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Notizie 1-15 marzo 2023


Israele sospetta il coinvolgimento di Hezbollah in un attacco terroristico

Le forze di sicurezza israeliane sospettano il coinvolgimento del gruppo libanese Hezbollah dietro l’esplosione di un ordigno avvenuta il 13 marzo vicino allo svincolo di Megiddo, in cui è rimasto gravemente ferito un cittadino arabo israeliano di 21 anni, Shareef ad-Din. Lo riferisce una dichiarazione congiunta delle Forze di difesa israeliane (Idf), del servizio segreto interno, lo Shin Bet, e della polizia. Il sospetto terrorista è stato rintracciato ed eliminato a colpi di arma da fuoco vicino nella zona di Moshav Yaara, vicino al confine libanese. In possesso del presunto terrorista, considerato come una “chiara minaccia” dalle Idf, sono stati trovati armi, una cintura esplosiva pronta all’uso e altri oggetti. Le autorità israeliane ritengono che l’eliminazione del terrorista abbia impedito un altro attacco. Dalle indagini preliminari emergerebbe che il terrorista avrebbe attraversato dal territorio libanese in Israele all’inizio di questa settimana.
  A detta degli inquirenti, dopo l’attentato a Megiddo, che si trova a 60 chilometri dal confine libanese, il terrorista avrebbe fermato un’auto e chiedendo all’autista di guidare verso nord. L’attentato è oggetto di un’ampia inchiesta in cui si sta esaminando anche il coinvolgimento di Hezbollah e, a detta di alcuni esperti, potrebbe causare un “casus belli” con il Libano. Le Idf hanno tenuto sotto embargo i dettagli dell’incidenti per scoprire esattamente chi c’era dietro l’attentato. Una scelta, quella della censura, che ha attirate critiche da parte di civili e analisti, dopo la diffusione sui social media di informazioni non verificate al riguardo. Intanto, questo pomeriggio il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto una riunione di sicurezza con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, in merito al caso.

(Nova News, 15 marzo 2023)

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Un centro per promuovere la pace e la coesistenza: nasce ad Abu Dhabi il Manara Center

Un centro per sostenere i valori e le iniziative fondamentali degli Emirati Arabi Uniti, come l’Anno della tolleranza e la Casa della famiglia abramitica: è con questo obiettivo che nascerà ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, il Manara Center – The Regional Center for Coexistence, come annunciato il 14 marzo.
  Il Manara Center (dall’arabo ‘fonte di luce’) è stato istituito con l’Anti-Defamation League (ADL) come partner di punta per aiutare a implementare programmi educativi chiave. Le priorità immediate includeranno la creazione di relazioni con le università del Medio Oriente e del Sud-est asiatico per promuovere la pace e la prosperità attraverso la coesistenza in tutto il mondo, con corsi di formazione specifici progettati per studenti universitari e giovani studenti.
  Basandosi su molti anni di stretta collaborazione tra gli Emirati Arabi Uniti e ADL, all’annuncio hanno partecipato Jonathan Greenblatt, CEO e direttore nazionale di ADL, Ali Al Nuaimi, presidente del Manara Center, e membri di una delegazione della leadership di ADL.
  “Siamo lieti di collaborare con ADL, una delle migliori organizzazioni al mondo per promuovere la pace, dissipare gli stereotipi e riunire persone di ogni estrazione”, ha affermato Ali Al Nuaimi, Presidente del Manara Center. “Il Centro Manara avrà sede nella nostra regione e a beneficio della nostra regione”.
  Con un consiglio di amministrazione fondatore composto dai maggiori esperti di tutto il mondo di questo argomento, il Centro Manara sarà guidato da Ali Al Nuaimi, che fungerà da presidente. Il dottor Al Nuaimi è una voce globale leader nella lotta all’estremismo e nella promozione dell’inclusione. Jonathan Greenblatt rappresenterà ADL nel consiglio di amministrazione.
  “ADL porta 100 anni di esperienza nella lotta alle radici dell’antisemitismo e dell’odio di tutte le forme”, ha affermato Greenblatt. “Siamo onorati che ADL sia l’attore chiave nel fornire programmi educativi per questo incredibile sforzo. Il Manara Center è una continuazione del progresso verso la pace e la convivenza in Medio Oriente, basandosi sui risultati storici nella regione e non vediamo l’ora di continuare il nostro lavoro per riunire le persone in modi innovativi negli anni a venire”.
  ADL lavorerà a stretto contatto con il personale del Centro per costruire, migliorare e implementare programmi completi e collaudati per promuovere la coesistenza.
  I primi programmi educativi inizieranno nell’agosto 2023.

(Bet Magazine Mosaico, 15 marzo 2023)

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“Tria Corda: gli ebrei di Salonicco nelle interviste di David P. Boder”, di Stefania Zezza

di Giuseppe Soccodato

Docente di lettere classiche e dottoranda in Storia e Scienze filosofico-sociali presso l’università di Tor Vergata, è anche una appassionata studiosa della Shoah. Questo “Tria corda” è il suo primo saggio, testo di recentissima pubblicazione (febbraio 2023) frutto di accurate ricerche storiche.
  La studiosa ha ricostruito, con una paziente e capillare indagine ed accurate analisi, le testimonianze di sette ebrei della comunità di Salonicco sopravvissuti alla “soluzione finale” . Sono tratte dal meritorio lavoro di David Boder, psicologo ebreo americano, che nel 1946 in Europa registrò più di cento interviste, lasciando i testimoni liberi di esprimersi nella propria lingua (cosa che poi lo costrinse ad un immane, difficile lavoro di traduzione).
  L’autrice analizza su più livelli, storico, psicologico e linguistico, le interviste ai sette ebrei salonichioti raccolte da Boder, fornendo un ulteriore importante tassello alla ricostruzione del quadro della Shoah in relazione ad una comunità, quella degli ebrei sefarditi di Salonicco che, come scrive la studiosa “ fu quasi completamente annientata durante la Shoah: tra il marzo 1943 e le ultime deportazioni da Atene nel 1944 la maggior parte degli ebrei salonichioti fu inviata ad Auschwitz Birkenau o a Bergen Belsen”. E il titolo di questo testo è una citazione erudita dell’autrice del poeta latino Ennio, che sosteneva di avere TRIA CORDA, ossia tre cuori o anime perché in lui coesistevano tre lingue, l’osco, il greco e il latino. Allo stesso modo gli ebrei di Salonicco, provenienti dalla Spagna, parlavano il ladino (lo spagnolo del Quattrocento), l’ebraico biblico e il greco: “tre lingue, un’identità”.
  Un lavoro che è una “chicca” per “gli addetti ai lavori”, ma che si lascia leggere agevolmente anche dai “profani”, un quadro interessante ed originale di una pagina di storia ancora molto poco conosciuta, ma che non può e non deve essere dimenticata.

(Roma Daily News, 15 marzo 2023)

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Lotta all’antisemitismo e crescita economica. Una nuova stagione di amicizia tra Italia e Israele

di Fabiana Magrì

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In due giornate fittissime di impegni politici il vicepremier italiano e ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Antonio Tajani ha seminato per raccogliere i frutti diplomatici che matureranno entro l’anno, quando si concretizzeranno i due vertici bilaterali annunciati, tra Italia e Israele a Gerusalemme e tra Italia e palestinesi a Ramallah.
  Negli appuntamenti con il presidente Isaac Herzog e il premier Benjamin Netanyahu (a cui è stata donata la maglia rosa del Giro d'Italia), passando per il ministro dell’innovazione, della scienza e della tecnologia Ofir Akunis, quello della cultura e dello sport Miki Zohar e l’omologo Eli Cohen, Tajani ha sancito l’inizio “di una nuova e importante stagione che contribuisca al rafforzamento delle relazioni ma anche alla crescita economica di entrambi” e “un’amicizia antica che vogliamo continuare a rafforzare”. Difesa, energia, diplomazia, economia, tecnologia, spazio sono stati i temi discussi a Gerusalemme, con la volontà di lavorare insieme, come filo conduttore, in tanti settori dove Italia e Israele vantano eccellenze che insieme possono portare risultati importanti per tutti. In conclusione, la firma di due intese: una partnership strategica di politica estera sui rapporti tra i ministeri degli affari esteri e poi, ha specificato Tajani, “un accordo importante che farà sicuramente piacere a tanti cittadini italiani e israeliani, sulle patenti di guida”.
  L’accento è stato messo anche sulla lotta all’antisemitismo, un problema pregnante per gli israeliani, e che Tajani sente suo. L’aveva già sottolineato nella visita a Yad Vashem, il Memoriale della Shoah. “Penso che gli attacchi contro lo stato di Israele siano la nuova vera forma di antisemitismo, perché Israele è il Paese del popolo ebraico”, ha spiegato il ministro italiano. E, ha assicurato, anche quando ha incontrato i vertici dell’autorità palestinese ha parlato sempre e comunque solo di pace. “Credo che possa esserci pace in quest’area ma garantendo sempre la l’indipendenza e l’autonomia di Israele”, ha detto di fronte all’omologo israeliano che, a sua volta, ha ringraziato l’Italia “per il suo aiuto nel prevenire iniziative che vediamo ultimamente in seno all’Unione Europea di intromettersi nella politica interna israeliana e nel conflitto arabo israeliano”. E ha ricordato i 14 cittadini israeliani uccisi dall’inizio dell’anno, vittime di terrorismo palestinese. “Lo stato palestinese continua a pagare stipendi a chi uccide gli israeliani. Questa cosa è inaccettabile”, ha denunciato il ministro degli esteri israeliano che, rivolgendosi a Tajani, gli ha chiesto di unirsi “a una dichiarazione che il pagamento degli stipendi agli assassini di israeliani è qualcosa che va fermata”.

(Shalom, 14 marzo 2023)

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6 schede per conoscerci meglio. Ottolenghi (Ucei): “Dall’educazione può partire un vero rinnovamento”

di Maria Chiara Biagioni

È Livia Ottlenghi, assessore all’educazione dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia (Ucei), a presentare al Sir “Ebraismo e Cristianesimo a Scuola. 16 Schede per conoscerci meglio”. “La scuola – dice - è un laboratorio di convivenza, il luogo per eccellenza dove si impara a condividere, a entrare nella società, a conoscere e rispettare le proprie caratteristiche ma anche tutte le diversità che in una classe si incontrano. Per questo è importante che nella scuola ci sia una cura della correttezza delle informazioni e del rispetto per le diversità”
  “È un progetto estremamente importante perché punta sulla formazione. Siamo tutti d’accordo nel fatto che dall’educazione deve e può partire un vero rinnovamento del dialogo tra ebrei e cristiani, della società e del futuro che vogliamo costruire”. Così Livia Ottolenghi, assessore all’educazione dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia (Ucei), presenta le sedici schede sull’ebraismo destinate alla redazione dei libri di testo per l’insegnamento della religione cattolica (Irc) nelle scuole. Un progetto realizzato da un gruppo misto di redattori ebrei e cattolici e sostenuto insieme da Conferenza episcopale italiana e Ucei. “Queste schede – aggiunge Ottolenghi – servono ad aumentare sia il grado ma anche la qualità della conoscenza che i ragazzi hanno sull’ebraismo”. Il progetto mira a correggere “gli errori sulla base dei quali poi si fondano le idee sbagliate che le persone si fanno sul popolo ebraico e prima si interviene, prima si abbattono i pregiudizi”. Ma punta anche e soprattutto ad una corretta formazione nella convinzione che “spesso il pregiudizio nasce sulla non conoscenza dell’altro”.

- Quali sono gli errori concettuali più comuni che si trovano nei libri di testo?
  Noi abbiamo fatto un lavoro sui libri di testo per l’insegnamento della religione cattolica. Gli errori sono diversi. Per esempio sull’uso dei termini, sulla conoscenza delle feste, o ancora su alcune situazioni fondanti come le considerazioni e le differenze tra la Torah e i Vangeli. Si lavora sul rispetto reciproco e delle rispettive specificità cercando di andare a scardinare quei pregiudizi che probabilmente sono ancora un retaggio pre-conciliare.

- Si tratta di veri e propri errori o piuttosto di una scarsa conoscenza del mondo ebraico?
  Il problema è che non tutti i testi utilizzati nelle scuole sono recenti. Si avvertiva pertanto la necessità di individuare degli aspetti che pur non essendo percepiti come importanti, lo sono e possono trascinare a considerazioni errate. Forse non sono necessariamente degli errori ma presupposti che vanno chiariti. In questo senso la Cei ha avuto una grande sensibilità, perché ha voluto produrre insieme a noi queste schede per gli editori, per il futuro cioè di nuovi testi e per la revisione dei vecchi, dando delle linee guida che consentano di presentare correttamente gli ebrei, la storia ebraica e i valori dell’ebraismo.

- Cosa volete che fosse comunicato oggi ai ragazzi del mondo, della storia e della cultura ebraica?
  Vorremmo che capissero che il popolo ebraico è un popolo vivo, che la cultura ebraica è una cultura viva, che è importante conoscere e rispettare.
  E’ un principio che vale non solo per noi ma per tutti, con la disponibilità a capire che ci sono dei valori comuni ma anche esperienze diverse e che tutto è da rispettare. E’ quindi una formula che consente anche una formazione alla convivenza.

- L’antisemitismo tra i giovanissimi è un fenomeno purtroppo ancora diffuso. Come si combatte? Che ruolo possono avere la scuola in generale e gli insegnanti di religione cattolica in particolare?
  La scuola è un laboratorio di convivenza, il luogo per eccellenza dove si impara a condividere, a entrare nella società, a conoscere e rispettare le proprie caratteristiche ma anche tutte le diversità che in una classe si incontrano.
  Per questo è importante che nella scuola ci sia una cura della correttezza delle informazioni e del rispetto per le diversità. Nel caso specifico, è importante far conoscere a studenti e studentesse che gli ebrei sono da 22 secoli presenti ininterrottamente in Italia e che quando si parla di cultura ebraica, stiamo parlando di una comunità originaria che ha dato un contributo essenziale alla crescita culturale, economica e sociale del nostro Paese.

- Che futuro siamo chiamati tutti, cristiani ed ebrei, a costruire?
  C’è un passo delle Massime dei Padri che dice che noi non siamo tenuti a finire l’opera ma a dare il massimo per quello che è nelle nostre possibilità.
  Questo significa che dobbiamo lavorare individuando buoni propositi e buone pratiche, facendo di tutto perché le ragazze ed i ragazzi si formino e prendano in mano il loro futuro in modo responsabile e rispettoso di tutti. Non possiamo essere noi la soluzione di tutti i problemi, ma possiamo e dobbiamo fare il massimo per offrire oggi ai giovani un terreno fertile su cui costruiranno il loro futuro.

(ladifesa, 15 marzo 2023)

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Israele e le 4 guerre che cambiarono il mondo

Lettera ad Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
sono israeliano e vivo in Israele. La sua risposta riguardo il riconoscimento di Gerusalemme capitale mi ha molto colpito per come lei ha analizzato i crimini tedeschi come crimini italiani. In Italia c’è stato questo stravolgimento storico in cui si celebra la Liberazione, in cui l’Italia è in poche parole vittima dei tedeschi e vessata — senza saper come — dal fascismo. Si è riusciti a vendere alle nuove generazioni italiane l’idea che l’Italia sì in qualche modo ha partecipato alla Seconda guerra mondiale coi tedeschi, ma in realtà era dalla parte degli alleati, come dimostra l’attiva partecipazione dei partigiani ed ignorando le oceaniche manifestazioni di popolo di Piazza Venezia. Peccato che non si sia avuto il coraggio di ammettere, negli Anni ‘50 ed anche ‘60, il vero ruolo del fascismo e la conseguente adesione allo stesso della grande maggioranza del popolo italiano. I tedeschi, invece, d’altra parte, ammettono totalmente le proprie responsabilità, si scusano continuamente per quanto hanno commesso. Nei libri scolastici tedeschi è tutto chiaro e non si nasconde nulla. Detto questo, il mio amore per l’Italia e la mia simpatia per gli italiani non ha limiti.
Daniel Mimun Netanya, Israele  
 
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Caro Daniel,
Ringrazio lei e in genere i lettori che hanno scritto sulla questione Gerusalemme capitale. Tutti l’hanno fatto con il rispetto e l’attenzione dovuta a un tema così importante, dietro cui dai tempi di Tito c’è una millenaria storia di dolore. Quand’ero ragazzo, il Medio Oriente era considerato il cuore del mondo. Tra il 1948 e il 1973 si combatterono quattro guerre, non lunghe ma cruciali: ognuna a suo modo ha cambiato il mondo. Nel 1948 Israele resistette e si affermò come l’unica democrazia della regione, quale ancora è. Nel 1956 si capì che Francia e Regno Unito non potevano più fare nulla senza Stati Uniti e Unione Sovietica. Nel 1967 i soldati israeliani presero Gerusalemme Est con la città vecchia e il muro del Pianto (che gli ebrei chiamano Kotel), la Cisgiordania, il Golan e il Sinai, poi restituito all’Egitto. Nel 1973 Israele si trovò in grave difficoltà, e per due volte si arrivò vicini all’impiego dell’arma nucleare: secondo il più importante storico israeliano, Benny Morris, Golda Meir stava per usarla per fermare i carristi siriani che scendevano verso il lago di Tiberiade, ma Moshe Dayan la fermò: «Aspetta, i nostri uomini possono ancora resistere». I carristi israeliani resistettero; e dei 2.300 caduti israeliani nella guerra del Kippur, metà erano carristi. Quando però Sharon contrattaccò oltre Suez e avanzò verso Alessandria, furono i sovietici a minacciare il ricorso all’atomica. Oggi del Medio Oriente si occupano in pochi. Resto convinto che sia sempre una delle chiavi per capire la modernità e il futuro. Benny Morris ricorda che Ben Gurion disse nel 1938: «Noi stiamo difendendo le nostre vite. Ma sul piano politico, siamo noi che attacchiamo, e loro che si difendono». Poi però Morris aggiunge: «Ben Gurion aveva ragione. Ma ora quel ragionamento non vale più. Israele ha creduto davvero alla pace. I palestinesi no». Quanto al punto specifico che lei solleva, gentile signor Mimun, non posso che darle ragione: l’Italia non ha mai fatto i conti sino in fondo con il fascismo, e con il suo ruolo nella persecuzione degli ebrei.

(Corriere della Sera, 15 marzo 2023)

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Reazioni avverse al vaccino anti covid, banchetti in 15 città

Il Comitato Ascoltami! si è formato per volontà di un gruppo di persone vaccinate, che hanno subito danni gravi dopo il vaccino e si sono ritrovate ignorate e denegate dalle istituzioni, in un profondo senso di sgomento e disperazione
  Reazioni avverse al vaccino anti covid-19, sabato 18 marzo 2023 nelle principali piazze italiane il Comitato Ascoltami! sarà presente con dei banchetti informativi dove personale sanitario e giuristi saranno a disposizione dei cittadini dalle ore 10 alle ore 18 per dare informazione a tutti, danneggiati e non, vaccinati e non. Verrà anche proposta una raccolta firme per portare in Parlamento quattro richieste specifiche a tutela dei danneggiati da 'vaccino'.
  Il Comitato Ascoltami! che è impegnato anche nella proiezione del docufilm Invisibili di PlayMasteMovie in tutta Italia, si è formato per volontà di un gruppo di persone vaccinate, che hanno subito danni gravi dopo il 'vaccino' e si sono ritrovate ignorate e denegate dalle istituzioni, in un profondo senso di sgomento e disperazione.
  Lo slogan 'Reazioni avverse. Uniti per guarire' esprime la mission: fare in modo che nessuno possa più girarsi dall'altra parte di fronte a un essere umano che soffre, aldilà di ogni ideologia e divisione sociale. I valori dichiarati sono Cura, verità e Giustizia attraverso l'Unione di persone vaccinate e non vaccinate, danneggiate e non danneggiate.
  Lo scopo del Comitato è senza fini di lucro, non si danno consigli, si vuole informare, sensibilizzare società e istituzioni e la comunità scientifica, si mettono in relazione persone. Tutto per arrivare ad avere delle diagnosi e delle cure.
  La presidente è Federica Angelini, maestra elementare di Verona, vaccinata a marzo 2021 e da subito vittima di una reazione avversa. Ecco dove trovare gli info-point:

(GenovaToday, 15 marzo 2023)

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Israele: il governo marcia verso il varo della riforma giudiziaria

Nonostante le massicce proteste nel Paese

TEL AVIV - Nonostante le forti proteste nel Paese e l'appello del presidente Isaac Herzog, il governo israeliano sta avanzando a tappe forzate verso l'approvazione della riforma giudiziaria e delle leggi ad essa collegate.
  La notte scorsa la Knesset ha varato in prima lettura (ne occorrono 3) con 61 voti a favore e 52 contrari un disegno legge chiave che garantisce ai provvedimenti in esame l'immunità preventiva contro il controllo giudiziario. Il secondo provvedimento approvato - un emendamento alla Legge di Base (in Israele non esiste la Costituzione) stabilisce che un premier può essere dichiarato "inadatto alla carica" solo per incapacità mentale o fisica solo da lui stesso o dal voto dei 3/4 del gabinetto ministeriale. Va ricordato che il premier Benyamin Netanyahu è sotto processo a Gerusalemme per corruzione e altri reati.
  Un terzo provvedimento intacca i poteri attuali della Corte Suprema consentendo ai deputati, con una semplice maggioranza di 61 di loro (su 120), di ripresentare e approvare leggi già boccate dalla stessa Corte Suprema. I leader di 4 dei partiti dell'opposizione alla Knesset - i centristi Yair Lapid e Benny Gantz, la laburista Merav Michaeli e il nazionalista laico Avigdor Lieberman - hanno annunciato che se il pacchetto governativo a arriverà alla terza lettura finale boicotteranno il voto conclusivo che si attende alla Knesset per fine mese.
  Intanto già da domani è prevista la riprese delle proteste mentre giovedì è indetta una nuova manifestazione nazionale in tutta Israele.

(ANSAmed, 14 marzo 2023)
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L’opposizione israeliana annuncia il ritiro dal parlamento

Gli esponenti politici dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, Benny Gantz, Merav Michaeli e Avigdor Lieberman, hanno firmato una dichiarazione congiunta per annunciare che boicotteranno il voto della Knesset se verrà presentata, in terza lettura, la proposta di legge che stravolge le istituzioni.
  Israele non ha costituzione. Il regime è retto da 12 leggi fondamentali che la coalizione di Benjamin Netanyahu s’appresta ad abrogare.
  La Commissione speciale della Knesset incaricata di emendare la legge fondamentale che riguarda il governo, presieduta da Ofir Katz, membro del partito del primo ministro, ha adottato un emendamento finalizzato a impedire al procuratore generale di dichiarare il primo ministro inidoneo a governare. Prevede infatti che il primo ministro possa essere dichiarato inidoneo solo in caso d’incapacità fisica o mentale. Durante il precedente incarico di primo ministro, Netanyahu ha concluso un accordo con la Giustizia, che però oggi non rispetta. La Corte Suprema potrebbe per questo motivo dichiararlo inidoneo.
  Netanyahu ha commentato: «Siamo in presenza di un attacco senza precedenti di reti mediatiche che si sono mobilitate contro il governo, completamente mobilitate a favore degli oppositori alla riforma. Trasmissioni in diretta, analisi di parte, sondaggi truccati, fake news 24 ore su 24».

(Rete Voltaire, 14 marzo 2023)

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Israele e i matrimoni civili. Una sentenza che fa scuola

I giudici hanno ordinato all’autorità competente di registrare ufficialmente – e quindi riconoscere – i matrimoni civili celebrati online da coppie che si trovavano in Israele

Nei giorni scorsi in Israele la Corte Suprema – primo bersaglio delle contestatissime modifiche volute dalla maggioranza del premier Netanyahu al fine di limitarne i poteri – ha emesso un significativo verdetto legato ai matrimoni. I giudici hanno infatti ordinato all’autorità competente di registrare ufficialmente – e quindi riconoscere – i matrimoni civili celebrati online da coppie che si trovavano in Israele. In un Paese in cui è possibile sposarsi solo secondo rito religioso, la decisione potrebbe aprire nuovi scenari.
  A raccontare i particolari della svolta storica è il sito Moked delle Comunità ebraiche in Italia.
  Il caso fa in particolare riferimento a centinaia di coppie israeliane che hanno usufruito, a partire dal 2020, di un servizio messo a disposizione dallo Stato americano dello Utah per sposarsi civilmente attraverso Zoom. La battaglia legale era stata avviata dopo che alcuni neosposi avevano provato a registrare i matrimoni presso l’Autorità per la popolazione e l’immigrazione del ministero degli Interni, allora guidato da Aryeh Deri. Quest’ultimo, intervenendo nella questione, ordinò di fermare tale iter. Provvedimento contro cui sono state presentate petizioni alle Corti distrettuali di Lod e di Gerusalemme. Entrambe avevano dato ragione ai ricorrenti, stabilendo il loro diritto a vedersi riconosciuti i matrimoni celebrati secondo le norme dello Utah. Ancora una volta il ministero degli Interni, nel frattempo passato ad Ayelet Shaked, aveva fatto appello. Questa volta alla Corte Suprema. E ora è arrivata la sentenza che mette un punto alla vicenda, ribadendo quanto stabilito dai tribunali inferiori.
  Secondo la Corte Suprema, gli impiegati dell’Autorità per la popolazione e l’immigrazione non sono legalmente autorizzati a contestare la validità dei matrimoni dello Utah e a rifiutarne la registrazione. Il vice presidente della Corte Suprema, Uzi Vogelman, ha spiegato che il compito dell’Autorità per la popolazione non è quello di esaminare e decidere sulla validità di un certificato di matrimonio, ma piuttosto di registrare qualsiasi documento di matrimonio emesso da un impiegato autorizzato in un Paese terzo. Dunque se gli atti dei matrimoni celebrati online dallo Utah rispettano tutti i criteri, devono essere registrati. Secondo i dati di Hiddush, un’organizzazione che difende la libertà religiosa, la decisione della Corte Suprema, riporta il quotidiano Haaretz, «potrebbe aiutare fino a 700mila persone che attualmente non possono sposarsi in Israele perché il Paese non ha il matrimonio civile: finora queste coppie hanno dovuto recarsi all’estero per sposarsi».
  I matrimoni in Israele sono regolati da norme ereditate dai tempi dell’impero ottomano e del mandato britannico, leggi che sanciscono che lo Stato deve garantire a ciascuna comunità religiosa competenza esclusiva in alcune questioni, tra cui i matrimoni. Pertanto per sposarsi in Israele bisogna passare attraverso le istituzioni religiose (ebraiche, cristiane, druse o musulmane che siano). Per gli ebrei, dal Rabbinato centrale, che, come è noto, è ortodosso.
  Gli altri casi non sono riconosciuti. Già a partire però dal 1960 la Corte Suprema ha stabilito che le unioni registrate in un Paese estero abbiano valore anche nel Paese di origine. Molte coppie, soprattutto quelle interconfessionali, hanno dunque aggirato le restrizioni andando a sposarsi fuori da Israele, solitamente nella vicina Cipro. Ora con “l’opzione Utah” potrebbe non essere più necessario viaggiare. «D’ora in poi nessuno dovrà più recarsi all’estero per sposarsi se non vuole farlo tramite il Gran Rabbinato o altre autorità religiose», ha dichiarato l’avvocato Vlad Finkelstein, che ha difeso alcune delle coppie in tribunale. «È un’ottima soluzione per tutti coloro che non possono sposarsi qui in Israele. Ora possono farlo ovunque vogliano e non devono viaggiare all’estero».

(Riforma.it, 14 marzo 2023)

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Da Koestler a Schlein, l’uso in senso antisemita del termine “ashkenazita”

di Federico Bosco

ROMA - Da quando Elly Schlein è diventata una leader in grado di vincere le primarie del Pd la sua identità ebraica è diventata una fonte di insulti sui social, in cui spesso viene sottolineata l’origine “ashkenazita” della famiglia. Una definizione in sé neutrale, ma che rimanda ad alcune teorie complottiste particolarmente ripugnanti che è bene conoscere visto che il termine è rimbalzato sui social fino ad arrivare sulle pagine dei giornali. Ieri, ad esempio, sul Fatto quotidiano è stata pubblicato un profilo biografico – non esattamente gentile nei suoi confronti – in cui Schlein veniva raffigurata con un’enorme caricatura che ne storpiava i caratteri fisici secondo alcuni stereotipi che richiamano, forse involontariamente, la propaganda antisemita. La sottolineatura delle origini ebraiche era ben visibile nella didascalia e nel testo, con queste parole “Elena Ethel Schlein, detta Elly, nasce a Lugano nella bambagia delle élite, anno 1985. Il padre Melvin è americano, ebreo ashkenazita, insegna Scienze politiche alla John Hopkins University”. Con ashkenazita si definisce (in senso molto ampio) l’origine, la dottrina e la cultura degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, distinguendoli dai sefarditi, gli ebrei originari della penisola iberica espulsi nel 1942 dalla riconquista spagnola e stanziatisi per lo più nel Maghreb e in altri paesi del Mediterraneo. Oggi per “sefarditi” si intendono gli ebrei originari dei paesi arabi, mentre gli “ashkenaziti” sono gli ebrei di origine europea.
  Ma dietro l’uso del termine “ashkenazita”, in sé neutro, sottolineato per definire Schlein e prima di lei persone come George Soros c’è, almeno in alcuni mondi e nel sottobosco della rete, il rimando a un’intera teoria complottista che ruota attorno alla specificità ashkenazita. Secondo questa teoria gli ashkenaziti sono gli ebrei più malvagi, i membri della “cupola” all’origine di ogni cospirazione, e soprattutto dei “falsi ebrei” in quanto eredi dei Cazari, gli abitanti dell’antico Khanato di Khazaria che si convertirono in massa all’ebraismo e, dopo la caduta dell’impero, si diffusero in Europa orientale e da lì in tutto il mondo.
  Le basi di questa teoria sono state estratte dal libro “La tredicesima tribù. Storia dei cazari, dal Medioevo all’Olocausto ebraico”, un saggio del 1976 scritto da Arthur Koestler (askhenazita ungherese autore del celebre “Buio a mezzogiorno”) in cui si ripercorre la storia di un popolo che tra il quinto e il dodicesimo secolo dominava un ampio territorio tra il mar Nero e il mar Caspio. Una civiltà di stirpe turca esistita realmente che, secondo il saggio, intorno all’ottavo secolo avrebbe abbandonato lo sciamanesimo per convertirsi all’ebraismo. La teoria di Koestler, pur facendo riferimento ad alcuni elementi reali, è stata contestata da storici e antropologi e l’ipotesi di una conversione di massa dell’intera popolazione della Khazaria non ha trovato riscontro.
  La teoria è stata però sfruttata da complottisti e antisemiti in Europa e nel mondo arabo per bollare come abusiva la maggior parte della popolazione israeliana, rappresentando la prova che la maggior parte degli ebrei non ha mai avuto radici nell’antica Giudea. Successivamente, la storia dei cazari ha reso il termine “ashkenazita” un modo per usare con disinvoltura la definizione “ebreo” in senso dispregiativo, al punto che spesso si usa solo “ashkenazita” per eliminare il riferimento alla religione.
  Ironia della sorte, sembra che Koestler scrisse quel libro con l’idea che se avesse dimostrato che la maggior parte degli ebrei europei discendeva dai Cazari la base razziale dell’antisemitismo sarebbe scomparsa, e con esso l’odio verso gli ebrei. Ma l’antisemitismo è un male strisciante che ha attraversato secoli e generazioni continuando a trasformarsi e a riemergere, a volte (si spera) anche inconsapevolmente.

Il Foglio, 14 marzo 2023)

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Mea culpa tedesco su vaccini e diktat. «Prese misure insensate e illegali»

Lo «Spìegel» fa autocritica. Il ministro: «Bìg Pharma paghi le cure post effetti avversi» 

di Patrizia Floder Reitter 

Anche gli organi di informazione dovrebbero fare una bella autocritica, riconoscendo gli errori commessi durante la pandemia. L'invito arriva da Der Spiegel, settimanale tedesco di centrosinistra che certo non ha mai assunto posizioni contrarie a chiusure e restrizioni in epoca Covid. 
  «Ciò che mi preoccupa in retrospettiva è la facilità con cui le libertà civili sono state sospese nella nostra presunta società liberale», ha scritto in un editoriale il caporedattore Alexander Neubacher. Già le prime righe sono un'ammissione di colpevole complicità. «Ora sappiamo che molte misure pandemiche erano prive di senso, eccessive e illegali. Nessuna pagina gloriosa, nemmeno per noi media». 
  C'è poco da essere orgogliosi del ruolo svolto da giornali, agenzie, emittenti radiotelevisive, sta ammettendo una delle riviste europee più influenti. Neubacher cita comportamenti generalizzati, eppure privi di fondamento scientifico o motivazione sanitaria. «All'epoca, molti tedeschi consideravano la Cina un ottimo esempio di come combattere efficacemente il coronavirus. Decine di migliaia di persone hanno sostenuto iniziative come lo #ZeroCovid, chiesto alla politica tedesca di agire con una chiusura radicale dell'economia e della vita pubblica», scrive. «In effetti, molte libertà sono state gravemente limitate. C'erano, ricorderete, divieti di uscire, divieti di contatto, divieti di viaggiare. In Baviera, restrizioni a uscire di giorno e di notte. Ad Amburgo, le mascherine all'aperto erano obbligatorie sui percorsi da jogging. A Berlino, non era più permesso sedersi su una panchina del parco», elenca il giornalista economico, autore tra l'altro del libro Okofimmel, ovvero Ecomania, che già nel 2012 mostrava quanto sia diventata isterica la politica ambientale tedesca, e non solo quella. La Corte costituzionale del Brandeburgo ha appena stabilito che la cosiddetta legge municipale di emergenza Covid «violava la costituzione dello Stato perché minava la separazione dei poteri», sottolinea Der Spiegel. Anche il coprifuoco giorno e notte in Baviera non avrebbe dovuto esistere. «"Sproporzionato", lo ha definito il Tribunale amministrativo federale», scrive Neubacher. «Col senno di poi, è scioccante la facilità con cui le libertà civili sono state sospese». Ci fosse qualche giornalone italiano altrettanto pronto a fare un esame critico degli errori commessi. L'editorialista sa che è solo l'inizio delle cause legali, ma guardando a quel periodo dice di essere preoccupato perché «la patina della civiltà sembra essere più sottile di quanto pensassi». 
  Ricorda che «troppo pochi si sono opposti, quando i politici hanno ordinato per la prima volta la chiusura delle scuole tre anni fa e poi l'hanno prorogata ripetutamente per mesi. Nessuna Corte costituzionale federale, nessuna Accademia nazionale delle scienze, nessun Consiglio etico, nessun Christian Drosten (il potente virologo dello Charité, ndr). Il che, come direi oggi, è stata un'enorme omissione». Conclude che nessuno può 
  chiamarsi fuori da quella vergogna, nemmeno i media che amano vedersi «come il quarto potere», perché, dice «temo che il dittatore in noi fosse piuttosto forte». Quanto si possono applicare anche al nostro Paese simili considerazioni. Intanto, anche il ministro della Salute tedesco, Karl Lauterbach, fa nuove ammissioni dopo aver dichiarato che la prolungata chiusura delle scuole durante la pandemia è stata un errore. Afferma che occorre un «riconoscimento più rapido» dei danni da vaccini, sveltendo le procedure per identificare le persone colpite, in modo da poterle aiutare senza perdite di tempo anche sul fronte risarcimenti. Si è impegnato a varare un piano di ricerca delle terapie necessarie per le persone con long Covid e con danni da post vaccino. «Molti pazienti si sentono abbandonati. I profitti per i produttori di vaccini sono stati esorbitanti, sarebbe in realtà un buon gesto che contribuissero al costo delle cure», ha aggiunto Lauterbach. 
  In Italia, aspettiamo segnali analoghi.

(La Verità, 14 marzo 2023)

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Il ministro Tajani in Israele: “Lo stato ebraico partner strategico per l’Italia”

di Fabiana Magrì

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L’agenda politica del secondo giorno del viaggio in Israele del ministro degli Esteri Antonio Tajani è iniziata con l’incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme, visto già a Roma solo pochi giorni fa. Il ministro si è poi diretto a Ramallah per incontrare l’omologo palestinese Riad Malki, il primo ministro Mohammed Shtayyeh e il presidente Abu Mazen.
  Prima degli incontri politici di oggi, che si concluderanno in serata con la firma di alcuni accordi con il ministro degli affari esteri israeliano Eli Cohen per una collaborazione politica, nella lotta contro il terrorismo, nei settori più moderni dell’industria, dallo spazio, alla tecnologia, alle startup, di prima mattina Tajani ha reso omaggio alle vittime della Shoah visitando il memoriale di Gerusalemme Yad Vashem.
  “Ogni volta che ritorno in questi luoghi si riapre una ferita nel cuore di tutti coloro che condannano l’odio, la violenza e lo sterminio di sei milioni di vittime innocenti, colpevoli soltanto di essere ebrei”, ha detto Tajani dopo la firma e il messaggio lasciato scritto sul Libro d’onore: “Non dimenticare perché tutto ciò non accada mai più. L’Italia china il capo davanti a milioni di vittime innocenti”. Ha poi aggiunto che bisogna combattere “ogni rigurgito antisemita in Italia, in Europa e nel mondo “perché questo germe maligno non si allarghi.”
  “Ogni cittadino italiano e europeo che abbandona per paura il paese dove vive - ha concluso - è una sconfitta”. A inaugurare il viaggio di stato, ieri, l’appuntamento con il presidente israeliano Isaac Herzog. Il recente susseguirsi di scambi di visite diplomatiche tra Italia e Israele testimonia il fatto che lo Stato ebraico, ha sottolineato il vicepremier, è considerato un “partner strategico per una collaborazione politica, nella lotta contro il terrorismo, nei settori più moderni dell’industria, dallo spazio, alla tecnologia, alle startup”. Resterà invece chiuso nel cassetto il dossier del riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele.

(Shalom, 13 marzo 2023)
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I coloni israeliani tra geopolitica e religione: il dibattito di Kesher

di Nathan Greppi

Uno dei sotto-temi più trattati nel dibattito pubblico in merito al conflitto israelo-palestinese è quello degli insediamenti israeliani in Cisgiordania o Giudea e Samaria. Tuttavia, raramente i giornali trattano in maniera più approfondita tale contesto, lasciando aperti vari interrogativi: chi sono questi coloni? Quali sono le loro idee e obiettivi? Che tipo di vita conducono? Che rapporti hanno con i palestinesi nella vita di tutti i giorni?
  Chi ha provato a comprendere i punti di vista dei coloni, andando a intervistarli e ad ascoltare le loro storie di vita senza pregiudizi, è il giornalista italiano Pietro Frenquellucci, che ha deciso di dedicare a questo tema il suo primo libro, intitolato appunto Coloni. Gli uomini e le donne che stanno cambiando Israele e cambieranno il Medio Oriente, pubblicato nel 2021 dalla Libreria Editrice Goriziana (LEG).
  Frenquellucci, già caposervizio del quotidiano Il Messaggero e candidato sindaco ad Ascoli Piceno nel 2019, ha presentato il suo libro in un incontro tenutosi domenica 12 marzo su Zoom, organizzato da Kesher.

• Uno sguardo oggettivo
  Nell’introdurre l’incontro, il saggista Niram Ferretti ha fatto notare la caratteristica forse più importante del libro: l’essersi messo in ascolto “dei suoi interlocutori, senza dare un giudizio su quello che dicono, […] ma lasciandoli sostanzialmente esprimersi liberamente, e lasciando al lettore poi trarre le sue conclusioni.” Un libro, a suo dire, con un’impostazione “encomiabilmente oggettiva”, che racconta “storie di vita vissuta, storie ricche di particolari, di aneddoti, di dolori, speranze, sogni, illusioni, di realtà.” Tutto questo offrirebbe “un panorama umano estremamente affascinante, e ci permette di vedere […] queste persone realmente, per come sono, senza lenti deformanti, senza inquinarne il pensiero.”
  Dello stesso avviso il semiologo Ugo Volli, il quale ha rimarcato come vi sia “una tendenza, da parte della stampa italiana, dei governi europei e degli Stati Uniti a trattare questa gente come fossero dei criminali.” Invece, la realtà è più complessa ed eterogenea di come appare, e coloro che vivono negli insediamenti sono persone anche molto diverse tra loro per idee e motivazioni. Ha sostenuto che i giornalisti di oggi tendono a filtrare la narrazione della realtà attraverso le loro opinioni personali, mentre Frenquellucci si è attenuto ai fatti.

• La parola all’autore
  Rispondendo ad una domanda di Volli, Frenquellucci ha raccontato che l’idea alla base del libro nasce “da una serie di riflessioni, che partono da una sorta di ‘arrabbiatura di partenza’: perché ero molto arrabbiato per il fatto che nella stampa italiana, ma anche nelle pubblicazioni di libri, si affronta il tema dei coloni dando loro una grandissima responsabilità per quanto riguarda l’attuale vicenda mediorientale, ma cercando e leggendo non sono riuscito a trovare nulla o molto poco che desse la possibilità di capire cosa pensano queste persone”.
  Da qui, la decisione di recarsi in Samaria per incontrare “persone dalle storie ricchissime e veramente coinvolgenti.” Storie che hanno appassionato l’autore, spingendolo ad andare avanti nella ricerca, tanto che ad un certo punto “mi sono reso conto di quello che a mio avviso è uno dei più grandi difetti del giornalismo italiano: i protagonisti non sono coloro che raccontano le loro storie, ma […] i giornalisti che raccontano le storie.” Ciò renderebbe scarsamente credibili i giornalisti stessi, e in un primo momento gli pose delle difficoltà nel guadagnarsi la fiducia di coloro che voleva intervistare. Non sono mancate analisi sulle posizioni politiche degli intervistati: oltre ad una certa disillusione verso la praticabilità della Soluzione dei due stati, viene fatto notare come gli insediamenti siano considerati dai loro fautori di importanza strategica per la sopravvivenza stessa d’Israele, in quanto farebbero da cuscinetto nel bloccare eventuali attacchi in caso di guerra. Alla base di questa convinzione vi è anche quella che per loro è una ferita tuttora aperta: lo sgombero avvenuto nel 2005 di tutti i coloni presenti a Gaza, che anziché rendere i palestinesi della Striscia più accondiscendenti ha portato prima all’elezione di Hamas, e poi ai ripetuti lanci di razzi verso il territorio israeliano.
  Una cosa che ha colpito Frenquellucci nel corso del suo viaggio, è stata la consapevolezza che “la storia si svolge in poche decine di chilometri quadrati.” Qualcosa di cui non ci si rende pienamente conto finché non ci si reca sul posto.

(Bet Magazine Mosaico, 13 marzo 2023)

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Italia e Israele disegneranno il futuro del Mediterraneo. Il punto di Nirenstein

di Francesco De Palo

Fiamma Nirenstein, giornalista e scrittrice, già parlamentare e membro del Jerusalem Center for public affairs, non crede a chi accusa Benjamin Netanyahu di autoritarismo. In occasione della sua visita a Palazzo Chigi, ricevuto da Giorgia Meloni, anche a Roma in contemporanea a Tel Aviv si sono svolte manifestazioni contro una riforma giudiziaria che Nirenstein definisce utile perché in Israele “il potere giudiziario è sconfinato, soprattutto per il fatto che un giudice può cancellare le leggi votate dal Parlamento”.
  Nessuno è stato mai arrestato in Israele per aver manifestato la propria opinione, “allora su quali basi si accusa il governo di autoritarismo? Israele è il paese più liberale che si possa immaginare, dove si insegna il pacifismo nelle scuole, mentre altrove si fa propaganda insegnando ad ammazzare gli ebrei”. Contro Netanyahu, osserva, è in atto un colpo di Stato (“è stato eletto democraticamente e deve governare”). L’asse Roma-Tel Aviv? Strategico per il futuro dell’Ue e dell’occidente, anche in chiave anti cinese e anti iraniana.

- In Italia si è parlato molto della manifestazione di protesta contro Netanyahu mentre si trovava in visita dal premier Meloni.
  Evidentemente si vuole sminuire questa visita così importante e densa di significati geopolitici. Vedo una grande confusione fra chi contesta la riforma giudiziaria e un antagonismo sfrenato nei confronti di Netanyahu, quando lo si accusa di una cosa di cui non è accusabile, ovvero avere tendenze autoritarie. Le due cose non hanno nulla a che fare l’una con l’altra e vengono sovrapposte in maniera capziosa. Il nodo verte innanzitutto la densità ideologica che ha a che fare con i movimenti pacifisti e della sinistra israeliana che nasce addirittura nell’ambito della guerra fredda.

- Ovvero?
  L’Europa con Olof Palme e quel radicalismo di Willy Brandt e Bruno Kreisky divenne sostenitrice dell’Olp e, al contempo, silenziò fatti gravissimi come il terrorismo e chi lo finanziava. In quel momento la sinistra israeliana invece di rimanere su posizioni idealiste e liberal-socialiste, venne spinta automaticamente in avanti verso una serie di cause che si sono rivelate fallimentari. La più palese fu quella degli accordi di Oslo, con la conseguenza che il fallimento del pacifismo è stato scaricato strumentalmente sullo Stato ebraico, mentre invece è figlio dei “no” palestinesi. Hanno sempre rifiutato lo Stato di Israele, opponendosi sin dal 1948 a due Stati per due popoli.

- Quale il ruolo dell’Europa?
  Nel frattempo l’Europa è diventata un ambito in cui l’amicizia con Israele era stata condizionata al permesso dei palestinesi di avere un rapporto positivo con Israele: nel corso del tempo questi due elementi, congiungendosi, hanno creato molta confusione. L’Europa ascrive alcune colpe a Israele e le somma alle proprie colpe nei confronti del terzo mondo, del mondo musulmano e della colonizzazione. In sostanza, poggia su Israele una quantità di colpe che la sinistra israeliana ha, essendosi alleata a questo sistema culturale. In tale quadro si inserisce questa specie di rivoluzione per le strade di Tel Aviv, che somiglia a un tentativo di colpo di Stato contro Netanyahu che è stato eletto democraticamente e deve governare. Alla luce dei seggi in Parlamento, non c’è ombra di dubbio sul fatto che Netanyahu sia da considerarsi il legittimo leader dello Stato di Israele.

- Chi protesta e perché contro la riforma giudiziaria?
  Il fatto che le strade di Israele siano piene di gente che manifesta, con tutti i media che partecipano sfrenatamente contro la riforma, sono sicura che potrebbe indurre ad una riflessione il Governo. Alcuni aspetti potrebbero essere rallentati o cambiati nel corso delle prossime settimane, proprio perché non c’è traccia di autoritarismo in questo esecutivo. E chi per le piazze, di Tel Aviv ma anche di Roma, ha urlato contro il premier israeliano slogan come “democrazia” è smentito dai fatti. Vedo una malsana idea di voler ascrivere a Netanyahu una volontà golpista o antidemocratica.
  Ricordo, invece, che in Israele il potere giudiziario è sconfinato, soprattutto per il fatto che un giudice può cancellare le leggi che poi non possono essere ripristinate, se non con un sistema molto complesso. In nessun paese del mondo credo vi sia un sistema giudiziario in grado di cancellare delle decisioni assunte dal Parlamento. Vige un principio che è detto ‘della ragionevolezza’: ma chi lo stabilisce? Il giudiziario, che a sua volta è fatto di una piramide auto eletta, che non risponde a nessuno, se non a se stesso.

- Con quali conseguenze?
  Spesso dimentichiamo che Israele è un Paese sempre in guerra, in cui c’è una componente arabo-palestinese importantissima: per cui è corretto chiedere che la giustizia sia davvero indipendente. Ce lo insegna la storia d’Italia, con una intera classe dirigente eliminata nel 1992: il giudiziario può distruggere la politica, non implementarla, quando perde il check and balance indispensabile alla democrazia. Mi chiedo se qualcuno sia stato mai arrestato in Israele per aver manifestato la propria opinione o se a qualche cittadino sia stato impedito di scendere in piazza. E allora su quali basi si accusa il governo di autoritarismo? Israele è il paese più liberale che si possa immaginare, dove si insegna il pacifismo nelle scuole, mentre altrove si fa propaganda insegnando ad ammazzare gli ebrei.
  A mio figlio a scuola insegnano ad essere pacifisti: la società israeliana è una società iper liberale anche perché il suo premier è un laico ed un liberale. Per cui, accusare Netanyahu di voler fare un colpo di Stato va lontanissimo dalla discussione reale che invece va affrontata sulla riforma del giudiziario. Accade più o meno la stessa cosa in Italia, perché appena la destra si permette di vincere le elezioni, ciò scatena una sorta di inorridito furore da parte di un mondo che crede di essere nato col cucchiaino d’argento in bocca, accusando gli altri di essere tutti fascisti. Ribadisco che di fascisti non ce ne sono più da un pezzo e che la storia di Netanyahu è una storia di promozione della modernità.

- Netanyahu in questo momento è, tra i leader al potere, forse il più longevo dell’intera area euromediterranea e mediorientale. Un nuovo ponte tra Italia e Israele quale dividendo può generare?
  Lotta all’antisemitismo, lotta alla siccità, partnership sul gas: Israele sta investendo davvero sulla governance italiana e questo elemento si lega ai nuovi accordi stipulati tra Cina e Iran. Durante il vertice con Giorgia Meloni, donna solida nella lotta all’antisemitismo, Netanyahu ha ripetuto che una delle sue finalità essenziali è quella di costringere l’Iran a rifiutare i suoi progetti imperialisti, pericolosissimi prima di tutto per Israele ma anche per tutto il mondo. In questi giorni è stato pubblicato un articolo da un quotidiano inglese che spiegava come gli iraniani mandino le loro squadre terroriste in giro per il mondo, come dimostrano i droni di Teheran utilizzati da Putin contro l’Ucraina o come dimostrano i movimenti degli Hezbollah o i conflitti nello Yemen o in Iraq. Tale ruolo internazionale dell’Iran è di sicuro un oggetto di discussione in tutte le democrazie occidentali, al fine di contenere queste alleanze antidemocratiche e anti occidentali che si vanno disegnando sempre di più, fino a prospettare una guerra mondiale.

- Quale potrà essere il ruolo dell’Italia?
  Con Israele questa Italia potrà davvero disegnare il futuro del Mediterraneo: al di là delle parole di stima dette da Netanyahu a Giorgia Meloni, si sta costruendo un rapporto fra due leader occidentali che sono vicini nel voler preservare da un lato la democrazia e dall’altro la determinazione a farsi valere anche negli equilibri mondiali. Ciò produrrebbe un vantaggio anche in Ue.

- In che modo?
  L’Europa ha sempre avuto con Israele un rapporto tremendamente ambiguo: ha bisogno di Israele per tutti gli aspetti tecnologici e medici, come dimostra anche il rapido ed efficace soccorso in Turchia, e per tutti gli aspetti di sicurezza e difesa. Di contro, però, maltratta Israele avallando risoluzioni prive di una conoscenza reale, e lasciandosi andare alle menzogne che poi causano questa ondata di antisemitismo. Io penso che Netanyahu cerchi di mettere fine a tutto ciò, cercando un ponte verso l’Europa e il ruolo di Giorgia Meloni sarà decisivo sotto questo aspetto. È una donna molto intelligente e ha capito che l’Europa dovrebbe smettere con queste condanne, perché quando l’Ue seguita a dire che Israele sta facendo delle mosse per prevenire la fondazione di uno Stato palestinese, dimentica che i palestinesi sognano la distruzione dello Stato di Israele. Un’autentica pace, invece, potrebbe ottenersi investendo molto sugli accordi di Abramo.

(Formiche.net, 12 marzo 2023)

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Israele: Stati Uniti dietro le proteste contro la riforma giudiziaria?

di Mauro W. Giannini

Mentre nelle principali città di Israele una marea umana (forse mezzo milione di persone) si riversa per protestare contro la riforma della giustizia per la decima settimana, fonti vicine a Netanyahu hanno accusato gli Stati Uniti di finanziare la protesta.
  Un alto funzionario governativo che viaggiava nell'entourage del primo ministro Benjamin Netanyahu nel suo viaggio di fine settimana in Italia ha affermato venerdì senza offrire prove che "Questa protesta è finanziata e organizzata con milioni di dollari".
  “Stiamo seguendo quello che sta accadendo. Questa è un'organizzazione di altissimo livello. C'è un centro organizzato da cui tutti i manifestanti si diramano in modo ordinato", ha detto l'alto funzionario. “Chi finanzia i trasporti, le bandiere, le tappe? Per noi è chiaro", ha detto.
  Un altro esponente dell'entourage del premier ha confermato che l'alto funzionario si riferiva agli Stati Uniti e un'affermazione simile è stata fatta la scorsa settimana dall'esperto pro-Netanyahu Yakov Bardugo al telegiornale di Channel 14, un canale strettamente alleato del premier. Infine, sabato sera, il figlio di Netanyahu, Yair, ha condiviso un articolo dal sito web di destra Breitbart in cui afferma che il Dipartimento di Stato americano ha finanziato uno dei gruppi coinvolti nelle proteste.
  Nel frattempo l'ex capo della Federal Reserve Ben Bernanke ha detto che la riorganizzazione giudiziaria israeliana causerà "danni enormi". Già prima di lui importanti esponenti dell'economia israeliana avevano messo in guardia dall'attuare la controversa riforma perché avrebbe impattato molto negativamente sugli investimenti industriali.

(Osservatorio sulla Legalità, 12 marzo 2023)

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La guerra per procura dell'Europa contro Israele.

Ossessionata da Israele e ignorando i crimini di Hamas nella Striscia di Gaza, l'UE sta rendendo un enorme disservizio a due milioni di palestinesi che vivono lì. Le iniziative dell'Unione Europea sembrano sempre più incentrate sull'odio verso Israele piuttosto che sugli aiuti ai palestinesi.

di Bassam Tawil*

Il 30 gennaio, rappresentanti dell'Unione Europea e di diversi altri Paesi, tra cui Belgio, Brasile, Danimarca, Irlanda, Spagna e Svezia, hanno visitato la comunità palestinese di Khan al-Ahmar in Cisgiordania "per esprimere la loro preoccupazione per la minaccia di demolizione del villaggio".
  Khan al-Ahmar, che ospita 38 famiglie palestinesi, è stato costruito illegalmente più di un decennio fa come parte del piano dell'Autorità Palestinese (AP) di confiscare illegalmente terreni situati vicino alla Giordania, nell'area C della Cisgiordania, che è esclusivamente controllata da Israele ai sensi degli Accordi di Oslo firmati tra i palestinesi e il governo israeliano.
  Pochi giorni prima che i funzionari e i diplomatici dell'UE visitassero il villaggio, il gruppo terroristico palestinese Hamas, che governa la Striscia di Gaza, ha demolito decine e decine di case dall'altra parte di Israele, vicino l'Egitto, nella Striscia di Gaza, come parte di un piano finalizzato a espandere una strada costiera. Alcuni proprietari di abitazioni hanno espresso indignazione per le demolizioni effettuate a Gaza. Uno di loro ha definito quanto accaduto una nuova catastrofe e una condanna a morte per decine di famiglie. Un altro palestinese ha denunciato le demolizioni come un "crimine" e ha affermato che sono state "effettuate da Hamas sotto la minaccia delle armi".
  I funzionari dell'UE e altri diplomatici stranieri – venuti in Medio Oriente per esprimere solidarietà ai residenti del villaggio illegale in Cisgiordania – non si sono nemmeno preoccupati di commentare la demolizione delle abitazioni distrutte da Hamas. Avevano senz'altro saputo delle demolizioni dai palestinesi della Striscia di Gaza o dai media palestinesi, ma i funzionari stranieri hanno preferito ignorare la "nuova catastrofe" e il "crimine". Come mai? Perché il loro odio per Israele permette ad Hamas di passarla liscia per le atrocità che commette contro la propria popolazione, i palestinesi della Striscia di Gaza, per poi accusare gli israeliani di difendere ciò che è loro di diritto.
  La situazione delle famiglie che vivono nella Striscia di Gaza, così come le altre violazioni dei diritti umani commesse da Hamas, viene ignorata non solo dall'UE, ma anche dalla comunità internazionale. Purtroppo, per queste famiglie, i bulldozer che hanno distrutto le loro case appartengono ad Hamas, e non a Israele.
  Si può solo immaginare il clamore in seno alla comunità internazionale se fosse stato Israele a inviare i bulldozer per radere al suolo decine di abitazioni nella Striscia di Gaza. Se quelle case fossero state demolite da Israele e non da Hamas, gli stessi funzionari dell'UE che si sono recati a Khan al-Ahmar si sarebbero precipitati nella Striscia per incontrare le famiglie sconvolte.
  Ciò che per i palestinesi è ancora più doloroso e umiliante, è che i funzionari dell'Unione Europea che visitano regolarmente la Striscia di Gaza ignorano deliberatamente le sofferenze dei palestinesi che vivono sotto Hamas.
  Il 2 febbraio scorso, quindici capi missione dell'UE si sono recati nella Striscia senza dire una sola parola su nessuna delle vittime delle violazioni dei diritti umani e dei crimini perpetrati da Hamas.
  Dopo il tour, l'Unione Europea ha spiegato in una nota:

    "Gaza rimane una priorità per l'UE e i suoi Stati membri. La situazione umanitaria è motivo di grande preoccupazione. È giunto il momento di porre fine alla chiusura della Striscia e raggiungere la riconciliazione palestinese".

In particolare, l'UE non ha affermato che Hamas, i cui ricchi leader conducono una vita agiata in Qatar, in Turchia e in altri Paesi, è il principale responsabile della pessima "situazione umanitaria" nella Striscia.
  Invece di lavorare per rafforzare l'economia dopo aver conquistato con la violenza il potere nel 2007, Hamas ha investito i milioni di dollari che riceve nella costruzione di tunnel, nella produzione e nel trasporto di armi per attaccare Israele. Come se non bastasse, due anni fa Hamas ha imposto una serie di nuove tasse sulle merci importate, suscitando rare proteste da parte di molti palestinesi.
  Hamas stanzia il 55 per cento del suo bilancio per finanziare le sue esigenze militari, ma la quota del bilancio per il risanamento della Striscia di Gaza è inferiore al 5 per cento.
  Inoltre, Hamas, oltre al suo budget militare sproporzionalmente elevato, sottrae il denaro per gli aiuti erogato dall'Europa e dagli Stati Uniti per finanziare le sue iniziative militari.
  Mentre i funzionari dell'UE esprimevano il loro sostegno al villaggio illegale di Khan al-Ahmar, in Cisgiordania, i residenti della città di Bet Lahiya, anch'essa dall'altra parte di Israele, nella Striscia di Gaza, hanno protestato contro il furto delle loro terre da parte di Hamas. Secondo gli abitanti, Hamas sta consegnando illegalmente gran parte delle terre di proprietà degli abitanti, ai fedelissimi del gruppo, senza dire niente a nessuno. Un comunicato diffuso dai residenti afferma che essi sono determinati a contrastare la "cospirazione" di Hamas.
  Si tratta dello stesso Hamas che ha detto alla delegazione dell'UE di chiedere con insistenza a Israele di consentire agli arabi che occupano illegalmente Khan al-Ahmar di non evacuarlo. Israele, tra l'altro, aveva persino costruito una nuova città non lontano da Khan al-Ahmar, perché questi arabi vi si trasferissero e ciò avrebbe permesso loro di "mantenere la stessa struttura di vita", ma gli arabi avrebbero rifiutato. "L'aggressione a Khan al-Ahmar è stata respinta e [Israele] ne pagherà il prezzo, prima o poi", ha detto il portavoce di Hamas Mohammed Hamadeh.
  Quando Hamas minaccia che Israele "pagherà il prezzo", il gruppo sostenuto dall'Iran, in realtà, afferma che continuerà a uccidere gli ebrei perché osano far rispettare la legge contro coloro che la violano confiscando illegalmente terreni e costruendo abitazioni senza permessi, come avvenuto a Khan al-Ahmar.
  La dimostrazione di solidarietà dell'UE nei confronti degli abitanti di Khan al-Ahmar non solo incoraggia Hamas, ma incentiva anche i palestinesi a perseguire i loro tentativi illegali di impadronirsi di terre che, negli Accordi di Oslo, avevano concordato non appartenessero a loro, così come a continuare a lanciare attacchi terroristici contro Israele.
  Che diritto ha un funzionario europeo di dire a Israele che non è consentito far rispettare la legge contro gli occupanti abusivi? Qualche funzionario dell'UE tollererebbe, ad esempio, se un funzionario del governo israeliano dicesse alle autorità di Parigi o Madrid che non hanno il diritto di agire contro chi viola la legge nelle loro città?
  Gli europei incoraggiano ulteriormente i palestinesi a violare la legge costruendo illegalmente in violazione degli accordi di Oslo. Di recente, un documento riservato redatto dalla missione dell'UE a Gerusalemme Est ha rivelato che Bruxelles lavora attivamente con i palestinesi affinché questi ultimi occupino l'intera area C, costruendo decine di altri "fatti concreti" illegali. In tal modo, l'Unione Europea si è preclusa la possibilità di rivestire il ruolo di mediatore onesto in qualsiasi futuro processo di pace tra i palestinesi e Israele.
  Il comportamento dell'UE mette in luce la sua profonda ostilità nei confronti di Israele nella guerra per procura fra l'Europa e lo Stato ebraico, così come la sua palese predilezione in favore dei palestinesi.
  Ossessionata da Israele e ignorando i crimini di Hamas nella Striscia di Gaza, l'UE sta rendendo un enorme disservizio a due milioni di palestinesi che vivono lì. Le iniziative dell'Unione Europea sembrano sempre più incentrate sull'odio verso Israele piuttosto che sugli aiuti da fornire ai palestinesi.
  Se gli europei si preoccupassero davvero dei palestinesi, andrebbero su tutte le furie per i crimini commessi da Hamas contro i residenti della Striscia di Gaza. E condannerebbero le sue coorti nell'Autorità Palestinese per malgoverno, corruzione, appropriazione indebita di fondi pubblici e in particolare per la repressione palestinese degli attivisti dei diritti umani e dei giornalisti, i quali cercano di denunciare all'UE, alla comunità internazionale e ai cosiddetti gruppi per i diritti umani le condizioni brutali in cui i loro leader continuano a costringerli a vivere.
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* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 12 marzo 2023 - trad. di Angelita La Spada)

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Israele vuole vincere la resistenza antibiotici

di Luciano Bassani 

L'antibiotico-resistenza è la conseguenza di un'errata indicazione o eccesso di prescrizione di antibiotici e rappresenta una delle emergenze globali di questo secolo, essendo la causa di morte di più di 700.000 persone all'anno nel mondo. Alcuni ricercatori israeliani stanno affrontando il problema con nuovi prodotti, frutto di ricerche innovative e avanzate. Il sistema diagnostico Snda-Ast, sviluppato nel laboratorio di ingegneria biomedica del professor Shulamit Levenberg presso il Technion-Israel lnstitute of Technology di Haifa, consente una personalizzazione rapida e accurata degli antibiotici per ogni paziente. Due dispositivi point-of-care (PoC) miniaturizzati identificano rapidamente la sensibilità antimicrobica e valutano il rischio di sepsi. Ciò consente al medico di scegliere immediatamente l'antibiotico più efficace, piuttosto che iniziare il trattamento con antibiotici ad ampio spettro che causano la selezione dei batteri resistenti agli antibiotici e, contemporaneamente, uccidono i batteri «buoni». 
  MeMed di Tirat Carmel ha sviluppato una pionieristica piattaforma in grado di distinguere le infezioni batteriche da quelle virali. Questo aiuta i medici a evitare di prescrivere antibiotici prima di sapere se l'infezione è effettivamente batterica. Argaman Technologies di Gerusalemme ha recentemente iniziato a produrre CottonX, descritto come il primo tessuto al mondo interamente in cotone bio inibitivo, incorporato con ossido di rame accelerato, al quale i batteri non possono diventare resistenti. Si sfrutta la potenza del rame accelerato per proteggere da agenti patogeni virali, batterici e fungini. I composti antimicrobici hanno dimostrato di uccidere il 99,9% dei microbi in pochi secondi e vengono utilizzati per realizzare lenzuola e asciugamani per hotel, uniformi, mascherine usa e getta o riutilizzabili e altri prodotti medici, militari e di consumo. 
  Una rivoluzionaria tecnologia creata dal laboratorio dell'Università di Tel Aviv dal professor Udi Qimron, utilizza virus batteriofagi geneticamente modificati per infettare un'ampia gamma di batteri resistenti ai farmaci, rendendoli sensibili agli antibiotici. 
  Un gruppo di ricerca guidato dal dottor Ronen Hazan dell'istituto di Scienze odontoiatriche dell'Università ebraica e dal dottor Nurit Beyth dell’Università ebraica-Hadassah school of dental medicine, ha isolato un particolare batteriofago che si è rivelato efficace nel prevenire le infezioni a seguito di procedure odontoiatriche. Lo stesso batteriofago potrebbe agire anche contro le infezioni del tratto urinario, la meningite e l'endocardite derivanti dai batteri che normalmente risiedono nel tratto gastrointestinale e sono resistenti al comune antibiotico. Grazie agli studi di questi ricercatori forse potremo evitare di tornare agli orrori delle epoche precedenti alla scoperta degli antibiotici.

(La Verità, 12 marzo 2023)

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Democrazie e sviluppo economico in Israele

di Rony Hamaui

La situazione economico-finanziaria israeliana ha cominciato a risentire delle crescenti tensioni insorte, tra palestinesi e israeliani ma, soprattutto, fra israeliani, dopo le elezioni politiche dello scorso novembre e la successiva nomina di Benjamin Netanyahu alla guida di un governo ultraconservatore.
  I mercati finanziari, come al solito, sono stati i primi a reagire. La Borsa israeliana ha cominciato la sua caduta a metà di agosto e da allora, a differenza degli altri mercati azionari, non si è più ripresa. Così negli ultimi sei mesi i principali indici del Tel Aviv Stock Exchange (TESA) hanno perso oltre il 15% del loro valore. Poi è toccato ai tassi d’interesse sui titoli di Stato israeliani che nelle ultime settimane hanno registrato rialzi ben superiori alle aspettative inflazionistiche e alla volontà della banca centrale. Infine, negli ultimi giorni la tempesta ha toccato il mercato dei cambi. Qui lo Shekel israeliano è passato da 0,30 sul dollaro a 0,27, ma soprattutto la sua volatilità è tornata a livelli che non si osservavano dalla crisi pandemica. È probabile che nelle prossime settimane la Bank of Israel debba intervenire se la fuga all’estero dei capitali dovesse proseguire.
  Eppure, l’economia israeliana negli scorsi anni aveva stupito tutti gli osservatori per la sua straordinaria crescita, accompagnata da un livello d’inflazione molto più basso di quello osservato nei principali paesi avanzati. Nel 2022 il Pil israeliano è cresciuto del 6,5%, dopo essere salito del 8,6% l’anno precedente. Così in pochi anni il Pil pro-capite israeliano ha superato quello italiano, nonostante una crescita della popolazione superiore al 2,2% annuo. I prezzi al consumo hanno poi mostrato lo scorso anno un tasso di crescita del 5,3%, poco meno della metà di quello europeo.
  Date queste premesse, perché tante preoccupazioni per l’economia israeliana? I motivi sono sostanzialmente due: il primo ha a che fare con la qualità delle sue istituzioni; il secondo con la crescente polarizzazione della sua società. La scienza economica ha ampiamente dimostrato che la qualità delle istituzioni gioca un ruolo sostanziale nel determinare le prospettive di sviluppo di una nazione. I paesi che hanno efficaci sistemi di check and balance, che tutelano la società dagli abusi del potere politico, che proteggono la proprietà privata ed i diritti delle minoranze, sono molto importanti nel favorire la crescita economica. Ora le riforme proposte dal governo Netanyahu in termini di riduzione di autonomia e poteri dell’Alta Corte israeliana sembrano andare esattamente nella direzione opposta. Questo è particolarmente grave per una giovane democrazia come quella israeliana, priva di una Costituzione e dove già oggi molti diritti sono affidati ai tribunali rabbinici.
  Altrettanto importante è il grado di polarizzazione di una nazione. Nei paesi poco omogenei il grado di fiducia reciproco diminuisce e così gli investimenti sia privati che soprattutto pubblici. Il bene comune non è più visto come una priorità e le persone si comportano in maniera più egoistica [1]. Ora Israele non è mai stato un paese particolarmente omogeneo, diviso come è tra sefarditi ed askenaziti, laici e religiosi oltre che palestinesi ed ebrei. Tuttavia, un passato drammatico di molti suoi abitanti e un presente circondato da continue minacce esterne è servito da collante per costruire una nazione forte ed indipendente. Oggi, tuttavia, lo scontro tra una sinistra più ricca, istruita, laica e progressista, che tiene le redini dell’economia e della difesa, divenuta sempre più tecnologica, e una destra religiosa più povera e rissosa, rischia di distruggere il miracolo di uno Stato che in pochi decenni ha saputo crescere, farsi rispettare e apprezzare.
  Alla base di questa polarizzazione vi è anche una distribuzione del reddito particolarmente iniqua. Israele, nato da una spinta socialista ed egualitaria, si è trasformato nel tempo in uno dei paesi dove le disuguaglianze sono tra le maggiori al mondo e molto vicini ai livelli raggiunti dagli Stati Uniti, dal Cile e dalla Turchia [2]. Molte sono le cause di questa situazione, fra cui la forte globalizzazione, l’innovazione tecnologica ma soprattutto anni di governi di destra, che hanno ridotto il ruolo dello Stato nella ridistribuzione del reddito.
  Ora tuttavia la situazione appare davvero complessa e sarebbe un peccato se per motivi biecamente personali, un leader come Netanyahu, non ascoltasse le parole di mediazione del presidente Isaac Herzog, e distruggesse il sogno di un popolo millenario.
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[1] Dominic Rohner and Ekaterina Zhuravskaya (Editor) “Nation Building Big Lessons from Successes and Failures” CPER Press 2023
[2] Ofer Cornfeld And Oren Danieli, “The Origins of Income Inequality In Israel— Trends And Policy” Israel Economic Review Vol. 12, No. 2 (2015), 51–95

(Bet Magazine Mosaico, 12 marzo 2023)

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A Tel Aviv oltre 100mila manifestanti contro i piani del governo

Sono oltre 100.000 i manifestanti scesi nelle strade di Israele per protestare contro il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu e le modifiche legislative previste, tra cui una controversa revisione del sistema giudiziario. Lo riferiscono funzionari della polizia citati dai media israeliani, secondo cui circa 100.000 persone si sono radunate in via Kaplan e altre 10.000 in piazza Habima a Tel Aviv durante la protesta antigovernativa.
  E’ la terza settimana consecutiva che gli israeliani scendono in piazza per protestare in particolare contro le proposte del ministro della Giustizia Yariv Levin relative a cambiamenti per la magistratura, che limiterebbero i poteri di controllo giudiziario dell’Alta corte di giustizia e rafforzerebbero il controllo politico sulla nomina dei giudici, spiega «The Times of Israel». Moshe Ya’alon, ex ministro della Difesa e leader della mobilitazione, rivolgendosi ai manifestanti a Tel Aviv ha definito il governo di Netanyahu una «dittatura di criminali». «Uno Stato in cui il primo ministro nominera’ tutti i giudici ha un nome: dittatura», ha dichiarato Ya’alon, aggiungendo: «Se c’e’ un Paese al mondo che non puo’ permettersi che la Corte venga distrutta e che la democrazia si trasformi in dittatura, quello e’ Israele».

(Corriere TV, 12 marzo 2023)

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Sefarditi e ashkenaziti secondo Rav David Prato

di Gianfranco Di Segni

Rav Prato a Tel Aviv nei primi anni Quaranta
Quando Rav David Prato, Rabbino Capo di Roma, fu costretto nel dicembre del 1938 a lasciare la Capitale per contrasti con il Consiglio della Comunità e con il regime fascista, decise di fare la aliyà in Eretz Israel. Prato si integrò bene nella nuova patria e andò a vivere a Tel Aviv. Si stabilì in un appartamento di un elegante palazzo di Rivka Grünwald a Rechov Shadal 4 (strada forse non scelta a caso: Shadal è Shemuel David Luzzatto, il grande maestro dell’Italia ebraica dell’Ottocento!). 
  Il Rabbino Capo di Tel Aviv, Rav Moshe Avigdor Amiel, affidò a Rav Prato la direzione dell’Ufficio rabbinico. Amiel, allievo di due grandi esponenti delle yeshivot lituane, Rav Chaim Soloveichik e Rav Chaim ‘Ozer Grodzinski, era stato rabbino di Anversa dal 1920. In un discorso pronunciato nel gennaio 1936 ad Alessandria d’Egitto, alla presenza di Rav Prato che a quell’epoca era Rabbino Capo in quella città, Rav Amiel, in viaggio per Tel Aviv per assumerne l’incarico di Rabbino Capo, affermò che «Tel Aviv doveva rappresentare la sintesi tra la comunità ebraica di Anversa, centro diasporico del mondo ashkenazita, e quella di Alessandria d’Egitto, fulcro cosmopolita sefardita: non si sarebbe più parlato di ashkenaziti e di sefarditi, ma unicamente di ebrei. Era giunto il momento di lasciarsi alle spalle il retaggio diasporico, incluso l’uso dello yiddish e del ladino, per usare la lingua nazionale compresa da tutti, l’ebraico», come è riportato da Angelo M. Piattelli in David Prato, una vita per l’ebraismo (Rassegna Mensile di Israel 79, 1-3, 2013, p. 182).
  Queste parole fecero probabilmente effetto su Rav Prato che tornerà sull’argomento più volte nelle sue Memorie recentemente pubblicate (Memorie di un rabbino italiano, a cura di Angelo M. Piattelli e Mario Toscano, Viella 2022). Prato era ben consapevole che fra sefarditi e ashkenaziti ci fossero profonde differenze. Anzi, forse ne esagerava la portata, come quando scriveva, nel 1939: «Vado piano piano convincendomi che evidentemente fra i sefardim – i veri però non noi italiani che siamo sefardim di nome – e gli askenazim c’è un abisso. Lingua, mentalità, cultura, tendenze, abitudini, rito, melodie, han fatto di queste due branches dell’ebraismo due elementi del tutto distinti e non facilmente assimilabili» (Memorie, p. 438). Tel Aviv rimane comunque la città dove forse l’unità fra sefarditi e ashkenaziti è più facilmente realizzabile: «Si ha un bel parlare di unificazione, di livellamento, forse, ma molto forse in Erez Israel. Ma temo che nemmeno lì ci si arrivi. Non c’è che a Tel Aviv dove il contrasto si sente meno che altrove, ma si sente».
  Notevole è questo passaggio, anch’esso del 1939, in cui Rav Prato caratterizza le due grandi correnti dell’ebraismo dell’epoca (oggi le cose sono radicalmente cambiate nello Stato d’Israele e nel mondo intero):

    «La mentalità sefardita è più geniale, più sintetica: il contributo dei sefarditi alla letteratura, alla poesia, alla filosofia, alla scienza è stato potente, colossale. La mentalità askenazita è meno geniale e forse più analitica. Oggi il mondo ebraico è dominato politicamente, scientificamente, religiosamente, socialmente e letterariamente dagli askenaziti dovunque ma specie in Erez. I sefardim non danno assolutamente niente, da nessun punto di vista, non si sentono se non per le loro querele e i loro lamenti di essere trascurati, di essere i paria del movimento, si tentano congressi, reunioni, federazioni, ma non si riesce a nulla. Sono assimilati o assimilatori mi disse un rabbino askenazita. C’è del falso in quest’affermazione. Non è vero. Invano si cercherebbero degli atei, dei comunisti e dei bolscevichi nel sefardismo. I sefarditi sono credenti, superstiziosi se si vuole, e anche in un certo senso praticanti. Sono incapaci a tener duro, come gli askenaziti, questo sì. Abituati a vivere non a latere delle nazioni in mezzo alle quali han vissuto ma a partecipare alla loro vita (come in Turchia, in Francia, in Italia e a suo tempo in Spagna ecc.) han dovuto cedere in qualche lato del legalismo ortodosso tradizionale, si sono meno formalizzati, si sono più acclimatati, ma non hanno mai ceduto nella sostanza, tanto è vero che fatte le debite proporzioni fra i sefarditi il numero delle conversioni è trascurabile» (Memorie, pp. 438-439).

In quest’altro passaggio, del 3 marzo 1940, così descrive la differenza fra sefarditi e ashkenaziti:

    «I sefarditi hanno aperto la finestra sull’orizzonte e han respirato liberamente l’aria che dal di fuori penetrava nell’interno delle loro scuole, gli askenaziti han tenuto sempre le loro finestre ermeticamente chiuse e quando qualcuno è sfuggito dal carcere si è subito avvelenato. L’assimilazione è un conto, la rinuncia è un altro. Saadia Aggaon, Arambam, Gabirol, Abrabanel, Arif, Arosh, Joseph Caro ecc. ecc. specie i primi quattro han potuto rappresentare tappe notevoli nella storia dell’ebraismo mondiale pur avendo assimilato, anzi perché avevano assimilato, la cultura del mondo circostante. Quali sono le tappe rappresentate da personalità del mondo askenazita? Nessuna. Rascì non era askenazita. La Spagna, la Francia, l’Italia, l’Africa settentrionale e Erez Israel, il Mediterraneo insomma poteva dare uomini di quella tempra, i quali si sono sforzati fra l’altro di far conoscere l’ebraismo alle genti senza correre il pericolo che ha corso per esempio l’ebraismo con Filone che pure era mediterraneo. Ma gli askenaziti appena si sono affacciati al mondo circostante con la Haskalà [illuminismo ebraico] si sono subito smarriti nel mare della riforma o in quello dell’assimilazione conversione. O chiusi in casa o morti, mentre i sefarditi potevano continuare a vivere insieme con gli altri senza rinunziare a sé stessi. Uomini di grande valore han dato gli askenaziti, ma per il loro mondo chiuso, non hanno mai aperto le ali e anche quando han creato un nuovo movimento cabbalistico col hasidismo non hanno oltrepassato i limiti del loro piccolo mondo. Sono loro e loro soltanto, si chiudono in sé stessi senza tener conto del mondo circostante, delle sue esigenze e della sua importanza, anzi talvolta disprezzandolo. Ragion per cui, una volta preso in mano il comando in Erez non hanno voluto sentir parlare d’intesa con gli arabi e nemmeno con i sefarditi di qui. Si son di nuovo chiusi in loro stessi con quel resultato al quale assistiamo. Il sefardismo che ha dato uomini politici come Abrabanel, come Joseph di Nasso, come Disraeli, come i Rotschild [sic], come Sir Moses Montefiore, come Luzzatti ecc. avrebbe ben potuto dare guide capaci di pervenire a resultati ben diversi servendosi della sua innata malleabilità, diplomazia e rifuggendo da quella albagia che è tutta propria degli askenaziti parvenus» (Memorie, pp. 468-469).

Come vediamo, l’argomento stava molto a cuore a Rav Prato. Non era una disquisizione teorica per lui, visto che gli era stata offerta la possibilità di diventare Rabbino Capo sefardita di Tel Aviv. Alla fine la cosa non andò in porto e si dovette accontentare di rimanere direttore dell’Ufficio rabbinico di Tel Aviv, dapprima sotto Rav Amiel e poi sotto il nuovo Rabbino Capo sefardita Rav Yaaqov Moshè Toledano, colui che fu vice-rabbino di Rav Prato ad Alessandria d’Egitto.
  La Comunità ebraica di Roma, tuttavia, non poté che essere ben lieta del fatto che Rav Prato non fu nominato Rabbino Capo di Tel Aviv. Se lo fosse diventato, certamente non sarebbe stato disponibile ad assumere per la seconda volta l’incarico di Rabbino Capo di Roma. E così, nel settembre del ’45, Rav Prato tornò in Italia, pronto a risollevare la Comunità romana dagli sconquassi provocati dalle persecuzioni, le deportazioni, le morti e dai tradimenti, dei singoli come delle istituzioni ai massimi livelli. Se Roma ebraica è rinata, è stato grazie a Rav Prato e ai suoi successori. 
  Alfonso Pacifici, il grande pensatore ebreo del Novecento cresciuto alla cerchia del Rabbino ashkenazita di Firenze Shemuel Margulies, era un sincero amico e ammiratore di Rav Prato. Così lo descriveva in un messaggio a sostegno della sua candidatura rabbinica a Tel Aviv: «Una delle figure più interessanti e, aggiungerò senz’ombra di adulazione, una delle figure più simpatiche e attraenti della contemporanea vita d’Israele» (Ha-Rav David Prato, Tel Aviv 1940, p. 85). In una commemorazione a cinque anni dalla morte, avvenuta il 7 marzo 1951, Pacifici scriveva: «[Prato] avendo compendiato in sé, come per provvidenziali avvicendamenti, il meglio dell’insegnamento di Firenze col meglio della spontanea vigorosa vitalità della sua vecchia Livorno, dominatrice del Mediterraneo ebraico, […] rinvigorito e integrato ancora dal contatto diretto con Erez Israel, e in essa perfino con l’esperienza vivificatrice della Jeshivà, poté portare all’ultima, ahimè troppo breve, fase della sua esperienza rabbinica a Roma, una forza, una vitalità, uno stile dei quali da tempo non si conosceva in Italia l’esempio» (cit. in A.M. Piattelli, David Prato, una vita, p. 110, tratto da A. Pacifici, Considerazioni sulle comunità separate, l’unità d’Israele e le comunità ebraiche d’Italia, in Scritti in memoria di Sally Mayer (1875-1955). Saggi sull’Ebraismo Italiano, a cura di Umberto Nahon, Gerusalemme-Milano 1956, p. 301). 

(Shalom, 12 marzo 2023)

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Macché emergenza e guerra al virus. I diktat servivano solo a controllarci

La metafora bellica fu scomodata per giustificare imposizioni e divieti, vietando il dissenso. Il fine dichiarato era evitare il collasso degli ospedali, però le cure domiciliari furono osteggiate e i posti letto sono rimasti pochi.

di Boni Castellane

Lasciamo stare per un attimo gli entusiasti, quelli dei balconi, quelli con la mascherina in macchina da soli, quelli che disinfettavano la spesa e gli scrittori regionali che dicevano che con il lockdown si stava benissimo perché le città erano vuote. Lasciamo stare tutti coloro che, per debolezza o per naturale tendenza all'ipocondria, dibattevano sul tipo di filtro più efficace e gli opinionisti che facevano il bagno con la mascherina per educare il popolo. A questo punto occorre dividere l'umanità in due gruppi contrapposti, con in mezzo l'immenso gregge di cui parlarono sia Sigmund Freud che Gustave Le Bon, la massa informe che cessa di pensare con razionalità e segue altre dinamiche, altri impulsi, altri desideri. Parliamo dei due gruppi contrapposti: da una parte la politica, la scienza, il Cts, l'lss, gli apparati politico-burocratici che hanno gestito la pandemia; dall'altra parte noi, coloro che, senza potere e senza avere la pretesa di avere la verità in tasca, hanno nutrito dubbi, hanno opposto obiezioni, hanno fatto presente errori. 
  La ragione dei primi si basava essenzialmente sul concetto di «emergenza»: di fronte a una situazione eccezionale si sospendono le leggi, le norme, le consuetudini per far fronte al pericolo, inter arma silent leges. E quella che da più parti è stata definita «metafora bellica»: siamo in guerra quindi chi comanda prende le decisioni e gli altri le eseguono, come al fronte. Sulla base della metafora bellica si è sentito dire sia «non si invochi la libertà», sia «chi non si vaccina muore», sia «i non vaccinati sono fuori dalla società». Coloro che hanno pronunciato queste enormità non credevano davvero a quello che dicevano, ci hanno creduto gli entusiasti, il gregge, ma loro no, loro abolivano lo Stato di diritto ma sempre in ossequio alla metafora bellica. L'altro gruppo, quelli che si opponevano - noi - non contestava il principio emergenziale in sé ma contestava alcuni precisi aspetti, determinati provvedimenti in quanto forse errati, forse controproducenti, probabilmente approssimativi, sicuramente rischiosi e senza alcun dubbio in netta contraddizione con tutto ciò che la medicina aveva insegnato da sempre sino al 2020. Vaccinare un guarito non è stato qualcosa di «illegittimo», è stato qualcosa di contrastante con i principi medici, quindi, a voler essere chiari, chi contestava le misure non erano i «no vax» ma erano quelli che alla medicina credevano sul serio . 
  Per comprendere l'origine del principio della metafora bellica occorre considerare un dato sopra a tutti: il collasso del sistema sanitario. Se non stai in casa le terapie intensive non bastano, se non chiudiamo le attività i posti in ospedale non bastano, se i bambini non si mettono le mascherine a scuola gli ospedali non saranno sufficienti, fatevi tutti tre, quattro, cinque dosi perché così almeno non finirete in terapia intensiva. Ma se la motivazione della metafora bellica era essenzialmente quantitativa, come mai gli ospedali da campo che si sono, giustamente, allestiti sono rimasti quasi vuoti? Come mai le decine di miliardi spesi per la «gestione pandemica» non si sono concentrati sull'aumento dei posti negli ospedali? Come mai le pratiche d'eccellenza della gestione dei malati a domicilio sperimentate in alcune città - a Piacenza ad esempio - non sono state favorite, visti soprattutto i risultati ottenuti? La sistematica censura di ogni tentativo di gestione decentralizzata della pandemia è stato il segno inequivocabile dell'interesse della politica di fare del Covid una questione essenzialmente di controllo, non a caso l'orrore giuridico e culturale del green pass fu salutato simbolicamente come il premio che il gregge non vedeva l'ora di sfoggiare: quanto gli è piaciuta la carezza sulla testa dello Stato-padrone. 
  Adesso però emerge che i presupposti della metafora bellica non sussistevano, che tutto era deciso prima, indipendentemente dai dati, che i provvedimenti che venivano presentati come necessari erano tentativi sulla pelle della gente. Quando Roberto Burioni dice che «quando si pubblica un lavoro scientifico nessuno verifica i dati, si va sulla fiducia», dice candidamente la verità, una verità che ha come conseguenza la presentazione del dubbio come certezza e la trasformazione della certezza in obbligo: «sono i vaccini più testati della storia», infatti li testavano mentre li facevano. Ed ora che la metafora bellica si mostra infondata, chi se ne è consapevolmente servito non ha niente di cui rispondere?

(La Verità, 12 marzo 2023)

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Mental danger!

Nella mia triennale esperienza di "no vax", il giudizio su quello che stavo vivendo insieme ai miei simili si è gradualmente sviluppato e alla fine assestato in modo abbastanza stabile. Non ho pensato subito all'intenzione fraudolenta di chi ci governa, ma piuttosto a incompetenza e superficialità. Poi sono stato sorpreso dalla sclerosi mentale che sembrava aver colpito certi intellettuali quando prendevano posizione sul tema nonostante si accrescessero i dubbi manifestati da più parti sulle scelte sempre più irrazionali e cervellotiche del governo. A un certo momento mi è venuto il dubbio che, al di là delle motivazioni scientifiche e politiche, una nube di generale rimbecillimento stesse diffondendosi nell'aria e colpisse ogni mente nel momento stesso in cui cominciava trattare il tema. E pensando al rischio che io stesso potevo correre, ho aggiunto un commento a un articolo di ottobre 2021 che presentava un saggio di due professori della Bocconi dal titolo "Fallimento Lockdown. Come una politica senza idee ci ha privati della libertà senza proteggerci dal virus". Riporto qui il commento. M.C.

Mi sia concessa, dopo la lettura dell'articolo che precede, una divagazione di carattere personale. Ho vissuto il tempo degli "arresti domiciliari" pandemici in modo tutto sommato confortevole. Ho potuto fare con mia moglie piccole passeggiate quasi giornaliere lungo una piccola via di campagna senza sbocco, poco lontana da casa nostra, chiusa alla fine da una graziosa fattoria. Soltanto una volta, nelle prime settimane, ci è venuto incontro un energumeno gridando a tutta voce: "State a casa! ma state a casa! la gente muore! E voi siete pure senza mascherina!". Incurante del fatto che non era un poliziotto, che anche lui in quel momento era fuori casa, che anche lui era come noi senza mascherina (cosa che cortesemente gli ho fatto notare), ci ha inseguiti vociando per qualche metro poi ci ha lasciati andare. Ma al ritorno l'abbiamo di nuovo incontrato; ci ha gridato dietro ancora qualcosa, ma in tono meno esaltato.
  Ed è lì che ho cominciato a riflettere e mi son detto: "Ma questa pandemia sta mandando le persone fuori di testa!" Il guaio grosso però è venuto quando ho cominciato a sospettare che ad andare fuori testa fossero per prime le nostre autorità. A un certo punto, quando si è cominciato a parlare di quanti metri si potevano fare fuori di casa; e quanti chilometri si potevano fare con la macchina; e se il comune di arrivo era più o meno grande di quello di partenza; e se per andare nella seconda casa si potevano portare amici o solo parenti; e se si potevano portare fuori i bambini e in quale ore e quanti; e a quale distanza da casa si potevano portare a passeggio i cani; e altri simili premurosi precetti sanitari di governo, mi sono detto costernato: "Ma qui stiamo rimbecillendo tutti!" E allora, più che cercare di non essere contagiato dal virus ho cominciato a cercare di non essere contagiato dal rimbecillimento. E ho messo alcuni fermi paletti mentali. Va bene - mi son detto - indossare la mascherina in luogo pubblico chiuso; va bene calcolare la distanza massima a cui il prossimo ti può avvicinare; va bene essere esortati ad aprire ogni tanto le finestre in casa, ma quanto al resto, evita di pensare troppo intensamente ai motivi che ti presentano per convincerti perché c'è il rischio che arrivi a pensare che siano ragionevoli. E questo sarebbe il primo segnale che stai uscendo fuori di testa.
  Mi sembra di essere riuscito a scansare il pericolo. Ma resta lo sconforto di dover prendere atto che tutto questo era non solo inutile, ma addirittura nocivo. E in più adesso c'è il campanello del mental danger che si è rimesso a vibrare con la venuta del green pass. Qui lo sforzo interpretativo richiesto dalle norme governative per capire non tanto la portata pratica della loro applicazione quanto la ragionevolezza della loro motivazione, può essere fatale per qualche mente non bene attrezzata. Forse qualcuno si ribella proprio a questo: che prima ancora di costringerti ad agire in un certo modo, vogliono costringerti a pensare in un certo modo. E se ci riescono, la cosa si fa seria. M.C

(Notizie su Israele, 4 ottobre 2021)
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Per leggere l'articolo sui due professori della Bocconi e ritrovare successivo commento su può cliccare QUI. Si tenga presente che nel periodo che segue la data di quell'articolo, dall'autunno 2021 alla primavera 2022 e oltre, sono avvenute le più feroci e irragionevoli chiusure del governo Draghi, con una serie di fuochi artificiali repressivi conclusasi con lo scoppio finale dell'obbligo vaccinale per gli over 50. La tesi di Boni Castellane, dell'esplicita volontà di controllarci, ridona razionalità all'agire del governo, ma una razionalità infame. M.C.

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Il buon combattimento della fede

APPUNTI PER LA PREDICAZIONE
    Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale facesti quella bella confessione in presenza di molti testimoni (1 Timoteo 6:12).
    Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede (2 Timoteo 4:7).
Il paragone adatto ad esprimere la vita cristiana è di tipo militare, non di tipo commerciale o manageriale.
Un’arma fondamentale è lo scudo della fede “con il quale potete spegnere tutti i dardi infocati del maligno”.
    Il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti (Efesini 6:12).
Questo non è un modo colorito di parlare.
    Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo (Efesini 1:3).
I luoghi celesti sono il secondo cielo. Lì abbiamo la vittoria, ma per farne l'esperienza dobbiamo combattere il buon combattimento.
Il combattimento della chiesa contro le forze spirituali della malvagità avviene nei luoghi celesti dove partecipiamo alla vittoria finale, ma si combatte sulla terra. 
Qui possiamo perdere delle battaglie, se non combattiamo secondo le regole.
Le battaglie sono molte, ma la guerra è una. Il valore delle singole battaglie si misura nell’ambito delle sorti della guerra.
    Soltanto, quello che avete, tenetelo fermamente finché io venga (Apocalisse 2:25)
Il valore di una battaglia non si misura dal numero dei nemici fatti prigionieri (ottica manageriale di successo).
Nonostante quello che si pensa, il primo interesse di Satana non è di mandare quante più persone all’inferno, anche perché ci vanno da sole senza farsi molto spingere. Satana è interessato alla politica, perché vuole regnare ed essere adorato in questo mondo.
Si tratta di una guerra mondiale, anzi cosmica. Riguarda popoli e nazioni e percorre tutti i secoli. Ecco perché è importante avere attenzione alla storia e alla politica (che è storia attuale).
Dio e l’Avversario agiscono sul mondo, e buona parte dei colpi che Satana assesta ai figli di Dio, lo fa usando il mondo, cioè la società in cui viviamo.
Quattro modi, anzi cinque, con cui Satana cerca di annullare il messaggio di Gesù:
  1. Impedire con la violenza e la minaccia che il messaggio parta
  2. Deformare e strumentalizzare il messaggio
  3. Mettere un altro messaggio in concorrenza
  4. Far arrivare, insieme al messaggio, una spropositata quantità di altri messaggi simili oppure opposti
  5. Distruggere psichicamente i ricevitori del messaggio, disintegrando la loro personalità
Tecnica di strategia satanica per colpire i figli di Dio attraverso il mondo:
REGOLA AUREA: Fa' come fanno tutti e non chiederti perché.
Da applicare nei tre campi fondamentali del vivere umano: Estetica, Etica, Dogmatica
Estetica - Bello-brutto. Musica, pittura, moda.
Etica - Buono-cattivo. Moda, successo, immagine.
Dogmatica- Vero-falso. Vita-morte, creazione-evoluzione, scienza-fede

Il Diavolo sta preparando il mondo ad accogliere l’Anticristo. E i figli di Dio che combattono il buon combattimento lo intralciano. Quindi cerca il modo di renderli inoffensivi. M.C.

PREDICAZIONE

Marcello Cicchese - maggio 2017


(Notizie su Israele, 12 marzo 2023)


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Biden smonta la nostra economia, e l’Europa sta a guardare

Pur di mantenere l’egemonia, gli Stati Uniti non si fanno scrupoli a danneggiare l’industria Ue con la concorrenza sleale (travestita da rivoluzione “green”). Tanto Bruxelles non ha la forza per reagire.

di Rodolfo Casadei

Ma che razza di alleato è quello stato (gli Stati Uniti) che non si fa problema a gettare le basi della deindustrializzazione dei paesi amici (paesi Ue e non Ue della Nato) inaugurando, col pretesto della riconversione delle produzioni alle tecnologie “verdi”, una politica di aiuti di Stato del valore di 369 miliardi di dollari che può permettersi perché la sua moneta, il dollaro appunto, è la valuta egemone degli scambi internazionali? Che razza di alleato è un paese (sempre gli Stati Uniti) che ritira le sue truppe dall’Afghanistan senza averlo discusso e concordato coi suoi alleati, che pure hanno mandato migliaia dei loro soldati a combattere e a morire in quel paese? Che razza di alleato è quel paese (ancora e sempre gli Stati Uniti) che per contrastare la Cina nel Pacifico conclude un’alleanza militare ad hoc con Australia e Regno Unito ma taglia fuori la Francia, l’unico paese dell’Unione Europea che possiede territori nell’area indo-pacifica?

• In Europa si salverà chi può
  E che razza di Commissione europea è quella Commissione europea che, anziché fare gli interessi dell’Unione Europea e denunciare gli Stati Uniti davanti all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto, che fine ha fatto?) per concorrenza sleale, decide di dare il permesso ai singoli stati membri di praticare la politica degli aiuti di Stato, favorendo di fatto gli stati più ricchi e meno indebitati (primo fra tutti la Germania, quindi la Francia e i nordici) e sfavorendo i paesi indebitati (primissima fra tutti l’Italia)? Sì, per ammorbidire le critiche dell’Italia e di altri paesi la Commissione si è inventata la foglia di fico secondo cui gli aiuti di Stato sono ammessi solo per le industrie che si insediano in regioni svantaggiate oppure quando la richiesta proviene da un consorzio di tre paesi, almeno due dei quali fanno parte delle aree meno sviluppate dell’Unione. Ma è evidente che la Germania e gli altri paesi che se lo possono permettere sono già organizzati per sfruttare al massimo i commi del nuovo regolamento, che amplia le scappatoie previste dal Temporary Crisis Framework, il meccanismo concepito per rispondere alla situazione creata dal Covid.
  Non dimentichiamoci che all’indomani dell’approvazione dell’Ira, la legge voluta dal presidente Biden che concede sussidi “green” record alle imprese insediate in America che comprano americano, la Commissione di Ursula von der Leyen dichiarò che il provvedimento americano rappresentava un forte contributo alla lotta contro i cambiamenti climatici. E che verso la fine del gennaio scorso, quando già erano di pubblico dominio le notizie di grandi imprese europee intenzionate a delocalizzare le loro produzioni negli Stati Uniti, la stessa Von der Leyen (che ieri 10 marzo ha incontrato Joe Biden) dichiarava spensieratamente che «l’Unione Europea e gli Stati Uniti da soli stanno mettendo sul piatto quasi un trilione di euro per accelerare l’economia basata sull’energia pulita».

• Il monopolio della sicurezza e i suoi vantaggi
  Invece un americano molto onesto come Jeremy Shapiro, analista dell’intelligence degli Stati Uniti e direttore della ricerca presso lo European Council on Foreign Relations, già consigliere speciale del segretario di Stato aggiunto per l’Europa e l’Eurasia presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, scrive sul Financial Times:
  «In passato, gli Stati Uniti non avrebbero mai preso in considerazione iniziative come l’Ira senza consultazione, sapendo che garantirsi il partenariato europeo sulle iniziative geoeconomiche era necessario e non banale. Gli europei avrebbero partecipato alle prime fasi della formulazione di queste politiche, probabilmente dando vita a molti logoranti negoziati e a compromessi. Al momento, tuttavia, il coordinamento ex post funziona perché la profonda e crescente dipendenza della sicurezza dell’Unione Europea dagli Stati Uniti significa che i governi europei non hanno altra scelta che rimettersi a Washington sulle questioni di sicurezza».

• L’interesse dell’impero
  Che razza di disgrazia per l’Europa sia la guerra in Ucraina non solo dal punto di vista della perdita di vite umane uniche e irripetibili, ma da quello storico, politico ed economico, lo si dovrebbe capire in questi momenti. Un’Europa che respirasse con i due polmoni, occidentale e orientale, un’Europa che andasse non semplicemente dall’Atlantico agli Urali, ma dall’Atlantico a Vladivostok, non avrebbe bisogno di alleati che ti usano quando gli servi e poi ti mollano, e che stanno bene attenti a impedire che tu diventi un attore strategico autonomo.
  Purtroppo i fautori russi dell’eurasiatismo come Dugin e Putin lo concepiscono come una sottomissione dell’Europa continentale alla Russia, gli angloamericani lo vedono come il fumo negli occhi perché comprometterebbe il loro ruolo egemonico mondiale e i leader europei come la Von der Leyen ragionano e agiscono come marionette atlantiste e portatori di miopi interessi bottegai. Nessuno, tranne la Chiesa cattolica, crede e spera in un’Europa alleanza di nazioni che hanno imparato le lezioni del passato e allo stesso tempo vogliono conservare e coltivare le loro tradizioni per svilupparle; nessuno tranne la Chiesa cattolica ha la lucidità di riconoscere il significato storico-politico della tragedia che si compie sotto i nostri occhi in Ucraina: «Lì ci sono interessi imperiali, non solo dell’impero russo, ma degli imperi di altre parti. Proprio dell’impero è mettere al secondo posto le nazioni», ha detto papa Francesco il 10 marzo.

(Tempi, 11 marzo 2023)
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Certamente non è soltanto la Chiesa cattolica ad avere "la lucidità di riconoscere il significato storico-politico" di quello che sta succedendo in Ucraina, ma è un fatto che proprio tra i cattolici, molto più che tra ebrei ed evangelici, si possono trovare persone che avvertono gli interessi imperiali degli USA nella sconcia propaganda bellicista atlantica contro il "feroce orsobruno russo". Forse dipende dal fatto che la Chiesa cattolica è sempre molto attenta alle questioni di potere e ha avvertito che di questo si tratta quando i media collusi col potere parlano di santi principi come libertà e democrazia. E un furbone come papa Bergoglio può ben arrivare a capire che le cose potrebbero mettersi male per tutti, anche per la sua secolare istituzione religiosa. M.C.

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Vandali distruggono l'orto giardino della Memoria di Sondrio dedicato ai bambini vittime della Shoah

I vasi con i nomi dei bambini ebrei arrestati in Valtellina e inviati a morire ad Auschwitz gettati a terra, le stelle di David divelte e spezzate: "Ma lo ricostruiremo con pazienza e amore".

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SONDRIO - I vasi con i nomi dei bambini ebrei arrestati in Valtellina e inviati a morire ad Auschwitz gettati a terra, le stelle di David divelte e spezzate: "Ma lo ricostruiremo con pazienza e amore"
  Stamani gli alunni della scuola elementare di via IV Novembre a Sondrio hanno scoperto che l'Orto-giardino della Memoria, che avevano realizzato l'anno scorso, è stato distrutto. I vasi con i nomi dei bambini ebrei arrestati in Valtellina e inviati a morire ad Auschwitz sono stati gettati a terra, le stelle di David divelte e spezzate, i contenitori colorati di fiori ed erbe aromatiche calpestati. Sull'accaduto indagano gli agenti della Digos.
  "I bambini hanno immediatamente avvisato le maestre" dichiara Egidio Melè, alla guida del Comitato Anpi di Sondrio, segnalando anche le scritte razziste e inneggianti a satana comparse sulle strutture dello scivolo. L'Orto-giardino si trova all'interno del parco giochi della biblioteca Pio Rajna, sul lato nord adiacente alla scuola. "Non possiamo non ascoltare le voci dei bambini che chiedono il perché di tale atto violento contro il loro lavoro di difesa della Memoria - aggiunge Melè -, e dunque denunciamo a gran voce il gesto vandalico. Che gli autori siano adulti con preciso intento di carattere politico o adolescenti spinti dall'età 'stupida' a imitare modelli televisivi e incapaci di comprendere la gravità del loro gesto, auspichiamo che il messaggio di condanna sia il più ampio possibile".
  L'Orto-giardino della Memoria della Shoah è sorto, all'interno di un progetto con l'Issrec e finanziato dal Comune di Sondrio, come monumento pubblico del ripudio di ogni forma di esclusione, simbolo di fratellanza fra gli esseri umani e come elaborazione di un modello di comunità inclusiva e solidale. Ed è l'Istituto sondriese per la storia della Resistenza a scrivere su Facebook: "Lo ricostruiremo con pazienza e amore, cara Sara, cara Sissel, cara Graziella, caro Alberto! Ci saranno sempre per voi delicati colori ed erbe profumate".

(la Repubblica, 11 marzo 2023)

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Meloni e Netanyahu: «Salto quantico nei rapporti Italia-Israele». Dal gas alla guerra, i dossier

L'intesa tra i due leader nell'incontro in una Roma blindatissima

In una Roma blindatissima - Polizia, Carabinieri, Mossad - Giorgia Meloni e Benjamin Netanyahu si incontrano per la prima volta. Si studiano e, pare, si intendono.

L'AGENDA
  Il premier israeliano entra a Palazzo Chigi al suo secondo giorno di visita a Roma. Ieri, l'incontro con la Comunità ebraica di Roma, stamattina un vis-a-vis con le imprese italiane a Palazzo Piacentini insieme al ministro dell'Industria e il Made in Italy Adolfo Urso. Poi il picchetto d'onore, gli inni nazionali, il primo incontro con un premier occidentale da quando in casa sono scoppiate le proteste di piazza per la riforma della Giustizia che la giustizia, dicono loro, vuole imbavagliare. Rivoli dei guai politici interni sono arrivati nella Capitale italiana. A Piazza Santi Apostoli, mentre il vertice erano in corso, si sono riuniti duecento manifestanti anti-Netanyahu gridando alle dimissioni. 

• L'INTESA
  Da Meloni, leader e premier conservatrice come Bibi, «sono impressionato dalla sua leadership», dirà lui, arrivano sponde. «Ho portato la solidarietà italiana e la condanna di fronte agli attacchi terroristici che abbiamo visto ultimamente - spiega la presidente del Consiglio uscita dal faccia a faccia - siamo disposti a fare tutto quello che possiamo per facilitare la ripresa di accordi e una de-escalation della violenza, che preoccupa tutti noi, a sostenere ogni iniziativa volta a favorire la ripresa di un processo politico tra Israele e Palestina».

• PALESTINA E IRAN
  Con l'ombra della guerra che torna a stagliarsi su Gaza e nei territori contesi, l'Italia sceglie la prudenza. Prudente è anzitutto Meloni che non risponde ufficialmente all'appello di Netanyahu - rilanciato in un'intervista a Repubblica - perché Roma riconosca ufficialmente Gerusalemme come capitale israeliana, come hanno fatto gli Stati Uniti. Per i palestinesi e buona parte del mondo arabo, una miccia dalle conseguenze imprevedibili. Infatti Meloni, che in passato ha mostrato i suoi dubbi a riguardo, non si esprime. Nell'atteso incontro a due, niente riferimenti al vero convitato di pietra: l'Iran, scosso dalle proteste di piazza e riavviato all'escalation nucleare. Dopotutto, l'Italia non fa parte del gruppo di testa europea che negli anni scorsi ha aderito all'accordo contro il nucleare iraniano, ormai un vago ricordo.

• I DOSSIER ECONOMICI
  E' allora un'altra la lente per leggere la tappa romana di Netanyahu.  Sicurezza, digitale, salute, energia, risorse idriche, agricoltura. In una parola: economia. «Israele è un partner importante, una nazione amica», dice Meloni al suo ospite mediorientale. Lui ricambia, anzi rilancia. Fra Italia e Israele serve «un salto quantico nei rapporti». Seguono applausi a Meloni leader, di governo e di partito. Bibi si dice «colpito dalla visione e dalla leadership della premier italiana, la sua decisione di far progredire l’Italia e portare avanti le relazioni con Israele».
  Tanti i dossier squadernati. Ad esempio, la crisi siccità e l'emergenza idrica che tiene con il fiato sospeso il governo italiano in vista di un'estate che si preannuncia senza un filo d'acqua. Israele è l'Eldorado dell'agri-tech, ha le migliori start-up al mondo nel settore. Lo riconosce Meloni: «Ha fatto un lavoro straordinario trasformando quella che era una possibile debolezza in un grande punto di forza, e credo che questo sia uno dei tanti settori sui quali la nostra collaborazione può aumentare».

(Il Messaggero, 10 marzo 2023)

 
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Netanyahu: “Ampliare la collaborazione con l’Italia”

di Mimmo Fornari

Netanyahu, primo ministro israeliano, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, hanno aperto i lavori del Forum economico per le imprese a Palazzo Piacentini, sede del ministero. Hanno preso parte all’appuntamento i rappresentati di alcune delle maggiori imprese italiane da Eni a Leonardo, Fincantieri, Ita e le Fs. Tra gli altri, anche gli amministratori delegati di Cassa depositi e prestiti, Dario Scannapieco, di Enel, Francesco Starace e di Poste Italiane, Matteo Del Fante.
  “La prima cosa che voglio dire a Giorgia Meloni è di fare una visita a Gerusalemme accompagnata poi da 50 o 100 aziende leader”: queste le parole del primo ministro israeliano (che successivamente ha incontrato il presidente del Consiglio), che definisce l’Italia una terra “benedetta” per l’imprenditoria e il design. Oltre ad aggiungere: “Vogliamo condividere con voi il nostro vantaggio tecnologico”.

• L’INCONTRO TRA MELONI E NETANYAHU
  “Ci conosciamo e ci stimiamo da tempo: Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e al livello globale”. Parola di Giorgia Meloni, al fianco del primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu. Con l’aggiunta: “Vogliamo accrescere il livello della nostra cooperazione”. Netanyahu, a sua volta, ha annunciato: “Vorremmo accelerare le esportazioni di gas verso l’Europa attraverso l’Italia. Ora c’è la partecipazione dell’Eni nel nostro progetto, ma riteniamo di poterle portare ad un livello ancora superiore”.
  Ancora Meloni: “Vogliamo accrescere il livello della nostra cooperazione nei settori più innovativi, temi come l’intelligenza artificiale ma anche la tecnologia applicata all’agricoltura, penso alla crisi idrica. Abbiamo condiviso la necessità di un nuovo incontro intergovernativo, non se ne tiene uno dal 2013, il prossimo dovrebbe svolgersi in Israele e vorremmo organizzarlo quanto prima”.
  Il premier israeliano, da par sua, ha specificato: “Vogliamo fare un passo oltre, organizzando tra qualche mese un incontro tra i due governi che affronterà una decina di argomenti per la cooperazione reciproca, a beneficio di Israele, Italia e a beneficio dell’Europa. Credo che questa cosa si possa concretizzare. L’ultimo incontro risale a 9 anni fa, ed è arrivato il momento di darvi il benvenuto in Israele, per cercare di vedere dove possiamo portare avanti i nostri interessi comuni”. Con Giorgia Meloni, ha proseguito Netanyahu, “abbiamo parlato della collaborazione per quanto riguarda l’acqua. Israele ha risolto i problemi relativi alla siccità e saremmo felici di dare una mano all’Italia”.

• LA GIORNATA
  Il ministero delle Imprese e del Made in Italy, in una nota, ha sottolineato: “Il Forum, che ha visto la partecipazione di oltre 50 rappresentanti di aziende ed enti italiani con interessi in Israele, ha l’obiettivo di rafforzare la collaborazione sul piano economico tra i due Paesi e consolidarne la cooperazione industriale, tecnologica e scientifica. Al centro del dibattito – è stato spiegato – temi come sicurezza, energia, digitalizzazione, salute, risorse idriche, agricoltura e innovazione, per rafforzare un rapporto industriale di grande importanza strategica. Tra gli argomenti di discussione, inoltre, la centralità della transizione green attraverso le energie rinnovabili e l’innovazione tecnologica applicata all’industria. Italia e Israele vantano una naturale complementarietà: la forte vocazione manifatturiera italiana unita all’avanguardia delle tecnologie israeliane. Sempre più aziende italiane, infatti, partecipano a importanti gare, pubbliche e private, nel contesto anche dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica che ha finanziato oltre 200 progetti di interesse comune”.
  Così Urso: “Italia e Israele possono dare una risposta congiunta alle nuove sfide globali, poiché godono di relazioni bilaterali profonde e solide, costruite su basi di amicizia, con una condivisione di valori e una forte cooperazione scientifica, tecnologica e industriale. Il destino dell’Europa si gioca nel Mediterraneo e i nostri Paesi insieme possono indicare la strada da percorrere anche perché hanno sistemi economici e produttivi complementari, particolarmente congeniali per affrontare le nuove frontiere tecnologiche”.
  Secondo i calcoli riportati dal Ministero, nel 2021 “l’interscambio commerciale tra Italia e Israele si è attestato a 4 miliardi di euro, con esportazioni italiane pari a 3,1 miliardi (+25,9 per cento) e importazioni pari a 910 milioni di euro. Tra i principali settori: macchinari, prodotti manifatturieri, prodotti alimentari, articoli in gomma e materie plastiche, prodotti chimici, materie plastiche, computer e apparecchi elettronici”.

• ATTENTATO A TEL AVIV
  Secondo le prime informazioni raccolte, in un attacco a colpi d’arma da fuoco in pieno centro della città, a Tel Aviv, un attentatore avrebbe ferito tre persone – due delle quali risulterebbero in gravi condizioni –e poi è stato ucciso dalla reazione di agenti di sicurezza sul posto. Il fatto è avvenuto in via Dizengoff, all’altezza di via Ben Gurion.
  “Sono sconvolta dall’ennesima notizia di violenze contro civili israeliani. L’Italia è al fianco di Israele a fronte dell’attentato terroristico avvenuto ieri a Tel Aviv. Esprimo al premier Benjamin Netanyahu, da poco arrivato a Roma, la solidarietà mia e del Governo italiano” ha twittato Meloni.
  “Vorrei innanzitutto esprimere la solidarietà e la vicinanza del Governo e del popolo italiano al suo Governo e al suo popolo per il drammatico attentato di ieri sera a Tel Aviv” ha aggiunto Urso.
  “Sconcerto per l’ennesimo attentato” è espresso dal presidente del Senato, Ignazio La Russa che ha segnalato come “solo pochi giorni fa ero in visita ufficiale in Israele dove ho ribadito alla Knesset e al primo ministro Benjamin Netanyahu l’amicizia che lega i nostri Paesi. L’Italia è contro ogni forza che attenti alla libertà, all’esistenza e all’indipendenza di Israele. Diciamo no al terrorismo, così come antisemitismo e antisionismo non devono trovare futuro

(l'Opinione, 10 marzo 2023)

 
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Importare energia e archiviare l'antisionismo. L'Italia ponte fra lo Stato ebraico e l'Europa

Unione Europea ostile ma Roma può assumere un ruolo da protagonista verso la svolta.

di Fiamma Nirenstein

Quando si dice Israele e lo si osserva sulla scena mondiale, si percepisce sempre qualcosa in più rispetto alla dinamica della diplomazia. Pace, guerra, tempeste e aurore, il popolo ebraico che diventa stato nazione, la tragedia, la vittoria, l'antisemitismo che alza la testa e poi viene messo a tacere.
  Anche stavolta la visita di Benjamin Netanyahu a Roma, la bandiera bianca e celeste con la stella di David accanto a quella tricolore hanno possibili significati che trascendono la politica quotidiana.
  Lo si è intuito nelle parole dei due primi ministri, Netanyahu e Giorgia Meloni, che si sono incontrati ieri: in Israele, fra le continue accuse che inseguono il Primo Ministro in queste settimane della grande rivolta contro la riforma giudiziaria, c'è anche quella del viaggio in un Paese che secondo i giornalisti, è minore e non decisivo. Ma parlando della collaborazione energetica e contro la siccità e delle molte altre possibilità (come ha detto Meloni) che si aprono in un rapporto ravvicinato fra i due Paesi, è ritornata sempre la parola Europa.
  È un segnale non solo pragmatico e di business quando Bibi annuncia che Israele sceglie l'Italia come strada maestra dell'esportazione del suo gas, la questione energetica è ormai cruciale da quando la Russia è una potenza avversa, il progetto East Med può spostare dinamiche che darebbero all'Italia un ruolo fondamentale dell'approvvigionamento europeo. Mentre in centro si svolgeva una manifestazione di circa 400 israeliani a Roma (così si riporta) con parole d'ordine molto dure contro Bibi e il governo, il Forum economico per le Imprese presieduto da Bibi e dal ministro Adolfo Urso per le Imprese e il Made in Italy raccoglieva una cinquantina di amministratori delegati delle maggiori imprese, da Eni a Leonardo a Fincantieri a Ita e Fs, fra cui Francesco Starace di Enel, Matteo Del Fante di Poste Italiane, e per ore hanno discusso di collaborazione futura. È importante? In questo momento in cui il mondo è diviso in due, e le forze dell'Occidente si coalizzano mentre l'Iran, alleato di Mosca, si avvicina alla bomba atomica con cui vuole distruggere Israele e minacciare tutto il nostro mondo e ancora l'Europa sonnecchia di fronte a questa realtà; mentre i Paesi del Patto di Abramo aprono nuovi spazi ai Paesi democratici e tecnologici compreso Israele sperando nella pace anche con i palestinesi, l'Italia può assumere un ruolo importante, ovvero quello di un autentico cambiamento dell'atteggiamento dell'Ue.
  Nel 2011 Netanyahu dette il benvenuto alla decisione di Berlusconi, finalmente, di dire no a una delle tante risoluzioni di condanna contro Israele dell'Onu e cercò di spostare anche l'Ue da quel «politically correct». Fu Berlusconi a inaugurare il cambiamento di un'Italia andreottiana filoaraba dai tempi della crisi energetica con un viaggio nel 2010 di cui Shimon Peres disse che «gli aveva scaldato il cuore». Ma negli anni l'atteggiamento impersonato da Federica Mogherini a suo tempo e ora da Joseph Borrell torna, alla ricerca di un'unità difficile da trovare, ad accusare Israele di violazioni continue e spesso inesistenti.
  Negli anni Settanta il radicalismo terzomondista guidato da Olof Palme, Willy Brandt, Bruno Kreisky rese l'Europa sostenitrice dell'Olp, fino al silenzio sul terrorismo e i finanziamenti incontrollati; nel 1993 con gli accordi di Oslo, l'Europa ha reso il suo punto di vista su Israele dipendente da quello dei Palestinesi. Il fallimento del pacifismo per i rifiuti palestinesi è stato addossato allo Stato ebraico. L'Europa così, mentre nei settori medici, scientifici, tecnologici, di sicurezza, ha potenti rapporti di scambio con Israele, ha adottato una narrazione ideologica flebile, che ignora la storia condannando sempre Israele. L'Italia dinamica di Meloni forse sa che per affrontare un futuro ormai incerto per tutti, segnato anche dal nuovo antisemitismo, occorre un ponte fra l'Europa e Israele.

(il Giornale, 11 marzo 2023)

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Italia-Israele, primo forum economico

Giansanti: "Solida collaborazione di Confagricoltura sull'asse Roma-Tel Aviv"

di Enrico Sarzanini

ROMA – E' andata in scena a Palazzo Piacentini sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy il Forum Economico per le imprese italiane che ha visto la partecipazione di oltre 50 rappresentanti di aziende ed enti italiani con interessi in Israele con il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ed il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.
  L'evento ha come obiettivo quello di rafforzare la collaborazione sul piano economico tra i due Paesi e consolidarne la cooperazione industriale, tecnologica e scientifica: «Il lavoro comune di scambio di conoscenze sul fronte dell’agricoltura e dell’innovazione rispetto alle sfide globali del cambiamento climatico e della sicurezza alimentare vedono Confagricoltura partner di primo piano nel dialogo con lo Stato di Israele» sottolinea il presidente della Confederazione, Massimiliano Giansanti che ha partecipato al Forum Economico: «La due-giorni a Napoli a maggio dello scorso anno, organizzata da Confagricoltura con l’Ambasciata israeliana, il Comune di Napoli e l’Università Federico II - ha precisato - ha avvalorato questa solida collaborazione sia a livello istituzionale, sia a livello imprenditoriale ed economico, comprendendo anche visite bilaterali, partnership con il celebre centro di ricerca agricola israeliano Volcani Center e accordi con i maggiori player nel campo agri-tech perfettamente in linea con gli obiettivi della transizione ed energetica».
  La ricerca e l’innovazione applicate all’agricoltura costituiscono elementi essenziali per cogliere tali obiettivi. «Il miglioramento genetico può aumentare le rese, ridurre gli effetti del cambiamento climatico e aumentare la resistenza ai parassiti – ha aggiunto Giansanti a margine dell’incontro - L’agricoltura di precisione può aiutare a contenere i costi delle imprese agricole, riducendo le emissioni di gas climalterante e favorendo un migliore utilizzo delle risorse naturali.
  La tecnologia, infine, favorisce la produzione di energia da fonti rinnovabili aumentando l’autoapprovvigionamento e riducendo la dipendenza».

(Leggo, 11 marzo 2023)

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Tel Aviv, sparatoria in centro città. Terrorista ucciso da agenti di sicurezza

La polizia ha "neutralizzato il terrorista". Al momento si contano tre feriti. Lo ha fatto sapere il portavoce della polizia.

Sparatoria nel centro di Tel Aviv. Moataz al-Khawaja, 23 anni, secondo i media israeliani, sarebbe questo il nome del palestinese responsabile dell'attentato odierno a Tel Aviv e ucciso dalla polizia locale. Si tratta, secondo le informazioni raccolte finora, di un uomo di Hamas che di recente era stato in carcere per oltre un anno in Israele per possesso d'armi. Era originario di Naalin, un villaggio nella zona di Ramallah. Tre persone sono rimaste ferite (si era parlato di almeno una vittima, ma la Polizia ha smentito). Non si hanno informazioni dettagliate sulle circostanze della sparatoria, avvenuta in un giorno di proteste diffuse contro la prevista revisione del sistema giudiziario da parte del governo e l'acuirsi della tensione in Cisgiordania.

• Hamas: operazione eroica
  "Un'operazione eroica": così il portavoce di Hamas Hazem Kassem ha commentato, da Gaza, l'attentato di Tel Aviv. Questo episodio, secondo Hamas, "è una reazione naturale e molto rapida al crimine di oggi a Jaba", il villaggio della Cisgiordania dove in mattinata tre miliziani della Jihad islamica sono stati uccisi da una unità militare israeliana mentre sembravano in procinto di compiere un attacco. "Sono terminati i tempi in cui gli occupanti potevano ucciderci impunemente" ha detto ancora Kassem. In diverse città della Cisgiordania vengono intanto distribuiti dolciumi ai passanti in segno di gioia per l'attentato di Tel Aviv.

• La reazione di Netanyahu
  Il premier israeliano Benjamin Netanyahu che al momento si trova a Roma, per la sua terza visita all'estero dall'insediamento del nuovo governo, informato dell'accaduto, ha detto: "Continueremo a costruire la nostra nazione, ad approfondire le nostre radici e a costruire il nostro futuro comune. Come fratelli e sorelle", ha affermato il leader del Likud.  

(SkyTg24, 10 marzo 2023)

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Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Comunità Ebraica di Roma: “Siamo un solo popolo unito dalla fratellanza”

di Ariela Piattelli

Mentre il Primo Ministro dello Stato d’Israele Banjamin Netanyahu è accolto calorosamente dai rappresentanti della Comunità ebraica di Roma al Tempio Spagnolo, è già una serata particolare. I Premier israeliani hanno fatto, negli anni, della visita alla comunità romana una consuetudine. E altrettanto consueto è l’abbraccio della comunità alle cariche dello Stato d’Israele. Ma per Netanyahu si tratta del momento più difficile dal punto di vista interno al Paese durante i suoi mandati, mentre il terrorismo palestinese miete vittime e la minaccia del nucleare iraniano si fa più forte ogni giorno. Proprio durante la sua visita corre veloce la voce tra i presenti di un attentato terroristico palestinese appena avvenuto a Tel Aviv e che ha colpito tre civili israeliani.
  “In questo posto siamo tutti insieme, (come) fratelli” esordisce il Primo Ministro e le sue parole vengono accolte da un applauso. Per lui è l’occasione per ribadire la vicinanza reciproca con le comunità della diaspora: “Vogliamo ricordare che siamo un popolo unito con un passato e un futuro comune. Prego chi ha la possibilità, di perseguire ciò per cui ci siamo battuti: la fratellanza d’Israele”. Ma se ciò che unisce le comunità nel mondo e Israele è l’unione del popolo ebraico, quello che li accomuna sono anche i mali, le prove, le piaghe della Storia. Così è Netanyahu a ricordare come proprio vicino al Tempio Spagnolo il 9 ottobre dell’ ’82 il terrorismo palestinese ha colpito e ucciso il piccolo Stefano Gaj Tachè.
  Con i presenti il Primo Ministro ha voluto poi condividere sfide e conquiste dello Stato d’Israele. “L’Iran, con il suo armamento nucleare, spaventa l’Europa e tutto il mondo, e dovremmo provare a non farci sopraffare da questa potenza. Incontrerò il presidente del consiglio Meloni e vorrei porle i miei timori rispetto a tanti argomenti, tra cui l’Iran”.
  Guardando al futuro ha poi detto: “Abbiamo la possibilità di essere il centro del mondo, di dare energia all’Europa e al mondo intero. Vogliamo portare avanti anche gli Accordi di Abramo, e allargarli anche ad altri Paesi, Arabia Saudita in primis”.
  Nel ribadire il legame bimillenario che lega la Terra d’Israele e gli ebrei romani, la Presidente della Comunità Ebraica di Roma ha affermato come nessun evento tragico abbia mai scalfito questo rapporto indissolubile. “Non c’è riuscito neanche l’attentato palestinese il 9 ottobre 1982 quando sotto una pioggia di proiettili e granate, all’uscita di questa sinagoga, quaranta persone rimasero ferite e un bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè fu barbaramente ucciso”. Dureghello, in un discorso che chiaramente si rivolge a tutti, ha ricordato la lezione della storia: “In quegli anni terribili il clima ostile verso Israele invitava gli ebrei a disconoscere il rapporto identitario con Israele, a prendere le distanze dalle scelte dei suoi governi. Questa Comunità non si piegò al ricatto morale di chi voleva imporre l’assunto per cui per essere cittadini italiani bisognasse condannare Israele”.
  “Noi siamo dalla parte dello Stato d’Israele perché l’antisemitismo che si cela anche sotto l’antisionismo non permette divisioni e o spazi in cui insinuarsi. – ha proseguito la Presidente, dando voce al rispetto profuso e indiscusso della Comunità alla democrazia israeliana: “l’unico auspicio che possiamo rivolgere è che il popolo d’Israele possa continuare ad essere unito nelle sue diversità e differenze”.
  La presidente delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, ha sottolineato l’attenzione che gli ebrei italiani rivolgono alla realtà israeliana, e ha esternato preoccupazione per le divisioni interne al Paese e per gli atti di “violenza”. Ma mentre pronuncia il suo discorso, al centro di Tel Aviv scorre il sangue di cittadini israeliani colpiti di nuovo dal terrorismo in un attentato poi rivendicato da Hamas. Sono 14 le vittime israeliane, uccise dai terroristi palestinesi, che si contano tragicamente da gennaio ad oggi.
  Colto dalla notizia dell’attentato a Tel Aviv, il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni ha pronunciato parole di partecipazione al dolore e vicinanza: “Siamo Scioccati. È una situazione che ci dà il polso di una realtà drammatica. Siamo “Am ehad” ed è una ferita che colpisce tutti quanti”. Il Rabbino, commentando brani della Torà che si leggono questo Shabbat, è tornato sul tema delle divisioni: “Si può sistemare qualsiasi lacerazione, e la soluzione sta già dentro la famiglia, cominciando dai genitori. Anche un popolo è come una grande famiglia. Essere ebrei, ovunque e sempre è stato ed è difficile, il nostro è un percorso continuo in salita tra problemi esterni e problemi interni. Non è mai una condizione normale. Ma noi continueremo malgrado tutto a salire e migliorare tenendo ben presenti i messaggi che ci vengono dall’antichità e che dobbiamo tenerci cari”.
  Netanyahu riceve la notizia dell’attentato dal segretario militare Avi Gil, che gli sussurra all’orecchio quanto avvenuto. Così il Premier torna a parlare alla stampa, c’è anche quella israeliana, e ai presenti, per esprimere la vicinanza ai feriti. "Continueremo a costruire la nostra nazione, continueremo a ad approfondire le nostre radici e a costruire il nostro futuro comune. Come fratelli e sorelle".

(Shalom, 10 marzo 2023)

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Netanyahu a Roma e il governo si spacca su Gerusalemme capitale d’Israele

Fuga in avanti di Salvini: “Dico di sì”. Palazzo Chigi e Farnesina frenano: “Non in programma”. Oggi proteste in Italia contro il primo ministro.

di Antonio Fraschilla, Anna Lombardi

ROMA - È iniziata in recupero la visita romana del premier israeliano Benjamin Netanyahu atterrato a Roma con 3 ore di ritardo rispetto all'agenda: la partenza dall'aeroporto Ben Gurion assediato dai manifestanti - e da lui raggiunto in elicottero - posticipata per incontrare nello stesso scalo il ministro della Difesa americano Lloyd Austin per discutere di nucleare iraniano. Al suo primo appuntamento romano, in sinagoga, il premier è però arrivato puntualissimo, alle 19.30, accolto dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni nel piccolo Tempio Spagnolo - sotto al Tempio Maggiore - affollato da sessanta membri illustri della comunità.
  Netanyahu, con accanto la moglie Sara, non ha evitato i riferimenti alle proteste in Patria: "Sono giorni di divergenze, ma restiamo un popolo unico, abbiamo un passato e un futuro comune". Poi, parlando del pranzo di oggi con la premier Giorgia Meloni, che incontrerà dopo il summit con gli imprenditori, ha ribadito che le esporrà "i timori rispetto all'Iran che spaventa l'Europa e il mondo". Sottolineando di voler estendere gli Accordi di Abramo ad altri Paesi "fra cui l'Arabia Saudita". Poi, un funzionario lo ha raggiunto per dargli la notizia del nuovo attentato a Tel Aviv: "Le mie preghiere per loro", ha aggiunto.
  È stata la presidente della comunità ebraica romana Ruth Dureghello a toccare la spinosa questione del riconoscimento da parte italiana di Gerusalemme capitale, che Netanyahu aveva lanciato nell'intervista a Repubblica ieri, raccogliendo subito il plauso del ministro Salvini. "Riconoscimento che chiediamo e sosteniamo con convinzione", ha detto Dureghello. Ma il governo Meloni non ha in programma lo spostamento dell'ambasciata italiana da Tel Aviv a Gerusalemme e sia Farnesina che Palazzo Chigi lo hanno ripetuto: "L'argomento non è in agenda". E da Palazzo Chigi e dai principali esponenti di Fratelli d'Italia arriva un sostanziale "no comment": "Il tema sarà presumibilmente toccato durante l’incontro con il presidente Meloni, ma qualsiasi commento in merito al momento sarebbe fuori luogo", dice il capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan. Dal ministero degli Esteri guidato da Antonio Tajani dicono in maniera netta che "l’ambasciata non sarà spostata". Sul fronte dell’opposizione, aperture arrivano da Azione con la deputata Naike Gruppioni, componente della commissione Esteri alla Camera: "Comprendo molto bene la richiesta del primo ministro Netanyahu, su questo tema si dovrà esprimere il Parlamento". Un no secco a questa ipotesi arriva dal Pd e dalla Sinistra: "Riteniamo inopportuno questo invito alla vigilia della visita in Italia", dice la dem Lia Quartapelle. "E’ una richiesta sciagurata, piuttosto il nostro governo si affretti a riconoscere lo stato palestinese", dice Nicola Fratoianni.
  In Sinagoga, invece, Dureghello ha pure ribadito: "Siamo dalla parte di Israele perché l'antisemitismo non permette divisioni". Ma quanto la questione delle divisioni interne allo Stato Ebraico sia delicata è emerso invece dall'intervento di Noemi Di Segni: "Condivido il senso di profonda preoccupazione per la spaccatura sulla riforma della giustizia". Aggiungendo: "Riconoscere Israele come Paese democratico è un valore assoluto ma questo è possibile solo se la dialettica politica riflette i valori ebraici". Parole che hanno fatto però infuriare l'ex presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, che le ha urlato: "Vergogna! Non ci rappresenti".
  Di sicuro oggi alle tre almeno 200 persone, israeliani ed ebrei, sono attese in Piazza Santi Apostoli per manifestare contro la legge. "È in atto un attentato contro la democrazia. Non possiamo lasciar trasformare il nostro Paese in un una teocrazia" dice Itamar Danieli, uno degli organizzatori. "Scendiamo in piazza contro Netanyahu e in difesa di Israele perché la sua riforma della giustizia è una pericolosa deriva antidemocratica".

(la Repubblica, 10 marzo 2023)

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L'Arabia Saudita apre agli Accordi di Abramo, ma chiede garanzie su difesa e nucleare

Le richieste di Riad a Israele e Stati Uniti

di Paolo Mastrolilli

NEW YORK -  Le discussioni per allargare gli Accordi di Abramo all'Arabia Saudita, e quindi normalizzare le relazioni con Israele, sono così avanzate che Riad ha domandato in cambio a Washington garanzie per la sua sicurezza e aiuto per sviluppare un proprio programma nucleare civile. È un prezzo alto, e non è detto che Usa e Stato ebraico accettino di pagarlo, ma dimostra che la trattativa esiste e si trova in una fase molto concreta. 
  Secondo il Wall Street Journal, le richieste saudite riguardano due punti: la garanzia che gli americani intervengano in loro difesa, se fossero attaccati; e l'assistenza per sviluppare l'energia atomica. Sul primo punto, Riad spera di ottenere la qualifica di "major non Nato ally", già concessa proprio a Israele, Qatar, Giordania, e altri Paesi. In sostanza un gradino appena inferiore rispetto all'ingresso nella Nato, che però impegna Washington a difenderla. Sul secondo punto l'Arabia Saudita, decisa a costruirsi un futuro diverso da quello dei combustibili fossili, dice di volere un programma nucleare civile per produrre energia.
  Si tratta di concessioni importanti, anche perché il rischio è che i sauditi usino le strutture atomiche per costruire bombe, per difendersi da Teheran, ma potenzialmente anche attaccare Israele. Sull'altro piatto della bilancia però ci sarebbe la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico, aprendo la porta alla creazione di un'alleanza con la maggior parte degli Stati arabi sunniti, in funzione anti-iraniana. Se ciò avvenisse, aumenterebbero anche le prospettive di un accordo di pace con i palestinesi, nel quadro di un riassetto complessivo delle relazioni in Medio Oriente, legato allo sviluppo economico della regione e la condivisione delle tecnologie israeliane in vari settori. Riad ha altre priorità e preoccupazioni, ma fra le condizioni per la normalizzazione inserirebbe anche la ripresa dei negoziati tra lo Stato ebraico e l'Autorità guidata da Abu Mazen.
  Il Pentagono aveva già usato la protezione dalla minaccia iraniana per far avanzare la trattativa, inserendo Israele sotto l'ombrello del Central Command che include anche l'Arabia Saudita, e Biden a luglio aveva fatto il primo volo diretto da Tel Aviv a Gedda. I recenti scontri in Cisgiordania e le proteste contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu complicano il negoziato, ma l'opposizione dei cittadini sauditi alla creazione di relazioni con Israele è scesa dal 91% del 2014 al 38% di oggi. 

(la Repubblica, 10 marzo 2023)

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Ki Tissà. Noi siamo anche i nostri errori

di Ishai Richetti

Nella Parashà di Ki Tissa è raccontato quello che probabilmente è uno dei più grandi peccati che il popolo ebraico abbia mai commesso. Quaranta giorni dopo aver ricevuto la Torà, dopo la rivelazione sul Monte Sinai, avviene l’impensabile. Viene costruito un vitello d’oro che diventa centro di un culto idolatra. La vista del popolo che adora e si prostra di fronte al vitello d’oro era così sconcertante che Moshe frantumò le Tavole della Legge. Questo peccato è così fondamentalmente grave, che la Ghemara in Sanhedrin 102a afferma che “non c’è punizione che colpisca il popolo ebraico che non abbia in sé una qualche punizione per il peccato del vitello d’oro”. Data la gravità del peccato, la natura umana sarebbe portata ad applicare la logica che imporrebbe che una volta che gli ebrei furono perdonati, avrebbero voluto liberarsi di ogni ricordo del passato, distruggendo o nascondendo ogni cosa che li riportava a quei fatti. Eppure- D-o comanda l’esatto contrario. La Ghemara dice che a Moshe fu comandato di mettere le Tavole spezzate, insieme a quelle intere, nell’Aron. Lungi dall’essere nascoste o distrutte, queste tavole spezzate appartengono al luogo più sacro della terra. Perché? Perché tanta importanza?
  Rav Tzadok di Lublino nota che questa collocazione contiene un insegnamento importante. Dobbiamo renderci conto che i nostri errori sono una parte fondamentale di ciò che siamo. Piuttosto che vergognarci del nostro passato, dovremmo vederlo come un passo importante nella nostra crescita e nel nostro sviluppo, come una parte fondamentale della nostra curva di apprendimento. Sebbene le Tavole rotte ricordassero un errore molto grave e doloroso del passato, Hashem ordina a Moshe di tenerle “in primo piano e al centro”, in modo che gli ebrei ricordassero che il peccato e le sue conseguenze servono in retrospettiva come un importante trampolino di lancio verso la formazione personale e di gruppo. In definitiva quindi, le tavole rotte rappresentano qualcosa di importante da custodire.
  Il Talmud al riguardo scrive: Le tavole spezzate furono poste nell’Arca santa insieme alla seconda serie intatta; ‘luchot veshivre luchot munachim bearon” (Talmud Bava Batra 14b).
  L’idea di rottura appare in una serie di eventi significativi nella vita ebraica: Uno dei suoni dello shofar viene effettuato attraverso le note spezzate dello shevarim, la cui radice viene dalla parola ebraica “shever” che significa “rotto”. Iniziamo il Seder spezzando in due parti un intero pezzo di matza. Quando gli sposi si trovano sotto il baldacchino nuziale, viene rotto un bicchiere. Questi rituali che fanno parte di momenti importanti della nostra vita rappresentano eventi che hanno portato alla rottura di qualcosa nelle nostre vite personali e comunitarie. Rompere la matza rappresenta la vita spezzata dello schiavo, lo spirito contrito di una persona pentita è simboleggiato dai suoni spezzati dello Shofar, e la rottura del bicchiere al matrimonio rappresenta un mondo che è incompleto senza la presenza del Bet haMikdash a Yerushalaim. Rotture e interezza coesistono fianco a fianco nelle camere del cuore. Le due serie di tavole custodite nell’Aron costituiscono una metafora sorprendente: La rottura e l’integrità coesistono fianco a fianco, anche nel luogo più sacro dell’ebraismo, nel cuore dell’Arca santa.
  Il Reshit Chochma, insegna che l’Arca è un simbolo che rappresenta il cuore umano. Le persone sperimentano la rottura in molti modi. Coloro che sperimentano una perdita molto dolorosa, che sia la mancanza dei propri cari o altre esperienze più o meno traumatiche che accadono nella vita, sanno che portiamo per sempre dentro delle “tavole rotte”. Le tavole nell’Aron rappresentano qualcosa di molto importante, degli insegnamenti che influiscono su diverse sfere della nostra vita. Prima di tutto, come genitori dobbiamo ricordare che va bene commettere errori, nessuno è perfetto e non esiste un manuale su come crescere correttamente i figli. Tutto ciò che possiamo fare è essere consapevoli e premurosi e fare del nostro meglio e, quando inevitabilmente commettiamo un errore, dobbiamo riconoscerlo, ammetterlo e imparare, cogliendo l’opportunità per una crescita personale e per trasmettere quello che abbiamo imparato. In secondo luogo, nonostante saremmo portati a voler aiutare costantemente i nostri figli e proteggerli, dobbiamo ricordare che commettere errori fa parte della vita ed è qualcosa che i nostri figli devono sperimentare e da cui devono imparare. Insieme a questo, dobbiamo aiutare i nostri figli a rendersi conto che per quanto dolorosi siano gli errori e i fallimenti, fanno parte del loro processo di crescita e svolgono un ruolo nel plasmare le persone che diventeranno.
  Oltre ad insegnarci qualcosa nella sfera dell’educazione e della genitorialità, la presenza delle Tavole rotte e delle Tavole intere nell’Aron ci insegna anche un altro messaggio che dobbiamo interiorizzare. I momenti di grande gioia come i momenti meno felici sono elementi che accadono nell’arco delle nostre vite. Questi momenti sono racchiusi nella stessa scatola, nel nostro cuore, seguendo l’insegnamento del Meshech Chochma. Rashi nel commentare la disposizione delle Tavole all’interno dell’Aron scrive che le due serie di Tavole, quella spezzata e quella intera, si toccano l’una con l’altra. La sede delle emozioni umane si trova nel cuore. Qui, in questo spazio chiuso, dobbiamo conservare le nostre emozioni e le nostre esperienze, farne tesoro per migliorare noi stessi e per influenzare positivamente il prossimo.

(Kolòt, 10 marzo 2023)
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«La Ghemara dice che a Moshe fu comandato di mettere le Tavole spezzate, insieme a quelle intere, nell’Aron», Nessun dubbio che la Ghemara dica questo, va detto però che nulla di simile si trova nella Torah scritta. E neanche si trova scritto in quel testo che "gli ebrei furono perdonati"; così come non si dice mai nella Bibbia che Adamo ed Eva furono perdonati. L'articolo è un esempio di lettura psicologistica della Bibbia, come se ne trovano anche in ambito cristiano. Il baratro che si spalanca tra Dio e uomo per il compimento del peccato viene superato con una cordicella di buoni sentimenti di accettazione e comprensione dei propri limiti umani. Stranamente, mentre la storia del popolo ebraico è una successione di drammatiche esperienze di rottura che vedono la vita rispuntare fuori inaspettatamente dalla morte, sembra che gli ebrei nella riflessione morale prediligano sfumature di continuità. I segni di rottura portati ad esempio (suoni interrotti, bicchiere infranto) rientrano anch'essi nel continuo flusso del vivere. Resta comunque l'Hatikva, la speranza. E lì che si manifesta l'aspetto peculiare del popolo ebraico nella forma radicale del contrasto vita-morte: una secolare attesa nella morte che sfocia, dopo drammatiche doglie di parto, in una nuova vita. Questo è tipicamente ebraico. E anche cristiano, se si legge attentamente la Bibbia. M.C.

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Sapevano bene quello che facevano. E il fine era la vaccinazione di massa

Ora dicono che gli errori durante la pandemia sono dovuti al caos e all'incertezza. Ma le chat mostrano che i politici non avevano mai dubbi. Da subito, la linea è stata: non curare, rinchiuderci in casa, attendere i sieri.

di Boni Castellane

I contrasti con i tecnici non erano sulle misure da prendere, ma su come raccontarle Tutto serviva a smaliire più dosi Chi nel mondo fece altro venne ignorato

Adesso la linea di difesa della ragionevolezza: nessuno allora sapeva cosa fare, si è trattato di una situazione di emergenza, nuova, imprevedibile, se ci sono stati errori sono stati fatti in buonafede. Addirittura coloro che hanno costruito la propria esistenza politica e giornalistica sul giustizialismo difendono l'argomento della mancanza di strumenti, di informazioni, di conoscenze.
  Il fatto è che tutto ciò non è vero, anzi è vero esattamente il contrario. Sia gli elementi che emergono dal processo di Bergamo, sia le chat tra membri del governo ed esperti britannici pubblicate dal Telegraph, evidenziano l'esatto contrario: si sapeva fin dall'inizio cosa fare e cosa non fare, la politica aveva le idee chiarissime sin dall'inizio su cosa sarebbe stato meglio dire e cosa non dire, in quale direzione andare e in quale altra non andare mai. I contrasti tra esperti e tra esperti e politici non vertevano mai su quali provvedimenti adottare o su quali tentativi fare per gestire al meglio la pandemia ma erano sempre mediazioni tra una linea politica ben chiara e decisa, le possibili interpretazioni dei dati che venivano raccolti e la narrazione da consegnare alla stampa la quale, per tutta la pandemia, ha svolto con orgoglio il ruolo di megafono da propaganda bellica. In tutto ciò non emerge affatto una situazione di incertezza o di doveroso dubbio, se non in qualche esperto prontamente messo ai margini. La linea era chiarissima fin dal primo giorno: è un virus nuovo e quindi i medici devono seguire una linea terapeutica conservativa, sino all'assurdo medico di non visitare i malati, di rifiutarsi di vederli, di tenere chiusi gli ambulatori e di demandare le emergenze ormai gravi alle unità di pronto soccorso degli ospedali.
  Mai nella storia un'autorità medica ha stabilito la linea di non visitare, non curare e attendere: né con la peste, né col colera, né con la Spagnola. I medici che hanno curato e hanno elaborato terapie domiciliari sono stati sospesi, additati come stregoni, si ordinava di diffidare di loro. E perché? Quale sarebbe stato il rischio? Erano medici o erano guaritori improvvisati? Avrebbero curato professionalmente o avrebbero ammazzato la gente con intrugli tossici? Dov'era la narrazione del «non sapevamo cosa fare» dopo i primi risultati positivi con i protocolli basati sugli antinfiammatori? Perché non sono stati consigliati a livello centrale (come ha fatto il Giappone ad esempio)? Quanti morti sono stati fatti a causa di «tachipirina e vigile attesa», il famigerato e mai smentito protocollo passato come il modo giusto per curarsi?
  Le autopsie proibite non furono frutto di incertezza, furono una linea politico-sanitaria ben precisa, decisa sin dall'inizio e rigidamente imposta a suon di sospensioni dall'Ordine e di diffide alle strutture che ritenevano sensato farle. Per le mascherine i pareri discordanti, incerti, i dubbi, furono decisamente e rigidamente esclusi dalla politica: andavano prodotte, comprate e usate, nessuna incertezza in qual caso. Una precauzione in più, al massimo inutile, per la quale ci sono comunque i fondi europei, nessun dubbio lì. Quando si è trattato di imporre il coprifuoco non ci furono dubbi, ci furono semmai trattative, mediazioni, ma la politica aveva già deciso che lockdown, coprifuoco e sospensione delle attività produttive dovevano essere l'obiettivo da raggiungere. Senza lockdown ci sarebbero stati molti più morti? Vediamo chi non ha chiuso e vediamo semmai quanti morti hanno avuto, ma nessuna incertezza neanche in quel caso: chiudere in casa la gente era il modo con cui la politica stabilì la propria egemonia, senza dubbi ed esitazioni se non sui dettagli, spingendosi sino nei lidi della superstizione barbara e nichilista dei funerali proibiti. Chi aveva dubbi era semmai un disfattista: «non si invochi la libertà».
  Tutto sin dall'inizio ha avuto un unico obiettivo: l'attesa dei vaccini. Tutto doveva concorrere a far vaccinare le persone, più persone possibili e con più dosi possibili, negando l'esistenza degli effetti avversi, in Gran Bretagna l'hanno chiamata «Operation fear», qui in Italia hanno foraggiato i media con fondi speciali emergenziali sino all'arrivo del camioncino frigorifero a reti unificate il giorno di Natale, scena degna del film Wag the dog. Nel frattempo, però, nel mondo qualcuno prendeva altre decisioni e non in Africa o in India; in Svezia, ad esempio, fecero altre scelte e con quelle scelte è morta molta meno gente ma con ciò non vorremmo mai mettere in dubbio la «buonafede» della nostra politica.

(La Verità, 9 marzo 2023)
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L'ordine di scuderia era semplice: impedire con tutti i mezzi che le persone guariscano senza far uso dei vaccini. Strumenti usati: menzogne, manipolazioni, intimidazioni, ricatti, diffamazioni. Era importante che ci fosse presto un numero molto alto di vaccinati perché poi sarebbero stati questi a convincere gli altri. "Se io l'ho fatto, perché tu non lo fai? Chi ti credi di essere? Vorresti forse dire che ho sbagliato? Ah no, chi sbaglia sei tu. Hanno ragione a dire che sei un negazionista, un no-vax egoista, terrapiattista, nemico della scienza e della sana società". Cose simili e altre molto peggiori sono state dette e scritte. Sarebbe facile allora fare un elenco di possibili ragioni poco nobili che hanno spinto molti a sottoporsi alla vaccinazione, ma sarebbe meschino e in gran parte ingiusto. Sarebbe dare impulso a uno degli effetti più nefasti di questa folle politica vaccinista: spingere gli uni contro gli altri e contribuire ancora di più alla disgregazione della società. Cerchiamo piuttosto di aiutarci a rimanere svegli e attenti a distinguere il vero dal falso. M.C.

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Bakhmut, la Stalingrado d’Ucraina: i due volti della battaglia

di Gianluca Di Feo

Il valore politico che il presidente Zelensky e il ministro Kuleba stanno caricando sulla resistenza di Bakhmut viene accolto con perplessità dalla Nato, che ritiene inutile la difesa a oltranza della città. Lo ha detto persino il segretario generale Jens Stoltenberg: "Potrebbe cadere presto...". L'intelligence occidentale inoltre non condivide le valutazioni di Kiev sul pericolo che la ritirata apra la strada a un attacco in profondità: l'intelligence non ha trovato traccia delle riserve russe che dovrebbero condurre questo assalto, che comunque se la vedrebbe con le nuove fortificazioni costruite alle spalle di Bakhmut. Tanto che Havril Hines, la direttrice di tutti i servizi di informazione americani, ha escluso che Mosca possa conquistare altri territori nelle prossime settimane.

(la Repubblica, 9 marzo 2023)
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Si comincia a fare riferimento a Stalingrado. In relazione a Backhmut per l'Ucraina. Ma se per l'Ucraina Backhmut è Stalingrado, allora Zelensky per l'Ucraina è Hitler. Tempo fa avevamo fatto un altro parallelo in forma di domanda: "L'Ucraina sarà la Stalingrado degli USA"? M.C.

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Netanyahu a Roma. Alleanza ancora più stretta tra Italia e Israele, politica e militare

di Antonio Mazzeo

L’attesa è tanta ma l’esito della visita in Italia del premier israeliano Benjamin Netanyahu, la prima dopo quella di otto anni fa in occasione dell’Expo di Milano, appare scontato: Roma e Tel Aviv rafforzeranno ulteriormente la partnership diplomatico-militare e l’interscambio dei sistemi di guerra. L’appuntamento di giovedì 9 marzo tra Netanyahu e Giorgia Meloni è stato preparato in tutti i dettagli e i possibili accordi tra le rispettive forze armate e le industrie del comparto bellico sarebbero stati predisposti il 18 gennaio scorso in occasione dell’incontro ufficiale tra il ministro della Difesa Guido Crosetto e l’Ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, Alon Bar. “Durante l’Incontro è emersa la volontà di intensificare la collaborazione tra Italia e Israele”, ha riferito l’ufficio stampa della Difesa. “Rapporti bilaterali, cooperazione in ambito difesa (G2G – Government to Government), Ucraina e Mediterraneo allargato sono stati i temi principali al centro del colloquio”.
  Benjamin Netanyahu arriva a Roma a vent’anni di distanza dalla firma del memorandum d’intesa Italia-Israele in materia di cooperazione nel settore militare, accordo che pone particolare attenzione all’interscambio di materiale di armamento, all’organizzazione delle forze armate, alla formazione e all’addestramento del personale e alla ricerca e sviluppo in campo industriale-militare. Il memorandum prevede inoltre la realizzazione di “scambi di esperienze tra esperti delle due parti” e la “partecipazione di osservatori a esercitazioni militari”. A sottoscriverlo, per il nostro paese, l’allora ministro della difesa Antonio Martino (governo Berlusconi II); la ratifica del Parlamento, con voto quasi unanime, è avvenuta invece nel maggio 2005.
  La collaborazione tra le forze armate israeliane e quelle italiane si è sviluppata in questi ultimi anni particolarmente in ambito addestrativo-operativo. “L’Aeronautica Militare d’Israele è stata schierata diverse volte in Sardegna e ha svolto esercitazioni di notevoli dimensioni con l’Aeronautica italiana”, riporta una nota del Ministero della Difesa israeliano del 2 novembre 2018. “Le due forze aeree hanno inoltre tenuto regolarmente scambi di equipaggi e il rispettivo personale partecipa a vari corsi di formazione”. L’Aeronautica Militare italiana è impegnata ad addestrare i piloti israeliani presso l’International Training Centre (ITC) di Pisa per il conseguimento dell’abilitazione sul velivolo C-130J “Super Hercules”; al contempo, personale italiano si reca ciclicamente presso la base aerea di Palmachim (nei pressi della città di Rishon LeZion, sulla costa mediterranea) per svolgere corsi di qualificazione alla conduzione dei velivoli a controllo remoto. In più occasioni gli addetti militari israeliani sono stati ospiti del Centro Sperimentale Volo e del Reparto Medicina Aeronautica e Spaziale di Pratica di Mare (Roma): si tratta di due enti preposti alle prove in volo dei velivoli e dei sistemi d’arma e all’addestramento e alla sperimentazione nel settore della medicina aeronautica e spaziale.
  A fine luglio 2022 quattro cacciabombardieri F-35 del 32° Stormo dell’Aeronautica italiana di stanza nello scalo aeroportuale di Amendola (Foggia) sono stati inviati nel deserto del Negev per partecipare a una complessa esercitazione aerea (Lightning Shield, letteralmente Scudo di Fulmine) con i velivoli “cugini” delle forze armate israeliane (gli F-35I “Adir” del 118° Squadrone Sud e del 140° Golden Eagle, predisposti per il trasporto di testate atomiche). Tutti i velivoli hanno operato dalla base aerea di Nevatim, nel deserto del Negev, a meno di dieci km di distanza dalla città di Be’er Sheva. Come rilevato dal sito specializzato The Avionist l’esercitazione è stata pianificata in vista dell’impiego dei cacciabombardieri in “un’ampia varietà di teatri operativi”, dato che l’F-35 è considerato “un aereo ominruolo contro differenti minacce aeree e terrestri avanzate”. Due mesi prima di Scudo di Fulmine, i cacciabombardieri israeliani erano stati impegnati in una lunga attività addestrativa in cui erano stati simulati attacchi contro l’Iran con l’impiego di armi nucleari.
  Le forze aeree di Italia e Israele svolgono annualmente pure gli Airmen to Airmen Talks, colloqui-incontri in cui vengono pianificati le attività addestrative ed eventuali programmi di acquisizione comune di velivoli e sistemi di guerra.
  L’ultimo faccia a faccia si è svolto in Israele nella prima settimana del novembre 2002: il Comandante logistico dell’Aeronautica Militare, generale Roberto Comelli, ha incontrato a Tel Aviv il suo omologo israeliano Shlomi Konforty per “consolidare future cooperazioni militari nel settore della logistica e della manutenzione delle infrastrutture e dei sistemi d’arma in dotazione nei rispettivi paesi”, così come riporta la nota dello Stato Maggiore dell’Aeronautica. Al centro dell’interesse delle due delegazioni lo sviluppo di nuove tecnologie per la gestione dei processi manutentivi dei diversi sistemi d’arma a disposizione. Ai colloqui tecnici hanno poi fatto seguito le visite degli alti ufficiali italiani ad alcune delle più importanti basi militari israeliane, come il centro logistico-manutentivo della base aerea di Tel-Nof (nei pressi della città di Rehovot, regione centrale) e lo scalo aereo di Nevatim, quartier generale degli squadroni dell’Israeli Air Force dotati dei nuovi cacciabombardieri a capacità nucleare F-35 e dei sofisticati velivoli di intelligence e riconoscimento Gulfstream G-550. Il generale Comelli e il suo staff hanno poi raggiunto gli stabilimenti dell’aziende leader del complesso militare-industriale nazionale, IAI – Israel Aerospace Industries, dove sono state illustrate le linee di ricerca e sviluppo dell’industria aerospaziale israeliana. “A conclusione dell’incontro – aggiunge lo Stato Maggiore dell’Aeronautica – la visita presso Hatzerim AFB, sede della IAF Flight Academy, ha fornito l’opportunità di comprendere i processi relativi alla formazione dei piloti militari destinati alle diverse linee volo, e di analizzare più da vicino gli aspetti tecnici del velivolo Alenia Aermacchi M-346, utilizzato per l’addestramento avanzato dei piloti militari israeliani destinati alle linee da caccia”.
  Nel 2012 Israele ha acquistato 30 caccia-addestratori M-346 “Master” prodotti a Venegono Inferiore negli stabilimenti di Leonardo/Finmeccanica SpA; i velivoli sono stati assegnati alle Tigri volanti del 102° squadrone dell’Aeronautica di stanza nella base aerea di Hatzerim per preparare i piloti alla guida dei cacciabombardieri di nuova generazione, ma sono stati utilizzati anche per attacchi al suolo con bombe e missili aria-terra o antinave. L’Aeronautica italiana ha ricambiato acquistando lo scorso anno in Israele due sofisticati velivoli spia CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) basati sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato da Elta Systems Ltd, società del gruppo IAI – Israel Aerospace Industries. Valore della commessa 550 milioni di dollari, con tanto di fornitura dei servizi di supporto e logistica a terra.
  Nel dicembre 2022 sono stati i vertici della Marina italiana ad ospitare una delle figure più rilevanti delle forze armate israeliane, il generale Itai Veruv, comandante degli istituti di formazione militare ma soprattutto capo delle Depth Forces, i corpi d’élite creati nel 2011 per operare in tempi rapidissimi  “in profondità in territorio nemico”, specie contro le milizie di Hamas e Hezbollah. Il generale Veruv si è recato in visita alle strutture della Brigata Marina “San Marco” e alla base navale di Brindisi. “Egli ha potuto osservare alcuni mezzi terrestri e anfibi impiegati dai Fucilieri, tra cui l’Amphibious Assault Vehicle (AAV-7) – veicolo cingolato anfibio in grado di navigare e muoversi su terra”, annota lo Stato Maggiore della Marina. “Al termine della visita, presso il Castello Federiciano di Brindisi, il generale Veruv, apprezzate le specificità e la versatilità della Forza Anfibia,  ha precisato l’evidente e reciproco interesse conoscitivo tra i Paesi e la volontà futura di poter programmare attività congiunte tra le Marine dei due paesi”.
  Ma sono soprattutto i manager del gruppo Leonardo a sperare in un fruttuoso esito della visita di Netanyahu in Italia. Dopo aver venduto alle forze armate israeliane elicotteri multiruolo AgustaWestland AW119, i caccia-addestratori M-346 “Master”, tecnologie di telecomunicazione, ecc., nell’ultimo biennio le relazioni della holding italiana con le aziende militari israeliane si sono fatte fittissime al punto che il 21 giugno 2022 la controllata statunitense Leonardo DRS con quartier generale ad Arlington, Virginia, ha firmato un accordo di fusione con RADA Electronic Industries Ltd., società con sede a Netanaya (a una trentina di km da Tel Aviv), specializzata nella produzione di radar tattici militari e software avanzati. Nello specifico DRS ha acquisito il 100% del capitale sociale di RADA in cambio dell’assegnazione del 19,5% delle proprie azioni ai titolari della società israeliana. Fondata nel 1970, RADA Electronic Industries Ltd. occupa più di 250 dipendenti e possiede anche un centro di ricerca nell’High-Tech Park di Beer’Sheva (Negev) e uno stabilimento nella città settentrionale di Beit She’an.
  Con la fusione il nuovo assetto societario Leonardo-Rada punta a ottenere importanti commesse dal Pentagono per l’arsenale delle forze terrestri USA. Inoltre si guarda con particolare attenzione alla crescente domanda internazionale di droni-kamikaze, i velivoli a pilotaggio remoto che si fanno esplodere dopo aver raggiunto l’obiettivo: i dirigenti di Leonardo DRS hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre 2022 un accordo con un’altra società israeliana, SpearUAV Ltd. (sede a Tel Aviv) per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica.
  Un mese fa l’ufficio stampa di Leonardo SpA ha infine reso noto di aver concluso due importanti accordi in Israele: il primo è stato stipulato con l’Israel Innovation Authority (IIA), un’agenzia pubblica indipendente che supporta tecnicamente e finanzia progetti innovativi promossi da start-up, aziende, multinazionali e università israeliane e internazionali; il secondo è stato siglato con Ramot – Technology Transfer Company per la “valorizzazione di attività di ricerca e della proprietà intellettuale dell’Università di Tel Aviv”, ateneo con oltre 16.000 ricercatori. “Le partnership, promosse da Leonardo e sostenute e coordinate dall’Ambasciata d’Italia in Israele, con il contributo dell’Ambasciata d’Israele in Italia e la Missione Economica d’Israele a Milano, mirano al potenziamento della cooperazione in materia di scouting e sviluppo di startup, facendo leva sull’esperienza e sul track record registrato dalla Start-up Nation, forte di oltre 7.000 start-up, circa 430 fondi di Venture Capital operanti nell’ecosistema dell’innovazione, 100 acceleratori e 37 incubatori attivi”, spiega la holding militare-industriale-finanziaria italiana. “Il dinamico e competitivo ecosistema israeliano delle start-up sviluppa soluzioni high-tech in molteplici settori, compresi quelli d’interesse strategico per il business di Leonardo, quali difesa, cybersicurezza, aeronautica, intelligence e spazio”.
  Le attività di sviluppo e ricerca delle start-up israeliane opereranno nell’ambito dell’acceleratore Business Innovation Factory (BIF), il programma di durata triennale avviato il 24 gennaio 2023 da Leonardo SpA in collaborazione con LVenture Group SpA, azienda di partecipazioni con sede a Roma  e controllata per il 13,6% dall’Università LUISS “Guido Carli”. Il Business Innovation Factory è indirizzato a sostenere una decina di start-up l’anno “in grado di ampliare l’offerta di servizi digitali e soluzioni innovative nei settori cyber security” di Leonardo.

(Pagine Esteri, 9 marzo 2023)

 
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Netanyahu, l'intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”

Inutili gli appelli di Netanyahu a non farsi giustizia da soli. L'intesa raggiunta nel vertice ad Aqaba per frenare gli insediamenti disconosciuta da membri dell'esecutivo. E il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge a favore della pena di morte per i terroristi.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Nella sede del governo di Israele, poco lontano dalla Knesset, l'ufficio del primo ministro è la "situation room" da dove si segue, attimo per attimo, ogni minima situazione di crisi. L'andirivieni continuo di consiglieri civili e assistenti militari descrive un ritmo frenetico di lavoro, anche nel giorno in cui quasi ovunque a Gerusalemme si festeggia Purim Shushan, ricordando il miracolo dello sterminio degli ebrei evitato nell'Antica Persia grazie alla regina Ester. Seduto a un grande tavolo di legno, con alle spalle i volumi del Talmud babilonese e quelli dell'Enciclopedia Judaica, Benjamin Netanyahu prepara il viaggio che oggi lo porta a Roma circondato da un Paese teatro della più grande protesta popolare che si ricordi. È la prima intervista che concede ad un giornale straniero dall'inizio delle manifestazioni - nove settimane fa - contro la sua riforma della giustizia. Netanyahu spiega a Repubblica che non si sente assediato perché "la democrazia israeliana dimostra di essere robusta e uscirà più forte da questa prova". Lascia intendere di non escludere un compromesso sulla riforma e rigetta l'accusa di essere sotto il ricatto dell'estrema destra. Arriva a Roma in cerca di accordi su innovazione, gas naturale e contro il nucleare iraniano. Ma la richiesta per la premier Giorgia Meloni a cui più tiene arriva con le ultime battute, somma diplomazia e storia: "È ora che Roma riconosca Gerusalemme, nostra capitale da tremila anni".

- Israele è attraversata dalla più grande protesta politica che si ricordi. Da nove settimane continuano le manifestazioni contro la riforma della giustizia, accusano lei e il suo governo di voler distruggere il sistema democratico. Cosa risponde?
  "Rispondo che queste proteste dimostrano quanto è solida la nostra democrazia".

- Perché andate avanti sulla riforma se l'opposizione popolare è così diffusa?
  "Perché nella popolazione è molto forte la richiesta di riequilibrare la bilancia dei poteri fra esecutivo, legislativo e giudiziario. Il problema nasce dal fatto che il potere giudiziario ha avuto un iperattivismo e ha poteri straordinari, che sbilanciano questo equilibrio. Dunque, bisogna intervenire con una riforma. Il potere giudiziario deve essere indipendente, non onnipotente. Questa è la sostanza del dibattito. Le proteste sono parte naturale di questo confronto ma credo che le supereremo".

- Cosa dice ai manifestanti che temono per le sorti dello Stato?
  "Che la democrazia non solo non è a rischio ma uscirà rafforzata da una riforma della giustizia che per una parte schiacciante della popolazione è necessaria".

- C'è una trattativa non dichiarata sulla riforma, potrà superare le forti differenze?
  "L'estensione e l'entità della riforma sono ancora tutte da determinare nelle prossime settimane".

- Fuori da qui c'è una parte del Paese in ebollizione, la accusano di violare i principi fondamentali dello Stato...
  "La democrazia è frutto del bilanciamento della volontà popolare con il risultato delle elezioni. Tutelare il diritto delle minoranze dunque è fondamentale. L'equilibrio dei poteri serve proprio a questo ma negli ultimi trenta anni in Israele è venuto meno per lo strapotere del giudiziario".

- Come si sente ad affrontare una nazione in tumulto?
  "Ricordo che quando varai le riforme economiche vi furono moltissime proteste. Allora si opponevano alla svolta in favore dell'economia di mercato. Specialmente i sindacati continuarono per mesi ma il risultato è stato che quelle riforme hanno generato un'economia molto solida. Anche perché portarono ad un nuovo rapporto fra governo e sindacati, che oggi cooperano assai meglio di quanto avveniva in precedenza".

- Lei è il primo ministro che più a lungo ha governato questo Paese e molti osservatori la ritengono un politico assai abile, ma in questo caso due suoi ministri, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, le rubano la scena con azioni e dichiarazioni infuocate che esaltano l'estremismo e preoccupano gli alleati. Non teme di essere intrappolato dalla stessa estrema destra grazie a cui ha vinto le elezioni?
  "Ben Gvir e Smotrich sono entrati nel Likud, non è avvenuto il contrario. La politica di sicurezza, la politica estera e molte scelte cruciali nella guida politica del governo sono affidate al Likud sotto la mia leadership".

- Fra le accuse più dure dei manifestanti, c'è il mancato rispetto delle minoranze.
  "Ci sono molte incomprensioni. Ad esempio, si accusa l'estrema destra di voler aggredire i diritti civili ed i diritti dei gay ma pochi sanno che dentro il Likud c'è una particolare sezione che si occupa di difendere i diritti delle comunità Lgbtq e che il capo di questa sezione, Amir Ohana, è stato eletto e poi scelto da me come presidente della Knesset (il Parlamento). Ed era stato in precedenza ministro della Giustizia. La realtà è che ci sono molti stereotipi contro questo governo. Siamo e resteremo fedeli ai diritti civili, ai diritti delle minoranze ed alla democrazia".

- Gli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 con Bahrein, Emirati, Sudan e Marocco, sono a rischio oppure possono crescere e coinvolgere anche l'Arabia Saudita?
  "Cresceranno. Per due motivi diversi. Il primo è la minaccia dell'Iran che tenta di dominare l'intera regione, distruggere lo Stato di Israele e rovesciare i leader di molti Stati arabi. Questi Stati vedono dunque che abbiamo un interesse strategico comune. In secondo luogo, vedono la nostra tecnologia, e innovazione, e ne colgono l'opportunità per l'intera regione. Ma soprattutto, gli Accordi di Abramo hanno rovesciato un approccio negoziale che ha tenuto banco in Medio Oriente per un quarto di secolo. Prima si diceva che la pace con i palestinesi avrebbe portato alla pace nella regione, ma questo non ha funzionato. E adesso seguiamo la strada opposta, sempre con lo stesso obiettivo della pace. Rinunciando a passare da Ramallah abbiamo siglato gli accordi con Bahrein, Emirati, Sudan e Marocco. Altri seguiranno. Con più Stati. Soprattutto se avremo anche l'adesione dell'Arabia Saudita. Ma questa deve essere una scelta saudita".

- A Riad ribattono che aderiranno solo a condizione che la pace con loro porti ad un accordo conclusivo fra Israele ed i palestinesi. È un obiettivo possibile?
  "Da Riad vi sono molte dichiarazioni ma credo, certo, che l'accordo di pace fra noi e i sauditi porterà all'accordo con i palestinesi a patto che accettino di riconoscere l'esistenza di Israele".

- Resta il fatto che la pace con i palestinesi non potrebbe essere più lontana. Le violenze nei Territori si moltiplicano e i vostri contatti con l'Autorità nazionale palestinese sono quasi inesistenti. La scelta degli Accordi di Abramo di lasciare i palestinesi per ultimi non si è rivelata un errore?
  "Il problema dei palestinesi è che restano imprigionati nel rifiuto di Israele come stato ebraico, a prescindere dai confini. Si opponevano prima della nascita dello Stato e si sono opposti dopo. Per questo rigettarono la partizione della Palestina nel 1947, per questo si batterono contro Israele quando Giudea e Samaria erano in mano ai giordani e sempre per questo l'Olp venne creata nel 1964, tre anni prima della guerra dei Sei Giorni. La Palestina che volevano liberare era Tel Aviv e Haifa. Questa fantasia di voler distruggere Israele, continuata anche dopo gli accordi di Oslo nel 1993, non finirà mai per scelta politica palestinese ma può dissolversi per effetto dei nostri accordi di pace con gli Stati arabi. E se scomparirà, avremo le condizioni realistiche per una pace con loro".

- Se il presidente palestinese Abu Mazen volesse trattare, lei sarebbe pronto?
  "Certamente sì, ma sono loro che non vogliono negoziare".

- Il direttore della Cia, William Burns, afferma che l'Iran ha bisogno di appena 12 giorni per iniziare ad arricchire l'uranio a fini militari. Come fermare Teheran?
  "L'Iran deve sapere che faremo ogni cosa in nostro possesso per evitare che diventi una nazione sulla soglia della potenza nucleare. Non c'è alcuna maniera di impedire a un regime canaglia di ottenere armi nucleari senza la credibile minaccia militare".

- Lei è in arrivo in Italia. Quali sono le priorità nelle relazioni con il nostro governo?
  "Anzitutto con l'Italia abbiamo relazioni molto solide ma vorrei vedere più collaborazione economica. Israele è una patria dell'innovazione e credo che reazioni più strette con le vostre aziende saranno positive per entrambi. E poi c'è il gas naturale: ne abbiamo molto e vorrei discutere di come farlo arrivare in Italia per sostenere la vostra crescita economica. Sul fronte strategico parleremo dell'Iran: dobbiamo impedire che raggiunga l'atomica perché con i suoi missili potrebbe raggiungere molti Paesi, anche in Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista dotato del nucleare. Inoltre, auspico un'accelerazione nel cambiamento di approccio dell'Italia alle votazioni all'Onu. Dal 2015 l'Italia ha votato all'Onu ben 89 volte contro di noi. È un fatto che stride con le ottime relazioni bilaterali. Invece di occuparsi di nazioni come Siria e Iran dove i diritti più elementari vengono violati, all'Onu si vota contro Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente. Infine, vorrei con l'Italia una partnership più stretta sulle politiche Ue".

- La premier Giorgia Meloni è leader di Fratelli d'Italia, un partito molto pro-Occidente, ma anche con le radici nel postfascismo. Quale approccio ha verso una forza politica europea di questo tipo?
  "Faccio attenzione al fatto se le persone che la compongono hanno imparato la lezione della Storia. Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito l'abbiano imparata, condannando chiaramente l'antisemitismo e l'antisionismo. Questo è fondamentale. Il pericolo che abbiamo oggi è la convergenza a cui assistiamo in Europa fra alcuni gruppi dell'estrema sinistra, che mossi dall'odio verso Israele si alleano perfino con i jihadisti dell'Islam radicale che disprezzano i diritti delle donne".

- Lei è fra i pochi leader ad avere un rapporto diretto con il presidente russo Putin. È pronto a svolgere un ruolo per avvicinare la fine della guerra in Ucraina?
  "Sono pronto a fare qualsiasi cosa per porre fine a questa carneficina. Se entrambe le parti decideranno che è arrivato il momento di cercare una mediazione e che potrei essere di aiuto, lo considererò. Ma, tragicamente, non credo sia ancora arrivato questo momento. Questa guerra andrà ancora avanti prima di veder sorgere questa opportunità".

- Perché restate in bilico fra Russia e Ucraina, da cosa dipende?
  "Israele è l'unico Paese i cui piloti volano sulle Alture del Golan a brevissima distanza dai jet russi in Siria. Perché dobbiamo prevenire gli aiuti militari iraniani agli Hezbollah. Abbiamo un evidente interesse a evitare un confronto con la Russia. Abbiamo anche centinaia di migliaia di ebrei che ancora vivono in Russia e non vogliamo che la loro immigrazione in Israele venga impedita. La nostra relazione con la Russia è molto complessa ma facciamo il possibile per aiutare gli ucraini e per far finire questo conflitto".

- Lei è un noto appassionato di storia antica, ebraica come romana. C'è una lezione di quel lontano passato che può esserci utile per affrontare le sfide di un XXI secolo che continua a sorprenderci?
  "La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti. La lezione che ci viene dal passato è che la superiorità morale non garantisce la sopravvivenza della nostra civilizzazione. L'Impero romano sopravvisse per secoli perché era il più forte, quando altri più forti sorsero, scomparve. Niente può garantire la longevità delle nazioni ma quello che possiamo fare è proteggere le nostre libertà, con la forza, il più a lungo possibile. Ma, a proposito di Storia, credo che anche il legame fra Roma e Gerusalemme abbia molto da dirci...".

- Pensa alla distruzione del Tempio da parte di Tito?
  "È stata sempre una relazione complessa. Da quando le legioni di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, dando vita alla Diaspora, fino a quando nel XIX secolo il giovane movimento sionista di Teodoro Herzl vide nel Risorgimento e in Garibaldi un esempio a cui ispirarsi per l'unificazione e la liberazione di un popolo intero. Proprio in ragione di questa tradizione così forte e antica fra Roma e Gerusalemme credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico, da ben tremila anni. Come hanno fatto gli Stati Uniti con un gesto di grande amicizia".

(la Repubblica, 9 marzo 2023)

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Israele: il governo apre alla proposta di riforma giudiziaria avanzata dall’ex ministro Friedmann

di Luca Spizzichino

La proposta di riforma giudiziaria avanzata martedì da diverse personalità pubbliche di spicco, tra cui l'ex ministro della Giustizia Daniel Friedmann e l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Giora Eiland, è stata accolta positivamente dal ministro Yariv Levin.
  Il compromesso, sviluppato da Friedmann con il preside dell’Ono Academic college multicultural campuses il Prof. Yuval Elbashan, l’ex consigliere Giora Eiland e l'imprenditore Giora Yaron, riformulerebbe il sistema di controlli ed equilibri per il comitato di selezione dei giudici, il controllo giurisdizionale, la clausola derogatoria, il criterio della ragionevolezza, l'emanazione delle leggi fondamentali e il ruolo dei consulenti legali del governo.
  Eiland, che è coautore di questo piano, ha esortato Levin e Rothman ad accettare “così com'è” e senza “modifiche manipolative”.

- In che cosa consiste la proposta di riforma di Friedmann?
  Per quanto riguarda il comitato di selezione dei giudici, l’ex ministro della Giustizia propone due opzioni per le nomine giudiziarie. La prima, comporterebbe la creazione di un comitato di 11 membri, con sei provenienti dal governo e dalla coalizione di maggioranza, due dall'opposizione e tre dalla magistratura. Per nominare un giudice della Corte Suprema sarebbe necessaria una maggioranza di otto membri su 11, il che significherebbe che nessun ramo del governo sarebbe in grado di effettuare nomine senza il contributo di un altro ramo.
  La seconda opzione di Friedmann invece, darebbe alla coalizione, all'opposizione e alla magistratura quattro rappresentanti ciascuno in un comitato di 12 membri, dove però i giudici sarebbero solo osservatori senza diritto di voto per le nomine della Corte Suprema.
  La nomina dei giudici alla Corte Suprema verrebbe fatta a coppie, con una carica occupata dalla scelta della coalizione e una dall'opposizione. Il presidente della Corte Suprema potrebbe porre il veto a una scelta della coalizione e dell'opposizione una volta per ogni mandato della Knesset, cioè fino a nuove elezioni. Mentre le nomine dei magistrati e per i tribunali distrettuali verrebbero effettuate a maggioranza di sette su 12 membri del comitato e richiederebbero il sostegno di due rappresentanti della coalizione, due dell'opposizione e tre giudici. La proposta di riforma del governo, invece, darebbe alla coalizione una maggioranza interna per nominare tutti i giudici, compresi quelli della Corte Suprema, senza il voto della magistratura o dell'opposizione.
  Per quanto riguarda il controllo giurisdizionale, Friedmann propone che la normale legislazione del governo può essere soggetta al controllo dell'Alta Corte, tuttavia la decisione di annullare una legge richiederebbe una maggioranza di tre quarti di un intero collegio giudiziario, composto da 15 giudici. Mentre secondo la riforma proposta da Levin, sarebbe necessario il consenso dell’80% del collegio.
  La proposta prevede anche una clausola derogatoria più limitata. La riforma del governo consentirebbe alla Knesset di annullare il controllo giurisdizionale con una maggioranza semplice di 61 voti e non consentirebbe alla corte di rivedere la legislazione fino a un anno dopo lo scioglimento della Knesset che ha attuato la legge. La proposta di Friedmann invece consentirebbe un override con 61 voti, che entrerebbe in vigore nella prossima Knesset, mentre con più di 65 voti, la clausola avrebbe effetto immediato. La legge non potrebbe essere rivista dal tribunale fino a cinque anni dall'entrata in vigore della legge.
  Per quanto riguarda invece le leggi fondamentali, queste non sarebbero soggette a revisione giudiziaria da parte dell'Alta Corte, come proposto dal governo, ma richiederebbero quattro letture della Knesset invece di tre e una maggioranza di 61 parlamentari in ogni lettura.
  Se una legge fondamentale o un emendamento raccoglie meno di 70 parlamentari, o comporta la modifica del sistema elettorale, la quarta lettura dovrebbe tenersi con l’elezione della nuova Knesset. Questi cambiamenti fornirebbero una certa protezione dall'abuso delle leggi fondamentali per fini politici o ideologici ristretti.
  Il piano Friedmann ridurrebbe anche l'uso dello strumento giudiziario del criterio di ragionevolezza per rivedere le decisioni del governo, ma non lo eliminerebbe del tutto come nella riforma di Levin. Secondo la nuova proposta, il test di ragionevolezza non potrebbe essere utilizzato per annullare le nomine governative o quelle fatte dalla Knesset, o sull'assegnazione di risorse governative.
  Anche per quanto riguarda l'istituto dei consulenti legali del governo, Friedmann propone alcune modifiche rispetto alla riforma del governo. Infatti, i consulenti rimarrebbero dipendenti pubblici professionisti e non incaricati politici scelti direttamente dal ministro della Giustizia. La loro opinione sulle decisioni legislative e amministrative non sarebbe vincolante per il ministro e il dipartimento governativo in questione, che potrebbe cercare un avvocato alternativo senza il consenso del procuratore generale nel caso in cui il consulente legale si opponesse alla posizione del ministro.

- Le reazioni al piano Friedmann
  "Questa è la prima proposta che esce fuori dagli schemi, ha buone indicazioni e il ministro Levin la metterà alla prova", ha affermato il portavoce del ministro della Giustizia secondo quanto riportato dal Jerusalem Post.
  Mentre dal governo c’è stata un’apertura al dialogo sulla base di questa proposta, dall’opposizione è arrivato un fermo rifiuto al piano di Friedmann. “Trovo solo difficile capire perché alcune persone lo definiscano un compromesso. È la stessa proposta mascherata per Purim”, ha twittato l’ex ministro della Giustizia Gideo Sa’ar, riferendosi alla festa celebrata martedì. Anche l'ex primo ministro Ehud Barak, e uno dei principali oppositori della revisione giudiziaria, ha fatto commenti simili. " Un cambio di regime in un costume per Purim", ha twittato. “Il piano Friedmann è nato con buone intenzioni, ma i suoi risultati sono una cortina fumogena. Il movimento di protesta e l'opposizione devono respingerlo”, ha proseguito Barak.

(Shalom, 9 marzo 2023)

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I riservisti d’Israele

A disertare contro Bibi anche l’unità 8200 e i piloti che varcano i confini

I“miluim”, i riservisti d’Israele, sono coloro che ricevono la “Chiamata 8”, il nome in codice della cartolina militare marrone che nessuno può ridare al postino. Braccia strappate quaranta giorni l’anno alla vita normale, perché s’infilino la tracolla degli M-16 e servano in Tsahal. Sono i volontari, fra 45 e 55 anni per i corpi combattenti, oltre i 55 per gli altri, la vera arma segreta dell’esercito israeliano, 500 mila persone, uomini e donne che si aggiungono ai 200 mila soldati di leva. Sono sempre stati decisivi nelle guerre d’Israele, come quando nel 1973 ci fu il famoso attacco concentrico della Guerra del Kippur, e solo quando le riserve riuscirono a essere mobilitate – nonostante la festa religiosa del digiuno – il paese reagì allo choc.
  Durante la Seconda Intifada, un manipolo di riservisti si rifiutò di servire, per ragioni pacifiste e filopalestinesi. Ora migliaia di loro rifiutano la chiamata per protestare contro la riforma della giustizia di Benjamin Netanyahu. Le unità interessate includono la famosa “divisione 8200” che si occupa di cyberintelligence e i cui laureati hanno contribuito a guidare l'industria tecnologica del paese, nonché unità di combattimento d’élite.    
  Scrive Ronen Bergman sul New York Times di essere “più preoccupato che siano coinvolti i piloti di riserva. Funzionari temono anche che possa essere chiesto loro di impegnarsi in operazioni illegali e che le restrizioni alla magistratura israeliana possano rafforzare le richieste straniere di perseguirli davanti alla Corte penale internazionale. I piloti di riserva spesso guidano i regolari attacchi aerei israeliani sulla Siria e sulla Striscia di Gaza e sarebbero coinvolti in qualsiasi attacco israeliano importante contro gli impianti nucleari in Iran”.
  Al di là di cosa si pensi di questa riforma, Israele non può permettersi di mettere in crisi questo grande serbatoio umano da cui dipende la sua difesa, gli “anziani” sempre pronti ad accorrere nei momenti di pericolo quando la patria lo richiede e grazie a cui la nazione dà sempre l’impressione di mobilitarsi contro i nemici.

Il Foglio, 9 marzo 2023)

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Med-Or approfondisce i rapporti Italia-Israele. L’accordo con Inss

Mentre Israele e Italia spingono sulle relazioni istituzionali con l’intento di rafforzare la partnership, Fondazione Med-Or sigla un accordo di cooperazione con l’Inss di Tel Aviv. Minniti: “Potremo lavorare assieme per approfondire questioni sempre più rilevanti per i nostri due Paesi, anche alla luce degli straordinari cambiamenti di cui la regione del Mediterraneo è oggetto”.

di Ferruccio Michelin

Una visita del presidente del Senato Ignazio La Russa a Gerusalemme appena conclusa; il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in arrivo a Roma per un pranzo di lavoro, venerdì, a Palazzo Chigi con Giorgia Meloni; il viaggio del ministro degli Esteri Antonio Tajani la prossima settimana. Israele e Italia vivono una fase di particolare vivacità nelle relazioni.
  La condivisione del grande dossier del Mediterraneo allargato, area in cui si muove la proiezione geopolitica sia italiana che israeliana, è uno dei punti di contatto maggiori. Un contesto particolarmente delicato, dove si sono innescate varie dinamiche di distensione – come quelle che hanno portato alla normalizzazione dei rapporti arabo-israeliani attraverso gli Accordi di Abramo. Mentre permangono situazioni di instabilità, tra cui la principale è la minaccia multi-dimensionale rappresentata dall’Iran.
  È in questo quadro che si muovono non solo le attività istituzionali, ma anche quelle di carattere culturale e accademico. Studi, collaborazioni e progetti condivisi per creare analisi da trasformare in policy. Un esempio è l’avvio della cooperazione tra Fondazione Med-Or e l’Institute for National Security Studies (Inss) di Tel Aviv. L’obiettivo della partnership è lo sviluppo di progetti di ricerca congiunti sulle questioni di geopolitica e di sicurezza nel Mediterraneo allargato.
  “Per la Fondazione l’avvio di questo rapporto di collaborazione con Inss è estremamente importante e ci rende particolarmente orgogliosi – ha commentato Marco Minniti, il presidente di Med-Or e avremo modo di sviluppare progetti comuni di ricerca e di cooperazione scientifica su tematiche e in settori strategici che sono al centro dei nostri programmi di lavoro. INSS è infatti una realtà importante a livello internazionale, soprattutto per le sue attività su temi come sicurezza e geopolitica, e potremo lavorare assieme per approfondire questioni sempre più rilevanti per i nostri due paesi, anche alla luce degli straordinari cambiamenti di cui la regione del Mediterraneo è oggetto e che vedranno anche nei prossimi anni Italia e Israele sempre più coinvolti”.
  Un punto di sovrapposizione tra le visioni dei due centri di analisi e ricerca riguarda le implicazioni della guerra in Ucraina nel Mediterraneo allargato, in particolare sulla situazione in Libano ed in Siria, anche alla luce degli sviluppi che appunto coinvolgono l’Iran – che sta assistendo la guerra russa fornendo droni killer a Mosca. Minniti in questi mesi ha più volte sottolineato come gli effetti della guerra scatenata da Vladimir Putin si sentiranno direttamente sul fronte meridionale dell’Europa e sul Mediterraneo allegato. E l’Italia con Israele ha un dialogo aperto sulle implicazioni della guerra quanto su quelle del ruolo – sempre più assertivo – che la Russia intende giocare nel bacino.
  Il memorandum, siglato nella giornata di martedì 7 marzo 2023 tra Fondazione Med-Or e Inss (rappresentata dal direttore esecutivo, il prof. Manuel Trajtenberg) è il primo accordo di tale genere tra un’entità italiana e una israeliana. L’Inss è un think tank indipendente e no profit, che grazie a una ricerca innovativa e dagli alti standard, e alla presenza di ricercatori provenienti dal mondo accademico e da quello della sicurezza e dell’intelligence israeliana, è ampiamente considerato tra i migliori centri di analisi sulla difesa e sicurezza nella regione mediorientale e a livello internazionale.
  L’accordo di collaborazione prevede l’organizzazione di eventi e seminari di approfondimento, in Italia e in Israele, su tematiche inerenti alla politica estera, di difesa e sicurezza; lo sviluppo di programmi di scambi tra ricercatori per acquisire nuove prospettive e conoscenze sulle rispettive regioni, il finanziamento di borse di studio (erogate da Med-Or) a studenti israeliani per corsi di master presso università italiane; l’istituzione di un dialogo “di lavoro” su base annua per discutere questioni di mutuo interesse, valutare lo status del partenariato, ed esplorare nuove prospettive di cooperazione.

(Formiche.net, 8 marzo 2023)

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Perché sarà il gas il piatto forte del vertice Meloni-Netanyahu

Roma e Tel Aviv, oltre ad essere potenziali punti cardinali sulla traiettoria del gasdotto EastMed, vantano una comunanza di strategie euroatlantiche e una proiezione comune circa la sicurezza dell’approvvigionamento energetici

di Francesco De Palo

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Tra i temi più pregnanti al centro del vertice di giovedì prossimo a Palazzo Chigi tra Giorgia Meloni e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ce n’è uno particolarmente denso alla voce geopolitica mediterranea: il gas. Non solo perché l’italiana Eni è protagonista indiscussa nel Mediterraneo Orientale e perché il governo si è posto come obiettivo primario un attivismo strategico, ma anche perché le dinamiche relative ai riverberi energetici della guerra in Ucraina hanno accelerato un trend di posizionamenti e iniziative politiche che, proprio nel Mare Nostrum, hanno un punto nevralgico.
  L’aspetto energetico futuro, dunque, andrà gioco-forza declinato sia in termini di sicurezza energetica alla luce delle nuove scoperte fatte anche dal cane a sei zampe, sia come progettazione legata alla decisione finale sul gasdotto EastMed.
  Della questione hanno recentemente discusso in simultanea due forum, a Washington e a Baku, del SE Europe & East Med Forum, in cui sono state approfondite tematiche come il raddoppio del Tap, che permetterà di aumentare flussi e consistenza, l’apporto come buone prassi dell’isola-hub greca di Revithoussa, le iniziative targate di Eni e Total nel Mediterraneo Orientale e le discussioni sull’opportunità di procedere o meno verso il gasdotto EastMed.
  Qui si inserisce il progetto del gasdotto lungo 1.900 chilometri che potrebbe collegare Israele alla Puglia e che, alla luce delle conseguenze della guerra russa in Ucraina, è prepotentemente rientrato sul tavolo della discussione tra governi: l’idea aveva preso forma nel 2015, anche grazie alla scoperta effettuata da Eni del giacimento Zohr, ma in seguito aveva subito uno stop dall’amministrazione Biden.
  Si tratta di un fazzoletto di acque molto peculiare, dal momento che è diventato centro gravitazionale del gas influendo, direttamente o indirettamente, su tutti i player che si affacciano sul Mare Nosrum. In primis notevoli progressi nella risoluzione delle controversie si sono registrati proprio sotto il comun denominatore delle nuove scoperte.
  Nel 2003 ci hanno pensato Egitto e Cipro a delimitare le loro zone economiche esclusive (ZEE), in seguito Nicosia, Beirut e Tel Aviv, sempre più pivot geopolitico dell’intera area, fino ad arrivare alla firma del 2020 tra Grecia ed Egitto e, più recentemente, a quella tra Israele e Libano dopo ben dodici anni di accese discussioni.
  Quest’ultimo passaggio è stato caldeggiato dal mediatore americano Amos Hochstein che ha dialogato tra il Libano e la squadra negoziale israeliana guidata dal capo del Consiglio di sicurezza nazionale Eyal Hulata, il direttore generale del ministero dell’Energia Lior Schillat e il direttore generale del ministero degli Esteri Alon Ushpiz. Il risultato finale è stato quello di avere la possibilità di una maggiore libertà nella produzione di gas nel Mediterraneo, proprio grazie a tale intesa storica. Più in generale Israele si è posto l’obiettivo di essere regista indiscusso.
  Una tendenza questa che ancora di più dimostra come sul dossier energetico si stia coagulando una nuova ed interessante rete di relazioni politiche che vede i due poli geograficamente più lontani, Israele ed Italia, come potenziali punti cardinali: “alfa e omega”, non solo sulla traiettoria fisica immaginata, illo tempore, per il gasdotto EastMed, quanto sulla comunanza di strategie euroatlantiche da un lato e proiettate alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico dall’altro.

(Formiche.net, 8 marzo 2023)

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Nuovo raid a Jenin, uccisi sei militanti palestinesi

Tra loro l'affiliato di Hamas che secondo le forze di sicurezza israeliane è il responsabile dell'attentato in cui hanno perso la vita due fratelli la settimana scorsa.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Sei palestinesi uccisi e 16 feriti in un'operazione israeliana antiterrorismo a Jenin. Tra loro, il quarantanovenne Abd al-Fateh Harusha, l'affiliato di Hamas che secondo le forze di sicurezza israeliane è il responsabile dell'attentato in cui hanno perso la vita due fratelli ventenni la settimana scorsa.
  "Abbiamo eliminato lo spregevole terrorista che ha ucciso a sangue freddo i fratelli Hallel e Yagel Yaniv", ha commentato il premier Netanyahu. "Lo prometto: chiunque ci faccia del male sarà responsabile del proprio destino".
  Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana i militari avrebbero circondato e attaccato in pieno giorno l'edificio dove si nascondeva l'uomo e durante l'operazione si è sviluppato uno scontro a fuoco in cui sono rimasti feriti in modo lieve anche tre ufficiali. Nel frattempo, le truppe israeliane hanno condotto un'azione parallela a Nablus arrestando i due figli di Harusha, Khaled e Muhammad, accusati di essere complici del padre.
  L'agenzia ufficiale palestinese Wafa ha identificato le altre vittime del blitz come Mohammad Wael Ghazawi, Majd Mohammad Huseinieh (entrambi di 26 anni), Tareq Ziad Natour (27 anni), Ziad Amin Zareini (29 anni), e Mutasem Nasser Sabbagh (22 anni).
  Il raid di Jenin è stato condannato dall'Autorità nazionale palestinese, con il portavoce di Abu Mazen che ha accusato Israele di "rendere vani tutti gli sforzi regionali e internazionali". "Le uccisioni quotidiane compiute dalle forze di occupazione israeliane contro il popolo palestinese, l'ultima delle quali è avvenuta oggi nel campo profughi di Jenin, e il bombardamento delle case con razzi e proiettili esplosivi, rappresentano una guerra totale e distruggono tutto", ha dichiarato il vice primo ministro dell'Anp Nabil Abu Rudeineh.
  Hallel e Yagel Yaniv erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco il 26 febbraio mentre viaggiavano sulla propria auto in Cisgiordania attraverso la cittadina palestinese di Huwara. A poche ore dalla loro morte centinaia di abitanti degli insediamenti israeliani della zona si sono ritrovati a Huwara e dintorni mettendo l'area a ferro e fuoco.
  Da allora le tensioni non si sono mai placate. Lunedì quattro palestinesi, compresa una bambina, sono stati feriti nel corso di un nuovo attacco condotto da civili israeliani con mazze e pietre contro auto e negozi, con un gruppo di abitanti degli insediamenti che ha a sua volta sostenuto di essere stato preso a sassate da una cinquantina di palestinesi. Mentre un video che mostra alcuni soldati ballare con dei civili nel mezzo di Huwara ha indotto l'esercito ad aprire un'inchiesta

(la Repubblica, 8 marzo 2023)

 
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Eliminato in un’operazione a Jenin il terrorista sospettato di essere l’assassino dei fratelli Yaniv

di Luca Spizzichino

Con un’operazione congiunta nel cuore di Jenin, l’esercito israeliano, lo Shin Bet e la polizia di frontiera hanno trovato e ucciso durante uno scontro a fuoco il terrorista Abdel Fattah Hussein Kharousha, sospettato di essere l’assassino dei due fratelli israeliani, Hallel e Yagel Yaniv, lo scorso 26 febbraio. Durante il raid tre agenti dell'Unità antiterrorismo della polizia (YAMAM), sono stati feriti, di cui uno moderatamente.
  Lo Shin Bet ha dichiarato che il 49enne era un membro di Hamas del campo profughi di Askar vicino a Nablus. Il terrorista, secondo quanto emerso dalle indagini, sarebbe stato aiutato dai suoi figli nella pianificazione e la realizzazione dell'attacco a Huwara. I due sono stati arrestati in mattinata dall’IDF.
  Nell’operazione a Jenin secondo quanto riferiscono i funzionari palestinesi almeno sei persone sono state uccise nei combattimenti e altre 12 sono rimaste ferite. Non è stato immediatamente chiaro se tutti fossero coinvolti nello scontro a fuoco, ma l’esercito e la polizia hanno affermato che le forze sono state sottoposte a "massicci colpi di arma da fuoco" da un certo numero di uomini armati palestinesi che avrebbero sparato contro le forze da un'ambulanza. Inoltre l’'ala locale della Jihad islamica palestinese ha dichiarato che i suoi membri hanno aperto il fuoco e anche lanciato esplosivi contro le forze israeliane a Jenin.
  Nel pomeriggio di ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha elogiato le forze di sicurezza dopo l'operazione. "I soldati dell'IDF, dello Shin Bet e dello YAMAM hanno eliminato oggi l'abominevole terrorista che ha ucciso a sangue freddo i due fratelli Hallel e Yagel Yaniv. - ha dichiarato attraverso un video messaggio - I nostri valorosi guerrieri hanno operato chirurgicamente nel cuore della tana degli assassini. Li lodo e mando auguri di guarigione ai tre feriti. Come ripeto più e più volte: chiunque ci ferisce, il suo sangue è sulla sua testa”.
  In reazione all'uccisione del terrorista Huwara, anche il presidente del Consiglio regionale della Samaria Yossi Dagan ha commentato la notizia. “Ho parlato con i comandanti e mi sono congratulato con loro e attraverso di loro i nostri coraggiosi guerrieri, che in pieno giorno, durante Purim, hanno eliminato, nel cuore di Jenin, il terrorista che ha ucciso Hallel e Yagel Yaniv a sangue freddo".

(Shalom, 8 marzo 2023)

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Suonano le sirene nel sud di Israele dopo il lancio di un razzo da Gaza

Lo rende noto un comunicato delle Forze di difesa israeliane (Idf), diffuso dal quotidiano “Jerusalem Post”

Le sirene di allarme anti-razzo sono suonate oggi vicino alla città meridionale di Sderot, in Israele, e in altre località vicino al confine con la Striscia di Gaza dopo il lancio di un razzo dall’enclave palestinese. Lo rende noto un comunicato delle Forze di difesa israeliane (Idf), diffuso dal quotidiano “Jerusalem Post”. Secondo quanto riferito dalle Idf, il razzo sarebbe caduto all’interno della Striscia di Gaza. Ieri sei palestinesi sono rimasti uccisi e almeno 10 feriti in seguito a un’operazione condotta dalle Idf nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Tra le vittime ci sarebbe il responsabile dell’omicidio di Hallel e Yagel Yaniv, due fratelli residenti nell’insediamento di Har Bracha, a pochi chilometri da Nablus, uccisi lo scorso 27 febbraio a Huwara.

(Nova News, 8 marzo 2023)

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Elogio di Ester, donna simbolo del coraggio

In coincidenza con l’8 marzo, e nei giorni della festa di Purim ispirata a lei, ricordiamo la regina ebrea  che nella Bibbia salva il suo popolo dal genocidio. 

di Scialom Bahbout

In questi giorni in tutto il mondo ebraico viene festeggiato Purim, una specie di carnevale ebraico, che ricorda il primo tentativo fallito di "soluzione finale" programmato dal governo dell'Impero di Persia 2.400 anni fa. Gli ebrei più di una volta si sono dovuti nascondere o mascherare assumendo altri panni graditi al nemico: Purim significa sorti: un cambiamento di destino, un passaggio dalla morte alla vita, che può essere conseguito solo assumendo decisioni difficili, perché dense di pericoli, ma che si rivelano lungimiranti.
  Vediamo come leggerebbe la storia di Ester Anton Pavlovi Cechov, uno dei protagonisti della letteratura del XIX secolo. Scrive Cechov: "Se nella storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà": i personaggi, i conflitti, gli ambienti, le informazioni, inseriti nel racconto devono avere una funzione e non essere superflui. Analizziamo la storia narrata nel libro biblico di Ester alla luce di questo principio: se nella scrittura viene presentato un qualsiasi elemento (come appunto una pistola), questo a un certo punto deve trovare una ragion d'essere (nel caso della pistola, appunto, sparare). Non si tratta di una regola valida solamente per gli oggetti, ma anche per i soggetti e gli eventi narrati. Proprio all'inizio della storia vengono narrati due episodi: il rifiuto di Vashti, moglie del Re di mostrarsi in tutta la propria bellezza di fronte ai principi delle nazioni, e soprattutto il tentativo di colpo di stato perpetrato da due dignitari, Bigtàn e Tèrsh, che viene scoperto dall'ebreo Mordekhài, mentre si trovava alla porta del Palazzo reale. Questi episodi, e in particolare il secondo che sembra del tutto casuale, appare del tutto estraneo alla storia. Ancora più strano che la regina Ester, appena scelta dopo l'eliminazione di Vashtì, regina ribelle femminista ante-litteram, non si sia attribuita il merito della scoperta, ma che lo abbia riferito a nome di Mordekhài. 
  Nello sviluppo della storia scopriamo che, quando viene emesso l'edito per l'eliminazione di tutti gli ebrei del regno persiano, la Regina Ester decide di svelare la sua identità: infatti, pur essendo ebrea avrebbe potuto salvarsi perché aveva vissuto nella reggia, "mascherata" come prima marrana della storia. Presentandosi al Re, rivelando la propria identità rischia la morte, contravvenendo al protocollo che proibiva di presentarsi al re, senza un esplicito invito. Le sorti cambiano per un intreccio di diversi fattori: il verificarsi "casuale" dell'insonnia del Re, che nella lettura delle propria agenda scopre che a Mordechài, che lo aveva salvato dalla morte, non era stata data alcuna onorificenza; la contemporanea visita al Re del ministro Hamàn, artefice del progetto di "soluzione finale", venuto dal Re per chiedere l'impiccagione di Mordekhài, e infine costretto dal Re a onorare l'odiato ebreo Mordekhài per le vie della capitale Susa; la decisione cosciente di Ester di andare dal Re per invitarlo a un banchetto, assieme al ministro Hamàn, per perorare la causa del suo popolo. 
  Durante il banchetto, in un quadro veramente esilarante, Hamàn steso sul letto della regina per chiedere pietà, viene apostrofato dal re, che pensa che il ministro voglia conquistare le "grazie" della Regina. A questo punto le sorti vengono capovolte: Hamàn verrà impiccato e Mordekhài ne assumerà il ruolo e salverà gli ebrei dall'eliminazione.
  Mordekhài sembra il regista di tutta la vicenda: lui suggerisce a Ester di candidarsi al ruolo di Regina e le suggerisce di non manifestare all'inizio la sua provenienza, ma la vera protagonista della storia è una donna, e proprio per questo il libro prende il nome di Rotolo di Ester, ma non di Mordekhài. Il senso generale di questa storia è che se da una parte vi sono alcune cose che sembrano essere dettate dal caso, dall'altra la storia assume una diversa strada per una precisa scelta fatta da Ester. La decisione di Ester di rischiare la vita andando in visita al Re, così come quella di rivelare il complotto a nome di Mordekhài, hanno creato le premesse per la decisione del Re di onorare Mordekhài. Su quest'ultimo dettaglio i Maestri d'Israele scrivono: "Chi riporta una cosa a nome di chi l'ha detta porta la redenzione - la liberazione - nel Mondo". La "pistola di Cechov" che sembrava fuori dal contesto ha infine sparato. 
  Può essere interessante analizzare questa storia in parallelo con quella di Ruth, un'altra donna, protagonista di un libro biblico, a lei dedicato, progenitrice del re Davide: sono le loro scelte il vero motore della Storia e gli uomini sono soltanto degli spettatori, spesso incapaci di fare le scelte giuste al momento giusto. Perfino Mordekhài ha il sospetto che la salita al trono di Ester non sia stata dovuta al caso, ma a un progetto superiore che gli sfugge. Vi sono eventi che sembrano casuali, ma che in verità devono essere visti come "opportunità", che l'uomo è chiamato a utilizzare per fare le proprie scelte ogni giorno. 
  Chi legge la Bibbia con attenzione, scoprirà che spesso le decisioni più innovative e coraggiose sono prese proprio dalle donne.

(la Repubblica, 8 marzo 2023)

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Rabbino Ventura a Catania: la Torah, la Cabala e la Ghematria

Il rabbino Gilberto Ventura, accompagnato dalla sua meravigliosa moglie Jacqueline, è stato invitato ad assumere l’incarico di rabbino capo della città di Catania a nome della Comunità ebraica locale e di tutti coloro, discendenti e non, che hanno il desiderio di saperne di più sull’ebraismo, sia in termini di conversione (ritorno), sia semplicemente per apprendere e arricchire la propria cultura storica e spirituale. I video riguardano la parola creatrice e la ghematria ovvero la scienza dei numeri sulle parole della Torah.

(Sicilia Report, 6 marzo 2023)

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Raid israeliano contro l'aeroporto di Aleppo: lo scalo siriano fuori uso per danni

Nell'ultimo mese l'aeroporto è stato utilizzato da decine di aerei carichi di aiuti umanitari dopo il devastante terremoto tra Turchia e Siria

La notte scorsa un attacco aereo israeliano ha preso di mira l'aeroporto di Aleppo, nel nord della Siria, mettendolo fuori servizio. Lo ha reso noto il ministero della Difesa siriano. 
  "Esattamente alle 2:07, il nemico israeliano ha effettuato un attacco aereo dal Mediterraneo, a ovest di Latakia, e ha preso di mira l'aeroporto internazionale di Aleppo", ha dichiarato il ministero in un comunicato. L'attacco, ha aggiunto, ha danneggiato la pista e messo fuori servizio l'aeroporto.
  Aleppo è stata duramente colpita dal terremoto che il 6 febbraio ha devastato diverse regioni della Siria e della vicina Turchia. Nell'ultimo mese il suo aeroporto è stato utilizzato da oltre 80 aerei carichi di aiuti umanitari, ha detto il funzionario del ministero dei trasporti siriano Suleiman Khalil. "Non è più possibile ricevere aerei di soccorso finché i danni non saranno riparati", ha aggiunto.

(RaiNews, 7 marzo 2023)

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L'Hadassah Medical Center di Gerusalemme nella classifica dei migliori ospedali al mondo

di Jacqueline Sermoneta

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L’Hadassah Medical Center di Gerusalemme è stato inserito nel ranking dei migliori ospedali al mondo specializzati in oncologia, e, per il quinto anno consecutivo, anche fra le eccellenze in cardiologia e tecnologia ‘intelligente’. A stilare la classifica è il prestigioso magazine statunitense ‘Newsweek’, in collaborazione con Statista Inc., una delle principali società di indagini globali.
  Le classifiche sono apparse nel ‘World’s Best Hospitals 2023’, sulla base della valutazione di 300 strutture sanitarie in 28 nazioni, esaminate attraverso interviste ad oltre 20.000 professionisti in ambito sanitario (medici, dirigenti e specialisti) e verificate da un autorevole board internazionale di esperti del settore.
  Nella top list sono elencati centri medici americani di rilevanza internazionale come la Mayo Clinic, la Cleveland Clinic, il Mount Sinai Hospital di New York e il Johns Hopkins Hospital.
  "L’ospedale Hadassah ha guadagnato fama mondiale grazie alla sua ricerca innovativa e alle cure mediche avanzate. – ha affermato il direttore generale, Yoram Weiss - Sono felice di vedere che, per il quinto anno consecutivo, siamo stati riconosciuti per la qualità impareggiabile dei nostri team nei settori dell'oncologia, della cardiologia e in qualità di ospedale "intelligente" per l’utilizzo delle tecnologie più avanzate".
  "L’ospedale si è sempre distinto al meglio nell'assistenza medica. – ha detto Rhoda Smolow, presidente nazionale di Hadassah - Siamo orgogliosi di ricevere questo riconoscimento per l'eccezionale lavoro del centro".

(Shalom, 7 marzo 2023)
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10 startup israeliane che stanno cambiando le regole del cibo

Domina il trend della carne senza carne, ma vanno forte anche le startup che usano i dati per ottimizzare la logistica, la filiera e l’efficienza della ristorazione. Abbiamo messo insieme alcuni esempi di iniziative innovative che stanno crescendo nell’area di Tel Aviv.

di Gianluca Dotti

TEL AVIV – Guardare all’ecosistema delle startup israeliane significa, per molti versi, fare un tuffo verso un futuro probabile (e non solo possibile) che riguarda i trend su scala globale in termini di tecnologia e innovazione. In particolare nel comparto del cibo e della ristorazione, dove l’Italia vanta una indiscutibile tradizione e qualità, gli esempi che arrivano da Israele possono fare da stimolo e da opportunità di sviluppo, non solo in termini di business ma anche di sostenibilità di sistema, e non sono rari quelli che appaiono decisamente disruptive rispetto all’esistente.
  Durante il Tel Aviv Innovation Tour del 21-23 febbraio a cui Wired ha preso parte, ne abbiamo approfittato per conoscere più da vicino 10 delle oltre 600 startup del comparto food al momento in attività in Israele. Al di là delle singole iniziative imprenditoriali, di cui alcune con un valore già superiore ai 100 milioni di dollari, ci sono alcuni trend che emergono evidenti.
  Anzitutto, nell’ambito dell’innovazione alimentare in termini di cibi e ingredienti domina nettamente il tema delle alternative alla carne e dei prodotti che imitano la carne, a enfatizzare come in questo momento sia senza dubbio questo il business che ha più ampi margini, spinto soprattutto dalle necessità di sostenibilità e da una sensibilità collettiva sempre più attenta a contenere il consumo di derivati animali.
  L’altro grande filone, declinato con applicazioni e soluzioni software piuttosto varie, è l’uso dei dati per efficientare i vari anelli della catena della ristorazione, spaziando dalla geolocalizzazione alla riduzione degli sprechi, dalla gestione delle flotte alla digitalizzazione avanzata dei menù e dei sistemi per ordinare e pagare. Un ambito in cui opera anche lo spinoff italiano focalizzato sull'ottimizzazione di menù, ricavi ed esperienza del cliente Resmart (recentemente accelerato proprio a Tel Aviv attraverso il programma di cooperazione R&D italo-israeliana Accelerate in Israel), costola per catene di ristoranti della startup Maiora Solutions che insieme al think tank Appetite for Disruption ha organizzato il Tel Aviv Innovation Tour stesso. Ecco allora le storie delle 10 startup che ci hanno colpito di più.

1. Redefine Meat
  Al primo posto di questa rassegna anzitutto per avere già raccolto finanziamenti oltre i 150 milioni di dollari, Redefine Meat lavora alla produzione di carne senza carne con l’obiettivo di riprodurne fedelmente tutte le caratteristiche di gusto, consistenza ed esperienza di consumo. L’abbiamo assaggiata nella sede centrale dell’azienda, nel quartiere di Rehovot, e non si può che constatare che il mix di (numerosissimi) ingredienti studiati in laboratori d’avanguardia e combinati con la massima precisione renda la carne ridefinita sostanzialmente indistinguibile da quella animale. La tecnologia consente di spaziare dal macinato ai wurstel, dal kebab alla bistecca, stampando in 3d quando necessario e aggiungendo una sofisticata riproduzione del sangue. La sofisticatissima macchina che combina le sostanze per ottenere il taglio di carne desiderato (venature di simil-grasso incluse) è in fase di sviluppo per arrivare a creare migliaia di chilogrammi di prodotto ogni ora.

2. Tabit
  Sostanziale dominatrice del mercato di Tel Aviv con oltre 2mila ristoranti della città che hanno già adottato la soluzione proprietaria, questa startup ha sviluppato un sistema per gestire l’ordine al tavolo (o da remoto) e il pagamento. A livello hardware tutto si basa su un classico tablet, ma il punto di forza della soluzione di Tabit è la possibilità di trasformare il rapporto tra il cliente e il ristorante in un processo a tutti gli effetti data driven, peraltro con le informazioni gestite in cloud.

3. Rilbite
  Non ambisce a riprodurre fedelmente la carne, bensì a proporne un’alternativa che ne richiama l’esperienza di consumo realizzata con un numero minimo di ingredienti (attualmente cinque, di cui uno è l’acqua). Oggi ancora considerabile in fase di sviluppo - è stata incubata dall’acceleratore israeliano The Kitchen Hub, oggi è già commercializzata in alcuni ristoranti francesi - Rilbite guarda alla qualità della materia prima, alla sostenibilità e al bilanciamento nutrizionale e organolettico più che al gusto in sé. E per i consumatori che ambiscono a ridurre ma non ad azzerare il consumo di carne, propone una formulazione di hamburger in cui il 50% della materia è costituita da legumi e il 50% da carne, che ovviamente anche a livello di sapore si avvicina molto a quello classico.

4. Kinoko
  Ulteriore proposta che può rientrare nelle alternative alla carne (l’ultima, per questa rassegna), Kinoko propone un fermentato costituito da lenticchie e quinoa combinato con un fungo che in 4 giorni di crescita ne riduce del 30% il contenuto di carboidrati e aumenta del 35% quello di proteine. L’azienda - fondata da tre scienziate - lo definisce un superfood, dall’alto valore nutrizionale, sostenibile e a basso apporto calorico (110 chilocalorie per 100 grammi di prodotto). Anche se può essere modellato in diverse forme per somigliare ai classici lavorati della carne, di fatto non ci si avvicina troppo come esperienza di masticazione, infatti più che un sostituto della carne si presenta come un cibo del tutto nuovo.

5. PlaceSense
  Azienda focalizzata sulla location intelligence già operativa anche in Italia, PlaceSense raccoglie dati geolocalizzati e li aggrega per ottenere insight demografici su chi frequenta un ristorante o un punto vendita. Il punto di forza della soluzione è la precisione (la risoluzione è di appena 3 metri), con la possibilità di distinguere anche ristoranti adiacenti di uno stesso centro commerciale e di capire – per esempio – da quale area della città proviene la clientela presente in uno specifico istante.

6. Dishare
  Attualmente allo stato pre-seed e fondata da un team israelo-statunitense, Dishare è un’app che mira a semplificare la fase di ordinazione al ristorante (che mediamente richiede da 15 ai 20 minuti di tempo, soprattutto se al tavolo ci sono più persone) suggerendo i piatti più in linea con i propri gusti e quelli più apprezzati dagli avventori che hanno un profilo simile al proprio. Integra la possibilità di personalizzare il profilo anche sulla base di specifici regimi alimentari, dal vegano alla celiachia, e una volta eventualmente raggiunta la massa critica di utenti ambisce a essere una sorta di Spotify o di Netflix dei ristoranti.

7. Bringoz
  Propone una piattaforma che potenzia e rende più veloce ed efficace un servizio commerciale, incluso il settore food ma più in generale anche nella moda o per i prodotti farmaceutici. Già presente sul mercato in Europa (Danimarca), Nordamerica e America Latina, Bringoz si concentra anzitutto sulla parte di delivery che è tanto cara al comparto food tech retail, richiedendo per il singolo corriere la sola installazione di un’app sostitutiva rispetto a quella in uso.

8. Supplyve
  Una soluzione software per gestire l’inventario dei prodotti alimentari, con la possibilità di digitalizzare le bolle di consegna e le fatture cartacee in tempo reale. Fotografando il documento, le informazioni contenute all’interno vengono automaticamente caricate nel database Supplyve, con un sistema aggiuntivo di segnalazione per i dati che potrebbero essere stati letti in modo erroneo e di eventuali incongruenze (per esempio, una quantità che risulta nulla o negativa).

9. Sendi.io
  Con un sistema di management della flotta dei corrieri per i servizi di delivery, Sendi.io si occupa dell’ultimo miglio della consegna aggregando i dati e la disponibilità dei diversi servizi disponibili sul territorio. In pratica, una soluzione che massimizza l’efficienza delle consegne orientando il ristorante che evade l’ordine sull’uno o l’altro servizio, sulla base della disponibilità del momento.

10. Heila Systems
  Ha sviluppato un sistema unificato di management per la supply chain dei ristoranti, con una visione panoramica su tutti gli anelli della catena e la possibilità di lavorare ulteriormente sui dati raccolti e salvati in cloud. La peculiarità più interessante di Heila Systems è la joint venture siglata con Domino’s Pizza Israel, primo grande banco di prova della tecnologia.

(WIRED, 7 marzo 2023)

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Spiegare l’ebraismo con ironia – David Parenzo approda a teatro con “EBREO!”

di David Di Segni

David Parenzo, giornalista professionista e conduttore radiofonico, approda il 7 marzo sul palco del teatro Il Parioli con la prima di “EBREO!”, lo spettacolo irriverente ed umoristico che si propone di spiegare il significato dell’esser ebrei. Con la regia di Alberto Ferrari, l’opera vedrà la partecipazione di ospiti speciali come Enrico Mentana, Vittorio Sgarbi, Ale e Franz, Paolo Ruffini ed anche della giornalista e sopravvissuta alla Shoah, Edith Bruck. Hatikwa ha intervistato Parenzo per saperne di più.

- David Parenzo, qual è il tema della sceneggiatura?
  “Lo spettacolo consiste in un monologo che accompagna lo spettatore in un viaggio immersivo nelle tradizioni, festività e nei precetti dell’ebraismo per comprendere cosa significhi essere ebrei. L’obiettivo è tentare di spiegare un tema così complesso attraverso l’ironia, su un modello ispirato al meccanismo narrativo del gruppo inglese Monty Python. La storia ebraica è molto lunga e complessa, e non era possibile riassumere da Adamo ed Eva fino alla fondazione dello Stato di Israele. Perciò tutto è incentrato sul comprendere cosa significhi vivere una vita ebraica, sebbene comunque lo spettacolo abbia una parte molto importante riguardo la Shoah, che vedrà la partecipazione di Edith Bruck.

- Come nasce l’idea?
  Tutto nasce otto anni fa. Assieme a mia moglie ed al mio amico Valdo Gamberutti, anch’esso autore dello spettacolo, ero a Strasburgo e Bruxelles per girare la serie “Grande Europa” per il Corriere della Sera. Essendo Pesach, mentre tutti uscivano a mangiare, io e mia moglie rimanevamo in camera a mangiare riso con la Matzà. Questo aveva destato la curiosità della troupe, e perciò ho cominciato a raccontare loro significato e precetti della festa in maniera scherzosa. Valdo ne rimase entusiasta, mi propose di scriverne il testo per una sceneggiatura. Per un po’ il progetto è rimasto nel cassetto, poi l’abbiamo ripreso ed ora è finalmente a teatro.

- Raccontare l’ebraismo è difficile, farlo con ironia ancor di più. In che modo si fa?
  I miei maestri di Torah mi hanno sempre detto che non esistono domande scabrose né stupide, perché nella Torah c’è tutto e dunque si può chiedere ogni cosa. L’ironia mi appartiene per definizione ed è anche uno strumento con cui è possibile raccontare, in maniera diversa, al pubblico. L’umorismo ebraico, poi, è famoso in tutto il mondo, perché non consiste nella risata fine a sé stessa, ma nel motto di spirito che ti lascia sempre qualcosa. Spero di essere riuscito nell’intento di unire le due cose.

Lo spettacolo

(UGEI, 7 marzo 2023)

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Or Lamishpachot, il saluto in Tempio

“Il vostro dolore è anche il nostro”

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ROMA - Centinaia di persone hanno accolto ieri [5 mar] a Roma, nel Tempio Maggiore, i genitori di “Or Lamishpachot”. L’associazione israeliana che raggruppa genitori che hanno perso i figli in guerra o in attentati è ormai di casa nella Capitale: una presenza fissa, ogni anno, nell’occasione del Purim. Una consuetudine interrotta dal Covid e ora ripristinata, in questi giorni, con molte occasioni d’incontro intorno alla festa ebraica che celebra il ribaltamento delle sorti.
  “Siamo onorati e commossi nell’accogliervi, nel portarvi il calore e l’affetto di tutti gli ebrei romani. Non ci sono parole per esprimere il dolore che provate, quello che noi possiamo fare è trasmettervi tuto l’amore possibile. Ci siete mancati”, il saluto della presidente della Comunità ebraica Ruth Dureghello in sinagoga.
  Numerose le famiglie presenti (tra cui una di etnia drusa), accolte tra gli altri anche dal rabbino capo rav Riccardo Di Segni e dall’ex presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici. “Su una cosa non abbiamo mai avuto dubbi: la scelta di Purim, che ci ricorda come Amalek si combatta con forza e fede. La risposta di questa Comunità è sempre stata fantastica”, ha tra l’altro affermato Pacifici.
  Toccante la testimonianza di Uri, uno dei genitori intervenuti, che tra guerra e attentati ha perso tre figli. “Siamo qui in rappresentanza di famiglie che hanno perso figli, speranza, futuro. Siamo come in un buco nero, una situazione molto difficile. Questa associazione ci ha aiutati a uscirne, regalandoci dei momenti di gioia e spensieratezza. Sentire voi che cantate ci dà ulteriore speranza” la sua gratitudine nel rivolgersi ai bambini che avevano festeggiato il loro ingresso in Tempio con alcuni canti di benvenuto.
  A prendere la parola anche Joseph Taché, padre del piccolo Stefano ucciso nell’attentato palestinese del 9 ottobre 1982. Oltre a Joseph, un giovane ebreo romano che sta svolgendo in questi mesi il servizio militare in Israele.
  Quattro le giornate che vedranno Or Lamishpachot a Roma. Nell’ultima troveranno dimora, nel giardino della casa di riposo, un nuovo albero e una nuova targa commemorativa.

(moked, 6_ marzo 2023)

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Il declino dell’impero americano. E gli ebrei hanno di nuovo paura

Stati Uniti: la crescita dell’antisemitismo. Dagli uffici ai campus universitari, dai club frequentati dai suprematisti bianchi fino ai salotti buoni dell’intellighentzia wasp. Negli Stati Uniti i pregiudizi contro gli ebrei stanno raggiungendo il livello di guardia, il record degli ultimi decenni. Un fenomeno fuori controllo. Mascherato da antisionismo, l’odio antiebraico diventa più violento nei toni e nei fatti. Così, nei college accademici, anche studenti e professori ebrei si sentono in pericolo. E l’America non è più un porto sicuro.

di Francesco Paolo La Bionda

Un uomo incappucciato nel cuore della notte lancia una bottiglia molotov contro una sinagoga. Un gruppo di miliziani appende uno striscione antisemita su un ponte sopra l’autostrada. Uno studente è costretto a nascondere il Maghen David che porta al collo prima di entrare in classe. Non siamo a Lod in Israele durante gli scontri tra arabi ed ebrei di due anni fa, ma rispettivamente a Bloomfield in New Jersey, a Los Angeles e nell’Università Tufts del Massachusetts nel 2022.
  Il dato sconcertante è che l’antisemitismo negli Stati Uniti sta aumentando in modo allarmante. L’ultimo report del Dipartimento per la lotta all’antisemitismo della World Zionist Organization, ad esempio, tra il 2021 e il 2022 rileva un balzo dal 33% al 39% della quota americana di tutti gli incidenti antisemiti registrati. Un dato peraltro in difetto visto che, come rilevato dalla stessa organizzazione, spesso le vittime scelgono di non denunciare quanto accaduto per paura di ritorsioni.
  Per restituire con immediatezza la pervasività dell’odio e dei pregiudizi contro gli ebrei nella nazione americana, basta tornare al 22 novembre scorso nella lussuosa villa di Mar-a-Lago, in Florida, dove il condiviso sentimento antisemita ha portato a cena insieme il rapper afroamericano di fama mondiale Ye, al secolo Kanye West, e il blogger negazionista e suprematista bianco Nick Fuentes. Quel che è peggio, ad ospitarli è stato il penultimo presidente degli Stati Uniti, e potenziale candidato repubblicano nel 2024, Donald Trump.

• L’aumento della propaganda
  Se episodi come quello appena descritto danno il polso del fenomeno antisemita negli USA, sono le ricerche e le statistiche raccolte da organizzazioni ebraiche e per i diritti civili, e dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni, a quantificare il dato, a partire dall’aumento della propaganda, spinta soprattutto dai social su cui trova facile cassa di risonanza. Basti pensare che uno studio UNESCO ha rilevato come ben il 49% dei post sulla Shoah presente sulla chat di messaggistica Telegram e il 17% di quelli su Tik Tok, la più popolare piattaforma tra i giovanissimi, neghi o distorca i fatti.
  È poco sorprendente, di conseguenza, l’aumento di convinzioni antisemite. L’Anti Defamation League tra settembre e ottobre del 2022 ha condotto un sondaggio sul tema che ha coinvolto oltre 4.000 persone in un campione rappresentativo della popolazione americana.
  I risultati sono stati più che allarmanti: i tropi antisemiti, ossia le false accuse e credenze contro gli ebrei, hanno raggiunto il tasso di diffusione più alto mai registrato da decenni. L’85% degli americani infatti crede ad almeno un tropo, contro il 61% registrato ancora nel 2019, e il 20% crede ad almeno sei di queste falsità, rispetto all’11% di tre anni prima.
  Tra i pregiudizi più diffusi: il 39% degli intervistati ritiene che gli ebrei siano più fedeli a Israele che agli Stati Uniti; il 20% afferma che essi hanno “troppo potere” nel paese; il 21% concorda sul fatto che agli ebrei “non importa di nessun altro se non di loro stessi”; e il 53% afferma che fanno di tutto per assumere nei posti di lavoro altri ebrei.

• La morsa sempre più stretta
  Il sondaggio ha anche evidenziato un aumento dell’antisionismo. Il 40% degli americani ritiene, ad esempio, almeno parzialmente vero che gli israeliani trattino i palestinesi come i nazisti trattavano gli ebrei, e il 18% si dice addirittura a disagio nell’avere a che fare con qualcuno che sia a favore dello Stato ebraico. Sovrapponendo però i dati emerge come l’odio verso Israele sia sempre più strettamente interconnesso con quello verso gli ebrei in generale: infatti la correlazione tra i due ambiti si attesta al 40% del campione.
  Una maggiore distinzione si rileva semmai per fasce d’età: i giovani adulti credono leggermente meno ai pregiudizi antisemiti rispetto ai più anziani, col 18% contro il 20% che è convinto di almeno sei credenze, ma in compenso sono significativamente più ostili a Israele: il 21% degli under 30 infatti concorda con almeno cinque affermazioni antisraeliane contro l’11% della popolazione di età maggiore.
  Non è quindi un caso che il report della World Zionist Organisation (WZO) categorizzi tra i trend maggiormente allarmanti sia il rafforzamento delle organizzazioni suprematiste bianche sia l’aumento dei contenuti antisemiti nelle dichiarazioni antisioniste da parte della sinistra radicale americana.

• Parole e fatti: aumentano le violenze
  Ma le parole non restano mai tali e con l’aumento delle convinzioni antisemite negli Stati Uniti stanno crescendo anche gli episodi di violenza contro ebrei e istituzioni ebraiche, che già da anni, secondo le statistiche raccolte dall’FBI, rappresentano una quota spropositata dei crimini di odio nel paese, rimanendo consistentemente sopra il 50% del totale. Di nuovo, il dato è probabilmente peraltro più basso del reale: diverse organizzazioni come l’American Jewish Committee hanno fatto notare come molte città americane siano escluse dalle statistiche dell’agenzia federale a causa del mancato invio della reportistica da parte delle autorità locali.
  A riguardo la WZO ha raccolto ulteriori fonti, secondo cui negli anni più recenti si è assistito a una crescita del 61% delle violenze pianificate o attuate contro istituzioni ebraiche in America. Nello Stato di New York in particolare, dove vivono 2,2 milioni di ebrei, l’11% di tutta la popolazione ebraica americana, i crimini di odio antisemita sono addirittura aumentati del doppio rispetto alla media nazionale. Anche altre grandi città come Chicago e Los Angeles hanno visto un significativo balzo nella prima metà del 2022, circa il 20% in più.

• Campus accademici: un ambiente ostile
  Persino le istituzioni scolastiche, a partire dai campus universitari, sono diventate un terreno sempre più spinoso per gli studenti ebrei: uno su tre ha dichiarato di aver subito un episodio di antisemitismo durante l’anno scolastico, e di questi quasi l’80% anche più di una volta. Nel 2022 si sono verificati oltre 350 episodi di antisemitismo solo all’interno dei campus universitari, tanto che molti studenti ebrei hanno sentito il bisogno di nascondere la propria identità o il proprio sostegno a Israele. Questo clima di paura è legato soprattutto all’aumento delle attività delle organizzazioni legate al movimento antisraeliano e propalestinese BDS (Boycott, Disinvestment, Sanctions), che ha tenuto circa 165 manifestazioni e iniziative nelle università americane lo scorso anno.

• Le contromisure del governo e delle associazioni
  Di fronte all’evidente e innegabile aumento dell’antisemitismo negli Stati Uniti, il governo e lo stesso Joe Biden si sono mossi. Il 12 dicembre scorso, il presidente ha annunciato di stare lavorando per istituire un gruppo trasversale alle diverse agenzie federali in modo da poter coordinare meglio la lotta contro l’antisemitismo e le altre forme di razzismo e discriminazione.
  Una settimana dopo, durante la cena tenuta alla Casa Bianca per il secondo giorno di Chanukkà lo scorso dicembre, il capo dello Stato ha dichiarato che l’America “non resterà silente” di fronte alla crescita dell’odio antiebraico, aggiungendo che “il silenzio equivale a complicità”.
  Anche le istituzioni internazionali e le organizzazioni private si stanno muovendo con iniziative sul fronte educativo, tra cui quella annunciata sempre alla fine del 2022 che vede unite l’UNESCO, l’American Jewish Committee (AJC) e altre associazioni per mettere a disposizione di tutti i docenti americani dei corsi online che li aiutino a contrastare l’antisemitismo nelle scuole.

(Bet Magazine Mosaico, 5 marzo 2023)

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La Papua Nuova Guinea aprirà un’ambasciata a Gerusalemme

di David Fiorentini

La Papua Nuova Guinea aprirà la sua prima ambasciata in Israele a Gerusalemme, ha annunciato il ministero degli Affari Esteri israeliano.
  La nazione di circa 9 milioni di abitanti a maggioranza cristiana aveva instaurato relazioni diplomatiche con Israele nel 1978, ma non aveva mai aperto un’ambasciata in Israele, solamente un consolato a Tel Aviv.
  Entro la fine dell’anno, il Paese oceanico diventerà uno dei pochi Stati ad avere un’ambasciata nella capitale israeliana dopo la storica manovra degli Stati Uniti voluta dal presidente Donald Trump. Oltre agli USA, ad oggi solamente Guatemala, Honduras e Kosovo hanno locato le rispettive ambasciate a Gerusalemme.
  La mossa è stata concordata durante una conversazione telefonica tra il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e il suo omologo della Papua Nuova Guinea Justin Tkatchenko.
  “Vorrei ringraziare la Papua Nuova Guinea per i suoi legami radicati, per il suo sostegno costante nelle istituzioni internazionali e per la sua decisione di aprire un’ambasciata a Gerusalemme”, ha dichiarato Cohen in un comunicato. “Questa è un’ulteriore prova delle calde e importanti relazioni tra i Paesi”. I due hanno anche discusso dell’espansione delle relazioni economiche bilaterali, soprattutto nel campo dell’agricoltura e della tecnologia.
  La Papua Nuova Guinea è una delle nazioni del Pacifico che votano regolarmente a favore di Israele alle Nazioni Unite. La decisione guineana, infatti, giunge tra vari segnali positivi provenienti dalle Isole Figi, in procinto di delineare un simile provvedimento.
  Di recente, il primo ministro Sitiveni Rabuka aveva ammesso all’ambasciatore israeliano Roi Rosenblit che la sua sensazione personale è che “Gerusalemme debba essere la sede della nuova ambasciata delle Figi”.

(Bet Magazine Mosaico, 6 marzo 2023)

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La Russa in Israele: "Vicini al popolo ebraico. Impegno perché non ci sia più un odio così bestiale"

Il presidente del Senato, in visita ufficiale, si è recato allo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo della Shoah che ricorda le vittime dello sterminio degli ebrei e si è trattenuto in raccoglimento.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa, in visita ufficiale in Israele, si è recato allo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo della Shoah che ricorda le vittime dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazismo. 
  La Russa ha deposto una corona di fiori e si è trattenuto in raccoglimento. La seconda carica dello Stato ha quindi lasciato un messaggio: "Ogni volta che mi sono simbolicamente inginocchiato a questo luogo di dolore e di ricordo, ho rinnovato il sentimento di vicinanza al popolo ebraico e il proposito di contribuire a far sì che mai più ci sia un odio così bestiale".
  Il presidente del Senato, nella sua prima missione all'estero, ha già incontrato il presidente del parlamento israeliano Amir Ohana alla Knesset, salutato dall’assemblea. "Siamo fermamente contro ogni forza terroristica che attenti alla libertà, alla esistenza e alla indipendenza di Israele. Va tutelato nei suoi diritti. Come presidente del Senato devo dire che l'Italia in tutti i suoi governi ha sempre difeso l'esistenza di Israele, ha sempre voluto che potesse esistere e manifestare la propria libertà ed indipendenza", scrive su La Russa Facebook. 
  Alla seconda carica dello Stato, salutato in aula dalla presidenza della Knesset, i parlamentari di maggioranza e opposizione hanno tributato un lungo applauso, come riportato dalla televisione israeliana.
  A seguire l'incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu che, a sua volta, il 9 marzo volerà a Roma per il viaggio di stato e l'incontro con la premier Giorgia Meloni.
  Le parole del presidente del Senato sono state accolte con entusiasmo dal presidente del parlamento israeliano. "Signor Presidente, la sua visita e le sue dichiarazioni sono veramente importanti. Dimostrano la vostra attenzione e la sua attenzione particolare a rafforzare i rapporti di appoggiarci nella lotta contro il terrorismo. E soprattutto segnano l'inizio di una nuova era nei rapporti tra l'Italia e il benvenuto a Gerusalemme", ha detto Amir Ohana durante le dichiarazioni alla stampa con La Russa.

(RaiNews, 6 marzo 2023)

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“In medio oriente ci si sta preparando a una nuova guerra”

Di ritorno da Israele, Walter Russell Mead racconta che cosa soffia sotto la brace di un mondo in rapidissima mutazione

Scrive il Wall Street Journal (27/2)

Sono stato in Israele per intervistare il primo ministro Benjamin Netanyahu al conclave di sicurezza di Tikvah. Sono uscito pensando che gli Stati Uniti siano molto più vicini a essere coinvolti in un’altra guerra in medio oriente di quanto la maggior parte di Washington capisca e che ridurre al minimo questo pericolo richieda un cambiamento politico rapido e radicale da parte di un’amministrazione che ancora fatica a comprendere la più grave crisi internazionale dalla fine degli anni ‘30”. Così Walter Russell Mead.
  “Fin dall’inizio, l’amministrazione sapeva che il sistema mondiale guidato dagli americani era nei guai, ma sottovalutò la gravità della minaccia e ne fraintese le cause. A suo merito, il team Biden ha visto chiaramente la sfida della Cina fin dal primo giorno, ma non è riuscito a capire quanto fossero diventate deboli le fondamenta del potere americano o fino a che punto le potenze revisioniste – Cina, Russia, Iran e tirapiedi come Venezuela e Siria – erano disposti a cooperare per indebolire un’egemonia americana che entrambi detestavano e disprezzavano.
  Due anni dopo, l’Amministrazione Biden sta lottando per gestire il fallimento del suo progetto originale. La sua retorica e politica nei confronti della Cina hanno intensificato l’ostilità della Cina, ma invece di affrontare una Cina isolata in un mondo altrimenti calmo, l’amministrazione deve affrontare scontri simultanei in Europa e in estremo oriente. La Russia non è sistemata, l’Iran non è pacificato e i tre revisionisti stanno coordinando la loro strategia e i loro messaggi a un livello senza precedenti.
  Peggio ancora, l’inesorabile marcia dell’Iran verso le armi nucleari, unita alla sua sempre più profonda partnership con la Russia, sta portando il medio oriente sempre più vicino a una guerra che probabilmente coinvolgerà gli Stati Uniti, una guerra che l’amministrazione Biden vuole disperatamente evitare. Per Putin, un grande scontro militare in Medio Oriente sarebbe una benedizione assoluta. I prezzi del petrolio aumenterebbero, riempiendo le casse di Mosca e intensificando le pressioni sull’Europa. L’equilibrio nello Stretto di Taiwan si sposterebbe notevolmente a favore della Cina. L’impennata dei prezzi dell’energia aumenterebbe l’inflazione negli Stati Uniti proprio mentre Biden cerca di persuadere i democratici contro la guerra a sostenere un’altra impresa militare americana in medio oriente. E mentre in un mondo perfetto la Russia potrebbe opporsi a un’arma nucleare iraniana, nelle circostanze attuali Putin potrebbe benissimo decidere di aiutare l’Iran a superare la soglia nucleare. Il modo migliore per evitare la guerra e per ridurre al minimo l’impegno americano diretto in caso di guerra scoppiata è garantire che i nostri alleati in medio oriente abbiano il potere di difendersi.
  Dobbiamo chiarire inequivocabilmente che garantiremo la vittoria dei nostri alleati qualora dovessero scoppiare le ostilità. Nient’altro funzionerà. L’amministrazione sembra muoversi, lentamente, nella giusta direzione in medio oriente, ma il tempo non è dalla sua parte”.

Il Foglio, 6 marzo 2023)
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E intanto la NATO a trazione USA sta spingendo l'Europa nel burrone aizzandola contro la Russia con la sua ipocrita retorica libertaria. E con gli ucraini esposti come carne da macello. Per vedere uno spaccato di quello che sta accadendo in quella che il direttore di questo giornale chiama “la più grande democrazia del mondo”, si può leggere l’articolo che segue, presente sempre sullo stesso giornale. M.C.

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Ansia, depressione, suicidi: “In America c’è una pandemia di malattie mentali”

I “morti da disperazione” e il declino della famiglia e della comunità. Niall Ferguson racconta una società sull’orlo di una crisi di nervi.

Scrive Bloomberg (1/3)

Se nessuno nella tua cerchia di familiari e amici è malato di mente, considerati fortunato o forse ti stai solo illudendo. Nel mio intimo gruppo sociale, mi vengono in mente almeno sei casi. Non parlo solo di parenti o amici o figli di amici che dicono di essere depressi. Sto parlando di malattie mentali diagnosticate dal punto di vista medico che richiedono cure. Tre casi di dipendenza cronica. Due casi di grave disturbo alimentare. Un caso di tentato suicidio. E quelli sono solo quelli che conosco. Sono anche a conoscenza di due morti per overdose nella mia più ampia cerchia sociale”.
  Così Niall Ferguson sulla crisi americana. “Il mio amico Jonathan Haidt della New York University dice che non c’è mai stata una generazione così ‘depressa, ansiosa e fragile’ come la Generazione Z, gli americani nati tra il 1997 e il 2012. Hanno ‘tassi straordinariamente alti di ansia, depressione, autolesionismo, suicidio e fragilità’. Haidt attribuisce fermamente la colpa ai social media. La realtà è che c’è un’epidemia di malattie mentali in tutta la popolazione. Non sono solo i bambini che non stanno bene.
  Nel 2019-2020, secondo Mental Health America, il 20,8 per cento degli adulti soffriva di una malattia mentale, pari a oltre 50 milioni di americani. La maggior parte dei 108.000 decessi per overdose di droga stimati nel 2021 erano di adulti. Questo flagello è uno dei motivi principali per cui, unico nel mondo sviluppato, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è diminuita nel 2020 e nel 2021, nonostante il fatto che gli Stati Uniti spendano molto di più pro capite per l’assistenza sanitaria rispetto a qualsiasi paese comparabile.
  Furono il premio Nobel Angus Deaton e la sua coautrice Anne Case a coniare diversi anni fa l’espressione ‘morti per disperazione’. Americani bianchi, specialmente quelli di mezza età con solo diplomi di scuola superiore o meno. All’interno di questo gruppo, hanno osservato un aumento ‘importante, terribile e inaspettato’ dei tassi di mortalità per suicidio, overdose di droghe e malattie del fegato correlate all’alcol come la cirrosi.
  Hanno anche assistito a un aumento delle malattie (che vanno dall’obesità ai problemi mentali). Collegavano tutta questa miseria ai problemi di dissoluzione economica e sociale individuati per la prima volta da Charles Murray nel suo libro seminale ‘Coming Apart’. La grande pandemia di salute mentale del nostro tempo è quella che sta guidando decine di milioni di adulti ad accorciare la propria vita”.
  Deaton ha scritto: “Una parte della popolazione negli Stati Uniti ha visto il proprio mondo crollare. La loro vita era migliore cinquant’anni fa. Avevano un sindacato, andavano in chiesa, appartenevano a una comunità…Hanno non solo perso denaro e lavoro, ma anche un senso per le loro vite”. Deaton imputa i “morti da disperazione” al “declino della famiglia, della comunità e della religione”.

Il Foglio, 6 marzo 2023)

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La caccia segreta degli israeliani ai terroristi in Italia

Una società di intelligence ha mappato i flussi di clandestini e estremisti lungo la rotta balcanica. Un mercato in cui si vendono documenti falsi, mappe e passaggi in nave.

di Fabio Amendolara e François De Tonquédec

Un documento inedito, realizzato dalla società israeliana Wip accelerate intelligence (che collabora con Mossad e Shin bet) per monitorare e dimostrare l' esistenza di alcuni flussi migratori anomali e pericolosi ormai penetrati in Italia, permette di raccontare per la prima volta il mercato dei viaggi della disperazione. Un mercato che viaggia in rete, con tanto di annunci pubblicitari. L'incipit del documento, che La Verità ha potuto visionare, permette già di farsi un'idea chiara: «Gli immigrati clandestini sono tradizionalmente introdotti clandestinamente in Europa via mare, attraverso il Mediterraneo. Tuttavia, i recenti sviluppi della situazione geopolitica in alcuni Paesi, tra cui Siria, Iraq, Pakistan e Afghanistan, hanno portato alla nascita di un nuovo corridoio per l'immigrazione via terra, noto come la Rotta balcanica. In questo nuovo scenario, i trafficanti di esseri umani stanno indirizzando i migranti da questi Paesi asiatici verso i Paesi dell'Europa centrale e settentrionale. Questo sta avendo un impatto particolare sulle regioni di confine come il Friuli-Venezia Giulia che, per la loro posizione geografica, sono punti naturali di accesso all'Europa centrale e settentrionale».
  La relazione annuale del Dis al Parlamento sull'attività dei nostri servizi di intelligence aveva già evidenziato le criticità di una rotta finora passata quasi sotto silenzio, quella balcanica, usata dai clandestini per entrare nel nostro Paese. Grazie al report israeliano è possibile entrare nel vivo delle nuove modalità di organizzazione dei viaggi degli scafisti: «I social network e le applicazioni mobili hanno portato a un cambiamento nella gestione della tratta e nelle modalità pubblicitarie dei trafficanti di migranti, contribuendo forse anche all'aumento del numero di immigrati clandestini che arrivano in Friuli-Venezia Giulia. Poiché si pensa che le normali conversazioni con i cellulari possano essere intercettate, i social media e le applicazioni mobili permettono ai trafficanti di pubblicizzare i propri "servizi", di gestire le comunicazioni con i potenziali clienti, ossia gli immigrati, e di reclutare più favoreggiatori. Anche potenziali terroristi e criminali potrebbero sfruttare questi servizi».
  I testi degli annunci sembrano quelli del catalogo di un tour operator: «Un percorso dalla Bosnia all'Italia, una camminata di 6 ore per attraversare il confine dalla Croazia, poi in auto fino al confine sloveno, poi ancora a piedi meno di un'ora e ancora in auto fino a Trieste, Italia», si legge ad esempio in un annuncio pubblicato su un canale Telegram, corredato da un numero di telefono con prefisso del Lussemburgo. L'utenza telefonica dell'annuncio viaggia veloce sui social. Un monitoraggio di Facebook con un software di ultima generazione permette ai tecnici di ricostruirne i flussi e di individuare almeno una decina di scambi.
  Ma ci sono anche le recensioni, che permettono ai trafficanti di uomini di guadagnare credibilità sul mercato nero: «I migranti pubblicano su Facebook informazioni sul loro viaggio, le condizioni, il pagamento e il livello di successo. I gruppi di Facebook sono importanti spazi virtuali nei quali i migranti condividono le proprie esperienze positive e negative, le sfide che hanno affrontato sul percorso e i dettagli sull'accoglienza e l'assistenza offerta nei Paesi europei di destinazione, immagini di documenti di viaggio falsi, mappe dei percorsi, informazioni sui tempi e i luoghi dei viaggi, nonché i numeri di telefono dei trafficanti e degli intermediari nei diversi Paesi. Coloro che hanno raggiunto la propria destinazione in modo sicuro e sono stati trattati bene, mettono tali informazioni a disposizione di coloro che stanno pianificando il proprio viaggi». Un altro post in arabo, individuato con l'uso della parola chiave «Trieste», intitolato «viaggi continui» offre trasferimenti «dalla Turchia all'Italia, con una nave mercantile, che trasporta merci da un porto all'altro, arrivando al porto italiano di Trieste, vicino al confine sloveno. Ad ogni viaggio, mandiamo solo 4 persone a bordo della nave. Partenza dal porto di Smirne verso il Porto italiano di Trieste». Il mercante di clandestini chiede di essere contattato tramite Whatsapp su un numero di cellulare siriano, che, annota il report, «è stato identificato come appartenente a un trafficante di nome F. La sua immagine Whatsapp chiede ai potenziali clienti di contattarlo tramite messaggi scritti, probabilmente come precauzione di sicurezza».
  Gli esperti israeliani hanno identificato anche una serie di gruppi Whatsapp, tra cui quello «dal titolo "Il nostro sogno è l'Italia"», creato attraverso un numero di cellulare francese e composto da 125 iscritti. Per gli autori del documento, si tratterebbe di «un gruppo di immigrati che aspirava ad arrivare in Italia». Il 25 gennaio 2020, «in un gruppo chiamato "La strada per l'Italia - dalla Turchia, attraverso Grecia, Croazia-Slovenia fino all'Italia", un utente di nome A. A. ha pubblicato un link ad un gruppo WhatsApp chiamato "Oropa tonadi” - che in arabo significa "l'Europa ci chiama" Il gruppo è stato creato dal titolare del numero marocchino +21».
  Nelle chat «singoli e gruppi offrono documenti di viaggio in vendita. Si può prendere contatto privatamente e direttamente da applicazioni mobili come WhatsApp, Viber, imo, Telegram, Line e anche Facebook messenger», Veri propri annunci per la vendita di documenti di identità falsi, come quello pubblicato il 26 gennaio 2020 da un utente di nome Ali M. che «ha pubblicizzato i propri servizi di fornitura di documenti europei per gli
  immigrati di lingua araba. Ha pubblicato il suo numero turco WhatsApp». Il post non ha nessuna restrizione di visualizzazione e la traduzione del testo non lascia spazio a interpretazioni: «Fratelli espatriati nei paesi europei. Vi presentiamo: Documenti europei per tutte le nazionalità (carta d'identità o residenza), patente di guida europea per tutti i Paesi, per il passaporto europeo per tutte le cittadinanze europee». A completare il tutto, oltre all'immancabile numero da contattare via Whatsapp, una serie di foto di passaporti e permessi di soggiorno falsi.
  Perfino la pandemia era considerata un'opportunità. In un annuncio dal titolo «viaggia nelle circostanze del coronavirus» era prevista perfino la consegna ai clandestini di una mascherina da usare una volta sbarcati: «Ti forniamo anche una mascherina mentre sei in mare», Poi l'inserzione prosegue così: «Naturalmente, la situazione del Coronavirus ha creato per noi una rara opportunità di viaggiare, quindi chiunque voglia viaggiare ... ». Nel post la foto di un gruppo di clandestini, sorridenti a bordo di una carretta del mare: «Si tratta di un gruppo di sudanesi arrivato ieri sulle coste italiane. Mille complimenti a loro Buona fortuna a tutti. Chi vuole viaggiare può contattarmi allo "Ufficio Immigrazione" o al WhatsApp».
  Le conclusioni sulla ricerca svolta sono allarmanti: «I migranti che cercano di arrivare in Friuli-Venezia Giulia parlano di specifiche modalità di trasporto sui social network:. I social network forniscono informazioni vitali per la preparazione del viaggio, forniscono supporto finanziario ed emotivo e sono di aiuto nei processi di inserimento e di integrazione dopo l'arrivo. I migranti condividono tali informazioni e comunicano attraverso una vasta gamma di social media, tra cui Facebook, Skype, WhatsApp, Viber, Telegram e imo. In sintesi, i social network interagiscono con il traffico di migranti come impresa» .
  Un ruolo che prosegue anche dopo lo sbarco: «Gli immigrati siriani e nordafricani discutono le opzioni di viaggio disponibili sui social network informali e con i membri della famiglia e gli amici che si sono imbarcati in precedenza per raggiungere l'Europa. Una volta arrivati in Paesi di transito quali l'Egitto, la Turchia, la Grecia, l'Italia e la Spagna, si scambiano informazioni».

(La Verità, 6 marzo 2023)

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Purìm. Ebrei: una nazione dispersa e isolata

di Donato Grosser

Nella meghillà di Ester è scritto che  Hamàn andò dal re Achashverosh (Assuero) chiedendo l’autorizzazione di sterminare gli ebrei nel suo impero.  Hamàn disse: “Vi è una nazione dispersa e isolata tra le nazioni in tutte le province del tuo regno. Le loro leggi sono diverse da quelle di tutti gli altri. Non osservano le leggi del Re. E non si addice al Re tollerarli” (Ester, 3:8).
  In un saggio nei suoi “Collected Writings” (Vol. II, Adar III), r. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888) si sofferma su quella che definisce “La descrizione etnografica che Hamàn fece degli ebrei”. L’autore chiede se la descrizione di Hamàn al Re sia ancora valida.  E conclude: si, c’è ancora una nazione dispersa e isolata tra le nazioni e tuttavia completamente distinta.
  La nazione ebraica pur essendo in esilio, minuscola ma sempre cospicua, è una nazione che nonostante la dispersione riesce a mantenere il suo antico retaggio e addirittura a trasmetterlo da generazione a generazione.
  Ed è proprio vero che “le loro leggi sono diverse” da quelle degli altri popoli. Questa differenza nella legge piuttosto che una differenza etnica o nazionale, li rende differenti da tutti gli altri. Le nazioni si differenziano nella qualità della terra dove abitano, per il clima che le circonda, per le loro sembianze e la loro lingua e anche per leggi e costumi. Col passare del tempo le loro leggi sono soggette a cambiamenti come pure il loro paese. Nonostante le loro diversità, le leggi di tutte le nazioni sono in qualche modo simili per origine, carattere, obiettivi e scopo.
  L’origine, il carattere l’obiettivo e il significato della legge ebraica sono diversi da tutte le altre. In ogni altro luogo la legge è creata e formulata dal popolo: la legge esiste per  servire il popolo; presso il popolo ebraico invece, è il popolo che esiste per servire la Legge.  Altrove, legge e religione promuovono il progresso della vita pubblica e privata; gli obiettivi della vita pubblica e privata degli ebrei vengono invece raggiunti tramite l’adempimento della Legge.  Altrove, legge e religione sono subordinati ai bisogni sociali e religiosi degli esseri umani e delle nazioni; gli ebrei invece sono tenuti a subordinare le loro emozioni, volontà e desideri alla Legge.
  Altrove legge e religione, e così pure la vita religiosa e sociale sono entità separate. La religione occupa la propria sfera, dove gli esseri umani possono soddisfare i rispettivi “religious needs”. Il progresso e lo sviluppo sociale dipendono da altri elementi. Presso gli ebrei invece, la vita religiosa e sociale sono strettamente intrecciate. Altrove, religione e legge sono il prodotto del graduale progresso culturale: hanno un inizio, si sviluppano e sono parte della storia culturale delle nazioni. E mantengono il ritmo del progresso culturale dei tempi.  Per gli ebrei la Legge era assoluta e perfetta quando fu loro data. Sin dall’inizio era stata designata come il più elevato obiettivo per tutte le generazioni future. Questo è l’ideale permanente e immutabile che il popolo ebraico si sforza a raggiungere.
  Se la legge ebraica, come le religioni che sono confinate nei luoghi di culto, fosse praticata solo nella sinagoga, il popolo ebraico sarebbe scomparso già da tempo. Gli ebrei nella diaspora si mantennero come entità isolata non perché la loro “religione” richiedeva una sinagoga, ma perché la loro legge richiedeva purità nel matrimonio e a tavola.
  “Le loro leggi sono diverse da quelle degli altri”. È la Legge che fa degli ebrei un esempio unico di devozione a Dio. L’ebreo mostra a tutti come onorare il  Creatore tramite l’adempimento delle mitzvòt.

(Shalom, 6 marzo 2023)
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In che senso "l’ebreo mostra a tutti come onorare il  Creatore tramite l’adempimento delle mitzvòt"? Mostra a tutti come lui vuole onorare il Creatore o come tutti devono onorare il Creatore? Si risponderà forse che anche i non ebrei devono onorare il Creatore, ma non hanno l'onore di poterlo fare con le mitzvot perché a loro sono riservate altre norme dette "noachidi". La differenza starebbe dunque nella particolare qualità delle norme legali a cui doversi sottomettere. Ma è davvero la legge mosaica l'elemento distintivo del popolo ebraico? M.C.

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Comunione integra con Dio

Quando il figlio di Dio si fece uomo aprì la via per una comunione genuina con Dio per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui.

di John MacArthur

La prima epistola di Giovanni descrive la nostra salvezza come comunione con Dio: «la nostra comunione è con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo» (1 Giovanni 1:3). Quando giungiamo alla fede, entriamo in una stretta comunione spirituale con il Padre, attraverso il nostro collegamento con Cristo. La sua volontà diventa la nostra volontà e i suoi obiettivi i nostri obiettivi. Anche se il peccato ostacola la nostra vita con Cristo sulla terra, la parte più profonda della nostra anima risorta è collegata a Cristo risorto tramite lo Spirito Santo che vi dimora, e attraverso questo abbiamo un'intima comunione con il Dio vivente.
  In altre parole, la salvezza ci porta in comunione con ogni Persona della Trinità. Possiamo parlare con l'Eterno. Siamo accettati come Suoi figli (Romani 8:15). Lo preghiamo come nostro caro Padre: "Abba!", come preferisce definirlo Paolo. Sentiamo che parla direttamente a noi nella Sua Parola. Entra premurosamente nelle nostre vite per rivelarsi a noi. Godiamo di una vera comunione spirituale con il Dio eterno. Tuttavia, da una prospettiva terrena, questa comunione appare incompleta, è nascosta alla nostra vista. Paolo scrive:

    «Ora infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto» (1Corinzi 13:12).

Paolo parla della nostra comunione con Dio. Nel Cielo sarà perfetta, priva di ostacoli e non offuscata da alcun peccato od oscurità.
  Ciò faceva parte delle cose più importanti che Gesù aveva a cuore quando pregò il Padre nella notte in cui fu tradito. Giovanni 17 riporta la preghiera sacerdotale del nostro Signore. Fu una preghiera per i discepoli - cosi come per ciascun credente di ogni epoca. Questo, Gesù lo disse chiaramente (v. 20).
  In attesa del completamento della Sua opera sulla terra, il nostro Signore chiese al Padre di riceverlo di nuovo nella gloria che aveva prima che il mondo iniziasse. Egli pregò:

    «Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo» (v. 24).

Egli vorrebbe che stessimo con Lui ma non è tutto. Nota il tipo di relazione tra tutti i credenti per la quale Egli prega: «affinché siano tutti uno, come tu, o Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi uno in noi» (v. 21). Il suo piano per noi è la completa comunione con Lui e gli uni con gli altri - molto simile all'unità che esiste tra il Padre e il Figlio!
  Questa è una cosa così insondabilmente profonda che non possiamo capire con i nostri limitati intelletti. Ma era evidentemente il pensiero più importante quando Gesù menzionava la promessa del Cielo ai discepoli. La stessa notte prima della sua crocifissione, aveva già detto a Pietro:

    «Là dove io vado, tu non puoi seguirmi ora; ma mi seguirai più tardi» (Giovanni 13,36).

E ancora:

    «Il vostro cuore non sia turbato; credete in Dio e credete anche in me. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, ve lo avrei detto; io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi» (Giovanni 14,1-3).

La presenza di Cristo è ciò che fa del Cielo quello che è.

    «E la città non ha bisogno del sole né della luna, che risplendano in lei, perché la gloria di Dio la illumina e l'Agnello è il suo luminare» (Apocalisse 21,23).

L'essenza del Cielo è la perfetta comunione con Dio.
  Nota quanto sia decisivo questo principio della comunione con Dio nel riepilogo finale della Bibbia sul Cielo:

    «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21,3).

Questo verso sottolinea l'intima presenza di Dio "presso gli uomini". L'idea è che Dio stesso pianta la Sua tenda tra i redenti della razza umana e dimora in mezzo a loro. Tutti i credenti godranno per sempre della gioia della loro relazione con Dio. Non sarà nello stesso modo in cui Dio aveva il Suo tabernacolo tra gli Israeliti nel deserto. Lì c'era la tenda di Dio - il tabernacolo - al centro dell'accampamento, ma era un luogo in cui regole rigide stabilivano quando e come le persone potevano avvicinarsi ed entrare nel tabernacolo. A nessuno era permesso andare nel luogo santissimo, dove dimorava Dio stesso, tranne al sommo sacerdote, e solo una volta all'anno. Ma Apocalisse 7:1 ci dice che «essi sono davanti al trono di Dio e lo servono giorno e notte nel suo tempio; e colui che siede sul trono dimorerà tra di loro». Qui è indicato che Dio stesso ci porta nella Sua dimora.
  Gesù disse ai discepoli:

    «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, ve lo avrei detto; io vado a prepararvi un posto» (Giovanni 14,2).

Egli prepara personalmente per ciascun eletto una dimora nella Casa del Padre! Questo ci promette la più intima comunione immaginabile con il Dio vivente, in cielo vedremo il Signore faccia a faccia. Giovanni 1:18 e 1 Giovanni 4:12 dicono entrambi: «Nessuno ha mai visto Dio» . 1 Timoteo 6:16 dichiara che Dio «solo ha l'immortalità e abita una luce inaccessibile che nessun uomo ha mai visto né può vedere» In Esodo 33, quando Mosè desiderava ardentemente vedere la gloria di Dio (v. 18), Dio acconsentì a mostrarsi solo da dietro. Dio disse: «Tu non puoi vedere la mia faccia, perché nessun uomo mi può vedere e vivere» (v. 20). È scritto di Dio: «Tu hai gli occhi troppo puri per vedere il male e non puoi guardare l'iniquità» (Abacuc 1:13). Finché siamo contaminati dal peccato, non possiamo vedere il volto di Dio. La vista di una giustizia così perfetta ci annienterebbe.
  Perciò Dio è inavvicinabile dai mortali. Non è possibile un incontro faccia a faccia. Questo è il motivo per cui l'incarnazione di Cristo è così meravigliosa: sebbene «nessuno abbia mai visto Dio, l'unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è colui che lo ha fatto conoscere» (Giovanni 1,18). Cristo «ha abitato [greco: skenoo; letteralmente 'accampato' o 'piantato la tenda'] fra di noi» (Giovanni 1,14) - «e noi abbiamo contemplato la sua gloria, come gloria dell'unigenito proceduto dal Padre, piena di grazia e di verità».
  È venuto nel nostro mondo per accamparsi in mezzo a noi, e lo ha fatto per noi, per redimerci e portarci in Cielo, dove il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo si accamperanno tra noi, in perfetta comunione con noi per sempre. Che realtà mozzafiato!
  Poiché in Cielo saremo liberi dal peccato, lì vedremo la gloria di Dio svelata e in tutta la sua pienezza. Sarà una vista più bella e spettacolare di qualsiasi cosa abbiamo conosciuto o immaginato sulla terra. Nessun piacere terreno si avvicina nemmeno al privilegio ed all'estasi di poter vedere la gloria di Dio senza restrizioni. Matteo 5,8 dice: «Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio» Il verbo greco tradotto con «vedranno» (horao) si trova in un tempo che esprime una realtà futura permanente. In Cielo vedremo continuamente Dio faccia a faccia. I re generalmente si isolano dal contatto diretto con il proprio popolo, un'udienza con il re è un privilegio raro. Ma i credenti in Cielo avranno per sempre una comunione perfetta e costante con il Re dei Re!
  Questo è sempre stato il desiderio più profondo di un'anima redenta. Il Salmista disse:

    «L'anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente. Quando verrò e comparirò davanti a Dio» (Salmo 42,2).

E Filippo, parlando per tutti i discepoli, disse a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Giovanni 14,8). La supplica di Mosè: «Deh, fammi vedere la tua gloria» (Esodo 33,18) riflette il vero desiderio di un cuore nato di nuovo. Nel Salmo 17:1 Davide lo ha espresso in modo particolarmente bello: «Quanto a me, per la giustizia vedrò la tua faccia; mi sazierò della tua presenza quando mi risveglierò.»
  Davide ebbe diverse fasi nella sua vita, fu un giovane pastore, ebbe gli onori che si riservano a un grande guerriero, diventò re, gustò ogni piacere terreno. Sapeva però che la più grande soddisfazione possibile sarebbe arrivata solo quando avesse visto il volto di Dio e sarebbe stato nella santità. Cosa ti piacerebbe davvero? Abiti nuovi? Un nuovo lavoro? Una promozione? Una casa o un'auto nuova? Un buon pasto? Un periodo divertente? Una vacanza? Denaro? Non mettere il tuo cuore in questi piccoli piaceri terreni. I redenti potranno vedere Dio. Apocalisse 22: 3-4 ci promette: «in essa sarà il trono di Dio e dell'Agnello e i suoi servi lo serviranno; essi vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla loro fronte»
  Come cristiani, sarà la nostra più grande soddisfazione vedere il nostro Dio con Suo Figlio Gesù Cristo e stare davanti a loro in perfetta rettitudine. Il Cielo ci dona questo privilegio: la vista senza alcun impedimento, completa ed ininterrotta della Sua infinita gloria e bellezza, che ci dà gioia infinita ed eterna. Stiamo cominciando a capire perché Pietro voleva accamparsi sul Monte della Trasfigurazione e rimanervi permanentemente dopo aver visto brevemente questa gloria? (Matteo 17,4).
  Nell'Ottocento, la scrittrice di inni Fanny Crosby descrisse la speranza di ogni credente nell'amato cantico «My Savior First of All» (Il mio Salvatore prima di tutto):

    «Quando il lavoro della mia vita sarà finito, e passerò la marea crescente, quando vedrò il radioso e glorioso mattino conoscerò il mio Redentore. Quando raggiungerò l'altro lato ed il suo sorriso sarà il primo ad accogliermi. Attraverso le porte della città in una veste bianca impeccabile, mi condurrà dove le lacrime non scorreranno mai; ai gioiosi cantici dell'eternità mi unirò allegramente ma io desidero incontrare per primo il mio Salvatore.»

Queste parole hanno un significato particolare: Fanny Crosby era cieca dalla nascita. Ella sapeva che la prima persona che avrebbe visto sarebbe stata Gesù Cristo.
  In un certo senso, questo riguarda tutti noi. La nostra visione sulla terra è praticamente come la cecità se paragonata a ciò che avremo in cielo (1 Corinzi 13:12). Dovremmo aspettare con impazienza quel giorno in cui la nostra vista sarà illuminata dalla Sua gloriosa presenza. Spero sinceramente che questo sia il tuo desiderio più profondo.

(Chiamata di Mezzanotte Nr. 01/02 2021



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La Russa sceglie Israele per la prima visita ufficiale all’estero

Il presidente del Senato arriva durante un momento di tensione nel Paese con le proteste contro le riforme volute da Netanyahu. Lunedì il bilaterale con il presidente della Knesset Ohana, primo omosessuale dichiarato a ricoprire l’incarico. Poi la visita dalla Yad Vashem.

di Carlo Passarello

Non sono ore facili per Israele. Le proteste di piazza contro la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu. L’approvazione della Knesset del disegno di legge che prevede la pena di morte per i reati di terrorismo. La presenza a Tel Aviv del capo di stato maggiore della difesa statunitense, il generale Mark Milley. Il tutto alla vigilia di due appuntamenti significativi: la visita nel Paese di Lloyd Austin, segretario alla Difesa americano, e il viaggio del premier Netanyahu in Italia.
  In questo contesto complesso si inserisce la prima missione bilaterale estera di uno dei due presidenti delle Camere nella legislatura: il presidente del Senato Ignazio La Russa è infatti atterrato poche ore fa a Tel Aviv. Un viaggio programmato con cura per diverse settimane: era infatti un desiderio della seconda carica dello Stato recarsi in Israele il prima possibile. L’unica vera alternativa come primo viaggio estero sarebbe potuta essere l’Ucraina. Alla fine però La Russa insieme al suo staff ha optato per la visita ufficiale a Gerusalemme.
  Per La Russa essere a Gerusalemme significa dare un messaggio molto chiaro, in politica interna come in quella estera. Vuol dire allontanare – anche gli occhi degli osservatori stranieri – le ombre del passato missino, pur lontano nel tempo. E la memoria torna inevitabilmente a un’altra visita di un ex esponente del Movimento sociale italiano in Israele. Ovvero Gianfranco Fini, che esattamente vent’anni fa fece uno storico viaggio a Gerusalemme, dove parlò di fascismo come “male assoluto” e dell’infamia delle leggi razziali. Un passaggio nodale, un’immagine iconica che traghettò nei fatti Alleanza Nazionale – forse ancor più della svolta di Fiuggi – fuori da un’eredità fino a quel momento senz’altro più condizionante. Non fu certo l’unica tappa di un percorso chiaramente definito: nel suo mandato da presidente della Camera dei deputati Fini incontrò per ben quattro volte quello che all’epoca era il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. I benefici di quel passaggio politico sono stati ereditati anche da Fratelli d’Italia, lo testimoniano i rapporti molto stretti di Giorgia Meloni con la Comunità ebraica. La visita e la commozione della premier Meloni al Museo ebraico di Roma, nel Tempio maggiore, durante l’accensione del candelabro in occasione della cerimonia della Hannukah lo dimostrano.
  Un altro aspetto non va dimenticato: il governo israeliano è fra i pochi interlocutori di destra nel vicinato europeo e mediterraneo. Le affinità politiche con il pur discusso esecutivo a guida Likud possono essere tante. Questo spiega il valore simbolico e la scelta del presidente del Senato. La Russa era già stato protagonista, in occasione del Giorno della memoria, di un’iniziativa in Senato, dove ha usato parole nettissime per ricordare le atrocità dell’Olocausto. Facendo anche una proposta, ovvero prevedere una legge per ricordare anche il 17 novembre. Giorno in cui il fascismo approvo le odiose leggi razziali. Il presidente del Senato ha comunque avuto momenti di attrito anche abbastanza ruvidi con la Comunità ebraica: l’ultimo episodio pochi mesi fa, in occasione dell’anniversario della fondazione del Movimento sociale italiano, celebrata dal presidente del Senato (nel ricordo del padre). Questo viaggio in Israele vuol rappresentare invece una saldatura istituzionale, così come un messaggio politico chiaro e netto.
  Il programma della visita al momento prevede un primo momento alla Knesset, lunedì alle 10.30. Ci sarà in quell’occasione un bilaterale con il suo omologo, l’esponente del Likud Amir Ohana. Lo speaker del Parlamento monocamerale israeliano è stato eletto a fine dicembre con 63 voti su 120. Classe 1976, avvocato, già ministro della giustizia e della sicurezza interna. Per la prima volta, con la sua elezione, la carica di presidente della Knesset viene ricoperta da un omosessuale dichiarato. Ohana si definisce un falco nelle questioni di sicurezza e un liberal in quelle sociali, e ha due gemelli nati attraverso la maternità surrogata negli Stati Uniti. Ohana è soprattutto un uomo di partito, fedelissimo dell’eterno Netanyahu che lo ha scelto per lanciare un segnale politico di apertura alla comunità Lgbt, nonostante la presenza nell’esecutivo di due partiti ortodossi e di tre liste di estrema destra.
  Dunque un incontro con un profilo interessante e in ascesa per La Russa, tra l’altro reduce da una polemica proprio sull’omosessualità, dopo un’intervista televisiva pochi giorni fa a Belve su Rai 2. Dopo il bilaterale, Ohana e La Russa rilasceranno delle dichiarazioni alla stampa. A seguire il presidente del Senato visiterà lo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme. Poi nel pomeriggio incontrerà la comunità ebraica d’origine italiana nella Sinagoga a Rehov Hillel. Quindi per concludere la giornata si recherà al Muro del Pianto.
  Sullo sfondo in Israele c’è un altro tema da non sottovalutare. Un tema che sembra poter spaccare l’unità europea. Il sito del Times of Israel riporta che l’Ungheria vorrebbe spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Una decisione che potrebbe avvenire anche nel giro di poche settimane. Sarebbe un atto clamoroso sull’asse Orban-Netanyahu, una boccata di ossigeno per il premier israeliano in un periodo in cui le manifestazioni di piazza contro la riforma del sistema giudiziario e della Corte suprema imperversano. Sul tema è intervenuta anche la presidente ungherese Katalin Novak, che si è limitata a dire che una decisione non è ancora stata presa. Il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha invece ricordato che la dislocazione delle ambasciate da parte dell’Ue si basa sulla risoluzione Onu, per questo tutti i Paesi membri e la stessa delegazione hanno le rappresentanze a Tel Aviv. Diventerà anche questo un tema dell’agenda di La Russa? Difficile. Così come è difficile, ma non da escludere, un bilaterale fra il numero uno di Palazzo Madama e il premier Netanyahu. Sarebbe per il presidente israeliano un piccolo antipasto della visita a Roma dei giorni seguenti e per il presidente del Senato italiano un tassello in più. Al momento però, anche visti i tempi stretti, l’incontro non è nelle agende dei due politici.

(Geopolitica.info, 4 marzo 2023)

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Né stato degli ebrei né stato degli israeliani

di Giorgio Gomel

“Avremo dunque una teocrazia? No: la fede ci rende uniti, la scienza ci rende liberi. Non permetteremo affatto che le velleità teocratiche di alcuni nostri rabbini prendano piede: sapremo tenerle ben chiuse nei loro templi, come rinchiuderemo nelle caserme il nostro esercito di professione. Esercito e clero devono venire così altamente onorati come esigono e meritano le loro belle funzioni; nello Stato, che li tratta con particolare riguardo, non hanno da metter bocca, ché altrimenti provocherebbero difficoltà esterne e interne “ (Theodor Herzl, Lo Stato degli Ebrei, Treves editore, 2012, pagg. 129-130).

• Lo “Stato ebraico”
  Già nel 2018 la Knesset – il Parlamento israeliano – aveva approvato la controversa “legge della nazione“, una legge fondamentale con uno status quasi costituzionale, che sanciva nei fatti la transizione di Israele da “stato ebraico e democratico” – un ossimoro secondo alcuni; un tentativo in parte riuscito secondo altri di conciliare lo “stato degli ebrei” concepito da Herzl e dagli altri padri fondatori del sionismo, uno stato cioè dove gli ebrei potessero autodeterminarsi in una nazione, con il principio di una democrazia per tutti i suoi cittadini – ad uno “stato ebraico”.
  La legge violava lo stesso spirito della Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Con Israele definito dalla legge “stato-nazione del popolo ebraico” il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia che nulla può dire circa il carattere dello stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono cittadini con pari diritti. Pari diritti individuali sì, ma non i diritti collettivi di una minoranza nazionale, che dovrebbe potere conseguire attraverso strumenti legislativi e atti concreti uno status non inferiore a quello degli ebrei israeliani.

• Radicalismo e discriminazioni
  La legge rifletteva l’offensiva del radicalismo di destra, con norme volte a limitare la libertà di espressione – soprattutto nel mondo delle ong e dei movimenti dediti alla difesa dei diritti umani – l’indipendenza del potere giudiziario, in particolare i poteri della Corte suprema, il pluralismo delle opinioni, in una società in cui larghi strati dell’opinione pubblica appaiono indifferenti o anche ostili ai vincoli dello stato di diritto e intolleranti del dissenso.
  Il dualismo fra “ebraico” e “democratico” esiste fin dalla nascita dello Stato di Israele; basti pensare alla Legge del ritorno che consente agli ebrei del mondo di diventare cittadini di Israele immigrando nel paese. Che Israele sia uno stato “ebraico”, non solo perché luogo di rifugio dalle persecuzioni di un popolo disperso, ma perché l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, il calendario, i simboli pubblici) è certamente legittimo. Ma non è accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie. Israele è lo Stato degli ebrei, ma rispettoso dei diritti di tutti i suoi cittadini. La legge ha però codificato una discriminazione. Inoltre, uno Stato che non ha confini certi e riconosciuti come può definirsi? Se i territori palestinesi fossero annessi, come si configurerebbe Israele? Come lo stato-nazione del popolo ebraico ? Si giungerebbe così anche formalmente ad uno Stato binazionale, ma non egualitario, non democratico, con diritti pieni solo per ebrei.

• L’identità dello Stato per il governo Netanyahu
  Con il nuovo governo formatosi dopo le elezioni del novembre scorso, nel quale è decisivo il peso dei due partiti ultraortodossi e dei fondamentalisti del “Sionismo religioso”, con forti pulsioni verso il tribalismo, l’intolleranza, Israele non sarà piu’ neppure sul piano normativo lo “Stato degli ebrei”, nel senso del sionismo liberale di Herzl o di quello di matrice socialista, né tanto meno lo “Stato degli israeliani”, una democrazia piena ed egualitaria per tutti suoi cittadini. Diventerà uno “stato ebraico”, per mano di una bellicosa minoranza del paese.
  Quali i passi più significativi se gli accordi di coalizione pattuiti fra il Likud e gli altri partiti saranno pienamente attuati? In essi si insiste compulsivamente sull’identità “ebraica” del Paese. Si inventano agenzie parti di ministeri dedicate a tal fine, in particolare una Autorità per l’identità ebraica e un incarico concernente i rapporti fra le scuole e la società civile affidati ambedue a Maoz, leader di Noam, partito omofobo e integralista, peraltro dimissionario accusando il resto del governo di “tradire” le intese.
  La legge ribadisce il divieto di spazi egualitari di preghiera al Muro del Pianto, per uomini e donne, nonché per le molteplici e spesso confliggenti correnti dell’ebraismo, nonostante accordi negoziati in tal senso, nel tempo disattesi. Si statuisce persino una modifica della Legge del ritorno mirante ad abolire la clausola per cui dagli anni Settanta un nonno ebreo è sufficiente per il diritto all’aliya e alla cittadinanza israeliana. Si rifiutano di riconoscere atti di conversione celebrati da rabbini non ortodossi in Israele o comunque da rabbini ortodossi non soggetti al controllo del rabbinato centrale come viatico alla cittadinanza, atti che la Corte suprema aveva consentito con una sentenza nel 2021.
  In sintesi, Israele, Paese nato sull’anelito del costruire una nazione nuova e vecchia al tempo stesso, multiculturale e unita, è scosso oggi dal pericolo di uno scisma profondo al suo interno che potrebbe disgregare la società.

(Affaritaliani.it, 4 marzo 2023)
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L'antinomia fra Stato ebraico e Stato democratico è sempre stata presente in Israele, fin dalla fondazione dello Stato. E' una contrapposizione latente che in momenti critici come quello attuale emerge con violenza, ma non sarà risolta prima dell'apparizione pubblica del Messia. Ciò non toglie che sia dal punto di vista biblico, sia da quello del diritto internazionale, Israele ha piena legittimità di esistenza. Così com'è. M.C.
Gomel dimentica, nel suo articolo, di scrivere che, per decisione della Società delle Nazioni del 1922 fatta propria dall’ONU nel 1945, Israele è nato come Stato degli Ebrei. Dal momento della sua nascita, nel 1948, e così fino ad oggi, nessuno ha mai messo in discussione che fosse anche uno stato pienamente democratico, e anzi l’unica democrazia in medio oriente dove tutti gli altri stati confessionali (islamici) non sono affatto democratici. Da questa voluta omissione discende che buona parte delle affermazioni di Gomel non sono aderenti alla realtà. Emanuel Segre Amar

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Salonicco ricorda i “suoi ebrei” nel Festival del documentario

di Roberto Zadik

Il Festival del documentario di Salonicco, in corso fino al 12 marzo, presenta varie opere dedicate a questa importante Comunità ebraica, con l’emozionante Adios Querida, a 80 anni dalle deportazioni
  La spietata ferocia nazista riuscì a cancellare non solo milioni di vite, ma anche mondi ebraici come la Comunità ebraica di Salonicco che, per cinque secoli, dalla famosa “Cacciata dalla Spagna” del 1492 fu uno dei più importanti centri dell’ebraismo sefardita.
  Sono passati ottant’anni dall’inizio delle deportazioni, da quando, il 15 marzo 1943, partì il primo convoglio verso Auschwitz ed ora il Festival internazionale del documentario di Salonicco intende rendere omaggio alla sua popolazione ebraica con una serie di filmati e approfondimenti riguardo alla Shoah ed alle sue conseguenze sugli ebrei greci.
  Secondo il sito Jewish Telegraphic Agency, in un articolo pubblicato il primo marzo e firmato da Elise Morton, l’iniziativa, in corso fino al 12 marzo e giunta alla sua venticinquesima edizione, comprende  commoventi omaggi al mondo ebraico locale come Adios Querida (Addio mia cara) dal nome di una celebre canzone ebraica spagnola. Come ricorda Orestis Andreadakis, direttore del festival, “secondo la leggenda veniva cantata dai deportati mentre salivano sui convogli per dare addio ai propri cari”; l’evento comprende anche una serie di convegni e tavole rotonde in presenza e online.
  Ma quali saranno i titoli e gli argomenti dei documentari sugli ebrei? Oltre a Adios Querida, ci saranno By-Standing and Standing By che, realizzato nel 2012, racconta la storia, non solo della popolazione ebraica di Salonicco, alla quale il grande cantautore israeliano Yehuda Poliker la cui famiglia proveniva da lì dedicò la struggente canzone Avak ve Afar (Polvere e cenere), ma anche della vicina e assai meno conosciuta comunità ebraica di Katerini. Altro titolo decisamente interessante è Salonicco, la città del silenzio che, diretto nel 2006 dal regista Maurice Amaraggi, ebreo di Salonicco, riunisce immagini della città e testimonianze di sopravvissuti evidenziando, come sottolinea il sito del festival, lo stimolante “multiculturalismo di questa città che un tempo veniva chiamata” la Gerusalemme dei Balcani”.
  Fra i titoli  Kisses to my children (Baci ai miei bambini) racconta le storie di cinque ebrei che si salvarono dai massacri, solamente perché rifugiatisi in famiglie cristiane locali, durante l’occupazione nazista della Grecia.
  Non si parla solo di ebrei greci; il variegato programma della manifestazione include anche classici sul tema come il monumentale documentario Shoah, diretto nel lontano 1985 dal regista francese Claude Lanzmann scomparso nel 2018, della durata di oltre nove ore ed il film muto Golem, uno dei primi film horror di quell’epoca, che narra le vicende del famoso gigante, creato nel sedicesimo secolo dal Rabbino Judah Loew, uno dei più importanti commentatori biblici di tutti i tempi, noto come il Maharal di Praga, per salvare gli ebrei praghesi dalle violenze antisemite.
  La proiezione verrà accompagnata dalle musiche del talentuoso compositore e cineasta greco Vannis Veslemes che eseguirà, dal vivo, una colonna sonora accompagnando in musica le immagini del lungometraggio, diretto nel 1915 da Paul Wegener e Henrik Galeen, primo  episodio di una trilogia su questo tema.
  Estremamente drammatico, sempre stando al sito della manifestazione, il documentario Gli eroi di Salonicco che, diretto nel 2021 da Tom Barkay, si sofferma sulle sofferenze nei lager, descritte da sei sopravvissuti che raccontano le vicissitudini e le torture da loro subite durante il periodo di internamento nei campi.
  Argomento centrale del festival sarà dunque l’ebraismo, in gran parte perduto, della città di Salonicco che, stando all’articolo del JTA, veniva chiamata La madre di Israele, con una popolazione ebraica di oltre cinquantamila persone, mentre, attualmente, ne conta circa mille. Come ha sottolineato il direttore Andreadakis “si tratta di un omaggio estremamente importante perché la Comunità ebraica ha definito la storia di questa città”

(Bet Magazine Mosaico, 3 marzo 2023)

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Europa, vaccini covid e aumento mortalità, interrogazione urgente di Berlato: Serve trasparenza

“Stando ai dati a disposizione e pubblicati da Eurostat, negli ultimi mesi in Europa si è verificato un brusco aumento di eccesso di mortalità in un arco temporale che coincide con la somministrazione dei cosiddetti vaccini anti Covid-19” spiega l’on. Sergio Berlato, Deputato italiano al Parlamento europeo.
  “Malgrado l’aumento preoccupante del numero delle reazioni avverse, anche mortali, che si sta verificando un po’ ovunque, parrebbe riscontrarsi da parte delle autorità sanitarie la tendenza a minimizzare o addirittura negare qualsiasi tipo di correlazione tra tali reazioni avverse e l’inoculazione delle sostanze geniche sperimentali definite impropriamente “vaccini anti Covid-19”. Alla luce di questi allarmanti dati - prosegue Berlato -, ho presentato un’interrogazione urgente alla Commissione europea chiedendo di predisporre immediatamente studi approfonditi per fare maggiore chiarezza sulla correlazione tra le inoculazioni di questi presunti vaccini anti Covid-19 e le tantissime reazioni avverse, anche mortali, che si sono manifestate e che continuano a manifestarsi anche sul territorio dell’Unione europea.
  Infine, anche in considerazione della diversa situazione epidemiologica esistente in Europa rispetto alla fase iniziale e del numero preoccupante delle reazioni avverse che si stanno registrando, ho ritenuto opportuno chiedere alla Commissione se non ritenga necessario sospendere le autorizzazioni all’impiego di tali presunti vaccini anti Covid-19 su tutto il territorio dell’Unione. Mi sono assunto l’impegno di continuare a ricercare la verità sul modo in cui è stata affrontata l’emergenza legata alla diffusione del Covid-19, sull’efficacia di questi presunti vaccini e sulla loro sicurezza. Non intendo fermarmi fino a quando non verrà fatta completa chiarezza e non verrà garantita la giustizia richiesta da tantissime persone" conclude Berlato.

(telenuovo, 4 marzo 2023)

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L'Ungheria verso lo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme

Lo rivela il sito Times of Israel. Sarebbe primo Stato Ue a farlo

BRUXELLES - L'Ungheria ha nei suoi piani lo spostamento della propria ambasciata in Israele a Gerusalemme.
  Lo rivela - citando fonti del ministero degli esteri - il sito del Times of Israel secondo cui la mossa potrebbe avvenire anche il prossimo mese. Con questa decisione - ha sostenuto Times of Israel - il premier ungherese, Viktor Orbán, vorrebbe concedere un successo diplomatico al suo omologo israeliano, Benyamin Netanyahu, a cui è legato da una lunga intesa politica.
  Netanyahu da settimane è nel mirino per i forti contrasti nel Paese per la proposta di legge del suo governo che intende modificare profondamente il sistema giudiziario e la Corte Suprema. Riforma avversata dall'opposizione e nelle piazze. Se l'intenzione di spostare l'ambasciata a Gerusalemme sarà confermata, l'Ungheria sarebbe il primo Stato membro dell'Ue a farlo.

(ANSA, 3 marzo 2023)

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L’Unione europea aspira a una cooperazione trilaterale con Marocco e Israele

Olivér Várhelyi
Va da sé che i Paesi europei sono stati spettatori degli accordi di pace firmati dai Paesi arabi con Israele, ai quali si aggiunge l’accordo per ripristinare le relazioni diplomatiche tra il Marocco e lo Stato ebraico. Questa ripresa ha portato a una spettacolare intensificazione della cooperazione bilaterale tra Rabat e Tel Aviv a tutti i livelli. Cosa suscita l’interesse dell’UE che vuole prendere parte a questo slancio. Lo ha annunciato il commissario europeo per il Vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri Nasser Bourita. “Il Marocco è uno dei primi paesi arabi a concludere un simile accordo con Israele. L’Europa è stata sicuramente tenuta lontana ma vorrebbe partecipare a questo impegno”, ha indicato il commissario europeo in visita ufficiale in Marocco.
  Olivér Várhelyi ha chiesto una cooperazione “trilaterale” che riunisca Marocco, Unione Europea e Israele. Ha citato tre interessanti aree di interesse comune, vale a dire la gestione dell’acqua, l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo e la promozione della pace.
  Le suddette aree, infatti, costituiscono uno dei pilastri della cooperazione marocchino-israeliana. La gestione dell’acqua, ad esempio, è stata oggetto di un accordo siglato tra il National Electricity Board e la National Water Company dello Stato di Israele sulla depurazione dell’acqua. Rabat e Tel Aviv hanno esteso la cooperazione ad altri settori come l’agricoltura, l’innovazione, la ricerca accademica e la difesa.
  Ricordiamo che il commissario europeo sta effettuando una visita ufficiale in Marocco che durerà fino a venerdì. Fino a questo momento, quest’ultimo ha incontrato il direttore del Fondo per gli investimenti Mohammed VI, Mohammed Benchaâboun, e il ministro degli Affari esteri, Nasser Bourita. All’ordine del giorno anche un incontro con il capo del governo, Aziz Akhannouch.

(DayFR Italian, 3 marzo 2023)

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Iran e Hezbollah, una minaccia per tutto l’occidente

di Luca Spizzichino

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Il regime iraniano ed Hezbollah rappresentano sempre di più una minaccia non solo per Israele e per gli equilibri del Medio Oriente, ma anche per l’Occidente, che dovrà agire il prima possibile senza remore. Questo il messaggio emerso dalla conferenza internazionale “Iran e Hezbollah: ideologia, obiettivi, strategia e strategie dei proxies, terrorismo e propaganda in Occidente”, tenutasi presso Roma Eventi, nata su iniziativa della Federazione di Associazioni Italia-Israele, American Jewish Committee e Think Tank Trinità dei Monti, con il patrocinio di Med-Or Leonardo Foundation e Fondazione Vittorio Occorsio.
  I lavori, suddivisi in tre panel, si sono focalizzati su tre tematiche: l’Iran, con un particolare focus sulle rivolte in atto in tutto il paese; il gruppo terroristico di Hezbollah, dalla sua ideologia alle sue forme di approvvigionamento; le possibili azioni da intraprendere dal punto di vista diplomatico e da quello politico.
  Il senatore Marco Scurria ha sottolineato come sia "necessario concentrare l’attenzione sul tema dell’Iran”, infatti, come spiegato anche dai diversi esperti successivamente, all’interno della società sta avvenendo un profondo cambiamento. Tuttavia, di giorno in giorno le minacce del regime degli Ayatollah diventano sempre più concrete.
  “L’Iran sta intensificando la nascita di nuove sigle che si muovono in Cisgiordania, queste sono pericolose perché implementano l’asse della resistenza con un obiettivo preciso: minare gli accordi di Abramo” ha spiegato Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica. “Siamo di fronte a una minaccia reale, che fa uso anche di piccoli movimenti jihadisti sunniti per la loro libertà d’azione. Questi possono creare un vortice di tensione che può colpire, non solo Israele, ma anche l’Europa” ha aggiunto.
  Il professor Germano Dottori, consigliere della Fondazione Med Or, ha invece focalizzato l’attenzione sulle rivolte in Iran e la possibile svolta epocale che questa può portare. “La società chiede l’uscita dal paradigma dell’Islam politico” ha affermato Dottori, spiegando come la richiesta dei ragazzi che da mesi protestano per le strade iraniane è solo uno: delegittimare il regime, “per questo viene chiesto insistentemente di mettere le Guardie della Rivoluzione nella lista delle organizzazioni terroristiche”.
  Nel secondo panel ci si è focalizzati su Hezbollah, diventato sempre di più un rischio concreto per lo stato d’Israele, e le sue connessioni, a livello ideologico e strategico, con il regime degli Ayatollah.
  “Non esiste una distinzione tra ala militare e politica in Hezbollah” ha dichiarato il professore Matteo Bressan, esperto di terrorismo e docente presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale, che ha voluto porre l’attenzione su come si sia evoluta l’organizzazione terroristica negli anni, diventando sotto il profilo militare una minaccia a tutti gli effetti.
  Emanuele Ottolenghi, senior fellow presso FDD ed esperto nelle reti di illecite di Hezbollah in America Latina, ha analizzato i metodi di approvvigionamento dell’organizzazione libanese. Considerato da Ottolenghi come un “franchise” della rivoluzione islamica iraniana, Hezbollah ogni anno riesce a raccogliere cifre attorno al miliardo di dollari, di cui 300 milioni attraverso attività illecite, in particolare il traffico di stupefacenti.
  Inoltre, ha sottolineato come Hezbollah sia estremamente influente in quei paesi dove c’è un alto tasso di corruzione, come in Sud America, dove esistono diverse comunità libanesi, con una struttura socioeconomica identica a quella di Hezbollah, che secondo Ottolenghi è “diventato fattore di erosione in Africa e Sud America”.
  Sarit Zehavi, tenente colonnello riservista e fondatore dell'Alma Research and Education Center Israel, ha posto l’attenzione sull’arsenale di Hezbollah, composto da circa 215 mila missili e 2mila droni. Inoltre ha mostrato ai presenti come agiscono i commando di Hezbollah al confine israeliano, con i terroristi che usano le ONG come coperture per avere postazioni vicino alle recinzioni.
  Un insieme di elementi che non può non preoccupare l’intera comunità internazionale per i riflessi che possono scaturire a livello globale.

(Shalom, 3 marzo 2023)

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La moglie di Netanyahu sotto assedio mentre è dal parrucchiere

La first lady è andata a farsi i capelli a Tel Aviv mentre si svolgevano le manifestazioni di protesta contro la riforma della giustizia. Un selfie con un’ammiratrice ha scatenato la rivolta: è stata scortata a casa dai servizi segreti.

di Davide Frattini

GERUSALEMME — Gli oltre quarantamila euro all’anno da spendere in vestiti, truccatrici e parrucchieri (offerti dai contribuenti per «l’aspetto di rappresentanza» e da dividere con il marito primo ministro) sono costati ieri pomeriggio a Sara Netanyahu qualche ora di panico e pubblico disprezzo.
  La moglie del premier israeliano ha deciso di presentarsi per la messa in piega nella città sbagliata al momento sbagliato. Fin dal mattino Tel Aviv è squassata — come avevano promesso gli organizzatori nel «giorno del disordine» — dalle manifestazioni che bloccano il traffico e gli ingressi verso gli uffici pubblici. Al tramonto la polizia carica i dimostranti, lancia granate assordanti, i cortei diventano scontri, gli arrestati sono quarantadue. Al tramonto una cliente dello stesso salone, nel nord elegante della metropoli, si scatta un selfie con Sara, lo posta e di fatto indica alla rabbia collettiva la posizione del prossimo bersaglio.
  Centinaia di dimostranti marciano verso le vetrine del parrucchiere, lo assediano, urlano «vergogna, vergogna» a quella che considerano una Maria Antonietta indifferente alle difficoltà degli israeliani medi, tra inflazione che sale ed economia che scende, causa – accusa l’opposizione – il piano di smantellamento della giustizia portato avanti dal consorte. Lui si appella all’avversario politico Yair Lapid perché richiami «l’accerchiamento vergognoso» e ordina alle guardie dei servizi segreti supportate dalla polizia a cavallo di evacuare Sara verso casa a Gerusalemme. Da dove Bibi – com’è soprannominato – pubblica un selfie in cui la consola, accompagnato dalle parole: «Moglie adorata, sono contento tu sia qui sana e salva. Questa anarchia deve finire, può costare vite umane».
  Dal personale al politico, il capo del governo di estrema destra paragona i manifestanti che chiedono di fermare il blitz legislativo della maggioranza – vuole ridimensionare la Corte Suprema, i magistrati, i giudici, sottoporli al controllo dell’esecutivo – ai coloni andati domenica scorsa all’assalto del villaggio palestinese di Hawara per vendicare l’uccisione di due di loro poco lontano. Mette sullo stesso piano le proteste contro di lui e quello che un alto generale israeliano ha chiamato un «pogrom» compiuto da ebrei.
  I «ragazzi delle colline» – cresciuti con l’ideologia che i territori arabi catturati nel 1967 siano di diritto israeliani e un far west da domare – hanno dato alle fiamme quaranta case, bruciato una cinquantina di auto, in parte esaltati dal sostegno delle frange oltranziste dentro la coalizione al potere. Il dipartimento di Stato americano ha definito «disgustose e ripugnanti» le parole di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e a capo del partito dei coloni, che ha proclamato: «Hawara va cancellato dalle mappe, ma penso debba farlo lo Stato d’Israele e non i singoli individui».

(Corriere della Sera, 3 marzo 2023)

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Il rabbino capo ashkenazita di Israele visita Taiwan in un momento storico per la comunità ebraica del paese

The Jerusalem Post

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Il rabbino capo ashkenazita di Israele visita Taiwan in un momento storico per la comunità ebraica del paese – The Jerusalem Post Il rabbino capo di Israele ha visitato Taiwan la scorsa settimana, probabilmente per la prima volta, segnando una pietra miliare sia per la nazione insulare che per la comunità ebraica, scrive il giornalista della JTA Jordyn Jaime. La scorsa settimana, il Jeffrey D. Schwartz Jewish Community Center di Taipei ha accolto il rabbino capo ashkenazita di Israele David Lau per una visita di tre giorni che ha incluso la cerimonia di apertura del community center il 21 febbraio, un vertice rabbinico regionale e un incontro con Funzionari israeliani e taiwanesi.
  Secondo la Taiwan Jewish Cultural Association Jeffrey D. Schwartz e Na Tang, o JTCA, al vertice hanno partecipato circa 30 rabbini della regione, compresi quelli di Sydney, Giappone, Hong Kong, Cina, Singapore, Corea del Sud, Tailandia e Cambogia, per promuovere gli scambi culturali in tutta la regione e celebrare l’apertura del Centro Ebraico. Le restrizioni di viaggio dovute al Covid-19 hanno fatto deragliare il piano originale di Lau di partecipare all’apertura ufficiale al pubblico nel 2021. “È stato un onore per me visitare Taiwan e incontrare qui la comunità ebraica. Sono rimasto colpito dalla loro dedizione alla cultura e alle tradizioni ebraiche e sono fiducioso che la comunità continuerà a prosperare negli anni a venire”, ha dichiarato Lau dopo l’evento.
  Negli ultimi dieci anni, la comunità ebraica di Taiwan ha vissuto un drammatico risveglio grazie all’arrivo nel 2011 del rabbino Shlomi Tabib, associato al movimento chassidico Chabad-Lubavitch, e agli sforzi della comunità ebraica di Taiwan, una comunità aconfessionale con una propria comunità religiosa attiva a Taipei. Jeffrey Schwartz, un uomo d’affari locale, ha lasciato la comunità ebraica di Taiwan per avviare la sua associazione e un centro da 16 milioni di dollari in cui vivono Tabib e la sua famiglia. La sinagoga nel centro di Schwartz è ora utilizzata come sede di eventi sia dalla comunità Schwartz gestita da Chabad che dalla comunità ebraica taiwanese, che sono rimaste divise per anni a causa di liti comuni.
  Al fine di promuovere lo scambio culturale tra ebrei di Taiwan e non ebrei locali, lo Schwartz Community Center comprende un museo di studi ebraici, un mikveh e un ristorante kosher e ospita tour e attività aperte al pubblico taiwanese. Secondo Schwartz, il numero di visite di visitatori taiwanesi locali nel primo anno di attività del centro è “uno dei risultati più toccanti”. In un’intervista con JTA, ha aggiunto che spera che la visita di Lau contribuirà anche a rafforzare i legami tra Israele e Taiwan. Alla cerimonia del 21 febbraio ha partecipato Don Shapiro, uno dei primi membri del TJC, ufficialmente registrato nel 1979. “Non avrei mai pensato che avrei mai visto il rabbino capo di Israele visitare Taiwan, figuriamoci far parte di un raduno di rabbini provenienti da tutta la regione dell’Asia-Pacifico”, ha detto. “È stata una testimonianza di come la comunità ebraica di Taiwan, ora sede di due comunità religiose attive e di un’associazione culturale ebraica, stia prosperando dopo un periodo di grande incertezza”.

(Russia Posts Italian, 3 marzo 2023)

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Nuova leader, vecchio antisemitismo

di Fiamma Nirenstein

Elly Schlein
Non è cosa da poco per l'Italia intera che un grande partito come il Pd, erede della storia comunista che con quella cattolica ha forgiato il cuore della politica di questo Paese, abbia adesso scelto come segretaria Elly Schlein. Un leader woke, vessillifero di una serie di battaglie che stanno ridefinendo il mondo, a partire dagli Usa. Schlein ha molto spazio: è pacifista, verde, ha un'interpretazione dei diritti umani tutta proiettata alla colpevolizzazione dei cattivi della storia, quelli che fanno la guerra, gli «oppressori» dei neri, delle donne, degli Lgtbq, del Terzo Mondo; la soluzione primaria dell'immigrazione la vede nell'accoglienza, in economia è sostenitrice dell'intervento statale. E come si è visto dall'affondo tirato subito a Piantedosi, gestirà il partito in prima persona.
  Adesso, proprio oggi, la neosegretaria partecipa a Palazzo Marino a Milano a una due giorni dal titolo: «Basta con l'occupazione israeliana in Palestina». Semplice ed espressivo. Con lei fra gli altri l'ambasciatrice palestinese in Italia e Luisa Morgantini, di cui si conosce l'indefesso sostegno ad Arafat anche negli anni del grande terrorismo dell'Intifada. Un titolo come questo è uno squillo di tromba: invita non alla «legittima critica allo Stato d'Israele», come si dice sempre e come forse dirà anche Schlein, ma costruisce le fondamenta per l'antisemitismo contemporaneo, tramite l'ipotesi che Israele sia un Paese che vìola la legittimità internazionale, che occupa un paese, magari, che un tempo si chiamava «Palestina» facendone una colonia. In realtà la cosiddetta «occupazione», relativa all'West Bank ovvero Giudea e Samaria, nasce da una guerra in cui Israele fu attaccata dalla Giordania e difendendosene dovette occuparne territori poi ceduti dal re ai palestinesi. Oggi sono contestati, secondo la definizione dell'Onu, e non «occupati». Finché le due parti non si siedano per accordi di pace che i palestinesi hanno sempre rifiutato. Questo Schlein forse lo sa... Quello che certo sa è che Israele soffre di un continuo assatanato incitamento che porta a attacchi terroristici continui. Lo sa? Comunque, sceglie di avviare il suo lavoro abbracciando un redditizio tema che alcuni politici di sinistra, vergognandosi della gigantesca ondata di odio antiebraico che essa alimenta, hanno poi deciso di abbandonare. La nuova segretaria Pd partecipa in questo modo al traghettamento della religione del nostro tempo, la battaglia per i diritti umani, dalla parte dell'ignoranza, della faciloneria, e peggio ancora verso una nuova persecuzione antisemita in atto in tutta Europa con la giustificazione che gli ebrei sono «oppressori».

(il Giornale, 3 marzo 2023)

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Due anni di profitti record per le multinazionali farmaceutiche dei vaccini anti-Covid-19

di Ilaria Sesana

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Tra il 2021 e i primi nove mesi del 2022 le multinazionali farmaceutiche Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac hanno registrato profitti per circa 90 miliardi di dollari dalla vendita di vaccini e farmaci contro il Covid-19. Guadagni enormi “in larga parte dovuti a decenni di ricerca finanziata da investimenti pubblici, miliardi di sovvenzioni per lo sviluppo e la produzione e decine di miliardi sotto forma di Accordi di acquisto avanzato (APA) con i governi”, sottolinea Somo, organizzazione olandese che indaga i comportamenti e le politiche delle grandi aziende transnazionali, nel rapporto “Pharma’s pandemic profits” pubblicato il 27 febbraio. Più nel dettaglio, Pfizer ha generato utili netti per 25 miliardi di dollari, BioNTech e Moderna 20 miliardi a testa mentre la cinese Sinovac ha rilevato margini per circa 15 miliardi.
  I ricercatori di Somo hanno analizzato i dati finanziari dei sette maggiori produttori di vaccini contro il Covid-19: un’attività che ha permesso di generare ricavi pari a 86,5 miliardi di dollari solo nel 2021, con un utile di 50 miliardi. Ma solo quattro società (Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac, appunto) hanno realizzato utili consistenti. “Con un margine netto del 57% sono stati superati persino i profitti già alti del business as usual dell’industria farmaceutica, che è tra i settori commerciali più redditizi al mondo -si legge nel report-. Ma se si considerano solo Pfizer, BionTech, Moderna e Sinovac i margini per il 2021 sono addirittura compresi tra il 62% e il 76%”.
  Altrettanto elevati gli utili nei primi nove mesi del 2022 -in questo caso solo stimati da Somo, dal momento che non tutti i bilanci sono stati ancora resi pubblici- per le quattro società che hanno tratto maggiori profitti dalla vendita dei vaccini anti-Covid-19: 30 miliardi di dollari. Cifre particolarmente sorprendenti se si pensa che di queste, solo Pfizer aveva registrato utili prima ancora di avviare la produzione di vaccini contro il Covid-19.
  Fatturati da record resi possibili anche grazie ai generosi finanziamenti messi a disposizione dai governi (in particolare da quello statunitense) a seguito dello scoppio della pandemia: le sette società prese in esame hanno ricevuto almeno 5,8 miliardi di dollari sotto forma di finanziamenti pubblici per la ricerca. Ma non solo. “La percezione comune è che i vaccini Covid-19 siano stati sviluppati rapidamente dalle aziende farmaceutiche in tempi molto brevi, ma questo non è il quadro completo. Ricerche precedenti avevano gettato le basi”, ricorda Somo citando diversi articoli di ricerca che hanno evidenziato come la tecnologia utilizzata per sviluppare rapidamente i vaccini era disponibile negli Stati Uniti perché il governo aveva finanziato la ricerca di base e il progresso di queste tecnologie. “Anche altri governi e organizzazioni internazionali hanno finanziato la ricerca, come la tecnologia mRNA utilizzata da Moderna e Pfizer/BioNtech -si legge ancora nel report-. Ad esempio, la Fondazione Bill&Melinda Gates ha finanziato Moderna per lo sviluppo della tecnologia mRNA, sia nel 2016 sia nel 2019, per un importo totale di 21 milioni di dollari. In realtà, la tecnologia mRNA ha una lunga storia di sviluppo, che risale al 1961, finanziata da diverse università”.
  A queste risorse vanno poi sommate quelle erogate dai governi tramite i cosiddetti Advanced purchase agreements (Apa), ovvero il pagamento anticipato per sostenere i costi di sviluppo e di produzione: miliardi di dollari sono finiti nelle casse delle aziende mentre i vaccini erano ancora in fieri e ancor prima di conoscerne l’efficacia. Secondo le stime di Somo le aziende avrebbero ricevuto almeno 86,5 miliardi di dollari ma l’importo esatto “è difficile da determinare e potrebbe essere molto più alto perché le aziende e i governi non sono stati trasparenti nei loro accordi -aggiunge Esther de Haan, ricercatrice di Somo-. Per quanto abbiamo potuto stabilire, questi accordi non richiedevano alle società di restituire il denaro utilizzato per sviluppare e produrre vaccini, anche quando lo sviluppo falliva e il prodotto non veniva mai consegnato”.
  Nel report, l’organizzazione olandese denuncia la mancanza di trasparenza degli Apa, che ha reso difficile verificare se i fondi pubblici siano stati spesi bene ed equamente. “Nella maggior parte dei documenti analizzati venivano effettuati pagamenti anticipati che finanziavano i costi di sviluppo e produzione -si legge nel report-. Se l’azienda non riusciva a sviluppare un vaccino funzionante, il denaro già speso per lo sviluppo e la produzione non doveva essere ripagato. Mentre se si rivelava efficace, le società non dovevano restituire nulla, nonostante i notevoli profitti. Molti accordi non prevedevano sanzioni in caso di ritardo nella consegna”.
  Ma chi ha tratto beneficio da questa situazione? Certamente gli amministratori delegati delle compagnie: secondo le stime, infatti, l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, nel 2021 avrebbe ricevuto più di 24 milioni di dollari; una cifra che comprende stipendio annuale (1,7 milioni di dollari), premio obiettivo e premi in azioni. Complessivamente, il pacchetto retributivo dei sei membri della dirigenza di Pfizer ammonterebbe a 71 milioni di dollari. Grazie ai profitti generati dalla produzione di vaccini anti-Covid-19 l’immunologo Uğur Şahin, amministratore delegato di BioNTech, è entrato ufficialmente nella lista dei miliardari di Forbes nel 2022 con un patrimonio di 6,1 miliardi di dollari seguito dal Ceo di Moderna, con 5,8 miliardi.
  Chi ci ha rimesso, invece, è stato il fisco. Somo aveva già indagato il sistema di elusione fiscale messo in atto da alcune società impegnate nella produzione di vaccini per contrastare la diffusione del virus. Per quanto riguarda Moderna, in particolare, l’Ong olandese aveva denunciato il possesso di un numero elevato di brevetti nel Delaware (Stato Usa a fiscalità agevolata) e la creazione di una sussidiaria svizzera dove convogliare i ricavi registrati a seguito dei contratti siglati con l’Unione europea. “La nostra conclusione è che gli utili di Moderna finivano molto probabilmente nei paradisi fiscali del Delaware e della Svizzera, dove sono tassati a un’aliquota molto più bassa rispetto ad altre giurisdizioni”.
  L’organizzazione ha pubblicato questo articolato report in concomitanza con l’avvio del quarto ciclo di negoziati per la definizione del nuovo Accordo sulle pandemie, un documento che riconosce anche la necessità per i governi di porre condizioni al finanziamento pubblico della ricerca e dello sviluppo medico. Tuttavia, sottolinea Somo, la bozza di testo pubblicata all’inizio di febbraio è ben lontana dal rendere obbligatorie le condizioni su prezzi, margini di profitto e accesso equo. “Senza regole obbligatorie, cambierà ben poco. I colossi aziendali continueranno a ricevere finanziamenti pubblici incondizionati e a negoziare accordi perversi. I finanziamenti pubblici devono servire l’interesse pubblico, il che significa farmaci accessibili a tutti e sicuri, non superprofitti per Big Pharma”, conclude Esther de Haan.

(Altreconomia, 2 marzo 2023)

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Proteste anti Netanyahu: arresti e feriti a Tel Aviv. "Rischio guerra civile"

In migliaia contro la riforma della giustizia promossa dal governo. Il presidente Herzog: "Siamo sull'orlo dell'abisso".

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME - Giornata difficilissima in Israele. Decine di persone vengono ferite e almeno 11 trasportate in ospedale nelle manifestazioni contro il governo a Tel Aviv con la polizia che lancia granate stordenti e utilizza cannoni ad acqua per impedire il blocco delle strade - e il primo ministro Benjamin Netanyahu che in serata traccia un parallelo tra le proteste di piazza e l'attacco al villaggio palestinese di Huwara messo a ferro e fuoco domenica da centinaia di israeliani per vendicare la morte di due ragazzi uccisi in un attentato poche ore prima. Il tutto mentre l'approvazione della controversa riforma della giustizia procede a ritmi serrati nonostante la profonda spaccatura nella società. Il Presidente Isaac Herzog denuncia come il Paese sia sull'orlo del baratro, parlando di un imminente "disastro storico", mentre tutti i tentativi di aprire al dialogo paiono cadere nel vuoto.
  Sin dalle prime ore della "giornata del disturbo" proclamata da vari gruppi della società civile per protestare contro la riforma, il governo afferma la necessità di usare il pugno di ferro contro quelli che Netanyahu e vari membri del suo esecutivo, a partire dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, definiscono "anarchici". "Ho istruito i poliziotti perché usino tolleranza zero", twitta Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit ("Potere ebraico") che incassa l'appoggio pieno di Netanyahu. Nel pomeriggio, Yair Lapid e altri leader dell'opposizione lasciano la Knesset per unirsi ai manifestanti, mentre in Parlamento si continua a votare su alcune parti della riforma della giustizia, che mira a ridimensionare i poteri della Corte Suprema e a garantire al governo il controllo sulla nomina dei giudici.
  Durante la giornata, la Commissione affari costituzionali dà il via libera al disegno di legge per limitare in modo sostanziale la capacità del tribunale di bocciare la legislazione, disegno di legge che passerà nei prossimi giorni alla discussione in aula. Il tutto mentre la Knesset in seduta plenaria invece approva in prima lettura (sulle tre necessarie) altre due proposte non legate alla riforma ma centrali nell'agenda di governo: l'introduzione della pena di morte per i terroristi e l'impossibilità di dichiarare un primo ministro inadatto a ricoprire il ruolo se non per gravi impedimenti fisici o mentali - una proposta quest'ultima che, secondo i suoi critici, serve a proteggere Netanyahu che è imputato in diversi processi per corruzione e abuso d'ufficio.
  In serata l'appuntamento per i manifestanti si sposta a Gerusalemme davanti alla Residenza del Primo Ministro, dove durante il precedente esecutivo guidato da Netanyahu si scendeva in piazza ogni sabato sera. Anche quando l'attuale governo è entrato in carica, decine se non centinaia di migliaia di persone hanno continuato a unirsi ogni settimana alle proteste, questa volta con epicentro a Tel Aviv. Tra le persone contestate ieri anche la moglie di Netanyahu, Sarah, mentre si trovava dal parrucchiere in una zona elegante della città. Altri manifestanti si radunano davanti alla residenza di Herzog, che durante una cerimonia militare a Haifa nel pomeriggio interviene, lanciando ancora una volta un appello accorato al dialogo, dopo che alcune settimane fa aveva avanzato la proposta di un negoziato sulla base di un piano da lui formulato. "Lo Stato di Israele, la società israeliana, tutti noi stiamo vivendo un momento difficile di crisi interna, profonda e seria che ci minaccia tutti", sono state le parole di Herzog. "Non permetterò che si verifichi questo disastro storico".
  "Ritengo con tutto il cuore che sia possibile trasformare questo momento di crisi in un momento costituzionale che ci ridefinisca" prosegue. "Un momento in cui la nostra democrazia, i principi della Dichiarazione di Indipendenza, la supremazia della legge, i diritti umani e l'equilibrio tra i poteri dello Stato siano preservati per generazioni".
  E tuttavia, i tentativi di dialogo paiono destinati a infrangersi. Dopo una nota congiunta di alcuni parlamentari veterani di maggioranza e opposizione - Yuli Edelstein e Danny Danon del Likud, Gadi Eisenkot di Unità Nazionale, e Chili Tropper, Matan Kahana e Moshe Turpaz di Yesh Atid - e un'inedita telefonata del leader di Unità Nazionale Benny Gantz a Netanyahu per tentare di sbloccare la situazione - si rischia "la guerra civile", dice Gantz - molti speravano che il premier aprisse qualche spiraglio per i negoziati in un discorso alla nazione durante il notiziario serale. Speranze rimaste deluse, con Netanyahu che si è limitato a sottolineare come violenza e illegalità non possano essere tollerati "né a Huwara né a Tel Aviv".
  Mentre Israele vive un periodo di tensioni fortissime, con 14 persone che hanno perso la vita in attacchi terroristici dall'inizio dell'anno, l'esercito ha intensificato le operazioni militari in Cisgiordania (oltre 60 i palestinesi uccisi nello stesso periodo, in maggioranza miliziani ma anche diversi civili), e la spaccatura della società pare sempre più incolmabile anche riguardo ai fatti di Huwara.
  Domenica, dopo un attentato in cui sono stati uccisi due fratelli di 19 e 21 anni alla guida della loro auto sulla strada 60 che attraversa la cittadina palestinese, centinaia di abitanti degli insediamenti hanno incendiato case e auto, provocando decine di feriti e un morto in un villaggio vicino. Se una parte significativa dell'opinione pubblica è rimasta profondamente scossa dall'episodio, diversi esponenti della maggioranza hanno espresso il proprio sostegno a quanto accaduto, con il ministro delle Finanze e leader del Partito Sionista Religioso Bezalel Smotrich che ha dichiarato come Huwara debba essere "spazzata via" ma che a occuparsene dovrebbe essere il governo e non i privati cittadini. Prima di scrivere un tweet "per chiarire l'equivoco" dicendo che a essere colpiti devono essere solo i sostenitori del terrorismo.

(la Repubblica, 2 marzo 2023)


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  Un’ordinaria giornata in Israele

di Luca Spizzichino

Le proteste a Tel Aviv, il funerale a Ra’anana e l’operazione militare per arrestare gli assassini di Elan Ganeles a Gerico. Una giornata che sembrerebbe fuori dall’ordinario in qualsiasi parte del globo, ma non Israele, dove da mesi eventi del genere sono ormai quasi all’ordine del giorno. Un periodo delicato per lo Stato Ebraico tra le manifestazioni contro la riforma giudiziaria promossa dal governo e i continui attentati terroristici che in meno di una settimana ha già visto tre vittime, l’ultima sepolta ieri.
  I funerali di Elan Ganeles, 26enne israelo-americano rimasto ucciso in un attacco terroristico nei pressi del Mar Morto, si sono svolti a Ra’anana. La famiglia di Ganeles, che è volata in Israele per seppellire il ragazzo da West Hartford, nel Connecticut, è stata accolta da una grande folla che si è stretta attorno ai genitori e ai fratelli. “La nostra perdita è una perdita per il mondo”, ha affermato la madre che ha ricordato Elan. “Aveva un'intera vita davanti, voleva così tanto vedere il mondo, assorbire ogni aspetto”. Elan, che era in visita in Israele per partecipare al matrimonio di un amico, ha prestato servizio nell'IDF come programmatore di computer prima di tornare negli Stati Uniti per conseguire la laurea. “Ci sentiamo come se una parte del nostro essere ci fosse stata tolta. Era così amato e ci mancherà così tanto" hanno concluso i suoi genitori.
  Proprio mentre si stavano svolgendo i funerali di Elan Ganeles l’esercito israeliano stava portando avanti un’operazione nel campo profughi di Aqabat Jabr, adiacente a Gerico, a seguito di informazioni fornite loro dallo Shin Bet. Due uomini palestinesi sospettati di aver compiuto l’attentato di lunedì, sono stati arrestati, ha detto l'IDF. Un terzo sospetto armato è stato colpito mentre tentava di fuggire e preso in custodia dall’esercito. Il primo ministro Benjamin Netanyahu in una dichiarazione ha elogiato “l'IDF e lo Shin Bet per aver localizzato i terroristi in breve tempo e aver eseguito un'operazione precisa".
  A pochi chilometri da Ra’anana, nel cuore di Tel Aviv, più precisamente vicino alle torri Azrieli, invece, per la prima volta si sono verificati dei disordini durante le manifestazioni contro la riforma giudiziaria. Infatti i poliziotti, per la prima volta dall'inizio delle proteste circa due mesi fa, hanno lanciato gas lacrimogeni, granate assordanti e sparato con cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti che stavano tentando di bloccare l’autostrada Ayalon. Almeno 11 persone sono rimaste ferite negli scontri, mentre 39 persone sono state arrestate durante le manifestazioni a livello nazionale per aver bloccato le strade e interrotto il servizio. "La violenza contro gli agenti di polizia, come il lancio di pietre e oggetti contro gli agenti di polizia, è, per me, oltrepassare una linea, cosa che non permetteremo", ha detto il capo della polizia Kobi Shabtai, che ha sottolineato come diversi agenti di polizia sono rimasti feriti durante i disordini.
  Un clima infuocato quello che sta vivendo lo Stato Ebraico e che è alimentato da più fronti: in particolare quello politico e quello della sicurezza, che stanno mettendo a dura prova non solo il governo, ma la società israeliana stessa, estremamente polarizzata.

(Shalom, 2 marzo 2023)


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Riforma del sistema giudiziario: un nuovo giorno di proteste scuote Israele, la polizia risponde con violenza

Benny Gantz: “rischiamo la guerra civile”

di Giovanni Panzeri

Nella giornata di mercoledì 1 marzo migliaia di cittadini si sono riversati nelle strade di numerose città israeliane, in quello che gli organizzatori delle proteste hanno definito il ‘giorno della protesta’, un giorno di azione diretta per protestare contro un nuovo pacchetto di misure in fase d’approvazione nella Knesset.
  Le misure in questione prevedono la discussione di due decreti, che impedirebbero alla corte suprema di prevenire la nomina di ministri pluricondannati e darebbero al ministro della giustizia il controllo diretto dei corpi giudiziari dedicati a investigare i crimini delle forze dell’ordine.
  In serata, inoltre, la Knesset ha approvato in prima lettura un ulteriore decreto, che impedirebbe alla corte suprema di sospendere il primo ministro.
  I manifestanti hanno bloccato autostrade, occupato stazioni e preso di mira le abitazioni di esponenti del governo, circondando la residenza del primo ministro Netanyahu a Gerusalemme e bloccando sua moglie in un negozio di parrucchieri.
  Le proteste hanno incontrato per la prima volta la violenta risposta della polizia, in particolare a Tel Aviv, dove le forze dell’ordine hanno impiegato gas lacrimogeno, granate stordenti e cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti, ferendone 11 e arrestandone circa 50 in tutta la nazione.
  Benny Gantz, leader del partito d’opposizione Unità Nazionale,  si è rivolto alla coalizione governativa, invitandola a negoziare e chiedendo l’interruzione del processo legislativo. “Fermate tutto e incontriamoci” ha affermato, riferendosi alle proposte di mediazione avanzate dal presidente Herzog, “ la guerra civile è alle nostre porte, e il governo sta correndo verso di essa ad occhi chiusi.”
  “Lo stato d’Israele, la nostra società, si trova nell’ora più buia di una crisi che ci minaccia tutti” ha affermato il presidente Herzog, rinnovando il suo appello al compromesso “ma possiamo ancora arrivare ad un accordo, che trasformi questa crisi in un momento costituzionale”.
  Il governo ha ribadito che è aperto al dialogo, ma non fermerà il processo legislativo, condizione ritenuta fondamentale dall’opposizione.
  In serata il primo ministro Netanyahu ha condannato le proteste definendole “anarchiche e violente”, affermando che si sono spinte oltre i limiti accettabili attaccando rappresentanti e forze dell’ordine e paragonandole alle devastazioni perpetrate dai coloni nella città palestinese di Huwara, in risposta agli attentati dei giorni scorsi.
  Il discorso è stato condannato a sua volta dal leader dell’opposizione Yair Lapid: “Quello di Huwara è stato un pogrom portato avanti da terroristi. Qui c’è la parte migliore di Israele, i nostri riservisti, dottori, piloti e studenti.”

(Bet Magazine Mosaico, 2 marzo 2023)

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Gerusalemme, la Città dorata. Il kibbutz Kalia di Ein Gedi e il Moshav delle capre

La Città Santa, Gerusalemme, detta anche la Città dorata. La veduta dal Monte degli Ulivi racchiude tutti i contrasti della capitale politica di Israele, la cupola dorata della Moschea e la valle di Giosafat dove un giorno verremo tutti chiamati per il Giudizio finale.
  È l’ultima tappa del reportage che per un anno e mezzo ci ha portati in alcuni dei luoghi selvaggi della Terra, città che lavorano per ridurre i livelli di CO2, ancora, i modelli e i progetti che nel mondo – da Nord a Sud, non potendo viaggiare da Ovest a Est per la pandemia ndr – in piena crisi energetica, ambientale, geopolitica.
  Tolosa, Copenaghen, Madeira, Porto Santo, la Sardegna slow, la foresta primaria di Białowieża (patrimonio UNESCO) al confine tra Bielorussia e Polonia; e poi Lampedusa e Filicudi, lungo la rotta delle tartarughe, e i tursiopi, il mondo sotto e intorno a noi, fino all’Islanda terra di vulcani e ghiacciai, che si stanno fondendo a causa dell’Antropocene. Tutte tappe volate con easyJet Italia che, in attesa che dalla transizione ecologica, misura la CO2 emessa e lavora sulla compensazione delle tratte con progetti di riforestazione.
  L’ultima di un reportage è, sempre, una scommessa e una visione del futuro. Sono, infatti, le scelte di domani che determinano quel che faremo oggi. Da questo punto di vista, Israele è uno dei luoghi che meglio rappresenta il coacervo, la co-abitazione (non sempre pacifica) tra etnie differenti, religioni diverse, stili di vita: «A Haifa si lavora, a Gerusalemme si prega, a Tel Aviv ci si diverte», dicono gli israeliani.
  È per questo che siamo venuti a 4.000 chilometri di distanza: per vedere questa FatherLand, la terra dei Padri, Israele e i suoi kibbutz, progetti di un’utopia socialista nei quali il singolo cede alla comunità il proprio lavoro e denaro e riceve in cambio casa e servizi, per tutti in egual misura; su un van, attraverso il Lago di Tolemaide e la Cirenaica, sino ai confini con la Giordania, le dune che portano alla Siria, le alture del Golan e i territori del Mar Morto, gli insediamenti beduini nel deserto, con i loro cammelli dagli occhi tristi, pronti a farsi fotografare dai turisti, il fiume Giordano acquasantiera del Battista Giovanni. Ma, anche, la strana sensazione per noi occidentali di essere sempre sotto controllo, le zone sono contrassegnate dalle lettere “A”, “B”, “C” dove la A sta per territori amministrati e completamente sotto il controllo politico ed economico israeliano (ai check point, giovanissimi soldati in uniforme armano il colpo in canna quando passiamo ndr) fino ai territori occupati - dopo la Guerra dei 6 giorni - contrassegnati dalla C.
  La Città Santa è suddivisa in 4 quartieri: a Nord-Est l’enorme distretto arabo, a Sud-Est quello ebraico, a Sud-Ovest il piccolo quartiere armeno e infine a Nord-Ovest, il quartiere cristiano.

• I luoghi della Bibbia scorrono davanti ai nostri occhi.
  Qui convivono da secoli 6 confessioni religiose, per una città che conta oggi quasi un milione di abitanti: musulmani, cristiani, etiopi, greci ortodossi, armeni, ebrei. Oltre ai turisti che arrivano da ogni parte del globo.
  Gerusalemme conserva alcune delle più importanti testimonianze religiose del mondo: il Santo Sepolcro (le cui chiavi sono custodite, e tramandate di generazione in generazione, da una famiglia musulmana: una delle ‘mille-e-una’ contraddizioni del Medio Oriente ndr), la scalinata edificata sopra la salita al Golgota e le tappe della Via Crucis: l’ingresso al Sepolcro sotto l’arco e il letto di pietra rossa, dove - si dice – il Cristo, profeta per alcuni figlio di Dio per altri, venne adagiato dopo la crocifissione, fedeli in ginocchio davanti a candele ed ex voto dentro la cappella, prima della resurrezione.
  A Gerusalemme si respira la grande Storia, la città dei mitici Re Davide e Shlomo, Salomone dal cui nome deriva il saluto, “Shalom”. È qui che il popolo di Abramo vive, prega, ama, studia.
  Canta il muezzin al tramonto. Una città arabesco a cielo aperto, al mercato (Shuk) il profumo dei datteri si mischia a quello dell’incenso, e a quello dei torroni dalla vaga forma di formaggi; lungo il Muro del pianto sfilano gli ortodossi, affidano foglietti a ritmo di ondeggianti preghiere, con il corpo e la fronte appoggiata alle pietre millenarie di questa città dentro la città che, oggi, è possibile visitare grazie al Western Wall Tunnels.

• Il kibbutz Kalia di Ein Gedi
  Dopo aver visitato alcuni dei più grandi kibbutz di Israele (fra i molti, il grande Maagam Michael e lo Tzuba, dove si producono ottimi vini) scendiamo verso il deserto della Giudea, le capre balzano sui greti dei fiumi in secca, i cosiddetti wādī, o uadi – parola araba da cui deriva il nostro termine “guado” – arriviamo al punto zero (0) sul livello del mare, è qui che comincia la più profonda depressione del mondo: 426 metri sotto il livello del mare, tasso di salinità dell’acqua oltre il 30%, siamo sulle rive del Mar Morto, cristalli di sale a riva, in acqua si galleggia da soli (Archimede ne sarebbe entusiasta), è gennaio eppure il sole picchia oltre i 28°C, in estate la temperatura arriva oltre i 45°C.
  È su queste terre che sorge una delle molte meraviglie d’Israele: Masada, la fortezza di Erode il Grande è incastonata tra i canyon della Giudea, della località di Ein Gedi parla anche il Cantico dei Cantici; il rosso e il cremisi ingentiliscono i frastagliati monti all’alba, visitiamo con Amisinay gli orti di cipolle e carote, e le coltivazioni dei datteri Medjool, i più dolci e pastosi (la raccolta si fa tra agosto e ottobre) del Kibbutz Kalia fondato nel 1959 sopra una collina, dove lavorano 200 operai palestinesi; un’oasi-hotel che ha al suo interno un Giardino Botanico dove le piante sfruttano l’alta mineralità delle sorgive: allaudia del Madagascar e la bosvelia, da cui si ricava l’henné, e lo Ziziphus spina-christi (la famosa corona di spine di Gesù), la vinca dalle ‘miracolose’ proprietà anti-cancerogene, e ancora la lavanda del deserto con la doppia corolla lillà, le grandi moringa e infine la misteriosa mirra, il mistico arbusto - dal vago odore di pino – famoso per le sue preziose qualità antibatteriche.
  • Il Moshav delle capre vale una tappa
  Dopo aver attraversato i territori lungo il fiume Nahal Sorek, si arriva al Moshav Tel Shahar Iza Pziza un agro-turismo dove è possibile gustare prodotti locali a base di formaggio di capra, morbidi dolci, latte e yogurt; al mattino in stalla sono appena nati due piccoli, sono oltre 100 le capre produttive, alcune rientrano dai pascoli, all’interno del centro anche un laboratorio dove si impara a fare la ricotta con il metodo della Circassia, repubblica autonoma della Federazione Russa nella Caucasia occidentale.

(La Stampa, 2 marzo 2023)

 
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Il pogrom di Kišinëv, una tragedia ancora attuale

Il massacro antisemita nella Moldavia zarista del 1903 fu un evento di una ferocia bestiale, ed ebbe una vasta e fatale ripercussione mondiale. Cambiò la storia degli ebrei in Europa, America e Palestina.

di Adriano Sofri

Per chi entra o esce dall’Ucraina dal sud di Odessa, Kišinëv è diventata un luogo familiare. Succede di fermarsi per una notte, o comunque di trascorrere qualche ora all’aeroporto, affabilmente, perché le compagne di viaggio sono per lo più signore che si prendono cura di vecchi italiani, e sono contente di chiacchierare nella loro nuova lingua. Kišinëv è un nome un po’ fiabesco – nuova sorgente, è l’etimologia antico-rumena – ed evita di ricordare che il nome russo, Kišinëv, era, “prima dell’Olocausto, di Buchenwald e di Auschwitz, la parola che più prontamente richiamava alla mente degli ebrei l’orrore moderno”. Dice così Steven Zipperstein (1950), storico dell’ebraismo a Stanford, autore di un libro “classico” sugli ebrei di Odessa tra il 1794 e il 1881, uscito nel 1985, e, nel 2018, di un testo divenuto fondamentale per la storia del Pogrom di Kišinëv del 1903, quello dell’orrore proverbiale: “Pogrom: Kishinev and the Tilt of History”. E’ una storia straordinaria e avvincente, che Zipperstein ricostruisce, in parte corregge, e porta fino all’identificazione (già segnalata prima di lui) dell’autore dei famigerati “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. La cronaca di queste ore, che mette Transnistria e Moldavia al centro di una pressione golpista filorussa legata alla guerra d’Ucraina, offre un dettaglio romanzesco amaro e ghiotto per i fantasisti delle cospirazioni, perché Ilan Shor, l’“oligarca” che finanzia e muove le fila della mobilitazione putinista, è nato a Tel Aviv da genitori ebrei moldavi trasferiti in Israele negli anni 70 e tornati in Moldavia nel 1990, un anno prima della proclamazione della Repubblica indipendente. Shor è stato parlamentare del partito filorusso Sor, e soprattutto protagonista di una colossale frode finanziaria che dal 2014 costò la bancarotta di tre banche, con una perdita vicina a un miliardo di dollari, equivalente a un ottavo del pil del paese. All’indomani dello scandalo e del riconoscimento della sua responsabilità, a Shor fu consentito di candidarsi a Orhei e di divenirne sindaco col 62 per cento dei voti. Del resto l’attualità di queste vecchie storie non fa che riaffacciarsi, come un avvertimento e spesso come un incubo (oggi, mentre le ricordo, a Tel Aviv si confrontano due idee di Israele, di quel paese la cui matrice essenziale sta nelle città vicine di Odessa e della sua sorella minore Kišinëv).
  Ma al diavolo Shor, e vediamo come mai il pogrom di Kišinëv del 1903, che fece 49 assassinati e circa 500 tra feriti e donne stuprate – una ferocia bestiale, ma una bazzecola rispetto ai numeri imminenti di pogrom e stermini in Bessarabia e in Ucraina – ebbe una così vasta e fatale ripercussione mondiale, e cambiò la storia degli ebrei, nell’Europa centro-orientale, in America, e in Palestina. Zipperstein indica i due attori maggiori di questa risonanza senza precedenti.

Bialik non tacque degli stupri, e al contrario diede loro il risalto che avevano avuto nella bufera del pogrom
Il primo è un fotografo e giornalista e militante irredentista irlandese, Mark Davitt, mutilato di un braccio, che il magnate della stampa William Randolph Hearst, contando (invano, si vide) di ricavarne un vantaggio alla propria candidatura newyorkese, mandò a Kišinëv. Davitt raccolse le testimonianze delle vittime e le pubblicò fedelmente e vividamente, rinunciando al racconto degli stupri. Quei pezzi e le fotografie che, per la prima volta, li accompagnavano, resero il nome russo di pogrom – una tempesta devastante – familiare agli americani e al resto del mondo, e fecero un meritato scalpore. Ne fece altrettanto, più sottile ma più duraturo, l’inchiesta condotta dal trentenne Chaim Nachman Bialik, il quale accorse a Kišinëv da Odessa, e interrogò anche lui i testimoni, e trasformò il suo resoconto in un poema, “Nella città del massacro”, in ebraico e poi tradotto da lui stesso in yiddish, “il più bello e il più influente mai scritto dal medioevo in qua”. Bialik non tacque degli stupri, e al contrario diede loro il risalto che avevano avuto nella bufera del pogrom. Solo un giorno e mezzo, tra il 19 e il 20 aprile, era infatti durato, a ridosso della Pasqua, l’occasione prediletta per le campagne di odio contro gli ebrei “deicidi”, e per il rilancio dell’accusa del sangue di bambini cristiani usato nei loro sacrifici. Bialik seppe che gli ebrei avevano resistito alla furia delle migliaia di persecutori e alcuni erano morti per questo, ma volle mettere al centro della propria formidabile invettiva la viltà degli uomini che avevano assistito inerti alla violenza sulle donne. Di una analoga viltà aveva anche scritto nei suoi appunti Davitt, il quale diventò un eroe della memoria ebraica dopo di allora, ma non aveva a priori una solidarietà per gli ebrei, e aveva fatto il suo mestiere.
  Non posso nemmeno provare, qui, a riaffrontare la questione della presunta inerme rassegnazione ebraica a far da vittima designata. Ma è un fatto che nella guerra d’Ucraina, nel luogo in cui tutte le ferite sono ancora aperte e anzi esacerbate, è inevitabile domandarsi se, al di là delle creature umane che sono passate nel mondo senza fare il male e senza desiderarlo e augurarlo, di cui la storia stenta a trovare traccia, esista qualche gruppo umano, definito da una condizione comune oggettiva, una nazione, una religione (un genere?), che non abbia preso una sua parte nella distribuzione della violenza universale. Ho scritto l’altro giorno che non c’è quasi famiglia, in Ucraina, che non annoveri i suoi assassinati e i suoi assassini, e che questo dà conto, senza risolverla, della presa di fenomeni come il “banderismo”, la devozione al nazionalista radicale, e fascista, Stepan Bandera, assassinato dal Kgb nel 1959 (due suoi fratelli morirono ad Auschwitz, e questa frase lascia senza parole, se non si ricordi che ad Auschwitz c’erano anche luoghi in cui la reclusione era ben diversa, e ben diverso il suo esito previsto – ne riparleremo).
   Agli ebrei, in particolare agli ebrei della “Zona di Residenza” nell’occidente dell’impero russo e poi sovietico, è difficile addebitare una parte commisurabile di violenza. E’ difficile riferire loro la frase terribile di sopra su assassini e assassinati. L’antisemitismo più esaltato, il razzismo antisemita, deve inventare miti infami come l’“accusa del sangue”, o contentarsi di accusare l’ebreo “sanguisuga” del contadino povero, o l’ebreo agitatore rivoluzionario in odio alla cristianità o all’umanità: calunnie, professioni, o scelte politiche, mai una condizione in solido. Qualcuno lo dice così: che è difficile dare ordini militari in yiddish, che in yiddish è difficile essere fascisti. Di qui un paradosso enorme: che gli ebrei, in quanto ebrei – non dunque in quanto militanti politici eccetera – sono i soli a non avere colpe nello scialo della violenza politica novecentesca, e che la sola colpa che gli ebrei stessi si addebitano è di essere stati vili di fronte alle violenze subite dai propri simili. E’ uno degli effetti di quel modesto pogrom di Kišinëv 1903, replicato, su una scala ancora minore, nel 1905 (uno degli effetti sarebbe stato anche la creazione della Haganah, e dunque della forza armata israeliana).
 Per effetto del pogrom di Kišinëv, gli Stati Uniti fecero cadere gli ostacoli all’ingresso degli ebrei in fuga nel paese
Zipperstein esce quando già i temi delle fake news e del loro ruolo nella deriva delle cospirazioni sono tracimati, e rintraccia nel suo argomento del 1903 un precedente fondamentale. Per farlo calca la mano sulla sconfessione della tesi prevalente, a sua volta “cospiratoria”, sull’origine dei “Protocolli”, cioè del più micidiale falso che abbia operato nella storia moderna. Benché non sia il primo a sostenerlo (e fra gli studiosi cui si appoggia c’è il nostro Cesare G. De Michelis e il suo “Manoscritto inesistente. I Protocolli dei Savi di Sion”, Marsilio 1998, 2° ed. 2004) Zipperstein decide risolutamente di scartare l’ipotesi di un falso deliberatamente compilato dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, per indicare l’autore (o almeno il coautore, con G. Butmi) in Pavel Krushevan. Krushevan è noto per aver pubblicato la prima versione dei “Protocolli” sul giornale da lui diretto a San Pietroburgo, Znamia, nel 1905, con una prefazione e una postfazione, più significative per ciò che tacciono che per ciò che dicono sull’origine del preteso manoscritto francese. Ma era stato il fondatore, a Kišinëv, dell’unico quotidiano cittadino, il Bessarabets, e ne aveva fatto la tribuna per la più fanatica e ossessiva campagna contro gli ebrei. Krushevan, che era nato nel 1860, aveva scritto molto, comprese prove letterarie e una idillica guida alla bellezza della regione, guastata solo dalla presenza giudaica, con un talento notevole, secondo i suoi studiosi. Qui il gioco dei falsi si fa sbalorditivo e raccapricciante, tanto più quando, come fa Zipperstein, si dà più credito a una specie di buona fede, per così dire, dei loro autori, rispetto alla intenzionale fabbricazione. Del resto, l’alibi frequente dei “Protocolli” sta nei commenti che li dichiarano “se non veri, verosimili”. Da una parte, c’è un’opinione internazionale che attribuisce allo zar e ai suoi servizi la decisione di rendere invivibile la Russia agli ebrei, e che si avvale anch’essa di un falso provato tale, come la lettera, pubblicata dal Times, del ministro dell’Interno di Nicola II, Vjačeslav Konstantinovič Pleve, un sicuro antisemita, che alla vigilia del pogrom assicura che polizia ed esercito non interverranno a impedirlo. La lettera ebbe un’enorme risonanza, non inficiata dalle smentite. Pleve fu poi ucciso da un socialista rivoluzionario in un ennesimo attentato nel 1904 (in una lettera privata, il giovane Chaim Weizmann commentò così: “C’è una cosa sola da dire: è un peccato che non se ne sia andato qualche anno fa; ora è stato mandato a dovere al Padre Abramo”).
  Per effetto del pogrom di Kišinëv e dell’emozione che suscitò, gli Stati Uniti fecero cadere gli ostacoli all’ingresso degli ebrei, e fra il 1900 e il 1914 un milione e mezzo di loro vi emigrarono. Dall’altra parte, gli ortodossi ossessionati si persuadono, proprio in quel torno di anni, soprattutto per la presa del sionismo di Theodor Herzl – politicamente moderato, a differenza di posizioni come quella internazionalista e decisamente militante del Bund, ma più allarmante agli occhi dei difensori della cristianità minacciata dal proposito di comprare i Luoghi santi – che la potenza ebraica non fa che crescere e mirare alla conquista del mondo attraverso le sue moderne diavolerie, stampa e ferrovie. Benché Herzl stesso – che incontra Pleve nell’agosto 1903 – si sia persuaso, ancora di più a ridosso di Kišinëv, che la sopravvivenza ebraica è minacciata e che occorra apprestarle un riparo immediato e provvisorio in Uganda, presto lasciato cadere per il rifiuto britannico. E Herzl muore anche lui nel 1904. Krushevan morirà di cancro nel 1909, a 49 anni.
L’alibi frequente dei “Protocolli” sta nei commenti che li dichiarano “se non veri, verosimili”
C’è un altro aspetto del pogrom di Kišinëv che colpisce per la sua imprevista attualità. Grazie a una giovane ebrea viaggiatrice in Russia dopo il 1905, Anna Strunsky, e al suo compagno, William English Walling, il pogrom viene paragonato ai linciaggi dei neri: il pogrom antiebraico dello zar è l’equivalente del linciaggio antinero del regime bianco. L’Associazione nazionale per il progresso della gente di colore (Naacp) viene costituita nel 1909 in una stanza di casa della coppia.   
  Ecco. Non so se e per quanto sarà ancora possibile atterrare o decollare a Chisinau, come ho appena fatto di nuovo, a noi che amiamo Odessa. Wizz Air ha già annullato i voli, Air Moldova ancora no. Volevo dire che, chi abbia qualche ora da far passare, o una notte intera, trova un monumento in marmo al pogrom del 1903, eretto 90 anni dopo, in un parco alberato (Parcul Alunelul) ai bordi di una strada urbana.

Il Foglio, 2 marzo 2023)

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«L'antisemitismo non nuoce solo agli ebrei. Va combattuto»

«I discorsi d'odio che prolificano soprattutto sui social possono tradursi in atti di violenza contro le minoranze in generale», avverte l'Ambasciatore di Israele in Italia. 

di Umberto De Giovannangeli 

Israele tra una pace che non c'è e lo spettro insanguinato di una terza intifada. E ancora: un "nuovo" antisemitismo che ha come elemento fondante la demonizzazione dello Stato ebraico. Sono i temi di stringente attualità al centro dell'intervista concessa a Il Riformista dall'Ambasciatore d'Israele in Italia Alon Bar. 

- Signor Ambasciatore, gli attentati a Gerusalemme, gli scontri a fuoco in Cisgiordania. E' scoppiata la terza intifada? 
  Mi auguro di no. Ma nell'ultimo anno abbiamo assistito a un crescente numero di atti terroristici all'interno di Israele, a Gerusalemme, e il livello di tensione è molto alto. Rispetto al passato, ci sono differenze: in questa fase, non vediamo sostegno all'intifada da parte dell'Autorità Palestinese e assistiamo a una forte demonizzazione di Israele, la qual cosa potrebbe portare a ulteriori tensioni e violenza. Gli orribili attacchi terroristici ad Hawara e l'omicidio dei due fratelli israeliani, e gli altri attentati avvenuti in precedenza a Gerusalemme, sono il diretto risultato della deliberata e premeditata istigazione pianificata e compiuta dalle organizzazioni terroristiche che agiscono direttamente per conto dell'Iran. Gli interventi delle forze di sicurezza israeliane contro i centri del terrorismo a Nablus e Jenin sono finalizzati unicamente alla prevenzione di imminenti attacchi terroristici. Le forze israeliane compiono sforzi enormi per individuare e colpire esclusivamente i terroristi senza fare del male a civili innocenti, per quanto possibile. I terroristi, al contrario, ambiscono a generare il maggior numero possibile di vittime innocenti da entrambe le parti. A tal fine, mettono deliberatamente a rischio la popolazione civile palestinese, utilizzandola come vero e proprio scudo umano. Ci avviciniamo al mese del Ramadan e, alla luce del terrorismo e delle tensioni del periodo, Israele ha partecipato ieri, insieme a funzionari degli Stati Uniti, dell'Egitto e dell'Autorità Palestinese, a colloqui in Giordania finalizzati ad arrestare l' escalation. Nella cornice dell'impegno israeliano contro le tensioni, s'inserisce la visita del primo ministro Netanyahu in Giordania, dove ha incontrato il re Abdullah. Mi auguro di poter vedere concreti tentativi di de-escalation da parte dell'Autorità Palestinese, dato che il nostro primo ministro ha immediatamente chiesto a tutti gli israeliani di non farsi giustizia da soli. 

- Da più parti si sostiene che non esistono più spazi per un negoziato di pace fondato sulla soluzione "a due Stati". Siamo a un vicolo cieco? 
  Non credo che l'accordo negoziato sia impossibile. Ma la soluzione "a due Stati" è stata sostenuta principalmente dalla comunità internazionale e non necessariamente a sufficienza da israeliani e palestìnesi. Quando ci sono state opportunità per concordare la soluzione "a due Stati", abbiamo visto reazioni negative da parte dell'Autorità Palestinese e di Abu Mazen, e la popolarità di quella soluzione sta diminuendo in entrambe le comunità, israeliana e palestinese. Non so se, in questa fase, potrà emergere un'altra formula per fare progressi. Al momento, il livello di credibilità di Abu Mazen è così basso e la divisione tra Hamas a Gaza e l'Autorità Palestinese in Cisgiordania è così forte, che non credo sia possibile tenere un serio negoziato. Ed è anche vero che parti del governo israeliano hanno espresso una forte opposizione a tale soluzione. 

- Come risponde all'accusa che Israele ha instaurato un sistema di apartheid nei territori palestinesi? 
  Respingo fermamente questa accusa e credo che sia sostenuta da persone che vogliono demonizzare Israele e trasformarlo in uno stato illegittimo. In realtà, le ragioni della violenza e dello scontro non risiedono nella discriminazione razziale, ma nel terrorismo e nello scontro nazionale. Quei musulmani, cristiani, palestinesi e arabi che nello Stato di Israele rappresentano il 20% della popolazione e che non minacciano il Paese con la violenza, partecipano alla pari alle attività economiche, politiche e culturali d'Israele. Abbiamo buoni rapporti con diversi Paesi arabi e non ci sono argomenti per sostenere un parallelismo tra ciò che accade in Cisgiordania e la situazione storica in Sud Africa. 

- Signor Ambasciatore, in Europa c'è preoccupazione per il nuovo governo israeliano di cui fanno parte forze politiche di estrema destra. Cosa può dire al riguardo? 
  Il governo di Israele è il risultato di un processo democratico supportato dalla maggioranza degli israeliani e deve anzitutto rispondere ai cittadini che lo hanno scelto. Non temo affatto che il dibattito pubblico israeliano possa perdere vivacità e democraticità. Del resto, anche in questi giorni vediamo che si mantiene effervescente. La politica di destra, che piaccia o meno in altri Paesi, non è illegittima e, fintantoché godrà del sostegno democratico, il governo la porterà avanti. Sono certo che cercherà di farlo in modo da non creare minacce o instabilità in Israele e nella regione. 

- Cosa teme di più dell'antisemitismo che ancora marchia l'Europa? 
  Da un lato, mi preoccupa il fatto che le persone usino sentimenti antisemiti per demonizzare Israele; dall'altro, che utilizzino informazioni parziali o distorte su ciò che accade in Israele e in Medio Oriente per promuovere sentimenti antisemiti in Europa. Questo potrebbe portare molti ebrei in Europa a sentirsi in difficoltà nel dichiarare apertamente la propria identità religiosa, e in alcuni casi è già successo. Credo che questa sia una grave minaccia per la cultura e la società europee e, come abbiamo visto in passato, quando queste tendenze si rafforzano, si crea una forte instabilità nel Vecchio Continente. Credo sia importante che i leader combattano il razzismo in generale e, specificamente, l'antisemitismo, nei campi dell'istruzione, legale e dei social media, i quali sono spesso luoghi di prolificazione per dichiarazioni antisemite e discorsi d'odio. Ignorare questi ultimi è rischioso perché sentimenti del genere potrebbero tradursi in azioni violente contro le minoranze in generale, non necessariamente solo contro gli ebrei. 

- Cosa si sente di chiedere all'Italia? 
  Mi auguro di vedere Italia e Israele rafforzare le relazioni su temi di interesse comune, come acqua, energia, sicurezza e cyber-sicurezza. Auspico che l'Italia e il popolo italiano vedano in Israele il giusto partner per affrontare con successo queste sfide. Mi auguro che l'Italia sia in prima linea tra i Paesi amici di Israele in Europa e nel mondo, in termini politici, economici, commerciali e culturali. Intendiamo celebrare in Italia i 75 anni dalla nascita dello Stato di Israele, intrattenendo molteplici collaborazioni a livello regionale, nazionale, in Parlamento e nella società civile, perché c'è davvero molto da festeggiare. 

(Il Riformista, 1 marzo 2023)

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