo De Fiore. Alla presenza del nuovo Prefetto di Cosenza, dott.ssa Cinzia Guercio, del Vicario, dott. Antonio Borelli, in rappresentanza del Questore, dei rappresentanti dell'Associazione ANPS di Cosenza, del Sindaco di Rota Greca, dott. Giuseppe De Monte, dell'Assessore all'Istruzione di Cosenza, dott.ssa Matilde Spadafora Lanzino, è stata apposta all'interno della Scuola Secondaria di Primo Grado una targa commemorativa. Riporta: "In memoria di Angelo De Fiore "giusto tra le Nazioni", per il suo operato a favore degli Ebrei"».
  «È per me - continua - motivo di orgoglio perché testimonia l'impegno a mantenere viva la memoria di coloro che hanno lottato per i valori portanti della società. Assume un più alto significato oggi, periodo difficile per il nostro paese, che richiede il massimo della coesione sociale e della fiducia del cittadino nelle Istituzioni. L'Associazione, inaugurata ufficiosamente giorno 9 febbraio 2020 a Rota Greca, nella giornata intitolata "domenica insieme", a breve sarà inaugurata ufficialmente, in un incontro che vuole essere il primo di una lunga serie. L'intento è di creare, con l'aiuto dei miei fidati collaboratori, un punto di riferimento per le attività culturali della città di Cosenza.

(Cosenza Channel, 6 marzo 2020)


Coronovirus, Israele chiude la tomba di Giusppe

 
Le autorità israeliane hanno annunciato la chiusura della tomba di Giuseppe, uno dei luoghi dell'ebraismo che si trova alla periferia di Nablus in Cisgiordania. Lo riferisce il Jerusalem Post ricordando che l'annuncio è stato dato prima della prevista visita mensile, che avrebbe avuto luogo lunedì per l'inizio del digiuno della festività di Purim. "A seguito di consultazioni tra il capo del tribunale regionale della Samaria Yossi Dagan, responsabili dell'IDF (Esercito) e coordinamento con il rabbino Elyakim Levanon dell'Elon Moreh Yeshiva, è stato deciso di rinviare la visita mensile", riferisce il quotidiano.
   La tomba si trova nei territori sotto amministrazione palestinese. Nell'ottobre del 2000 durante la Seconda "intifada" una folla di palestinesi bruciarono e fecero a pezzi l'edificio, che venne ristrutturato solamente nel 2010.
   Giuseppe fu il dodicesimo e penultimo figlio di Giacobbe, a sua volta nipote di Abramo, una delle figure più importanti dell'Antico testamento e della tradizione ebraica. Secondo la Bibbia, Giuseppe divenne il favorito di Giacobbe e questo provocò la gelosia dei suoi fratelli maggiori, che un giorno per sbarazzarsi di lui lo vendettero a un mercante di schiavi. Giuseppe finì a lavorare come schiavo per un ufficiale del faraone d'Egitto, ma dopo varie vicissitudini si guadagnò la fiducia dello stesso faraone grazie alla sua abilità nell'interpretare i sogni (riuscì a prevedere con largo anticipo una grave carestia che avrebbe colpito l'Egitto). Giuseppe fu così tanto apprezzato dal faraone che fu nominato "governatore" d'Egitto: anni più tardi, quando i suoi fratelli andarono in Egitto per cercare del cibo durante la carestia, Giuseppe li riconobbe e alla fine li perdonò per averlo venduto. Al momento della morte, Giuseppe chise che le sue spoglie fosse portate in Israele. Quattrocento anni dopo, al termine della schiavitù, Mosè recuperò la salma di Giuseppe e la portò nel lungo viaggio verso la Terra promessa.

(Shalom, 6 marzo 2020)


Palloncini-bomba da Gaza? Così Israele si attrezza contro Hamas

Un nuovo laser è stato ideato per neutralizzare palloncini incendiari e droni da Gaza: è un sistema di difesa in grado di agire in ambienti urbani. L'idea è di usarlo anche negli aeroporti.

di Francesco De Palo

Israele si attrezza con un innovativo laser contro i palloncini incendiari e i droni di Hamas, che da due anni bruciano ettari di terreno e che ora fanno capolino anche nelle scuole. Lo ha ideato il Prof. Amiel Ishaaya presso l'Università Ben-Gurion del Negev dopo che i palloncini incendiari erano stati lanciati in Israele nel 2018, dando fuoco ai terreni agricoli e causando danni diffusi. Uno strumento che adesso potrebbe essere applicato anche negli aeroporti.

 Cosa sono e come funzionano
  Il sistema di difesa basato sul laser sarà in grado di eliminare palloncini esplosivi e droni d'attacco anche in ambienti urbani. Pochi giorni fa l'ennesimo episodio: alcuni bambini che frequentavano una scuola dell'infanzia vicino a Kiryat Gat sono stati costretti a nascondersi perché un gruppo di palloncini era stato avvistato a poche decine di metri. Un video diffuso da Channel 13 mostra che, una volta individuati i palloncini, la maestra richiamava in fretta i piccoli mentre giocavano fuori nel cortile.
  È solo l'ultimo di una serie numerosa di avvistamenti: un pallone esplosivo è stato fatto esplodere accanto a una casa nel kibbutz di Kfar Aza tre sere fa, mentre altri palloncini esplosivi continuavano ad entrare nel sud di Israele, attivando una serie di misure di sicurezza da parte delle forze dell'ordine, come la chiusura precauzionale di alcune strade vicino a Nahal Oz. Da lunedì ad oggi sono stati otto gli avvistamenti, tra cui uno in un campo nel Consiglio Regionale di Merhavim ed uno atterrato nei pressi della stazione ferroviaria di Netivot, con i treni bloccati per diverse ore.

 I danni
  All'inizio erano semplici aquiloni, ma in seguito Hamas ha "raffinato" la sua tecnica terrorista con l'impiego di palloncini recanti messaggi di "Happy Birthday" o "I love You" che volano in aria sembrando innocui, ma che fino ad oggi hanno bruciato migliaia di ettari di terra e causando milioni di dollari in danni all'agricoltura. Alcuni di questi palloncini sono stati progettati per innescare incendi multipli e le squadre di smaltimento sono spesso chiamate a disinnescare esplosivi trovati attaccati a palloncini e aquiloni. Tra luglio e settembre del 2018, i palloncini hanno provocato in media 12 incendi al giorno distruggendo oltre 6.000 acri di foreste e terreni agricoli e uccidendo enormi quantità di fauna selvatica. Gli esperti affermano che per riparare il danno all'ecosistema ci vorrà un decennio.

 Le conferme da Gaza
  Sta inoltre montando i timore dei cittadini e di quei genitori che sono costantemente preoccupati per i loro figli che raccolgono questi giocattoli esplosivi dall'aspetto innocente. Inoltre dalla Striscia di Gaza stanno arrivando conferme che potranno essere lanciati palloncini ripieni di gas lacrimogeni oltre che le immagini dei "mittenti". Si fanno chiamare unità di confusione notturna e sono ritratti in foto mentre mantengono i dispositivi incendiari collegati ai palloncini pronti a volare verso Israele, vicino al confine a est di Rafah.

 Le finalità
  Un terrorista palestinese di 18 anni ha raccontato sul canale australiano ABC News Australia cosa c'è dietro la strategia dei palloncini: "Vogliamo provocare di più gli israeliani, quindi abbiamo attaccato uno straccio in fiamme all'aquilone. Grazie alla volontà di Dio, il filo è stato tagliato e l'aquilone è caduto dall'altra parte appiccando un incendio". La modalità di questi attacchi è anche low cost: un aquilone costa solo un dollaro, mentre un palloncino addirittura la metà, molto più economici rispetto ai razzi Qassam, ha aggiunto il giovane terrorista.

 I robot
  La polizia israeliana, al fine di proteggere cittadini e bambini, ha realizzato un video dimostrativo in cui si vedono bambini che giocano a calcio. Uno di loro calcia accidentalmente la palla sopra il recinto del parco giochi e la palla atterra accanto a un aquilone. Uno dei ragazzi corre a prendere la palla, vede l'aquilone e fa quello che ogni bambino farebbe: allunga la mano verso l'aquilone. Ma poi una ragazza gli grida: "Fermati, non toccarlo. Potrebbe essere pericoloso!". E infine un poliziotto indica un robot per lo smaltimento delle bombe e il video si conclude con le sue parole: "Io e il mio robot Bambi verremo a occuparcene".

(Formiche.net, 5 marzo 2020)


Jet israeliani distruggono una spedizione di armi destinata a Hezbollah

Con un doppio attacco in Siria avvenuto poco dopo la mezzanotte jet israeliani hanno attaccato e distrutto una spedizione di armi iraniane dirette a Hezbollah nonché una base che secondo l'intelligence ospita miliziani e militari di Teheran nel sud della Siria.
Il primo attacco è avvenuto nei pressi di Homs, nel centro della Siria. Obiettivo dei jet israeliani una spedizione di armi iraniane destinate a Hezbollah. Secondo testimoni locali il convoglio sarebbe andato completamente distrutto.
Mezzora dopo un secondo attacco ha preso di mira una base iraniana nei pressi di Quneitra, nel sud della Siria. Anche in questo caso l'obiettivo erano depositi di armi ed esplosivi che sarebbero andati distrutti.
L'agenzia di stampa siriana SANA ha affermato - come fa sempre - che le difese aeree siriane avrebbero respinto i due attacchi provenienti rispettivamente dal Libano e dalle Alture del Golan e di aver distrutto tutti i missili israeliani. Testimoni locali affermano invece l'esatto contrario e di aver udito diverse esplosioni.
Giovedì scorso un drone israeliano aveva ucciso Imad Tawil, un importante capo di Hezbollah in Siria.
Continua quindi la guerra "sottotraccia" tra Iran e Israele in Siria. Gli israeliani hanno sempre affermato che non permetteranno a Teheran di posizionarsi in pianta stabile in territorio siriano e che avrebbero impedito qualsiasi consegna di armi ad Hezbollah.

(Rights Reporters, 5 marzo 2020)


Non solo lo stop ai voli italiani. Israele si blinda da cinque Paesi Ue

"Puntiamo ad arrivare a ridosso dell'estate con pochi casi. Il caldo indebolirà il coronavirus". Intervista ad Arnon Afek, il medico dello Sheba Center.

di Fabiana Magrì

 
Tel Aviv - Aeroporto Ben Gurion
Israele alza le misure di protezione contro la diffusione del virus e si blinda sempre di più nel tentativo di arginare il contagio. E, primo al mondo, applica le stesse misure restrittive valide per gli arrivi dall'Italia anche ad altre cinque nazioni europee. Chiunque sia tornato, o abbia intenzione di entrare in Israele, da Francia, Germania, Spagna, Austria e Svizzera non potrà varcare la soglia dell'aeroporto Ben Gurion. A meno che non possa dimostrare di essere nelle condizioni di auto isolarsi per 14 giorni. Dal ministro della Sanità al premier, la linea difensiva delle misure di Israele dalle critiche che lo considerano il più restrittivo al mondo è compatta. Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Salute, respinge chi accusa il Paese di isteria e replica che se non fossero stati bloccati gli arrivi dall'Italia, alcuni giorni fa, oggi l'infezione sarebbe fuori controllo. Benyamin Netanyahu rassicura i connazionali ma non usa mezzi termini quando dichiara che il Covid-19 è un'epidemia globale, probabilmente una delle più pericolose dell'ultimo secolo. E per questo si vede costretto ad approvare misure molto severe. A fronte di 15 casi confermati di coronavirus, tra i 60 e i 70 mila israeliani dovranno restare in quarantena.

- Professore Arnon Afek, perché estendere ad altre nazioni europee i provvedimenti previsti fino a ieri solo per l'Italia?
  «Credo che adesso, in Italia, tutti capiate bene perché. Infatti anche voi iniziate a fare la cosa giusta, come chiudere le università e le scuole. L'Europa è un grande continente in cui gli Stati hanno frontiere aperte. In Germania, Spagna, Francia il contagio dilaga per mancanza d'informazioni. Qui, invece, siamo in grado di risalire a tutte le persone entrate in contatto con chiunque sia stato a rischio contagio. Il sistema è molto coordinato: il ministero raccoglie le informazioni, le valuta e decide quali misure adottare».

- Qual è la strategia israeliana per il prossimo periodo?
  «Vogliamo evitare, o almeno posticipare, il contagio. Rinchiudere la comunità è la misura più efficace, lo dice anche l'Oms. Siamo attenti e vigorosi nelle precauzioni. Non ci illudiamo che il virus non dilagherà anche qui ma cerchiamo di ritardare quel momento».

- Con quali vantaggi?
  «Da un lato puntiamo ad arrivare più a ridosso dell'estate, che qui come in Italia è calda e umida. Non abbiamo certezza ma ci auguriamo che questi due fattori possano indebolire il virus. E poi cerchiamo di diluire i casi positivi, cosa che ci consente di non mandare in tilt il sistema sanitario».

(La Stampa, 5 marzo 2020)


Gantz: una legge «anti-Netanyahu». Il premier: lo impediremo

Sono saliti a tre i seggi che mancano al blocco di destra per arrivare alla maggioranza. Blu Bianco pensa a un provvedimento che impedisca a chi è stato incriminato di guidare il Paese Lieberman potrebbe aderire.

di Fiammetta Martegani

Trentasei contro trentatré. Con il 99% dei voti scrutinati, si conferma il successo del Likud di Benjamin Netanyahu rispetto al partito centrista Blu Bianco guidato da Benny Gantz. Mentre la Lista Araba Unita, con i suoi 15 seggi, è il terzo partito di Israele.
   In totale, il blocco di destra guidato dal premier si ferma a 58 seggi: ne mancano quindi tre (e non uno o due come si pensava subito dopo la chiusura delle urne) per arrivare ai 61 su 120 necessari per governare. Siamo tornati ai risultati delle elezioni di aprile: pur avendo vinto in termini relativi, per Bibi, anche questa volta, non sarà facile formare una maggioranza, salvo puntare su qualche transfuga. Mentre l'ex generale, incassata la sconfitta, si rialza e ricomincia a combattere. In attesa del processo per corruzione, frode, e abuso di ufficio che attende il primo ministro il prossimo 17 marzo, Blu Bianco sta lavorando per sottoporre alla Knesset una legge "anti- Netanyahu" che impedisca a chi sia stato incriminato di guidare il Paese. Teoricamente, il partito potrebbe raggiungere il numero di parlamentari necessari (62) per approvare questo decreto speciale. Oltre all'appoggio del blocco di sinistra (Laburisti- Gesher - Meretz), avrà bisogno del sostegno della Lista araba unita, e anche quello di Yisrael Beitenu, il partito della destra nazionalista guidato da Avigdor Lieberman. Come sempre, ormai da un anno, molto dipende dalle sue decisioni. Con i suoi 7 seggi, potrebbe decidere di puntare tutto contro Bibi, scegliendo il pragmatismo oltre l'ideologia (e confermando l'inimicizia che, dopo anni di vicinanza politica e personale, sembra ormai dominare i rapporti tra i due). Netanyahu ha reagito con durezza al tentativo di Blu Bianco: «Tentano di scipparci le elezioni facendo passare una legge che mina le fondamenta della democrazia», ha detto.
   Quando però nel 2008 l'ex premier Ehud Olmert finì sotto processo, fu proprio Bibi a proporre una legge analoga. Olmert decise di dimettersi, prima di essere condannato. Non è chiaro se sia possibile promulgare un decreto durante un governo in transizione come quello attuale. Eppure, è stato proprio grazie all'introduzione di una legge nel corso di un governo transitorio che, lo scorso giugno, venne approvata, sotto la spinta di Netanyahu, per la prima volta nella storia del Paese, la proposta di sciogliere la Knesset e tornare alle urne una seconda volta. Poi è arrivata la terza volta. E, a due giorni dal voto, si comincia già a parlare di una quarta.

(Avvenire, 5 marzo 2020)


*


Il tentativo in extremis di Gantz: escludere Netanyahu per legge

Blu Bianco si rivolge alla Knesset per impedire il governo di un premier incriminato

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - In una giornata segnata dalla crescente preoccupazione della popolazione per il diffondersi in Medio Oriente e nel resto del mondo del Corona virus - in Israele i casi di contagio accertati sono 15 migliaia di persone in quarantena - e dall'annuncio di rigide misure di prevenzione, il premier di destra e leader del Likud Netanyahu è passato dall'entusiasmo per la vittoria elettorale del 2 marzo ai timori per le conseguenze della sua situazione giudiziaria. Ieri pomeriggio il principale partito di opposizione, Blu Bianco, ha annunciato che sta lavorando per far approvare dalla Knesset una legge che impedirà a un primo ministro incriminato di costituire un nuovo governo. Se la proposta andrà avanti, per Netanyahu vorrebbe dire la fine politica. Il 1 7 marzo il premier entrerà come imputato nel tribunale di Gerusalemme per rispondere delle accuse di corruzione, frode e abuso di potere.
  La reazione di Netanyahu è stata rabbiosa. Ha accusato Benny Gantz, leader di Blu Bianco, di provare a rubargli la vittoria elettorale. La proposta di legge, secondo Netanyahu, sarebbe stata concepita «per dividere Israele mentre è davanti alla grave sfida rappresentata dal corona virus ed è chiamato a cogliere l'opportunità offerta dal piano del presidente Donald Trump», ha detto durante un incontro con rappresentanti dei partiti alleati. Con Blu Bianco si è schierato il Meretz (sinistra sionista). Il suo segretario Nitzan Horowitz ha spiegato che impedire a un premier incriminato di formare un governo «è la cosa giusta da fare politicamente ed eticamente».
Gli ha risposto un alleato di Netanyahu, il leader di Yamina e ministro della difesa Naftali Bennett, secondo cui questa legge è «antidemocratica»: «Ci sono state elezioni due giorni fa e stanno già cercando di aggirare la volontà della gente usando mezzi inaccettabili», ha aggiunto Bennett riferendosi ai partiti di opposizione.
Gantz propose una legge simile dopo le elezioni del 17 settembre che però venne bocciata dall'ultranazionalista Avigdor Lieberman, ago della bilancia della politica israeliana.
  Stavolta Lieberman potrebbe sostenerla, ipotizzano fonti del quartier generale di Gantz. Occorrono però i voti favorevoli dei 62 deputati e, considerando il quadro politico caotico in Israele, è difficile credere che la legge sarà approvata. Netanyahu però ha la memoria corta. Nel 2008 fu proprio lui a dare impulso a una proposta di legge volta a costringere alle dimissioni l'allora primo ministro Ehud Olmert, indagato per corruzione.
  L'iniziativa di Blu Bianco è caduta come un masso nel mezzo dei colloqui per una nuova maggioranza di destra nazionalista e religiosa. Le cose si sono fatte più complicate per Netanyahu anche su questo punto. Il 2 marzo, durante il bagno di folla post-elezioni, aveva annunciato che Israele avrebbe avuto al più presto una nuova maggioranza di governo. Ma continua a non avere i numeri per farlo. Sono stati contati il 99% dei voti e il blocco delle destre si ritrova con un seggio in meno: il partito religioso ortodosso Shas lo ha perduto a vantaggio di Blu Bianco. Significa che Netanyahu ha 58 deputati dalla sua parte, tre in meno del minimo necessario per una maggioranza di governo.
Non procede per il verso giusto neanche la caccia del Likud ai «disertori», ossia quei deputati dell'opposizione che, in cambio di incarichi di rilievo e posizioni di prestigio, sarebbero pronti ad unirsi alla destra.
  I media locali hanno fatto i nomi di alcuni dei possibili «disertori» ma questi ultimi si sono affrettati a smentire e a far sapere che non hanno alcuna intenzione di abbandonare i loro partiti. Di fronte al mancato superamento dello stallo politico cominciato alla fine del 2018, il capo dello Stato Reuven Rivlin potrebbe non affidare l'incarico né a Netanyahu né a Gantz e, invece, dare mandato alla Knesset di trovare una soluzione. In quel caso, per 21 giorni, qualsiasi deputato può fare un nuovo governo.
Buone notizie per il leader del Likud invece sono arrivate dalle primarie dei Democratici Usa per le presidenziali del prossimo 3 novembre. Il suo avversario, il senatore socialista Bernie Sanders che qualche giorno fa lo ha definito un «reazionario razzista», è uscito parzialmente sconfitto dal SuperTuesday. Il successo è andato all'ex vice presidente Joe Biden, un "moderato" che Netanyahu gradisce più di Sanders che parla a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro le politiche della destra israeliana.

(il manifesto, 5 marzo 2020)



Sicurezza e tecnologia, così Netanyahu ha riconquistato Israele

di Gianni Vernetti

Ribaltando i pronostici della vigilia, Benjamin Netanyahu ha nuovamente vinto le elezioni generali in Israele. Un'affluenza record (intorno al 70%) e per la prima volta con 16 seggi dedicati ai 5.000 cittadini in quarantena peri i rischio corona virus con personale medico, tute bianche e mascherine.
   "Bibi" ha vinto, ma non stravinto e anche se ora dovrà essere capace di allargare la sua coalizione per avere quei 3 voti in più in grado di governare, il risultato del voto del 2 marzo rimarrà un fatto storico.
   Netanyahu è stato percepito come un leader in grado di difendere il Paese dalle molte minacce esterne, ma soprattutto essere colui che ha contributo in modo decisivo alla modernizzazione del Paese. Ha saputo difendere Israele contro la minaccia dell'Iran, non esitando ad attaccare i nemici di Israele in Siria distruggendo le nuove basi di Hezbollah, neutralizzando la micidiale rete di tunnel in Libano, colpendo ripetutamente la Jihad islamica a Gaza.
   Sotto la guida di Netanyahu, Israele ha poi realizzato il sistema di difesa missilistico più avanzato al mondo. "lron Dome" (la Cupola d'Acciaio), "David's Sling", la Fionda di Davide e "Iron Beam"( la Trave di Ferro) sono nate grazie al dialogo fra l'industria militare tradizionale e molte start-up innovative.
   Ma ciò che è stato più apprezzato della leadership di "Bibi" nel campo della sicurezza è aver saputo promuovere molte azioni diplomatiche eterodosse (e segrete) nel mondo arabo in funzione ami-iraniana.
   Pensiamo solo ai rapporti fra Israele e Emirati Arabi Uniti: apertura di una sede diplomatica ad Abu Dhabi presso l'Irena; partecipazione di aerei emiratini e israeliani a esercitazioni militari congiunte nel Mediterraneo; operazioni congiunte nel Sinai egiziano per contrastare il terrorismo jihadista e infine la partecipazione ufficiale di Israele all'Expo 2020 di Dubai.
   Con l'Arabia Saudita, poi, sono stati siglati molti accordi di rilevante valenza geopolitica: fra tutti la possibile nuova ferrovia che collegherà il porto di Haifa con i porti dell'Oman (al di là dello stretto di Hormuz perennemente sotto la minaccia di Teheran), attraverso la Giordania e il deserto saudita. Un grande progetto infrastrutturale che potrebbe integrare sempre più l'economia di Israele con quella del Golfo.
   Infine, l'apertura di Israele verso l'Africa con il ripristino delle relazioni diplomatiche con Ciad e Sudan e trattative avanzate con Mali e Niger. Sul piatto: l'apertura dello spazio aereo all'aviazione civile di Israele, sicurezza, lotta al terrorismo e cooperazione nell'agricoltura e nella lotta alla desertificazione.
   Ma forse il vero motivo della vittoria di Netanyahu sta nell'avere guidato un Paese che negli ultimi vent'anni è cresciuto con una media del 4,1% all'anno, diventando quella "Start-up Nation" (dalla brillante definizione di Dan Senor e Saul Singer nel saggio sul miracolo economico israeliano), oggi leader in tanti settori delle tecnologie informatiche, spaziali e biomediche. Un "Sionismo 4.0" che ha trasformato Israele in una delle democrazie più innovative e avanzate del mondo.

(La Stampa, 5 marzo 2020)


Argentina: trovata lista di nazisti, con conti al Credit Suisse, che derubarono gli ebrei

di Nathan Greppi

 
Una manifestazione nazista a Buenos Aires, 10 aprile 1938
 
La lista dei 12000 nazisti ritrovata a Buenos Aires
A volte una scoperta casuale, che non ti aspetti, può avere un forte impatto sulla tua vita: ed è quello che è successo a Pedro Filipuzzi, investigatore privato che ha recentemente trovato, in un vecchio scantinato di Buenos Aires, una lista di numerosi nazisti che vivevano in Argentina durante la Seconda Guerra Mondiale, e che è scampata alla distruzione di documenti compiuta dal governo argentino dell'epoca, alleato dei tedeschi.
   Secondo La Repubblica, la lista indica 12.000 membri del NSDAP/AO, l'organizzazione degli iscritti al Partito Nazista residenti fuori dalla Germania, che dal 1941 al 1943 si erano rifugiati in Argentina, oltre ad elencare le ricchezze che si erano portati dietro, sottratte a milioni di ebrei, e che hanno lasciato fino ad oggi in conti della banca svizzera Credit Suisse, rimasti inattivi per decenni.
Si sapeva dell'esistenza della lista, ma si credeva che fosse stata distrutta per cancellare le prove. Filipuzzi l'ha trovata nello scantinato di una vecchia base nazista nella capitale argentina, e poco dopo l'ha consegnata al Centro Simon Wiesenthal, che ha chiesto alla banca di restituire i beni rubati ai legittimi proprietari.
   Secondo Shimon Samuels, direttore per le Relazioni Internazionali del Centro Simon Wiesenthal, i conti alla Credit Suisse "includevano diverse imprese tedesche come la IG Farben, fornitore del gas Zyklon-B, utilizzato nelle camere di sterminio, e organismi finanziari come il Banco Tedesco Transatlantico e il Banco Tedesco dell'America del Sud. Banche che, apparentemente, servirono per realizzare delle transazioni naziste in Svizzera."
   Si sapeva che in Argentina dopo la guerra si erano nascosti numerosi rifugiati nazisti, tanto che si pensa fossero circa 1.400 persone, sostenute dai membri del NSDAP/AO e da 8.000 membri di organizzazioni naziste locali.
   L'Argentina non è l'unico paese dell'America Latina da cui i nazisti trasferirono o inviarono denaro: secondo il Jerusalem Post, il Centro sta conducendo un'indagine anche su trasferimenti di lingotti d'oro dal Venezuela, usati per finanziare il terrorismo contro centri ebraici e che potrebbero essere in realtà degli Zahngold, ossia lingotti che i nazisti ricavarono fondendo i denti d'oro strappati dai corpi degli ebrei morti nei campi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2020)


Giovanna di Savoia salvò 48mila ebrei

Lettera a "il Giornale"

Il 26 febbraio 2000 moriva Giovanna di Savoia, moglie di Re Boris III di Bulgaria e sorella dell'ultimo Re d'Italia, Umberto II. Aveva chiesto di tornare in Italia dopo il referendum in Bulgaria del 1946 che aveva visto sconfitta la monarchia, ma le fu vietato, perché troppo stretti erano i rapporti dei nostri comunisti con quelli bulgari. Riparò prima in Egitto, dai genitori in esilio, e poi a Estoril-Cascais vicino alla casa del fratello Umberto, dove morì. Ha voluto essere sepolta in una cappella dei francescani ad Assisi. Da bambina si era ammalata, assieme alla sorella Mafalda, di tifo e promise che, guarite, non avrebbero mai dimenticato San Francesco a cui avevano affidato tutte le loro speranze. In seguito incontrò il Re Boris di Bulgaria e nel 1930 lo sposò, proprio ad Assisi. La cerimonia fu ripetuta a Sofia, con rito ortodosso, grazie alla mediazione del nunzio apostolico Angelo Roncalli. Dopo la morte del suo consorte, nel '43 (si racconta che fu avvelenato da Hitler), al trono salì il figlio Simeone, giovanissimo, e nel '46, dopo il referendum, dovettero lasciare la Bulgaria. Dopo l'Egitto, la Spagna di Franco la accolse e nel '62, dopo il matrimonio del figlio Simeone, Giovanna andò a vivere in Portogallo, a tre chilometri dalla residenza del fratello Umberto. L'ultimo suo desiderio lo realizzò nel '99: la costruzione di una chiesetta disegnata da un architetto bulgaro che fu la prima chiesa ortodossa per i fedeli bulgari in Portogallo. La Regina, con il marito aveva aiutato 48mila ebrei a fuggire dalla Bulgaria, assicurando loro un transito sicuro verso aree non occupate dai nazisti. Stati Uniti e Israele resero omaggio alla famiglia dei reali bulgari e Re Boris III fu dichiarato «Giusto fra i Giusti».
Emilio Del Bel Belluz, Motta di Livenza (TV)

(il Giornale, 5 marzo 2020)


Dopo vent'anni la Repubblica del Congo riallaccia i rapporti con Israele

Presto l'ambasciata a Tel Aviv

di Paolo Castellano

 
Felix Tshisekedi
Il primo marzo, durante una conferenza dell'AIPAC (associazione americana pro-Israele) a Washington, l'attuale presidente della Repubblica Democratica del Congo ha detto di voler riprendere i rapporti diplomatici con lo Stato israeliano. Felix Tshisekedi ha poi dichiarato che nominerà un ambasciatore in Israele, dopo due anni di assenza diplomatica del suo paese.
 Come riporta Israel National News, Tshisekedi ha sostenuto di aver cambiato idea grazie alla sua fede cristiana. Ha poi ringraziato la comunità evangelica e gli Stati Uniti d'America per il supporto a Israele.
 «Dopo più di 20 anni di inadeguata rappresentanza, nominerò tra qualche giorno un ambasciatore», ha sottolineato il presidente congolese. «Invito Israele a rafforzare la propria presenza diplomatica ed economica nel mio paese per accrescere le relazioni tra i nostri due popoli e stati».
 Tshisekedi è il neo-presidente del Congo e guida il paese dal 2019. «Questa nazione [Israele] è una fonte di ispirazione. Ci insegna cosa può fare l'uomo in così poco tempo quando ha slancio, resilienza e, soprattutto, il favore divino», ha sottolineato il rappresentante congolese.
 Il Congo non istituirà la sua ambasciata a Gerusalemme ma a Tel Aviv. Tuttavia, Tshisekedi ha garantito che nella capitale israeliana verrà inaugurato un ufficio congolese per i rapporti commerciali con Israele. Il presidente africano ha poi aggiunto che nel corso del 2020 visiterà personalmente Israele.
 Tshisekedi ha scelto di riallacciare i rapporti diplomatici con lo Stato ebraico perché ha intenzione di favorire gli investimenti scientifici, tecnologici e agricoli nel suo paese. Il Congo è uno stato africano ricco di risorse naturali ma devastato recentemente dai conflitti interni.
 In passato, Israele ha avuto buone relazioni con il precedente dittatore africano Mobutu Sese Seko, alleato degli Stati Uniti, che controllava il Congo - in quegli anni si chiamava Repubblica dello Zaire. Nel 1982 gli altri stati africani criticarono la posizione filo-israeliana rompendo i rapporti diplomatici con lo Zaire.
 Quando il Congo entrò in guerra, i dialoghi diplomatici si congelarono. L'ultimo ambasciatore israeliano nella capitale Kinshasa lasciò lo stato africano nel 2003.

(Bet Magazine Mosaico, 4 marzo 2020)


L'ultima battaglia di Netanyahu a tre seggi dalla storia

Con il conteggio dei voti ancora in corso il premier non ha raggiunto la maggioranza per diventare il leader più longevo di Israele.

di Giordano Stabile

L'ultima speranza è il conteggio dei voti dei militari, che ancora procede. Benjamin Netanyahu ha battuto Benny Gantz, certo, una «vittoria senza precedenti», come ha proclamato con un certo trionfalismo nella notte elettorale. Ma ha mancato per la terza volta l'asticella dei 61 seggi alla Knesset, la boa di salvataggio, la differenza fra passare alla storia come il premier più duraturo nella storia di Israele o finire nell'umiliazione di una condanna per corruzione. Con 4,2 milioni di voti contati, il 98 per cento del totale, ieri sera il blocco di centrodestra era fermo a 58 seggi. Ma i 150 mila suffragi espressi dai soldati, che per tradizione sostengono destra e Likud, possono ancora dargli un seggio in più e trasformare la vittoria in trionfo. È una speranza esile e King Bibi si prepara ad altre settimane, o mesi, di battaglia per riuscire a formare un governo sotto la sua guida. Ma è in una posizione più forte rispetto allo scorso settembre. Un combattente che «non muore mai».
Per chi avrà votato l'israeliana?
All'uscita degli exit poll 

Oggi o domani lo spoglio dovrebbe terminare. Il blocco di centrosinistra è a 55 seggi, compresi i 16 della Lista unita araba, al suo miglior risultato di sempre. In bilico fra 6 e 7 seggi ci sono Yamina, alleato di Netanyahu, e il Labour-Geresh-Meretz, schierato con Gantz. Se Yamina si prende il seggio in bilico, il centrodestra salirà di nuovo almeno a 59. Per vincere un seggio ci vogliono in media 36 mila voti, e i due partiti in competizione sono divisi da meno di 20 mila. Per questo il conteggio dei voti militari è così importante. Se però Netanyahu non ce la farà, è pronto il piano B, in stile molto italiano. E cioè convincere due o tre deputati a passare con il centrodestra. Nel mirino ci sono eletti di Yisrael Beiteinu, ex alleato del primo ministro, di Meretz, e persino del partito di Gantz, Kahol Lavan. Qualcuno «potrebbe preferire come premio un bel posto di ambasciatore all'Onu invece che vagare nei corridoi di una Knesset senza maggioranza», fanno trapelare i consiglieri di Netanyahu.
   L'alternativa è un corteggiamento dello stesso Liberman, per la terza volta ago della bilancia con 7 seggi. Ieri ha detto che è pronto a «fornire un vittoria decisiva», nell'interesse nazionale s'intende, «a entrambi gli schieramenti». Cioè anche all'ex alleato Netanyahu, diventato il suo più feroce nemico dopo la rottura di un anno fa. Liberman ha messo soltanto un veto, la partecipazione a un governo con i partiti arabi, anche sotto forma di appoggio esterno. E questo riduce le possibilità di Gantz. Il generale non può formare una sua maggioranza e a questo punto spera nei giudici. Ieri ha sottolineato come il 17 marzo comincia il processo a Netanyahu. Saranno due settimane di fuoco anche per un combattente che «non muore mai.

(La Stampa, 4 marzo 2020)


*


Netanyahu all'ultima magia. Un seggio (o due) per il governo

Likud e alleati sfiorano la maggioranza assoluta. Non serviranno accordi con Gantz o Lieberrnan.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Alle ore tarde di ieri sera con ancora circa 300mila voti da contare o rivedere, la vittoria di Netanyahu è diventata sempre più solida, 36 seggi contro i 32 di Benny Gantz. I voti della sua coalizione ondeggiano fra i 59 e i 60, mentre Gantz è a 54.
   I giochi sono cominciati, il numero magico è 61, la paura di tornare ai seggi si è un po' calmata ma persiste. Ma anche gli ottimisti dicono che, per Bibi, la differenza fra avere 59 o 60 seggi di partenza, è significativa: in Israele non è apprezzato il passare da un partito all'altro magari per appoggiare un governo apparentemente contrario o molto diverso dalla tua ispirazione politica. Un costume comune in Italia. Qui la cosa non è libera, ma regolata da leggi parlamentari: un transfuga non può diventare ministro o viceministro; ma si è parlato della possibilità che la transfuga possibile sia la parlamentare Orly Levy Abucassis perché facendo parte di una lista unita di tre partiti, sarebbe considerata come una fazione che si allontana. Questo si può fare, senza finanziamenti per i primi due anni. C'è chi dice che addirittura la pesca stia avvenendo nelle file deluse e stanche di Blu e Bianco, dove appare in grande difficoltà Gantz, il leader che non ha saputo crescere nell'opinione pubblica, che non ha saputo disegnare una strategia, ma solo un no a Bibi che è diventato nel tempo uno stereotipo. E Gantz non ha guadagnato dal confronto diretto con uno dei migliori statisti conservatori dei nostri tempi, né ha osato diventare un uomo di sinistra chiaro nei suoi propositi rivoluzionari.
   Bibi ha incontrato ieri alcuni rappresentanti delle liste conservatrici che fanno parte del suo blocco. Da loro, in segreto ma non troppo, viene un'impostazione per cui di governo di unità nazionale non si vuole sentire parlare, e nemmeno, e forse tanto meno, di un accordo con Avigdor Liberman, che è sceso da 8 a 7 seggi col suo Israele casa nostra, partito sostanzialmente russo. Liberman seguita a proclamarsi l'unico vero custode della destra nazionale ma proclama con insistenza il suo rifiuto dei partiti religiosi; di fatto non fa che ribadire il suo ruolo di dispettoso e astioso kingmaker, è come se ripetesse che ha in mano il futuro del governo e che non vuole, tuttavia che esso si costruisca. Fastidioso ai più. In realtà, proclama ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, il suo deciso rifiuto, di più, la sua antipatia, per Netanyahu. Ma oramai questa antipatia è ricambiata e Bibi si sente bene in sella nonostante il suo processo cominci il 17 di marzo: tutti ripetono che le premesse del dibattimento saranno infinite e i tempi si allungheranno di anni.
   Sembra tramontato anche il momento in cui Netanyahu dichiarò di accogliere la proposta di una rotazione con Gantz. Fu Gantz a rifiutare, dicendo che non avrebbe mai fatto un accordo con un Likud che avesse a capo un candidato indiziato di reato. E adesso, di nuovo, Gantz ripete lo stesso ritornello, e ripete, anche ieri, le accuse di corruzione che il voto ha ritenuto irrilevanti. Tutti sembrano in realtà ancora in stato di choc, ipnotizzati dalla magia di Bibi, dalla resistenza di Netanyahu all'accerchiamento.

(il Giornale, 4 marzo 2020)


*


Le molte vite di Bibi: perché da 25 anni il popolo si fida di lui?

Il grande difensore resta in sella (giudici permettendo)

Longevità
Salito al potere quando negli Usa c'era Clinton. in Europa Kohl e Chirac, in Russia Eltsin.
Due facce
Visto come un leader globale e il protettore più affidabile della terra e dell'identità.

di Aldo Cazzullo

Nec tecum nec sine te vivere possum, Israele non riesce a vivere né con né senza Benjamin Netanyahu. Quando divenne premier nel 1996 in America c'era Clinton, in Germania Kohl, in Francia Chirac, in Russia Eltsin, in Egitto Mubarak. I suoi colleghi sono quasi tutti morti. Lui nel '99 perse le elezioni contro Ehud Barak, l'ultimo premier laburista, capo di un partito che aveva fondato lo Stato ebraico e ora in pratica non esiste più. Con Barak è morto il sogno della pace: Israele la considera impossibile; e l'unico leader cui la maggioranza relativa dell'unica democrazia del Medio Oriente è disposta ad affidare la propria protezione resta il fratello di Yoni Netanyahu, l'eroe di Entebbe.
   Meno di un anno fa Bibi, come lo chiamano tutti, chiese al popolo un ultimo mandato. La sua coalizione ottenne più seggi di quella del rivale, l'ex capo di Stato maggiore Benny Gantz, però Netanyahu non riuscì a formare un governo per l'opposizione di Avidgor Liberman, conservatore ma a lui avverso. Le elezioni anticipate del 17 settembre scorso hanno confermato lo stallo: Liberman ha bloccato anche l'investitura di Gantz, rifiutando di votare insieme con i partiti arabi. L'altro ieri Netanyahu ha colto quella che definisce «la vittoria più importante della mia vita», anche se gli manca ancora un fatidico seggio. Non dovrebbe essere impossibile trovarlo. Più difficile sarà affrontare i magistrati che lo aspettano tra due settimane per giudicarlo su accuse gravissime. Ma una volta riconfermato al potere Netanyahu sarebbe capace di tutto, anche di regalarsi un'amnistia.
   L'alternativa è un patto per una grande coalizione o per una staffetta, sul modello di quella che vide alternarsi Yitzhak Shamir del Likud e il laburista Shimon Peres. Ieri l'editorialista principe del quotidiano Haaretz, Anshel Pfeffer, ha confrontato i volti dei due Benjamin nella notte elettorale: «Sono esausti. Ma Bibi è più abituato. Quindi sembra un po' meno esausto».
   Gantz fa a Israele la promessa più rivoluzionaria: la normalità. Ma se ancora una volta Israele ha dato fiducia a Netanyahu - sia pure non del tutto-, è perché non pensa e non sente di vivere tempi ordinari. Il premier in questi anni ha stretto la mano praticamente a tutti i suoi compatrioti. Ha seppellito politicamente l'ostile Obama e ora flirta con Trump, che dopo aver portato l'ambasciata a Gerusalemme ha predisposto un piano di pace - soldi ai palestinesi in cambio di territori - apparso più che altro uno spot elettorale per il Likud. E' amico di Putin con cui parla in russo. Dialoga con Al Sisi. Si confronta con Erdogan e con la dinastia saudita. E' rispettato dai cinesi, temuto dagli ayatollah, detestato da gran parte della stampa del suo Paese. Non è un uomo di pace, ogni volta che oscilla nei sondaggi rilancia assicurando che con lui non ci sarà mai uno Stato palestinese e che presto annetterà almeno un terzo della Cisgiordania; ma non ha mai scatenato una guerra (l'ultima, l'invasione del Libano in cui morì il figlio
   di David Grossman, fu decisa da Ariel Sharon). Netanyahu, cresciuto negli Stati Uniti, è percepito come un leader adatto al mondo globale, e nello stesso tempo come il più affidabile difensore della terra, dell'identità, degli interessi del popolo di Israele. E questo induce ancora molti a perdonargli l'uso spregiudicato del potere, della propaganda, financo del nemico alle porte. Più che da quello palestinese, Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l'atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a sud, Hezbollah a nord, il regime di Assad a est. Ma - nonostante questo, o proprio per questo - metà Israele non si è mai sentita così al sicuro come con Netanyahu.

(Corriere della Sera, 4 marzo 2020)


*


Il Likud cala, ma i «disertori» sono pronti a tornare a casa

Exploit della Lista araba unita che elegge anche un professore ebreo. Ma cambierà poco.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - «L'esito delle elezioni comincia a diventare chiaro: Netanyahu non ha ancora una maggioranza». Cercava di farsi coraggio ieri il leader del partito centrista Blu Bianco, Benny Gantz, dopo la batosta ricevuta lunedì sera quando dalle urne è emersa subito la vittoria del Likud, il partito del premier di destra Benyamin Netanyahu tornato ad essere "King Bibi". Appena qualche mese fa, incriminato per corruzione, appariva spacciato. E invece ora è proprio Gantz a vacillare, con i suoi colleghi di partito che gli attribuiscono la responsabilità intera della sconfitta.
   Però Gantz ha ragione quando dice che Netanyahu ha vinto ma è senza maggioranza. Il voto del 2 marzo non ha risolto lo stallo politico cominciato a fine 2018 con l'uscita del partito del nazionalista laico Avigdor Liberman dal governo di destra in polemica con la decisione di Netanyahu di stringere un accordo con i partiti religiosi sul servizio di leva anche per i giovani ortodossi. Ieri sera, con il 97% dei voti scrutinati, la destra aveva perduto un altro seggio, scendendo a 58, tre in meno della maggioranza di 61 seggi sui 120 della Knesset necessari per una maggioranza di governo. Ma Gantz e Blu Bianco non avevano meriti.
   Se Netanyahu e le destre non hanno ancora una maggioranza lo si deve solo alla crescita senza precedenti dei quattro partiti riuniti nella Lista araba cresciuta in serata a 16 seggi, tre in più di quelli che già aveva alla Knesset. Ogni seggio in più conquistato dai palestinesi d'Israele è uno in meno per la destra di Netanyahu. L'affluenza alle urne nei centri arabi è stata del 67%, la più alta mai registrata, di poco inferiore al dato nazionale del 71%. Era ciò che Ayman Odeh e gli altri leader della Lista desideravano. Tra gli eletti c'è anche il professore ebreo comunista Ofer Kassif, a conferma del carattere arabo-ebraico che vuole darsi sempre di più la formazione politica e su cui ha insistito Odeh per tutta la campagna elettorale.
   «Abbiamo dimostrato - ha spiegato ieri il leader arabo - che sappiamo essere uniti come arabo israeliani sulla base di principi saldi e condivisi e allo stesso di essere aperti agli israeliani ebrei che vogliono un Israele diverso da come lo concepisce Netanyahu», L'analista Aluf Benn spiega il successo della Lista araba con il suo messaggio chiaro, senza ambiguità, che ha convinto l'elettorato arabo e migliaia di ebrei. Ma nei centri abitati arabi ieri regnava un clima di soddisfazione misto ad amarezza. Nessuno si fa illusioni, sarà difficile tramutare in risultati concreti il consenso elettorale ottenuto.
   «La lenta diffusione dei risultati del voto del 2 marzo - scrive Jack Khoury su Haaretz - ha inviato un messaggio chiaro alla comunità araba israeliana: il dialogo su pace, uguaglianza, partenariato e integrazione può aumentare l'affluenza ma non cambierà la realtà. E la realtà è che Israele è un paese di destra e una maggiore rappresentanza della comunità araba nella Knesset non andrà di pari passo con le sue possibilità di integrazione e influenza. È vero il contrario: porta a un maggiore estremismo tra gli ebrei israeliani e alla repressione dei loro vicini arabi».
   Netanyahu non si farà scoraggiare dal non aver raggiunto già martedì i 61 seggi. Ieri ha avviato colloqui con i suoi alleati di destra e religiosi per formare il nuovo governo. E presto potrebbe trovare, grazie a deputati "disertori" - come in Israele chiamano correttamente quelli che in Italia sono definiti "responsabili" - i numeri per formare una maggioranza solida.
   Ieri i media israeliani hanno fatto i nomi di alcuni eletti nelle liste di Blu Bianco (e non solo) che sarebbero pronti a saltare sul carro del vincitore in cambio di incarichi di rilievo. E comunque c'è Liberman che segnala di essere pronto a tornare al confortevole ovile della destra, anche se detesta Netanyahu. Il programma del futuro governo il premier lo ha annunciato già nella notte tra lunedì e martedì. «La nostra è stata una grande vittoria - ha detto durante il bagno di folla a Tel Aviv - Abbiamo vinto per aver trasformato Israele in questi dieci anni in una superpotenza a tutti i livelli: politico, diplomatico, economico». Poi ha assicurato che procederà al più presto all'annessione a Israele della Valle del Giordano e delle colonie ebraiche in Cisgiordania.
   Il piano Trump per lui sarà come la Bibbia. A vincere le elezioni israeliane sono state «le colonie, l'occupazione, l'apartheid», ha commentato con preoccupazione su Twitter il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat: «Netanyahu costringerà il popolo della regione a vivere per la spada con il prosieguo della violenza, dell'estremismo e del caos».

(il manifesto, 4 marzo 2020)


*


Yehoshua: "È stato come un referendum. Gli elettori non lo vogliono in carcere"

di Davide Lerner

Un'altra intervista ad Abraham Yehoshua, un letterato israeliano creatore di sognanti realtà virtuali che deposita in lunghi romanzi e in considerazioni politiche che stranamente (ma non troppo) continuano ad interessare una certa stampa italiana. Di tutto l'articolo riporteremo soltanto una sua risposta all'intervistatore, con un nostro breve commento. NsI

[...]

- La "Lista Araba Unita" di Ayman Odeh ha ottenuto un numero record di seggi anche grazie al voto della sinistra araba. Che cosa pensa di questo risultato?
  «Mi rende molto felice. Prepara il terreno per una futura entità binazionale, ormai più probabile della soluzione a due Stati. Possono crescere ancora a patto che scelgano la strada della moderazione e guadagnino legittimità. Devono rinunciare al loro odio, alle loro fantasie, i rifugiati, la Nakba. Parlino più di uguaglianza e partecipazione e meno della storia».

[...]

(la Repubblica, 4 marzo 2020)


COMMENTO
Tra letterati, artisti e sportivi,
ci sono persone di grandi capacità,
che sanno dire con grande serietà,
le più grandi stupidità.


*


Elezioni Israele 2020: il risultato premia Netanyahu ma la maggioranza resta in bilico

Perché le elezioni israeliane sono andate a vantaggio di Bibi Netanyahu. Un bilancio politico e sociale.

di Ugo Volli

Elezioni Israele 2020. I risultati del voto in Israele, non definitivi ma abbastanza chiari al momento in cui scrivo, suggeriscono un paio di riflessioni al di là della cronaca politica immediata.
   La prima è questa: nell'immenso spazio geopolitico fra la Tunisia e l'India (escluse), fra il Mediterraneo e il Sudafrica e l'Oceano Indiano, Israele è il quasi il solo posto dove da oltre settant'anni si svolgono elezioni multipartitiche regolari e incontestate, spesso con risultati che nessuno aveva previsto, come questa volta. Sarà noioso dover andare alle urne tre volte in un anno, perché non esce una maggioranza chiara; ma ogni persona onesta ammetterà che non c'è confronto con gli scontri militari in Siria, Libia, Yemen, le monarchie assolute del golfo, le dittature con elezioni di rappresentanza come in Egitto e Iran, o quella buffa situazione dell'Autorità Palestinese in cui vi è un presidente eletto per quattro anni che è entrato nel quindicesimo anno di presidenza e nessuno si sogna di schiodarlo dalla sua carica se non degli altri aspiranti autocrati ancora più crudeli e meno democratici di lui. Bisogna ricordare questo fatto, che non è affatto un dettaglio, anche a coloro che non solo distinguono fra antisionismo e antisemitismo (mentre la prima di queste aberrazioni è sempre espressione della seconda), ma anche fra stato di Israele, governo israeliano e le sue politiche, come tendo a fare personaggi come Sanders, che si dicono "Pro-Israele" ma nemici del suo "governo reazionario e razzista". E' vero che per costoro vale la battuta, credo di Golda Meir a proposito di Haaretz: "l'ultimo governo di Israele che ha appoggiato era quello britannico del Mandato". Ma comunque bisogna sapere che il governo israeliano e le sue politiche sono scelte fra un'ampia offerta politica, dagli elettori di Israele, cioè da una buona metà del popolo ebraico (più naturalmente i cittadini non ebrei) e dal popolo democraticamente consultato.
   La seconda considerazione riguarda la composizione di questo elettorato. Quasi il 13% dei voti sono andati alla "lista unita" che non si caratterizza tanto per la sua prevalente etnicità araba, ma per la radicale opposizione al progetto sionista. Come se in Italia ci fosse una lista borbonica che si oppone non etnicamente al Nord, ma al progetto fondamentale di uno stato unitario italiano. Bisogna anche notare che i suoi elettori non sono tutti gli arabi (ce n'è che votano per altri partiti, sparsi per tutto l'arco politico) né tutti arabi (gli estremisti di sinistra più radicali la votano contro il progetto sionista anche se sono ebrei). Il 14% sono charedim, gli elettori strettamente religiosi dei due partiti sefardita e askenazita. La destra, inclusi i religiosi sionisti ha il 5% dei voti, il Likud ha il 29 %. Insomma il blocco di governo arriva circa al 47% (che in seggi sono di più per un lieve effetto maggioritario del calcolo elettorale). Se si escludono gli antisionisti, c'è anche una netta maggioranza di elettori. Dall'altra parte i bianco-azzurri di Ganz arrivano al 26 e la sinistra supera il 5. Il totale fa il 32% degli elettori nel blocco di Gantz. Infine un po' meno del 6% dei voti va a Israel Beitenu di Lieberman, che ideologicamente sarebbe di destra (e in tutte queste elezioni se avesse rispettato questa impostazione avrebbe fatto largamente superare la maggioranza al blocco di governo), ma si è associato a Gantz per odio a Netanyahu e ai charedim.
   Al di là del risultato numerico e della capacità che Netanyahu potrà avere o meno di attirare un paio di deputati della minoranza per avere il governo (altrimenti si finisce diritti filati alle quarte elezioni perché non vi è una soluzione di sinistra), in Israele si conferma un orientamento nettamente di destra, ancor di più nell'"arco costituzionale" (per applicare un po' impropriamente ma non troppo una terminologia italiana al caso israeliano) di chi condivide l'impostazione sionista. Questo è un risultato consolidato ormai da decenni: gli israeliani, dopo i risultati di Oslo e del progetto "territori in cambio di pace", non si fidano della sinistra e non la vogliono al governo, tanto meno in un momento molto difficile come questo.
   Vale la pena di aggiungere che questo orientamento non è stato modificato dalla massiccia posizione a favore dei democratici (e dunque anti-Netanyahu) della maggioranza della comunità ebraica più importante della diaspora, quella americana. Ma soprattutto non lo è stato dall'incriminazione di Netanyahu per corruzione, che autorevoli giuristi internazionali come Alan Dershowitz avevano giudicato impropria ed esagerata e che evidentemente non è parso fondato neppure all'elettorato israeliano. Adesso naturalmente il processo farà il suo corso, ma le elezioni mostrano che per buona parte degli elettori Netanyahu resta il più adatto a governare Israele.
   Visto a posteriori, questo risultato dipende anche dalla debolezza e dalla genericità del programma dello schieramento anti-Netanyahu, che non era riuscito a indicare una linea politica (economica, internazionale e di sicurezza) alternativa a quella perseguita con successo dall'attuale maggioranza negli ultimi dieci anni. E magari anche dalla personalità sbiadita e politicamente poco competente di Gantz. La speranza è che ora il governo si possa comporre rapidamente e che Israele possa affrontare il futuro prossimo, ricco di possibilità nuove, ma anche di pericoli, con un esecutivo nel pieno possesso dei suoi poteri.

(Progetto Dreyfus, 4 marzo 2020)


Pio XII non fermò il treno della Shoah

Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni polemizza sulla tempistica e sulla fretta dell'Osservatore romano di arrivare a delle conclusioni che "assolvono" Pacelli per il ruolo avuto nella II guerra mondiale. Quale ruolo ebbe il pontefice dopo la razzia al ghetto di Roma, quando 1022 persone furono deportate nei campi di sterminio? La comunità ebraica chiede di dare tempo agli storici di leggere i documenti.

di Umberto De Giovannangeli

Il racconto dei testimoni
Quell'accusa riapre una ferita che non si è mai rimarginata. E che chiama direttamente in causa il ruolo di papa Pio XII nella tragedia della Shoah. Da parte del Vaticano «non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre» del 1943, che deportò in Germania dalla stazione Tiburtina 1022 ebrei prelevati dai tedeschi nel primo rastrellamento romano. Il possente j'accuse è di una delle figure più autorevoli e rappresentative dell'ebraismo italiano: il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Un atto di accusa che coincide con il giorno in cui Oltretevere sono stati aperti gli archivi dedicati al pontificato di Pio XII.
La tempistica dell'operazione del Vaticano non convince neanche un po' Di Segni, che attacca: «È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio. Ma basta poco per rendersi conto che già le scarse rivelazioni saranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo. Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati. Dopo aver detto che ci vorranno anni di studio, ora la soluzione uscirebbe il primo giorno come il coniglio dal cilindro del prestigiatore. Per favore, fate lavorare gli storici». Il riferimento, nemmeno tanto velato del rabbino capo di Roma, è a un articolo de L'Osservatore Romano, scritto dal professore Johan Ickx, direttore dell'archivio storico della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana. In questo testo, infatti, lo studioso afferma che le prime carte degli stessi archivi confermerebbero gli aiuti di Pacelli agli ebrei.
   La discussione è aperta e, per molti aspetti dolorosa. II Riformista ha raccolto le considerazioni di esponenti di primo piano dell'ebraismo italiano e internazionale. «Proprio perché sono stati messi a disposizione, dopo decenni, qualsiasi valutazione sul significato dei documenti resi disponibili - dice Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) - dovrà essere espletata dalla comunità dei ricercatori, alla quale anche il professor Ickx è chiamato a far riferimento prima di rilasciare dichiarazioni conclusive, quanto meno affrettate e di parte». «Quello di cui si sta parlando è un tema per tutti noi fondamentale e profondo, e non si deve prestare ad una strumentale dialettica politica», aggiunge la presidente dell'Ucei.
   «Adesso che finalmente si sono aperti gli archivi, con nostra grande soddisfazione visto che lo richiedevamo da tempo, aspettiamo di vedere che cosa gli esperti troveranno in questi archivi», afferma la professoressa Anna Foa, tra i massimi esperti italiani di storia ebraica, studiosa e saggista autrice di numerosi volumi di successo, collaboratrice da dieci anni del quotidiano dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche 24, del portale dell'ebraismo italiano wwwmoked.it e del mensile Pagine Ebraiche. Lo scorso anno, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha insignita del titolo di commendatore, tra i più significativi assegnati dal Capo dello Stato a cittadini distintisi per il loro contributo nelle professioni, nella cultura e nella società. «Qualunque anticipazione in questo momento - rimarca la professoressa Foa - mi sembra eccessiva e fuori luogo. Potremo confrontarci con una documentazione e non con ipotesi o leggende di vario segno».
   Resta la forza del j'accuse. «Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati», incalza il rabbino capo di Roma.
   «Naturalmente l'apertura di un archivio è una notizia in sé - annota Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) -, ma la ricerca che vi si compie ha bisogno di tempo e non si presta a dichiarazioni sensazionalistiche come quella del professor Ickx. Sicuramente ci saranno documenti che attestano l'assistenza di ecclesiastici, più o meno di livello nella gerarchia della Chiesa cattolica, a ebrei. Ma spetta agli storici che "sondano" l'archivio valutare la vastità o meno di questa assistenza».
   «È un fatto storico - rimarca il direttore del Cdec - quello evidenziato dal rabbino Di Segni sul silenzio di Pio XII sulla razzia del 16 ottobre 1943. Speriamo che la documentazione contenuta in quell'archivio ci spieghi i perché di quei silenzi». L'eco della denuncia arriva fino a Gerusalemme.
   «Conosco e ammiro il rabbino Di Segni, e so che è una persona equilibrata, che misura il peso delle parole - dice Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, raggiunto telefonicamente nel suo ufficio -. Di tutto c'è bisogno meno di uscite o indiscrezioni che sembrano tendere a annacquare responsabilità o a minimizzare eventi tragici. Che sia dato il tempo agli storici di lavorare con serenità e senza condizionamenti di qualunque genere e da qualunque parte possano provenire - aggiunge Zuroff -. Questioni così delicate vanno affrontate col massimo rigore e serietà d'intenti. Ci sono due domande da chiarire: la prima è: quali informazioni ebbe il Vaticano sui crimini della Shoah? E la seconda è quando Pio XII fu raggiunto da tali informazioni». Il ventitré ottobre 2018 il ministro per gli Affari sociali di Israele, Isaac Herzog, si schierò contro il tentativo di far diventare santo Pio XII.

(Il Riformista, 4 marzo 2020)


L'eterno ritorno di Netanyahu. Bibi vince ancora contro Gantz

Al Likud manca un solo seggio per governare da solo. Il premier batterebbe il (suo) record di longevità politica

di Chiara Clausi

GERUSALEMME - È una sorpresa, un risultato inaspettato. Benjamin Netanyahu ha vinto la sua scommessa. Il suo Likud ha 37 seggi e potrebbe ottenere la maggioranza alla Knesset con i partiti della sua coalizione, con 60 seggi in totale su 120. Il leader di Blu e Bianco Benny Gantz suo principale avversario, invece ha 32 seggi e arriva con la coalizione solo a 52, compresi i 14 seggi della Lista Araba Unita e i 6 di Laburisti-Gesher-Meretz. Avigdor Liberman leader di Israel Beytenu, partito di destra laica, ne ottiene 8. Yamina guidato dal ministro della Difesa Naftali Bennett 6, Shas degli Haredi di origine mediorientale 9, la Torah Unita degli ortodossi di origine europea 8, tutti e 3 alleati di Bibi, Netanyahu poco prima della chiusura dei seggi aveva chiamato al voto tutti gli israeliani: «Andate a votare in massa altrimenti vinceranno gli arabi». Ed è riuscito a mobilitare i suoi sostenitori. Tanto che a caldo, visti i primi exitpoll, ha commentato su Twitter «una grande vittoria per Israele».
   I seggi sono stati aperti dalle 7 fino alle 22 ora locale. L'affluenza è stata del 71 %, la più alta dalle elezioni del 2015. Netanyahu quando è andato a votare nell'elegante quartiere di Gerusalemme Ovest vicino alla German Colony con la moglie Sara, ha chiesto agli israeliani di non avere paura del coronavirus. Per gli oltre 5.000 israeliani in quarantena a casa sono state installate cabine speciali. Dodici sono gli israeliani che finora hanno contratto il virus.
   La campagna elettorale ha avuto in alcune occasioni toni forti. Netanyahu ha dichiarato che Gantz non è «idoneo» a diventare primo ministro. «È debole, non è un leader», ha affermato. Gantz invece ha sottolineato come il suo avversario si stesse comportando come se fosse parte di un clan mafioso e come fosse in gioco l'integrità della democrazia israeliana. Il Paese è in uno stato di crisi politica da quasi 12 mesi dopo che due precedenti elezioni generali ad aprile e a settembre 2019 non hanno prodotto un chiaro vincitore. Nel frattempo, pende sul capo di «Bibi» un'accusa per tre casi di corruzione. Dovrebbe comparire in tribunale il 17 marzo. Questa storia ha intaccato inevitabilmente la sua immagine.
   Ma nonostante ciò Netanyahu ha condotto abilmente la sua campagna elettorale. Ha promesso che sarebbe andato avanti con gli insediamenti a est di Gerusalemme e avrebbe annesso le parti della West Bank che spetterebbero a Israele in base al piano di pace americano. E Netanyahu è a un soffio dalla maggioranza ma gli mancherebbe un seggio per raggiungere i 61 seggi necessari su 120. Il blocco di destra di Netanyahu è costituito dal suo partito il Likud, un gruppo conservatore laico e una manciata di partiti ultra-ortodossi e di destra. Gantz invece dovrebbe formare un'alleanza con la coalizione di centro-sinistra Laburisti-Gesher-Meretz, ma non con la Lista Unita araba, che potrebbe dare però un appoggio esterno. Ma non si può negare che le elezioni sono state soprattutto un plebiscito su Netanyahu e «King Bibi» è riuscito ancora una volta a convincere Israele. Se rieletto, sarebbe il primo premier israeliano a rimanere in carica anche se imputato in un processo penale.

(il Giornale, 3 marzo 2020)


*


Israele ridà fiducia a Bibi Netanyahu

Il premier batte Gantz per 37 seggi a 33. Ma la maggioranza alla Knesset è incerta.

di Daniel Mosseri

Secondo le prime proiezioni diffuse a urne appena chiuse, il premier uscente Benjamin Netanyahu è il vincitore delle elezioni parlamentari in Israele. Il suo partito, il Likud, sarebbe il primo per numero di seggi a quota 37 mandati, con il blocco conservatore-religioso guidato dal capo del governo che si sarebbe assicurato una maggioranza di 61 deputati sui 120 del Parlamento unicamerale israeliano. O almeno 60 deputati, la metà di tutta l'assemblea.

 Verso l'incarico
  Se lo spoglio confermerà i dati diffusi dagli exit poll, Netanyahu, potrà reclamare l'incarico a formare il governo con i due partiti religiosi e con Yemina {la Destra). Diventerebbero invece superflui i nove deputati del partito nazionalista Yisrael Beitenu (Israele, la nostra casa) degli elettori russofoni. La formazione è guidata da Avigdor Liberman, l'uomo che odia Netanyahu più dei suoi oppositori di sinistra. Il condizionale resta tuttavia d'obbligo fino alla pubblicazione dei risultati definitivi. Il voto rafforza comunque Netanyahu che, incriminato per corruzione, continua a proclamarsi innocente e ha rinunciato mesi fa all'immunità parlamentare, Esce invece sconfitto lo sfidante Benny Gantz, già generale a cinque stelle e oggi leader del partito progressista Blu Bianco.
  Prima ancora della diffusione degli exit poll, è stato il dato dell'affluenza a stupire i media e i sondaggisti. Perché alle 20 ora locale, la partecipazione al voto aveva raggiunto il 65,5%, il dato più alto (a quell'ora) dal 1999 e di 1,8 punti superiore a quello del 17 settembre 2019. In quella data gli israeliani erano stati chiamati di nuovo alle urne per scegliere fra Netanyahu, sempre sostenuto dal blocco delle destre e dai religiosi, e anche dagli altri partiti della sinistra e in maniera non ufficiale da parte della Lista comune dei partiti arabi. A sua volta, l'elezione di settembre altro non era che la ripetizione di quella del precedente 9 aprile, conclusasi con uno scioglimento anticipato della Knesset appena eletta dopo il sostanziale pareggio fra il Likud di Netanyahu e la formazione guidata Gantz. Chi pensava che la terza elezione in meno di un anno con una campagna elettorale fra colpi bassi e veti incrociati avrebbe stancato gli israeliani è stato smentito. Fra i meno entusiasti del ritorno al voto c'era il capo dello Stato Reuven Rivlin, l'uomo che ha assegnato incarichi a destra e a manca senza tuttavia che alcuna delle parti sia mai riuscita a formare un governo. «Abbiamo sempre visto le elezioni come un giorno di festa per la nostra democrazia, ma oggi, c'è un sentimento di profonda vergogna ha affermato il presidente Non ci meritiamo un'altra terribile campagna elettorale che scade in simili livelli di sporcizia».

 Al voto con la mascherina
  Neppure l'allarme per il coronavirus ha fatto desistere gli elettori. Come ha spiegato a Libero il cittadino israeliano di origine italiana Vito Anav, «il governo ha allestito 14 seggi speciali nel paese allo scopo di permettere l'esercizio del voto alle centinaia di israeliani costretti alla quarantena domiciliare». Si tratta in maggioranza di persone rientrate in Israele dopo un viaggio in paesi, come l'Italia, dove il virus è più diffuso. Per loro l'amministrazione ha allestito seggi speciali con scrutatori dotati di scafandro antivirus da film di fantascienza. «A Gerusalemme abbiamo votato in un ampio parcheggio: alle persone in attesa di esprimere il proprio voto, rigorosamente con guanti e mascherina forniti dal seggio , è stato chiesto di non rimanere gli uni troppo vicini agli altri».

(Libero, 3 marzo 2020)


*


Ha perso l'odio per Benjamin, ma il governo resta un rebus

di Fiamma Nirenstein

Cresce il Likud a 36 seggi da 32, Gantz resta a 33, secondo i primi exit polls La coalizione di destra arriva a 60 seggi, Gantz arriva allo stesso numero per un eventuale coalizione, molto spuria, con Liberman e il partito arabo, in maniera quindi molto più contradditoria e difficile. Lui, sempre lui, solo lui, nonostante una guerra che lo ha fatto sanguinare, che lo ha inseguito sul terreno giudiziario, politico, familiare, personale. Un attacco spietato che ha danneggiato anche i suoi nemici: a forza di puntare i riflettori sul PM dalla voce bassa, il passato nella migliore unità antiterrorista, l'economista che ha riportato il Paese alla crescita, lo stratega che l'ha mantenuto in pace nonostante i missili di Hamas e ha fatto crescere il consenso internazionale, Gantz ha dimenticato di disegnare un'alternativa politica. Può darsi che questo risultato liberi il Paese dall'incubo «quarte elezioni».
   Gantz non è fiorito come leader, l'odio per Netanayhu è stato protagonista e ha perso, ha preso in una rete Gantz e i suoi uomini. Bibi, duro, rabbioso, forse bugiardo e certo molto interessato alla sua immunità parlamentare di fronte alle incriminazioni, è rimasto tuttavia un protagonista churchilliano, diritto in mezzo della tempesta, fedele a se stesso e alla sua ideologia. I mandati del Likud in più nonostante l'incriminazione sono un risultato doppio. Semmai Gantz decidesse di legarsi al partito arabo che ha ottenuto grandi risultati con 15 seggi, dovrà cercare di arrampicarsi sugli specchi di una contraddizione profonda, magari persino tirando dentro l'ambiguo ma ultradestro Avigdor Liberman, che con gli arabi ha un rapporto ben peggiore di Netanyahu. Il primo ministro è stato esposto alla gogna dell'opinione pubblica per tre campagne elettorali consecutive, a aprile, a settembre, adesso. Il sole non si è levato su Gerusalemme e Tel Aviv senza che i giornali radio, le tv, i titoli non gridassero contro di lui dandolo per morto politicamente. E per contro, la sua furiosa, aggressiva, offensiva contro Gantz e i suoi non ha fatto prigionieri. Gantz non ha usato le armi ideologiche di sinistra, come: ripristinare il pacifismo, appellarsi alla popolazione più povera. Niente. Ha puntato su «tutto fuorché Bibi», sul supporto oggettivo e soggettivo magistratura, sui sigari e lo champagne. Adesso comincia la drammatica danza del governo. Netanyahu certamente sta già cercando nelle file di «Blu e Bianco» chi voglia defenzionare e dargli quel voto in più. Gantz a sua volta può cercare di creare un governo se Liberman rinuncia al suo giuramento di non formare un governo col partito arabo. Anche gli arabi sono galvanizzati dall'idea di poter far fuori Bibi. Gantz per altro potrebbe anche tentare di portarsi dietro un partito di estrema destra, promettendo il suo impegno nel piano Trump e nelle annessioni.
   Contraddittorio con le sue dichiarazioni precedenti? Si, ma ognuno qui farà qualsiasi cosa per formare un governo. Nel Likud qualcuno disegna un ammutinamento per disegnare governo di coalizione con Gantz. Estremo? Confuso? Nella notte di Gerusalemme, una cosa certa: Bibi è sempre il primo leader.

(il Giornale, 3 marzo 2020)


I più gravi problemi di Israele derivano dal suo successo straordinario

Guerra? Elezioni? No, lo stato ebraico è angosciato dal traffico, mentre l'Iran è in ginocchio per il virus.

di Giulio Meotti

Usuale scena di traffico a Tel Aviv
ROMA - "La piaga di Tel Aviv? Il traffico", sembrano dire gli israeliani facendo il verso allo "zio" di Johnny Stecchino a Palermo, mentre lo stato ebraico ieri tornava al voto per la terza volta in un anno e già si parlava di una quarta a settembre se non si trovasse una soluzione parlamentare alla contesa fra il Likud del premier Benjamin Netanyahu e il Blu e bianco dell'ex generale Benny Gantz.
Il paese che tutti un tempo (e tanti ancora oggi) nella regione volevano eliminare, il paese senza capitale riconosciuta unanimemente, dai confini porosi e sorvegliato speciale dei media, delle corti e dell'opinione pubblica occidentale, è diventato così normale che i suoi problemi più gravi oggi derivano dal suo straordinario successo (la sua economia cresce a un ritmo annuo del 3,3 per cento). "Le sfide di Israele nascono dalla sua vitalità: il tasso di fertilità di 3,1 figli per donna è il più alto tra i paesi avanzati, contribuendo a una crescita della popolazione di oltre 200 mila persone all'anno", fa notare il New York Times. Nell'ultimo anno c'è stato un venti per cento in più di immigrati, che si aggiunge a una crescita demografica interna senza precedenti per un paese sviluppato. Così Israele, più che dai confini e dal terrorismo endemico -problemi che ci sono e ci saranno sempre per una enclave ebraica fiorita letteralmente nel cuore del mondo islamico-, è angosciato per le sue strade, le più congestionate del mondo sviluppato, con molte più auto in circolazione di tutti i paesi europei. Anche le aule israeliane sono le più affollate, con una media di 28 studenti ciascuna, cinque in più rispetto alla media dei paesi dell'Ocse. Già oggi, Israele è il terzo paese sviluppato più densamente popolato dopo Olanda e Corea del sud, ma nel 2035 Israele sarà il numero uno. La popolazione israeliana sta crescendo così rapidamente - il due per cento all'anno contro una media di appena lo 0,5 per i paesi Ocse - che se la tendenza non cambierà "entro il 2065 sarà il paese più affollato dopo il Bangladesh", dice Dan Ben-David dell'Università di Tel Aviv. E' come se nascesse una nuova città ogni anno. Rachelle Alterman del Technion di Haifa prevede che se la popolazione raggiungerà i 18 milioni entro il 2050, gli israeliani dovranno vivere in torri di appartamenti, modello Singapore e Hong Kong, che però hanno famiglie molto piccole. Cinquant'anni fa, quando Israele era ancora un paese ultrainflazionato e semi socialista, c'erano 3,3 letti d'ospedale per ogni mille abitanti. Oggi sono 1,7. Eppure, è notizia di ieri che lo Sheba Medical Center, vicino a Tel Aviv, è stato scelto come il "nono miglior ospedale del mondo" da Newsweek, che stila ogni anno la classifica.
   Di due giorni fa è la notizia che il Migal Galilee Research Institute, finanziato dallo stato israeliano, sta già lavorando a un vaccino per il coronavirus. "Vogliamo produrlo in otto-dieci settimane", ha detto il ceo di Migal, David Zigdon. La ricerca scientifica galoppa a un ritmo impressionante. Saul Singer, l'autore di "Start-up Nation", ha spiegato che "se si considerano i 25 principali farmaci sviluppati negli ultimi dieci anni, sette sono stati parzialmente prodotti presso il Weizmann", un famoso istituto di ricerca israeliano. "Non esiste altra istituzione al mondo che possa dire altrettanto", osservando che Harvard ne ha sviluppati solo due e con un budget molto più ampio. "E l'Università di Tel Aviv si è classificata undicesima in termini di citazioni per membro di facoltà, sopra Oxford, Cambridge e Yale".
   Intanto la Repubblica islamica dell'Iran, l'unico nemico di Israele con le capacità militari e la volontà politica per impensierire Gerusalemme, sta implodendo a causa del coronavirus. Mentre il presidente iraniano Hassan Rohani diceva che il virus è un "complotto dei nostri nemici", un membro del Consiglio della guida suprema Ali Khamenei moriva in ospedale, ucciso dal virus. Si tratta di Mohammad Mirmohammadi, l'ottavo alto ufficiale del regime ad ammalarsi e il terzo a perdere la vita (nel paese ci sarebbero già più di duecento morti). "Israele sarà diventato un paese normale quando ladri e prostitute faranno i loro affari in ebraico", diceva David Ben Gurion. E' la straordinaria normalità di Israele. Se soltanto non ci fosse tutto quel traffico sull'autostrada Ayalon.

(Il Foglio, 3 marzo 2020)


La comunità ebraica: "Il Vaticano non fermò il treno dei deportati"

di Paolo Rodari

 
CITTÀ DEL VATlCANO - Da parte del Vaticano «non ci fu volontà di fermare il treno del l6 ottobre» del 1943, che deportò in Germania dalla stazione Tiburtina 1.022 (per alcuni storici sono 1.024) ebrei prelevati dai tedeschi nel primo rastrellamento romano. L'accusa è del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni che infiamma i rapporti con la Santa Sede proprio nel giorno in cui Oltretevere sono stati aperti gli archivi dedicati al pontificato di Pio Xli, il vescovo di Roma che favorì il nascondimento nei conventi di diversi ebrei, ma che nello stesso tempo scelse di stare in silenzio di fronte all'incedere della Shoah.
   Di Segni attacca indirettamente alcune uscite di ieri di personalità del Vaticano che, in particolare per voce di Johan Ickx, direttore dell'archivio della Sezione Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, affermano che le prime carte degli stessi archivi confermerebbero gli aiuti di Pacelli agli ebrei. Tra i documenti già fruibili in formato elettronico, spiega Ickx, spiccano i fascicoli sugli "Ebrei" con 4mila nomi e le loro richieste di aiuto. Dice: «Tra questi c'è una maggioranza di richieste per aiuto da parte di cattolici di discendenza ebraica, ma non mancano i nomi di ebrei».
   La reazione di Di Segni è veemente, ed è mossa in particolare a motivo della tempistica con la quale la Santa Sede dichiara le sue conclusioni: È molto sospetto questo sensazionalismo, con i fascicoli già pronti e le conclusioni facili proposte sul vassoio», dice. E ancora: «Ma basta poco per rendersi conto che già le scarse rivelazioni saranno un boomerang per gli apologeti a ogni costo. Si vede chiaramente che non ci fu volontà di fermare il treno del 16 ottobre e che gli aiuti furono ben mirati a tutela dei battezzati». «Dopo aver detto che ci vorranno anni di studio - chiosa il rabbino capo di Roma - ora la soluzione uscirebbe il primo giorno come il coniglio dal cilindro del prestigiatore. Per favore, fate lavorare gli storici».
   Il treno del primo rastrellamento partì da Roma il 18 ottobre, due giorni dopo che gli ebrei vennero con la forza strappati dalle loro abitazioni nel ghetto. Secondo alcuni storici il ritardo di 48 ore fu dovuto dal timore nazista di reazioni vaticane, reazioni che tuttavia non arrivarono mai. A detta di diverse ricostruzioni fatte successivamente da storici principalmente cattolici, papa Pio XII rinunciò a parlare e a scrivere affinché la strategia di soccorso attuata in Europa non fosse colpita e smantellata dalla rappresaglia hitleriana. Il silenzio vaticano, tuttavia, continuò per diverso tempo anche dopo la guerra. E fu una caratteristica con la quale anche successivamente a Pacelli, i suoi collaboratori, Montini e Casaroli su tutti, instaurarono i propri rapporti diplomatici coi governi comunisti dell'Est. Comprendere dove risieda la verità è in ogni caso un lavoro ancora da fare, soprattutto oggi che una mole impressionante di documenti inediti può essere finalmente consultata. Ma un corretto svisceramento delle carte richiederà mesi, se non anni.

(la Repubblica, 3 marzo 2020)




Pio XII nell'ottobre '43: tedeschi corretti con il Vaticano

A proposito di Pio XII, ripresentiamo oggi un articolo riportato sul nostro sito il 18 ottobre 2008. NsI

di Paolo Cucchiarelli

ROMA - C'è un nuovo tassello da inserire nel cangiante e spesso contraddittorio mosaico del rapporto tra Pio XII e gli ebrei nell'autunno del 1943, quando le SS di Herbert Kappler arrestarono poco più di mille romani nel ghetto e nei quartieri della "città aperta" e li spedirono ad Auschwitz.
   Si tratta di documenti che arrivano dagli archivi inglesi e americani, visto che quelli vaticani sono tuttora inaccessibili. Uno di questi illustra l'incontro avvenuto due giorni dopo la retata nel ghetto, il 18 ottobre '43, tra il Papa e l'inviato straordinario della Gran Bretagna presso la Santa Sede: in quella occasione Pio XII tace sulla retata e il diplomatico gli chiede di interpretare con maggior determinazione il suo ruolo. In quel contesto Pacelli afferma che i tedeschi si sono comportati "correttamente" con il Vaticano.
   In quelle ore il treno con gli ebrei romani sta per partire verso Auschwitz. Due mesi dopo la deportazione degli ebrei romani il Papa, il 13 dicembre del '43, conversando con l'ambasciatore tedesco Ernest von Weiszaecker, che aveva cercato di opporsi alla deportazione, aveva illustrato la sua posizione sugli sviluppi della guerra. Il diplomatico aveva riassunto il tutto in un rapporto che è stato rintracciato durante alcune ricerche dagli studiosi Mario J. Cereghino e Giuseppe Casarrubea che le pubblicheranno in un prossimo volume.
   "Il Papa si augura - afferma il rapporto fatto avere ai servizi americani da Fritz Kolpe, la più importante 'talpa' che gli Usa avevano all' interno del ministero degli Esteri tedesco - che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario, il comunismo sarà l'unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l'unione delle antiche Nazioni civilizzate dell'Occidente per isolare il bolscevismo ad Oriente. Così come fece Papa Innocenzo XI, che unificò il continente (l'Europa) contro i musulmani e liberò Budapest e Vienna".
   Proveniente dagli archivi inglesi è invece il resoconto dell'incontro del 18 ottobre del '43 tra l'inviato straordinario inglese Sir D'Arcy Osborne e il Papa. Da due giorni gli ebrei romani sono stati prelevati dalle loro case; lo stesso giorno, alle 14, partiranno dalla stazione Tiburtina verso il campo di concentramento. Nulla il Papa dice di quanto è avvenuto in quelle ore. Pio XII parla della difficile situazione alimentare a Roma che potrebbe portare a tumulti e della sua volontà di non abbandonare la città a meno di non essere "rimosso con la forza".
   L'ambasciatore è colpito dall'atteggiamento del Papa che gli dice di non avere elementi per lamentarsi del generale Von Stahel, comandante della piazza militare di Roma, e degli uomini della polizia tedesca "che finora hanno rispettato la neutralità" della Santa Sede. "Io ho replicato - scrive il diplomatico nel rapporto indirizzato al ministro degli Esteri Eden - di aver capito che quando il Vaticano parlava di preservare 'Roma citta' aperta, si riferisse alle operazioni militari. A parte il fatto che la denominazione 'Citta' aperta è una farsa, l'Urbe è alla mercé dei tedeschi che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...)".
   Il diplomatico cerca di far uscire Pio XII dal suo atteggiamento. "Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato della Città del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono comportati correttamente", aggiunge nuovamente il diplomatico. Una affermazione fatta mentre la città è ancora sotto choc per la retata arrivata dopo il ricatto dei 50, inutili, kg di oro chiesti agli ebrei per evitare la deportazione. "A mio parere - scrive ancora il rappresentante inglese - molta gente ritiene che Egli sottostimi la Sua autorità morale e il rispetto riluttante di cui Egli è oggetto da parte dei nazisti, dal momento che la popolazione tedesca è cattolica. Ho aggiunto di essere incline a condividere questa opinione e l'ho esortato a tenerlo bene in mente nel corso dei futuri avvenimenti, nel caso emergesse una situazione in cui fosse necessario applicare una linea forte".
   "Mettendo a raffronto i due documenti - commentano gli studiosi - risulta chiaro che Pacelli si sente a suo agio con l'ambasciatore tedesco. Con il rappresentante inglese assume un atteggiamento freddo, facendo leva su un giudizio del tutto formale tanto da suscitare la inusitata reazione del diplomatico". I due studiosi, già autori di un volume sulla guerra al comunismo in Italia tra il '43 e il '46, "Tango connection", sottolineano la difficoltà di raccogliere in Italia elementi documentali sulla questione ebrei-Vaticano: "Tuttavia migliaia di documenti sulla situazione della Santa Sede negli anni della seconda guerra mondiale sono da tempo disponibili negli Archivi di College Park negli Stati Uniti e di Kew Gardens in Gran Bretagna. Sono carte provenienti dai fondi dei servizi segreti angloamericani, del Dipartimento di Stato Usa e del Foreign Office britannico", spiegano. "Il nostro archivio www.casarrubea.wordpress.com), conserva rapporti dei Servizi Usa sulle pesanti ingerenze esercitate dalla Santa Sede e in particolare da Pio XII e da Montini, il futuro Paolo VI, nella formazione del primo governo De Gasperi".

(ANSA, 18 ottobre 2008)


Il fatto che alcuni o molti ebrei siano stati salvati dai nazisti per l'intervento di persone e istituzioni cattoliche può significare due cose:
- 1. sul piano personale - alcuni, indipendentemente dal fatto di essere cattolici o no, sottoposti a vincoli religiosi o no, fecero il loro dovere di esseri umani cercando di salvare altri esseri umani da una mostruosa furia omicida;
- 2. sul piano istituzionale - poiché si conosceva bene quello che i tedeschi avevano fatto e stavano facendo agli ebrei, essendo ormai evidente che la Germania aveva irrimediabilmente perso la guerra, e sapendo che presto, a guerra finita, si sarebbero fatti i conti, la cosa più conveniente era quella di prendere le distanze dai carnefici e cercare di costituirsi un passato di "amici degli ebrei", come poi è avvenuto.
  Tutto questo comunque non cambia il fatto che quei mille romani trasportati ad Auschwitz sono stati sacrificati sull'altare della "ragion di stato" vaticana. M.C.
L'antisemitismo del Vaticano


Pesanti attacchi contro Israele. La Comunità ebraica querela

Durante la trasmissione di Radio Radio «Food Sport», venerdì scorso, chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, viene intervistato sui motivi per i quali ha lasciato la tv.

di Simona De Santls

«Non è colpa mia se Israele nella politica interna ed estera, e non parlo degli israeliani o degli ebrei, ma dei sionisti, fa schifo al c… »: chef Rubio risponde così, testualmente, in diretta dai microfoni di Radio Radio, a un ascoltatore che lo rimprovera di aver detto «menzogne» nel corso della trasmissione «Food Sport» in merito alla questione palestinese (e non solo). Rubio, al secolo Gabriele Rubini, non è nuovo a uscite pubbliche di questo tenore. «Chi mi segue lo fa perché posto articoli (su Istagram ndr), libri, conferenze, video che, purtroppo per voi e per fortuna per il mondo, grazie ai social riescono a girare più velocemente».
   Parole che non sono state affatto gradite dalla comunità ebraica di Roma e dalla sua presidente, Ruth Dureghello, che ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica e all'Ordine dei giornalisti. Nell'esposto si evidenziano, in particolare, le affermazioni e gli atteggiamenti di apparente supporto e condivisione espresse dal moderatore del dibattito, il direttore ed editore della rete, Ilario Di Giovambattista, che forse prendendo spunto da un messaggio inviato da un ascoltatore afferma: «Gesù è nato ebreo ed è nato in Palestina, ebreo in Palestina, ed è morto per gli ebrei ... Eh, so' gli ebrei che lo hanno ammazzato ... eh ragazzi, ma qui siamo, sennò stravolgiamo».
   Nella trasmissione chef Rubio doveva essere interpellato in merito a un'iniziativa collegata al progetto Gaza Free Style, invece gli viene chiesto per quali motivi ha abbandonato la tv. «Non avevo più la libertà di raccontare extra lavoro la causa palestinese», spiega, cosa che sarebbe avvenuta proprio in conseguenza delle sue idee politiche. Rubio prosegue sostenendo «il boicottaggio quanto più possibile dei prodotti israeliani, dei film e delle serie dove si descrivono i palestinesi come terroristi». E aggiunge: «Alcuni giovani di Frascati o Montebelluna o Palermo finiscono per crederci».
   Anche qui, secondo quanto evidenziato nell'esposto, il direttore Di Giovambattista sembra approvare, accompagnando i commenti a espressioni del viso che nell'esposto vengono definite non equivocabili. La comunità ebraica evidenzia nel suo complesso l'attacco alla politica di Israele, attuato con imprecisioni e luoghi comuni smentiti dai dati storici che alimentano la portata di sentimenti di odio religioso nei confronti degli ebrei, e chiede l'intervento delle autorità competenti.

(Corriere della Sera - Roma, 3 marzo 2020)


Il Presidente serbo Vučić annuncia acquisto armi da Israele e apertura uffici a Gerusalemme

Il Presidente serbo ha annunciato al giornale israeliano 'The Jerusalem Post' che il suo Paese starebbe pianificando di aprire una missione diplomatica e un ufficio economico a Gerusalemme, nonché acquistare una consistente quantità di armamenti.

 
Il presidente serbo Aleksandar Vučić
Il Presidente della Serbia, Aleksandar Vučić?, ha dichiarato al Jerusalem Post che il suo Paese intenderebbe acquistare armi da Israele. La notizia sarebbe stata appresa dal giornale israeliano nella giornata di ieri, domenica 1 marzo, durate un'intervista avvenuta in occasione della conferenza politica annuale della Commissione per gli affari pubblici israelo-statunitense a Washington.
  In risposta alle domande del giornalista che incalzava sulla presunta campagna anti-israeliana di boicottaggio, disinvestimento, sanzioni che secondo i media israeliani starebbe avvenendo nell'Europa occidentale nei confronti di Israele, Vučić? ha affermato che la Serbia avrebbe intenzioni di acquistare armi da Israele in quantità consistenti e che la Serbia "non è un terreno fertile per i messaggi antisemiti", e che in Serbia "non esiste alcuna campagna di boicottaggio nei confronti di Israele".
  Vučić?, sarebbe considerato un forte sostenitore di Israele secondo il giornale e, durante il suo discorso alla Conferenza che attira 18mila partecipanti da tutto il mondo, avrebbe annunciato che il suo Paese ha intenzione di aprire persino una missione diplomatica e un ufficio economico a Gerusalemme, pure lasciando intendere che l'Ambasciata rimarrà a Tel Aviv.
"Apriremo molto presto non solo un ufficio della nostra camera di commercio ma anche un ufficio statale ufficiale a Gerusalemme con una bandiera ufficiale serba che affiancherà la nostra ambasciata a Tel Aviv", ha detto il Presidente.
Vučić? avrebbe poi detto allo stesso giornalista del J.Post che il suo Paese "farà sempre il meglio per allineare i propri interessi con Israele".
Infine, alla domanda del giornalista su quale prevede essere il modello di voto della Serbia alle Nazioni Unite dove, sempre secondo l'intervistatore, Israele verrebbe regolarmente preso di mira con pregiudizio, Vučić? ha laconicamente affermato che in relazione alle eventuali risoluzioni anti-israeliane che: "possiamo sempre astenerci".

(Sputnik Italia, 2 marzo 2020)


Migliaia di missili da Gaza contro Israele. Perché nessuno si indigna?

di Emanuele Calò

Israele è un Paese continuamente bombardato da Gaza. Un noto giornalista disse in TV che Gaza è un campo di concentramento, e forse, visto che è spesso invitato dalle istituzioni ebraiche, potrebbe spiegarci meglio il concetto. Potremmo sbagliare e lui potrebbe chiarircene il perché, così potremmo scusarci.
   Un Qassam costa dai cinquecento ai mille dollari, mentre i missili per fermarli costano centomila dollari (ne servono due per volta).
   Il Qassam costa poco, perché a chi lo lancia non interessa dove andrà a cadere.
Perché Israele non fa lo stesso, e lancia dei Qassam verso Gaza? Se gli israeliani sono dei nazisti e se gli ebrei fanno ai palestinesi ciò che i nazisti fecero loro, perché non reagiscono come reagirebbe qualsiasi Paese bombardato? C'è qualcosa che andrebbe spiegato: forse gli israeliani sono così crudeli da giustificare questi attacchi? Il Presidente dell'OLP ha condannato questi attacchi, quindi, non li ritiene giustificabili.
   Si tratta di migliaia e migliaia di razzi, che fanno vivere la popolazione israeliana nel terrore. La gente ha quindici secondi per nascondersi.
   Fra l'altro, non vengono da un territorio occupato, perché Gaza è stata abbandonata da Israele quasi vent'anni addietro.
   Inoltre, Gaza viene rifornita da Israele, ed è un caso unico nella storia che colui che riceve le bombe non solo rifornisca di tutto punto la sede del bombardamento, ma riceva i suoi abitanti quali lavoratori e, all'occorrenza, metta a loro disposizione i propri ospedali. Inoltre, Gaza non è isolata, perché ha una frontiera con l'Egitto, nel valico di Rafah.
   Giorni addietro, vi è stata una manifestazione al Pantheon contro Israele; nell'adiacente Chiesa di Sant'Eustachio c'era uno striscione con alcune frasi della Senatrice Liliana Segre in cui si raccontava che la sua maestra le rispose: "le leggi razziali non le ho fatte io". La sacrosanta risposta della Senatrice riguardava la condanna dell'indifferenza. Leggendola, mi sono domandato perché, anziché limitarci a fare le maratone e le marce per ricordare chi non c'è più, siamo così indifferenti nei riguardi degli ebrei bombardati da quasi vent'anni: loro non sono forse esseri umani? In un noto film un criminale apostrofa il poliziotto dicendogli che è "a lot of talk and a badge" (chiacchiere e distintivo): e noi che facciamo per coloro i quali sono sottoposti a questo martirio? La risposta è semplice: siamo indifferenti. Tutti.

(Shalom, 2 marzo 2020)


Le minacce alla sicurezza richiedono un governo stabile

Oggi si torna al voto per la terza volta in un anno, ma sarà difficile avere una maggioranza certa. Non ci sono i margini per un esecutivo di unità nazionale tra Netanyahu e il generale Gantz.

di Meir Ouziel

GERUSALEMME - Israele sta vivendo un momento politico senza precedenti da quando è stato fondato più di settant'anni fa e si trova in un labirinto dal quale nessuno sa come uscire. Il 2 marzo, per la terza volta in meno di un anno, si terranno nuove elezioni. A sfidare il primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, c'è il partito «Blu e Bianco»,guidato da tre exCapi di Stato Maggiore dell'esercito e da un famoso giornalista televisivo. Un partito che, al pari di Netanyahu, non è riuscito a ottenere la maggioranza nelle precedenti tornate elettorali, tenutesi il 9 aprile e il 17 settembre del 2019.
   L'impasse in cui si trova Netanyahu è difficile da spiegare in quanto Israele, negli ultimi anni, ha vissuto cambiamenti decisamente positivi. L'ultimo, in ordine di tempo, è il riconoscimento della legalità degli insediamenti in Giudea e in Samaria da parte degli Stati Uniti d'America e il conseguente permesso di annettere gran parte di quelle regioni nel quadro del «Patto del Secolo», il piano di pace proposto dagli americani tra israeliani e palestinesi. Un altro miglioramento si è registrato in campo economico. Nel 2009 - l'anno in cui Netanyahu è stato nominato primo ministro - il reddito pro capite era di circa 24,000 euro, mentre già nel 2018 aveva superato i 36,000 euro, con un tasso di disoccupazione prossimo allo zero. Sotto il governo Netanyahu Israele si è inserito ai vertici dell'economia globale, annoverandosi fra i paesi più sviluppati del mondo.
   Un altro cambiamento degno di nota, in negativo però, è la perdita di fiducia di molti israeliani nel sistema giudiziario. Negli ultimi anni Netanyahu è stato indagato per corruzione ma una parte dell'opinione pubblica, e anche della magistratura, ritiene che le accuse contro di lui siano false. Non riuscendo infatti a batterlo alle urne, come sostiene lo stesso premier, i suoi avversari politici cercano di sbarazzarsi di lui ricorrendo a vie giudiziarie.
   Malgrado in Israele ci siano diversi partiti politici il grosso degli elettori della destra e della sinistra vota per i due maggiori e tale divisione si riflette anche su un piano sociale. Ricerche infatti dimostrano che a scegliere a sinistra sono generalmente i residenti delle grandi città, atei, abbienti e con un migliore livello di istruzione. A sostenere la destra, invece, sono gli abitanti delle zone più periferiche, con minori disponibilità economiche, meno istruiti e più vicini alla religione. Un quadro piuttosto stereotipato, ma comunque corretto. La suddetta divisione esisteva anche in passato ma, fino a pochi anni fa, dalle urne è sempre uscito un vincitore. Nei primi anni di Israele è stata la sinistra a governare ma nel 1977, per la prima volta, è salita la destra al potere con il partito del «Likud», che da allora si è mantenuta al timone del Paese anche se occasionalmente la sinistra è tornata a prevalere (si ricordi in particolare l'esecutivo da Yitzhak Rabin). Ma ecco che alle elezioni di circa un anno fa si è creata una situazione di quasi parità e nessuno dei due maggiori partiti è riuscito a formare un esecutivo. Sono quindi state proclamate nuove votazioni ma il risultato non è cambiato e non si è riusciti nemmeno a trovare un accordo per un governo di unità nazionale. Sebbene infatti le differenze ideologiche tra i due maggiori partiti non siano incolmabili, e malgrado Netanyahu abbia proposto un'alternanza alla carica di premier, il partito «Blu e bianco» ha respinto tale proposta poiché sulla testa del premier uscente pendono capi d'accusa. Nel frattempo, qualche giorno fa, è stata avviata un'indagine di corruzione contro una società amministrata in passato da Benny Gantz,, il leader del partito «Blu e Bianco», e la situazione si è fatta ancora più complessa. Dagli ultimi sondaggi sembrerebbe quindi possa esserci il rischio di una quarta tornata elettorale in Israele, cosa forse familiare agli italiani ma nuova per gli abitanti dello stato ebraico.
   Israele, che si trova sotto la costante minaccia di organizzazioni come Hamas, responsabile del lancio di razzi sui suoi centri abitati, come Hezbollah, e anche dell'Iran, che dichiara apertamente di volerlo distruggere, non può permettersi una situazione simile. Non esiste infatti altro Paese al mondo minacciato di annientamento e il lusso di portare avanti un dibattito politico infinito e di tenere elezioni improduttive potrebbe essere pericoloso nello stato di continua allerta in cui Israele si trova.

(La Stampa, 2 marzo 2020 - trad. Alessandra Shomroni)


*


Israele al voto, ultima occasione per Netanyahu

Oggi il Paese alle urne per la terza volta in un anno. Su Bibi pesa il processo di metà mese.

di Fiamma Nirenstein

Quello che veramente tutti gli israeliani sperano per le prossime elezioni, è che sia l'ultima volta per un bel pezzo. È infatti la terza volta che il dilemma Netanyahu attanaglia la vita politica e che gli israeliani sono costretti, in pochi mesi, a andare alle urne: sono soldi, stress, accuse, scontri mortali, maldicenze e attacchi che spaccano il Paese e la sua tradizionale unità.
   Dopo undici anni da primo ministro, Bibi soffre un assedio che ha determinato una campagna elettorale poco sostanziale: sia il Likud di Netanyahu che «Blu e Bianco» di Benny Gantz piuttosto che impegnarsi sui temi strategici sono stati tutti presi da un tema solo: «solo Bibi» oppure «Tutto fuorché Bibi». Questo ha spinto a calunnie, uso smodato di registrazioni telefoniche, continue accuse di indegnità e corruzione e di riferimenti al processo cui Netanyahu sarà sottoposto il 17 marzo; e ce n'è anche per Gantz, sospetti di corruzione e sesso improprio compresi. Il Paese è spaccato a metà, anche se nelle ultime ore il partito di Netanyahu ha guadagnato un seggio per raggiungere il numero magico di 61, quello con cui si forma la coalizione. Al momento, Netanyahu può contare su 58 seggi con gli alleati (il Likud ne ha 34) e Gantz arriva a 57 solo con la lista araba, con cui dice di non volersi imparentare. Il solito Liberman col suo partito russo che ora 7 seggi, è mosso da un evidente odio per Bibi può impedire la formazione di qualsiasi governo. Complica le cose la scelta di Gantz e dei suoi partner di scegliere una strada quasi identica a quella di Bibi: sicurezza e difesa mentre si cerca la pace coi palestinesi; rispetto dell'ebraismo religioso ma anche per la laicità (ambedue i leader sono laici); grande passione per l'high tech senza dimenticare i piccoli imprenditori, gli impiegati, i lavoratori; sicurezza sociale nella sanità, la scuola.... tutto uguale. C'è una differenza, anche se sfumata: Trump. Netanyahu è lo statista che ha stabilito col presidente Usa un rapporto che li ha condotti a disconoscere il patto con l'Iran, a portare l'ambasciata a Gerusalemme, a riconoscere il Golan come parte d'Israele e a disegnare un piano che vede i territori disputati in buona parte dentro Israele. Gantz anche se ha dichiarato che adotterà il piano, ci tiene ad aggiungere che stabilirà di nuovo un buon rapporto con i democratici americani. Un'impresa difficile, tuttavia, da quando Bernie Sanders attacca Israele frontalmente con toni corbyniani. Non sono i democratici alla Clinton quelli di oggi. Ma del resto Gantz, che vuole raccogliere sotto la sua egida la sinistra, non è Ytzchak Rabin o Shimon Peres.

(il Giornale, 2 marzo 2020)


*


Negli insediamenti che vogliono essere parte d'Israele

Viaggio a Ofra, in Giudea, dove si spera che il Likud vinca le elezioni. "Solo così sarà realizzato il piano di pace proposto dall'America di Trump". Scettico il movimento Una Terra per Tutti. "Convivenza possibile se ci confederiamo".

 
Ofra
La Terra Promessa non è mai stata così verde. L'inverno ha portato piogge in abbondanza e ai primi assaggi di primavera è tutto un fiorire di mandorli, fra il rosa e il viola, che contrastano con lo smeraldo degli olivi e dei pascoli, la pietra bianca e le greggi di pecore che scorrazzano felici. Dall'insediamento di Ofra, un migliaio di famiglie in cima alla collina, nuovi ruscelli si fanno largo fra case e campi, e irrigano i vigneti ancora brulli. Sembra sia scesa la benedizione dal cielo e molti degli abitanti cominciano a crederci davvero. Da Washington è arrivato il regalo che molti attendevano, senza sperarci troppo. Il via libera degli Stati Uniti di Donald Trump all'annessione a Israele di questa parte della Cisgiordania, anzi della Giudea come dicono gli abitanti. E se Benjamin Netanyahu manterrà la sua promessa, di procedere subito con l'estensione della sovranità dopo il voto di oggi, presto Ofra non sarà più un «insediamento», o ancor peggio «una colonia», ma un pezzo dello Stato ebraico a tutti gli effetti. Per questo le elezioni, le terze in appena undici mesi, sono così sentite, un'occasione irripetibile, da non perdere, a patto che King Bibi riesca a battere Benny Gantz, a conquistare la maggioranza dei 61 seggi alla Knesset e andare avanti con il piano americano.
   Yoram Cohen è uscito di prima mattina, con il berretto di cuoio nero in testa, e ha svuotato le bacinelle piene di acqua piovana nei vasi di timo e salvia. Accarezza le piante e annusa il profumo. Ha un «buon naso» come richiede il suo mestiere di vignaiolo. Ha fatto il fotografo con un certo successo per più di vent'anni, poi si è trasferito a Ofra e ha costruito con le sue mani la casa vinicola «Tanya» e si è fatto apprezzare. Le bottiglie, soprattutto Merlot, sono esportate in Europa e Stati Uniti. Il «piano Trump» potrebbe dargli una mano e soprattutto certificare quella che è per lui una certezza granitica: «Questa è terra ebraica da migliaia di anni, non siamo venuti a usurpare nessuno», ribadisce. Il Merlot invecchia in botti di rovere ungherese, un vino «kosher» al cento per cento, e per questo invita i non ebrei a non toccarle. Come la nascita dello Stato ebraico, nel 1948, anche Ofra, i suoi vigneti, sono il frutto di un miracolo, sempre appeso a un filo. «Ricordo ancora le settimane prima della guerra del '67 - ricordavano - erano convinti di perdere, Re Hussein urlava che ci avrebbe ricacciato in un mare, mio padre aveva scavato un rifugio con le sue mani, aspettavano la fine». E poi la vittoria miracolosa, che ha aperto le porte alla Giudea e alla Samaria, e all'insediamento di Ofra.
   «Chi può avere il coraggio di dirci di andare via, e tornare un popolo senza patria, come siamo stati per 2 mila anni, l'unico popolo al mondo? I miei nonni paterni erano di Gerba, Tunisia, pregavano nella grande sinagoga, quelli materni della Galizia, Ucraina, eppure erano un popolo, con un solo desiderio: tornare qui». Con i palestinesi dice di vivere in pace, senza problemi, perché l'insediamento «dà lavoro» anche a loro. «Ma non possiamo dargli uno Stato. Golda Meir diceva "se gli arabi depongono le armi sarà pace, se lo facciamo noi Israele sparirà"». La quiete fra le villette immerse nel verde ha forse ora un aspetto meno provvisorio ma scendendo verso Sud, nel costeggiare i sobborghi di Gerusalemme, nel groviglio di strade, muri, tunnel, barriere anti-cecchini, l'idillio svanisce. La Fortezza Israele costruita da Netanyahu piace, ma alla fine a meno di metà degli israeliani. E anche negli insediamenti molti la pensano diversamente. Nel primo pomeriggio Kafr Etzion è immerso in una nebbia fitta e la primavera è già svanita. Il villaggio è più antico di Israele stessa, fondato come kibbutz religioso nel 1927. E la voglia di sperimentare resta intatta.
   Eliaz Cohen, sociologo e filosofo, la kippah immersa in un mare di riccioli castani, ha lanciato da qui uno dei progetti più visionari della storia recente, il movimento Una Terra per Tutti. «Sono sette anni che lavoriamo con i palestinesi - spiega - il nostro è un piano serio, non la barzelletta proposta da Trump: in 158 pagine non c'è mai la parola eguaglianza, non è un proposta di pace, è uno schiaffo, un'umiliazione dell'altra parte». Ma l'idea Una Terra per Tutti va anche oltre il processo di Oslo, «pessimo, che non ha mai funzionato». Si basa sull'idea «una nazione, due Stati», israeliano e palestinese, confederati e intrecciati, senza più barriere. «La nostra proposta risolve i quattro maggiori problemi: confini, insediamenti, ritorno dei rifugiati, Gerusalemme - continua Cohen -. L'abbiamo inviata anche al dipartimento di Stato americano. Questa terra appartiene a ebrei e arabi da sempre. Non si può dividere. Il tempo ci darà ragione, forse già da domani quando un'intesa fra Netanyahu e Benny Gantz sarà inevitabile».

(La Stampa, 2 marzo 2020)


19o Raduno Nazionale di Evangelici d'Italia per Israele

Circolo della Stampa - Palazzo Ceriana Mayneri, Corso Stati Uniti 27, Torino

100o Anniversario della Dichiarazione di Sanremo

SABATO 25 APRILE 15:30-18:30

Anteprima musicale con "Voices of Israel" del prof. Ferruccio D'Angelo

Presenta Ivan Basana (presidente Evangelici d'Italia per Israele - EDIPI):

"Ad un secolo dalla Dichiarazione di Sanremo    

Interventi di:
  • Prof. Marcello Cicchese: "Il corrispondente storico dell'Editto di Ciro"
  • Sen. Lucio Malan: "Il diritto e il dovere di difendere Israele"
  • Dr. Federico Steinhaus: "Analisi critica del periodo tra gli accordi Sykes-Picot e la nascita di Israele"
  • Dr. Mark Surey (Oxford G.B.): "Dichiarazione di Sanremo: la sua attuazione favoriva Israele?" (tradotto dall'inglese)
Chiusura musicale con "Voices of Israel"


* * * * *

DOMENICA 25 APRILE 10:00-12:45

Convegno in Torino al Circolo della Stampa - Palazzo Ceriana Mayneri
Organizzato da EDIPI in collaborazione con il GRUPPO SIONISTICO PIEMONTESE

Anteprima musicale con "Voices of Israel"

Presenta past. Bruno Ciccarelli (vicepresidente EDIPI):

"Ignorare la storia alimenta l'antisemitismo"    

Interventi di:
  • Emanuel Segre Amar (Co-Presidente della Federazione Sionistica Italiana e Presidente Gruppo Sionistico Piemontese): "Introduzione al tema"
  • Prof.essa Nicla Costantino (Dipartimento editoriale EDIPI): "In Italia le radici legali di Israele"
PAUSA
  • Prof. Ugo Volli (semiologo, accademico e critico teatrale): "Una storia inventata per un popolo inventato; la strategia delle Fake News"
  • Dr. Alex Kerner (Gerusalemme - Israele): "1920 Sanremo: Israele nasce nel grembo della storia. 1920 Keren Hayesod prepara...la carrozzina!"
Chiusura musicale con "Voices of Israel"
Lunch vegano con vini kasher di Blumafood


* * * * *

DOMENICA 25 APRILE 14:30-17:30

Anteprima musicale con "Voices of Israel"

Presenta: prof. Enrico Fubini (tesoriere del Gruppo Sionistico Piemontese):

"Attualità della Dichiarazione di Sanremo"    

Interventi di:
  • Past. Corrado Maggia (socio fondatore di EDIPI): "Risoluzione di Sanremo e Sionismo cristiano"
  • Prof. Claudio Vercelli (ricercatore istituto Salvemini di Torino): "La Costruzione del Medio Oriente; ragioni ed effetti geopolitici della Conferenza di Sanremo tra Europa, Mediterraneo e Asia"
PAUSA
  • Think Tank tra David Elber e Vincenzo Napoli (Dipartimento giuridico EDIPI): "Mandato per la Palestina, aspetti legali dei diritti ebraici"
  • Rav Alberto Moshe Somekh (Torino): Considerazioni finali
  • Emanuel Segre Amar e Ivan Basana per le conclusioni.
Hatikva e saluti



Quota di partecipazione comprensiva del lunch, coffee break e di cartella congressuale con 2 libri: la nuova edizione di "Questa terra è la mia terra" di Eli Hertz e "Le basi del sostegno cristiano di Israele" di Malcon Hedding oltre a materiale turistico per viaggi in Israele è complessivamente di 25,00 €.
Prenotazione obbligatoria segnalandola a: info@edipi.net
Il ricavato delle iscrizioni verrà devoluto a Keren Hayesod per il sostegno di Israele
Per la logistica: Hotel Italia 011.5620402 - info@hotelitaliatorino.it
per informazioni: ivan.b@bhb.it - 3475788106


(EDIPI, marzo 2020)


Roma, Raggi e Sassoli inaugurano panchina per ricordare giornalisti deportati al ghetto

 
 
ROMA, 1 marzo - È stata inaugurata questa mattina davanti alla fondazione museo della Shoah al portico d'Ottavia la panchina per ricordare il giornalista Eduardo Ricchetti e i tipografi Amedeo Fatucci, Leo Funaro e Pellegrino Vivanti, catturati nel rastrellamento nazista nel ghetto il 16 ottobre 1943 e mai più tornati. Bianca con tre pennellate tricolore sul lato sinistro la panchina con i nomi del giornalista e dei tipografi riportati insieme alla citazione del poeta francese Jaques Prevert «Quando la verità non è libera, la verità non è vera».
Alla cerimonia, organizzata da Fnsi, consiglio nazionale dei giornalisti e articolo 21 sono intervenuti anche la sindaca Virginia Raggi e il presidente del parlamento europeo David Sassoli. «Ricordare - ha detto Sassoli - è importante anche perché in Europa si diffondono purtroppo razzismo e antisemitismo: da mesi le cronache raccontano atti di violenze e discriminazione. Anche per questo l'Italia ha fortemente voluto istituire la figura del commissario europeo all'antisemitismo». La sindaca Raggi ha invece sottolineato l'importanza del passato per realizzare un futuro diverso. «Scopriamo e riscopriamo delle sacche di odio che dobbiamo combattere in tutti i modi: le parole sono pietre. Eventi come questo sono importanti per ricordarci chi siamo stati e poter andare avanti scrivendo un futuro diverso: antisemitismo, razzismo e odio non sono più tollerati». La cerimonia si è conclusa con l'esibizione musicale di Nicola Alesini.

(Il Messaggero, 1 marzo 2020)


"Coronavirus, Israele al fianco dell'Italia anche in questo momento difficile"

In un messaggio diretto alle Comunità ebraiche italiane, l'ambasciatore d'Israele a Roma Dror Eydar ha sottolineato la sua solidarietà all'Italia e spiegato i motivi delle misure adottate da Israele rispetto al rischio di contagio da Coronavirus. Di seguito il testo del messaggio:

A tutte le comunità ebraiche d'Italia un cordiale Shalom.

Noi dell'ambasciata di Israele ci interessiamo del vostro bene e vi pensiamo. Siete sempre nel nostro cuore.
Non abbiamo lasciato l'Italia. Siamo sempre con voi.
Ho chiesto al personale dell'ambasciata di contattare ciascuno di voi e verificare se ci sono richieste particolari e, nei limiti del possibile, cercheremo di essere di aiuto.
È un momento di crisi. Il mondo intero si trova in difficoltà. Non solo l'Italia. Ma è una crisi temporanea e con l'aiuto di D-o la supereremo.
"Crisi - Mashber in ebraico" nella Bibbia era il posto dove la donna partoriva il neonato. I momenti di crisi sono dunque quelli che premono su di noi per far nascere una rinnovata forza d'animo, una capacità di superare noi stessi e affrontare con coraggio la situazione. Insieme attraverseremo anche questo.
Israele ha bloccato l'ingresso di chiunque abbia soggiornato in Italia nelle ultime settimane, non solo i cittadini italiani ma di tutti. Bisogna ricordarsi che Israele è grande come la Lombardia e la maggior parte della popolazione vive al centro del paese. Il rischio di contagio è quindi molto alto. Inoltre, gli ultimi casi di coronavirus scoperti nel paese arrivavano proprio dall'Italia.
Anche in Israele la popolazione si sente sotto pressione ed è preoccupata per quanto sta accadendo. Non si possono tranquillizzare le persone solo con le parole ma servono anche i fatti. C'è un comitato che sostiene il Primo ministro, composto da esperti in tutti i campi, che valutano i rischi nazionali e suggeriscono come agire di conseguenza.
Non dimentichiamo che al momento una delle minacce per la sicurezza d'Israele si è interrotta. Il quadro globale che vedono è molto più ampio di quello che vediamo noi, e le loro scelte sono fatte con estrema ponderazione.
In ogni modo Israele non ha smesso di essere lo Stato Ebraico. Ci sono diversi israeliani che sono entrati in una quarantena di 14 giorni nelle proprie case. A volte anche mettendosi in una stanza isolata dal resto della famiglia.
Rispetto alle famiglie ebraiche nel mondo Israele ha chiuso per un attimo la stanza - per evitare il contagio - ma non ha chiuso la casa né la responsabilità verso i figli di Israele (Beth Israel) ovunque siano. Lo Stato di Israele è sempre impegnato per la vostra sicurezza, per ogni Comunità, e appena possibile verranno rimosse le limitazioni.
Potete contattare l'Ambasciata per presentare le vostre situazioni contattandoci all'indirizzo: public.affairs@roma.mfa.gov.il
Purim è alle porte e ci ricorda situazioni difficili della nostra storia, molto più di quella attuale. Siamo riusciti a confrontarci con queste difficoltà con successo e uscirne rafforzati.
Auguro a tutti che si possa avverare l'auspicio nella Meghillà di Ester (cap.8, v 16) e quanto previsto nei Salmi (cap. 91,v10).
Pregheremo per il benessere di tutti i cittadini italiani e del modo.

Dror Edar, ambasciatore d'Israele in Italia

(moked, 1 marzo 2020)


Israele al voto, è la terza volta. Ed è ancora testa a testa

di Chiara Clausi

GERUSALEMME - Era Shabbat ieri a Gerusalemme, e la città si è svegliata con qualche nuvola spazzata via dalla caratteristica luce bianca che si riflette sulla pietra chiara della Città vecchia e delle sua mura. Tutto fermo, qualche macchina per strada, migliaia di turisti nei posti più emblematici per le tre religioni. Il Santo Sepolcro, il Muro del Pianto, la Spianata delle Moschee, la Cupola della Roccia con la sua suggestiva copertura dorata. Alcune persone pregavano, gli Haredim con i loro copricapi neri, le lunghi vesti scure e le treccine passeggiavano nel quartiere ebraico evitando di parlare perché è vietato in questo giorno.
   Mancano due giorni alle elezioni, le terze in meno di un anno. Ad aprile e settembre dell'anno scorso, per la prima volta nella storia dello Stato ebraico nessuno dei due schieramenti ha ottenuto la maggioranza. Il voto di domani potrebbe portare ad un nuovo stallo, quindi ad una quarta elezione o potrebbe esserci un risultato a sorpresa con una vittoria di Benjamin Netanyahu, il leader finora più longevo di Israele, più di Ben Gurion il padre della Patria o della mitica Golda Meir.
   Secondo i sondaggi pubblicati dal quotidiano Yisrael Hayom il Likud di Netanyahu e Blu e Bianco di Benny Gantz, suo rivale, si aggiudicheranno 33 seggi ciascuno alla Knesset. Invece per il sondaggio del Canale 12, il Likud sarebbe di poco in vantaggio. Ma le posizioni degli elettori israeliani a un giorno dal voto sono le più svariate. Secondo Guri, 58 anni, contabile, «Israele ha bisogno di un vero cambiamento che solo Benny Gantz può dare». Per Yurì, 45 anni, ebreo di origine russa, con un lavoro in banca, «Netanyahu deve vincere perché ha fatto moto bene, nella sanità, nella sicurezza, nell'high-tech e poi ha messo a segno un colpo pazzesco, il piano di pace».
   Per Iran, 20 anni, soldato nell'esercito a Beer Sheva «deve vincere Netanyahu. Gantz non va bene, lui ama gli arabi». Ma un amico che è con lui lo trascina via perché è Shabbat. I due amici si allontanano sulla strada principale dei negozi lussuosi di Mamilla, fino a scomparire. Hassan, 45 anni, invece ha un caffè nel quartiere arabo della Città Vecchia, dove vende succhi di melograno. E' molto critico: «Per noi è sempre la stessa buffonata - esordisce - è come se qualcuno ti entra in casa, ti scaccia e mangia le arance del tuo giardino». Ma Netanyahu ha anche altri problemi. Il 17 marzo comincia il suo processo per corruzione. Bibi ha definito le incriminazioni «un tentativo di golpe».

(il Giornale, 1 marzo 2020)


*


In Israele lo stallo va alle urne

Scarto minimo tra Netanyahu e Gantz nel terzo voto in meno di un anno. Avigdor Liberman e la Lista Araba decisivi per uscire dalla paralisi.

di Fiammetta Martegani

Domani Israele torna a votare per la terza volta in meno di un anno. Stando ai sondaggi degli ultimi giorni, si rischia, come nelle scorse due tornate del 2019, un finale in pareggio (con 34/35 seggi a testa) tra i due partiti principali: il Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu, e il partito centrista Blu Bianco guidato da Benny Gantz. Con questi numeri, per entrambe le liste è impossibile mettere insieme una coalizione governativa (61 seggi sui 120 della Knesset) e sono molti a temere l' eventualità di una quarta tornata elettorale. Le possibilità che gli equilibri elettorali possano cambiare, indicando una direzione che porti il Paese fuori dallo stallo, sono appese a tre variabili. Prima di tutto, i tre processi (per corruzione, frode ed abuso di ufficio) che attendono il primo ministro in un'aula di tribunale il 17 marzo.
   Si tratta di un forte elemento di instabilità: oltre a scoraggiare alcuni indecisi che avrebbero, forse, provato a votare ancora una volta per l'attuale premier, l'incertezza sul futuro di Netanyahu potrebbe anche spingere - e qui siamo alla seconda variabile -Avigdor Liberman, leader del partito Yisrael Beiteinu ed eterno "kingmaker" della saga elettorale israeliana, a scegliere lo schieramento di Gantz.
   I segnali ci sono: in questi ultimi giorni il leader della diaspora russa ha parlato (più volte) del premier come di un «uomo finito», con zero possibilità di continuare la sua carriera politica. Ma per far cadere "Bibi" Netanyahu non bastano le parole: servono i numeri. E visto che la matematica (stando ai sondaggi) non permette a un'eventuale coalizione tra Gantz, Liberman e la lista unita dei tre partiti di centro-sinistra (laburisti, Meretz e Gesher) di raccogliere i famigerati 61 seggi, ecco che subentra una terza variabile fondamentale: il voto degli arabi. Il loro partito, la Lista araba unita, nella scorsa tornata ha raggiunto il picco storico di 13 seggi. E, stando agli attuali sondaggi, adesso potrebbero anche aumentare. Pur non volendo far parte del governo, con cui non si identifica a causa della matrice sionista che caratterizza tutte le altre liste (le quali, per la stessa ragione, non condividerebbero mai la guida del Paese con questi ultimi), la Lista Araba vede in questo voto una possibilità unica per far sentire la propria voce, e potrebbe decidere di sostenere, pur dai banchi dell'opposizione, una coalizione "anti- Netanyahu". Un appoggio esterno che potrebbe rivelarsi decisivo. Lo stesso Netanyahu, che sta mettendo in campo ogni sforzo per rimanere al potere - e far passare la legge sull'immunità parlamentare di cui ha bisogno per tutelarsi dai problemi giudiziari - ha puntato tutto, in questa tornata elettorale, sulla politica estera e sul «Piano di pace del secolo» proposto dal presidente statunitense Donald Trump. Secondo Moshe Maoz, docente di Studi mediorientali presso la Hebrew university di Gerusalemme, è un progetto «totalmente a vantaggio degli israeliani, senza alcuna apertura nei confronti del popolo palestinese e, per tanto, impossibile da mettere in pratica, soprattutto senza l'appoggio della Giordania, alleato fondamentale, a cui Israele non può rinunciare».
   Stando alla collega Dikla Cohen, che insegna Affari palestinesi nella stessa Università, «pur implicando considerevoli sacrifici da entrambe i popoli, è una delle migliori proposte fatte, per uscire dall'impasse dello status quo e offrire ai palestinesi uno Stato vero e proprio». Insomma, un piano che divide nettamente gli esperti. Come il Paese che sta andando alle urne.

(Avvenire, 1 marzo 2020)


*


«Questa raffica di elezioni è già costata allo Stato 2,7 miliardi di euro»

L'economista Moria Avnimelech incalza: il Paese è in panne, sono fermi tutti gli investimenti.

di Fiammetta Martegani

 
Moria Avnimelech
Tornare alle quarte elezioni consecutive è una delle possibilità, con costi enormi per la fascia più svantaggiata della popolazione». Questo il commento di Moria Avnimelech, ex docente di Economia della Hebrew University di Gerusalemme, che ha pubblicato, tra gli altri lavori, Zeus on Wall Street e A Social Time Bomb: Economics and Politics of Welfare in Israel, sull'economia israeliana

- Quali saranno le principali implicazioni economiche di un possibile ritorno al voto dopo questo?
  In Israele mancano, visibilmente, ospedali, scuole e infrastrutture. E anche quelle che erano già state pianificate sono rimaste ferme a causa dello stallo governativo. Il Paese è bloccato da ormai un anno, sia sul piano delle riforme, mancando un esecutivo, sia perché, anche nel caso di provvedimenti già presi e implementati nel corso dello scorso governo, è dal 2019 che il nostro Welfare dipende dal budget emesso nel 2018, ormai agli sgoccioli. Stando ai sondaggi, che prevedono un pareggio e quindi un ritorno alle urne, anche nella migliore delle ipotesi il 2020 sarà un anno molto difficile, soprattutto per le classi più disagiate. Quali segmenti della società israeliana pagano il prezzo più alto di questo eterno stallo?
  Gli ultraortodossi, che costituiscono circa il 12% della popolazione israeliana e che hanno a carico famiglie assai numerose (una media di 7,7 figli per nucleo familiare, ndr), in cui, spesso, le uniche a portare a casa uno stipendio sono le donne, essendo gli uomini impegnati negli studi biblici. È paradossale: gli haredim rappresentano da sempre l'ago della bilancia nell'alchimia governativa, e si sono sempre schierati, negli ultimi anni, a fianco di Benjamin Netanyahu, che garantisce loro una parte del budget dello Stato in cambio del sostegno politico; ma se in queste elezioni continueranno a votare per i loro partiti di riferimento, che fanno parte del blocco di destra del premier, potrebbero rischiare un clamoroso autogol, visto che tale blocco probabilmente non riuscirà a mettere assieme una maggioranza governativa, finendo per perpetuare lo stallo economico che si ripercuote proprio sulla condizione economica della loro comunità.

- In termini concreti, quale è stato fino ad oggi il costo delle tre tornate elettorali consecutive, in meno di un anno?
  Bisogna prima di tutto distinguere tra costi diretti e indiretti. Per quanto riguarda i primi, il budget per ogni tornata elettorale è di quasi 100 milioni di euro (l'equivalente di 360 milioni di Shekel) oltre ai 530 milioni di euro previsti per i finanziamenti dei partiti. A ciò vanno aggiunti tutti i costi indiretti: le tre giornate feriali in cui tutte le attività si fermano costeranno approssimativamente mezzo miliardo di euro. Al di là di altre spese minori, quest'anno, per sovvenzionare le tre elezioni che non hanno portato ad alcun risultato, sono usciti dalle casse dello Stato 2,7 miliardi di euro (10 miliardi di Shekel), che corrispondono a circa il 2% del budget pubblico e l'1% del Pii. Di certo, con questi soldi, si sarebbe potuto provvedere a molti dei bisogni del Paese.

(Avvenire, 1 marzo 2020)


Castello Aragonese, in mostra permanente il commentario di Rashi

La prima stampa del prezioso libro è avvenuta il 5 febbraio 1475 in una delle prime stamperia della storia con sede proprio nella giudecca di Reggio Calabria

Copia del commentario esposta in un'ala del castello Aragonese
Il Castello Aragonese accoglie la mostra permanente il commentario di Rashi con l'obiettivo di far conoscere, promuovere e valorizzare l'enorme eredità culturale che la presenza ebraica ha lasciato in città.
   L'iniziativa è volta a celebrare, a distanza di 545 anni, uno storico evento avvenuto proprio nella città di Reggio Calabria nel febbraio del 1475: la prima stampa con data certa del commentario al Pentateuco del rabbino Solomone Yitzchaki, conosciuto come Rashi, il più grande commentatore della Torah e del Talmud del medioevo ebraico. La prima stampa del prezioso libro è infatti venuta alla luce il 5 febbraio 1475 in una delle prime stamperia della storia con sede proprio nella giudecca di Reggio Calabria.
   La stamperia era gestita dallo straordinario stampatore Abraham ben Garton, iniziatore della produzione tipografica ebraica e precursore di una nuova tecnica di stampa, all'avanguardia per i tempi, e di un nuovo stile di carattere tutt'oggi studiato. Del prezioso libro, la città di Reggio Calabria detiene l'unica copia anastatica al mondo, sino ad oggi custodita presso la Biblioteca comunale reggina intitolata a Pietro De Nava.
   Il convegno inaugurale della mostra "Reggio e il commentario di Rashi: una speciale tipografia reggina", si è svolto giovedì nella Sala Garcilaso de la Vega del castello, presenti, tra gli altri, il sindaco Giuseppe Falcomatà, l'assessore alla valorizzazione del patrimonio culturale Irene Calabrò, Ada Arillotta, della soprintendenza archivistica e bibliografica della Calabria, la studiosa Debora Penchassi, responsabile culturale della Lincoln Square, Manhattan, New York, Giuseppe Putortì, direttore generale del Comune, Roque Pugliese, responsabile Regione Calabria per la comunità ebraica di Napoli, Franco Arillotta, componente della Deputazione storia patria di Reggio, Daniele Castrizio, ordinario civiltà antiche e moderne all'università di Messina. Ha moderato Anna Foti.
   L'evento, che ha ricevuto il Patrocinio dell'UCEI - Unione delle Comunità ebraiche italiane- e della Comunità ebraica di Napoli, è stato realizzato grazie all'impiego dei fondi regionali FUC di cui alla L. R. 19/2019 - Avviso pubblico "Contributi ad attività culturali in attuazione DGR 64/2019 per celebrazioni e anniversari, seminari e pubblicazioni scientifiche" ed al lavoro progettuale del personale del settore Cultura-Turismo dell'Assessorato alla Valorizzazione del Patrimonio culturale del Comune di Reggio Calabria".
   «Reggio possiede in biblioteca la copia anastatica del Pentatueco, l'originale è alla biblioteca Palatina - spiega l'assessore Calabrò - sollecitati da un studiosa americana, la dottoressa Penchassi, insieme al direttore generale Putortì, abbiamo pensato di accedere a questo Fuc 2020 (Fondo unico cultura della regione) proponendo una mostra permanente del Pentateuco anche perché Reggio è la città che ha avuto la prima stamperia che ha fatto la bibbia Palatina. Una mostra immaginata nella sala prigioni del Castello, una sala indipendente anche rispetto alle aperture e li verrà esposto il Pentateuco. L'obiettivo dell'esposizione, per la sua importanza, è quello anche di attrarre un pubblico internazionale».
   «Arriviamo a questo appuntamento - afferma il sindaco Giuseppe Falcomatà - perché la mostra per questa città è un tassello di un mosaico più ampio, di un percorso iniziato da più tempo. Oltre all'altissima valenza culturale, l'iniziativa è l'occasione di poter ribadire che questa è la città dei diritti di tutti, accogliente, inclusiva non da oggi, perché lo dice la sua storia.
   Da qui la necessità di recuperare parti e pezzi di storia della nostra città che si conoscono meno rispetto ad altri, che riguardano la grande produzione culturale che c'è stata, o le attività di insediamenti, come quello della comunità ebraica: la giudecca non era un ghetto ma il centro delle attività commerciali della città, un percorso di conoscenza ma anche un percorso che cementa e consolida un'amicizia con un popolo e una comunità quella ebraica. Senza mai dimenticare che la storia è ciclica.
   La mostra è importante che sia visitata soprattutto dai più giovani, possiamo fare tesoro di ciò che è successo grazie ad un percorso di immagini che ci dice cosa siamo stati cosa e che cosa non dobbiamo più essere e che contribuisca alla nostra formazione personale e culturale».
   Penchassi si è soffermata sul soggiorno degli ebrei in Calabria partendo «dal periodo rinascimentale italiano - che - ha lasciato impronte incancellabili sulla nascita della stampa ebraica in Italia, l'età d'oro della stampa ebraica è durata quasi fino alla fine del XVIII secolo a Venezia, capitale dell'editoria ebraica, fornendo materiale religioso ed intellettuale a tutta la diaspora ebraica».

(Il Reggino, 1 marzo 2020)


Pio XII e il silenzio sulla Shoah: si aprono gli archivi vaticani

L'apertura degli archivi vaticani di domani 2 marzo ha una fondamentale importanza storica. Soprattutto per chi è interessato a fare luce sul proverbiale silenzio di Pio XII sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei durante il suo papato (1939-1958). Lo scrive Lisa Palmieri Billig, rappresentante di AJC (American Jewish Committee) in Italia e di collegamento con la Santa Sede.
   "Due opinioni opposte si sono confrontate tra loro per decenni. La prima è sostenuta da coloro che ritengono che Papa Pacelli abbia fatto del suo meglio per salvare vite ebraiche, prendendo anche le necessarie precauzioni per salvaguardare le popolazioni cattoliche d'Europa.
   Chi sostiene questa tesi desidera che venga proclamato santo. Non la pensa ovviamente così chi sostiene che Pio XII abbia fallito come leader morale e che avrebbe potuto alzare la voce per essere ascoltato pubblicamente e fermare le persecuzioni senza mettere in pericolo la Chiesa cattolica, considerata comunque dalla Germania un potere da rispettare. Esiste poi una lettura più sfumata degli eventi da parte di chi, soppesando tutti i fattori di quella tragica e complessa era, ritiene che per Pio Xii la guerra da combattere era duplice: contro i nazisti tedeschi e contro i comunisti sovietici considerati nemici mortali della Chiesa cattolica", spiega Lisa Palmieri Billig.
   "Un'altra domanda chiave che non ha mai ricevuto risposte definitive è se papa Eugenio Pacelli abbia dato o meno ordini specifici per salvare gli ebrei o solo istruzioni generiche per salvare tutte le persone bisognose. Fino ad oggi non ci sono riscontri documentali per confermare che Pio XII abbia emanato direttive per salvare gli ebrei d'Europa dal genocidio. In Italia, il Vaticano e la Chiesa cattolica italiana non protestarono contro le "leggi razziali" antisemite del 1938 contro tutti i cittadini ebrei italiani, ma si limitarono a chiedere misericordia per i convertiti ebrei al cattolicesimo o per i coniugi ebrei di cattolici" aggiunge.
   Non solo, aggiunge Lisa Palmieri Billig: "La comunità ebraica di Roma ricorda ancora vividamente il silenzio pubblico di Pio XII dopo il raid nazista del 16 ottobre 1943 nell'area del ghetto, poco prima della deportazione ad Auschwitz di 1023 donne, uomini e bambini ebrei nei giorni successivi alla retata, quando furono detenuti in un collegio militare a pochi isolati da San Pietro a portata di vista del Papa, 'sotto le sue stesse finestre', come riferito a Berlino dall'ambasciatore tedesco Ernst von Weiszàcker".
   L'apertura degli archivi vaticani viene trattata anche da Forward in un articolo di PJ Grisar: "Il Papa sapeva cosa stava succedendo e ovviamente non era contento", ha detto David Kertzer, storico della Brown University e scrittore vincitore del Pulitzer che sarà autorizzato a consultare gli archivi. "Ma ha dovuto decidere se intraprendere qualsiasi azione per cercare di impedire la deportazione degli ebrei ad Auschwitz e la loro morte. E ha deciso, di fatto, di non intervenire".
   E, infine, una dichiarazione di Riccardo di Segni, così come riportata da Huffpost.it: "Nei giorni scorsi il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha inviato una lettera alla Stampa in vista della data. "Un evento decisamente importante" che avvia "una nuova fase di studio ed interpretazione sulla base di documenti finora inaccessibili" ma che "non sarà un processo rapido e semplice" ha detto il rabbino. "Da una parte ci sono gli apologeti a ogni costo, dall'altra gli accusatori inflessibili, ognuno con i suoi argomenti. Per amore della verità, ha sottolineato Di Segni, sarebbe utile trovare prove decisive in un senso o nell'altro e potersi ricredere in base ai dati oggettivi".

(JoiMag, 1 marzo 2020)


Coronavirus. Mappa del Covid19 in Medio Oriente

di Marwa Mohammed

 
CAIRO - Il coronavirus si è diffuso, muovendosi rapidamente dal suo principale centro in Cina a vari paesi del mondo, inclusa l'area Medio Oriente, che ha visto un aumento significativo delle infezioni, in particolare l'Iran.
  L'Iran è diventato il secondo paese più alto dopo la Cina in termini dei numeri di morti dovuti al virus, con un tasso di 26 morti e 245 contagiati, tra cui 54 guariti. Inoltre, sono stati registrati 45 contagiati in Kuwait, 33 in Bahrain, 19 negli Emirati arabi, 7 in Iraq, 6 nel Oman, 7 in Israele, 4 in Libano, 2 in Algeria e un caso di un cinese guarito in Egitto.
  In Iran, il ministro della Sanità, delle cure e dell'educazione medica, Saeed Nimki, ha avvertito, il 29 febbraio, che il picco del coronavirus nel paese sarà questa settimana.
Nimki ha detto, in una dichiarazione alla stampa che, attraverso studi epidemiologici condotti dai nostri colleghi per il monitoraggio internazionale e locale e l'emergere del coronavirus in altri paesi, dobbiamo dire che il picco principale del virus sarà nei prossimi giorni e nella prossima settimana.
Anche un portavoce del parlamento iraniano ha annunciato la morte di un deputato iraniano eletto da Rasht dopo essere stato infettato dal coronavirus (Covid-19).
  E alcuni paesi arabi hanno iniziato a prendere misure preventive per combattere il virus, come l'Arabia Saudita che fa lavare i pavimenti della Grande Moschea, quattro volte al giorno e sterilizzare più di 13mila tappeti nella Grande Moschea e nella Moschea del Profeta.
L'Arabia Saudita ha sospeso anche temporaneamente l'ingresso sul suo territorio dei pellegrini che si recano alla Mecca, per «impedire l'arrivo del nuovo coronavirus nel regno e la sua diffusione», sospendendo anche l'ingresso nel Paese arabo ai viaggiatori con visti turistici di paesi in cui il nuovo coronavirus è già diffuso.
Inoltre, l'ambasciata saudita in Libano ha anche scritto su Twitter che il regno invita i cittadini e i residenti sauditi a rimandare i viaggi in Libano a causa delle preoccupazioni legate alla diffusione del coronavirus.
  Mentre il Libano ha annunciato la cessazione del trasporto aereo, terrestre e marittimo per gli espatriati dai principali paesi che stanno assistendo alla diffusione del nuovo coronavirus, ad eccezione dei libanesi che desiderano tornare nel loro paese o degli stranieri residenti in Libano.
Il Libano ha poi confermato il quarto caso di infezione da coronavirus venerdì scorso e ha annunciato la chiusura di tutte le scuole fino all'8 marzo.
  Numerose notizie di stampa collegano l'arrivo del coronavirus alla regione del Medio Oriente con l'Iran, che è il secondo paese più grande del Medio Oriente in termini di popolazione dopo l'Egitto, e molti musulmani sciiti si spostano tra Iran, Iraq, Siria e Afghanistan nelle stagioni invernali per frequentare i luoghi santi.
Da parte sua, le autorità irachene hanno vietato incontri e viaggi in diversi paesi, a causa delle preoccupazioni per il coronavirus. Il ministro della Sanità iracheno ha dichiarato che l'Iraq ha vietato tutte gli incontri pubblici e ha impedito ai viaggiatori del Kuwait e del Bahrein di entrare nel paese, portando il numero di paesi che sono stati bloccati alle frontiere del paese a 9 paesi, alla luce delle crescenti paure della diffusione del coronavirus, mentre sono sospesi gli studi nelle scuole e nelle università e la chiusura di cinema, caffè, club e forum sociali dal 27 febbraio al 7 marzo.
  In Egitto, le autorità hanno nuovamente negato la scoperta di casi del coronavirus segnalati nel paese, in coincidenza con l'avvio di contatti ufficiali con le autorità sanitarie in Francia per chiarire ulteriori informazioni sull'infezione di due francesi con il virus al loro recente ritorno dall'Egitto.
La negazione dell'Egitto di eventuali nuove infezioni è arrivata in concomitanza con l'annuncio della revoca dell'isolamento di un giovane cinese dopo che si era ripreso dalla malattia ed era stato dimesso dall'ospedale di Matrouh, sulla costa occidentale del paese, era stato il primo caso dichiarato ufficialmente infettato dal virus nel paese.
Il consiglio dei ministri egiziano ha detto, in una nota, venerdì scorso che «non è corretto parlare di nuovi casi da Coronavirus in Egitto al momento, il paese è completamente privo di infezioni … In caso di sospetto di qualsiasi caso del virus, sarà annunciato e il Cairo informerà l'Organizzazione Mondiale della Sanità». Mentre l'Organizzazione Mondiale della Sanità, sul suo account Twitter, ha citato il ministero della Salute egiziano secondo cui l'Egitto è privo di casi di contagio.
  In Qatar, poi, il 29 febbraio è stato segnalato primo caso riconosciuto di infezione da Covid19.
  In Israele, il ministero della Salute, da sua parte, ha dichiarato, venerdì, che 4.500 persone sono costrette a rimanere in quarantena domestica a causa delle conseguenze del nuovo coronavirus. Nel frattempo, il canale ebraico Kan ha riferito che il numero di persone infettate dal coronavirus in Israele è aumentato, arrivando a 7 casi.

(agcnews, 1 marzo 2020)



Diritto di esistenza e diritto di parola

di Marcello Cicchese

L'ateismo militante oggi non è di moda. Dimostrare razionalmente che Dio non esiste è impegnativo, faticoso e suscita antipatie fra tutti quelli - e sono la maggior parte - che considerano più educato, più democratico, oltre che meno fastidioso, ammettere che un Dio esiste. Uno solo? O più di uno? No, no: uno solo. Il monoteismo ormai è la convinzione delle persone più civilizzate, e in questo quasi tutti concedono agli ebrei un diritto di primogenitura: sono stati loro a inventare il monoteismo.
  Ma se Dio è uno solo, com'è che ci sono più religioni monoteiste? Un elenco completo non sembra sia stato fatto, ma almeno tre ce ne sono, e sono ormai di dominio tanto pubblico da non aver bisogno di essere nominate. Ci sono allora tre dei in lotta fra di loro? Ovviamente no, perché altrimenti ricadremmo nel politeismo.
  Ma se Dio è uno solo, allora di chi è? Perché ci sono tante rappresentazioni dell'unico vero Dio? Qual è la religione giusta? Dobbiamo forse risolvere la questione con le guerre di religione come nel passato, con uno scontro di civiltà? Ovviamente no, perché altrimenti sarebbero vanificati tutti gli sforzi che si fanno per raggiungere la pace, che in primo luogo deve essere pace religiosa. Dio è uno solo, ma - si dice - ciascuno deve essere libero di immaginarselo come gli sembra meglio. Dio è uno, ma i linguaggi con cui se ne parla sono molti e molto diversi fra di loro. Questo però non ha importanza e non deve essere causa di scontri: l'importante - si dice - è che impariamo a parlare educatamente fra di noi e a comunicarci reciprocamente il modo in cui ciascuno parla di Dio: è una questione di linguaggi diversi, di varietà di narrazioni. Questo si legge nel manuale del perfetto postmodernista.
  Ma Dio, che cosa pensa di quello che noi diciamo di Lui? Questo - si dice - non possiamo e non vogliamo saperlo. Dio stesso, qualunque cosa Egli pensi, non deve dirlo a nessuno. Gli è stato concesso il diritto di esistenza, non può pretendere il diritto di parola. Alcuni sono convinti che nel passato Dio abbia parlato, ma non tutti sono d'accordo, e in ogni caso - si dice - il nostro compito adesso è di interpretare liberamente le sue eventuali parole, e dire le nostre nella varietà dei linguaggi consoni alle differenti culture in cui ciascuno di noi è cresciuto.
   Dopo questo breve riassunto del "religiosamente corretto" occidentale, proviamo ad inserire l'Israele di oggi nel discorso. La concessione più benevola che la comunità internazionale fa a Israele è il riconoscimento del suo diritto all'esistenza. Come naturale conseguenza, il suo popolo è autorizzato a recitare le sue narrazioni nel linguaggio che preferisce e meglio gli si adatta: l'uscita dall'Egitto, Mosè, la Torah, il Tempio, le 613 mitzvot, Yom Kippur e così via. Ma in questa concessione è sottinteso che si tratta, appunto, di narrazioni, cioè di miti con debolissime pretese di agganci storici, ma ricche di significato simbolico e utili alla formazione e al mantenimento dell'identità culturale del popolo e della nazione. Per molti israeliani laici queste concessioni della comunità internazionale sono soddisfacenti e dovrebbero bastare a garantire la legittimità politica dell'esistenza di Israele sulla terra in cui si trova.
  Ma non è così, perché alle "mitiche" narrazioni ebraiche si contrappongono altre mitiche narrazioni, che su quella terra dicono cose diverse, con conseguenze pratiche ovviamente diverse. La comunità internazionale ascolta le diverse narrazioni nei diversi linguaggi e affannosamente è alla ricerca di un metalinguaggio politico in cui far risuonare armoniosamente le varie voci discordanti, che in certi momenti diventano minacciose.
   Supponiamo allora che lo stato d'Israele un giorno decida di dichiarare ufficialmente che il diritto alla sua esistenza su quella terra gli proviene dalla parola di Dio, richiamandosi alla Bibbia:
    "Così parla il Signore, l'Eterno: Io vi raccoglierò di fra i popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d'Israele" (Ezechiele 11:17).
Che direbbe la comunità internazionale? Si possono immaginare i cori di indignazione e protesta: Ma chi si credono di essere questi ebrei? Pensano forse di giocare la carta "Dio" nel delicato gioco politico delle contese tra popoli e nazioni? Si raccontino pure l'un l'altro le loro mitiche narrazioni, ma non cerchino di trasformarle in verità storica con supporto divino al fine di sostenere la loro causa politica! Una pretesa di questo genere renderebbe illegittima la loro causa.
  Le nazioni dunque non concedono a Israele il diritto di dire: "Così parla l'Eterno". Quelle più ben disposte gli concedono il diritto di esistenza, ma non il diritto di parola: cioè il diritto di affermare quella parola biblica.
  Ed effettivamente Israele oggi non ha l'autorità di dire quella parola, perché per appoggiarsi all'autorità della parola di Dio bisogna esserle sottoposti. Anche Israele invece, come il resto del mondo, concede a Dio il diritto di esistenza, ma non il diritto di parola. Dio esiste, certo: quasi tutti l'ammettono, soprattutto se sono ebrei, ma non deve parlare. Ci pensiamo noi a parlare di Lui: è più che sufficiente. Più di duecento volte nella Bibbia è ripetuto seccamente: "Così parla l'Eterno", ma che cosa sono in confronto alla sconfinata mole di trattati religiosi e laici in cui milioni di volte si trovano uomini che dicono: "Così parlo io".
  E tuttavia Israele rimane il popolo a cui Dio ha legato la sua parola. No, gli ebrei non hanno inventato il monoteismo. Tanto meno hanno inventato Dio, come irride qualche ateo schernitore. In questo campo nessuno ha mai inventato niente. O meglio, gli inventori ci sono stati e ci sono ancora, ma sono costruttori di idoli. Israele non ha inventato Dio, ma è il portatore storico della parola di Dio. Ancora di più: l'esistenza stessa di Israele è frutto di quella parola.
  Dio disse ad Abramo:
    "Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò" (Genesi 12:1).
A questo primo ordine, a cui Abramo ubbidì, seguì la prima fondamentale promessa: "e io farò di te una grande nazione". Qui nasce Israele. Qui risiede il suo diritto all'esistenza. Non c'è esistenza di Israele al di fuori della parola di Dio: chi nega a Dio il diritto di parola, toglie a Israele l'elemento fondamentale del suo diritto all'esistenza. E chi nega a Israele il diritto di esistenza, nega a Dio il diritto di parola, cioè nega che Dio abbia parlato.
  Ma Dio ha parlato e continua a parlare. E Israele esiste e continua ad esistere. Dov'è che Dio continua a parlare? Risposta: nella Sacra Scrittura, Antico e Nuovo Testamento. Ma sono soltanto libri, soggetti alle più svariate interpretazioni e deformazioni umane, obietterà qualcuno. E' vero, ma proprio questa è la forma che Dio ha scelto per rivolgersi agli uomini in questo periodo della storia: nella debolezza, senza che nessun istituto umano possa arrogarsi il diritto di ergersi a difensore autorizzato di quella parola, magari con mezzi violenti. Chi vuole farlo cade sotto il giudizio di quella stessa parola che vuole difendere. Dio vuole essere ascoltato, non difeso; vuole sapere quello che ciascuno ha nel cuore. Ha fatto così tante volte anche con il suo popolo: ha taciuto dopo aver parlato, ha nascosto il suo volto, ha lasciato che le cose andassero avanti come se non esistesse, ed è stato a guardare:
    "Ricordati di tutto il cammino che l'Eterno, l'Iddio tuo, ti ha fatto fare questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, e se tu osserveresti o no i suoi comandamenti. Egli dunque t'ha umiliato, t'ha fatto provare la fame, poi t'ha nutrito di manna che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell'Eterno avrà ordinato" (Deuteronomio 8:2-3).
Da questo testo Gesù ha tratto la sua risposta a Satana nel deserto:
    "E il tentatore, avvicinatosi, gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani». Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio»" (Matteo 4:3-4).
Dio rivela sempre a Israele per primo quello che poi è destinato ad arrivare a tutti. Non solo Israele, ma tutte le nazioni e tutti gli uomini devono la loro esistenza alla parola di Dio. Non c'è stabilità ad fuori di quella parola, né per gli uomini né per le nazioni. E la parola che Dio ha pronunciata riguardo a Israele è questa:
    "Così parla l'Eterno, che ha dato il sole come luce del giorno, e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare sì che ne muggono le onde; colui che ha nome: l'Eterno degli eserciti. Se quelle leggi verranno a mancare dinanzi a me, dice l'Eterno, allora anche la discendenza d'Israele cesserà d'essere in perpetuo una nazione nel mio cospetto" (Geremia 31:35-36).
Sul piano politico, tra i molti fatti inquietanti che si affacciano all'orizzonte e generano insicurezza, non c'è cosa più sicura dell'esistenza di Israele. Certo, il paese attraverserà un terribile "tempo di angoscia per Giacobbe: ma egli tuttavia ne sarà salvato" (Geremia 30:7, Daniele 12:1-3, Matteo 24:21-22). Il vero problema, per ebrei e non ebrei, sta nella valutazione personale che ciascuno dà della parola di Dio rivolta a Israele, e tramite lui a tutto il mondo. Qui di nuovo entra in gioco la Sacra Scrittura, libro schiettamente ebraico anche nella sua parte scritta in greco. E' ebreo lo scrittore che si rivolge ai suoi fratelli con queste solenni parole:
    "Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato l'universo. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi. Così è diventato di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro" (Ebrei 1:1-4).
La parola che Dio ha rivolta a Israele per mezzo del Figlio è una parola di purificazione e salvezza: salvezza storica per la nazione d'Israele e salvezza eterna personale per tutti coloro che credono in Gesù come Messia d'Israele e Figlio di Dio.
    "Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?» Ella gli disse: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo»" (Giovanni 11:25-27).
"Credi tu questo?" La domanda è rivolta personalmente a tutti, ebrei e non ebrei.

(Notizie su Israele, 1 marzo 2020))

 


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.