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Notizie 16-30 novembre 2015


Salvare la tradizione tutelando le differenze

Lettera al Corriere della Sera

di Riccardo Di Segni
Rabbino Capo della comunità ebraica di Roma.

Rav Riccardo Di Segni
Caro direttore, la crescente presenza di alunni di religioni non cristiane nelle scuole propone discussioni periodiche che si accendono sotto le feste. Ora il caso nasce dalle decisioni del dirigente dell'istituto di Rozzano, che avrebbe interdetto l'insegnamento di canti natalizi in classe e sospeso un concerto di fine anno, in una scuola dove, peraltro, è esposto un grande albero di Natale. Sulla polemica pesa decisamente il clima teso di questi giorni, dopo gli attentati di matrice religiosa islamica di Parigi. Ma la questione andrebbe discussa un po' più a freddo. Perché se le decisioni fossero state prese qualche anno fa avrebbero avuto tutt'altro senso e forse minore risalto. Si sarebbe discusso sul principio della laicità, la separazione tra Stato e confessioni religiose, che è vissuto in modi molto differenti nel mondo. In Francia e negli Stati Uniti nelle scuole non si insegna religione, non compaiono segni religiosi e tanto meno si insegnano canti religiosi. In Italia la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa ha creato modelli differenti. La presenza cattolica si esprime, nelle forme più evidenti, con il crocifisso nelle aule e con l'ora di religione, e convive con forme di garanzie delle differenze di religione o di pensiero. È un modello consolidato ma non immune da critiche; sentenze contraddittorie ricompaiono periodicamente. Ma le polemiche di oggi non c'entrano quasi per niente con la laicità, piuttosto riguardano l'identità culturale di questo Paese, in cui la religione è elemento fondante, e assumono talora la forma di una guerra di religione. Oltre all'attacco armato di terroristi fanatici c'è l'incomprensione di alcuni che arrivando in Italia con una fede diversa da quella della maggioranza non ne accettano le consuetudini; a tale incomprensione si risponde o con altrettanta incomprensione o con un cedimento più o meno totale; si preferisce rinunciare alle proprie tradizioni per non dare fastidio e offendere gli altri. L'esperienza di almeno due millenni di presenza ebraica in questo Paese come minoranza religiosa suggerisce qualche modello di utile di convivenza. Alcuni ebrei hanno abbracciato la causa della laicità assoluta, considerandola una difesa contro l'imposizione dei modelli religiosi prevalenti, ma altri hanno compreso che la separazione totale di Stato e religione, come nel modello francese, si sarebbe ritorta proprio contro la libertà religiosa. Per fare un esempio, uno Stato totalmente laico non riconosce il diritto agli studenti ebrei di rispettare il Sabato. La laicità si trasforma in intolleranza. Allora non ha senso proibire tutto a tutti, la soluzione è nel compromesso. L'ora di religione ne rappresenta un esempio. Dal punto di vista strettamente laico se ne dovrebbe chiedere l'eliminazione; ma se la stragrande maggioranza dei cittadini la vuole mantenere, che senso ha contrastarla? Quello che va difeso è il diritto di chi la pensa differentemente di non avvalersi di quell'insegnamento, senza essere esposto per questo suo rifiuto a valutazioni negative sia dirette che indirette. Se nella mensa scolastica il cibo offerto è per alcune religioni proibito, ad esempio c'è il maiale, la risposta non è togliere il maiale dalle mense ma organizzare degli spazi dove possano nutrirsi quelli che seguono diete differenti, o al limite consentire a chiunque di portarsi il suo cibo da casa. E per quanto riguarda il Natale, a un osservatore esterno le soluzioni proposte appaiono un po' patetiche, pensare a un «Natale laico» sembra una contraddizione in termini, ammettere l'albero e proibire il presepe è una minima operazione di facciata. Se la maggioranza si riconosce in quei simboli non dovrebbe avere complessi a esporli, o limitarsi nell'organizzazione di concerti festivi; ma con la avvertenza fondamentale che si tratta di attività libere e facoltative senza nessuna conseguenza negativa per chi non le segue. Una madre musulmana intervistata ha spiegato bene il concetto: possono cantare quello che vogliono, ma mio figlio, musulmano, non deve farlo. Avrebbe detto lo stesso una madre ebrea. Non la pensano così altri musulmani, che non protestano contro presepe e canti per il principio della laicità, ma per intolleranza della fede di altri; non la pensano così alcuni cattolici che confondendo la religione con la cultura, o solo perché intolleranti, vorrebbero che i canti e i concerti fossero curriculari e obbligatori; e non hanno colto i termini del problema coloro che sono disposti a rinunciare alle proprie tradizioni, pensando di farlo in nome del rispetto dell'altro, ma non si rendono conto che è l'altro il primo che non ti rispetta. Quindi: non rinunciare a sé stessi, ma non imporlo agli altri. Regole tanto semplici quanto difficili da accettare.

(Corriere della Sera, 30 novembre 2015)

*

Quando le identità culturali si scontrano

di Marcello Cicchese

"Non rinunciare a se stessi, ma non imporlo agli altri", dice il Rabbino Di Segni nella sua lettera al Corriere della Sera; e aggiunge: "Regole tanto semplici quanto difficili da accettare". In realtà, non sono solo difficili da accettare, ma anche da praticare. Sono semplici nella formulazione, ma problematiche nell'esecuzione. La crescita della presenza islamica nella cattolica Italia sta facendo venire al pettine nodi che prima si era pensato di poter trascurare. L'origine dei nodi sta nell'Art. 7 della Costituzione, quello che con il consenso dei comunisti ha accolto nella costituzione repubblicana il Concordato con la Chiesa Cattolica, regolato dai "Patti Lateranensi" stabiliti a suo tempo dall'Italia fascista con un anomalo stato fondato per l'occasione che si chiama "Città del Vaticano". In virtù di questo Concordato abbiamo oggi nelle scuole pubbliche un'ora di religione cattolica tenuta da docenti non sottoposti ad un regolare concorso come tutti gli altri, ma nominati dal vescovo e pagati dallo Stato. Tutto questo dovrebbe appassionare i cittadini molto più della costruzione o no di un presepe o di un albero di Natale in una scuola.
   Fino a qualche anno fa gli studenti esentati dall'ora di religione erano pochi, soprattutto evangelici ed ebrei. Abbiamo avuto anche noi, come genitori non cattolici, il problema dei figli che "non fanno religione", ma non abbiamo mai chiesto di togliere il crocifisso (che non approviamo) dalle classi dei nostri figli, né contestato presepi o alberi di Natale (che non festeggiamo). Ma il problema resta e con l'avanzare dell'identità islamica si fa sentire sempre di più perché cresce la concorrenza con l'identità cattolica, il che potrebbe diventare uno scontro fra due sharie. Sì, perché anche quella cattolica è una sharia, cioè un'ideologia che pretende di avere una missione di governo su tutto il mondo. Naturalmente nessuna delle due sharie è riuscita ad ottenerlo pienamente, anche se storicamente entrambe ci hanno provato. Nessuna delle due però rinuncia a cercare di farsi il maggiore spazio possibile là dove si trova.
   Nell'Italia cattolica ebrei, valdesi, evangelici hanno vissuto per molti anni come praticanti di culti tollerati o ammessi, insomma, per dirla in linguaggio attuale, come dhimmi; anche se trattati molto bene, bisogna dirlo. Più difficile sarà convincere gli islamici ad accettare una posizione simile, anche perché la dhimmitudine l'hanno inventata loro e non sembrano disposti a subirla per molto tempo.
   Finché la chiesa cattolica manterrà la sua posizione di privilegio acquisito, ma anche finché si continuerà a dire che “lo Stato deve riconoscere il diritto agli studenti ebrei di rispettare il Sabato", non c'è speranza che prima o poi non si arrivi a pretendere che sia riconosciuto anche "il diritto agli studenti islamici di rispettare il Venerdì"; e poi, con il crescere degli immigrati, magari anche il martedì, il mercoledì o il giovedì di qualche altro nuovo culto. Per non parlare dei cibi, che potrebbero far impazzire gli organizzatori delle mense scolastiche nella preparazione dei cibi adatti a tutti i vari culti presenti nelle scolaresche.
   In conclusione, la via laica francese resta la migliore. Lo Stato deve avere la sua "religione", che sarà tanto migliore quanto più cercherà umilmente di amministrare le questioni pratiche del vivere comune e quanto meno s’interesserà, sia pure per "rispettarli", degli intimi e svariati tormenti religiosi dei suoi cittadini. Chi ha convinzioni di fede profonde e radicate saprà come deve comportarsi quando le norme poste dalle autorità sono in contrasto con la sua coscienza. Se è un vero cristiano si ricorderà che in certi casi «bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini» (Atti 5:29), e dovrà saperne portare le conseguenze senza pretendere che lo Stato lo tolga d’impaccio confezionandogli una legge su misura.

(Notizie su Israele, 30 novembre 2015)


Previdenza sociale: ratifica accordo Italia e Stato di Israele

Ratificato l'Accordo tra l'Italia e lo Stato di Israele sulla sicurezza sociale; Legge del 18.06.2015 n. 98

Pubblicata sulla GU dell'8 luglio 2015 n. 156 la Legge del 18 giugno 2015 n. 98 di Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e lo Stato di Israele sulla previdenza sociale, fatto a Gerusalemme il 2 febbraio 2010.
L'applicazione dell'accordo riguarda persone che siano o siano state soggette alla legislazione previdenziale di uno degli stati contraenti.
Il presente Accordo si applicherà alla legislazione:
  1. Per quanto riguarda Israele: la legislazione sull'assicurazione nazionale (versione consolidata) 5755-1995, nella misura in cui si applica ai seguenti settori dell'assicurazione:
    a) Assicurazione vecchiaia e superstiti;
    b) Assicurazione invalidità
  2. Per quanto riguarda l'Italia: l'assicurazione obbligatoria generale sull'invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori dipendenti, le relative gestioni speciali per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, mezzadri e coloni) e la gestione separata di questa assicurazione; i regimi esclusivi e sostitutivi dell'assicurazione generale obbligatoria previsti per ciascuna categoria di lavoratori nella misura in cui si riferiscono a benefici o rischi coperti dalla legislazione indicata nell'alinea precedente.
A meno che non sia diversamente previsto, il presente Accordo si applicherà a tutte le persone che sono o sono state soggette alla legislazione di cui sopra, come pure ai familiari ed ai superstiti di tali persone.

(Fisco e Tasse, 30 novembre 2015)


"Georges Loinger racconta Exodus"

Ospite del KKL Italia Onlus a Roma.

Domenica 29 Novembre 2015 nella splendida cornice dell'Hotel Quirinale a Roma si è tenuto l'incontro "Georges Loinger racconta Exodus". Il Keren Kayemeth LeIsrael Italia Onlus, è la più antica organizzazione ecologica al mondo: fondata nel 1901, da oltre un secolo la sua mission è lo sviluppo, la bonifica e il rimboschimento della Terra d'Israele. Il KKL ha l'onore di ospitare questa incredibile testimonianza: Georges Loinger è un ebreo alsaziano, ha 105 anni e una storia incredibile.
     
    Georges Loinger
    Arruolatosi con gli alleati, viene fatto prigioniero e portato in Germania, dove svolge lavoro d'ufficio come interprete; viene a sapere, tramite la Croce Rossa, che sua moglie ha organizzato un rifugio per offrire riparo a bambini ebrei. Decide dunque che deve aiutare sua moglie e fugge, attraversando a nuoto il fiume di confine e a piedi Germania e Francia, insieme al cugino Marcel Mangel - meglio noto come Marcel Marceau - iniziando la sua opera di salvataggio, che metterà in salvo oltre 1000 bambini. Finita la Guerra, si dedicherà ad un'impresa altrettanto grandiosa del salvataggio dei bambini. La vicenda di EXODUS. In un ruolo di primo piano, c'è proprio lui, Georges Loinger: è lui ad occuparsi delle modifiche necessarie a riadattare la nave, costruita per trasportare 500 persone in modo che ne possa contenere 4500. Ed è sempre lui a organizzare il trasporto di tutte queste migliaia di sopravvissuti alla Shoah, dalla stazione di arrivo al porto d'imbarco. Nel 1959 il gesuita Michel Riquet, amico di Loinger, decide di dare vita a un atto simbolico di grande impatto di riconciliazione fra tedeschi e francesi e organizza il Primo Congresso Eucaristico, e affinché questa simbologia sia davvero potente, vuole che questo incontro avvenga su una nave israeliana. A questo provvederà appunto Loinger: come Direttore della Compagnia di Navigazione Israeliana ZIM, nominato Direttore da Ben Gurion in persona, organizza l'itinerario. Ultima tappa, sarà Barcellona dove gli ebrei erano stati cacciati nel 1492 e dove Loinger consegnò al Sindaco una Bibbia donata dal Vicesindaco di Gerusalemme.
"Sono onorato e commosso - dichiara Raffaele Sassun, Presidente KKL Italia Onlus - di aver conosciuto un uomo, un vero uomo, Georges Loinger. Un uomo che quando ha capito che erano in pericolo le vite dei bambini, non ha esitato a scappare da un "comodo" campo di prigionia per cercare di salvarli. Un uomo che finita la guerra non si è ritirato e adagiato e riposato, ma anzi ha intrapreso un nuovo grandioso progetto grazie al quale ha trasformato una nave decuplicando la quantità di persone che hanno potuto raggiungere la terra di Israele. Un uomo che ha camminato accanto a grandi della storia di Israele per decenni, senza mai dire di no ai progetti per migliorare il mondo. Secondo il Talmud, in ogni generazione esistono 36 Zaddikim Nistarim, giusti nascosti. Persone speciali che grazie alle loro azioni giustificano davanti al Signore il diritto di esistenza del mondo, anche se il mondo è degenerato a livelli di barbarie totale. Questi Zaddikim, dopo aver compiuto le loro gesta, ritornano all'anonimato della vita normale, senza che la gente normale si accorga di loro. Ma chi è attento, ogni tanto, riesce a scoprire un Zaddik Nistar".

(KKL Italia Onlus, 30 novembre 2015)


Oltremare - Fuori da Tel Aviv

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Fuori da Tel Aviv, ci sono luoghi meravigliosi in cui si vedono ancora le tracce degli aranceti che hanno messo le basi dell'economia israeliana.
Dovremmo ricordarcene ogni santa mattina, mentre beviamo il succo, che è grazie a quegli aranceti se oggi siamo un piccolo impero dell'high-tech. Che poi, a Tel Aviv le arance appunto hanno la forma parecchio prosaica di bottiglie di plastica e si chiamano pri-niv o pri-gat, o pri-qualcosa per via della parola 'frutto' che va proprio bene come suffisso là davanti. Il frutto israeliano per eccellenza.
Fuori da Tel Aviv, alle volte il tempo si ferma o va persino all'indietro, si incontrano storie e racconti che conosciamo tutti benissimo ma finiamo per dimenticarci, di quando Israele era un luogo semplice e spartano, i formaggi sulle tavole erano solo due: formaggio bianco e formaggio giallo. I tremp (passaggi in macchina) si prendevano liberamente ed era comunissimo visitare tutta Israele da sud a nord con il semplice uso del pollice alzato, e voltato verso la direzione richiesta. Altro che i 'like' di oggi.
Fuori da Tel Aviv, diventare nostalgici è normale. Poi però si rientra in città, e il tempo ricomincia a correre, e a volte fa anche balzi in avanti. Per esempio com'è che pochi giorni fa sono finite le feste ebraiche ed è già Channukkah? Mentre tutti guardavamo troppi telegiornali, le panetterie e le pasticcerie si sono riempite di bomboloni con ogni possibile crema e decorazione. Rassegnamoci, è 'tempo calorico' anche da questa parte del mare.


(moked, 30 novembre 2015)


Cena di shabbat per non-ebrei. Di shabbat

Il seguente articolo è comparso qualche giorno fa su "Kolot", sito online della comunità ebraica di Milano.

Vivere la vigilia dello Shabbat come una vera famiglia ebraica. Questo il senso dell'evento Lo Shabbat di tutti, in programma venerdì 27 novembre alle 21 al Refettorio Ambrosiano di piazza Greco, a Milano. Nello spazio voluto da Caritas Ambrosiana che, grazie a un'intuizione dello chef Massimo Bottura, in occasione di Expo Milano 2015 è diventato luogo di accoglienza per persone in difficoltà dove i pasti venivano preparati con le eccedenze di Expo e oggi con quelle delle mense, si terrà un momento di condivisione e arricchimento spirituale accompagnato da letture sceniche e musica.
   A guidare l'incontro la regista ed esperta di ebraismo, Miriam Camerini, insieme al musicista Manuel Buda. Lo Shabbat è il tempo della festa per la tradizione ebraica, quello della cessazione delle proprie attività per dedicarsi al riposo. Inizia il venerdì sera per terminare la sera seguente ed è il momento identitario massimo per la cultura ebraica, ma anche la rappresentazione di un concetto universale, quello di spezzare il tempo con un giorno di riposo. «Lo spettacolo viene realizzato rigorosamente il venerdì sera perché il senso più profondo sarebbe perso se fatto in un altro giorno della settimana - spiega la regista Camerini. Il Refettorio sarà quindi allestito come una "vera" casa ebraica con fiori e candele la cui accensione dà inizio allo Shabbat. Lo scopo della serata sarà poter trarre un'esperienza propria da condividere o conservare dentro di sé. L'atmosfera sarà quella tipica dello stare in famiglia per condividere un forte momento di spiritualità accompagnata dalla leggerezza del canto e delle letture. Per rendere questi momenti ancora più autentici e intimi, lo spettacolo sarà realizzato a microfoni spenti e senza amplificazioni».
   E ha concluso: «In un momento come questo, in cui letteralmente ogni giorno piangiamo morti ingiuste di innocenti e giovani, l'unica cosa che possiamo fare è accendere più luce nel mondo, come venerdì sera accenderemo le candele dello Shabat per portare luce al giorno di festa».
   Lo Shabbat di tutti, che replica sabato 18 dicembre (per info e iscrizioni, www.perilrefettorio.it) rientra nelle iniziative organizzate e promosse dall'Associazione Refettorio Ambrosiano nata per offrire eventi culturali al quartiere di Greco e alla città di Milano per continuare, anche dopo Expo, a riflettere sul valore del cibo e sugli sprechi da evitare.

(Kolot, 27 novembre 2015)

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A questo articolo ha risposto prontamente rav Alberto Somekh.

Osservare lo shabbat trasgredendolo?

Rispondo a questo Kolot illico et immediate. Non nascondo il mio disappunto per l'iniziativa di cui tratta e ciò per diversi motivi:
  1. Lo Shabbat "è un segno eterno fra Me e i Figli d'Israele" (Shemot 31,17). Il Kelì Yeqàr commenta la differenza fra Zakhor ("Ricorda!") e Shamor ("Osserva") nelle due versioni del quarto comandamento dicendo che solo il ricordo dello Shabbat ne costituisce la dimensione universale, mentre la sua osservanza concreta, ivi compresa la Se'udah, è patrimonio del popolo ebraico.
  2. Non basta l'astensione dall'uso del microfono per creare un'atmosfera di Shabbat autentica, se la "Se'udah" ha un accompagnamento musicale, sia pure affidato a sua volta a suonatori non ebrei. La musica strumentale è proibita di Shabbat e ben poco importa discettare sulle origini del divieto.
  3. E' ora di denunciare apertamente il meccanismo mentale di "traslazione" (intesa come lettura per traslati) di concetti della cultura e della vita ebraica invalsa in Italia per cui ci si illude di ricreare con la complicità di simpatizzanti non ebrei e su misura per essi quelle esperienze "interne" che non siamo più in grado di vivere fra di noi come dovremmo. Non è una novità che gli Ebrei Italiani hanno di fatto scelto di nominare propri eredi universali i non ebrei. Che fine ingloriosa per una cultura plurisecolare tanto prestigiosa!
(Kolot, 30 novembre 2015)

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Trattandosi di un tema che riguarda i rapporti tra ebrei e non ebrei, abbiamo pensato di aggiungere una riflessione di provenienza evangelica.

Giochiamo agli ebrei?

di Marcello Cicchese

Nei primi tempi in cui cominciavo ad interessarmi più attentamente di Israele, ho partecipato insieme a mia moglie a diversi convegni di evangelici sull'argomento, non in Italia, perché a quel tempo non se ne facevano, ma all'estero, precisamente in Germania. La prima volta che abbiamo partecipato a un incontro di questo tipo ci è capitato di assistere ad una cosa a cui non eravamo abituati. Era venerdì sera. Al pubblico raccolto fecero vedere una donna che accendeva due candele, muoveva le mani sulle fiamme e recitava qualcosa di incomprensibile per noi, che poi abbiamo saputo essere ebraico. Dopo qualche altro gesto accompagnato da canti ebraici, ci dissero che quello era il modo in cui gli ebrei entravano nel sacro sabato. A quel tempo eravamo abbastanza impreparati sull'argomento, quindi ci limitammo a prendere atto, tenendo per noi le domande che sorgevano spontanee.
   Col passar del tempo abbiamo visto cose simili anche in Italia, e lentamente abbiamo cominciato a farci un'idea.
   Che senso ha, come non ebrei, voler imitare, o rappresentare, o partecipare in qualche forma adattata a una cosa che appartiene in modo specifico al popolo ebraico e ne rappresenta il segno distintivo che lo caratterizza rispetto agli altri popoli? Il passo citato da rav Alberto Somekh si trova nel libro dell'Esodo:
    «Lavorerai sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all’Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà essere messo a morte. I figli d'Israele quindi dovranno osservare il sabato, lo celebreranno di generazione in generazione, come un patto perenne. Esso è un segno perenne tra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare e si riposò» (Es 31:15-17).
Come si vede, il sabato appartiene agli ebrei, dunque dev’essere lasciato a loro, con tutto quello che significa, ivi compreso l’ordine di mettere a morte chi non lo osserva. Considerata dunque l’importanza e la gravità del precetto, sarà bene che i gentili si astengano da tentativi di imitazione o impropria partecipazione. Anche e proprio tra quelli che manifestano simpatia per gli ebrei e si proclamano amici di Israele, sono troppi quelli che hanno voglia di “giocare agli ebrei”.

(Notizie su Israele, 30 novembre 2015)


Restauro del Ghetto, offerte anche da Barbara Streisand e Donna Karan

Venetian Heritage in missione in America: raccolti 1,5 milioni, ne mancano 5,5.

di Manuela Pivato

Toto Bergamo Rossi
VENEZIA - Sei pagine sul magazine del New York Times, una cena ristretta nella villa Barbra Streisand a Santa Monica con la stilista Donna Karan, il contributo di 50 mila euro - così, su due piedi - dalla Berg Foundation. Il Ghetto di Venezia, tramite il Venetian Heritage, cerca amici e soldini negli Stati Uniti e gli Stati Uniti iniziano a mobilitarsi per cercare di mettere insieme i sette milioni di euro necessari al restauro delle sinagoghe e del museo ebraico in vista dei suoi 500 anni.
A oggi è stato raccolto un milione e mezzo di euro ma il comitato di salvaguardia conta ora di iniziare a raccogliere ciò che hanno seminato in tre settimane di fund raising su e giù per gli States il presidente della fondazione Valentina Nasi Marini Clarelli e il direttore Toto Bergamo Rossi. Da New York a Miami, da Los Angeles a San Francisco, in ville, palazzi e grattacieli ma anche e soprattutto sulle pagine di "T", il magazine settimanale del NYT che qualche giorno fa ha dedicato sei pagine alla storia lunga mezzo millennio del Ghetto di Venezia e alla missione del comitato di salvaguardia di preservarla per altri mille.
   Il "porta a porta" è destinato a dare i suoi frutti a breve, man mano che magnati, editori, finanzieri e imprenditori della grandi famiglie ebraiche americane - ma non solo - daranno il loro contributo. Intanto, in un colpo solo, sono arrivati i 50 mila dollari dalla Berg Foundation come concorso alla realizzazione della mostra che si terrà a Palazzo Ducale nel giugno del 2016 dal titolo "Gli ebrei, Venezia e l'Europa". Anche la cantante Barbra Streisand, nel corso di una cena nella sua reggia di Santa Monica, si è messa una mano sul cuore e ha promesso il suo appoggio insieme all'amica Donna Karan.
   Quanto raccolto finora, tuttavia, non basta. Il restauro delle cinque sinagoghe e il rinnovo con ampliamento del museo ebraico costeranno infatti intorno ai sette milioni di euro. Poichè la data del 29 marzo 2016 è in realtà molto vicina è possibile che il complesso intervento di restauro proceda a tranche, in base ai fondi reperiti, per garantire la mostra a Palazzo Ducale, il concerto-racconto alla Fenice e almeno una parte del nuovo museo.
   Di certo c'è chi non è stato a guardare, come le famiglie Tisch e Taubman sulle quali dev'essere pesata la cortesia di Barry Diller, marito della stilista Diane von Furstenberg, ex direttore generale della Paramount e della Fox, e considerato uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, che hanno staccato assegni senza badare agli zeri.

(la Nuova, 30 novembre 2015)


Irena Sendler, un eroe vero

Ha salvato oltre 2500 bambini ebrei e 3000 famiglie dallo sterminio.

di Gianvito Pugliese

 
Irena Sendler
Se si vuol scrivere decentemente, occorre leggere. La maggior parte delle notizie che capitano, sfogliando i giornali non è certo edificante. Arresti di criminali comuni o di politici e funzionari corrotti, omicidi spesso commessi a danno di genitori, coniugi, addirittura figli, e, giusto per non farci mancare nulla, qualche stupro e diverse rapine. A rimettere in pace (e che pace!) il mio animo con l'umanità mi è venuta in soccorso la storia, epicamente eroica, di questa donna. Irena Sendler, nata Krzyżanowska a Varsavia il 15 febbraio 1910, dov'è scomparsa il 12 maggio 2008, si era diplomata infermiera.
Cattolica, ancora adolescente, simpatizzò con il mondo ebraico, tanto da opporsi alla ghettizzazione degli studenti ebrei, ottenendo la sospensione dall'Università di Varsavia per tre anni. Nella sua vita ha salvato, avendo aderito alla componente cattolica della Resistenza polacca, circa 2.500 bambini ebrei. Ma i bambini, sua principale preoccupazione non furono i soli beneficiari della sua generosità: procurò circa 3.000 passaporti falsi alle famiglie ebraiche, che poterono così espatriare e mettersi in salvo.
La Sendler entrava nel Ghetto con la scusa della ricerca di eventuali sintomi di tifo. Irena, nota col nome di battagliadi "Jolanta", potè così organizzare la fuga dei bambini dal Ghetto. Una volta fuori, forniva loro falsi documenti con nomi cristiani, affidandoli poi a famiglie di contadini o a conventi cattolici. Arrestata nel '43 dalla Gestapo. fu brutalmente torturata, tanto da rimanere inferma a vita, ma non le strapparono una sola parola. Fu condannata a morte. La resistenza riuscì a salvarla, corrompendo le guardie incaricate dell'esecuzione. Alla fine della guerra "Jolanta" disseppellì i vasetti di marmellata nascosti in giardino e contenenti gli elenchi dei bimbi, coi nomi falsi accanto a quelli veri. Così, furono rintracciati oltre 2000 bambini, molti dei quali avevano perso le famiglie, sterminate dai nazisti. «Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai. » Dichiarò l'eroica donna. Ma la frase che più colpisce è la seguente, contenuta nella Lettera al Parlamento polacco: « Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria »
La storia di quella donna, cari lettori, mi ha messo in pace con l'umanità. Miriadi di aguzzini nazisti scompaiono dinanzi a questo monumento di generosa abnegazione. Ho voluto rendervene partecipi.

(Pugliain.net, 29 novembre 2015)


"Evitare le gite scolastiche". Europa sconsigliata agli studenti

Renzi lancia l'appello: "Chiudersi in casa vorrebbe dire darla vinta ai professionisti del terrore". Ma cade nel vuoto. Israele stoppa le gite scolastiche in Europa. Ed è allarme crescita.

di Franco Grilli

Il terrorismo islamico e la paura scatenata dagli attacchi di Parigi minacciano la fiducia dei cittadini europei e potrebbero minare la ripresa, ancora esposta a rischi a livello internazionale e non abbastanza robusta da reggere a troppe scosse.
Quello lanciato dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, non è un vero e proprio allarme quanto un invito, condiviso in pieno dal premier Matteo Renzi, a non farsi prendere dal panico, a non cambiare abitudini di vita (e di spesa) e, sopratutto, per quanto riguarda le istituzioni e il governo, a non farsi cogliere impreparati da eventuali ripercussioni, anche economiche, del clima negativo seguito alla strage dell'Isis. Eppure, nel timore di nuovi attentati il ministero israeliano dell'Istruzione sconsiglia adesso vivamente alle scolaresche di recarsi in visita nella maggiori capitali europee.
   Renzi condivide la preoccupazione che questo clima pesante possa bloccare il percorso di ripresa già avviato in Italia dei consumi interni. Tuttavia, sottolinea che "il messaggio che l'Italia può dare è quello positivo di ripartenza, certo senza sottovalutare i rischi che ci sono". "Non sottovalutiamo niente. - si affretta a precisare - certamente c'è un clima diverso rispetto a quello di un mese fa, anche nelle attese dei consumatori. Ma la vera questione oggi - conclude parlando delle stime pil - non è certamente come finisce il dato dello zero virgola, su cui peraltro confermiamo al momento le previsioni, ma una grande scommessa identitaria e culturale. Cioè che se l'Italia, se l'Europa si chiude in casa, hanno vinto loro, ha vinto quelli che vogliono il terrore". Eppure, aldilà dei buoni propositi, la paura cresce. Dalla serata di venerdì 13 novembre qualcosa, però, è innegabilmente cambiato. Tanto che si moltiplicano le veline che invitano i turisti a non visitare le capitali europee. I primi a lanciare l'allarme erano stati gli americani. Adesso, a stretto giro, è la volta degli israeliani. "Gli istituti scolastici che malgrado l'avvertimento ufficiale intendessero egualmente inviare scolaresche in Europa - ha avvertito oggi il ministero dell'Istruzione - faranno bene ad evitare le città maggiori, a non ricorrere ai trasporti pubblici e a non consentire in alcun caso agli allievi di spostarsi da soli". Questi provvedimenti non riguardano esclusivamente la Polonia dove, invece, proseguono le consuete visite studio di scolaresche israeliane nelle località dove si è compiuto lo sterminio di ebrei nella Seconda Guerra Mondiale.

(il Giornale, 29 novembre 2015)


Israele sospende relazioni diplomatiche con l'Ue

Il pugno duro a tre settimane dalla decisione di Bruxelles di dare avvio alle etichettature dei prodotti israeliani degli insediamenti ebraici in Cisgiordania.

Sospensione dei contatti diplomatici con le istituzioni Ue e riesame del loro coinvolgimento per quanto riguarda il processo di pace con i palestinesi. Il pugno duro del premier israeliano Benyamin Netanyahu con l'Europa è arrivato - in una Gerusalemme colpita oggi da due nuovi attentati palestinesi - a quasi tre settimane dalla decisione di Bruxelles di dare avvio alle etichettature dei prodotti israeliani degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e sulle Alture del Golan.
   Sempre oggi, il ministero dell'istruzione israeliano ha vivamente sconsigliato le gite delle scolaresche in Europa, per il timore di nuovi attentati. Eccezion fatta per la Polonia, dove continueranno i viaggi degli studenti ai lager dove si consumò lo sterminio degli ebrei.
   La mossa di Netanyahu era stata già annunciata lo scorso 11 novembre e comunicata in un colloquio burrascoso al ministero degli esteri al rappresentante europeo Lars Faaborg Andersen che in quella occasione difese la scelta dell'etichettatura definendola «tecnica e non politica». Ora è però la reazione è stata formalizzata dal premier che ha anche l'interim degli ministero degli esteri alla vigilia della sua partecipazione al vertice sul clima previsto a Parigi. E sarà proprio il ministero, secondo l'ordine dato da Netanyahu, a dover «rivedere» la cooperazione in corso con la Ue. Fermo restando che in base alla decisione di oggi - ha spiegato il portavoce del ministero Emmanuel Nahshon - Israele continua a mantenere «contatti diplomatici con i singoli Paesi europei come Germania, Francia e Gran Bretagna», ma non «con le istituzioni europee».
   A sembrar coinvolti - secondo i media - sono principalmente i rapporti nel campo dei diritti umani, delle organizzazioni internazionali e il congelamento di un incontro su progetti di sviluppo dell'Area C della Cisgiordania, quella sotto controllo amministrativo e militare israeliano. Ma non sono pochi i commentatori a domandare quale effetto possa avere la decisione di oggi, vista la mancanza allo stato attuale di una qualsiasi trattativa di pace tra le parti. E Dan Margalit, giornalista del filogovernativo «Israel Ha Yom» ha sostenuto che con la decisione di oggi Israele sembra «aver perso la bussola». Del resto, da mesi, a parlare è rimasta solo la cronaca e oggi Gerusalemme, con due attacchi palestinesi in tre ore, è tornata al centro della tensione continua che resta regola quotidiana. Ad essere accoltellati stamattina sono stati un poliziotto e una giovane donna nepalese che lavora in Israele: dei due aggressori palestinesi uno è stato ucciso dalla reazione delle forze di sicurezze e l'altro è stato catturato.
   «Il terrorismo - ha detto il premier Benyamin Netanyahu ricordando che oggi sono 68 anni dalla decisione dell'Onu di riconoscere Israele e che subito dopo lo stato fu attaccato - è stato con noi per quasi 100 anni e lo abbiamo sconfitto più volte; lo sconfiggeremo anche questa volta». Poi ha sottolineato che il combustibile del terrorismo è l'opposizione «all'esistenza di «Israele come stato nazionale del popolo ebraico» e che a questo si è aggiunto «l'Islam radicale che attualmente colpisce nel mondo: Parigi, Londra, Mali, dove ovviamente non ci sono colonie e territori». Secondo gli analisti, tuttavia difficilmente si potrà sostenere a lungo una situazione come quella attuale anche se fino ad oggi sia i vertici dell'esercito sia quelli dello Shin Bet (la sicurezza interna) e lo stesso Netanyahu hanno respinto gli inviti della destra israeliana a ripetere nei Territori un'operazione militare su larga scala come quella compiuta nel 2002 durante la Seconda Intifada e denominata «Scudo protettivo».

(La Stampa, 29 novembre 2015)


Tre nazioni nel primo Ghetto, la repubblica ebraica di Venezia

Rinchiusi ma apprezzati, mai colpiti in modo violento. Autonomia, cultura, tante lingue: gli israeliti in Laguna.

di Riccardo Calimani

Il decreto della Serenissima

Il 29 marzo 1516.
Il Consiglio del Pregadi (Senato di Venezia} decide che:

li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo; ed accioché non vadino tutta la notte attorno: Sia preso che dalla banda del Ghetto Vecchio dov'è un Ponteselo piccolo, e similmente dall'altra banda del Ponte, siano fatte due porte cioè una per cadauno di detti due luoghi, qual Porte se debbino aprir la mattina alla Marangona e la sera siano serrate a ore 24 per quattro Custodi Cristiani a ciò deputali e pagati da loro Giudei a quel prezzo che parerà conveniente al Collegio nostro.

(La Morangona era la campana il cui suono, all'alba, segnava l'inizio delle attività cittadine o Venezia)
VENEZIA - Gli ebrei non volevano andare a vivere in un quartiere sorvegliato e con le porte chiuse di notte. Fecero di tutto per evitarlo. Erano arrivati numerosi a Venezia da tutto il Veneto, quando le truppe francesi, spagnole, imperiali, aiutate da quelle del Papa, dopo aver sconfitto le milizie della Serenissima ad Agnadello nel 1509, si trovavano al bordo della Laguna, minacciando la stessa sopravvivenza della Repubblica. La città non aveva mura, ma poteva contare su un'ottima difesa naturale: l'acqua che la circondava. E, nonostante la terribile sconfitta patita e le insidie procurate dall'alleanza di numerosi e potenti nemici, riuscì a sopravvivere alla disfatta militare e alle minacce incombenti.
   Sette anni dopo, nel 1516, quasi cinquecento anni fa, prevalse la tesi sostenuta da un gruppo di nobili veneziani, aiutati da predicatori cristiani che volevano a ogni costo riconquistare il favore di Dio, tradizionale protettore della Repubblica, e quale miglior modo poteva esserci se non rinchiudere gli ebrei, che vivevano liberi in ogni sestiere, in un luogo chiuso di notte e sorvegliato? Il 29 marzo il Consiglio dei Pregadi scelse il Ghetto Nuovo, una zona periferica dove in tempi precedenti si fondevano, si «gettavano» i metalli. Qui gli ebrei, appartenenti alla «nazione todesca», furono confinati, sorvegliati di giorno dalle guardie e rinchiusi di notte, per la prima volta nella storia. Gli unici che potevano essere autorizzati a uscire nelle ore notturne erano i medici ebrei che andavano a curare malati cristiani. Perché i medici ebrei erano molto apprezzati? Perché curavano il corpo e non l'anima, erano immuni da influenze teologiche molto diffuse ed erano all'avanguardia nel loro campo grazie ai numerosi contatti internazionali di cui disponevano e che favorivano la conoscenza immediata dei progressi nel campo della medicina.
   La Repubblica Serenissima aveva anche un altro problema da risolvere: accettare un monte di pietà, legato alla Chiesa, o servirsi degli ebrei, obbligandoli ad agire come prestatori? La maggioranza dei nobili veneziani, diffidenti nei confronti del papato e temendo la sua esagerata influenza politica nella vita cittadina, non ebbe dubbi: meglio un soggetto debole come gli ebrei, che potevano essere condizionati in qualsiasi momento e anzi, se fosse stato necessario, cacciati senza troppi complimenti. E così accadde: gli ebrei furono accettati in città, chiusi in un ghetto, se e solo se avessero accettato di aprire dei banchi di pegno ad uso della povertà urbana.
   Qualche tempo dopo i veneziani si accorsero che un altro gruppo di ebrei poteva diventare molto utile per sviluppare il commercio internazionale: quello della «nazione levantina». Questi ultimi, espulsi dalla penisola iberica nel 1492, mercanti e navigatori, si erano sparpagliati in tutti i porti del Mediterraneo e, soprattutto, nel Levante, da dove poi erano ritornati nei porti dell'Adriatico. Erano senza protezione e chiesero a Venezia di essere in qualche modo difesi. Nel 1541 fu loro concesso un nuovo spazio, confinante con quello dove già abitavano gli ebrei di origine «todesca» e italiana e dove vi era stata una fonderia vecchia, nel Ghetto Vecchio.
   A poco a poco nel corso di tutto il Cinquecento arrivarono a Venezia altri ebrei con caratteristiche un poco speciali: i «marrani» che venivano direttamente dalla Spagna, dove avevano vissuto da cristiani a seguito delle conversioni forzate di fine XIV e XV secolo e che a Venezia ritornavano al loro originario ebraismo. Questi ponentini di ascendenza marrana portavano alla città nuovi vantaggi economici e ottennero a un certo punto quello che desideravano: tornare a essere ebrei. Accettarono perciò di essere confinati nel Ghetto Nuovissimo.
   Nel corso di quasi un secolo si costituirono e si sedimentarono a Venezia nell'area dove sorgevano contigui i tre Ghetti - Nuovo, Vecchio e Nuovissimo - le tre nazioni «todesca», levantina e ponentina ( che insieme formarono l'Università degli ebrei), in origine profondamente dissimili tra di loro per lingua, mentalità, attività economiche, ma tutte utili all'economia della Serenissima Repubblica, che trattò sempre con durezza le caratteristiche delle «condotte» (accordi che regolavano la loro presenza), ma che mantenne rigorosamente sempre i patti stipulati.
   La creazione dei tre Ghetti, che diventarono con il passar del tempo un unico Ghetto, e dove si sentivano pronunciare parole in lingua yiddish, ladina, portoghese, spagnola, tedesca e italiana, fu dunque il frutto di trattative economiche e di reciproche convenienze. Gli ebrei «todeschi» erano in grande parte prestatori, quelli levantini e ponentini quasi tutti mercanti. Va notato che mentre a Venezia prevaleva una visione economica nei rapporti tra la Serenissima e gli ebrei, a Roma dopo la creazione del Ghetto, nel 1555, era dominante una visione teologica che, nelle linee generali, risaliva a sant'Agostino: tenere gli ebrei in vita perché testimoni del popolo del Signore, conculcarli perché non avevano creduto nella venuta del Messia, convertirli per salvare, volenti o nolenti, le loro anime.
   A Venezia gli ebrei, pur tra le difficoltà quotidiane, ebbero due straordinarie opportunità. La prima fu di lavorare in simbiosi con gli editori, esponenti di famiglie nobili, e poter stampare libri di cultura ebraica, non solo la Bibbia o il Talmud, ma anche commentari di ogni tipo che furono diffusi in tutta Europa e in tutto il Mediterraneo. I libri stampati a Venezia diventarono oggetto di una popolarità senza pari e codificarono il sapere ebraico, che non fu più copiato a mano, ma riprodotto a stampa. La seconda fu che all'interno del Ghetto non solo fiorirono attività culturali, grazie all'arrivo di tutti coloro che volevano scrivere o stampare libri di argomento ebraico, ma vennero anche a crearsi le condizioni di una autonomia giuridica del tutto imprevista, una repubblica nella Repubblica che si rivelò molto ricca di conseguenze, in quanto agli ebrei furono concessi spazi di autogestione del tutto speciali perché potessero adempiere compiutamente ai loro precetti religiosi.
   Naturalmente il quadro non fu sempre idilliaco, e le difficoltà non mancarono, ma è evidente che fu Venezia, con il suo mito inossidabile, a rendere il suo Ghetto e i suoi ebrei un esempio in tutto il Mediterraneo. Non ci furono mai, contrariamente a quello che accadde in molti Paesi europei, espulsioni per tre secoli fino alla caduta della Serenissima, non ci furono persecuzioni sanguinose e la stessa Inquisizione non ebbe nella città lagunare la stessa influenza che ebbe in Spagna o a Roma. La Serenissima, infatti, anche nei confronti del tribunale dell'Inquisizione applicò un rigido controllo, impedendo gli eccessi che si verificarono in altri Paesi.
   Del resto bastano alcuni numeri a far capire l'influenza del ghetto sulla città lagunare. Nel 1516 gli ebrei erano 700, nel 1630 il loro numero era cresciuto a 5.000. Negli anni Quaranta del Novecento la comunità ebraica contava 1.200 membri. Circa 200 furono assassinati dai nazifascisti. Nel 1985 gli ebrei veneziani erano poco più di 600 e oggi sono solo circa 400.
   Nonostante l'esiguità del numero, resta vivo un paradosso legato alle leggi della percezione psicologica. Se vedete mille palline bianche e una nera, vedete palline bianche e nere. Vale a dire che una minoranza, anche molto piccola, gode di una visibilità sproporzionata. Anche per gli ebrei veneziani e italiani vale questa regola e loro stessi, per primi, devono esserne coscienti e averne responsabilità.

(Corriere della Sera, 29 novembre 2015)


Ecco tutti i «tagliagole» di casa nostra

L'Italia terra di passaggio, raccolta fondi e reclutamento per la guerra santa. Sotto controllo mille tra luoghi di culto, centri e ritrovi islamici Soltanto in Lombardia sono 160. Ecco la fotografia del fenomeno.

di Fausto Biloslavo

 
Due terroristi suicidi di Parigi potrebbero essere passati per il Nord Italia, lo scorso ottobre, per raggiungere la capitale francese spacciandosi per profughi siriani. L'Italia è soprattutto un terreno di passaggio, raccolta fondi, reclutamento e organizzazione logistica per la galassia della guerra santa. Non a caso l'antiterrorismo tiene sotto controllo un migliaio di luoghi di culto, ritrovo, centri ed associazioni islamiche in tutto il paese sospettati di presenze jihadiste. Solo in Lombardia vengono monitorati 160 posti a rischio di infiltrazioni terroristiche compresi scantinati, garage o appartamenti dove gruppi di musulmani si ritrovano a pregare. E altri 120 sono sotto controllo in Veneto.
   «Gli ultimi passaggi di jihadisti o sospetti di collegamenti con il terrorismo sul nostro territorio dimostrano come l'Italia sia un punto di transito fondamentale per chi vuole compiere attentati in Europa» dichiara a il Giornale, Giovanni Giacalone, analista del radicalismo islamico. Due dei kamikaze di Parigi sono arrivati con lo stesso barcone di migranti dalla Turchia alla Grecia il 3 ottobre. Poi sono proseguiti con passaporti siriani veri, ma generalità false, lungo la rotta balcanica. L'ultima segnalazione individua uno dei due in Croazia. Poi si perdono le tracce. Il sospetto degli investigatori, ma non ci sono ancora riscontri, è che siano passati per il nord Italia, la via più breve, per raggiungere il loro obiettivo a Parigi.
   Una mappa dei focolai jihadisti in Italia inizia con il quartiere romano di Centocelle, dove sono stati segnalati scontri fra giovani pro Califfato e anziani musulmani contrari. Jacopo Ben Salem, 24 anni, padre tunisino e madre italiana, che in tv aveva giustificato la strage di Charlie Hebdo è stato arrestato nella zona della moschea di Centocelle.
   L'ultimo dei 62 estremisti islamici espulsi dall'Italia, il 26 novembre, è un marocchino di Milano. Il giorno prima la stessa sorte era toccata ad un tunisino residente a Vimercate, Kamel Ben Hamida, che sosteneva: «Odio l'Italia e aspiro al martirio». Il personaggio aveva frequentato il centro islamico di viale Jenner, che negli anni ricorre in diverse indagini sul terrorismo. La retata dei carabinieri del 13 novembre, che ha portato all'arresto di sette sospetti jihadisti, ha preso spunto da mullah Krekar. Un noto predicatore jihadista rifugiato in Nord Europa, che ha avuto rapporti con viale Jenner.
   La mappa delle cellule continua con Merano dove sono stati beccati alcuni degli arrestati dell'Arma. Fra questi il kosovaro Eldin Hoz-da, che lo scorso anno è stato inviato in Siria dalla rete di mullah Krekar. I nostri servizi lo monitoravano e sapevano che era stato radicalizzato dall'imam Sead Bajraktar, che vive in provincia di Siena dove ha fondato un centro islamico a Monteroni d'Arbia. Secondo l'intelligence torna spesso in Kosovo «per rilanciare il proprio impegno ideologico militante e partecipare ad attività addestrative di tipo militare».
   Altri tasselli della mappa riguardano un sodale di Bajraktar, il bosniaco Bilal Bosnic, condannato il 5 novembre a Sarajevo a 7 anni di carcere per aver reclutato mujiaheddin da spedire in Siria anche in Italia. Bosnic ha «predicato» a Bergamo, Motta Baluffi, in provincia di Cremona e Pordenone, tutti centri islamici sotto osservazione. Dalla zona di Belluno sono partiti per la Siria il bosniaco Ismar Mesinovic, poi ucciso in battaglia e il macedone Munifer Karamaleski. Lo sloveno, Rok Zavbi, veterano del Califfato, li ha addestrati nelle Dolomiti.
   A Renate, vicino a Monza, Costa Masnaga, in provincia di Lecco, Cinisello Balsamo e nella moschea di Como ha predicato il kosovaro Idriz Idrizovic. Oggi è riparato in Germania, ma secondo il maggiore Fatos Makolli, dell'antiterrorismo di Pristina, è uno «degli imam che propugnano un Islam radicale e fanno il lavaggio del cervello ai giovani».
   Il 2 ottobre, da Schio, in provincia di Vicenza, è stato espulso, il tunisino Sofiane Mezzereg. Ai bambini islamici insegnava che «la musica è peccato» aizzandoli all'ostilità contro il mondo occidentale e a compiere «gesti eclatanti» da grandi. «I focolai più recenti sono quasi tutti in provincia, piuttosto che nelle grandi città - fa notare Giacalone - Un terreno più fertile per la propaganda jihadista soprattutto fra i musulmani meno integrati».

(il Giornale, 29 novembre 2015)


AIEA: Nessuna garanzia che tutto il programma nucleare dell'Iran sia pacifico

di Mahmoud Hakamian

L'organo di controllo delle Nazioni Unite sul nucleare si sta preparando a tirare le somme di un decennio di indagini sul presunto lavoro sulle armi nucleari del regime iraniano, ma il suo rapporto non sarà in grado di giudicare se i sospetti siano fondati, ha detto il capo dell'agenzia atomica giovedì secondo l'Associated Press.
Il rapporto dell'Agenzia Internazionale dell'ONU sull'Energia Atomica ha lo scopo di mettere a tacere la questione dopo anni di tentativi intermittenti di indagare su queste accuse, dice l'AP. Gli Stati Uniti e i loro alleati dicono che Tehran in passato ha condotto ricerche e sviluppato tali armi.
La questione ha dominato gli incontri dell'AIEA, contribuito alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU contro il regime iraniano e ora sta avendo un ruolo nel determinare se le sanzioni emesse contro il regime verranno rimosse, in base ad un accordo sul nucleare che dovrà essere attuato all'inizio del prossimo anno, ha aggiunto l'AP.
Ma i commenti del capo dell'AIEA, Yukiya Amano, hanno fatto chiaramente intendere che la sua valutazione conterrà zone grigie sufficienti a lasciare la questione irrisolta.
Il rapporto "non sarà bianco o nero", ha detto Amano ai giornalisti che lo attendevano dopo un incontro con il consiglio delle 35 nazioni dell'AIEA. Facendo capire che alcune domande restano senza risposta, ha definito il suo rapporto "un puzzle" del quale la sua agenzia ha "alcuni pezzi".
Amano ha aggiunto di "non essere nella posizione di fornire garanzie attendibili sull'assenza di materiali e attività nucleari non dichiarate in Iran" e che perciò non si può concludere che "tutto il materiale nucleare in Iran sia in attività pacifiche".
Amano ha detto che il suo rapporto verrà distribuito ai membri del consiglio la prossima settimana.

(politicamentecorretto.com, 28 novembre 2015)


Inchiesta in Israele: lo Stato islamico potrebbe aumentare il seguito tra i palestinesi

GERUSALEMME - Se dovesse riuscire ad estendere l'area sotto il proprio controllo lungo i confini con Israele, lo Stato islamico potrebbe trovare sempre maggior seguito tra i palestinesi e gli arabi israeliani. È quanto afferma un rapporto condotto dall'Istituto per gli studi di sicurezza nazionale (Inss) dell'Università di Tel Aviv che sarà pubblicato la prossima settimana. Il documento, il più importante prodotto da un istituto israeliano sul tema, include una serie di lunghe analisi che esaminano la situazione del califfato di Abu Bakr al Baghdadi da diverse prospettive: dai finanziamenti alla rottura con al Qaeda, dall'ideologia alle sfide legali e militari.
   La ricerca, coordinata da Yoram Schweitzer e Omer Einav, fornisce anche informazioni sull'uso dei social media da parte dei jihadisti. E arriva alla conclusione che la definizione "organizzazione terroristica" è insufficiente a riflettere gli obiettivi e la visione dello Stato islamico. Dal punto di vista israeliano, i due esperti giungono inoltre a un'altra conclusione. "Lo Stato islamico, a differenza del movimento libanese Hezbollah, è un'organizzazione sunnita e non dovrebbe essergli consentito di acquisire territori nei pressi della frontiera con Israele. A quel punto, secondo il rapporto, è probabile che il gruppo ottenta sempre maggiore influenza tra gli arabi israeliani e i palestinesi.

(Agenzia Nova, 28 novembre 2015)


L'ambasciatore di Israele a Bari

Naor Gilon ha inaugurato il consolato onorario e incontrato Emiliano e Decaro

Da sinistra, Emiliano, Gilon, Decaro e De Santis
Visita istituzionale a Bari dell'ambasciatore d'Israele, Naor Gilon, per l'inaugurazione del consolato onorario. Con il console Luigi De Santis ha incontrato nella sede regionale il presidente della Regione e il sindaco di Bari.
«Abbiamo parlato di ciò che ci lega, il Mediterraneo, il mare, la cultura - ha dichiarato Michele Emiliano - e ricordato che la Puglia ha avuto un ruolo nella storia della diaspora di Israele. Ancora oggi a Capo Santa Maria di Leuca ci sono case che custodiscono scritte in ebraico con espressioni di gratitudine, tracce di una storia che i pugliesi ricordano con emozione e commozione».
«E poi - ha proseguito Emiliano - abbiamo discusso di agricoltura, di grande innovazione, del distretto dell'aerospazio, del nostro desiderio di attrarre investimenti israeliani. Ci siamo impegnati a fare una visita in Israele agli incubatori di impresa che sono i più famosi ed efficienti del mondo, e anche alle imprese agricole che utilizzano brevetti di innovazione tecnologica, che anche per noi sarebbero importanti. Speriamo ci siano grandi imprese israeliane che abbiano voglia di investire qui in Puglia».
«La rappresentanza di Israele in questa parte d'Italia non era sufficiente, a fronte di una potenzialità di cooperazione alta: dal turismo all'agricoltura, passando per le tecnologie - ha dichirato Gilon -. Questo è un giorno particolare perché inauguriamo a Bari il primo consolato onorario in Italia e speriamo davvero che il nostro console onorario, il dottor Luigi De Santis, troverà il modo per portare avanti progetti comuni».

(BariLive.it, 28 novembre 2015)


Qatar, Turchia e Arabia Saudita falsi amici dell'Occidente

Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Iran e gruppi fondamentalisti giocano il loro tragico risiko sullo scacchiere mondiale.

di Luca Fortis

Dall'Afghanistan fino alla Nigeria, passando per l'Europa, una striscia di sangue e morte sembra unire tre continenti in un ponte, non culturale, ma di orrore. Se si mettono in fila i nomi dei paesi coinvolti in questa guerra che viene combattuta su tanti campi di battaglia, ma di cui i burattinai che tirano le fila sembrano essere sempre gli stessi, pare che il mondo sia precipitato in un conflitto mondiale senza volerlo ammettere.
  Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Iran e gruppi fondamentalisti giocano il loro tragico risiko sullo scacchiere mondiale. Il conflitto generale nasconde tre guerre minori che si intrecciano l'une nelle altre. La prima è scoppiata tra sciiti e sunniti, con l'Arabia Saudita che si scontra, con le armi o politicamente, contro l'Iran in Yemen, Iraq, Siria e Libano "per stroncare la cosiddetta "mezza luna sciita" che dalla Persia, passando per l'Iraq, parte della Siria e Libano, taglia in due la fascia di paesi sunniti nel Mediterraneo. La seconda è una guerra per procura che coinvolge le tre maggiori potenze sunnite del Medio Oriente. L'Arabia Saudita che appoggia i Salafiti e il governo laico egiziano, contro la Turchia e il Qatar che appoggiano i Fratelli Musulmani. Queste tre potenze, pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti, si combattono in Libia e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. Il terzo è un conflitto tra i fondamentalisti islamici e i musulmani che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione, guerra che travolge anche tutti i laici e le minoranze religiose come i cristiani.
  Questo scontro tra la libertà di interpretazione religiosa e l'ideologia totalitaria islamica ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina, passando per Parigi o New York o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria, o in parti della Libia. Queste tre guerre sono intrecciate tra loro in modo intrinseco e da anni l'occidente ha chiuso gli occhi sul fatto che fossero proprio i suoi alleati a portarle avanti. Da un punto di vista ideologico Daesh o Al Qaeda sono figlie delle dottrine wahabite o salafite o dei Fratelli Musulmani, gruppi da cui si sono poi allontanate per diventare ancora più estremiste, ma con cui mantengono una certa parentela. L'indottrinamento di massa nel mondo musulmano sunnita verso dottrine che negano la libertà di interpretazione ed estremamente totalitarie è avvenuto grazie alle scuole islamiche e al welfare che l'Arabia Saudita e il Qatar, stretti alleati dell'occidente, hanno finanziato dovunque fossero presenti comunità islamiche. Questi paesi hanno potuto far ciò grazie alla protezione militare ed economica dell'occidente e alle risorse finanziare figlie dell'industria petrolifera. Questo fenomeno di massa è avvenuto a scapito di tutte le dottrine liberali dell'Islam e dei paesi laici, che pur non mancavano affatto nel mondo musulmano. L'occidente dovrebbe cominciare a chiedersi se l'Arabia Saudita sia più democratica delle tante dittature secolari mediorientali che ha spazzato via. Dovrebbe analizzare se i regimi laici del Medio Oriente avessero finanziato terrorismo o gruppi islamisti in mezzo mondo quanto hanno fatto e fanno i suoi alleati. Questo non vuol dire non riconoscere che anche le dittature laiche hanno finito per non soddisfare le aspirazioni di libertà dei popoli mediorientali, come dimostrano le varie primavere arabe. Ma quanto meno dovrebbe portare a una certa cautela prima di sposare in pieno la causa di quelle potenze che hanno storicamente partorito, dagli anni trenta in poi, quei germi ideologici che hanno abolito gli spazi di interpretazione del Corano. Ideologie totalitarie, con qualche parentela con quelle europee degli anni trenta, che hanno concentrato nelle mani di partiti politici o movimenti estremisti l'interpretazione dei testi sacri. I paesi europei e gli Stati Uniti dovrebbero anche riflettere sul fatto che se si cominciasse a comperare meno petrolio da questi paesi molte delle risorse finanziare per queste guerre finirebbero. Il mondo islamico ha delle società civili molto più vivaci di quel che si pensa ed è da queste che bisognerebbe ripartire, anche con un confronto duro su libertà civili, religiose e responsabilità storiche. Perché se è vero che l'occidente, dall'epoca coloniale in poi, ha non poche responsabilità, è anche vero che i paesi in cui vivono i musulmani non ne hanno di meno. Solo ultimamente, i paesi sunniti, Egitto a parte, non sono intervenuti quando gli islamici venivano uccisi perché interpretavano il Corano in modo diverso, mentre gli Yazidi venivano sterminati, le chiese bruciate e i templi di Palmira fatti saltare in aria.
  Non hanno detto nulla di fronte agli stermini di Boko Haram in Nigeria e i paesi più ricchi e più islamisti del Medio Oriente, le monarchie del Golfo, non hanno aperto le loro porte ai rifugiati siriani e iracheni, al contrario dei paesi vicini più laici come Libano, Giordania e Turchia. In fondo andrebbe ricordato ai quei nazioni che i teorici dell'islamismo politico li hanno partoriti loro negli anni trenta, forse in seguito alle violenze coloniali e successivamente aiutati dai calcoli anti sovietici degli americani durante la guerra fredda, ma li hanno pur sempre partoriti e finanziati loro. In alcuni casi, queste ideologie islamiste, sia sunnite, che sciite, sono arrivate al potere da anni, come in Arabia Saudita e in Iran. Se i paesi occidentali in questa guerra sembrano aver perso la bussola, questo non si può dire per il presidente russo Putin che invece ha ben chiaro che per sconfiggere Daesh bisogna passare per i paesi più laici o più pragmatici della regione ed essere disposto anche metterci i soldati. Ovviamente Putin, alleato dell'Iran (pragmatico) e della Siria controllata da Bashar al Assad (laica), lo fa non andando per il sottile e condannando molti civili a un triste fine. Ma bisogna tenere presente che non intervenire non salverà di certo i civili che finiranno solamente nelle braccia genocide di Daesh. Inoltre, se l'occidente collaborasse di più con la Russia si potrebbe aiutare maggiormente i civili intrappolati in quelle aree. Un vecchio detto recita che "la pace si fa con i nemici", tra Daesh e Bashar Al Assad, l'occidente e i paesi sunniti confinanti con la Siria e l'Iraq non dovrebbero avere dubbi su quale nemico scegliere per trovare un accordo. Daesh predica lo sterminio di interi gruppi etnici, culturali e religiosi, Bashar uccide i suoi nemici e finisce per colpire anche civili, ma non gruppi di popolazione in base al credo o altro. Con lui, in cambio della fine della violenza e di una transizione politica che garantisca diritti agli alawiti, ai sunniti, ai cristiani e a il resto delle minoranze del paese, si può ragionare, con gli altri no. Attualmente tra le nazioni coinvolte direttamente o indirettamente nel conflitto generale nel mondo islamico si possono annoverare: Afghanistan, territori cinesi a maggioranza islamica, Russia, Iran, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Iraq, Yemen, Qatar, Turchia, Libano, Israele e Territori Palestinesi, Egitto, Sudan, Somalia, Kenia, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Mali, Mauritania, Nigeria, Burkina Faso, Guinea Bissau, Niger, Chad e altri ancora. Per non dimenticare l'Europa da cui provengono molti dei foreign fighters che combattono per Daesh e teatro dei sanguinosi attentati di Parigi e gli Stati Uniti. In questo risiko mondiale si spostano truppe, finanziamenti e predicatori per giocare una partita con la morte in nome dell'ideologia mascherata da Dio.

(il Giornale, 28 novembre 2015)


Danimarca - I giovani che sfidarono Hitler

di Riccardo Michelucci

 
Questa è una storia di coraggio e nobili ideali che è rimasta finora relegata in un inspiegabile oblio, forse perché si è svolta alla periferia d'Europa o forse perché i suoi protagonisti non hanno avuto una morte tragica e prematura. La vicenda del Churchill club, il gruppo di giovani che si oppose eroicamente al nazismo durante l'occupazione della Danimarca, è tuttora molto meno nota di quella della Rosa Bianca, sebbene le due esperienze siano accomunate da non poche similitudini. Entrambe sono state storie di eroismo e di alto valore morale: due gruppi di giovani animati dagli stessi ideali di giustizia e libertà che in una delle fasi più tragiche della recente storia europea agirono con un coraggio capace di riscattare - in modo quasi catartico - la dignità di un intero popolo. Ciononostante le azioni dei giovani danesi sono rimaste confinate in una sorta di limbo dalla storiografia ufficiale sulla resistenza al nazifascismo.
   Cerca di colmare questa lacuna il nuovo lavoro del pluripremiato saggista statunitense Philip Hoose, The Boys Who Challenged Hitler: Knud Pedersen and the Churchill Club (Farrar, Straus & Giroux). Scritto con grande immediatezza per renderlo fruibile anche ai più giovani, il libro si è avvalso del contri- buto fondamentale del protagonista di quelle vicende, Knud Pedersen, morto nel dicembre scorso all'età di 88 anni. Hoose ha lavorato a stretto contatto con lui, avvalendosi dei suoi ricordi e del suo archivio personale, riuscendo a restituirci un affresco di prima mano su quella che fu con ogni probabilità la prima forma di lotta antinazista nel paese scandinavo.
   Il 9 aprile 1940, in poche ore, le truppe del Reich invasero la Danimarca quasi senza trovare alcuna opposizione militare. Re Cristiano X firmò la capitolazione del suo paese aderendo all'offerta di "protezione" di Joachim von Ribbentrop, un trattato che consentiva al sovrano e al suo governo di rimanere in carica, a condizione che non fossero compiuti atti ostili contro le forze di occupazione da parte dei civili danesi. Anche in Danimarca, come in Germania, furono così poste le basi di quella che lo storico Hans Mommsen avrebbe poi definito efficacemente una «resistenza senza popolo», cioè fatta da piccoli gruppi non uniti tra loro.
   Nella primavera del 1941 Knud Pedersen è uno studente diciassettenne figlio di un pastore protestante della cittadina di Aalborg. Frequenta insieme al fratello la scuola della cattedrale locale ed è lì che i due, ispirandosi al loro eroe, Winston Churchill, formano un gruppo di resistenza denominato Churchill Club. Dei loro connazionali più adulti non sopportano l'inerzia e l'incapacità d'opporsi agli invasori. La neutralità, ai loro occhi, è l'anticamera della complicità con un regime criminale. Organizzano una decina di ragazzi tra i 14 e i 18 anni, armati solo di un coraggio che rasenta l'incoscienza e di una sete di libertà tanto spontanea quanto inarrestabile. Si spostano in bicicletta, le loro borse non contengono libri ma piccole taniche di benzina con le quali compiono piccoli, poi sempre più temerari, atti di sabotaggio in città. Colpiscono i presidi militari e i mezzi di trasporto degli occupanti.
   Rubano le armi dai camion nazisti, nella remota speranza di unirsi alle forze di liberazione una volta che queste fossero arrivate dalla Gran Bretagna. Il gruppo compie almeno venticinque atti di sabotaggio, il più memorabile dei quali fu l'assalto a un treno merci carico di rifornimenti militari.
   «Eravamo troppo giovani per renderci conto dei rischi mortali che stavamo correndo », ha ricordato anni fa uno di loro. Sia la polizia danese che i nazisti iniziano a dar loro la caccia, senza immaginare che gli atti di sabotaggio sono in realtà compiuti da un gruppo di giovani studenti. L'8 maggio del 1942 la loro vicenda si interrompe bruscamente. È un connazionale, uno dei tanti collaborazionisti locali, a tradirli e a farli arrestare. Processati e incarcerati, finiscono in una prigione per adulti, dove restano in isolamento fino al 1944.
   Quando escono, le sorti della guerra sono ormai segnate: in gran parte d'Europa i movimenti di liberazione e gli Alleati stanno sconfiggendo il nazismo. Tornati in libertà, i ragazzi del Churchill club rimangono stupiti nel vedere quanto, in loro assenza, sia cresciuta la resistenza danese. Dalla primavera del 1943 anche l'atteggiamento della popolazione nei confronti degli occupanti era mutato e gli scioperi e gli atti di sabotaggio contro i nazisti si erano diffusi a macchia d'olio in tutto il paese. E in un certo senso erano stati proprio loro, i giovani del Churchill club, i primi a dare l'esempio e a risvegliare il popolo dal torpore.
   Dopo la guerra, Pedersen non è andato alla ricerca di riconoscimenti od onorificenze, ma ha dedicato il resto della sua lunga vita all'arte contemporanea, divenendo un apprezzato artista e un grande organizzatore di eventi culturali. Copenaghen deve a lui l'apertura, tra gli anni '50 e '60, della biblioteca d'arte contemporanea e del museo d'arte moderna.

(Avvenire, 28 novembre 2015)


Meir Adoni, il volto nuovo della gastronomia israeliana

di Gualtiero Spotti
foto di Dan Peretz

Quando si guarda a est dell'Italia, e rimanendo nell'area del Mediterraneo, è sempre difficile individuare dei cuochi che mettono in campo uno stile ben definito, una filosofia, o solo qualche idea in grado di smuovere la staticità di culture gastronomiche spesso impermeabili ai cambiamenti. Uno degli emergenti da seguire, per chi vuole capire meglio ciò che accade nell'area mediorientale e nella scena del food israeliano, è senza ombra di dubbio il quarantenne Meir Adoni, che a Tel Aviv ha ben quattro locali nei quali propone la sua cucina.
  Il suo primo ristorante, Catit, è sulla breccia ormai da tredici anni e rimane l'indirizzo gourmet di Adoni. Anche oggi che si è spostato di qualche centinaio di metri dalla sua originaria sede e convive nello stesso edificio con Mizlala, il bistrò più agile e dove la cucina prende una piega più popolare dimenticando il fine dining. Che invece si incontra nel nuovo Catit, fino a due anni fa ospitato in una bella villa nel centro cittadino e ora in un'unica saletta da ventiquattro coperti che funziona con un solo percorso degustazione e una originale versione vegetariana per ogni piatto del tasting menu.

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Adoni ha nel suo background stage e presenze in ristoranti di assoluto prestigio, da Alinea ad Arzak, passando per Lenôtre e Noma, dove ha curiosato tra tecniche e idee molto diverse da quelle che muovono la quotidianità della cucina ebraica, ma che poi ha saputo ben integrare in un melting pot divertente e a volte
   Da Catit i piatti hanno l'ardire di mettere insieme molti elementi e consistenze (spesso si fa prima a mangiare che non a scoprire o a farsi raccontare quali sono i prodotti utilizzati in ognuno di questi…), e vivono senza soluzione di continuità di una spiccata internazionalizzazione che porta a viaggiare a volte in Italia (Adoni utilizza una farina bergamasca e qui si può gustare una ottima polenta, neanche ci trovassimo in Lombardia) e a volte in India, come rivela il piatto Mumbai nights, tra samosa, yogurt allo zafferano, albicocche dell'Uzbekistan, créme fraiche, cozze confit e carote organiche in sottovuoto.
  Oppure tra i monti del Golan, quando il piatto d'apertura della cena (il ristorante non è aperto per pranzo) insinua nel palato una vinaigrette al Cabernet Sauvignon con le bucce degli acini dell'uva, la liquirizia, le mandorle e il formaggio di capra avvolto nella foglia della vite. E ancor più verso la fine del menu, quando ci si lascia incantare dalla geometria fredda di Daydreams, piatto geniale per eleganza, gusto e abbinamento di colori, dove si cavalca un mondo esotico e lontano fatto di salsa di lychee, kaffir lime, fiori di sambuco, perle di tapioca, gel di yuzu, foglie di shiso, cui si aggiungono un gelato al riso, una meringa al latte e la polvere di te verde: un viaggio asiatico (e non solo) e un dessert assoluto, evocativo e dai contrasti ben calibrati.
  Se Catit è il gioco di Meir Adoni per la clientela più sofisticata e più preparata a essere stimolata intellettualmente davanti a un piatto, il vicino Mizlala rappresenta il lato più conviviale della cucina israeliana, proposta però in veste moderna. Qui ci sono piatti ricchi di verdure, frutta e frutta secca, di carne, di riso, con prodotti di ottimo livello che arrivano dal mercato di Carmel oppure da molto più lontano, visto che in carta ogni giorno non manca una pasta, un risotto, gli gnocchi, ma anche una mozzarella da bufala.

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Tanto per ricordare come Meir Adoni (che conosce bene l'Italia e mantiene un legame con la famiglia Cerea) non possa fare a meno di spaziare verso altre culture e prodotti al di fuori di Israele. Poi è chiaro che la shakshuka (piatto di origine nordafricana ma acquisito dalla cucina israeliana) o la shawarma (in pratica un kebab) qui vengono rivestiti con maggior classe di quella che si incontra negli esempi di street food o di cucine più popolari in giro per Tel Aviv. Gli altri due indirizzi del cuoco sono lo Sky Bar ospitato all'ultimo piano dell'Hotel Carlton, per una cucina kosher un po' ricercata, con vista sul lungomare, e al primo piano sempre dell'albergo, il Lumina, ultimo arrivato nel 2014 che invece si propone uno stile kosher dedicato soprattutto alla carne.
  Con protagonista tra gli altri proprio Meir Adoni, si è conclusa il 21 novembre la prima edizione della Round Table a Tel Aviv, manifestazione dal carattere internazionale che ha visto molti cuochi ospiti da tutto il mondo partecipare a incontri finalizzati a conoscere meglio la realtà gastronomica locale. I cuochi, tra cui Marco Martini, lo stellato della Stazione di Posta a Roma, hanno proposto la loro cucina alla clientela israeliana e hanno potuto confrontarsi con i colleghi cucinando in diversi ristoranti per un'intera settimana. Tra gli altri, distribuiti su tre settimane a partire dal 1 novembre, c'erano anche Ron Blaauw del Ron Gastrobar di Amsterdam e Joe Capozzi del Fat Radish di New York.

(lifestyle.tiscali.it, 28 novembre 2015)


Israele non ha bisogno del permesso russo per volare sulla Siria

GERUSALEMME - L'Aviazione israeliana non necessita dei permessi di nessuno, tanto meno della Russia, per operare nella regione. Lo ha dichiarato al quotidiano "Haaretz" un ufficiale dell'Aviazione israeliana. Discutendo del coordinamento aereo con la Russia, l'ufficiale ha ribadito che i due paesi hanno istituito un meccanismo per prevenire scontri aerei non intenzionali nel contesto delle operazioni militari russe in Siria. L'ufficiale ha spiegato che i due paesi hanno una comprensione reciproca su dove e quando ogni forza aerea potrebbe agire, ma che ad Israele non è stato precluso l'accesso ad alcuna area precisa. "E' un meccanismo piuttosto semplice - ha spiegato l'ufficiale - dobbiamo assicurarci di non venire a contatto. Si tratta solo di alzare il telefono e parlare".

(Agenzia Nova, 27 novembre 2015)


Siciliantica, a Cefalù inizia il "Seminario su Arte e Cultura Ebraica in Sicilia"

di Teresa Fabiola Calabria

PALERMO - Inizia sabato 28 novembre 2015 alle ore 17,00 il seminario su Arte e Cultura Ebraica in Sicilia organizzato dall'Associazione SiciliAntica. Dopo la presentazione di Melina Greco, presidente della sede SiciliAntica di Cefalù e di Alfonso Lo Cascio, della presidenza Regionale di SiciliAntica, si terrà la prima conferenza dal titolo: "Palermo Arabo - Normanna". La relazione sarà tenuta da Ferdinando Maurici, archeologo e storico del Medioevo. L'incontro si terrà presso la Sala delle Capriate del Palazzo Municipale di Cefalù. Le altre conferenze previste si terranno:
  • Sabato 19 dicembre con il titolo "La cultura ebraica in Sicilia" tenuta da Teresa Triscari, consulente culturale degli Affari Esteri,
  • Lunedì 28 dicembre la lezione riguarderà invece ''Aspetti storici ed attuali della Postierla nel rione Giudecca di Cefalù" con Benedetto Morello, docente di Storia dell'Arte.
  • L'anno successivo, il 2016, si inizia mercoledì 13 gennaio con Antonio Franco, docente di Lettere Classiche e ricercatore di Storia Antica, che parlerà su "La diaspora ebraica tra tardo antico e medioevo"
  • Venerdì 15 gennaio il regista Pasquale Scimeca, presenterà il suo film "La passione di Giosuè", a cui farà seguito la proiezione.
  • Mercoledì 27 gennaio si terrà la conferenza dell'architetto Tania Culotta, che parlerà su "Il Parco delle Mura Megalitiche: progetti e realizzazioni".
  • Mercoledì 24 febbraio Mauro Mormino, dottorando in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche presso l'Università di Messina terrà una conferenza dal titolo ''Per forza o per fede'', Storie di conversioni dall'ebraismo al cristianesimo a Bisanzio alla fine del IX secolo".
  • Liborio Asciutto, presidente del Centro Ecumenico ''La Palma'' di Cefalù venerdì 11 marzo interverrà su "Tracce di presenze ebraiche a Cefalù e nelle Madonie".
  • Mercoledì 30 marzo Antonio Marino, dottore di Ricerca presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma, concluderà il seminario parlando di ''Shabbetay Donnolo medico, cabalista, giudeo nell'Italia meridionale bizantina. La cultura ebraica nel meridione pre-normanno e la cabala come mezzo di conoscenza".
Ai corsisti sarà rilasciato attestato di partecipazione, utile ai fini del credito formativo per gli studenti degli istituti di istruzione secondaria superiore. Per iscrizioni: Tel. 0921.423641 Cell. 347.3363088.

(Sicilia Journal, 27 novembre 2015)


A nuoto in Israele

di Paolo Rossi

Per la prima volta nella storia Israele ospiterà i campionati europei di nuoto in vasca corta. Da mercoledì 2 al 6 dicembre le star europee si sfideranno infatti nel nuovo complesso dell'Istituto Wingate di Netanya, centro dello sport nazionale israeliano, 120 ettari su una spiaggia del Mediterraneo, 20 chilometri da Tel Aviv.
L'Ungheria ha cercato di sfilare l'evento a Israele in nome della sicurezza, invano. «Io non mi faccio pilotare la vita dai terroristi: se le gare sono lì è giusto andare. E' ovvio che chi deve controllare starà ancora più attento', ci dice senza giri di parole Pippo Magnini, capitano degli azzurri, pronto per chiudere alla grande la stagione. "Israele ama il nuoto. Avrete un'accoglienza da star", ha garantito Noam Zwi, presidente della locale federazione.
Tra gli italiani, quelli in odore di medaglia sono Gregorio Paltrinieri, Federica Pellegrini e gli atleti delle staffette. Ma saranno i francesi - Frederick Bousquet, Fabien Gilot - i più attesi dopo i fatti di Parigi: lo sport non si ferma.

(la Repubblica, 28 novembre 2015)


Essere israeliani, tutti i colori del popolo eletto

Graphic novel. Non è facile raccontare per immagini la quotidianità di Gerusalemme e dintorni. Ma diversi autori ci provano. Tra critica, ironia e smarrimenti.

di Ferruccio Giromini

Come si può raccontare Israele oggi?

 Melanie Kaye/Kantrowitz
 
 
  La scrittrice statunitense Melanie Kaye/Kantrowitz, ebrea radicale, dichiara esplicitamente la difficoltà dell'impresa, quando afferma: «Per alcuni di noi Israele è come uno zio un po' suonato... Uno che non riusciamo a tenere a bada ma del cui comportamento siamo comunque responsabili. Ripudiarlo pubblicamente significherebbe svergognare la famiglia».
  Almeno il linguaggio del fumetto, che per il suo linguaggio, a torto o a ragione ritenuto "birichino", quindi con prevista maggiore libertà di movimento, non si è esentato dal cimento. Anzi, gli ultimi tempi hanno visto la pubblicazione di svariate opere in tema, probabile segno che permane grande attenzione su quello che vuole dire essere ebrei e specialmente israeliani nel terzo millennio.

 Guy Delisle
  Un gioiellino dell'imbarazzato sguardo esterno resta Cronache di Gerusalemme del giornalista grafico canadese Guy Delisle, quando passa un anno a immergersi, sempre con delicata misura, nell'ordinaria vita gerosolimitana, tra le intemperanze fuori controllo dei coloni, i trucchi da baro del governo di Netanyahu e le arcaicità delle sette tradizionaliste, che sulla stessa strada vogliono veder passeggiare da un lato gli uomini con la kippah e dall'altro le donne col velo. Alla fine Israele non ci fa gran bella figura. Ma dietro il velo di garbato umorismo Delisle riconosce l'attenuante di una quotidianità che scorre a scatti tra il terrore di un passato genocida, lo spavento di un presente esplosivo, il timore di un futuro apocalittico.

 Sarah Glidden
  Decisamente più complicato risulta il rapporto di una giovane ebrea americana, desiderosa di chiarirsi con la Terra Promessa, in viaggio organizzato. Capire Israele in 60 giorni (e anche meno) è il successo internazionale della giovane Sarah Glidden, un densissimo diario di viaggio, felice connubio tra graphù: journalism e flusso di coscienza. L'atteggiamento sincero dell'autrice si rivela in una sofferta dichiarazione: «Sono confusa ... Sono ebrea, il che significa che dovrei stare dalla parte di Israele sempre e comunque, no? Però per molta gente se stai dalla parte dei palestinesi automaticamente non sei per Israele. Al tempo stesso, se veniamo alla politica, sono di sinistra e progressista. E se sei progressista, dovresti essere anche anti-israeliano... E ogni forma di solidarietà con Israele significa che non stai con i palestinesi. Vedi? Che guaio!». Sarah tra l'altro lamenta giustamente che le fonti obiettive sui confronti israelo-palestinesi rimangono estremamente rare («Dovrebbero fare un film sulla Guerra dei Sei Giorni, come quelli che ci sono sulla Seconda Guerra Mondiale. Così magari ci capirei qualcosa») e tra i suoi smarrimenti registra opinioni sconsolate («i palestinesi non perdono mai occasione di perdere un'occasione») e le confidenze di un giovane ebreo americano come lei («Non sopporto gli israeliani. Sono così rozzi!»). O quando infine, sperimentata in aeroporto la classica scena di paranoie per valigie in apparenza abbandonate, uscita in strada, si stupisce da newyorkese: «Uau, quanti ebrei chassidici! Sembra di essere a Williamsburg!»

 Boaz Yakin, Nick Bertozz
  Le problematiche cambiano notevolmente tra la laica Tel Aviv e la teocratica Gerusalemme. La Città Santa si presta molto di più alle retoriche. Ne è un esempio il romanzone storico Gerusalemme. Un ritratto di famiglia, che, ambientato negli anni dannati del mandato britannico 1946-1948, si va a sistemare dalle parti di Exodus e simili. Ma certo, è produzione statunitense, ben conscia delle esigenze dell'entertainment; i due autori, entrambi newyorkesi, sono l'ebreo Boaz Yakin, sceneggiatore e regista cinematografico, e l'eclettico disegnatore "gentile" Nick Bertozzi. La loro ottica, peraltro legittima, si mantiene salda sul registro professionale-commerciale: una rievocazione drammatica, tra violenze pubbliche e private, sul cui fondale si snodano le vicende intrecciate dei membri di una famiglia ebrea, con fratelli e cugini divisi tra filosofici disimpegni, interventismi generici e terrorismi. Emozioni e compartecipazioni assicurate. Si direbbe - e forse davvero era, in origine - la sceneggiatura di un kolossal hollywoodiano persino un po' neorealista (Gerusalemme città chiusa?). Il quadro storico livido richiede monocromatismi documentaristici, e il risultato è efficace, pur con quel retrogusto di precotto che caratterizza molte opere generaliste di matrice show business. Ma le notizie storiche ci sono, e interessano.

 Rutu Modan
 
Rutu Modan
  Tutt'altra musica se guardiamo alla produzione di Rutu Modan. Fondatrice nel 1995 dello storico collettivo artistico Actus Tragicus - anche casa editrice indipendente, con la missione di svecchiare in senso non commerciale e non provinciale la produzione di narrativa grafica israeliana - è, oggi cinquantenne, la fumettista israeliana più nota e apprezzata nel mondo. Presto affrancatasi dal tono grottesco degli esordi, ha attuato nel suo disegno slittamenti progressivi verso il realismo, così approdando a una ligne claire che infonde nitore non solo alla forma ma pure alla sostanza narrativa, qui tra leggera perfidia e scarna malinconia. Alcune delle sue prime storie brevi, raccolte nell'antologia Il passato è passato, ne testimoniano l'evoluzione grafica dalle iniziali provocazioni (pure estetiche) alla olimpica serenità attuale. E intanto ha messo a fuoco un metodo narrativo la cui giusta misura è decisamente il romanzo, dove poter far fiorire su orditi coinvolgenti anche notazioni sarcastiche, per quanto partecipate, sui protagonisti. Ebrei, o israeliani. Gli ambienti, che lei conosce bene, sono sempre quelli. E Woody Allen non c'entra: l'umorismo di Modan è più laterale, e la sua tragicità molto meno patetica. Ma c'è spirito d'osservazione, elegante; e c'è satira, sottile.
  In Unknoum/Sconosciuto (Eisner Award 2008) due giovani si trovano appaiati nella ricerca di un vecchio scomparso, probabile vittima non identificata di un attentato kamikaze. Lui è un tassista, lei una sgraziata ereditiera: dello scomparso, il primo è il figlio e la seconda ne è stata amante. La ricerca vagola nelle pieghe della slabbrata società israeliana, mettendone a fuoco con lucidità alcune caratteristiche singolari. Ne fanno fede i dialoghi secchi e realistici e la recitazione naturalissima dei vari personaggi, non di rado uomini e donne anziani; e sorprende l'attenzione per i secondi piani delle immagini e degli avvenimenti, quando ospitano altre osservazioni in apparenza divaganti ma in realtà non secondarie. Esempi? La regia, fluida, svaria. Un'anziana signora: «Trovare un buon partito è la cosa più importante. Quando nasce un bambino si ode una voce celeste che promette quel bimbo alla sua anima gemella». Il tassista: «E nel caso di un secondo matrimonio?». Risposta: «Non so. Dovrei chiederlo al rabbino». Il senso del colore, si capisce, non è unicamente formale ma contenutistico. Dice l'addetta dell'Istituto di medicina legale: «Abbiamo altri otto corpi in arrivo». Le chiedono: «C'è stato un altro attentato?». Risposta: «No. Un incidente sul lavoro, in un cantiere. Operai rumeni».
  In La proprietà, nonna ottantenne e nipote trentenne partono da Tel Aviv per Varsavia, con la scusa di recuperare un immobile di famiglia nazionalizzato dal regime comunista, ma anche con altre intenzioni non dette. Qui la finezza psicologica e registica di Modan si affina ulteriormente. Già in aeroporto, al primo controllo, la nonna offre un saggio del suo caratterino: «Dovrei buttare una bottiglia d'acqua nuova?!». «Mi dispiace, sono le misure di sicurezza». «Signora, sta bloccando la fila». «Nonna, sono le regole... ». «Ma quali regole! Le ha forse ricevute Mosè sul Monte Sinai?!». Nella inusuale ricchezza di osservazione dei caratteri fisici e psicologici dei personaggi si insinuano le notazioni politicamente scorrette. Quando in albergo la ragazza dice: «Vattene o chiamo la reception. Dirò che un antisemita mi sta molestando». Oppure: «Sai, l'unica cosa che gli ebrei amano più del denaro è fare i dispetti».
  Un vecchio classico dell'umorismo ebraico: gli ebrei che parlano male degli ebrei. Modan lo fa con stile. E sempre con una tavolozza cromatica deliziosamente equilibrata, gioia per gli occhi.

 Asaf Hanuka, Torner Hanuka, Boaz Lavie
  L'altra star del fumetto intelligente israeliano è l'illustratore quarantenne Asaf Hanuka, di formazione e di collaborazioni internazionali, che dal 2010 pubblica regolarmente sul quotidiano economico di Tel Aviv Calcalisto Molte delle sue estrose pagine singole a colori, che fotografano per lo più la sua vita privata familiare e lavorativa, sono state raccolte e tradotte in due volumi antologici dal titolo K.O. a Tel Aviv. Non vi si affrontano direttamente temi politici, ma l'aria che tira da quelle parti si respira comunque. Si tratta probabilmente della miglior incursione disponibile nella quotidianità del cittadino israeliano d'oggi, nella sua variante cosmopolita, metropolitana e laica (Guy Delisle racconta della volta che Hanuka gli disse: «Io detesto Gerusalemme! Tutte quelle religioni... non le sopporto!») e pertanto campione non del tutto rappresentativo. Ma il valore documentario resta.
  Però la sorpresa più spiazzante arriva con Il divino, che Asaf Hanuka ha realizzato graficamente col fratello gemello Torner, a sua volta illustratore di vaglia, su testi dell'amico regista e game designer Boaz Lavie. Il terzetto ha unito le forze per confezionare, con inatteso stile manga immerso in contrastanti colori acidi, un racconto duro e feroce ambientato nel lontano Sud-est asiatico: un'avventura disincantata e quasi morbosa che vede forze occidentali al servizio di ciniche imprese commerciali trovarsi contrapposte alla resistenza di alcuni bambini guerriglieri, dall'apparenza disperata ma che possono contare su aiuti sovrannaturali potenti. E invero potente è il risultato. Complimenti.

(pagina we, 28 novembre 2015)


In Aula, contro il boicottaggio d'Israele

Un manipolo di parlamentari chiede conto a Renzi delle scelte dell'Unione Europea.

La battaglia del Foglio contro la marchiatura dei prodotti israeliani decisa dall'Unione europea - che ha già raccolto oltre cinquemila firme, tutte disponibili sul sito - è sbarcata in Parlamento. Con un'interpellanza presentata da parlamentari di diversi gruppi politici (primo firmatario è Massimo Parisi, Ala), si è chiesto ai ministri dello Sviluppo economico e degli Esteri se il governo condivida la scelta della Commissione europea, con quale dicitura saranno etichettati i prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nel Golan e in Cisgiordania e se l'esecutivo intenda proporre a Bruxelles l'adozione di provvedimenti simili in relazione a merci provenienti da territori occupati da altri stati "come ad esempio il Tibet e il Sahara occidentale".
Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari, ha risposto che l'iniziativa europea avrà "un effetto pratico limitato" e nonostante ciò "le autorità israeliane paventano conseguenze negative sul proseguimento del dialogo Unione europea-Israele e velatamente sullo stesso rilancio del processo di pace".
Non è tanto il danno economico "limitato" - come il sottosegretario ha tenuto a sottolineare - a rilevare, quanto la portata simbolica di una marchiatura decisa proprio nel momento in cui l'unica democrazia del medio oriente è alle prese con la Terza Intifada, una campagna terroristica che mira a eliminare i suoi civili (ancora ieri è stato neutralizzato un terrorista che aveva investito due militari). L'obiettivo implicito che si scorge dagli incartamenti brussellesi è quello di rendere Israele una sorta di stato paria, lasciato solo nella battaglia contro il fondamentalismo che punta alla sua distruzione. E, come ormai dovrebbe essere chiaro, anche alla nostra.

(Il Foglio, 28 novembre 2015)


"Il multiculti porta alla guerra civile"

Parla Gurfinkiel, fondatore dell'Istituto Rousseau. "La banlieue è un mini stato islamico. Al venti per cento dei musulmani francesi piace l'Isis". La Francia riscopra l'identità cristiana. "Siamo indifferenti all'antisemitismo".

di Giulio Meotti

 
Michel Gurfinkiel
ROMA - "A Raqqa, la capitale dello Stato islamico, i francesi sono di casa: la seconda lingua parlata dopo l'arabo è il francese, per le strade l'Isis semina il terrore e i francesi sono i peggiori, picchiano e minacciano le donne se il loro volto non è nascosto dal niqab o se fanno rumore con le scarpe. Il rumore dei tacchi di una donna è considerato peccato. Hanno lasciato la Francia per la Siria percepita come la loro terra promessa. A Raqqa, i loro figli si trasformano in mostri. Hanno passaporti francesi, torneranno un giorno. Quale sarà la Francia di questi bambini cresciuti tagliando teste in nome di Allah?". E' tratto da un racconto, pubblicato dal Figaro Magazine, in cui la giornalista Rachida Samouri si è infiltrata a Seine-Saint-Denis fra i francesi che tifano Isis. Parigi ha commemorato le 130 vittime degli attentati. "Hanno ucciso nel nome di una causa folle e di un Dio tradito", ha detto il presidente francese, François Hollande. "Ci hanno colpiti perché siamo una ex potenza coloniale, perché siamo in guerra con gli islamisti in Africa, perché siamo considerati 'filoebraici', perché 'opprimiamo' i musulmani con la legge sul velo, perché eravamo un obiettivo facile, perché il Bataclan per gli islamisti era espressione di una 'satanica' cultura che dovrebbe essere debellata". Così Michel Gurfinkiel, uno dei maggiori intellettuali ebrei di Francia, in questa lunga intervista al Foglio sintetizza la strage del 13 novembre. Classe 1948, direttore per vent'anni del settimanale Valeurs Actuelles (oggi ne è vicepresidente), fondatore e direttore dell'Istituto Rousseau di Parigi, nel board della rivista Commentaire e firma del Wall Street Journal, autore di saggi fortunati come "Un devoir de mémoire" e "Le Retour de la Russie", Michel Gurfinkiel non ritiene che quello del 13 novembre fosse terrore, ma guerra.
  "I terroristi erano musulmani, cittadini francesi o belgi di origine nordafricana, e le loro vittime erano prevalentemente etnico-francesi. Alcuni media hanno tentato di nascondere questi fatti, mettendo in evidenza la presenza al Bataclan o in altri luoghi di alcune persone di discendenza africana o nordafricana. Ma basta guardare i volti delle vittime per capire che c'è un elemento di genocidio in questa strage di massa. C'è anche il disagio che la guerra al terrorismo possa trasformarsi in una sorta di guerra civile tra l'etnia francese e i musulmani francesi". La demografia è dalla parte dell'islam: "La comunità musulmana francese è salita dal cinque per cento nel 1997 al nove per cento nel 2014. Ma questo è soltanto un aspetto. Ci sono città, borghi rurali e aree già a maggioranza islamica. In ambiente giovanile la percentuale è persino superiore. Un quinto del totale dei cittadini francesi sotto i 24 anni è musulmano. Questi fattori demografici, geografici e generazionali danno l'idea di un conflitto fratricida. Nel dipartimento di Seine-Saint-Denis nella periferia nord di Parigi, il 30 per cento della popolazione e circa il 50 per cento dei giovani sono musulmani. Poiché la guerra, compresa la guerra civile, è combattuta da giovani (di solito giovani uomini) in tarda adolescenza e nei primi venti anni, il rapporto fra non musulmani e musulmani non è più di uno a nove, ma di uno a uno".

 I salafiti svettano su tutti gli altri
  Da qui un'altra domanda: quanto è centrale l'islam radicale nella vita dei musulmani francesi? "Secondo un'indagine pubblicata da Fondapol (Fondazione francese per l'innovazione politica), i musulmani francesi sono divisi in tre gruppi: 'Osservanti', 'credenti' e 'cittadini francesi di origine musulmana'. Il primo gruppo, influenzato dal wahhabismo e da altri movimenti fondamentalisti, le cui moschee sono finanziate dall'Arabia Saudita o dal Qatar, è cresciuto dal 36 per cento del 2001 al 42 per cento nel 2014. Il secondo gruppo, che sostiene una forma di compromesso tra islam e il modo di vita francese, è sceso dal 42 per cento del 2001 al 34 per cento nel 2014, mentre il terzo gruppo, che si identifica con la cultura francese e che tende a essere più positivo nei confronti dei non musulmani, è sceso dal 25 per cento del 2007 al 21 per cento nel 2014. Nel complesso, il fondamentalismo è chiaramente in crescita tra la maggioranza dei musulmani in Francia".
  Da qui la nascita di una società islamica parallela in Francia. Il documento "Banlieue de la République", commissionato dall'influente Institut Montaigne, ha rilevato che Seine-Saint-Denis e altre periferie stanno diventando "società islamiche separate" dove la sharia, la legge islamica, sta soppiantando il diritto civile francese. Fabrice Balanche, studioso di islam all'Università di Lione, li ha chiamati "mini stati islamici". "Può portare a una separazione dai non-musulmani, come è spesso il caso nei quartieri a maggioranza musulmana, trasformati in 'no go zone' in cui neanche la polizia entra", ci dice Gurfinkiel. "E incoraggia il terrorismo. Un rapporto Icm Research pubblicato nel 2014 rende noto che il 19 per cento dei musulmani francesi ha una visione 'positiva' o 'molto positiva' dell'Isis. Tra quelli sotto l'età di ventiquattro anni, la cifra è ancora più elevata: il 27 per cento. L'obiettivo degli attacchi terroristici è destare sospetti e ostilità tra musulmani e non musulmani e di conseguenza, una maggiore identificazione con l'Isis, rendendo la prospettiva di una spaventosa guerra civile sempre più realistica. Il calcolo dei jihadisti è che la Francia non tollererà tale esito, ma cederà alle loro richieste, ritirando le truppe dall'Africa e dal medio oriente". In questo quadro, gli ebrei fanno le valigie. Alcuni giorni fa Birthright, organizzazione ebraica che prepara viaggi di ebrei in Israele in vista di una possibile aliyah (emigrazione), ha diffuso i dati: 2.500 richieste dalla Francia quest'anno, erano 1.100 nel 2014 e 98 nel 2013. Un aumento del 2.400 per cento. "Mentre il governo e la classe politica hanno espresso la propria preoccupazione, e la protezione della polizia su larga scala è stata fornita alle sinagoghe e altri luoghi pubblici ebraici, molti ebrei si sono chiesti se l'opinione pubblica non fosse in realtà indifferente, o pronta ad accettare l'antisemitismo islamico e il terrorismo, come risultato di una presunta mancanza di volontà di Israele di venire a patti con i palestinesi", ci dice Gurfinkiel. "I massacri di Charlie Hebdo hanno portato a manifestazioni in tutta la Francia: naturalmente, anche le vittime dell'Hyper Casher erano citate, ma gli ebrei sapevano che il supermercato da solo non avrebbe suscitato una reazione. Il nuovo stato d'animo che sta emergendo dal 13 novembre sembra alleviare alcuni di questi timori e c'è più comprensione per gli ebrei. Ma è probabile che l'emigrazione ebraica francese, verso Israele o l'America del Nord, non si placherà. Jules Renard ha scritto che è difficile insegnare ai gatti di inseguire soltanto i topi e lasciare in pace i canarini".
  Per Michel Gurfinkiel, la risposta deve essere culturale: "La resilienza francese può essere più forte del previsto. I francesi stanno imparando di nuovo, dalle loro ferite, l'importanza dell'identità nazionale. Serve una rivoluzione culturale: l'abbandono del multiculturalismo, l'orgoglio cristiano, la riabilitazione dei valori della famiglia. La nozione stessa di una resa davanti all'islam diventerà ripugnante, quali siano i costi".

(Il Foglio, 28 novembre 2015)


Inviato nel ventre dell'Isis

di Rossella Tercatin

 
Itai Anghel con una giovane soldatessa curda
"Forse è vero che l'Europa si sta svegliando. Ma la domanda è come e per fare cosa", Itai Anghel, giornalista di Arutz 2, il secondo canale della televisione israeliana, parla con Pagine Ebraiche all'indomani dei fatti di Parigi e di ritorno da una serie di conferenze negli Stati Uniti. Un mese fa era a Kobane, città curda nel nord della Siria divenuta uno dei simboli della lotta, ma anche della devastazione, portata dall'Isis, per un documentario che andrà in onda nei prossimi mesi.
   Appassionato di Italia e di calcio, Anghel fa il corrispondente di guerra dal 1989. È stato nei Balcani, in Rwanda, in Pakistan, in Afghanistan. Nel dicembre 2014 è partito di nuovo, destinazione Siria, e poi Iraq: la linea del fronte dove al califfato si oppongono le milizie curde.
   Il risultato è un documento unico, 45 minuti in cui l'ebraico si mischia all'arabo e all'inglese, tra testimonianze dei soldati che combattono contro l'Isis e interviste ad alcuni boia delle bandiere nere, catturati negli scontri, là dove si tocca con mano lo sgretolamento dello scacchiere mediorientale. "Era uno dei confini più protetti e sorvegliati del mondo. Oggi lo può attraversare chiunque senza batter ciglio. Anche un israeliano di Tel Aviv. O un combattente dell'Isis'' racconta Anghel alla telecamera in poche stranianti sequenze attraverso il fantasma di un posto di frontiera.
   "L'Europa dichiara oggi di voler distruggere l'Isis, ma non è un risultato che si possa in concreto ottenere come lo descrivono. Le dichiarazioni dei leader europei onestamente suonano più indirizzate a placare le opinioni pubbliche, che non a delineare un vero piano d'azione" spiega al telefono il giornalista.
   Secondo la sua opinione, è ancora rilevante l'ipocrisia che vela l'approccio del Vecchio Continente alle minacce globali. "Penso che la nozione più problematica sia rappresentata dal fatto che l'ideologia dello Stato islamico, i suoi valori, non possono essere sconfitti. Non è una questione di educazione, anche se il 99 per cento dei musulmani del mondo rigettassero completamente queste dottrine, quelli che rimangono sarebbero sufficienti. Perché così funziona il terrore, basta un decimale di percentuale per abbattere le Torri gemelle. Ma allora quali possono essere i rimedi da opporre all'Isis? "Se le loro idee non possono essere sradicate, può esserlo l'entità statale. Il califfato esiste solo se ha un territorio, il califfato può essere un polo d'attrazione per chi condivide le sue ideologie solo se è un luogo geografico. Smantellarlo vuoi dire neutralizzare questo meccanismo". Essere pronti ad affrontare un conflitto dunque, senza nascondersi dietro parole che rischiano di rappresentare solo triti slogan come "portare la pace in Medio Oriente". È questa la mossa dello scacco agli islamisti secondo Anghel.
   "Intraprendere una guerra però è un'enorme responsabilità: non basta vincere le battaglie, poi è necessario ricostruire. Non vedo paesi stranieri che siano pronti a un'impresa del genere. Penso che la scelta sarà quella di fornire maggior supporto a chi è già sul territorio. Ma le uniche forze di cui oggi ci si può davvero fidare, a mio parere, sono i curdi"
   Il reporter i curdi li conosce bene. Sono loro i protagonisti del suo documentario, e in particolare le soldatesse. Sono giovani reclute di 17 o 18 anni dagli occhi scuri e i capelli di ogni sfumatura di castano, trenta e quarantenni con il volto già bruciato dal sole. Le loro voci, le loro armi, sembrano essere l'unico strumento per instillare nei militanti dello Stato islamico la paura della morte, perché, nella loro ideologia malata, se uccisi "da luna creatura inferiore", come una donna, perderanno il diritto al paradiso e alle 72 vergini che sono convinti di conquistarsi nel perire da "martiri".
   "Di fronte a un'idea del genere, non so se ridere o se piangere ... " sottolinea ironicamente nel documentario Media, uno dei più alti comandanti nella lotta all'Isis, sulle montagne dorate davanti a Mahmour, città nella cui liberazione il contributo femminile è stato decisivo.
   Nel suo nuovo documentario, Anghel si concentrerà su un altro aspetto cruciale per l'Europa, quello delle migrazioni. "Quando un paese attraversa una situazione difficile, si aprono due strade davanti: c'è chi sceglie di rimanere e combattere per riprenderselo, e chi sceglie di scappare. Tra Kobane e la Germania, ho cercato di ascoltare le voci di entrambi", anticipa. Ancora una volta, una delle molte criticità deriva dell'atteggiamento degli Stati europei. "Da un lato, io penso che i rifugiati vadano accolti, che anche Israele stessa dovrebbe accoglierli. E vedo la tragicità di situazioni che ho toccato con mano, di persone fuggite dalla Siria, dove sono state perseguitate dai jihadisti, anche di origine europea, che arrivano e vengono tacciate di essere jihadisti a loro volta.
   Dall'altro bisogna ammettere che un problema c'è, che non si può offrire rifugio a tutti, che può capitare che il 99,95 per cento di innocenti nasconda infiltrati dell'Isis. Ma troppo spesso, chi lo mette in luce in Europa viene semplicemente archiviato come estremista xenofobo"
   Dopo l'ultima ondata di attentati, ai paesi occidentali rimane dunque il compito di cominciare a guardare alle situazioni per quello che sono, come primo passo sul difficile cammino dell'auspicata soluzione. Un compito cui possono dare un contributo anche i giornalisti. ''A patto che vadano sul campo a documentare ciò che accade, non tentino di prevedere un futuro che nessuno conosce disquisendo su persone che non hanno incontrato e paesi che non hanno mai visto" rimarca Anghel. Che ammette: "Paura? Certo che ce l'ho, tutto il tempo. Ma, almeno per ora, continuo a partire".

(Pagine ebraiche, novembre 2015)


«La Turchia vuole l'Europa musulmana»

Bat Ye' or ha scritto «Eurabia» e ha ispirato Oriana Fallaci. Ora conferma: «I burocrati di Bruxelles non desiderano mantenere il Vecchio continente cristiano e aprono all'invasione di massa. Mentre Erdogan fa il conquistatore. L'Europa è la miglior alleata degli invasori islamici».

di Francesco Borgonovo

                                       Atatürk                                                                        Erdogan
Oriana Fallaci la considerava una grande fonte d'ispirazione. Michel Houellebecq non ha potuto fare a meno di citarla nel suo ultimo romanzo Sottomissione. Bat Ye'or, a partire dal suo bestseller Eurabia (edito in Italia da Lindau come gli altri suoi saggi), ha previsto e spiegato l'assalto dell'islam all'Europa. Ora tante delle sue profezie si stanno realizzando. Forse perché non erano profezie, ma semplicemente osservazioni molto acute, in grado di penetrare a fondo la realtà.

- Perché secondo lei l'Occidente non è ancora riuscito a sconfiggere lo Stato islamico?
  
«Non tutti gli Stati occidentali sono implicati nella guerra e quelli che si battono non vogliono mettere gli eserciti con gli scarponi sulla terra. In più, questi Stati coinvolti hanno interessi divergenti e sostengono altri movimenti radicali. Credo che la ragione principale stia nel fatto che i leader temono rappresaglie terroristiche nei loro Paesi. Inoltre, anche la politica della Turchia verso l'Isis non è chiara».

- Dopo ogni strage ad opera di terroristici islamici, sentiamo ripetere che la religione musulmana non c'entra nulla. Che l'islam è una «religione di pace». Perché non riusciamo ad ammettere che la religione islamica fornisce basi ideologiche al terrorismo?
  
«Non lo possiamo fare perché l'Unione Europea ha basato tutta la sua strategia mediterranea di alleanza con il mondo arabo e musulmano su questo argomento. Questa affermazione è stata la chiave che ha aperto all'immigrazione di milioni di musulmani, dal 1974, per costruire la nuova civilizzazione mediterranea euro-araba, unire le due sponde del Mediterraneo, incoraggiare la mondializzazione, sviluppare un blocco economico più forte degli Stati Uniti e distruggere i nazionalismi europei e le basi della cultura giudaico-cristiana. Questa strategia era legata al riconoscimento di Arafat da parte della Comunità europea, al suo sostegno ai Palestinesi contro Israele e alla giustificazione del terrorismo jihadista palestinese per distruggere lo Stato ebraico e sostituirlo con la Palestina».

- Alcuni dei jihadisti della strage di Parigi sono entrati in Europa come profughi, dalla Grecia. Secondo lei, che legame c'è fra l'immigrazione e il terrorismo islamico?
  
«Quella che si vede è una gigantesca invasione che può portare di tutto: terroristi, islamisti che vogliono islamizzare l'Europa senza essere criminali e gente che desidera soltanto vivere meglio. Guardando come gli immigrati sono stati accolti dai nostri governi e da varie organizzazioni in Europa favorevoli al mondo musulxxx mano, è lecito pensare che questo straordinario movimento abbia ricevuto l'approvazione dei leader dell'Unione Europea, in particolare di Jean-Claude Juncker. Questa invasione di massa dà l'impressione che l'Europa sia un continente vuoto, disabitato, dove chiunque, se vuole, può entrare e riceverà tutto ciò di cui ha bisogno per vivere».

- In Eurabia scrisse che gli «Euroburocrati», invece di combattere il terrorismo, lo sostengono. Secondo lei è ancora così?
  
«Gli Euroburocrati hanno sempre sostenuto il terrorismo palestinese contro gli ebrei e lo fanno ancora adesso. Non c'è in Europa una solidarietà con le vittime israeliane perché per l'Europa quelli che ammazzano uomini, donne e fanciulli ebrei nelle strade, nei ristoranti o in macchina non sono terroristi. Per via del fatto che l'Europa li sostiene - politicamente, finanziariamente, ideologicamente - e li giustifica. Se l'Europa riconoscesse che i suoi protetti sono terroristi, affermerebbe che lei stessa è una potenza terrorista. Si vede bene che i capi degli Stati europei menzionano tutti i Paesi colpiti dal terrorismo jihadista tranne Israele. Per loro gli israeliani sono sovrumani, non hanno diritti e non soffrono. Spero che le popolazioni europee che oggi sono colpite dallo stesso terrorismo che i loro governi hanno incoraggiato contro Israele per decenni mmostrerannosolidarietà verso Israele. Ma a parte Israele, molti governi europei e pure Obama hanno sostenuto i partiti radicali nella primavera araba, contro la volontà dei popoli».

- Qual è stato, negli anni, il ruolo della Turchia nella costruzione di Eurabia?
  
«È stato molto importante per le concessioni a favore degli immigrati in Europa, per la guerra contro ll'ex Yugoslavia nella lotta contro l'islamofobia, nella critica ai nazionalismi europei e per le misure di sicurezza contro il terrorismo, contro le limitazioni all'immigrazione musulmana. La Turchia di Erdogan è stata una forza d'islamizzazione sul continente fra le forti comunità turche immigrate».

- Secondo lei è giusto far entrare la Turchia nell'Unione Europea, anche considerando quello che è accaduto negli ultimi giorni?
  
«La Turchia di Erdogan non è quella di Atatürk. Ma nemmeno quella di Atatürk dovrebbe entrare nell'Unione Europea. Si possono fare trattati economici e politici, avere buone relazioni, ma la Turchia rimane una potenza musulmana che ha colonizzato una grande parte dell'Europa, distrutto l'Impero bizantino e per secoli ha personificato il potere del jihad e della shari'a, soprattutto contro i popoli cristiani che ha sottomesso con il jihadismo. Tutti questi princìpi religiosi e politici radicati nel Corano sono molto presenti nella Turchia attuale. Erdogan sogna di restaurare la potenza ottomana che aveva sottomesso i popoli europei fino all'Ungheria, controllando per secoli la Grecia, la Serbia, la Bosnia, la Bulgaria, la Romania. Si sarebbe potuto sperare che la Turchia - il Paese il più moderno e aperto del mondo musulmano iniziasse un'analisi critica dei testi fondamentali, ma Erdogan è ritornato secoli indietro, come hanno fatto gli Ayatollah dopo avere preso il potere».

- Torniamo al Califfato. Perché secondo lei lo Stato islamico attacca l'Europa, e in particolare la Francia?
  
«Lo Stato islamico attacca l'Europa perché questo è nella sua natura. Ubbidisce alla legge coranica che ordina l'islamizzazione del pianeta. Gli eserciti musulmani hanno attaccato l'Europa sin dal settimo secolo, siamo nella continuità della storia. La Francia è odiata per via del suo colonialismo, che ha lasciato un'importante influenza culturale; è anche un Paese molto debole, governato da persone incapaci e per di più ha una grande popolazione musulmana. Ma anche il Belgio, la Spagna e l'Inghilterra sono stati attaccati».

- Uno dei Paesi europei in cui si trovano più jihadisti è appunto il Belgio. C'è una strana ironia nel fatto che l'Ue abbia sede nello stesso luogo che ospita chi vuole distruggere l'Europa...
  
«Non c'è ironia... Chi vi dice che quelli che siedono su questo augusto trono, quello dell'Ue, vogliano mantenere l'Europa cristiana? Non hanno dichiarato più volte che l'Europa è ugualmente musulmana e cristiana? Non sono forse loro che hanno creato l'Eurabia?».

(Libero, 28 novembre 2015)


L'Isis, il Corano, l'ideologia

Gran documento Nato bombarda la dittatura del politicamente corretto applicato alla guerra al terrorismo.

di Claudio Cerasa

Com'era la storia del terrorismo islamico che non c'entra nulla con il Corano? Com'era la storia del reclutamento dei jihadisti che c'entra più con la povertà che con l'ideologia islamista? Com'era la storia che bombardare Raqqa è solo un'operazione spot? La notizia è gustosa, porta una firma pesante che è quella della Nato e vale la pena mettere in fila i tasselli per capire come si può bombardare la dittatura del politicamente corretto applicato alla guerra al terrorismo.
  E' successo questo. Ieri a Firenze il gruppo speciale Mediterraneo e medio oriente della Nato ha votato un documento non banale in cui il terrorismo viene aggettivato, in cui il sedicente Stato islamico viene inquadrato come una realtà territoriale che somiglia sempre di più a "una sorta di attore di tipo statuale" a tutti gli effetti, e in cui, soprattutto, viene spiegato in modo chiaro che il vero collante del Daesh è un mix così composto: "Riferimenti a idee radicali e figure note all'interno di una certa tradizione islamicosalafita"; "una visione estremamente rigida di ciò che viene considerato il 'vero credo' e il 'vero Islam'"; "un controllo sui territori iracheni e siriani che avviene da parte dello Stato islamico applicando la propria interpretazione della Sharia".
  La religione, dunque, c'entra eccome nella guerra combattuta dallo Stato islamico e anche la tesi di chi sostiene che sia scorretto parlare di terrorismo "islamico" per il semplice fatto che le vittime del terrore sono spesso uomini e donne di fede islamica viene smontata dal rapporto con due passaggi definitivi. Quelli che lo Stato islamico considera "i veri musulmani sono obbligati a lottare contro ogni interpretazione deviata delle fonti islamiche, come pure contro altre religioni e ideologie, al fine di costituire una società islamica pura, all'interno di un'area di supremazia islamico sunnita… La lotta dell'organizzazione non è diretta esclusivamente contro l'occidente, ma anche, all'interno del mondo islamico, contro gli sciiti e altre comunità musulmane non sunnite e contro i sunniti che si rifiutano di aderire alla causa".
  Il rapporto, curato dal presidente della delegazione italiana presso la Nato, Andrea Manciulli, fa poi un altro passo in avanti e ammette che la spinta ad aggregarsi alle truppe dell'Isis non ha nulla a che fare molto con povertà e disagio sociale ma ha a che fare con il fatto che oggi, con lo Stato islamico, "qualsiasi musulmano sunnita nel mondo, sentendosi oppresso o infelice per la propria condizione sociale e politica, ha ora la possibilità di aderire a uno 'Stato' in cui - secondo Daesh - sarebbe possibile vivere una 'vita islamica pura'. E per molti combattenti che si sono offerti volontariamente di aderire a questo cosiddetto Califfato, la prospettiva di essere in grado di difendere l'esistenza di uno 'Stato' islamico ha avuto un ruolo cruciale nel determinare la loro motivazione". Nonostante la Nato abbia dato un contributo forte nel promuovere un'azione finalizzata al semplice contenimento dell'Isis, il documento, seppure a denti stretti, riconosce che la proliferazione del fondamentalismo non è avvenuta come reazione a un'azione dell'occidente, ma è avvenuta facendo perno anche sul non intervento dell'occidente in Siria.
  "Fu l'evoluzione della guerra civile siriana nel 2012 che ha costituito il turning point dell'organizzazione fornendo il terreno ideale per la sua espansione e il rafforzamento". E' anche per questo che oggi, leggiamo ancora dal rapporto, siamo non in un semplice conflitto ma in "una vera e propria guerra ibrida". Ed è anche per questo, infine, che intensificare l'attività militare contro la capitale dello Stato islamico, Raqqa, non è una reazione emotiva ma è strategica, perché "Raqqa incarna il tipo di stato che il Califfato intende esportare al di fuori della sua effettiva area di operazioni". Il testo è chiaro, è persino in italiano, e non resta che sperare che a Palazzo Chigi qualcuno prenda appunti per rottamare il politicamente corretto sulla guerra allo Stato islamico.

(Il Foglio, 27 novembre 2015)


Israele: il primo consolato italiano nasce a Bari

E' Luigi De Santis il primo console onorario scelto dall'ambasciatore Naor Gilon

di Mariella Colonna

 
Luigi De Santis
Il trentunenne Luigi De Santis, ha una laurea in giurisprudenza ed un curriculum da enfant prodige. Per l'Ance è presidente dei giovani costruttori di Bari/Bat. Per la Camera di Commercio di Bari è membro della Consulta giovanile. Per il Fai (Fondo Ambiente Italia) è capo delegazione del gruppo giovani della provincia di Bari. Per Confindustria Bari/Bat è consigliere dei giovani industriali. Rappresenta la terza generazione di una famiglia di costruttori, è impegnato nell'edilizia privata e si accinge ad occuparsi a tempo pieno dello sviluppo dei rapporti tra la Puglia e lo Stato di Israele perché - il giovane De Santis - è stato scelto dal governo israeliano quale primo e unico console onorario in Italia per un ruolo molto impegnativo: incentivare i rapporti tra i due Paesi. Non a caso, la Puglia dopo la Lombardia è la seconda regione italiana ad esportare in Israele intelligenze e competenze.

- Perchè lo Stato di Israele lo ha scelto? O lei si è proposto?
  
Sono stato sperimentato sul campo quando - durante il 2014 - ho preso parte (invitato) ad una missione imprenditoriale organizzata dal ministero degli Esteri israeliano (eravamo circa 38 giovani under 40 provenienti da circa 18 Paesi diversi, io rappresentavo l'Italia meridionale) per sviluppare collaborazioni in base al ruolo professionale. Dopo quest'esperienza ho accompagnato l'ambasciatore Naor Gilon durante la sua recente visita in Puglia alla scoperta delle imprese pugliesi. Dopodichè la nostra conoscenza si è evoluta fino alla proposta di console. Non c'ho messo molto per decidere perché era il mio sogno nel cassetto.

- Quali affinità la legano a quel Paese?
  
Quelle che scaturiscono dalla mia visione geopolitica del mondo, dall'osservazione del loro modo di vivere e rispetto dei diritti umani. Israele è una delle più compiute democrazie esistenti, non fa discriminazioni di carattere religioso e sessuale. E in questo particolare periodo storico funge da stabilizzatore in quella parte di mondo.

- Lo conosceva?
  
Non le nascondo che in quel Paese ci sono stato diverse volte fin da bambino con la mia famiglia perché ho sempre apprezzato le sue bellezze naturali e culturali. Ci sono sempre tornato con molto piacere. Le emozioni che in me ha suscitato Gerusalemme le ho provate poche volte nella mia vita.

- C'entra l'elemento religioso?
  
Ho ammirazione per un luogo, Gerusalemme per l'appunto, che è al centro della religiosità mondiale.

- Nella sua famiglia ci sono radici ebraiche?
  
Non mi risulta. Ma non mi sento neanche di escludere di scoprire in futuro contaminazioni generazionali a giustificazione della mia inconscia ammirazione per quel Paese.
Israele è la nazione delle eccellenze. Conta il maggior numero di start up innovative avviate nel mondo, l'intelligence più preparata al mondo, la migliore tecnologia informatica militare applicata nell'àmbito civile, tra i titoli quotati al Nasdaq quelli israeliani sono i più numerosi dopo gli americani. Nel mondo dei brevetti, gli israeliani sono tra i primi in molti settori come la microirrigazione verticale, per fare un esempio, sperimentata durante l'Expo di Milano. Come anche nel comparto biomedicale moltissime aziende leader sono israeliane.

- Quale sarà il primo passo della sua attività di console onorario?
  
Per il prossimo quinquennio (la durata dell'incarico) mi impegnerò ad intensificare sinergie interculturali ad ampio raggio (imprenditoriali, economici, commerciali, accademici) ove già presenti, o crearne di nuove. Ed assistere gli israeliani presenti nella nostra regione.

- Quanti ne conta la Puglia?
  
Diverse decine. Non esiste ancora un numero preciso perché alcuni di questi non vivono nella nostra regione.

(Affaritaliani.it, 27 novembre 2015)


Israele alza un altro muro: anche Hebron sarà isolata

Violenze in Cisgiordania: uccisi tre palestinesi. Il ministro della Difesa Moshe Ya'alon ha annunciato la decisione: costruiremo entro l'anno una recinzione «moderna ed ermetica». Ancora una giornata di scontri e accoltellamenti.

di Susan Dabbous

GERUSALEMME - Costruiremo un muro difensivo ermetico per separare Israele da Hebron entro un anno». Così il ministro della Difesa israeliano, Moshe Va'alon, ha risposto mercoledì scorso in Parlamento alla domanda «cosa state facendo per prevenire gli attacchi terroristici» .
   A porre la questione è stato Miki Zohar, rappresentante del Likud, partito del premier Benjamin Netanyahu, nella circoscrizione di Kyriat Gat, dove sabato scorso un palestinese ha accoltellato, ferendo gravemente, quattro civili israeliani, tra cui un ragazzino di 13 anni. L'attentatore, che è stato arrestato dopo un tentativo di fuga, avrebbe attraversato il confine tra Territori palestinesi e Israele trovando una falla nella rete separatoria. Una recinzione inefficace e vetusta, ammette il ministro della Difesa che «verrà sostituita con una rete moderna ed ermetica, la stessa che separa Israele dall'Egitto». Si tratta di una barriera metallica rigidissima alta cinque metri. Non quindi i blocchi di cemento allineati, alti 8 metri, che separano Gerusalemme da Betlemme, e "proteggono" alcuni dei più grandi insediamenti israeliani nei Territori. Il nuovo muro si inserisce nel contesto dell'attuale ondata di violenza, l'Intifada dei coltelli", che ha registrato dal 1 ottobre ad oggi, 17 vittime israeliane (più un americano e un eritreo) e 97 palestinesi (compresi gli attentatori, molti dei quali originari di Hebron).
   Anche ieri non sono mancati gli scontri che hanno causato la morte di tre palestinesi. Il primo a cadere sotto i proiettili dei militari israeliani è stato il 21 enne Yahya Taha, ucciso durante scontri nel villaggio di Katana, vicino Ramallah. Nel pomeriggio, i soldati hanno poi colpito a morte un secondo palestinese, il 51enne Samer Hassan Siresee, che secondo la polizia era «sceso dal taxi con un coltello» a Tapuah vicino a Nablus. Infine il 20enne Khaled Iawabra, ucciso durante gli scontri scoppiati nel campo rifugiati Al-Arroub, vicino Hebron. Secondo una portavoce dell'esercito, il giovane stava per scagliare una bottiglia molotov contro un'auto israeliana. In base a fonti palestinesi, è stato lasciato agonizzare a lungo prima di permettere i soccorsi. Il presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen ha denunciato, in più occasioni, le esecuzioni a priori da parte israeliana, così si spiegherebbero decine di giovani vittime uccise per errore. Anche il segretario di Stato americano John Kerru, a conclusione di una visita lampo a Gerusalemme, tre giorni fa aveva ammesso: «Nessun passo avanti, almeno finché Israele non congela la costruzione di nuovi insediamenti nei Territori palestinesi».

(Avvenire, 27 novembre 2015)


Riportiamo questo articolo come esempio illustrativo di quella viscida stampa che vorrebbe presentarsi come oggettiva e ottiene il risultato di attizzare odio contro Israele anche di persone poco interessate che seguono distrattamente i fatti. Quando due bambini litigano gli adulti di solito chiedono: chi ha cominciato? Domande simili per Israele non si pongono. Nessun accenno all’origine di un fatto delittuoso: si parla genericamente di “scontri” e poi si dice come va a finire: militari israeliani che uccidono palestinesi. Sia ben chiaro, soprattutto ai religiosi cattolici di Avvenire: queste sono giornalistiche coltellate, simili in natura a quelle dei terroristi arabi palestinesi. Manifestazioni di odio in forma diversa, ma di pari gravità morale. Ne portano la responsabilità. M.C.


Sconfiggere il culto islamista della morte

L'ondata di attentati all'arma bianca funziona come un enorme deterrente contro qualsiasi idea di cedere il controllo sulla Cisgiordania.

L'umore nazionale è mesto; la paura del prossimo attentato, inesorabile. I critici dicono che il governo e le forze armate dovrebbero fare di più per prevenire gli attacchi. Può darsi, per esempio, che un luogo come lo svincolo di Gush Etzion, che è stato teatro di molte recenti aggressioni, debba essere protetto in modo più efficace, e le Forze di Difesa israeliane stanno studiando il modo di tutelare chi vi transita.
Ma il fatto è che in questo paese ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, vivono a stretto contatto fra loro. E quando gran parte della leadership politica e spirituale dei palestinesi, il loro sistema educativo, il grosso dei loro mass-media e dei loro social network predicano implacabilmente l'odio verso gli ebrei, l'illegittimità sostanziale dello stato ebraico e il presunto obbligo religioso di uccidere ed essere uccisi, è difficile proteggersi ermeticamente dalle conseguenze micidiali di questo indottrinamento.
Difficile che passi in fretta, quest'ultima ondata di terrorismo. Un'intera nuova generazione di palestinesi è stata imbottita di odio verso gli ebrei e Israele. Certo, non tutti i giovani palestinesi intendono lanciarsi coltello in pugno contro gli ebrei, non tutti sono stati stati reclutati nei campi della morte. Ma il presunto imperativo religioso spinge un numero sempre maggiore di loro ad agire, ormai più di uno al giorno...

(israele.net, 27 novembre 2015)


Respinto l'imam antisemita

Vince «Libero»: resta a casa l'imam che irride le stragi. Dopo la segnalazione del giornale, i sindaci di Verona, Firenze, Milano, Bologna e Torino negano le sale per i convegni di Abdelkafi. Aveva definito gli attentati di Parigi una commedia e diceva: gli ebrei vogliono conquistare i? mondo.

di Andrea Morigi

La ong islamica
La Islamic Relief è un'organizza- zione non governativa umanitaria internazionale che si definisce indipendente e apolitica. Viene sostenuta da centinaia di migliaia di donatori nel mondo e da istituzioni come l'agenzia delle Nazioni Unite e la Commissione Europea.

L'imam
L'imam egiziano Omar Abdelkafi è l'autore fra le altre cose di un video titolato "Caratteristiche degli ebrei codardi". In passato ha definito gli attentati di gennaio scorso a Parigi, alla sede di «Charlie Hebdo» e in un supermercato kosher, «la com- media alla quale i musulmani sono assoggettati fino alla nausea in tutto il mondo».

Il precedente
L'8 novembre, quindi prima dell' ultima strage di Parigi, un suo intervento alla Fiera musulmana di Bruxelles era saltato. L'ipotesi è che le autorità belghe non gli abbiano dato il visto d'ingresso. Vince «Libero»: resta a casa l'imam che irride le stragi.
Stavolta, grazie a Libero, il processo di islamizzazione arretra. Proprio da queste pagine, il 21 novembre, era stato lanciato l'allarme sulla visita in Italia di un ospite sgradevole, l'imam egiziano Omar Abdelkafi, invitato a parlare per raccogliere fondi a favore degli «orfani» palestinesi. Aleggiava il sospetto che si trattasse dei figli degli attentatori suicidi che avevano colpito Israele. E ora il convegno della ong islamica Islamic Relief, che si doveva tenere a Verona il 30 novembre, «non si farà più», annuncia il sindaco di Verona, Flavio Tosi. Il motivo è semplice: «Farneticava, sostenendo che gli attentati di Parigi fossero la seconda puntata delle comiche dell'11 settembre». Così, «in giunta abbiamo deciso di non concedere la sala dove avrebbe dovuto tenersi l'evento», spiega al programma di Rai Radio2 "Un giorno da pecora". Nessuna reazione ufficiale nelle moschee e, in ogni caso, il primo cittadino scaligero si mostra piuttosto indifferente: «Non mi interessa come l'ha presa l'imam, andrà a farneticare in un'altra città. La sala resterà chiusa».
   Contro la kermesse islamica si era schierata anche Forza Italia, con Massimo Giorgetti, vicepresidente del Consiglio Regionale del Veneto, che aveva avvertito dell'esistenza di «un limite il cui superamento diventa intollerabile», per non offendere «regioni e città tolleranti come il Veneto e Verona». Comunque, l'annullamento provoca un terremoto, che sulla pagina Facebook di Islamic Relief viene mascherato con una formula di circostanza: «È con grande dispiacere che vi annunciamo che per cause di forza maggiore il Dott. Omar Abdelkafi non sarà presente agli eventi della Notte della Speranza». Per Davide Romano, portavoce della sinagoga milanese Beth Shlomo, il segnale di speranza, semmai, è un altro: «Indipendentemente dai motivi della rinuncia, credo che mai come oggi ci sia bisogno di religiosi che parlano e predicano amore. Mi occupo di cultura e so bene quanto le parole siano importanti per costruire tolleranza. Per questo spero che parole di odio non vengano più pronunciate, visti i tragici risultati sotto gli occhi di tutti. Dalla Francia alla Tunisia passando per Gerusalemme i fedeli delle tre religioni di Abramo stanno pagando un prezzo altissimo».
   Rimarranno delusi i musulmani che avevano prenotato e pagato i biglietti per sentirsi incitare a farla finita con Israele, dato che la dottrina di Abdelkafi è la seguente: «Il Corano riferisce che gli ebrei hanno portato nella loro storia la corruzione sulla terra». Sarebbe stato poco opportuno, proprio mentre a Gerusalemme e in Cisgiordania è esplosa l'Intifada dei coltelli. E il personaggio risulta ancora meno sopportabile dopo le stragi islamiche del 13 novembre nella capitale francese, poiché nel gennaio scorso aveva giudicato gli attacchi contro Charlie Hebdo e il negozio kosher come «la commedia alla quale i musulmani sono assoggettati fino alla nausea in tutto il mondo».
   Dopo la denuncia di Libero, dal sito Informazione Corretta, anche Valentina Colombo, docente di Geopolitica dell'islam all'Università europea di Roma, aveva rincarato la dose, segnalando che Abdelkafi, in un video titolato "Caratteristiche degli ebrei codardi", ha affermato che «Allah non li ha colpiti con la voce, né con la spada, né con la lancia, né con le pietre, ma con gli angeli», che «occupano la terra sacra e noi dobbiamo combatterli sulla via di Allah», mentre «in un altro elenca tutti i versetti coranici che attaccano gli ebrei che hanno tradito il profeta e che Allah ha maledetto», e infine «ribadisce che gli ebrei vogliono conquistare il mondo e sono nemici dell'islam». In coincidenza poi con la giornata contro la violenza sulle donne, la Colombo ricordava altre posizioni sul tema di Abdelkafi, secondo il quale: «La donna che mostra i capelli al mondo intero, avrà commesso un peccato che merita il castigo della tomba».
   Poiché in Belgio ne hanno abbastanza di fomentatori di violenza, anche il suo ultimo appuntamento europeo, in programma alla Fiera musulmana di Bruxelles l'8 novembre scorso, era saltato. L'ipotesi non confermata è che le autorità non gli avessero concesso il visto d'ingresso. Ma i fondamentalisti non demordono. Pensavano che in Italia nessuno si accorgesse dell'evento, invece sono state cancellate anche le altre date, a Firenze, Milano, Bologna, Torino. Per sostituire l'ex ospite d'onore si ricorre a un oratore diverso, ma di minore richiamo, lo shaikh Amin Al Hazmi, imam bresciano, che è pur sempre membro del Consiglio europeo per la Ricerca e la Fatwa, cioè il network europeo dei Fratelli musulmani.
   
(il Giornale, 27 novembre 2015)


13 novembre in Iran. Ovazioni della folla: «Morte ad Israele»

Lettera al Giornale

Desidero raccontare una mia esperienza vissuta di recente in Iran. Il 13 novembre, solo qualche ora prima che accadesse il massacro di Parigi, mi trovavo nella grande e bella piazza di Esfahan, la città iraniana che credo sia la più laica, progressista e accogliente di quel Paese. Nonostante ciò, gli altoparlanti della grande moschea diffondevano il sermone del mullah, o dell'imam. E ogni tanto si sentiva l'ovazione dei fedeli. Incuriosita, ho preso da parte la guida del nostro gruppo di turisti e gli ho chiesto di tradurmi qualche passaggio della predica. Lui mi disse che sarei rimasta male se lo avesse fatto. Ma io ho insistito. Così son venuta a sapere che il religioso stava facendo un panegirico sulla pericolosità del veleno, un prodotto da tener lontano dalla portata dei bambini. Paragonava quel veleno all'Occidente e agli occidentali: bisognava diffidare da quel mondo nocivo. I cori di consensi invece rispondevano all'incitazione del predicatore che urlava: «Morte a Israele!». Un altro momento di sbalordimento l'ho provato a Kashan, città più radicale, quando nel bazaar un giovane mi ha guardato con astio ripetendo più volte una frase secca che non ho capito ma che conteneva la parola Tel Aviv. Insomma, per quel ragazzo la mia faccia era l'emblema di un odio che anima e incita il popolo a fare di ogni erba un fascio. E vero che gli iraniani, o sciiti, odiano l'Isis e non vogliono essere definiti arabi, ma il risultato non cambia. I musulmani credenti non sono nostri amici.
Maria Zamplierli
Belluno

(il Giornale, 27 novembre 2015)


Iran - Ministro dell'Economia: senza sanzioni il prossimo anno Teheran crescerà più dei vicini

TEHERAN - Secondo le previsioni economiche internazionali, il prossimo anno l'Iran, grazie alla rimozione delle sanzioni, registrerà la più alta crescita economica della regione. Lo ha dichiarato il ministro dell'Economia iraniano, Ali Tayyeb Nia, citato dall'agenzia di stampa iraniana "Irna", a margine dell'incontro ministeriale del Comitato permanente per la cooperazione commerciale dell'Organizzazione della cooperazione islamica. "Gli esperti internazionali - ha dichiarato il ministro - prevedono un futuro luminoso per l'economia iraniana. Con la rimozione delle sanzioni, l'Iran avrà più possibilità di accedere a risorse straniere fino ad ora inaccessibili. Questo - ha proseguito - porterà la Repubblica islamica ad esportare maggiori quantità di petrolio e a vendere allo stesso tempo quello in eccesso". Inoltre, ha aggiunto il ministro, la rimozione delle sanzioni sosterrà anche i settori bancario, assicurativo e dei trasporti, influendo positivamente sulla crescita economica iraniana ed aiutando il paese ad affrontare meglio l'inflazione e la recessione.

(Agenzia Nova, 26 novembre 2015)


Israele appoggia Putin: "Giocatore chiave in Siria"

Una fonte dell'esercito israeliano commenta così le tensioni tra Ankara e Mosca: "Il nostro approccio è 'vivi e lascia vivere'. La Russia non è il nemico, al contrario".

di Andrea Riva

Dopo l'abbattimento del jet russo, Putin ha un nuovo e potente alleato in Medio Oriente: Israele.
Un alto ufficiale dello Stato ebraico, riferendosi all'attuale situazione di crisi tra Ankara e Mosca, ha affermato che Israele non entrerà in azione se caccia russi dovessero entrare nel suo spazio aereo, ad esempio sul Golan, e che tra i due Paesi c'è coordinamento. "I russi sono qui - ha spiegato, citato dai media - e sono un giocatore chiave che non può essere ignorato. Il nostro approccio è 'vivi e lascia vivere'. La Russia non è il nemico, al contrario".
Una posizione controcorrente in quanto tra gli alleati della Russia in Siria ci sono anche Iran e Hezbollah, da sempre nemici dello Stato ebraico. Una scelta che, però, mostra come si stia cercando da più parti di mantenere i toni bassi per evitare escalation in Medio Oriente.

(il Giornale, 27 novembre 2015)


Il califfo e l'ayatollah, minacce equivalenti per l'Occidente

Intervista a Fiamma Nirenstein

di Osvaldo Baldacci

 
Fiamma Nirenstein
Oggi tutta l'attenzione è catalizzata sull'Isis, ma non bisogna dimenticare il quadro generale. C'è una tenaglia che si stringe sul Medio Oriente e sul mondo. È la tesi di fondo del nuovo libro della giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, "Il califfo e l'ayatollah" (Mondadori, pp. 144, 18 euro)

- Oggi l'Occidente sembra guardare all'Iran come un nuovo amico contro l'Isis: lei la vede diversamente…
  
Sono due pericoli che si equivalgono. Il califfo dell'Isis terrorizza il mondo con disgustose crudeltà che raggiungono anche l'Occidente, ma questo non ci deve far dimenticare che l'idea dell'esportazione della rivoluzione islamica e della conquista del mondo nasce con l'ayatollah Khomeini in Iran. Sono due estremismi contrapposti in guerra fra loro, da molto tempo. Nel libro racconto la sofferenza degli sciiti oppressi e al contempo quella dei sunniti anche di recente. Però da entrambi questi disegni di egemonia di sicuro è nato il terrorismo sia interno che internazionale. Esso è rivolto prima di tutto gli uni contro gli altri, e d'altra parte poi contro di noi. Il terrorismo dell'estremismo sunnita è sotto gli occhi di tutti ma sono stati gli sciiti in Libano a compiere i primi attentati contro i soldati americani e francesi, e si può ricordare l'attacco contro il centro ebraico a Buenos Aires del 1994.

- Cosa vogliono davvero il califfo e l'ayatollah?
  
L'obiettivo primario di questi due estremismi è il Medio Oriente. Non a caso l'Isis si è costituito come Stato con un establishment, una realtà territoriale e dei confini. Allo stesso tempo mentre salta in aria mezzo mondo per colpa dell'Isis, l'Iran è ormai padrone di diverse capitali: è sciita il governo di Baghdad e questo è uno dei motivi per cui è nato l'Isis; c'è la presenza diretta di iraniani ed Hezbollah sul terreno di varie crisi, e stretti alleati di Teheran controllano Damasco in Siria, Beirut in Libano e Sanaa in Yemen. Ma la cosa più terrificante è che l'Iran sta preparando la bomba atomica, e la risposta internazionale è stata che per la prima volta nella storia è stato fatto un accordo solo temporaneo. Il progetto di potere nucleare iraniano non è stato negato, e tra 10 anni avrà mano libera.

- La diplomazia internazionale sembra pensare che il nemico primario sia l'Isis, contro cui tutti - Iran incluso - si devono unire.
  
Il nostro nemico oggi prima di tutto è il terrorismo, e in futuro la conquista globale del mondo sognata da queste due forme estremiste di islam. Entrambe si servono del terrorismo e ci danneggiano sia per oggi che per domani. Non si dimentichi che l'Iran dice e ripete che ha il progetto di distruggere lo Stato di Israele. È una bandiera che gli consente di attrarre consensi, ma non è solo propaganda: nella pazzesca idea dell'estremismo islamico Israele rappresenta il primo nemico, un avamposto democratico in Medio Oriente.

- La pace fra israeliani e palestinesi potrebbe disinnescare molte tensioni?
  
La pace in Israele non cambierebbe nulla, di questo agli sciiti e ai sunniti che sono in guerra non importa nulla. La questione israelo-palestinese non è per niente una miccia. Quello di oggi, che sta contagiando anche i palestinesi - è un terrorismo ideologico e religioso. Bisogna capire che i morti israeliani sono identici ai morti europei.

- Ma quindi Israele e Occidente sono vasi di coccio fra vasi di ferro?
  
No, io credo profondamente nella nostra forza. Bisogna però riconoscere che esiste questa minacciosa tenaglia. Detto questo oggi c'è una prospettiva di vera pace perché ci sono tutte una serie di Paesi sunniti mediorientali che hanno interesse a battere sia lo sciismo radicale che il sunnismo radicale. La strategia vincente è l'alleanza con Giordania, Egitto e Paesi del Golfo. Sono gli interessi che muovono le soluzioni dei conflitti. Quindi è importante che si trovi l'unità di tutto il mondo, a partire dai Paesi arabi musulmani, per battere l'Isis e contenere l'imperialismo iraniano.

(Metro, 27 novembre 2015)


Sopravvissuta alla Shoah incontra duecento studenti a Pescara

L'occasione e' il 70o anniversario della fine della seconda Guerra Mondiale: 200 studenti del Liceo Classico 'Gabriele D'Annunzio' di Pescara hanno ascoltato, 'in un viaggio della memoria', organizzato dall'associazione di promozione culturale e sociale 'Il Pane e le Rose', Liliana Bucci, 78 anni, una delle bambine sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, fino alla liberazione effettuata dall'Armata sovietica il 27 gennaio 1945. "Mia madre era ucraina ed ebrea, mio padre cattolico. A fine marzo del 1944 fummo denunciati da una persona italiana e i nazifascisti ci vennero a prendere. Fui anche fortunata, perche' fui deportata insieme ad altri dodici familiari, tra i quali mia sorella, ma a tornare fummo in quattro, una percentuale altissima, considerando che furono annientati interi nuclei familiari".
   Questo il ricordo di Liliana, che oggi risiede a Bruxelles mentre quando venne catturata, a 7 anni, viveva a Fiume. "Il ricordo piu' vivo e doloroso della mia esperienza nel campo di sterminio di Auschwitz e' legato a mio cugino Sergio, che raccolse l'invito del gerarca nazista Josef Mengele, credendo di raggiungere la madre - racconta la donna -. In realta' venne inviato ad Amburgo, dove fu sottoposto ad esperimenti scientifici che gli procurarono enormi sofferenze, per poi essere ucciso prima dell'arrivo degli alleati. Io e mia sorella ci salvammo perche' la donna che si occupava di noi ci disse di non accettare - aggiunge la sopravvissuta - mentre purtroppo mio cugino volle andare per forza e non torno' piu'". Bucci aggiunge: "E' la prima volta che vengo a Pescara e sono stata accolta benissimo. Continuo ad incontrare migliaia di studenti per tenere viva la memoria e se ogni volta resta qualcosa, anche solo ad un piccolo gruppo di studenti, e' gia' una vittoria".
   "A 70 anni di distanza dalla fine delle atrocita' vissute durante la seconda guerra mondiale, siamo di fronte ad una nuova barbarie internazionale: politicamente manca l'Europa". Cosi' Liliana Bucci, 78 anni, una delle bambine sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, fino alla liberazione effettuata dall'Armata sovietica, a margine di un incontro con gli studenti del Liceo Classico Gabriele D'Annunzio di Pescara. "I terroristi di oggi non guardano in faccia a nessuno - aggiunge la sopravvissuta - ma credo che una cosa come quella accaduta a noi ebrei sia irripetibile".
    "L'Italia deve ancora fare i conti con il suo passato e con le gravi responsabilita' del Fascismo. La Germania lo ha fatto, il nostro Paese no. Credo di non aver mai odiato i tedeschi, ma di averne avuto sempre grande paura - racconta Bucci -. Con il tempo ho capito che non tutti i tedeschi erano nazisti e mi sono riconciliata", ha aggiunto. "I palestinesi dovrebbero avere il loro Stato ma credo anche, pero' - osserva la donna - che i palestinesi debbano riconoscere lo Stato di Israele".

(Notizie d'Abruzzo, 26 novembre 2015)


Quella della Turchia non è la prima pugnalata alle spalle

di Mario Rimini

 
Quando ai tempi della Freedom Flotilla Erdogan tradì e scaricò brutalmente l'esemplare alleanza con Israele e si fece portavoce e paladino del più bieco antisemitismo di strada, nessuno in Europa batté ciglio. Al contrario. Le analisi e i commenti si concentrarono sulla forma, anziché sulla sostanza. Si persero cioè in disquisizioni su Gaza e sull'occupazione e sul finto pacifismo anti-israeliano. E così facendo, persero la notizia.
  Perché la notizia era invece che un paese fino ad allora vicino all'Occidente, tradizionalmente alleato d'Israele, musulmano di retaggio ma laico nelle istituzioni, all'improvviso aveva voltato casacca, indossato i panni dell'islamismo antisemita, e fatto quello di cui oggi il presidente Putin ha accusato Ankara dopo l'atto di guerra compiuto dall'esercito turco ai danni di quello russo: una pugnalata alle spalle.
  Perché con la famigerata Freedom Flotilla Erdogan aveva prestato il nome e il prestigio della Turchia intera a un manipolo di banditi armati e camuffati da operatori umanitari, e salpati alla volta d'Israele per compiere un'azione di guerra vera e propria. Ciò aveva in cambio offerto a Erdogan il pretesto e la scusa per trasformare un episodio di teppismo spicciolo in un incidente diplomatico tra stati, e di esporre Israele al linciaggio internazionale mentre lo stesso Erdogan si faceva megafono delle più trite e becere bugie antisemite e anti-israeliane. Gli europei non se me accorsero. Eppure, la pugnalata era anche per loro, e per l'Occidente intero.
  Basterebbe questo fatto per fornirci la chiave di lettura di quanto avvenuto in Siria - l'abbattimento di un caccia russo da parte della Turchia e su ordine addirittura del suo Primo Ministro. Ma c'è molto di più, purtroppo. C'è la fine dell'eccezione turca, decretata dalle trame ottomane di Erdogan e dall'ingenua passività dell'Europa che poteva fare qualcosa, e ha fatto la cosa sbagliata. Perché i nostri leader, prostrati alle sirene malvagie del multiculturalismo, del relativismo, del tedzomondismo e dell'orientalismo, sono rimasti prigionieri dell'incapacità da questi generata di comprendere le dinamiche sociali, politiche e religiose di paesi che non appartengono alla nostra Civiltà.
  E così quando il burattinaio Erdogan ha demolito pezzo per pezzo le fondamenta laiche della Turchia voluta da Atatürk, l'Europa ha addirittura apprezzato, confondendo quella che era in effetti una strategia di prevaricazione da parte dell'islam politico con un'asserzione di tolleranza religiosa e di maggiore democrazia. Quando Erdogan cancellava la garanzia dell'esercito alle istituzioni della Turchia moderna - garanzia ancora voluta da Atatürk perché sapeva, il padre della patria, che la maggiore minaccia alla modernizzazione del paese era rappresentata dall'islamismo latente - l'Europa plaudiva, confondendo una subdola manovra autoritaria in nome dell'islamizzazione, che minava il progresso turco e ne cancellava definitivamente l'eccezionalità, per un'illuminata politica anti- militarista e in favore della società civile.
  Un abbaglio continuo, divenuto cecità, e la cui conseguenza è il fatto incontrovertibile che la Turchia europea non esiste più, traghettata da Erdogan nel cuore del Medio Oriente di trame, involuzione e paludi che la nostra ingenuità non riesce a guadare. Abbiamo assistito inerti e rimbambiti all'assassino della Turchia moderna e alla sua resurrezione nel torbido impero di mezzo ottomano-islamista di Erdogan. Ne abbiamo approvato e lodato il veleno. E così abbiamo perso Istanbul, e ci ritroviamo Ankara.
  Il guaio, però, è che perseveriamo nell'errore. E c'è un motivo. L'elemento forse più grave dell'aggressione turca ai danni della Russia è il commento immediato di Obama che l'ha definita "giusta". Cioè il leader dell'Occidente ha dimostrato di essere ancora prigioniero dello schema scellerato per cui la Russia, che combatte anche nel nostro interesse in Siria, è nostra nemica. Mentre la Turchia, la cui ambiguità vergognosa nell'affare dello Stato Islamico è il riflesso torbido della sua deriva traditrice, sarebbe ancora degna del rapporto privilegiato che ha permesso a Erdogan di prosperare mentre continuava a colpirci alle spalle con il suo pugnale di despota.
  E' questo, oggi, il dramma che l'Occidente vive. Perché l'Occidente e' l'America. Senza Washington, l'Europa e' un fortino assediato senza più guarnigione ne' comando. Ma l'America di Obama è stata per le nostre sorti prima delusione, poi disastro, infine incubo. E il conto della sua politica miope e confusa si paga ormai sempre, e soltanto, in euro. Ciò è vero per la politica di isolamento della Russia che divide l'Europa, trasformandola da mercato aperto e processo di integrazione a fortezza rinchiusa nel filo spinato di una nuova cortina di ferro; per la Siria, dove gli americani hanno perseguito scopi ambigui fidandosi ingenuamente di chi li odia e provocando un terremoto che si è tradotto nello tsunami di rifugiati che però non si accalcano disperati a Ellis Island, bensì alle porte esangui dell'Unione Europea.
  Il danno per l'Europa è gigantesco, perché i profughi portano con se' dilemmi terribili, fantasmi che agitano società sconvolte dal terrorismo, motivi di litigio e divisione tra stati membri, radicalizzazione politico-sociale, indebolimento del regime di libero scambio e circolazione. Insomma la faccenda dei profughi mette l'Europa a soqquadro, ne minaccia la stabilità e l'unità, e ne indebolisce la leadership, al punto che persino Angela Merkel trema su un trono che fino a ieri sembrava una roccia. La responsabilità, senza attenuanti, è del pasticcio di Obama. E la Turchia ne approfitta, così come approfitto' ai tempi della crisi con Israele dei bassifondi antisemiti delle nostre società.
  Lo fa perché può. Perché a dispetto dei fatti che indicano che Ankara è oggi al pari di Teheran o Ryadh - lontana, lontanissima da noi - essa continua a godere dell'appartenenza alla NATO, in seno alla quale è quinta colonna e alleato fasullo. E non è un caso che subito dopo aver compito un gesto di pirateria militare ai danni dello sforzo bellico russo contro un nemico che e' il nostro nemico - lo stato islamico - Ankara ha convocato la NATO. Perché il suo interesse è trasformare la sua ingiustificabile aggressione nella contrapposizione tra Occidente e Russia. E Obama sta al gioco, e rilancia.
  Qualcuno allora, per cortesia, dica qualcosa. Se c'è ancora un giudice a Berlino, o a Bruxelles, o a Parigi - che alzi la voce con un'America ormai fuori controllo. Che archivi per sempre, l'Europa, il progetto ormai folle di un'associazione di qualunque tipo con la Turchia islamico-ottomana di Erdogan. Che apra gli occhi, Bruxelles, sul fatto che mentre le sue strade deserte ci raccontano della sconfitta della nostra civiltà, l'esercito russo fa per noi il lavoro sporco in Siria, osteggiato persino da un paese che dovrebbe essere nostro alleato, ma gioca invece chiaramente per la squadra avversaria. L'Europa ha bisogno della Russia così come ne aveva bisogno durante la seconda guerra mondiale. Mentre Ankara è la serpe in seno di cui dobbiamo sbarazzarci. Abbiamo anche la fortuna di non doverci alleare con Stalin, ma con Putin.
  Eppure sino a ieri, mentre le portaerei francesi e russe si incontravano nel mediterraneo da alleati e partner in guerra, l'Occidente decideva di estendere le sanzioni contro Mosca fino al luglio 2016. Una schizofrenia imperdonabile. Di cui l'America, e il peggiore dei suoi presidenti, dovranno un giorno rispondere alla Storia.

(l'Occidentale, 26 novembre 2015)


Petrolio e mani sulla Siria. Il gioco sporco della Turchia

Il governo di Ankara punta a diventare il Paese guida dell'islam sunnita. A costo di trascinare la Nato nel conflitto.

di Riccardo Pelliccetti

Che la Turchia faccia il gioco sporco in Siria è cosa nota. D'altronde, è in buona compagnia, ci sono tanti attori e troppi interessi divergenti sul sanguinoso palcoscenico mediorientale.
  Ma qual è veramente il ruolo del Paese guidato dal partito islamico di Erdogan? In parole semplici, Ankara ha principalmente un obiettivo: affermarsi come potenza regionale e come Paese guida dell'islam sunnita. Una spinta impressa da Erdogan, che dopo dodici anni di potere assoluto ha islamizzato il Paese e avviato una politica espansionista. Non è un segreto che intenda trasformare il nord della Siria, tra Aleppo e Latakia, nella 82ma provincia, giocando la carta dei fratelli turcomanni che vivono nell'area: lo hanno scritto a chiare lettere i quotidiani turchi Hurriyet e Takvim. Nessuno scandalo, anche la Siria considera il Libano una sua provincia e in passato ha agito come se lo fosse. Ma qui la partita è più grande, come sono maggiori le possibilità che il conflitto si allarghi.
  E ciò farebbe gioco a Erdogan, il quale preme per un intervento militare che gli consenta di neutralizzare l'asse sciita: Iran, Siria e Hezbollah.«Questo è probabilmente l'inizio del conflitto tra la Turchia e l'Iran ha detto il politologo Edward Luttwak intervistato da AffariItaliani dopo l'abbattimento del jet russo -. Teheran è l'autore della strategia di Assad. Per l'Iran, il presidente della Siria è essenziale, esattamente come lo sono gli Hezbollah. È l'asse sciita. I russi ora entrano in Siria per appoggiare Assad e i turchi abbattono un aereo russo. Tutto questo porterà alla guerra tra la Turchia e l'Iran». Come si è arrivati a questo punto? Sono quattro anni che la Turchia cerca di rovesciare Assad e, per farlo, ha finanziato la guerriglia e i terroristi contro il regime di Damasco, ha riempito i propri aeroporti di foreign fighters per farli passare in Siria e ha bombardato i curdi, nemici dell'Isis, invece che lo Stato Islamico. Non basta.
  Ha acquistato nel Califfato petrolio di contrabbando a 15-20 dollari al barile e poi lo ha rivenduto al doppio del prezzo. Ma Assad è ancora al potere, grazie all'asse sciita, ma soprattutto grazie all'intervento russo che ha frustrato i sogni imperiali di Erdogan. Il presidente turco non ha nascosto il motivo dell'abbattimento dell'aereo russo: abbiamo agito così per difendere la nostra sicurezza e «i diritti dei nostri fratelli» in Siria. Di quali fratelli parla? Dei turcomanni sicuramente, ma anche delle organizzazioni terroristiche sostenute da Ankara, molte delle quali hanno giurato fedeltà allo Stato islamico. Nel vertice di Vienna di fine ottobre, la Russia ha chiesto all'asse sunnita, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, di stilare una lista di oppositori moderati da portare al tavolo delle trattative per il dopo Assad. Naturalmente Erdogan e compagnia hanno escluso i loro protetti dalla lista dei terroristi, non legittimati perciò ai colloqui. Ma Putin non ha intenzione di lasciar smembrare la Siria, un Paese amico, su cui Mosca può contare per le sue basi militari nel Mediterraneo. La Turchia ora sembra cercare un casus belli, coinvolgendo pure la Nato, come denunciava un anno fa il generale tedesco Harald Kujat. Ex capo di stato maggiore e membro della Commissione militare Nato, Kujat ha accusato Ankara di puntare all'intervento dell'Alleanza, invocando la clausola di mutua assistenza, per i suoi loschi interessi. «La Turchia vuol trascinare la Nato in questa situazione perché lo scopo reale è abbattere Assad ha detto Kujat ad Ard-Tv -. Le azioni dell'Isis e quel che accade ai curdi sono secondarie. Deve essere chiaro che un alleato che si comporta così non merita la protezione dell'Alleanza». Parole che Luttwak ha ribadito due giorni fa. «La Turchia ha tradito la Nato negli ultimi tre anni, quando si è rifiutata di cooperare e ha permesso allo Stato Islamico di diventare forte comprando il petrolio. Ankara ha reso lo Stato Islamico potente e mentre gli americani armano i curdi, che combattono l'Isis, i turchi li bombardano. È peggio avere la Turchia alleata della Nato che nemica».

(il Giornale, 27 novembre 2015)


Prima della gara tra Manchester United e PSV i tifosi ospiti cantano: "Chi non salta è un ebreo"

I tifosi del PSV sono stati filmati a Manchester intenti ad inneggiare cori antisemiti prima della sfida di Champions League contro il Manchester United.
Una folla di tifosi della compagine olandese si sono riuniti fuori dal pub di Manchester Crown & Anchor in Exchange Square a poche ore dalla sfida contro la squadra di Van Gaal.
Trascinati dai due capitifosi nel muro sopra la piazza hanno cantato per diverso tempo 'chi non salta è un ebreo' in riferimento ai rivali dell'Ajax, storicamente la squadra della comunità ebrea.
Il coro è conosciuto in Olanda come un canto anti-Ajax: in Inghilterra ha immediatamente generato indignazione ad Amsterdam e lamentele nella stessa Manchester.

(Goal.com, 26 novembre 2015)


Monaco di Baviera - Il presidente del Bayern ebreo perseguitato dal nazismo

di Concetto Vecchio
Video di Fabio Colazzo

Il racconto dell'avvocato Uri Siegel, nipote di Kurt Landauer, il presidente del primo scudetto del Bayern, rinchiuso da Hitler a Dachau. "Solo grazie agli ultrà è stato riscoperto".

(la Repubblica, 26 novembre 2015)


Il terrorismo è ideologia, non povertà

I numeri per smentire la tesi del "terrorista disagiato"

di Marco Valerio Lo Prete

A valle di "violenza e terrorismo" ci sono "povertà e frustrazione", ha detto ieri Papa Francesco. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, sul Corriere della Sera aveva scritto che "la lotta al terrorismo si fa con una politica sociale (…). Bruxelles, Parigi, le loro periferie, sono mondi a rischio. Bastano poche persone per fare tanto male. I tagli sulla politica sociale si pagano".
Nemmeno troppi giri di parole: riduci la generosità del welfare, e avrai qualche potenziale terrorista islamico in più pronto a un eccidio in stile Bataclan. Trattasi di tesi ammaliante, soprattutto apparentemente lineare e sicuramente rassicurante. Ma rimane una tesi debole, smentita da una mole di studi e di aneddotica. Si potrebbe riprendere in mano un libro di Alan Krueger pubblicato per la prima volta nel 2007, "What makes a terrorist", nel quale l'economista che lavorò alla Casa Bianca prima con Bill Clinton e poi con Barack Obama scriveva che "se povertà ed educazione inadeguata fossero le cause, anche secondarie, del terrorismo, allora il mondo brulicherebbe di terroristi che vogliono distruggere la nostra way of life". Invece dopo l'11 settembre si scoprì per esempio che il 35 per cento degli affiliati di al Qaida aveva una laurea, il 45 per cento apparteneva alla categoria dei "professionisti". E altre statistiche simili. Conclusione: i terroristi tentano di imporre cambiamenti politici, le matrici ideologico-religiose sono fondamentali.

(Il Foglio, 26 novembre 2015)



Gli FF
Filosofi Filbustieri
di Adolf Hitler


Germania 1933
Il 10 maggio 1933 a Berlino l'attesa era palpabile. La fresca aria notturna dava un'impressione di calma, ma tutta la città era percorsa da ombre che si formavano e si dissolvevano, accompagnate da guizzi di luce argentea. Un battere regolare scaturiva come dalle profondità della terra e un tenue bagliore ambrato si insinuava tra le piazze e gli edifici. Poi il ritmo cambiò e un serpente di fuoco si alzò dalle tenebre, accompagnato da una miriade di figure che prendevano parte al rituale procedendo a zigzag nel reticolo delle vie.
   Da Hegelplatz - la piazza che prendeva il nome dal grande pensatore del diciannovesimo secolo - partì un lungo corteo di studenti che marciavano a colonne serrate e con le fiaccole in pugno. Erano diretti a Opernplatz, la piazza dell'Opera, di fronte alla Friedrich-Wilhelms-Universität, e una volta arrivati si sparpagliarono per accendere un enorme falò. Nel cielo nero si levarono fiamme dorate, seguite ben presto da pennacchi di fumo grigio e dalle esalazioni del carbone. A quel punto dalle tenebre emersero frotte di giovani infervorati, in tenuta militare e con il tipico cappello piatto di colore chiaro. I gruppi in uniforme cominciarono ad assembrarsi con un'eccitazione febbrile, suonando, pronunciando «giuramenti al fuoco» e scandendo motti, mentre le bandiere si gonfiavano al vento. Tutti respirarono il vapore denso che riempiva l'aria, l'odore del fumo prodotto dal legno. Di lì a poco sul terreno ci sarebbe stato solo un cumulo di resti carbonizzati, ma prima bisognava gettare ancora qualcosa sulla pira: davanti alla massa scura della folla esultante riluceva il bianco vivido di un'immensa catasta di libri. Per un istante le pagine mandavano un bagliore intenso, quasi prendendo vita tra le fiamme, prima di sbriciolarsi e trasformarsi in cenere come colpite da una malattia fulminante.
   Quella sera d'inizio estate Berlino fu teatro del rogo pubblico dei libri «antitedeschi» da parte delle SA, le Sturmabteilungen (squadre d'assalto), un reparto paramilitare nazista, con la complicità degli studenti universitari. Manifesti affissi in tutta la città avevano reso noto l'evento: l'Associazione degli studenti nazionalsocialisti invitava alla «"pubblica messa al rogo delle deleterie opere ebraiche" [... ] in risposta allo "sfrontato incitamento" dell'ebraismo mondiale contro la Germania». L'elenco dei libri condannati comprendeva i testi dei filosofi ebrei Baruch Spinoza e Moses Mendelssohn, ma anche le opere di Sigmund Freud, Karl Marx e Albert Einstein. Ad alimentare il fuoco quella notte c'erano anche i libri di Heinrich Heine, il poeta tedesco del diciannovesimo secolo nato in una famiglia ebrea assimilata. Nel discorso tenuto per l'occasione Joseph Goebbels definì il rogo «il simbolo [...] della rinascita ». Più di venticinquemila libri furono dati alle fiamme davanti alla folla acclamante. Alfred Bäumler pronunciò a sua volta un discorso di incitamento e soprintese all'organizzazione con occhi da falco, gongolando di piacere. Ma non era lui il superuomo di Hitler, e nemmeno Goebbels.
   Pochi giorni prima a Friburgo, nella Germania meridionale, c'era stato altro fuoco, ma solo di propaganda. In un'elaborata cerimonia pubblica, con gesto dimostrativo, uno dei più stimati professori di filosofia dell'intero Paese aveva aderito al partito nazista. Si era iscritto lo stesso giorno di Carl Schmitt e aveva ricevuto la tessera numero 3 125 894. La data, stabilita di comune accordo con le autorità naziste, era una scelta simbolica: il Primo maggio, «festa nazionale della comunità popolare». L'invito diramato a studenti e docenti era «nello stile di una cartolina precetto». Nel suo discorso il celebre professore annunciò che il Terzo Reich avrebbe portato alla «costruzione di un nuovo mondo spirituale per il popolo tedesco». La costruzione del nazionalsocialismo, dichiarò, «diventa compito fondamentale dell'università tedesca». Poi proseguì elogiando gli obiettivi di Hitler e salutando la nazificazione delle università come «compito nazionale, nel senso e al livello più elevato».
   Il quotidiano nazista locale tributò il massimo rispetto al famoso pensatore: «Sappiamo che [il professore], con il suo alto senso della responsabilità morale, con la sua premurosa sollecitudine verso il destino e il futuro del popolo tedesco, è nel cuore del nostro movimento». Lo stesso giornale ne tesseva le lodi a non finire, affermando che «per anni ha sostenuto attivamente il partito di Adolf Hitler nella dura lotta per l'esistenza e il potere [...] nessun nazionalsocialista ha mai bussato invano alla sua porta».
   Il filosofo in questione era Martin Heidegger, professore all'Università di Friburgo e luminare fra i più eminenti in Germania. Aveva una mente vulcanica, idee folgoranti: ecco un vero «superuorno».
   Heidegger non aveva esitato a incensare il Führer e meno di tre mesi dopo la nomina a cancelliere di Hitler, avvenuta il 30 gennaio 1933, gli era stato conferito il rettorato dell'ateneo in cui insegnava. Il suo nuovo incarico era stato salutato come «un passo verso l'allineamento nazionalsocialista delle università tedesche».


 


Il canto ebraico di Miriam Meghnagi

Ospite della rassegne Emergenze Mediterranee una delle principali interpreti e studiose del patrimonio musicale ebraico. Sabato 28 novembre a Nereto (TE).

Miriam Meghnagi
NERETO - Un viaggio attraverso frontiere, esodi e memorie quasi perdute. Il canto e le parole di Miriam Meghnagi, considerata una delle principali interpreti e studiose del patrimonio musicale ebraico, riportano alla luce le tradizioni del suo popolo e storie che nel corso del tempo sono diventate Storia.
Miriam Meghnagi sarà sabato 28 novembre a Nereto per la rassegna Emergenze Mediterranee. In scena, alle ore 21 nella Sala Salvador Allende del Comune, lo spettacolo di musica e narrazione "Gibilterra - Tripoli - Gerusalemme, via Roma: il canto ebraico di Miriam Meghnagi". L'ingresso è gratuito.


Miriam Meghnagi è nata a Tripoli da un'antica famiglia ebraica. Si è laureata in filosofia all'Università di Roma "La Sapienza", specializzandosi in psicologia dinamica e in etnomusicologia. Ha tenuto concerti in prestigiosi teatri d'Europa, in Israele, Giordania, Grecia, Turchia, negli Stati Uniti, in Canada e in America Latina. Ha cantato per la pace nel mondo e tra le religioni in significative manifestazioni. Il suo repertorio, continuamente arricchito da ricerche sul campo e de originali elaborazioni e composizioni, abbraccia l'insieme delle tradizioni ebraiche e mediterranee in varie lingue e dialetti (ebraico, arabo, ladino, judezmo, yiddish, bajitto, ecc.).

(L'Opinionista, 26 novembre 2015)


Due mesi a Dieudonné: «Incitamento all'odio»

Nuova grana giudiziana per il controverso comico francese Dieudonné Mbala Mbala. Un tribunale di Liegi, in Belgio, ha condannato l'artista di origine camerunense a due mesi di carcere e a una multa da 9mila euro per lo spettacolo «La Fabrik» che mise in scena nel 2012 a Herstal e che contiene commenti considerati antisemiti e «negazionisti». Il tribunale ha fatto sapere che il giudice ha considerato che, con le affermazioni «razziste e incitanti all'odio» fatte nello spettacolo, Dieudonné ha «fatto propria» le tesi del regime nazista riguardo alle persone con difficoltà mentali, agli ebrei e agli omosessuali. Il tribunale ha inoltre sottolineato che i commenti fatti durante lo spettacolo erano «radicali, xenofobi, discriminatori e antisemiti». Incitavano anche all'odio e alla violenza e lo spettacolo in sé era colmo di «cliché antisemiti». La Corte ha inoltre ritenuto che il comico ha «formulato, attraverso il suo spettacolo, un richiamo al genocidio, un invito a cristiani e musulmani a unirsi per uccidere gli ebrei». La pena prevede anche che Dieudonné faccia pubblicare a sue spese la sentenza su due quotidiani francofoni belgi, Le Soir e La Libre Belgique. Già perseguito dalla giustizia francese per alcune affermazioni pronunciate durante lo spettacolo «La bestia immonda», il comico dovrà presentarsi anche davanti al tribunale di Parigi il prossimo 26 febbraio.

(Avvenire, 26 novembre 2015)


Rita Berkowitz, la più bella tra le sopravvissute alla Shoah

Eletta 'regina' a Haifa a 83 anni; donne simbolo di eroismo.

Una vittoria postuma contro chi gli ha rubato la giovinezza: a 83 anni suonati, Rita Berkowitz è stata eletta in Israele la donna più bella tra le sopravvissute alla Shoah. I giurati hanno scelto lei tra 14 finaliste, tra cui molte sulla novantina: un omaggio a donne "regine di vita", per usare le parole di chi ha curato il concorso che da tre anni si svolge a Haifa. Organizzato da una casa di riposo per anziani con il sostegno di organizzazioni per i sopravvissuti alla Shoah e anche di un gruppo cristiano, l'evento è diventato oramai una tappa fissa. Come ha spiegato Ronit Stashevsky, organizzatrice della manifestazione, citata da Maariv, "queste donne sono simboli di eroismo... e una lezione per i nostri figli".

(ANSA, 25 novembre 2015)


In Cisgiordania
c'è un'App per sapere quanta fila c'è al check-point

di Fabio Scuto

I posti di controllo e i check point nella Cisgiordania occupata
occupata illegalmente dalla Giordania nel 1948 e liberata da Israele nel 1967
- sia a nord che a sud - e a Gerusalemme sono diventati talmente tanti che ogni spostamento, anche il più breve - comporta ore per le lunghe file di auto. Uno studente palestinese di informatica ha lanciato in questi giorni un app gratuita su tutte le piattaforme, si chiama AZMEH ed è in grado di dire quante ore di fila ci sono ai "barrage" più utilizzati dai lavoratori palestinesi per entrare in Israele. AZMEH si basa sulla stessa idea dell'israeliana WAZE, un po' navigatore un po' social network. Sono gli stessi utenti a passare le informazioni all'app.
Le misure di sicurezza dopo due mesi di intifada dei coltelli - con quasi cento tentativi di accollamenti che hanno ucciso 19 israeliani mentre 120 palestinesi sono morti nelle violenze o con il coltello in mano - sono diventate stringenti, modificando ancor più le abitudini della popolazione civile. Anche per un Paese abituato all'emergenza terrorismo come Israele, con i posti di blocco all'uscita e all'ingresso dei quartieri arabi della Città Santa. Limitati gli spostamenti anche in Cisgiordania che è da ieri pattugliata dall'esercito israeliano come un "territorio nemico". Road blocs e check point sono stati messi su tutte le strade. Per ogni singola auto o camion c'è una minuziosa ispezione, dai bus vengono fatti scendere tutti i passeggeri e perquisiti uno per uno. Oggi, per andare da Hebron a Betlemme - una distanza di meno di 15 km nel sud della Cisgiordania - ci vogliono 3 ore.

(la Repubblica, 25 novembre 2015)


Comites Israele: moltissimi gli episodi di violenza, ma la stampa italiana è distratta

"Ci rifiutiamo di pensare che per la stampa italiana il sangue israeliano possa valere meno di quello europeo".

"I Com.It.Es. di Israele esprimono la propria viva preoccupazione per le modalità con le quali i media italiani stanno coprendo i recenti episodi di violenza in Israele. In due mesi in Israele ci sono stati 23 morti e 186 feriti in 75 attacchi coi coltelli, 10 con armi da fuoco, 11 per investimento automobilistico premeditato. Ci rifiutiamo di pensare che per la stampa italiana il sangue israeliano possa valere meno di quello europeo". Così in una nota i Comites di Tel Aviv e Gerusalemme.
"Rileviamo che una pratica purtroppo diffusa è quella di riportare con dovizia di particolari la reazione da parte israeliana, senza mai dare rilievo all'attacco che ha generato tale reazione. Questo stravolgimento tra causa (aggressione armata) ed effetto (intervento delle forze dell'ordine) in spregio a qualsiasi etica si intensifica quando sul suolo israeliano arrivano i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e la cronaca riferisce la 'controffensiva' di Gerusalemme prima ancora di aver raccontato il fatto. Anche nell'uso degli appellativi rileviamo ci sia in atto una pericolosa deriva giustificativa: vengono chiamati 'aggressori', o genericamente 'adolescenti', senza che si identifichi mai un 'terrorista' come tale, con il risultato che lettori e telespettatori sono indotti a credere che gli israeliani uccidano in modo ingiustificato. Sono decine gli episodi in cui la stampa italiana ignora notizie e minimizza le responsabilità degli assassini, quando non cerca addirittura di conferire un'aura romantica agli attentatori palestinesi".
"Come italiani residenti in all'estero - si legge ancora nel comunicato -, siamo particolarmente turbati dai recenti episodi di terrorismo in Francia così come siamo vicini alla popolazione israeliana, assediata da un terrorismo analogo. Per questo è due volte inaccettabile avere media che riportano notizie in modo parziale che offende i morti europei e quelli israeliani che finiscono vittime di questo doppio standard. Chiediamo, pertanto - conclude la nota diramata dai Comites di Israele - che vengano assunti provvedimenti di richiamo nei confronti di chi cerchi di fornire una diversa connotazione a fatti criminosi gravi ed ingiustificabili che avvengano nel territorio dello Stato d'Israele e confida che i media italiani prendano al più presto le distanze da queste pratiche".

(ITALIAchiamaITALIA, 25 novembre 2015)


Diamo i soldi a Erdogan e lui aiuta il Califfo. Diamo soldi ai turchi e loro aiutano l'Isis

Ankara, che ha appena avuto tre miliardi dalla Ue, abbatte un aereo russo impegnato nei bombardamenti contro il Califfato. Una pugnalata alle spalle che conferma la doppiezza di Erdogan. E pure quella di Obama.

di Maurizio Belpietro

 
Cose turche: invece di combattere lo Stato islamico, Recep Tayyip Erdogan abbatte gli aerei che combattono lo Stato islamico. Tutto ciò mentre la Turchia si dichiara amica dell'Occidente e sua alleata nella lotta al terrorismo, è membro della Nato e chiede di far parte dell'Unione Europea. La quale Unione l'ha appena omaggiata di 3 miliardi di euro per accogliere i profughi. Se fosse servita una prova dell'ambiguità del presidente turco ora ne abbiamo una inequivocabile. Gli F 16 di Ankara che ieri hanno colpito il Sukhoi di Mosca (ma il Cremlino nega che siano stati i jet ad abbatterlo, sostenendo che il velivolo sia stato tirato giù da un missile terra aria) avrebbero ricevuto ordine di aprire il fuoco direttamente da Erdogan, il sunnita moderato che guida la Turchia con il pugno di ferro e che negli anni l'ha trasformata da Stato laico che era dai tempi di Mustafa Kemal Atatürk in qualche cosa di molto simile ad uno Stato islamico, o per lo meno ad uno Stato con il velo.
  Vladimir Putin, il solo leader che si sia incaricato di fermare l'Isis senza se e senza ma, schierando anche le sue truppe di terra oltre a quelle di cielo, dopo l'abbattimento del cacciabombardiere per una presunta violazione dello spazio aereo turco, ha parlato di pugnalata alle spalle, accusando Ankara di complicità con i terroristi. Difficile dargli torto. Nella guerra sporca che si sta combattendo e per la quale la Russia ha già dovuto registrare molte vittime (224 i turisti morti di ritorno da una vacanza in Egitto), lo sconfinamento in territorio turco, ammesso e non concesso che ci sia stato, non può essere il pretesto per usare i cannoni. Soprattutto visto che fino a ieri Erdogan ha chiuso gli occhi di fronte ad altri e più pericolosi sconfinamenti. Dalla frontiera tra Siria e Turchia in questi anni è passata ogni cosa: petrolio, armi, combattenti. E pur tuttavia Ankara non si è data grande pena, né ha fatto intervenire l'esercito, l'aviazione o semplicemente i servizi di sicurezza. Anzi. Lo Stato islamico ha potuto contare su una specie di strana alleanza. Un silenzio assenso sui traffici commerciali che, dalle opere d'arte alle autobotti cariche di greggio, hanno consentito all' Isis di finanziarsi per miliardi. Senza contare l'incredibile distrazione di massa che ha permesso a migliaia di foreign fighters di andare e venire dalla Siria passando tranquillamente per Istanbul. Per non dire poi dell'inesistente controllo sulle armi e i mezzi venduti ai miliziani di Al Baghdadi. La Turchia nel tempo è diventata la porta di accesso e di uscita dello Stato islamico e attraverso questo confine sono transitate decine di migliaia di profughi, che Erdogan si è ben guardato dal fermare, ma anzi ha lasciato partire sui barconi, quasi incoraggiando l'esodo, sapendo che l'invasione non avrebbe messo in difficoltà il suo Paese, ma quelli europei.
  C'è chi dice che il gioco del presidente turco sia pericoloso. Di certo è doppio. Da un lato si mostra dialogante con i capi di Stato del vecchio continente di cui ambisce a far parte, dall'altro mira alla supremazia nel mondo islamico. Nel frattempo, mentre manovra spregiudicatamente tra Merkel e i miliziani, finge di combattere una guerra ai nemici dell'Europa e dell'Occidente. Già, perché pur appartenendo alla Nato e pur essendo da sempre alleata degli Stati Uniti, con Erdogan al potere la Turchia ha evitato di impegnarsi nel conflitto in corso e quando lo ha fatto non è stata certo al fianco di chi sta combattendo il Califfato. Anzi. Gli attacchi aerei e i bombardamenti più che avere come obiettivo lo Stato islamico hanno avuto nel mirino le città di un possibile Stato curdo, ossia della minoranza che i turchi hanno sempre combattuto e che oggi è in prima fila contro l'Isis. La Turchia ha chiuso le frontiere a quei curdi che volevano unirsi alla difesa di Kobane assediata dagli uomini del Califfato e quando se n'è presentata l'occasione più che bombardare l'Isis ha bersagliato le postazioni della resistenza curda anti Isis.
  E a proposito di doppiezza, in questa guerra non si segnala solo il presidente turco, ma anche quello americano, il quale è il maggior responsabile del caos siriano, avendo egli appoggiato i ribelli anti Assad, ribelli che ieri hanno urlato Allah Akbar mentre sparavano ai piloti russi appesi al paracadute e hanno gioito quando li hanno colpiti. Non contento di aver contribuito, con la propria indecisione e il proprio supporto, a un tale disastro, per ragioni di bilanciamento geopolitico ieri Obama ha commentato l'abbattimento del Sukhoi russo e la probabile uccisione dei piloti dicendo che Ankara ha diritto di difendere i confini. Forse lo Stato islamico non vincerà la sua sporca guerra. Ma il presidente americano ha già vinto il premio dell'ipocrisia.

(Libero, 25 novembre 2015)


A lezioni di guerriglia anti Israele con i grillini. Garantisce l'Ordine dei giornalisti

In Friuli Venezia Giulia l'Ordine dà crediti formativi a un evento che vede in cattedra Manlio Di Stefano (Movimento 5 Stelle). Uno secondo cui "il terrorismo islamico non esiste" e per il quale il binomio "ebrei-Israele mira, da sempre, a proteggere le bestialità dello Stato d'Israele contro il popolo palestinese".

di Luciano Capone

In questa situazione di tensione globale, di guerra mondiale a pezzi e di terrorismo dilagante, in cui anche gli esperti hanno difficoltà a spiegare cosa succede, è facile per i giornalisti perdere la bussola. Ma non c'è pericolo, per fortuna c'è l'Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia che attraverso i corsi di formazione tiene i giornalisti aggiornati, formati e informati, salvaguardando così la salute dell'informazione e della democrazia. Una tappa fondamentale per la formazione dei giornalisti sui temi del terrorismo e della politica internazionale è l'incontro "Gaza - testimonianze oltre il muro", che si terrà venerdì 27 novembre all'interno della manifestazione "CormonsLibri", in provincia di Gorizia. Il corso, che per i giornalisti vale ben 3 crediti formativi, parlerà delle operazioni militari israeliane del 2014 nella Striscia di Gaza e, data l'importanza e la complessità della questione, ci sarà un relatore d'eccezione: il grillino Manlio Di Stefano.
   Di Stefano fa parte della commissione Esteri e di fatto è il viceministro degli Esteri del M5S (il ministro è sempre Alessandro Di Battista, che vuole "elevare a interlocutore" l'Isis), anche se in quanto a conoscenza dei fatti e chiarezza delle idee non è secondo a nessuno, neppure a "Dibba". Di Stefano è uno che afferma con assoluta certezza che "Il terrorismo islamico non esiste", il che non vuol dire che non esista il terrorismo nel mondo islamico, ma che esistono dei terroristi che dicono di essere islamici pur non essendolo (islamici, non terroristi). "Con questo voglio dire che non esista una guerra di religioni in corso? - scrive Di Stefano - No! Non sto dicendo questo e penso che esista da 2000 anni". In pratica la guerra di religione che stiamo vivendo l'ha dichiarata Gesù Cristo.
   In ogni caso "fenomeni radicali come l'Isis sono da approfondire con calma e rispetto - ha detto Di Stefano in un'intervista alla Stampa - che significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono". Ed è inutile parlare di interventi militari contro l'Isis solo perché massacrano le persone, perché "anche in Palestina muoiono. Hanno fatto qualcosa gli Stati Uniti? Ci mancherebbe altro che non avessimo a cuore i morti, che siano da una parte o dall'altra, però vedo sempre un interventismo accanito quando si parla di alcuni territori e il totale oblio di altri territori". E arriviamo alla Palestina, che è il tema su cui Di Stefano è specializzato e su cui formerà i giornalisti per conto dell'Ordine, dove secondo il grillino Israele agisce come l'Isis: "C'è la volontà da parte del governo israeliano di annientare un gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso attraverso un attacco militare - ha dichiarato in Parlamento - In poche parole si tratta di genocidio, un genocidio programmato dal '48".
   Di Stefano è anche favorevoli alla marchiatura e al boicottaggio dei prodotti israeliani: "Ogni cittadino s'impegni a boicottare i prodotti provenienti dalle colonie illegali e diffonda informazioni sull'operato criminale del governo israeliano", una posizione che poggia sulla convinzione che il binomio "ebrei-Israele mira, da sempre, a proteggere le bestialità dello Stato d'Israele contro il popolo palestinese nascondendole sotto l'ombrello della protezione degli ebrei nel mondo". Finalmente i giornalisti possono affidarsi alla sapienza del grillino Di Stefano per mettere ordine su ciò che accade in Medio Oriente. Con l'approvazione dell'Ordine, naturalmente.

(Il Foglio, 25 novembre 2015)


Il boicottaggio dei docenti israeliani spopola nei campus d'America

Il viaggio inverso di Enrico Fermi

di Giulio Meotti

Feudi di liberalismo, templi della conoscenza, cartoline di una eccellenza non contaminata dai conflitti ideologici europei, i campus universitari d'America stanno sperimentando un tipo di odio nuovo. Non più le tensioni razziali, visto che si è passati al ridicolo antirazzista, con Princeton che in questi giorni vuole cancellare il nome dell'ex presidente Woodrow Wilson (troppo corrivo sui temi razziali). No, è l'odio per Israele a spopolare adesso nei campus d'America. Petizioni per il boicottaggio dei docenti dello stato ebraico sono state approvate in tante università americane, dalla DePaul University alla University of California, dalla University of Michigan alla Wesleyan University. Negli edifici dei campus, i gruppi antisraeliani organizzano picchetti, conferenze per il boicottaggio, e i sostenitori di Israele sono quotidianamente interrotti, è loro impedito di parlare, mentre studenti ebrei sono aggrediti, anche fisicamente. E' appena successo al professor Moshe Halbertal, il filosofo morale dell'Università di Gerusalemme che ha scritto il manuale di comportamento delle Forze di difesa d'Israele. "Stavo tenendo una lezione alla University of Minnesota sulla protezione dei civili in guerra, quando una serie di contestazioni mi ha impedito di continuare la mia esposizione", racconta Halbertal al Foglio. "Sono triste, perché questo movimento di boicottaggio è una sorta di microcosmo di cosa significa Israele in medio oriente".
   Il boicottaggio d'Israele sta diventando la politica ufficiale di tante organizzazioni accademiche. L'American Anthropological Association, riunita a Denver, in Colorado, ha appena approvato il boicottaggio degli israeliani con 1.040 voti a favore e 136 contro (l'85 per cento dei docenti si è schierato per la messa in mora dei colleghi con passaporto israeliano). E' la più vasta e influente organizzazione di antropologi al mondo.
   In precedenza, una delle più gloriose associazioni accademiche statunitensi, l'American Studies Association, aveva votato il boicottaggio delle università israeliane. Hanno abbracciato il boicottaggio anche altre organizzazioni accademiche, dall'African Literature Association all'Association for Asian American Studies, fino alla Critical Ethnic Studies Association. La Middle East Studies Association ha approvato una formula più sfumata in cui si dichiara a favore dei "diritti al boicottaggio dei docenti, gruppi e associazioni". Anche la Modern Language Association, una delle più grandi organizzazioni accademiche mondiali con 24 mila iscritti, sta per discutere il boicottaggio. A oggi, 1.320 docenti e ricercatori delle università americane hanno firmato la campagna per il boicottaggio di Israele, lanciata qualche anno fa da Judith Butler, la teorica dei "gender studies".
   E' il percorso inverso di quello compiuto da tanti scienziati, artisti, politici, letterati — di fede ebraica o meno — cacciati dall'Europa dei totalitarismi in seguito a persecuzioni che strinsero nello stesso destino Enrico Fermi, Jacques Maritain, Thomas Mann, Albert Einstein, lo psicologo Bruno Bettelheim e il teologo Paul Tillich, fino allo storico Gaetano Salvemini. Era il fior fiore dell'intellighenzia europea, che trovava riparo nelle università americane sotto la spinta di persecuzioni rozze e crudeli. Adesso sono gli studiosi israeliani a non essere più benvenuti in quei campus. Una svastica liberal.

(Il Foglio, 25 novembre 2015)


Se l'Europa proprio non vuole capire

Anni di auto-inganno e cecità selettiva hanno portato alla disabilità intellettiva le élite europee.

di Ben-Dror Yemini

Da una decina di giorni l'Europa è in preda a forte agitazione a seguito degli attentati terroristici di Parigi e alle informazioni di intelligence secondo cui i jihadisti dello "Stato Islamico" (ISIS) stanno progettando ulteriori attacchi contro la Francia, la Germania, il Belgio, l'Italia, la Svezia.
Ma quella stessa Europa, in piena confusione mentale, è indaffarata a sostenere le manovre avviate dalla campagna per il boicottaggio anti-israeliano, trasformata in agenzia propagandistica di Hamas. E stiamo parlando della stessa Hamas che invoca l'occupazione di Roma, esattamente come fa il capo dell'ISIS.
Ma l'Europa si rifiuta di ascoltare. Un autorevole giornale come il settimanale tedesco Der Spiegel non ha mai riferito che il professor Yunis Al Astal, uno dei pastori spirituali di Hamas nonché membro del parlamento dell'Autorità Palestinese, ha invocato a nome del suo movimento "l'occupazione di Roma, di tutta l'Europa e delle due Americhe". Ed ha omesso di segnalare che il canale televisivo di Hamas invoca l'uccisione non solo degli ebrei, ma anche "dei cristiani, fino all'ultimo di loro"....

(israele.net, 25 novembre 2015)


Visita di Tsipras in Israele: si parla di gas, cooperazione e difesa

di Raffaele De Pace

Inizia domani la visita del premier greco Alexis Tsipras in Israele, dove sarà ricevuto dalle massime autorità dello Stato assieme a una folta delegazione. Primo punto della fitta agenda di incontri non solo l'emergenza terrorismo e Isis, ma i dossier relativi alla cooperazione energetica e militare.
Tsipras non può permettersi fughe in avanti, dal momento che Washinton e Berlino lo "tengono per la gola" alla voce prestiti ponte. Di contro Tel Aviv nutre ancora delle perplessità relative alla posizione di Syriza pro stato palestinese.
   Non va dimenticato che all'indomani della vittoria di Syriza alle elezioni di gennaio 2015, Tel Aviv aveva reagito con preoccupazione, ricordando le parole con cui lo stesso Tsipras aveva commentato la repressione israeliana contro i palestinesi: "Non possiamo rimanere passivi, poiché quanto accade oggi sull'altra sponda del Mediterraneo, può accadere sulla nostra sponda domani". I rapporti si erano però distesi in occasione della visita del ministro della difesa Panos Kammenos lo scorso il 19 luglio quando siglò con il collega israeliano Moshe Ya'alon, un importante accordo militare.
   Per questo i bilaterali tra i ministri degli esteri e della difesa serviranno a fare chiarezza sulle future strategie militari (i contratti tra i due paesi non dovrebbero subire riduzioni nonostante il memorandum della troika) e su quelle energetiche. Il gas sarà il dossier più significativo anche perché propedeutico ad altri due appuntamenti: il 16 dicembre si terrà a Gerusalemme il vertice dei segretari generali di Israele, Grecia, Cipro per preparare il vertice di gennaio e 10 gg prima anche la riunione dei ministri dell'Energia.
   A dicembre infatti Atene ospiterà il Trilaterale Grecia, Cipro, Egitto con Mosca attentissima e, si dice, pronta alle contromisure.

(Mondogreco, 24 novembre 2015)


Israele - Il sistema di protezione degli aerei Skyshield supera il test Nato

GERUSALEMME - L'impresa israeliana Elbit Systems ha reso noto che il sistema Skyshield, realizzato per proteggere gli aerei dai lanciarazzi convenzionali e a spalla, ha passato con successo un test svolto dalla Nato. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano "Haaretz", il test è stato eseguito su un Airbus C-295 e ha visto la collaborazione dell'Autorità di sviluppo e ricerca del ministero della Difesa israeliano. Il sistema Skyshield, che utilizza i laser per intercettare i missili dei lanciarazzi, viene installato nella parte inferiore dell'aereo. Il funzionamento dello Skyshield si basa su quattro sensori, i quali, nel momento in cui rilevano un missile in arrivo, attivano i laser. Il sistema è progettato per essere utilizzato sugli aerei civili, su quelli da trasporto, sui velivoli addetti al rifornimento di carburante e a quelli militari impegnati in azione di intelligence.

(Agenzia Nova, 25 novembre 2015)


Israele e la Water Technology

di Daniel Meron

Israele si trova in una delle regioni più aride del mondo; il Paese ha sempre sofferto di problemi di carenza idrica. I miracoli sono sempre stati necessari per superare la siccità.
   La tradizione ebraica racconta la storia di Honi HaMe'aguel, un saggio che visse nel periodo del Secondo Tempio e che riuscì a portare la pioggia dopo un periodo di siccità.
   Oggi, avvengono ancora miracoli in Israele. Grazie alla desalinizzazione, Israele è riuscito a rendere potabile l'acqua del Mediterraneo e ad implementare il riciclaggio delle acque reflue. Israele oggi ha abbastanza acqua per soddisfare i propri bisogni, anche durante i periodi di grave siccità. Di fronte ad una tale impresa, la rivista Der Spiegel ha scritto recentemente che Israele è la terra dei miracoli dell'acqua.
   Negli ultimi dieci anni sono stati creati quattro grandi impianti di desalinizzazione. Oggi Israele è diventato leader mondiale nel riciclaggio e nel riutilizzo di acqua per l'agricoltura. Quasi il 90% delle acque reflue domestiche viene trattato e riciclato per esigenze agricole, e ciò rappresenta circa il 55% del totale di acqua utilizzata per l'agricoltura. La Spagna arriva dopo con il riciclaggio del circa 17%, mentre gli Stati Uniti riciclano solo l'1% delle acque reflue. L'irrigazione a goccia e i sofisticati sistemi che monitorano le perdite nei tubi dell'acqua, sono stati inventati in Israele.
   Israele è entusiasta di condividere con gli altri paesi che devono affrontare le sfide della siccità le proprie conoscenze. Diversi paesi hanno già utilizzato le soluzioni israeliane per il riciclo dell'acqua, per i progetti idrici, per la sicurezza marittima e la qualità dell'acqua.
   Questo mese Israele presenta all'Assemblea generale delle Nazioni Unite una risoluzione intitolata "Tecnologia agricola per lo sviluppo", sulla promozione di tecnologie sostenibili in materia di acqua e agricoltura per i paesi in via di sviluppo.
   Israele aspira a utilizzare la sua esperienza in questo settore per aiutare i suoi vicini. L'anno scorso, è stato firmato un accordo per costruire un impianto di desalinizzazione in comune con la Giordania; Israele vuole anche ampliare la cooperazione in materia idrica anche con i palestinesi.
   Migliaia di professionisti dell'acqua provenienti da tutto il mondo si sono riuniti a Tel Aviv per partecipare a WATEC Israel, una conferenza biennale sui temi del trattamento delle acque. Nel suo ultimo libro, Let There Be Water: la soluzione di Israele per la mancanza di acqua nel Mondo, Seth M. Siegel cita Theodro Herzl il quale aveva previsto che gli ingegneri idrici sarebbero stati gli eroi dello Stato Ebraico. E così è stato. Essi continuano a innovare i sistemi tecnologici idrici proprio come racconta la tradizione ebraica con l'episodio di Honi HaMe'aguel.


Daniel Meron, Cpo dell'Ufficio delle Nazioni Unite e Organizzazioni Internazionali presso il Ministero israeliano degli Affari Esteri.

(SiliconWadi, 24 novembre 2015)


Bombe su Gaza, all'Università un saggio accende la polemica

GENOVA - «Qualcuno puo' sostenere che l'aviazione israeliana, nel perseguire il fine giusto della sopravvivenza dello stato di Israele, colpisca le scuole per abbattere il morale degli abitanti di Gaza, o questo avviene soltanto perché Hamas usa le scuole come scudo umano a protezione del proprio arsenale»? E la presentazione del saggio "Gaza, e l'industria israeliana della violenza" al dipartimento di Scienze della Formazione ad accendere la polemica accademica. E per questo, Vincenzo Dovi', docente al dipartimento di chimica nel chiedere la «sospensione dell'evento» si dice «convinto che una presentazione del genere offenda la sensibilità e il senso di giustizia della comunità ebraica». La scintilla è una mail, indirizzata al Rettore, Paolo Comanducci. «Sospendere d'autorità la presentazione di un libro non ritengo che rientri nelle competenze proprie della mia carica - replica Comanducci - E mi parrebbe francamente inopportuno, dato che le università dovrebbero essere i luoghi nei quali idee e posizioni differenti tra loro possano confrontarsi, e perfino scontrarsi, in modo civile e rispettoso. La tolleranza nei confronti di chi non la pensa come noi è uno di quei valori che l'università vuole diffondere e al contempo difendere».

(Il Secolo XIX, 24 novembre 2015)


Il Rettore Comanducci ha fatto bene. Agli scritti, soprattutto in ambito universitario, bisogna rispondere con altri scritti, alle parole con altre parole, non con la richiesta di un freno alla possibilità di dire. Meno che mai si dovrebbe addurre come ragione la "sensibilità" di una certa comunità. Ci sono già gli islamici che si sono specializzati in questa tecnica di intimidazione e repressione. Non è il caso di imitarli. M.C.


Un terrorista è un terrorista è un terrorista. Il "teorema Bennett" da Gerusalemme a Parigi

ROMA, 24 nov - Sabato una giovane israeliana di 21 anni è stata uccisa a coltellate nell'area delle colonie di Gush Etzion, a sud di Gerusalemme. L'assalitore è stato colpito dai militari accorsi sul posto. Nella stessa giornata, due palestinesi sono stati uccisi da altrettanti civili israeliani, per legittima difesa, in due diversi tentativi di accoltellamento. Ancora ieri una sedicenne palestinese è stata uccisa dalle forze dell'ordine mentre assaliva con una lama un uomo di 70 anni in una strada affollata di Gerusalemme (poi si è scoperto che la vittima non era di religione ebraica, era un palestinese scambiato per un ebreo). Un altro giovane soldato israeliano è stato ucciso con un pugnale ieri in Cisgiordania. Non si ferma quindi l'ondata di violenza anti israeliana iniziata quasi due mesi fa e che qualcuno ha definito Terza Intifada.
   Si tratta di episodi di terrorismo islamista, con una matrice comune a quelli avvenuti in questi giorni in Europa su scala più plateale. Lo ha ricordato nelle scorse ore il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Lo aveva detto nelle ultime settimane, perfino più chiaramente, il ministro del suo governo Naftali Bennett: "A quanti sono confusi, dico 'svegliatevi!'. A coloro che in Europa e nel mondo ci assegnano voti e ci danno consigli, ricordo che questo terrorismo non è soltanto un attacco a Israele, ma è un attacco allo stile di vita che riteniamo libero e democratico. Noi forse siamo in prima linea, ma non cadete in errore: questa guerra sta scoppiando anche nei vostri paesi. Fate attenzione a non trovarvi dalla parte sbagliata della storia".
   Ma il semplice ragionamento per cui "un terrorista è un terrorista è un terrorista" non sembra essere ancora accettato in tutte le cancellerie europee. Addirittura, come ha scritto Giulio Meotti su queste colonne, non pochi diplomatici ed esponenti di governo del nostro continente hanno rintracciato nel comportamento del governo israeliano le radici degli eccidi di Parigi di due venerdì fa. E sabato, nella piazza romana che chiamava a raccolta gli islamici moderati italiani per condannare gli attentati dello Stato islamico, si vedevano cartelli come quelli raffigurati in questa foto. Secondo cui "l'uccisione di persone a Parigi o a Gaza sono lo stesso atto barbaro". Si riferivano forse alle esecuzioni sommarie di Hamas nella Striscia di Gaza? Legittimo dubitare. Piuttosto puntavano a eguagliare il diritto alla legittima difesa di Israele con le uccisioni di parigini inermi a opera degli emissari dello Stato islamico. A questi "moderati" gli europei dovrebbero rispondere con il loro slogan, "not in my name". Difficile che accada.

(Il Foglio, 24 novembre 2015)


L'intifada delle bambine in Israele

Due giorni di attacchi a coltellate a Gerusalemme: vittime e assalitrici non avevano più di 16 anni.

di Michael Sfaradi

 
Hadar, 21 anni, pugnalata perché ebrea israeliana
Il funerale di Hadar
Mentre dall'Europa arrivano immagini surreali, con Bruxelles in stato di assedio, in Israele si vive nonostante il terrorismo quotidiano che continua a colpire senza schemi e senza logica. La popolazione intera ostenta normalità anche se chi ha il porto d'armi, e in Israele sono in molti ad averlo, la mattina prima di andare al lavoro mette la pistola nella fondina e se per continuare a vivere in maniera "normale" è necessario portarsi dietro il "ferro" bisogna farsene una ragione. Tutti sentono che in questo momento non è possibile andare troppo per il sottile e questo, purtroppo, è uno degli aspetti del vivere in un posto che per forza di cose ha dovuto sviluppare gli anticorpi al mostro chiamato terrorismo.
   Lo stesso premier Netanyahu ha dichiarato che la polizia e l'esercito hanno la massima libertà decisionale quando intervengono per chiamate di antiterrorismo, non è una "licenza di uccidere" ma è necessario far sentire ai tutori dell'ordine di essere tutelati. Da quando è cominciata "l' intifada dei coltelli" vittime e feriti si contano a decine e solo negli ultimi due giorni ci sono stati 4 attacchi, nei quali hanno pagato con la vita o con ferite persone giovanissime.
   Domenica è stato il turno di una ragazza di 21 anni, si chiamava Hadar Buchris. Hadar è stata aggredita e uccisa a pugnalate da un terrorista, probabilmente poco più grande di lei, mentre stava aspettando l'autobus. L'uomo dopo averla più volte colpita ha tentato di avventarsi anche contro un poliziotto che ha sparato con la pistola di ordinanza uccidendolo.
   Nella stessa giornata una ragazza palestinese che stava per aggredire alle spalle un militare è stata volontariamente investita da un'auto, l'autista ha poi dichiarato che non c'era altro modo per fermarla, la ragazza aveva solo 16 anni. Le due ragazzine arabe che a Gerusalemme hanno pensato di immolarsi uccidendo qualcuno con un paio di forbici avevano invece 12 e 14 anni ed erano cugine fra loro. Hanno aggredito, ferendolo alla schiena, un uomo di 70 anni che, per ironia della sorte, era un arabo di Betlemme in città per fare la spesa.
   L'ultimo attentato della giornata è avvenuto in una stazione di servizio dell'autostrada 433, una delle arterie che collegano Tel Aviv a Gerusalemme, dove un ragazzo israeliano di 20 anni è stato ucciso con diverse pugnalate e due donne sono rimaste ferite, i militari accorsi sul luogo hanno poi neutralizzato l'attentatore.
   «Vittime giovanissime e attentatori giovani in una spirale d'odio che non è casuale ma è solo il frutto della propaganda di chi anziché cercare la pace preferisce lo scontro aperto», di questo tenore sono state le accuse che da Israele vengono rivolte alle dirigenze palestinesi, sia quella di Hamas a Gaza sia quella dell'Anp a Ramallah. Per Netanyahu però accusare Abu Mazen o Isma'il Haniyeh non è sufficiente perché la situazione si sta rapidamente deteriorando e anche dall'opposizione arrivano richieste al governo di agire in modo da bloccare quest'ondata di terrore prima che si aprano scenari ancora più gravi.

(Libero, 24 novembre 2015)


Decapitare, trucidare e spargere terrore. La biografia di Maometto spiega l'Isis

Il testo sulla vita del Profeta.

di Andrea Morigi

Ai terroristi islamici sembrava semplicemente di ricollegarsi alla loro storia religiosa, imitando una tribù di Medina: «I Hazrag allora si riunirono e dissero: "Dobbiamo anche noi uccidere qualcuno dei maggiorenti ebrei, per far piacere al Profeta". E decisero di uccidere Abu Rafi, capo degli ebrei di Haybar, che erano i più numerosi. Resero noto il loro progetto al Profeta che lo approvò».
   Con tutta probabilità, avrebbe risposto nello stesso identico modo se, per ipotesi, prima di attaccare quel covo di infedeli che era il Bataclan di Parigi (dove fra l'altro si stava intonando una canzone dal titolo Kiss the Devil, cioè «Bacia il diavolo») si fossero consultati con lui.
   Decapitare, trucidare, razziare, saccheggiare e spargere il terrore. Se non fossero comportamenti islamicamente corretti, come si va dicendo in questi giorni, in continuità con la vulgata inaugurata 1'11 settembre 2001, allora bisognerebbe togliere la qualifica di musulmano allo stesso Maometto.
   Per verificarlo, è sufficiente aprire a caso una pagina della biografia del profeta dell'islam, autentica fonte ispiratrice dell'lsis. Se ne trovano numerose edizioni negli scaffali delle librerie italiane, in omaggio alla tesi di Marshall McLuhan secondo il quale la psicologia delle masse tende a conoscere meglio ciò che inquieta e intimorisce, nel tentativo di esorcizzarlo. Così si diffondono i sacri testi dell'islam.
   Nell'opera di Muhammadlbn Garir Al Tabari, Vita di Maometto, disponibile anche nell'edizione economica della Rizzoli, si trovano anche decapitazioni di massa. L'episodio, riportato al capitolo 47, riguarda la spedizione contro i Banu Qurayzah, una tribù di ebrei. La cronaca descrive lo sterminatore seriale come un uomo convinto di obbedire ad Allah, esattamente come il commando di Parigi, al grido di Allah akhbar. «"Scimmie e maiali", li aggredì il Profeta "avete forse osservato la volontà di Dio?" "Non ci hai mai insultato così, Maometto. Perché lo fai?" "Non sono io, ma Dio che vi insulta", ribatté il Profeta. E li assediò per venticinque giorni». Al termine dei quali, per farla breve, «i Giudei che erano in grado di scappare si rifugiarono nel deserto. Gli altri ottocento rimasero. Il Profeta fece loro legare le mani e fece requisire i loro beni». L'epilogo è horror: «I Giudei rimasero legati tre giorni, fino a che tutti i loro beni furono trasportati a Medina. Dopo di che, il Profeta fece scavare un fossato sulla piazza del mercato, si sedette sull'orlo, fece chiamare Ali, e Zubayr, figlio di al-Awwam, e diede loro ordine di prendere le spade, di sgozzare uno dopo l'altro gli Ebrei e di buttarli nella fossa. Risparmiò le donne e i bambini, ma fece uccidere i maschi puberi».
   Non c'è una differenza apprezzabile rispetto alla prassi odierna. Semmai, i tagliagole agli ordini del Califfo finora hanno sparso minori quantità di sangue, sebbene dispongano di cinture esplosive e tecnologie ben più raffinate.
   È passato più di un millennio da allora. Gli ottimisti sperano che nel frattempo si sia fatta strada la ragione. Eppure, una continuità con i primi secoli dell'espansione musulmana si può ritrovare nella vicenda degli ottocento martiri di Otranto, canonizzati da Papa Francesco nel 2013. Il 14 agosto 1480 fu staccata loro la testa dai turchi perché avevano rifiutato di convertirsi all'islam. Dunque se, sette secoli dopo l'esempio indicato da Maometto, qualcuno sulle coste italiane lo aveva imitato, non c'è motivo di non farlo cinque secoli dopo la strage sulla costa salentina.
   Non è cambiato nulla. Se non che i commentatori contemporanei islamicamente corretti hanno la pretesa di spiegarci che il jihad non va confuso con il terrorismo e altre balle del genere. Su un particolare, tuttavia, occorre dar loro ragione: molte vittime sono islamiche e molte moschee saltano per aria nella guerra civile fra musulmani. Maometto aveva previsto anche la punizione dei cosiddetti moderati. Il testo li definisce «ipocriti», ma la differenza è minima: «Il profeta perciò chiamò alcuni suoi compagni e disse loro: "Andate e distruggete quella moschea. Rompete tutto quanto è in pietra e bruciate quanto v'è di legno". Quegli uomini fecero come aveva detto, e il Profeta entrò in città».
   Anzi, una differenza c'è. Quando dell'islam non si sapeva nulla e non circolavano biografie di Maometto, l'ingenuità non era così diffusa. Ma ora gli sgozzamenti antichi e moderni sono noti in tutto il mondo, grazie al web, e non ci sono più pretesti per chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

(Libero, 24 novembre 2015)


Da noi sono terroristi, in Israele (e per Rainews) sono "adolescenti"

E' solo in questo clima culturale anti-israeliano che si possono raccontare le notizie e fare servizio pubblico alla maniera di Rainews. La storia è quella di due ragazze palestinesi che armate di forbici hanno aggredito in un affollato mercato di Gerusalemme un passante.

di Luciano Capone


Notizia riportata da Rai News


Dopo la strage di Parigi e il massacro al Bataclan, dopo i blitz contro i terroristi islamici che hanno continuato a terrorizzare i francesi, dopo aver visto Bruxelles militarizzata, con scuole, università e metropolitane chiuse per il rischio attentati, i cittadini europei stanno vivendo ciò che da anni quotidianamente vivono gli israeliani. Soprattutto negli ultimi mesi, da quando è scoppiata l'intifada dei coltelli, in cui più e meno giovani palestinesi sono impegnati in attentati terroristici fai-da-te, investendo e accoltellando persone comuni per strada, nei mercati e alle fermate degli autobus. Con la morte di Hadar Bucharis, una ragazza di 21 anni uccisa due giorni fa a coltellate, le vittime israeliane sono salite a 20, a cui si aggiungono centinaia di feriti molti dei quali in condizioni gravi. Si pensava che l'occidente e l'Europa ferita potessero immedesimarsi nel terrore quotidiano degli israeliani, che le strade di Gerusalemme somigliassero a quelle di Bruxelles e i locali di Parigi ai centri commerciali di Tel Aviv.
E invece quasi sempre quando si parla di terrorismo islamista si citano l'11 settembre, gli attentati a Madrid, Londra e Parigi, le stragi a Beirut, in Iraq, in Nigeria, in Mali e Somalia, ma non si dice nulla di Israele. Israele non solo viene ignorato come vittima di questo attacco globale ai valori occidentali, ma addirittura viene additato come causa del terrorismo islamico e anche per questo i suoi prodotti vengono etichettati, marchiati e boicottati.
E' solo in questo clima culturale anti-israeliano che si possono raccontare le notizie e fare servizio pubblico alla maniera di Rainews. La storia è quella di due ragazze palestinesi che armate di forbici hanno aggredito in un affollato mercato di Gerusalemme un passante, anch'egli palestinese ma ritenuto ebreo. Le attentatrici sono state fermate solo grazie all'intervento di un agente, una ragazza è morta e l'altra è rimasta ferita. Come titola Rainews? "Israele: uccisa adolescente palestinese". Insomma, il vero problema non è che quelli sono terroristi, ma che quegli altri sono ebrei.

(Il Foglio, 24 novembre 2015)


La schizofrenia dei (filo)palestinesi e del mondo arabo

Un esame neanche troppo approfondito delle farneticazioni del mondo arabo e dei sostenitori della cosiddetta "causa palestinese", rivela incongruenze palesi e contraddizioni stridenti, fatte scivolare via dai media ufficiali per non turbare il sonno dei filopalestinesi, e non agevolare (quando mai!) la controparte ebraica. Esemplare il chiacchiericcio seguito alla strage di Parigi: da un lato i cospiratori hanno puntato il dito contro l'onnipresente Mossad; dall'altro hanno denunciato come l'assassinio perpetrato sia stata la conseguenza inevitabile delle "sofferenze" patite dai musulmani ad opera dell'Occidente "colonialista" e di Israele "occupante"....

(Il Borghesino, 24 novembre 2015)


Kerry a Netanyahu: lavoriamo insieme per combattere il terrorismo

GERUSALEMME - Il segretario di Stato statunitense, John Kerry, ha dichiarato oggi, nel corso di un incontro a Gerusalemme con il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, di essere arrivato in Israele per discutere i modi per ripristinare la pace nel paese. "Sono qui oggi per discutere i modi in cui possiamo lavorare insieme per respingere il terrorismo e la violenza, e definire una soluzione per ripristinare la pace", ha dichiarato Kerry, citato dal quotidiano israeliano "Haaretz". Il segretario di Stato Usa ha dichiarato che Israele ha il diritto di difendersi contro gli attacchi terroristici sui civili, esprimendo una "condanna completa per ogni atto di terrore che colpisca vite innocenti e interrompa la vita quotidiana di una nazione". Questi atti di terrorismo che stanno avendo luogo - ha proseguito Kerry - meritano la condanna che stanno ricevendo". Netanyahu, che ha definito Kerry come "un amico nel nostro sforzo comune di ripristinare la stabilità, la sicurezza e la pace, ha dichiarato che non ci può essere pace quando c'è un offensiva di terrorismo. Secondo quanto riferito dal quotidiano "Jerusalem Post", il premier israeliano ha dichiarato che la comunità internazionale dovrebbe sostenere la lotta di Israele contro il terrorismo, dato che il resto del mondo sta "vivendo questa stessa violenza da parte di militanti islamisti e forze del terrore". "Non è solo la nostra battaglia è la battaglia di tutti. È la battaglia della civiltà contro la barbarie", ha aggiunto Netanyahu.

(Agenzia Nova, 24 novembre 2015)


Boicottaggio fatto e disfatto

La catena tedesca KadeWe aveva ritirato i prodotti israeliani. Costretta a fare dietrofront.

di Roberto Giardina

BERLINO - Nei giorni di paura e di incertezza, seguiti agli attentati di Parigi, la notizia è passata in secondo piano. Il KadeWe, il Kaufhaus des Westens, il grande magazzino entrato nella storia di Berlino, ha tolto dai suoi scaffali i prodotti alimentari e i cosmetici provenienti da Israele.
Poi, dopo le reazioni sdegnate, la direzione è tornata indietro, ma non si cancella quanto è avvenuto.
Frau Petra Faldenhofen, portavoce del KadeWe, spiega: «Abbiamo obbedito all'ordinanza di Bruxelles dell'11 novembre che impone di specificare sulle etichette il luogo esatto di produzione». Quanto proviene dai territori occupati non potrebbe essere messo in vendita come «Made in Israel». Tel Aviv ha protestato con sdegno: «Una lex anti Israel». Una misura politica, e si dimenticano altri paesi, si prende di mira solo Israele. «Non tocca a noi discutere i provvedimenti di Bruxelles, si sono difesi i responsabili del KadeWe, ci limitiamo ad applicare le regole». Tuttavia, diversi importatori in Germania non hanno reagito con altrettanta prontezza alle decisioni della Ue: il documento, in quattro pagine, non è chiaro, si sostiene, e attendiamo chiarimenti.
   «Zu rasch und unsensibel», troppo veloci e insensibili, invece al KadeWe, come hanno commentato in molti. Il magazzino, sommerso dalle critiche, è prontamente tornato indietro. I prodotti «dubbi» sono tornati negli scaffali, dimostrando che si poteva anche evitare di toglierli. Tutto a posto, dunque?
   Evidentemente, no. Il comportamento del KadeWe, che appartiene ora a un imprenditore austriaco, ricorda tristemente lo slogan nazista «Kauft nich beim Juden», non comprare dall'ebreo. Un avvocato di Berlino, in una email, ricordava: «Già dall'inizio, nel 1933, i «bravi tedeschi», diligenti e obbedienti, evitavano di andare nei negozi e nei ristoranti degli ebrei il KadeWe si dovrebbe vergognare». Forse il contrordine è giunto rapidamente perché in Israele si è invitato a boicottare il grande magazzino. I turisti israeliani amano fare shopping al KadeWe, anche perché, per triste paradosso, considerano che appartenga alla loro storia.
   Fu aperto nel 1907 da Adolf Jandorf, che era ebreo come altri proprietari di grandi magazzini, Oscar e Hermann Tietz, o Abrahan e Theodor Wertheim. Una Kaufhaus Wertheim è ancora presente sulla Kurfürstendamm, il grande boulevard nella parte occidentale della capitale, anche se solo il nome ricorda il suo passato. Gli attacchi iniziarono subito: i grandi magazzini mettevano in pericolo la sopravvivenza dei piccoli negozi, ed erano un'espressione del «tipico spirito giudaico». E questo più di vent'anni prima dell'avvento di Hitler.
   Oggi, un passo falso? L'antisemitismo sopravvive in Germania settant'anni dopo la fine del III Reich? Rispondere è sempre pericoloso, si corre l'inevitabile rischio di sottovalutare. E in articolo si rischia di venire fraintesi. Sopravvive come ovunque in Europa. In Germania è, ovviamente, più nascosto e meno tollerabile. Andreas Nachama, che per anni è stato a capo della comunità ebraica, ed ora dirige la Topographie des Terrors, il museo creato in quella che fu la sede della Gestapo, si è adoperato per la riconciliazione, e quando lo intervistai era ottimista. Gli ebrei della metropoli erano duemila alla caduta del «muro», oggi sono ufficialmente 12 mila, probabilmente più di 20 mila.
   Ma oggi, a causa della situazione internazionale, le cose cambiano. Alcuni turisti israeliani sono stati aggrediti per le vie di Berlino, la squadra del Maccabi Berlin, viene insultata dagli spettatori quasi a ogni partita. A provocare e aggredire sono quasi sempre giovani di origine araba. «Der Krieg im Klassenzimmer», la guerra nelle aule scolastiche, era il titolo di un lungo reportage nello «Spiegel» del 13 novembre. Il ministro della giustizia, il socialdemocratico Heiko Mass, ha dichiarato: «Gli ebrei in Germania non dovranno mai più tornare a nascondersi». La rivista riporta le parole dell'insegnante di storia in un liceo di Amburgo, Yael M.: «Non mi azzardo a rivelare ai miei studenti che sono ebrea». I giovani nella sua classe sono in maggioranza d'origine araba, e divisi in gruppi tra loro spesso ostili, ma sempre uniti nell'odio contro gli ebrei. E' vitale che le autorità non trascurino il problema. La decisione del KadeWe, per quanto annullata, rimane un brutto segnale.

(ItaliaOggi, 24 novembre 2015)


L'intifada delle menzogne

Le bugie palestinesi hanno raggiunto livelli da Goebbels, e non mancano coloro che le assecondano in malafede (perlomeno finché un video non li smaschera).

di Dan Margalit

Nel corso degli anni il conflitto tra Israele e Autorità Palestinese è stato caratterizzato da controversie sia reali che artificiali circa i dati di fatto basilari. Israele considera dei violenti delinquenti coloro che lanciano molotov e pietre e che aggrediscono armati di coltello, mentre l'Autorità Palestinese li presenta al mondo come nobili combattenti per la libertà. E il mondo, con il suo riflesso automatico anti-israeliano e la sua storica propensione per l'antisemitismo, predilige la versione palestinese.
Ma durante quest'ultima ondata di attacchi terroristici le menzogne palestinesi hanno toccato nuovi vertici. Ora le loro bugie non contengono più nemmeno un briciolo di verità. Un conto è un genitore palestinese che esprimere orgoglio per il figlio morto nel tentativo di perpetrare un attentato terroristico. Tutta un'altra cosa, invece, che l'Autorità Palestinese abbia l'impudenza di definire "criminale di guerra" l'israeliano che ha sventato l'attentato uccidendo il terrorista....

(israele.net, 24 novembre 2015)



Ontologia

Israele non deve fare molte cose per essere odiato,
è sufficiente che ci sia.
Israele può fare una sola cosa per non essere odiato,
è necessario che non ci sia.

 


E' stato il silenzio dell'occidente a condannare a morte i cristiani d'oriente

Per lungo tempo, anche la stampa mainstream americana è rimasta silente sulle stragi di cristiani.

di Giulio Meotti

La sezione inglese dell'organizzazione non governativa Aiuto alla Chiesa che soffre ha appena consegnato un rapporto alla Camera dei Lord di Londra: "L'Isis può spazzare via il cristianesimo dall'Iraq in cinque anni". Eppure, non c'è scandalo in Europa e oltre Oceano. Tim Stanley sul Telegraph lo ha definito "un crimine contro l'umanità di cui nessuno stranamente parla". Barack Obama, sempre provvido di retorica e di emozioni ecumeniche, non ha mai detto una sola parola sull'eclisse dei cristiani d'oriente. E per citare il quotidiano francese Figaro, "l'opinione pubblica europea, così pronta a mobilitarsi, firmare petizioni e a dimostrazioni di ogni sorta, in questo caso non ha detto nulla. Silenzio, stiamo perseguitando". Per lungo tempo, anche la stampa mainstream americana è rimasta silente sulle stragi di cristiani. Un silenzio spezzato da una dissidente dell'islam, Ayaan Hirsi Ali, che dedicò a questo martirio di massa una magistrale copertina di Newsweek. Oggi è abbastanza facile spendere lacrime di commozione per l'esilio dei cristiani, ma il momento in cui bisognava farlo era l'agosto del 2014, quando il Califfato li bandì dalle loro terre. Allora, il rapporto di Amnesty International fece a malapena menzione dei cristiani, dedicando invece ampio spazio agli yazidi, minoranza anch'essa perseguitata dallo Stato islamico.
  Rimasero in silenzio sui cristiani orientali quasi tutte le chiese protestanti d'America, troppo concentrate a demonizzare Israele e la sua "apartheid", sebbene sia l'unico paese fra Casablanca e Mumbai dove i cristiani crescono ogni anno. In Francia, è stato impossibile persino un evento con la scritta "Au profit des chrétiens d'Orient", che segnalava cioè che gli incassi sarebbero stati devoluti in favore dei cristiani d'oriente. Las Ratp, la società che gestisce la metropolitana di Parigi, ha burocraticamente spiegato che "il metrò è uno spazio laico, dove non sono ammesse prese di posizione né politiche né religiose". In Inghilterra, l'ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, ha appena denunciato che "chi tra noi chiede da mesi compassione per le vittime siriane vive una grande frustrazione perché la comunità cristiana, ancora una volta, viene abbandonata e lasciata per ultima". Il premier David Cameron, infatti, ha annunciato che accoglierà solo chi si trova già in un campo per rifugiati delle Nazioni Unite. "Ma così - continua l'ex primate anglicano - Cameron discrimina inavvertitamente le comunità cristiane, che sono le più colpite dai quei macellai disumani che si fanno chiamare Stato islamico".
  Il problema della discriminazione dei cristiani nell'accoglienza dei rifugiati non riguarda solo l'Inghilterra, ma anche la Francia. L'esperto di Siria all'Università di Tours, Frédéric Pichon, ha dichiarato a Radio Courtoisie: "Esistono delle precise consegne da parte del governo per ignorare il problema dei cristiani d'oriente". Sono silenti tutte le ong laiche europee come Oxfam, lasciando la difesa dei cristiani a eroiche ma minoritarie organizzazioni non governative cristiane come Barnabas Fund. Perché il mondo è stato all'azione da parte del tentativo dell'Isis di commettere un genocidio contro gli yazidi ed è rimasto a guardare mentre si compiva lo sterminio e l'esilio dei cristiani? Le loro famiglie non possono andare in Siria e non sono ammesse in Turchia. I più fortunati vivono in tende nelle zone curde.
  Perché i cristiani dell'Iraq non possono avere un santuario in occidente? Gli occidentali sono stati abituati a pensare a quei cristiani come ad agenti di una aggressione coloniale e non le sue vittime, quindi siamo sordi alle loro richieste di aiuto, persino alle loro storie, così esotiche. Ogni disgusto per la nostra viltà morale viene bilanciato dall'ammirazione per quei siriani e iracheni che continuano a testimoniare la loro fede in una terra che vuole espellerli dalla storia.

(Il Foglio, 23 novembre 2015)


Oltremare - Qui Tel Aviv

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Qui Tel Aviv, dove siamo tutti Charlie ogni giorno, come in fondo in tutta Israele. Per chi come me è arrivato dopo la fine dell'ondata di terrorismo kamikaze di inizio anni Duemila, il flip-flop degli elicotteri è un suono di sottofondo, non particolarmente gradevole, ma neanche minaccioso. Gli altri, sanno che quando si alzano gli elicotteri è segno che dall'alto si cercano attentatori fuggitivi, e fanno il tifo. Altre indicazioni del terrore non sono palpabili. Sì, forse qualche volante e qualche poliziotto in più in giro per la città, ma nulla di più. Poliziotti in borghese? Forse, ma si mischiano sufficientemente bene al movimento continuo delle persone, e chi non li cerca non li vede.
Perciò, quando un attentato avviene in città, come giovedì scorso, anche se magari non proprio in centro, i telavivesi si stupiscono, come se noi fossimo vaccinati, o esenti, forse in nome delle sofferenze pesanti del passato. Ci offendiamo persino un po': ma come, questa è Tel Aviv, la città tacciata di essere fin troppo di sinistra (finchè non si scende in strada a parlare con le persone), con la maggiore concentrazione di votanti per i panda politici che chiamiamo Meretz. Come si permettono di venire a colpire proprio qui?
Non che altrove gli accoltellamenti o gli spari da auto in corsa siano lontanamente giustificabili o anche solo collocabili in una qualche ideologia assassina definibile, che riunisce persone per un fine comune. Nulla di tutto questo. Ma qui, la natura mista, multilingue, multicolore della città stona in modo particolare con il desiderio di distruggere, uccidere e spaventare. Devo controllare al più presto se lungo la tayelet (la passeggiata in riva al mare) il panorama umano cambia ancora ogni trecento metri, includendo coppiette, piccoli gruppi di adolescenti, famiglie musulmane di tre o quattro generazioni e barbecue al seguito, altre coppiette dalle origini indefinibili, turisti biondi, turisti non biondi, cani e molti gatti. Passeggiando tutti, magari non insieme, ma lungo lo stesso tratto di costa.


(moked, 23 novembre 2015)


«Io, romano emigrato a Bruxelles, insegno ai miei figli a difendere la nostra libertà»

Lettera al Messaggero di un romano che da gennaio si è trasferito con la sua famiglia a Bruxelles e che ora si trova a vivere in una città blindata con la ferma volontà di non rinunciare alla libertà.

Caro Messaggero,
l'ultima volta che ho avuto il piacere di scrivervi ero un cittadino romano nauseato dall'ennesimo furto in appartamento subito e che auspicava di avere la possibilità di andare a vivere all'estero insieme alla mia compagna e ai nostri tre bambini. Effettivamente le circostanza della vita ci hanno portato a vivere dallo scorso gennaio in quel di Bruxelles, ed è da qui che vi invio questa missiva.
   Sono giorni difficili per noi e i nostri concittadini; io qui faccio il papà a tempo pieno mentre la mia compagna lavora e provvede al nostro sostentamento. Quindi la mia giornata scorre tra la cura dei bambini (hanno 8, 5 e 2 anni) e le altre attività casalinghe e di gestione familiare. Ora mi trovo davanti ad una situazione impensabile sino a pochi giorni or sono, con una minaccia terroristica concreta da considerare, e soprattutto difficile da spiegare ai bambini (ai quali già a Roma avevamo dovuto spiegare il concetto di ladro visto che anche molti dei loro vestiti e giocattoli erano stati trafugati).
   Le scuole, gli asili nido e anche la maggior parte degli uffici saranno chiusi domani, e nei prossimi giorni ancora non si sa. Mio figlio grande a cena ci ha chiesto: "ma i terroristi possono venire qui da noi?" Abbiamo cercato di spiegargli che gli obiettivi dei terroristi sono i posti affollati dove possono fare male a un grande numero di persone. Il loro obbiettivo è "terrorizzare" le persone e costringerle a cambiare la vita che sono soliti fare. Soprattutto li abbiamo incoraggiati a farci domande e a parlarne. "Però amore, non ti preoccupare che a casa non vengono e nemmeno a scuola."
   Certo anche noi genitori avremo bisogno di informarci e di capire quali siano i modi più corretti per affrontare questi argomenti con i figli, per altro ancora molto piccoli. Ho sentito molto parlare in questi giorni riguardo la possibilità di abituarsi a vivere come a Tel Aviv, di convivere quotidianamente con la paura sin dalla mattina quando mettiamo i nostri figli sul bus che li porta a scuola. Non so onestamente cosa pensare, da un lato mi sembra ancora impossibile, dall'altro la paura effettivamente comincia a farsi strada.
   La scuola dei mie figli è una scuola internazionale, organizzatissima e dove le misure di sicurezza sono state innalzate già dopo i fatti di Parigi. La nostra casa si trova esattamente al centro delle zone la cui frequentazione è stata sconsigliata dalla polizia in questo fine settimana. Però noi ci sentiamo di non dargliela vinta ai terroristi, di non cedere alla paura. Oggi siamo usciti tutti insieme, abbiamo portato una palla e con altri amichetti siamo andati a giocare nel parco del cinquantenario, proprio dietro la sede della commissione Europea.
   Difficile prevedere come sarà la vita nei prossimi giorni, nei prossimi mesi. Già l'emergenza profughi, che anche qui abbiamo affrontato, aiutando e offrendo anche la nostra disponibilità ad ospitarne a casa, è stata ed è una prova difficile a livello familiare. Far capire ai piccoli che esistono persone più sfortunate che hanno bisogno del nostro aiuto. Una sola certezza però io e la mia compagna la abbiamo. Ci viene dalla nostra formazione culturale, dalla storia che ci è stata tramandata dai nostri genitori e soprattutto dai nostri nonni che hanno vissuto l'orrore della guerra e hanno combattuto e magari sacrificato la vita per opporsi a dei regimi totalitari: saremmo capaci di abituarci a vivere in una situazione come Tel Aviv se necessario, magari rinunciando ad alcune cose in nome della sicurezza comune; mai invece potremmo accettare di vivere come a Raqqa, in uno stato totalitario e nazista. Mai potremmo rinunciare alla nostra libertà e al nostro modo di vivere. Per questo saremmo disposti a combattere.
Vittorio Vitiello

(Il Messaggero, 23 novembre 2015)


Se i morti di Israele non fanno notizia

Il terrorismo che uccide da noi è lo stesso che colpisce nello Stato ebraico. Ma troppi fingono di ignorarlo.

di Fiamma Nirenstein

Non comprendere che il terrorismo che investe Israele è identico a quello che sta investendo il resto del mondo è molto pericoloso per l'Occidente, è una discriminazione, è distogliere gli occhi dal dolore, è negare la solidarietà che deve invece compattare tutta la guerra al terrore: se è vero che per affrontare lo scontro devi innanzitutto definirlo, il fraintendimento qui è corruttivo e letale. Ieri John Biden, il vicepresidente degli Stati Uniti, nel suo weekly address alla Casa Bianca sui temi del terrore, ha citato gli attacchi terroristi in corso definendoli «atroci» e ha menzionato Parigi, Beirut, l'Iraq, la Nigeria. Israele non compare nonostante ieri stesso abbia perduto una ragazza di 21 anni, Hadar Buchrìs, e abbia subito altri attacchi, come ogni giorno. Con quanto dolore abbiamo visto in questi giorni su tutti i giornali la faccia sorridente di Valeria, soffrendo anche per la rabbia che deriva dall'incomprensibile casualità dell'evento. Ieri ci è toccato di vedere il volto bellissimo di Hadar sui giornali. Uccisa dalle coltellate in una strada del Gush Etzion, vicino a Gerusalemme. L'assassino, era un 34enne di Beit Pajar, un villaggio palestinese. Sempre ieri un guidatore di taxi ha tentato di travolgere un gruppo di israeliani, e poi è saltato giù dalla macchina con un coltello, ne ha ferito uno, poi un civile gli ha sparato. Una donna al volante è stata anche lei colpita mentre cercava di travolgere un israeliano.
   Non sono che le ultime notizie di uno stillicidio continuo di un attacco che dura da tre mesi, ma che ha i suoi prodromi sin negli anni Venti quando il terrorismo viene impostato come genocidio programmato da parte del mufti palestinese Haj Amin al Husseinì, l'amico di Hitler che decide di tentare la cancellazione degli ebrei dall'area della Palestina (nome che i romani dettero alla Giudea) che stava divenendo, da Mandato Britannico, Israele. Dal primo di ottobre al 19 novembre sono stati compiuti 91 attacchi da 102 palestinesi e tre arabi israeliani. Almeno una dozzina avevano fra i 12 e i 17 anni, altri sono donne fra i 16 e i 72 anni, circa la metà sono stati uccisi dalle forze dell'ordine. Gli attacchi hanno coperto tutta Israele, ma Gerusalemme è stata l'epicentro perché morirvi da shahid è un desiderio di massa fra i giovani.
Gira in questi giorni un'intervista a una graziosa madre palestinese in un ospedale israeliano: il suo bambino è stato appena salvato dai medici israeliani, («Non ci siamo arresi, sorridi» dicono con alla madre araba che piange di gioia), ed ecco che la donna si dichiara pronta a dare la vita di suo figlio per Gerusalemme, perché da Al Aqsa il profeta si è involato. Ripete che per i musulmani la morte è come la vita, non fa paura, anzi, la desiderano. L'Intifada corrente è fatta, come a Parigi, di terroristi suicidi: solo qualche giorno fa un giovane ha seguitato a sparare a un poliziotto riparato da uno scudo antiproiettile, finché quello, trovandoselo davanti al naso, non è stato costretto a ucciderlo. Voleva il martirio. Certo, non tutti i palestinesi sono così, ma lo sono quelli che praticano il terrorismo, la loro aspirazione non centra nulla con la richiesta di uno Stato Palestinese. Il martirio per la fede, l'odio per gli ebrei imperialisti sono il leit motiv che accompagna tutto lo jihadismo contemporaneo. L'esercito terrorista palestinese condivide ciò che tutti i terroristi hanno in comune: un'educazione dei media, della famiglia, della scuola, talvolta elevata ma intrisa di determinazione a battere un nemico visto come il demonio, e una potente spinta a farsi shahid. I terroristi di oggi disprezzano il compromesso, che è trattativa col male.
   È di ieri una rilevazione del Palestinian Media Watch in cui una bambina recita questa poesia alla tv dell'AP: «Quando ero piccola mi hanno insegnato che essere araba è il mio onore, che la nostra terra si estende da una punta all'altra, che le guerre sono per la Moschea, che il nostro nemico, Sion, è Satana con la coda». È con questa cultura che sono stati uccisi fra i primi davanti ai loro bambini dai 9 anni ai 4 mesi Eitan e Naama Henkin. E dopo e prima tanti e tanti israeliani, a migliaia: non riconoscerli come vittime del terrorismo che colpisce anche Parigi e può colpire chicchessia è un disconoscimento della forza esplosiva della ideologia islamista, una resa alla propaganda.

(il Giornale, 23 novembre 2015)


Frontiere e moschee chiuse. Così si batte il terrorismo

Magdi Cristiano Allam: dalle associazioni falsi messaggi. Manifestazione-flop perché non rappresentano nessuno.

di Antonio Angeli

 
Magdi Cristiano Allam
ROMA - «Più moschee, più terrorismo. Questa è la realtà, al contrario di quanto espresso dai manifestanti sabato a Roma»: l'analisi è di Magdi Cristiano Allam, giornalista, scrittore, politico italiano di origini egiziane. «Dagli organizzatori di "Notinmyname" - afferma Allam - c'è stato un messaggio opposto a ciò che ci si attendeva dopo la strage di Parigi».

- Magdi Cristiano Allam, perché la manifestazione di sabato è stato un flop?
  «Da sempre le sigle che in Italia vantano la rappresentanza dei mussulmani sono realtà autoreferenziali. Le cosiddette associazioni islamiche delle varie città, alcune perfino d'Italia, vengono costituite presso un notaio, da parte di poche persone, che si arrogano la titolarietà di quella rappresentanza, che non ha alcun riscontro».

- Perché?
  
«Perché i mussulmani delle varie città, o di tutt'Italia, non si sono riuniti e non hanno votato quell'associazione. Inoltre noi, nella nostra ingenuità, ignoranza e irresponsabilità favoriamo la comunitarizzazione dei mussulmani, pensando che persone che arrivano da Paesi a maggioranza islamica debbano essere declinate non per nazionalità, come accade per qualsiasi altro cittadino, ma sulla fede religiosa. Cadiamo così in errore, sulla base della strategia di chi, attraverso le moschee, vuole islamizzarci. In realtà solo il 5-10 per cento dei mussulmani in Italia frequenta le moschee. È dunque del tutto errato ritenere che queste associazioni siano rappresentative di un milione e mezzo di mussulmani»,

- Come si comporta il 90 per cento?
  
«Può anche essere credente e praticante, ma non obbligatoriamente frequentare i luoghi di culto. Ogni buon mussulmano può espletare le cinque preghiere quotidiane a casa propria. A maggior ragione le moschee, più che luoghi di culto, sono luoghi di indottrinamento ideologico. Poi ci sono anche tanti mussulmani che possono essere definiti "laici».

- Come si comportano?
  
«Vestono all'occidentale, non pregano, mangiano maiale e bevono alcolici. E alle volte proprio da questi abbiamo delle brutte sorprese. In preda a una crisi di valori, nella necessità di avere punti di riferimento possono essere facile esca del terrorismo islamico che riesce a dare loro un'alternativa fin troppo forte, invasiva, autoritaria. C'è poi un altro percorso, quello delle persone che sono dentro alla fede e alla pratica islamica, che aderiscono al jihad, si arruolano in una delle innumerevoli sigle del terrorismo islamico, hanno un' esperienza militare in uno dei campi in Iraq o Libia, Siria, Somalia e poi possono tornare escatenarsi contro il loro stesso Paese, come è accaduto a Parigi. Il terrorismo islamico ha ormai questa specificità: è autoctono ed endogeno: coloro che perpetrano questi crimini sono cittadini europei che colpiscono dei loro connazionali condannati indistintamente come miscredenti, nemici dell'Islam».

- Serve allora chiudere le frontiere?
  
«Certo, chiudere le frontiere avrebbe grande beneficio e su questo Renzi e Alfano si sbagliano di grosso, siamo l'unico Stato al mondo che investe risorse per finanziare l'autoinvasione. Noi stiamo facendo entrare in Italia centinaia di migliaia di sconosciuti. È fuori dubbio che tra questi ci siano dei terroristi islamici. Tornando alla manifestazione c'erano dei cartelli che dicevano: "No al terrorismo, sì alle moschee". C'è una volontà di inganno della realtà, perché dove ci sono più moschee, nei paesi islamici, ma anche in Francia, c'è più terrorismo. La Tunisia, dopo la strage di Sousse, ha ordinato la chiusura di 80 moschee, definendole covi di terrorismo islamico».

(Il Tempo, 23 novembre 2015)


La terribile normalità. Avevamo dimenticato l'energia dell'odio

di Robert McLiam Wilson

Riportiamo questo articolo del Corriere della Sera non perché siamo d’accordo con le conclusioni del suo autore, ma perché fa giustizia, anche se in modo secco e crudo, di tante raffinate pseudospiegazioni che si danno oggi dei fatti tragici che stiamo vivendo come notizia, se non come partecipazione diretta. Invece di cercare sottili giustificazioni razionali di tanti massacri come quelli che vediamo, l’autore fa risalire tutto a una lineare, semplicissima spiegazione: l’odio. Puro odio che non ha bisogno di altre motivazioni. L’esempio più chiaro, addirittura paradigmatico, si ha nell'odio purissimo che manifestano gli accoltellatori di ebrei in Israele. Crediamo che le cause profonde ci siano, ma non sono di ordine tecnico-storico-politico, come quelle che si trovano sui media. NsI

Non voglio più guardare i loro volti. Sono scosso dalla loro giovinezza. Sono scosso dalla loro bellezza. Quella stupida giovinezza, quell'innocenza stordita, quella sensazione di essere eterno e la convinzione ineluttabile, che i giovani hanno, di piacere a tutti.
   Siamo tutti fissati con i volti, non è vero? Ci piace leggerne le storie, i segni, perfino la musica. Da bambini, la prima cosa che vediamo è un volto umano. Se siamo molto fortunati, anche l'ultima cosa che vediamo è un volto umano, che ci accompagna, offrendoci qualcosa a cui dire addio. Sì, questi siamo noi. Per noi, i volti sono tutto. Non voglio più guardare i loro volti. È passato molto tempo da quando gli occidentali privilegiati hanno avuto bisogno di odiare qualcuno. Hanno dimenticato cosa vuol dire. Hanno dimenticato quanto può essere divertente l'odio.
   Che cos'è l'odio? Beh, è il Grande Persuasore. Nessuna ideologia, nessun principio, nessun ideale può avvicinarsi alla gamma e al potere dell'odio. Con la sua energia drogata e la sua convinzione totale, l'odio può farti mangiare montagne e bere oceani. È la benzina per qualsiasi fiamma emotiva, un moltiplicatore sinergico per qualsiasi risentimento, una lente di ingrandimento nucleare per qualsiasi pregiudizio. Il suo fascino principale? Assoluta e totale rettitudine. Quelli che odiano non credono di avere ragione, lo sanno. L'odio l'ha detto loro. L'odio gliel'ha mostrato. E l'odio non può essere persuaso. Con lui non si può mai negoziare.
   Sono cresciuto con questa roba, a Belfast, un minuscolo buco di merda, marinato in antichi odi, come una malattia cronica in remissione semipermanente. Se si impara qualcosa abbastanza presto, lo si codifica nel proprio Dna. Diventa memoria muscolare o un fenomeno autonomo come il sonno o la respirazione. Lo conoscete come conoscete voi stessi.
   Così, ho imparato che l'odio è divertente e utile. E mi dispiace dire che ho imparato anche che, nonostante quello che ci dicono i benpensanti, quasi mai l'amore riesce a trionfare su tutto. L'amore non ha alcuna possibilità contro l'odio.
   Esito a dire la verità. È molto brutta e priva di alcun conforto. La vostra tristezza su Facebook e il coraggio su Twitter non fanno alcuna differenza. Quelli che dicono che non è guerra hanno perfettamente ragione. Non è guerra. Si tratta di un massacro. Questa settimana Parigi è un mattatoio.
   Loro erano le vittime e noi siamo gli obiettivi. Perché non si possono terrorizzare i morti.
   Jean-Jacques Rousseau si era sbagliato su quasi tutto. Amo Rousseau, ma ha torto tanto quanto è influente. Ha contribuito a creare l'affascinante sogno dei diritti umani come qualcosa che ognuno di noi possiede individualmente. Una sorta di cappotto che indossiamo, non importa che tempo faccia. Qui ci sono i miei diritti. Sono parte di me, come le mie lentiggini o il mio colore di capelli.
   Non sono il primo a dire che abbiamo solo i diritti che possiamo far rispettare. Ma direi che i nostri diritti sono in realtà quasi completamente nelle mani delle persone che incontriamo. Belfast me l'ha insegnato. Dopo una serie particolarmente prolungata di uccisioni per vendetta, quando avevo 12 anni, ho imparato che quando il ragazzo con la Browning gMM bussa alla tua porta nel bel mezzo della notte con alcune sincere obiezioni politiche, è lui che possiede tutti i diritti. Ciascuno di essi. E se ha un AK-47, possiede anche i diritti di tutte le persone accanto a te.
   Questa è l'orribile verità. Il vostro diritto di vivere e respirare dipende dalla pazienza di coloro che potrebbero essere tentati di portarvelo via. Dipende dal loro umore e capriccio. È sempre stato così.
   Questo è il vostro mondo ora. Questo è il nuovo adesso. Ma non preoccupatevi. Vi ci abituerete. Come uomo di Belfast, posso dirvi quello che fanno i cittadini con esperienze di conflitti. È facile. Perché quello che fanno è esattamente questo ... niente. Costruiscono una vita intorno all'orrore e le cose vanno avanti come al solito, la nuova normalità. Gli episodi di violenza diventano una sorta di ingorgo molto brutto. Si tenta di evitarli, ma non c'è molto che si possa fare per fermarli. Non è disinteresse. È l'adattamento umano, la riscrittura del Dna.
   Così, gli attacchi a Charlie Hebdo erano per aver schernito il profeta? Ok. Ma ora queste nuove barbarie sono per le interferenze in Siria. Davvero? Di cosa si tratta? Di sgomento dottrinale o sofferenza geopolitica? Pensate che questo branco di sociopatici super perdenti avrebbe potuto fornire un sunto coerente delle loro obiezioni politiche? Avrebbero citato Mao, facendolo? Non cadete in errore, amici europei, siete in una guerra di stronzate con stronzi senza cervello.
   Osservate la traiettoria intellettuale dei guerrieri con scarso quoziente intellettivo che fanno queste cose. Quasi la stessa di tutti i simili cretini che conoscevo a Belfast. Questa roba è un bel salto di carriera per chi è annoiato dal suo stile di vita da perdente. Ti sei impantanato, spacci un po' di droga scadente o sei un piccolo pappone? Non sei più il bello e dannato del liceo? Perché non attrezzarti e uccidere delle persone? In America, ragazzi bianchi vergini teste di cavolo fanno la stessa cosa quasi ogni mese.
   L'idea che gli assassini di Parigi volessero protestare contro l'emarginazione o causare una reazione militare eccessiva in Medio Oriente è ridicolmente fuori strada. Qui non vi è alcun contenuto, nessuna tesi. Smettiamola di far finta che ci sia. Questo è ciò che fanno le persone che pensano quando reagiscono all'assenza di pensiero: riempiono i vuoti con le proprie proiezioni. Sì. C'è un messaggio. Ma è molto semplice. È stato presente a lungo in tutti i Paesi, in tutte le culture. Chiedete a chiunque viva in un quartiere malfamato cosa vuole comunicare questa grottesca barbarie. Sta dicendo: siamo cattivi. Non fateci incazzare.
   Le strade erano quasi vuote oggi. Era come una specie di incubo natalizio. Le poche persone che ho visto, camminavano con un passo speciale, un'andatura dolce e silenziosa. Mi ha ricordato il modo in cui la gente a volte camminava nella città dove sono nato. Sono stato sopraffatto dalla tenerezza per i miei compagni parigini. Anch'essi oggi mi sono sembrati bellissimi. Neri, marroni, bianchi o nessuno dei precedenti, erano i miei fratelli, le mie sorelle. Anche loro brillavano. Una luce brillante e tranquilla.
   Dovrei essere cauto con l'analogia con l'Irlanda del Nord. Ma, in un certo senso, si tratta ancora di un banco di prova per come cose del genere possano accadere in Europa. Questo non fa di Belfast un modello di ciò che sarà Parigi (o Roma o Berlino). Spero comunque di no. Perché nessuno ha vinto a Belfast. E nulla è mai cambiato. Abbiamo detto cento volte che non avremmo mai dimenticato. Eppure dimentichiamo sempre.

(Corriere della Sera, 23 novembre 2015 - trad. x-trim solutions)


“L'amore non ha alcuna possibilità contro l'odio”, dichiara l’autore. Non siamo d’accordo, ma sostenere il contrario fa parte di un annuncio evangelico che riserviamo ad altri momenti e in altre sedi.


E Parigi ora si prepara a vivere come in Israele

di Stefano Montefiori

PARIGI - In questi giorni mi sono ricordato quel che mi disse in un'intervista di qualche anno fa il politologo Dominique Moïsi: «Dobbiamo prepararci a una israelizzazione della nostra vita quotidiana». Da quel che ho letto, dai racconti degli amici israeliani e non, immagino che questo voglia dire vivere una vita quasi normale, con gli impegni e le abitudini occidentali sempre più simili da Tel Aviv a Parigi, da Milano a New York, ma con in più la costante consapevolezza che l'orrore potrebbe tornare, in ogni istante.
   I parigini continuano ad accompagnare i figli a scuola e alle varie attività (inglese, teatro, sport) come prevede la routine del bambino moderno. Solo che prima di uscire di casa ricevono un'email dal responsabile dell'istituto, che annuncia la nuova procedura: non sostare davanti all'ingresso, lasciare il bambino, uscire senza creare capannelli. Così preparati si arriva all'appuntamento, e nella hall dove di solito i genitori si fermano a parlare, tutti i mobili sono stati spostati, per formare una specie di corridoio che l'addetto alla sicurezza invita gentilmente a percorrere in fretta. I bambini non si rendono conto di niente (o fingono), e non fanno domande, i genitori compiono il breve tragitto senza tante storie e anche con una certa eleganza, siamo a Parigi dopotutto.
   Mi è venuto in mente il ricordo vago di un vecchio attentato in Israele, e dopo una ricerca su Google ecco: il primo giugno 2001 a Tel Aviv un kamikaze ha ucciso 21 persone (tra le quali 16 adolescenti) ferme in fila per entrare in discoteca. Solo uno fra i tanti massacri che gli abitanti di Israele hanno dovuto subire negli anni.
   Gli israeliani hanno continuato ad andare in discoteca, come i parigini continuano a frequentare i bistrot magari in terrasse, i tavolini all'aperto riscaldati d'inverno. All'ora di pranzo ieri il Pause Caf? era pieno. Ma la scena era sinistra: i clienti mangiavano e chiacchieravano protetti da due gendarmi eon giubbotto antiproiettile fino alle gambe, mitra in pugno, immobili. La forza militare dello Stato a tutela del pannentier de canard e del bicchiere di Bordeaux. Dev'essere questa la nuova per noi - vita normale.

(Corriere della Sera, 22 novembre 2015)


"Francia, Israele: lo stesso piano. Inaccettabili i doppi standard"

Gli attentati in Francia, Mali e Israele fanno parte dello stesso piano, dello stesso terribile progetto.
Lo ha ricordato con chiare parole Sergio Della Pergola, illustre demografo e storico collaboratore delle nostre testate, ospite ieri di uno speciale dossier del Tg2 dedicato agli ultimi fatti di sangue e alla minaccia che grava sul mondo progredito.
"Il tentativo operato in certi casi in ambienti politici culturali di operare una distinzione, mettendo Parigi e Mali da una parte e Israele dall'altra, suscita un certo stupore. Si tratta infatti del medesimo progetto di destabilizzazione operato dal fondamentalismo islamico su scala internazionale. Un fatto da comprendere a pieno affinché - ha ammonito - non vengano a innescarsi perversi meccanismi di attribuzione di due pesi e due misure".
Della Pergola ha inoltre posto l'accento sulle responsabilità cui non possono sottrarsi i leader islamici nell'interpretazione e nella divulgazione dei testi sacri. Dopo aver letto una sura del Corano intrisa di odio antiebraico, ha infatti affermato: "Queste parole, se pronunciate da imam irresponsabili di fronte a menti giovani, rischiano di creare danni gravissimi".
Come gravissimi e inequivocabili sono i riferimenti antiebraici e anti-israeliani che appaiono nello statuto di Hamas, altro esempio citato nel corso della ampia diretta. "Serve maggiore attenzione a quello che diciamo e viene detto. È importante mettere un argine", ha sottolineato Della Pergola.
L'invito, in queste giornate complesse, è ad andare "alle radici ideologiche del discorso".

(moked, 22 novembre 2015)


Coloni israeliani.
L'intesa diventa un caso politico

Il "Corriere della sera" lo ha chiamato "Lo strappo della Valtellina". Venerdì la Provincia di Sondrio è finita sulla prima pagina del quotidiano milanese, che ha parlato dell'accordo che ha portato a diventare partner dei coloni israeliani.

Luca Della Bitta, Presidente della Provincia di Sondrio
Il "Corriere della sera" lo ha chiamato "Lo strappo della Valtellina". Venerdì la Provincia di Sondrio è finita sulla prima pagina del quotidiano milanese, che ha parlato dell'accordo che ha portato a diventare partner dei coloni israeliani. L'articolo è firmato da Francesco Battistini, una delle penne più prestigiose di via Solferino. Sembra che la scelta sondriese non sia piaciuta.
   Stavolta non si lodano le qualità di pizzoccheri e vini doc, ma si esprimono perplessità per un'intesa con i coloni, le comunità che vivono in territori contesi e in vari casi senza l'approvazione dell'Onu. Battistini rileva che i partner di questo accordo si sono invitati più volte e si sono piaciuti molto. «E alla fine, ma chi se ne importa degli accordi internazionali, dell'Onu o della Ue, il patto s'è fatto: la Valtellina si smarca e promuove "la cooperazione nello scambio culturale, commerciale, turistico, agricolo e tecnologico" coi coloni israeliani di Shomron», si è letto sull'edizione di venerdì.
   "Voi le sassate, noi il Sassella?", ironizza - ma non troppo - il giornalista ricordando che sullo strappo dei valtellinesi è cominciato il tamtam delle organizzazioni non governative filopalestinesi. Battistini ha chiesto il parere di Palazzo Muzio. «Alla luce dei fatti di Parigi - difende la scelta il presidente della Provincia, Luca Della Bitta -, questo accordo rinnovato di amicizia e confronto ha un valore simbolico e l'ho spiegato anche a Battistini, poi purtroppo si è costruito un castello enorme. Si tratta di un aiuto al difficile percorso che in quelle terre stanno facendo. Le nostre storie sono accomunate dalla stessa viticoltura eroica, perché noi e loro abbiamo saputo produrre vino di qualità su territori difficili. Poi non ci si chieda d'entrare in situazioni che vanno ben al di là della nostra piccola Provincia. Non parliamo di diplomazia internazionale, qui: siamo partiti dal vino e dal dialogo che può avere origine sulla base di quest'esperienza».
   Il Corriere ha rilevato che inevitabilmente un po' d'imbarazzo c'è, ricordando che a ogni missione ufficiale dall'Italia, nel rispetto d'una linea comune decisa dal nostro governo con americani ed europei, i diplomatici raccomandano sempre d'evitare incontri pubblici coi coloni. Gli accordi commerciali, sono ancora meno graditi. Basta una foto, infatti, a scatenare polemiche. Qualche tempo fa, il premier Matteo Renzi, in visita di Stato, si stava facendo una passeggiata per Gerusalemme quando un capo degli insediamenti provò ad avvicinarlo. La scorta trascinò via l'ammiratore.
   «Ci siamo documentati prima di portare avanti questo percorso, sentendo le testimonianze di coloro che sono stati sul posto, a cominciare da un interlocutore autorevole come Fiorello Provera - aggiunge Della Bitta -. Anche Renzi sostiene che il boicottaggio non è una soluzione e non costruisce la pace. Siamo al fianco di una città dove ebrei e palestinesi frequentano la stessa università e lavorano nelle stesse aziende con gli stessi salari. Sulla base dei problemi esplosi negli ultimi giorni, questa iniziativa di dialogo ha un valore ancora maggiore».
   Della Bitta chiude con una battuta. «Se questa vicenda serve per ricordare a Roma che ci siamo e le attenzioni che meritiamo e di cui necessitiamo, va benissimo».

(La Provincia di Sondrio, 22 novembre 2015)


Abbiamo riportato tre giorni fa l’articolo che parla di questo accordo, mentre non abbiamo riportato l’articolo critico di Francesco Battistini, che avevamo letto, proprio perché non volevamo dare alimento ai sostenitori, diretti o indiretti, del boicottaggio antisraeliano. Riportiamo invece questo articolo del giornale di Sondrio perché è incoraggiante. Si spera che l’esempio valtellinese possa essere imitato da altri e difeso da eventuali azioni intimidatorie dei soliti boicottatori filopalestinesi. M.C.


Chi è davvero al fianco di Isis? Ecco tutte le accuse incrociate

Per Erdogan sarebbe lo stesso Assad a finanziare gli jihadisti. Mosca chiama in causa turchi e sauditi. E Israele incolpa l'Iran.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Erdogan accusa Assad, Putin chiama in causa Turchia, Qatar e Arabia Saudita, l'Iran punta l'indice su Israele e viceversa, nelle sedi diplomatiche di Istanbul e nei ristoranti di Amman non si parla di altro: chi sono i fiancheggiatori segreti dello Stato Islamico (Isis)? È una discussione disseminata di indiscrezioni e sospetti che dà il polso dell'atmosfera in Medio Oriente.

 Il greggio di Assad
  Il presidente turco Erdogan, intervenendo al summit sull'Energia a Istanbul, ha accusato Bashar al Assad di «acquistare sottobanco petrolio venduto da Isis, pagandolo a peso d'oro». Ciò significa che «Assad sfrutta il terrorismo per rimanere in piedi» sotto due aspetti: ottenere il greggio che manca al regime e rafforzare un nemico contro il quale sta costruendo una sua nuova legittimità politica. «Isis è sostenuto da Assad», assicura Erdogan.

 I finanziatori privati
  L'affondo di Erdogan è arrivato pochi giorni dopo la chiusura del G20, che ha visto il presidente russo Vladimir Putin autore di un colpo di teatro, consegnando ai leader presenti una lista di finanziatori privati di Isis: si tratta di cittadini di 40 Paesi, ma spiccano in particolare i turchi, sauditi e qatarini. Sono individui che il Dipartimento del Tesoro Usa segue sin dal 2013, quando al-Baghdadi iniziò a ricevere donazioni - attraverso il Kuwait - in precedenza destinate ad altri gruppi sunniti in Siria e Iraq.

 Sospetti a Istanbul
  Fra i diplomatici europei accreditati a Istanbul e Ankara circolano con insistenza sospetti su presunte complicità fra il governo turco e Isis. La tesi prevalente è che Ankara ha consentito a Isis di rafforzarsi al fine di rovesciare il regime di Assad. La prova, indicata da più voci, sarebbe l'«autostrada della Jihad» fra il Sud della Turchia e il Nord della Siria che vede passare non solo i foreign fighters, ma anche i commerci illeciti che alimentano le finanze di Isis.

 Ospedali nella Galilea
  La tv libanese Al Manar, espressione di Hezbollah, accusa Israele di curare nei propri ospedali in Galilea un «grande numero di takfiri», ovvero jihadisti sunniti. Si tratterebbe di miliziani islamici, feriti in combattimenti, che attraversano la frontiera del Golan, vengono raccolti da Israele, curati e rimandati indietro. Israele nega tali accuse, affermando che sono civili feriti gravi - circa 1200 finora - curati «per ragioni umanitarie». Hossein Shariatmadari, direttore di «Kayhan», vicino ai conservatori di Teheran, definisce Isis «uno strumento di Usa e Israele nel complotto occidentale contro Assad».

(La Stampa, 22 novembre 2015)


KaDeWe ci ripensa, rimette in vendita prodotti israeliani

Il KaDeWe (Kauf des Westens, il grande magazzino di Berlino, rimetterà sui suoi scaffali i prodotti israeliani che aveva ritirato dopo la decisione della Ue di etichettare i prodotti degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e Golan.
Lo riporta Haaretz che cita un comunicato nel quale il KaDeWe sostiene di "rammaricarsi che l'atteggiamento sbagliato del gruppo abbia portato a fraintendimenti". Oggi il premier Benjamin Netanyahu aveva chiesto al governo tedesco di intervenire.

(ANSA, 22 novembre 2015)


Noi coetanei dell'orrore

La genenerazione degli anni 80 cresciuta con l'islamismo, e ci combatterà sempre. Senza appigli.

di Michele Silenzi

Siamo la generazione nata negli anni 80 e, fin da quando abbiamo coscienza, l'occidente è stato sotto attacco. La mia esperienza può essere quella di qualsiasi europeo che abbia più o meno la mia stessa età. L'11 settembre 2001 mancavano pochi giorni all'inizio del quinto ginnasio e il giorno dopo avrei baciato Giulia, la mia prima ragazza. L'11 marzo 2004 facevo il penultimo anno di liceo ed ero a casa con la varicella quando sono esplose le bombe a Madrid. Il 7 luglio 2005, appena tornato dai festeggiamenti per la mia maturità, ho trovato mia madre davanti al televisore che guardava le prime notizie in arrivo da Londra. Dove ero nel mezzo, durante tutti gli altri attentati, da Beslan a Mumbay, non lo ricordo esattamente. Il 7 gennaio 2015 era il mio primo giorno di lavoro, il terzo che cambiavo, quando hanno sterminato la redazione di Charlie Hebdo e fatto fuoco su degli ebrei che andavano a fare spesa. Ero al cinema a vedere "Spectre", il 13 novembre 2015, durante gli attentati di Parigi.
   Siamo noi la generazione del terrorismo islamico. Quella che ne ha subìto le immagini, quella a cui ha cambiato la percezione del mondo. E' nella nostra generazione che l'islamismo radicale ci attacca e muove progressivamente a occidente. Lo fa con le sue ondate migratorie, lo fa a causa della pochezza dei governanti che con i nostri primi voti abbiamo eletto, lo fa con la sua marea demografica perché noi siamo la generazione che non fa, non sta facendo e non farà praticamente figli.
   E saremo noi, nella nostra età adulta, a doverci confrontare più pericolosamente con questa minaccia crescente. Sarà con la nostra generazione lo scontro più duro, anzi, lo si è già visto che al Bataclan c'era gente della nostra età. Siamo coscienti di questo? Siamo all'altezza di questa sfida? Siamo in grado di rendercene conto? Si dice che dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, ma io non vedo molti appigli.
   Siamo noi che sfilavamo ancora con la kefiah palestinese durante le manifestazioni. Siamo noi che abbiamo sostituito all'odio per gli ebrei (perché l'antisemitismo proprio è sbagliato) quello per gli israeliani (perché invece il non meglio precisato antisionismo è proprio una cosa importante). Siamo noi che abbiamo manifestato in corteo portando simboli che non erano nostri ma retaggio di un'epoca più lontana del paleolitico, ovvero gli anni 70, perché il mondo si fa più complesso ed è impossibile capirlo senza nuovi parametri, senza categorie più complesse, senza una formazione che non si riesce ad avere cazzeggiando la sera tra blog vari e teorie cospirative su YouTube.
   Siamo noi che diciamo no a tutto ciò che è violenza necessaria, sacrificio necessario. Siamo noi, la nostra individualità, che è stata modellata dai corpi che precipitano dalle torri di New York, da quelli dilaniati di Madrid, da quelli bruciati di Londra, da quelli crivellati di Parigi. Siamo stati formati da questi, anzi, sformati. Perché da un lato c'è questo orrore, questa paura più o meno cosciente che ci prende. Dall'altro c'è un disagio completo, la sensazione di essere appesi nudi in mezzo a una piazza, imbarazzati e incapacitati ad agire. Non sappiamo cosa fare, vagamente cosa dire.
   Essere aggressivi? No, perché alla guerra non si risponde con la guerra. Essere in pace e non reagire? Forse, ma poi un giudice interiore ci rode. La nostra generazione cosiddetta post ideologica si trova a dover fare i conti con una delle ideologie più radicali, pervicaci e pervasive. E siamo nudi e siamo spogli. Non abbiamo armi, né materiali né culturali. Non siamo pronti a nulla perché non crediamo in nulla e per anni ci siamo cullati, con posa estetizzante o con lucida incoscienza, nel relativismo nichilista che tutto eguaglia al grado zero del nostro spirito, lasciandoci svuotati e privi di identità. Su di noi scende un velo di tristezza invincibile. Diventiamo una terra desolata, arida e asciutta, non più fertile né per partorire idee né per partorire figli. Il futuro, in un mondo così aperto, ci sembra chiuso, infatti diamo un'importanza assoluta alla quotidianità. E le parole che più mi sembrano adatte per descrivere questa sensazione di irreale sospensione e di coscienza intorpidita sono di T. S. Eliot: "Quel cadavere che l'anno scorso piantasti nel giardino, / ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno? / Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l'aiola?". Siamo forse la prima generazione a non avere uno scopo ben definito, veniamo quasi tutti da famiglie più o meno borghesi e il raggiungimento del benessere ha un'utilità marginale decrescente date le condizioni di partenza. E' privato di un obiettivo o scopo reale perché non supportato da alcun obiettivo di lungo termine.

(Il Foglio, 22 novembre 2015)


Non siamo pronti a nulla perché non crediamo in nulla...” Ecco che cos’è la “superiore” civiltà occidentale: il nulla. Un vuoto esistenziale totale, nobilitato dalla “libertà” concessa a ciascuno di svuotarsi nel modo che preferisce, senza remore, senza condizionamenti interni e, ovviamente, senza divieti esterni di nessun tipo. La Bibbia chiama questo vuoto “vanità”. Una descrizione attualissima degli uomini della “superiore” civiltà occidentale si può trovare nelle parole del profeta Geremia: “... sono andati dietro alla vanità e sono diventati essi stessi vanità” (Geremia 2:5). Potrà questo placido vuoto resistere a un feroce pieno che gli scaglia contro? Il dubbio viene, e la sua sola presenza fa perdere il sonno. Consigliamo la lettura della Bibbia, che sa parlare con parole adatte sia di vuoto sia di pieno. E sa dare, a chi l’accoglie come autentica Parola di Dio, quella piena certezza di fede che nessuna minaccia di morte può scalfire. M.C.


Not in my name

L'imam con te figlie (ma pochi in piazza). Tra i manifestanti Sami, Iusef, Leima e gli altri. «L'Islam è religione di pace».

di Paolo Conti

«No, la mia religione non ammette gli orrori dell'Isis. Siamo qui per dirlo con chiarezza, senza se e senza ma, una condanna piena. In questi crimini il nostro credo non c'entra niente. Dunque, not in my name, non nel mio nome». L'imam Sami Salem, alta e imponente, barba scura, guida la complessa comunità della Magliana, periferia tra Portuense e Fiumicino, controllata anni fa dalla banda più potente della storia della malavita romana. Area socialmente difficile, basterebbe poco per cavalcare rabbie. Invece Sami Salem è un po' il simbolo di questa manifestazione convocata dall'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche d'Italia per dire #notinmyname, non trucidate la gente usando il nome dell'Islam, delIa mia fede.
   Piazza Santi Apostoli non è strapiena, anzi, piove a dirotto e ci sono anche molti giornalisti e troupe televisive. Ma chi c'e si espone, parla, si unisce a cori come «L'Isis non è l'Islam è l'Islam non è l'Isis», proclama una condanna netta come mai si è visto nei raduni islamici. E quel «senza se e senza ma» di Sami Salem che fa la differenza, riconosciuta da un commento de L'Osservatore Romano. E l'aver portato con sé la bella moglie e le quattro figlie (16-15-13-7 anni) tutte nate in Italia, donne coperte da hijab (velo che si porta intorno al capo, ndr) multicolori ma col cartello #notinmyname, non nel mio nome, anche la piccolina di 7 anni che sorride felice.
   Sono in tanti a pensaria come Sami Salem. C'e il cartello inequivocabile scritto a pennarello da Iusef, imbianchino siriano di Darra, da 12 anni nel nostro Paese: «L'Isis è un cancro del corpo islamico, quello che hanno fatto è un attacco contro la comunità intera. La comunità islamica d'Italia», Forse voleva scrivere l'umanità intera», ma importa cio che dice: «Quando vedo le scene di terrore in tv, mi piange il cuore, la nostra è una religione di pace, loro sono dei criminali malati. Sarebbe bene smetterla di comprare il loro petrolio e di vendere le armi a quella gente».
   Sui palco il minuto di silenzio, i discorsi ufficiali (il segretario generale della moschea di Roma Abdellah Redouane, il presidente dell'Ucoii Izzeddin Elzir, Marco Impagliazzo della Comunità di Sant'Egidio, politici come Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto). Molte le donne. Sarah El Ghouazi, italomarocchina di 25 anni, hijab colorato e forte accento calabrese, davanti alle telecamere ripete eon un cartello: «lo non sono una terrorista e ci metto la faccia». Poco più in là, Lemia, irachena, 42 anni e da 22 in Italia, due figlie di 17 e 13 anni nate a Roma( «se parlo in arabo mi rispondono in italiano»), anche lei col cartello #notinmayname. E poi (altra differenza non trascurabile) molti imam, come Abdel Qader, medico e padre di famiglia, guida delIa comunità di Perugia, sempre col cartello #notinmayname: «Basta, noi musulmani siamo contro questo terrorismo, noi veniamo dal cuore dell'Umbria, la bella Umbria, anzi la nostra Umbria, una terra di pace, la terra di San Francesco».
   Gli imam sanno di essere al centro di una particolarissima attenzione da parte dell'intelligence, il pericolo è che attraverso certi incontrollabili sermoni in araba si veicolino messaggi di sostegno al terrorismo internazionale. Dice Mohamed Guerfi, imam di Verona, algerino di 43 anni e da 23 in Italia, che sostiene il cartello dell'Unione italiana imam e guide religiose, associazione di circa 200 esponenti islamici: «Nulla di quanto è accaduto è stato davvero compiuto nel nome di Dio o dell'Islam, condanniamo il fanatismo che è alla radice degli attentati di Parigi. Stiamo realizzando un gran lavoro di educazione dei nostri giovani, in piena collaborazione con le forze dell'ordine. È necessario, e molto importante».
   Alla fine della manifestazione, davanti a un portone, un gruppetto di uomini stende piccoli tappeti e prega dopo aver individuato la qibla, cioè la «direzione di preghiera» (ora è possibile orientarsi in solo un istante utilizzando Google map). Un gruppo arrotola lo striscione del Tmc, Torpignattara Muslim Center. Appena una manciata di anni fa poteva sembrare uno scherzo, invece eccoli lì, sono dieci nordafricani che salutano altri amici abbracciandoli. Qualche parola in arabo. Qualche altra in romanesco («Aha, telefoname!»).

(Corriere della Sera, 22 novembre 2015)


Condannate davvero il terrorismo islamico

Cari musulmani denunciate senza distinguo i terroristi.

di Magdi Cristiano Allam

Cari amici musulmani «moderati», vi esorto a condannare senza se e senza ma il terrorismo islamico, uscendo dall'ambiguità e ponendo fine alla dissimulazione. Come immaginate di potere risultare credibili se, a otto giorni dalle stragi che hanno insanguinato Parigi, inscenate delle manifestazioni a Roma e a Milano con le parole d'ordine «contro il terrorismo», «contro le guerre», «contro l'islamofobia»? Possibile che non siate neppure in grado di rappresentare correttamente la realtà (...) (...) specificando che si tratta di terrorismo islamico? Pensate che siamo tutti così ingenui da non capire che, se restate nel vago limitandovi a denunciare il «terrorismo», da un lato rifiutate di attribuire la connotazione di islamico al terrorismo anche se perpetrato nel nome di Allah e di Maometto, dall'altro sottintendete che si debba condannare contemporaneamente anche il supposto terrorismo di Israele, degli Stati Uniti e di tutti i nemici dichiarati dell'islam? Non capite che non si possono mettere sullo stesso piano la violenza di chi sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere per sottomettere l'intera umanità all'islam, con la forza legittima degli Stati per combattere il terrorismo, anche quando gli Stati sbagliano? E che non possiamo essere equiparati ai criminali islamici che disconoscono pregiudizialmente la sacralità della vita? Così come dovreste smetterla di volere accreditare come reato penale la cosiddetta «islamofobia» avanzando la pretesa, in una civiltà dove si legittima la critica alle idee, alle ideologie e alle religioni, dove chiunque è libero di dire di tutto e di più contro il cristianesimo, la Chiesa, il Papa, Gesù e la Madonna, che l'islam debba fare eccezione. Sono stato musulmano moderato per 56 anni, credendo e perseguendo l'obiettivo di affermare un «islam moderato» in Italia. Rivendico il merito di avere promosso una visione moderata dell'islam e di avere dato visibilità pubblica a musulmani moderati. II 10 settembre 2006 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi mi ricevette al Quirinale, con una delegazione di musulmani moderati che avevano sottoscritto il Manifesto contro il terrorismo e per la vita da me pubblicato sul Corriere della Sera il 2 settembre. In esso si leggeva: «Siamo schierati dalla parte dello Stato italiano contro i terroristi e gli estremisti di matrice islamica ( ) sia perpetrando trame eversive sia utilizzando taluni luoghi di culto per attività di indottrinamento e arruolamento». Si affermava senza mezzi termini: «Le moschee d'Italia non devono in alcun modo trasformarsi in un cavallo di Troia di ideologie integraliste volte a imporne un potere islamico teocratico e autoritario». Questa presa di posizione fu assunta da musulmani moderati in un contesto in cui non subivamo con la stessa intensità la guerra del terrorismo islamico globalizzato. Oggi che il terrorismo islamico si è radicato come realtà autoctona ed endogena, a maggior ragione dobbiamo avere presente che la condanna del terrorismo islamico dev'essere un fatto scontato. Chi non dovesse condannare chiaramente e incondizionatamente va subito espulso.
   Da cittadino italiano, a prescindere dalla mia fede cristiana, vi dico che oggi non è più accettabile che tra noi convivano persone che non rispettino le leggi dello Stato, che non ottemperino alle regole della civile convivenza, che non condividano i valori fondanti della nostra civiltà, la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta compresa quella di un musulmano di abiurare l'islam senza essere condannato a morte per apostasia. Non illudetevi che gli italiani vi consentiranno in eterno di trattare l'Italia come una terra di nessuno da trasformare in una terra di conquista. Prima o dopo insorgeranno per riscattare il nostro legittimo e inalienabile diritto a essere pienamente noi stessi dentro casa nostra.

(il Giornale, 22 novembre 2015)


Il Dolphinarium e il Bataclan

Da Tel Aviv 2001 a Parigi 2015, è arrivato anche per noi il momento della consapevolezza?

di David Carretta

BRUXELLES - Il 13 novembre 2015 a Parigi sarà per gli europei quel che è stato il 1o giugno 2001 a Tel Aviv per gli israeliani? "Questa notte ho sognato che la mia donna di servizio si presentava a casa con il velo e si faceva esplodere", mi ha detto ieri un'amica, spiegandomi di essere rimasta scioccata dalla notizia di una attentatrice suicida belga che si è fatta esplodere durante il blitz di Saint-Denis di mercoledì, nel quale è stato ucciso l'organizzatore degli attacchi a Parigi, Abdelhamid Abaaoud. "Ho paura", ha sintetizzato un ragazzo, mentre suonano le sirene di un furgone della polizia che trasporta un detenuto verso il tribunale di Bruxelles. "Ho detto ai miei figli di non prendere più autobus e metropolitana", mi ha raccontato una mamma di fronte ai soldati col mitra che presidiano la stazione della metro di Schuman, su cui si affacciano i palazzi delle principali istituzioni dell'Unione europea.
  Sono parole simili a quelle che mi erano state dette da una mamma franco-israeliana sulla terrazza di casa sua a Tel Aviv nel 2002, a un anno e mezzo dall'inizio della Seconda Intifada: "Non prendo più gli autobus. Non dormo più la notte per il timore di ricevere una telefonata dalla polizia, quando mio figlio esce la sera. E ho il terrore di chiamarlo, perché ho paura che non risponda al telefono. Lo aspetto sveglia, fino a quando non sento la porta di casa aprirsi. L'attentato alla discoteca del Dolphinarium ha cambiato tutto".
  Dal 28 settembre del 2000, giorno della visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio che servì da pretesto per la rivolta dei palestinesi, all'8 gennaio del 2005, quando al summit di Sharm el Sheikh il neoeletto presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen dichiarò la fine della violenza, sono stati compiuti circa 150 attacchi contro Israele. Più di mille israeliani sono morti per mano di attentatori palestinesi. E' difficile incontrare una persona in Israele che non abbia un parente o un amico tra le vittime (morti o feriti) della Seconda Intifada. Ma l'attentato al Dolphinarium è quello che ha segnato più profondamente la psicologia degli israeliani.
  L'estate è appena iniziata. La sera del 1o giugno 2001, all'entrata della discoteca sul lungomare di Tel Aviv si affollano giovani e giovanissimi, in gran parte immigrati dalla Russia. In fila c'è anche il ventiduenne palestinese Saeed Hotari, che alcuni scambiano per un ebreo ortodosso sefardita, ma in realtà è inviato da Hamas. Ha in mano un tamburo e inizia a ripetere in ebraico "qualcosa sta per accadere". Alle 23 e 27 fa esplodere la sua bomba: il tamburo era stato riempito di chiodi e pezzi di metallo. L'allora ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, sente l'esplosione dal suo albergo a poche centinaia di metri e corre a vedere, mentre il lungomare di Tel Aviv si trasforma in un ingorgo di ambulanze. Diciassette persone muoiono sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. La vittima più giovane ha 14 anni, quella più anziana 32. Il numero di feriti supera il centinaio, in gran parte ragazzini che erano andati "solo" a ballare. Come i giovani al concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan.

 "Non voglio cambiare la mia voglia di vivere"
  "In quel momento abbiamo perso l'innocenza", mi diceva la mamma franco-israeliana nel 2002. La Seconda Intifada fino ad allora era stata considerata una specie di "evoluzione tecnologica" della Prima Intifada: le bombe avevano preso il posto dei sassi ma - almeno per l'opinione pubblica progressista fedele al Labur o al Meretz - era parte di un lungo conflitto, che si sarebbe potuto risolvere attraverso i negoziati: il processo di Oslo, la soluzione dei due stati, il dialogo con palestinesi ragionevoli avrebbero messo fine alla violenza. Invece al Dolphinarium è cambiato tutto. A essere presi di mira non erano più i "coloni", i giovani soldati di leva mentre rientravano per una licenza o le fermate degli autobus vicino alle caserme. Il bersaglio erano diventati gli innocenti più innocenti: giovani spensierati quindicenni, sedicenni, diciassettenni. E di Dolphinarium ne sono seguiti altri. Il 9 agosto 2001 15 persone muoiono in un attentato contro la pizzeria Sbarro di Gerusalemme. Il 9 marzo 2002 11 giovani saltano per aria al Café Moment di Gerusalemme. Il 31 marzo 2002 15 morti al ristorante Matza di Haifa. Il 31 luglio 2002 9 giovani vengono uccisi all'Università ebraica di Gerusalemme. Il 30 aprile 2003 un kamikaze con passaporto britannico di origine pachistana si fa esplodere al Mike's Place di Tel Aviv provocando 3 morti. Il 9 settembre del 2003 7 persone vengono ammazzate al Café Hillel di Gerusalemme.
  Sabato 15 giugno 2002, con Marco Pannella, Yasha Reibman e altri compagni radicali, ero alla riapertura del Café Moment. Il locale è quasi deserto. Al bar, c'è un ragazzo scampato all'attentato di tre mesi prima che ha ricostruito il Moment esattamente com'era: "Non voglio cambiare la mia voglia di vivere per paura della morte", dice. Sembra Parigi sabato 14 novembre 2015: "#TousAuBistrot! #TousEnTerrasse!", si legge su Twitter, affianco a foto di locali semideserti. Sembra di sentire Tony Blair dopo l'attacco a Londra del 7 luglio 2005: "They will never destroy our way of life". Giusto, vero e domenica non rinuncerò al pranzo con i miei figli in un ristorante vicino al Museo ebraico di Bruxelles che, viste le sue vetrine, potrebbe tranquillamente essere crivellato da un kalashnikov.
  Salvo che Israele e gli israeliani sono profondamente cambiati, quando si sono accorti di avere di fronte un'ideologia totalitaria, che assassina in modo indiscriminato sulla base del principio "tutti gli ebrei devono essere gettati in mare". Le mamme hanno paura per i figli che escono la sera. Chi può non prende l'autobus. Ariel Sharon si ritira da Gaza contro la volontà dei "suoi" settlers e avvia la costruzione della barriera di sicurezza (il famoso "muro" tanto deprecato dagli europei, che ha salvato migliaia di vite negli ultimi anni della Seconda Intifada) che di fatto sancisce dei confini con un eventuale futuro stato palestinese. Il Labor diventa irrilevante, con i suoi ex elettori che eleggono i "falchi" Ariel Sharon, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu o votano i "falchetti" Isaac Herzog e Tzipi Livni.
  Martedì 18 giugno 2002, tre giorni dopo la riapertura del Café Moment, una bomba di Hamas uccide 19 persone su un bus all'incrocio di Patt a Gerusalemme. Mercoledì 19 giugno 2002, ero nella città vecchia di Gerusalemme quando sento in lontananza un'esplosione: un attentatore si è fatto saltare per aria a una fermata dell'autobus alla Collina francese di Gerusalemme. Corro sul posto: 7 morti e 35 feriti. Registro per Radio Radicale le parole di condanna dell'allora sindaco Ehud Olmert. Racconto in diretta quel che è accaduto. Poi, fino a tarda sera, rimango a guardare inebetito la nuova normalità degli israeliani: cadaveri raccolti pezzo per pezzo, ma domani si va al lavoro, mentre il resto del mondo continua a pensare che "un po' è colpa degli ebrei".

 Una nuova normalità
  Oggi mi chiedo se gli europei comprendono che c'è una nuova normalità dopo Parigi: se noi ci sveglieremo dal lungo sonno, da cui gli israeliani si sono risvegliati il 1o giugno del 2001. Fino al Dolphinarium, in Israele ci si poteva illudere che il nichilismo di un attentatore suicida potesse avere come causa la liberazione palestinese. Fino al 13 novembre 2015 gli europei si sono illusi che i bersagli dell'ideologia totalitaria e assassina fossero "altri", guardati spesso come colpevoli di qualche forma di ingiustizia. L'11 settembre 2001 è l'imperialismo americano a essere colpito. Il 19 marzo 2014 alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa, il 24 maggio dello stesso anno al Museo ebraico di Bruxelles, il 9 gennaio 2015 all'Hyper Cacher di Parigi sono gli ebrei complici di Israele a essere uccisi. Il 7 gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi e il 14 febbraio 2015 al Krudttonden cultural centre di Copenaghen è la stampa blasfema che si vuole sterminare. Il 13 novembre 2015, mentre 128 di noi vengono massacrati da un manipolo di piccoli Hitler, ci siamo resi conto che siamo tutti israeliani e parigini? Altrimenti, siamo tutti spacciati.

(Il Foglio, 22 novembre 2015)


Il giovane musulmano espulso dall'Italia: "Chi semina democrazia raccoglie sharia"

di Francesca Di Stefano

Oussama Khachia ha 30 anni, è un ragazzo marocchino, arrivato in Italia quando aveva 9 anni e cresciuto a Varese, dove ha frequentato la moschea locale, il cui imam è stato allontanato dall'Italia per terrorismo internazionale. Il 28 gennaio scorso anche lui viene espulso a causa della sua propaganda pro-Isis sul web e, secondo le indagini, per aver cercato in Arabia Saudita di entrare in contatto con alcuni jihadisti per unirsi a Daesh. L'intervista, girata lo scorso gennaio all'indomani dei fatti di Charlie Hebdo, trova un'ulteriore attualizzazione alla luce degli attentati che hanno colpito Parigi venerdì 13. "Non possiamo dimenticare che un milione di iracheni sono morti negli anni passati - sostiene il giovane islamico - Oggi i loro figli hanno imbracciato le armi contro l'Occidente. Al-Baghdadi? E' un iracheno che sta difendendo la sua terra e sta liberando tutti i paesi musulmani". Il ragazzo arriva a giustificare l'assassinio di 21 copti uccisi dall'Isis lo scorso febbraio su una spiaggia della Libia, esecuzione accompagnata come di consueto con il solito macabro filmato: "E' una vendetta al golpe fatto in Egitto da Al-Sisi. E' pan per focaccia". Secondo Oussama, "lo Stato Islamico non è una minaccia, ma una realtà".

(il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015)


Musulmani che salvarono ebrei dalla Shoah

 
Norman Ghershman
BOLOGNA - Musulmani che hanno salvato ebrei dalla Shoah. Capitò nell'Albania degli anni '40 del Novecento, quando, nella colonia italiana invasa dai nazisti, arrivarono le brutalità dell'Olocausto. Ma il popolo albanese si rifiutò di consegnare agli occupanti gli elenchi con i nomi delle donne e degli uomini di religione ebraica. Lo fecero in nome del "Besa", il codice d'onore, e cioè la parola data, la promessa fatta nel 1941 agli ebrei albanesi, circa 200, e a quelli che in Albania avevano trovato rifugio scappando dall'Europa vittima della follia nazista, di non tradirli mai, di non consegnarli mai agli aguzzini nazisti.
   Quella raccontata attraverso l'obiettivo del fotografo Norman Ghershman, nei pannelli di "Besa. Un codice d'onore. Albanesi e musulmani che salvarono ebrei ai tempi della Shoah", è una storia poco nota al grande pubblico, ma il cui valore, anche alla luce della difficile situazione internazionale, è di grande importanza. La mostra, realizzata dall'Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia e dello Yad Vashem di Gerusalemme, si potrà vedere a partire da martedì 24 novembre, e fino al 28 dicembre, nei locali dell'Assemblea legislativa regionale dell'Emilia-Romagna (viale Aldo Moro 50, Bologna), dove è stata allestita. Il taglio del nastro è previsto per le ore 13 del 24 novembre con la partecipazione della presidente dell'Assemblea legislativa regionale, Simonetta Saliera, del consigliere segretario dell'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea legislativa, Yuri Torri, della presidente dell'Istoreco di Reggio Emilia, Simonetta Gilioli, e dei rappresentanti delle principali associazioni culturali e religiose di Bologna.
   "Ospitare e promuovere questa mostra è per l'Assemblea un grande onore: Istoreco e Yad Vashem sono due importanti realtà con cui l'Assemblea legislativa collabora da tempo - sottolinea Saliera -. La mostra 'Besa' è un'occasione per riaccendere i riflettori su una pagina di storia quasi inedita: l'impegno dei cittadini albanesi di fede musulmana nel salvare uomini e donne di fede ebraica durante l'Olocausto. È una pagina di storia che assume un valore rilevante soprattutto in questo inizio di nuovo millennio. Lungi dall'essere risolte, le contrapposizioni in Medio Oriente hanno assunto una gravità nuova, ancora più allarmanti e drammatiche: non si tratta più di scontri tra Stati nazionali, né di avamposti della Guerra Fredda o di rivendicazioni territoriali e statuali di un popolo, sono divenute un duro e sanguinoso conflitto fra le parti più fondamentaliste delle religioni monoteiste".
   Per la presidente dell'Assemblea legislativa, quindi, "le immagini di Besa diventano un momento non solo di esercizio della memoria, ma di sguardo al futuro: alla possibilità di far cadere, in nome della comune appartenenza al genere umano, muri che oggi sembrano impossibili da scalfire".
   
(ANSA, 21 novembre 2015)


L'armata silenziosa degli islamici In Italia 200mila stanno con l'Isis

Secondo l'istituto Ipr, il 12% trova spiegazioni agli attentati e 1'8% non risponde. Due su dieci non denuncerebbero i fiancheggiatori. Oggi molti scenderanno in piazza per rifiutare il terrorismo. Basterà?

di Fausto Biloslavo

Il musulmani d'Italia oggi scendono in piazza a Roma, Milano, Torino contro il terrorismo con il cartello «not in my name», il tricolore, la bandiera francese e quella europea. Speriamo siano tanti, ma secondo un sondaggio allarmante mandato in onda giovedì sera a Porta a Porta esiste nel nostro paese una minoranza islamica, non indifferente, che giustifica la carneficina di Parigi, non denuncerebbe i terroristi e vorrebbe andare a vivere nel Califfato.
   Per il sondaggio Ipr, l'80% dei musulmani condanna l'attacco del terrore in Francia, ma il 12% lo giustifica e ben l'8% risponde «non so». Le interviste realizzate su un campione di 500 persone riguardano gli islamici residenti nel nostro paese «non i clandestini musulmani o chi si trova nei centri di accoglienza» sottolinea Antonio Noto, che ha realizzato l'indagine. Se usiamo le stime più basse stiamo parlando di 1 milione di persone. Secondo i dati mostrati da Bruno Vespa ben 120mila islamici che vivono da noi giustificherebbero la tragedia di Parigi. Non solo: i responsabili della strage vengono considerati dal 15% degli intervistati «persone che sbagliano, ma che comprendo» e dal 5% «che fanno bene all'islam». In pratica 200mila islamici in Italia strizzerebbero l'occhio ai tagliagole. «Numericamente è una marginalità significativa. La mia stima è che ci sia un 10% di islamici "critici" sul milione e mezzo indicato dalla Caritas, che non sono tutti terroristi, ma risultano propensi ad un appoggio ideologico» sostiene Noto.
   Le percentuali aumentano alla domanda sulle responsabilità relative alla nascita del terrorismo islamico. Per il 46% non hanno a che fare con la religione di Maometto, ma per il 24% la colpa è «dei paesi occidentali che vogliono colonizzare i territori in cui si professa l'islam». E ben il 30% non risponde.
   Ancora più preoccupante il giudizio sul Califfato. Tre quarti dei musulmani, per fortuna, è contrario alle bandiere nere. A differenza del 21%, che sostiene di essere «favorevole» allo Stato islamico in Siria e Irak, «ma non ci andrei a vivere». Una piccola, ma significativa minoranza del 3%, in termini teorici almeno 30mila musulmani, non solo è «favorevole», ma «non esclude di andarci a vivere». Secondo Noto il dato è ancora più preoccupante «se aggiungiamo che il 12% dei musulmani non si sente integrato e non vuole integrarsi». Ancora più gravi le risposte al quesito su cosa faresti «se conoscessi persone della comunità che favoriscono il terrorismo islamico». Il 70% le segnalerebbe alle autorità. Il 10%, però, ha risposto «non li denuncerei». E il 20% (teoricamente 200mila islamici) ha detto «non so». I risultati, seppure sulle percentuali minoritarie del sondaggio, sono un campanello d'allarme, che cozza con l'idea di un islam in Italia quasi totalmente moderato. Allo stesso tempo non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, come dimostra l'alto numero di associazioni, compresa la Sezione islamica italiana di via Quaranta a Milano, fondata da convertiti, che ha aderito alla manifestazione «not in my name». Ancora meglio, se dopo tante bandiere americane e israeliane bruciate in mezzo mondo dagli islamici, domani in corteo a Roma venisse ridotto a coriandoli il vessillo nero del Califfo. Forse, però, non lo possono fare. I taglia-gole si sono appropriati con la scritta bianca sulla loro bandiera della professione di fede di tutti i musulmani: «Non esiste altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo Profeta».

(il Giornale, 21 novembre 2015)


Siria - I russi scrivono "Per Parigi" sulle bombe

Israele scrive: "Dopo che avranno finito, Raqqa non esisterà più"

di Franco Iacch

"Per Parigi". E' questa una delle frasi preferite che i militari russi scrivono sulle bombe destinate in Siria. In un video pubblicato dal Ministero della Difesa russo, i militari vengono immortalati mentre scrivono frasi sulle bombe che andranno a "vendicare" le vittime degli attentati nella capitale francese. In un'altra, un militare scrive: "In ricordo dei nostri". Il video è stato girato presso la base di Hmeymim, roccaforte russa in Siria.
Dicono dal Ministero della Difesa con ironia. "Piloti e tecnici della base aerea di Hmeymim sono liberi di lasciare i loro messaggi sulle bombe. Subito dopo li consegniamo con priorità assoluta".
Dallo Stato Maggiore comunicano che nell'ultimo raid sono stati distrutti 15 impianti di stoccaggio e 525 camion che trasportavano petrolio, riducendo le entrate giornaliere dello Stato islamico di 1,5 milioni di dollari.
Mosca, infine, ha portato a 69 gli aerei schierati in territorio siriano, non diramando però dettagli sulle nuove piattaforme.
Da Israele, intanto, rimbalza una voce (non confermata): "Dopo che i russi avranno finito di bombardare Raqqa, non resterà più nulla". Gli israeliani paventano un bombardamento di massa.
Mosca ha sempre affermato di aver lanciato, nel limite del possibile, bombe intelligenti contro obiettivi nemici.

(Difesaonline.it, 21 novembre 2015)


Non basta sconfiggere l'Isis. Va interpretato il Corano. Parola di studioso musulmano

Il docente sudanese Abdullahi Ahmed An-Na'im ha spiegato che «l'interpretazione retrograda che l'Isis fa della sharia trova fondamento nel Corano di Medina» ma può essere cambiata.

Dire che l'islam non c'entra nulla con la recente strage di Parigi e con le malefatte dell'Isis è una lettura confortante per l'Occidente, ma purtroppo non corrisponde a verità. A spiegare perché è Abdullahi Ahmed An-Na'im, studioso musulmano originario del Sudan, profondo conoscitore della legge islamica, e professore di diritto negli Stati Uniti alla Emory University.

 La sharia.
  In una lunga analisi scritta per The Conversation, e tradotta da AsiaNews, spiega che nonostante «la grande maggioranza dei musulmani [debba] provare di certo un profondo disgusto» per i crimini dell'Isis, «l'essenza della questione ruota attorno al fatto che i vertici dell'Isis e i suoi sostenitori possono appoggiarsi, e non mancano certo di farlo, su una moltitudine di fonti tratte dalle scritture e dalla storia per giustificare le proprie azioni. Le interpretazioni tradizionali della sharia, la legge islamica, appoggiano il jihad offensivo che mira a diffondere l'islam».

 Nessuna autorità
  Anche se ci sono importanti capi religiosi, come l'imam di Al-Azhar, principale autorità del mondo sunnita, che criticano l'Isis, «bisogna sapere che nessuna autorità può - qualunque sia il soggetto e il tema - stabilire o modificare la dottrina della sharia per gli altri musulmani. La fede musulmana e la sua pratica sono necessariamente individuali e volontarie. (…) Una conseguenza positiva di questa assenza di autorità religiosa consiste nel fatto di poter rimettere al centro e reinterpretare in modo diverso i principi della sharia. Al tempo stesso, vi è un rovescio della medaglia: qualunque musulmano può affermare qualcosa a proposito di sharia, nel caso in cui egli ottenga il consenso di una massa critica di fedeli».

 Maometto a Medina
  Lo Stato islamico trova una valida conferma per le sue azioni nel comportamento di Maometto e «nelle rivelazioni ricevute dal profeta (come ci spiega il Corano)» una volta cacciato dalla Mecca e spostatosi a Medina. «L'interpretazione retrograda e brutale che fa Daesh [acronimo arabo per Isis, ndr] della sharia trova fondamento nel Corano di Medina», spiega An-Na'im, «che insiste sul fatto che i musulmani devono sostenersi l'un l'altro e distinguersi dai non musulmani».

 Jihad nel Corano
  «Per esempio, nel versetto 3:28 (e anche 4:144, 8:72-73, 9:23, 71 e 60:1M) si dice che è proibito per i musulmani diventare amici o sostenere i non credenti (che siano essi pagani o politeisti). Tutto il capitolo 9 - che rientra fra le ultime rivelazioni - sanziona in modo categorico i non musulmani - e fra questi gli ebrei e i cristiani - e autorizza che sia lanciato il jihad offensivo nei loro confronti (versetto 9:29). È vero che il termine jihad è usato nel Corano per definire gli sforzi non violenti per la diffusione dell'islam (vedi i versetti 29:8, 31:15 e 47:31). Ma questo non cambia niente, perché lo stesso termine è stato usato per designare il ricorso alla guerra al fine di propagandare la stessa religione. Quest'ultima interpretazione è stata, in realtà, sanzionata dalle azioni e dalle direttive chiare emanate dal profeta in persona, così come dai fedeli più rispettabili, che sono divenuti in seguito i suoi quattro primi successori e califfi di Medina».

 Condanne "occidentali"
  Sono tanti i musulmani che condannano lo Stato islamico. Ma, insiste lo studioso, «lo fanno per questioni morali o politiche, ma questo atteggiamento con tutta probabilità viene discreditato dai sostenitori dell'Isis come un ragionamento "occidentale"». Cosa si può fare allora? «La proclamazione di legittimità islamica di cui si ammanta Daesh», risponde An Na'im, «non può essere contrastata, se non usando una interpretazione alternativa della stessa legge islamica».

 Interpretare il Corano
  È dal X secolo (dopo 300 anni di relativa libertà) che interpretare l'islam è diventato impossibile, continua il docente di diritto, ma «una concezione alternativa della sharia, che dimostri che le fonti delle scritture sulle quali Daesh si appoggia vanno viste in un contesto storico ben più ampio», è necessaria. «In altri termini, questi principi invocati dallo Stato islamico hanno potuto essere pertinenti e applicabili 1400 anni fa, quando la guerra - ovunque essa scoppiasse - era ben più dura di quanto non sia oggi. La solidarietà fra musulmani (wala') si rivelava allora cruciale per la sopravvivenza della comunità musulmana e la sua affermazione. Ma oggi è ben vero il contrario».

 L'esempio di Taha
  An Na'im propone di seguire lo studioso sudanese Ustad Mahmoud Mohamed Taha, «che ha proposto di ripudiare i principi di una sharia che autorizza il jihad aggressivo, la schiavitù e la subordinazione delle donne e dei non musulmani, fondandosi sulle rivelazioni precedenti, quelle della Mecca». Taha considerava i messaggi più violenti, basati sulle rivelazioni di Medina, dovuti «a condizioni storiche del VII secolo».

 Arriveranno altri Isis
  Per le sue idee, Taha «è stato giustiziato nel 1985 in Sudan per apostasia e i suoi libri continuano a essere proibiti nella maggior parte dei paesi arabi. Intanto lo Stato islamico vede le proprie file crescere sempre di più». Prima o poi l'Isis verrà distrutto, insiste lo studioso musulmano, ma «il mondo non potrà aspettarsi altro che la nascita di una nuova formazione dello stesso tipo; almeno fino a quando noi, musulmani, non avremo discusso in modo aperto e profondo dell'impasse nella quale si trova oggi la riforma della sharia».

(Tempi, 21 novembre 2015)


La lezione d'Israele per combattere il terrore di Isis

di Gabriele Carrer

Alzare il livello delle misure di difesa e sicurezza in ogni luogo pubblico, colpire la filiera del jihadismo e seminare il vuoto sociale attorno ai terroristi perché, come sostiene Michael Walzer intervistato sul Foglio da Giulio Meotti, la guerra al terrore è "essenzialmente una guerra di polizia" che l'Europa non è ancora pronta ad affrontare. Da Israele, quello che, sempre al Foglio, il politologo Dan Schueftan indica come unico modello positivo di Paese occidentale in lotta contro la jihad, l'Europa può trarre alcuni preziosi insegnamenti che i governi di Gerusalemme hanno imparato durante gli anni di intifada.

 Difesa e attacco
  Tra i primi a parlare di modello israeliano per le politiche antiterrorismo francese è stato l'ex capo del Mossad, Shabtai Shavit, al sito conservatore Breitbart. "È necessario trovare il giusto equilibro tra politiche di difesa e di attacco". Infatti, adottando la sola strategia difensiva "ben presto ci si renderà conto che gli investimenti raggiungono livelli proibitivi". Per rispondere alla nuova strategia dello Stato Islamico, dopo l'aereo russo abbattuto e gli attacchi a Beirut e Parigi sempre più pronto alla jihad contro gli infedeli non musulmani, Shavit sostiene sia necessario puntare su un'intelligence forte e sostenuta finanziariamente dai governi, pronta ad affrontare la minaccia del jihadismo anche con il supporto di traduttori che operano al fianco della polizia e delle forze d'intelligence. Come accade in Israele dove i componenti delle forze di sicurezze parlano anche l'arabo. Quanti sono i traduttori impiegati in Francia e Belgio nel contro-terrorismo? Pochissimi, dice l'esperto israeliano di sicurezza Alex Fishman al Foglio. Shavit indica tra gli elementi centrali nella prevenzione delle minacce l'adozione di strumenti di sicurezza in ogni luogo pubblico (dai centri commerciali alle stazioni, dai teatri agli stadi) ed una strategia globale che comprenda i curdi, "abbandonati dall'Occidente", gli arabi moderati ed i raid aerei sulla scia dell'operato francese a Raqqa.

 Il modello Israele
  Il "modello Israele" per la lotta al jihadismo dell'Isis in Occidente viene suggerito anche da Gregg Roman, direttore del think tank Middle East Forum, che analizza la strategia in sette punti. Al primo posto, come per Shavit, ci sono i controlli: "La maggior parte degli israeliani non sa cosa significa entrare in un teatro di medie dimensioni come quello colpito in Francia senza passare attraverso un metal detector". David Horovitz, sul Times of Israel, ha raccontato il suo sconcerto nel seguire i fatti di Parigi alla CNN, dove gli esperti di contro terrorismo sostenevano che non fosse possibile proteggere i luoghi pubblici. Barriere, metal detector, guardie di sicurezza: con le politiche attuate dopo il terribile marzo del 2002 oggi, scrive Horovitz, "i kamikaze non possono nemmeno camminare nei nostri teatri e nelle nostre sale da concerto". Proseguendo nell'analisi, Roman raccomanda controlli supplementari "sulla base della religione, età, genere, eccetera", come accade all'aeroporto internazionale Ben Gurion considerato tra i più sicuri al mondo.

 L'incitamento all'odio
  E ancora la necessità di colpire l'approvazione sociale positiva che circonda i terroristi rendendo insopportabile l'esperienza nel Paese, l'attacco ai responsabili del reclutamento, del finanziamento, della formazione e dell'istigazione dei jihadisti, la lotta ai centri di incitamento e fomentazione dell'odio e la resistenza ad ogni "rimostranza settaria" in nome del diritto di difesa, al di là di ogni pressione del politicamente corretto. Anche mettendo al bando questi movimenti politici ispirati all'islam anti-occidentale come ha recentemente fatto il premier israeliano Netanyahu con il Movimento islamico. La studiosa israeliana Amira Halperin ha dichiarato al quotidiano fondato da Giuliano Ferrara: "L'Europa deve bandire i predicatori dell'odio, come abbiamo fatto in Israele questa settimana" per evitare che, come accaduto nel Regno Unito, le università si trasformino fucine di terroristi. Infine, conclude Roman, è fondamentale riprendere possesso dei confini nazionali, sulla scia dell'operato israeliano alle sue frontiere. Anche a costo di rivedere gli accordi di Schengen dopo le gravi lacune dell'intelligence francese, caduta vittima dei falsi status di rifugiati rivendicati dagli attentatori. "Il ministero dell'Interno francese ha istituito i controlli di frontiera subito dopo l'attacco", scrive Roman. "Questo cambiamento dovrebbe essere permanente".

 Una situazione diversa
  Il 13 novembre parigino ha poco a che vedere con l'11 settembre americano. Cadute le Torri Gemelle, Al Qaeda non ebbe più gli uomini ed i mezzi per minacciare gli Stati Uniti. Oggi al netto degli allarmismi e delle psicosi, la minaccia di nuovi attacchi dello Stato Islamico in Francia, in Europa e in tutto il mondo occidentale è forte: nuove figure, come quelle dei foreign fighters di ritorno, rappresentano mine vaganti difficilmente individuabili e sempre pronte ad esplodere. Siamo in guerra. Non è stata una semplice ondata di criminalità e terrore: gli attacchi di venerdì a Parigi sono un "atto di guerra", ha dichiarato il presidente francese François Hollande. Una guerra che, sostiene il ministro dell'Economia israeliano Naftali Bennett, colpisce lo stile di vita "libero e democratico". Lo stesso stile di vita ripristinato dopo anni di sanguinosi attacchi e rivolte in Israele con politiche equilibrate di difesa e offesa.

(formiche.net, 21 novembre 2015)


Raduno musulmano contro i tagliagole. A Parigi sono solo trenta

Ci sono andati in trenta, alla manifestazione organizzata due giorni fa a Parigi dai musulmani che condannano decisamente la strategia del terrore dell'Isis. Trenta persone, originarie del Bangladesh, su circa cinque milioni di islamici che vivono in Francia, e che in gran parte sono cittadini francesi. Il numero così esiguo, in fondo, non meraviglia, se si considera che, ad esempio, nel luglio 2015 cinquanta manifestanti islamici hanno protestato contro un attentato terroristico in Irlanda, mentre nell'ottobre 2014 a Houston una manifestazione contro l'Isis organizzato da Hamas insieme al Council on American-Islamic Relations raccolse un totale di dieci persone. Intanto, ieri, il banco di prova è stato il venerdì di preghiera in tutte le moschee. Nella grande moschea di Roma l'imam ha dichiarato che «la nostra è una religione all'insegna della Misericordia e non della crudeltà e della violenza. Dell'influenza e non della vendetta. Della vita e non della morte. Ogni vita è sacra». L'imam però non ha mai nominato esplicitamente la carneficina di Parigi.

(Libero, 21 novembre 2015)


Solo in trenta alla manifestazione contro i tagliagole? Comprensibile. Chi ci va rischia di trovarsi tra quelli che hanno la gola tagliata. Con diritto di precedenza. M.C.


Quei ministri e Nobel europei che scaricano su Israele la strage di Parigi

Alla ricerca di una scusa da offrire ai terroristi islamici.

di Giulio Meotti

La ministra degli Esteri della Svezia, Margot Wallström
ROMA. Se il jihad uccide i civili a Parigi lo si chiama "terrorismo", se uccide civili israeliani a Tel Aviv, come è successo giovedì, diventa "militanza". Se l'America elimina Osama bin Laden è "giustizia" annunciata in diretta tv, se Israele fa fuori lo sceicco Ahmed Yassin diventa "rappresaglia" di cui vergognarsi. Adesso siamo oltre questo odioso doppio standard, siamo a quello che il viceministro degli Esteri israeliano, Tzipi Hotovely, ha definito ieri "l'accusa del sangue".
  Il conflitto israelo-palestinese ovviamente non è legato all'ondata di stragi perpetrate dagli islamisti. Lo "Stato islamico" non dice d'aver attaccato il cuore di Parigi, di uccidere i cristiani o gli yazidi, per via dei palestinesi. Eppure già non si contano i ministri in Europa e i premi Nobel che hanno immediatamente collegato le stragi francesi alla "questione israelo-palestinese", scaricando sugli ebrei parte della responsabilità. "Noi non siamo colpevoli per il terrorismo che ci colpisce, più di quanto il popolo di Parigi sia colpevole per gli attentati che ha subìto", ha detto ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu. "Pertanto, ovviamente, rifiutiamo questa accusa. Ma ora siamo di fronte a una novità: non solo veniamo colpevolizzati per il terrorismo che subiamo. Ora siamo all'assurdo che veniamo incolpati anche per il terrorismo che colpisce i francesi".
  Intervistata dalla Svt2 sull'attacco terroristico a Parigi, la ministra degli Esteri della Svezia, Margot Wallström, ha detto che "per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza". Stesse parole usate da Jan Marinjissen, segretario del Partito socialista in Olanda, che parlando alla radio Npo ha detto che "il loro (dell'Isis, ndr) comportamento è connesso al conflitto israelo-palestinese". L'ex ministro degli Esteri islandese, Jòn Baldvin Hannibalsson, ha chiesto di non pregare soltanto per i francesi vittime degli attentati, ma anche per i palestinesi: "Sì, preghiamo per Parigi, ma preghiamo anche per i palestinesi uccisi nei territori occupati". L'ex ministro inglese John Prescott ha scritto sul Daily Mirror: "Bisogna trovare una pace duratura in tutto il medio oriente. Non possiamo lasciare che la piaga di malumori e cattivo sangue in Israele e nei territori palestinesi continui. Il miglior tributo a coloro che sono morti a Parigi non è quello di inviare truppe e droni in Siria. E' di incanalare la rabbia per una soluzione pacifica duratura in tale area".
  L'ex presidente della Finlandia e premio Nobel per la Pace, Martii Ahtisaari, ha detto lo stesso: "L'Europa deve prestare attenzione alle ragioni della radicalizzazione. Avanzare il processo di pace in medio oriente è di fondamentale importanza. La questione di Israele e Palestina deve essere risolta". Lo stesso da parte dell'ex ministro degli Esteri dell'Irlanda, Dermot Ahern, che ha scandito le origini della guerra dell'Isis: "Viene dalla destabilizzazione dell'intera regione per colpa della questione israelo-palestinese". Lo ha detto anche l'ex presidente americano e Nobel per la Pace Jimmy Carter, ospite del Jon Stewart Show: "Una delle origini è il problema palestinese".
  Il più acido commento è di Dror Ben Yemini sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth: "Beh, non dobbiamo ridere. E' la stessa malattia ha colpito diverse parti del mondo libero negli anni Trenta". Incolpare gli ebrei ogni volta che succede qualcosa di brutto. Questi dirigenti dell'Unione europea, compresi due Premi Nobel per la Pace, sono andati alla ricerca di una scusa da offrire ai terroristi di Parigi. Anche stavolta, a spese di Israele e degli ebrei.

(Il Foglio, 21 novembre 2015)


Dopo Parigi, Tel Aviv: la strategia della tensione dell'Islam radicale

"Chiunque condanni gli attacchi in Francia, deve condannare quelli in Israele: è lo stesso terrore. Chi non lo fa è ipocrita e cieco". Il premier Benjamin Netanyahu ha commentato così gli ultimi attacchi che nella giornata di giovedì 19 novembre tra Tel Aviv e la Cisgiordania hanno causato la morte di cinque persone - tre israeliani, un americano e un palestinese - per mano di attentatori palestinesi.
  Dopo giorni di relativa tranquillità, l'intifada dei coltelli è tornata a mietere terrore e vittime. A Tel Aviv un giovane palestinese, originario del villaggio di Dura in Cisgiordania, ha fatto irruzione in un centro commerciale uccidendo a colpi di coltello due israeliani che stavano pregando in un'area adibita a sinagoga. Il ragazzo è stato poi ferito dalla polizia e arrestato. A Gush Etzion, insediamento israeliano in Cisgiordania, un attentatore ha sparato contro la folla dalla propria auto lanciando poi la vettura contro i pedoni. I morti in questo caso sono stati tre e molti altri i feriti, tra cui diversi cittadini americani.
  Il bilancio di questa crisi a bassa intensità, che da mesi attraversa Israele e i territori palestinesi, si dunque fa sempre più drammatico. Le vittime sono quasi 100: 16 israeliani e 82 palestinesi. Prima dei fatti del 19 novembre, il 13 dello stesso mese un rabbino e suo figlio erano stati uccisi in un agguato mentre si dirigevano a Hebron, una delle aree più colpite dalla recente escalation di violenze. In questa zona la polizia ha arrestato pochi giorni fa un arabo-israeliano, accusato di aver fabbricato ordigni esplosivi e di averli venduti a terroristi palestinesi come dimostrerebbero i materiali sequestrati a bordo delle vetture di alcuni palestinesi fermati nella zona di Ma'aleh Adumim.

 Un messaggio a Israele e all'Occidente
  Nel denunciare gli attacchi a Tel Aviv e in Cisgiordania, il premier Netanyahu si è rivolto all'Occidente. "Dietro questi atti di terrorismo c'è l'Islam radicale che cerca di distruggerci lo stesso che colpisce a Parigi e minaccia tutta l'Europa". Se le ragioni che spingono Netanyahu a collegare i recenti attentati in Israele alla strage di Parigi sono di comprensibile opportunismo politico, è pur vero che quell'"islam radicale" di cui egli parla, ispirato dagli attacchi nella capitale francese, potrebbe presto decidere di emulare lo Stato Islamico colpendo in Medio Oriente e Africa - dove cresce l'allarme in vista dell'arrivo di Papa Francesco per l'apertura del Giubileo - così come in Europa.
  I precedenti nel nostro continente, d'altronde, non mancano. A Milano il 12 novembre è stato accoltellato Nathan Graff, un ebreo ortodosso di nazionalità israeliana, genero di Hetzkia Levi, uno dei rabbini della comunità ebraica cittadina. A Marsiglia il 18 novembre tre ragazzi hanno accoltellato un professore di una scuola ebraica mostrandogli una t-shirt con simboli dell'ISIS e l'immagine sullo schermo di un cellulare del killer di Tolosa che nel marzo del 2012 aveva ucciso quattro ebrei. Sempre nei pressi di Marsiglia, il 24 ottobre, tre ebrei che si trovavano non lontano da una sinagoga sono stati aggrediti da un pregiudicato.
  Questi episodi, sommati ai messaggi di sostegno che l'organizzazione terroristica palestinese Hamas fa seguire sistematicamente a ogni accoltellamento contro israeliani, si aggiungono alla propaganda e agli effetti collaterali del terrore portata avanti da ISIS. È un segnale di cui l'Europa non può non tenere conto. Perché solo allargando la prospettiva con cui finora si è limitato a osservare lo Stato Islamico, l'Occidente potrà comprendere le reali potenzialità del nemico che ha di fronte e che raccoglie sempre più seguaci in casa sua.

(LookOut, 21 novembre 2015)


Chi ha detto che Israele è isolato? Gli israeliani non sono i soli ad essere ammazzati dai musulmani. Come sempre e in tutto sono i primi, ma non sono mai destinati a rimanere soli. Provare per credere. M.C.


L'Europa scopre il terrorismo islamico: e quando invece è contro Israele?

Lettera a Beppe Severgnini

E' quasi divertente se non fosse tragico: adesso l'Europa scopre il terrorismo islamico, con il proprio nome vero e chiaro. Quando il terrorismo, lo stesso sempre quello, è contro Israele, non è terrorismo sono lotte, sono battaglie di libertà dei poveri palestinesi, che ovviamente come al solito alla fine degli attentati distribuivano caramelle e dolciumi per le strade di Gaza. Ma questa ovviamente non è una notizia e non si dice. Nessuno in questi giorni se non proprio gli amici d'Israele hanno detto: "Buongiorno, ecco adesso sapete cosa vuol dire saltare in aria in un bar o ristorante", tutti ad evitare qualsiasi accostamento, anche i media, però poi alla fine le cose vengono a galla e allora cosa si fa? Si chiamano gli israeliani per assistere e portare il proprio "know-how" per raccogliere e ricomporre i morti al Bataclan, la Zaka. Se servono esperti e psicologi per poter affrontare i parenti delle vittime, ovviamente chi lo sa fare meglio degli israeliani? E' necessario neutralizzare un covo di terroristi asserragliati all'interno, chi lo sa fare? Gli israeliani, lo dice il capo dei reparti speciali francesi Mr. Jean-Michel Foberg. Capita anche però che quando Israele costruisce fabbriche e industrie nel territori "liberati", portando civiltà e progresso, allora viene boicottato, con i prodotti fatti in quell'area, vedi Sodastream, dove la stessa società dopo aver aperto la produzione occupando 1200 palestinesi, l'HA POI RICHIUSA. Nel silenzio poi di tutti o con poco risalto a Milano è stato accoltellato un ebreo la settimana scorsa, l'altra sera a Marsiglia, e oggi in Israele 3 persone hanno perso la vita mentre pregavano. Ma non alziamo troppo la voce, magari poi si sveglia qualche simpatizzante di Hamas e dice che era colpa loro essere ebrei.
Mario Borsi

(Corriere della Sera - blog, 21 novembre 2015)


Così Israele è diventata l'unica realtà mediorientale in cui i fedeli a Cristo sono quadruplicati

Dalia liberta di criticare il governo all'arruolamento nell'esercito nazionale. Ritratto, tra difficoltà e fierezza, dei 163 mila cristiani che vivono nello stato ebraico.

di Domenico Moretti.

 ROMA - Secondo il Central Bureau of Statistics di Gerusalemme erano 158 mila i cristiani in Israele nel 2012. Alla fine del 2014 erano 163 mila, cinquemila in più. Non saranno numeri memorabili, a fronte del milione e mezzo di loro correligionari fuggiti dall'Iraq e dalla Siria per scampare allo sterminio islamista, ma proprio per l'aria avvelenata che tira in tutta la regione verso i cristiani, il dato assume una dimensione notevole. In Israele, ha rivendicato il premier Benjamin Netanyahu durante la sua visita a Washington il 10 novembre scorso, c'è "l'unica comunità cristiana di tutto il medio oriente che cresce e prospera anziché ridursi e essere decimata". Attualmente i cristiani rappresentano il 2 per cento della popolazione dello stato ebraico. Ottanta su cento sono arabi, gli altri provengono per lo più dall'ex Unione sovietica. Il 45 per cento di loro è cattolico, il 40 ortodosso, il restante 15 ha varie denominazioni. Ma soprattutto, dal 1948 a oggi il loro numero totale è più che quadruplicato.
  Certo non mancano neanche qui motivi di ansia. Come ha spiegato il custode di Terra Santa, Pierbattista Pizzaballa, durante un incontro sullo "state of Christianity" organizzato un paio d'anni fa dall'ufficio stampa del governo, alcuni cristiani si sentono ancora discriminati dalla società israeliana perché, pur vantando un livello di istruzione mediamente elevato, faticano a trovare posti di lavoro all'altezza. Hanno relazioni non sempre facili con i vicini, essendo troppo cristiani per gli arabi e troppo arabi per gli ebrei. Per lo stesso motivo subiscono frequenti restrizioni temporanee delle libertà, soprattutto di movimento, per via delle misure antiterrorismo che possono spuntare senza preavviso sconvolgendo parecchie abitudini. Poi ci sono gli attacchi vandalici compiuti contro chiese e luoghi santi dei cristiani dai fondamentalisti ebrei. L'ultimo di un certo rilievo è avvenuto a giugno: la chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tabgha, sul lago di Tiberiade, è stata distrutta dalle fiamme. I presunti responsabili sono stati comunque individuati dalle autorità.
  E' innegabile però che nella regione ormai solo Israele riesce nei fatti a offrire ai cristiani un buon grado di libertà religiosa, stato di diritto e sicurezza. A parte il dato demografico, che è già un giudizio sulla loro condizione di vita, i cristiani hanno incassato ripetutamente da Netanyahu esplicite garanzie di protezione. Il premier ha preso l'abitudine di inviare per Natale un videomessaggio di auguri rivolto ai cristiani di tutto il mondo, invitandoli a visitare Israele, condannando la persecuzione dei loro fratelli in medio oriente e ribadendo il proprio impegno a difenderli con ogni mezzo. Lo stesso fatto che possano spingersi a esprimere proteste e recriminazioni sui giornali e davanti alle autorità è tutt'altro che scontato nel panorama mediorientale. La recente battaglia per il ripristino dei fondi pubblici ritirati alle sole scuole private cristiane (e non a quelle ebraiche) ha raggiunto livelli di scontro inimmaginabili altrove. A settembre gli istituti coinvolti sono rimasti chiusi per protesta ben tre settimane di fila prima di ottenere dal ministero la promessa di una (parziale) compensazione dei tagli.
  Ma oltre a una prova di pluralismo, da parte israeliana c'è un preciso interesse all'integrazione dei cristiani. Da mesi Netanyahu porta avanti una intensa campagna per l'arruolamento nell'esercito fra i giovani cristiani, tradizionalmente ostili all'idea di servire in armi lo stato ebraico. E poco più di anno fa è arrivata la legge che riconosce a circa duecento famiglie cristiane il diritto di indicare sui documenti la propria nazionalità aramea. L'intento è iniziare a scalfire lo storico intreccio identitario arabo-cristiano. Israele li vuole liberi di essere cristiani e orgogliosi di dirsi israeliani.

(Il Foglio, 21 novembre 2015)


Rilasciato dopo trent'anni Pollard, la spia che passava i segreti militari agli israeliani

La spia americana che passava i segreti militari degli Stati Uniti a Israele, Jonathan Pollard, è stato liberato con un giorno di anticipo. Soddisfazione del premier israeliano Nethanyahu, che ha sempre chiesto la sua liberazione. In Israele pronta una casa e una pensione per Pollard ma gli Usa gli negano l'espatrio.

Rilasciato con un giorno di anticipo, per consentigli di celebrare lo shabbat in famiglia. Jonathan Pollard, lo 007 ebreo-americano al centro di un braccio di ferro tra Usa e Israele. All'alba le porte del carcere federale di Butner in North Carolina si sono aperte, dopo 30 anni, per la spia che aveva rubato una notevole quantità di segreti militari a favore dello Stato ebraico. La Casa Bianca non vuole lasciarlo emigrare in Israele assieme alla moglie Esther, una ebrea canadese sposata in carcere nel 1994, come richiesto dai suoi avvocati. La Knesset ha garantito a Pollard un appartamento pieno di abiti nuovi a Gerusalemme e una pensione a vita. Al momento, però, per il suo futuro prossimo è previsto un soggiorno in una comunità di ebrei ortodossi nello Stato di New York che gli ha offerto casa e lavoro.

 La soddisfazione di Netanyahu
  Soddisfatto il premier israeliano Benyamin Nethanyahu, che ha augurato "possa questo Shabbat portargli gioia e pace". Il premier israeliano ha ricordato di aver sollevato il caso "per anni" con vari presidenti nella speranza "che questo giorno alla fine arrivasse". Lo stesso Netanyahu si era adoperato qualche giorno fa con Barack Obama per ottenere la partenza di Pollard. Senza successo: non si parla di ridare all'ex spia il passaporto per almeno cinque anni. Pollard dal 1995 è anche cittadino di Israele.

 Pollard era un analista dell'intelligence della Marina Usa
  Jonathan Pollard è nato in Texas nel 1954 e ha cominciato a lavorare come analista civile dei servizi di informazione della Marina americana nel 1979. Dopo alcuni anni in cui è protagonista di episodi controversi, nel 1984 Pollard entra in contatto con le agenzie di intelligence israeliane offrendo loro documenti segreti. In breve tempo la sua collaborazione inizia a essere gestita direttamente da un funzionario dell'ambasciata di Israele, a cui Pollard passava i documenti in cambio di pagamenti regolari e viaggi per lui e sua moglie Anne. Secondo quanto scoperto dall'allora corrispondente del Jerusalem Post Wolf Blitzer, Pollard offrì informazioni come rapporti di ricognizioni sugli uffici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) in Tunisia, sulle capacità di produzione di armi chimiche di Iraq e Siria e sulle consegne di armi sovietiche alla Siria e altri Paesi arabi. Nel 1985, poco più di un anno dopo l'inizio dei furti di informazioni, le autorità della Marina e l'Fbi interrogarono Pollard, dopo avere scoperto che aveva rimosso dei documenti dal suo ufficio. Minacciato di essere processato per spionaggio, Pollard chiese asilo all'ambasciata israeliana insieme con la moglie, ma la coppia venne respinta e poco dopo arrestata dall'Fbi.

(RaiNews, 20 novembre 2015)


Quest'anno novemila ebrei lasceranno la Francia per Israele

Scrive il Times of Israel che già lunedì 16 novembre, tre giorni dopo la strage di Parigi, «una quarantina di ebrei francesi sono atterrati all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, andando ad aggiungersi agli altri sei che che hanno fatto aliyah domenica». Aliyah è il termine ebraico che indica l'immigrazione definitiva in Israele. Secondo Avi Mayer dell'Agenzia Ebraica, sono «dozzine» gli ebrei che stanno emigrando dalla Francia verso la Terra Santa proprio in questi giorni.

 Attacchi in serie
  A gennaio i quattro ebrei assassinati dal terrorista islamico Amedy Coulibaly in un supermercato kosher a Vincennes, poche ore dopo la strage islamista nella redazione di Charlie Hebdo. Poi la scelta dell'obiettivo principale del raid di venerdì 13 novembre: il Bataclan, un locale legato alla comunità ebraica francese (i proprietari sono ebrei) e per questo entrato da tempo nelle mire degli estremisti musulmani. Infine due giorni fa l'insegnante di scuola ebraica accoltellato per strada a Marsiglia da tre aggressori che non sono riusciti a togliergli la vita ma prima di colpirlo gli hanno mostrato simboli dello Stato islamico e la foto di Mohamed Merah, il killer di Tolosa (un rabbino e i suoi tre bambini ammazzati davanti a un'altra scuola ebraica nel 2012). Si capisce perché la Francia, il paese che vanta in Europa la popolazione ebrea più numerosa (500 mila persone) è diventata per Israele la prima fonte di "sbarchi".

 Novemila aliyah
  Dal gennaio scorso, secondo il ministero israeliano per l'Assorbimento degli immigranti, sono più di 6.000 gli ebrei di Francia che hanno deciso di attraversare il Mediterraneo. Praticamente il doppio rispetto al 2013. Il fenomeno per altro riguarda tutta l'Europa, come ha spiegato a febbraio a tempi.it Sergio Della Pergola, ma in Francia, evidentemente, da quest'anno la situazione è passata a un livello superiore.
  Agli ebrei francesi, osserva l'Economist, «la violenza di venerdì ha riportato alla mente il secondo round degli attentati contro Charlie Hebdo a gennaio, che hanno colpito un supermercato kosher di Parigi, e l'attacco del 2012 davanti all'ingresso di una scuola ebraica a Tolosa. Dall'attentato al supermercato, le istituzioni ebraiche di tutta la Francia sono rimaste sorvegliate dall'esercito. Gli ebrei francesi hanno reagito in modo ambivalente, grati della protezione da una parte ma dall'altra angosciati dalla loro condizione di soggetti a rischio. Gli attentati hanno dato impulso a una nuova ondata migratoria: si stima che quest'anno circa 9.000 ebrei lasceranno la Francia per Israele».

 La vita va avanti
  Eppure secondo diversi osservatori la stessa Francia dopo venerdì 13 è diventata un po' Israele. Il rabbino capo del paese Haim Korsia ha detto in un sermone che la società francese «si risolleverà dal suo dolore come la società americana si è risollevata dalla tragedia dell'11 settembre, e come la società israeliana, che non si è mai abbattuta».
  Cnaan Liphshiz, reporter del Times of Israel, è stato in Francia due volte quest'anno: la prima dopo gli attentati di gennaio, la seconda adesso. Nel "diario" scritto per il suo giornale racconta che rispetto alle stragi di Charlie Hebdo e del negozio kosher, queste ultime sono state molto più sanguinose, «eppure, quando sono arrivato a Parigi, ho trovato un'atmosfera molto diversa rispetto a gennaio. Al posto di una nazione sospesa, ho visto lo stesso atteggiamento del tipo la-vita-va-avanti che ho conosciuto in Israele dove sono nato, soprattutto a Tel Aviv. Anche gli attentati più terrificanti là hanno effetti minimi sulla routine quotidiana dei cittadini, che continuano a uscire per andare al ristorante, ai matrimoni e in discoteca». Alcuni dei parigini interpellati da Liphshiz gli hanno spiegato che «Parigi, come Israele, da gennaio si è semplicemente abituata a vivere il più normalmente possibile all'ombra del terrorismo».

 Il clima è cambiato
  Anche la comunità ebraica ha reagito in maniera molto diversa, continua il reporter del Times of Israel. «Mentre a gennaio le organizzazioni ebraiche hanno chiuso quasi del tutto» subito dopo gli omicidi, questa volta «centinaia di ebrei domenica si sono radunati nella sinagoga di rue des Tournelles a Le Marais per prendere parte a quattro cerimonie di matrimonio consecutive». Ovviamente all'esterno la sorveglianza era rafforzata, ma dentro tutto si è svolto come sempre.
  Liphshiz è stato anche alla sinagoga de la Victoire per parlare con Samuel Sandler, padre e nonno delle vittime di Tolosa. Gli ha detto Sandler: dopo lo shock iniziale, «i francesi a novembre hanno capito meglio quello che noi ebrei, specialmente in Israele, abbiamo sempre saputo: che devi combattere il terrore in una guerra continua accanto alla tua vita, non al posto di essa».

 Paura a Milano
  Anche in Italia nel frattempo parte della comunità ebraica è costretta a vivere con il fiato sospeso. Ancora non si è trovato l'uomo che la sera giovedì 12 novembre ha aggredito a coltellate l'ebreo ortodosso Nathan Graff nei pressi di un ristorante kosher a Milano. La vittima è fuori pericolo e in una intervista a Repubblica non ha voluto dare "alla cieca" un'identità, una religione o un'ideologia precise al suo assalitore. L'unica cosa che sa, dice, è «che voleva uccidermi. Non era una rapina, non voleva portarmi via niente. Sennò lo avrebbe fatto. Ho pensato che non era un ladro ma solo un fanatico che mi voleva ammazzare perché sono ebreo».

 Cinque morti in Israele
  Milano come Parigi, come Marsiglia e come Israele? Proprio ieri a Tel Aviv e in Cisgiordania la cosiddetta "Intifada dei coltelli" ha fatto altre 5 vittime: come riporta la Stampa, a Tel Aviv un palestinese di 24 anni «ha attaccato i passanti davanti alla sinagoga "Ohel" durante la preghiera pomeridiana. Una persona muore subito, la seconda vittima decede in ospedale a causa delle gravi ferite riportate. Vi sono altri tre feriti, di cui uno versa in gravi condizioni»; due ore dopo nell'insediamento di Gush Etzion, a sud di Gerusalemme, «un palestinese a bordo della sua auto spara con un fucile mitragliatore contro un ingorgo stradale: muoiono sul colpo di un israeliano di 50 anni, un 18enne americano impegnato in un corso di studi religiosi ebraici e un palestinese di 40 anni». Hamas ha celebrato l'attentato di Tel Aviv e il suo «atto eroico».

(Tempi, 20 novembre 2015)


«Vogliono metterci paura. Ma noi non ci fermiamo»

Parla la presidente della comunità ebraica della capitale: «La nostra zona è tranquilla, un posto più sicuro di tanti altri».

di Pietro De Leo

 
Ruth Dureghello
- C'è paura nella Comunità Ebraica?
  
«L'attenzione è quella di sempre, e non è mai stata poca. Il terrorismo vuole attaccare, anche con la paura, l'ideale di libertà che l'Europa ha conquistato a fatica. Quindi la miglior risposta è non fermarsi. E noi non ci fermiamo. La Comunità Ebraica continua tutte le sue attività».

- Vi sentite sicuri?
  
«Direi che il quartiere ebraico di Roma, in questo momento, grazie anche alla sensibilità mostrata dalle istituzioni, è un posto molto più sicuro di tanti altri. Per questo invito la cittadinanza a venire a mangiare nei nostri ristoranti, a visitare il nostro museo, a venire a conoscere la nostra comunità, presenza storica e fondamentale a Roma».

- La settimana scorsa è stato accoltellato un cittadino di religione ebraica a Milano. Poi un nuovo accoltellamento a Marsiglia, mercoledì, vittima un docente di scuola ebraica. Casi sporadici o l'Intifada dei coltelli è arrivata in Europa?
  
«Io mi auguro siano solo casi sporadici. Tuttavia già all'inizio della guerra dei coltelli in Israele, era chiaro come ci si trovasse di fronte ad una situazione nuova e diversa e ci fosse la volontà di colpire gli ebrei in qualsiasi luogo si trovassero. Noi abbiamo da tempo fatto presenti problemi e pericoli, trovando molto ascolto da parte delle istituzioni».

- Quanto è fertile il terreno per l'antisemitismo in Europa?
  
«Il terreno è fertile perché l'Europa è chiaramente in crisi di valori e certi messaggi, certi pregiudizi non appartengono soltanto alle classi meno scolarizzate, ma vengono lanciati su ampia scala attraverso una diffusione mediatica senza controllo. L' Europa deve avere consapevolezza di questo, come del ruolo ricoperto da Israele, che in Medio Oriente è baluardo di democrazia. Detto questo, poi, ci sono vari tipi di antisemitismo: quello delle forze estremiste in Ungheria o in Grecia; quello che si fonda su vecchi pregiudizi che dovrebbero essere superati; e quello, infine, che coincide con l'antisionismo. O l'Europa recupera i suoi valori fondanti, oppure il rischio è che l'antisemitismo si diffonda in maniera dilagante».

- Un ragionamento che stona con la decisione dell'Europa di etichettare i prodotti provenienti dagli insediamenti in Cisgiordania. Dove deve concentrarsi l'impegno Ue per abbattere il pregiudizio antiebraico?
  
«Bisogna lavorare tutti nella stessa direzione. La presenza ebraica è un valore aggiunto per l'Europa stessa, che si fonda sulla multi identità. È ora, dunque, che le istituzioni europee abbandonino il boicottaggio ed assumano posizioni certe, chiare ed equidistanti che garantiscano la sicurezza di tutti. Soltanto così si potranno compiere dei passi avanti».

- Dopo gli attacchi di Parigi, con l'Europa ormai tutta nel mirino del terrorismo, quanto può essere utile il dialogo interreligioso per isolare i fondamentalismi?
  
«I fondamentalismi fanno molto male alla religione, perché offendono ciò in cui si crede, distorcendolo e sfruttandolo. Dunque credo sia assolutamente necessario lavorare per il dialogo. Dall'altro lato, però, noto la difficoltà che abbiamo nell'individuare interlocutori con cui poterci confrontare nel mondo islamico. Al contrario, con quello cattolico c'è un dialogo costante. Il prossimo 17 gennaio Papa Francesco compirà la sua visita in Sinagoga è ciò dimostra quanto le grandi religioni si debbano impegnare tutte insieme per rimuovere le barriere ideologiche. Aspettiamo, per questo, che il mondo islamico si proponga per un incontro: le porte del Tempio sono aperte, come sempre, per ragionare su ciò che ci accomuna, più che su ciò che ci divide».

- Da più parti, in questi giorni, si fa notare che dal mondo del cosiddetto islam moderato manchi una ferma ed energica condanna dei fatti di Parigi. Condivide?
  
«Io sono convinta che l'Islam non possa essere una religione di guerra. Di fatto, però, la mancanza di una presa di posizione netta si sente».

(Il Tempo, 20 novembre 2015)


19esima edizione di Nessiah. Ebraismo e cultura contro la paura

Il teatro Politeama di Cascina
PISA - Il teatro di Cascina "Il senso lato" è il titolo e il filo conduttore dei dieci appuntamenti del Festival Nessiah 2015, giunto alla sua 19/a edizione, un viaggio nell'immaginario culturale e musicale ebraico organizzato dalla Comunità ebraica di Pisa con il sostegno della Fondazione Pisa e la collaborazione dei Comuni di Pisa e Cascina e che si snoderà tra la sinagoga cittadina, il cineclub Arsenale e il teatro Politeama di Cascina con ospiti di fama internazionale.
In cartellone dal 22 novembre al 12 dicembre tre concerti, quattro proiezioni (due presentate e introdotte dagli stessi registi), una mostra fotografica che sarà accompagnata da una degustazione e uno spettacolo teatrale firmato da Miriam Camerini. In mezzo, domenica 6 dicembre, l'accensione del primo lume di Channukà nella sinagoga di Pisa, che ospietrà anche il concerto inaugurale del duo Lev-Yulzari (chitarra e basso) insieme a Frank London, fondatore dei Klezmatics, band amatissima dal pubblico e premiata con un Grammy Award. Tutti gli appuntamenti del festival sono a ingresso gratuito.
Sappiamo di vivere un periodo teso in seguito al ripetersi di attacchi terroristici - ha sottolineato il direttore artistico della rassegna, Andrea Gottfried - ma siamo nella condizione di garantire la massima sicurezza del pubblico che verrà a incontrarci e a scoprire un pezzo della cultura ebraica. Per noi Nessiah è prima di tutto condivisione". "Non vogliamo cedere alla paura - ha concluso Paolo Molco, vicepresidente della comunità ebraica pisana - e siamo felici di far entrare il festival nella sinagoga restaurata e restituita alla città. E' un luogo simbolo, carico di storia e tradizione. Ma vogliamo che continui a essere un luogo aperto a tutti, anche ai non ebrei. Un punto di incontro e non un fortino".

(#gonews.it, 20 novembre 2015)


«L'Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Qui la crisi è politica»

Nahum Barnea: «Le violenze nello Stato ebraico affondano le radici nel conflitto israelo-palestinese». Se lo Stato Islamico fosse qui, le prime vittime sarebbero i palestinesi.

di Francesco Battistini

GERUSALEMME - «Sono appena arrivato da Parigi e da Bruxelles, passando per Roma. Ho viaggiato per un'Europa in grande affanno e appena arrivato qui, ecco altri morti...».
Nahum Bamea è il più famoso giornalista israeliano, il più adatto a fare paragoni tra noi e loro: perse un figlio in un attentato di Hamas, non ha mai perso lucidità nel guardare dentro la notte. «La sfida è molto grande. Dovete affrontare questioni enormi: controllare le frontiere, migliorare la sicurezza interna, rivedere i controlli su migrazioni e minoranze. Una cosa complicata».
   
- Netanyahu paragona il terrore di Parigi e quello in Israele...

  «Troppo conveniente dirlo, perché sia anche vero. C'è qualche legame fra situazioni così drammatiche. E io non voglio giustificare chi spara sui civili a Parigi o a Gush Etzion. Ma le radici di quel che vediamo qui affondano nel conflitto israelopalestinese, non a Saint Denis. Netanyahu non può sottrarsi alla responsabilità di proteggere il popolo e il Paese, esportandola all'estero. Quel che ora affrontiamo in Israele è anche il prodotto d'uno sviluppo politico. Non è solo Isis. L'Isis è uno strato dell'emergenza. Ma solo uno».

- A Parigi lei ha respirato una sinistra aria che conosce bene...

  «Sedevo con amici e parlavamo di come il terrorismo minacci la gente che vuole avere una vita normale. Noi la chiamiamo sicurezza personale; i francesi, piacere della vita. Ma è la stessa cosa: svegliarsi la mattina e volere una spremuta, andare a scuola, concentrarsi sul lavoro e la sera distrarsi a un caffè. Gli attacchi a Parigi, completamente ciechi di fronte all'identità e alle storie delle vittime, hanno tolto questa quotidianità. In gennaio gli obbiettivi erano "Charlie Hebdo" o un supermarket ebraico: crimini odiosi, ma avevano un significato. Stavolta nessuno può chiamarsi fuori. Chiunque è un target. A Parigi uno viene ucciso indipendentemente da quel che pensa di Hollande o delle bombe su Raqqa. Questa sensazione di paura, gli israeliani la provano da sempre: nessuno è al sicuro. Il terrorismo più efficace è quello cieco che crea terrore cieco. Chi sparava a Parigi se ne fregava della Palestina. E se l'Isis fosse qui, le prime vittime sarebbero i palestinesi».

- Però ci sarebbero almeno zoo palestinesi affiliati all'Isis.

  «L'Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Puoi anche dire che c'è un legame con la Baader Meinhof o con le Brigate rosse: il terrorismo è terrorismo. Ma non credo ci sia un'attrazione forte. Gli amici d'uno dei terroristi di Parigi mi hanno detto che era solo un piccolo delinquente, viveva spacciando droga e bevendo alcol, altro che buon musulmano. Questi ragazzi non sanno niente di religione, come non sanno niente di Palestina. Vogliono una vita radicale, una qualunque, credere nella distruzione».

- II capo degli 007 tedeschi ha detto che, a combattere il terrorismo, bisogna imparare dagli israeliani. In che cosa?

  «Negli aspetti tecnici della guerra globale. Informatori, controllo web, intercettazioni. Noi siamo in una situazione migliore. Un obbiettivo meno centrale, con paure più limitate. Ma il problema ora sono gli accoltellamenti. Non è facile bloccare uno che si sveglia la mattina e decide d'ammazzare».

- Netanyahu ha messo fuori legge il Movimento islamico d'Israele: in questa situazione, non era meglio aspettare?

  «Questo movimento è davvero pessimo. Ha instillato molto veleno nella società araba, ma anche israeliana. Ha danneggiato la nostra vita pubblica. Ha fatto propaganda estremista che ha creato altri estremismi. Non so se dichiararli illegali sia stata la scelta migliore, perché questo potrebbe dare loro più consensi. Però se mi chiedi: sono pericolosi? Io rispondo: sì. Proprio come quelli che vanno in giro ad accoltellare e a sparare».

(Corriere della Sera, 20 novembre 2015)


Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'Isis

di Fiamma Nirenstein

Ieri Israele ha avuto altri 4 uccisi per terrore. Uno stillicidio, un'ondata di terrorismo parallelo a quello di Parigi prosegue la continua tortura che nelle ultime settimane ha fatto 18 morti, 350 feriti e 1500 episodi di terrore nella strade di Gerusalemme e in tutta Israele fra accoltellamenti, spari, esplosioni, uso delle auto per travolgere i passanti. Oggi si aggiungono alla lista altre quattro persone, due pugnalate all'ingresso di una sinagoga nello scenario metropolitano di Tel Aviv, l'altro nel Gush Etzion, uno di 25 anni e uno di 50, 10 i feriti. L'assoluta casualità degli attacchi risulta lampante se si guarda all'immensa differenza fra gli obiettivi prescelti: gente di Tel Aviv che va alla sinagoga per la preghiera serale, e due automobilisti fermi in coda vicino a Alon Shvut, nei Territori del Gush Etzion. Agli attentatori non interessava affatto l'identità dei loro obiettivi, perchè questo è il terrorismo: basta che siano ebrei, come ai terroristi di Parigi bastava che fossero francesi. Ebrei, cristiani, imperialisti, oppressori, corrotti occidentali. Gli uccisi sono per il terrorista, esattamente come a Parigi, o a Londra, o a Madrid o a Tolosa e Bruxelles, segnali piantati nella terra del suo piano di dominazione che, nella prima fase, si esprime nella confusione che riesce a seminare, nella gente che perde fiducia nel potere costituito e resta a casa avvilito nella sua vita quotidiana, per poi sfociare nella seconda fase, quella della compiuta dominazione, nel caso di Israele nella cacciata del popolo ebraico; nel caso dell'Occidente intero in spazi sempre più vasti per il Califfato.
   Per l'uomo del Daesh, o Isis, gli attentati, dal Canada alla Francia, già delimitano i confini dello Stato islamico, così come per i palestinesi gli attentati sul territorio israeliano lo destinano a entrare alla fine a far parte del dominio islamico. Israele ha messo due giorni fa fuori legge il Movimento Islamico del nord dello sceicco Ra'ad Salah, ne ha tagliati i finanziamenti e chiuse le sedi, una mossa che Netanyahu ha accompagnato con rassicurazioni ai musulmani di rispetto e accettazione: ma la decisione del Gabinetto israeliano è quella di non consentire che un'organizzazione contigua al terrorismo sia libera di spargere il suo seme. Ultimamente l'Isis, in un video postato lunedì, ha lanciato una campagna in cui incita i palestinesi a attaccare ovunque gli israeliani mentre in ben sei video i loro predicatori invitano a uccidere gli infedeli sullo sfondo delle immagini degli attacchi coi coltelli. Un video intitolato «Restituite il terrorismo agli ebrei» rispecchia il tipico atteggiamento per cui qui Israele, là gli occidentali, vengono accusati delle «colpe» che causano il terrorismo che si rovescia su di loro.
   Si calcola per altro che nelle file del Daesh si annidino circa 200 palestinesi, la loro presenza è maggiore a Gaza mentre nell'West Bank gran parte dei palestinesi lo rifiuta, ma di sicuro l'uso sconsiderato anche da parte dell'Autonomia Palestinese della bugia che Israele vuole occupare la Moschea di Al Aqsa ispira l'islamismo che porta i giovani al terrore. L'ondata dei coltelli è un tentativo di imitare l'Isis e le sue decapitazioni; l'attacco a luoghi sacri agli ebrei, come l'incendio alla tomba di Giuseppe mima altri attacchi ai vari luoghi sacri. Israele è abituata a rispondere al terrorismo sin dagli anni '20, ben prima che esistesse il problema dei territori. Il mondo invece non è abituato a prendersi cura del terrore in Israele, che è sempre stato lasciato solo a fronteggiarlo mentre invece si adoperava a fare muro per tutti quanti.

(il Giornale, 20 novembre 2015)


Doppio attacco anti-israeliano, cinque morti. Netanyahu: noi vittime come a Parigi

Due persone accoltellate a Tel Aviv, poi un palestinese apre il fuoco a Gush Etzion, in Cisgiordania.

GERUSALEMME - Il primo è comparso armato più che altro di ferocia, alla periferia sud di Tel Aviv: aveva un coltellaccio e una gran determinazione. E quando una delle sue vittime ferita e zoppicante cercava di scappare, di nascondersi da qualche parte nel Panorama Building, lui l'ha braccata, ha cercato di raggiungerla per finirla, spingendo porte che gli altri cercavano disperatamente d'opporgli.
   Il secondo s'è preparato meglio, a un incrocio della Cisgiordania, tuta nera e mitraglietta Uzi, ma dicono i testimoni che solo la sua agitazione gli ha impedito d'ammazzare anche di più. E dopo avere sparato sul pulmino dei turisti ebrei americani che gli passava davanti, è saltato sulla sua macchina ed è scappato nel traffico, andando a sbattere contro altre auto al primo incrocio e facendosi catturare da un automobilista a mani nude.
   Due killer, cinque morti. E Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, che vede una strategia globale: «Chiunque in questi giorni abbia condannato gli attacchi in Francia - commenta -, deve condannare anche questi attacchi in Israele. E' lo stesso terrore. E chiunque lo neghi, è un ipocrita e un cieco».
   Che i terroristi si conoscessero, non si sa. Che sapessero tutt'e due il da farsi, è sicuro. Il sangue di Tel Aviv si sparge nella tarda mattinata, in un palazzone d'uffici della periferia sud, dove c'è una piccola sinagoga e un gruppo di religiosi è appena uscito dalla preghiera. Riad Mahmoud Almasalma, 36 anni, un palestinese di Dura con famiglia a Hebron, insospettabile cameriere d'un ristorante dei dintorni, il Bukharan, s'avventa sui primi che gli capitano a tiro di lama: due li uccide, qualcuno lo ferisce. Scatenando un panico tale da far credere, per un po', che fra i colpiti ci sia anche il figlio del leader dell'opposizione alla Knesset, Herzog: «Grazie a Dio non è vero», deve smentire via Twitter il politico.
   Passano sei ore, si va a oltre cento chilometri di distanza, e tocca a un minibus che passa sulla strada 60 di Gush Etzion, in Cisgiordania. ll terrorista eon l'Uzi scende dall'auto e sventaglia proiettili a casaccio. Tre morti - un giovane ebreo americano, un israeliano di 50 anni e un palestinese di 40 -, una decina di feriti. La sua breve fuga si ferma quando sbatte e Yuval Lasri, un padre di famiglia che passa di lì, l'atterra e lo disarma.
   Lupi solitari o sguinzagliati da qualcuno? «Dobbiamo imparare dagl'israeliani come si fa a bloccare gli attacchi», aveva appena elogiato da Berlino il capo dei servizi segreti tedeschi. «Negli ultimi mesi è stato neutralizzato il 94 per cento degli attentati in Israele», aveva appena tenuto una conferenza stampa a Tel Aviv un alta ufficiale dei servizi israeliani. Il tempo di chiudere i taccuini è la vera arma di questa Intifada dei coltelli, o Terza Intifada o come si vogliano chiamare queste settimane che hanno fatto 18 morti israeliani e 80 palestinesi, l'arma dell'imprevedibilità ha colpito ancora.
   A dirla tutta, l'ennesima giornata della rabbia araba faceva prevedere un brutto giovedì: dopo la decisione di Netanyahu di mettere fuorilegge il movimento islamico dello sceicco Raed Sallah, una sigla finanziata da Hamas e Fratellanza egiziana, nei Territori era stato proclamato uno sciopero generale. Ma c'e stato qualcosa, stavolta, che ha spiazzato tutti. Perché il cecchino in nero di Gush Etzion è comparso come una minaccia più seria d'un disperato accoltellatore. E anche l'accoltellatore di Tel Aviv è risultato diverso dal clichè: senza precedenti, con un regolare permesso, era entrato in Israele un mese fa. Aveva dichiarato di voler lavorare: «Invece - ha spiegato, una volta in manette - volevo solo una cosa: ammazzare gli ebrei».
   
(Corriere della Sera, 20 novembre 2015)


"Loro muoiono per la loro fede. Noi ci rinunciamo"

Parla Pryce-Jones, saggista inglese che spiega al Foglio come il multiculturalismo incoraggi il terrorismo.

di Giulio Meotti

 
David Pryce-Jones
ROMA. E' il "fronte interno", sotto gli occhi di tutti con il raid a Saint-Denis e la prima donna kamikaze in Europa. E' il fallimento di tutti i modelli di integrazione europei: l'assimilazionismo francese, che aveva offerto i valori della République agli immigrati e in cambio ha avuto il jihad delle banlieue, la strage di vignettisti e gli attacchi agli ebrei a Marsiglia; il multiculturalismo inglese, con il suo laissez-faire sul velo e le cento corti della sharia; il modello belga, che nel 1974 riconobbe ufficialmente la religione islamica e che oggi fa notizia nel mondo per Molenbeek, la fabbrica di "martiri"; quello svedese welfarista, da cui fuggono gli ebrei di Malmö; la "gedoogcultuur" d'Olanda, o più banalmente permissivismo, tenere tutto assieme, portare braccia all'integrazione, costi quel che costi, anche se vengono meno la democrazia liberale e lo stato di diritto e Theo van Gogh viene ucciso. "Sono modelli differenti per la stessa ricetta fallimentare", dice al Foglio Douglas Murray, direttore della Henry Jackson Society ed editorialista dello Spectator. "Sotto la dottrina multiculturale, i nuovi arrivati in Europa non sono stati incoraggiati a integrarsi, ma a separarsi dal paese che li ospitava. E' l'idea che non ci fosse più una società, ma differenti 'comunità'". Ne parliamo con David Pryce-Jones, uno dei massimi saggisti del Regno Unito, già editor letterario del Financial Times, autore di saggi importanti su Evelyn Waugh e Graham Green, ma anche di "Betrayal: France, the Arabs, and the Jews".
  Pryce-Jones parte dal rifiuto della guerra. "I politici in Germania e Francia e nei paesi nordici hanno creato le condizioni in cui non ci dovevano essere più guerre", dice al Foglio. "Si sono persuasi che le conferenze e i negoziati potevano risolvere tutti i conflitti e che la guerra era diventata un anacronismo. La natura umana avrebbe dovuto subire una completa trasformazione. I musulmani sono stati persuasi a essere felici aumentando la forza lavoro, foraggiando la società dei consumi. L'irresponsabilità, pura e semplice, è stata il segno politico distintivo. Nessuno si è mai chiesto se le persone con tale fede religiosa avrebbero potuto adottare la ben diversa identità dei nativi. Il pensiero dominante è che l'Inghilterra tollera tutto, che sia un paese molto libero. Ed è vero. I musulmani dovevano condurre la loro vita, fare la spesa, trovare lavoro, allevare figli, ricevere sussidi. E lo hanno fatto. Poi però la democrazia ha consentito che imam e predicatori sobillassero le masse al jihad. Nessuno li ha mai fermati. Così hanno separato i musulmani dagli inglesi. Dopo Parigi, i musulmani a Londra e altrove avrebbero dovuto scendere per strada e gridare 'not in my name'. Io non li ho visti".
  Secondo Pryce-Jones, il multiculturalismo incoraggia il terrorismo: "I numerosi attacchi perpetrati dai musulmani testimoniano che il mondo multiculturale cui eravamo stati invitati era una finzione. Ora le veglie a lume di candela semplicemente decorano la finzione, e incoraggiano gli islamisti ad alzare la posta in gioco e a uccidere per vincere la guerra che conducono. Questa tensione è stata nutrita dalle élite, con il loro senso di colpa per il Terzo mondo e il colonialismo". La Cambridge Methodist Church, in Inghilterra, è appena passata di mano a una associazione islamica. La chiesa, vecchia di 103 anni, diventerà una moschea. Secondo Pryce-Jones, l'islamismo è avanzato in Europa grazie a una precedente decristianizzazione: "La democrazia è un prodotto della cristianità, altrimenti saremmo tutti vissuti nella autocrazia, il comando di un solo uomo. Ma la cristianità in Europa è stata indebolita al punto che è rimasto soltanto un vago e generico consumismo senza base filosofica. Questa erosione cristiana ha aperto il campo al suprematismo islamico. E' questo il grande paradosso: i musulmani, come a Parigi, sono pronti a morire per la loro fede, mentre noi ci abbiamo rinunciato. C'è come una sorta di esitazione profonda in Europa".
  Cosa accadrà in Inghilterra? "Ci sono due alternative", conclude Pryce-Jones. "O i musulmani si assimileranno e diventeranno finalmente inglesi. Oppure saremo noi a sottometterci. Ma prima, ci sarà una lunga fase violenta. Senza una guerra all'Isis, adesso il meglio che possiamo aspettarci è un futuro alla Edward Gibbon, il cui libro 'Il declino e la caduta dell'Europa' sarà in grado di spiegarci come e perché si sia verificata questa catastrofe inutile".

(Il Foglio, 20 novembre 2015)


Lo Stato islamico capisce solo una cosa: la forza. A proposito di modello israeliano

ROMA - Naftali Bennett, ministro israeliano dell'Educazione e per la Diaspora, è intervenuto ieri sul Wall Street Journal, quotidiano liberale americano, suggerendo che "Europa e Stati Uniti possono seguire lo spartito israeliano per sconfiggere il terrorismo islamico". Una tesi che abbiamo argomentato, su queste colonne, fin da subito dopo gli attentati di Parigi. La democrazia israeliana è sotto assedio da decenni - ieri tre cittadini sono stati accoltellati a Tel Aviv, due sono morti; altri tre uccisi in Cisgiordania - ma ha mostrato una vitalità ideale e organizzativa ancora sconosciuta in Europa. Salvando così la libertà e molte vite umane.
   "Il 27 marzo 2002 - scrive Bennett - un attentatore suicida entrò nel Park Hotel a Netanya e si fece esplodere. Trenta persone che pochi minuti prima si stavano sedendo per il rituale Seder di Pesach furono trucidate. Una scena di celebrazione e civiltà fu trasformata in un macello, come a Parigi la scorsa settimana. Quell'attacco arrivò al culmine della Seconda Intifada, un conflitto che alla fine avrebbe causato la morte di 1.000 israeliani".
   "Il mio paese, Israele, sembrò paralizzato e la sensazione a livello nazionale era che l'esercito non sarebbe stato in grado di sconfiggere la campagna terroristica. L'unica via per fermare gli attacchi, dicevano molti presunti esperti, era quella che consisteva nell'utilizzo di mezzi politici. Avevano torto. Due giorni dopo quel massacro nell'hotel, il governo israeliano lanciò un'operazione militare chiamata 'Scudo difensivo' per bloccare gli attentatori suicidi e riprendere il controllo delle città palestinesi in Cisgiordania. E funzionò. Nel giro di qualche settimana dall'inizio dell'operazione, il numero di attacchi e di vittime israeliane diminuì dell'80 per cento; ci fu bisogno di tempo ma alla fine gli attacchi suicidi furono azzerati. Dimostrammo che il terrore poteva essere sconfitto. L'Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati possono sconfiggere i terroristi dello Stato islamico. Il primo passo è decidere di contrattaccare. Il passo successivo è comprendere che i droni e i missili non saranno sufficienti. Occorrono truppe sul terreno".
   Bennett a questo punto ricorda lo smantellamento dell'infrastruttura terroristica avvenuto casa per casa tra Nablus, Jenin, Jerico e Tulkarm, cui lui stesso scelse di partecipare da militare, rientrando dagli Stati Uniti dove lavorava come imprenditore nell'hi-tech.
   "Capisco che l'espressione 'boots on the ground' incuta timore e che il mondo occidentale si è abituato a forme di contrattacco sterili. Tuttavia dobbiamo essere onesti: questi attacchi danneggiano l'Isis, ma non lo distruggeranno, Per vincere, il mondo deve andare all'offensiva. Quello che Israele fece nel 2002 è un modello di come il terrore può essere sconfitto. I soldati potranno essere messi in pericolo, ma il numero di civili salvati sarà molto maggiore. L'Europa deve anche condividere l'intelligence dentro e fuori il continente. Israele, su quel fronte, può aiutare".
   "L'occidente ha dimostrato in passato la sua capacità di proiettare la propria potenza e muovere le proprie truppe in luoghi distanti. Quello che Israele dimostrò nel 2002 fu che quando tu sposti il conflitto in territorio nemico, allora il nemico incontrerà difficoltà a portare il conflitto vicino a te". Con lo Stato islamico non sta andando così.
   Infine, come Israele, "Europa e Stati Uniti fronteggiano un pericolo terrorista che è appostato anche nelle loro città. Centinaia di giovani occidentali sono stati incomprensibilmente attratti dal culto della morte dell'Isis. (…) Per individuare queste minacce, Europa e America devono rafforzare le loro tecniche di sorveglianza. Libertà, libertà di parola in particolare e diritti umani sono i pilastri delle nostre democrazie, ma in Israele li bilanciamo con le esigenze di sicurezza nazionale". "Il mondo dev'essere determinato e non esitare quando è sfidato da avversari come l'Isis. Questi terroristi capiscono solo un linguaggio: quello della forza".
   
(Il Foglio, 20 novembre 2015)


Aaron Fait in Cattolica: «Con l'agricoltura di precisione sono fioriti anche i deserti»

Il professor Aaron Fait, docente presso l'istituto Jacob Blaustein per gli studi sul deserto dell'università di Ben Gurion, è intervenuto all'università Cattolica per un incontro con gli studenti delle superiori Itas "Raineri" e liceo Scientifico.

di Giuseppe Romagnoli

 
Il professor Aaron Fait parla agli studenti
PIACENZA - «In Israele i "cervelli" non sono in fuga, anzi! Governo ma anche i privati sostengono con forza gli studi per l'innovazione scientifica»: emblematica l'esperienza del professor Aaron Fait, nato a Bolzano 42 anni fa, scienziato esperto in Biologia dei sistemi, formatosi in Israele e specializzatosi al Max Plank Institute in Germania. Oggi coordina il laboratorio di metabolomica applicata allo Jacob Blaustein Institute for Desert Research dell'università Ben Gurion del Negev. E' intervenuto all'università Cattolica per un incontro con gli studenti della facoltà di Agraria e delle superiori Itas "Raineri" e liceo Scientifico.
   Fait, presentato dal preside Lorenzo Morelli e dal docente di Viticoltura Stefano Poni che hanno ricordato come, con questo incontro, prosegua la riflessione su una produzione agroalimentare sicura e sostenibile aperta con Expo 2015, con l'acqua in particolare quale risorsa determinante per la vita e lo sviluppo della Comunità in tutte le sue articolazioni, ha spiegato l'iter della propria formazione iniziata, come prevede il sistema accademico israeliano, per alcuni anni a fare ricerca all'estero, come presso il Max Planck Institute in Germania per la specializzazione in System Biology. Quindi la decisione di tornare in Israele dove l'università Ben Gurion del Negev gli ha permesso di realizzare, con un cospicuo finanziamento ed alcune borse di studio per il mantenimento dei collaboratori necessari, un laboratorio di metabolomica applicata alla fisiologia delle piante. «Si tratta di un'agricoltura con un approccio quasi "personalizzato", che cambia cioè da coltura a coltura, di terreno in terreno, in base alle diversificate esigenze delle piante, applicabile in modo mirabile, per esempio - ha rimarcato Poni - a tutta la nostra viticoltura di qualità».
   L'utilizzo dell'acqua con modalità rigorose può ad esempio consentire di espandere la viticoltura anche in zone desertiche e così le aree aride possono divenire settori fertili: questa è stata appunto l'esperienza che il professor Aaron Fait ha condotto presso l'Istituto Blaustein che si trova a circa 40 chilometri di distanza, in pieno deserto, quello stesso deserto che nei piani ambiziosi e visionari del primo premier dello Stato di Israele - al quale l'università è dedicata - sarebbe dovuto diventare un giardino.Il deserto del Negev è una zona completamente arida, con meno di 100 millimetri di precipitazioni ogni anno, e copre tra il 60 e il 70% della superficie totale di Israele. Per Ben Gurion e i suoi successori lo sviluppo agricolo del Negev e di Israele non poteva che passare attraverso la ricerca e l'innovazione tecnologica: nascono così l'università e l'istituto per l'Agricoltura e le biotecnologie nelle regioni aride, dove oggi la ricerca è fortemente orientata alla multi-disciplinarietà da un lato e al mondo della produzione dall'altro.
   «L'importante per l'istituto è da sempre non perdere di vista l'obiettivo della ricerca, che è l'agricoltore - ha detto Fait - Non solo lavoriamo in stretto contatto con il mondo della produzione, ma internamente uniamo professionalità molto diverse: nel nostro team ci sono agronomi, biochimici, specialisti di modellistica del movimento dell'acqua nel suolo, e lo scopo è quello di sviluppare un vocabolario comune a tutti. È solo in questo modo che i miei studi sul metabolismo possono integrarsi con gli studi sulla fisiologia della pianta e con quelli sulle tecniche colturali come l'irrigazione e allo stesso tempo portare benefici all'agricoltura della regione e al territorio».

(il Piacenza, 19 novembre 2015)


Roma - Cicchitto: Spesso Israele non è trattato come uno stato simile agli altri

Fabrizio Cicchitto
ROMA - Il presidente della Commissione Esteri della Camera Fabrizio Cicchitto nella sua introduzione al convegno su "Quadro geopolitico e antisemitismo" ha affermato: "Abbiamo proposto l'incontro con autorevoli esponenti della comunità ebraica, con studiosi dell'antisemitismo, con rappresentati diplomatici di varie nazioni europee, degli Usa e di molti paesi arabi, prima dei recenti atti di terrorismo in Francia, avendo avvertito un'atmosfera pericolosa di antisemitismo. Diciamo con franchezza che purtroppo molto spesso Israele non è trattato come uno stato simile agli altri, per cui l'attività politica del suo governo andrebbe valutata con assoluta libertà di critica, ma senza particolari accentuazioni e polemiche e invece questo spesso non avviene.
Rientra in ciò anche l'etichettatura di merci provenienti dalla Cisgiordania: potremmo citare molti casi di altri stati attraversati da contestazioni tra etnie, diverse comunità religiose o gruppi ideologici, con la conseguenza di scontri anche traumatici, che non sono stati nemmeno sfiorati da misure di politica di questo tipo che per di più rischiano di essere propedeutiche a forme di boicottaggio contro le quali siamo contrari in modo radicale, e rispetto alle quali stiamo anche studiando misure legislative d'intesa con altre forze parlamentari di maggioranza e di opposizione.
Per di più in una situazione così grave del Medioriente tutti dovrebbero avere l'attenzione di tenere buoni rapporti con l'unica, forte democrazia esistente nel Medioriente e con uno stato in grado di affrontare anche un terrorismo islamico che si è fatto esercito e stato, e che come tale conduce una guerra asimmetrica in primo luogo contro i musulmani che non si piegano alla sua dittatura e in secondo luogo in Europa, negli Usa e in molte altre parti del mondo fra cui la Libia. Per di più c'è una tendenza a tradurre le tensioni fra Israele e i palestinesi in attacco alle comunità ebraiche in tante parti del mondo e anche qui in Italia sia attraverso attacchi verbali di tipo giornalistico e attraverso la rete, sia con atti di violenza. In questo quadro l'episodio dell'accoltellamento di un cittadino appartenente alla comunità ebraica è per noi un campanello d'allarme.
Per queste e altre ragioni riteniamo che la battaglia politica e culturale contro ogni forma di antisemitismo va condotta a viso aperto e con coerenza nella consapevolezza che i razzisti di ogni tipo, in primo luogo gli antisemiti, ma anche coloro che esercitano tale deteriore sentimento contro altre religioni, fra cui quella musulmana, sono una ristretta minoranza contro la quale è indispensabile la massima contrapposizione e vigilanza anche perché essi costituiscono un ulteriore problema assai serio in una situazione nella quale stiamo vivendo una guerra di nuovo tipo, cioè quella che si chiama una guerra asimmetrica".

(Agenparl, 19 novembre 2015)


Madri d'Israele - Liran

di David Zebuloni

Liran
Sfoglio un noto quotidiano israeliano.
Pagine su pagine di inchiostro fresco.
Articoli, cronache, analisi dettagliate del periodo che stiamo vivendo, dei conflitti, delle stragi. Commenti lunghi e ripetitivi: alcuni brillanti, lucidi; altri estremamente noiosi, scontati.
Ad emergere, far luce in mezzo a quel macabro intreccio di pensieri e parole, è una piccola immagine, accompagnata da poche brevi righe. Le più significative dell'intera rivista.
"Trentacinquenne, madre di quattro bambini", leggo. "In seguito al recente periodo di terrorismo che ha toccato Israele ed il mondo intero, Liran ha deciso di licenziarsi dal suo posto di lavoro, come insegnante d'asilo, per entrare a far parte del corpo di polizia."
Liran dichiara, infatti, che contribuire alla difesa della società israeliana è la sua nuova missione, uno stile di vita a cui non potrebbe mai rinunciare.
Sollevato da questo spiraglio di luce, riconosco dietro questa affermazione, dietro quel sorriso, quello sguardo dolce e complice, un'insostituibile Madre d'Israele. Apprensiva e premurosa, affettuosa, testarda e determinata: la mamma di ognuno di noi.

(moked, 19 novembre 2015)


Ebraismo in Puglia conoscerlo per capirlo

Un corso insegna la lingua della Bibbia

di Alessandra Campione

La Puglia valorizza il suo ricco patrimonio storico collegato al mondo ed alla cultura ebraica. È questa la motivazione della istituzione di un Corso di Ebraico Biblico, voluto dai Cristianisti del Dipartimento di Scienze umane (ex Dipartimento di Scienze dell'antichità e del tardoantico), dell'Università di Bari. lO lezioni, per 20 ore complessive, impartire dal prof. Angelo Garofalo, docente di Antico testamento ed Ebraico biblico preso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme. L'iniziativa ha riscosso un successo insperato perché al primo incontro erano presenti più di 150 studenti: giovani intenzionati ad apprendere le lingua ebraica e ad acquisire gli strumenti anche per poter interpretare documenti riguardanti la Puglia.
   Un interesse per il mondo e la cultura ebraica che in Puglia ha origini antichissime se si considera che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C., furono portati in Puglia olxxx tre 5000 schiavi ebrei. Testimonianze archeologiche della presenza di comunità ebraiche in Puglia risalgono al IV-V secolo e riguardano Bari, Brindisi, Taranto, Lecce, Oria, Otranto; si trattava di comunità ricche e numerose, ben inserite nel tessuto sociale, così come rivelato già nel 398 da una legge dell'imo xxxoperatore Onorio: ne derivava una coesistenza di ebrei e cristiani caratterizzata da integrazione e tolleranza reciproche. Importanti documenti sono alcune iscrizioni bilingue (latino ed ebraico), accompagnate da simboli ebraici, rinvenute a Taranto. Grande rilievo acquisirono, nei secoli successivi le scuole talmudiche pugliesi per lo studio dei testi sacri, protagoniste della rinascita della lingua e della cultura ebraica: basti ricordare Amittai da Oria e Anatoli da Otranto (IX sec.). È l'epoca in cui fiorirono i primi poeti ebrei d'Occidente, le cui composizioni vengono ancora oggi lette durante le liturgie in sinagoga. Nel XII secolo il rabbino francese Tam diffuse a Parigi un detto: «Da Bari esce la Legge, da Otranto la Parola di Dio», parafrasi dei versetti biblici di Isaia (2,3) e Michea (4,2): «Da Sion uscirà la Legge e la parola del Signore da Gerusalemme».
   Una importante comunità ebraica aveva sede a Trani, dove nel XII secolo erano attestate ben 4 sinagoghe. Trani è da considerarsi oggi il capoluogo dell'ebraismo pugliese, grazie ad una comunità viva ed operosa che è riuscita a restituire nuova vita alle due sinagoghe superstiti, la Scola Nova e la Scola Grande, attorno alle quali si svolgono attività religiose e sociali. Al centro delle iniziative promosse la Settimana dell'arte, della cultura e della letteratura ebraica Lech-Lechà che annualmente, nel mese di marzo, propone incontri, conferenze, presentazioni di libri, concerti e danze, ma anche corsi e degustazioni di cucina kasher, con l'intento di divulgare la cultura ebraica che è fonte di arricchimento della intera cultura mediterranea.
   Ritornando alla storia, nel periodo norrnanno-svevo le comunità ebraiche godettero di rispetto e protezioni, dietro il pagamento di tasse e gabelle, ed in particolare Federico II nelle Costituzioni Melfitane del 1231 riconobbe loro, nonostante la opposizione della Chiesa, pieni diritti sul piano giuridico. In epoca angioina la presenza ebraica in Puglia si ridusse fortemente per la conversione al Cattolicesimo imposta a molti. Un fenomeno, quello delle conversioni forzate, che ha dato vita ai cosiddetti «cristiani novelli», alcuni dei quali in epoca recente stanno andando alla riscoperta e al recupero delle loro radici, generando oggi un nuovo fenomeno che potremmo definire di «ebraismo di ritorno».
   Un periodo di rinascita per gli ebrei di Puglia si ebbe con gli Aragonesi, che alternarono nei loro confronti protezione, che permise, soprattutto nella città di Trani, un grande sviluppo nelle attività commerciali e nel prestito di denaro, e oppressione; la situazione precipitò in epoca successiva a causa degli editti contro gli Ebrei, promulgati dai Borbone nel regno di Napoli: nel 1510 il primo editto di espulsione, che tutelava gli ebrei più ricchi dietro il pagamento annuale di una ingente tassa, e nel 1541 il successivo che imponeva l'espulsione per tutti gli ebrei, indipendentemente dalle loro ricchezze. Le comunità ebraiche scomparvero così quasi totalmente dal tessuto sociale ed economico della nostra regione; di esse rimase, tuttavia, una memoria sommersa come lievito destinato a crescere, che trovò terra fertile nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale: in quel tempo la Puglia divenne un importante punto di approdo ed accoglienza per gli ebrei in partenza verso la Terra Promessa, Israele: tutti eventi ricostruiti dal compianto Cesare Colafemmina, del gruppo dei Cristianisti di Bari.
   Oggi gli ebrei in Puglia sono circa un centinaio, e sono presenti oltre che a Bari (pochi), a Trani ed a Sannicandro Garganico, comunità questa che nacque dalla conversione all'ebraismo di un agricoltore cattolico della zona, Donato Manduzio, negli anni Trenta, a ridosso delle persecuzioni ebraiche. Con la sua predicazione, Manduzio riuscì a coinvolgere numerose famiglie del paese alcune delle quali, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, decisero di trasferirsi in Israele.
   Lo studio dell'ebraico da parte dei giovani pugliesi potrà contribuire a ricostruire questa microstoria della nostra regione ed a far comprendere l'osmosi che si è creata in Puglia nel corso dei secoli tra cultura ebraica e cultura cristiana, antidoto all'antisemitismo che periodicamente riaffiora nelle nostre società, come testimonia il recente accoltellamento di un ebreo ortodosso a Milano.

(la Gazzetta del Mezzogiorno, 19 novembre 2015)


Lo street food palermitano a Israele. Nino 'u Ballerino ospite dell'evento

Alla kermesse dell'Israeli Chef Association.

 
Lo street food palermitano d'eccellenza vola in Israele in occasione della manifestazione "50 Year Jubilee. Israeli Chef Association", in programma dal 23 al 26 novembre a Netanya. Protagonista della "trasferta" il più famoso esponente del cibo di strada nel mondo, Antonino Buffa ovvero Nino 'u Ballerino, che si appresta ancora una volta a vestire gli abiti di ambasciatore del cibo palermitano nel mondo.
   "Sono emozionato", spiega Buffa, "perché si tratta non soltanto di un happening prestigioso, ma anche di un evento che vanta la presenza di colleghi provenienti da ogni parte del mondo. Ad Israele, inoltre, mi lega un affetto particolare e sono grato dell'interesse che la stampa specializzata locale mi ha sempre manifestato".
   La kermesse culinaria, organizzata dalla "Israel Master Chef Academy" in occasione del 50o anniversario dell' Israeli Chefs Association, prevede infatti la presenza di delegazioni brasiliane, belghe, rumene e, naturalmente, italiane. Non è prevista alcuna "gara" tra cuochi ma un intenso scambio di conoscenze, esperienze e confronti all'insegna della condivisione e dell'amicizia.
   "Per me", continua Nino, "si tratta, dal punto di vista gastronomico, di un ritorno alle origini, in considerazione del fatto che il pane con la milza affonda le proprie radici nella tradizione ebraica: forse non tutti lo sanno, ma la cucina palermitana deve molte delle proprie pietanze non solo alla civiltà araba, ma anche a quella yiddish".
   "La mia partecipazione ad un simile evento di portata mondiale", conclude lo street food chef palermitano, "avviene in un momento di grandi travagli per il mondo, di paura e diffidenza tra etnie diverse. Il mio auspicio è che l'amore per il cibo, a qualsiasi latitudine, possa invece costituire un collante e un elemento di dialogo e amicizia tra popoli apparentemente distanti".

(Palermo Today, 18 novembre 2015)


Così l'Europa può salvarci dal fanatismo

Per i leader europei una proposta in tre punti con cui reagire agli attacchi: studiare le tecniche antiterrorismo di Israele, da sempre costretto ad affrontare la minaccia di attentati; prepararsi a una vera battaglia culturale contro la propaganda del Califfo, in tutte le sue forme; pensare a una politica dei flussi molto diversa da quella di Schengen.

di Ayaan Hirsi Ali

l presidente francese François Hollande il 13 novembre ha dichiarato che gli attacchi terroristici di Parigi sono stati un «atto di guerra» da parte dello Stato Islamico: e ha ragione, anche se ci ha messo molto a rendersi conto che i jihadisti, ormai da anni, sono in guerra contro l'Occidente. Lo Stato Islamico, o Is, promette altri attacchi in Europa, e l'Europa tutta, non solo la Francia, deve scendere sul piede di guerra, unendosi per fare tutto quello che serve, sul piano militare, per distruggere l'Is e il sedicente califfato fondato in Siria e in Iraq. Non "contenere", non "ridimensionare": distruggere, punto e basta.
Ma anche se l'Is venisse distrutto, l'estremismo islamico non scomparirebbe. Anzi, la distruzione dell'Is accrescerebbe il fervore religioso di quelli, in Europa, che sognano un califfato. I leader europei devono prendere decisioni politiche importanti, e la Francia può assumere un ruolo guida. Ecco tre passi che i leader europei potrebbero fare per sradicare il cancro dell'estremismo islamico.
 Primo: imparare da Israele, che ha a che fare con il terrore islamista dal giorno in cui è nata e deve affrontare minacce molto più frequenti.
È vero che oggi gli estremisti islamici in Israele usano coltelli e automobili come armi principali, ma lo fanno perché è semplicemente impossibile organizzare attacchi come quelli di Parigi. Invece di demonizzare Israele, bisogna chiamare in Europa i loro esperti per sviluppare una strategia antiterrorismo.
 Secondo: prepararsi per una lunga battaglia delle idee. I leader europei dovranno prendere di mira l'infrastruttura dell'indottrinamento: le moschee, le scuole islamiche, i siti web, le case editrici, gli opuscoli, i libri, i sermoni. I governi europei devono fare a loro volta proselitismo all'interno delle comunità musulmane.
 Terzo: gli europei devono disegnare una nuova politica migratoria, che ammetta gli immigrati solo se questi si impegnano a rispettare i valori europei e a rigettare proprio quell'islamismo politico che li rende vulnerabili al richiamo del califfato. Le attuali politiche migratorie dell'Europa presentano dei punti deboli: è troppo facile ottenere la cittadinanza senza essere necessariamente fedeli alle Costituzioni nazionali; è troppo facile per gli extracomunitari entrare nei Paesi dell'Unione Europea, con o senza ragioni credibili per chiedere asilo; e grazie al sistema di frontiere aperte noto come Schengen, è troppo facile per gli stranieri, una volta che sono nell'Unione Europea, spostarsi liberamente da un paese all'altro.
Stiamo parlando di una «Fortezza Europa», con una nuova Cortina di Ferro a est e un cordone sanitario navale nel Mediterraneo e nell'Adriatico? Sì. Perché nessun'altra strategia ha senso, di fronte alla minaccia rappresentata dall'estremismo islamico per l'Europa. Forse siamo di fronte allo spartiacque che consentirà all'Europa di ripensare la strada che sta seguendo.

(la Repubblica, 19 novembre 2015 - trad. Fabio Galimberti)


Valtellina e Samaria unite sotto il segno del buon vino

Per favorire gli scambi tra i due territori è stato sottoscritto un accordo di amicizia dal presidente della Provincia Luca Della Bitta e dal governatore della regione israeliana Yossi Dagan.

Da sinistra, Fiorello Provera, Yossi Dagan, Luca Della Bitta
La condivisione di valori, l'amore per la terra, la viticoltura eroica hanno dapprima avvicinato quindi unito Valtellina e Samaria che da martedì scorso, a seguito dell'accordo di amicizia sottoscritto dal presidente della Provincia Luca Della Bitta e dal governatore della regione israeliana Yossi Dagan, sono pronte alla collaborazione per favorire scambi ad ogni livello nei settori scientifico, economico, turistico e, soprattutto, agricolo.
Come la Valtellina, infatti, seppure in modo diverso, anche la Samaria, regione montuosa tra la Galilea e la Giudea, ha dovuto domare il territorio per impiantare i vigneti di cui oggi va fiera. Com'era avvenuto nel luglio del 2012, con la visita di una delegazione in Valtellina, e nell'autunno del 2013 con il viaggio di un gruppo di viticoltori sondriesi in Israele, anche questa nuova, fondamentale tappa lungo la via dell'amicizia è stata favorita dall'ex europarlamentare Fiorello Provera che, nei cinque anni da vice presidente della commissione Affari esteri del Parlamento europeo, ha sviluppato importanti relazioni con Israele con numerosi viaggi e il discorso tenuto alla Knesset, il parlamento di Tel Aviv.
Il parlamento di Tel Aviv? Esiste un parlamento a Tel Aviv? Dove lo hanno fatto parlare Fiorello Provera, ex vice presidente della commissione Affari esteri del Parlamento europeo?

Il presidente della Provincia Della Bitta, che ha colto con entusiasmo l'opportunità, ha sottolineato l'importanza di dare concreta attuazione a valori quali libertà e amicizia. Da parte sua, il governatore Dagan ha ringraziato per la calorosa accoglienza, manifestato il suo entusiasmo e sottolineato come l'accordo di amicizia sia una luce per illuminare questi periodi resi oscuri da quanto sta accadendo nel mondo. Dopo l'incontro a palazzo Muzio, la delegazione israeliana ha visitato la Fondazione Fojanini e i vigneti della Sassella, e degustato i nostri vini.

(Valtellinanews.it, 19 novembre 2015)


Francia - Professore ebreo accoltellato da aggressori con la maglietta dell'Isis

Il docente, ferito a una gamba e a un braccio, non è in pericolo di vita. Caccia ai tre accoltellatori, fuggiti in scooter.

 Gli aggressori hanno mostrato anche foto del "killer di Tolosa"
  "Il professore - ha spiegato il procuratore Brice Robin - è stato avvicinato in strada verso le 19:50 da tre individui in sella a due scooter. Uno di loro ha mostrato una t-shirt dell'Isis e un'altro ha mostrato la foto di Mohamed Merah su un cellulare". Merah, il "killer in scooter" di Tolosa, uccise nel 2012, fra Montauban e Tolosa, sette persone fra cui tre bambini ebrei prima di essere abbattuto in un blitz della polizia.

 Insulti antisemiti prima di colpirlo
  "I tre individui - ha aggiunto il procuratore - hanno insultato, poi minacciato, infine pugnalato la loro vittima. Al braccio, poi alla gamba. All'arrivo di una vettura, che ha interrotto la loro aggressione, hanno preso la fuga". Nei loro insulti contro il professore, i tre si sono abbandonati a insulti violentemente antisemiti. La vittima indossava una kippa, il copricapo ebraico, e stava rientrando a casa dal centro comunitario di Yavné, che comprende una scuola e una sinagoga.

(TGCOM24, 19 novembre 2015)


Cori di «Allah Akbar» all'amichevole Turchia-Grecia

Tifosi turchi «insultano» Parigi, fischi durante il minuto di silenzio.

ISTANBUL - «Lo sport è uno degli strumenti più significativi da usare per la pace e la fratellanza. Stiamo osservando il minuto di silenzio per le vittime. Non potete avere solo un minuto di pazienza?». La condanna ai fischi dei tifosi turchi, che martedì sera a Istanbul hanno travolto il minuto di silenzio in memoria dei morti di Parigi, arriva direttamente dal CT della nazionale e simbolo calcistico del Paese, «l'imperatore» Fatih Terim.
   Mentre in tutto il mondo circolano le immagini shock degli attimi di cordoglio violato prima della partita amichevole tra Turchia e Grecia, l'ex allenatore di Fiorentina e Milan prende la parola per stigmatizzare il comportamento dei suoi tifosi: «Quando andiamo all'estero, non possiamo spiegare una cosa del genere». L'episodio ha scatenato una bufera sui media internazionali e sui social network. Tanto più che allo stadio, ad assistere alla partita, c'era il premier turco Ahmet Davutoglu. Seduto al suo fianco, quello greco Alexis Tsipras ha dovuto anche assistere ai fischi che hanno coperto il suo inno nazionale. Un comportamento che il capitano della Turchia, Arda Turan, ha provato a fermare rivolgendo ampi gesti ai suoi tifosi. Invano. «Siamo migliori di così. Se questo fosse stato fatto a noi, saremmo davvero arrabbiati», ha poi aggiunto Terim.
   Oltre ai fischi, dagli spalti è risuonato soprattutto un diffuso coro nazionalista, «I martiri non muoiono, la patria non si divide», riferito agli scontri con il Pkk curdo nel sud-est del Paese. Non è la prima volta che i sostenitori della nazionale turca si rendono protagonisti di episodi simili. Solo un mese fa, prima di una partita giocata a Konya, città dell'Anatolia profonda da cui proviene proprio Davutoglu, il pubblico allo stadio aveva fischiato il minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Ankara, avvenuta appena tre giorni prima. In quel caso, i morti erano attivisti e cittadini che chiedevano proprio la fine delle ostilità nella regione curda. Dopo quell'episodio non erano state decise sanzioni. Che adesso, invece, sono in tanti a invocare.
   E il leader della Lega Matteo Salvini chiede l'esclusione della Turchia dagli Europei, in programma l'estate prossima proprio in Francia.

(la Gazzetta del Mezzogiorno, 19 novembre 2015)


Le sei ragazze musulmane che non fanno il minuto di silenzio

La preside: non è fondamentalismo, ma una richiesta di aiuto, di capire.

di Claudio Del Frate

Sei ragazze decidono di non commemorare le vittime delle stragi di Parigi. Sei alunne di un istituto tecnico di Varese, tutte musulmane, figlie di immigrati nordafricani, lunedì mattina si sono alzate dal banco e sono uscite dall'aula durante il minuto di silenzio che nelle scuole d'Italia doveva rendere omaggio ai morti del Bataclan, dello Stade de France, dei bar parigini e di tutti i luoghi spesso affollati da loro coetanei. Un gesto plateale e isolato, del tutto controcorrente. Il fatto è accaduto all'istituto per periti commerciali «Daverio». Una realtà di 1.800 ragazzi, con un alto tasso di stranieri che arrivano da mezza provincia di Varese. Il clamore del gesto è stato tale che è stato oggetto di discussione persino al comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza ogni settimana convocato in prefettura e anche la Digos ha avviato accertamenti. Le ragazze hanno tutte 15 anni; un sesto ragazzo nordafricano, loro compagno di classe, è rimasto al suo posto rispettando il silenzio. La polemica è arrivata sui social network con commenti che hanno subito condannato senza mezzi termini l'atto di ribellione con parole crude e talvolta irriferibili, arrivando a chiedere l'allontanamento dall'Italia delle ragazze e delle loro famiglie. Ma Nicoletta Pizzato, preside dell'istituto «Daverio» legge l'episodio non in chiave fondamentalista ma alla luce delle inquietudini tipiche dell'adolescenza. «Volevano capire perché commemorare solo Parigi e non l'aereo russo o Beirut — ha detto la docente all'Ansa — il gesto è stato una richiesta di aiuto a capire quale sia la discriminante nella valutazione dei morti; la scuola deve educare, formare e raccogliere gli interrogativi posti dagli alunni» Raccontano che le sei ragazze, finito il minuto di silenzio, siano rientrate in classe e sul loro gesto sia immediatamente partito un dibattito tra i ragazzi e i professori. Ma resta l'interrogativo di fondo: come possa essersi acceso nell'animo di sei giovanissime un imperativo talmente forte da spingerle a un simile gesto di disobbedienza davanti ai compagni con cui condividono ogni giornata.

(Corriere della Sera, 19 novembre 2015)


“... non è fondamentalismo, ma una richiesta di aiuto, di capire.” Non sono le ragazze che hanno bisogno di capire, ma la preside. M.C.


Prima regola: quando dei musulmani massacrano dei cristiani, colpevolizzare gli ebrei

I jihadisti considerano "utili idioti" gli occidentali che cercano di spiegare il terrorismo in termini "politicamente corretti".

di Yair Lapid

Intervistata dalla SVT2 sull'attacco terroristico a Parigi, la ministra degli esteri svedese Margot Wallstrom ha detto che "per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in Medio Oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza".
Successivamente la ministra ha cercato di sostenere che non stava facendo un collegamento tra le due cose, ma si tratta di una pretesa un po' strana soprattutto considerando il fatto che l'intervistatore non le aveva nemmeno chiesto di parlare del conflitto israelo-palestinese: è lei che ha sollevato l'argomento.
Perché l'ha fatto? La risposta è che esiste un'opinione pubblica europea che è disperatamente a corto di argomenti umanitari per giustificare il sanguinario terrorismo dell'estremismo islamico. Nel mondo illuminato della ministra Wallstrom non è possibile fare alcun collegamento fra la religione islam e il terrorismo violento, perché qualcuno potrebbe, Dio non voglia, sentirsene offeso. L'assurda soluzione che viene offerta per uscire dal dilemma è che, quando dei musulmani massacrano dei cristiani, si dà la colpa agli ebrei....

(israele.net, 19 novembre 2015)


L'Europa vada a lezione da Israele

Gerusalemme è l'unico modello di democrazia che sa come si combatte il terrorismo. Consigli pratici (il bando dell'incitamento) e anche culturali: "In Europa i barbari usano la tolleranza per distruggere la tolleranza".

di Giulio Meotti

 
Il professor Dan Schueftan
ROMA - "Come si fa, di fronte alla sfida di combattere nemici interni ed esterni, a non abbandonare l'impegno per una società florida e sana?". Per il professor Dan Schueftan, scienziato politico fra i più stimati in Israele, è questa la sfida che ha di fronte la Francia post 13 novembre e quella con cui convive Israele fin dal 1948. Ovvero come può una democrazia liberale convivere con la minaccia del terrorismo islamico e uscirne vincente, minimizzando le perdite. Gerusalemme è l'unico modello positivo di paese occidentale alle prese con il jihad. "Lo Stato ebraico è tutto qui, guardate quello che Israele ha fatto negli ultimi settant'anni", dice al Foglio Schueftan, che ha anche tenuto lezioni all'esercito israeliano e che ha lavorato come consigliere prima di Yitzhak Rabin e poi di Ariel Sharon. "Israele ha costruito se stesso mentre fisicamente lottava contro gli stati arabi e i terroristi devoti alla sua distruzione".
  L'Europa ha molto da imparare da Israele dopo la mattanza parigina: "A cominciare dalla messa al bando del Movimento islamico da parte di Israele, un ottimo esempio di come l'Europa potrebbe combattere terrore e radicalismo islamico", dice al Foglio Dina Lisnyansky, fra i maggiori esperti di terrorismo in Israele, docente alla Bar-Ilan University e fondatrice del Petah Tikva Israeli Center for Russian and Eurasian Studies. Ieri, nell'annunciare la messa al bando del Movimento islamico, il premier Benjamin Netanyahu l'ha definito "un'organizzazione che non riconosce le istituzioni di Israele, nega il suo diritto di esistere e invoca l'istituzione al suo posto di un califfato islamico".
  E' lo stesso obiettivo della galassia islamista in Europa. "La Fratellanza musulmana è stata bandita in Egitto, Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti - ci spiega Lisnyansky - Perché non farlo anche in Europa? La Fratellanza musulmana è la più grande organizzazione fondamentalista del mondo. Sono loro, non i salafiti e i wahabiti, a preparare il terreno per l'islam radicale. Ma le grandi organizzazioni musulmane in Europa, dall'Ucoi in Italia all'Uoif in Francia fino al Mab in Inghilterra, non compaiono come formalmente affiliate alla Fratellanza, sebbene lo siano grazie alla Fioe, la Federazione delle organizzazioni islamiche in Europa. Io mi aspettavo questo attentato a Parigi, non è stata affatto una sorpresa. L'Europa purtroppo non pensa che la Fratellanza sia una minaccia e, per decidere se mettere al bando un'organizzazione islamica, va sempre in cerca di passaggi di armi e denaro. Invece è l'incitamento a uccidere che deve essere proibito. In Israele è un crimine incitare a uccidere gli ebrei. In Europa non dovrebbe essere lecito incitare a uccidere gli europei".Amira Halperin, studiosa israeliana del Truman Research Institute di Gerusalemme, suggerisce all'Europa di impedire agli imam di usare le accademie per predicare la guerra santa. Nel Regno Unito, le università si sono trasformate in termitai islamisti. "L'estremismo islamico in Inghilterra ha fatto la sua comparsa sulla scena con un attentato in Israele, al caffè Mike's Place", dice Halperin al Foglio. Il 30 aprile 2003 due kamikaze inglesi si fecero esplodere al celebre ristorante sul lungomare di Tel Aviv, uccidendo tre israeliani. "L'Europa deve bandire i predicatori dell'odio, come abbiamo fatto in Israele questa settimana", dice Halperin.
  Le comunità islamiche in Europa ogni giorno si abbeverano alle televisioni del mondo islamico, quella di Hamas, di Hezbollah e le emittenti dei regimi del Golfo, che propagano nella diaspora europea una ideologia nichilista che invita a uccidere gli "infedeli", gli ebrei e i cristiani. L'Unione europea avrebbe gli strumenti per chiudere questi canali satellitari, ma non lo ha mai fatto. Da anni, Gerusalemme denuncia il discorso dell'odio come fertilizzante per il terrorismo, ma l'Europa è stata sempre sorda, tanto da finanziare i libri di testo palestinesi pieni di quell'incitamento. Lo si è visto anche in questa "Terza Intifada", con gli inviti ad accoltellare gli ebrei sui social media e le televisioni palestinesi. Ne parliamo con Elihu Richter, tra i massimi esperti mondiali di incitamento all'odio, già fondatore del Jerusalem Center for Genocide Prevention e docente nella facoltà di Medicina alla Hebrew University e autore di alcuni degli studi più preziosi sull'argomento: "Le parole plasmano la mente. L'incitamento all'odio fu decisivo nella Shoah, con gli ebrei che venivano ritratti come ratti, virus, un cancro. I nazisti erano degli ottimi pubblicitari. La demonizzazione oggi spinge il terrorista islamico a vedere gli altri come male. Ne è un esempio l'Iran, che incita a cancellare Israele dalla mappa geografica. Poi c'è un incitamento anche più sottile, quello invisibile, che ti porta a ignorare persino l'esistenza di un determinato gruppo. E' il caso dei palestinesi con Israele. In Ruanda, furono i giornalisti alla radio a incitare a sterminare i Tutsi. All'Europa quindi dico: zero tolleranza per l'incitamento, che è come il software del terrorismo. Le parole uccidono".

 Una democrazia, sì, ma con un'identità
  Dan Schueftan è appena tornato da una lunga docenza alla Georgetown University negli Stati Uniti per assumere l'incarico di direttore del National Security Studies Center all'Università di Haifa: "Il fatto di essere attaccati ci porta a essere barbarici come i terroristi o a mantenere i propri princìpi?", dice al Foglio. "Se non combatti i tuoi nemici non esisti affatto. Ma se esisti soltanto per combattere i tuoi nemici la tua esistenza non avrà comunque significato. La tua popolazione non ti seguirà in quel caso. Israele così ha deciso di rimanere una 'building society'. Questa sfida è fondamentale anche per l'Europa. E' facile essere barbarici dentro e fuori come accade in medio oriente a molti regimi. Israele è l'unica eccezione. L'Europa invece oggi è debole sia all'esterno che all'interno. Se vieni a vivere in Europa e vuoi mantenere la tua cultura questo va bene. Ma se la tua cultura tratta le donne come schiave questo non è più accettabile. La difesa di un paese non si realizza soltanto sul campo di battaglia, con gli arresti e i controlli agli aeroporti o i bombardamenti a Raqqa. Ma lo si fa anche preservando il tuo modo di vivere e i tuoi valori". E questo è quello che fa Israele. "Non siamo perfetti, ma funziona. Abbiamo avuto guerre fin da prima dell'esistenza di Israele da parte degli stati arabi. E' iniziato con gli ebrei che vennero a vivere qui. Siamo stati bravi a difenderci, ma anche a costruire una società di cui tutto il mondo dovrebbe andare fiero. Abbiamo creato una 'open society', anche con ebrei che venivano da paesi comunisti o arabi e che non avevano alcuna esperienza della democrazia. Abbiamo creato la democrazia dal niente. Tempo fa, parlando con responsabili del Vaticano, mi sono detto furioso che l'Europa non ha inserito in costituzione le proprie radici cristiane. Se non espliciti le tue origini sei spacciato. Negare il proprio passato per paura di 'offendere' è inaccettabile. Una democrazia deve essere fiera della propria identità". E' quello che prova a fare Israele con la richiesta esplicita di riconoscimento, al mondo e ai palestinesi, di Israele come "stato ebraico". Perché la gente fugge dal medio oriente, si domanda Schueftan? "E' pieno di petrolio e ricchezza, poteva vivere bene sotto Saddam Hussein e altri tiranni. Ma avevano una vita politica interna terribile. L'alternativa in Libia a Gheddafi sono i barbari che la controllano oggi".
  Continua Schueftan, attuale direttore del National Security Studies Center all'Università di Haifa: "I musulmani oggi in Europa devono accettare il pluralismo, la libertà religiosa e quella di espressione. Quando un vignettista danese ritrae Maometto, i musulmani devono accettarlo. I loro slogan di protesta non sono 'siate tolleranti', ma 'decapitate chi offende l'islam'. E' una cultura che rigetta il pluralismo. Quando vai a vivere in un posto differente e porti con te una cultura che rifiuta il pluralismo non puoi diventare parte di quella società e metti in pericolo quella società anche prima di sparare a degli innocenti o far detonare le bombe. E' un attacco all'idea stessa di Europa".
  Questo non avviene in Israele, dove infatti non c'è un solo giornalista o scrittore sotto scorta, a differenza che in Europa, dove sta diventando la norma. "A me non importa che le guardie armate controllino le mie borse all'ingresso dell'Università di Haifa, perché non la considero una violazione della mia libertà ma anzi una sua difesa - dice Schueftan - In Israele abbiamo tante persone che criticano la stessa Israele, che persino lo odiano, ma non se ne vanno in giro a uccidere israeliani. Ci provano, ma noi non lo consentiamo. Come invece avviene in Europa. L'Europa non deve considerare solo le minacce violente, ma anche quelle alla sua cultura. Non consentite che la tolleranza sia usata per distruggere la tolleranza. In Europa oggi ci sono dei barbari che usano il linguaggio del pluralismo per distruggere il pluralismo".
  Poi ci sono misure pratiche che l'Europa potrebbe emulare da Israele. Le illustra al Foglio Alex Fishman, l'esperto di sicurezza del maggiore quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth: "E' vero che tutto il sistema israeliano è il frutto di quarant'anni di antiterrorismo e che l'Europa non può imparare in un giorno. E che l'opinione pubblica europea non ha mai davvero voluto capire Israele. Parliamo infatti di migliaia di attentati. Prima di tutto serve un forte sistema giudiziario, credibile e specchiato, cosa che non ha l'Europa. Per esempio in Israele non puoi togliere la cittadinanza a chi va a combattere con l'Isis, cosa che vorrebbero fare i governi europei. Restiamo sempre una grande democrazia". L'Europa, come Israele, deve mettere fuori legge le organizzazioni che incitano al terrore, come ha fatto il governo Netanyahu con il Movimento islamico.
  "In Egitto il generale Sisi ha chiuso centinaia di moschee salafite", ci dice Fishman. "Le democrazie non possono farlo. Ma si può fare qualcosa. Inoltre, quanti traduttori di arabo ci sono in Francia e Belgio che lavorano con la polizia e l'intelligence nelle comunità islamiche? Pochissimi. In Israele, chi lavora nella sicurezza parla anche l'arabo. L'Europa deve avere sotto controllo qualunque cosa succede nelle grandi comunità islamiche. Israele ha una legge a favore degli 'interrogatori pesanti', che consente in casi speciali di farne uso. Ma il sistema, anche qui, è sotto controllo". Dal 1999, la Corte suprema ha stabilito che se l'interrogatorio serve a prevenire attentati terroristici, allora è ammessa una forma di "pressione fisica" che Israele distingue chiaramente dalla tortura. Gli Stati Uniti dopo l'11 settembre hanno indicato questo modello. Israele fa anche uso della "detenzione amministrativa" in casi speciali, che le consente di detenere e interrogare un sospetto terrorista per quattordici giorni, senza neppure fargli vedere l'avvocato. "Serve per proteggere le fonti di intelligence", ci dice Fishman.
  Un assalto come quello al Bataclan di Parigi sarebbe stato impensabile in Israele. Non soltanto perché ci sarebbero state guardie all'ingresso. Ma anche perché dopo le prime raffiche, i terroristi sarebbero stati abbattuti da israeliani, civili o militari. Lo si è visto durante la Terza Intifada a Gerusalemme, dove i terroristi venivano disarmati e inseguiti dagli israeliani.
  "In Israele ogni spazio pubblico, ogni scuola, centro sportivo e supermercato è protetto da guardie armate", continua al Foglio Fishman. "In ogni luogo pubblico c'è un metal detector. Le guardie sono finanziate dallo stato e dalle compagnie private". Poi c'è una questione culturale. In Israele, dopo un attentato, i luoghi colpiti non diventano meta di pellegrinaggi come a Parigi. "In Israele il terrorismo è parte del Dna della società. Colpiscono e si riparte subito con la routine. La gente ha paura, ma è forte. E la sua forza sta nella solidarietà. Ecco, mi pare che sia questa che manchi oggi all'Europa". Dopo aver demonizzato per anni Israele, forse i 130 morti di Parigi possono far avvicinare l'Europa e lo stato ebraico nella comprensione di avere di fronte un nemico comune. Conclude Lysniansky: "Israele ed Europa sono dalla stessa parte, siamo una democrazia occidentale nel cuore del medio oriente, combattiamo il terrorismo e il radicalismo islamico, entrambi siamo al centro di un conflitto religioso. E questo conflitto ha appena raggiunto l'Europa".
  Venerdì sera, mentre a Parigi iniziava la conta e il riconoscimento dei cadaveri di fronte alle brasserie, allo stadio e al teatro Bataclan, i media palestinesi già diffondevano complotti sulla lunga mano sionista dietro la strage e da Gaza gli islamisti celebravano lanciando missili sul sud d'Israele. A Tel Aviv e a Gerusalemme, i palazzi dello stato ebraico si accendevano dei colori della bandiera francese. Da una parte l'odio, dall'altra la civiltà. Da che parte starà l'Europa?

(Il Foglio, 19 novembre 2015)


Israele - A Lod scoperto un mosaico romano

di Arianna Ascione

In Israele un gruppo di archeologi ha fatto un'importante scoperta: a Lod, l'antica città di Diospolis, durante gli scavi per la costruzione di un centro per i visitatori è stato ritrovato un mosaico romano del quarto secolo dopo Cristo.
Il ritrovamento è grande 11 metri per 13 e si trova vicino ad un altro mosaico, scoperto nel 1990 - entrambi appartengono alla stessa villa di epoca romano-bizantina -.
Nelle figure sono rappresentate scene di caccia, pesci, vasi e uccelli e la Antiquities Authority di Israele ha definito il mosaico 'mozzafiato' e 'tra i più belli' di Israele.
Inoltre ha aggiunto che numerosi frammenti di affreschi scoperti
"riflettono la decorazione e la progettazione meticolosa e di lusso, che sono nella migliore tradizione delle famiglie benestanti del periodo"
Amir Gorzalczany, che ha diretto lo scavo, ha spiegato:
"La qualità delle immagini ritratte nel mosaico indica una capacità artistica altamente sviluppata".

(artsblog.it, 18 novembre 2015)


L'ambasciatore russo in Israele, nuova attrazione tra Mosca e Medio Oriente

GERUSALEMME - La Russia è tornata in Medio Oriente. E' quanto ha affermato in una intervista al quotidiano "Jerusalem Post" il nuovo ambasciatore di Mosca in Israele, Alexander Shein. Le turbolenze nella regione hanno fornito l'opportunità a Mosca di riaffermare la propria presenza nella regione, come non accadeva dal 1970. I legami sempre più profondi con l'Egitto e l'impegno militare siriano - conferma il quotidiano - hanno nuovamente fatto della Russia un attore di primo piano nell'area. Nell'intervista scritta concessa al quotidiano israeliano, l'ambasciatore ha illustrato gli obiettivi del paese nella regione, e presenta la visione di Mosca circa la natura dei legami israelo-russi. "L'aumento della partecipazione dei Mosca in Medio Oriente è un processo oggettivo. La nostra nazione ha subito una difficile transizione nel 1990: il risultato è stato un indebolimento della presenza russa nella vostra regione. Questo, però, è ormai il passato", ha dichiarato Shein, a cui parere "le risorse e il potenziale a disposizione della politica estera russa sono stati pienamente ristabiliti". Mosca è intervenuta militarmente in Siria così tardi perché lo ha fatto soltanto dopo aver promosso a lungo e invano "la cessazione del conflitto civile, e dopo aver tentato di portare le parti in guerra al tavolo dei negoziati per giungere a una soluzione politica". Mosca opera in Siria nella convinzione che "la stabilità nel paese sia essenziale per la stabilità nell'intera regione", ha spiegato l'ambasciatore. L'obiettivo della Russia è "una Siria democratica e secolare". Un passo indietro di Assad è possibile, ma soltanto dopo aver risolto il problema dei "vuoti di potere e delle zone soggette ad anarchia" che farebbero piombare il paese in uno stato simile a quello della Libia. Infine, Shein ha assicurato che l'intervento russo in Siria "è limitato nella sua area d'esecuzione e negli obiettivi, e non ha a che fare in alcun modo con gli interessi della sicurezza dei paesi vicini": per questa ragione, la presenza militare di Mosca non impedirà a Tel Aviv di colpire, ad esempio, i carichi di armi diretti alle forze di Hezbollah.

(Agenzia Nova, 18 novembre 2015)


Per combattere l'antisemitismo: visitare Israele

Lettera al Corriere del Trentino

Egregio direttore,
dopo una lunga riflessione ho deciso di partire per Israele. Combattuto, lo ammetto, ma determinato, ho vinto la paura del viaggio e ho preparato la valigia. Tante sicuramente le notizie e gli elementi per non poter dire di essere partito sereno: è innegabile, infatti, che la situazione raccontata dai mass media non è delle più semplici e sicure. Ma chi o cosa, mi ha fatto vincere la paura? Semplice, riassumibile in una sola parola: la verità. Da quando sono bambino, nulla per me è più importante della ricerca della verità.
  Dopo mesi di notizie su giornali, televisione e radio con notizie confuse, girate, definiamole strane, ho deciso di andare a vedere con i miei occhi che cosa succede in Israele.
  Avevo ragione. La situazione non è decisamente quella che ci vogliono fare apparire. Visitati i confini di tutto lo Stato di Israele, conosciute le comunità musulmane, cristiane, ortodosse e perfino circasse che abitano in quella terra assieme agli ebrei mi sento di dire che è palese che l'immagine di Israele voglia essere influenzata negativamente dalla gran parte (per non dire tutti) dei mezzi d'informazione italiani. Notizie con titoli completamente ribaltati sono all'ordine del giorno.
  Faccio un esempio pratico: un ragazzo musulmano prende un coltello, esce di casa e attraversando una semplice via di Gerusalemme, passando da una parte all'altra della città, si reca da un soldato israeliano per accoltellarlo. Avviene quindi uno scontro e rimane ucciso.
  Quale sarà il titolo del giornale sulla notizia? «Soldati israeliani uccidono giovane palestinese». Sicuramente poi nell'articolo verrà riportato perché il soldato è stato costretto ad uccidere, verrà spiegato che si trattava solo di legittima difesa. Ma nel frattempo, il lettore distratto rimarrà con l'idea che i soldati israeliani si divertano a uccidere ragazzini palestinesi. Perché non si cerca di capire cosa porta un ragazzino di soli sedici anni a prendere in mano un coltello per andare incontro, consapevolmente, alla morte? E così accade su tutti gli altri media, per tantissime altre questioni.
  Mi domando dunque: perché? Non ci stupiamo se poi a Milano un uomo, con la sola colpa di indossare una kippah, viene preso a coltellate fuori da un ristorante kosher. L'antisemitismo è più vivo che mai. La mia soluzione per combatterlo? Andare in Israele, conoscere gli israeliani, la loro storia, la loro cultura.
Lorenzo Barzon

(Corriere del Trentino, 18 novembre 2015)


La difesa della libertà unica alternativa alla sottomissione

L'Europa può diventare inospitale per gli ebrei. Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti.

di Giuseppe Laras

Rav Giuseppe Laras
Caro direttore, lutto e dolore accompagnano una guerra difficile e lunga, combattuta anche con la dissimulazione e la strategia della confusione. Alleati dell'Islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l'inclusione in laissez-faire , la forza della verità in debolezza dell'opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni espressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct . Questi occidentali «odiatori di sé» sono complici. Hanno svenduto alla sottomissione la libertà per cui mai personalmente lottarono o pagarono. Questa è la triste fotografia dell'inadeguatezza politica e culturale di molti europei. È un clima che richiama l'ascesa del nazismo. Possiamo crederci o no, ma ciò che colpisce l'Europa oggi è l'inevitabile reiterazione di problemi che Israele ha da decenni: sopravvivere allo jihadismo che nutre menti, cuori e attese politico-religiose di troppi musulmani, anche se non di tutti. Come non sentirsi profondamente vicini anche alle famiglie delle vittime musulmane degli attacchi parigini?
  Il dramma è che, con cieca ignoranza, la cultura laicista considera, semplificandolo, l'Islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch'esse non prive di ombre. Le cose non stanno così. Finiamola con il mantra buonista, esorcistico dei problemi nell'immediato ma amplificante gli stessi nel tempo, della «religione di pace». Si vedano le piazze dei Paesi Islamici giubilanti per i fatti parigini, come per Charlie, per i morti ebrei, per le Twin Towers. Che dire dei Buddha monumentali abbattuti dai talebani? Non insultiamo l'intelligenza con «questo non è Islam». Basta con sensi di colpa anacronistici per crociate e colonialismo: la city di Londra, mezza Parigi e i nuovi grattacieli milanesi sono oggi di proprietà islamica. L'Islam politico ha armi potenti. Alla convenienza ora si aggiunge il terrore. Alcuni ritengono, paralizzati da paure economiche, demografiche e belliche, di patteggiare con i mandanti del terrore, proponendo maggiore «inclusione» e «integrazione», giustificando l'intollerabile e pensando che, venendo a patti col male, si scongiuri il peggio. Non funziona così: arretrando si arretra sempre più.
  Veniamo agli ebrei. Noi siamo i primi nemici. Ogni attacco in Europa riguardò anche gli ebrei. Solo che, per sconvolgere i nostri concittadini in Europa, il nostro sangue non è bastato e non ha avuto importanza. Tutti ricordano Charlie Hebdo. E i morti di Tolosa? Di Bruxelles? Del ristorante kasher di Parigi contestuale a Charlie? Cari europei, ammettiamolo, si trattò solo di ebrei. Di irriducibili rompiscatole che turbano, con la nostra storia di persecuzione in Europa, la buona coscienza di questo crepuscolare continente. Nulla di più allettante, quindi, di trasferire sensi di colpa e inquietudini identitarie verso un disappunto censorio su Israele per la questione palestinese. Ma non è una questione palestinese, è anzitutto una questione islamico-politica. È per questo che, in definitiva, indipendentemente dagli errori di entrambe le parti, non si procede nel necessario cammino verso la pace.
  Gli ebrei, ora come in passato, sarebbero causa dei mali del mondo. Se non ci fosse Israele, sostengono molti — musulmani e non — , vi sarebbe pace con l'Islam. È falso. È una «verità apparente» trasformata in dogma. I jihadisti lo sanno bene e sosterranno questa tesi avvelenata e allettante per far credere che solo così tornerà a esservi pace, anche in Europa. Fu la tentazione delle Chiese cristiane arabe con il panarabismo. I risultati? Fuggiti gli ebrei, purtroppo muoiono loro, tra silenzi e balbettii dei cristiani d'Occidente. Settant'anni fa l'Europa ebbe paura e molti capi di governo pensarono che si potesse scendere a patti. Conosciamo le conseguenze. Erodiamo la libertà e le singole libertà e ancora cederemo. Indeboliamo il cristianesimo e l'ebraismo europei e offriremo ai nostri comuni odiatori, tutt'altro che sprovveduti, nuovi strumenti di sopraffazione e d'odio.
  Concittadini, da 2000 anni in Europa dimorano gli ebrei, maltrattati, trasformati in mostri, additati come colpevoli di nefandezze, uccisi in camere a gas. Oggi siamo biasimati in quanto israeliani o filo-israeliani. Tuttavia, durante 20 secoli, mai gli ebrei, se non nei deliri degli antisemiti, auspicarono la fine della religione cristiana o la sovversione di cultura e istituzioni occidentali (vi furono al massimo esasperazione e disperazione per le persecuzioni subite). Parimenti mai gli ebrei invocarono — o suggerirono ad altri — la fine dell'Islam o dei Paesi Islamici. Oggi il cristianesimo è vilipeso e perseguitato, si vogliono annientare le nostre libertà e sovvertire le nostre istituzioni laiche. Ritengo inusitato e colpevolmente utopistico che alcuni invitino a fronteggiare questa violenza inaudita e dilagante senza il ricorso alla forza legittima e necessaria.
  L'Europa potrebbe in un futuro risultare inospitale per gli ebrei (in Francia è già realtà). Questo è uno degli obiettivi dei jihadisti. Se così dovesse essere, l'Europa diverrà un territorio desolato e inospitale per tutti coloro che amano e difendono la propria e l'altrui libertà. E non ci sarà nemmeno spazio per i musulmani onesti e pacifici (ahimé troppo silenti). Per fronteggiare il presente, occorrono saldo spirito razionale, energia e coraggio. L'alternativa è tra libertà e sottomissione (ai Fratelli Musulmani, Hamas, Isis, Al Qaeda, Iran, Hezbollah et similia). Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà. Circa gli autori dei massacri, i loro compagni e chi applaude loro, come si può pensare che l'Unico e Onnipotente, buono e giusto, tolleri o gradisca questa furia omicida e le sofferenze ingiuste e blasfeme inflitte alle Sue creature?

(Corriere della Sera, 18 novembre 2015)


Grazie, Rav Laras.


"Insicurezza, ecco come si vince"

di Adam Smulevich

Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme
Cinque consigli. Perché l'angoscia lasci spazio ai sorrisi e a sentimenti ed emozioni positive. Perché il terrore venga sconfitto anche dalla normalità cui una grande capitale d'Europa come Parigi non può rinunciare. A fornirli è Nir Barkat, primo cittadino di Gerusalemme, una città diventata simbolo nel mondo di resilienza. Cioè della capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
È proprio resilienza la parola chiave del ragionamento di Barkat, che nelle scorse ore ha ricordato agli israeliani la missione che svolse a Parigi nel gennaio scorso dopo gli attacchi a Charlie Hebdo e al supermercato casher di Porte de Vincennes e nel corso della quale incontrò la sua omologa Anne Hidalgo per un confronto sulle buone pratiche da adottare davanti ad azioni di questo tipo.
Ecco, dunque, i punti cardine (a riportarli è anche il Times of Israel).
- "Routine, routine, routine…", dice innanzitutto Barkat. "Ogni volta che si sono verificati attentati a Gerusalemme - spiega infatti - l'input che ho dato a chi di dovere è stato quello di ripristinare un corso normale della vita. L'obiettivo dei terroristi è quello di spaventarci, ma noi non dobbiamo soccombere".
- Quindi, prosegue Barkat, è fondamentale aumentare il senso di responsabilità dei cittadini. "Lo sforzo degli amministratori deve essere quello di incoraggiare ogni singolo abitante della propria città ad alzare la soglia di sicurezza e ad essere pronto, nel caso ce ne fosse bisogno, ad intervenire". Numerosi attentati a Gerusalemme, sottolinea Barkat, "sono stati sventati proprio così".
- Terzo punto, operare una chiara distinzione tra quelli che vengono definiti "good guys" e "bad guys". E agire di conseguenza: incentivando l'integrazione e il dialogo dove possibile, reprimendo invece nel modo più netto le mele marce.
- Quarto punto, intensificare il coordinamento tra chi è chiamato ad operare in condizioni di emergenza. Addestramento costante, creazione di un vero e proprio network che metta in gioco diversi soggetti e diverse istituzioni. "Il risultato di questo impegno comune - dice Barkat - è che a Gerusalemme siamo adesso in grado di intervenire in ogni situazione al massimo entro due minuti dal verificarsi dei fatti".
- Infine, afferma il sindaco, un senso di unità maggiormente diffuso su scala internazionale. "Perché - spiega - il terrorismo colpisce ovunque nel mondo e non è un problema solo di israeliani o francesi. Libertà, uguaglianza, fratellanza: una lezione che siamo tutti chiamati a custodire e diffondere".

(moked, 18 novembre 2015)


L'Europa con l'ermellino bracca Israele

di Giulio Meotti

Nell'Europa sotto assedio del terrore, un altro giudice in Spagna bracca Netanyahu e Israele
Roma. Prima l'Europa ha tolto le sanzioni all'Iran e ha iniziato a imporle a Israele (marchiatura e boicottaggio delle merci). Adesso che ufficiali iraniani sulla lista nera si apprestano a tornare a viaggiare in Europa, c'è un paese europeo dove il premier d'Israele non può mettere piede. Rischia l'arresto. Un giudice in Spagna ha emesso una serie di mandati di cattura per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri sette ex e attuali funzionari israeliani per l'incursione sulla Flotilla del 2010. "Bibi" potrebbe essere arrestato se mettesse piede sul suolo spagnolo. Lo ha deciso l'alto magistrato della Audiencia nacional, José de la Mata, che ha ordinato alla polizia e alla guardia civil di arrestare Netanyahu e altri sei ex ministri se entrassero in territorio spagnolo. Gerusalemme sta lavorando diplomaticamente per annullare il provvedimento. Oltre a Netanyahu, sono incriminati l'ex ministro della Difesa, Ehud Barak; quello degli Esteri, Avigdor Lieberman; l'attuale ministro della Difesa, Moshe Yaalon; l'ex ministro dell'Interno, Eli Yishai; il ministro senza portafoglio Benny Begin, e il responsabile delle operazioni sulla Flotilla, Maron Eliezer.
   Dietro questi mandati d'arresto ci sono magistrati zeloti dal forte pregiudizio antisraeliano e gruppi di pressione filopalestinesi che avanzano le cause nei tribunali. Lo scorso giugno, per evitare l'arresto a Londra, la leader dell'opposizione laburista israeliana, Tzipi Livni, ha dovuto farsi dare l'immunità diplomatica dal governo. Se fosse andata in Inghilterra in "visita personale" un magistrato avrebbe spiccato il mandato d'arresto.
   Simili mandati d'arresto furono spiccati in Belgio per Ariel Sharon e per diplomatici israeliani il rischio di atterrare a Heathrow è stato alto. Come il generale Doron Almog; stava arrivando con un volo El Al, quando l'ambasciata lo avvertì che c'era un ordine di arresto emesso da un magistrato per "violazioni della Convenzione di Ginevra". Almog non scese neppure dall'aereo e Downing Street fu costretta a scusarsi. A settembre, quando Netanyahu era andato in visita a Londra da David Cameron, centomila inglesi avevano firmato una petizione per farlo arrestare per "crimini di guerra". Gli israeliani devono potersi muovere, viaggiare e lavorare; i mandati d'arresto, anche solo la loro minaccia, hanno l'obiettivo di intimidire lo stato ebraico.
   Giorno dopo giorno, Israele diventa più assediato e isolato. Gerald Steinberg di Ngo Monitor scrive che "Israele per gli attivisti è come il Sudafrica dell'apartheid e i suoi criminali di guerra non devono essere parte della società globale". Alcuni giorni fa, il procuratore della Corte dell'Aia, Fatou Bensouda, ha aperto un'inchiesta contro gli israeliani per "crimini contro l'umanità". E si preparano già azioni legali contro le "esecuzioni extragiudiziarie" d'Israele in questa Terza Intifada, ovvero l'eliminazione di terroristi che attentavano alla vita di ebrei israeliani.
   L'ex ministro Barak ha commentato così le inchieste: "Chi considera l'assassinio di un terrorista un 'crimine contro l'umanità' vive in una concezione che ribalta il mondo". Il giudice De la Mata ha ricoperto il ruolo di "modernizzatore" del ministero della Giustizia sotto il governo socialista di José Rodriguez Zapatero ed è oggi uno dei magistrati dal maggior profilo pubblico. La Spagna ha una legislazione che prevede l'arresto di qualcuno per "crimini di guerra" e "crimini contro l'umanità" anche se all'estero. Il giudice spagnolo Fernando Andreu ha aperto un'inchiesta sull'ex ministro della Difesa israeliano, Benjamin BenEliezer, e su sei funzionari militari accusati di aver organizzato il bombardamento a Gaza che portò alla morte del capo militare di Hamas, Salah Shehadeh. Il modello è quello di Baltasar Garzon che nel 1998 emise un mandato d'arresto per l'ex dittatore Augusto Pinochet.
   In Spagna ci sono siti web con appelli a chiunque "abbia informazioni sulla presenza di sospetti israeliani". Le schede hanno anche le descrizioni dei "sospetti". Un'Inquisizione. Mentre Parigi è devastata dal terrore, in Europa c'è chi pensa di braccare i ministri israeliani. All'Interpol c'è un nuovo "most wanted": Benjamin Netanyahu. Un "criminale di guerra", un ricercato, per quest'Europa senza vergogna.

(Il Foglio, 18 novembre 2015)


L'asse Bari-Tel Aviv. Perché qui un Consolato

di Luigi De Santis

Bari
Tel Aviv
Israele e Puglia all'apparenza terre lontane ma in realtà molto più vicine di quel si possa credere. A rendere queste due terre bellissime ed a tratti simili non è soltanto il fatto di essere bagnate dallo stesso mare o l'esser baciate in gran parte dell'anno da un sole pieno ed energizzante. I motivi sono tanti: cultura, turismo e anche economici.
A testimonianza della concretezza dei rapporti, ci sono i numeri che individuano la Puglia come seconda regione in Italia per collaborazioni con Israele ed a sua volta Israele come secondo partner in Medio Oriente per l'economia pugliese. Scambi di carattere economico che si basano su diversi ambiti.
C'è il settore delle nuove tecnologie applicate al settore agricolo dove gli israeliani con la micro irrigazione e l'irrigazione verticale sono leader o quello del governo del ciclo dell'acqua con ad esempio l'utilizzo da parte dell'Aqp di una valvola di produzione israeliana.
Altrettanto forte è la collaborazione nel biomedicale dove le sinergie con aziende pugliesi sono in stato avanzato e continuano a sfornare progetti che ci invidia tutto il mondo o la contaminazione che avverrà tra le start up innovative pugliesi e la nazione che è da sempre considerata quella con la più alta densità di start up innovative.
E poi ancora scambi nell'aereo nautica, dove il polo pugliese dell'Alenia risente positivamente di commesse provenienti da Israele.
Il turismo rappresenta un valore aggiunto straordinario tenendo conto che Israele ha una popolazione di un'età media di 29,6 anni, ed una fortissima propensione al viaggio.
Questi sono solo alcuni dei motivi che hanno fatto conseguire alla Puglia l'onore di essere individuata come primo e ad oggi unico Consolato Onorario dello Stato d'Israele in Italia. Mi piace pensare che anche questa volta la Puglia tutta, sarà in grado di dimostrare che la tanta attenzione che il mondo ci rivolge in questo delicato momento storico, è ben riposta e giustificata dai risultati che come sistema Puglia potremo raggiungere.

(Corriere del Mezzogiorno, 18 novembre 2015)


Ho ancora il diritto di dire che l'islam non mi piace?

C'è chi evita certi giudizi solo per non dover dar ragione a Salvini. Il risultato è l'autocensura, dalla mostra di Chagall alla parola «maiale» nei sussidiari. Non si deve cedere alla cultura islamica. "Detesto tutte le religioni, ma noto che del Papa e dei cattolici è facile parlar male, mentre tra i musulmani il tasso di permalosità è altissimo".

di Filippo Facci

Credo che molti cosiddetti opinionisti, sui giornali e in tv, dovrebbero esprimersi solo su temi sui quali possano esercitare una pur infinitesimale influenza. Invece vedo colleghi che si atteggiano a consiglieri della Nato dopo aver compulsato un paio di blog: ma ad ascoltarli non c'è Obama, forse neppure il ministro Pinotti, semmai ci sono dei cittadini ordinari che vorrebbero capire che cosa potrebbero fare nel loro vivere civile, nelle loro vite ordinarie' che poi sono le stesse vite degli opinionisti illuminati; capire se qualcosa stia davvero cambiando - prima e dopo i fatti di Parigi - e se davvero ci sia un problema «culturale», come direbbero gli stessi opinionisti.
  Partiamo dai dati di fatto accessibili a tutti. La Francia è in stato d'emergenza, noi no. La Francia ha chiuso le frontiere, noi no. La Francia ha spedito i caccia a bombardare l'Isis, noi no. La Francia è uno stato laico, noi no, o solo in parte, perché di fatto identifichiamo come massima risposta culturale la riproposizione di un giubileo religioso indetto ufficialmente da uno Stato estero - il Vaticano - nel quale, a dirla tutta, come nell'islam, le donne sono discriminate. In Francia i cattolici generici sono 42 milioni ma solo 1 milione e 900mila vanno in chiesa, mentre i musulmani generici sono solo 6 milioni ma quasi 5 milioni osservano il ramadan e vanno in moschea o bloccano interi quartieri mettendosi a pregare per strada, tanto che il Consiglio dei musulmani ha già chiesto di poter occupare le chiese cattoliche ogni venerdì. Noi no, da noi si professano cattolici una cinquantina di milioni d'italiani e 15 milioni sostengono anche di andare a messa: ma, anche se le chiese fossero gremite, nessun cattolico si stenderebbe con un tappeto a pregare sul marciapiede; i nostri musulmani in compenso sono solo l milione e 600mila ma saranno probabilmente 3,2 milioni nel 2030, crescita maggiore d'Europa: gli studenti islamici sono aumentati del 371 per cento dal 2001. Insomma, non siamo come la Francia, la Francia non siamo noi: ma lo saremo.
  Ecco, è di questo problema «culturale» che gli opinionisti dovrebbero parlare a chi concretamente li ascolta. Ha cercato di farlo, per esempio, Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri, e siccome ha scritto anche delle cose a mio dire sensate - come aveva già fatto Paolo Mieli - si è diffuso un certo panico: anche perché specialità del Corriere, com'è noto, è ufficializzare il lampante, mischiare prudenza e attendismo nel paventare cattivo tempo quando il nubifragio prosegue da giorni. Quindi il primo timore è questo: che sia troppo tardi. Anche perché: che cos'è un cedimento culturale? Le radici cristiane, a mio dire, non c'entrano nulla, perché le mie radici, per dire, non le sento cristiane manco per niente e, nel mio caso, detesto tutte le religioni allo stesso modo: ma mi sono accorto che mi è molto più facile parlar male del Papa, e dei cattolici, che non di un milione e mezzo di islamici che vivono nella Penisola.

 Quel che voglio dire
  In premessa, dunque, considero questo il primo cedimento culturale, ma sul quale non voglio cedere: io voglio poter dire che (anche) la religione islamica non mi piace, non mi piace per niente, anzi, la giudico incivile anche quando moderata e più che mai slegata a qualsiasi remotissima ombra di terrorismo. È' un'opinione: poi non leggete mi, non pubblicatemi, non so. Ma so che il modus islamico non piace a moltissimi di noi che pure lo rispettano perché sono - siamo - democratici, come l'islamismo di sua natura non è.
  Tutto il resto viene dopo, e non m'importa nulla se gli islamici usano importare in Occidente anche un tasso di permalosità sconosciuto alla nostra cultura: si adeguino oppure si adeguino. Non voglio leggere che una gita scolastica è stata annullata perché prevedeva la visita a un Cristo dipinto da Chagall: voglio che gli insegnanti responsabili vengano sanzionati, o, addirittura, come ha scritto Claudio Magris sempre sul Corriere, licenziati. Non voglio che la scuola pubblica elimini dai testi scolastici le parole «maiale» e «carne di maiale» (più tutti i derivati) per non offendere musulmani ed ebrei: perché il mio Paese non è musulmano, non è ebreo, non è neppure propriamente cristiano: è laico, Costituzione alla mano, e i credo religiosi sono affari privati, dovrebbero esserlo. Non voglio leggere che dei capi di Stato - francesi, italiani, europei - eliminano il vino da tavola nei convivi diplomatici: il vino basta non berlo, mentre, se sono nel mio Paese, voglio poterlo bere anziché accondiscendere al galateo di teocrazie dove le condanne e violazioni dei diritti umani sono la norma: so bene che è un fatto di educazione, ma i compromessi cominciano dal vino, e io di compromessi, con chi impicca le adultere e i dissenzienti, vorrei non farne troppi. Non voglio leggere che il nuovo direttore di Charlie Hebdo ha annunciato che non pubblicherà più vignette su Maometto. Non voglio dover stare attento a come parlo più di quanto farei con un altro cittadino del mio Paese. Non voglio rinunciare a circolare in certe zone milanesi dove la gente prega per strada, e dove ogni tanto riecheggia il muezzin: esattamente come voglio poter dire e scrivere - così è - che non gradisco il giubileo papale soprattutto se è anche a spese mie.

 Una forma di paura
  Insomma: la necessità di distinguere gli omicidi dell'Isis dalla cultura islamica non deve costringermi a riservare alla cultura islamica delle attenzioni speciali, sorrette dall'isterismo del politicamente corretto e dalle permalosità degli islamici. C'è gente che l'altra mattina, per prima cosa, e per ore, si è dedicata non agli attentatori di Parigi ma ai titoli di Libero: che potranno piacere o non piacere, ma, come dire, sono democraticamente contemplati. C'è gente che ha chiesto il ritiro di Libero dalle edicole. Domenica ho messo su Twitter una semplice foto con un tizio disteso che teneva la testa sotto la sabbia, e ci ho scritto «buongiorno Occidente»: sono stato ricoperto di insulti. Giuseppe Cruciani, conduttore de La Zanzara su Radio 24, si è visto oscurare la pagina di Facebook perché aveva messo la prima pagina di Libero. Credete che non potrei continuare? Se il primo obiettivo dell'Isis non fosse quello di terrorizzarci, direi che è quello di dividerci: e stanno riuscendo anche in questo. Non è solo ansia di correttezza politica: c'è gente che non ammette l'evidenza soltanto perché, in qualche caso, teme di assecondare Salvini o, in Francia, la signora Le Peno In fondo è, anche questa, una forma di paura.

(Libero, 17 novembre 2015)

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Integrazione è l'ebreo che difende il prosciutto

di Chiara Di Segni

Gentile Filippo Facci,
 
  le scrivo riguardo il suo articolo sulla permalosità importata dagli islamici in Italia. Impeccabile e franco.
  Vorrei solo fare un appunto, se mi permette. lo sono ebrea, e come tutti gli ebrei italiani sono andata nelle scuole pubbliche, in quelle cattoliche, ho mangiato l'orrida pasta al sugo di pomodoro e i bastoncini di pesce con le scagliette di ghiaccio che si alternano al pangrattato bruciato, il pollo asciutto e insapore, la metà di un'arancia aspra e così via, come immagino anche lei. Nella mia famiglia si mangiava il maiale quindi non ho mai avuto problemi, ma nelle case dei miei amici di religione ebraica che mangiavano casher, a nessun genitore è mai balenata l'idea di imporre le proprie scelte alimentari agli altri alunni, o ancora peggio al sistema scolastico, emanazione dello Stato.
  Nessuno si è mai permesso di fare richieste che andassero oltre l'ora di religione alternativa o la possibilità individuale dell'alunno di rispettare i precetti del sabato o delle feste comandate. Se non andava bene il cibo della mensa la mamma preparava il famoso panino al tonno e la questione era risolta.
  Abbiamo sempre osservato con piacere e stupore le opere d'arte raffiguranti il Cristo, Mosè e la Vergine nelle ore di storia dell'arte, nei musei, nelle chiese, l'arte era arte e se nel rinascimento erano i papi a finanziarla i soggetti erano soggetti cristiani, se la finanziava Napoleone erano scene di battaglia, cavalli bianchi e spade.
  Nessuno si è mai posto la questione del contenuto delle gite, anzi, le confesso che a Roma essendo stati nel ghetto per secoli le famiglie non vedevano l'ora della nostra emancipazione culturale, ci facevano studiare il triplo, volevano che recuperassimo quella dimensione umanistica che fino alla fine dell'ottocento agli ebrei romani era preclusa perché eravamo realmente ai margini. A Torino, a Mantova, a Milano c'erano già gli avvocati, i notabili, i generali, ma noi ebrei romani vendevamo stracci.
  Il crocifisso era alla pareti delle nostre classi e delle sale parto in cui siamo venuti al mondo. Quando si vive per due millenni in un' area geografica che poi diventa uno Stato a maggioranza cattolica, cristiana, bisogna rispettarne il sentire. Bisogna saper convivere e sentirsi parte integrante del tessuto sociale, aiutarne la coesione, arricchirlo con i propri membri migliori. Gli ebrei nei millenni non avevano uno Stato, oggi che Israele c'è chi ha voglia di vivere una vita da ebreo in condizione di osservare i precetti al 100% ha anche l'alternativa di vivere in uno stato ebraico dove l'ebraismo è la religione della maggioranza, se non vuole il maiale nel piatto del vicino a scuola o alla mensa aziendale. Così forse dovrebbe essere per coloro che, tra i musulmani, non si sentono a loro agio con le nostre abitudini e con Chagall.
  Faccio fatica a immaginare che i valorosi ebrei italiani nelle guerre risorgimentali (tra cui il mio trisavolo Leonello Foà) o nella Prima Guerra Mondiale chiedessero il rancio su misura. Sempre liberi ovviamente, come scelta individuale, di mangiarsi del pane con una cipolla al posto del maiale.
  Lo stesso concetto si adatta ai valorosi poliziotti musulmani che difendono la vita dei francesi e si portano il panino da casa, perché essere osservanti, occidentali, e leali alla società in cui si vive è possibile, e molti cittadini europei di religione islamica lo dimostrano ogni giorno.
  In poche parole la sensibilità degli ebrei non è mai stata urtata dallo stile di vita e dai valori fondanti di una società giudaico-cristiana dove la libertà di far scelte individuali non è mai messa in discussione, fino a quando non danneggia la libertà dell'altro. La convivenza è fondata sulla sensibilità e garantita dalle leggi.
  Gli ebrei appartengono all'occidente e sono vertebra inseparabile di quella spina dorsale che speriamo l'occidente tenga dritta in questa epoca in cui combattiamo per la nostra stessa sopravvivenza. Per la sopravvivenza del prosciutto nelle mense scolastiche, del Cristo di Chagall, delle bellezze in bikini' della goduria di un prosecco d'estate, in armonia con i nuovi italiani che saranno liberi di far le loro scelte individuali ma mai di imporle all' altro perché quel Cristo, quella michetta al prosciutto, quel bikini e quel prosecco li impugneremo al posto dei kalashnikov contro i loro cattivi maestri e i loro ragazzini arroganti.

(Libero, 18 novembre 2015)


Il rabbino: il buonismo è un lusso: «Così si fa il gioco dei tagliagole»

L'analisi di Laras: certo moralismo pacifista e cattolico ha scalzato l'etica.

di Cristiano Bendin

MILANO - «Dolore per le vittime ma anche rabbia per chi giustifica quegli attacchi: sono gli alleati inconsapevoli e subdoli del terrore». A dare voce alle ansie degli ebrei italiani, scossi dai fatti di Parigi e dall'accoltellamento del giovane chassìd Nathan GrafI, la settimana scorsa a Milano, è Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia e rabbino capo emerito di Milano.

- Che sentimenti ha provato di fronte alla tragedia di Parigi?
  «Dolore, sconforto e indignazione. Solidarietà commossa con le vittime e con i loro familiari. Mi chiedo poi quale perversione e blasfemia possa albergare nei cuori e nelle menti di chi crede di essere gradito a Dio compiendo simili efferatezze. Ho provato rabbia e sdegno nei confronti di quegli opinionisti e di quei politicanti che adducono giustificazioni, attenuanti, contestualizzazioni: alleati inconsapevoli, ma egualmente pericolosi e subdoli, del terrore».

- Ci può spiegare meglio?
  «Oltre al terrore, tra le armi classiche dei sostenitori dello jihadismo da sempre vi sono la confusione e l'equivoco. Siamo vulnerabili anche su questo campo perché in Occidente purtroppo siamo stati da decenni abituati a usare male le parole, a impiegare parole inadatte o improprie. E così si pensa male e dilaga la confusione. Pacifisti, terzomondisti, religiosi buonisti e 'pensiero' radical-chic hanno fatto sì che un moralismo assolutista e conformista sia subentrato all'etica. La libertà, la dignità e la vita etica richiedono forza e carattere. Questi pulpiti vacui e ignavi, con i loro 'ismi', ci hanno reso deboli, in parte avallando la 'sottomissione'».

- Si riferisce anche alla Chiesa?
  «Vi sono tentazioni utopistiche circa la guerra e la pace in seno alla tradizione cristiana. Ma la violenza fa parte del reale, come la guerra. Tommaso d'Aquino prevede, quando necessario e inevitabile, il ricorso alla violenza. Bonhoeffer, uno dei massimi teologi cristiani del '900, ritenne necessario cercare di uccidere Hitler, anche se l'attentato purtroppo fallì. Quando sento alcuni cristiani confondere pace e pacifismo, bontà e buonismo, persecuzione e uso legittimo della forza, mi viene da chiedere loro: cosa avresti fatto con Hitler? Come l'avresti fermato senza il ricorso alla forza? E non ritieni che, mentre tu interrogavi (male) la tua nobile coscienza, avresti avuto delle responsabilità effettive nei confronti delle persone che nel frattempo morivano? Il buonismo, quando non è una maschera per la viltà, è un lusso della coscienza».

- Lei ha ricordato il nazismo. Vede delle analogie con l'oggi.
  «Il clima che viviamo è inedito. Le Twin Towers e Parigi segnano dei punti di non ritorno. Vi sono analogie che possono rievocare l'ascesa del nazismo. Sicuramente l'imposizione di un nuovo ordine mondiale jihadista, i ricatti economici e l'uso dilagante del terrore. Come il nazismo anche lo jihadismo è ossessionato, in tutte le sue forme, dall'antisemitismo e dall'antisionismo. In particolare va fatto poi presente che lo jihadismo dal nazismo ha ricevuto non pochi contributi ideali».

- Quali armi possiede oggi l'lslam politico secondo lei?
  «Potenzialmente le nuove demografie religiose europee. Poi il terrore eretto a sistema. Si aggiunga la loro forza economica e ili dipendenza economica di molti Paesi europei impoveriti dalle loro economie. E, infine, un'arma impropria: il "non pensiero" culturale e politico di troppi occidentali».

- Quale il sentimento degli ebrei europei ed italiani? E' ancora possibile parlare di dialogo?
  «Vi è molta preoccupazione e molti fantasmi sono tornati. Ma noi siamo tenaci. E la tenacia è un sentimento che dovremmo essere in grado di tradurre e trasferire agli altri europei in questi frangenti. Israele questi problemi purtroppo li conosce bene ed è in piccolo il laboratorio di quanto succede in Europa oggi. Il Dialogo ha e avrà sempre alti e bassi. L'importante è non farlo spegnere.

(Nazione-Carlino-Giorno, 17 novembre 2015)


I dieci anni del Kolno'a Festival, a Roma dal 21 novembre

Torna a Roma il cinema israeliano e di argomento ebraico, con il "Pitigliani Kolno'a Festival", dal 21 al 26 novembre, a ingresso gratuito, alla Casa del Cinema e presso il Centro ebraico Il Pitigliani.

di Francesca Sabatinelli

Decima edizione di un Festival che ha avuto il merito in tutti questi anni di proporre al pubblico romano e italiano in generale lungometraggi, documentari e corti, figli di una cinematografia ai più sconosciuta, quella israeliana. Una edizione, questa del 2015, dedicata in parte alla commedia, anche se dal gusto un po' amaro. Ce ne parla Ariela Piattelli, codirettrice, con Dan Muggia, del Festival:

 
Ariela Piattelli
   
"Caratteristica del cinema israeliano, così come della società israeliana, è la complessità e dunque troviamo una mescolanza di linguaggi: c'è il linguaggio della commedia, senza dubbio, che si amalgama in qualche modo con quello della tragedia. E questo lo vediamo nel film inaugurale "Zero motivation", un film di esordio di una giovane regista israeliana, in cui un gruppo di ragazzi 18.enni svolge il servizio militare nel Dipartimento Risorse Umane. In questo Dipartimento, trascorrono le loro giornate a giocare al computer, a farsi gli scherzi, cercando così di passare il tempo perché non hanno nulla da fare. In questo scenario però, così come nella vita di tutti i giovani, succedono tante cose, quindi si innamorano, litigano e si verificano molti aneddoti, alcuni dei quali anche drammatici".
  In calendario anche documentari di strettissima attualità internazionale come "Hotline", di Silvina Landsmann, storia di chi si impegna nella difesa dei diritti degli immigrati clandestini in Israele:
  "Un film che ha partecipato a moltissimi Festival, anzitutto perché è un bellissimo documentario, molto duro, e questo non lo nascondiamo, che affronta il tema degli immigrati clandestini in Israele. Un film che entra in posti poco consoni al cinema, come le carceri e le aule giudiziarie, e che parla di una Ong che aiuta gli immigrati a sopravvivere, nonostante siano clandestini".
  La sezione "Percorsi ebraici" presenta una pellicola di Ori Gruder, regista ebreo ortodosso, ospite del Festival, mentre un altro spazio sarà dedicato alla spiritualità, al legame tra cinema e religione, con un panel che vedrà la presenza anche della direzione del "Religion Today Film Festival":
  "L'ebraismo è anzitutto una fede, una religione. Volevamo, per la prima volta, affrontare questo argomento e approfondirlo intorno a un tavolo, con gli amici di Religion Today. Faremo vedere non solo come la religione ebraica, ma anche le altre fedi affrontano il tema religioso sul grande schermo. Lo faremo anche insieme a Ori Gruder, un regista israeliano ortodosso, che sarà presente con un documentario intitolato 'Sacred Sperm', che parla di come spiegare al proprio figlio il divieto nell'ebraismo di disperdere il seme".
  "Ombre Indelebili" è una nuova sezione, presenta lavori che descrivono l'effetto della Shoah sulla seconda e terza generazione in Italia e nel mondo.
  "Questo è un argomento un po' fuori dall'Italia, di cui si parla invece molto in Israele e Stati Uniti principalmente, ma anche in Francia e in gran parte dell'Europa. Ci sono studi molto approfonditi sull'effetto della Shoah sulle nuove generazioni, soprattutto nei nipoti e nei figli dei sopravvissuti. Questi fenomeni sono stati studiati a livello scientifico, ma ora è anche il momento in cui l'arte cinematografica ne inizia a parlare - parlo dell'Italia perché, come dicevo, all'estero è già stato fatto questo tipo di percorso. Per questa ragione, presenteremo 'I figli della Shoah', scritto da Cesare Israel Moscati, un film che per la prima volta mette a confronto i personaggi di varie nazionalità.
  Presenteremo poi due film israeliani: 'Numbered', un documentario che mostra come ogni sopravvissuto viva a suo modo il numero tatuato sul braccio: c'è chi se ne vergogna, e quindi tende a coprirlo, c'è chi invece lo ostenta perché è il segno dell'essere sopravvissuto e quindi è come se rappresentasse una nuova identità. Ci sono persino i 'nipoti' della Shoah, che decidono di tatuarsi il numero dei nonni sul bracci. Proietteremo poi 'Farewell Herr Schwarz', un documentario israeliano straordinario che parla dell'esperienza incredibile di una ragazza israeliana che vive a Berlino e che va alla ricerca di uno zio creduto morto durante la Shoah, ma che ha invece deciso di prendere completamente un'altra identità, vivendo così tutta la sua vita in Germania, senza mai entrare in contatto con la sorella e con la famiglia che era in Israele".
  Il Festival aprirà le porte sabato 21 novembre, offrirà gratuitamente la visione di tutte le pellicole, tutti i giorni, tranne la serata inaugurale a inviti, prima alla Casa del Cinema e poi, l'ultimo giorno, il 26 novembre, al Centro ebraico italiano Il Pitigliani.

(Radio Vaticana, 17 novembre 2015)


Tradimento d'Eurabia
Articolo OTTIMO!


Bat Ye'or: "Parigi aveva provato a farsi scudo della politica antisraeliana, ma i servigi al mondo islamico non salvano la Francia".

di Giulio Meotti

 
Bat Ye'or
ROMA - In gergo militare si chiama "blowback". E' il contraccolpo involontario di una determinata politica. Secondo Bat Ye'or, la storica e studiosa ginevrina che ha scoperto l'"Eurabia", le stragi di Parigi sono come una vampata politica e ideologica di ritorno. Bat Ye'or ha scritto libri famosi, che ispirarono, fra gli altri, Oriana Fallaci. A lei si deve anche l'invenzione del termine "dhimmitudine", la sottomissione dei cristiani ed ebrei nell'islam. "La Francia non avrebbe dovuto adottare la politica eurabica che sta distruggendo l'Europa", dice al Foglio. "La Francia ha negato che la guerra arabo-islamica a Israele fosse jihad e terrore. L'antisionismo ha reso a lungo ciechi i francesi. Parigi avrebbe dovuto sostenere il diritto di Israele a esistere nella sua terra e incoraggiare un movimento antijihadista anziché la Fratellanza musulmana". Ancora ieri invece il ministro degli Esteri svedese ed ex commissario Ue, Margot Wallström, si premurava di ricondurre la "radicalizzazione" degli attentatori a "situazioni come quella per cui i palestinesi vedono che per loro non c'è futuro". Il governo israeliano ha rispedito al mittente il "commento ostile". Per Bat Ye'or tutto si tiene, ma la sua prima riflessione è sullo choc provato per il massacro di Parigi: "Una gioventù spezzata sopprime la speranza, la gioia, i talenti non tornano più. E questa distruzione di preziosi esseri umani è perpetrata da barbari capaci solo di odio". Allo stesso tempo la studiosa disprezza nel profondo la politica francese: "E' quarant'anni che Parigi è alleata con i terroristi dell'Olp, che vogliono sradicare Israele. E' la continuazione di Vichy. La Francia ha convinto gli altri paesi europei ad adottare questa politica".
  Secondo Bat Ye'or, "la Francia non ha mai mostrato pietà per le vittime israeliane dei suoi alleati, i jihadisti palestinesi". Anzi, Francia e Unione europea hanno ribaltato i ruoli di aggressore e di vittima: "I terroristi sono diventati vittime e gli israeliani aggrediti sono gli aggressori. Assieme alla Commissione Ue, la Francia ha aumentato i fondi per la propaganda razzista e odiosa contro Israele. I media europei non citano mai Israele fra i paesi attaccati dai terroristi perché i jihadisti palestinesi sono sostenuti dagli stati europei. Pretendendo di essere arbitro della giustizia, la Francia ha fissato i confini di Israele attorno a un ghetto e ha trasferito la storia e i diritti di Israele a un popolo arabo-musulmano che voleva distruggerlo".
  In questo contesto, l'Associazione parlamentare per la cooperazione euro-araba, una lobby europea, ha chiesto per prima nel suo journal "Eurabia" (luglio 1975) la stigmatizzazione dei prodotti israeliani provenienti dalla Giudea e Samaria. L'11 novembre la Commissione Ue ha adottato ufficialmente questa posizione, contro cui il Foglio ha lanciato un appello che ha già raccolto 2.500 firme. "Da allora, la Francia e i paesi membri della Ue hanno adottathttp://www.ilvangelo-israele.it/#o riguardo a Israele una politica di apartheid. Israele ha sofferto così tanto per il jihadismo palestinese, ma nessun europeo, tranne un paio di eroi, ha avuto il coraggio di opporsi alla politica antisraeliana o ha manifestato empatia per un popolo continuamente aggredito dal terrore musulmano e dall'antisemitismo velenoso europeo. La guerra che la Francia e l'Europa hanno nascosto per decenni al fine di accusare Israele, una guerra che non hanno nemmeno il coraggio di chiamare con il suo nome, temendo di offendere i loro alleati musulmani, il jihad, adesso la colpisce. Perché a dispetto dei loro servigi verso il mondo arabo-musulmano, la Francia è nello stesso campo di Israele. Il terrorismo è soltanto una tattica del jihad che colpisce ogni non-musulmano. E la politica antisraeliana che hanno usato per proteggersi contro il terrorismo jihadista non li salva. Il jihad è una guerra che si rivolge contro tutti i non musulmani".
  Come si spiega che le élite francesi sono così islamofile? "La Francia è stata la fautrice dell'alleanza europea con il mondo musulmano. Tutte le élite politiche europee sono islamofile oggi, è lo stesso in Belgio, Inghilterra, Spagna, in Scandinavia, hanno fatto una serie di concessioni al fine di proteggersi dal terrorismo islamico". Ma non c'è soltanto Israele nel tradimento della Francia. "La Francia ha abbandonato i cristiani dopo la Prima guerra mondiale, perché la priorità per i paesi europei coloniali era essere accettati dalla maggioranza musulmana. L'occidente ha rifiutato di riconoscere l'Armenia e un territorio assiro autonomo. Hanno detto ai cristiani che sarebbero stati al sicuro nella lotta per le cause arabe e musulmane e diventando più arabi degli stessi musulmani. Durante la guerra civile in Libano, la Francia si schierò con i palestinesi contro i cristiani. Con la radicalizzazione dei paesi musulmani, i cristiani tornano ora alla condizione di dhimmi prescritta dalla sharia".
  Bat Ye'or conclude su una nota tragica: "La pusillanimità francese ha creato questa situazione. Hanno offuscato il jihadismo consentendo che si sviluppasse contro le popolazioni cristiane all'interno dei paesi islamici. Il male che Parigi ha incoraggiato per distruggere Israele adesso si sta rivoltando contro i suoi stessi creatori".

(Il Foglio, 17 novembre 2015)


"In Israele invidiavamo l'Europa ora siamo tutt'uno, sotto assedio"

di Donatella Alfonso

 
Ofir Haivry
«Purtroppo noi avremmo voluto essere come voi europei e vivere in pace, invece temo che, almeno per qualche tempo, sia il contrario. Da alcuni anni l'Europa tendeva a emarginare il problema israeliano come una cosa che non riguardasse i vostri paesi, ma di fronte a questi attacchi siamo tutt'uno».

Ofir Haivry, storico israeliano, vicepresidente dell'Istituto Herzl di Gerusalemme, sarà oggi alle 18 a Genova per un incontro, programmato da tempo e organizzato dall'APAI, l'Associazione per l'Amicizia Italo-Israeliana, alla Comunità ebraica di via Bertora per parlare di "Israele e il nuovo Medio Oriente: Tra Isis, Iran e nuove nazioni emergenti". La sua è una lettura dei fatti di Parigi dal cuore delle tensioni mediorientali: considerando che la guerra all'Isis sta cambiando quello scenario, ma anche il nostro.

- Professor Haivry, l'Isis minaccia l'Europa, ma per quanto riguarda Israele?
  «Bisogna capire che per Israele l'Isis, nonostante il suo tipo di atrocità speciali, non è una minaccia di tipo differente rispetto a quelle già in atto. Il profilo speciale davvero è che i militanti del Califfato cercando di colpire l'Occidente».

- Tra le letture che sono state date sugli agguati di Parigi,c'è anche che il teatro Bataclan è di prorpeuatà ebraica ed era già stato minacciato...
  «Penso che gli ultimi eventi abbiano cambiato il metodo di azione delle generazioni precedenti di terroristi, che prendevano di mira obiettivi ebraici o israeliani. Paradossalmente ora che un piccolo gruppo prende di mira tutta la società occidentale, c'è più sicurezza verso i siti ebrei. Non è mancato chi ha detto che tutto quanto sta accadendo in Europa ha a che fare con Israele, ma questo non cambierebbe nulla nello scenario che stiamo vedendo».

- La scorsa settimana un esponente della comunità ebraica milanese è stato ferito al volto da uno sconosciuto. C'è da temere un'esportazione della cosiddetta intifada dei coltelli o potrebbero esserci minacce diverse che non hanno a che fare con il mondo arabo?
  «Io direi di sì, ma la ragione principale di questa intolleranza è che le ideologie arrivano nelle case attraverso internet. E quindi coinvolgono persone che non hanno nessun legame con le persone che attaccano. Oppure esprimono attarverso modalità violente i propri disagi: tra le donne che hanno attaccato i soldati israeliani ce n'erano alcune con problemi psicologici o personali seri. L'ideologia ha dato una sua modalità di attacco anche a loro. Per questo non nascondo che il rischio esiste, perché l'ideologia si diffonde senza controllo e può raggiungere chiunque».

- Molti analisti concordano sul fatto che l'Isis vuole spingere le potenze occidentali fuori dal Medio Oriente per poi andare allo scontro diretto tra sciiti e sunniti. Cosa ne pensa? E Israele in tutto questo?
  «Condivido questa lettura, perché le fratture in medio Oriente sono ovunque e non solo tra sciiti e sunniti, anche se è la principale. Paradossalmente un mondo di guerre intestine aiuta Israele perché i gruppi anti-israeliani sono impegnati a combattersi tra loro... ma a lungo termine questa estremizzazione regionale diventa una gara a chi uccide di più. La regione è diventata ancora più instabile, e con degli elementi nuovi: lo sterminio degli Yazidi era stato praticato anche da Saddam, ma si stava ben attenti a non farlo sapere. Invece ora l'Isis lo ammette e lo rivendica...».

- Cosa ne pensa dei raid aerei intrapresi dalla Francia in risposta agli attentati?
  «Sinceramente non fa molta differenza nel momento in cuil'Isis ha deciso di colpire l'occidente. Gli attacchi non cambiano le cose. Penso che ci sarebbero da seguire due binari: una politica paneuropea che intervenga contro i sostegni all'Isis, lasciando perdere i bombardamenti, o aiutare i curdi, anche con le armi, a intervenire contro il Califfato».

- Le città europee dovranno sentirsi in stato di assedio allora?
  «Ripeto, purtroppo temo che anche voi, che invidiavamo, dovrete vivere come noi non vorremmo più vivere. E che questa minaccia riguardi tutti».

(la Repubblica - Genova, 17 novembre 2015)


Israele mette al bando il Movimento Islamico

Il governo israeliano ha dichiarato «illegale» il Movimento islamico (Frazione Nord) dello sceicco Raed Salah. Le sue attività sono da ora vietate perché, secondo il ministro della Sicurezza interna Ghilad Erdan, ha «fomentato violenze e atti di terrorismo». Nel corso della notte, precisa un comunicato governativo, 17 istituzioni legate al Movimento islamico sono state chiuse in diverse località di Israele. Perquisizioni sono state condotte in 13 uffici e sono stati sequestrati documenti, fondi e computer. Altri conti bancari utilizzati dal Movimento islamico sono stati congelati. Il ministro della sicurezza Erdan ha dichiarato che «Israele deve essere in prima linea nella lotta contro l'Islam estremista i cui emissari hanno massacrato persone innocenti a Parigi, New York, Madrid e anche in Israele. Il Movimento Islamico, Hamas, lo Stato islamico e altre organizzazioni simili hanno un'ideologia comune che fomenta attentati nel mondo e un'ondata di terrorismo in Israele». «È giunto il momento che noi utilizziamo tutti i mezzi a nostra disposizione nella guerra contro il terrorismo e i sobillatori», ha concluso il ministro. Il leader del Movimento islamico, Raed Sallah, dovrebbe nei prossimi giorni entrare in carcere, per scontare una pena inflittagli già il mese scorso. Per ora non si prevedono altri arresti, ha affermato la ministra della giustizia Ayelet Shaqed.
   "Il risvolto pratico di questa decisione - si legge in una nota - è che ogni entità o individuo che appartengono al gruppo e qualsiasi individuo che fornisce servizi a questa organizzazione o opera sotto i suoi auspici violeranno la legge penale e saranno puniti con la reclusione".

(FONTI: adskronos, sponda sud, 17 novembre 2015)


“Il peccato originale sta nel parlare di Territori Occupati"

David Cassuto
ex vicesindaco di Gerusalemme

David Cassuto
La terra di Israele era stata spartita fra la popolazione Ebraica e quella Araba. Nel 1948 la popolazione araba, a fianco dei paesi arabi circostanti, dichiarò una guerra di sterminio al neonato stato ebraico. Questa guerra la persero nel disagio (dissimulato) di molti in Europa, che in cuor loro pensavano che gli arabi avevano l'occasione di terminare quello che Hitler non era riuscito a realizzare. In una disputa fra due nazioni se l'una dichiara guerra all'altra, perde anche il diritto ai territori in questa guerra. Dichiarò nuovamente guerra a Israele nel 1967. Il mondo non fiatò, la parte araba perse anche questa guerra e il mondo impose a Israele di abbandonare i territori. Il mondo arabo non riconosce il diritto di Israele alla terra di Israele e con loro oggi si schiera anche l'Europa. Nei terrritori contesi Israele ha creato industrie fiorenti dando agli arabi lavoro, salari identici e quelli dei lavoratori ebrei, cassi sperando di poter arrivare ad una convivenza giusta e pacifica fra ebrei e arabi. Ma le autorità palestinesi non potevano permettersi la convivenza pacifica e, nonostante gli accordi Oslo, scatenarono due Intifade micidiali quando l'Europa se ne stava in silenzio. Ma anche queste hanno fallito. E anche quella presente fallirà. Etichettare i prodotti della Giudea, Samaria e del Golan vuol dire minare di nuovo la via dell'accordo con la società palestinese.

(Il Foglio, 17 novembre 2015)


"Il peccato originale sta nel parlare di Territori Occupati". È quello che diciamo da anni sul nostro sito.


Combattere per la libertà (di essere se stessi)

Non vi è nulla che la Francia avrebbe potuto fare, a parte non essere più la Francia, per evitare quegli attacchi.

E' del tutto naturale cercare dei motivi logici dietro alle azioni umane. Vale anche per il terrorismo islamico. Ma a volte bisogna ammettere che l'unico movente è una volontà di distruzione fine a stessa.
Le stragi dello scorso gennaio alla sede di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Cacher di Parigi, per esempio, non possono e non devono essere attribuite alle politiche della Francia nelle banlieue, i progetti di edilizia abitativa nelle periferie a basso reddito abitate in modo sproporzionato da immigrati musulmani. Non dobbiamo permetterci di incolpare i vignettisti satirici francesi di Charlie Hebdo per aver superato i limiti del buon gusto. Non sono stati assassinati per il reato di "cattivo gusto", e non sono in alcun modo responsabili dell'attacco omicida perpetrato contro di loro da estremisti islamici. Allo stesso modo, i terroristi animati da un'interpretazione distorta dell'islam che hanno perpetrato i miserabili attentati costati la vita a più di 130 persone venerdì scorso a Parigi non devono essere spiegati come una conseguenza del coinvolgimento della Francia nella guerra allo "Stato Islamico" (ISIS) in Siria e Iraq. Non vi è nulla che la Francia avrebbe potuto fare - a parte non essere più la Francia - per evitare quegli attacchi....

(israele.net, 16 novembre 2015)


In Calabria e Sicilia le "basi" italiane dell'ISIS: la moschea di Sellia Marina e i campi sull'Etna

Rinforzate le misure di sicurezza. Le precedenti operazioni delle autorità italiane su Sellia Marina e Scordia preoccupano la popolazione calabrese e siciliana.

Cresce l'allarme terrorismo in tutt'Italia dopo i tristissimi fatti di Parigi: il governo ha innalzato il livello di allerta e le misure di sicurezza sono state rinforzate ovunque, anche in Calabria e Sicilia considerate tra le Regioni più a rischio perchè "di frontiera", la porta meridionale all'immigrazione clandestina in cui è presumibile che si possano infiltrare anche terroristi. Ma ci sono anche dei fatti storici ad alimentare la preoccupazione in Calabria e Sicilia: l'informativa dei servizi segreti sulla moschea di Sellia Marina, vicino Catanzaro, e il campo di addestramento dell'ISIS scoperto due anni fa alle falde dell'Etna, in Sicilia. Proprio in Calabria e Sicilia, infatti, l'ISIS avrebbe posto le proprie "basi" logistiche.
   Il 20 aprile 2013 cinque persone venivano arrestate dai carabinieri del Ros nell'ambito dell'operazione "Masrah" che sgominava una cellula del terrorismo islamico. In manette un residente del comune di Scordia, nel catanese, Mohsen Hammami, che gestiva i campi di addestramento alle falde dell'etna dove i membri dell'ISIS si allenavano con vere e proprie esercitazioni da guerra, utilizzando armi ed esplosivi in nome della loro follia sovversiva. Il "capo" di questa cellula era l'ex imam della moschea di Andria, Hosni Hachemi Ben Hassen. Uno dei logo progetti in cantiere era quello di compiere un attentato contro una chiesa cattolica in Puglia.
   Il gruppo si autofinanziava con i soldi raccolti nella moschea e in un call center. La loro base operativa era proprio a Scordia, e oltre all'esercitazione il loro obiettivo era quello di fare proseliti e di indottrinare gli adepti e le reclute per attentati da compiere in tutto il mondo. Una cellula che predicava forte odio contro gli ebrei, contro gli Stati Uniti d'America e la stessa Italia che li ospitava.
   Si allenavano nei sentieri dell'Etna, mimetizzati tra querce e castagni, provando il "passo della biscia" e sottoponendosi a duri esercizi fisici, aspettando la chiamata a cui si dicevano pronti. Dalle intercettazioni, infatti, emergevano particolari raccapriccianti. Un terrorista, infatti, diceva: "Allah prendi il mio sangue e disperdi il mio corpo come vuoi". In un'altra intercettazione dicevano "speriamo che ci sarà un terremoto in quel paese che noi odiamo", e ancora "Quando tu guardi.. Quando tu guardi.. (la TV) devi tenere i tuoi bambini vicini a te… falli vedere quello che stanno facendo gli ebrei … devono capire che devono odiare gli ebrei …. e amare la loro religione.. Da adesso..dall'infanzia.. dall'infanzia.. devi inculcare l'odio sugli ebrei.. perchè è fondamentale nella .. nella nostra fede, odiare gli ebrei.. devi insegnargli a fare le preghiere contro gli ebrei… è un obbligo".
   Il 24 settembre 2014 cinque componenti della cellula sono stati condannati dal gup del tribunale di Bari: 5 anni e 2 mesi di carcere per il capo, l'ex Imam della moschea di Andria, e 3 anni e 4 mesi per gli altri componenti della banda. Un altro fanatico se l'è cavata ed è riuscito a fuggire, ad oggi risulta latitante. L'ISIS continua a fare proseliti non solo nel Medio Oriente, ma anche a casa nostra.

(strettoweb.com, 16 novembre 2015)


Attentati Parigi, perché il Bataclan?

Filo-palestinesi contro la "proprietà sionista" nel 2008

Quale legame unisce l'odio dei fondamentalisti islamici al Bataclan, la sala da concerti divenuta il simbolo delle stragi parigine del 13 novembre? Costruito nel 1864 su progetto dell'architetto Charles Duval, deve il suo nome a Ba-Ta-Clan, un'operetta in un atto di Offenbach rappresentata nel 1855, primo, grande successo di pubblico del compositore. Nel 1991 il locale fu dichiarato monumento storico. Ma da tempo sembra essere nel mirino delle organizzazioni terroristiche di matrice islamica per le conferenze e le manifestazioni a sostegno di Israele. Iniziative volute dai proprietari, entrambi ebrei. In questo video, girato nel 2008, un gruppo di radicali filo-palestinesi a volto coperto minaccia i responsabili del Bataclan per aver organizzato il gala annuale del Magav, un corpo militare interno alla polizia israeliana assegnato al controllo delle frontiere. Un episodio lontano 7 anni dagli attentati che hanno colpito Parigi lo scorso fine settimana. Ma stando a queste immagini, i sospetti che il Bataclan fosse nel mirino del fondamentalismo islamico sembrerebbero fondati. Sospetti che aggiungono interrogativi quanto al lavoro dei servizi segreti francesi dopo l'attentato alla sede del giornale satirico di Charlie Hebdo. Le minacce del 2008 erano un presagio a quello che sarebbe accaduto 7 anni dopo nell'auditorium dove sono state uccise 89 persone? A quei fatti si aggiunge oggi la notizia che gli Eagles Of Death Metal, la band che si stava esibendo quando i terroristi hanno aperto il fuoco e uscita indenne dalla carneficina, l'anno scorso sono stati protagonisti di una tournée in Israele che aveva ricevuto intimidazioni tanto da ritenere possibili episodi di boicottaggio dei concerti.

(il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2015)


Dibattito sull'Islam: «Costituire lo Stato Islamico in Gran Bretagna e imporre la Sharia»

di Federica Macagnone

Mentre i terroristi seminavano il terrore a Parigi uccidendo 129 persone, a Bedford, vicino Londra, durante un dibattito con relatori musulmani, si discuteva sull'opportunità reale di costituire lo Stato Islamico in Gran Bretagna e di porre il Paese sotto leggi della Sharia. Parole preoccupanti che, oggi più che mai, risuonano come un campanello di allarme all'interno dell'Europa.
   Intervenuti a "Quiz A Muslim", un gruppo di islamici ha scatenato reazioni indignate nel Paese sottolineando il «dovere dei musulmani di lottare per costituire lo Stato Islamico». D'altronde i personaggi che hanno partecipato al dibattito sono già noti in Gran Bretagna per le loro idee radicali. Tra questi, infatti, c'erano Taji Mustafah, dell'organizzazione radicale islamica Hizb-ut Tahrir, e Moazzem Begg, ex detenuto di Guantanamo Bay e fondatore del gruppo CAGE, il cui direttore non ha mai nascosto la venerazione verso Jihadi John, più volte appellato come un «bellissimo giovane».
   Begg ha ricevuto un indennizzo di un milione di sterline dal governo britannico dopo aver accusato i funzionari del Regno Unito di essere complici nelle torture di cui sarebbe stato vittima negli Stati Uniti. Tornato nel Paese, adesso, non ha nascosto le sue idee radicali, esponendosi durante il dibattito: «Perché non possiamo avere l'unità nei nostri Paesi? Se questo deve avvenire sotto il Khilafah (lo Stato islamico) così sia».
   Gli speaker hanno tutti sostenuto la tesi secondo la quale la legge di Dio deve essere superiore a quella fatta dall'uomo e hanno suggerito ai musulmani di comprendere come il diritto della Gran Bretagna possa essere determinato in base alla Sharia e al Corano.
   «Non dobbiamo chiederci se abbiamo bisogno di metterci alla pari con gli inglesi - ha detto lo sceicco Haitham Al Haddad, del Muslim Research and Development Organisation, noto per aver appello la jihad come uno degli atti più virtuosi nei confronti di Allah - Dovremmo essere loro partner nel definire ciò che il Paese è... quale deve essere la legge di questa terra».
   Che i partecipanti al dibattito fossero conosciuti come estremisti lo si sapeva ancor prima che iniziassero a parlare. Prima dell'evento, Maajid Nawaz, consulente anti-estremismo del governo ha scritto su Facebook: «Ognuno di questi speaker è un sostenitore del Califfato, tutti credono nel nucleo fondante dei principi dell'Isis. L'unico motivo per cui ne bocciano l'operato è perché hanno agito troppo in fretta, la loro mossa per stabilire il Califfato è stata troppo repentina».
   Dilly Hussain, vice direttore del giornale musulmano online 5PillarsUK che ha organizzato l'evento, a fine dibattito ha commentato: «Molti relatori sono stati molto controversi, alcuni di loro hanno detto cose che sono state considerate di cattivo gusto. Ma bisogna considerare anche il rovescio della medaglia: non si può certo dire che ci sia stato qualcuno che abbia infranto alcuna legge».

(Il Messaggero, 16 novembre 2015)


C'è un quartiere di Bruxelles dove l'unica legge è la Sharia

di Giulia Aubry

 
Sette arresti collegati ai "fatti" di Parigi e un'operazione di polizia ancora in corso. Almeno uno degli attentatori del 13 novembre avrebbe trascorso gli ultimi mesi a Bruxelles. Sia la Seat che la Polo, identificate come due delle auto utilizzate dai terroristi dell'attacco multiplo alla capitale francese, avrebbero targhe del Belgio.
   E già a gennaio, subito dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher nella capitale francese, la polizia belga aveva scoperto basi logistiche che avevano offerto supporto ai fratelli Kouachi e a Koulibaly. Quest'ultimo avrebbe ripetutamente visitato e si sarebbe rifornito di armi e munizioni proprio nel paese al confine con il nord della Francia.
   Il Belgio appare sempre di più come la capitale europea della Jihad. Un primato non certo invidiabile, ma che non dovrebbe sorprendere. Nel 2014, infatti, un report del Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione e della Violenza Politica ha mostrato come il Belgio abbia fornito almeno 40 foreign fighters per ogni milione di abitanti nel paese alla milizia sunnita impegnata con Isis o Al Qaeda in Siria e in Iraq. Un rapporto di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra nazione europea. Si pensi che la Francia ne fornisce 18, la Gran Bretagna 9,5, la Germania 7,5, l'Italia "appena" 1,5. E nel 2015 la situazione è addirittura peggiorata.
   A Bruxelles, dove il 20% della popolazione è di religione musulmana, esiste un intero quartiere - Molenbeek - "sottoposto alla Sharia". Qui nessuno, anche se non islamico, può bere o mangiare in pubblico durante il Ramadan, le donne sono "invitate" a indossare il velo e a non portare i tacchi, bere alcool e ascoltare musica sono attività non gradite. A tutti gli angoli della strada un cartello giallo con scritta nera avverte che ci si trova in una "Sharia controlled zone", sottointendendo che in quelle strade la polizia ha un potere limitato. E più di una volta i giovani che vivono in questa zona hanno accolto con un lancio serrato di pietre le autovetture in servizio. Qualcuno sostiene che i foreign fighters del Belgio e i logisti (forse anche le menti) di molti attentati in Europa siano proprio cresciuti qui.
   Qualcuno già ha ribattezzato l'intero paese - alle prese con una difficile situazione politica interna a causa degli storici contrasti tra la comunità fiamminga e quella vallone - Belgistan. E gli evidenti legami con il Belgio tra gli attentatori che hanno colpito in tutta Europa, non ultimo nel 2014 al museo ebraico di Bruxelles, non fanno che confermarlo.

(Il Messaggero, 16 novembre 2015)


Cosa lega la difesa della libertà dell'Occidente alla difesa della libertà di Israele

di Claudio Cerasa

C'è un filo per nulla sottile e anzi piuttosto robusto che collega i fotogrammi del terrore proiettati in mondovisione dal terrorismo islamico e le immagini delle minacce che colpiscono ogni giorno un paese come Israele, simbolo genuino della lotta tra le libere democrazie e i totalitarismi nascenti. Quel filo non è legato alla storia del Bataclan che sarebbe stato preso d'assalto per il suo essere non solo un'allegoria perfetta di una spensieratezza dell'occidente colpita a morte nella sua intimità ma anche per essere un luogo sensibile a causa della sua vicinanza al mondo ebraico (i proprietari del Bataclan sono ebrei e già nel 2011 i servizi segreti francesi, come riportato ieri da Le Point, avevano disinnescato un progetto di attentato organizzato dal Jaish al-Islam contro il Bataclan e i suoi proprietari ebrei).
  Il filo a cui facciamo riferimento è più solido. Ed è lo stesso filo messo in rilievo la scorsa settimana su questo giornale quando abbiamo scelto di dar vita a un comitato di solidarietà per boicottare i boicottatori di Israele, comprando prodotti made in Israel. Oggi più che mai, la difesa di Israele, in tutte le sue forme, è una battaglia cruciale perché esiste una precisa simmetria tra quanto sono lontani il cuore e il cervello dell'occidente rispetto all'unica democrazia del Medio Oriente e quanto sono lontani il cuore e il cervello dell'Occidente rispetto al tema della minaccia portata ogni giorno alla democrazia dai fondamentalismi di ogni tipo - in primis, quello islamico.
  Non ci stancheremo mai di ripetere che difendere la libertà di Israele significa difendere la libertà dell'Occidente (e non è un caso che gli ebrei vengano presi di mira anche per essere intrinsecamente simbolo di democrazia e di libertà) e non ci stancheremo mai di ricordare che il terrorismo che avvicina il suo coltello a un ebreo colpevole di essere ebreo è lo stesso terrorismo che avvicina le sue cinture esplosive a un Occidentale colpevole di essere occidentale (a Parigi, a inizio anno, subito dopo l'attacco a Charlie Hebdo, i terroristi scelsero di attaccare anche un negozio kosher di Parigi, senza altra motivazione se non quella di dover punire l'essere ebrei).
  "A coloro che in Europa e nel mondo assegnano voti e ci danno consigli - sostiene con una buona dose di ragione il tostissimo Naftali Bennett, attuale ministro dell'Economia del governo Netanyahu - ricordo che questo terrorismo che ci colpisce non è soltanto un attacco a Israele ma è un attacco allo stile di vita che riteniamo libero e democratico. Noi forse siamo in prima linea ma non cadete in errore: questa guerra sta scoppiando anche nei vostri paesi. E fate attenzione a non trovarvi, quando sarà, dalla parte sbagliata della Storia". Il nostro appello nasce per questo. Nasce perché i coltelli e i boicottaggi sono due facce di una violenza speculare che da mesi è tornata a colpire il simbolo di una democrazia in lotta contro il terrorismo in tutte le forme possibili e immaginabili. Nasce perché ormai il desiderio di punire Israele - che nasce dallo stesso grembo di un'Europa imbelle e a volte anche imbecille che trova la forza per boicottare Israele ma non trova la forza e il coraggio di rispondere alle minacce islamiste con qualcosa di più efficace che un paio di droni caduti dal cielo e un paio di bandiere francesi condivise su Facebook - non è un fatto isolato legato solo all'etichettatura voluta dalla commissione Europea ma è un fenomeno diffuso che si irradia in più forme.
  L'intifada dei coltelli, dovrebbe essere chiaro, è una lama che quando colpisce un ebreo non colpisce soltanto il suo corpo ma colpisce, con un affondo ancora più forte, il ventre molle di un Occidente incapace di trovare le parole giuste e le azioni giuste per reagire di fronte a un terrorismo che giorno dopo giorno si rafforza anche grazie al fatto che coloro che dovrebbero combattere la minaccia islamista non accettano il principio che per distruggere i tagliagole bisogna tagliare le loro gole prima che siano loro a tagliare le nostre.
  Alla luce di quello che abbiamo descritto, dunque, ha una valenza ancora più poderosa il punto che segnaliamo: in un momento storico come questo - in cui Israele si trova all'avanguardia nella lotta contro il terrore ma contemporaneamente si trova anche intrappolata in un contesto in cui deve combattere non solo con l'intifada dei coltelli, con i suoi vicini di casa che sognano la sua cancellazione dalle cartine geografiche e con un accordo nucleare che porterà probabilmente gli ayatollah a dotarsi di un'arma atomica - l'Europa ha scelto di marchiare i prodotti del popolo ebraico riesumando il marchio della Stella Gialla contro l'unica democrazia del Medio Oriente. Compiendo un'azione che non accadeva dai tempi di Hitler e scegliendo di mandare un messaggio preciso verso l'unica società del Medio Oriente dove, come ha ricordato su queste colonne il nostro Giulio Meotti, gli arabi leggono una stampa libera, manifestano quando vogliono, mandano i propri rappresentanti in parlamento e godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini.
  Il nostro appello nasce anche per questo. Nasce per chiamare le cose con il loro nome. Nasce perché tacere di fronte a un simile orrore significa essere compici di un delitto. Chi ama Israele ama la democrazia. Chi ama la democrazia combatte contro i totalitarismi di ogni genere. E chi oggi vuole affamare il popolo del boicottaggio deve comprare quei prodotti proibiti per boicottare i boicottatori. Sarebbe facile dire che esiste un solo nemico di Israele, un nuovo piccolo Hitler facilmente identificabile. I nemici di Israele purtroppo sono tanti. Sono nascosti ovunque. Nelle cancellerie, nelle ong, tra gli intellettuali, tra i paesi integralisti che confinano con Israele e che vedono nella presenza di una democrazia funzionante una minaccia inaccettabile. E per questo continueremo a raccogliere firme - ne abbiamo ricevute migliaia, ne continuiamo a ricevere centinaia ogni giorno, tutte bipartisan - e proveremo in tutti i modi a smuovere le coscienze e a organizzare campagne di sensibilizzazione per spiegare che il boicottaggio è la punta di un iceberg che nel silenzio assoluto toglie ogni giorno uno spicchio di libertà al popolo simbolo della libertà.
  E in un momento in cui all'orizzonte si intravede la nascita di un nuovo nazismo, quello islamico, bisogna dire con forza che per evitare nuove stellette di Davide e non farsi trovare dalla parte sbagliata della storia bisogna boicottare i boicottatori di Israele. Chi firma?

(Il Foglio, 16 novembre 2015)


"Non ci stancheremo mai di ripetere che difendere la libertà di Israele significa difendere la libertà dell'Occidente", dice l'autore. Sarebbe meglio non far coincidere Israele con la “libertà di Israele” in senso occidentale. Per quel che ci riguarda, non siamo dalla parte d’Israele per difendere la libertà occidentale, che in troppi casi non è che libertinismo putrefacente, corrotto e omicida. M.C.


Oltremare - Tornare a casa

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La fretta di ritornare in Israele, la solita fretta di ogni viaggio, questa volta prende un senso tutto nuovo.
All'inizio di un lungo fine settimana milanese, venerdì mattina alle otto in punto, mentre guardavo un po' stranita al tg un giornalista davanti al ristorante Carmel, pensavo che a Tel Aviv ci si sente molto più sicuri. Ed è una considerazione a due facce: più sicuri come cittadini e più sicuri come ebrei. Casa nostra, Israele: anche con intifade, guerre e assurdità varie, è comunque casa.
Ovviamente nulla mi avrebbe preparata alle notizie di venerdì sera, ricevute con troppi filtri solo sabato mattina al tempio.
Al posto dell'usuale immersione totale nelle notizie, trovarsi in un altrove linguistico e giornalistico.
Al posto della ormai inevitabile sovraesposizione alla rassegna stampa personalizzata sui social media, sguardi brevi a Facebook e ben poco desiderio di contribuire al rumore collettivo, alle dichiarazioni assolutiste o di stomaco.
Al di sopra di ogni altro sentimento, la sensazione di deja-vu, di un altro atto di terrore senza precedenti che cambia, pur se in modo impercettibile, la Storia.
E l'urgenza di essere a casa, dall'altro lato del mare, in quel luogo in cui nella più assoluta libertà e sicurezza, come cittadina e come ebrea, posso dire: l'Europa ha forti responsabilità in una gestione superficiale del terrorismo islamico.
Che siano rigurgiti post-colonialistici o ignoranza frutto paradossale della globalizzazione, a quasi 15 anni dall'11 settembre, anche gli europei hanno il diritto di sentirsi sicuri, o almeno consapevoli dei rischi quotidiani della loro esistenza, come noi.


(moked, 16 novembre 2015)


Il caso delle etichette: ennesimo atto della Ue contro Israele

Lettera al Giornale

Forse non tutti sono documentati sul fatto che l'allineamento dell'Europa sulle posizioni arabe e quindi anti Israele viene da lontano, progressivamente dagli anni 1969, 1970 sino alla formalizzazione della Dea (Dialogo euro-arabo). Su questa strada venne spinta dalla linea filo araba e anti americana dei vertici francesi che seppero condizionare in vari modi gli altri aderenti alla Cee. A ciò diede un notevole impulso l'embargo petrolifero del 1973 contestuale alla guerra del Kippur. Si ebbero proclami, riconoscimenti presso l'Onu, l'accettazione in consessi internazionali dei palestinesi, malgrado questi nella loro Costituzione prevedessero e mirassero alla cancellazione di Israele. E siamo arrivati ad oggi quando, con la solita ipocrisia, i vertici di Bruxelles, vogliono l'etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi e nel contempo si oppongono alla etichettatura dei beni che sono prodotti in Italia. Falsi fin nelle budella e venduti al petrolio.

Fulvio Keilani
Gradisca d'Isonzo

(il Giornale, 16 novembre 2015)


Nel Ghetto di Roma - Domenica kosher all'aperto: «Non ci cambieranno la vita»

di Erica Dellapasqua

 
L'accoltellamento dei ragazzo ebreo a Milano, poi gli attentati di Parigi, c'era il dubbio che la quindicesima edizione di Gusto Kosher, I'evento dedicato all'enogastronomica ebraica, richiamasse più paura che partecipanti. Invece, come aveva sperato la presidente della Comunità Ruth DureghelIo alIargando l'invito a tutti i romani, davanti al Palazzo della Cultura deI Ghetto si e formata la fila: «Non sfugge a nessuno che gli agenti alI'ingresso hanno il metal detector, ti chiedono di aprire la borsa prima di entrare - fa cenno con gli occhi Giulia, che arriva da Prati per mangiare e bere ebraico -. Non ho neanche pensato di rinunciare a causa di quelIo che e successo e come me, vedo, tanti altri». In effetti «sembra che ci sia più affluenza deI solito e anche l'impressione delIa presidente delIa Comunità -, non credo sia un caso, ma un fatto simbolico, la miglior risposta alla strategia deI terrore». Tanta gente, dentro Palazzo delIa Cultura ma anche fuori, in strada, davanti alla vetrina delIa pasticceria all'angolo, al ristorante. n Portico d'Ottavia pedonalizzato (anche) in chiave antiterrorismo e le pattuglie di militari armati ricordano che no, non e una domenica «normale», comunque una reazione c'e: «Parigi dopo Milano, ma prima di Milano c'e anche Israele, dove le persone che girano in strada rischiano di essere uccise - conclude la vicepresidente delIa Comunità Claudia FelIus -. Allora e almeno una gioia, oggi, vedere cosi tante persone, anche romani non ebrei, bere e mangiare insieme, vivere quelIa normalità che i terroristi.

(Corriere della Sera - Roma, 16 novembre 2015)


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