In te, o Eterno, io mi confido,
fa' che non sia giammai confuso.
Per la tua giustizia, liberami, fammi scampare!
Inchina a me il tuo orecchio, e salvami!
Siimi una ròcca, una dimora
ove io possa sempre rifugiarmi!
Tu hai prescritto ch'io sia salvato,
perché sei la mia rupe e la mia fortezza.
O mio Dio, liberami dalla mano dell'empio,
dalla mano del perverso e del violento!
Poiché tu sei la mia speranza, o Signore, o Eterno,
la mia fiducia fin dalla mia fanciullezza.
Tu sei stato il mio sostegno fin dal seno materno,
sei tu che m'hai tratto dalle viscere di mia madre;
tu sei del continuo l'oggetto della mia lode.
Io sono per molti come un prodigio,
ma tu sei il mio forte ricetto.
Sia la mia bocca ripiena della tua lode,
e celebri ogni giorno la tua gloria!
Non rigettarmi al tempo della vecchiezza,
non abbandonarmi quando le mie forze declinano.
Perché i miei nemici parlano di me,
e quelli che spiano l'anima mia cospirano assieme,
dicendo: Iddio l'ha abbandonato; inseguitelo e prendetelo,
perché non c'è alcuno che lo liberi.
O Dio, non allontanarti da me,
mio Dio, affrettati in mio aiuto!
Siano confusi, siano consumati gli avversari dell'anima mia,
siano coperti d'onta e di vituperio quelli che cercano il mio male!
Ma io spererò del continuo,
e a tutte le tue lodi ne aggiungerò delle altre.
La mia bocca racconterà tuttodì
la tua giustizia e le tue liberazioni,
perché non ne conosco il numero.
Io mi farò innanzi a dire dei potenti atti del Signore, dell'Eterno,
ricorderò la tua giustizia, la tua soltanto.
O Dio, tu mi hai ammaestrato dalla mia fanciullezza,
ed io, fino ad ora, ho annunziato le tue maraviglie.
Ed anche quando sia giunto alla vecchiaia e alla canizie,
o Dio, non abbandonarmi,
finché non abbia fatto conoscere il tuo braccio a questa generazione,
e la tua potenza a quelli che verranno.
La cosiddetta “causa palestinese” tornata prepotentemente in auge dal 7 ottobre scorso in poi, venne confezionata a Mosca durante i primi anni Sessanta in funzione antiamericana e allo scopo di ingraziarsi il mondo arabo, nel contesto della contrapposizione bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il cambiamento di rotta russo nei confronti di Israele, dopo la crisi di Suez del 1956, era dovuto alla consapevolezza ormai acquisita che il novello Stato ebraico non avrebbe orbitato nella propria sfera di influenza ma in quella occidentale ormai a trazione americana.
La “causa palestinese”, la creazione di un popolo autoctono oppresso, vittima del colonialismo europeo incentivato dall'”imperialismo” americano sarebbe diventata, in modo particolare a partire dal 1967, (data fatidica che segnò la seconda grande e più eclatante sconfitta degli eserciti arabi coalizzatosi per distruggere Israele), il maggiore e più longevo successo propagandistico dell’Unione Sovietica.
Il furore ideologico contro Israele di cui oggi vediamo l’acme è figlio di quella stagione e del suo incessante prolungamento, così come lo sono le parole d’ordine che fanno parte del lessico demonizzante utilizzato dai suoi odierni detrattori, secondo i quali l’esercito israeliano perpetrerebbe a Gaza un genocidio ai danni di una popolazione espropriata della sua terra e segregata.
L’ebreizzazione degli arabi palestinesi e la conseguente nazificazione degli ebrei israeliani, così come la fascistizzazione del sionismo, sono tutti costrutti di matrice sovietica regalati agli arabi come armi di propaganda.
Nulla è cambiato in questo senso, quello che è cambiato nel corso di ormai quasi sessant’anni è la fonte del sostegno alla “causa palestinese” la quale si è progressivamente spostata da oriente ad occidente.
• Il paradosso è questo.
Non sono più, in maggioranza, gli stati arabi i principali sostenitori della “lotta di liberazione” palestinese, ma paesi europei, istituzioni sovranazionali create dagli Stati Uniti come l’ONU, il circuito culturale-mediatico occidentale e gli Stati Uniti stessi.
In questi ormai sei mesi di guerra a Gaza le maggiori e più virulente manifestazioni di piazza contro Israele, nel corso delle quali è stato scandito a più non posso lo slogan genocida nei confronti egli ebrei, “Palestina libera dal fiume al mare”, non hanno avuto luogo al Cairo, ad Amman, a Riad, o in nessun altro paese arabo, ma nelle piazze di Londra, di Parigi, di Milano, di Saragozza, di Los Angeles, di Sydney e nei campus di alcune delle più prestigiose università americane.
Le menti e i cuori delle élite arabe mediorientali, con l’eccezione del Qatar specializzato nel giocare più ruoli in commedia, non sono più da anni appassionate di una questione che per loro ha perso progressivamente rilevanza, in testa a tutti l’Arabia Saudita, pronta, prima del 7 ottobre a un accordo programmatico con Israele sulla scia degli Accordi di Abramo del 2020 voluti da Donald Trump.
Il sostegno saudita alla causa palestinese è mantenuto in vita formalmente nell’appoggio al venire in essere del vecchio feticcio americano di uno Stato palestinese, e così è per la Giordania che non ha alcun reale interesse ad avere come confinante uno Stato potenzialmente jihadista, o per l’Egitto per il quale il radicalismo sunnita è, dalla fine degli anni ’20, un problema costante per il mantenimento del proprio ordine interno. Dagli Emirati nessun sostegno nemmeno formale. C’è in realtà, dietro le quinte, una attesa, ed è che Israele tolga di mezzo Hamas da Gaza, liquidi un attore jihadista la cui eliminazione verrebbe, da tutti gli attori statali citati, salutata con sollievo.
Il venire in essere di uno Stato palestinese, è il pegno da pagare all’opinione pubblica e ai desiderata dell’Amministrazione Biden, ma in realtà si attende l’esito della guerra a Gaza. Il prossimo novembre alla Casa Bianca l’inquilino potrebbe cambiare, e se fosse di nuovo Donald Trump, di Stato palestinese non si sentirebbe più parlare per i prossimi quattro anni.
Hamas può contare veramente per potere restare a Gaza, solo sull’appoggio occidentale, sull’estremismo woke che oggi ha ridato linfa alle proprie istanze, può contare sul radicalismo progressista che dell’estremismo woke è la colonna portante, sulla debacle intellettuale di accademici, scrittori, artisti e opinionisti che hanno fatto propri i totem ideologici forgiati in Russia nel secolo scorso, può contare su Antonio Guterres e su Joseph Borell, sul Vaticano e il suo equiparazionismo, sulle molteplici ONG israeliane ed estere, tra cui spicca Amnesty International, che in questi ultimi decenni hanno rappresentato Israele come uno Stato criminale, può contare su studenti universitari dal cervello lobotomizzato che chiedono alle loro università compiacenti di interrompere i rapporti con Israele, può contare su di loro concretamente, mentre, in Medio Oriente, Mohammed Bin Salman e Abdel Fattah El-Sisi aspettano che a Gaza Israele concluda per loro conto il lavoro sporco.
L'amministrazione Biden approva il trasferimento di oltre 2.000 bombe e 25 F-35 a Israele
Washington fornisce ogni anno 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari all'alleato israeliano, un contributo che ora viene messo in discussione da una parte del Partito Democratico.
Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti hanno autorizzato il trasferimento a Israele di bombe e aerei da combattimento per un valore di diversi miliardi di dollari, in un momento in cui stanno pubblicamente esprimendo preoccupazione per un'offensiva militare pianificata a Rafah, riporta il Washington Post.
Citando funzionari del Pentagono e del Dipartimento di Stato, il quotidiano statunitense riferisce che il nuovo pacchetto di armi comprende 1.800 bombe MK-84 da 2.000 libbre e 500 bombe MK-82 da 500 libbre, oltre a 25 F-35 originariamente approvati dal Congresso nel 2008. Washington fornisce 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari annuali a Israele, suo alleato di lunga data.
Gli Stati Uniti hanno fornito difese aeree e munizioni a Israele nell'ambito della lotta contro Hamas a Gaza, ma alcuni democratici e gruppi arabo-americani hanno criticato l'incrollabile sostegno dell'amministrazione Biden a Israele. "Abbiamo continuato a sostenere il diritto di Israele a difendersi", ha dichiarato un funzionario della Casa Bianca al Washington Post. "Condizionare gli aiuti non è stata la nostra politica", ha aggiunto.
Washington fornisce ogni anno 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari all'alleato israeliano, un contributo che ora viene messo in discussione da una parte del Partito Democratico del presidente Joe Biden a causa delle vittime e delle distruzioni causate dall'offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza negli ultimi cinque mesi.
Joe Biden ha dichiarato venerdì di comprendere "il dolore provato" da molti americani di origine araba a causa della guerra a Gaza e del sostegno dato dagli Stati Uniti a Israele e alla sua offensiva militare. Tuttavia, si è impegnato a continuare a sostenere Israele nonostante un disaccordo sempre più pubblico con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, osserva la Reuters.
Parlando alla stampa martedì, Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano, pur cercando apparentemente di allentare le tensioni tra Stati Uniti e Israele, ha detto di aver sottolineato l'importanza dei legami con Washington per la sicurezza del suo Paese e per il mantenimento del "vantaggio militare qualitativo" di Israele nella regione, in particolare in termini di capacità aeree.
Harvard, manifestazione dei collettivi pro-Palestina. La deriva anti-sionista dell'ateneo, uno dei più prestigiosi degli Usa è avallata dai docenti. Basti vedere la ex preside che, in Senato, rifiutava di condannare l'antisemitismo. Questo ha un prezzo: crollo delle iscrizioni
La bolla dell’antisemitismo liberal e altolocato non sta ancora scoppiando, ma inizia ad accartocciarsi su se stessa. Prendiamo una delle sue centrali, l’analogo di quello che potevano essere negli anni Trenta le birrerie di Monaco: l’università di Harvard. La rettrice Claudine Gay si è dovuta dimettere un paio di mesi fa, dopo aver minimizzato di fronte al Congresso gli inni al genocidio degli ebrei andati in scena nel campus («Dipende dal contesto», era stata la risposta degna del dottor Goebbels). Molti studenti di origine ebraica hanno denunciato mediaticamente le discriminazioni e le aggressioni, qualcuno lo ha fatto anche penalmente muovendo causa all’ateneo, ad esempio Alexander Kestenbaum, che ha raccontato ieri la sua storia ai microfoni di Radio Libertà (il procedimento è alla Corte Distrettuale del Massachusetts, Harvard ha tempo fino al 14 aprile per inviare le sue contro-osservazioni). Molti storici finanziatori hanno bloccato le loro donazioni e non hanno nessuna intenzione di ripristinarle finché essere ebreo sarà un problema in uno dei massimi templi del sapere occidentale.
• MENO STUDENTI
Infine, il dato sulle iscrizioni annunciato ieri dal New York Post. Pessimo: l’università bostoniana ha annunciato di aver ricevuto 54.008 domande per il corso del 2028, in calo del 5% rispetto all’anno precedente. Si tratta del minor numero di candidature pervenute dal 2020, anno dell’esplosione della pandemia Covid. La comunicazione dell’ateneo ha provato a girarla in positivo, sottolineando che per il quarto anno consecutivo le domande hanno superato il tetto delle 50mila, ma la tendenza è chiara. Per la prima volta dall’era delle chiusure forzate si deflette pesantemente: non tutta la borghesia americana è convinta che per i propri figli più talentuosi sia un ambiente ideale quello in cui ogni giorno si canticchia quotidianamente from the river to the sea, dal fiume Giordano al mare, ovvero si inneggia alla cancellazione di Israele dalla carta geografica, una cosa che fino a pochi anni fa con questa nonchalance si sentiva solo alle adunate dei pasdaran della Rivoluzione Islamica in Iran.
Anche i rimedi (ma sarebbe più consono dire palliativi) escogitati non hanno evidentemente convinto moltissimo. All’indomani delle dimissioni della Gay, il rettore pro tempore Alan Garber aveva annunciato la creazione di due gruppi di lavoro: uno focalizzato sul contrasto all’antisemitismo, l’altro sulla lotta ai pregiudizi anti-musulmani e anti-arabi. Un grottesco bilancino (pseudo)culturale, spiegabile solo con quella che il grande sociologo Allan Bloom chiamava «la chiusura della mente americana».
• COMPENSAZIONE
L’ossessione relativista e multiculti a non irritare mai l’Altro, a blandire costantemente le minoranze-totem del politicamente corretto, che non a caso per Bloom aveva nei campus il proprio luogo d’elezione: «Oggi nelle università c’è poca voglia di proteggere chi si è guadagnato l’ira di movimenti radicali». E se proprio bisogna dare l’idea di farlo, occorre subito compensare con un gruppo di lavoro a favore di chi, invece, ripete proprio le parole d’ordine di quei movimenti.
Non è un’esagerazione: all’indomani della mattanza del 7 ottobre, non una, non due, ma trentaquattro associazioni studentesche di Harvard firmarono una lettera che pareva un caso patologico di humor nero, dove si definiva il regime israeliano «interamente responsabile delle violenze in corso», a causa dell’«occupazione instancabile di Gaza» (da cui Ariel Sharon si era totalmente ritirato nel 2005) e del «regime di apartheid in Palestina». Le autorità accademiche non solo non si dissociarono, ma diedero oggettivamente sponda a questo delirio che pareva preso di peso dai Protocolli dei Savi di Sion (tutto è colpa degli ebrei, compreso la persecuzione degli ebrei), fino all’imbarazzante audizione della rettrice al Congresso.
Insomma, tutta questa cronistoria pazzotica concentrata negli ultimissimi mesi non è passata indenne, ha scavato fossati anche dentro l’America democratica e cosmopolita che abitualmente fa a gara per mandare i propri pargoli ad Harvard. Gente che magari schifa Donald Trump, ma che ha troppa consuetudine con i privilegi del mondo libero per iscrivere a cuor leggero i figli in un luogo dove i loro coetanei paiono diventati una filiale fighetta di Hamas. Al di qua dell’oceano, rimbalza una domanda: chissà se avrà un calo di matricole anche la Scuola Normale di Pisa, che ieri ha chiesto ufficialmente al Ministero degli Esteri di bloccare il bando di cooperazione scientifica con Israele. Nel caso, sarebbe difficile definirla una brutta notizia.
Libero, 30 marzo 2024)
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"Harvard, follia antisemita Il 7 ottobre ho visto molti studenti festeggiare"
Uno studente ebreo ha fatto causa all’ateneo del Massachusetts. "Noi, discriminati a causa dell’identità religiosa. Terrificanti le scene di giubilo e nessuno è stato punito Se cade Israele, poi toccherà all’Occidente”.
Pubblichiamo un estratto del faccia a faccia con
Alexander «Shabbos» Kestenbaum, uno degli studenti della Harvard Divinity School che ha denunciato l’università per discriminazione in seguito a casi di antisemitismo avvenuto nell’ateneo dopo il 7 ottobre. L’intervista, condotta da Antonino D’Anna, è andata in onda ieri per Radio Libertà, già Radio Padana Libera.
- Shabbos Kestenbaum, apparso sull'ultimo numero del settimanale Usa Newsweek, ha fatto causa alla più prestigiosa università americana, Harvard. Perché? «Noi, in quanto studenti ebrei, abbiamo gli stessi diritti degli altri studenti secondo le leggi federali e la policy dell'ateneo; non crediamo che in questo momento stiamo godendo di tali diritti, sentiamo di essere trattati diversamente a causa della nostra identità religiosa. Harvard non ha voluto correggere il tiro impegnandosi a combattere l'antisemitismo nel campus e siamo stati costretti a fare causa».
- Ho letto la memoria che ha presentato al Congresso Usa. Il 7 ottobre, alla notizia dell'attacco di Hamas, nemmeno un gruppo studentesco di Harvard ha stilato un documento a favore degli israeliani. Invece in 34 hanno accusato Israele di aver compiuto il massacro. «Stavolta è stato diverso: non solo per le dimensioni dell'attacco, che è un problema esistenziale, ma anche perché tante persone che credevamo amiche, alleate, hanno festeggiato o incolpato gli ebrei. È stato insopportabile vedere compagni di corso gioire. E all'università non hanno punito nessuno: per un paio di giorni è stato davvero terrificante».
- Quando gira per il campus, la gente le grida cose tipo: Dal fiume al mare la Palestina sarà libera, slogan atroce cantato anche dagli studenti pro Palestina qui in Italia. Il suo trisavolo, il rabbino Yosif Breuer, era il più noto e rispettato rabbino nella Germania di Weimar ed è stato imprigionato durante la Notte dei Cristalli. Possiamo tornare a una nuova Notte dei Cristalli? «Proprio così. Mia pro-pro-prozia, sua figlia che è viva, ricorda che da ragazzina la Gestapo è venuta a casa e si è portata via il padre. L'hanno rilasciato ed è scappato. Pensavo che non avrebbe potuto ripetersi, ma la Notte dei Cristalli non è cominciata con il rogo libri o gli arresti di massa, è iniziata quando si è accettata, promossa e applicata un'ideologia per la quale gli ebrei erano categoricamente diversi, inferiori. Ovviamente non metto sullo stesso piano quanto accade oggi con un dramma gigantesco come l'Olocausto. Ma se l'antisemitismo non viene combattuto ad Harvard, che dovrebbe preparare la prossima generazione di leader americani, allora davanti a noi c'è un futuro buio, non solo come ebrei americani, ma come americani tout court».
- Perché l'antisemitismo si sta diffondendo nel mondo, e in particolare in Paesi democratici? «È la domanda da un milione di dollari. Due osservazioni: primo, gli ebrei hanno subìto un tremendo antisemitismo per secoli, indipendentemente dal Paese in cui si sono trovati. Per il resto non ho risposta: penso che alcuni degli studenti non sappiano niente, che in Israele ci sono 2-3 milioni di arabi israeliani che godono degli stessi diritti degli altri cittadini; non penso sappiano degli sforzi con cui le forze armate israeliane fanno di tutto per evitare che i gazawi vengano usati come scudi umani da Hamas; non credo che gli altri studenti lo sappiano: e se lo sanno, non gl'importa niente. È spaventoso».
- Le sue parole confermano quelle di Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz: chi non conosce la Storia è condannato a ripeterne gli errori. Ma credo che stavolta non finirà come negli anni 40: adesso c'è lo Stato di Israele. «Sì. Amen, amen per questo: c'è un motivo per il quale la gente deve credere nell'esistenza dello Stato di Israele ed è il 7 ottobre. Golda Meir, la prima donna Primo Ministro d'Israele, diceva che l'arma segreta degli ebrei è che non abbiamo altro posto dove andare. Per questo abbiamo bisogno di amici in Italia, America e nel mondo che credano non tanto al diritto dell'esistenza di Israele ma all'obbligo che Israele ha di difendersi e difendere i suoi cittadini: ebrei, musulmani, cristiani, tutti dal terrorismo barbaro di Hamas».
- Credo si debba essere grati a quei ragazzi di 18-20 anni che combattono a Gaza. Se cade Israele, dopo toccherà all'Europa e poi all'Occidente intero. «È un punto davvero importante: Israele è l'ultima linea di difesa, specie nel Medio Oriente, regione estremamente caotica e instabile. C'è bisogno di un alleato forte e un attore democratico in questa zona e non è tanto per Israele o per gli ebrei, ma per la civiltà occidentale, i suoi valori, la democrazia liberale. Se Israele cade, dopo toccherà a tutto l'Occidente».
- Quando pensi ci sarà un verdetto su Harvard? «L'ateneo dovrà rispondere entro il 14 aprile. Potrebbero chiedere l'archiviazione, scegliere di andare in giudizio, non si sa; però invito a leggere il fascicolo pubblico, online. Credo sia difficile trattenere un senso di indignazione morale. Harvard ha permesso che si facesse antisemitismo e ha dato vigore agli antisemiti. Mi spiace, ma c'era davvero un gran bisogno di portarli in tribunale».
La resa della Normale di Pisa: “Israele, stop ai bandi”
Dopo Torino anche l’istituto pisano “boccia” Israele. Il fastidio del Mur: «Scelta contro la nostra cultura».
di Leonardo Di Paco
I toni utilizzati nella mozione suscitano clamore, soprattutto perché stavolta riguardano un’università austera e selettiva, istituzione elitaria, simbolo di eccellenza e rigore.
Anche la Scuola Normale Superiore di Pisa, realtà fondata da Napoleone nel 1810 sull'esempio della École normale parigina, capace di sfornare due presidenti della Repubblica (Gronchi e Ciampi) e tre premi Nobel (Carducci, Fermi e Rubbia), si accoda alla lista di atenei che chiedono di rivedere il bando di collaborazione scientifica fra Italia e Israele promosso dal ministero degli Esteri in collaborazione con il ministero dell’Innovazione di Tel Aviv.
Una richiesta partita con una mozione degli studenti normalisti, e poi approvata dal Senato accademico dell’istituto di piazza dei Cavalieri, nella quale si chiede «un immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza al fine di scongiurare l’ulteriore aggravarsi di una situazione umanitaria ormai disperata». Nel documento si invitano i ministeri di Esteri e Università «di riconsiderare il “Bando Scientifico 2024” in attuazione dell’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica Italia-Israele». In quelle che vengono definite «circostanze di eccezionale e crescente gravità» la Scuola Normale Superiore ritiene di essere chiamata a «riflettere criticamente ad ampio raggio sulle ramificazioni del proprio lavoro» dicendo di ispirarsi all’articolo 11 della Costituzione, che prescrive il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Nel disciplinare del bando di cooperazione, contestato da diverse università italiane, si parla di ricerche congiunte fra gruppi di italo-israeliani sui temi della salute del suolo (nuovi fertilizzanti, impianti nel suolo), tecnologie per l’acqua (trattamento dell'acqua potabile, trattamento dell'acqua industriale e fognaria, desalinizzazione dell’acqua) e ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche «per applicazioni di frontiera, come i rivelatori di onde gravitazionali di prossima generazione».
Linee guida spiegate in termini piuttosto vaghi all’interno del bando ma che bastano a interrogare il mondo accademico sulle ricadute di queste collaborazioni, come se si desse per scontato un legame con quello che sta avvenendo a Gaza. Lo si capisce bene da un passaggio della mozione: «La Normale - si legge - si impegna a esercitare la massima cautela e diligenza nel valutare accordi istituzionali e proposte di collaborazione scientifica che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza».
Indispettito il ministero dell’Università e della Ricerca. Interpellate sulla richiesta della Normale, fonti del Mur rispondono che il giudizio sulla decisione del Senato dei normalisti ricalca quanto già espresso in occasione di decisioni simili, come quella dell'ateneo di Torino. In quell'occasione, il ministro Anna Maria Bernini aveva giudicato la scelta sbagliata, seppur assunta nell'ambito dell'autonomia delle università. La ministra ha già definito ogni forma di esclusione o boicottaggio «estranea alla tradizione e alla cultura dei nostri atenei».
Anche la premier Giorgia Meloni, commentando la decisione del senato accademico dell’ateneo di Torino, aveva detto di considerare «grave e preoccupante» la volontà di non partecipare al bando di ricerca congiunta con Israele.
Claudio Tongiorgi, esponente del collettivo studentesco della Normale, giudica la decisione del Senato accademico «in piena sintonia con quanto era già stato deliberato dall'Università di Torino» spiegando che «il bando in questione è già stato rimosso anche dal sito internet della Normale per una implicita presa d'atto che quella collaborazione scientifica rischia di aprire scenari dual use e ad acuire le politiche coloniali di Israele in Palestina».
Al netto dei termini utilizzati, conclude il rappresentante degli studenti, «la mozione del Senato accademico ci soddisfa pienamente dal punto di vista politico perché accoglie la nostra tesi e invita con chiarezza ad attuare la nostra Costituzione che ripudia la guerra».
(La Stampa, 30 marzo 2024)
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Normale di Pisa e lo stop all’accordo con Israele, Marco Carrai: “Motivazioni ridicole e vergognose”
Il console onorario commenta la mozione approvata dal Senato accademico per rivalutare il bando Italia-Israele
FIRENZE - Trovo ridicole e vergognose le motivazioni con le quali la Scuola Normale di Pisa ha deciso di interrompere le collaborazioni in atto con gli atenei israeliani". Con queste parole Marco Carrai, console onorario di Israele per Toscana, Emilia Romagna e Lombardia, commenta la richiesta degli studenti poi approvata dal Senato accademico della Normale per rivalutare l’accordo con Israele previsto nel ‘Bando scientifico 2024’ emesso il 21 novembre del 2023 in attuazione dell'intesa per la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica' tra i due Paesi.
“Si parla di collaborazioni – sottolinea il console onorario – su tecnologie civili che però, secondo l’università, potrebbero essere utilizzate da Israele per uccidere le persone a Gaza. Seguendo questo teorema allora potremmo dire che sulle mura della Normale gronda il sangue di centinaia di migliaia di persone, quante ne furono uccise dalle bombe a Nagasaki e Hiroshima: eminente allievo della Normale, lo possiamo vedere anche nel sito della scuola che se ne vanta, e a ragione, è stato Enrico Fermi. Quell’Enrico Fermi grande fisico i cui studi sul nucleare furono precursori della bomba atomica, e che fu tra i direttori del progetto Manhattan che impegnò gli Stati Uniti in gran segreto per vincere la corsa agli armamenti atomici rispetto a Hitler. Io invece penso che anche grazie a Enrico Fermi e ai suoi studi il mondo abbia fatto passi avanti sia dal punto di vista scientifico-tecnologico, sia dal punto di vista politico. Non fosse altro che ci ha liberato da Hitler. Purtroppo l’ideologia antisionista e anti ebraica oggi non permetterà alla Normale di contribuire a sconfiggere Hamas, una organizzazione terroristica, e a rendere quindi il mondo più sicuro. Io dico che la Scuola Normale, sotto un falso pacifismo, prende la parte di coloro che invitano all’odio e non alla pace rinnegando il valore universale, appunto, che incarnano l’università e la ricerca”.
(La Nazione, 30 marzo 2024)
Dopo un attacco aereo israeliano sul villaggio libanese meridionale di Khiam vicino al confine con Israele
Raid israeliano su Aleppo, colpito un deposito di razzi di Hezbollah nei pressi dell'aeroporto della città. La strategia israeliana, enunciata dal ministro della Difesa, Yoav Gallant, è quella di colpire Hezbollah ovunque sia
Israele colpisce duro in Siria e in Libano. L’attacco nella regione di Aleppo, nella notte tra giovedì e venerdì, è stato senza precedenti. Fonti siriane l’hanno definito il più potente degli ultimi anni in quella zona. Ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant ha promesso maniere ancora più forti. “Estenderemo l’offensiva al nord e aumenteremo gli attacchi”, ha detto il capo della Kirya in un incontro con il Comando nord di Tsahal, lanciando un ammonimento al nemico lungo la frontiera settentrionale di Israele. Gallant ha promesso azioni “più offensive che difensive” per arrivare ovunque si trovino le milizie di Hezbollah, che sia “Beirut, Baalbek, Tiro, Sidone e per tutta la lunghezza del confine. E in posti più lontani, come Damasco”. E’ stato il ministero della Difesa siriano ad attribuire a Israele – che di prassi non conferma ufficialmente, ma questa volta non ha esitato a elogiare l’operazione – gli attacchi in diversi punti, nella campagna di Aleppo.
Secondo la dinamica descritta dalla fonte, gli aerei militari israeliani hanno sorvolato i cieli giordani dirigendosi verso il suo confine con la Siria. Si sono poi diretti in profondità sugli obiettivi nel territorio della capitale del nord e hanno sganciato razzi che trasportavano materiale esplosivo. Bucati i sistemi di difesa aerea siriani, hanno colpito fabbriche del ministero della Difesa e un centro per la ricerca scientifica ad al Safirah, trenta chilometri a sud-est di Aleppo. Secondo fonti citate dalla testata del Qatar al Araby al Jadeed, l’attacco ha preso di mira un edificio che serviva da quartier generale di Hezbollah, a est dell’aeroporto, dove sono immagazzinate armi per le milizie filo-iraniane. Per i media statali siriani, l’operazione israeliana si sarebbe svolta in concomitanza con un attacco di droni suicidi lanciato da gruppi locali, oppositori del regime di Assad, con sede a Idlib. Una circostanza insolita e un’ammissione senza precedenti da parte dei canali ufficiali.
Anche il numero delle vittime, 42 secondo il bilancio dell’osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), è tra i più elevati. Dopo le prime indiscrezioni sull’identità dei morti, sono arrivate le conferme di Hezbollah sull’eliminazione di sette uomini appartenenti al partito. Tra loro, è stato ucciso il comandante Ahmed Shahimi, fratello maggiore di Seraj Shahimi delle forze d’élite Radwan, eliminato in un attacco israeliano a Beit Yahoun in Libano a novembre. Gli altri morti nelle file di Hezbollah sono stai Mustafà Mechi, Ibrahim Anis el Zin, Ali Alkhaf, Mustafa Nazif, Ali Baha e Ali Naim. Quest’ultimo è stato preso di mira in una diversa circostanza, un’operazione mirata sull’auto dove viaggiava, ad al Bazourieh in Libano, a otto chilometri a est di Tiro. Secondo l’ong Sohr era un ufficiale dell’esercito siriano che aveva stretti legami con l’organizzazione islamica sciita, un ingegnere esperto in cariche elettriche ed esplosivi, responsabile del coordinamento tra Hezbollah e le milizie pro iraniane. Secondo il portavoce militare israeliano, Naim era considerato una fonte importante all’interno del gruppo nemico e uno dei suoi compiti era quello di pianificare le rotte dei razzi lanciati su Israele. Con lui, il bilancio delle perdite confermato da Hezbollah tra i suoi uomini è salito a 265.
La risposta agli attacchi israeliani su Aleppo è arrivata nel corso della giornata di ieri. Il movimento armato libanese ha rivendicato il lancio di alcuni missili verso la base militare israeliana di Biranit in alta Galilea, sede della 91esima divisione di Tsahal, a ridosso della linea di confine. L’esercito ha confermato di aver identificato l’origine del lancio, Ayta ash Shab nel sud del Libano, e di aver contrattaccato nel giro di pochi minuti.
Il ministro israeliano Gallant, rientrato dalla missione a Washington, si è recato sul fronte nord assieme al comandante Uri Gordin e ad altri ufficiali dello stato maggiore. Si è congratulato per le operazioni portate avanti sul campo per proteggere il territorio e attaccare i terroristi di Hezbollah in Libano e Siria. E ha confermato di aver trasmesso al Pentagono, al segretario della Difesa Lloyd Austin e all’inviato e mediatore degli Stati Uniti per il Libano Amos Hochstein, l’intenzione di espandere la campagna contro di loro. L’Amministrazione Biden ha dato il via libera all’invio di bombe e aerei a Israele.
Dopo tre giorni senza cibo né elettricità né internet nella camera bunker del loro kibbutz, mentre i terroristi di Hamas compivano atrocità inenarrabili, una donna panamense ha deciso di fare una promessa al suo compagno.
Così Denise ha sposato David con rito civile e la coppia vive nel kibbutz Kissufim. I due si sono nascosti in casa per tre giorni durante il brutale attacco terroristico di Hamas. Dopo essere sopravvissuta all’aggressione, Denise ha deciso definitivamente di convertirsi all’ebraismo. “Ora mi sento parte di tutto questo e voglio diventare ebrea a tutti gli effetti” ha detto la donna.
David ha 39 anni ed è un ebreo israeliano; Denise ha 27 anni ed è originaria di Panama. David lavora in una fabbrica nel sud d’Israele e Denise bada invece ai bambini del kibbutz. Si sono conosciuti nel 2019, mentre David era a Panama, e si sono innamorati subito. Denise lo ha seguito presto in Israele.
Il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno tentato di entrare nella casa in cui si nascondeva la coppia. Miracolosamente, i miliziani non sono riusciti a entrare. Dopo tre giorni, David e Denise hanno sentito parlare ebraico fuori dalla porta. Attraverso un piccolo foro nella finestra, hanno visto i soldati dell’IDF. Dopo essere stati salvati, sono stati portati in un albergo vicino al Mar Morto in cui erano stati evacuati i residenti del kibbutz; solo di recente sono tornati a Kissufim.
A seguito dell’esperienza traumatica del 7 ottobre, Denise ha deciso di voler far parte del popolo ebraico e ha iniziato un processo di conversione totale. Ad aiutarla è l’organizzazione no-profit Shavei Israel, con sede a Gerusalemme, che lavora a stretto contatto con il Rabbinato Capo di Israele e con le istituzioni ebraiche di tutto il mondo.
“Il trauma che ho vissuto mi ha legato fortemente ad Israele e al popolo ebraico. Ora sento che sono parte di questo e voglio essere ebrea”, ha detto Denise.
“Siamo profondamente commossi dalla storia di Denise e dalla sua sincera decisione di unirsi al popolo ebraico e convertirsi secondo l’Halakhah”, ha affermato Michael Freund, presidente di Shavei Israel. “È davvero commovente. Faremo tutto il possibile per assisterla nel suo viaggio spirituale verso il popolo ebraico”.
Biden dovrebbe minacciare il Qatar e i terroristi, e non Israele
La minaccia del presidente americano Joe Biden di interrompere o sospendere le forniture militari americane a Israele se l'IDF entrasse a Rafah è ciò che incoraggia Hamas a continuare a combattere e a respingere ogni proposta di rilascio degli ostaggi.
Il presidente americano Joe Biden minaccia di interrompere o sospendere le forniture militari americane a Israele se l'IDF
entrasse a Rafah è ciò che incoraggia Hamas a continuare a combattere e a respingere ogni proposta di rilascio degli ostaggi
Secondo quattro funzionari americani, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden prenderà in considerazione la possibilità di condizionare le forniture militari a Israele se l'esercito israeliano procederà con un'invasione su larga scala della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Biden ha anche detto alla MSNBC che un'operazione a Rafah oltrepasserebbe una "linea rossa", sebbene abbia bilanciato tale dichiarazione con l'impegno a sostenere il diritto di Israele all'autodifesa. Fonti della sicurezza israeliane hanno rivelato che il gruppo terroristico Hamas sostenuto dall'Iran ha almeno quattro battaglioni a Rafah. Si ritiene che anche molti degli ostaggi israeliani rapiti dai terroristi di Hamas e da altri palestinesi il 7 ottobre 2023 siano tenuti prigionieri a Rafah. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sono riuscite a distruggere la maggior parte dei battaglioni di Hamas in altre aree della Striscia di Gaza. Il 4 febbraio scorso, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato lo smantellamento da parte delle forze israeliane di 17 dei 24 battaglioni da combattimento di Hamas nella Striscia di Gaza. "La crescente sconfitta di Hamas a Gaza è un risultato importante per l'IDF", ha affermato l'esperto di Medio Oriente Seth Frantzman.
"I terroristi di Hamas hanno perso il controllo di importanti aree a Gaza, consentendo lo smantellamento delle infrastrutture terroristiche che il gruppo aveva costruito nei decenni precedenti. È essenziale che l'esercito israeliano sia sostenuto nei suoi sforzi per prevenire ulteriori minacce da parte di Hamas e di altri gruppi terroristici a Israele e alla regione".
La minaccia di Biden di interrompere o sospendere le forniture militari americane a Israele se l'IDF entrasse a Rafah è ciò che incoraggia Hamas a continuare a combattere e a respingere ogni proposta di rilascio degli ostaggi. Quando i leader di Hamas sentono che Biden sta minacciando Israele per impedire all'esercito israeliano di entrare a Rafah, devono chiedersi: "Perché dovremmo fare delle concessioni a Israele? L'America non vuole che gli israeliani distruggano i quattro battaglioni rimasti. L'amministrazione americana è contraria al piano di Israele di eliminare Hamas, quindi aspettiamo!" Chiedere a Israele di non invadere Rafah e di distruggere i terroristi di Hamas asserragliati nella città è come chiedere a chi corre in una maratona di fermarsi prima di raggiungere il traguardo. Non c'è alternativa alla sconfitta totale di Hamas, soprattutto all'indomani del massacro di 1.200 israeliani perpetrato il 7 ottobre. Una sconfitta totale significa l'eliminazione di tutti i battaglioni di Hamas. Una vittoria israeliana non sarà mai completa finché uno, o anche solo la metà, di un battaglione di Hamas rimarrà intatto. Secondo il generale di brigata in pensione Amir Avivi, presidente e fondatore dell'Israel Defense and Security Forum:
"Gli americani dovrebbero comprendere le conseguenze della linea rossa [di Biden]: la garanzia che un altro 7 ottobre si ripeterà, che gli ostaggi non torneranno mai a casa, che un Iran incoraggiato si intensificherà su tutti i fronti e che i civili oppressi da Hamas soffriranno indefinitamente. "Uno dei motivi potrebbe essere l'intenzione del presidente Biden di evitare il dissenso alla Convenzione democratica di agosto, e Biden è preoccupato di perdere lo Stato del Michigan alle prossime elezioni poiché i giovani e gli arabi americani diserteranno a causa della sua politica verso Israele. Israele ha il diritto di difendersi, sembra ora dire, ma dovrebbe fermare la guerra adesso. Il presidente Biden ha espresso questa posizione dicotomica nel suo discorso sullo stato dell'Unione pronunciato la scorsa settimana e ha ribadito questo punto nell'intervista rilasciata alla MSNBC".
Il 25 novembre 2023, Biden avrebbe affermato che l'obiettivo di Israele di eliminare Hamas è una missione legittima ma difficile. "Non so quanto tempo ci vorrà", ha detto Biden ai giornalisti.
"La mia aspettativa e la mia speranza è che mentre andiamo avanti, anche il resto del mondo arabo e la regione facciano pressione su tutte le parti per rallentare questa situazione, per porre fine a questa situazione il più rapidamente possibile".
Quattro mesi dopo, Biden sembra aver cambiato idea sull'eliminazione di Hamas. Il suo avvertimento a Israele di non entrare a Rafah implica che Washington in realtà vuole che Israele perda la guerra contro Hamas. Ciò significherebbe che Hamas continuerà a governare la Striscia di Gaza e pianificherà altri massacri in stile 7 ottobre contro gli israeliani. Il funzionario di Hamas Ghazi Hamad ha chiaramente affermato che il gruppo terroristico ripeterà l'attacco del 7 ottobre, ancora e ancora, finché Israele non sarà annientato. La parte più pericolosa delle dichiarazioni di Biden è la minaccia di sospendere o interrompere le spedizioni statunitensi di armi e munizioni a Israele qualora lo Stato ebraico dovesse procedere con i suoi piani di lanciare un'offensiva di terra a Rafah, distruggere Hamas e liberare gli ostaggi. Biden in realtà sta inviando un messaggio a Hamas e agli altri proxies del terrorismo iraniano, tra cui Hezbollah, la Jihad Islamica Palestinese e gli Houthi, che l'America sta per voltare le spalle a Israele. Tagliare le forniture di armi americane a Israele è la fantasia ultima dei terroristi. Non c'è da meravigliarsi, quindi, che nelle loro dichiarazioni diversi leader di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese abbiano chiesto l'immediata sospensione delle forniture d'armi statunitensi a Israele. I terroristi palestinesi vogliono che gli americani smettano di fornire aiuti militari a Israele perché ciò faciliterebbe la loro missione di uccidere gli ebrei e distruggere Israele. I terroristi sono arrabbiati perché vogliono che Israele sia debole e indifeso. I leader di Hamas hanno solo un problema nel portare avanti altri massacri contro gli israeliani simili a quelli del 7 ottobre: la fornitura di armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali complica il sogno dei terroristi di massacrare gli ebrei. "Dobbiamo dare una lezione a Israele", ha detto Hamad.
"L'alluvione Al-Aqsa [nome dato da Hamas all'invasione di Israele del 7 ottobre] è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza, una quarta. Dovremo pagare un prezzo? Sì, e siamo pronti a farlo. Siamo chiamati una nazione di martiri e siamo orgogliosi di sacrificare martiri".
L'amministrazione Biden otterrebbe più successo se smettesse di sottovalutare tali minacce da parte di un gruppo terroristico brutale che si è dimostrato perfettamente capace di perpetrare stragi, di stuprare, decapitare e bruciare vivi i civili israeliani. L'amministrazione potrebbe dar prova di notevoli capacità di leadership e di fatto "porre fine a tutto questo il più rapidamente possibile", non solo per Israele ma per tutti coloro che nella regione cercano la pace, incoraggiando Israele a eliminare i terroristi a Rafah senza indugio. L'amministrazione farebbe bene anche a smettere di fare discorsi sulla punizione da dare a Israele, che consisterebbe nel tagliare le forniture militari. Invece di fare pressione su Israele, Biden dovrebbe esercitare pressioni sui suoi amici in Qatar affinché essi costringano il loro burattino Hamas a consegnare gli ostaggi israeliani e ad arrendersi. Anziché minacciare di tagliare le forniture di armi a Israele, Biden dovrebbe minacciare i leader del Qatar di ritirare le forze americane dalla base aerea di Al Udeid e di designare ufficialmente il Qatar come Sponsor del Terrorismo (per il finanziamento di Hamas, Hezbollah, l'ISIS, Al Qaeda, i Talebani, Al Shabab, il Fronte al-Nusra, tra gli altri). Questo è il modo, l'unico modo, per porre fine rapidamente alla guerra, nonché per inviare un segnale agli avversari americani che stanno a guardare, che gli Stati Uniti sono pronti a sostenere i valori della civiltà, e non quelli del terrore.
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* Bassam Tawil è un arabo musulmano che vive in Medio Oriente.
(Gatestone Institute, 29 marzo 2024 - trad. di Angelita La Spada)
Non c’è più esenzione per gli ultraortodossi, dovranno combattere per Israele
di Fabiana Magrì
Tel Aviv. Ha provato fino all’ultimo minuto, il premier Benjamin Netanyahu, a comprare tempo. Almeno altri trenta giorni, tanto aveva chiesto in una lettera alla Corte Suprema, scritta e firmata di suo pugno, per posticipare l’entrata in vigore della leva obbligatoria per la comunità ultraortodossa israeliana. E per evitare una crisi di governo che, ora, appare inevitabile. Con una decisione drastica, la più alta magistratura dello stato ha preferito evitare la spaccatura sociale e le manifestazioni che avrebbero incendiato le piazze. E dopo aver già concesso tre proroghe in 24 ore, ha emesso ieri sera l’ordinanza provvisoria con cui ha confermato la scadenza, il prossimo lunedì primo aprile, del quadro giuridico che esonera gli studenti di yeshivot (le scuole religiose dove i ragazzi Haredim studiano Torah) dal servizio militare. La decisione mette di fatto le mani nei portafogli della comunità Haredi. Da lunedì è impedito al governo di finanziare gli stipendi mensili che i giovani ultra ortodossi percepiscono dalle yeshivot. La data spartiacque della retroattività è il 1° luglio 2023. Chi non ha ottenuto il rinvio formale e non si è presentato alle armi, non riceverà più i fondi statali. Gli altri potranno continuare a recepirli provvisoriamente, ma a breve il governo dovrà approvare una nuova cornice legislativa per regolare la leva obbligatoria per questa fetta di società israeliana. O i rubinetti si chiuderanno per tutti.
Netanyahu si era detto vicino a raggiungere un compromesso. Aveva parlato di “notevoli progressi” nel trovare una formula per risolvere il dilemma legale e sociale. Per elaborare il piano nei dettagli, a causa della guerra in corso, aveva chiesto un altro mese di tempo. Il Movimento per la Qualità del Governo in Israele, principale firmatario della richiesta per l’equa coscrizione, ha accolto la decisione della Corte Suprema definendola “storica”, sebbene provvisoria. E’ stato privilegiato lo statuto di eguaglianza rispetto allo status quo originario di un accordo stipulato tra i padri fondatori dello stato e il mondo ebraico ultraortodosso. I sostenitori dell’inclusione obbligatoria degli Haredim nell’esercito ne fanno una questione, oltre che di uguaglianza, di minaccia esistenziale per Israele. A lungo termine, dicono, sarà molto difficile continuare a prosperare, e persino a esistere, come nazione. “Sono giorni difficili, di difficili decisioni. Ma abbiamo bisogno di leader coraggiosi che le prendano”, ha commentato Shuki Friedman, vice presidente del Jewish People Policy Institute. Il numero di cittadini ultra ortodossi esentati dal servizio militare sono tra i 63 e i 66 mila. E i numeri sono proprio ciò che fa la differenza tra i tempi di David Ben Gurion, oggi e il futuro. Gli Haredim, secondo i dati dell’istituto JPPI, rappresentano il 13,5 per cento degli israeliani. Secondo le previsioni, tra 40 anni saranno un terzo della popolazione. Tutti gli sforzi compiuti negli ultimi vent’anni per portarli a servire nell’esercito così come qualunque altro connazionale è obbligato a fare, sono finora falliti.
Ma in tempo di guerra, una guerra dagli sviluppi e dalla durata incerta, il nodo è diventato cruciale. Rivka Ravitz, che al JPPI è una ricercatrice che si dedica allo studio dell’emancipazione delle donne ultraortodosse come lei nel mercato del lavoro, spiega l’ostacolo alla leva obbligatoria nel suo settore dalla prospettiva di una madre haredi. E lo fa partendo dal suo microcosmo. “Ho un cugino ultra ortodosso – racconta – che ha prestato servizio nell’esercito. Quando ne è uscito non era più Haredi. Questa è davvero una preoccupazione di cui le madri sono spaventate”. Prima della guerra si stava facendo strada nella società israeliana, anche tra la sinistra laica, la possibilità di una resa su questo scoglio finora insormontabile. L’idea di un esercito più agile e meno numeroso era visto come un nuovo modello a cui aspirare. La nuova tendenza della politica, con buona pace della società, era il baratto dell’esenzione completa dal servizio militare con un maggiore coinvolgimento nella forza lavoro e nell’high tech.
In guerra, tutti i paradigmi sono saltati. Servono più soldati lungo i confini. E a tempo indeterminato. “Se non reclutiamo ultra ortodossi – esemplifica Shuki Friedman – significa che io stesso e i miei amici dovremo servire più giorni come miluim, riservisti. E che i ragazzi più giovani, che presto si arruoleranno, dovranno servire più a lungo”. L’uguaglianza è certamente uno degli aspetti della questione. Ma oggi si sovrappone al tema della sopravvivenza di uno stato che deve trovare la formula per restare in equilibrio tra sicurezza e prosperità.
"Il reclutamento degli ebrei ultraortodossi non farà cadere Netanyahu"
Anche se il governonegli ultimi giorni è stato scosso dal problema del reclutamento di ebrei ortodossi, gli esperti non credono che la coalizione sia in pericolo.
Benjamin Netanyahu presiede una riunione di governo nella base di Hakirya a Tel Aviv il 24 dicembre 2023
La questione del reclutamento degli Haredim (ultraortodossi) nell'esercito ha raggiunto un punto di ebollizione questa settimana, dopo che il governo Netanyahu, nonostante gli sforzi febbrili, non è riuscito a presentare un disegno di legge che regolamentasse la questione entro la scadenza fissata dalla Corte Suprema mercoledì. All'ultimo minuto, il governo ha chiesto una proroga di mezza giornata per presentare una risposta definitiva. La Corte non ha ancora risposto, poiché il governo ha presentato la richiesta solo pochi minuti prima della mezzanotte. Il governo aveva chiesto il rinvio dopo che l'Ufficio del Procuratore Generale, che è in contrasto con il governo per quanto riguarda la legge sulla convocazione degli Haredim, aveva presentato una bozza di risposta alla corte in cui si affermava che la convocazione degli Haredim doveva iniziare il 1° aprile. Il procuratore generale ha sostenuto che lo Stato non è autorizzato a fare altrimenti perché lunedì scade un'ingiunzione che rinvia la convocazione degli Haredim. Il procuratore generale ha inoltre dichiarato che i finanziamenti alle yeshivas i cui studenti non rispettano il servizio militare obbligatorio saranno gradualmente eliminati; lo Stato continuerà a finanziare le yeshivas fino alla fine dell'anno scolastico in corso, che termina il 13 agosto. Mentre quasi tutti gli israeliani concordano sul fatto che gli haredim debbano svolgere un ruolo maggiore nella difesa di Israele, i membri della coalizione hanno messo in discussione il comportamento e la tempistica della Corte Suprema, del Procuratore Generale e di alcuni membri della coalizione, accusandoli di perseguire una doppia agenda per rovesciare il governo. Per anni, i partiti haredi sono stati l'elemento più stabile del blocco di destra di Netanyahu e la loro stabilità è stata ottenuta grazie alla volontà del Primo Ministro di continuare a finanziare le loro istituzioni educative e a fornire altri servizi. Secondo quanto riferito, in un incontro con Netanyahu i leader politici haredi avrebbero detto che avrebbero lasciato il suo governo se avesse approvato una legge con cui non erano d'accordo, ma che sarebbero rimasti al suo fianco se i tribunali avessero imposto una soluzione. Gli analisti hanno detto a JNS che è improbabile che la questione porti a un crollo del governo. Un osservatore casuale potrebbe avere l'impressione che la coalizione sia in pericolo, dato che negli ultimi giorni è sembrata traballante. Lunedì, il leader del partito Tikva Chadasha (Nuova Speranza), Gideon Sa'ar, ha lasciato il governo con il suo partito di quattro seggi (anche se non specificamente per la questione haredi), mentre sono circolate notizie secondo cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu avrebbe detto ai suoi ministri che "senza un disegno di legge, non ci sarà un governo". Domenica, il Ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha dichiarato che non avrebbe appoggiato la proposta di legge della coalizione sulla questione haredi, in quanto non si spingeva abbastanza in là per risolvere il problema. Lo stesso giorno, Benny Gantz, ministro senza portafoglio e presidente del Partito di Unità Nazionale, ha dichiarato che avrebbe lasciato il governo se la legge fosse stata approvata dalla Knesset. Gilad Malach, direttore del programma "Ultra-ortodossi in Israele" dell'Israel Democracy Institute, ha dichiarato a JNS che anche se Gantz si dimettesse, il governo avrebbe comunque una maggioranza di 64 seggi alla Knesset. L'unico scenario che può immaginare è che le dimissioni dell'ex capo di Stato Maggiore possano mettere a rischio il governo in caso di proteste di massa, come è avvenuto per la riforma giudiziaria. "Ma se l'opinione pubblica conclude che le dimissioni di Gantz significano che Israele non è più in una situazione di emergenza e può scendere in strada, allora la situazione potrebbe diffondersi", ha detto. In una maratona di quattro ore di riunione martedì tra il procuratore generale, i partiti haredi, il primo ministro e il ministro della Giustizia non sono riusciti a raggiungere un consenso sul piano del governo. Netanyahu ha cancellato una riunione di martedì in cui il progetto di legge doveva essere approvato dal governo. I partiti haredi hanno incolpato il procuratore generale Gali Baharav-Miara per lo stallo (all'inizio della settimana aveva dichiarato di non poter difendere il disegno di legge senza modifiche significative, tra cui l'inclusione di alcune figure di reclutamento). Fonti ultraortodosse l'hanno etichettata come un nemico dell'attuale governo. "Nessuna soluzione è accettabile per loro, solo le elezioni", hanno detto. Il partito United Torah Judaism avrebbe minacciato di ritirarsi dal governo se la proposta fosse stata emendata per includere obiettivi di reclutamento elevati o pene severe per i renitenti alla leva.
I deputati Yitzchak Goldknopf (a sinistra) e Moshe Gafni durante una riunione del partito United Torah Judaism alla Knesset il 21 novembre 2022
Tuttavia, è molto difficile immaginare che i partiti haredi lascino la coalizione", afferma Malach. "Anche se la Corte Suprema dovesse ordinare al governo di convocare immediatamente gli haredim, è chiaro a tutti che ciò non avverrà immediatamente. "Gli Haredim non andranno da nessuna parte", concorda Sharona Zablodovsky, membro del Forum Dvorah, un gruppo femminile composto da esperti di politica estera e sicurezza nazionale. Gli Haredim hanno un legame molto forte con Netanyahu". .... I giovani haredim - non la leadership politica, non i rabbini, ma i giovani haredim - lo adorano". Zablodovsky non esclude che Gantz e Galant cerchino di capitalizzare la questione haredi per ottenere il sostegno dell'opinione pubblica, affermando a JNS che "Gantz sfiderà certamente Netanyahu per la carica di primo ministro alle prossime elezioni". "La richiesta di reclutare gli haredim non li danneggerà politicamente. Se gli israeliani erano già arrabbiati prima, possiamo solo dire che lo sono ancora di più adesso", ha aggiunto. Gli israeliani che sono stati richiamati nelle riserve dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre hanno prestato servizio per mesi senza una vera pausa, ha affermato l'autrice: "Sono esausti. La maggior parte di loro ha una famiglia". Il 70% degli ebrei israeliani intervistati dall'Israel Democracy Institute tra il 28 febbraio e il 4 marzo si è detto favorevole a modificare il rinvio militare degli Haredim. Gli ultraortodossi sono quasi completamente esenti dal servizio militare, iniziato con un'eccezione per circa 400 studiosi della Torah al momento della fondazione dello Stato. Da allora, il numero di haredim è esploso e le esenzioni sono state estese. Mentre il pubblico non haredi chiede un cambiamento, Malach dell'IDI afferma di non aver riscontrato lo stesso apprezzamento tra gli haredim, i cui leader continuano a scoraggiare il servizio militare perché lo considerano una distrazione dallo studio della Torah. "La maggior parte ritiene che l'accordo attuale debba essere mantenuto. Ai margini, stiamo assistendo a qualche cambiamento. Se prima era il 10% a dire che bisognava fare qualcosa, ora è circa il 20%. Si tratta soprattutto dei moderni ultraortodossi. Persone che non solo vivono all'interno della società ultraortodossa, ma hanno anche un certo legame con gli altri israeliani", afferma. "Il punto principale è che gli eventi del 7 ottobre hanno avuto un impatto enorme sulla maggioranza della popolazione, quella laica e moderatamente religiosa. Ma c'è la sensazione che la società ultraortodossa e i leader politici di questo gruppo non siano stati minimamente colpiti", ha aggiunto. Sebbene il numero di uomini ortodossi che studiano nelle yeshivas e sono idonei al servizio nell'IDF sia stimato tra i 63.000 e i 66.000, solo 1.140 di loro si sono arruolati dal 7 ottobre, 600 dei quali hanno più di 26 anni. Secondo Zablodovsky, il problema non risiede tanto nei politici ultraortodossi quanto nella leadership rabbinica. "Hanno paura che il settore si disgreghi se gli haredim prestano servizio", spiega Zablodovsky, "perché i giovani haredim si allontanano dal loro stile di vita durante il servizio militare". Per contrastare questo fenomeno, il piano del governo prevede la creazione di un battaglione Haredi separato che tenga conto dei sentimenti religiosi di questo gruppo. Come comunità, gli Haredim hanno molte qualità positive e si integrerebbero rapidamente se i rabbini glielo permettessero, dice Zablodovsky. Sono abituati a studiare e ad apprendere rapidamente l'addestramento militare, "e sanno come aiutarsi a vicenda. Hanno un fortissimo 'aravut hadadit' [senso di responsabilità reciproca]. È nel loro DNA", ha aggiunto. Nonostante le attuali battute d'arresto e il dibattito in corso, Zablodovsky rimane ottimista. Gli orrori del 7 ottobre avranno un impatto di vasta portata sulla società israeliana", ha previsto. In definitiva, condurrà gli Haredim più vicino al seno di Israele. "Ci sarà un compromesso, forse qualche centinaio all'inizio, ma sarà l'inizio di una nuova era di Haredim che si uniranno e serviranno. Non credo che gli israeliani Una volta finita la guerra accetteranno di non servire. È troppo", dice.
(Israel Heute, 29 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’uomo che sopravvisse all’inferno di Gaza: l’incredibile racconto di Louis Har
La notizia della liberazione lo scorso 12 febbraio di Louis Har,il contabile argentino-israeliano di 71 anni, ha fatto il giro del mondo dopo un’odissea durata 129 giorni, paragonabile a un vero e proprio film dell’orrore. Finalmente libero dopo l’audace missione dell’IDF, l’uomo ha potuto riabbracciare la sua famiglia ponendo fine a una lunga detenzione da incubo. In un’intervista esclusiva per il Daily Mail, Har ha condiviso gli angoscianti dettagli del suo calvario mentre era prigioniero dei terroristi a Gaza. Si tratta di uno dei resoconti più dettagliati finora della vita degli ostaggi nella Striscia. «Ci hanno trattati come se fossimo cani, non come esseri umani, ha dichiarato descrivendo il terrore e la disperazione che hanno segnato ogni giorno della sua prigionia. Har ha narrato di essere stato svegliato da un’esplosione violenta alle due del mattino, che ha squarciato la sua cella, catapultandolo in un mondo di caos e terrore. «Ero convinto che quella fosse la fine – ha raccontato, ripensando all’orrore che lo ha pervaso in quei momenti –. Poi, all’improvviso, ho sentito qualcuno che mi chiamava in ebraico». Si trattava dell’unità d’élite dell’IDF, l’esercito israeliano, arrivata per portare Har e il suo compagno di prigionia, Fernando Marman, a casa. «Quel momento è stato come un raggio di speranza in mezzo al buio più profondo», ha rammentato, il suo viso ancora segnato dalle sofferenze. Il ritorno in Israele è stato un turbine di emozioni contrastanti: la gioia travolgente di riabbracciare la famiglia, ma anche il peso opprimente del terrore vissuto. «Abbiamo versato lacrime di gioia e di dolore», ha confessato, stringendo Clara, la sua compagna, e Fernando, il fratello di lei, a loro volta presi in ostaggio insieme a Gabriela, la sorella di Clara e la figlia Mia. Con loro c’era anche Bella, la fedele cagnolina shitsu sopravvissuta, nonché parte integrante di quel momento commovente. Har sorride ora mentre racconta come Bella sia riuscita a sopravvivere inosservata: «Lei non si rende conto di essere un cane, si comporta come una bambola. Non l’abbiamo mai sentita lamentarsi. È stata più eroica di noi». La famiglia si trovava a casa nel Kibbutz Nir Yitzhak quando uomini armati si sono riversati oltre il confine e hanno preso d’assalto la loro comunità vicino a Gaza all’alba del 7 ottobre. Mentre i terroristi hanno sfondato le finestre, i cinque parenti si sono precipitati al rifugio antiaereo con Bella, ma gli uomini li hanno inseguiti sparando nella stanza. «Uno dei proiettili è passato molto vicino a Fernando – ha descritto Har –. Abbiamo urlato: “Non sparate, non sparate!” Poi ci hanno portati fuori dalla stanza». In una scena apocalittica, i terroristi, con «occhi enormi e spaventosi», hanno raso al suolo il Kibbutz costringendo i cinque sopravvissuti sotto la minaccia di una pistola a salire su un camioncino bianco. Mentre il veicolo accelerava in modo irregolare verso il confine, gli attentatori hanno sparato in aria gridando «Allah Akbar». Hanno superato ondate di giovani armati che irrompevano in Israele, saccheggiando tutto ciò che incontravano, mentre i corpi giacevano sparsi lungo la strada. «Alla fine – ha riferito Har – sono arrivati a un piccolo edificio a Gaza. Hanno aperto un piccolo cancello e ci hanno portato in un tunnel con i terroristi armati di pistole. Erano dietro, davanti e di fianco a noi». Per tre ore i cinque sono stati spinti a piedi nudi attraverso la rete sotto la minaccia delle armi, a volte costretti a strisciare sulle mani e sulle ginocchia. I terroristi avevano piccoli appunti per orientarsi nel labirinto sotterraneo. «Era sempre buio – ha detto Har –. L’unica luce proveniva dal telefono. Non c’era aria. Sembrava che non saremmo mai usciti da lì». I ricordi dell’inferno di Gaza continuano a tormentare Har. «Le notti erano le peggiori – ha confessato rivelando l’angoscia vissuta –. Sognavo di abbracciare i miei nipoti, di sentire il calore delle loro braccia attorno a me. Era come se fossi lì con loro, e poi mi svegliavo, ancora intrappolato in quel buio implacabile». Durante la prigionia, Har ha descritto il comportamento dei terroristi come brutale e disumano. «Ci trattavano come se fossimo meno di animali. Ci minacciavano, ci umiliavano, ci tenevano nel terrore costante». Gli ostaggi, tra uno spostamento e l’altro, sono rimasti per 50 giorni in una stanza senza finestre sotto lo sguardo crudele di guardie armate che li schernivano. Così hanno inventato dei soprannomi in spagnolo per ciascuno dei loro rapitori parlando il meno possibile in ebraico in modo da non essere compresi. Un terrorista si interessò a Mia, ridendo di lei sostenendo che era «single e di volerla sposare». Quando Har lo ha intimato a fermarsi, la guardia ha iniziato a ululare e a prenderlo in giro sogghignando: «Wow, c’è un lupo qui». Più tardi è tornato con un grosso coltello da commando e ha iniziato a giocherellarci per spaventarli. Har ricorda di come sono stati costretti a dormire su materassi sporchi e sottilissimi buttati sul pavimento, sopravvivendo con avanzi di pane pita mentre immaginavano di banchettare con bistecche argentine e condividere storie di vita per passare le giornate. «C’era una guerra psicologica costante – ha raccontato –. Ci hanno intimato a non uscire all’esterno, che ci avrebbero picchiato a morte». Non solo: i carnefici si sono premurati di informare puntualmente gli ostaggi di ogni fallimento dell’IDF o di ogni volta che i soldati venivano uccisi: «Ci dicevano che non avevamo nessun posto dove tornare, che il Kibbutz Nir Yitzhak non esisteva più. Continuavano inoltre a dirci di non parlare ad alta voce perché i droni, se ci avessero ascoltato, avrebbero passato l’informazione a Netanyahu e Netanyahu avrebbe mandato aerei a bombardarci perché non vuole nessun accordo, vuole ucciderci. Continuavano a ripetercelo, ogni giorno. Alla fine ti entra in testa». Dopo la liberazione, Har sta affrontando una graduale reintegrazione nella vita quotidiana dopo la sua drammatica esperienza, facendo riaffiorare quanti dei suoi amici del suo Kibbutz sono stati uccisi. Non gli è ancora permesso guardare la televisione data la fragilità del suo stato d’animo. Tuttavia, nonostante la durissima prova a cui è stato sottoposto, sta ancora lottando per il ritorno dei 134 ostaggi rimasti a Gaza. «È così terribile, così difficile per loro vivere così», dice l’uomo che sa più di chiunque altro quello che gli ostaggi hanno patito e stanno patendo. «Dobbiamo riportare indietro tutte le persone, tutti», afferma con voce ferma –. Continuerò a lottare finché non saranno liberi». La sua storia, un misto di terrore, commozione e speranza, rimarrà impressa nelle menti e nei cuori di coloro che ascoltano, un simbolo vivente della forza umana di fronte all’avversità.
(Bet Magazine Mosaico, 29 marzo 2024)
La proposta della ministra Faeser per ottenere il passaporto: condividere i valori
La Staatsräson, la Ragion di stato, spiegata agli stranieri: è questo il fulcro di un regolamento annunciato dalla ministra dell’Interno della Germania, la socialdemocratica Nancy Faeser. A inizio anno il Parlamento tedesco ha votato una legge per accelerare il processo di naturalizzazione degli stranieri prevedendo un allentamento dei requisiti necessari per fare domanda: dagli otto anni di residenza e lavoro (o scuola) in regola si è passati a cinque che scendono a tre in casi di particolare merito e integrazione anche linguistica. E rinunciare alla cittadinanza d’origine non sarà più necessario.
Tanti futuri cittadini provengono però da paesi con tradizioni, storie e usi diversi, è necessario che chi punta al passaporto tedesco condivida i valori fondamentali del paese. Fra i quali si ricorda l’uguaglianza fra i sessi e le “razze” (il progetto di togliere la parola razza dalla Costituzione postbellica è stato bocciato perché faceva troppo cancel culture) ma anche il rispetto per Israele e per gli ebrei, questa la novità annunciata da Faeser.
“Chi non condivide i nostri valori non può ottenere un passaporto tedesco”, ha scandito la ministra. Il pogrom dello scorso 7 ottobre l’ha spinta a inserire proprio la sicurezza dello stato ebraico – da anni definita Ragion di stato a Berlino – nel test per la naturalizzazione degli stranieri. Ai quali si chiederà non solo di conoscere la lingua di Goethe ma anche di indicare il nome in tedesco di un luogo di preghiera ebraico, di sapere quando è stato fondato lo stato di Israele e perché la Germania ha una responsabilità speciale nei confronti di Israele.
Secondo lo Spiegel, ai candidati potrà anche essere chiesto quali siano i requisiti per diventare membro dei circa 40 club sportivi ebraici del Makkabi. Basterà un test a sradicare l’antisemitismo di importazione? Probabilmente no. L’iniziativa di Faeser ha però il pregio di fare chiarezza. Nessuno domani potrà dire: io non lo sapevo.
Tre persone, tra cui un bambino, sono rimaste ferite da un terrorista, che ha sparato contro un autobus blindato, che trasportava alcuni studenti, e due auto, vicino al villaggio arabo palestinese dell’Autorità Palestinese di Al-Auja, nell’area di Gerico.
Magen David Adom (MDA) ha riportato che un uomo di 30 anni è stato gravemente ferito, mentre un giovane e un bambino di 13 anni sono stati leggermente feriti. Due dei feriti nell’attacco sono attivisti di una ONG di sinistra.
Le forze dell’ordine sospettano che il terrorista abbia atteso in agguato per i veicoli, sparato loro e immediatamente fuggito dalla scena. Le vittime hanno riferito che il terrorista era mascherato e si trovava sul lato della strada indossando abiti simili a uniformi dell’IDF, e ha sparato contro di loro usando un fucile. L’autobus, dopo essere stato colpito, ha raggiunto il Kibbutz di Na’aran, dove erano già presenti i soccorritori, che hanno portato i feriti all’ Hadassah Mount Scopus di Gerusalemme.
L’esercito sta cercando l’attentatore ad Al-Auja e nei villaggi circostanti, assistiti da aerei. La Route 90 è stata chiusa al traffico in direzione sud da Na’aran.
Il presidente del Consiglio Yesha, Shlomo Ne’eman, ha commentato l’accaduto. “Un altro tentativo di massacro di bambini, questa volta un vile terrorista ha preso di mira un autobus scolastico nella Valle del Giordano” ha dichiarato Ne’eman che ha sollevato l’importante questione della sicurezza “Chiediamo ancora una volta la sicurezza dei nostri residenti e di quelli dell’intero Stato di Israele – è ora di cambiare rotta” ha aggiunto.
Il velivolo di fabbricazione americana può eseguire numerose missioni di intelligence contemporaneamente.
A meno di un anno e mezzo dal suo debutto al Salone aeronautico di Parigi, il nuovo aereo di intelligence dell’Aeronautica militare israeliana è diventato operativo nel bel mezzo della guerra. Il Ministero della Difesa ha approfittato del conflitto per accelerare il processo di assimilazione operativa, che di solito dura mesi, a pochi giorni. Al termine, l’Aeronautica Militare ha dichiarato l’aereo Oron pienamente operativo. Il nuovo e avanzato velivolo di intelligence, di cui solo le grandi potenze possiedono modelli simili, ha già registrato centinaia di ore di volo operativo in vari teatri nelle ultime settimane, per un totale di quasi 100 missioni. In ogni sortita dello squadrone Nahshon (122), l’aereo di fabbricazione americana può eseguire numerose missioni di intelligence contemporaneamente.
Per esempio, l’aereo può scortare un’operazione di arresto di una divisione a Jenin, monitorare clandestinamente un alto funzionario a Rafah, individuare l’origine di un missile balistico nello Yemen, identificare un convoglio di armi tra l’Iraq e la Siria, localizzare un sospetto vicino a un reattore nucleare in Iran e seguire un veicolo che trasporta alti funzionari che deve essere neutralizzato nel cuore di Dahieh a Beirut – tutto in una sola sortita. Come gli altri due aerei di intelligence dello squadrone Nahshon, l’Eitam (specializzato in missioni di controllo e sorveglianza) e lo Shavit (specializzato in missioni di ricognizione), anche l’Oron opera alla massima altitudine tra tutti gli aerei dell’Aeronautica, superando i 40.000 piedi.
Negli ultimi mesi, l’Oron si è evoluto in un aereo multi-missione e multi-armato. Ogni sortita operativa, che in genere dura tra le 5 e le 10 ore e copre distanze di circa mille chilometri, serve le missioni della Divisione Intelligence, dell’Aeronautica e della Marina contemporaneamente e in tempo reale. L’Oron può eseguire missioni indipendenti e operare nell’ambito di operazioni integrate a fianco di aerei da combattimento, navi della Marina e persino sottomarini.
Dotato di migliaia di sensori avanzati, l’Oron scansiona cellule di terreno vaste e remote, raccogliendo una quantità di informazioni senza precedenti per l’IDF da un’unica nave di raccolta e a distanze considerevoli da Israele o dagli obiettivi da tracciare. Alcuni obiettivi possono trovarsi a centinaia di chilometri di distanza dal velivolo, che inizialmente vola in modo visibile come parte della strategia di deterrenza di Israele in Medio Oriente.
Sono in corso piani per l’acquisizione di un altro velivolo simile nei prossimi anni, dopo l’arrivo dell’Eitam e dello Shavit nell’Aeronautica Militare, rispettivamente nel 2006 e nel 2010. Sebbene alcune missioni siano considerate tattiche, l’Oron è classificato come aereo strategico per Israele. Il suo sviluppo è stato preceduto da una disputa all’interno dell’establishment della difesa sul costo del progetto, stimato in circa un miliardo di dollari, un budget sostanzioso che alcuni militari ritenevano dovesse essere destinato ad altre risorse operative.
Boaz Levy, amministratore delegato di Israel Aerospace Industries, l’azienda che ha sviluppato il velivolo, ha dichiarato: “La IAI è orgogliosa di aver sviluppato e prodotto il velivolo Oron, che entrerà a far parte dello squadrone Nahshon dell’Aeronautica Militare insieme ai velivoli di intelligence ‘Shavit’ ed ‘Eitam'”. Levy ha attribuito il merito della svolta nel campo dei velivoli intelligenti agli ingegneri dell’azienda, che hanno sviluppato tecnologie per la miniaturizzazione dei sistemi di rilevamento, algoritmi e applicazioni software basate sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento automatico.
Levy ha sottolineato: “In un’epoca di abbondanza di informazioni di intelligence, il sistema elabora in modo efficace vasti dati provenienti da più sensori, trasformandoli automaticamente in informazioni utilizzabili per supportare il processo decisionale”. Il velivolo Oron è fondamentale per mantenere la supremazia dell’intelligence israeliana, in particolare in un contesto di crescenti minacce alla sicurezza. IAI continuerà a supportare e rafforzare il sistema di sicurezza di Israele”.
USA – Tesoro sanziona rete pro-Hamas che sostiene agenzia Gaza Now
di Stefano Piazza
Giovedì gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno sanzionato Mustafa Ayash e Aozma Sultana, fondatore e direttore di Gaza Now, un’agenzia di stampa che sostiene Hamas e la Jihad islamica, come personalità che aiutano a finanziare il terrorismo. Gaza Now conta più di 300.000 follower su X (l’ex Twitter) e ha un grandissimo seguito sulla piattaforma di chat crittografata Telegram. Aozma Sultana è il direttore e amministratore unico di Al-Qureshi Executives e Aakhirah Limited. Le due società hanno donato migliaia di dollari a Gaza Now e pubblicizzato l’agenzia durante diverse raccolte fondi seguite all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Inoltre, gli Stati Uniti, attraverso l’Office of Foreign Assets Control (OFAC), hanno anche designato come entità coinvolte nel finanziamento Gaza Now stessa, insieme ad Al-Qureshi Executives e Aakhirah Limited.
Le azioni sanzionatorie degli Usa sono state intraprese in collaborazione con l’Ufficio per l’implementazione delle sanzioni finanziarie del Regno Unito che sta applicando sanzioni su questi obiettivi. «Il Tesoro rimane impegnato nel contrastare la capacità di Hamas di finanziare le sue attività terroristiche, incluso il tentativo di incanalare denaro direttamente al gruppo attraverso campagne di raccolta fondi online», ha affermato il sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e l’intelligence finanziaria Brian E. Nelson.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano già condotto tre azioni sanzionatorie coordinate relative a raccolta fondi pro-Hamas dopo il 7 ottobre 2023, inclusa un’azione del 14 novembre 2023 contro leader e finanziatori di Hamas, un’azione il 13 dicembre 2023 contro altri funzionari e rappresentanti finanziari di Hamas, e una il 22 gennaio 2024 assieme anche alle autorità australiane contro ulteriori reti finanziarie di Hamas e facilitatori di trasferimenti di valuta virtuale. Tutti i beni e gli interessi nei beni delle persone designate che si trovano negli Stati Uniti o in possesso o controllo di cittadini statunitensi vengono bloccati e devono essere denunciati all’OFAC. Inoltre, vengono bloccate anche tutte le entità che sono controllate, direttamente o indirettamente, individualmente o complessivamente, per il 50% o più da una o più persone bloccate. Subito dopo la decisione americana e britannica le autorità austriache hanno fatto irruzione nella casa di Mustafa Ayash, sfondando la sua porta e arrestandolo. Hanno anche confiscato tutti i suoi effetti personali, inclusi laptop, telefoni, conti bancari e altro. Contestualmente le autorità austriache hanno preso il controllo di Facebook, Twitter e Instagram Gaza e hanno chiuso tutti gli account.
Tzav. Non c’è fuoco dall’alto, senza il fuoco dal basso
di Ishai Richetti
La Parashà di Tzav, affronta le leggi dei sacrifici trattate nella Parashà di Vayikrà, descrive i preparativi fatti da Moshe, da Aharon e dai suoi quattro figli, prima della dedicazione del Mishkan di cui leggeremo in dettaglio nella Parashà della prossima settimana. All’inizio della Parashà, troviamo un direttiva riguardante l’ordine di lavoro nel Mishkan. I Chachamim ritengono necessaria una spiegazione, soprattutto alla luce del fatto che la Torà riporta e sottolinea questa direttiva due volte. Questo è ciò che D-o dice a Moshe: “E il fuoco sull’altare arderà su di esso; non si spegnerà… Un fuoco continuo arderà sull’altare; non si spegnerà”. (Vayikra 6, 5-6). Il contenuto di questa direttiva insolitamente enfatizzata, è che dopo che il Mishkan e l’Altare al suo interno sono stati stabiliti, un fuoco deve sempre essere acceso sull’altare. Questa Halacha richiede spiegazione anche alla luce del fatto che nella Parashà di Shemini viene detto che un fuoco Celeste appare sull’altare senza l’intervento umano.
Il Talmud spiega: “Anche se il fuoco scendesse dal cielo, il comandamento è di farlo portare da una persona comune” (Yoma 21). In altre parole, non c’è contraddizione tra il fuoco che scende dal cielo e il comandamento di portare il fuoco creato dall’uomo, entrambi sono necessari. Ma che bisogno c’è del fuoco prodotto dall’uomo quando il fuoco celeste appare sull’altare? Che valore ha il fuoco di una persona comune quando c’è il fuoco dal cielo?
Una risposta a questa domanda si trova nel Sefer Hachinuch: “È una cosa nota tra noi e ogni persona saggia che i grandi miracoli che D-o fa per gli esseri umani nella Sua grande gentilezza saranno fatti sempre in modo nascosto, e queste cose (i miracoli) sembrano fatte un po’ come se fossero realmente naturali o quasi naturali… E per questo ci è stato comandato di accendere un fuoco sull’Altare, anche se scende il fuoco dal cielo, per nascondere il miracolo”. Questa idea è supportata in molti altri passi della Torà in cui vengono descritti miracoli che deviano dalle leggi della natura ma che furono nascosti da fenomeni naturali. Un esempio è la divisione del Mar Rosso, forse il più grande e più pubblico dei miracoli della Torà, avvenuto in seguito ad un forte vento che soffiò e asciugò l’area in cui Am Yisrael avrebbe attraversato il mare. Questa spiegazione contiene un principio importante per comprendere le relazioni tra l’uomo, il mondo e D-o. A prima vista, quando D-o fa un miracolo, è interessato che questo venga riconosciuto. Così è nelle storie di tutte le nazioni e religioni. I miracoli influenzano la persona che li vive e cambiano il suo comportamento. Nell’ebraismo, però, esiste un concetto fondamentale e significativo: La libertà di scelta. Una persona che ha vissuto un miracolo che devia completamente dalle leggi della natura, che indica chiaramente una mano guida che agisce con saggezza e abilità infinita, non potrebbe in seguito avere la libertà di agire contro Colui che controlla completamente tutta la natura. Quell’uomo sarebbe incapace di considerare una trasgressione. Si può dire che a chiunque viva un miracolo manifesto sia stata tolta la libertà di scelta, poiché sentirà di dover obbedire ai comandamenti del creatore del miracolo. Ci potremmo però chiedere, D-o non è interessato che l’uomo adempia ai Suoi comandamenti? La risposta è sorprendente: No! D-o è interessato che l’uomo scelga di adempiere ai Suoi comandamenti e non all’obbedienza per mancanza di scelta, pertanto è stato dato il comandamento di accendere un fuoco sull’altare, nonostante accanto al fuoco opera dell’uomo brucia un fuoco celeste. In questo modo non si verifica la situazione in cui l’uomo vede il fuoco che appare da solo in modo innaturale e, per questo, la sua libertà di scelta viene lesa. La libertà di scelta ci pone di fronte alla piena responsabilità delle nostre azioni e a scegliere il bene.
Anche quando scegliamo ciò che è sbagliato non tutto è perduto: Questo Shabbat leggeremo l’Haftarà di Shabbat Parà, nella quale Yechezkel riporta: “Io aspergerò su di te acqua pura e sarai purificato; ti purificherò da ogni tua contaminazione e da tutti i tuoi idoli” illustrando la profonda metamorfosi spirituale delle persone attraverso il simbolismo dell’acqua. Cosa c’è nell’acqua che funge da catalizzatore per tale rinnovamento spirituale? L’acqua possiede una capacità unica di passare dallo stato solido al liquido, al gassoso e viceversa. Questa caratteristica si estende oltre il regno fisico, influenzando anche l’evoluzione spirituale. La fluidità dell’acqua suggerisce che possiamo cambiare, non siamo esseri statici, ma siamo capaci di crescere e svilupparci nelle varie dimensioni della vita. Invece di rimanere bloccati in uno stato di impurità, abbiamo la capacità di cambiare il nostro status. Ci purifichiamo attraverso l’immersione in acqua. In Bereshit, Rashi interpreta “Shamayim” come “Sham Mayim” – che significa “c’è acqua”, mentre il Ramban suggerisce che derivi da “Shem Shekara Hashem Mayim” – il nome con cui D-o chiamò l’acqua. L’acqua è considerata un elemento celeste, un frammento di Shamayim sulla Terra. Riflettere sul ciclo dell’acqua, trascende una mera lezione scientifica per rivelare che l’acqua che incontriamo è parte della stessa acqua celeste presente sin dai sei giorni della creazione. Questa realizzazione sottolinea il rinnovamento intrinseco nel nostro mondo ed enfatizza il potenziale di trasformazione sia fisica che spirituale. Durante i periodi difficili in cui è naturale sentirsi intrappolati o bloccati, possiamo trarre ispirazione dal profondo messaggio dell’acqua, riconoscendo la nostra capacità di trasformazione, possiamo aspirare a raggiungere maggiori vette spirituali portando il nostro fuoco e potendo così meritare il fuoco celeste, le berachot di D-o.
Mentre la pressione internazionale per un cessate il fuoco accende gli animi e infiamma i media, 134 ferite rimangono aperte e sanguinanti nel cuore di Israele: sono gli ostaggi ancora in cattività, rapiti non solo da Hamas ma anche da alcuni civili gazawi che hanno “colto l’occasione” per prendere parte all’attività terroristica. 134 persone, con le loro storie, i loro sogni, le loro personalità, trascinate nell’incubo di una prigionia illegale e ingiustificata, senza medicine, senza certezze, e senza diritti.
Torneranno mai alle proprie case? Riabbracceranno i propri cari? Chi di loro è ancora vivo? Non è dato saperlo: fedele alla sua strategia del terrore, Hamas si è più volterifiutato di consegnare a Israele il censimento degli ostaggi trattenuti.
Mentre si avvicina il sesto mese di guerra e il mondo mediatico si sta già dimenticando l’urlo terrorizzato di Noa Argamani, i capelli rossi dei giovanissimi fratelli Bibas, e le storie degli altri ostaggi, la disperazione delle famiglie si fa sempre più tetra.
Nel caos della guerra, rare, inquietanti notizie sulla sorte degli ostaggi emergono di tanto in tanto.
• La diciannovenne Liri Elbag, la più giovane degli ostaggi «Sentiamo un milione e una notizie: sì a un accordo, no all’accordo, sì al supporto statunitense, no al supporto statunitense. Basta: ora c’è un accordo sul tavolo – rovesciate il mondo intero e fate in modo che mia figlia torni a casa», si sfoga Shira Elbag, la madre della giovane Liri. 18 anni al momento dell’attentato, 19 anni adesso, Liri Elbag è la più giovane ragazza ancora nelle mani di Hamas.
Alle 6.30 del mattino del sabato nero, Liri ha avvisato sua madre di essersi riuscita a riparare in un rifugio dalla fitta sequenza di razzi. È stata l’ultima volta che le due si sono parlate.
51 giorni dopo sono arrivate le prime notizie: l’IDF ha identificato il DNA di Liri in unastanza per bambini appartenente a una famiglia palestinese (a destra nella foto).
«Quando ho visto la foto della stanza, dapprima ero sollevata: si trattava di una stanza per bambini», racconta la madre. «Ma presto ho realizzato che Liri era stata rapita da una famiglia, non dai militanti di Hamas. È come se io tenessi il figlio di qualcun altro chiuso in casa mia. Cosa avranno raccontato ai propri bambini?».
Con lo scambio degli ostaggi di novembre, sono emerse testimonianze su come la ragazza fosse stata tenuta per un lungo periodo come schiava domestica, obbligata a pulire i bagni della famiglia e a cucinare per loro cibo che a lei stessa non era permesso mangiare.
L’ultima notizia è arrivata 112 giorni fa: Liri è stata portata 40 metri sottoterra, dove vive in condizioni terribili, in grande umidità, senza aria, senza luce, senza bagni e senz’acqua. Beve acqua di mare e mangia poco, saltuariamente.
Ai negoziatori dell’accordo per gli ostaggi, la madre Shira ricorda: «tra una settimana sarà mezzo anno di prigionia. Mia figlia sta sperimentando orrori, un mondo di incubi. Il tempo conta e, per gli ostaggi, il tempo è già finito».
Il padre, Eli Elbag, offeso dalle parole del Ministro della Finanza Bezalel Smotrich – che ha dichiarato di ritenere che il rilascio degli ostaggi non fosse «l’obbiettivo più importante della guerra» – risponde: «immagina che si tratti dei tuoi figli, immagina di saperli nelle mani di persone cattive. Cosa faresti?».
Tenendo alta la pressione sul governo, il Forum delle Famiglie continua a organizzare le manifestazioni settimanali, con cui richiede uno sforzo diplomatico che ponga il rilascio degli ostaggi tra le priorità assolute della Nazione.
“Noi studenti ebrei ci sentiamo discriminati, l’università non interrompa gli accordi con Israele”
Le testimonianze: “Il clima d’odio cresce ogni giorno, veniamo visti come il nemico. La mozione è un ulteriore colpo contro di noi”
di Caterina Stamin
Suo zio insegna Italiano all’Università di Gerusalemme. «Sono persone come lui che lavorano per la pace, non chi taglia i rapporti con gli atenei e i centri di ricerca» dice Giulia, studentessa di Psicologia del lavoro all’Università di Torino. Quell’ateneo da cui oggi non si sente rappresentata: «Sono delusa – ripete –, non mi sento più libera di essere me stessa. Qui il clima d’odio cresce ogni giorno, io ho gli attacchi di panico». Carlo (nome di fantasia), 22 anni, studia Giurisprudenza. Da ottobre ha smesso di frequentare le lezioni. «Non rivelo a nessuno la mia identità ebraica perché voglio evitare problemi – dice – contro di noi viene fatta violenza verbale e fisica».
Ieri davanti al Rettorato, sotto ombrelli e dietro a bandiere bianche e blu, c’erano decine di studenti con la stessa storia di Giulia e Carlo. Intere famiglie, coppie di giovani e anziani. Vite divise tra Italia e Israele, segnate da quel 7 ottobre 2023. E unite in un appello: chiedere al rettore e al Senato accademico di UniTo un passo indietro sulla sospensione della partecipazione al bando Maeci di collaborazione con le università israeliane. «Questa decisione crea un precedente pericoloso», è stata la denuncia della comunità ebraica. «L’Università è la casa della cultura e del sapere e ora sta diventano terreno franco per l’odio e l’intolleranza – ha aggiunto Luca Spizzichino, presidente dell’Ugei (Unione giovani ebrei d’Italia) –. Ci sono studenti che si sono sentiti discriminati nelle aule, altri hanno paura ad andare in giro».
• Giulia: “Qui a Torino non mi sento più al sicuro” Tra loro c’è Giulia, 23 anni. Nata a Torino ma cresciuta facendo su e giù da Gerusalemme. «Ho sempre considerato entrambe le città casa mia – dice – Oggi purtroppo una meno dell’altra». Perché? «Non mi sento più al sicuro a Torino, ho paura: Israele è in guerra ma non si respira questo clima d’odio che c’è qui. Ci si batte per la pace, ognuno si mobilita come può per aiutare». Sua madre, life coach e insegnante di inglese, tre anni fa, a 55 anni, ha scelto di trasferirsi a Gerusalemme per stare vicino a gran parte della famiglia. Giulia è andata a trovarli a gennaio e, compatibilmente con lo studio, vola da loro appena può. «Da quando la mozione è stata approvata penso a tornare lì perché il clima è peggiorato - racconta - si vede dalla violenza dei presidi pro-Palestina di queste settimane. Noi dobbiamo nascondere le bandiere di Israele perché veniamo insultati, siamo visti come il nemico». Anche all’interno dell’ateneo «non c’è un dialogo costruttivo. A me è stato tolto il saluto da alcuni colleghi e sui social media si leggono solo insulti. Eppure i ricercatori e i professori delle università israeliane non c’entrano niente con la guerra in corso».
• Carlo: “Contro di noi violenze fisiche e verbali” Carlo, studente di 22 anni, è tornato da Israele solo due settimane fa. «Ho alcuni parenti là ma soprattutto amici – spiega – per me è casa e un luogo dove posso fuggire in momenti come questo». Parla di un “clima teso” dentro e fuori l’università: «Mi dispiace perché è un Paese affranto, dove tutti vogliono la pace, ma qui questo non arriva. Nei bagni del campus Einaudi le scritte contro Israele sono ovunque: viene accusato di essere uno Stato “genocida” e “terrorista”, parole che fanno male. Mi provocano un grande dispiacere». Dopo il 7 ottobre frequenta meno le lezioni. «Non rivelo a nessuno la mia identità ebraica perché voglio evitare problemi - confessa -: contro di noi viene fatta violenza verbale e fisica. Ma basta vedere come sono stati trattati Molinari e Parenzo». La decisione di UniTo, di sospendere nuovi accordi con università israeliane, «è stato un ulteriore colpo contro di noi. Mi colpisce il silenzio del rettore e della politica». A Stefano Geuna la comunità ebraica ha indirizzato una lettera. «Chiediamo solo un dialogo – conclude Giulia – e che si continuino le collaborazioni con Israele».
SAN FRANCISCO - Yoav Harlev, originario del sud di Israele, ha appreso la notizia dell'assalto mortale del gruppo terroristico palestinese Hamas il 7 ottobre dalla sua casa nella baia di San Francisco, dove vive da circa vent'anni.
"Per me è stata la notte del 6 ottobre", ricorda Harlev. "Ero al telefono con persone che erano lì e che avevano vissuto la Shoah. Da allora, mi sveglio ogni mattina devastato. Non dormo bene".
Harlev è cresciuto nel kibbutz Kissufim, nel cuore delle comunità israeliane vicine al confine con Gaza, dove il 7 ottobre migliaia di terroristi guidati da Hamas hanno massacrato quasi 1.200 persone, la maggior parte civili, e ne hanno rapite altre 253 per portarle nella Striscia di Gaza.
Dodici membri del kibbutz Harlev sono stati uccisi, insieme a sei lavoratori stranieri. Harlev conosceva la maggior parte di loro ed è cresciuto con un amico intimo di suo padre, Shlomo Mansour, 85 anni, l'ostaggio più anziano ancora detenuto a Gaza.
La sua esperienza riflette come il massacro abbia profondamente colpito non solo la vita ebraica in Israele, ma anche all'estero, dove le comunità ebraiche che vivono in aree remote come la Bay Area di San Francisco stanno lottando per far fronte e far sentire la propria voce, in un ambiente spesso molto diverso da quello della East Coast, la base del potere ebraico. Dalle strade ai consigli scolastici, il sentimento anti-israeliano è palpabile - e la gente del posto è contraria.
Come molti membri della sua comunità, Harlev si è sentito costretto ad agire.
"All'inizio andavo in giro per il quartiere e affiggevo manifesti con gli ostaggi. Poi un mio buon amico, Itzik Goldberger, mi ha detto che voleva affiggere un manifesto su un ponte. È così che è iniziato tutto. Eravamo solo in due", ha spiegato Harlev, ricordando gli inizi delle sue manifestazioni pubbliche quotidiane, che oggi attirano regolarmente centinaia di persone.
Harlev e Goldberger si recavano sul viadotto El Curtola, sulla Highway 24 in direzione di Walnut Creek, ogni giorno tra le 15 e le 17 durante l'ora di punta, esponendo grandi poster degli ostaggi e bandiere americane e israeliane davanti ai circa 24.000 veicoli che passavano sotto il viadotto. Le manifestazioni, iniziate sul viadotto con un gruppo iniziale di due persone, sono cresciute di dimensioni e al centesimo giorno di guerra contavano 400 sostenitori.
"Le reazioni sono buone. Israeliani, ebrei, non ebrei, molte persone vengono a sostenerci", dice Harlev. "Un uomo di 80 anni in attesa di una protesi all'anca viene ogni giorno, al freddo e sotto la pioggia. Altri non sanno perché siamo qui, quindi glielo spieghiamo.
Ma non tutti sono contenti. Un giorno, una donna ha fermato l'auto in mezzo all'autostrada.
"Pensavo che ci avrebbero sparato", racconta Harlev. "Ha preso una bandiera palestinese dal bagagliaio ed è salita sul cofano dell'auto, dove è rimasta per dieci minuti. Abbiamo chiamato la polizia, ma se n'era andata prima che arrivassero".
Yoav Harlev e centinaia di altre persone manifestano a nome degli ostaggi detenuti da Hamas sul viadotto autostradale di El Curtola
La manifestazione sul viadotto ha attirato anche l'attenzione dei media. Un articolo ha descritto i raduni come rumorosi e pericolosi, cosa che Harlev ha respinto a priori.
"Alcuni vicini non ci amano e si sono lamentati con la città di Lafayette [dove si trova il viadotto]. È prevista un'udienza sulla nostra attività in città. Non siamo venuti qui per fare politica. Tutti usano questi viadotti per manifestare. Siamo qui, in silenzio, con i manifesti con i ritratti degli ostaggi. Vogliamo che tornino a casa", ha dichiarato.
• UNA COALIZIONE DI CITTADINI PER COMBATTERE L'ANTISEMITISMO NELLE SCUOLE Itamar Landau conduceva una tranquilla vita privata nella East Bay, ma all'indomani dei massacri del 7 ottobre voleva impegnarsi. L'opportunità si è presentata quando un gruppo di genitori ebrei ha partecipato a una riunione del consiglio di una scuola della sua città natale, Berkeley.
"Ci sono andato per curiosità, racconta Landau. Erano presenti dieci genitori che sostenevano la comunità ebraica e più di 50 attivisti filopalestinesi, "ben organizzati e rumorosi, compresi gli insegnanti". Era chiaro che il suo campo non era altrettanto ben organizzato.
Landau si mise quindi in contatto con gli attivisti ebrei sparsi nelle comunità e sui social network. L'idea era quella di creare un'organizzazione ombrello di membri per combattere l'antisemitismo nelle scuole e nelle riunioni dei consigli comunali che chiedono risoluzioni contro Israele. Il gruppo conta ora 260 attivisti registrati ed è stato denominato Coalizione ebraica di Berkeley.
Il 6 gennaio, manifestanti filo-palestinesi hanno marciato nella vicina città di Berkeley, Albany, per chiedere il cessate il fuoco a Gaza. Un confronto con i contro-dimostranti è diventato "un po' violento", ha raccontato Landau. In un filmato trasmesso dalla NBC nell'area di San Francisco, si vede una donna ebrea cadere a terra e la sua bandiera israeliana essere data alle fiamme.
La settimana successiva, il JCB ha inviato i suoi membri a una riunione del Consiglio comunale di Albany.
"Volevamo chiarire al Consiglio comunale di Albany che è assolutamente inaccettabile che ebrei e israeliani vengano attaccati per strada [per] aver sventolato bandiere israeliane. Questo è un crimine d'odio che devono condannare senza mezzi termini", ha detto Landau.
Tra le organizzazioni ebraiche locali, il Consiglio per le Relazioni con le Comunità Ebraiche (CCJR) è uno dei principali organismi che si occupa di questi problemi dal 7 ottobre.
"Il nostro vantaggio rispetto agli altri", ha dichiarato l'amministratore delegato del CCJR, Tyler Gregory, "è che tutti i nostri leader e il nostro personale vivono nell'area della baia di San Francisco e prendono decisioni per noi. Questo ci permette di raggiungere e avere una voce che risponde alle sfide [locali]".
Organizzazioni tradizionali come l'American Jewish Committee, l'AIPAC e l'Anti-Defamation League (ADL) "hanno tutte sede a New York o a Washington. Hanno tutti un ufficio locale [nell'area di San Francisco], ma ciò che funziona ad Atlanta o a Chicago non sempre funziona qui", ha osservato Gregory. "Abbiamo bisogno di organizzazioni nazionali forti perché alcune questioni sono di portata nazionale, ma la voce nazionale può talvolta suonare vuota se non è al passo con l'intensità di ciò che accade a livello locale".
Un'indagine pubblicata nel 2021 dalla Jewish Community Federation ha contato 350.000 ebrei che vivono nelle 10 contee che compongono l'area della baia di San Francisco, rendendola la quarta popolazione ebraica più numerosa degli Stati Uniti. Un sondaggio del JCRC pubblicato nel dicembre 2023 ha rilevato che il 61% degli ebrei dell'area della baia di San Francisco si è sentito meno sicuro dopo il 7 ottobre, e il 36% ha riportato esperienze dirette di antisemitismo. Inoltre, il 56% degli intervistati si è detto insoddisfatto del modo in cui le scuole locali affrontano l'antisemitismo.
• LA LOTTA ALL'ANTISEMITISMO IN CLASSE Mercoledì scorso, il Brandeis Center e l'ADL hanno presentato una denuncia congiunta al Dipartimento dell'Istruzione degli Stati Uniti contro le scuole di Berkeley. In una dichiarazione congiunta, le organizzazioni hanno affermato che l'amministrazione di Berkeley non ha intrapreso "alcuna azione per fermare il bullismo e le molestie in corso nei confronti degli studenti ebrei da parte dei loro compagni e degli insegnanti dal 7 ottobre". Hanno inoltre dichiarato che il distretto di Berkeley ha ignorato gli appelli di 1.370 membri della comunità di Berkeley che hanno firmato una lettera per garantire la "sicurezza fisica delle vittime".
"L'esplosione dell'antisemitismo nelle scuole e nei licei di Berkeley è senza precedenti", ha dichiarato Kenneth L. Marcus, presidente del Brandeis Center. È già abbastanza pericoloso vedere professori universitari che fomentano le fiamme dell'antisemitismo nel campus, ma è particolarmente riprovevole vedere insegnanti nelle classi più giovani che incitano i loro studenti all'odio e gli amministratori di Berkeley che stanno a guardare mentre l'antisemitismo si intensifica ogni giorno".
Ilana Pearlman, madre di tre figli, ha raccontato la sua esperienza nel mandare i figli al Berkeley Unified School District (BUSD).
Prima del 7 ottobre, "sapevo che a scuola c'era propaganda anti-israeliana, ma non mi rendevo conto di quanto fosse grave", ha detto. "L'insegnante di arte di mio figlio ha mostrato alla classe uno dei suoi disegni 'artistici': era un pugno chiuso con una bandiera palestinese che strappava una stella di Davide ebraica su una striscia di terra vicino al mare".
L'insegnante non ha risposto a una richiesta di commento.
Una settimana dopo il massacro del 7 ottobre, l'ex leader di Hamas Khaled Meshaal ha dichiarato una "Giornata mondiale della Jihad" per il venerdì successivo. La Pearlman ricorda di aver "temuto per la sicurezza di mio figlio. Quando gli ho chiesto se avesse paura, mi ha risposto: "Ho la pelle scura, così non pensano che io sia ebreo"".
Pearlman e altri genitori ebrei hanno deciso di formare il BUSD Jewish Parents Advocacy Group e di chiedere conto all'amministrazione scolastica degli episodi di antisemitismo. Negli ultimi tre mesi, l'organizzazione ha raccolto informazioni attraverso un "tracker dell'antisemitismo".
I genitori hanno documentato le proteste degli studenti filo-palestinesi, la presenza di materiale politico anti-israeliano nelle aule (ad esempio, i poster "End Apartheid") e di insulti o canti antisemiti, come "Uccidete gli ebrei" e "Dal fiume al mare", comprese le osservazioni fatte dagli insegnanti ai genitori ebrei durante le riunioni del consiglio scolastico.
Il Brandeis Center e l'ADL hanno sottolineato che invece di affrontare il comportamento antisemita degli insegnanti, l'amministrazione ha spostato gli studenti ebrei in altre classi, "normalizzando" tale comportamento. In un caso, un'insegnante si è avvicinata a un genitore che si era lamentato di lei e gli ha detto: "So chi sei, so chi è quella puttana di tua moglie e so dove vivi", si legge nel rapporto.
Pearlman ha fornito due ragioni principali per far partire un'iniziativa popolare. La prima è che i genitori speravano di risolvere la situazione internamente, attraverso i canali propri del sistema scolastico. La seconda ragione era più diretta: i genitori erano preoccupati per l'ambiente ostile nelle scuole primarie e secondarie e volevano sapere in prima persona cosa stava succedendo. Avendo esaurito "tutti i canali diplomatici senza alcun risultato", hanno deciso di rivolgersi ai media e alle organizzazioni più affermate.
Nell'apprendere che la denuncia era stata presentata, Pearlman ha espresso la sua gratitudine per gli "incredibili sforzi" dei genitori, aggiungendo che la denuncia era il culmine di "alcuni dei mesi più dolorosi collettivamente come popolo ebraico e localmente a Berkeley".
Una portavoce del Distretto scolastico unificato di Berkeley ha dichiarato che il distretto non era "a conoscenza" dell'esistenza del Gruppo di difesa dei genitori ebrei del BUSD e non aveva visto il documento che elencava gli incidenti antisemiti. Ha precisato che il distretto dispone di una procedura per la segnalazione di "comportamenti motivati dall'odio", ma non ha risposto direttamente alla domanda se gli incidenti antisemiti fossero registrati o se fossero state prese misure per prevenirli.
Per quanto riguarda le manifestazioni studentesche, il distretto non le sanziona, ma "le rispetta e le sostiene" in quanto "diritti del Primo Emendamento" e accompagna gli studenti nelle loro manifestazioni "per garantire la loro sicurezza".
• LA SCOPERTA DI UNA COMUNITÀ; In altri due distretti scolastici dell'area di San Francisco, il Dipartimento dell'Istruzione degli Stati Uniti ha aperto a gennaio delle indagini sul San Francisco Unified School District e sull'Oakland Unified School District in seguito a denunce di antisemitismo, che non si sono ancora concluse.
Gregory ha osservato che il JCRC è impegnato da anni nel sistema scolastico K-12, sostenendo l'inclusione di studi sul patrimonio ebraico nei programmi scolastici e istruendo i membri dei consigli scolastici e gli insegnanti su Israele.
"È positivo che tutti questi gruppi di genitori si facciano avanti, perché sono loro che hanno i figli nelle scuole e la loro voce è così importante [nella lotta contro l'antisemitismo]", ha detto. "Il problema è che bisogna lottare a tutti i livelli di governo: il Dipartimento federale dell'Istruzione, il Dipartimento statale dell'Istruzione, il distretto, le scuole e infine gli insegnanti. Se ci si concentra solo su uno di questi livelli, si perde il filo del discorso".
Le sfide che la comunità ebraica ha dovuto affrontare dopo il 7 ottobre sono molteplici e hanno colpito in modo particolare la comunità israelo-americana, ha aggiunto Gregory.
"Sono i meno impegnati nella vita ebraica organizzata. Gli israeliani hanno le loro comunità e sono meno legati [alle organizzazioni ebraiche], quindi tutto questo li ha sconvolti", ha detto Gregory.
Harlev, dal canto suo, psicologo di professione con un'agenda fitta di impegni, ha citato l'incontro con un gruppo di israeliani come motivazione per continuare a manifestare ogni giorno sul viadotto.
Racconta che un giorno un giovane israeliano gli si è avvicinato dopo aver saputo che era del Kibbutz Kissufim.
"Ha tirato fuori il suo telefono e mi ha mostrato il suo migliore amico del liceo", ha detto Harlev, scoppiando in lacrime. La foto era di Adam Agmon, un soldato neozelandese di 21 anni che è morto combattendo contro i terroristi di Hamas a Kissufim il 7 ottobre.
"Non conoscevo nessun israeliano qui", ha spiegato Harlev. "C'eravamo solo io e Itzik. E poi, all'improvviso, abbiamo questa comunità che ci aiuta e si prende cura l'uno dell'altro".
(Times of Israël en français, 28 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Si infiamma il confine tra Israele e Libano, oggi Meloni in visita nel Sud colpito dai raid. Hamas in video chiama gli arabi alla rivolta
L’appello filmato di Mohammed Deif, sparito da sei mesi invoca alla lotta armata dei palestinesi.
di Paolo Brera
GERUSALEMME — Mentre gli occhi del mondo sono concentrati sulla possibilità di un intervento militare israeliano a Rafah, nella Striscia di Gaza, dove i morti palestinesi sono più di 32mila, e sulla sorte di oltre 130 israeliani rapiti quasi sei mesi fa durante l’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre, c’è un altro fronte in cui la crisi si sta rapidamente acuendo: il confine Nord con il Libano, dove ieri è atterrata Giorgia Meloni per incontrare il premier pro-tempore Najib Miqati. Il rischio di un’escalation preoccupa palazzo Chigi e durante il bilaterale la premier ha ribadito l’impegno dell’Italia per evitare un nuovo conflitto tra Israele e Libano.
I segnali tuttavia non sono rassicuranti.Nelle ultime 48 ore gli scambi a fuoco tra Hezbollah e le milizie siriane filo Iran e l’esercito israeliano hanno lasciato sul terreno almeno 18 morti. In risposta al lancio di razzi sul Nord di Israele, ieri sera l’Idf ha colpito non lontano dalla base militare di Naqura, sede del quartiere generale di Unifil, una dozzina di chilometri più a Sud rispetto alla base di Shama, sede del contingente italiano, dove questa mattina è attesa Meloni. I morti sono stati almeno 8, «compresi miliziani di Hezbollah», sostiene l’Idf: uno degli attacchi più sanguinosi in territorio libanese dall’inizio del conflitto.
• Alta tensione al Nord Nella mattina Hezbollah aveva lanciato decine di missili — «almeno trenta», secondo le forze armate israeliane, una cinquantina secondo altre testimonianze – contro Kiryat Shmona, mirando a case e obiettivi civili, e uccidendo Zahar Bashara, un cittadino di 38 anni. La sera precedente Israele aveva centrato un villaggio nel Sud del Libano, Al-Bireh, vicino al confine nella zona del Monte Dov. L’attacco, effettuato da aerei da combattimento, avrebbe centrato una base militare di al-Jama’a al-Islamiyya, il gruppo fondamentalista affiliato ad Al Qaeda: nel complesso militare nascosto nel piccolo centro libanese sarebbe stato eliminato un alto ufficiale dell’organizzazione, considerato responsabile di «una serie di attacchi contro il territorio israeliano». Insieme a lui «sono stati eliminati altri terroristi», hanno fatto sapere le forze di difesa israeliane. Nella stessa notte, Israele ha effettuato anche una serie di raid nella Siria orientale contro postazioni di milizie filo-iraniane. Secondo Haaretz l’operazione israeliana aveva come obiettivo il direttorato per le operazioni speciali della guardia rivoluzionaria iraniana a Deir ez-zor, la base da cui sono partiti gli attacchi alle basi americane in Medio Oriente. Nel blitz «sono stati uccisi agenti iraniani di alto rango», sostengono gli israeliani. L’Osservatorio siriano per i diritti umani afferma che tra le oltre 10 vittime del blitz ci fosse anche un agente di Hezbollah con cittadinanza siriana.
Il doppio fronte del Nord, siriano-libanese, rischia di accendersi ulteriormente dopo che ieri Hamas ha diffuso un video del suo comandante militare a Gaza, Mohammed Deif, che invita gli arabi e i musulmani di tutta la regione a mobilitarsi e «a marciare verso la Palestina» per «prendere parte alla liberazione della moschea di al Aqsa» a Gerusalemme.
Secondo l’esperto israeliano Jack Khoury, che cita fonti vicine a Hamas, «la decisione di pubblicare un appello diretto all’opinione pubblica musulmana e araba, menzionando Paesi come Giordania, Egitto, Libano, Pakistan e Malesia, è arrivata in seguito all’impasse dei negoziati e alla valutazione di Hamas che gli attacchi di Israele potrebbero presto intensificarsi». Una mossa per fare pressioni sperando che la comunità internazionale spinga per un vero cessate il fuoco.
Scoperta in modo del tutto casuale, come accade spesso in Israele, una lampada ad olio risalente a 1.600 anni fa. Il ritrovamento è stato fatto da Yonatan Frankel, uno studente di 16 anni della scuola superiore “Tamar” di Hod Hasharon, in gita scolastica nel “Passo dello scorpione” (Ma’ale Akrabim), nel sud del Paese.
Durante una sosta al forte difensivo d’epoca romana di Zafir, il ragazzo ha raccolto delle pietre: “Una di queste era piena di terra. – ha raccontato il giovane – L’ho pulita e all’improvviso ho visto un disegno. Poi ho capito che si trattava di un oggetto creato dall’uomo e non semplicemente di una pietra”.
Gli archeologi dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) hanno confermato che lampada ad olio trovata è stata realizzata a Petra, in Giordania, nel IV e V secolo. “Lampade di questo tipo sono state scoperte nei forti di Hazeva e Yotvata, anche a Mamshit e a Petra” ha spiegato la ricercatrice dell’IAA Tali Erickson-Gini. La lampada, parzialmente intatta, è identica a quella scoperta nello stesso luogo 90 anni prima dall’ archeologo Nelson Glueck, presidente dell’Hebrew Union College dal 1947 fino alla sua morte nel 1971 a Cincinnati. Il suo lavoro pionieristico sull’archeologia biblica ha portato alla scoperta di 1.500 siti antichi.
“Sappiamo che tra la città nabatea-romana di Mamshit e le miniere di rame di Feinan (la biblica Punon) nell’Arava centrale, non lontano dall’attuale Moshav En Yahav, nel IV-VI secolo era in uso una via commerciale. – ha spiegato Erickson-Gini – Per garantire le spedizioni di rame e forse anche di oro dalle miniere, furono costruiti una serie di forti tra l’inizio del Passo degli Scorpioni e Hazeva, e uno di questi era il forte di Zafir. Pattuglie a cavallo sorvegliavano l’importante strada. È facile immaginare la lampada che illumina l’oscurità nel forte solitario e isolato presidiato dai soldati romani”.
“Ogni oggetto che ci viene consegnato – ha detto il direttore generale dell’IAA Eli Escuzido – è conservato dal Dipartimento del Tesoro Nazionale. Ogni oggetto getta una luce significativa (proprio com’è in questo caso) sul nostro passato”.
In my country there is problem / and that problem is the jew / they take everybody money / they never give it back, intonava lo sgangherato film Borat di Sasha Baron Cohen in un country club di Tucson, Arizona. Nel mio paese c’è un problema, gli ebrei, perché ti prendono i soldi e non te li restituiscono più. Il pubblico non solo non aveva nulla da obiettare, ma anzi non ci metteva molto a unirsi al ritornello, per terminare nell’entusiasmo Throw the Jew down the well / so my country can be free. Butta gli ebrei nel pozzo e il mio paese sarà libero. La provocazione era perfettamente riuscita. Un bell’esempio di come un leggero soffio sulle braci basti ad attizzare il fuoco dell’antisemitismo. Era il 2004.
• CATTIVI METAFISICI I bad guys, i cattivi, sono quelli sempre e comunque. Andare a vedere quello che fanno, considerandone le scelte e le azioni, è perciò del tutto irrilevante. I cattivi sono cattivi perché sono cattivi. Per quello che sono, non per quello che fanno. La loro malvagità è questione di essere, di ontologia. Metafisica, cioè struttura profonda della natura, nulla quindi che derivi da una scelta, da un problema di responsabilità individuale. L’identità contiene in sé già il giudizio, e tanto basta. Se accettiamo questa visione del mondo giudichiamo l’essere delle persone, non le loro azioni. Per fare un esempio, un esempio assolutamente non a caso, da questo punto di vista gli ebrei non sono malvagi perché sordidi, avari e vendicativi, bensì sono sordidi, avari e vendicativi perché malvagi. Il male e il bene stanno a monte, risiedono in inavvicinabili regioni iperuraniche, non sono disponibili alla scelta degli esseri umani. Mi scuseranno gli antichi gnostici, ma ragionare in questi termini è delirio sciocco e pericoloso eppure oggi terribilmente cool. Diciamocela tutta, è anche una scorciatoia. Per fortuna esiste un’alternativa, sebbene meno modaiola, tristemente meno trendy sui social, meno like hunting. L’alternativa è giudicare sulla base delle azioni, cioè della responsabilità individuale, che è poi anche il principio a fondamento del diritto occidentale, e mica solo da poco. Tutti i personaggi che Dante colloca all’inferno, per esempio (questa volta davvero un esempio tra i tanti possibili), sono lì per una ben precisa e spiegata colpa individuale. Non per quello che sono, per il loro essere, ma per quello che hanno fatto. Perfino cattivissimi come Bruto e Cassio oppure Giuda sono dove sono, cioè nel punto più infimo, a causa delle azioni abiette che hanno compiuto e basta, non per chi sono stati in vita. Nella Commedia non si trova un singolo ebreo condannato in quanto ebreo, e naturalmente neanche qualsivoglia altra persona condannata per quello che è e non per le azioni di cui è stata ritenuta responsabile. Ma Dante oggi è più celebrato che letto, e gli ebrei negli ambienti dei post-colonial studies, dell’intersezionalità e del wokeism giudicati sulla base non della responsabilità individuale di ciascuno bensì dell’ontologia, cioè del fatto stesso di essere ebrei.
• BREVE STORIA DELL’ARTE Una seconda e ultima divagazione, questa volta sull’arte, una minuscola storia dell’arte in pillole, millenni di bellezza in dieci righe. C’era una volta in cui nell’arte contava l’abilità dell’artista, la bravura nell’applicare tecniche riconosciute. Era il tempo di Raffaello e di Caravaggio e di Rembrandt e delle madonne e dei paesaggi e dei ritratti. Poi è arrivata un’altra epoca, in cui l’abilità perse un po’ alla volta rilevanza a vantaggio della novità, della provocazione, dell’idea. L’epoca degli orinatoi e delle ruote di bicicletta, del dripping e dei minestroni Campbell’s, dei tagli e del cemento su tela. Sembrava una nuova stagione millenaria, invece tramontò in mezzo secolo circa. Sorse allora il regno dell’arte politica, o meglio la politica fece irruzione nell’arte. Una generazione di iconoclasti si scagliò contro linee e colori, vili strumenti della dittatura delle forme, in nome del puro contenuto, del “che cosa” delle cose. Trionfò il dualismo. Erano i tempi di Guttuso e Pasolini, di Keith Haring e Banksy. Anni di ubriacature e rapidi riflussi, di assalti spavaldi all’arma bianca e ritirate furtive dalla porta di servizio, anni tuttavia in cui non esisteva la distinzione tra ebreo e greco, avrebbe detto Paolo di Tarso, perché di fronte alla politica tutti sono uguali – anche se alcuni, i maiali orwelliani o l’aristocrazia operaia, scegliete voi, sempre un po’ più uguali degli altri. A quel tempo era popolare la figura del bianco virtuoso che poteva ancora stare legittimamente dalla parte degli indiani, come in Piccolo grande uomo o Platoon o Avatar. Ma anche questa stagione non durò a lungo, o meglio si trasformò. E arriviamo al quarto impero, quello in cui noi viviamo oggi, nel quale non è la forma a interessare, non la novità e neanche più tanto il contenuto politico dell’opera d’arte. L’unica cosa che conta non è in effetti l’opera, bensì l’identità dell’autore. Non come lo fa, non che cosa fa ma chi è l’artista. Il suo essere cristallizzato, messo sotto vuoto, eternato. I musei di tutti e soli i paesi occidentali traboccano di mostre in cui a essere raffigurato è il chi dell’autore, fuori dal quale non è data alcuna opera. Detto senza alcuna ironia, l’autor* tipic* è sudafrican* o brasilian* trans ner* e rifiuta categorizzazioni binarie di genere. A scanso di equivoci, non solo è legittimo ma anzi importante e perfino irrinunciabile dare visibilità a temi come le identità non binarie e i diritti di ogni tipo di minoranza. Ma che sia esattamente l’identità ciò che rende importante o no un’opera d’arte – o meglio, che rende arte o no un’opera – lascia perlomeno perplessi. Questo genere di arte che spopola nei principali templi della cultura dell’Europa occidentale e del Nordamerica – ed è invece totalmente assente altrove – eleva l’identità ad assoluto. Chi si è, l’essere insomma, esaurisce tutto il senso. Che l’identità sia nient’altro che il modo con cui rappresentiamo noi stessi e chiediamo agli altri di rappresentarci non interessa alla genia di idolatri che detta l’agenda della cultura. Con un ragionamento circolare, l’identità viene fissata nel granito proprio da coloro che affermano la fluidità dell’identità. Neanche a dirlo, per questo identitarismo antidentitario gli ebrei rappresentano il polo negativo perfetto.
• GLI EBREI SONO BIANCHI? Perché gli ebrei sono malvagi, anzi i malvagi per eccellenza? Tre anni fa il museo ebraico di Amsterdam ha ospitato una interessante mostra dal titolo Are Jews White? (“gli ebrei sono bianchi?”), chiedendosi se gli ebrei siano bianchi in senso simbolico, cioè nel grande teatro della storia siedano sugli scranni dei vincitori, dei privilegiati, di coloro che hanno approfittato di posizioni di potere, sfruttamento e dominio. Sembra incredibile, dal momento che la minoranza ebraica nell’ultimo millennio è stata costretta sia nel mondo cristiano sia in quello islamico per lunghi tratti in una posizione di subalternità, quando non esplicitamente perseguitata, ma la risposta da parte di aree crescenti di opinione pubblica è che sì, gli ebrei sono bianchi, bianchissimi anzi, i visi pallidi per definizione. A trainare, ma forse sarebbe più giusto dire sobillare, questi segmenti di pubblica opinione sono gli ambienti numericamente minoritari ma assai influenti della cancel culture, del wokeism e dell’intersezionalità, insomma delle ideologie che invocano l’unione di tutte le minoranze – tutte tranne una, indovinate quale – e si scagliano contro l’iniqua dittatura dell’uomo maschio adulto eterosessuale bianco occidentale. Viene definito woke (dall’inglese wake, “svegliare”), soprattutto dall’ascesa del movimento Black Lives Matter cominciata nel 2013 e culminata nel 2020 dopo l’omicidio di George Floyd, l’atteggiamento di chi si ritiene ingiustamente vittima di svantaggio economico e sociale, a cominciare dagli afroamericani negli Stati Uniti. I sistemi di oppressione – questa l’idea base dell’intersezionalità – sono tra loro collegati e vanno quindi combattuti tutti insieme.
Qualche esempio. Nel 2019 l’American Women’s March elenca tra i principi da difendere la diversità delle donne nere, native, economicamente disagiate, immigrate, disabili, musulmane, lesbiche, queer e trans, ma rifiuta di includere le donne ebree. Lo stesso anno all’evento dell’associazione sorella olandese viene negato ogni riferimento all’antisemitismo, mentre il corteo include donne disabili, prostitute, transgender, immigrate e musulmane velate e non velate, e non mancano di spuntare striscioni e bandiere palestinesi – non esattamente rappresentative della tutela dei diritti delle donne. Alla Dyke March di Chicago, un importante evento intersezionale, tre donne che portano una bandiera arcobaleno con la stella di Davide vengono cacciate. Inutile aggiungere all’elenco gli episodi successivi al 7 ottobre, quando associazioni femministe e intersezionali rifiutano ripetutamente di accogliere la denuncia degli stupri e del femminicidio di massa compiuto da Hamas. Per questi gruppi è evidentemente grave stuprare e assassinare tranne in un singolo caso, cioè quando le vittime sono ebrei ed ebree. Per alcuni è inopportuno alzare la voce (“dipende dal contesto”), per altri la violenza antiebraica è legittima, per altri ancora opportuna e apertamente invocata.
La guerra fredda ha lasciato in eredità alla sinistra radicale – alla quale la sinistra moderata guarda troppo spesso con simpatia, peraltro niente affatto ricambiata – un dogmatismo di tipo morale analogo al dogmatismo woke e intersezionale. Per entrambi la realtà va divisa su basi morali tra buoni e cattivi – e rispetto a questo dualismo grossolano gli stessi eventi sono secondari o addirittura irrilevanti. Da questo punto di vista perfino i fatti del 7 ottobre non hanno particolare rilevanza. D’altronde è stato lo stesso segretario dell’Onu Guterres, poche ore dopo il pogrom, a dire che gli attacchi di Hamas “non sono accaduti nel vuoto” e che “va considerato il contesto”. Da qui a sostenere che gli attacchi dei terroristi siano reazioni giustificabili all’“illegittimo regime di occupazione sionista” il passo è breve. Per Guterres, e tanto più per gli accademici che hanno firmato gli appelli per il boicottaggio dell’ebreo tra gli stati, Israele, il 7 ottobre non è successo niente di particolarmente rilevante. Eppure gli uomini di Hamas non hanno fatto nulla per nascondere tutte le efferatezze compiute, anzi le hanno documentate, pubblicizzate e celebrate. Nessuna notte e nebbia, dunque, ma anche nessuno scandalo per i dogmatici secondo i quali ogni gesto contro un regime immorale di colonizzazione e discriminazione, come è considerato quello israeliano in totale spregio dei fatti, non è altro che gesto di resistenza, e in quanto tale legittimo. Per questo in tutta Europa sono stati strappati e perfino bruciati i manifesti della campagna Bring them home con i volti degli israeliani rapiti, tra i quali anche neonati e novantenni. Tutti i rapiti, e tutti gli israeliani in genere, in quanto ebrei sono l’oppressore da combattere con ogni mezzo. Non c’è differenza tra un soldato, una famiglia di coloni o una coppia di pensionati pacifisti, se sono ebrei, esattamente come non c’era alcuna differenza per i nazisti tra combattenti del ghetto di Varsavia, neonati lituani, professori viennesi e anziane della casa di riposo di Venezia. Tutti costoro sono ugualmente colpevoli in quanto ebrei, per gli antisemiti “antirazzisti” sodali degli antisemiti islamisti perché gli ebrei sono simbolo di un sistema “bianco” oppressivo contro cui ogni mezzo è lecito. Allo stesso tempo viene negato agli ebrei il possibile statuto di vittime della violenza altrui. Le uniche vittime possibili e dunque “vere” sono i palestinesi. È peggio del negazionismo della Shoah: è la giustificazione preventiva di ogni nuovo potenziale genocidio degli ebrei, di ogni nuova Shoah.
• NESSUNA ATTENUANTE L’antisemitismo di principio, cioè il pregiudizio in partenza verso gli ebrei, non basterebbe a spiegare il perché di tutto questo se non ci fosse anche un antisemitismo di arrivo, un antisemitismo come risultato della visione woke del mondo. Che è una visione metafisica vittimista, povera, in bianco e nero: da una parte le vittime, dall’altra i carnefici, tra i quali con una evidente forzatura sono collocati gli ebrei, malvagi a prescindere da quello che fanno, semplicemente per il fatto di esistere. All’interno di questo orizzonte dicotomico che fa furore in alcuni prestigiosi campus americani non esiste sfumatura. Tra ebrei religiosi, laici e assimilati, di destra e di sinistra, magrebini o ashkenaziti non viene fatta distinzione. Singolarmente, ma non sorprendentemente, è lo stesso modo di considerare gli ebrei dei terroristi di Hamas, che il 7 ottobre non sono andati a cercare soldati oppure civili, religiosi o laici, russi o etiopi ma hanno massacrato in un’orgia di sangue tutti coloro che hanno potuto raggiungere. Non è vero che Hamas ha puntato a colpire la Israele laica e tendenzialmente di sinistra dei giovani al festival di Re’im e dei kibbutzim. Quelle sono state le vittime che ha trovato più comodamente, ma se ne avesse incontrate altre la risposta non sarebbe stata in nulla diversa. E la risposta, inutile dirlo, è la violenza bruta e disumanizzante. Il 7 ottobre Hamas non ha cambiato l’obiettivo di cui si vanta (in arabo) da oltre trent’anni, che è il genocidio degli ebrei – degli ebrei, non degli israeliani, come specifica il suo stesso statuto -, ha solo avuto più successo di altre volte. Chi considera gli ebrei collettivamente colpevoli perché dalla parte vincente della storia non solo compie un errore di valutazione, ma in nome di una metafisica dualistica si allinea perfettamente con l’ideologia vittimista, intollerante e genocida di Hamas, del terrorismo palestinese e dei suoi numerosi e facoltosi sponsor dall’Iran alla Turchia al Qatar. Chi lo fa partecipa alla guerra attraverso la demonizzazione, la legittimazione della violenza antisemita e talvolta la violenza stessa. Per questo non va amichevolmente considerato un “compagno che sbaglia”, non gli vanno concesse le attenuanti comunque tutte da verificare dell’ignoranza e dell’imbecillità. Esattamente nello stesso modo in cui non vanno concesse attenuanti ai rapati che sfoggiano la croce uncinata e a chi nelle curve degli stadi intona cori che invitano a riaprire Auschwitz.
La metafisica gnostica del wokeism – adottata anche da interi stati, come il Sudafrica, che fanno del vittimismo un valore condiviso su cui edificare l’appartenenza nazionale – fissa le identità ed è pronta a giustificare ogni gesto, se questo viene dai buoni ed è rivolto contro i malvagi. Per esempio se viene da Hamas, i cui eventuali (!) eccessi saranno da attribuire alla presunta durezza di Israele verso chi da sempre sceglie violenza, terrorismo e guerra e rifiuta pace e convivenza. Questa ideologia, l’alleata migliore del fondamentalismo islamico in Occidente, contribuisce ad armare gli assassini from the river to the sea.
Gli avventori del pub di Tucson che si sono fatti trascinare dall’idea di liberarsi degli ebrei gettandoli nel pozzo frequentano poco i campus universitari e sono certamente più prossimi al suprematismo bianco, anch’esso vittimista e cospirazionista, che agli ambienti woke e intersezionali. Non si può dire lo stesso, invece, degli studenti dell’università di San Francisco avvicinati dal regista Ami Horowitz, che ha finto di raccogliere denaro per aiutare ad ammazzare gli ebrei riscuotendo un incredibile successo. Il video è stato trasmesso negli Stati Uniti su Sky News ed è disponibile su YouTube. Si badi, Horowitz non parla di finanziare attacchi contro Israele ma proprio contro “sinagoghe, scuole, ospedali e ristoranti ebraici”. Finalmente un bel progetto per “tenerli a bada”, gli ebrei, commentava una studentessa, mentre numerosi altri contribuivano con un sostegno economico (17 su 35 studenti avvicinati) e ancora di più con il “sostegno morale” e l’impegno a diffondere la voce (28 su 35). Come nel country club di Tucson, a nessuno degli interpellati è venuto in mente che potesse trattarsi di uno scherzo.
Dopo l'astensione Usa sulla risoluzione Onu, confermato il ritiro della delegazione in partenza per Washington. Hamas minaccia: «Nessuna tregua senza l'addio alla Striscia». Per Gerusalemme va fermato l'Iran che trama per «destabilizzare il Medio Oriente».
di Flaminia Camilletti
L'astensione degli Stati Uniti dal voto alla risoluzione Onu sul cessate il fuoco a Gaza ha prodotto una serie inarrestabile di conseguenze. Una scelta senza precedenti quella di Washington presa evidentemente per ragioni elettorali la cui portata, forse, non era stata compresa realmente neanche dagli stessi attori che l'hanno operata.
Fino a ieri infatti tutto si era svolto in un perfetto equilibrio che ha visto porre il veto di Cina e Russia ogni qualvolta ci fosse una risoluzione proposta da forze opposte alla loro, schema replicato al contrario dagli Stati Uniti che hanno sfruttato il loro veto per difendere gli interessi di Israele e quindi di tutto il blocco occidentale. Un equilibrio che rompendosi ha appunto scatenato ritorsioni a catena. L'ira prevedibile del premier Benjamin Netanyahu ha condotto Gerusalemme ad annullare la missione a Washington del consigliere per gli Affari strategici Ron Dermer e di quello per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi per definire le alternative praticabili all'intervento di terra a Rafah. Contemporaneamente è stato stabilito di ritirare la delegazione israeliana alle trattative in corso a Doha sul conflitto a Gaza. Perché come ha spiegato Netanyahu: «La posizione di Hamas dimostra in maniera chiara che non è interessato a continuare le trattative e rappresenta una prova dolorosa dei danni causati dalla decisione del Consiglio di sicurezza». Infatti dopo la risoluzione Hamas ha informato i mediatori del Qatar e dell'Egitto che non avrebbe abbandonato le proprie richieste sui negoziati, tra cui il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. Una mossa che per Netanyahu è conseguenza dolorosa della mossa dell'Onu.
L'assenza di Israele a Doha ovviamente conduce dritti all'impossibilità di portare avanti i negoziati. Hamas infatti si è detta insoddisfatta perché «Israele», secondo Hamas, «non ha fatto riferimento al cessate il fuoco e al ritiro delle forze da Gaza. Le nostre richieste erano realistiche», hanno aggiunto, «ma non c'è una volontà di Israele di raggiungere un accordo. Noi vogliamo un meccanismo chiaro e reale per un cessate il fuoco e per il rientro degli sfollati». Netanyahu ha chiarito che la decisione di ritirare la delegazione dai negoziati a Doha è arrivata su indicazione del capo del Mossad David Barnea e ha aggiunto: «Israele non si arrenderà alle richieste strampalate di Hamas e continuerà ad agire per raggiungere gli obiettivi della guerra». Concetto ribadito anche dal ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che rivolgendosi direttamente al segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto: «Israele non cesserà di operare a Gaza fino al ritorno degli ostaggi. Solo una vittoria decisiva porterà alla fine della guerra».
Una guerra che più si va avanti e più diventa chiaro che stia coinvolgendo molti più attori di quanti non se ne vedano direttamente in campo. Uno di questi è l'Iran.
Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ieri, e quindi proprio all'indomani dell'approvazione della bozza di risoluzione Onu, ha avuto un incontro a Teheran con il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian. Nella conferenza stampa che ha seguito l'incontro Haniyeh ha detto: «La risoluzione indica che l'occupazione di Israele sta subendo un isolamento politico senza precedenti».
Il vertice che arriva proprio dopo la risoluzione Onu rende ancora più evidente una suggestione che ai militari israeliani è chiara fin dal principio. L'Iran non è un attore marginale in questo conflitto, anzi, secondo fonti accreditate, il governo di Teheran avrebbe agito fin dal principio per costruire un «ring intorno a loro per rendere instabile tutto il Medioriente». La chiamano «dottrina iraniana» e anche Gaza va inserita in questo disegno. Gli stessi Houthi, chiamati miliziani o ribelli, sono tutt'altro che un gruppo militare improvvisato, anzi. Infatti come già scritto su queste colonne, la loro preparazione e il loro equipaggiamento e pari a quella di un esercito strutturato. A loro disposizione un arsenale di primo livello e diversificato che comprende sia missili da crociera che balistici. Armi che provengono dall'Iran, ma anche dalla Cina.
Impossibile non evidenziare quanto la crisi del Mar Rosso stia influenzando tutto il blocco occidentale hanno sottolineato le stesse fonti militari che hanno ricordato come sia consentito il transito alle navi russe e cinesi. Anche l'altro fronte israeliano, quello con Hezbollah, è chiaramente influenzato da Teheran. Eppure come denunciano le fonti: «Nessuno incolpa l'Iran».
L'ultimo tema, ma non per rilevanza è quello dell'operazione di terra a Rafah. Israele ne avrebbe dovuto discutere a Washington per capire se ci fossero alternative, ma la missione è stata annullata. «Non ce ne sono» secondo le autorità militari israeliane, ma l'obiettivo resta quello di proteggere i civili. E per questo che l'operazione si terrà anche grazie al via libera dell'Egitto che ha detto che non si opporrà a un'operazione a Rafah, se questa sarà condotta in modo tale da evitare vittime civili palestinesi.
Con la risoluzione dell’Onu (e il tradimento degli Usa) prosegue la delegittimazione di Israele
di Paolo Salom
Dunque gli Stati Uniti hanno, di nuovo, pugnalato Israele alle spalle.L’astensione al Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione proposta da Cina e Russia ha consentito alla consueta maggioranza anti israeliana di portare a compimento il loro progetto di delegittimazione. Di nuovo: esattamente come era accaduto nel dicembre 2016, quando il presidente Barack Obama, a pochi giorni dal passaggio di poteri al nuovo eletto – Donald Trump – aveva ordinato di permettere l’approvazione di un testo di condanna agli insediamenti in Giudea e Samaria, chiamati per la prima volta nella storia “illegali”. Mattone dopo mattone, le Nazioni Unite, ormai nelle mani di un gruppo di Paesi che oltre a Israele, hanno in odio l’Occidente tutto, cercano di smantellare l’impresa sionista, il miracolo che è stata la rinascita di Israele nella sua terra. Questa politica è talmente chiara che non serve nemmeno spiegarla: basta fare un semplice conteggio, da una parte i voti di censura contro Gerusalemme, dall’altra quelli contro il resto del mondo. Ogni anno Israele conquista la non tanto ambita coppa di Paese messo all’indice per le sue “mancanze”, per il suo essere uno Stato “nemico dei diritti umani” (!): più dell’Iran, della Corea del Nord, della Cina o della Russia. Incredibile? Per nulla, a giudicare dallo stato delle cose nel mondo di oggi. L’unico argine a questo impazzimento, finora, erano i veti in Consiglio di Sicurezza eretti dagli Stati Uniti. Curioso: difendendo Israele, gli americani hanno in realtà sempre difeso se stessi, il mondo libero. Con Obama questa equazione ha perso di valore. Israele è stato spinto in un angolo per un supposto principio di equidistanza, di “giustizia”, dove gli Stati Uniti – supremo difensore del sistema internazionale – equiparavano le azioni di Israele a difesa della propria sopravvivenza agli attacchi spietati dei suoi nemici. Basti pensare al 7 ottobre. Una strage tanto inumana contro civili inermi da superare – in proporzione – l’11 settembre. Questo per dire che la reazione di Israele contro Hamas non è stata e non è sproporzionata. Al contrario, è stata una risposta morale, giusta, addirittura doverosa a protezione del futuro dei cittadini e dello Stato. Ecco perché imporre, come si legge nella risoluzione approvata lo scorso 26 marzo dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, un “cessate il fuoco duraturo in occasione del sacro Ramadan”, sia pure in cambio degli ostaggi rapiti, ma senza nemmeno citare gli autori dei massacri – i terroristi di Hamas – è un errore storico oltre che politico. Lo dimostra il fatto che Hamas è arrivato al punto di “ringraziare” il presidente Biden. E come prima cosa ha ribadito che non firmerà alcun accordo che non preveda la fine dell’azione militare da parte di Israele e il completo ritiro di Tsahal da Gaza. Come dire: si torna allo status quo ante, in attesa del prossimo assalto terroristico contro le comunità del Negev e magari, una volta riempiti nuovamente gli arsenali, di nuovi attacchi missilistici contro le città, da Sderot a Tel Aviv. Insomma, questa risoluzione, mal scritta (è stata proposta da Cina e Russia: vi rendete conto?) è la patente che gli odiatori di Israele attendevano per completare l’opera di demolizione dell’unico Stato ebraico al mondo. L’America, alle prese con i propri fantasmi, in vista di elezioni presidenziali che non promettono comunque nulla di buono, hanno preferito sacrificare la pedina a loro giudizio meno indispensabile nei pesi e contrappesi di un mondo sempre più instabile. Errore esiziale. Ma, quanto a noi, non resta che rimboccarci le maniche e prepararci a superare anche questa (terribile) avventura.
(Bet Magazine Mosaico, 27 marzo 2024)
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Tradimento dell'America. Hamas ride
Non è vero che niente è cambiato nella politica americana
di Fiamma Nirenstein
Non è vero che niente è cambiato nella politica americana: Biden dopo il 7 ottobre si era reso conto che l'attacco a Israele era un attacco alla sua esistenza e alla civiltà, che le atrocità compiute non potevano altro che essere controbattute con l'eliminazione del criminale terrorista. Adesso, all'Onu gli Usa hanno pugnalato Israele mentre è in guerra, mentre nel mondo la tempesta antisemita impazza. Non ci sono più freni, chiunque ora può chiedere a Israele di preservare Rafah in nome della legalità internazionale, Hamas e l'Iran sono contentissimi dell'accaduto, la Russia gli sta dietro, e anche questo è un bizzarro risultato per la politica americana.
Prima di tutto, una risoluzione per la quale Hamas si entusiasma non può essere buona e Biden non dovrebbe essere giunto a quel punto di cinismo politico anche se ha le elezioni. Invece Ismail Hanyeh, travestito da diplomatico, è andato a Teheran con il capo della Jihad Islamica. Riaggiustano la strategia: si rafforza l'asse del male e si discute della prossima mossa. L'America sembra aver perso il senno: a Parigi, al Cairo, a Doha era l'apostolo della liberazione degli ostaggi.
Adesso a causa della sua mossa, Hamas un minuto dopo ha dichiarato chiuso lo scambio: che bisogno c'è di scambiare se si può avere la tregua gratis? L'Onu impone di bloccare la guerra per il Ramadan e si dimentica che le due settimane in gioco sono ben meno delle sei che Israele aveva già stabilito di concedere in cambio di 40 ostaggi, con l'aggiunta di 500 prigionieri jihadisti. Già, ma quelle sei settimane prevedevano un contraccambio, su cui peraltro si era impegnata l'America. E ora tutto il suo lavoro cade: il documento prevede tregua immediata e solo la generica liberazione degli ostaggi, sconnessa dal cessate il fuoco. Curioso, visto che l'accordo era già quasi raggiunto.
Ed ecco invece che gli Usa si giocano tutto per bloccare sulla linea di Kamala Harris, che ritiene «una cattiva idea» entrare a Rafah. Strano anche questo: gli Usa aspettavano a Washington i due ministri di Netanyahu proprio per discutere come entrare a Rafah e come limitare il problema umanitario nella zona: gli Usa votando la risoluzione hanno imposto il cessate il fuoco disconnettendolo dagli ostaggi. Risultato: la disperazione delle famiglie dei 134 miseri, infelici, violentati innocenti che nelle gallerie sono la ricchezza di Sinwar. Altro risultato: Hamas è felice.
(il Giornale, 27 marzo 2024) ____________________
E’ sempre sgradevole dire e sentir dire: “Io ve l’avevo detto”, ma mi assumo con dolore il peso di questa sgradevole provocazione adducendo come attenuante che l’avevo detto dopo aver preso in considerazione quello che dice la Bibbia: “In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno del tutto lacerati, e tutte le nazioni della terra si raduneranno contro di lei” (Zaccaria 12:3). Una dozzina d'anni fa l’America a stelle e strisce si era presa in carico la pietra di Gerusalemme. Dall’alto della sua autorità di alleato più importante di Israele, chiedeva al presidente Benjamin Netanyahu di non insistere sulla sua pretesa di mantenere Gerusalemme come capitale unica e indivisibile di Israele. A un articolo del 13 agosto 2013 aggiunsi questo commento:
«Tutto il mondo, anche l’alleato più importante di Israele, gli Stati Uniti, vuole che Gerusalemme sia divisa. Più precisamente, Kerry [allora segretario di stato americano] ha detto che gli Stati Uniti “considerano illegittimi tutti gli insediamenti in territorio palestinese", il che significa, come più volte ripetuto in questa sede, che il nocciolo del contendere non è politico, ma giuridico: le nazioni contendono allo Stato ebraico il diritto di considerare Gerusalemme, tutta Gerusalemme, una sua città, anzi come LA SUA città, la sua eterna, indivisibile capitale. Questo conferma il carattere biblico della contesa, e conferma che di carattere biblico sarà anche il suo esito. Quanto agli Stati Uniti, l’aiuto che Israele potrà ricevere da loro sarà anch’esso di carattere biblico, come quello ricevuto a suo tempo dall’Egitto: “un sostegno di canna rotta, che penetra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora” (Isaia 36:6).»
Adesso se ne ha una conferma: la canna rotta è entrata nella mano. Resta da vedere che fine farà la canna. M.C.
La risoluzione passata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’astensione americana, la quale chiede il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia è un capolavoro di equilibrismo e ipocrisia. Il cessate il fuoco non è subordinato al rilascio degli ostaggi, viene invocato a se stante, in modo da spezzare il vincolo causale che lega i due fatti tra di loro.
Hamas è già andata all’incasso, dichiarando che la liberazione degli ostaggi potrà avvenire solo a condizione che il cessate il fuoco a Gaza sia definitivo.
Israele ha reagito in modo duro, sottolineando come gli Stati Uniti siano venuti meno al loro appoggio in uno dei momenti più difficili che il paese sta affrontando dalla sua fondazione, con una guerra ancora in corso e un numero elevato di ostaggi prigionieri. A evidenziare ulteriormente il disappunto, la delegazione israeliana che sarebbe dovuta partire per Washington ieri sera su esplicito invito di Joe Biden al fine di ascoltare la proposta americana su come colpire Hamas a Rafah senza che Israele lanci la annunciata operazione di terra, è stata stoppata da Benjamin Netanyahu.
Da parte americana ci si è affrettati a dichiarare che la risoluzione non è vincolante e che Israele potrà continuare comunque a perseguire il suo obiettivo a Gaza.
Effettivamente la risoluzione dell’ONU non avrà alcun impatto sulla guerra, il punto non è questo, ma è quello che ormai è chiaro a tutti, mentre continua a fornire ausilio militare a Israele, l’Amministrazione Biden deve rispondere al proprio elettorato a casa e allo scontento crescente di una parte del partito democratico. Dunque si tratta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non prendere decisioni estreme. Per Joe Biden interrompere la fornitura di armi a Israele mentre continua a farlo nei confronti dell’Ucraina avrebbe un contraccolpo politico ingente. Da una parte accontenterebbe l’ala più estremista del suo partito e l’elettorato islamico ma dall’altra fornirebbe al partito repubblicano e a Donald Trump, che su Israele ha iniziato ad andare all’attacco, un’arma formidabile per colpirlo, ma non gli gioverebbe neanche presso l’opinione pubblica americana in generale a maggioranza a sostegno di Israele.
A Biden tocca quindi barcamenarsi. Non può abbandonare Israele ma deve gestire le esigenze imposte dalla politica interna americana e in più deve promuovere una agenda in linea di continuità con quella degli Stati Uniti (unica eccezione l’Amministrazione Trump) degli ultimi trent’anni, che vede nella nascita di uno Stato palestinese unificato tra Gaza e la Cisgiordania la soluzione di un conflitto che dura dal 1948 ad oggi, nonostante la storia e i fatti evidenzino che il suo nucleo è molto più profondo e radicale di una disputa territoriale La collisione tra Stati Uniti e Israele, di cui ci sono stati molti prodromi, è ormai un dato di fatto, e la risoluzione ONU di ieri la certifica, ma non siamo ancora all’acme, quello arriverà quando, finalmente l’esercito israeliano entrerà a Rafah per chiudere la partita con Hamas.
Con il proseguire della guerra scatenata dalla formazione jihadista palestinese di Hamas il 7 ottobre, le posizioni della totalità dei paesi occidentali, nei confronti di Israele, è mutata significativamente. Si è passati, infatti, da un modesto e doveroso cordoglio di circostanza per le vittime dell’eccidio, perpetrato da Hamas, a una sempre maggiore ostilità verso Israele e gli ebrei di tutto il mondo. Questa condotta è diventata comune sia nelle piazze sia a livello politico (la prima ha indubbiamente condizionato la seconda). Qui ci occuperemo solo dei risvolti politici della guerra.
Dopo il cordoglio, a parte gli Stati Uniti, nessun paese occidentale ha mosso un dito per aiutare concretamente Israele e il suo popolo nella guerra contro Hamas. Nessun paese europeo ha fornito o sta fornendo armi e munizioni a Israele per difendersi, nessuno ha fornito o sta fornendo aiuti di qualsiasi genere per i sopravvissuti dell’eccidio, o per gli oltre 250.000 sfollati israeliani (tra nord e sud del paese) che a distanza di oltre 5 mesi, non possono tornare nelle loro case per condurre una vita normale. In pratica si è ripetuto lo scenario già visto nel 1948 e nel 1973: il popolo ebraico è stato nuovamente abbandonato ma, questa volta, con un’aggravante. L’aggravante è politica: il premio ventilato ai terroristi, consistente nel riconoscimento di uno Stato palestinese da parte della comunità internazionale (compresi gli USA) quando la guerra cesserà. Si tratta senza dubbio un passo avanti rispetto alla formulazione della Risoluzione 242, che chiudeva la guerra dei Sei giorni, o degli Accordi di Oslo. Si è passati, infatti, dal concetto di terra in cambio di pace (principio valido solo per Israele) a quello di eccidio in cambio di riconoscimento statuale. I vecchi princìpi legali e morali come pacta sunt servanda, reciproco riconoscimento, coesistenza, accordo tra le parti appaiono del tutto anacronistici e demodé: oggi, evidentemente, è più comodo e veloce compiere un eccidio e subito dopo, come conseguenza, arriva uno Stato servito su un piatto d’argento. Potrebbe essere un importante precedente per i curdi, i tibetani, i catalani, i baschi ma anche per i corsi, i fiamminghi, gli scozzesi, i nord irlandesi, i tirolesi e tantissimi altri. Ma, a conti fatti, si ha la netta sensazione che questo principio, in voga in tutte le cancellerie Occidentali (anche in Italia da parte del governo “amico” Meloni), valga solamente se una delle due controparti è Israele mentre per nessun altro caso al mondo è preso in considerazione. Perché questo doppio standard? Perché, anche se non espressamente detto, Israele è considerato uno Stato illegale, e come tale deve sempre – e solo lui – concedere qualcosa alla controparte. Tale principio è iniziato prima ancora della nascita dello Stato ebraico: lo si può retrodatare almeno al 1922, quando la Gran Bretagna operò la separazione della Transgiordania dal territorio previsto per il futuro Stato nazionale ebraico. Diventa chiaro che anche in Europa (e negli USA), consciamente o inconsciamente, il popolo ebraico non ha diritto alla propria autodeterminazione men che meno in Terra di Israele. Questa profonda convinzione ha portato ad una vera e propria dissonanza cognitiva (l’elaborazione di schemi mentali in contrasto con i fatti i quali vengono neutralizzati a salvaguardia degli schemi) in merito alla realtà mediorientale. Ne vedremo i tratti principali.
Oggi è convinzione praticamente unanime che se non si è ancora arrivati ad un accordo con i palestinesi è colpa “dell’intransigenza di Netanyahu”. Ma questa affermazione cancella almeno 100 anni di storia precedente nei quali è stata l’intransigenza araba a non permettere nessun accordo. Infatti, tutte le proposte discusse sono, sempre e solo state rigettate dagli arabi (1937, 1947, 1967, 1995, 2000, 2008). Però, oggi, si ha, in Europa e negli USA, la convinzione che se non si trova un accordo è per colpa del “governo intransigente” israeliano di turno, sia che esso sia di destra o di sinistra. Prendiamo ad esempio gli Accordi di Oslo del 1993-1995. Essi furono salutati in Occidente (e dalla sinistra israeliana) come la svolta che avrebbe inaugurato una nuova epoca: la tanta agognata pace sembrava a portata di mano. Ma la realtà dei fatti ha dimostrato che si è trattato di un colossale inganno da parte dei palestinesi che così hanno potuto ottenere una grandissima autonomia (ben maggiore di quella dei tirolesi in Italia che è citata a modello in tutto il mondo) dando solo vaghe promesse in cambio, promesse che non hanno mai mantenuto (rinuncia al terrorismo). Quando gli Accordi di Oslo deragliarono nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat alla proposta di Ehud Barak, tutta la pressione politica e diplomatica venne riversata unicamente su Israele e non sui palestinesi. In questa circostanza, la dissonanza cognitiva occidentale si palesò in pieno: più gli arabi si irrigidivano nelle loro posizioni più diventava colpa di Israele che doveva fare ulteriori concezioni: altro territorio, liberazione dei terroristi, accettazione di milioni di “profughi”, blocco degli “insediamenti”. Ogni volta che un sembrava approssimarsi, gli arabi scientemente alzavano le loro pretese, e tutte le volte, per l’Europa e per gli USA, era Israele che doveva cedere. Questa litania è andata avanti per trent’anni e i frutti di Oslo si sono visti appieno il 7 ottobre. Ma, nonostante l’eccidio compiuto dai palestinesi di Hamas la colpa, ancora una volta, è ricaduta su Israele: il ritiro unilaterale israeliano da Gaza del 2005, ad esempio, è diventato, nelle menti dissonanti occidentali, una finzione. Così Gaza sarebbe ancora “occupata”, sarebbe “una prigione a cielo aperto” e via dicendo. Senza mai spiegare compiutamente però, come da una “prigione a cielo aperto” si possano sparare migliaia di razzi (oltre che fabbricarli o importarli dall’Egitto), ogni anno, verso i civili israeliani oppure costruire 800 chilometri di tunnel in un’area “occupata”. Ogni volta che Israele si è difeso dalle aggressioni palestinesi, è stato inevitabilmente trasformato nell’aggressore ribaltando palesemente la realtà. Un altro aspetto fondamentale della dissonanza cognitiva dell’Occidente è quello relativo al “benessere”. In Occidente si ha da decenni la convinzione che la causa di quasi ogni conflitto risieda nella depressione economica. Quindi, se si coprono di soldi gli indigenti, smetteranno di causare guerre, provocare violenze e terrorismo. Ma è proprio così? No, questa regola dalla fine della Seconda guerra mondiale ha funzionato solo per la Germania e il Giappone dopo che
economie erano state devastate a seguito del conflitto, ma in questi due paesi il risanamento economico andò di pari passo con un cambiamento di mentalità. Tale logica (denaro in cambio di pace) in Medio Oriente non ha mai funzionato, è vero il contrario: più soldi sono stati stanziati più il terrorismo e la violenza sono aumentati. Il caso palestinese è emblematico in tal senso: dagli Accordi di Oslo in avanti i palestinesi hanno ricevuto più del doppio dei soldi del piano Marshall, con il quale l’Europa si rimise in piedi dalle distruzioni della guerra, ma la loro propensione al terrorismo anziché diminuire è aumentata a dismisura. A una analoga conclusione è arrivato lo storico Efraim Karsh, in un suo lavoro di ricerca sugli arabi israeliani, nel quale ha evidenziato che tanto più i governi di Israele, a partire dagli anni ’70, hanno finanziato la comunità araba tanto più essa si è radicalizzata fino a fare scoppiare un’autentica rivolta in tutte le città miste, nel maggio del 2021. Quello che l’Occidente si ostina a non volere comprendere è che in Medio Oriente sono ancora profondamente radicate delle regole culturali-religiose che in Europa e negli USA non esistono più e la religione ha un peso ben maggiore del benessere. È la ragione per cui non si può trovare un accordo tra Israele e i palestinesi, perché culturalmente Israele, per gli arabi, non ha legittimità in Medio Oriente e non perché in Israele ci sia benessere e nei territori palestinesi molto meno.
Questo ragionamento vale anche in campo militare. L’Occidente non ha capito, o finge di non capire, che se Israele non vince in modo netto e inequivocabile, come fecero gli Alleati con la Germania e il Giappone, questa guerra contro Hamas, la sua deterrenza militare subirà un colpo mortale e questo porterà, inevitabilmente, a un futuro scontro con una ricostruita Hamas, ma anche con Hezbollah e l’Iran, come fu in Europa dopo la Prima guerra mondiale con la Germania. In Medio Oriente la deterrenza e la forza militare hanno una valenza ben maggiore che in Occidente, dove si crede che non servano, perché dopo quasi ottant’anni di pace, grazie unicamente agli Stati Uniti, non si concepisce più l’uso della forza militare. Invece, al di là dell’orizzonte astratto e ideale del progresso in cui trionferà la pace, nel mondo in cui viviamo, ha ancora un suo enorme peso, come testimonia il caso Ucraina lo testimonia. Analogo ragionamento vale per i compromessi: in Medio Oriente sono visti come debolezza e non con come volontà di pace. I compromessi servono solo alla parte debole per guadagnare tempo, rafforzarsi e attaccare quando si sente sufficientemente pronta per aggredire l’avversario. Questo è quanto accaduto il 7 ottobre. Il ritiro israeliano dalla Striscia, il permesso di ingresso in Israele di decine di migliaia di lavoratori, di malati per le cure, di ricongiungimenti famigliari non sono serviti a niente, così come il costante flusso di materiali e soldi che sono serviti unicamente a Hamas per rafforzarsi e non per trovare un compromesso.
Se la dissonanza cognitiva di cui soffre l’Occidente non verrà curata adeguatamente i danni che ne conseguiranno non saranno solo quelli che esso vorrebbe infliggere a Israele ma esso stesso ne patirà le conseguenze.
Gli ebrei americani: generazioni a confronto. Il sionismo, Israele, la giustizia. Le “ragioni” di un divorzio annunciato?
Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti si sono astenuti in una votazione contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Lo hanno fatto sulla Risoluzione che chiede il cessate il fuoco a Gaza, in sottordine la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, mentre non si fa menzione alcuna del pogrom del 7 ottobre. Che cosa sta succedendo all’amministrazione americana? Biden teme di perdere i voti DEM impregnati dall’ideologia woke? E che ruolo hanno gli ebrei? Questa riflessione di Noah Feldman può chiarire la situazione e le ragioni di una svolta che forse sarà definita “epocale” se, come si teme da più parti, finirà per togliere a Israele la partnership privilegiata con gli USA. Noah Feldman è professore di diritto all’Università di Harvard, editorialista per Bloomberg Opinion e autore, più recentemente, di “Essere un ebreo oggi: una nuova guida a Dio, Israele e il popolo ebraico”, di cui il Washington Post ha pubblicato l’estratto che segue. Dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele nel 2023, quasi nessun argomento ha attirato più attenzione globale di Israele. Per molti ebrei, sia fuori sia dentro Israele, il conflitto di Gaza sembra fondamentale. Dal 7 ottobre, gli ebrei di tutto il mondo, siano essi simpatizzanti verso Israele o critici o una combinazione di queste due cose, hanno scoperto di non avere altra scelta se non quella di affrontare l’impatto e il significato di Israele sulle loro vite e sentimenti – che lo vogliano o no. Questa esperienza richiede una nuova considerazione di ciò che Israele significa per ogni ebreo oggi.
Per evitare di semplificare eccessivamente ci vorrebbe un intero libro – e in effetti questo saggio è tratto da un libro sull’essere ebreo oggi che ho scritto negli ultimi tre anni e a cui ho pensato per gran parte della mia vita adulta. In esso, sostengo che gli ebrei sono come una grande famiglia amorevole, a volte disfunzionale, unita nella lotta per dare un senso alla loro relazione con Dio (che Egli esista o meno) e tra loro. In effetti, ciò che rende distintivo il modo ebraico di vedere il mondo è proprio il fatto che in esso amore e lotta sono inestricabilmente intrecciati, come nella maggior parte delle famiglie. Questa lotta d’amore è la chiave per comprendere cosa sta succedendo a molti ebrei oggi, all’indomani del 7 ottobre. Per capirlo, bisogna tornare a ciò che i sionisti, classici e laici sognarono e per primi costruirono Israele, volevano che significasse. I sionisti volevano che gli ebrei fossero una nazione sovrana, non una famiglia in lotta. Per loro, uno Stato ebraico non doveva essere un evento nella storia ebraica (un accidente nel corso della storia, ndr). Doveva essere la fine della storia ebraica, intesa come racconto di sofferenza nella diaspora. Israele avrebbe dovuto trascendere e sostituire l’ebraicità religiosa e dare inizio a una nuova era nazionale, riprendendo dal punto in cui la sovranità israelita era finita per mano di Roma, 2.000 anni prima. In questo modo, l’idea sionista originale di Israele intendeva secolarizzare la vecchia idea ebraica del Messia in un nazionalismo moderno, disincantato dalla fede religiosa antiquata. L’era utopica, secolare-messianica e il raduno degli esuli avrebbero posto fine alle vicissitudini della sopravvivenza e della sofferenza ebraica che segnarono la ricompensa e la punizione intermittenti di Dio nei confronti del popolo ebraico. Uno Stato laico avrebbe trasformato gli ebrei del mondo in una nazione come le altre, normale, come la Francia o l’Italia, e non in un popolo sperduto condannato a vivere come una minoranza oppressa e nevrotica ovunque si trovi. Non ha funzionato esattamente come previsto. Nel corso degli anni, sostenuto dal successo militare, dalla crescita economica e da un’abile politica governativa, Israele è diventato sempre più sicuro. Tuttavia, nonostante le sue armi nucleari, non ha raggiunto pienamente l’aspirazione dei sionisti di essere in grado di proteggere in modo indipendente gli ebrei che vivono lì, tanto meno tutti gli ebrei ovunque nel mondo. Israele continua a dipendere in parte per la sua sicurezza da uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, e questo si basa in gran parte sul sostegno della comunità ebraica americana. Inoltre, lo Stato ebraico non ha posto fine alla diaspora. La maggior parte degli ebrei che vivevano negli Stati Uniti o dietro la cortina di ferro o in altri luoghi non si riversarono nel paese, almeno non volontariamente. Quindi, invece di diventare la patria di un’unica nazione ebraica, Israele è diventata la nazione propria degli israeliani. L’ebraico israeliano moderno è diventato la loro lingua nazionale, non la lingua degli ebrei ovunque. Gli ebrei di tutto il mondo potevano preoccuparsi di Israele, ma erano cittadini dei loro stessi paesi – e molti di loro, fossero essi laici, riformati, conservatori o ortodossi tradizionalisti, scelsero di non definire la loro ebraicità principalmente in relazione a Israele. Nel frattempo, all’interno di Israele, l’ebraicità religiosa non è scomparsa come avevano previsto i sionisti laici. Piuttosto, la religione ebraica ha conosciuto una rinascita inaspettata. Gli ebrei Haredi si sono moltiplicati, hanno prosperato e usato la politica democratica per ottenere influenza e sussidi statali. I sionisti religiosi hanno infuso in Israele un significato messianico, considerando il suo avvento come un segno miracoloso dell’era messianica descritta dai profeti biblici e dagli antichi rabbini. Alla fine, nel corso degli ultimi trent’anni circa, l’idea di Israele ha cominciato a trasformare il pensiero religioso ebraico dall’interno. Gli ebrei di vari orientamenti religiosi in tutto il mondo, compresi quelli che non sono sicuri di possedere una teologia, hanno imparato a vedere la loro ebraicità in relazione a Israele.
• Il giudaismo americano progressista nei confronti di Israele Per vedere come ciò sia accaduto e per avere una visione più acuta del “conflitto amoroso” ebraico oggi, tuffati con me in un sottotipo del pensiero ebraico: il giudaismo americano progressista. Questa visione del mondo, prevalente oggi tra gli ebrei riformati (37% della popolazione ebraica americana), tra gli ebrei conservatori (17%), tra gli ebrei ricostruzionisti (4%) e tra molti ebrei non affiliati, trova le sue radici tra gli ebrei del XIX secolo che vivevano in Germania e che cercavano di riformare l’Ebraismo sulla falsariga del protestantesimo della Riforma. Guardando indietro alla Bibbia, hanno trovato un Dio che ama non solo il suo popolo ma tutti i popoli del mondo; che vuole giustizia sociale, non obbedienza ritualizzata; e chi insegna che essere santi è amare il prossimo come te stesso. Il filone della giustizia sociale del giudaismo progressista si è trasferito bene negli Stati Uniti. Una fotografia iconica, scattata il 21 marzo 1965, ne riassume l’essenza. Sette persone, legate in armi, guidano la marcia per i diritti civili da Selma a Montgomery: John Lewis, Suor Mary Leoline, Ralph Abernathy, Martin Luther King Jr., Ralph Bunche, Abraham Joshua Heschel e Fred Shuttlesworth. Gli uomini neri nella foto, tutti ministri ordinati del Sud tranne Bunche, un diplomatico vincitore del premio Nobel, sono giganti del movimento per i diritti civili. Heschel, nato a Varsavia nel 1907, fu ordinato rabbino ortodosso e in seguito conseguì un dottorato a Berlino. Dopo essere fuggito dalla Polonia nel 1939, divenne un rinomato insegnante e studioso del misticismo ebraico, affiliato alle principali scuole rabbiniche riformate e conservatrici. La sua partecipazione alla marcia e le convinzioni progressiste che lo hanno portato lì rappresentano una visione di Dio derivata dagli antichi profeti ebrei e dagli insegnamenti più fondamentali dei rabbini. Nell’ultimo mezzo secolo, l’insegnamento progressista della giustizia sociale divinamente ispirata ha acquisito uno slogan: tikkun ‘olam, letteralmente, riparare il mondo. La frase riecheggiava l’idea mistica e cabalistica molto più antica secondo cui nel creare il mondo finito, il Dio infinito si contraeva, poi si frantumava e si rompeva in una moltitudine di frammenti. All’indomani di quel disastro cosmico, lo scopo ultimo e mistico del popolo ebraico è quello di riparare l’universo e la stessa divinità riscattando le scintille di luce divina che furono perse o nascoste nel processo. Come adattato dai progressisti ebrei contemporanei, tikkun ‘olam ha un significato concreto e mondano. Richiede lo sforzo umano, accanto a Dio, per rendere il mondo più giusto. Negli anni ’80 e ’90, la visione di giustizia sociale dell’ebraismo progressista ha acquisito due nuovi pilastri teologici: la centralità dell’Olocausto e la narrativa di redenzione della creazione di Israele.Lo slogan “Mai più” ha fornito una guida di giustizia sociale all’intuizione che l’Olocausto abbia determinato l’unicità ebraica. Gli ebrei non devono mai più permettere che si verifichi un Olocausto. Il sionismo, da parte sua, arrivò a offrire agli ebrei americani progressisti un resoconto supplementare della redenzione post-Olocausto. Il moderno Stato di Israele era nato dalle ceneri dell’Olocausto, quindi Israele ha riscattato la sofferenza dei suoi martiri. Dalla distruzione venne la ricostruzione. E l’esistenza di Israele eviterebbe il verificarsi di un altro Olocausto fornendo una via di fuga agli ebrei della diaspora nel caso in cui le pressioni antisemite rendessero la vita insostenibile. Gli ebrei americani progressisti potevano così integrare Israele nel loro quadro teologico del rapporto tra Dio e il popolo ebraico. Questo abbinamento ha dato un senso parziale alla morte dei 6 milioni di persone. E ha permesso agli ebrei americani progressisti di organizzarsi per due scopi principali: commemorare l’Olocausto e sostenere Israele. Oggi negli Stati Uniti esistono 16 musei dell’Olocausto e centinaia di memoriali pubblici dell’Olocausto, e altri saranno aperti presto. Il Museo dell’Olocausto degli Stati Uniti, costruito su quasi due acri di terreno assegnato dal Congresso vicino al Monumento a Washington, ha ospitato 47 milioni di visitatori dalla sua apertura nel 1993. Sarebbe rozzo e impreciso sostenere che il ruolo dell’Olocausto nel pensiero ebraico progressista americano sia quello di promuovere il sostegno a Israele. Le lezioni dei musei dell’Olocausto vogliono essere universali. Eppure l’idea di Israele entra comunque in complessa interazione con l’idea dell’Olocausto nel pensiero ebraico progressista americano. Nel Medioevo, la teologia ebraica sul martirio esisteva in un rapporto complicato con le idee cristiane, anche se gli ebrei venivano martirizzati dai cristiani. Oggi la teologia ebraica progressista esiste anche in un rapporto complesso con il pensiero protestante americano. Visto in termini comparativi, l’Olocausto potrebbe sostituire la passione e lo Stato di Israele la resurrezione. Il “vangelo sociale” del tikkun ‘olam può stare comodamente accanto a questa teologia implicita. Per essere chiari, nessun pensatore ebreo americano progressista ha mai avuto l’intenzione di ricreare consapevolmente la struttura teologica del protestantesimo americano. Dio non voglia. Ciò che sto suggerendo è che l’enorme sfida teologica posta dall’Olocausto richiedeva una risposta. Nel contesto del pensiero religioso americano in generale, l’attrazione esercitata da Israele come corollario redentivo all’Olocausto era schiacciante. Il risultato fu una teologia ebraica progressista e coerente dell’Olocausto e di Israele.
• Un doloroso conflitto generazionale Mentre leggi queste parole, la comunità degli ebrei americani progressisti sta attraversando un doloroso conflitto generazionale: una lotta familiare venata di amore e dolore. Da un lato ci sono persone che hanno più o meno la mia età: i leader del movimento della Gen X, rabbini e laici. Sono, per la maggior parte, democratici di centro o di centrosinistra. I leader ebrei progressisti della generazione X sono (ancora) sionisti liberali. Amano Israele. Lo criticano anche. Desiderano che Israele sia più giusto nei confronti dei palestinesi. Vorrebbero che ci fosse una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Spesso non si identificano con l’American Israel Public Affairs Committee, che coordina gran parte delle pressioni pro-Israele da parte degli ebrei americani e si allea strettamente con qualunque governo sia al potere in Israele. Invece, i leader ebrei progressisti della Gen X hanno le proprie organizzazioni sioniste liberali, come J Street, un corpo di lobbying che si autodefinisce “la sede politica degli americani filo-israeliani e filo-pace”, e il New Israel Fund, che afferma il suo “obiettivo è promuovere la democrazia liberale, compresa la libertà di parola e i diritti delle minoranze, e combattere la disuguaglianza, l’ingiustizia e l’estremismo che sminuiscono Israele”. Pubblicano libri angoscianti che giustificano le loro posizioni con titoli come “Fault Lines: Exploring the Complicated Place of Progressive American Jewish Zionism”. Quando Israele viene attaccato, tuttavia, risponde istintivamente con solidarietà e sostegno. Il loro impegno verso lo Stato ebraico e verso gli altri ebrei è indiscusso. Dall’altra parte del conflitto ci sono i ragazzi, le cui opinioni su Israele sono spesso molto diverse. Alcuni ebrei progressisti della generazione Z partecipano ad organizzazioni universitarie come Studenti per la Giustizia in Palestina, un “collettivo di organizzatori che sostiene oltre 200 organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus universitari dell’Isola delle Tartarughe occupata (Stati Uniti e Canada)”. Il 12 ottobre, mentre Israele iniziava la sua risposta all’attacco di Hamas contro i civili israeliani, l’ufficio nazionale dell’SJP ha postato sui social media “condannando il progetto sionista e il loro ultimo attacco genocida contro il popolo palestinese”. Jewish Voice for Peace è un gruppo che sostiene la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni e lavora a fianco di SJP. Il suo sito web vanta 60 capitoli, 200.000 sostenitori e 10.000 donatori. L’organizzazione afferma di “essere guidata da una visione di giustizia, uguaglianza e libertà per tutte le persone”. Ne consegue, per JVP, che “ci opponiamo inequivocabilmente al sionismo perché è contrario a quegli ideali”. Il 14 ottobre, l’organizzazione ha pubblicato: “Come ebrei statunitensi [noi] crediamo che mai più significhi mai più per nessuno, e questo include i palestinesi. Mai più è adesso”. Sembra probabile che una percentuale relativamente piccola di ebrei progressisti della generazione Z si sia radicalizzata fino al punto di dichiararsi apertamente antisionista. Molti sono in conflitto su cosa dovrebbero pensare di Israele. Altri preferirebbero non concentrarsi affatto su Israele. Eppure è giusto generalizzare dicendo che molti sono stati commossi dall’analogia, diffusa nei campus universitari, tra Israele e il Sud Africa dell’era dell’apartheid. Oggi, i leader e gli attivisti ebrei progressisti della Gen X e della Gen Z si trovano in disaccordo tra loro riguardo a Israele. Il disaccordo è doloroso per entrambe le parti, come spesso lo sono le discussioni generazionali. I progressisti di mezza età pensano che i ragazzi non siano riusciti a capire quanto importante dovrebbe essere Israele per loro in quanto ebrei. I ragazzi pensano che i vecchi siano impantanati in un’ideologia screditata. Voglio suggerire che la spaccatura generazionale riflette non due diverse concezioni di ebraicità progressista, ma due diverse visioni di Israele, rifratte attraverso un impegno comune per la giustizia sociale. L’ebraismo progressista esprime ciò che considera i valori biblici di giustizia, uguaglianza, libertà e simili. Quando l’Olocausto e Israele entrarono a far parte di questa teologia della giustizia sociale, entrambi dovettero accordarsi con essa. L’Olocausto divenne una lezione morale di Never Again alla pari della schiavitù degli ebrei in Egitto. Israele divenne un modello di redenzione, un ruolo che poteva svolgere solo perché era possibile immaginare lo Stato ebraico come liberale e democratico. Se Israele non incarna (secondo i giovani della Gen Z, ndr) i valori della democrazia liberale, tuttavia, non può fungere da ideale morale per gli ebrei progressisti le cui convinzioni impongono la dignità umana universale e l’uguaglianza. Nei termini più crudi possibili, un Dio di amore e giustizia non può benedire o desiderare uno Stato che non cerca di garantire uguaglianza, dignità o diritti civili e politici a molte delle persone che vivono sotto la sua autorità. Per gli ebrei progressisti, uno Stato che nega la parità di trattamento ai suoi sudditi non è né democratico né propriamente ebraico. Né è democratico nel senso politico progressista americano. Da ciò ne consegue che per gli ebrei progressisti sinceri e impegnati, rimanere sionisti sarebbe un tradimento dei loro impegni ebraici se Israele non corrispondesse agli ideali della democrazia liberale. I sionisti scioccati da questo sviluppo hanno dimenticato che il giudaismo progressista è stato a lungo scettico nei confronti del sionismo perché storicamente i progressisti ebrei vedevano l’ebraicità come un insieme di insegnamenti morali, non come un’identità nazionale. I sionisti israeliani spesso danno per scontato che i progressisti siano “irreligiosi” (in ebraico, hiloni), come tipicamente si descrivono gli israeliani laici. Questo è sbagliato. I sionisti israeliani di oggi a volte pensano e agiscono come se i progressisti ebrei americani dovessero a Israele un dovere di lealtà. Per i progressisti ebrei, tuttavia, il più alto dovere di lealtà è dovuto ai principi divini di amore e giustizia. Si può provare simpatia per la generazione di ebrei progressisti che hanno fatto di Israele il centro della loro teologia. Da un lato l’associazione è più potente che mai: le immagini degli israeliani assassinati e presi in ostaggio ricordano gli orrori dell’Olocausto. D’altra parte, Israele è uno stato-nazione nel mondo reale popolato da israeliani le cui convinzioni e opinioni differiscono da quelle dei progressisti ebrei americani. Con le sue lotte geopolitiche e politiche interne, Israele ha portato la vecchia generazione di progressisti in un tumulto che può essere risolto solo attenendosi a un’interpretazione della forma di governo politico di Israele che potrebbe non convincere i propri nipoti. Anche i più riflessivi tra i giovani progressisti si trovano ad affrontare una sfida profonda. Credono negli insegnamenti della giustizia sociale che li costringono all’azione sociale. Ma scoprono anche di non poter evitare quella che vedono come la realtà spezzata di Israele. I loro bisnonni, se erano ebrei riformati, avevano la possibilità di de-enfatizzare Israele, quasi al punto da ignorare il sionismo. Prima che esistesse lo Stato di Israele, non avevano bisogno di conciliare le loro convinzioni sul giudaismo come religione privata e diasporica con le aspirazioni degli ebrei sionisti. Anche dopo la nascita dello Stato, per un certo periodo è stato possibile trattarlo come separato dal pensiero, dalla pratica e dall’identità ebraica. I giovani progressisti non possono permettersi questo lusso. Ereditarono una forma di giudaismo che già incorporava Israele nella sua teologia. Non sanno come essere ebrei senza coinvolgere Israele. Eppure il contenuto della loro teologia più ampia – le loro convinzioni sulla moralità ebraica e sul tikkun ‘olam – rendono difficile o addirittura ripugnante il sostegno a Israele. La loro soluzione – la loro soluzione ebraica, progressista e sinceramente sentita – è esprimere la propria fede nella giustizia sociale criticando o condannando Israele per i suoi fallimenti in termini di uguaglianza, libertà, dignità e diritti umani. Emerge che i giovani ebrei progressisti critici di Israele sentono un legame non dichiarato con Israele anche se lo respingono. Non sentono alcun impegno nei confronti dello stato esistente. Ma sentono un particolare bisogno di criticare Israele perché è importante per la loro visione del mondo come ebrei. Non possono ignorare facilmente Israele, così come i primi ebrei riformati ignoravano il sionismo. Quindi coinvolgono Israele – attraverso il veicolo della critica progressista. La frase “non nel nostro nome” coglie il senso di implicazione personale nella condotta di Israele che segna e allo stesso tempo sfida il loro senso di connessione. Questo è il motivo per cui molti giovani ebrei progressisti sono in prima linea nel movimento filo-palestinese nei campus universitari. Per quanto difficile da accettare per le generazioni più anziane, la causa non è l’odio verso se stessi. Piuttosto, la critica a Israele e il sostegno alla causa palestinese costituiscono l’essenza della loro progressiva espressione di sé da parte degli ebrei. Man mano che gli studenti universitari di oggi diventeranno adulti e assumeranno gradualmente la leadership dei loro movimenti, il giudaismo progressista dovrà elaborare il suo atteggiamento a lungo termine nei confronti di Israele. Una possibilità è che gli ebrei progressisti si allontanino dall’attenzione su Israele e coinvolgano la loro ebraicità in altri modi: familiare, spirituale e personale. Ciò comporterebbe un vero cambiamento teologico. Ma lo stesso sarebbe abbracciare contemporaneamente un Dio amorevole per la giustizia sociale e uno Stato che rifiuta la democrazia liberale. Israele non cambierà solo perché lo vogliono gli ebrei americani progressisti. Dovranno trovare le proprie risposte alla crisi incombente che devono affrontare – e presto, prima che una nuova generazione si ritrovi alienata da un’ebraicità di cui non riesce a riconciliare le contraddizioni interiori. Anche a livello individuale, gli ebrei che vogliono pensare meno a Israele si trovano ad affrontare sfide serie perché l’ebraicità è un’identità collettiva. Se la maggior parte degli ebrei si autodefinisce in relazione a Israele, positivamente o negativamente, è difficile per qualsiasi ebreo scegliere di non farlo. Tuttavia, una svolta verso un’ebraicità più personale, familiare e spirituale e meno politica-nazionale potrebbe essere il risultato inevitabile, anche se nessun movimento formale all’interno della vita ebraica adotta consapevolmente una tale politica. Se ciò accadesse, gli ebrei dovranno attingere più che mai alle loro ricche tradizioni di fede, dubbio, lotta e amore – e farlo come famiglie, piuttosto che come nazione.
(Bet Magazine Mosaico, 26 marzo 2024)
• Il voto del Consiglio di Sicurezza
Israele è solo. Il suo principale e per certi versi unico alleato, l’America, gli ha voltato le spalle, permettendo ieri con la sua astensione il passaggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di una mozione promossa dall’Algeria e sostenuta da Russia e Cina (ma votata da tutti i membri del consiglio anche gli europei che si proclamano “amici di Israele”, come Gran Bretagna e Francia) che prescrive una tregua prolungata nella guerra di Gaza, in preparazione di un cessate il fuoco totale, chiedendo poi in termini ambigui che gli “ostaggi” siano rilasciati, ma anche che “tutte le parti”, cioè allo stesso titolo Israele e Hamas, trattino i loro “prigionieri” secondo la legge internazionale. Nella mozione non sono mai nominati né il 7 ottobre né Hamas. Si tratta di una risoluzione che per il momento non ha conseguenze pratiche, ma che autorizza implicitamente l’emarginazione di Israele e potrebbe preludere a provvedimenti più concreti. È chiaro che una tregua non legata alla liberazione degli ostaggi ha l’intento di preservare le truppe e la dirigenza di Hamas, consentendogli di conservare in prospettiva il controllo di Gaza e dunque rendendo inutili questi mesi di guerra: in sostanza la sconfitta di Israele. Sia Hamas sia l’Autorità Palestinese sia la Russia l’hanno salutata come una vittoria.
• Un caso già accaduto
Non è la prima volta che Israele si ritrova da solo in guerra. Lo fu per la maggior parte della guerra di indipendenza; nel 1967 e nel 1973 la sua avanzata verso Il Cairo e Damasco che poteva costringere gli stati arabi a terminare per sempre le aggressioni fu bloccata proprio dagli americani, che si erano schierati contro Israele nel ’56. Molte delle operazioni a Gaza degli ultimi vent’anni sono state bloccate prima della conclusione militare dall’intimazione americana. Fa parte della tradizione politica Usa la decisione di impedire a Israele di “vincere troppo”. La solitudine di Israele e la scelta americana di non sostenerlo, anzi di favorire i suoi nemici (peraltro anche nemici dell’Occidente e degli Usa) furono uno dei tratti caratteristici della presidenza Obama, quando Biden era vicepresidente e Netanyahu già Primo Ministro. Anche allora il segno palese della scelta americana fu la votazione di una risoluzione contro Israele nel consiglio di sicurezza dell’Onu, fatta alla fine del mandato, in un momento ancora più tardo di adesso, quando già Trump aveva battuto la Clinton. Del resto gli uomini chiave di Biden vengono da quella di Obama e fanno il possibile per continuarne le politiche.
• I segnali
La votazione all’Onu era stata preceduta da segnali politici sempre più duri da parte americana: prima l’intervista del leader democratico del Senato Chuck Shumer, che aveva chiesto nuove elezioni in Israele per cacciare Netanyahu – un’interferenza inaccettabile e senza precedenti nelle scelte politiche di un Paese democratico amico. Poi la vicepresidente Kamala Harris aveva fatto sapere che se Israele persisteva a voler sconfiggere Hamas entrando a Rafah “ci sarebbero state conseguenze”. Il segretario di stato Blinken era venuto di nuovo nei giorni scorsi in Israele per “sconsigliare” un’operazione a Rafah per liberare gli ostaggi e sbandare i battaglioni residui di Hamas. Ma si sa, gli ebrei sono un popolo “dalla dura cervice” e istruiti dalla storia a difendersi se vogliono sopravvivere; sicché si ostinano a fare le scelte per garantire la continuità del loro stato e non quelle opportune per far rieleggere agli americani Biden.
• Hamas blocca la trattativa
La prima conseguenza del distacco americano da Israele è l’irrigidimento di Hamas, che ha annunciato subito di rifiutare la proposta di mediazione (ironicamente scritta dagli americani) che Israele aveva accettato per la liberazione di un certo numero di rapiti in cambio di sei settimane di tregua e di un numero dieci volte superiore di terroristi incarcerati, compresi molti assassini. Hamas ora pretende di nuovo la fine della guerra e l’uscita dell’esercito come premessa allo scambio. Nel frattempo è uscito dal negoziato.
• Che cosa accadrà ora
Netanyahu, come aveva preannunciato, ha ordinato il ritiro della delegazione israeliana che era andata a Washington per discutere di soluzioni alternative e “umanitarie” al problema di Rafah. È probabile che a questo punto l’esercito israeliano proceda con l’operazione programmata a Rafah e già la scorsa notte vi sono stati alcuni bombardamenti che potrebbero esserne preludio. L’amministrazione ha parlato spesso di “conseguenze” di una scelta del genere, senza specificare quali. C’è stato già il voto dell’Onu che toglie la copertura diplomatica a Israele, ora potrebbero essere tagliate le forniture militari e in particolare i rifornimenti e i pezzi di ricambio, come hanno fatto diversi altri stati occidentali. Israele lavora già da tempo per diversificare queste forniture. In generale i rapporti peggioreranno. Ma Biden, che si preoccupa soprattutto della sua rielezione, non può prendere una posizione duramente anti-israeliana senza perdere non solo parte dell’elettorato ebraico tradizionalmente democratico, ma anche di quello centrista. I sondaggi mostrano che c’è una grande maggioranza degli americani che appoggia lo Stato ebraico e Trump non ha perso l’occasione di contrastare Biden anche assumendo una posizione molto forte per Israele. Vi saranno poi conseguenze internazionali non esplicite ma importanti. Che gli USA dimostrino di essere un alleato quantomeno ondeggiante anche con chi gli è più vicino allarmerà tutti gli stati che sono dalla sua parte, in Medio Oriente e anche più in là: un costo strategico per gli Usa, che rischia di indebolirne molto il prestigio.
(Shalom, 26 marzo 2024)
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L'astensione americana dà speranza ad Hamas
Il rifiuto degli Stati Uniti di porre il veto alla risoluzione per il cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di lunedì dimostra che Israele deve andare avanti da solo.
L'ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield (C) alza la mano per astenersi dal votare una risoluzione che chiede un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite presso la sede delle Nazioni Unite a New York, il 25 marzo 2024
GERUSALEMME - Tutto quello che c'è da sapere sulla Risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è che Hamas era soddisfatto della sua approvazione. Dopo il voto quasi unanime di lunedì - in cui gli Stati Uniti si sono vergognosamente astenuti - l'organizzazione terroristica, che mira apertamente a distruggere lo Stato ebraico, ha elogiato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per la sua decisione.
Dimentichiamo che Hamas ha pianificato con cura e orgogliosamente eseguito il massacro del 7 ottobre, commettendo le peggiori atrocità contro gli ebrei dopo l'Olocausto. Dimentichiamo che i suoi soldati hanno scelto la festività ebraica di Simchat Torah, che cadeva di sabato, per una sadica furia di abusi sessuali, torture, incendi e rapimenti di uomini, donne e bambini innocenti. Ignoriamo il fatto che Hamas sta ancora tenendo in brutale prigionia 134 sfortunate vittime della loro furia accuratamente pianificata. La semplice verità che Hamas sta maneggiando e usando come arma aggiunta del suo arsenale ormai ridotto è che il mondo non accetta che Israele reagisca, e certamente non vuole che colpisca i palestinesi o i loro sostenitori islamisti a Teheran.
Si può immaginare lo sgomento del capo di Hamas Yahya Sinwar quando la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato, cloni di Obama, all’inizio non solo hanno sostenuto a parole il "diritto di Israele all'autodifesa", ma hanno anche offerto armi per sostenere lo sforzo bellico.
Adesso in una dichiarazione online, il regime omicida che governa la Striscia di Gaza ha chiesto alle Nazioni Unite di "fare pressione sull'occupazione [termine con cui si indica Israele] affinché rispetti il cessate il fuoco e ponga fine alla guerra di genocidio e pulizia etnica contro il nostro popolo".
Forse non aveva considerato il fatto che ci sarebbe stato un prezzo da pagare spingendosi troppo oltre, con stupri di gruppo, bruciature di bambini e altri atti atroci, e con i terroristi che filmano e postano allegramente i loro crimini efferati sui social media.
Tuttavia, la continua negazione di tali atrocità deve averlo galvanizzato. Senza dubbio gli ha fatto piacere che le femministe occidentali siano state nel migliore dei casi silenziose, se non estremamente dubbiose, nella loro risposta a #MeToo.
Entrambe le cose sono servite da perfetto traino per la campagna di propaganda palestinese standard: dipingere la rappresaglia israeliana come un'aggressione. Non è difficile farlo quando si è sostenuti da "giornalisti" di Al Jazeera e da giornalisti della CNN e della Reuters (alcuni dei quali si sono rivelati partecipanti attivi del 7 ottobre).
In effetti, le immagini della distruzione a Gaza, insieme alle produzioni "Pallywood" di "civili" feriti, hanno rapidamente eclissato ovunque i filmati del 7 ottobre nei cuori sanguinanti e nelle menti lavate dal cervello dei disprezzatori di Israele. Anche se questo non ha indotto Washington a rinnegare la sua alleanza con Gerusalemme, ha tuttavia portato a un crescendo di ammonimenti da parte del governo statunitense.
Tra questi, il puntare il dito contro il tipo di bombe che le forze israeliane usano per attaccare le roccaforti di Hamas e il lamentarsi dell'inadeguata importazione di beni umanitari a Gaza. Oggi, l'obiettivo è quello di impedire all'IDF di effettuare un'operazione di terra a Rafah.
A tal fine, la scorsa settimana il Presidente Joe Biden ha chiesto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di inviare a Washington un "team inter-agenzia di alto livello" per discutere le alternative. Per rispetto a Biden e nonostante la sua convinzione che Israele non possa sconfiggere Hamas senza invadere Rafah, Netanyahu ha accettato.
Ha quindi annunciato che avrebbe inviato a breve una delegazione guidata dal ministro per gli Affari strategici, Ron Dermer, e dal capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi. Tuttavia, poco prima del voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha avvertito che avrebbe annullato il viaggio se gli Stati Uniti non avessero posto il veto alla risoluzione.
E meno male che ha mantenuto la sua minaccia. Dermer e Hanegbi sono rimasti a casa, ed è giusto così, perché l'unico motivo dell'invito di Biden era quello di cercare di impedire a Israele di fare ciò che è necessario per vincere la guerra. Questo include la distruzione dei restanti battaglioni di Hamas a Rafah e, si spera, il ritrovamento degli ostaggi.
Questo ci porta ai recenti colloqui di Doha. Secondo notizie non confermate dai media ebraici, nel fine settimana Israele ha accettato un cessate il fuoco di sei settimane, nella prima fase del quale avrebbe rilasciato 700-800 terroristi palestinesi in cambio di 40 ostaggi.
Poiché Hamas sa che può sempre fare un passo avanti con la sua intransigenza, non ha risposto immediatamente. Ha aspettato che l'America facesse passare a pieni voti la risoluzione 2728 prima di rispondere. In modo negativo, naturalmente.
Non che ci fossero speranze che Sinwar potesse ammorbidire la sua posizione negoziale. Dopo tutto, il suo obiettivo finale è quello di espellere l'IDF da Gaza e mantenere il potere che i suoi sanguinari teppisti detenevano fino al 6 ottobre.
E sa che Israele non permetterà che questo accada, indipendentemente dal fatto che Washington sia o meno d'accordo. Ma la mossa degli Stati Uniti gli ha dato una speranza in più. Ha aumentato il suo impegno a confidare nelle sue armi, in senso letterale e figurato.
In un incontro a Tel Aviv, venerdì, Netanyahu ha detto al Segretario di Stato americano Antony Blinken che Israele è pronto a procedere da solo - con o senza il sostegno americano - per invadere Rafah. Quel momento ora è chiaramente giunto.
(Israel Heute, 26 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La crepa che si allarga
La risoluzione passata ieri al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’astensione americana, la quale chiede il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia è un capolavoro di equilibrismo e ipocrisia. Il cessate il fuoco non è subordinato al rilascio degli ostaggi, viene invocato a se stante, in modo da spezzare il vincolo causale che lega i due fatti tra di loro.
Hamas è già andata all’incasso, dichiarando che la liberazione degli ostaggi potrà avvenire solo a condizione che il cessate il fuoco a Gaza sia definitivo.
Israele ha reagito in modo duro, sottolineando come gli Stati Uniti siano venuti meno al loro appoggio in uno dei momenti più difficili che il paese sta affrontando dalla sua fondazione, con una guerra ancora in corso e un numero elevato di ostaggi prigionieri. A evidenziare ulteriormente il disappunto, la delegazione israeliana che sarebbe dovuta partire per Washington ieri sera su esplicito invito di Joe Biden al fine di ascoltare la proposta americana su come colpire Hamas a Rafah senza che Israele lanci la annunciata operazione di terra, è stata stoppata da Benjamin Netanyahu.
Da parte americana ci si è affrettati a dichiarare che la risoluzione non è vincolante e che Israele potrà continuare comunque a perseguire il suo obiettivo a Gaza.
Effettivamente la risoluzione dell’ONU non avrà alcun impatto sulla guerra, il punto non è questo, ma è quello che ormai è chiaro a tutti, mentre continua a fornire ausilio militare a Israele, l’Amministrazione Biden deve rispondere al proprio elettorato a casa e allo scontento crescente di una parte del partito democratico. Dunque si tratta di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non prendere decisioni estreme. Per Joe Biden interrompere la fornitura di armi a Israele mentre continua a farlo nei confronti dell’Ucraina avrebbe un contraccolpo politico ingente. Da una parte accontenterebbe l’ala più estremista del suo partito e l’elettorato islamico ma dall’altra fornirebbe al partito repubblicano e a Donald Trump, che su Israele ha iniziato ad andare all’attacco, un’arma formidabile per colpirlo, ma non gli gioverebbe neanche presso l’opinione pubblica americana in generale a maggioranza a sostegno di Israele.
A Biden tocca quindi barcamenarsi. Non può abbandonare Israele ma deve gestire le esigenze imposte dalla politica interna americana e in più deve promuovere una agenda in linea di continuità con quella degli Stati Uniti (unica eccezione l’Amministrazione Trump) degli ultimi trent’anni, che vede nella nascita di uno Stato palestinese unificato tra Gaza e la Cisgiordania la soluzione di un conflitto che dura dal 1948 ad oggi, nonostante la storia e i fatti evidenzino che il suo nucleo è molto più profondo e radicale di una disputa territoriale.
La collisione tra Stati Uniti e Israele, di cui ci sono stati molti prodromi, è ormai un dato di fatto, e la risoluzione ONU di ieri la certifica, ma non siamo ancora all’acme, quello arriverà quando, finalmente l’esercito israeliano entrerà a Rafah per chiudere la partita con Hamas.
(L'informale, 26 marzo 2024)
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Con amici come questi, Israele non ha bisogno di nemici
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Negli ultimi giorni abbiamo sentito ripetute minacce, come l'avvertimento del Segretario di Stato americano Anthony Blinken al gabinetto di guerra israeliano: "Israele rischia di essere isolato a livello globale se lancia un'offensiva di terra a Rafah". Gli Stati Uniti hanno sottolineato questo avvertimento astenendosi ieri nella votazione del Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione che chiedeva a Israele di chiedere un cessate il fuoco immediato a Gaza. Inoltre, sempre più "governi pro-Israele" stanno voltando le spalle a Israele e minacciano un embargo sulle armi se Israele non seguirà le istruzioni dei governi occidentali. Israele è rimasto completamente sorpreso quando il governo britannico ha lanciato un ultimatum a Gerusalemme qualche giorno fa: "Se Israele vuole ancora armi dal Regno Unito, allora i funzionari della Croce Rossa dovrebbero visitare i terroristi di Hamas arrestati in Israele".
Israele deve decidere su chi contare, sui pagani dei governi occidentali, che consideriamo nostri alleati, o su se stesso. Con Dio, con la sua storia, con il suo popolo e la sua terra. Non si tratta di una finzione biblica, ma di una realtà politica. Questa è la tensione in cui si trova il popolo, soprattutto in questi giorni e sotto questo governo di coalizione. Israele non è forse chiamato a essere una luce per le nazioni? Eppure è proprio in queste settimane che le nazioni ci accecano con i riflettori e irritano il governo di Gerusalemme. Israele deve scegliere tra due amori: tra l'amore di Dio e l'amore delle nazioni. È un dilemma politico!
La visita di Anthony Blinken è stata l'ottava dall'inizio della guerra. L'ebreo americano ha esercitato forti pressioni su Israele affinché abbandonasse la prevista offensiva di terra a Rafah e scendesse a compromessi sullo scambio di ostaggi. Una fonte politica ha affermato che la visita lampo del Segretario di Stato americano aveva lo scopo di convincere il Primo Ministro Benjamin Netanyahu a consentire ai palestinesi della Striscia di Gaza un ritorno sicuro al nord. Questa è la principale richiesta di Hamas nei negoziati per un eventuale accordo sugli ostaggi. Gli obiettivi militari e politici di Israele nella Striscia di Gaza sono visti in modo diverso a Washington e a Gerusalemme. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiarito a Blinken che Israele opererà a Rafah con o senza il sostegno americano. Blinken ha anche avvertito che senza un piano politico per il "giorno dopo la guerra", Israele avrebbe perso la sua legittimità nel mondo. Proprio così, il governo non riesce a decidere cosa fare della Striscia di Gaza dopo la guerra. Vi si costruiranno nuovamente insediamenti ebraici, come vogliono alcuni partner della coalizione? La Striscia di Gaza sarà consegnata a Fatah di Mahmoud Abbas o sarà istituito un nuovo governo palestinese? Forse anche sotto l'amministrazione militare israeliana? Ma perché Israele deve decidere ora, quando l'operazione sul terreno non è ancora stata completata?
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant (al centro) lascia il Dipartimento di Stato dopo un incontro con il segretario di Stato americano Antony Blinken (non nella foto) a Washington, DC, USA, 25 marzo 2024
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant è attualmente a Washington per un colloquio con il suo omologo americano Lloyd Austin. I due si sono già parlati la scorsa settimana e Austin ha invitato Galant a considerare alternative alla prevista operazione di terra israeliana a Rafah. Allo stesso tempo, una delegazione israeliana si sarebbe dovuta recare a Washington su invito del presidente americano Joe Biden per discutere dell'operazione israeliana a Rafah. Tuttavia, in seguito all'astensione degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il viaggio della delegazione è stato cancellato da Netanyahu. Il ministro per gli Affari strategici, Ron Dermer, e il capo del Comitato per la sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi, avrebbero dovuto convincere Washington che Israele aveva deciso a favore di una guerra contro Hamas a Rafah per schiacciare definitivamente i restanti battaglioni di Hamas e allo stesso tempo trovare una soluzione umanitaria per la popolazione civile palestinese. Ora se ne stanno a casa. Bibi chiarisce inequivocabilmente a Washington che non c'è altro modo che schiacciare Hamas a Rafah. "Distruggeremo Hamas ed entreremo a Rafah, nessuno potrà fermarci. Come nei tempi biblici, ci uniremo, combatteremo e sconfiggeremo i nostri nemici", ha detto Netanyahu in un discorso ai soldati nel giorno di Purim. "Così come abbiamo ucciso Haman, uccideremo anche Sinwar!". Dio non ha forse detto: "Quando verrete nella terra che il vostro Dio vi darà, non imparerete a fare secondo le abominazioni di quelle nazioni". Israele sta portando nuovi standard alla terra e alla vita, ma il 7 ottobre ci ha ricordato le atrocità di cui sono capaci le nazioni. I governi occidentali stanno perdendo la pazienza con la guerra di Israele a Gaza e in poche settimane sembrano aver dimenticato le atrocità commesse dai barbari terroristi di Hamas nel sud di Israele. La simpatia occidentale per Israele è svanita nel nulla in poche settimane. La propaganda palestinese di una carestia fittizia nella Striscia di Gaza ha conquistato i media di tutto il mondo. I palestinesi stanno soffrendo nella Striscia di Gaza, ma lo devono principalmente al loro regno del terrore, Hamas. La propaganda palestinese è spesso più efficace in guerra del potente esercito di Israele. Ora i cosiddetti Paesi pro-Israele, come Stati Uniti, Canada, Belgio, Italia, Olanda, Cecoslovacchia, Ungheria e altri, si stanno rivoltando contro Israele. Ciò è dovuto principalmente alle imminenti elezioni negli Stati Uniti, che mettono sotto enorme pressione il Presidente democratico Joe Biden. Egli ha dimostrato di essere troppo favorevole a Israele e questo è negativo per il suo elettorato democratico se vuole vincere le elezioni del novembre 2024 contro il suo arcinemico repubblicano Donald Trump. Biden deve quindi perseguire una politica estera filo-palestinese per riconquistare i suoi elettori. E i governi europei lo sostengono. Gli Stati Uniti, la Cecoslovacchia e l'Ungheria hanno imposto sanzioni contro i coloni ebrei. Canada, Italia e Regno Unito minacciano Israele di un embargo sulle armi. Nei Paesi Bassi, il tribunale ha bloccato la consegna di pezzi di ricambio per i caccia israeliani F-35 e il Belgio ha sospeso il commercio con l'industria della difesa israeliana, oltre all'embargo sulle armi. E poiché Israele non gioca secondo le regole delle nazioni, deve essere sanzionato. "Potremmo perdere i governi occidentali perché non ci consultiamo con loro sul giorno dopo la guerra", ha detto un politico di alto livello al commentatore politico Itamar Eichner. "I governi temono che Benjamin Netanyahu sfrutti politicamente la guerra a Gaza per rimanere al potere. Ma soprattutto i governi occidentali temono l'opinione pubblica dei loro Paesi, che è prevalentemente filo-palestinese. I palestinesi sono percepiti come la parte più debole, il che spinge i politici dell'UE a fare considerazioni interne ed elettorali.
Manifestazione pro-palestinese nel centro di Londra, Regno Unito, il 3 febbraio 2024
Cò che caratterizza la politica europea verso Israele oggi è la crescente voce pro-palestinese nei Paesi europei, di cui i partiti devono tenere conto. Non sono forse gli immigrati arabi nelle principali città europee a scendere in piazza a favore della Palestina? I governi europei hanno paura dei loro stessi musulmani o sono semplicemente troppo ingenui e arroganti per comprendere la crescente realtà. Questo è ciò che determina la politica occidentale nei confronti di Israele oggi. Per questo Israele non dovrebbe invadere Rafah, per questo Israele dovrebbe permettere ai rifugiati palestinesi della Striscia di Gaza meridionale di tornare nella Striscia di Gaza settentrionale e per questo Israele dovrebbe tenere le mani lontane da Hamas. Israele deve decidere a chi dare ascolto, ai governi occidentali che riteniamo nostri amici, o a se stesso. Le nazioni hanno spesso spaventato Israele inutilmente solo per educare o controllare Israele. Non sono sicuro che tutte queste scuse dell'Occidente siano davvero vere. Per anni, le nazioni ci hanno fatto credere che il conflitto israelo-arabo potesse essere risolto solo nel quadro della formula "terra in cambio di pace". Questo è sbagliato. Abbiamo ceduto quasi il 60% del cuore biblico della Giudea e della Samaria ai palestinesi e invece della pace abbiamo ricevuto solo terrore. Inoltre, i governi arabi hanno fatto pace con Israele nonostante il fallimento degli accordi di Oslo. L'ambasciata statunitense è stata spostata da Tel Aviv a Gerusalemme e non è scoppiata nessuna guerra mondiale; al contrario, anche gli Stati del Golfo hanno fatto pace con Israele. Non sono quindi sicuro che tutte le previsioni occidentali su un'operazione israeliana a Rafah siano vere. Il loro interesse non è il nostro interesse e non è l'interesse di Dio, e quindi Israele deve prendere la decisione giusta solo per se stesso e non per le nazioni.
Manifestanti filo-palestinesi protestano davanti al Dipartimento di Stato americano durante l'incontro del ministro della Difesa israeliano Yoav Galant con il segretario di Stato americano Blinken a Washington, DC, USA, 25 marzo 2024
Perché Israele è diventato ripetutamente un pomo della discordia tra le nazioni? Perché Israele viene accusato di cose che altre nazioni tacciono? Perché Israele viene misurato con standard diversi? Perché gli ebrei sono ammirati, ma anche abissalmente odiati? Cosa distingue il popolo di Israele dagli altri popoli? Certo, ci sono molte somiglianze, ma non è questo il punto. Tutti i popoli hanno un proprio carattere e un proprio DNA in termini di mentalità, stile di vita e cultura. L'interesse politico globale per il popolo d'Israele nel nostro tempo e nella storia risiede altrove, nelle azioni dell'Onnipotente con e per Israele. Le crisi politiche con le nazioni, come ai nostri giorni, ricordano al popolo l'alleanza con Dio. Ricordate! L'azione è un'altra cosa. Dio ha scelto Israele perché era l'ultima di tutte le nazioni. Ma non solo per questo, "ma perché il Signore vi ama e manterrà il giuramento fatto ai vostri padri".
(Israel Heute, 26 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Così tradito un Popolo e tutto l'Occidente
di Fiamma Nirenstein
Nella jungla dell’ONU, dove la maggioranza delle risoluzioni di condanna sono dedicate in modo quasi pagliaccesco a Israele, il veto degli USA al Consiglio di Sicurezza ha rappresentato spesso un’ancora morale rispetto al doppio registro, all’eredità sovietica della maggioranza automatica che sempre si realizza in assemblea e nelle commissioni, al doppio standard fisso contro lo Stato Ebraico. E’ stato una diga rispetto alla mancanza di chiarezza morale per cui Antònio Guterres si sente comodo a mettere le atrocità di Hamas sullo stesso piano, uguali alla indispensabile guerra di sopravvivenza di Israele, accusandolo di “punizione collettiva”. Chi ha riflettuto sul 7 ottobre e le sue conseguenze sa che è la più lontana delle intenzioni di Israele.
Come ha detto il ministro degli Esteri Gallant la guerra contro Hamas ha un senso morale: adesso gli USA lo tradiscono tradendo se stessi e tutto l’occidente. Si tratta di distruggere la forza che ha reintrodotto l’odio genocida contro gli ebrei con una strage senza pari nei modi e nei numeri, e si tratta di liberare gli ostaggi. Invece la risoluzione che l’ONU ha votato scatena il biasimo antisemita, cerca di impedire di vincere, scandalosamente non mette in relazione al cessate il fuoco la restituzione degli ostaggi. L’ONU così viene coadiuvato da Biden nel non condannare (non l’ha mai fatto) le stragi e le azioni di Hamas, né richiede in modo convincente la restituzione degli ostaggi. Nemmeno, come ha invece fatto subito per la Russia, ha condannato il terrorismo del 7 ottobre. Dopo la risoluzione Hamas si è congratulata: da questo momento è più fiduciosa di bloccare la guerra a Rafah, Sinwar è incentivato a non alzare le mani, a non proseguire la trattativa, a puntare al rinsaldarsi della sua posizione fra gli alleati che l’Iran dirige nella sua guerra di conquista e che certo ieri hanno festeggiato con gli Hezbollah, gli Houthi, gli islamici che nelle piazze con i filopalestinesi occidentale gridano “dal fiume al mare”. Il muro di difesa è stato rotto dalle vicine scadenze elettorali di Biden, ma il picconamento di Netanyahu scelto come esempio di fedeltà a sinistra, non funzionerà in questo caso: i tre quarti degli israeliani, religiosi e laici, di sinistra e di destra, sanno che per distruggere Hamas occorre entrare a Rafah.
Non è un’opinione, è un dato di fatto. Il ministro Ron Dermer stava arrivando a discutere proprio come farlo in modo accettabile per gli USA. Anche le trattative per i rapiti erano sotto giurisdizione USA. Peccato, errore americano. La visita di Dermer poteva creare un accordo. Biden ha sciupato la fiducia di Israele senza ottenere altro che lo scopo di rafforzare Hamas.
(il Giornale-blog, 26 marzo 2024) ____________________
Non è vero che Biden ha tradito l'Occidente, perché questo è l'Occidente nella sua relazione con Israele. L'Occidente americano difende la "libertà", la sua libertà di decisione dei destini del mondo, non l'esistenza di Israele. E se per la difesa di questa libertà sarà necessario il sacrificio dell'esistenza di Israele, se così sta scritto nella tavola dei destini americana, che così sia. America for ever. M.C.
Con il proseguire della guerra scatenata dalla formazione jihadista palestinese di Hamas il 7 ottobre, le posizioni della totalità dei paesi occidentali, nei confronti di Israele, è mutata significativamente. Si è passati, infatti, da un modesto e doveroso cordoglio di circostanza per le vittime dell’eccidio, perpetrato da Hamas, a una sempre maggiore ostilità verso Israele e gli ebrei di tutto il mondo. Questa condotta è diventata comune sia nelle piazze sia a livello politico (la prima ha indubbiamente condizionato la seconda). Qui ci occuperemo solo dei risvolti politici della guerra.
Dopo il cordoglio, a parte gli Stati Uniti, nessun paese occidentale ha mosso un dito per aiutare concretamente Israele e il suo popolo nella guerra contro Hamas. Nessun paese europeo ha fornito o sta fornendo armi e munizioni a Israele per difendersi, nessuno ha fornito o sta fornendo aiuti di qualsiasi genere per i sopravvissuti dell’eccidio, o per gli oltre 250.000 sfollati israeliani (tra nord e sud del paese) che a distanza di oltre 5 mesi, non possono tornare nelle loro case per condurre una vita normale. In pratica si è ripetuto lo scenario già visto nel 1948 e nel 1973: il popolo ebraico è stato nuovamente abbandonato ma, questa volta, con un’aggravante. L’aggravante è politica: il premio ventilato ai terroristi, consistente nel riconoscimento di uno Stato palestinese da parte della comunità internazionale (compresi gli USA) quando la guerra cesserà. Si tratta senza dubbio un passo avanti rispetto alla formulazione della Risoluzione 242, che chiudeva la guerra dei Sei giorni, o degli Accordi di Oslo. Si è passati, infatti, dal concetto di terra in cambio di pace (principio valido solo per Israele) a quello di eccidio in cambio di riconoscimento statuale. I vecchi princìpi legali e morali come pacta sunt servanda, reciproco riconoscimento, coesistenza, accordo tra le parti appaiono del tutto anacronistici e demodé: oggi, evidentemente, è più comodo e veloce compiere un eccidio e subito dopo, come conseguenza, arriva uno Stato servito su un piatto d’argento. Potrebbe essere un importante precedente per i curdi, i tibetani, i catalani, i baschi ma anche per i corsi, i fiamminghi, gli scozzesi, i nord irlandesi, i tirolesi e tantissimi altri. Ma, a conti fatti, si ha la netta sensazione che questo principio, in voga in tutte le cancellerie Occidentali (anche in Italia da parte del governo “amico” Meloni), valga solamente se una delle due controparti è Israele mentre per nessun altro caso al mondo è preso in considerazione. Perché questo doppio standard? Perché, anche se non espressamente detto, Israele è considerato uno Stato illegale, e come tale deve sempre – e solo lui – concedere qual cosa alla controparte. Tale principio è iniziato prima ancora della nascita dello Stato ebraico: lo si può retrodatare almeno al 1922, quando la Gran Bretagna operò la separazione della Transgiordania dal territorio previsto per il futuro Stato nazionale ebraico. Diventa chiaro che anche in Europa (e negli USA), consciamente o inconsciamente, il popolo ebraico non ha diritto alla propria autodeterminazione men che meno in Terra di Israele. Questa profonda convinzione ha portato ad una vera e propria dissonanza cognitiva (l’elaborazione di schemi mentali in contrasto con i fatti i quali vengono neutralizzati a salvaguardia degli schemi) in merito alla realtà mediorientale. Ne vedremo i tratti principali.
Oggi è convinzione praticamente unanime che se non si è ancora arrivati ad un accordo con i palestinesi è colpa “dell’intransigenza di Netanyahu”. Ma questa affermazione cancella almeno 100 anni di storia precedente nei quali è stata l’intransigenza araba a non permettere nessun accordo. Infatti, tutte le proposte discusse sono, sempre e solo state rigettate dagli arabi (1937, 1947, 1967, 1995, 2000, 2008). Però, oggi, si ha, in Europa e negli USA, la convinzione che se non si trova un accordo è per colpa del “governo intransigente” israeliano di turno, sia che esso sia di destra o di sinistra. Prendiamo ad esempio gli Accordi di Oslo del 1993-1995. Essi furono salutati in Occidente (e dalla sinistra israeliana) come la svolta che avrebbe inaugurato una nuova epoca: la tanta agognata pace sembrava a portata di mano. Ma la realtà dei fatti ha dimostrato che si è trattato di un colossale inganno da parte dei palestinesi che così hanno potuto ottenere una grandissima autonomia (ben maggiore di quella dei tirolesi in Italia che è citata a modello in tutto il mondo) dando solo vaghe promesse in cambio, promesse che non hanno mai mantenuto (rinuncia al terrorismo). Quando gli Accordi di Oslo deragliarono nel 2000 con il rifiuto di Yasser Arafat alla proposta di Ehud Barak, tutta la pressione politica e diplomatica venne riversata unicamente su Israele e non sui palestinesi. In questa circostanza, la dissonanza cognitiva occidentale si palesò in pieno: più gli arabi si irrigidivano nelle loro posizioni più diventava colpa di Israele che doveva fare ulteriori concezioni: altro territorio, liberazione dei terroristi, accettazione di milioni di “profughi”, blocco degli “insediamenti”. Ogni volta che sembrava approssimarsi, gli arabi scientemente alzavano le loro pretese, e tutte le volte, per l’Europa e per gli USA, era Israele che doveva cedere. Questa litania è andata avanti per trent’anni e i frutti di Oslo si sono visti appieno il 7 ottobre. Ma, nonostante l’eccidio compiuto dai palestinesi di Hamas la colpa, ancora una volta, è ricaduta su Israele: il ritiro unilaterale israeliano da Gaza del 2005, ad esempio, è diventato, nelle menti dissonanti occidentali, una finzione. Così Gaza sarebbe ancora “occupata”, sarebbe “una prigione a cielo aperto” e via dicendo. Senza mai spiegare compiutamente però, come da una “prigione a cielo aperto” si possano sparare migliaia di razzi (oltre che fabbricarli o importarli dall’Egitto), ogni anno, verso i civili israeliani oppure costruire 800 chilometri di tunnel in un’area “occupata”. Ogni volta che Israele si è difeso dalle aggressioni palestinesi, è stato inevitabilmente trasformato nell’aggressore ribaltando palesemente la realtà. Un altro aspetto fondamentale della dissonanza cognitiva dell’Occidente è quello relativo al “benessere”. In Occidente si ha da decenni la convinzione che la causa di quasi ogni conflitto risieda nella depressione economica. Quindi, se si coprono di soldi gli indigenti, smetteranno di causare guerre, provocare violenze e terrorismo. Ma è proprio così? No, questa regola dalla fine della Seconda guerra mondiale ha funzionato solo per la Germania e il Giappone dopo che le loro economie erano state devastate a seguito del conflitto, ma in questi due paesi il risanamento economico andò di pari passo con un cambiamento di mentalità. Tale logica (denaro in cambio di pace) in Medio Oriente non ha mai funzionato, è vero il contrario: più soldi sono stati stanziati più il terrorismo e la violenza sono aumentati. Il caso palestinese è emblematico in tal senso: dagli Accordi di Oslo in avanti i palestinesi hanno ricevuto più del doppio dei soldi del piano Marshall, con il quale l’Europa si rimise in piedi dalle distruzioni della guerra, ma la loro propensione al terrorismo anziché diminuire è aumentata a dismisura. A una analoga conclusione è arrivato lo storico Efraim Karsh, in un suo lavoro di ricerca sugli arabi israeliani, nel quale ha evidenziato che tanto più i governi di Israele, a partire dagli anni ’70, hanno finanziato la comunità araba tanto più essa si è radicalizzata fino a fare scoppiare un’autentica rivolta in tutte le città miste, nel maggio del 2021. Quello che l’Occidente si ostina a non volere comprendere è che in Medio Oriente sono ancora profondamente radicate delle regole culturali-religiose che in Europa e negli USA non esistono più e la religione ha un peso ben maggiore del benessere. È la ragione per cui non si può trovare un accordo tra Israele e i palestinesi, perché culturalmente Israele, per gli arabi, non ha legittimità in Medio Oriente e non perché in Israele ci sia benessere e nei territori palestinesi molto meno.
Questo ragionamento vale anche in campo militare. L’Occidente non ha capito, o finge di non capire, che se Israele non vince in modo netto e inequivocabile, come fecero gli Alleati con la Germania e il Giappone, questa guerra contro Hamas, la sua deterrenza militare subirà un colpo mortale e questo porterà, inevitabilmente, a un futuro scontro con una ricostruita Hamas, ma anche con Hezbollah e l’Iran, come fu in Europa dopo la Prima guerra mondiale con la Germania. In Medio Oriente la deterrenza e la forza militare hanno una valenza ben maggiore che in Occidente, dove si crede che non servano, perché dopo quasi ottant’anni di pace, grazie unicamente agli Stati Uniti, non si concepisce più l’uso della forza militare. Invece, al di là dell’orizzonte astratto e ideale del progresso in cui trionferà la pace, nel mondo in cui viviamo, ha ancora un suo enorme peso, come testimonia il caso Ucraina. Analogo ragionamento vale per i compromessi: in Medio Oriente sono visti come debolezza e non con come volontà di pace. I compromessi servono solo alla parte debole per guadagnare tempo, rafforzarsi e attaccare quando si sente sufficientemente pronta per aggredire l’avversario. Questo è quanto accaduto il 7 ottobre. Il ritiro israeliano dalla Striscia, il permesso di ingresso in Israele di decine di migliaia di lavoratori, di malati per le cure, di ricongiungimenti famigliari non sono serviti a niente, così come il costante flusso di materiali e soldi che sono serviti unicamente a Hamas per rafforzarsi e non per trovare un compromesso.
Se la dissonanza cognitiva di cui soffre l’Occidente non verrà curata adeguatamente i danni che ne conseguiranno non saranno solo quelli che esso vorrebbe infliggere a Israele ma esso stesso ne patirà le conseguenze.
Israele: Un cessate il fuoco temporaneo e il rilascio di 700 detenuti palestinesi per liberare 40 ostaggi israeliani
di Luca Spizzichino
Israele ha accettato di rilasciare tra i 700 e gli 800 terroristi palestinesi, tra cui 100 condannati per omicidio, come parte di un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio di circa 40 ostaggi. Lo hanno riferito domenica sera diversi media israeliani, citando funzionari israeliani.
“In questo momento, abbiamo il cinquanta percento delle possibilità di raggiungere un accordo”, ha detto un funzionario israeliano al Times of Israel. Durante i colloqui, che si stanno tenendo a Doha, Israele ha accettato il compromesso proposto dagli Stati Uniti, ha detto domenica un secondo funzionario israeliano al quotidiano israeliano, che da allora è stata inviata a Hamas.
Un accordo quadro concordato da Israele a Parigi il mese scorso prevedeva il rilascio di 400 detenuti nella prima fase dell’accordo. I rapporti suggeriscono che Israele sarebbe disposto a quasi raddoppiare il numero dei detenuti palestinesi in cambio di 40 ostaggi – donne, bambini, malati e anziani – e di sei settimane di cessate il fuoco.
Secondo Channel 12 News, Israele è ora disposto a rilasciare circa 800 prigionieri, tra cui 100 condannati per omicidio, mentre altri media ebraici parlano di 700.
Un funzionario israeliano ha spiegato al Times of Israel che il principale punto critico nei colloqui è stato il numero di detenuti condannati per terrorismo che Israele rilascerà in cambio delle soldatesse in mano ad Hamas.
Secondo Channel 12, Israele ha mostrato anche una maggiore flessibilità, dando la possibilità a circa 2.000 civili palestinesi di tornare nel nord di Gaza a partire da due settimane dopo l’entrata in vigore di un accordo e l’inizio di un cessate il fuoco temporaneo.
Si prevede che la risposta da parte dell’organizzazione terroristica arriverà tra qualche giorno, a causa di problemi di comunicazione con il leader di Hamas Yahya Sinwar, che si ritiene sia nascosto nel sud di Gaza. Funzionari israeliani hanno affermato che la leadership politica di Hamas in Qatar non è in grado di accettare o respingere un accordo senza l’ok di Sinwar, rallentando così i colloqui.
L’arroganza di Sinwar, il leader di Hamas che gestisce i negoziati fra tunnel e pizzini
Si tratta in Qatar, serve il suo assenso dalla Striscia. Un iter di tre giorni. I messaggi impiegano da Doha 72 ore tra andata e ritorno per ottenere l’ok.
di Andrea Nicastro
TEL AVIV - Le ultime tracce (note) dell’uomo più ricercato del mondo sono in una telecamera di sicurezza che i soldati israeliani hanno trovato a metà febbraio a Khan Younis, nel centro della Striscia di Gaza.
Nel solito bianco e nero di queste registrazioni, un miliziano illumina con una torcia elettrica una galleria alta quanto serve per non battere la testa. Lo seguono una donna con il velo e tre bambini tra i 5 e i 10 anni, alcuni usano la luce del cellulare per farsi strada. Chiude la fila
Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza, l’ideatore del blitz divenuto massacro il 7 ottobre. La donna e i bambini sono la sua famiglia.
Sinwar porta una valigetta da medico gonfia, pantaloni larghi, maglietta e ciabatte di plastica. Da sei mesi, ormai, i tunnel sono il suo (e il loro) unico orizzonte. Secondo le Forze di Difesa Israeliane è probabile che
Sinwar non solo continui anche oggi a nascondersi con la famiglia, ma sia anche molto vicino alla prigione di alcuni ostaggi israeliani che usa come scudi umani. Attorno ha una cerchia di miliziani che dovrebbero dargli il tempo di scappare in caso di blitz. Saddam Hussein sfuggì agli americani per 8 mesi. Poi a tradirlo fu un corriere che, torturato, rivelò la fattoria dove si nascondeva il presidente iracheno. Anche lui sottoterra. Sinwar è già in fuga da 6 mesi.
Si dice che abbia abolito le comunicazioni elettroniche, che usi solo «pizzini» come Messina Denaro, latitante per 30 anni. Si dice che si sposti spesso, che solo una persona conosca l’ultimo rifugio, forse il fratello Mohammed. A inseguire i Sinwar ci sono le spie israeliane (Mossad e Shin Bet), ma anche Washington che fa volare sopra la Striscia ogni «orecchio» e «occhio» possibile. I telefonini in mano ai figli potrebbero essere una falla nel sistema di sicurezza così come qualunque «postino». Ora Yahya Sinwar ha imposto che un eventuale accordo di cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi debba avere il suo ok. Le trattative però avvengono a Doha, capitale del Qatar, dove, vista la sfiducia reciproca, i capi di Hamas in esilio stanno in un palazzo, i delegati israeliani in uno vicino e i mediatori vanno avanti e indietro con le carte.
Dopo la decisione di Sinwar quelle carte dovranno volare fino a Il Cairo, attraversare il Canale di Suez e il deserto del Sinai, entrare nella Striscia di Gaza al valico di Rafah e da lì immergersi nella rete dei tunnel fino a Sinwar. Dicono che ci vorrà ogni volta dai due ai tre giorni. Uno sfoggio di efficienza arrogante davanti allo spiegamento di forze nemiche. E se gli 007 avessero un microchip da nascondere nei faldoni? E se satelliti o droni seguissero i messaggeri qatarini? Sinwar ha accettato il rischio. Perché? Il blitz del 7 ottobre l’ha reso famoso, la sopravvivenza in una Gaza distrutta dalle bombe leggendario. Non esiste più una Hamas in esilio e una dentro i tunnel, esiste solo l’Hamas di Sinwar. Si è guadagnato il potere con la spietatezza del blitz del 7 ottobre e col coraggio di restare. Sinwar ogni giorno che sopravvive beffa i servizi segreti più sofisticati del mondo e ogni giorno si avvicina a diventare l’ennesimo «martire» da imitare per generazioni di combattenti. È però un simbolo potente anche per Israele. Tel Aviv ha cercato di indebolirlo facendo girare la voce che era scappato in Egitto, ma se riuscisse ad ucciderlo potrebbe proclamare vittoria. E, quindi, fermare l’invasione. È paradossale: Sinwar ha vissuto per la causa della Palestina, ma oggi più la sua morte che la sua vita può aiutare i palestinesi.
Il 7 ottobre , Hamas e quella “nostalgia” di Auschwitz che esiste in occidente
di Alvin Rosenfeld
L’assalto di Hamas agli israeliani il 7 ottobre non è stato un atto di guerra come normalmente lo consideriamo, ma qualcosa di molto peggio” scrive su Tablet
Alvin Rosenfeld
Alvin Rosenfeld
, accademico americano fra i massimi studiosi mondiali di antisemitismo. “Non abbiamo un termine adeguato per ciò che accadde quel giorno, quindi le persone usano parole come ‘terrorismo’, ‘barbarie’, ‘atrocità’, ‘depravazione’, ‘massacro’ e così via. Tutti hanno ragione, eppure non riescono a catturare la furia scatenata al festival musicale Nova, nei kibbutz e nelle piccole città del sud di Israele. Le persone attaccate in quei luoghi non dovevano solo morire, ma morire tra i tormenti. Oltre alle torture spietate, agli omicidi, ai tagli, agli incendi, alle decapitazioni, alle mutilazioni, agli smembramenti e ai rapimenti, si sono verificati stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale sadica, tra cui il taglio del seno delle donne, le unghie conficcate nelle cosce e nell’inguine delle donne, proiettili sparati nelle loro vagine e persino rapporti con cadaveri femminili. Inimmaginabile? Per la maggior parte delle persone normali, sì. Ma prima di entrare in Israele, agli assassini di Hamas è stato detto di ‘sporcarli’. Ed è esattamente ciò che molti di loro hanno fedelmente fatto. Se fosse possibile racchiudere tutto il male di quel giorno in una sola immagine, sarebbe quella del sequestro di una giovane donna israeliana, Naama Levy, 19 anni, scalza, picchiata e insanguinata, con le mani legate dietro la schiena, il cavallo dei suoi pantaloni della tuta sporchi, forse per essere stata violentata, trascinata per i capelli sotto la minaccia di una pistola in un’auto di Hamas e portata a Gaza per subire un destino indicibile tra i suoi rapitori. I suoi aggressori hanno filmato ogni secondo del suo calvario; e mentre si guardano i filmati in cui viene portata via, si vedono folle vicine gridare ad alta voce ‘Allah-hu Akbar’ – Allah è il più grande – un grido di vittoria che offre la sanzione religiosa al trattamento maligno di Naama Levy e di innumerevoli altre persone sequestrate, massacrate e rapite in quel giorno orribile.
Tutte le guerre causano sofferenze umane, ma le crudeltà inflitte agli israeliani il 7 ottobre superano di gran lunga ciò che normalmente accade quando gli eserciti entrano in guerra. Le azioni di Hamas avevano uno scopo diverso: non la conquista, ma l’umiliazione deliberata degli ebrei da parte di persone che li detestavano e che avevano giurato di degradarli e disumanizzarli prima di ucciderli. Per chi ha familiarità con la storia ebraica, vengono subito in mente le violenze di massa perpetrate contro gli ebrei a Kishinev nel 1903, così come il Farhoud in Iraq nel 1941 e la selvaggia decimazione delle comunità ebraiche ucraine da parte di Chmielnicki a metà del XVII secolo. Con il ricordo di quei massacri precedenti rivissuto, il 7 ottobre ha immediatamente evocato la parola ‘pogrom’.
Ma come è potuta verificarsi una simile catastrofe nell’Israele di oggi? L’esercito del paese è stato acclamato come uno dei più forti al mondo ed era considerato invincibile. Eppure, il 7 ottobre, non è riuscito a proteggere il suo confine meridionale e a prevenire lo spietato attacco contro gli ebrei nell’area di Gaza. In risposta alle sanguinose azioni di Hamas, una donna israeliana ha riassunto le reazioni di praticamente ogni ebreo nel paese e di milioni di altri all’estero quando ha detto, in modo semplice e incontrovertibile: “’I peggiori incubi di ogni israeliano si sono avverati’. Il 7 ottobre 2023 è stato il giorno più distruttivo di violenza di massa contro gli ebrei dalla fine dell’Olocausto. La carneficina compiuta quel giorno, lungi dall’essere una conseguenza della guerra, è stata un’esibizione orgiastica e religiosamente sanzionata di sfrenato odio verso gli ebrei. Non si può cominciare a capirlo ignorando la Carta di Hamas e gli altri insegnamenti islamici che rendono Hamas l’organizzazione che è e la ispirano a fare ciò che fa. Hamas nasce come ramo dei Fratelli Musulmani. È ed è sempre stata un’organizzazione jihadista, che vede l’esistenza dello stato di Israele come un’intollerabile intrusione nel dominio dell’Islam (‘dar al-islam’) e si impegna a rimuovere Israele con qualunque mezzo necessario. Il preambolo della Carta di Hamas dichiara che ‘Israele esiste e continuerà ad esistere finché l’Islam non lo cancellerà, proprio come ha cancellato altri prima di lui’. Il ‘problema palestinese’, si afferma, ‘è un problema religioso’ e non è suscettibile di una soluzione politica. L’unico modo per ‘alzare la bandiera di Allah su ogni centimetro della Palestina’ è attraverso la ‘jihad’, una guerra santa. Questo è un ‘dovere per ogni musulmano, ovunque si trovi’.
Come risultato del suo successo nell’invadere Israele il 7 ottobre e nell’uccidere e catturare così tanti ebrei, Hamas ha incitato le passioni di molti nel più ampio mondo arabo e musulmano e, cosa allarmante, ben oltre. In tal modo, ha enfatizzato la lettura islamista del conflitto arabo-israeliano come essenzialmente un conflitto ebraico-musulmano. La maggior parte delle persone in occidente vede il problema come fondamentalmente di natura politica e territoriale. Questo è vero, ma solo in parte. Rappresentato da Hamas, dalla Jihad islamica, da Hezbollah, dagli Houthi nello Yemen e dalla Repubblica islamica dell’Iran (lo sponsor di tutti gli altri), è anche religioso e nel suo cuore risiede una fantasia annichilazionista di uccidere ebrei e porre fine allo stato ebraico. Hamas e i suoi alleati non cercano una soluzione a due stati, ma una ripetizione della Soluzione Finale. La loro follia omicida brutalmente riuscita il 7 ottobre è stata una prova stravagante per quell’obiettivo più grande, un genocidio. Dove va a finire Israele? Proprio adesso, in guerra con Hamas a Gaza e in una battaglia ribollente con Hezbollah nel nord che potrebbe rapidamente esplodere in una guerra su vasta scala e ancora più spaventosa. Ciò che è in gioco, come la intende la maggior parte degli israeliani, non è altro che la sopravvivenza dello stato stesso. Lo hanno detto i portavoce di Hamas. Il 24 ottobre Gazi Hamad, parlando in qualità di rappresentante di Hamas a una stazione televisiva libanese, ha dichiarato che l’attacco del 7 ottobre ‘è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza, una quarta… finché Israele non sarà annientato’. L’Iran da tempo ha giurato di annientare ‘l’entità criminale sionista’ e ha inciso su alcuni dei suoi più recenti missili balistici le parole ‘Morte a Israele’ in grassetto lettere ebraiche. Ciò che è nuovo qui non sono le minacce contro Israele ma la determinazione a metterle in atto e la capacità di farlo. La riuscita penetrazione di Hamas nel sud di Israele e l’estrema violenza che ha dimostrato non hanno precedenti nella storia israeliana. Il paese è stato traumatizzato quel giorno e rimane traumatizzato, rendendo il 7 ottobre una data ormai congelata nel calendario nazionale. La maggior parte del mondo è andata avanti, ma per gli israeliani ogni giorno resterà il 7 ottobre finché tutti gli ostaggi non saranno tornati a casa da Gaza, Hamas non sarà disarmata militarmente e il suo obiettivo di annientare Israele sarà definitivamente annullato. Se Israele riuscirà a raggiungere questi obiettivi è una questione aperta. Ciò che è chiaro è che oggi gli israeliani si sentono seriamente delusi dai loro leader nazionali e militari, meno sicuri e molto più vulnerabili rispetto a prima del 7 ottobre.
Sebbene le circostanze esistenziali degli ebrei che vivono fuori Israele siano molto diverse, a livello emotivo e psicologico anche loro sono stati scossi dai recenti sviluppi. Le passioni anti-israeliane scatenate nelle manifestazioni di strada, nei campus universitari e sui social media hanno accentuato le già risorgenti manifestazioni di aperto odio verso gli ebrei e scosso un senso di sicurezza precedentemente assunto. Gli studiosi accademici continueranno a discutere se l’antisionismo e l’antisemitismo siano fenomeni simili o separati, ma per la maggior parte degli altri i legami tra l’odio verso Israele e l’odio verso gli ebrei sono evidenti. Le ragioni sono chiare: il diffuso e impenitente marchio di Israele come uno stato di apartheid, genocida e persino nazista – accuse diffamatorie che erano in ampia circolazione ben prima del 7 ottobre – si stanno rapidamente normalizzando. Lo stesso vale sia per l’ostilità verbale che fisica verso gli ebrei.
E’ anche evidente quanto segue: non ci sarà futuro ebraico degno di questo nome senza lo stato di Israele. Attualmente, qualcosa come il 47 per cento degli ebrei mondiali vive in Israele. Ciò significa un ebreo su due. Se Hamas, Hezbollah, l’Iran e i loro alleati riuscissero mai a liquidare Israele, la perdita sarebbe incommensurabile e irrecuperabile. La maggior parte degli ebrei ancora vivi altrove sarebbero fisicamente in pericolo, psicologicamente traumatizzati e spiritualmente indeboliti fino al punto di collassare. Questa avrebbe potuto essere la condizione ebraica dopo l’Olocausto, se non fosse stato per la fondazione di Israele, avvenuta solo tre anni dopo la liberazione dei campi di sterminio, un atto di rinascita collettiva che dimostrò un livello di indipendenza nazionale. Hamas ha deciso di invertire la situazione con la massima forza possibile il 7 ottobre. Le sue azioni omicide quel giorno avevano lo scopo di umiliare e uccidere gli ebrei e mobilitare altri per porre fine collettivamente allo stato ebraico, un obiettivo strategico che ricorda alcune parole memorabili dello scrittore ebreo ungherese e sopravvissuto all’Olocausto, Imre Kertész: ‘L’antisemita della nostra epoca non detesta più gli ebrei; vuole Auschwitz’. Gli antisemiti più appassionati di oggi continuano a detestare gli ebrei e, proprio per questo motivo, vogliono Auschwitz.
Se gli israeliani non erano pienamente consapevoli di quelle odiose passioni prima del 7 ottobre, sicuramente le sono adesso. Sanno che un Olocausto è troppo e si impegnano a fare tutto il necessario per assicurarsi che non si ripeta. Hanno bisogno e meritano tutto il sostegno che possiamo dare loro”.
Domenica scorsa, nella città di Gaza si è verificato un evento quasi incredibile. Fedeli cristiani hanno tenuto una processione davanti all'unica chiesa cattolica di Gaza in occasione della Domenica delle Palme, mentre intorno a loro infuriava la guerra. Tra le altre cose, è stata recitata una preghiera per la pace.
La cerimonia della Domenica delle Palme si è svolta nel cortile della "Chiesa della Sacra Famiglia". Intere famiglie con bambini e anziani si sono riuniti per la funzione che segna l'inizio della Settimana Santa.
Wadie Abu Nasser, portavoce del Consiglio dei leader della Chiesa cattolica di Gerusalemme, ha spiegato in un'intervista a Israel Heute:
"È davvero inimmaginabile che questa cerimonia abbia potuto avere luogo. Si è svolta sul terreno della chiesa. Quindi non in città, ma davanti alla chiesa. Le persone sono praticamente rinchiuse nel terreno della chiesa. C'è un cortile e diversi edifici intorno alla chiesa e le persone, come si può vedere nelle foto, sono all'interno del terreno, non fuori del terreno.
Naturalmente, la gente vive in una realtà molto, molto povera. Soffrono. Non hanno abbastanza da mangiare, non hanno abbastanza medicine. Le persone devono essere curate ed è difficile ottenere cibo a sufficienza. Si lamentano con me che l'aiuto che arriva loro, che è troppo poco e insufficiente. Sono tempi molto, molto difficili".
Ma i cristiani di Gaza non vogliono perdere la speranza, ha sottolineato Abu Nasser.
"Si tratta di mantenere la speranza, questo è il punto, e la nostra speranza è nel nostro Signore. La situazione è molto difficile. Ma la gente non si arrende. È importante mantenere la fede e la speranza nei cuori delle persone. È questo che li mobilita. Parlo con loro quasi ogni giorno. Cerchiamo di mantenere l'ottimismo nonostante tutte le sfide".
La chiesa nel nord della Striscia di Gaza si trova a breve distanza dall'ospedale Al-Shifa, dove l'esercito israeliano sta conducendo un'operazione per smantellare Hamas.
(Israel Heute, 25 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La criminalizzazione di Israele e l’obiettivo da raggiungere
di Niram Ferretti
Quasi sei mesi di martellante propaganda anti-israeliana sono più che sufficienti per la più forsennata demonizzazione di Israele che si ricordi. Sbiadiscono, al confronto, le critiche e le accuse del 2009 quando Israele colpì Gaza durante l’operazione Piombo Fuso, o quelle del 2014, quando ci fu l’ennesimo conflitto. Quello a cui si è assistito e si assiste oggi non ha alcun confronto con i conflitti precedenti.
Per la prima volta nella storia, un paese che ha subito un eccidio vero, che, se fosse stato possibile estenderlo su larga scala con i mezzi necessari, sarebbe diventato un genocidio, realizzando il programma che Amin al Husseini, il Mufti di Gerusalemme, avrebbe voluto attuare negli anni ’30, è stato condotto davanti a un tribunale internazionale da uno Stato colluso con i perpetratori dell’eccidio, accusandolo di genocidio.
Nemmeno l’estro grottesco di
Friedrich Dürrenmatt
Friedrich Dürrenmatt
avrebbe potuto immaginare tanto, ma è accaduto. Nonostante i numeri, oltretutto palesemente falsi, forniti da Hamas, attestino inequivocabilmente che una volta sottratti i jihadisti morti, i civili che hanno perso la vita non sono neanche l’uno per cento dei residenti della Striscia, si urla al genocidio, annientando il senso specifico della parola, riducendola a nonsenso.
Si è voluto e si vuole fare apparire Israele come il più efferato e criminale Stato sulla terra, dimenticando ogni altra guerra, ogni altra sua vittima civile, facendo apparire l’operazione militare a Gaza causata da una aggressione la cui barbarie è già negli annali degli orrori della storia, come una vendetta senza pari, una orrenda rappresaglia, mentre è una guerra, è la risposta inevitabile a un attacco subito, ed è una risposta che è vincolata come mai altra prima d’ora da codici e restrizioni umanitarie che nessun altro Stato in guerra si sarebbe autoimposto o si sarebbe fatto imporre. Ma tutto questo deve sparire dalla scena, Israele deve essere messo con le spalle al muro, deve essere costretto costantemente a giustificarsi, non davanti alla Corte dell’Aia ma davanti al tribunale internazionale, che non è quello fanatizzato delle piazze dove si inneggia alla distruzione dello Stato ebraico, alla “liberazione” della “Palestina” da ogni ebreo, Judenfrei, ma quello delle Cancellerie europee e dell’amico americano, che progressivamente si sta scollando dal sostegno, continuando ad assistere militarmente Israele ma, al contempo, aggregandosi al coro delle reprimende.
Su tutti troneggia l’ONU. Nessuna sorpresa. È dal 1967 in poi che ha fatto della criminalizzazione di Israele uno dei suoi pilastri, e oggi, sotto la presidenza dell’attuale segretario, il portoghese Guterres, è giunta a un acme parossistico di accuse che rasentano per eccesso e persistenza la caricatura.
In Egitto, al confine con Gaza, Guterres ha lamentato oggi, dopo avere contestualizzato l’eccidio del 7 ottobre, giustificandolo con il mito dell’occupazione, la bancarotta morale di Israele, perché i camion che devono entrare a Gaza portando viveri e rifornimenti, sono fermi al valico, senza una sola parola di condanna per i comprovati saccheggi dei beni da parte di Hamas, senza spiegare che il loro transito è dovuto a necessità logistica. Basta la condanna, a seguire quella di Joseph Borell, il quale, in linea con i libelli del sangue medievali che accusavano gli ebrei di avvelenare i pozzi, accusa Israele di affamare intenzionalmente la popolazione.
Guterres non si è scordato (come poteva?) di dichiarare che l’annunciata operazione militare israeliana a Rafah, dove si trovano gli ultimi quattro battaglioni di Hamas, sarebbe un disastro umanitario, accodandosi al coro unanime che ha, ormai, come corifeo principale l’Amministrazione Biden.
Ma, come è chiaro a chiunque sia dotato di buonsenso, è solo eliminando i battaglioni residuali che si trovano a Rafah e, idealmente, anche i loro capi, che Israele potrà mettere fine al dominio incontrastato di Hamas all’interno della Striscia. Poi, sarà necessario restarvi per il tempo necessario a bonificare il territorio dai terroristi ormai ridotti a gruppuscoli smembrati.
sraele non è lontano dalla vittoria, nonostante il baccano causato dalla propaganda a lui contraria, nonostante tutti gli sforzi concentrati per impedire che abbia corso, sforzi soprattutto sostenuti da parte occidentale, perché dietro le quinte, come è loro costume, molti stati arabi, in testa l’Arabia Saudita e di seguito gli Emirati e l’Egitto, sono in attesa che Israele faccia il lavoro sporco che loro non potrebbero mai fare.
Volare in Israele costa caro, ma le compagnie aeree stanno ritornando
Gli esperti del settore esortano il governo a incentivare le compagnie aeree a riprendere i servizi e le frequenze di volo come parte di un piano di recupero postbellico per l’industria del turismo Con l’avvicinarsi della Pasqua e dell’estate, i prezzi dei viaggi aerei stanno salendo alle stelle, mentre i vettori stranieri faticano a riprendere gradualmente il servizio verso Israele, nonostante i continui combattimenti con Hamas a Gaza. Quando è scoppiata la guerra dopo l’assalto del gruppo terroristico del 7 ottobre nel sud di Israele, quasi tutte le principali compagnie aeree internazionali hanno sospeso i voli per Tel Aviv. Ma dall’inizio dell’anno, con gli attacchi missilistici da Gaza verso Israele in gran parte diminuiti, alcuni vettori stranieri hanno ripreso le loro rotte verso Israele con un orario ridotto, mentre altri hanno ritardato o indicato che intendono iniziare i voli verso l’Aeroporto Internazionale Ben-Gurion nelle prossime settimane. I prezzi dei biglietti aerei da e per Israele sono più che raddoppiati a causa della mancanza di offerta, della scarsa concorrenza, dell’aumento del premio assicurativo di guerra e dell’aumento della domanda. I rappresentanti dell’industria aeronautica e gli operatori turistici chiedono al governo israeliano di elaborare una tabella di marcia per incentivare le compagnie aeree a riprendere i servizi e ad aumentare le frequenze dei voli, nell’ambito di un piano strategico che contribuisca ad avviare la ripresa postbellica dell’industria turistica e dell’economia nel suo complesso. “Tenendo conto del fatto che l’aviazione gioca un ruolo cruciale nello sviluppo economico di un Paese e che giocherà un ruolo cruciale nella ripresa dell’economia israeliana dopo la guerra, ci si aspetterebbe che il governo israeliano sostenesse o incoraggiasse in modo proattivo un numero sempre maggiore di compagnie aeree a volare in Israele e sostenesse ulteriormente l’attività dei vettori israeliani”, ha dichiarato Kobi Zussman, country manager per Israele dell’International Air Transport Association (IATA). “Naturalmente, finché siamo in uno stato di guerra, tornare alle normali operazioni è difficile, ma dobbiamo pensare al giorno dopo la fine della guerra e a come Israele vuole riportare i turisti”. La guerra è scoppiata il 7 ottobre, quando Hamas ha inviato migliaia di terroristi da Gaza verso il sud di Israele, dove hanno compiuto una furia senza precedenti, uccidendo circa 1.200 persone, per la maggior parte civili, e rapendone 253. In risposta, Israele ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti per unirsi ai combattimenti e ha evacuato ampie zone di confine tra Gaza e il Libano, con la chiusura delle attività commerciali e la permanenza a casa sotto una pioggia di razzi, mentre il Paese passava a un assetto di guerra. La guerra a Gaza ha avuto un pesante impatto sull’economia, che negli ultimi tre mesi del 2023 ha subito una contrazione annua del 19,4% rispetto al trimestre precedente, a causa del calo della spesa per i consumi, del commercio e degli investimenti e dell’arresto del turismo. Complessivamente, l’economia si è espansa solo del 2% nel 2023, dopo una rapida crescita del 6,5% nel 2022. Poiché i vettori internazionali hanno sospeso la maggior parte dei servizi verso Israele nei giorni successivi all’attacco del 7 ottobre, il traffico passeggeri è crollato, con un calo del 78% a novembre e del 71% a dicembre, secondo i dati dell’Israel Aviation Authority (IAA). Per mantenere i cieli aperti, Israele ha approvato 6 miliardi di dollari in garanzie assicurative per le compagnie aeree israeliane, consentendo alla compagnia di bandiera El Al Airlines, così come ad Arkia e Israir, di continuare a rimpatriare gli israeliani dall’estero e di contribuire a riportare a casa i soldati di riserva. Degli oltre 150 vettori stranieri che volavano in Israele prima dello scoppio della guerra, solo circa 50 hanno ripreso a operare in Israele quest’anno. “Siamo passati da circa 650-700 voli in entrata e in uscita al giorno prima della guerra a 150-250 al giorno”, ha detto Zussman. Tra i vettori europei, la tedesca Lufthansa e le sue affiliate Austrian Airlines e Swiss hanno ripristinato alcuni voli per Tel Aviv con un orario ridotto a gennaio, seguite da Air France, mentre British Airways ha annunciato che riavvierà alcuni servizi dal 1° aprile. Tra le compagnie aeree statunitensi, United Airlines ha iniziato a volare a Tel Aviv da New York all’inizio di marzo. Il vettore ha dichiarato che valuterà la ripresa dei servizi da San Francisco, Washington e Chicago in autunno. Delta Air Lines ha annunciato a marzo l’intenzione di ripristinare i voli giornalieri per Tel Aviv da New York a giugno. “Delta ha ritardato la ripresa ancora e ancora e finché non accadrà non ci crederò”, ha dichiarato Mark Feldman, amministratore delegato di Ziontours Jerusalem. “La maggior parte delle compagnie aeree non sta tornando con un numero sufficiente di rotte, in particolare verso il Nord America e altre destinazioni a lungo raggio”. “I voli sono prenotati per l’80% da israeliani – storicamente erano il 55% – quindi tutto è falsato e questo è il motivo per cui i prezzi dei biglietti sono fuori da ogni logica”, ha detto Feldman. Tra i vettori low-cost, la compagnia aerea ungherese Wizz Air ha ripreso i voli su rotte selezionate da e per Tel Aviv questo mese e la britannica EasyJet ha in programma di riavviare i servizi da e per Israele il 25 marzo. Nel frattempo, il vettore low-cost irlandese Ryanair ha sospeso nuovamente i voli da e per Tel Aviv, a partire dal 27 febbraio, un mese dopo aver ripreso le operazioni verso Israele con un orario ridotto. Ryanair ha dichiarato che la chiusura del Terminal 1, utilizzato principalmente dalle compagnie aeree charter ed economiche e per il traffico aereo nazionale, l’ha costretta a utilizzare il Terminal 3, che applica tariffe più elevate. “Non si tratta di COVID, il resto del mondo vola”, ha detto Feldman. “Non è che Ryanair stia parcheggiando i suoi jet in qualche campo polveroso – possono usarli per altre destinazioni per fare soldi, quindi perché dovrebbero venire in Israele?”. Tra i vettori stranieri che hanno sospeso i voli verso Israele fino a nuovo avviso ci sono Cathay Pacific, Air Canada, Virgin Airlines, Turkish Airlines e Pegasus Airlines. “Il governo deve intervenire con una strategia per motivare le compagnie aeree a venire in Israele e mantenere aperte le rotte, soprattutto per quelle compagnie che non volano, e dare loro una rete di sicurezza per il primo mese o due – aiutarle a iniziare e da lì decollare”, ha detto Yossi Fatael, direttore generale dell’Associazione degli operatori turistici in entrata di Israele. “Dobbiamo incentivare l’arrivo delle compagnie aeree, come stanno facendo i nostri vicini Giordania ed Egitto, anch’essi colpiti dalla guerra, e fornire assistenza, ad esempio, per l’assicurazione dei turisti e delle compagnie aeree straniere”, ha chiesto Fatael.
• Guardare ai vicini
La guerra a Gaza, giunta al sesto mese, ha avuto un effetto a catena sui viaggi e sul turismo in altri Paesi del Medio Oriente, soprattutto in Egitto e in Giordania, dove le prenotazioni dei voli sono diminuite e gli operatori turistici hanno segnalato cancellazioni. In risposta, l’Egitto sta fornendo incentivi per sostenere l’industria turistica e attirare le compagnie aeree a volare verso destinazioni selezionate, tra cui Sharm el-Sheikh, e rimborsare i programmi di marketing dei tour operator. Secondo un rapporto di S&P Global, nel 2023 il turismo contribuirà per il 26% alle entrate delle partite correnti del Libano. Per la Giordania e l’Egitto, la cifra era rispettivamente del 21% e del 12%, e per Israele del 3%. Nel 2023, Israele ha visto 3,01 milioni di ingressi di turisti, che hanno iniettato 17,7 miliardi di NIS (4,8 miliardi di dollari) nell’economia. Sia Zussman che Fatael hanno suggerito che Israele potrebbe offrire alcuni incentivi alle compagnie aeree sotto forma di riduzione delle tasse aeroportuali e assistenza per i premi assicurativi elevati. “Si tratta di qualcosa che non è fuori dal comune nel mondo dell’aviazione e che potrebbe contribuire a stimolare l’attività economica”, ha dichiarato Zussman. “È qualcosa che ci saremmo aspettati di vedere in Israele, ma non vediamo alcuna intenzione o desiderio in tal senso”. Zussman ha citato la Grecia come esempio di un Paese che offre ai vettori internazionali sconti sui diritti aeroportuali per volare verso le isole greche durante l’inverno o nei mesi non di punta per incrementare il traffico passeggeri. Un portavoce della IAA ha dichiarato che le tariffe aeroportuali in Israele sono già tra le più basse al mondo e che i vettori stranieri stanno gradualmente tornando nel Paese, ma i turisti sono lontani a causa della guerra in corso. Il Ministero dei Trasporti ha dichiarato che sta valutando la riapertura del Terminal 1 delle compagnie low-cost nelle prossime settimane. Nel frattempo, la IAA è riluttante a riaprire il terminal, a causa del basso traffico di passeggeri e della carenza di personale, in parte dovuta al richiamo dei soldati di riserva durante i combattimenti. Zussman ha avvertito che, quando i vettori stranieri ridurranno o interromperanno i loro servizi verso Israele, assegneranno i loro aerei ad altre destinazioni più attraenti. Pertanto, ha esortato, il governo deve agire ora con incentivi e sostegno per garantire un ritorno significativo dei vettori stranieri nel dopoguerra. “Nel momento in cui le compagnie aeree non sono in grado di volare verso una certa destinazione, trovano destinazioni altrettanto vantaggiose, e ci vogliono mesi per riportare indietro l’orologio”, ha detto Zussman. “Per incoraggiare l’attività economica e vedere i turisti tornare in Israele, il governo deve elaborare un piano per incoraggiare sempre più compagnie aeree a operare rotte verso Tel Aviv”.
Chef Rubio e il professor Orsini indagati per odio razziale: «Propaganda antisemita»
Dai post sui social al coltello “anti-sionista”, cosa è successo. La denuncia della comunità ebraica di Roma: la procura avvia un’inchiesta.
Dal « coltello antisionista con manico in legno d’ulivo» pubblicato sull’ex Twitter da chef Rubio, al post del professore Alessandro Orsini che l’8 ottobre definisce il massacro ordito da Hamas «una rivolta» inevitabile. La comunità ebraica di Roma ha presentato il 24 gennaio scorso due distinte denunce-querele alla questura della Capitale nei confronti di Gabriele Rubini (in arte Rubio) e del docente universitario in sociologia del terrorismo, «per plurime e reiterate condotte integranti i reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa» e per diffamazione aggravata.
• IL CASO Il presidente e legale rappresentante della comunità ebraica romana, Victor Fadlun, assistito dall’avvocato Roberto De Vita, ha chiesto inoltre l’intervento della polizia postale «al fine di segnalare e far richiedere a Facebook, X e YouTube la chiusura dei profili e delle pagine» dello chef e del professore, considerato che «i loro messaggi ottengono migliaia di visualizzazioni e un altissimo numero di “repost” e citazioni» dei follower. Il pm della Procura capitolina Erminio Amelio ha aperto due fascicoli e iscritto entrambi nel registro degli indagati per i reati ipotizzati. Ora saranno gli accertamenti affidati alla polizia giudiziaria a verificare se ci siano gli estremi per sostenere un eventuale giudizio nei loro confronti.
• LA VICENDA Rubio e Orsini avrebbero contribuito a diffondere tesi e idee «manifestatamente discriminatorie nei confronti del popolo israeliano - si legge nelle denunce-querele - anche mediante la sovrapposizione-confusione tra concetti diversi (il governo israeliano, lo Stato di Israele, “l’amico ebreo”, il sionismo in generale), incoraggiando altresì la propaganda di pregiudizi antisemiti e la ripulsa violenta contro gli ebrei». L’8 ottobre scorso, l’indomani dell’attacco di Hamas al rave party nel deserto del sud di Israele in cui sono stati uccisi centinaia di civili e altri sono stati presi in ostaggio, il professor Orsini pubblica una serie di post in cui definisce il primo ministro israeliano «un terrorista di Stato» e il suo governo «una delle dittature più brutali e razziste del mondo». Poi, si rivolge direttamente a lui, scrivendo così: «Caro Netanyahu, ma se tu massacri un popolo e i tuoi soldati stuprano le sue donne; e se nessuno ti punisce per i tuoi crimini contro l’umanità, ma cosa ti aspetti che accada se non una rivolta? Ma il cervello te lo sei bevuto tutto o è rimasto un brandello funzionante?». «Nel caso del professore Orsini c’è un’opinione chiaramente animata da un pregiudizio antisemita nei confronti dello Stato di Israele - si legge nella denuncia - ma, dopo il 7 ottobre, la reiterata e costante ripetizione di determinati pensieri, anche attraverso il sapiente accostamento di fatti non veri con fatti veri e di elementi travisati, mira a creare una vera e propria giustificazione delle operazioni terroristico-stragiste di Hamas, attribuendo agli israeliani e agli ebrei in quanto tali la responsabilità nella causazione degli eventi di tale gravità. Ed è bene notare e sottolineare come il professore Orsini compia questa operazione il 7 e l’8 ottobre, ben prima della reazione militare israeliana». A questi «post istigatori» - secondo la comunità ebraica di Roma - seguono commenti razzisti dei follower: «i davidiani sono il cancro del mondo», «serve l’atomica», «in pasto ai lupi», «penso che sia arrivato il momento di fare pulizia in Occidente», «penso che i giudei dovrebbero andare tutti in Israele, così per non mischiarsi con i subumani», «un reich nasista», «peccato che sia scampato ai forni crematori nazisti (rivolto all’ex presidente della comunità ebraica capitolina Riccardo Pacifici, ndr)».
• L'ARMA MOSTRATA DA RUBIO Vengono poi analizzati nella seconda denuncia i post pubblicati da Rubini, che si autodefinisce “un cuoco non convenzionale”: «Tutti i commenti, soprattutto quelli successivi al 7 ottobre, sottolineano ed evidenziano il concetto di sionismo= terrorismo». Lo scorso 23 dicembre Rubio pubblica su X (ex Twitter) la foto di un adesivo con scritto «Hamas resistenza», con il seguente commento: «Le strade sono nostre, la Palestina tornerà libera e il sionismo verrà bandito dal mondo». Tre giorni dopo scrive sullo stesso social: «Chiedere il cessate il fuoco a dei terroristi assetati di sangue è da co...ni naif. Chiedereste a una metastasi tumorale di non espandersi? No, appunto. La colonia d’insediamento illegale sionista va smantellata, i suoi sostenitori isolati e il sionismo bandito dal mondo». Poi, il 10 gennaio, pubblica la foto del graffito fatto con lo spray «Polimeni sionista», e aggiunge: «Nel frattempo dalla Sapienza di Roma ci giungono verità sui muri. Fuori “Israele” dagli atenei, fuori gli accademici che se la fanno con la colonia d’insediamento sionista». Ma il culmine, secondo i denuncianti, viene raggiunto quando il primo giugno scorso lo chef pubblica le foto e un video di un pugnale con doppia lama che viene rigirato tra le mani, con la seguente didascalia: «coltello antisionista con manico in legno d’ulivo» (albero sacro nella tradizione ebraica). Tanto da indurre il legale della comunità ebraica a presentare a febbraio un’integrazione alla denuncia, per questa frase giudicata «gravissima e pericolosissima», «che assume ulteriore e autonoma rilevanza in termini di pericolosità istigatoria oltre che discriminatoria per odio antisemita».
(Il Messaggero, 23 marzo 2024) ____________________
Viene da chiedersi come ma il FB, sempre prontissimo a bloccare, per periodi più o meno lunghi, sostenitori di Israele che hanno postato frasi corrispondenti alla verità, non abbia mai bloccato i profili di questi due antisemiti (li chiamo tali in base agli articoli della Dichiarazione IHRA).
E viene anche da chiedersi per quale ragione abbia dovuto intervenire la Comunità di Roma (che qui ringrazio), e non l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ente che sarebbe stato il più titolato per sporgere tale denuncia).
Si viene poi a sapere che anche la Comunità Ebraica di Milano ha firmato le due denunce.
Emanuel Segre Amar
Negli ultimi anni '90 del secolo scorso mi fu assegnato l’incarico di presentare una relazione in un convegno di responsabili di chiese evangeliche avente come titolo “La signoria di Cristo nella chiesa. In cammino verso il terzo millennio”. In quella relazione cercai di mettere in evidenza che alla signoria di Cristo nella chiesa si opponeva, già da allora e in modo sempre più avvolgente, una società intimamente profana, sempre più allettante nelle sue proposte e invasiva nei suoi sistemi di comunicazione. E per fare un esempio concreto, feci accenno alle insidie dell’uso familiare della televisione. Tutto questo circa trent’anni fa. Quando la gente comune non sapeva che cos’è internet; quando non esistevano gli smart phone a portata di bambini; quando non si era ancora abbattuto sulla società il diluvio dei social a portata di clic. Che si potrà dire oggi? Come si potrebbe aggiornare quella relazione dopo quasi cinque lustri di percorso della chiesa nel terzo millennio? Dove siamo arrivati? Qual è il terreno su cui oggi ci moviamo? Lo conosciamo? Ne sappiamo interpretare la natura spirituale? Senza tentare di dare ora delle risposte, ripromettendomi di farlo se possibile in seguito, ho pensato di presentare qui un estratto di quella relazione del passato per indurre a riflettere sulla situazione del presente. Vorrei comunque dare subito un sintetico spunto di riflessione: la forza esercitata sulla chiesa dal mondo che trent’anni fa si presentava con un volto fascinoso e attraente, oggi appare ai credenti in una maschera
arcigna e impositiva. Al fascino attrattivo si poteva resistere senza spiacevoli conseguenze, all’imposizione minacciosa no. Abbiamo cominciato a sperimentarlo al tempo della pandemia. M.C.
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“Comportatevi con saggezza verso quelli di fuori, ricuperando il tempo” (Colossesi 4:5)
Gesù Cristo è il Signore. La Sua signoria nella chiesa, per la quale Egli ha dato la Sua vita, si esprime in forma di comandamenti (Giovanni 14.15). I suoi comandamenti sono espressione del Suo amore (Giovanni 15.10) e richiedono una risposta d’amore (Giovanni 14.21) che si esprime in forma di ubbidienza.
La parola “ubbidienza” non è tra quelle che circolano oggi nel mondo religioso. Altre sono le parole che risuonano: risveglio, evangelizzazione, lode, potenza, segni, miracoli, guarigioni, ecumenismo, cultura, visione. Sono quasi tutti termini biblici, e nel giusto contesto possono trovare il loro posto. Ma forse il termine che oggi ha più necessità di essere sottolineato è un altro: ubbidienza.
Il nostro modello deve essere, come sempre, il Signore Gesù “il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; apparso esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce” (Filippesi 2:7-8). E prima di salire sulla croce il Signore Gesù pregò il Padre: “Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come voglio io, ma come tu vuoi” (Matteo 26:39).
Quello che conta, dunque, è la volontà di Dio, non la nostra. Non sono importanti i progetti che facciamo noi per Dio, ma i progetti che Dio fa per noi. L’ubbidienza è l’unica forma in cui i discepoli di Cristo possono manifestare la Signoria di Cristo, ed è anche l’unica forma in cui possono esprimere al Cristo il loro amore per Lui, in risposta all’amore che Egli ha manifestato per loro sulla croce.
Essere ubbidienti a Dio significa anche “comportarsi con saggezza verso quelli di fuori” (Colossesi 4.5), perché la chiesa di Gesù Cristo ha ricevuto da Dio la grazia, e quindi il dovere, di comprendere la società in cui vive, in modo da saperne valutare i bisogni e le insidie, al fine di
poter annunciare con autorità agli uomini l’Evangelo, senza cadere nelle trappole che Satana, attraverso il fascino del mondo, pone ai figli di Dio.
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Frantumazione ideologica
Il disgregamento politico internazionale e nazionale seguito alla caduta del muro di Berlino sembra essere andato di pari passo con un processo di frantumazione ideologica che investe tutte le sfere della vita e del pensiero. E’ finito quel pensare e parlare per grandi contrapposizioni che in ogni circostanza spinge una parte a dire sempre l’opposto di quello che dice l’altra. Al di là di ogni fazioso opportunismo, questo atteggiamento era sostenuto dalla fede in una verità da cui scaturisce il bene, in opposizione ad un inganno da cui scaturisce il male. La faziosità oggi è diminuita, ma soprattutto come conseguenza di una perdita di speranza. Non si spera più in una verità che, se conseguita, abbia il potere di liberare dal male che opprime gli uomini e per la quale quindi valga la pena di combattere. In poche parole: sono tutti più educati perché sono tutti più disperati.
La caduta delle ideologie ha dunque portato anche all’indebolimento del concetto di verità che le sosteneva. Si potrebbe dire che insieme alle ideologie si è frantumata anche la verità. Chi oggi si ostina a dire: “questo è vero e questo è falso”, viene considerato gretto, intollerante, potenzialmente violento, e quindi pericoloso per la convivenza sociale. Il pluralismo ideologico e religioso è la vera religione dei nostri tempi. La forma specificamente religiosa di questo pluralismo si chiama ecumenismo, e tende ad assumere sempre di più l’aspetto di un universalismo
religioso-umanista. La chiesa cattolica, la cui natura è sempre stata essenzialmente sincretista, si presta bene a fare da catalizzatore di questo processo di avvicinamento universale.
Il mondo secolare e il mondo religioso, che a partire dall’Illuminismo sono andati sempre di più allontanandosi, tendono oggi a riavvicinarsi. Il mondo secolare assume il frasario e i simboli del mondo religioso, mentre il mondo religioso assume il pragmatismo efficientista del mondo secolare: “Funziona, quindi è vero”.
Il conflitto (politico e ideologico), inteso come ricerca della vittoria dell’uno e conseguente sconfitta dell’altro, è oggi sostituito dalla concorrenza. La società si avvia a diventare un grande mercato in cui sono messi in vendita (perché i soldi diventano sempre più importanti) beni di ogni tipo: materiali e spirituali. E il mercato ha molti clienti perché gli uomini diventano sempre di più amanti di sé, amanti del denaro, amanti del piacere anziché amanti di Dio (2 Timoteo 3:1-5).
In questo clima di universale concorrenza acquista importanza sempre maggiore l’elemento comunicazione. Il dominio dell’uomo sulla natura, che nell’ultimo secolo ha raggiunto livelli fino a poco tempo fa imprevedibili, sta lentamente trasformandosi nel dominio dell’uomo sull’uomo attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Se fino ad ora la scienza ha inteso soprattutto indagare e conoscere le cose, al fine di poterle modificare e dominare a proprio vantaggio, oggi si tende ad assumere lo stesso atteggiamento nei confronti dell’uomo, e lo strumento con cui oggi si domina l’uomo è la comunicazione, l’invio di opportuni messaggi. Tenendo presente che l’Evangelo di Cristo è un messaggio, anzi è ilMessaggio, la buona notizia che Dio vuol fare arrivare agli uomini, è evidente che i figli di Dio devono porre una particolare attenzione alla natura dei messaggi che gli uomini si scambiano, e che sono diretti anche a loro.
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Richiesta di omologazione
La mancanza di un’aperta opposizione, il generale clima di tolleranza e interesse per le diverse forme di religiosità, il desiderio di fare nuove esperienze stanno predisponendo molti credenti a subire il fascino del mondo. Il mondo li affascina. Ma il fascino a cui sono sottoposti non è immediatamente riconoscibile perché non assume sempre la tradizionale forma del desiderio di soldi, carriera e piaceri. Il fascino del mondo si presenta adesso anche in un’attraente veste teologico-intellettuale che dà l’impressione di avere una solida giustificazione biblica. Si parla volentieri di sovranità di Dio su tutto il creato; si sostiene che creazione e redenzione non devono essere contrapposte perché Dio è sovrano su ogni cosa. E poiché Dio è sovrano, i figli di Dio devono esprimere questa sovranità in ogni aspetto della vita sociale, culturale e artistica. Il cristiano deve dunque entrare in dialogo con gli altri, interagire con loro, accettare la sfida, mettersi in concorrenza, e sempre con la convinzione di essere dalla parte del vincitore. Deve quindi
cercare le occasioni di confronto con il mondo al più alto livello possibile, là dove può essere più influente, perché in ogni campo deve poter dire l’ultima parola da parte di Dio.
Il risultato pratico di questo atteggiamento è, molto spesso, una penosa ricerca di visibilità mondana. Il cristiano aspira a raggiungere un posto riconosciuto e onorato nella società, convinto che in questo modo riuscirà a influenzare il mondo con la sua teologica cultura o a riceverne applausi per la sua artistica bravura. E non si accorge che così facendo diventa parte integrante di quel mondo che vorrebbe influenzare e ammaestrare. Il cristiano chiede al mondo di essere omologato, e per di più a un livello superiore a quello degli altri. E quando ci riesce diventa un sale senza sapore, nel caso migliore; nel caso peggiore un idolatra.
Quello che rimane sullo sfondo, non rinnegato ma neppure proclamato e vissuto in tutte le sue conseguenze, è il messaggio della croce di Gesù Cristo. Questo è il messaggio che pesa. Si parla molto di sovranità di Dio e poco di croce di Cristo; e non è solo una questione di misura. Ancora una volta, la situazione assomiglia a quella che Paolo dovette affrontare con i Corinzi, quando alla prosopopea di “uomini psichici” che ricercavano la sapienza e la potenza oppose la “pazzia” della predicazione della croce, proponendosi di “non sapere altro, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso” (1 Corinzi 2.2).
Non sappiamo se anche a noi toccherà un giorno di “essere perseguitati per la croce di Cristo” (Galati 6.12), ma come ci prepareremo
a questa non escludibile eventualità se invece di considerare normale il fatto di essere disonorati e screditati, andiamo alla ricerca, “per la maggior gloria di Dio”, di umani applausi
e umana rispettabilità? Abbiamo dimenticato che essere considerati “come la spazzatura del mondo, come il rifiuto di tutti” (1 Corinzi 4:13), è per i cristiani la normalità?
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Frantumazione etica
La frantumazione del concetto di verità ha poi condotto anche alla frantumazione dell’etica. Il relativismo etico è ormai così evidente e diffuso che è quasi un luogo comune il parlarne. E invece di etica bisogna parlare.
In un mondo che lascia dire qualsiasi cosa sui massimi sistemi, perché non crede che esista un’unica verità valida per tutti, lo scontro concreto può nascere proprio sulle scelte di condotta. Dobbiamo dunque badare a noi stessi e vigilare affinché la verità della Parola di Dio in cui crediamo abbia la concreta possibilità di determinare la nostra condotta, nelle grandi e nelle piccole scelte della vita. Perché è nelle pratiche scelte di vita che si fa più forte l’influenza del mondo, il quale prima spinge i credenti ad imitarlo nella pratica e poi fornisce loro gli argomenti adatti per una giustificazione teorica .
Se ci limiteremo a vigilare soltanto contro la falsa dottrina, trascurando di vigilare
contro la falsa condotta, prima o poi avverrà che attraverso l’indulgente tolleranza della falsa condotta finiremo per accogliere anche la falsa dottrina. In parte, questo sta già accadendo. Se continueremo a risolvere questioni etiche in modo pragmatico, invece che in ubbidienza alla Scrittura, o se andremo alla ricerca di eccitanti esperienze artistico-spirituali, invece di crescere nella conoscenza di Dio attraverso lo studio continuo e ubbidiente della Sua Parola, prima o poi troveremo qualcuno che ci “aprirà gli occhi”, propinandoci qualche nuova dottrina che ci sembrerà molto convincente perché
ci farà ”tornare i conti”, cioè spiegherà e legittimerà la nostra esperienza , a cui non volevamo assolutamente rinunciare, e la farà apparire in piena armonia con la Scrittura. E ancora una volta si confermerà che cambiare la dottrina è più semplice e comodo che cambiare la condotta.
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Proposte seducenti
Tutto fa pensare che nei prossimi anni la chiesa di Gesù Cristo sarà sottoposta ad una subdola e avvolgente azione di allettamento da parte di un mondo secolare-religioso che prima secolarizza gli uomini estirpando dai loro cuori il timor di Dio, e poi li rende di nuovo religiosi offrendo, come rimedio alle angosce che la rivolta contro Dio inevitabilmente provoca, una varietà di rimedi “spirituali” gradevoli e attraenti che in realtà li legano ancora più strettamente alla menzogna. Una prima misura della nostra fedeltà al Signore si vedrà da come valuteremo queste offerte. Tutto fa temere che i figli di Dio si sgraneranno, prima nella valutazione e poi nelle scelte. La frammentazione della chiesa di Gesù Cristo aumenterà, e questo andrà di pari passo con la crescita di volume degli inviti all’unità dei cristiani.
La via della fedeltà al Signore si rivelerà allora, ancora una volta e come sempre, una via stretta, perché dire Sì alla Parola di Dio dovrà significare dire No alle proposte del mondo.
Gesù Cristo è il Signore. Né il mondo né la chiesa possono in alcun modo modificare questo fatto. Ma se la chiesa vuole permettere al Cristo di manifestare la Sua signoria
in lei, ha una sola via: l’ubbidienza.
Forse a qualcuno la semplice ubbidienza sembrerà troppo poco; e si può anche capire.
L’uomo psichico di cui parla l’apostolo Paolo (1 Corinzi 2.14)
si sente più gratificato se invece di fissare la sua attenzione su una volontà a lui estranea, può dedicarsi a elaborare grandiosi progetti che esprimano la sua volontà. L’uomo psichico religioso arriva facilmente a convincersi di avere un importante progetto da portare avanti, e di doverlo fare per la maggior gloria di Dio. In realtà, quello che sta alla base della sua autoconvinzione è la superbia, aggravata da un autoinganno che la nasconde.
Si deve fortemente dubitare di chiunque cerchi di raccogliere intorno a sé persone in vista di un grandioso progetto da compiere alla maggior gloria di Dio. Chi sottolinea continuamente la necessità di avere una visione ed è convinto di averne una, quasi sempre si rivela essere un visionario.
Dobbiamo guardarci dai visionari e fare attenzione a non diventarlo noi stessi. Come autentici e fedeli servitori di Dio, dobbiamo essere pronti a rinunciare a noi stessi, anche in quegli aspetti che ci sembrano essere i più validi, per lasciarci condurre dal Signore Gesù Cristo risuscitato “là dove non vorremmo” (Giovanni 21.18).
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Un Dio che non parla
L’ascolto ubbidiente della Parola di Dio deve significare un rinnovato interesse per la Sacra Scrittura. Non dobbiamo considerare come un fatto ovvio che nei nostri ambienti la Scrittura sia veramente conosciuta, onorata e ubbidita. Troppo spesso si dà per scontato il riferimento alla Scrittura e si ritiene quindi di doversi concentrare su altri temi, considerati più attuali, più urgenti, come le problematiche culturali, artistiche, sociali. Può accadere allora, e forse già accade, che il Gesù di cui si parla diventi un Gesù che non parla. Siamo noi che parliamo di Gesù, noi che lo lodiamo, lo cantiamo, lo rappresentiamo, lo innalziamo, lo “proclamiamo re”, ma in tutto questo agitarci rischiamo di perdere la disposizione all’ascolto e di non essere attenti al Gesù che ci parla attraverso la Scrittura.
Si avverte una certa stanchezza per le parole in generale, e per la Parola biblica in particolare. Si direbbe che la Parola da sola non basti, che sia molto più efficace se è accompagnata e ravvivata da qualche altra cosa: immagini, musica, gesti, azioni.
Ma la Parola di Dio ci è pervenuta nella forma di un testo scritto.
Dio ha scelto il linguaggio verbale, parlato e scritto, per far giungere agli uomini la Sua rivelazione. E anche quando Dio ha rivelato Sé stesso prendendo forma di uomo nella persona del Signore Gesù, il Padre ha messo nella bocca del Figlio le Sue parole. Nell’episodio della trasfigurazione, il Padre testimonia del Figlio dicendo: “Questi è il mio amato Figlio, in cui mi sono compiaciuto: ascoltatelo!” (Matteo 17.5).
Il messaggio dell’Evangelo è una comunicazione che proviene da Dio e viaggia su parole sostenute dalla potenza dello Spirito Santo. I messaggi che circolano nella nostra società, invece, più che vere forme di comunicazione, sono impulsi. Non vogliono comunicare un contenuto, ma evocare suggestive immagini, predisporre l’animo a particolari reazioni emotive che spingano le persone a formulare determinati pensieri e, in un secondo momento, a fare determinate scelte.
Dobbiamo chiederci se non abbiamo assimilato dal mondo l’abitudine a subire e trasmettere impulsi, invece di scambiare autentiche comunicazioni. La predicazione, dentro e fuori le chiese, non deve diventare uno stimolo per l’emotiva immaginazione, ma essere sempre l’annuncio chiaro e potente di un messaggio da parte di Dio che parla alla mente e al cuore delle persone. La società di oggi disabitua le persone dal porre attenzione alle parole, e quindi anche alle parole che provengono da Dio attraverso la Scrittura.
Tanto più deve essere raccomandata, nelle famiglie e nella chiesa,
la pratica costante della Scrittura. La conoscenza del testo biblico, la dimestichezza con esso, l’abitudine a cercare nella Bibbia il fondamento di tutti i nostri pensieri e la motivazione di tutte le nostre scelte, sono elementi che devono essere continuamente sottolineati e vissuti nella nostra vita personale, familiare e comunitaria. Non devono mai essere dati per scontati.
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Il mondo dentro
Stiamo badando a noi e alla nostra famiglia? non solo e non tanto nei momenti “religiosi” e pubblici, ma soprattutto nei momenti “laici” e privati? abbiamo ben presente il fatto che i nostri figli trascorrono, come è inevitabile che sia, la maggior parte del loro tempo immersi nella realtà di questo mondo? li informiamo? li prepariamo? li fortifichiamo? li proteggiamo? li discipliniamo?
E noi stessi, quale esempio diamo? Teniamo dovutamente conto del fatto che oggi il mondo è diventato molto più vicino alla nostra mente e al nostro cuore? Abbiamo la chiara consapevolezza di quello che significano i mezzi di comunicazione di massa per la società di oggi, non solo sul piano tecnico, ma anche e soprattutto sul piano spirituale? Abbiamo esaminato con la necessaria attenzione e con il dovuto senso di responsabilità quel fatto tremendamente serio che è la televisione. E’ veramente strano che una realtà di tale portata per la vita della società e delle famiglie sia così poco discussa tra i credenti. Temo che se non se ne discute è perché ormai è diventata così ovvia, così scontata, così integrata nella nostra vita da diventare una parte di noi, al punto che è inimmaginabile, non dico privarsene, ma anche soltanto problematizzarla.
Ma se la televisione che abbiamo in casa non è più un problema per noi, forse è perché noi siamo diventati un problema per Dio.
Non si tratta di dire semplicisticamente sì o no al televisore in casa, ma dobbiamo chiederci, con onestà davanti al Signore, se anche per quanto riguarda la televisione stiamo esaminando ogni cosa e ritenendo il bene (1 Tessalonicesi 5.21), come la Parola di Dio prescrive. Dobbiamo chiederci se stiamo ponendo seria attenzione a ciò che nutre l’anima nostra e quella dei nostri cari, tenendo presente che il nutrimento dell’anima non è meno importante di quello del corpo.
Non si tratta soltanto - continuando il paragone con il cibo - di evitare qualche piatto un po’ dannoso e indigesto: si tratta di capire quali effetti può avere una certa alimentazione prolungata nel tempo. Chi di sua volontà si espone regolarmente e per lungo tempo ai raggi comunicativi che vengono dal mondo, non può illudersi di non restarne profondamente influenzato e intimamente modificato, anche se si sforza di mantenere un certo distacco nel giudizio. Senza accorgersene, e senza che per un certo tempo si notino vistosi cambiamenti nelle sue parole e nella sua condotta, prima o poi accade che si ritrova il mondo dentro, nella mente e nel cuore. E quando il mondo
è dentro, non è più capace di riconoscerlo neanche quando se lo trova fuori, davanti agli occhi.
Può accadere, anzi, che prima o poi arrivi a provare la piacevole sensazione di sentirsi più maturo, più aperto, più capace di capire la società in cui vive. Può avere l’impressione di avere superato certe timorose ristrettezze ecclesiastiche e di essere pronto a inserirsi utilmente in questa società, per esercitare in essa i suoi talenti e sviluppare pienamente la sua personalità.
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Evangelizzazione e controevangelizzazione
Rimanendo nella posizione di ubbidiente ascolto e incessante preghiera, la chiesa non corre il pericolo di rinchiudersi in sé stessa, paga della sua spiritualità, perché il Signore stesso eserciterà la sua signoria spingendo i suoi, attraverso l’azione dello Spirito Santo, a continuare l’opera di diffusione dell’Evangelo in forme e direzioni che forse “non si vorrebbe”. Non dobbiamo mai dimenticare come è cominciata la grande opera di evangelizzazione del mondo pagano compiuta dall’apostolo Paolo:
“Mentre celebravano il culto del Signore e digiunavano, lo Spirito Santo disse: Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani, e li lasciarono partire. Essi dunque, mandati dallo Spirito Santo, scesero a Seleucia, e di là salparono verso Cipro” (Atti 13.2-4).
Per addentrarsi con autorità spirituale vincente nell’agguerrito mondo secolare-religioso di oggi non bastano certo la fantasia, la voglia di fare, le capacità tecniche, artistiche o culturali. E’ di fondamentale importanza essere mandati dallo Spirito Santo. E lo Spirito Santo si compiace di dare le sue investiture là dove due o tre sono radunati nel nome di Gesù.
Il Signore ha attribuito alla chiesa il compito di evangelizzare il mondo, ma la chiesa deve rendersi conto che in questi tempi di seduzione l’Avversario sta spingendo il mondo a “evangelizzare” la chiesa. Il mondo non è soltanto un luogo di persone passive da raggiungere con molta mobilitazione e grandi sforzi organizzativi. Chi confessando Gesù come Signore esita a mettersi decisamente e concretamente sotto la signoria di Gesù, sarà raggiunto da molte e svariate proposte di “liberazione spirituale” più o meno assomiglianti al messaggio cristiano, ma sostanzialmente opposte. E molto difficilmente potrà resistere.
Soltanto occupando la giusta posizione iniziale di ubbidienza, sarà possibile ai credenti radunati nella chiesa locale di manifestare la Signoria di Gesù, permettendo allo Spirito Santo di parlare con potenza attraverso la Sacra Scrittura e di chiamare i suoi servitori a varie altre forme di ubbidienza, secondo il sovrano proposito del Signore Gesù. A Lui sia la gloria!
Veto alla risoluzione degli Stati Uniti. Blinken va a Tel Aviv mentre il premier israeliano tira dritto sull'operazione di terra a Rafah: «Prontì ad andare avanti da soli». Erdogan minaccia Netanyahu: «Possa il nostro Signore distruggerlo. Glielo consegniamo».
di Stefano Piazza
Il segretario di Stato americano
Antony Blinken
è arrivato ieri in Israele per l'ultima tappa del suo sesto viaggio nella regione dall'inizio della guerra. Blinken ha incontrato il primo ministro israeliano
Benjamin Netanyahu
e il suo gabinetto di guerra e le famiglie degli ostaggi. Poco prima del suo arrivo a Tel Aviv la Cnn ha reso noto che secondo alcuni funzionari del dipartimento di Stato nelle scorse settimane Blinken avrebbe dato una sorta di ultimatum al Qatar: «Dite ad Hamas di trovare un accordo sugli ostaggi israeliani e sulla cessazione delle ostilità nella Striscia di Gaza altrimenti ci saranno conseguenze». Una è quella che prevede l'espulsione dal Qatar dei vertici del movimento terroristico, vedi Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, oltre ai suoi fedeli collaboratori Moussa Abu Marzuk e Khaled Mashal.
Com'è andato
l'incontro
tra Blinken e Netanyahu? Bene ma non benissimo. «Ho detto a Blinken che non c'è modo di sconfiggere Hamas senza andare a Rafah ed eliminare il resto dei battaglioni e che spero che lo faremo con il sostegno degli Stati Uniti, ma se sarà necessario lo faremo da soli». Queste le parole di Netanyahu che poi ha proseguito: «Gli ho detto che apprezzo davvero il fatto che da più di cinque mesi combattiamo insieme contro Hamas. Gli ho anche detto che riconosciamo la necessità di evacuare la popolazione civile dalle zone di guerra e ovviamente di occuparci anche dei bisogni umanitari e stiamo lavorando a tal fine».
In tal senso, come scrive il comando centrale degli Stati Uniti, negli ultimi due giorni «sono stati effettuati una serie di lanci aerei di assistenza
umanitaria nel Nord della Striscia di Gaza per fornire aiuti essenziali ai civili colpiti dal conflitto in corso» e nella nota si precisa che sulla Striscia «è stato sganciato l'equivalente di oltre 50.600 pasti». Nella nota ufficiale rilasciata dal Dipartimento di Stato si legge che Blinken ha sottolineato «la necessità di proteggere i civili a Gaza e di aumentare e sostenere l'assistenza umanitaria, anche attraverso le rotte terrestri e marittime. Ha inoltre informato il gabinetto di guerra sulle sue consultazioni a Gedda e al Cairo sugli sforzi per raggiungere una pace e una sicurezza durature per Israele, il popolo palestinese e la regione più ampia». Tuttavia, secondo il sito israeliano Walla che cita una fonte anonima, il segretario di Stato americano ha lanciato un severo avvertimento al primo ministro israeliano e ai membri del gabinetto di guerra affermando che continuare la guerra senza un piano per il giorno dopo mette in pericolo la sicurezza di Israele e la sua posizione internazionale: «Dovete preparare un piano chiaro per il dopoguerra o resterete impantanati a Gaza».
Scintille anche all'Onu dove Russia e Cina hanno utilizzato il loro potere di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare una risoluzione proposta dagli Stati Uniti riguardante una tregua nella Striscia di Gaza. La risoluzione, che sottolineava l'importanza di un immediato e prolungato cessate il fuoco per proteggere i civili di tutte le parti coinvolte, garantire la consegna di assistenza umanitaria essenziale e alleviare le sofferenze umani tari e e il rilascio degli ostaggi, ha ricevuto l'appoggio di 11 membri del Consiglio, mentre tre membri hanno votato contro (l'Algeria oltre al veto di Russia e Cina). Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà oggi alle 10 (ora locale, corrispondente alle 15 in Italia) la bozza di risoluzione sulla tregua a Gaza redatta dai membri non permanenti. La bozza richiede «un immediato cessate il fuoco umanitario per il mese del Ramadan e il rilascio immediato di tutti gli ostaggi». Fonti del Consiglio di sicurezza hanno comunicato queste informazioni all'Ansa. L'ambasciatrice americana presso l'Onu, Linda Thomas-Greenfield, ha già anticipato che gli Stati Uniti sono contrari al testo.
Se all'Onu sono scintille, tra Israele e Turchia è scontro totale. Ieri durante una manifestazione organizzata a piazza Cumhuriyet a Kayseri, città capoluogo dell'omonima provincia dell'Anatolia centrale, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato: «Affidiamo al nostro Signore una certa persona chiamata Netanyahu. Possa nostro Signore distruggerlo e renderlo miserabile». Immediata la replica israeliana affidata al ministro degli Esteri Israel Katz che prima ha annunciato la convocazione del viceambasciatore turco per «un severo rimprovero» per poi rivolgersi direttamente a Erdogan: «Tu che sostieni i bruciatori di bambini, gli assassini, gli stupratori e i mutilatori dei corpi dei criminali di Hamas sei l'ultimo che può parlare di Dio. Non c'è Dio che ascolterà coloro che sostengono le atrocità e i crimini contro l'umanità commessi dai vostri barbari amici di Hamas. Stai zitto e vergognati!».
Fin qui la guerra delle parole, mentre sul terreno si combatte quella vera: dei caccia da combattimento di Gerusalemme ieri hanno attaccato una struttura militare degli Hezbollah nella zona di Aita alShaab, nel Sud del Libano, dopo che durante la giornata sono stati rilevati numerosi lanci di missili verso la zona di Metula (nel Nord d'Israele), mentre prosegue l'operazione all'ospedale di al-Shif a a Gaza city. I soldati dell'esercito israeliano hanno finora eliminato circa 140 terroristi palestinesi nell'area dell'ospedale e arrestato 600 sospetti. Mahmoud Kwasma, che ha pianificato e finanziato l'omicidio di tre adolescenti israeliani nel 2014, e stato arrestato.
Infine, secondo quanto riferito da un funzionario israeliano al Times of Israel, sotto condizione di anonimato, non si è registrato alcun progresso significativo nei negoziati tra Israele e Hamas, che si sono svolti a Doha con la mediazione degli Stati Uniti, del Qatar e dell'Egitto.
Lasciate entrare la mia gente a Rafah. O il mare dell’odio vi sommergerà
di Fiamma Nirenstein
Let my people go. Il faraone rifiutò a lungo il diritto del popolo ebraico alla libertà. Ma il mare che alla fine si aprì per Mosè e il suo popolo, si rovesciò alla fine sulle sue truppe all’inseguimento degli ebrei che camminavano verso Israele. Israele è abituata alle sirene di allarme, ma oggi l’ululato si dovrebbe avvertire in tutto il mondo: sia pure avvolte in parole flautate, nella stessa giornata si sono votate due risoluzioni per fermare Israele, uno da parte della maggiore istituzione mondiale, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e l’altra dalla Casa in cui si è generata la democrazia e che tuttavia conosce il male assoluto, l’Europa. Cercare di bloccare Israele è segno di oblio della storia, delle atrocità del 7 ottobre, di incomprensione del loro significato universale, è una firma sulla condanna di decine di migliaia di profughi a non tornare a casa, una consapevole acquiescenza al ritorno di Hamas al potere e a una nuova guerra terrorista, oltre che una chiara condanna per il destino dei palestinesi. Non è utile a nessuno. Al contrario, battere Hamas è indispensabile al mondo, ed è sconcertante, triste, che si agisca al contrario. Poiché le risoluzioni sono formulate con una certa cautela, si ricorda la strage del 7 ottobre, si chiede dall’ONU la restituzione degli ostaggi, nella seconda, quella europea, è meno chiaro quello che si pretende. Israele è l’obiettivo.
Gli si chiede di fermarsi prima di Rafah (un nome ormai diventato una bandiera per biasimare Israele di una sua supposta noncuranza verso la folla palestinese, ipotesi inconsistente, dato che ancora l’attacco non ci è stato proprio per consentire uno sgombero e una cura della gente efficaci e dato che una delegazione israeliana è in America proprio per parlare di questo, bontà sua) e in sostanza lo si condanna per le sofferenze della gente di Gaza. Sì, Israele è colpevole, gli ebrei lo sono, devono stare attenti, anche rinunciare a obiettivi essenziali, anche lasciar perdere Sinwar, o i rapiti se sono a Rafah. Rafah, non si tocca. Non devono stare attenti i cinesi con gli Uiguri, non gli iraniani, non i siriani, a suo tempo non gli americani, non gli inglesi. È solo Israele che deve stare attenta a come gestisce la guerra. Un paio di deputati europei hanno persino osato utilizzare un parallelo osceno, accusando di doppio standard chi non colpevolizza Israele come i russi. Un piccolo particolare: Israele è stata aggredita, e come. Ma non importa. Tutto il mondo le sta addosso. E anche se perde, è chiaro che non importa. Forse, è meglio. Non si è rinunciato all’uso della parola “sproporzionato” e quella della richiesta di fermarsi.
Sinwar di certo oggi festeggia coi suoi boia, se aveva in mente di portare a conclusione un accordo sul rilascio degli ostaggi, il prezzo sale. Hamas è un problema privato di Israele, l’Occidente nega la necessità complessiva di vincerlo e dà a Gaza il suo appoggio, senza ammettere che cercare di fermare Israele è un appoggio a Hamas e una condanna per Israele. In più la colpevolizzazione ulteriore di Israele solleverà le onde nere dell’antisemitismo mondiale in crescita. Sulla politica dell’ONU e dell’UE si affollano gli opportunismi, la mancanza di chiarezza morale, la confusione di un Occidente preda della paura di folle sgangherate come quella che ha imposto al collegio accademico di Torino una risoluzione simile a quella imposte dal fascismo. È un accerchiamento che proviene dal martellamento elettorale americano, dalla decisione del Canada di non vendere armi a Israele, dalle minacce di isolamento di Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra, dall’odio belga e irlandese… Sono il seguito delle posizioni sia di António Guterres che di Borrell, il primo che a pochi giorni dalle atrocità di Hamas commentava l’attacco del 7 ottobre colpevolizzando Israele: “non avviene in un vuoto”; l’altro, fra le tante uscite, una geniale su Project Sindicate: “l’estremismo sta aumentando da entrambe le parti”. La parola proporzionalità appare nelle due risoluzioni, una bestemmia quando si combatte su un terreno in cui ogni struttura civile è una casamatta, e soprattutto quando il nemico è un tagliagole di bambini e uno stupratore seriale che usa la sua gente su un’area nazificata; gli altri punti, aiuti umanitari, salvaguardia dal fuoco, è quello che Israele ha fatto sin dall’inizio della guerra più di qualsiasi altro esercito, sapendo che gli aiuti umanitari li sequestra Hamas, e che la gente viene usata in difesa da Sinwar, mentre si sparano cifre fantasiose sui morti. Realismo, questo devono offrire le istituzioni, e non opportunismo politico. Gaza non può essere salvata se non si elimina Hamas, Israele non può sopravvivere se non lo cancella, i Palestinesi non avranno mai una leadership se non viene affrontata la fissazione omicida in cui vengono cresciuti i loro bambini.
Su Rafah ha risposto già ovunque il governo di Israele, non è possibile lasciar sopravvivere i quattro battaglioni di Hamas che con Sinwar la occupano. Let my people go to Rafah, o il mare dell’odio prima o dopo sommergerà anche voi.
L'ultima minaccia di Erdogan a Israele: "Possa il nostro Signore distruggere Netanyahu"
Il presidente turco si è scagliato nuovamente contro la leadership dello Stato ebraico, sottolineando il dovere di Ankara nella difesa della popolazione di Gaza. Ira di Israele: "Stai zitto e vergognati"
Nuovo scontro diplomatico tra Turchia e Israele. Durante un comizio nella città di Kayseri tenutosi giovedì 21 marzo, il presidente Recep Tayyip Erdogan si è scagliato ancora una volta contro il premier Benjamin Netanyahu, rivolgendogli minacce che hanno chiamato in causa anche la divinità. "Consegniamo al nostro Signore l'individuo noto come Netanyahu. Possa il nostro Signore distruggerlo", ha detto il leader di Ankara. "Il nostro dovere è quello di aiutare i fratelli e le sorelle di Gaza con tutte le nostre forze e apprezzare la sicurezza, la pace e le benedizioni che abbiamo”. La risposta dello Stato ebraico non si è fatta attendere. “Stai zitto e vergognati”, ha scritto sui social il ministro degli Esteri Israel Katz. “Chi sostiene il rogo dei bambini, gli assassini, gli stupratori e la mutilazione dei cadaveri da parte dei criminali di Hamas è l'ultimo che può parlare di Dio". Il titolare del dicastero di Tel Aviv ha anche aggiunto che “non c'è nessun Dio che ascolterà chi sostiene le atrocità e i crimini contro l'umanità commessi dai vostri barbari amici di Hamas”. Dall’inizio del conflitto in Medio Oriente, i rapporti tra Israele e la Turchia si sono rapidamente deteriorati. Erdogan, infatti, si è schierato apertamente dalla parte dei terroristi e ha accusato più volte Netanyahu di essere “uguale a Hitler”. A dicembre 2023, quando sui social sono comparse foto di prigionieri palestinesi mezzi nudi e legati in uno stadio vuoto, il sultano ha parlato di “campi di concentramento”. Affermazioni scioccanti, queste, che hanno scatenato l’ira di Tel Aviv. Al tempo, il premier israeliano ha risposto affermando di “non prendere lezioni da chi commette un genocidio contro i curdi e che si è aggiudicato il record mondiale di arresti di giornalisti contrari al regime”. A inizio novembre, Erdogan ha richiamato l’ambasciatore turco dalla capitale ebraica e, il mese precedente, ha affermato che il suo esercito sarebbe potuto “arrivare inaspettatamente di notte” per difendere la popolazione di Gaza. L’ostilità del sultano non sorprende, viste le sue aspirazioni di porsi come leader regionale dei Paesi musulmani. È però improbabile che faccia seguito alle parole con azioni concrete. La Turchia, infatti, è parte della Nato e gli Stati Uniti, per il momento, continuano a mantenere la strategia del supporto incondizionato a Israele. Difficile pensare, dunque, che gli strali verbali lanciati da Ankara possano tramutarsi in proiettili veri e propri. Se alla fine del conflitto si optasse per una presenza internazionale nella Striscia di Gaza, Erdogan potrebbe decidere di mandare un contingente. Al momento, però, può solo limitarsi al lancio di accuse.
Vanno bene gli accordi con l'Iran, e con la Cina, vanno bene anche le collaborazioni con la Corea del Nord, o con chissà quale altro regime dittatoriale. E poi ovviamente va più che bene la Russia: sono moltissimi gli accordi in essere con la Russia.
No problem. Il problema, per i pacifisti, è soltanto Israele, come al solito: sempre e solo Israele, unica democrazia del Medio Oriente, per quanto in guerra.
Come accade nelle organizzazioni internazionali, a partire dall'Onu, così con gli studenti politicizzati, con i collettivi, con i centri sociali e con tutto quel mondo che si sta mettendo «in luce» a colpi di contestazioni, aggressioni verbali (e non solo) e per un'intolleranza terrificante che si è vista all'opera nelle piazze e nelle università: a Roma con il giornalista David Parenzo, a Napoli con il direttore di «Repubblica» Maurizio Molinari, a Torino con il tentato boicottaggio del bando ministeriale.
Gli studenti (di sinistra) «protestano», occupano le sedi universitarie, tengono in soggezione i rettori, dettano le delibere alle istituzioni accademiche, ma si occupano solo dello Stato ebraico, che è impegnato dal 7 ottobre nella repressione dei terroristi di Hamas e da 70 anni è alle prese con la minaccia - e con gli attacchi - dei vicini arabi.
Non hanno niente da dire, questi pacifisti-buonisti, sulle autocrazie, sulle dittature, sui regimi totalitari. Non hanno niente da eccepire, le femministe, sulla teocrazia iraniana, che opprime le donne, le arresta, le fa morire per un velo messo male. Non hanno niente da dire su un regime liberticida come quello nordcoreano. E niente hanno da dire sulla Russia che ha invaso l'Ucraina.
Eppure, nell'atto di firmare accordi con le Università straniere, gli atenei italiani non fanno troppo i «difficili»: sono centinaia infatti le collaborazioni di dipartimenti e ricercatori coi colleghi di mezzo mondo, senza badare troppo alla forma di governo imperante. Risulta che fisici ricercatori dell'università Kim Il-sung di Pyongyang, il principale ateneo della Corea del Nord abbiano in passato stretto un accordo con la Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. Stessa cosa per l'Università di Chieti-Pescara. E a Pisa, città di università antiche e prestigiose, un Istituto Confucio è stato aperto presso il Sant'Anna, Scuola superiore d'eccellenza. Fa parte della rete degli Istituti promossa dal ministero cinese dell'Istruzione in oltre cento paesi del mondo, ufficialmente con l'obiettivo di diffondere la lingua e la cultura cinesi, ma di fatto - per molti - anche per influenzare i Paesi ospitanti. Una specie di «Via della Seta accademica», per esempio, è quella percorsa fra gli altri da Oliviero Diliberto, ex ministro e leader comunista italiano, giurista e professore alla Sapienza di Roma e a Wuhan.
Non si contano poi le collaborazioni con l'Iran, e con la Russia. Centinaia di accordi. Liberi. E forse è giusto così, se non sono il veicolo di condizionamenti surrettizi (cosa possibile nei regimi, dove neanche la cultura è libera).
Se si tratta di ricerca, le università sono luoghi (relativamente) liberi, di cultura e ricerca, e collaborare con questi luoghi significa coltivare la libertà. Ma allora perché, secondo gli studenti pacifisti, il problema esiste solo per le università israeliane?
Per Israele la vera guerra è a Nord, contro Hezbollah
Gli attacchi di Hezbollah hanno costretto 60,000 civili a lasciare le proprie abitazioni, i loro kibbutz. La guerra è la loro unica possibilità per tornare a casa.
di Elliot Kaufman
Orna Weinberg sa leggere i miei occhi. “In tempo di pace, questo è il paradiso”, dice dalla cima di una montagna che domina la valle di Hula. Il kibbutz di Manara, nell’Alta Galilea israeliana, è mozzafiato. Eppure sembra osceno ammirare la bellezza in mezzo a tanto dolore. L’unica conclusione che si può trarre dalla nostra camminata a passo spedito attraverso la sua comunità malconcia, pericolosa ed evacuata è che Hezbollah ha trasformato il nord di Israele in un inferno. La gente qui non è un fiore fragile. “Ho imparato a camminare in un rifugio antiatomico”, dice allegramente la signora Weinberg, 57 anni, badante. Frederieke Shamia, 48 anni, sottolinea che “questa comunità non aveva mai evacuato, mai, fino ad ora”. I razzi provenienti dal Libano e dalla Siria non sono una novità per il nord di Israele, “ma i missili anticarro hanno cambiato tutto”, dice la signora Weinberg. La sua casa è stata la seconda ad essere colpita a Manara. La zona sud-ovest del kibbutz è chiusa. “Nel momento in cui Hezbollah vede un movimento all’interno di un edificio, fa fuoco”, dice la signora Shamia. “Basta accendere una luce o regolare una tenda e fanno fuoco”. A differenza dei razzi, che possono essere intercettati e sono tipicamente imprecisi, i missili guidati anticarro colpiscono i loro obiettivi in pochi secondi. Hezbollah, un proxy iraniano che detiene il vero potere in Libano, ha sparato su Manara mezz’ora prima del mio arrivo. Abbiamo guidato verso est attraverso una Kiryat Shmona vuota, la città più settentrionale di Israele, che ha ricevuto 30 razzi quel giorno, il primo del Ramadan. Io venivo da Rhadjar, un villaggio inquietantemente normale al confine tra le alture del Golan e il Libano. Israele lo controlla, il Libano lo rivendica e la gente del posto dice che apparteneva alla Siria. “Ora siamo israeliani”, dice il sindaco con un sorriso. Il suo villaggio è alawita, la stessa setta della cricca al potere in Siria. Questo gli permette una certa tranquillità. Hezbollah prende la rivendicazione libanese di Rhadjar e di altri piccoli territori come giustificazione per non rispettare la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ordinava la smilitarizzazione di una zona cuscinetto nel sud del Libano. Le forze di pace delle Nazioni Unite avrebbero dovuto farla rispettare. Invece, Hezbollah si è trincerato e usa le forze di pace come scudi umani nella sua guerra per distruggere Israele. L’esercito libanese, finanziato dagli Stati Uniti con più di 3 miliardi di dollari dal 2006, potrebbe frenare Hezbollah? Questa è un’altra battuta, come se il Libano potesse agire come uno Stato e non come un prigioniero volontario della guerra che Hezbollah ha lanciato dal suo territorio. Lo speaker del Parlamento libanese guida un gruppo separato che spara anche contro Israele. Chi si concentra solo su Gaza, a sud-ovest di Israele, si perde metà della storia. Hezbollah ha sparato più di 3.500 razzi, missili e mortai contro il nord di Israele dal 7 ottobre. Ne ha sparati 4.500 nell’intera guerra con Israele del 2006, eppure il mondo lo definisce un “conflitto a bassa intensità”. Almeno 60.000 civili del nord di Israele sono stati evacuati dalle loro case per cinque mesi, con un costo insostenibile per il morale nazionale. Come è possibile, si chiedono gli israeliani, che Hezbollah abbia spostato la zona cuscinetto faticosamente conquistata sul lato israeliano del confine? Israele sta avendo la meglio nello scambio militare, uccidendo più di 300 agenti di Hezbollah e distruggendo sistematicamente le posizioni meridionali del gruppo. Hezbollah ha ucciso 21 israeliani, ma il suo risultato è molto più grande. Ha spopolato un’intera regione di Israele e per mesi l’ha fatta franca. Se Hezbollah fosse stato pronto il 7 ottobre e avesse invaso, i combattimenti avrebbero potuto raggiungere Tel Aviv, dicono diversi funzionari israeliani. Il gruppo terroristico ha probabilmente preso in considerazione l’idea di invadere nei giorni successivi, ma è stato scoraggiato dall’afflusso di truppe israeliane e di navi da guerra statunitensi nell’area. La strategia statunitense non è stata modificata da quei primi giorni. Un alto funzionario della sicurezza israeliana afferma che l’amministrazione Biden non si rende conto che “l’obiettivo nel nord non è prevenire una guerra, ma riportare a casa gli israeliani”. Si chiede perché l’amministrazione non invii un inviato più anziano di Amos Hochstein a negoziare e perché il presidente Biden parli raramente del nord. “Si rendono conto di quante vite ci sono in gioco?”. La guerra nel nord del Paese potrebbe fare la differenza rispetto a quella di Gaza e cambiare per sempre il Libano e Israele. Visitando il nord, si capiscono molte cose invisibili da lontano anche sulla “distruzione di Israele”: La vita è resa così pericolosa che gli ebrei prendono e se ne vanno. Questa visione interpreta male il popolo. Oded Stein, leader dell’accademia premilitare dell’Alta Galilea, afferma: “Lo Stato e i militari sono più spaventati dalle vittime civili israeliane di quanto lo siano i civili”. Si chiede: “Israele si difenderà” fino alla morte? A volte il nemico deve sapere che anche tu puoi essere aggressivo, che puoi attaccare, non solo difendere”. Come molti israeliani, Stein lamenta “l’esercito del 6 ottobre” e la sua mentalità. “Ci siamo raccontati stupide storie, stupide bugie”, dice. “Che Hezbollah fosse scoraggiato e contenuto. No, si stava rafforzando”. Il gruppo terroristico è diventato un esercito formidabile con circa 200.000 razzi e altre munizioni, migliaia dei quali possono minacciare Tel Aviv. Hezbollah ora scoraggia Israele. Un ex comandante israeliano nella zona, che chiede di rimanere anonimo, sostiene che Israele ha sbagliato ad accettare “l’equazione”. Nel 2014, dice, dopo che Israele ha ucciso un combattente di punta di Hezbollah, Hezbollah ha ucciso un comandante di compagnia israeliano, e Israele ha lasciato che i terroristi la facessero franca. “Noi abbiamo fatto qualcosa, loro hanno fatto qualcosa, quindi va bene, siamo pari”, riassume. Tutto pur di evitare un confronto più ampio: così è stato per anni. “Ma in Medio Oriente i problemi vanno risolti direttamente”. A Gerusalemme, pongo il problema “dell’equazione” ai leader israeliani e li trovo ricettivi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu risponde: “La gente non tornerà al nord se non cambiamo l’equazione e se non ha un senso di sicurezza, che significa sicurezza effettiva”. Un ministro senior sottolinea che devono esserci nuove regole del gioco, in modo che Hezbollah non possa tornare allo status quo del 6 ottobre. Gli attacchi israeliani a Baalbek, in Libano, a quasi 60 miglia dal confine, e a Beirut suggeriscono che alcune regole sono già cambiate. Israele non ha permesso a Hezbollah di ricostruire durante la pausa di una settimana a novembre. Ma per ora non si prevede un’escalation israeliana. Amit Segal, il principale editorialista politico israeliano, afferma che Gerusalemme sta “contando i giorni dell’amministrazione Biden”. Una guerra totale con Hezbollah potrebbe essere un rischio troppo grande con un presidente americano sempre più ostile. Il generale in pensione Amir Avivi, fondatore dell’Israel Defense and Security Forum, sostiene che la migliore speranza per Israele di evitare quella guerra è di vincere in modo decisivo a Rafah, a Gaza, prima di rivolgersi a Hezbollah e dirgli: “Tu sei il prossimo”. Altri temono che Israele accetti un accordo per ottenere la pace e che dia un calcio al barattolo. Il generale Avivi dice che l’esercito israeliano ha “perso” tre divisioni negli ultimi 20 anni. Senza di esse, fatica a combattere guerre su due fronti senza ricorrere a enormi e costosi richiami di riserve. Anche la scarsità di munizioni, con molte trattenute per il nord, ha afflitto le operazioni israeliane. Gli ufficiali militari israeliani sottolineano che l’esercito “più piccolo e più intelligente” perseguito da leader militari come Ehud Barak e Benny Gantz è finito per essere piccolo e stupido. “Un esercito dovrebbe essere almeno grande e stupido”, dice il signor Stein dell’Accademia premilitare. Quasi tutti gli israeliani che incontro descrivono Hezbollah come la protezione del programma nucleare iraniano, conservando il suo arsenale in Libano per scoraggiare un attacco ai reattori in Iran. Potrebbe essere vero, e Hezbollah potrebbe ora sparare solo per salvare le apparenze e distogliere le truppe israeliane da Gaza, non per scatenare una guerra più grande prima che l’Iran sia pronto. L’opinione prevalente in Israele è che l’Iran e Hezbollah non vogliano un’escalation nel nord. Ma questa è una valutazione delle intenzioni, non della capacità, che è il modo in cui Israele ha giustificato il fatto che Hamas e Hezbollah si siano incancreniti. Affrontare le capacità di Hezbollah significherebbe considerare la diplomazia come un ripiego, non una soluzione. Anche se un accordo mediato dagli Stati Uniti riuscisse a convincere Hezbollah ad accettare di ritirarsi a nord del fiume Litani, come richiesto dalla Risoluzione 1701, il suo esercito e il suo arsenale terroristico persisterebbero, conservati per un tempo scelto dall’Iran. Il nord non sarà mai sicuro finché Israele lo permetterà. “Il Litani? È un bluff”, dice l’ex comandante. L’élite dei combattenti Radwan di Hezbollah vive nel sud del Libano. “Non se ne andranno, a prescindere dall’accordo. Diventeranno ‘civili’ e resteranno nei paraggi”. È ragionevole che Israele si trattenga nel nord mentre i combattimenti principali a Gaza continuano, ma per quanto tempo Israele aspetterà? “Non possiamo vivere con la minaccia di Hezbollah e dell’Iran come abbiamo fatto con Hamas”, afferma Arik Kleinstein, venture capitalist. Anche gli interessi commerciali di Tel Aviv sembrano capirlo. Alcuni leader aziendali e tecnologici si chiedono anche se la difesa missilistica laser “Iron Beam”, le cui capacità attuali sono sconosciute, sarà l’asso nella manica di Israele. Per ora, Israele respinge Hezbollah dall’aria, sapendo che solo una forza di terra può davvero creare il cuscinetto di cui ha bisogno. Finora gli attacchi di Hezbollah sono stati quasi tutti a corto raggio, a sud del Litani. Se si trova un accordo, gli israeliani sanno che nessuno lo applicherà se non loro stessi. Le Nazioni Unite e gli Stati Uniti possono sempre trovare motivi per lasciar correre le violazioni quando Hezbollah torna al confine. Esortano Israele a non reagire in modo eccessivo, ma a preservare la pace e la tranquillità. Per il nord di Israele, sheket hu refesh, come recita una vecchia canzone sionista: “Quiete” è fango.
Il diluvio del male sarà più che bilanciato da un'effusione celeste.
di Charles Gardner*
GERUSALEMME - Quando la settimana scorsa ho scritto di come il Signore stesse cercando di incoraggiare Israele attraverso un particolare versetto delle Scritture, non immaginavo che avrebbe aggiunto enfasi a questa parola ripetendosi.
"Quando il nemico arriverà come una piena, lo Spirito del Signore alzerà contro di lui uno stendardo e lo metterà in fuga" (Isaia 59:19).
In seguito ho appreso (dal sergente maggiore Chaim Malespin nei suoi resoconti quotidiani dal fronte su YouTube) che la Jihad islamica aveva invocato un "diluvio di Ramadan" di violenza contro gli ebrei. Poi ho appreso dall'amico regista Hugh Kitson che il massacro del 7 ottobre era stato originariamente soprannominato "diluvio di Al-Aqsa", in riferimento alla moschea sul Monte del Tempio di Gerusalemme. I musulmani accusano Israele di minare il loro luogo sacro. Sì, si scatenerà un diluvio di male, ma il Signore si farà sentire in modo inequivocabile. La Moschea di Al Aqsa è considerata il terzo luogo sacro dell'Islam, anche se non è menzionata nel Corano. Tuttavia, corrisponde a un'interpretazione diffusa di ciò che Gesù intendeva quando si riferiva alla profezia di Daniele secondo cui negli ultimi giorni prima del suo ritorno "l'abominio che causa la desolazione starà dove non deve stare" ( Marco 13:14) La moschea sorge sul sito del tempio distrutto, che Dio ha scelto come sua dimora. È chiaro dal contesto che questo edificio finirà per causare i più grandi disordini che il mondo abbia mai visto e porterà al ritorno del Messia, che sconfiggerà i suoi nemici e governerà il mondo in pace e sicurezza. Ci si chiede perché il Ramadan, un mese sacro di digiuno, scateni ogni anno tanta violenza. A Hebron, ad esempio, un imam (un uomo "santo") ha aperto il fuoco su due bambini ebrei prima di essere "neutralizzato" dalle forze israeliane. Uno dei proiettili dell'assassino aveva trapassato il pallone con cui i bambini stavano giocando. Questo ricorda la festa di Purim, che si terrà il prossimo fine settimana, quando gli ebrei dell'antica Persia furono salvati da un olocausto pianificato grazie all'intervento della regina Ester, che provvidenzialmente era giunta alla sua posizione regale "in un momento simile" (Ester 4:14). Oggi, mentre Israele sta rapidamente perdendo i suoi amici tra le nazioni, spetta sicuramente a coloro che hanno ereditato la fede del Messia ebraico - cioè i cristiani - venire in suo aiuto. Avremo il coraggio di alzarci e confessare? Quest'anno Purim coincide con la Domenica delle Palme. Ester, con l'incoraggiamento di suo cugino Mordechai, ha salvato il suo popolo molto tempo fa. E credo che oggi sia toccato in sorte ai cristiani di raccogliere il mantello. È nostro dovere, nei confronti di coloro attraverso i quali la salvezza è arrivata ai Gentili, ricambiare in questo momento di grande bisogno, proprio come fecero i Gentili di Antiochia per i credenti ebrei di Gerusalemme quando ci fu la carestia nel primo secolo dopo Cristo. Dopo aver visto lo scorso fine settimana il film "Il violinista sul tetto", che risale a 53 anni fa, la loro situazione mi ha scosso di nuovo. Non è cambiato molto dai pogrom russi che hanno ispirato questa gioiosa ma tragica rappresentazione musicale della sofferenza ebraica. Sono sicuro che molti possono identificarsi con l'accorata preghiera del protagonista Tevye che "ogni tanto" Dio scelga qualcun altro come suo particolare possesso. Ma invece di aiutare le comunità ebraiche in mezzo a loro, i russi (guidati dai loro sacerdoti ortodossi) li hanno etichettati come "assassini di Cristo" e li hanno cacciati di casa. La Domenica delle Palme, Gesù è stato accolto come Re a Gerusalemme. E naturalmente egli svolge davvero questo ruolo, allora come oggi. Tuttavia, pianse su Gerusalemme perché sapeva che lo avevano rifiutato come popolo. Non avevano conosciuto ciò che avrebbe portato loro la pace e non avevano riconosciuto il tempo in cui Dio era venuto da loro. "Verranno giorni", profetizzò, "in cui i tuoi nemici... ti getteranno a terra, tu e i bambini che sono dentro le tue mura" (Luca 19:28-44). Tutto questo sembra spaventosamente attuale. Ma Egli non ha dimenticato i suoi eletti. I loro cuori sono induriti per un certo tempo, ma quando la messe dei Gentili sarà completa, lo accoglieranno di nuovo (come hanno fatto la Domenica delle Palme). Come disse Gesù: "Perché io vi dico: Non mi vedrete più finché non direte: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Matteo 23:39). Stiamo assistendo a un tremendo sconvolgimento nei luoghi celesti, mentre infuria una feroce battaglia spirituale. Ma abbiamo anche la sensazione che la presenza del Signore stia guadagnando terreno sulla scena mondiale. Il versetto citato all'inizio può anche essere tradotto come segue: "Perché egli verrà come un diluvio crescente, spinto dal soffio del Signore". Il diluvio del male non sarà all'altezza dell'imminente effusione celeste. E il versetto seguente ne spiega il motivo: "Il Salvatore verrà a Sion, a quelli di Giacobbe che si pentono dei loro peccati", dice il Signore. Il Leone della tribù di Giuda (Apocalisse 5:5) - anche l'Agnello immacolato ucciso per i peccati del mondo - sta arrivando! --- * Charles Gardner è autore dei seguenti libri: "Israel the Chosen", disponibile su Amazon; "Peace in Jerusalem", disponibile su olivepresspublisher.com e "A Nation Reborn", disponibile su Christian Publications International.
(Israel Heute, 22 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Non è vero che Israele rafforzò Hamas contro Ramallah (anche se ora fa comodo sostenerlo)
Prima e durante Netanyahu, Israele contrastò duramente Hamas, pur cercando di evitare una crisi umanitaria a Gaza di cui sarebbe stato ovviamente incolpato. Altri sono i veri responsabili del rafforzamento di Hamas
di Ori Wertman
Dopo il massacro del 7 ottobre, ma in realtà avveniva anche prima, viene ripetuta l’accusa al primo ministro Benjamin Netanyahu d’essersi adoperato, durante il suo mandato, per rafforzare Hamas nell’ambito di una strategia volta a indebolire l’Autorità Palestinese, con l’obiettivo di aumentare la divisione interna fra palestinesi e impedire così la creazione di uno stato palestinese.
Molti, in Israele e nel mondo, utilizzano questa accusa per attaccare il governo di Netanyahu. Ma nonostante il fatto che il livello politico e il suo leader portino senz’altro la responsabilità del disastro del 7 ottobre (benché la colpa principale ricada sui capi delle forze armate e dei servizi di sicurezza), in realtà non è stato Israele a rafforzare Hamas. Anche prima e durante il processo di Oslo, i governi israeliani agirono contro il gruppo terroristico, tra l’altro espellendone i dirigenti ed eliminando alcuni suoi alti esponenti.
Durante la seconda intifada (l’intifada delle stragi suicide scoppiata nel 2000 ndr), la strategia israeliana delle uccisioni mirate di capi di Hamas venne intensificata, portando all’eliminazione del fondatore di Hamas Ahmed Yassin e di altri importanti comandanti come Abdel Aziz al-Rantisi, Ibrahim al-Makadmeh e Salah Shehade.
In pratica, prima della guerra attuale fu Netanyahu che, in qualità di primo ministro, guidò Israele in tre dei quattro scontri militari scoppiati con Hamas da quando quest’ultima ha preso il controllo della striscia di Gaza nel giugno 2007: conflitti che hanno inflitto gravi danni alla capacità militare di Hamas causandone ogni volta un indebolimento.
Quando si cerca la causa del rafforzamento di Hamas e dell’indebolimento dell’Autorità Palestinese, il dito deve essere puntato contro altri due attori chiave nella regione mediorientale.
Il primo è la stessa Autorità Palestinese. Malgrado si sostenga che Netanyahu avrebbe fatto di tutto per indebolire l’Autorità Palestinese e il suo leader evitando di portare avanti con loro un processo di pace per risolvere il conflitto, in realtà furono i rifiuti dei leader dell’Autorità Palestinese, Yasser Arafat e poi Mahmoud Abbas, che impedirono un accordo di pace israelo-palestinese.
Oltre al rifiuto di Arafat di accettare la proposta israeliana durante il governo di Ehud Barak alla conferenza di Camp David nel 2000, e persino la proposta del presidente americano Bill Clinton, fu lo stesso Abu Mazen a rifiutare nel 2008 la proposta ancora più generosa di Ehud Olmert, che avrebbe dato vita a uno stato palestinese su un territorio pari al 100% di Cisgiordania e striscia di Gaza, con capitale a Gerusalemme est.
Anche nell’era di Netanyahu, Abu Mazen ha ostacolato per ben tre volte i tentativi di risolvere il conflitto: quando nel 2010 decise di sprecare il congelamento di dieci mesi delle attività edilizie israeliane in tutti gli insediamenti che avrebbe dovuto aprire la strada al negoziato tra le parti; quando nel 2014 fece fallire l’iniziativa del segretario di stato Usa John Kerry; e ovviamente quando si è rifiutato anche solo di discutere il cosiddetto “accordo del secolo” durante l’amministrazione Trump.
Oltre al reiterato rifiuto palestinese di fare la pace con Israele, chi ha offerto a Hamas su un piatto d’argento il controllo sulla striscia di Gaza è stata, di nuovo, l’Autorità Palestinese. Nonostante i massicci investimenti da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente nelle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, queste si rivelarono prive di qualsiasi capacità di fronte all’ala militare di Hamas, che nel giugno 2007 prese facilmente il controllo della striscia di Gaza.
Un altro fattore da menzionare che ha contribuito al rafforzamento di Hamas sono i tanti paesi del mondo arabo. Non si tratta solo dei paesi mediorientali che hanno intenzionalmente agito per rafforzare Hamas e indebolire l’Autorità Palestinese, come il Qatar, la Turchia e l’Iran, paese quest’ultimo che ha sostenuto il gruppo terroristico sin dalla sua fondazione considerandolo parte dell’“Asse della Resistenza” sotto la sua guida (con l’unica eccezione di un breve periodo di crisi tra Iran e Hamas a causa del fatto che inizialmente Hamas aveva negato il proprio sostegno al regime di Assad durante la guerra civile siriana).
Anche altri paesi, fra i quali l’Egitto, che pure condividono con Israele interessi strategici su questioni regionali come i timori per la minaccia nucleare iraniana, hanno intrattenuto con Hamas un rapporto complicato che ha garantito al gruppo terrorista il riconoscimento internazionale come “potere sovrano” sulla striscia di Gaza, cosa che ha approfondito la divisione interna fra palestinesi e indebolito l’Autorità Palestinese.
In conclusione, sebbene Israele abbia di fatto considerato Hamas come il potere sovrano nella striscia di Gaza, abbia condotto negoziati indiretti con essa e abbia accettato l’ingresso nell’enclave di denaro e merci per evitare un disastro umanitario che lo avrebbe sottoposto a ulteriori pressioni internazionali, in effetti non è Israele quello che ha rafforzato Hamas. In pratica, Autorità Palestinese e mondo arabo hanno giocato un ruolo molto pesante nel trasformare l’organizzazione terroristica in quello che è oggi, sia militarmente che politicamente.
Alla luce del 7 ottobre, dove si è visto quanto si fosse sbagliato l’intero establishment della sicurezza israeliana nel valutare che Hamas fosse ormai dissuaso dall’attaccare, è meglio essere prudenti nell’attribuire a Israele tutta questa influenza nella regione del Medio Oriente per quanto riguarda il rafforzamento e l’indebolimento degli attori nell’arena palestinese. -----
(da: Jerusalem Post, 19.3.24)
Il problema di Rafah tormenta il mondo. La comunità internazionale insiste su tutti i toni (inclusi i più minacciosi) perché Israele si astenga dall'attaccare la cittadina e ciò benché si sappia che in essa (e nei suoi tunnel) si sono rifugiati quattro battaglioni di miliziani e tutti i capi di Hamas superstiti.
Il perché di questa insistenza è facile da capire. I terzi sono infastiditi dalle sofferenze della popolazione civile; sono preoccupati per i rifugiati palestinesi che si trovano a Rafah e (dicono) non saprebbero dove andare, salvo sotto qualche tenda; infine sono convinti che, anche facendo il possibile per evitare vittime collaterali, l'attacco sarebbe sanguinoso: e allora, invece di aiutare un nuovo sfollamento ordinato, vai col pianto greco. La verità è che loro non vorrebbero essere disturbati. Non gli importa che Israele sradichi o no ogni traccia di Hamas da Gaza, o che poi Hamas canti vittoria. A loro importa avere la coscienza tranquilla, quand'anche Hamas riprendesse i suoi attentati. Né (cosa veramente strana) gli viene mai in mente di chiedere a Hamas di riconsegnare i sequestrati e arrendersi. Questo salverebbe Rafah. Ma i pacifisti concepiscono la pace solo come resa dell'aggredito. Il vigliacco si rivernicia a nuovo la coscienza inducendo anche gli altri alla vigliaccheria. E che sia generoso solo a parole si vede nel fatto che nessuno, cristiano o musulmano, si sogna di ospitare i gazawi. Poverini, poverini, ma che restino dove sono.
Le anime belle vorrebbero che Israele si preoccupasse più dei gazawi che della propria sicurezza e questo è assurdo. Il problema di Rafah sarà risolto quando Israele, come ha sempre promesso, avrà eliminato i terroristi da Gaza. E per i civili, residenti e sfollati, essa può solo invitarli a lasciare una cittadina che presto sarà teatro di combattimenti casa per casa. Chi resta, sappia che lo fa a suo rischio.
Chi vuole una soluzione a due Stati? Né gli israeliani né i palestinesi
L'ossessione degli Stati Uniti per la soluzione a due Stati contraddice chiaramente la volontà dell'opinione pubblica israeliana e non è certo ciò che vogliono i palestinesi.
di Israel Kasnett
GERUSALEMME - Il senatore statunitense Chuck Schumer ritiene che il popolo palestinese "voglia le stesse cose di qualsiasi altro popolo: pace, sicurezza e prosperità".
Tuttavia, i palestinesi chiaramente non vogliono la pace. Essi stessi ammettono di non volere "ciò che ogni altro popolo vuole". Vogliono invece il terrorismo e la distruzione dello Stato ebraico.
Diversi sondaggi hanno dimostrato che la maggioranza dei civili palestinesi sostiene il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas e l'idea di uno Stato palestinese entro i confini del 1948, il che significa la distruzione di Israele.
Un nuovo sondaggio del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (PSR), pubblicato mercoledì, mostra che una grande maggioranza di palestinesi nella Striscia di Gaza (71%) sostiene la decisione di Hamas di compiere il massacro del 7 ottobre, rispetto al 57% di dicembre.
Il sondaggio mostra anche un aumento del sostegno dei palestinesi al terrorista Marwan Barghouti, se dovesse correre contro il leader terrorista di Hamas Ismail Haniyeh alle elezioni. Se Haniyeh dovesse correre contro il leader dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, i palestinesi favorirebbero Haniyeh.
Ben il 33% dei palestinesi ritiene che l'obiettivo più importante oggi sia il "diritto al ritorno" dei rifugiati e dei loro discendenti nelle città e nei villaggi del 1948. Ciò significa che, secondo il sondaggio del PSR, almeno un terzo dei palestinesi vuole sostituire Israele - e non fare la pace con esso.
Molti palestinesi condividono il desiderio di Hamas di distruggere Israele, come espresso nello statuto del gruppo terroristico del 1988, e la maggioranza dei palestinesi sostiene la formazione di gruppi armati che uccidono gli israeliani.
Un sondaggio del 2021 dell'Istituto di Washington per la politica del Vicino Oriente ha rilevato che la maggioranza dei palestinesi è favorevole alla "riconquista di tutta la Palestina storica, compreso il territorio pre-1967".
Dato questo sostegno palestinese di lunga data al terrorismo, ai leader terroristici e allo sradicamento di Israele, un'ampia maggioranza di israeliani concorda sul fatto che la creazione di uno Stato palestinese, soprattutto in risposta al massacro del 7 ottobre, sarebbe una chiara ricompensa per il terrorismo. Ma questo è esattamente ciò che la comunità internazionale sta cercando di ottenere, contro la volontà degli israeliani.
Secondo Schumer, gli israeliani sono persi perché sono guidati da un governo di destra e non credono al mondo delle favole del Partito Democratico.
Ma gli israeliani oggi sono inorriditi dall'idea che i palestinesi abbiano un loro Stato, dal quale inevitabilmente compirebbero attacchi terroristici di massa. Molti si chiedono perché l'amministrazione Biden spinga per una soluzione a due Stati quando la maggioranza dei palestinesi sostiene apertamente il terrorismo. Se la comunità internazionale insiste sul fatto che gli apolidi devono avere uno Stato ora, che dire dei curdi, dei rohingya o delle tribù delle colline in Thailandia?
"Gli americani, che insistono con urgenza sulla soluzione dei due Stati, sono sordi. Non ascoltano i loro alleati israeliani su come il 7 ottobre li abbia colpiti e non ascoltano ciò che Hamas dice sui loro obiettivi riguardo agli ebrei e allo Stato di Israele", ha dichiarato Bradley Bowman, direttore senior del Centro per il potere militare e politico presso la Fondazione per la difesa delle democrazie.
"In tempi di crisi, i veri amici ascoltano con attenzione", ha aggiunto. Nelle condizioni attuali, uno Stato palestinese sarebbe semplicemente una base migliore per Hamas e i suoi partner terroristi per attaccare Israele".
L'amministrazione Biden è ossessionata dalla soluzione dei due Stati e insiste sul fatto che sia l'unica via per la pace - anche se la maggioranza dei palestinesi sostiene il terrorismo e anche se i palestinesi hanno rifiutato ogni accordo di pace da Oslo in poi. Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici e membro del gabinetto di guerra israeliano con lo status di osservatore, ha dichiarato in una recente intervista a JNS: "Chiunque parli di uno Stato palestinese ora vive su un altro pianeta".
Secondo Eytan Gilboa, esperto di relazioni tra Stati Uniti e Israele presso l'Università Bar-Ilan di Ramat Gan e senior fellow del Jerusalem Institute for Strategy and Security, il sentimento israeliano sulla questione è così forte che è improbabile che gli sforzi di Washington producano risultati.
"In questa fase, non ha senso sollevare la questione di uno Stato palestinese. Non credo che possano spingere la questione perché in Israele c'è un consenso contrario", ha detto.
Se negli anni '90 l'opinione pubblica israeliana era largamente a favore di uno Stato palestinese, anni di terrorismo e di rifiuto palestinese hanno convinto la maggior parte degli israeliani che un accordo di pace con i palestinesi non è fattibile in questo momento.
La maggioranza degli israeliani si rende conto che uno Stato palestinese accoglierebbe, non respingerebbe, il terrore e la violenza. Un sondaggio di febbraio dell'Israel Democracy Institute (IDI) ha rilevato che il 44% degli israeliani ritiene che il terrorismo aumenterebbe se si realizzasse uno Stato palestinese.
Un sondaggio dell'IDI del gennaio 2024 ha rilevato che più della metà dell'opinione pubblica israeliana si oppone alla creazione di uno Stato palestinese come parte di un accordo, anche se questo porrebbe fine alla guerra contro Hamas e normalizzerebbe le relazioni tra Gerusalemme e Riyadh.
Secondo un sondaggio condotto dal Jewish People Policy Institute il 14 marzo, il 79% degli ebrei israeliani è d'accordo e il 65% è fortemente d'accordo con l'affermazione: "Non c'è alcuna possibilità di un accordo di pace con i palestinesi nel prossimo futuro". Tra gli arabi israeliani, il 24% è "fortemente d'accordo" e un altro 15% "un po' d'accordo" con questa affermazione.
A febbraio, il plenum della Knesset ha votato a stragrande maggioranza a favore della decisione del governo di rifiutare qualsiasi riconoscimento unilaterale della statualità palestinese, in mezzo alle notizie secondo cui l'amministrazione Biden starebbe prendendo in considerazione una simile mossa.
Secondo Bowman, "Schumer ha fatto alcune cose giuste e altre sbagliate nel suo discorso". Molte delle sue affermazioni su Hamas erano giuste, ma il tentativo di dettare i tempi delle elezioni israeliane è stato un grosso errore.
"Dall'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele un'enorme quantità e varietà di armi", ha detto. "Eppure alcuni negli Stati Uniti hanno chiesto di limitare o interrompere la fornitura di armi a Israele. Questo comprensibilmente preoccupa molti israeliani".
Gilboa ha sottolineato che l'atteggiamento americano apparentemente ostile nei confronti di Israele non è nuovo.
"Gli Stati Uniti ritengono di poter criticare la politica israeliana finché Israele si affida a loro per le armi e il sostegno diplomatico", ha detto.
Tuttavia, "un'escalation" può essere riconosciuta nelle dichiarazioni di Schumer, del vicepresidente Kamala Harris e dello stesso presidente Joe Biden.
"Si sono concentrati su [il Primo Ministro israeliano Benjamin] Netanyahu perché non è popolare tra i Democratici e il Partito Democratico", ha detto.
Il problema principale, secondo Gilboa, è rappresentato dalle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Per paura di perdere la loro base di elettori, i Democratici e l'amministrazione Biden stanno assumendo una posizione più dura nei confronti di Israele.
L'opinione pubblica israeliana è consapevole del fatto che il governo statunitense e la comunità internazionale non hanno reagito allo stesso modo quando, ad esempio, la Siria ha massacrato 600.000 dei suoi cittadini, afferma Gilboa. Questa forte pressione su Israele è vista dagli israeliani come un modo economico per l'amministrazione Biden di guadagnare punti politici sulla strada americana.
"Questo danneggia i due obiettivi comuni di sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi", ha detto Gilboa.
Gilboa ritiene che lo Stato ebraico dovrebbe ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti di fronte alla crescente ostilità americana. Allo stesso tempo, ha suggerito che Israele dovrebbe investire pesantemente nell'influenzare l'opinione pubblica americana per ridurre il sentimento anti-israeliano e antisemita.
L'ossessione degli Stati Uniti per una soluzione a due Stati è chiaramente contraria alla volontà dell'opinione pubblica israeliana e certamente non è ciò che vogliono i palestinesi.
Secondo Bowman, il principale ostacolo a una vera soluzione a due Stati è Hamas.
"Non c'è una strada percorribile per una soluzione a due Stati finché ci saranno gruppi come Hamas e avranno i mezzi per fare ciò che hanno fatto il 7 ottobre", ha affermato.
"Hamas e altri gruppi terroristici che si rifiutano di riconoscere il diritto all'esistenza di Israele sono la ragione principale per cui oggi non esiste uno Stato palestinese", ha affermato.
"Non sono ottimista sulla pace israelo-palestinese finché un numero maggiore di palestinesi non vedrà Hamas e gruppi terroristici simili come il principale ostacolo alla pace e a una vita migliore".
(Israel Heute, 22 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Una serie di cunicoli e passaggi sotterranei per i ribelli ebrei risalente a quasi duemila anni fa, ai tempi delle rivolte di Bar Kokhba contro l’impero romano, sono stati scoperti da una missione dell’Autorità Israeliana sulle Antichità (IAA).
Il complesso archeologico, descritto come la scoperta più estesa del suo genere nella Galilea, ha fatto luce su una pagina drammatica della storia del popolo ebraico, la severa repressione romana degli ultimi tentativi di riconquistare l’indipendenza del Regno di Giudea.
La rete di tunnel è stata trovata nei pressi di Huqoq, un piccolo villaggio vicino al Lago di Tiberiade, in un’area contigua a una precedente cisterna d’acqua. Si evince dai ricercatori, che durante le rivolte del 132-136 e.v. gli abitanti della cittadina scavarono dei corridoi che potessero collegare otto camere segrete e un mikveh, un bagno rituale.
A Huqoq era stata già scoperta una sinagoga colma di mosaici bizantini nel 2011, diventando un centro di scavi di rilievo internazionale. Per questo motivo, la IAA, con il supporto del Ministero per il Patrimonio, lo Zefat Academic College e del Keren Kayemeth LeIsrael, hanno investito nell’ampliamento delle ricerche nella zona circostante.
“Abbiamo trasformato lo scavo in un luogo comunitario come parte della visione dell’Autorità Israeliana per le Antichità”, afferma la dott.ssa Einat Ambar-Armon, direttore del Centro Archeologico-Educativo dell’IAA. L’obiettivo è quello di “riconnettere il pubblico al suo patrimonio”, in modo da riscoprire il suo passato e rafforzare ulteriormente il legame dei residenti al proprio territorio.
(Bet Magazine Mosaico, 22 marzo 2024)
Parashà di Waykrà: I tentativi di restaurare il servizio nel Bet Ha-Mikdàsh
di Donato Grosser
Il terzo libro della Torà è chiamato Levitico perché comprende le mitzvòt di cui è responsabile la tribù di Levi, cioè kohanìm e leviìm. La prima parashà, Waykrà, inizia con la descrizione dei korbanòt, le offerte da portare nel Mishkàn e poi nel Bet Ha-Mikdàsh. Il servizio dei kohanìm e quindi l’offerta di korbanòt cessò nel’anno 70 E.V. quando il Bet Ha-Mikdàsh fu distrutto da Tito.
Un primo tentativo di ricostruzione del Bet Ha-Mikdàsh è citato nel Midràsh (Bereshìt Rabbà, 64). Nella Enyclopedia of Talmudic and Gaonic Literature, R. Elia Artom (Torino, 1887-1965, Roma) alla voce R. Yehoshua’ ben Chananià, cita questo midràsh dove è raccontato che in un primo tempo l’imperatore Adriano diede il permesso di ricostruire il Bet Ha-Mikdàsh.
Il progetto fu bloccato quando, per via dell’opposizione dei Samaritani, il decreto imperiale fu modificato imponendo agli ebrei di spostare la locazione del Bet Ha-Mikdàsh, rendendo il progetto inattuabile. L’assemblea d’Israele era riunita nella valle di Beit Rimon. Quando arrivarono quelle missive, cominciarono a piangere. Volevano ribellarsi all’impero. Fu allora che Rabbi Yehoshua’ ben Chananyà calmò il pubblico con questa parabola: “Un leone aveva sbranato la preda e un osso era conficcato la sua gola. Il leone disse: A chi lo estrarrà darò una ricompensa. Un airone egiziano dal lungo becco inserì il becco e lo estrasse. Poi disse al leone: Dammi la mia ricompensa. Il leone rispose: Và, vantati e dì che sei entrato in pace nella bocca del leone e ne sei uscito in pace. Quindi è sufficiente che abbiamo avviato rapporti con questa nazione in pace e ne siamo usciti in pace”.
Il secondo tentativo avvenne nell’anno 362 E.V. Il 19 luglio di quell’anno l’imperatore Giuliano il filosofo (detto l’apostata dai cristiani) convocò i capi della comunità ebraica ad Antiochia e annunciò che avrebbe provveduto alla ricostruzione della città di Gerusalemme, del Tempio del Dio Supremo e dell’altare. Il professor Michael Avi Yonah (Lviv, 1904-1974, Gerusalemme) nel suo libro The Jews of Palestine (pp. 199-200) scrive che il progetto iniziò nel 363 con la rimozione delle rovine del Tempio di Jupiter fatto costruire da Adriano al posto del Bet Ha-Mikdàsh. L’imperatore partì verso la Persia il 5 marzo 363. I lavori proseguirono in aprile e maggio. Poi Giuliano fu ucciso in battaglia a Ctesiphon il 26 giugno 363 e i lavori sotto il nuovo imperatore vennero interrotti in modo permanente.
Circa un secolo fa uno dei più autorevoli chakhamìm di Gerusalemme, r. Yechiel Mikhel Tukachinsky (Belarus, 1871-1955, Gerusalemme), si dedicò allo studio delle regole relative al Bet Ha-Mikdàsh, che furono pubblicate sotto il titolo ‘Ir Ha-Kodesh ve-Ha-Mikdàsh. In quest’opera l’autore, calcolò le dimensioni del Monte del Tempio e del Bet Ha-Mikdàsh, e ne pubblicò delle mappe dettagliate.
L’ultima sezione della sua opera tratta la possibilità di ricostruire il mizbèach (altare) al fine di poter tornare a sacrificare il korbàn Pèsach, che veniva consumato a Gerusalemme la notte del Sèder. Stabilito il fatto che è permesso offrire il korbàn Pàsach sul mizbèach anche se il Bet Ha-Mikdàsh non è stato ricostruito, r. Tukachinsky individuò un’area nella quale si sarebbe potuto costruire il mizbèach se le circostanze politiche lo avessero permesso. La situazione politica non lo permetteva allora e non lo permette neppure ai nostri giorni. Così aspettiamo e speriamo nella ricostruzione del Bet Ha-Mikdàsh presto e nei nostri giorni.
Israele: la preghiera globale per la salvezza degli ostaggi e dei soldati al fronte
di Michelle Zarfati
Un momento di preghiera e di raccoglimento con il pensiero rivolto ai 134 ostaggi ancora prigionieri a Gaza e a tutti i soldati al fronte. È quello avvenuto con una lettura globale dello Shemà a Gerusalemme, al Muro Occidentale, durante il giorno del digiuno di Ester. Un momento per riunirsi e confortarsi in un periodo difficile per gli ebrei di tutto il mondo. Per questo non solo migliaia di israeliani sono giunti fisicamente nel luogo più sacro dell’ebraismo, ma attraverso una diretta streaming hanno potuto partecipare al momento solenne gli ebrei di tutto il mondo.
Durante la funzione sono anche stati recitati i salmi dalle famiglie israeliane seguiti da una preghiera speciale avvenuta alle 17:30, per un momento che ha idealmente unito nel dolore migliaia di persone.
Anche il presidente Isaac Herzog ha preso parte a questa iniziativa. “Come tutto il popolo ebraico, mi unisco anche io alla preghiera per il ritorno degli ostaggi, il recupero di tutti i feriti nel corpo e nell’anima, il successo e la pace dei nostri soldati eroi e l’Unione del popolo d’Israele qui e nel mondo intero”, ha affermato.
L’evento è stato trasmesso in diretta grazie alle riprese avvenute sul tetto del Dan Family Aish World Center, un albergo che si affaccia sul Muro Occidentale. La diretta è stata organizzata in collaborazione con le principali organizzazioni ebraiche in Israele e in tutto il mondo. Un giorno solenne di digiuno, per sostenersi attraverso la preghiera e dare voce alle famiglie di ostaggi che hanno condiviso le loro storie in diretta.
Non a caso si è scelto come giorno per pregare il Digiuno di Ester, un momento solenne che anticipa la festa gioiosa di Purim, che per le famiglie degli ostaggi quest’anno sembra essere più lontana che mai. “È terribilmente difficile celebrare Purim – vestirsi, essere felici, inviare pacchetti di mishloach manot” dice uno dei parenti degli ostaggi durante la cerimonia.
“Quest’anno sarà veramente terribile, ma ci auguriamo che il prossimo possa essere felice per tutto il popolo d’Israele” ha concluso uno dei familiari.
(Shalom, 22 marzo 2024)
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Preghiera di massa per gli ostaggi al Muro del Pianto
Gli ebrei di tutto il mondo sono invitati a partecipare online.
L'organizzazione educativa ebraica Aish (ex Aish HaTorah) ha annunciato una preghiera di massa al Muro Occidentale per il benessere dei prigionieri di Gaza per oggi, 21 marzo, alle 16.30 ora di Israele. Gli ebrei di tutto il mondo sono invitati a partecipare virtualmente.
Il servizio di preghiera coincide con il Digiuno di Ester, che inizia all'alba di giovedì e commemora il digiuno di tre giorni del popolo ebraico durante la festa di Purim, che inizia al tramonto del 23 marzo.
Il servizio sarà trasmesso in diretta e condotto in inglese dal famoso chef Jamie Geller, Chief Media and Marketing Officer di Aish Global.
"Ascoltate le voci e le storie esclusive delle famiglie in ostaggio che terminano in un momento di preghiera e solidarietà con milioni di ebrei in tutto il mondo che recitano insieme la Shma", si legge in un annuncio di Aish.
Il 10 gennaio, migliaia di persone hanno partecipato a un servizio di preghiera al Muro Occidentale dedicato agli ostaggi e al benessere dei soldati dell'IDF che combattono nella Striscia di Gaza.
Alla cerimonia hanno partecipato anche i familiari dei 134 ostaggi ancora detenuti da Hamas a Gaza, oltre ai soldati feriti in guerra e che ancora combattono contro i terroristi nell'enclave palestinese.
Il Presidente Isaac Herzog ha annunciato mercoledì la decisione di onorare l'eroismo degli ostaggi Yotam Haim, Samer Talalka e Alon Shamriz, tragicamente uccisi dai soldati dell'IDF mentre fuggivano dalla prigionia di Hamas. I premi saranno consegnati alle famiglie degli ostaggi presso la residenza del Presidente a Gerusalemme in un momento da definire.
I tre ostaggi sono fuggiti dai loro rapitori di Hamas lo scorso dicembre. Si sono spostati tra gli edifici e hanno lasciato cartelli che chiedevano di essere salvati. Sono stati scambiati per terroristi dai soldati dell'IDF e uccisi.
"Date le circostanze eccezionali di questo caso, il Presidente israeliano ha deciso di onorare la determinazione, il coraggio e il particolare coraggio di cui hanno dato prova e di consegnare alle loro famiglie un certificato di riconoscimento unico a nome dello Stato di Israele", si legge in un comunicato dell'ufficio del Presidente.
(Israel Heute, 21 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Mahmoud Kawasme, alto funzionario di Hamas, è stato arrestato dalle forze sicurezza israeliane all’ospedale Al Shifa di Gaza City. Lo hanno annunciato mercoledì sera lo Shin Bet e l’IDF. Kawasme era uno dei pianificatori del rapimento – avvenuto nel 2014 – e dell’uccisione dei tre adolescenti israeliani Naftali Fraenkel, Eyal Yifrach and Gil-ad Shaer.
Kawasme era già noto alle forze di sicurezza israeliane in quanto era uno dei detenuti palestinesi riportati a Gaza durante lo scambio di prigionieri del 2011 con il soldato dell’IDF Gilad Shalit. Da quel momento l’uomo ha diretto le attività terroristiche di Hamas in Cisgiordania, tra cui il rapimento e l’omicidio dei ragazzi israeliani, oltre a diversi attacchi ad Israele avvenuti negli ultimi anni.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato mercoledì sera che le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato anche diversi alti funzionari di Hamas nelle recenti operazioni.
“Mentre ci prepariamo ad entrare a Rafah, operazione che richiederà del tempo, continuiamo ad agire con tutta la forza”, ha detto Netanyahu. “Stiamo continuando le operazioni a Khan Younis, prendendo di mira e catturando i leader di Hamas come abbiamo appena fatto ad Al Shifa, ed eliminando al contempo centinaia di terroristi”.
Prosegue anche quest’anno la collaborazione tra il Memoriale della Shoah di Milano ed i giovani calciatori dell‘Inter nella campagna contro ogni forma di razzismo. Da ormai qualche anno ormai il Memoriale ospita per una visita accompagnata da una rappresentazione teatrale gruppi legati al mondo Inter, in un periodo prossimo al 21 marzo, Giornata Internazionale contro le Discriminazioni Razziali.
La visita è da collocarsi all’interno della campagna #KeepRacismOut, promossa fra gli altri da Lega Serie A – quest’anno presente anche Omar Daffè in rappresentanza della Lega, e dal Centro Sportivo Italiano, con cui il Memoriale sta per iniziare un percorso di quattro incontri dedicati ai propri iscritti. Gli episodi di razzismo negli stadi, così come fuori dal mondo sport, rendono sempre più rilevanti momenti come questo, durante i quali si approfondisce la storia della discriminazione e deportazione ebraica, costruendo ponti invece di muri.
Ci ha fatto particolarmente piacere ospitare la visita durante l’esposizione “L’amore non ha colore” di Lucas Possiede, prodotta da Mamme per la pelle e Nobile Agency, curata Maria Vittoria Baravelli: la mostra racconta le storie di famiglie i cui figli e genitori hanno origini diverse fra loro, cercando di abbattere stereotipi e pregiudizi. Ad accompagnarla, in maniera provocatoria, frasi a volte apertamente razzista, a volte apparentemente innocue, che portano ogni visitatore a chiedersi quali spazi di crescita possa avere.
(Bet Magazine Mosaico, 21 marzo 2024)
Gelo Università-Israele, è allarme nel governo: “Antisemitismo dilagante”
Critiche dopo lo stop del Senato accademico di Torino a nuovi progetti di ricerca tra Atenei. La premier alla Camera: «Grave scelta dopo l’occupazione dei collettivi»
di Grazia Longo
ROMA - «Preoccupante». È così che la premier Giorgia Meloni definisce «l’ondata di antisemitismo dilagante, anche nella nostra opinione pubblica. La considero preoccupante in particolare quando colpisce le nostre istituzioni».
Intervenendo alla Camera, durante la replica nel dibattito sulle sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo, la presidente del Consiglio ribadisce il concetto in riferimento a quanto accaduto nel capoluogo piemontese: «Considero grave e preoccupante la decisione del Senato accademico dell’Università di Torino di non partecipare a una bando di ricerca con Israele». Tanto più che la decisione è stata presa «dopo un’occupazione da parte dei collettivi. Se le istituzioni si piegano a questi metodi rischiamo di avere molti problemi».
L’allarme del governo sulla deliberazione dell’ateneo torinese accende il dibattito politico. La ministra all’Università Anna Maria Bernini osserva: «Io non condivido la decisione, perché sono e rimango convinta che la diplomazia scientifica sia un'arma di pace. E quindi credo che le università debbano essere sempre fedeli a loro stesse. In ogni caso ho il massimo rispetto, e questo è alla base di tutto il mio mandato, dell’autonomia universitaria». Sull’indipendenza ha un’idea diversa la vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Augusta Montaruli: «L’autonomia universitaria va difesa per questo c’è preoccupazione per la decisione del Senato accademico di Torino su Israele. Non sfugge come questa sia maturata mentre era in corso un’irruzione dei collettivi durante lo svolgimento del Senato. Non sfugge neanche come a Torino esista un problema di ordine pubblico legato all’attività degli antagonisti dentro e fuori l’Università».
Gianna Gancia, europarlamentare della Lega incalza: «È inquietante, allarmante, preoccupante, la deriva antisemita in corso in Italia in generale, in particolare nelle università, e a Torino, in particolare con il provvedimento del senato accademico di boicottare la cooperazione scientifica con Israele».
In sintonia con la premier, pur sedendo all’opposizione, anche il leader del M5S Giuseppe Conte: «Sono profondamente convinto che le università e la ricerca scientifica non possano mischiarsi alle politiche governative. Questo è valso anche quando c’è stata l’invasione della Russia, che noi abbiamo condannato fermamente, per quanto riguarda le relazioni scientifiche tra centri di ricerca, università, accademie, e vale anche adesso per i rapporti delle nostre università, centri di ricerca, con le università, accademie, centri di ricerca israeliani». E a chi gli fa notare che qualche volta la pensa come Meloni, risponde: «Per la legge dei grandi numeri ogni tanto lei ci prende».
Diversa, invece, la posizione della senatrice Pd Simona Malpezzi che mette in guardia l’Aula da episodi di censura perché è «vero, una decisione, opinabile, che può piacere o non piacere, ma che è stata presa da una università nella sua autonomia. Attenzioni a non porci noi a fare la censura a scelte fatte democraticamente». E quanto alla richiesta del capogruppo della Lega Massimiliano Romeo alla Commissione sull’odio, Malpezzi ammonisce: «Attenzione che ogni scelta non condivisa sia stigmatizzata allo stesso modo».
Parole che non piacciono al capogruppo a Palazzo Madama di Italia Viva, Enrico Borghi, che parla di «pilatismo del Pd con un atteggiamento manicheo che non aiuta in alcun modo la soluzione, ma vuole sfruttare per miopi fini di consenso un dramma».
Come «un fatto grave» bolla l’episodio torinese Mariastella Gelmini, senatrice e portavoce di Azione: «Le università restino luoghi di pluralismo, aperti al dialogo e al confronto. La cooperazione culturale e scientifica contraddistingue da sempre le relazioni bilaterali tra Italia e Israele, rapporti che non vanno boicottati, ma consolidati e coltivati con maggiore impegno e determinazione».
E la presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni chiosa: «C’è una preoccupante escalation negli atenei, con esplicitazioni di un odio verso Israele e verso gli ebrei che nelle ultime settimane ha raggiunto livelli di gravissima preoccupazione».
(La Stampa, 21 marzo 2024)
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Università di Torino. Le reazioni allo stop al bando di collaborazione con Israele
L’appello dei docenti: “La decisione infanga l’ateneo”
di Daniele Toscano
Si moltiplicano le reazioni di sdegno per la decisione dell’università di Torino di non partecipare al bando 2024 del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale per la raccolta di progetti di collaborazione tra le istituzioni di ricerca italiane e israeliane. Oltre al mondo ebraico, che si è espresso con dichiarazioni, note e lettere sia dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che di singole comunità locali, sono partiti un appello di docenti ed ex docenti dello stesso ateneo piemontese e una lettera aperta dell’Associazione Setteottobre indirizzata alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al Ministro per l’Università e la Ricerca Anna Maria Bernini. Ma anche lo stesso mondo politico si è espresso, con posizioni contrastanti tra i diversi partiti.
La decisione del Senato accademico, votata lo scorso 19 marzo a maggioranza (un voto contrario e due astensioni), ha approvato una mozione che riteneva inopportuna la partecipazione al bando del Ministero degli Esteri per il protrarsi del conflitto nella Striscia di Gaza. Questa votazione si è svolta al termine di un’assemblea tra i senatori e gli studenti del collettivo ‘Cambiare Rotta’ e ‘Progetto Palestina’, che la mattina avevano interrotto una seduta del Senato accademico.
Sul tema è intervenuta anche la premier Giorgia Meloni in audizione alla Camera. “Considero preoccupante l’ondata di antisemitismo dilagante. Considero grave e preoccupante che il Senato accademico dell’Università di Torino scelga di non partecipare al bando per la cooperazione scientifica con Israele. E lo faccia dopo un’interruzione con un’occupazione da parte dei collettivi. Se le istituzioni si piegano a questi metodi rischiamo di avere molti problemi”.
Il dibattito politico ha visto però diverse posizioni. Mariastella Gelmini, senatrice e portavoce di Azione, ha commentato come “un fatto grave” questa decisione, sottolineando l’importanza della cooperazione culturale e scientifica tra Italia e Israele, mentre la vicepresidente del gruppo M5S al Senato Alessandra Maiorino ha parlato di “ingerenza della politica particolarmente lesiva della libertà di insegnamento”.
• L’ebraismo italiano si è espresso con risentimento e apprensione.
Il presidente della Comunità di Roma
Victor Fadlun
Victor Fadlun, Presidente della Comunità Ebraica di Roma
ha parlato in una nota di “sdegno e preoccupazione”, ricordando che “le leggi razziali del 1938 sono state precedute e seguite da una propaganda antisemita che è passata attraverso le Università e gli ambienti accademici”, con “l’epurazione, la persecuzione e l’esilio di almeno 200 tra ricercatori e professori universitari. […] Qui a essere boicottata è anzitutto la democrazia”.
La presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni ha dichiarato all’ANSA che “si è superata ogni linea rossa e la preoccupazione per la situazione universitaria dilaga”; ha quindi lanciato “un appello a Meloni, a Bernini e alla presidente della Crui Iannantuoni, affinché la definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance sull’antisemitismo sia recepita a pieno da tutte le Università italiane”.
La Comunità di Torino, con una lettera firmata dal Presidente
Dario Di Segni
Dario Di Segni, Presidente della Comunità Ebraica di Torino
indirizzata al Magnifico Rettore, ha espresso “grave turbamento e indignazione”, ritenendo che la decisione presa “mortifica i principi di libertà e di collaborazione che sono i fondamenti che regolano la vita e l’attività delle istituzioni accademiche e non ha precedenti nei rapporti con qualunque altro Stato, compresi quelli retti da regimi dittatoriali”.
Tra le associazioni ebraiche, si è espressa anche l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, particolarmente sensibile ai problemi che coinvolgono ambiti legati alla fascia giovanile.
Brunello Mantelli, Ugo Volli, Dario Peirone, Riccardo de Caria, Daniela Santus sono i primi firmatari di un appello di docenti ed ex docenti dell’università torinese. Nel testo rilevano come l’ateneo sia stato infangato con metodi di natura squadristica utilizzati da una minoranza di facinorosi. Aggiungono che “non ha senso alcuno interrompere la cooperazione con università di altri Stati, e del resto le Università della Repubblica hanno regolari rapporti con Atenei di Stati il cui regime è tutt’altro che democratico, mentre qui si vogliono interrompere i rapporti di collaborazione e scambio con gli Atenei di uno Stato democratico parlamentare”. Rilevano altresì che “il boicottaggio scientifico del solo Stato di Israele, fra i molti che si trovano coinvolti in conflitti armati, di cui questa decisione appare l’inizio, rientra appieno nell’ambito dell’antisemitismo, com’è definito dall’International Holocaust Remembrance Alliance (I.H.R.A.), sottoscritta tra l’altro da 41 stati di cui 25 europei (inclusa l’Italia) e dagli Usa”. Invitano pertanto “Rettore, Giunta e Senato accademici a far togliere la targa che ricorda, nel Palazzo del Rettorato, i quattro professori dell’Ateneo che ebbero il coraggio di opporsi al dettato monarchico-fascista”.
L’Associazione Setteottobre, che raccoglie intellettuali, politici e semplici cittadini, ha individuato in questa scelta “un atto gravissimo, diretta conseguenza del clima di intimidazione antisemita di cui si stanno moltiplicando gli esempi nelle Università italiane dopo il 7 ottobre. […] Per la prima volta nel nostro paese un’istituzione accademica si piega al diktat di un manipolo di studenti che, riferendosi a Israele, usano la stessa definizione cara agli ayatollah iraniani: ‘entità sionista’”.
Quel che è certo, è che si tratta di un episodio che porta la mente alle analoghe vicende che negli ultimi giorni si sono verificate nelle Università di Roma e Napoli, dove sono stati impediti gli interventi rispettivamente di David Parenzo e Maurizio Molinari: tra questi importanti centri universitari si dipana un filo rosso che preoccupa per il crescente sentimento antisemita che trova sempre più consensi.
AZEKAH (locanda) - Gli archeologi hanno scoperto le rovine di un tempio cananeo. Il "Tempio del Sol Levante" fu costruito circa 3.300 anni fa sulla collina di Azekah, un antico insediamento vicino a Gerusalemme.
Il tempio, risalente alla tarda età del bronzo, offre spunti di riflessione sulla religione dei Cananei. Gli archeologi hanno anche trovato molti manufatti di culto che mescolano elementi egizi e cananei. Secondo i ricercatori, questi testimoniano la forte influenza dell'antica cultura egizia.
• Possibili prove del crollo dell'Egitto
Canaan fu sotto il dominio egiziano tra la metà del XV secolo e la metà del XII secolo a.C.. Alla fine dell'Età del Bronzo, diverse civiltà crollarono. Sebbene anche l'Egitto si sia ritirato da Canaan nel 1150 a.C., l'impero non si riprese mai completamente.
Le rovine del tempio distrutto, con i suoi elementi egizi, potrebbero essere la prova del successivo crollo di Azekah. Sabine Kleiman, archeologa dell'Università di Tel Aviv, ha dichiarato al quotidiano "Ha'aretz".
• Gli scavi sono iniziati nel 2014
Il tempio di Azekah è stato scavato dal 2014 da un team dell'Università di Tel Aviv guidato da Oded Lipschits. I ricercatori hanno descritto le loro ultime scoperte a marzo nella rivista jBiblical Archaeology Review”. Gli archeologi ipotizzano due fasi nella storia del tempio. Essa si estende alla seconda metà della tarda età del bronzo (dal XVI al XII secolo a.C.). La costruzione del santuario iniziò alla fine del XIV o all'inizio del XIII secolo, originariamente con una piattaforma pavimentata sulla collina di Azekah.
• Tempio rivolto a est
L'orientamento a est verso la valle di Elah - il successivo luogo della battaglia tra Davide e Golia - è noto da altri santuari in quest'area geografica. Tra questi, i templi solari egiziani dello stesso periodo, che erano dedicati al saluto quotidiano del sole, dicono i ricercatori.
In una seconda fase, alla fine del XIII o all'inizio del XII secolo a.C., il tempio fu ampiamente ristrutturato. Alcune stanze aperte furono chiuse con dei muri e ne furono aggiunte altre.
• Un luogo di culto per diverse divinità
L'orientamento a est del tempio e le sue connessioni cultuali con il culto del sole non sono una prova esclusiva del culto del dio sole. Nei templi cananei era comune adorare più divinità nello stesso tempio, spiega Kleiman.
"Era un luogo dove la gente veniva ad adorare. Chiunque poteva venire e fare dediche a chiunque volesse, ai propri antenati, a Baal, alle divinità egizie, alla divinità della valle di Elah", ha detto. Azekah sopravvisse solo pochi decenni dopo la ritirata egiziana. Fu completamente distrutta da una forza finora sconosciuta e la popolazione apparentemente massacrata intorno al 1130 a.C.
Leader uccisi e una spia del Mossad dentro Hamas: la strategia di Israele a GazaL'uccisione di Issa "suggerisce che c'è una talpa dentro ad Hamas": sarebbe questa l'ultima ipotesi sostenuta dagli analisti esperti di Medio Oriente. Non è improbabile pensare che Israele abbia infiltrato o acquisito sul campo un informatore per essere guidata nella decapitazione.
L'uccisione di Marwan Issa, obiettivo di alto livello identificato come una delle menti degli attacchi del 7 ottobre, comandante delle Brigate Qassam e membro fondamentale del direttivo di Hamas, suggerisce che Israele stia ricevendo informazioni dall'interno per condurre la sua operazione di decapitazione nei confronti dei vertici dell'organizzazione politico-militare palestinese. Non è inverosimile che il Mossad o lo Shin Bet abbaino una talpa dentro Hamas.
Una "fonte di alto livello dentro l'organizzazione". Questa l'ipotesi sostenuta dagli analisti che hanno esperienza nei servizi segreti israeliani. A riportare la suggestione è stato il giornale britannico The Guardian, che nei suoi aggiornamenti quotidiani sul conflitto israelo-palestinese cita: "Prima di avviare l'azione militare, Israele avrebbe dovuto sapere dove e quando. In che luogo Issa si nascondeva e per quanto tempo sarebbe rimasto lì per l'approvazione del gabinetto di guerra e per il lancio dell'operazione, e avrebbe dovuto confermare che nessun prigioniero israeliano era tenuto vicino a lui come scudo umano: cosa che avrebbe potuto essere confermata solo da una risorsa umana".
Questa dichiarazione di Avi Melamed, ex funzionario dell'intelligence israeliana e analista militare attivo nel teatro del Medio Oriente, lasciasupporre che l'intelligence di Tel Aviv abbia una fonte all'interno. Forse guadagnata sul campo durante il protrarsi delle operazioni all'interno della Striscia di Gaza. Qualcuno che abbia accesso al massimo livello di informazioni nel circuito di Hamas, che conosce i covi, i nascondigli, le abitudini e gli spostamenti di figure di spicco come Marwan Issa: l'asso di fiori del mazzo di carte degli obiettivi dell'Idf.
Un'altra figura chiave, Saleh al-Arouri, altro vertice delle brigate Qassam, era stato eliminato da un drone mentre si trovata in un appartamento nella periferia di Beirut all'inizio di gennaio. Un ufficiale di rilievo di Hamas, Raid al-Banna, è stato ucciso la scorsa settimana a Jabalya, striscia di Gaza, sempre attraverso un raid aereo che ha centrato la sua abitazione. Suggerendo anche in questi casi informazioni precise per la localizzazione dell'obiettivo e per il tempo in cui il target si sarebbe trattenuto in loco.
• Il giallo sulla morte di Issa Attualmente né Hamas né il governo Israeliano hanno commentato ufficialmente la notizia dell'eliminazione. L'unica conferma è che Marwan Issa è stato "colpito lo scorso 8 marzo da un raid israeliano". Durante il raid aereo sono state impiegate bombe guidate del tipo "bunker busting", munizioni appositamente ideate per penetrare in profondità nel terreno e devastare bunker sotterranei come quello localizzato a Nuseirat, il nascondiglio nel centro della Striscia dove si trovava Issa in quel preciso momento.
I report a riguardo coincidevano nel dimostrare come tutti i sistemi di comunicazione usati dagli alti dirigenti di Hamas – basati su applicazioni crittografate e corrieri – sono poi rimasti in silenzio "per più di 72 ore dopo l’attacco". Un silenzio radio riscontrato anche in precedenza e in diverse occasioni quando alti leader di Hamas erano rimasti uccisi.
Dall'8 di ottobre non si sono più avute notizie del numero 2 delle Brigate Qassam, l'ala militare di Hamas, e diversi media arabi riportati dal sito Ynet hanno sostenuto come il destino di Issa non fosse "ancora noto". Gli Stati Uniti hanno invece affermato attraverso il consigliere della Sicurezza nazionale Jake Sullivan, che la "figura di spicco di Hamas Marwan Issa è stata uccisa" a Gaza. In un messaggio "criptico" recentemente divulgato, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu asseriva che il "numero 4" di Hamas era stato eliminato e che presto lo avrebbero seguito "il numero 1, 2 e 3". Issa era considerato il 3. Il capo dell'ala militare Mohammed Deif il 2 e Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza, il numero 1.
L'assenza di comunicazioni da parte di Issa, in prima persona o attraverso contatti ravvicinati con altri comandanti militari, o sui canali criptati di Hamas, resta di fatto un indizio importante che non certifica la morte ma suggerisce la sua eliminazione fin dell'inizio delle operazioni che mirano a "distruggere Hamas" e vendicare la morte delle 1143 persone assassinate nella strage dei Kibbutz.
È facile, la porta è aperta: dopo che a Israele si è dato del genocida, colonialista e imperialista, ora che le folle danno la caccia agli ebrei nelle aule universitarie e nelle strade in America e in Europa, si accomodi anche Josep Borrell, che per altro si è già esercitato molto nel passato, con l'accusa che Israele usi la fame come arma di guerra. Non è vero naturalmente, ma nemmeno le altre accuse lo sono, ed è uno slogan politico in crescita. L'antisemitismo è terra ben concimata, l'orribile accusa di affamare i bambini si sposa bene con la criminalizzazione che nazifica lo stato ebraico.
Ma al 18 marzo entrano a Gaza l'80% di camion in più di prima della guerra adesso carichi di cibo; prima del 7 ottobre erano 70 al giorno, ora 126, sempre in crescita. Israele non mette nessun limite all'aiuto e ha aperto nuovi ingressi e nuove strade. Ma mercoledì scorso, per esempio, sei camion entrati da una nuova apertura sperimentale, sono stati sequestrati a forza da gente di Gaza, in parte di Hamas, in parte bande criminali locali. L'Onu ha confermato una «notevole crescita dello sforzo umanitario facilitato dalle autorità israeliane»; e l'ingresso giordano da Allenby da cui si portano aiuti a Keren Shalom, il maggiore ingresso israeliano, è stato allargato e rafforzato. Gli Usa e altri Paesi, compresa la Spagna di Borrell, mandano navi che sbarcano tranquillamente il loro aiuto.
Dov'è dunque il problema? Non è nella mancanza di cibo, che anzi ormai è accumulato in quantità nelle mani di Hamas, ma nelle furia e nella prepotenza dell'organizzazione di Sinwar, nella sua determinazione a tenersi il potere e quindi il cibo. Il problema non è negli aiuti ma nell'impossibilità di distribuirli come si deve finché Hamas regna. Da Hamas nasce la guerra, la morte (i cui numeri sono a loro volta manipolati, come i dati sulla fame), la malnutrizione (non carestia), la sofferenza di tutti. Basterebbe che restituisse gli ostaggi, che dai tunnel uscissero i leader. O persino se adesso accettasse le famose sei settimane di tregua, perfino in cambio delle sue condizioni, la liberazione di un migliaio di assassini di cittadini innocenti in cambio di qualche decina di ostaggi. Israele, per chi lo conosce, è il Paese in cui se un soldato colpisce un tredicenne che lanciava fuochi, subito si va a un'inchiesta fra un coro di accuse pubbliche. È appena successo. Per Hamas un bambino israeliano o ebreo della diaspora è un ebreo da uccidere con gusto. Anche questo è appena successo. Borrell sembra non ricordare che per Hamas è lo stupro a essere «un'arma di guerra». E dal suo alto seggio non ricorda invece cos'è davvero lo sterminio indotto per fame: basta per esempio che guardi le strazianti immagini del Sudan, dove le milizie islamiste in cambio del cibo pretendono la schiavitù di uomini, donne e bambini. Là 250mila bimbi stanno morendo di fame. Ma una parola per loro non si è sentita. Il doppio standard è una delle più note malattie dell'antisemitismo, insieme alla menzogna. Qui, vanno insieme.
Ogni ora le cose cambiano considerando le fragilità della popolazione di Gaza, Israele cerca di migliorare la sua strategia. Entrare a Rafah è indispensabile per concludere la guerra contro i peggiori terroristi del mondo. Ritarda perché disegna complesse vie di aiuto alla popolazione.
Israele, scoperti tunnel sotterranei del periodo della rivolta di Bar Kochba
di Jacqueline Sermoneta
Un imponente complesso di tunnel sotterranei, risalente a circa 2.000 anni fa, è stato scoperto dagli archeologi dell’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA), nel sito di Huqoq, nei pressi del Mar di Galilea. Lo scavo, il più esteso mai trovato, fa luce “sugli episodi drammatici della storia del popolo ebraico: la preparazione di rifugi in vista della rivolta di Bar Kochba contro i Romani nel 132 e.v.” come riporta una nota dell’IAA.
Secondo gli studiosi, gli abitanti dell’antico villaggio di Huqoq iniziarono i lavori sotterranei “come parte dei preparativi per la Prima rivolta, nel 66 e.v., e per la rivolta di Bar Kokhba, nel 132 e.v. e trasformarono la cisterna d’acqua, realizzata durante il periodo del Secondo Tempio, come nascondiglio e via di fuga per i ribelli ebrei” “Inoltre, nel momento del pericolo – hanno spiegato – distrussero una delle pareti del mikveh (bagno rituale) e all’interno di altre cavità scavarono un tunnel. Numerosi cunicoli permettevano di muoversi in spazi stretti e bassi sotto le case. In questo sistema sotterraneo, il più grande e impressionante mai scoperto in Galilea, si trovano circa otto cavità per nascondersi e i tunnel di collegamento sono scavati a 90 gradi, per ostacolare i soldati romani pesantemente armati che inseguivano i ribelli”. “Lo scavo – hanno aggiunto – ha anche portato alla luce centinaia di piatti rotti in argilla e vetro, un incredibile anello con montatura per pietra preziosa, che però non è stata trovata, e altri affascinanti reperti”.
“Questi rifugi sotterranei non erano destinati a viverci – ha spiegato al Times of Israel il Prof. Yinon Shivtiel del Collegio Accademico di Zefat – Erano come piccoli rifugi antiaerei sotterranei”.
Il sito di Huqoq risale al primo periodo romano, circa 2.000 anni fa. È menzionato nel Talmud di Gerusalemme e in quello babilonese, come luogo in cui risiedevano Rabbi Pinhas e Rabbi Hezekiah, saggi del III e IV secolo e.v. Sulla collina, nei pressi delle gallerie sotterranee, nel 2011 è stata scoperta anche una sinagoga con preziosi mosaici del periodo bizantino.
Gli scavi di Huqoq sono stati condotti in collaborazione con il Ministero del Patrimonio Israeliano, il Fondo Nazionale Ebraico e il Collegio Accademico di Zefat . Coinvolti nel lavoro anche centinaia di studenti, volontari e soldati con esperienza in operazioni sotterranee.
“Il complesso sotterraneo offre uno sguardo su un periodo difficile della popolazione ebraica di Huqoq e della Galilea in generale – hanno spiegato i direttori degli scavi, Uri Berger dell’IAA e il Prof. Yinon Shivtiel del Collegio Accademico di Zefat – Tuttavia, il sito racconta la storia ottimistica di un’antica città ebraica, che è riuscita a sopravvivere alle peripezie storiche. – e hanno aggiunto – È la storia degli abitanti che, anche dopo aver perso la libertà e dopo molti anni di dure rivolte, sono usciti dai rifugi e hanno fondato un villaggio fiorente, con una delle sinagoghe più imponenti della zona”.
• Il buio Credo che sia impossibile esagerare l’effetto devastante che il 7 ottobre ha avuto su di noi: orrore, angoscia, paura per Israele, paura per noi stessi di fronte a un’inimmaginabile recrudescenza dell’antisemitismo, senso di insicurezza nella nostra stessa vita quotidiana, senso di solitudine per la mancanza di solidarietà che abbiamo sentito intorno a noi.
Decenni di speranze, di sogni e di progetti distrutti in poche ore; kibbutzim e villaggi devastati; massacro con modalità atroci o rapimento di centinaia di persone tra cui molte che si adoperavano per la pace, per progetti di convivenza, per far curare gli abitanti della striscia di Gaza in ospedali israeliani, ecc. Un terribile schiaffo in faccia a tutti coloro che nel mondo ebraico credevano nella pace. Ovvio che dobbiamo continuare a crederci, ma non possiamo nasconderci che dopo il 7 ottobre è immensamente più difficile.
Possiamo ragionare quanto vogliamo sugli errori commessi da Israele, sugli errori di questo governo, sugli errori di Netanyahu, auspicare che vada a casa, o in galera, il più presto possibile; ma poi? Quali proposte potremo avanzare d’ora in poi? Quali prospettive possiamo almeno immaginare? Quali speranze possiamo ancora coltivare? Quali sogni possiamo ancora sognare?
Come se non fossero bastate le notizie orribili che arrivavano da Israele ci siamo dovuti confrontare con una spaventosa ondata di antisemitismo e con incomprensioni, mancanza di solidarietà, spesso vera e propria ostilità, anche nella nostra vita quotidiana, nelle nostre frequentazioni, nel lavoro, nelle organizzazioni a cui apparteniamo. Sconcerta la mancata condanna da parte delle associazioni femministe degli stupri e femminicidi di massa perpetrati il 7 ottobre. Sconcerta la mancata adesione di alcuni partiti (Verdi e Sinistra, La France insoumise), alle manifestazioni contro l’antisemitismo. Sconcerta che il 25 novembre all’organizzazione ebraica LGBT Magen David Keshet non sia stato permesso di sfilare con il proprio simbolo (appunto un Magen David arcobaleno).
Almeno nei primi giorni dopo il 7 ottobre si poteva sperare che qualche amico o collega con cui avevamo discusso furiosamente fino al giorno prima ci venisse a dire qualcosa tipo: “Io sostengo i palestinesi ma ci tengo a dirti che quello che è successo non ha alcuna giustificazione possibile”. Non sarebbe costato poi molto dirlo, e avrebbe in qualche modo legittimato le critiche successive alla reazione israeliana. Questo, però – stando alla mia esperienza e a quella di altre persone con cui ho parlato – nella maggioranza dei casi non è successo, nemmeno nei primi giorni, quando le vittime israeliane erano molte di più di quelle palestinesi. Per decenni ricorderemo che davanti al più grande massacro di ebrei dopo la Shoah molti non hanno espresso nessuna condanna, molti hanno minimizzato o in qualche modo giustificato, moltissimi semplicemente si sono rifiutati di vedere.
Si sente spesso affermare che è stata la violenza della reazione israeliana a far dimenticare il 7 ottobre. Sarebbe stato logico aspettarsi che succedesse questo, ma francamente devo dire che questa narrazione non corrisponde affatto alla mia esperienza: le frasi più sgradevoli da parte di miei colleghi, per esempio, rivolte a me o pronunciate in mia presenza senza troppi riguardi, sono arrivate tutte nella prima settimana dopo il 7 ottobre; la bandierona palestinese che dominava il campus Einaudi è stata issata il giorno dopo la notizia dei neonati decapitati a Kfar Aza; la manifestazione a Torino in sostegno di Israele del 12 ottobre non ha avuto molti più partecipanti di quella del 17 dicembre. La reazione di Israele è stata criticata con più veemenza nei giorni in cui Israele era oggettivamente in pericolo, in cui piovevano missili sulle città israeliane, poi man mano che il numero delle vittime civili palestinesi saliva la questione palestinese è passata un po’ di moda nei media, sostituita da altri temi quali i problemi famigliari della nostra premier o le ricette natalizie. È normale che l’opinione pubblica dopo un po’ si distragga (è stato così anche con l’Ucraina); resta il fatto che personalmente fatico a vedere una correlazione logica tra il comportamento di Israele e il modo in cui è giudicato.
• L’incomprensione Oltre a questa tempistica sfasata, vedo nelle critiche alla reazione israeliana tre problemi di fondo che a mio parere le indeboliscono molto e le rendono poco efficaci, o addirittura controproducenti, nei confronti dell’opinione pubblica israeliana ed ebraica in generale: prima di tutto, non mi pare che ci si domandi come avrebbe reagito un altro Paese dopo un massacro così terribile di propri cittadini e davanti al rischio concreto che possa ripetersi. Personalmente vorrei credere che altri si comporterebbero diversamente da Israele ma onestamente non ci riesco: viviamo in un Paese che sostanzialmente non si preoccupa di lasciar naufragare barconi carichi di decine o centinaia di persone colpevoli solo di voler raggiungere le nostre coste con il pretesto che chissà, forse magari un giorno qualcuno di loro potrebbe compiere un atto terroristico; non oso immaginare cosa farebbe se subisse un massacro delle proporzioni del 7 ottobre. Magari altri, con ragioni migliori delle mie, sono convinti che l’Italia agirebbe diversamente, e magari (mi piacerebbe pensarlo) hanno ragione loro. Ma allora perché non lo dicono apertamente?
In secondo luogo mi sembra incredibile che non si faccia quasi mai il minimo cenno alla deliberata volontà di Hamas di moltiplicare il più possibile le proprie vittime civili per avere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Chi ha veramente a cuore la sopravvivenza della popolazione di Gaza non dovrebbe continuare a dare il proprio consenso a questo gioco cinico e crudele. O, se non altro, dovrebbe porsi il problema: se io decido che chi ha più morti ha ragione per principio non corro il rischio di incentivare la tendenza a non proteggere i propri civili?
Infine credo che sia un grave errore definire la reazione israeliana come vendetta; io sono fermamente convinta che l’ebreo vendicativo sia un mito dell’antigiudaismo cristiano che non corrisponde per nulla agli ebrei in carne ed ossa: personalmente dopo una vita intera di frequentazione del mondo ebraico, in Italia e in Israele, in diversi ambienti, più o meno religiosi, di varie tendenze politiche (tranne, forse, l’estrema destra), dopo migliaia di ore di discussioni, lezioni rabbiniche, ecc. non ho la più pallida idea di come si dica “vendetta” in ebraico e non ricordo in tutta la mia vita nessuna discussione, laica o religiosa, in cui si sia parlato di vendetta. Viceversa, il tema della vendetta abbonda in testi fondamentali della cultura occidentale, dall’Orestea ad Amleto, con un’insistenza che non ha riscontro nella cultura ebraica (non per niente Shylock è un ebreo immaginato da un cristiano). Anche parlare di giustizia (come nella didascalia del disegno sulla prima pagina dello scorso numero di Ha Keillah) a mio parere è fuorviante perché nel mondo ebraico (in Italia, ma credo in gran parte anche in Israele) la guerra contro Hamas non è percepita né come giustizia né come vendetta ma come autodifesa. Non è detto che si debba essere d’accordo ma allora si spieghi come e perché Israele può difendersi in altro modo; non è né utile né onesto fingere che il problema dell’autodifesa di Israele non esista (finzione che appare ancora più paradossale se consideriamo che invocare la distruzione di Israele non è affatto un tabu e che From the river to the sea Palestine will be free è uno slogan che non scandalizza più di tanto).
• Che fare?
I tre problemi che ho sollevato potrebbero sembrare pretestuosi ma a mio parere non lo sono affatto. Tutti e tre inducono a dubitare della buona fede di chi critica Israele e di conseguenza offrono facili pretesti a chi lo difende senza se e senza ma. Tutti e tre alimentano le incomprensioni e sono ostacoli sulla via del dialogo. Quindi chi vuole davvero la pace a mio parere non può non affrontarli, in particolare il terzo. Credo infatti che sia un gravissimo errore non tenere conto del senso di insicurezza e fragilità che il 7 ottobre ha causato.
Qualunque soluzione si voglia proporre (a meno che non si voglia lo sterminio o l’espulsione di tutti gli ebrei “from the river to the sea”) prima o poi dovrà inevitabilmente guadagnare il consenso almeno di una parte significativa dell’opinione pubblica israeliana. Chiedere la pace immediata lasciando a Hamas il suo potere offensivo senza nessuna garanzia che non lo usi, pretendere una reazione che non faccia neanche mezza vittima civile, o cose simili (cioè tutto quello che viene detto normalmente in tutte le manifestazioni “per la pace”) significa in pratica affermare: “Israele deve accettare, almeno nel breve periodo, il rischio che si verifichi un altro 7 ottobre perché nulla di ciò che può fare per impedirlo è moralmente legittimo.” Una posizione di questo genere non è né pacifica né equidistante, ma soprattutto non è utile, anzi, è gravemente controproducente perché rafforza negli israeliani e in buona parte degli ebrei la convinzione che è inutile preoccuparsi dell’opinione del resto del mondo perché tanto tutto il mondo è sempre e comunque contro Israele. Con questo non voglio affermare che non si possano proporre soluzioni che la maggioranza degli israeliani non approva. Anzi, non credo neanche che si debbano per forza proporre soluzioni realistiche. Si può dire qualunque cosa purché il messaggio rivolto agli israeliani non sia: “siete moralmente tenuti a correre il rischio di altri dieci o cento 7 ottobre”.
Anzi, sarebbe già un passo avanti se l’opinione pubblica fosse davvero consapevole di quello che è successo il 7 ottobre ed esprimesse una condanna ferma e inequivocabile. Purtroppo non è così, e questo è il problema più grave di tutti, a mio parere il principale ostacolo a qualunque tipo di dialogo, l’origine principale delle incomprensioni di cui ho parlato in precedenza. È importante far capire che le ambiguità, le omissioni, il rifiuto stesso di parlare del 7 ottobre non aiutano in nessun modo i palestinesi e non sono utili alla pace. Nessun orrore potrà mai cancellare un altro orrore o giustificarlo retroattivamente.
Almeno riconoscere che è successo. È già chiedere troppo?
Dopo la tragedia del 7 ottobre, la forza di raccontare e sperare
L’incontro con Sapir e Yelena, due ex-ostaggi a Gaza
di Ilaria Myr
Cinquantacinque giorni da ostaggi a Gaza, in condizioni terribili, senza sapere se i tuoi sono ancora vivi. Cinquantacinque giorni in cui dover trovare la forza tutti i giorni, anche nella preghiera, senza sapere cosa capiterà. E poi, la gioia della liberazione, e la tristezza per chi non c’è più o chi è ancora ostaggio. Soprattutto, la speranza viva che tornino a casa, e l’appello a tutto il mondo ebraico a pregare e battersi per la loro liberazione. Sono tutte emozioni molto intense quelle che hanno ascoltato e provato i tanti partecipanti – l’Aula Magna Benatoff piena da scoppiare – durante la testimonianza di Sapir Cohen (a sinistra nella foto) e Yelena Trufanov (a destra), due donne israeliane prese in ostaggio a Gaza il 7 ottobre dal Kibbutz Nir Oz e liberate dopo quasi due mesi (il 29 novembre Yelena e il 30 novembre Sapir). L’incontro, tenutosi martedì 19 marzo nella Scuola ebraica di Milano, si è svolto in un’atmosfera quasi sospesa, di rispetto e silenzio per non urtare la sensibilità delle due testimoni, che il giorno prima erano intervenute alla cena di gala della mensa sociale Beteavon, e il giorno stesso alla scuola del Merkos. Inoltre, con il consigliere comunale Daniele Nahum, le due donne sono state ascoltate a Palazzo Marino dal sindaco Giuseppe Sala (al centro nella foto). Ad accompagnarle Harry Adjmi, responsabile della comunità ebraica siriana di New York. Presenti Rav Alfonso Arbib, tutti i membri del consiglio della comunità ebraica di Milano e dei Chabad.
Visita a Palazzo Marino. Da sinistra, Rav Igal Hazan, Sapir Cohen, Yelena Trufanov
Di fronte il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il consigliere Daniele Nahum
Introducendole, la rebbetzin Rivki Hazan ha sottolineato l’attualità del messaggio di unità della festa di Purim che fra pochi giorni celebriamo: “Hamman cercò di distruggere gli ebrei, che erano integrati e vivevano bene nell’impero, perché erano sparsi e divisi – ha spiegato -. Ma la regina Ester chiamò gli ebrei a essere uniti. La nostra forza è l’unione fra noi, e spero che la nostra bella comunità sia sempre più unita”. Dopo i ringraziamenti del vicepresidente Ilan Boni e di Rav Arbib, Sapir Cohen ha iniziato il suo racconto. «In realtà questa storia inizia sei mesi prima del 7 ottobre – ha raccontato -. Ho cominciato a sentire che qualcosa di brutto mi sarebbe capitato: un dottore mi ha curato da un virus che avevo, ma mi ha anche detto “non è pericoloso come i tuoi sentimenti”. Non gli ho creduto e per la prima volta nella mia vita ho cominciato a pregare. Poi un giorno, per caso, mi è uscito su Instagram il testo di uno dei tehilim (Salmi), il 27, ed era scritto che se lo si recitava per 30 giorni di seguito saresti stato sano e sarebbero capitati dei miracoli. Il 30° giorno era il 7 ottobre». La giovane donna ha spiegato che quel weekend lei il suo fidanzato Sasha dovevano andare per Simchat Tora al Kibbutz Nir Oz, dove vivono i genitori di Sasha, Yelena e il padre Vitaly, ucciso dai terroristi. «Lui non sapeva perché ma non se la sentiva di andare, ma io ho insistito… Quel sabato 7 ottobre ci siamo svegliati con un barrage di missili, ma dato che eravamo lontani da un rifugio e i missili cadevano senza sosta ci siamo messi per terra vicino a un muro. Dopo un’ora un messaggio ci ha avvisato che c’erano terroristi nel Kibbutz Beeri, a 15 minuti dal nostro e, poco dopo, un articolo online raccontava che ce n’erano in tutta la zona e che non c’era l’esercito. Da sotto il letto, dove ci eravamo nascosti, abbiamo poi sentito “allah hu akbar” e urla di terroristi e di abitanti del kibbutz che venivano picchiati rapiti e uccisi. Eravamo pietrificati: io mi sono nascosta sotto una coperta, ma ripetendo il salmo 27, che avevo imparato a memoria, mi sentita in pace. Poi sono entrati in casa e hanno preso e distrutto tutto. Ho sentito il mio ragazzo urlare, e poi in dieci hanno preso anche me da sotto la coperta. L’ultima volta che l’ho visto era in ginocchio, con il viso sanguinante. Mi hanno caricato su una moto e mi hanno portato a Gaza, lui è ancora ostaggio lì». Arrivata a Gaza, Sapir viene accolta da migliaia di cittadini che urlano incoraggiamenti festanti ai terroristi, la picchiano e la toccano. Lì passa un mese in una casa e un mese nei tunnel. «Ogni giorno sentivo che accadevano miracoli e il più grande è che ho capito che c’era un motivo per cui io ero lì – ha raccontato -. Ero con una ragazza di 16 anni, terrorizzata e fragile, e ho capito che avevo la responsabilità di renderla felice, mi sono sentita forte e potente. Gli stessi terroristi non capivano come potessi essere felice in quelle condizioni. Uno mi disse “tu illumini la stanza”. Ogni giorno ripetevo la preghiera e ringraziavo Dio per avermi mandato lì per usare questa mia forza e di sostenermi con gli angeli. E quando tornata in Israele ho visto e sentito quanta gente aveva pregato per me, ho capito che gli angeli che sentivo non erano solo nella mia immaginazione». Nel suo racconto, Sapir ha ricordato gli altri ostaggi, alcuni ancora prigionieri. «Alcuni mangiano solo una pita al giorno, alcuni sono costretti a bere acqua di mare, che fa malissimo al corpo, altri sono stati picchiati e feriti, o sono malati. Ma quello che ti uccide ogni giorno di più è il fatto di non sapere dove sono i tuoi cari, se sono vivi o sono stati uccisi durante l’attacco, o se sono anche loro in ostaggio». Anche Sapir ha parlato dell’importanza dell’unità del popolo ebraico. «Un giorno un terrorista mi ha chiamato per vedere la tv, che trasmetteva una grande manifestazione a Tel Aviv per la liberazione degli ostaggi, tutti insieme. Prima del 7 ottobre, invece, la società israeliana era profondamente divisa. “Vedi – mi ha detto il terrorista -, quando sono così tutti insieme gli ebrei sono moto forti”». In conclusione, è intervenuta Yelena Trufanova (50 anni), madre del fidanzato di Sapir, Sasha, rimasta vedova il 7 ottobre del marito Vitaly, anch’essa presa in ostaggio a Gaza e liberata il 29 novembre, insieme alla madre Irena Tati (73 anni) grazie a un accordo fra la Russia e Hamas. «Non sapevo nulla della mia famiglia – ha dichiarato in ebraico, quasi sottovoce – e avevo paura che fossero tutti morti. Mi hanno bruciato la casa e hanno ucciso mio marito. Ora dobbiamo tutti pregare che gli ostaggi ritornino a casa. Prego che il mio unico figlio torni sano e salvo e che possa costruire una bella famiglia con questa splendida ragazza». Sapir ha infine recitato il salmo 27 e le due donne hanno risposto con pazienza e disponibilità ai saluti affettuosi dei membri della Comunità di Milano.
(Bet Magazine Mosaico, 20 marzo 2024)
Uno sportello a scuola per dare supporto dopo il 7 ottobre
MILANO - Uno spazio di ascolto per riflettere e confrontarsi sull’impatto sulle proprie vite del 7 ottobre. È lo “sportello resilienza”, attivato da fine febbraio a Milano per studenti, genitori e insegnanti della Scuola ebraica della Comunità. Uno strumento «per dare supporto ai ragazzi, alle famiglie e alla comunità educante davanti a una situazione completamente inedita», spiega a Pagine Ebraiche Dalia Gubbay, assessore alla Scuola della Comunità.
«Lo sportello è la prosecuzione del progetto di psicologia dell’emergenza avviato a novembre, grazie al sostegno della Fondazione Scuola, per affrontare con gli studenti delle diverse classi i disagi e le emozioni legati al conflitto», sottolinea Gubbay. Un progetto affidato a Fabio Sbattella, psicologo, psicoterapeuta e docente all’Università Cattolica di Milano, che assieme al suo team ha seguito studenti, docenti e genitori in un percorso di dialogo. Il 7 ottobre, spiega Sbattella a Pagine Ebraiche, «ha rappresentato un capovolgimento della sensazione di sicurezza, non solo in Israele, ma anche per la comunità ebraica qui. Da esterni, abbiamo visto il senso di profonda identità tra chi è qui e chi è in Israele. La sensazione molto viva di far parte di una storia comune». In questo caso tragica. «La guerra porta sempre con sé angoscia e distruzione. In questo caso, abbiamo registrato il turbamento dei giovani e il loro stupore davanti alla sensazione di essere poco compresi fuori dalla comunità stessa. Il dolore di vedere un’ampia adesione alla propaganda palestinese e il disorientamento cognitivo di fronte a tutte queste emozioni». Lo psicologo sottolinea come il lavoro portato avanti in questi mesi sia stato soprattutto «ascoltare senza giudicare le loro impressioni. Un modo per contrastare il senso di isolamento». Sono stati creati dei momenti collettivi per condividere le emozioni e anche questo ha aiutato. «Sentire che i compagni hanno provato sensazioni simili serve a superare la sensazione di confusione, di sentirsi sbagliati o il pudore del proprio dolore o della propria rabbia».
In questo solco prosegue l’impegno dello Sportello Resilienza, aperto agli studenti, ai genitori e al personale della scuola fino alla fine dell’anno scolastico. «Purtroppo gli effetti del 7 ottobre sono ancora attuali. E continueremo a sentirli», conclude Gubbay.
I passaporti israeliani saranno presto rinnovabili online
La Knesset ha approvato in seconda e terza lettura una legge che impone al Ministero degli Interni di emettere carte d’identità e passaporti israeliani via Internet.
La Knesset ha approvato in seconda e terza lettura una legge che impone al Ministero dell’Interno di emettere carte d’identità e passaporti israeliani via Internet. La legge, temporanea per sei mesi, dovrebbe entrare in vigore il 30 aprile. In questo modo il Ministro degli Interni Moshe Arbel e l’Autorità per la popolazione e l’immigrazione sperano di porre fine alle lunghe file e ai tempi di attesa che hanno afflitto il rilascio di passaporti e carte d’identità negli ultimi anni.
Tuttavia, i nuovi servizi non saranno disponibili per tutti. Solo gli israeliani dai 18 anni in su che sono già in possesso di una carta d’identità biometrica, che consente l’uso delle impronte digitali, e i titolari di passaporti con meno di un anno di validità o scaduti negli ultimi sei mesi, potranno usufruire del servizio online. Inoltre, la persona che richiede il servizio deve trovarsi in Israele al momento della presentazione della domanda. Il passaporto o la carta d’identità saranno inviati direttamente al domicilio del richiedente e saranno validi per cinque anni.
L’ordine temporaneo di sei mesi sarà probabilmente prorogato per altri sei mesi prima di esaminare i risultati del progetto pilota e decidere se continuare il servizio.
Arbel ha dichiarato: “Si tratta di un passo importante da parte del Ministero degli Interni e dell’Autorità per la popolazione e l’immigrazione per soddisfare le esigenze dei cittadini e fornire una soluzione a gran parte della popolazione che non dovrà recarsi negli uffici e potrà ordinare un passaporto o una carta d’identità senza uscire di casa. Ci siamo posti l’obiettivo di migliorare il servizio ai cittadini di Israele e sono felice di un altro passo promosso in questa missione nazionale”.
(Israele360, 20 marzo 2024)
Israele: i teatri di guerra e i parametri della vittoria
di Ugo Volli
• Gli scenari
L’anno più difficile della storia di Israele a partire dalla fondazione dello Stato è ben lungi dall’essere concluso e nessuno può dire come andrà a finire. Ma sono abbastanza chiari i campi in cui si giocherà questa vicenda politica e militare ed anche i parametri su cui valutarli. I teatri principali di guerra sono due, Gaza al sud e i confini con la Siria e soprattutto col Libano al nord. In Giudea e Samaria c’è poi un fronte terroristico. Vi è quindi il fronte diplomatico, il cui centro è il rapporto con gli Stati Uniti, ma in esso ha anche molto peso il quadro regionale con l’Arabia e i paesi arabi moderati e vi è pure l’aspetto legale e dell’opinione pubblica occidentale. E infine bisogna considerare il campo interno, cioè il modo in cui evolverà la politica israeliana. Tutti questi teatri possono evolvere in maniera più o meno positiva. Per vincere Israele deve prevalere almeno sui campi militari e diplomatico, perché gli altri dipendono da questi.
• Le guerre
Sul piano militare Israele è in vantaggio a Gaza, dove però rischia di essere fermato dalla pressione internazionale. Il parametro della vittoria è la distruzione militare e organizzativa di Hamas, l’eliminazione dei suoi capi, la liberazione degli ostaggi, la demilitarizzazione e deradicalizzazione di Gaza. Tutto ciò può avvenire in gradi diversi. Israele dovrà cercare di ottenere la propria sicurezza senza contrapporsi troppo vistosamente con gli alleati occidentali. Ci sono forze potenti che cercano di impedire una vittoria completa, bloccando l’azione militare e immaginando un’amministrazione “unitaria” della Striscia. Israele non può accettarlo, come non può riconoscere uno Stato palestinese: bisogna vedere quanto sarà in grado di tener duro. Al nord per mesi la guerra è andata avanti con colpi non decisivi, ma poi si è gradualmente approfondita. Il parametro della vittoria è lo spostamento di Hezbollah abbastanza lontano dal confine da non presentare una minaccia immediata. Ma i terroristi appoggiati dall’Iran hanno decine di migliaia di missili che possono colpire tutta Israele. È possibile che ciò consigli loro di accettare il ritiro, conservando l’armamento e la minaccia per Israele. Oppure ci può essere la guerra vera, con azioni aeree pesanti su tutto il Libano e una grande operazione di terra, che però saranno contrastati con bombardamenti molto gravi su Israele. È certo che Israele ha i mezzi per prevalere, ma il costo sarebbe pesante. In caso di guerra aperta, il parametro della vittoria è una distruzione di Hezbollah analoga a quella prevista per Hamas, ma certamente molto più difficile. E c’è l’incognita dell’Iran, “quasi” armato di bombe atomiche, che potrebbe non accettare la distruzione del suo principale movimento dipendente e intervenire. D’altro canto Israele non può restare fermo, perché la minaccia dal nord è un 7 ottobre dieci volte più grande. Vi è infine il fronte terrorista in Giudea e Samaria, finora controllato bene, che però potrebbe esplodere anche per un possibile collasso dell’Autorità Palestinese. Israele non vuole uno stato palestinese che sarebbe un santuario per il terrorismo e deve difendere lo status quo; ma non può permettersi neanche l’anarchia a due passi da casa.
• La politica
La maggior parte delle istituzioni internazionali, dei media, delle forze politiche e intellettuali in Occidente sono contro Israele, così gli stati dell’asse Cina-Russia-Terzo Mondo; per fortuna questo non è vero della maggioranza dell’elettorato americano e di buona parte di quello europeo; ma la propaganda antisionista (in buona parte antisemita) è incessante e sarà importante la risposta di Israele. Un campo senza dubbio conflittuale è quello della politica interna. Alla fine della guerra vi saranno commissioni di inchiesta per verificare gli errori prima di tutto informativi e poi anche militari e politici che hanno portato al 7 ottobre. Sono già state annunciate dimissioni eccellenti. Bisognerà vedere se la necessaria revisione investirà il governo. Le elezioni sono dovute solo nell’autunno del 2026, ma è possibile che siano anticipate, anche quest’anno. Il loro risultato dipenderà dall’accertamento delle responsabilità, dai risultati della guerra, da schieramenti politici che possono variare, da quanto sarà stata sanata la grande rottura dell’opinione pubblica. Da esse dipenderà il futuro di Israele.
"Ho avuto l'impressione che non si può fare affidamento sull'esercito - a dire il vero su nessuno. Mio marito è stato chiamato alle armi e io avevo bisogno di un'arma per salvare i miei figli", racconta Esther Sultan di Beit El.
Una donna ebrea di Giudea e Samaria si esercita a sparare,
GERUSALEMME - Le donne religiose che vivono alla periferia della Giudea e Samaria stanno prendendo le armi per difendere le loro case, soprattutto dopo il massacro del 7 ottobre. Srugim, un sito di notizie che si rivolge alla comunità religiosa sionista, ha riferito domenica che le donne di Giudea e Samaria hanno tratto conseguenze dall'omicidio di massa di Hamas nel Negev nord-occidentale. "Ho sentito che non si può fare affidamento sull'esercito - in realtà, non si può fare affidamento su nessuno. Mio marito è stato richiamato e io avevo bisogno di un'arma per salvare i miei figli", ha detto Esther Sultan, che vive a Beit El, una città ebraica a nord di Ramallah. "È solo questione di tempo prima che arrivino, ma non mi farò sorprendere. Farò tutto il possibile per evitare di essere massacrata a letto", ha detto. Eleanor Rahamim di Tekoa, una comunità ebraica a sud-est di Betlemme, ha dichiarato: "Dopo il 7 ottobre ho avuto attacchi di panico. Mio marito, una guardia di sicurezza, è andato al lavoro e io ero in prima linea. Ho chiuso le tende e ho pensato: come posso proteggere la mia casa? "Dopo alcuni giorni di paura, ho capito che non c'era nessun posto dove nascondersi. E ho deciso di passare da vittima a combattente, come le donne della nostra storia". Rahamim ha dovuto innanzitutto superare il suo disagio con le armi da fuoco. "Al poligono di tiro tremavo molto, non riuscivo a controllare il tiro. È stato davvero difficile. ... L'esperienza di sparare è spaventosa all'inizio, ma ho immaginato che il terrorista che ha ucciso mio cugino fosse in piedi di fronte a me e sparasse. Mi ci è voluto un po' per riprendermi dall'orrore, ma oggi ho una sensazione diversa. So cosa fare. Non sono fragile. Proteggo il popolo di Israele".
Donne si esercitano a sparare nella comunità ebraica di Pnei Kedem, a sud di Betlemme.
Oshrat Gispan, anch'essa originaria di Tekoa, ha imbracciato le armi 10 anni fa. Aiuta i nuovi tiratori, alcuni dei quali hanno difficoltà. "Sono giovani, sull'orlo delle lacrime. Non è affatto facile, ma una volta che ricevono sostegno e rinforzo, si abituano. Padroneggiano il dispositivo e questo non li domina". Fa parte di un gruppo di donne che stanno seguendo un corso di formazione avanzato. "Ci addestriamo all'estrazione rapida, allo smontaggio dell'arma, a sparare dall'interno di una casa, da un veicolo in movimento, da una finestra, a guidare in uno slalom, a girare intorno a grandi rocce - tutto questo per evitare di dover reagire a un assalto per la prima volta". "Mi piacciono i poligoni di tiro. Mi rilassano i nervi. È un sollievo mentale avere una pistola. Di solito sono l'unica donna al poligono e vengo trattata con rispetto", ha detto Gispan. Ha sottolineato che una pistola "è uno strumento che salva la vita. Ogni volta che vieni a sparare, ti dici: 'È in nome di Dio, per la mia casa e la mia famiglia'". Il massacro del 7 ottobre ha sensibilizzato un pubblico un tempo indifferente alla necessità di portare un'arma. La richiesta è stata così grande che è stato creato un centro di comando nella Knesset per elaborare l'ondata di domande. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato in un discorso nazionale di ottobre: "Incoraggiamo i cittadini e aiutiamo i cittadini ad armarsi con armi personali per la difesa". Il 16 ottobre, il Comitato per la sicurezza nazionale della Knesset ha approvato un regolamento che amplia i criteri per ottenere un porto d'armi.(Israel Heute, 19 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Come ha affermato recentemente durante una trasmissione tv, Bernard-Henri Lévy, presentando il suo nuovo libro, Solitude d’Israel, “La strategia di Hamas è chiara: più le vittime sono numerose, e più l’indignazione mondiale farà pressione sul Gabinetto di guerra israeliano per fermare i combattimenti”
Che massimizzare il numero dei morti civili a Gaza sia la strategia di Hamas lo ha dichiarato Yahya Sinwar in un comunicato del 29 febbraio, quando ha appunto sottolineato come esso sia un obiettivo prioritario.
Bisogna dire che questa strategia, costruita su numeri inverificabili e palesemente taroccati, ha funzionato a meraviglia anche se non ancora al punto da riuscire a ottenere il risultato voluto, quel cessate il fuoco permanente che consentirebbe a Hamas di sopravvivere e di intestarsi la vittoria.
Ma il problema principale, per Israele, non sono tanto le piazze dove si incita consapevolmente o inconsapevolmente al genocidio di tutti gli israeliani (“Palestina libera dal fiume al mare”), non è l’ONU, dove il Segretario Generale, ostaggio dei paesi islamici (la maggioranza) ha trovato fin dall’inizio della guerra voluta da Hamas il 7 ottobre scorso, giustificazioni per l’eccidio da esso perpetrato, non è Joseph Borrell, l’osceno portavoce della politica estera della UE, ovvero di una politica totalmente priva di incidenza non avendo alle sue spalle la forza delle armi, il quale accusa Israele, contro ogni evidenza, di affamare volontariamente il popolo di Gaza, non sono le varie ONG, più o meno note che accusano Israele di crimini di guerra, ne è il Sud Africa che lo ha portato davanti ai giudici all’Aia, accusandolo di genocidio, ma sono gli Stati Uniti.
Il principale problema di Israele, è l’alleato americano, per il quale, il proseguimento dell’operazione militare a Rafah, dove sono assediati gli ultimi quattro battaglioni di Hamas, significa che ci saranno altri morti civili, significa doverne rendere conto a casa. Il fatto è che Israele deve andare fino in fondo indipendentemente dalla sorte degli ostaggi, e lo deve fare a fronte delle minacce rappresentate da Hezbollah e dall’Iran, lo deve fare per riconquistare la credibilità di paese più forte militarmente del Medio Oriente incrinata il 7 ottobre, lo deve fare per ridare ai propri cittadini una garanzia di sicurezza che non può più venire meno. Se non andasse fino in fondo, se Hamas non venisse sconfitto, il suo futuro sarebbe seriamente ipotecato.
I morti civili che Hamas vuole aumentino, che aumenta esponenzialmente con dati falsi, e che in realtà sono molti meno di quelli di qualsiasi guerra urbana precedente, come ha evidenziato John Spencer, sono l’arma che i jihadisti sperano riesca a ottenere il risultato sperato. L’Amministrazione Biden, sta purtroppo assecondandoli, ma non gli sarà facile abbandonare Israele, impedirgli di portare a casa la vittoria, il contraccolpo politico interno sarebbe troppo forte e negli Stati Uniti i sondaggi sono favorevoli a Israele non a Hamas.
La determinazione di Benjamin Netanyahu di chiudere la partita con Hamas si fa forte di questa consapevolezza.
Una lettera aperta per contestare in modo netto e inequivocabile le dichiarazioni su Israele del regista
Jonathan Glazer
Jonathan Glazer, un ebreo che mette in cattiva luce gli ebrei
. A firmarla, oltre 450 tra attori, registi, sceneggiatori, produttori, tutti parte di Hollywood e accomunati dall’identità ebraica. «Rifiutiamo che la nostra ebraicità venga strumentalizzata allo scopo di tracciare un’equivalenza morale tra il regime nazista», che ha cercato di sterminare un popolo, e «la nazione israeliana, che ha cercato di evitare il proprio sterminio», denunciano i firmatari. Una parafrasi di quanto dichiarato da Glazer durante la notte degli Oscar.
Ritirando il premio come miglior film straniero per il suo La zona d’interesse, – pellicola dedicata alla vita del comandante di Auschwitz – il regista inglese era intervenuto polemicamente sul conflitto tra Israele e Hamas. «Siamo qui come uomini che rifiutano la strumentalizzazione della loro ebraicità e dell’Olocausto da parte di un’occupazione che ha portato al conflitto per così tante persone innocenti. Che siano le vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza», aveva dichiarato Glazer. Parole applaudite dal pubblico presente a Los Angeles, ma criticate da una larga parte del mondo ebraico americano. A cui ora si aggiungono molte voci ebraiche di Hollywood. «Ogni morte di civili a Gaza è tragica. Israele non sta prendendo di mira i civili. Sta prendendo di mira Hamas. Il momento in cui Hamas rilascerà gli ostaggi e si arrenderà sarà il momento in cui questa guerra straziante finirà», si legge nella lettera aperta indirizzata a Glazer.
Al regista britannico viene anche contestato l’uso della parola «occupazione». Adottarla «per descrivere un popolo ebraico indigeno che difende una patria che risale a migliaia di anni fa, riconosciuta come stato dalle Nazioni Unite, distorce la storia. Dà credito alla moderna diffamazione del sangue che alimenta un crescente odio antiebraico in tutto il mondo, negli Stati Uniti e a Hollywood».
Per gli oltre 450 attori, registi, produttori dopo il 7 ottobre e la crescita esponenziale dell’antisemitismo a livello globale hanno rafforzato «la necessità di avere lo stato ebraico di Israele. Un luogo che ci accoglierà sempre, come nessuno stato ha fatto durante la Shoah descritta nel film del signor Glazer».
(moked, 19 marzo 2024)
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“Psicosi collettiva”
“Vogliono finire il lavoro di Hitler in nome del progresso”. J’accuse del regista de “Il Figlio di Saul”
di Giulio Meotti
ROMA - Lo stato ebraico nazificato dall’intellighenzia (come “Shoah after Gaza” di Pankaj Mishra sulla London Review of Books, ottomila parole di cui cinque su Hamas), gli ebrei europei che fanno le valigie o si nascondono per non essere aggrediti. Un clima velenoso, secondo molti alimentato anche dal regista della “Zona d’interesse” Jonathan Glazer, che la notte degli Oscar ha detto di non volere che la propria ebraicità e l’Olocausto siano usati per giustificare la guerra di Israele. E contro Glazer è intervenuto il regista che ha vinto l’Oscar nella stessa categoria con lo sconvolgente “Il figlio di Saul”, l’ungherese
László Nemes
László Nemes
. La storia di un padre che vuole seppellire il figlio ucciso nella camera a gas. “Mi piace moltissimo la ‘Zona d’interesse’ e lo ritengo un film importante”, ha scritto Nemes in una lettera sul Guardian. “Ma quando si fa un film del genere, c’è una responsabilità. Glazer ha chiaramente fallito, anche nei confronti dello sterminio degli ebrei europei. Ed è stato scioccante che l’élite lo abbia applaudito per questo”.
Nemes lo accusa “di non comprendere la storia e le forze che distruggono la civiltà, prima o dopo l’Olocausto” e una “propaganda intesa a sradicare tutta la presenza ebraica dalla terra”. Nemes continua dicendo che “oggi l’unica forma di discriminazione non solo tollerata ma incoraggiata è l’antisemitismo”. E noi spettatori del film premio Oscar “rimaniamo tutti scioccati dall’Olocausto, al sicuro nel passato, ma non vediamo che il mondo potrebbe alla fine, un giorno, finire il lavoro di Hitler in nome del progresso e del bene infinito”. Nemes, che vive fra Parigi, Londra e New York, parla di “una psicosi collettiva”.
E contro Glazer è intervenuto anche David Schaechter
David Schaechter, Presidente della Fondazione dei sopravvissuti
, leggendario presidente della Fondazione dei sopravvissuti. “Ho 94 anni e sono l’unico di 105 anime della mia famiglia a essere sopravvissuto all’Olocausto e all’inferno di Auschwitz”, scrive Schaechter al regista inglese Glazer. “L’‘occupazione’ di cui parli non ha nulla a che fare con l’Olocausto. Il panorama politico e geografico odierno è il risultato delle guerre iniziate dai leader arabi del passato che rifiutarono di accettare il popolo ebraico come loro vicino nella nostra patria storica”. E ancora: “Ora l’Iran e i suoi terroristi per procura hanno iniziato un’altra guerra, incoraggiati da troppi che, per ingenuità o malizia, incolpano ‘l’occupazione’. Si vergogni chi usa Auschwitz contro Israele”.
Intanto Londra ha ospitato la prima fiera dell’aliyah, l’immigrazione in Israele. Dopo gli attacchi del 7 ottobre si è registrato un aumento del 40 per cento di partenze dalla Gran Bretagna. E una sopravvissuta all’Olocausto di Anversa, Regina Sluszny, parla di tanti ebrei belgi che hanno fatto le valigie. “Le persone che hanno famigliari che non sono tornati da Auschwitz sono molto spaventate. Pensano che tutto ricomincerà”. Da “ebrei andate in Palestina” a “ebrei fuori dalla Palestina”.
Di Segni (Ucei): “Grave il clima nelle università. Ci vuole la Polizia”
di Luca Roberto
ROMA - “La situazione nelle università è talmente grave che ci aspettiamo che si intervenga in maniera decisa per tutelare gli studenti ebrei. C’è bisogno di un presidio delle forze dell’ordine. Non si può più sottovalutare questo clima d’odio”. La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche (Ucei)
Noemi Di Segni
Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche
è in attesa di capire cosa uscirà dall’incontro di giovedì tra la ministra dell’Università e della Ricerca
Anna Maria Bernini
Anna Maria Bernini, ministro dell’Università e della Ricerca
e la presidente della Conferenza dei Rettori delle università italiane (Crui)
Giovanna Iannantuoni
Giovanna Iannantuoni, Presidente della Conferenza dei Rettori
. Le due si sono date appuntamento dopo gli ultimi fatti di cronaca, come quello dell’Università Federico II di Napoli, dove un collettivo studentesco ha impedito al direttore di Repubblica Maurizio Molinari di parlare. “Eppure a Napoli la condanna è stata facile perché s’è capito subito che bloccare qualcuno, non farlo parlare, è sbagliato. Ma ci sono contesti universitari dove sono successe cose ancor più gravi”, dice Di Segni al Foglio. “Prendete il caso di Pisa, dove di certo non c’è stato alcun equilibrio tra oratori odiatori di Israele e noi, che non siamo stati nemmeno invitati. Ma anche della stessa università Bicocca di Milano, di cui Iannantuoni è rettrice. Anche lì si è tenuto un convegno allucinante che ha fatto meno notizia”. L’interlocuzione tra la Crui e il ministero nelle intenzioni del governo dovrebbe servire a dotarsi di strumenti per evitare che si possa reprimere la libera manifestazione del pensiero, come avviene sempre più spesso negli atenei. “Ma nel nostro caso ci aspettiamo ovviamente anche una tutela nei confronti degli studenti di religione ebraica. Non è colpa nostra se dal 7 ottobre in poi viviamo sotto minaccia. Il dissenso in sé non va represso, ma è evidente la matrice di incitamento all’odio di alcune componenti universitarie”, analizza Di Segni, riandando alle statistiche che parlano di un crescendo di casi di antisemitismo registrati dai diversi osservatori nelle università italiane. Cosa vi aspettate? “Sarebbe già un bel segnale il recepimento della definizione di antisemitismo adottata dall’Ihra. In quella definizione non si fa solo riferimento agli ebrei, ma anche alla conseguente demonizzazione dello stato di Israele. E cioè esattamente quello che sta succedendo da noi. Ma l’incontro dovrebbe servire anche a stabilire che non ci può essere alcun boicottaggio nei confronti delle università e dei docenti israeliani. Perché anche su questo punto da parte di alcuni atenei c’è stata una grande ambiguità”.
La presidente dell’Ucei già in occasione dell’ultima giornata della Memoria aveva puntato il dito contro la timidezza di alcuni rettori che non si erano spesi abbastanza nella condanna dei fatti del 7 ottobre. La stessa Crui, anche a causa di un vuoto di leadership, s’era espressa in termini molto generici parlando unicamente di pace e mostrandosi equidistante. “Da quando Iannantuoni è stata eletta le ho chiesto un incontro 3-4 volte. Sto ancora aspettando”, confessa Di Segni al Foglio. E in effetti il grande tema è il tipo di risposta che dimostrerà di voler intraprendere la Conferenza dei rettori. La presidente in un’intervista al Corriere ha sottolineato come “la situazione nelle università sia difficile” e ha detto che “impedire a qualcuno di parlare è incompatibile con l’idea stessa dell’Università”. Parole che sarebbero state prese male da una parte degli altri rettori, che preferiscono invece una Conferenza più ecumenica, che non entri nel merito del dibattito sul tema. Fatto sta che dall’incontro di giovedì la comunità ebraica si aspetta risposte concrete: “Abbiamo bisogno di sentirci protetti. Siamo noi quelli che subiscono le vere prevaricazioni”, conclude Di Segni. “Non è più accettabile”.
Durante la notte fe Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno fatto irruzione nel complesso ospedaliero di Al-Shifa, a Gaza City, in seguito a precise e attendibili informazioni secondo cui alti funzionari di Hamas si trovavano nell’area e utilizzavano l’ospedale per pianificare e portare avanti attività terroristiche. In una dichiarazione rilasciata nella notte, l’esercito afferma che le truppe presenti nell’ospedale sono state “istruite in anticipo sull’importanza di prevenire danni ai civili, ai pazienti, alle squadre mediche e alle attrezzature mediche” e che le forze di sicurezza hanno parlato in arabo per facilitare la comunicazione con i pazienti e il personale. Secondo l’annuncio, anche i medici dell’IDF erano a disposizione. Ai pazienti e alle squadre mediche non è stato ordinato di evacuare l’ospedale, ma l’esercito ha creato dei percorsi per i civili per permettere loro di lasciare l’area, afferma. Una volta terminata l’operazione all’ospedale, “l’IDF continuerà lo sforzo umanitario e fornirà cibo, acqua e ulteriori rifornimenti ai pazienti e ai civili del complesso”. In un messaggio video, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, afferma che l’IDF sta conducendo “un’operazione di alta precisione in aree limitate dell’ospedale Shifa, a seguito di informazioni concrete che richiedevano un’azione immediata”.
L'esercito israeliano sostiene di aver ucciso il terrorista di Hamas Faik Mabchuch nell'ospedale Al-Shifa
“Sappiamo che i terroristi di Hamas di alto livello si sono raggruppati all’interno dell’ospedale e lo stanno usando per comandare attacchi contro Israele”. Ha dichiarato che le forze speciali sono state sottoposte ad un “addestramento specifico per prepararle all’ambiente sensibile e agli scenari complessi che potrebbero incontrare” nell’ospedale. “Non vogliamo fare del male ai civili dietro cui si nasconde Hamas”, ha dichiarato, aggiungendo che l’IDF condurrà la sua operazione “con cautela e attenzione, assicurando che l’ospedale continui a svolgere le sue importanti funzioni”. Hagari afferma che i medici dell’IDF erano con le truppe “per assistere chi ne aveva bisogno”. “Chiediamo a tutti i terroristi di Hamas che si nascondono nell’ospedale di arrendersi immediatamente. Le strutture mediche non dovrebbero mai essere sfruttate per il terrore. Hamas deve essere ritenuto responsabile”, ha dichiarato.
• Le operazioni e gli scontri Le forze di sicurezza che operano presso l’ospedale Al-Shifa di Gaza City hanno subito nella notte un attacco dei terroristi “dall’interno del complesso ospedaliero”, affermano l’IDF e lo Shin Bet in un comunicato. Le forze di sicurezza israeliane “hanno risposto al fuoco e hanno colpito i terroristi”, si legge nel comunicato.
• Il comunicato di poco fa L’IDF afferma di aver preso il controllo dell’ospedale Shifa di Gaza City e chiede ai membri di Hamas all’interno di uscire e arrendersi. Secondo l’IDF, finora le truppe hanno catturato circa 80 sospetti. L’IDF sostiene che alcuni di quelli catturati sono agenti terroristici confermati. L’IDF afferma che diversi uomini armati di Hamas sono stati uccisi e feriti in scontri a fuoco all’interno dell’ospedale. Un soldato israeliano è stato leggermente ferito. L’intelligence dell’IDF ha indicato che agenti di Hamas sono arrivati di recente nei locali dell’ospedale per usare gli edifici come centro di comando. Non ci sono informazioni su ostaggi detenuti nell’area, dice l’esercito.
(Rights Reporter, 18 marzo 2024)
Israele-Hamas: ostaggi e stupri, effetti collaterali
di Fabio Marco Fabbri
Sono passati più di cinque mesi dall’inizio della risposta israeliana ai massacri perpetrati da Hamas il 7 ottobre. Ora la striscia di terra palestinese è in gran parte inabitabile in quanto rasa quasi completamente al suolo e priva di ogni servizio, acqua ed elettricità. Tuttavia sembra che tali servizi siano ancora funzionanti in quella colossale struttura architettonica composta dalle estesissime gallerie e numerosi bunker ancora agibili sotto Gaza. Una guerra quella tra Israele ed Hamas che si sta protraendo forse oltre il previsto, anche per l’articolazione che ha assunto nel quadro di un conflitto ad ampio raggio, dove l’anacronistico Governo degli Ayatollah gioca, forse, le ultime sue carte su un palcoscenico che comprende anche la guerra in Ucraina. Ma la questione che occupa ogni tipo di negoziato tra le diplomazie arabe e i vari interlocutori, più o meno ufficiali, anche occidentali, è quella della liberazione degli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas; ma soprattutto avere notizie certe sul loro stato di salute e quanti sono ancora vivi. A tal proposito martedì scorso è stata confermata la morte di Itay Hen, un militare diciannovenne con doppia nazionalità israeliana e statunitense, ucciso il 7 ottobre durante l’attacco di Hamas contro Israele. Il suo cadavere è ancora in mano ai miliziani di Hamas. Per ora i colloqui tra Israele e Hamas, sul rilascio di decine di ostaggi israeliani, sono in fase di stallo; e questa realtà affonda nella disperazione dei familiari, i cui sentimenti, pragmaticamente, fanno lottare la speranza con la ragione. Gli ultimi confronti sono incentrati sulle condizioni per il rilascio di circa venti prigionieri palestinesi condannati per gravi atti di terrorismo, che dovrebbero essere scambiati con alcune soldatesse israeliane rapite il 7 ottobre. Inoltre i negoziati sono indirizzati su accordi che prevederebbero il rilascio, da parte di Israele, di centinaia di criminali palestinesi, con una proporzione di uno israeliano e dieci palestinesi. Il tutto dovrebbe realizzarsi nel quadro di una fase di cessate il fuoco. Questi negoziati svolti prima in Qatar, poi in Egitto, e da sabato tornati a Doha, si auspicava che sarebbero stati facilitati dall’inizio del Ramadan, il 10 marzo (fine 9 aprile), ma negli ultimi giorni Hamas non ha dato segni di adesione alle ipotesi di accordi proposti, avanzando richieste che Israele ha rigettato categoricamente. Va comunque considerato che la delegazione israeliana non ha partecipato alle sessioni di incontri al Cairo proprio a causa delle nuove richieste di Hamas. La diplomazia israeliana ha comunicato che gli ampi margini di accordo stabiliti nella prima fase dei negoziati, sono stati per Hamas l’alibi per alzare il livello delle richieste. La questione degli ostaggi è stata trattata anche dal ministro degli esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, durante un incontro programmato a Washington con il Segretario di Stato Antony Blinken; dal colloquio sono emerse preoccupazioni strategiche comuni. Entrambi, con un comunicato ufficiale, hanno ribadito l’importanza di cercare di ottenere il rilascio degli ostaggi e una qualche forma di cessate il fuoco. Tuttavia John Kirby, dal 2024 portavoce e consigliere per le comunicazioni per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha affermato, la settimana scorsa, che gli Stati Uniti sono delusi dal fatto che non sia stato raggiunto un accordo a causa della poca affidabilità dei rappresentanti di Hamas. Insomma tutto l’impegno delle varie diplomazie pare sia incentrato su convincere i delegati di Hamas ad accettare anche un minimo barlume di accordo con Israele. Ma la questione degli ostaggi, è l’ondivago atteggiamento di Hamas, può rivelare scenari che volutamente il gruppo estremista palestinese tende ad occultare. Perché Hamas, oltre valutare gli ostaggi israeliani merce di scambio, è così reticente nel dare comunicazione dei nominativi dei vivi e delle loro condizioni? Israele chiede ripetutamente ad Hamas di fornire l’elenco dettagliato degli ostaggi ancora in vita; ma il movimento terroristico palestinese ha replicato di non poter confermare chi tra gli ostaggi fosse ancora vivo o morto. Inoltre il loro numero è molto incerto, è sicuro, invece, che stanno subendo da cinque mesi violenze di ogni genere. L’inviato speciale delle Nazioni Unite, Pramila Patten, che indaga sulle violenze sessuali nei conflitti, ha comunicato che molte donne e bambini in ostaggio di Hamas sono stati sottoposti a stupri e torture sessuali. Si sospetta che tali abusi sono tuttora in atto. La Patten ha inoltre affermato di non essere riuscita ad incontrare i sopravvissuti alle violenze sessuali conclamate durante gli attacchi del 7 ottobre. Tuttavia, il team delle Nazioni Unite è stato in grado di intervistare gli ostaggi rilasciati e parlare con numerosi testimoni, oltre visionare una grande quantità di filmati e immagini. Questi resoconti degli ostaggi rilasciati hanno dato informazioni chiare e inequivocabili sulle “torture sessualizzate”, sulle violenze sessuali, sugli stupri, e sulla grande crudeltà esercitata contro molte donne e bambini. In conclusione quali possono essere gli “effetti connessi” a tali drammatiche esperienze? Senza dubbio i traumi psicologici, molto noti, che martorizzeranno le vittime per anni se non per sempre; ma un altro effetto “sostanzialmente parallelo” e drammaticamente probabile, è che queste ragazze possano essere rimaste in stato di gravidanza. Cinque mesi sono passati, e se ciò si è verificato, oltre al trauma, la ragazza ebrea porterebbe in grembo, oltre che il segno dell’atroce violenza, il frutto di un seme palestinese-musulmano. Con tutti i ragionamenti ed analisi che ne conseguono sui quali, al momento, non intendo indugiare.
Netanyahu: "Avete dimenticato così in fretta cosa ci hanno fatto?”
Netanyahu accusa Biden e la comunità internazionale di aver "perso la bussola morale" quando si tratta della guerra giustificata di Israele a Gaza.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha utilizzato la riunione di gabinetto di domenica per rivolgersi agli amici di Israele nella comunità internazionale, che in pochi mesi sono passati dal sostegno incondizionato allo Stato ebraico al tentativo di fermare l'ultima offensiva dell'esercito israeliano contro Hamas con ogni mezzo necessario.
"Ai nostri amici della comunità internazionale dico: la vostra memoria è così corta? Avete dimenticato così in fretta il 7 ottobre, il più orribile massacro di ebrei dopo l'Olocausto? Siete stati così veloci nel negare a Israele il diritto di difendersi dai mostri di Hamas? Avete perso così rapidamente la vostra coscienza morale?", ha chiesto il capo del governo israeliano. "Invece di fare pressione su Israele, che sta conducendo una guerra senza precedenti e giusta contro un nemico senza precedenti e brutale, dovreste fare pressione su Hamas e sul suo patrono, l'Iran. Sono loro che rappresentano un pericolo per la regione e per il mondo intero".
Netanyahu ha sottolineato che Israele condurrà un'operazione militare della durata di diverse settimane nella città di confine di Rafah, l'ultima roccaforte di Hamas rimasta nella Striscia di Gaza, nonostante le pressioni internazionali.
"Coloro che dicono che l'operazione a Rafah non avrà luogo sono quelli che hanno anche detto che non entreremo nella Striscia di Gaza o non opereremo a Shifa [ospedale] o a Khan Yunis e che non riprenderemo i combattimenti dopo il [precedente accordo di pace con ostaggi]", ha detto il primo ministro. "Ripeto: opereremo a Rafah. Ci vorranno alcune settimane, ma succederà".
Il fatto che le sue osservazioni fossero principalmente rivolte all'amministrazione Biden è stato evidente non solo nell'enfasi sull'operazione di Rafah, che è stata così pesantemente criticata dalla Casa Bianca, ma anche nel fatto che Netanyahu ha sottolineato gli sforzi internazionali per portare avanti nuove elezioni in Israele.
"Ci sono alcuni nella comunità internazionale che stanno cercando di porre fine alla guerra ora, prima che tutti i suoi obiettivi siano stati raggiunti. Lo stanno facendo cercando di indire nuove elezioni ora, nel pieno della guerra. Lo fanno perché sanno che le elezioni ora porrebbero fine alla guerra e paralizzerebbero il Paese per almeno sei mesi", ha detto. "Ma se terminiamo la guerra ora, prima che tutti gli obiettivi siano raggiunti, significa che Israele ha perso la guerra, e noi non permetteremo che ciò accada. Ecco perché non possiamo e non vogliamo cedere a queste pressioni".
La scorsa settimana, il leader della maggioranza del Senato degli Stati Uniti Chuck Schumer ha etichettato il governo Netanyahu come dannoso per la nazione e ha dichiarato che "nuove elezioni sono l'unico modo per consentire un processo decisionale sano e aperto sul futuro di Israele".
Lo scioccante discorso è stato quasi immediatamente elogiato dal Presidente Joe Biden e da altri membri anziani della sua amministrazione.
Nel suo discorso, Schumer ha fatto eco alle affermazioni di Biden e della vicepresidente Kamala Harris, secondo cui la coalizione di Netanyahu non rappresenta l'opinione pubblica israeliana, spingendo per una vittoria completa e rifiutando un processo politico che porterebbe a uno Stato palestinese. I sondaggi d'opinione condotti in Israele nelle ultime settimane, tuttavia, dimostrano che questa posizione è completamente sbagliata e che una chiara maggioranza di israeliani chiede una guerra fino alla vittoria e rifiuta uno Stato arabo palestinese sovrano alle porte di casa.
Ci sono anche segnali che indicano che la maggioranza degli israeliani fa il tifo perché Donald Trump sconfigga Biden nelle prossime elezioni presidenziali statunitensi, nella speranza che a Washington prenda il comando un leader più vicino a ciò che accade in Israele.
Nel frattempo, Netanyahu ha dichiarato che Israele continuerà a resistere alle pressioni, siano esse provenienti da Washington o da qualsiasi altra capitale occidentale, "e con l'aiuto di Dio combatteremo fino alla vittoria".
(Israel Heute, 18 marzo 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’attacco e il massacro di Hamas saranno ricordati ogni anno il 24° giorno del mese ebraico di Tishri con cerimonie ed eventi di Stato; quest’anno si terrà una cerimonia di Stato per commemorare il massacro e la guerra di Gaza del 7 ottobre; il giorno è “impresso nella coscienza pubblica in Israele e nel mondo”. Oggi il governo israeliano ha approvato all’unanimità una giornata nazionale di commemorazione del 7 ottobre e della guerra contro Gaza. Secondo la decisione presa durante la riunione settimanale del Gabinetto, quest’anno per il primo anniversario della tragedia si terrà una cerimonia anche nella data del calendario gregoriano del 7 ottobre.
Il Giorno della Memoria del massacro del 7 Ottobre sarà celebrato ogni anno in due cerimonie statali: alle 11:00 una cerimonia in memoria dei soldati caduti in guerra e alle 13:00 una cerimonia in memoria dei civili uccisi durante le ostilità.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, in coordinamento con il Ministro dei Trasporti Miri Regev, responsabile della celebrazione del 76° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con il Ministero della Difesa e con l’insieme delle cerimonie e degli eventi statali presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha fissato gli eventi annuali di commemorazione dello Stato per ricordare la guerra delle “Spade di Ferro”. Il nome della guerra è temporaneo, si prevede che un nome permanente sarà scelto in una data successiva. Poiché il prossimo 24 di Tishri cade nel sabato ebraico, le cerimonie si svolgeranno l’anno prossimo il 25 di Tishri, che è una domenica, e questo sarà vero ogni volta che la data ebraica cade in un sabato.
Inoltre, oltre alla Giornata della Memoria Nazionale che si terrà ogni anno nella data ebraica, quest’anno sarà celebrata anche una cerimonia di Stato, come evento unico, il 7 ottobre. Il governo ha annunciato che “la data del calendario civile del brutale attacco terroristico è rimasta impressa nella coscienza delle persone in Israele e nel mondo”. Nelle note esplicative della proposta di risoluzione si legge: “Il 7 ottobre è impresso nella coscienza pubblica di Israele come il giorno del terribile massacro. Proprio per segnare il primo anno del più grande attacco terroristico della nostra storia, in risposta al clamore dell’opinione pubblica israeliana, è necessario commemorare l’evento in modo unico nella sua data del calendario civile, che è stata incisa nella coscienza del popolo di Israele e del mondo. L’espressione ‘settimo ottobre’ è anche legato al termine ebraico ‘shiva’, che indica il lutto alla fine del primo anno di lutto per lo scoppio dell’attacco”.
Il nome della guerra è ancora considerato temporaneo e viene indicato come tale negli annunci ufficiali. Anche se si sarebbe dovuto formare un team per valutare un nuovo nome, l’assemblea è stata congelata. Nel frattempo, anche “Iron Swords” si aggiungerà all’elenco delle guerre per le quali si tiene una cerimonia commemorativa di Stato: la Guerra di Kadesh del 1956 con l’Egitto, la Guerra dei Sei Giorni e la Guerra di logoramento, la Guerra dello Yom Kippur, la Guerra del 1933, la Seconda Guerra del Libano e la Guerra di Gaza del 2014. Il Ministero della Difesa stanzierà il budget necessario per lo svolgimento della cerimonia e l’Ufficio del Primo Ministro stanzierà il budget necessario per le cerimonie e gli eventi di Stato.
(Israele360, 17 marzo 2024)
Più o meno nell’indifferenza generale e senza apprezzabili reazioni, i collettivi universitari di sinistra, oltre a ritenersi sovranamente depositari del diritto di stabilire chi abbia libertà di parola e chi no, stanno facendo avanzare la loro agenda, che prevede – come punto prioritario – la cancellazione degli eventuali accordi esistenti tra le università italiane e quelle israeliane. Alcuni rettori tacciono imbarazzati; altri – incredibilmente – assicurano che il tema sarà affrontato dagli organi accademici; altri ancora – con notevole viltà – fanno informalmente sapere che attendono la scadenza degli accordi esistenti con gli atenei israeliani, intese che dunque non verranno rinnovate.
E così, nella distrazione dei più e nel silenzio quasi completo della politica e dei media, siamo in presenza di un clamoroso salto di qualità (verso il basso) di una campagna che già era opaca e indifendibile dopo il 7 ottobre.
Non solo non si è manifestata vera solidarietà agli ebrei aggrediti attraverso il pogrom messo in atto dalle belve di Hamas; non solo si è via via equiparata la posizione degli israeliani a quella dei terroristi palestinesi autori dei massacri e dei rapimenti; non solo si sono prese come oro colato le dichiarazioni (e le cifre!) fornite dall’ufficio stampa e dal ministero della sanità di Hamas. No, ora si va perfino oltre, e si punta a colpire istituzioni culturali che – per loro stessa natura – non dovrebbero essere confuse con l’esercito israeliano o con il governo pro tempore al potere a Gerusalemme.
Riflettiamoci, anche per evitare di essere complici – per inerzia – di atti dei quali le università italiane potrebbero doversi vergognare tra qualche anno: se si accetta di interrompere rapporti culturali con qualcuno, se si decide di “punire” anche enti educativi e di istruzione, di tutta evidenza – più o meno implicitamente, più o meno velatamente – si sta transitando da un dissenso di merito nei confronti dell’esecutivo Netanyahu a un rifiuto indistinto di tutto ciò che porti la bandiera di Israele. È il caso di chiamare le cose con il loro nome: ci si sta spostando a lunghe e rapide falcate dall’antisionismo all’antisemitismo. O meglio: la foglia di fico antisionista è ormai totalmente inadeguata a mascherare, a coprire la vergogna antisemita.
Vogliamo sperare che ancora vi siano margini di distrazione e di parziale inconsapevolezza della gravità della cosa. Ma qui siamo a un passo dagli orridi termini coniati dal nazismo: “Judenfrei” (libero dagli ebrei) e “Judenrein” (pulito dagli ebrei).
Naturalmente già sento le voci indignate che rifiuteranno l’accostamento, che leveranno alti lai, che reciteranno le tristi e ipocrite giaculatorie che ben conosciamo. Ma non riusciranno a occultare il cuore della questione: solo un approccio di odio anti-israeliano e anti-ebraico può “giustificare” misure sanzionatorie e interruzioni di collaborazioni accademiche e scientifiche con istituzioni culturali legate a Gerusalemme.
Del resto, è sufficiente scorrere le agenzie di stampa fino allo scorso novembre per ritrovare testimonianze inequivocabili: alla Sapienza, al termine di un’occupazione, davanti al rettorato e nel momento in cui era in corso una riunione del senato accademico, attivisti di sinistra arrivarono a bruciare copie cartacee delle intese con gli atenei israeliani. Un rogo: chiaro, no?
Ecco, su tutto questo, che dicono intellettuali e politici di sinistra? Perché tanta afasia? Avevano costruito per anni una prigione linguistica e mentale certi di potervi rinchiudere i loro avversari: erano sicuri – secondo i loro schemi – che un eventuale pericolo antisemita non potesse che provenire da destra. E invece – ahiloro – si è manifestato con tutt’altra matrice: rendendo tragicamente ridicole le loro formulette sul “razzismo delle destre”. Il problema, a questo punto, è tutto loro: con un’esplosione di sentimenti e parole scopertamente anti-ebraiche nel loro campo, nei loro salotti, nelle loro piazze, nel loro associazionismo, nei loro gruppi parlamentari, sui loro giornali, nei loro programmi tv e nelle loro riviste. E pure tra i loro giovani virgulti.
E allora che si fa a sinistra? Ci si può attorcigliare invocando la “complessità” delle questioni: è il rifugio degli ormai mitici “complessisti”. Ma il disagio resta, e resta pure una scomoda verità: l’ondata anti-ebrei è tutta vostra, cari compagni. Ci sarà qualcuno (in altra circostanza accadde, molti decenni fa, a proposito di terrorismo e Brigate Rosse, da parte di Rossana Rossanda sul Manifesto) che avrà il coraggio di riconoscere che tutto ciò fa parte del vostro “album di famiglia”?
Vita, morte e risurrezione. Riflessioni davanti a una bara
Questo testo è l’elaborazione di un messaggio portato in occasione di un funerale. Un parente del defunto ha chiesto che fosse messo per iscritto.
Da che mondo è mondo tutti muoiono, dovremmo esserci abituati. Viviamo invece ogni funeralecome un fatto insolito, come un avvenimento che se tutto fosse andato bene non avrebbe dovuto esserci. Si tenta di sminuire l'aspetto minaccioso della morte dicendo che è un fatto naturale, come la nascita. Ma mentre possiamo dire con naturalezza che un bambino è nato, non ci è mai facile dire che qualcuno è morto.
Ecco allora la domanda: perché si muore? che cos'è la morte?
"L'Eterno Iddio prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse. E l'Eterno Iddio diede all'uomo questo ordine: “Mangia pure liberamente del frutto di ogni albero del giardino; ma del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai” (Genesi 2:15-17).
La morte nella Bibbia appare come conseguenza della trasgressione di un ordine di Dio. E tuttavia non è una punizione. Non è che Dio, dopo aver visto che l'uomo non ha ubbidito, ha deciso di punirlo facendolo morire. La morte è una decisione di Adamo, non di Dio. Se il comune appende un cartello con la scritta: "Chi tocca i fili muore", e un cittadino tocca i fili e poi muore, non si può dire che è stato il comune a ucciderlo.
Quello che avviene ad Adamo ed Eva dopo la loro decisione di mangiare il frutto proibito non è una punizione, ma la conseguenza di un atto compiuto in piena libertà. Dicendo ad Adamo: ”nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”, Dio non gli ha dato un ordine, ma gli ha soltanto fatto sapere quello che sarebbe accaduto se avesse deciso di non tener conto delle sue parole. Lo ha messo quindi di fronte alla sua responsabilità; è come se gli avesse detto: "Sta a te decidere quello che vuoi fare: se credere a quello che ti ho detto o agire di testa tua“.
Su suggerimento del serpente e proposta di Eva, Adamo ha deciso di agire di testa sua, anche se contrario a quello che Dio gli aveva detto. Ed è arrivata, inevitabile, la conseguenza: la morte. Ancora una volta, non è stata la parola di Dio a provocarla, ma la decisione di Adamo. E le cose non potevano andare diversamente, perché quello che Dio dice è sì e amen.
Il corpo di Adamo era stato tratto dalla terra e il soffio di Dio nelle narici lo aveva fatto diventare un'anima vivente. Ciò che l’avrebbe pienamente mantenuto al livello di uomo fatto a immagine somiglianza di Dio sarebbe stato il libero e consapevole accoglimento della parola di Dio. La mancanza di questo accoglimento ha determinato la morte, in tutti i sensi: spirituale, morale, corporale.
La morte spirituale nei rapporti con Dio si è manifestata nella paura della voce di Dio
La morte morale nei rapporti sociali si è manifestata nelle giustificazioni scaricabarile.
La morte corporale sarebbe avvenuta in seguito, come definitivo compimento della Parola di Dio detta ad Adamo.
Adamo ed Eva però non sono due individui qualsiasi: essi compaiono come la coppia iniziale di un progetto creativo grandioso: la terra era destinata a essere abitata da nuove coppie uomo-donna generanti figli e figlie che riempirebbero la terra. Con la sparizione definitiva della prima coppia, il progetto creativo sarebbe naufragato fin dall'inizio. E Dio cercò un rimedio.
Nelle parole pronunciate dopo la primordiale caduta non si deve vedere un Dio che sfoga la sua ira sugli insubordinati sottoposti, ma un Dio addolorato che informa la sua creatura su come dovrà andare avanti il progetto di creazione in forma deteriorata. La terra, l'habitat pensato per la vita dell'uomo, è stata maledetta. E dalla maledizione segue l'irruzione della morte in tutto il creato, uomini e cose, come avviene per la rottura di una diga. Tutto risulta alterato in conseguenza del rapporto alterato fra Dio e l'uomo. E’ questo il significato delle parole dell’apostolo Paolo: "la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12). Con questo non si vuol dire che poiché tutti hanno commesso dei peccati, di conseguenza tutti sono morti, come se il morire fosse una conseguenza del vivere da cattivi. Al bambino non si dice: comportati bene altrimenti da grande morirai. Dalla caduta in poi la morte corporale è uno status che l'uomo acquisisce fin dalla nascita e da cui in nessun modo può uscire con il suo comportamento. Non si muore per cattiva condotta.
Adamo ed Eva dovevano corporalmente morire: era inevitabile. Dio l'aveva detto e nessuna parola di pentimento avrebbe potuto cambiare quelle parole. Adamo ed Eva però non sono rimasti fulminati subito dopo aver mangiato il frutto proibito: si potrebbe dire che in quel momento hanno contratto una malattia mortale. Nel tempo che passa tra la morte spirituale e quella corporale Dio progetta il suo piano di recupero del mondo. Ed è fin da questo momento che vale la parola di grazia:
"Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna" (Giovanni 3:16).
In questo passo del Vangelo la salvezza è espressa in termini individuali (e purtroppo soltanto in questo senso viene di solito citato il versetto), ma non esiste una salvezza individuale che non sia partecipazione a un mondo salvato. Nelle parole che Dio rivolge al serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”(Genesi 3:15) è contenuto l’annuncio della sconfitta di Satana, che con la caduta degli umani progenitori ha tentato di impadronirsi del progetto creativo di Dio. Il riferimento al capo schiacciato e al calcagno ferito sono un’allusione alla morte vittoriosa del Messia.
Dopo il peccato originale, la presenza della morte si manifesta in ogni parte del creato, in forma di universale corruzione: materiale, morale, sociale, spirituale. Tutte le cose, anche le più buone, prima o poi si guastano.
Ma la creazione, che porta i segni evidenti della morte in essa entrata, porta anche i segni poco notati eppur percettibili di una nuova vita che scaturisce dalla morte. L'esempio tipico è il seme che entra nella terra: il seme muore in quanto tale, e nel morire produce una nuova vita. Gesù applica a Se stesso questo segno della natura:
"Se il granello caduto in terra non muore, rimane solo, ma se muore produce molto frutto" (Giovanni 12:24).
La morte di Gesù è il punto centrale dell'opera di recupero della creazione da parte di Dio (la cosiddetta “redenzione”).Gesù assume su di Sé la responsabilità oggettiva del peccato iniziale di Adamo e di tutti i peccati compiuti dagli uomini in seguito. Gesù però non ha colpa soggettiva, perché non ha mai peccato. Per questo Dio lo ha richiamato a nuova vita e lo ha reso il primogenito di una nuova creazione che si sviluppa come conseguenza dell'ubbidienza, e non della disubbidienza, come è avvenuto nel caso della prima creazione.
Ecco perché nell'annuncio cristiano la morte occupa un posto così rilevante. Tutto il male che oggi è nel mondo si può vedere come conseguenza della morte, come alterazione dell’iniziale rapporto della creatura con Colui che è il datore della vita in tutte le sue forme. Ma d'altra parte in Gesù morto e risuscitato, e nella vita di persone rinnovate che credono in Lui, si possono vedere già oggi i segni di una nuova creazione che fin da ora è avvertibile come una nuova, durevole realtà. È una realtà concreta, più concreta della morte. Perché sta scritto:
“La morte è stata sommersa nella vittoria.O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?” (1 Corinzi 15:54-55).
Gesù è il granello di frumento caduto in terra che morendo "porta molto frutto". E fa parte di questo frutto l’insieme di tutti coloro che nella fede in Gesù partecipano della Sua morte e dunque anche della Sua risurrezione. Come sta scritto:
“Perché se siamo stati totalmente uniti a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua […] sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Romani 6:5,8-9).
L’Iran usa i porti europei per le armi inviate a Hezbollah
L’Iran sta usando i porti europei e documenti falsi per ‘fornire copertura per le spedizioni di armi a Hezbollah’
di Abele Carruezzo
LONDRA - Le bombe iraniane sganciate su Israele vengono trasportate su navi che utilizzano i porti europei. Armi destinate a Hezbollah spedite in Siria prima che le navi proseguissero verso i porti di Anversa e Valencia ‘per mascherare lo scopo dei viaggi’.
E’ noto da tempo che l’Iran sta fornendo armi ai militanti di Hezbollah in Libano usate per attaccare Israele, così come le sue recenti spedizioni di armi ai ribelli Houthi per attaccare le navi nel Mar Rosso. Il quotidiano britannico The Telegraph cita fonti in Israele che affermano che l’Iran sta usando le sue navi da carico e i suoi manifesti di carico ed altri documenti per i porti europei per nascondere le sue spedizioni di armi.
Il gruppo libanese, sostenuto dall’Iran, ha ricevuto missili e bombe su navi che attraccano nei porti di Belgio, Spagna e Italia, secondo quanto riferito da fonti citate da The Telegraph.
L’Iran è passato alla spedizione di armi via mare dopo che l’aviazione israeliana ha iniziato a prendere di mira le spedizioni che arrivano via terra nel nord della Siria attraverso l’Iraq, sostiene il quotidiano londinese The Telegraph. Armi e altre merci vengono ora dislocate al porto siriano di Latakia prima che le navi procedano verso i porti di Anversa, Valencia e Ravenna, nel tentativo di mascherare lo scopo dei viaggi; da Latakia, le armi vengono trasportate a sud in Libano.
“Usare l’Europa aiuta a nascondere la natura e l’origine delle spedizioni, cambiando documenti e container… per pulire le spedizioni”, ha detto al The Telegraph una fonte di alto livello dell’ intelligence israeliana.
“L’Europa ha porti grandi, ed è per questo che l’Iran li sta usando per mascherare il trasporto di armi. È molto facile fare manipolazioni in quei grandi porti dove le cose devono essere spostate rapidamente, piuttosto che in un piccolo porto dove ci sarà più controllo”, ha detto la fonte.
E questo avviene da tre anni circa, sotto gli occhi degli osservatori occidentali.
Ronen Solomon, un analista indipendente dell’ intelligence con sede in Israele, ha detto che l’Iran sta anche inviando armi direttamente in Siria. L’uso di rotte separate attraverso l’Europa era per ‘legittimare’ il loro carico e ‘distrarre l’attenzione’ da quelle spedizioni dirette, ha aggiunto Solomon.
Il porto di Latakia – il principale porto marittimo della Siria – è stato preso di mira da attacchi aerei nel 2021, anche se questi non sono stati rivendicati da Israele, che raramente conferma le operazioni in territorio siriano. Il The Telegraph afferma che 100 razzi sono stati lanciati nella regione delle alture del Golan in un solo giorno questa settimana. Riferiscono che circa 60.000 israeliani sono stati evacuati dalla regione di confine.
Dall’inizio della guerra di Gaza in ottobre, cinque navi iraniane – Daisy, Kashan, Shiba, Arezoo e Azargoun – hanno scaricato merci in Siria, iniziando il loro viaggio a Bandar Abbas in Iran, secondo l’intelligence consegnata a Solomon. Una revisione dei dati AIS mostra che la nave portacontainer Arezoo, registrata in Iran, sta completando il suo liner descritto nel rapporto. Ha scalato i porti menzionati in Italia, Spagna e Belgio, partendo per il suo viaggio di ritorno in Iran la scorsa settimana. Anche la Shiba sta tornando in Iran da Anversa, mentre la Kashan si sta attualmente dirigendo verso il Canale di Suez dopo aver lasciato l’Iran.
“Coordinati dall’Unità 190 della Forza Quds dell’Iran, i trasferimenti di armi sono poi gestiti dall’Unità 4400 di Hezbollah, che è responsabile delle spedizioni di armi”, ha scritto il The Telegraph nell’edizione di ieri.
Gli Stati Uniti confermano che hanno anche intercettato spedizioni di armi e componenti provenienti dall’Iran su dhow più piccoli diretti nello Yemen. A gennaio, gli Stati Uniti hanno confermato la cattura di componenti missilistici provenienti dall’Iran a bordo di un dhow. A febbraio, gli Stati Uniti hanno riferito di aver intercettato una seconda spedizione, anch’essa diretta allo Yemen.
Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha dichiarato che l’Italia ha continuato a inviare armamenti a Israele, anche dopo le iniziali assicurazioni di una sospensione delle esportazioni. Queste hanno interessato solo gli ordini piazzati prima del 7 ottobre, con l’Italia che si è assicurata che le armi non fossero utilizzate in azioni contro i civili di Gaza. In precedenza il 20 gennaio Antonio Tajani, ministro degli Esteri, aveva comunicato la sospensione delle forniture militari a Israele citando una normativa del 1990 che proibisce la vendita di armi a paesi in stato di guerra. Questa politica ha fatto eccezione per l’Ucraina nel 2022.
Analisi recenti indicano che l’Italia ha esportato armi per un valore di 2,1 milioni di euro verso Israele negli ultimi tre mesi del 2023, con un notevole aumento nel mese di dicembre rispetto all’anno precedente.
L’Italia ha espresso ripetutamente il suo sostegno a Israele, astenendosi dal votare per due risoluzioni dell’ONU che chiedevano una pausa umanitaria e un cessate-il-fuoco, proposte entrambe ignorate da Israele.
In aggiunta l’Italia ha ritirato i finanziamenti all’UNRWA, agenzia ONU che aiuta i rifugiati palestinesi, in seguito ad accuse da parte di Israele riguardo alla presunta complicità di alcuni membri con Hamas durante gli attacchi del 7 ottobre. Al termine del 2022 l’Italia era registrata come il 14mo donatore dell’agenzia.
Le reazioni della politica israeliana al discorso del senatore americano Chuck Schumer
di Luca Spizzichino
Il leader della maggioranza al Senato,
Chuck Schumer, durante un suo intervento, ha chiesto una nuova elezione in Israele per sostituire il Primo ministro Benjamin Netanyahu, considerato “un grosso ostacolo alla pace”. Secondo Schumer, infatti, un’elezione è l’unico modo per consentire un processo decisionale sano e aperto sul futuro di Israele, in un momento in cui tanti israeliani hanno perso la fiducia nella visione e nella direzione del loro governo.
Nello Stato ebraico è stata immediata la reazione del mondo politico. Attraverso i suoi canali, il Likud, partito del premier Netanyahu, ha scritto che “Israele non è una repubblica delle banane, ma una democrazia orgogliosa della sua scelta”. L’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Herzog, ha pubblicato su X la sua risposta alle dichiarazioni del leader della maggioranza Schumer. “Israele è una democrazia sovrana. – si legge nel post – È inutile, tanto più che Israele è in guerra contro l’organizzazione terroristica genocida Hamas”. “Commentare la scena politica interna di un alleato democratico è controproducente per i nostri obiettivi comuni”, ha scritto Herzog.
Sulla stessa linea anche l’ex premier Naftali Bennett, che attraverso una dichiarazione sui social ha affermato che “si oppone fermamente all’intervento politico esterno negli affari interni di Israele”. “Siamo una nazione indipendente, non una repubblica delle banane”, ha aggiunto.
“Con la minaccia del terrorismo in arrivo verso l’Occidente, sarebbe meglio se la comunità internazionale aiutasse Israele nella sua guerra, proteggendo così anche i suoi paesi”.
Anche Benny Gantz, membro del Gabinetto di guerra, ha commentato il discorso di Schumer: “Israele è una democrazia forte e solo i suoi cittadini determineranno la sua leadership e il suo futuro”.
Anche dall’opposizione sono arrivate dichiarazioni in merito, in particolare dal leader di Yesh Atid, Yair Lapid. Il discorso di Schumer, secondo Lapid “è la prova che, uno dopo l’altro, Netanyahu sta perdendo i più fedeli sostenitori di Israele”. “Ciò che è peggio, è che lo fa apposta. – ha accusato l’ex primo ministro – Netanyahu sta causando gravi danni allo sforzo nazionale per vincere la guerra e mantenere la sicurezza di Israele”.
Il discorso tenuto ieri al Senato americano dal capogruppo Chuck Schumer nel quale ha affermato che Benjamin Netanyahu e il suo governo rappresentano un problema per Israele e ha invocato per il Paese nuove elezioni, come se esso fosse una colonia americana, non deve sorprendere. Si tratta, infatti, della diretta conseguenza di dichiarazioni contrarie a Netanyahu, al suo governo e alla conduzione della campagna militare israeliana a Gaza già espresse da Joe Biden e da altri esponenti di spicco della sua amministrazione.
Malgrado le molte reazioni avverse alle affermazioni di Schumer, giunte in parte maggioritaria da Israele, Joe Biden ha definito il discorso di Schumer, un “buon discorso”, dandogli dunque il suo imprimatur.
Qui su L’Informale abbiamo evidenziato numerose volte, e fin dal principio, come l’appoggio americano nei confronti di Israele dato da questa amministrazione in carica, fosse da prendersi con le dovute cautele. I fatti hanno confermato le nostre analisi.
Nonostante gli Stati Uniti sostengano Israele nella sua guerra contro Hamas, l’appoggio americano si è fatto progressivamente problematico fino al punto, negli ultimi mesi, da rendersi insidioso.
L’agenda politica della Casa Bianca riguardo la guerra a Gaza e lo scenario post bellico si è palesata ormai in modo chiaro come discordante da quella del governo israeliano, il quale persegue come obiettivo principale la capitolazione di Hamas e un futuro della Striscia non governato dall’Autorità Palestinese.
Se a parole anche Washington sembra appoggiare la sconfitta di Hamas, nei fatti, nelle dichiarazioni e nelle azioni intraprese ha manifestato che la sua priorità è un cessate il fuoco che da temporaneo idealmente possa diventare permanente. Il problema grave è che questo obiettivo è lo stesso di Hamas. Il gruppo jihadista salafita non può in alcun modo avere la meglio sotto il profilo militare sull’esercito israeliano, non è questo il suo obiettivo e il suo concetto di vittoria: vincere, per Hamas, significa potere sopravvivere all’interno della Striscia. Se riuscisse a farlo sarebbe in grado di intestarsi la vittoria politica e affermare di avere “sconfitto” l’esercito più potente presente in Medio Oriente. Per questo è necessario che venga sconfitto in modo netto, ovvero che la sua struttura operativa politica e militare venga disarticolata.
È ciò che Netanyahu ha continuato a ribadire, così come non ha mai perso occasione per affermare, in contrasto con i desiderata dell’Amministrazione Biden, che in uno scenario post Hamas, Gaza non sarà governata dall’Autorità Palestinese, né che, come auspicato da Joe Biden, debba venire in essere in Cisgiordania uno Stato palestinese.
Si tratta di divergenze su prospettive sostanziali e la cui conciliabilità è impossibile. Gli attriti non potranno che aumentare.
(L'informale, 16 marzo 2024)
*
Un sostegno di canna rotta
La redazione di L’informale parla in modo molto soft di “Differenze sostanziali” per indicare quello che - brutalmente detto - è uno sporco doppio gioco degli Usa con Israele. Lo esprime in modo molto più netto un altro articolista dello stesso giornale, che a un suo articolo riportato su un altro foglio online dà come titolo: “L’amministrazione Biden vuole che Israele perda questa guerra”. E come conclusione:
“Appare del tutto evidente che l’amministrazione Biden vuole sostituire il governo di Netanyahu, democraticamente eletto, con uno di comodo e supino alle esigenze elettorali del partito democratico. Per fare questo è arrivato al punto di mettere a rischio l’esistenza stessa di Israele, obbligandolo a rinunciare ad una decisiva vittoria sui terroristi di Hamas.”
Perché nel suo sogno a stelle e strisce l’America difende l’universale astratto della democrazia, non l’esistenza concreta di Israele. Che i terroristi di Hamas abbiano detto e confermato coi fatti che il loro obiettivo irrinunciabile è la distruzione di Israele, non è un fatto importante per il Presidente Usa. L’importante è che a capo della democrazia americana possa continuare ad esserci lui, Joe Biden. Ma la democrazia israeliana, non è anch'essa importante? No, pensa Biden, quella no, almeno fino a che la guida quel “figlio di p.” (espressione presidenziale americana) di Netanyahu, che osa contrapporsi al capo della nazione più democratica del mondo. E se Bibi lo fa - sussurrano i maligni - è per propri interessi elettorali. Non certo come Joe Biden. La redazione di L’informale sostiene che “numerose volte, e fin dal principio” (cinque mesi fa) il loro giornale aveva evidenziato che l’appoggio americano nei confronti di Israele “fosse da prendersi con le dovute cautele”. Da parte nostra avevamo già detto e ripetuto, da diversi anni, che per Israele gli Stati Uniti sono “un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora” . A commento di un articolo del 17 agosto 2017 avevamo scritto:
«E’ possibile che Obama prima e Trump poi risultino essere due diversi e opposti strumenti con cui gli Stati Uniti sono sospinti, passo dopo passo, sulla via di un inevitabile tramonto politico. Inevitabile anche perché deve venire meno prima o poi per Israele quel “sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora” (Isaia 36:6) costituito un tempo dall’Egitto e negli ultimi anni dagli Stati Uniti. La contemporanea crescita di influenza in Medio Oriente di Iran e Russia, ben accordati in un machiavellico e letale gioco delle parti, s’inserisce bene nell’insieme delle profezie bibliche.»