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Notizie 16-30 novembre 2016


Israele ha attaccato in Siria un convoglio di armi per Hezbollah

Nel mirino del raid israeliano un nascondiglio d'armi e una spedizione di componenti missilistiche e armi verso il Libano

Israele avrebbe attaccato nella mattina di mercoledì 30 novembre alcuni nascondigli di armi e un convoglio di veicoli dell'esercito siriano, destinati agli Hezbollah libanesi.
Lo riportano media arabi, ripresi da quelli israeliani, che attribuiscono l'attacco all'aviazione dello stato ebraico.
L'arsenale colpito, secondo il giornale Rai Al-Youm, con base a Londra, apparterrebbe al quarto battaglione dell'esercito siriano, mentre il convoglio sarebbe stato centrato non lontano dall'autostrada che collega Beirut a Damasco.
Il giornale libanese Elnashra, anche questo citato dai media israeliani, ha riferito che quattro forti esplosioni sono state avvertite vicino Damasco, dove sarebbe stato colpito il nascondiglio di armi.
Le forze armate israeliane non hanno né confermato né smentito la notizia, come di solito fanno in questi casi. Hezbollah ha invece confermato.
Durante la guerra civile in Siria Israele ha colpito più volte postazioni e convogli degli sciiti libanesi, una delle colonne del fronte internazionale guidato dall'Iran che combatte al fianco di Assad contro ribelli e gruppi estremisti islamici.
Nei giorni scorsi quattro miliziani dell'Isis sono stati uccisi dall'esercito israeliano dopo l'attacco a una pattuglia dello stato ebraico sulle alture del Golan, in quello che è considerato il primo scontro diretto con il sedicente Stato islamico.
Sebbene la maggioranza dei politici israeliani inizialmente si sia rallegrata dei guai del presidente siriano Bashar al-Assad — alleato e finanziatore di Hezbollah, che ha centinaia di missili schierati al confine con Gerusalemme —, l'opinione pubblica israeliana è preoccupata per l'instabilità della regione.

(The Post Internazionale, 30 novembre 2016)


Paraguay, tra i terroristi amici dei narcos

A Ciudad Del Este dove Hezbollah ricicla il denaro sporco dei trafficanti di droga

di Emanuele Ottolenghi

A Ciudad Del Este vengono venduti prodotti di marca a prezzi bassissimi, oltre a sigarette di contrabbando e droga
Oltre il ponte tra Foz do Iguaçu e il Paraguay si apre la zona franca di Ciudad Del Este. In pochi isolati grandi gallerie commerciali vendono prodotti di marca a prezzi irrisori. Le vie pullulano di cambiavalute e ambulanti che vendono merci contraffatte. Benvenuti nella capitale sudamericana del contrabbando frontaliero e del narcotraffico, per i quali l'organizzazione terrorista libanese di Hezbollah ricicla denaro sporco.
   Washington ha colpito molti suoi finanziatori con sanzioni, ma con scarso effetto. Le loro attività coprono tutta la frontiera tra Brasile e Paraguay, complici istituzioni corrotte, forze di polizia con poche risorse, doganieri prezzolati e un vasto territorio poco popolato dove i traffici illeciti la fanno da padroni. A nord di Foz le sigarette prodotte dalla Tabesa, la manifatturiera del presidente paraguayano Horacio Cartes, sono contrabbandate sul fiume che separa i due Paesi. A ovest del fiume passano marijuana e cocaina lungo tutta la frontiera fino a Ponta Porã.
   La polizia brasiliana è impegnata in una feroce lotta contro i narcotrafficanti. Si fermano i carichi ma non se ne arresta mai il flusso, sostenuto da società che consumano la droga per divertirsi, senza dar peso al devastante impatto di violenza e corruzione che il traffico ha su questi luoghi. E qui entra in gioco Hezbollah. La comunità libanese sciita qui conta 50.000 immigrati. Stanno principalmente tra Ciudad del Este e Foz dove hanno due scuole e due moschee. Nelle aule e sale di preghiera campeggiano foto dell'Imam Khomeini, il defunto leader della rivoluzione iraniana. I ragazzi sono indottrinati dal movimento degli scouts Al-Mahdi di Hezbollah e dagli imam dell'organizzazione. Ma i libanesi sono anche a Ponta Porã, varco della cocaina, dove la locale moschea ha documentati legami con Mohsen Rabbani, l'imam iraniano ricercato per la strage del 1994 contro il centro ebraico di Buenos Aires.
   Il giro di denaro dei traffici illeciti alimenta la corruzione e la violenza che permettono a droga e sigarette di giungere ai loro consumatori. Hezbollah aiuta a riciclarne i proventi miliardari immettendoli nel sistema bancario internazionale grazie a una sofisticata rete dislocata lungo la frontiera, che include università private, grandi magazzini, cambiavalute e improbabili investimenti immobiliari di lusso in una delle zone più povere dell'America Latina.
   Gli strumenti del riciclaggio sono incongrui con la miseria del paesaggio circostante. Gli immensi centri commerciali della zona farebbero invidia ai nostri outlet. Tutto si trova a prezzi stracciati come le magliette Lacoste fatte in Perù che costano la metà che in Europa. Ma ci sono pochi clienti e per quanto bassi, i prezzi sono comunque fuori della portata dei più. Le autorità ritengono che gli outlet siano usati per riciclare denaro sporco dei narcos. A farla da padrone nei commerci sono i libanesi, attraverso le cui attività, sostiene il tesoro Usa, si riciclano miliardi, con una sostanziosa commissione per Hezbollah.
   Non mancano gli indizi. Un'inchiesta per riciclaggio di un miliardo e duecento milioni di dollari implica un noto impresario libanese di Ciudad Del Este legato a Hezbollah, che nel 2015 accompagnò il presidente della Camera dei deputati del Paraguay in visita ufficiale in Libano. Il viaggio incluse incontri con clero e parlamentari di Hezbollah. Un progetto per un centro commerciale dove soci erano libanesi della zona e un barone locale della droga recentemente trucidato da una banda rivale. E numerosi casi di evasione fiscale, contraffazione di marche, e arresti in flagrante per droga che coinvolgono la comunità sciita locale. «Hezbollah controlla il Paranà», sostiene il capo di una stazione di polizia della zona, mentre il Primeiro Comando de la Capital, un'organizzazione criminale brasiliana, «controlla la frontiera secca». Il Pcc gestisce il servizio di trasporto dei traffici illeciti, Hezbollah offre i servizi finanziari. Una cosa è certa. In un Paese dove il Presidente produce le sigarette poi contrabbandate, si commerciano principalmente merci contraffatte, i politici si fanno ospitare dagli alti vertici di Hezbollah e l'economia di frontiera si fonda quasi esclusivamente sui traffici illeciti, è difficile credere che le autorità locali dispongano della volontà di cambiare le cose.

(La Stampa, 30 novembre 2016)


Il Consolato d'Italia a Gerusalemme contribuisce alla ripresa in Umbria

In occasione della Prima Settimana della Cucina Italiana nel Mondo.

GERUSALEMME - In occasione della Prima Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, il Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme ha deciso di contribuire a sostenere la ripresa dei territori umbri duramente colpiti dal sisma. Lo ha annunciato lo stesso Consolato spiegando che tra gli sponsor dei molti eventi organizzati a Gerusalemme e a Ramallah, in Cisgiordania, "spicca, tra gli altri, la presenza del Gruppo Grifo alimentare, la più grande cooperativa di produttori agricoli umbra, con sede a Perugia e caseifici in Valnerina (a Norcia e Colfiorito gli stabilimenti più grandi)". Le manifestazioni - ha aggiunto il Consolato - prevedono presentazioni di prodotti "in serate di degustazione apprezzate da un folto pubblico e in alcuni piatti preparati da Chef d'alto livello giunti dall'Italia". Il coinvolgimento del gruppo italiano, che si affianca per l'intera Settimana a diversi altri sponsor, "rientra nello sforzo per il pronto rilancio delle attività economiche del centro Italia, anche attraverso l'internazionalizzazione di importanti marchi".
La Settimana della Cucina Italiana, promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, dal Ministero delle Politiche Ambientali Agricole e Forestali, dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e da altri enti pubblici e privati in oltre 100 Paesi, prosegue in questi giorni - ha ricordato il Consolato - "con cene preparate da cuochi nostrani prestati a rinomati ristoranti di Gerusalemme e Ramallah, e con numerose altre attività, tra cui proiezioni cinematografiche e corsi sulla ricetta della pizza".

(ANSAmed, 30 novembre 2016)


Il calcio di Shabbat: un autentico autogol

L'irrisolta questione delle partite di pallone giocate in Israele nel giorno del riposo.

di Luca D'Ammando

 
Il calcio al tempo dello Shabbat è molto più che una questione sportiva in Israele. Diritti televisivi, pianificazione logistica e disponibilità degli stadi hanno creato da anni un corto circuito per giocatori e tifosi: il sabato si può scendere in campo? Si può andare sugli spalti? D'altra parte il tema è di stretta attualità politica, dopo che a settembre il premier Benjamin Netanyahu ha subito critiche e un calo negli indici di gradimento per le ripercussioni di una lite avuta col ministro dei trasporti Israel Katz sull'opportunità di svolgere lavori urgenti di manutenzione alle ferrovie durante il riposo sabbatico.
   Già all'inizio dello scorso campionato la questione si era posta in maniera drastica e l'avvocato dello Stato, Yehuda Weinstein, aveva stabilito che «nessuno può essere legalmente perseguito perchè gioca a calcio di sabato» nonostante una sentenza del Tribunale del Lavoro andasse nel senso opposto. Ora il campionato è ricominciato e il problema si pone di nuovo. Soprattutto per i tifosi, costretti a lasciare lo stadio prima della conclusione delle gare per rispettare i dettami del sabato ebraico, che inizia esattamente al tramonto del venerdì. Storicamente, il governo calcistico israeliano ha spinto per far disputare le gare di sabato, contrastato dai calciatori che non volevano scegliere tra la santità del sabato e i loro obblighi nei confronti dei club di appartenenza. Tra giudici che chiedevano al governo di validare deroghe e tentennamenti politici, la questione è rimasta irrisolta. Poi, dalla scorsa stagione, la Professional Football League israeliana, che è a capo delle prime due divisioni del Paese, ha stretto accordi con una televisione per trasmettere le partite di campionato in alcune finestre ben precise, una delle quali comincia appunto il venerdì alle 15. Le ricadute di tali scelte sono, tuttavia, più complesse: cominciare le gare in quell'orario, soprattutto in inverno, significa correre il rischio di far coincidere pericolosamente le gare con l'arrivo del tramonto. Per molti appassionati che non guidano o utilizzano energia elettrica durante lo Shabbat, telefoni cellulari compresi, tornare a casa richiede spesso l'uscita anticipata dallo stadio.
   Oltre alle tifoserie, ci sono i casi di calciatori come Guy Dayan, centrocampista dell'Hapoel Acre, che si professa religioso e osservante ma che difende la scelta di giocare durante lo Shabbat. «Per me è solo un lavoro che mi permette di provvedere alla mia famiglia», ha spiegato. È di certo un'evoluzione rispetto a vent'anni prima, quando «i calciatori estremamente religiosi avrebbero deciso di smettere, o avrebbero giocato soltanto in club di terza divisione, dove non si scende in campo durante lo Shabbat».
   A ciò si aggiunge un altro elemento: il numero di ebrei altamente religiosi a prendere parte alle gare è in continua crescita. Dov Lipman, ex membro del parlamento israeliano che ha lavorato per colmare i divari culturali tra ebrei osservanti e laici, ritiene che questo gruppo stia spingendo per una rivalutazione del concetto stabilito secondo cui gli sport competitivi siano principalmente sotto il dominio degli israeliani laici. In passato, gli ebrei religiosi hanno spesso scoraggiato i loro figli a partecipare a sport organizzati a causa degli inevitabili conflitti con il sabato. «Ma quel gruppo sta rivalutando la questione, perché vogliono essere coinvolti», ha spiegato Lipman. Si sta lavorando per pianificare più gare di domenica, una giornata lavorativa e giorno di scuola in Israele, ma significherebbe considerarlo come un secondo giorno di riposo per l'intera società israeliana, una questione tutt'altro che semplice.
   Sul tema è intervenuto tempo fa anche il capo dello Stato Reuven Rivlin - gran tifoso del Beitar Jerusalem - auspicando una soluzione condivisa sulla questione e difendendo il vigente status quo fra laici ed osservanti, in base al quale «i laici in Israele di sabato vanno al mattino in sinagoga e più tardi allo stadio». Sembrerebbe solo una questione di pallone, non lo è.

(Shalom, novembre 2016)


Faida in Palestina. Dahlan dall'esilio insidia Abu Mazen

Resa dei conti al congresso del Fatah

di Davide Frattlnl

GERUSALEMME - Lungo le quattro rampe che fanno da sentiero in salita i curatori del mito hanno raccolto la keffiah bianca e nera, il revolver nella fondina di cuoio, i diari con le annotazioni fitte. Al costo di 7 milioni di dollari, il museo celebra Yasser Arafat e quasi dimentica il suo successore: Abu Mazen appare in qualche foto, quelle in cui cancellarlo si sarebbe notato troppo. Il palazzo inaugurato poche settimane fa commemora il leader scomparso nel 2004 e l'unità palestinese che se n'è andata con lui.
   L'edificio è stato costruito dentro il recinto della Muqata, dove Arafat ha vissuto gli ultimi 34 mesi circondato dalle macerie e dai carrarmati israeliani, «il campo della sua battaglia finale» come racconta la guida. Dietro queste stesse mura, Abu Mazen combatte da ieri la sua di battaglia finale. Per la prima volta in sette anni ha deciso di convocare il congresso del Fatah: il partito fondato da Arafat e che ha dominato la politica palestinese è sempre più agitato, diviso tra vecchia e nuova guardia, tra chi considera Abu Mazen il garante della continuità e chi lo accusa di essere diventato un dittatore. Che ha cancellato a ripetizione le elezioni e che a lungo ha rinviato anche questo confronto con gli oppositori interni.
   I 1.400 delegati lo hanno già rivotato presidente del partito, un gesto scontato di rispetto per poter affrontare nei prossimi quattro giorni le sfide per il potere con l'elezione del comitato centrale. Dall'assemblea dovrebbe uscire anche il nome di un vicepresidente, un numero due pronto a prendere il controllo se Abu Mazen - 81 anni, gran fumatore nonostante i problemi di cuore - dovesse cedere. Perché la legge prevederebbe che l'incarico passi ad Aziz Dwaik, il presidente del parlamento: sta in un carcere israeliano e soprattutto è un capo di Hamas. I fondamentalisti spadroneggiano nella Striscia Gaza e hanno preferito mandare a Ramallah i cimeli da esibire nel museo ( come la medaglia per il Nobel per la pace ricevuta da Arafat) che lasciarci andare i rappresentanti di Fatah.
   All'assemblea non è stato invitato Mohammed Dahlan, che la segue a oltre duemila chilometri di distanza, dall'esilio milionario negli Emirati Arabi. Il fisico asciutto di chi si allena go minuti ogni giorno, l'ex uomo forte dei servizi segreti non può ritornare in Cisgiordania da 5 anni. Abu Mazen lo accusa di tradimento, di complottare per deporlo, a Ramallah rischierebbe l'arresto.
   Eppure i Paesi del Golfo che lo ospitano e le altre nazioni arabe hanno puntato su di lui. «Lo so che Abu Mazen è spaventato, ha paura che Mohammed Dahlan ritorni», ha detto parlando di sé in terza persona al quotidiano New York Times. «Perché spaventato? Perché sa quello che ha combinato in questi dieci anni e lui sa che io so».
   Ripete di non voler diventare presidente, ammette di voler avere un ruolo nel dopo Abu Mazen, anche se significa lasciare il lusso di Abu Dhabi e i tuffi all'alba nella piscina della sua villa. Una di quelle vasche infinity dove l'acqua tracima, all'apparenza senza bordo: così si è comportato il raìs secondo Dahlan, ha oltrepassato i limiti, «ha trasformato quel che resta dell'Autorità in una macchina per il controllo, ci sono segnali che stiamo diventando come il regime di Bashar Assad o quello di Saddam Hussein».
   I leader arabi sanno che Dahlan non è popolare in Cisgiordania e propongono una condivisione del potere: il presidente simbolo potrebbe essere Marwan Barghouti, che sta scontando cinque ergastoli con l'accusa di essere coinvolto negli omicidi di cinque israeliani, ed è considerato dai palestinesi l'erede di Yasser Arafat.

(Corriere della Sera, 30 novembre 2016)


Mahmud Abbas succede a se stesso. Resta alla guida del Fatah per altri cinque anni

Mahmud Abbas , meglio noto come Abu Mazen , è stato rieletto alla testa del Fatah . A Ramallah, i delegati del principale partito palestinese lo hanno rieletto all'unanimità. È anche vero che era l'unico candidato per succedere a se stesso.
Mahmud Abbas , 81 anni, è anche presidente dell' Autorità palestinese dal 2005. Questo il suo messaggio al partito: Il Fatah resterà il partito dominante e la sua crescita non si fermerà fino a che non avrà raggiunto il suo scopo, ossia, la liberazione e l'indipendenza, uno stato indipendente e sovrano.

 Delfino di Arafat, elezioni un miraggio
  Successore di Yasser Arafat dal 2004 alla guida del partito, il mandato di Abbas alla presidenza è scaduto dal 2009. Da allora i palestinesi aspettano sempre la tenuta di elezioni in Cisgiordania.
In seguito a ciò, l'altra entità autonoma palestinese, la striscia di Gaza , ha riconosciuto come presidente Abdal Aziz Duwayk .
Abbas è invece riconosciuto dal Governo della Cisgiordania, dall'Onu e dagli Stati che riconoscono l'indipendenza palestinese.

(euronews, 29 novembre 2016)


Bari - In visita ufficiale l’ambasciatore israeliano Ofer Sachs

ROMA - Nominato meno di sei mesi fa, l'Ambasciatore israeliano Ofer Sachs sarà per la prima volta in visita ufficiale al Sud. Dopo essere stato in Veneto, a Venezia, e in Lombardia, a Milano, l'Ambasciatore ha scelto la Puglia e Bari per incontrare le istituzioni e gli imprenditori per consolidare rapporti di amicizia e avviare nuove relazioni imprenditoriali. Nel suo tour barese sarà accompagnato dal console onorario, Luigi De Santis (unico console onorario di Israele in Italia). L'Ambasciatore Sachs è già a Bari per incontri volti alla conoscenza del tessuto imprenditoriale locale. Domani, mercoledì 30 novembre, l'Ambasciatore Sachs incontrerà le Istituzioni locali: il sindaco ing. Antonio Decaro; il prefetto S.E. Carmela Pagano; il presidente della Regione dott. Michele Emiliano; il rettore del Politecnico di Bari prof. Eugenio Di Sciascio (il Politecnico pugliese collabora con quello di Haifa per progetti innovativi). Ci sarà spazio anche per un incontro con Confindustria Bari e Bat. L'Ambasciatore Sachs sarà per l'occasione accompagnato non solo dal console De Santis, ma anche dal Ministro consigliere per gli Affari Economici, Olga Dolburt. L'intento è, infatti, quello di incrementare ulteriormente le opportunità di scambio e cooperazione tra lo Stato di Israele e la Regione Puglia, in settori di mutuo interesse per entrambe le parti, quali la collaborazione economica, produttiva e scientifica. A questo proposito una società barese racconterà la sua consolidata esperienza di partnership con un'azienda israeliana.

(Prima Pagina News, 29 novembre 2016)


Israele - Dibattito sul diritto internazionale e il ricorso alle forze militari di terra

GERUSALEMME - Il quotidiano "Jerusalem Post" dedica un approfondimento alle implicazioni legali del ricorso israeliano alle forze armate di terra, e le critiche della Nazioni Unite a pratiche adottate dalle forze israeliane come il lancio di missili senza testata esplosiva a mo' di colpi d'avvertimento ("roof knocking"). Noam Neuman, direttore del dipartimento di diritto Internazionale delle Forze di difesa israeliane, ha fornito proprio di recente un punto di vista su come l'esercito determini i propri obblighi di diritto internazionale in situazioni complesse che richiedono l'impiego di forze terrestri. Parlando a una conferenza dell'Hebrew University promossa dal Minerva Center, Neuman ha sottolineato che mentre la maggior parte del diritto internazionale contemporaneo dibatte circa l'impiego della forze aeree e dei droni, Israele si trova a far fronte a criticità di natura differente. Neuman ha illustrato diversi strumenti che compongono l'armamentario dell'Esercito israeliano - come granate, fucili d'assalto e carri armati - e le sfide legali specifiche poste da ciascuno di essi in relazione a sfide particolari, come le irruzioni in edifici privati e la bonifica di trappole esplosive. Il funzionario ha illustrato anche i dettagli di pratiche come l'irruzione e l'occultamento tramite fumogeni: tutte pratiche che costituiscono la base dell'addestramento dei reparti di terra, ma che assumono una rilevanza e rischi particolari in teatri ad alta densità di civili come quelli in cui si trovano ad operare i militari israeliani.

(Agenzia Nova, 29 novembre 2016)


Ebrei italiani valutano Trump

Il prossimo presidente americano visto dalla comunità ebraica

di Massimo Predieri

Il Caffè Settembrini
In una mite domenica di novembre siedo al Caffè Settembrini a Roma con l'amico di lunga data Pierre Levy, imprenditore italiano e ebreo di origine tripolina, per sentire cosa ne pensa del successo di Trump alle elezione negli Stati Uniti. Mi parla della diversità delle posizioni politiche degli ebrei che vivono a Roma e dell'assenza di una posizione condivisa. Tuttavia i commenti sarebbero generalmente positivi a causa delle dichiarazioni di vicinanza a Israele più volte ribadita in campagna elettorale dal prossimo presidente americano.

- Come è stata la reazione della comunità ebraica italiana all'elezione di Trump, prevalentemente positiva o prevalentemente negativa?
  Nella nostra comunità ebraica non credo che vi siano due persone che la pensano allo stesso modo. A parte le posizioni ufficiali, i principali commenti che ho sentito sono positivi. Le dichiarazioni di vicinanza a Israele sono chiaramente molto sentite nella comunità, al di là del pensiero politico individuale. Io personalmente ero più favorevole alla posizione politica e culturale della Clinton.
Come imprenditore vedo negativamente gli annunciati progetti di chiusura isolazionista, una politica demagogica anti-globalista. La globalizzazione ormai c'è, con i suoi mezzi di informazione, i trasporti veloci, le reti di informazione, non la puoi fermare, non puoi chiudere Internet o Twitter.

- Alcuni osservatori hanno fatto notare una apparente contraddizione tra il sostegno ricevuto da Trump da una parte della comunità ebraica americana (il 24% dei voti) e il sospetto di xenofobia e antisemitismo di alcuni suoi sostenitori. In particolare Stephen Bannon, futuro capo stratega alla Casa Bianca, non ha mai nascosto le sue posizioni neo-liberiste e pro-Israele, ma è anche accusato di essere razzista e antisemita, anti-europeo, favorevole al Brexit ed ammiratore di Marine Le Pen. Sul notiziario online ebreo di orientamento socialista Forward la giornalista Naomi Zeveloff accusa Steve Bannon di essere Pro-Israele e antisemita. Si può essere le due cose contemporaneamente?
  Prima di qualche giorno fa non avevo mai sentito nominare Bannon. Le informazioni sono molto contrastanti, nella stampa israeliana, per esempio, non viene evidenziato questo antisemitismo di Bannon, come in quella europea. Queste contraddizioni sono comprensibili; tutta la campagna elettorale negli USA è stata caratterizzata da false informazioni utilizzate da tutte le parti, portando alla mistificazione della politica e del profilo dei candidati. Si dice anche che Bannon abbia tra i suoi soci degli ebrei. Non avendo tuttavia degli elementi per valutare il personaggio, per me è difficile dare un giudizio personale, riporto solo quello che ho sentito. C'è un dibattito abbastanza acceso tra chi lo osteggia e chi invece lo appoggia, sostenendo che è molto amico di Israele.
  Non credo che sia possibile essere contemporaneamente pro-Israele e antisemita, è più probabile il contrario: c'è chi è anti israeliano per non essere apertamente antisemita, che non è politically correct.

- Anche in Italia cresce il sentimento di ostilità verso l'immigrazione dai paesi mussulmani. Quali soluzioni concrete vengono discusse nella comunità ebraica?
  C'è ovviamente un atteggiamento di preoccupazione e diffidenza verso gli islamici, soprattutto nella componente della comunità ebraica che proviene dagli oltre 800.000 ebrei cacciati dai paesi arabi dal 1948 in poi. Ci sono tuttavia tanti ebrei che hanno amici mussulmani, credo che prevalga un atteggiamento di tolleranza. Io personalmente temo gli atteggiamenti di razzismo troppo ostili, perché non sai dove vanno a finire. Oggi magari prevale essere anti-islamico, poi può sfociare in antisemitismo, razzismo.
  Ricordiamo che inizialmente Mussolini aveva fatto approvare delle leggi favorevoli agli ebrei, con una tassa da versare alla comunità di appartenenza (ndr: una specie di tassa ecclesiastica), che favoriva l'indipendenza e l'autonomia di queste comunità. Poi sappiamo come è andata a finire. Tolta una certa corrente di destra oltranzista, credo che prevalga nella nostra comunità ebraica un atteggiamento di tolleranza e spesso anche di amicizia verso i mussulmani.

- La comunità ebraica italiana ha forti legami con lo stato di Israele. Cosa la preoccupa di più: le minacce all'integrità di Israele o il ritorno dell'antisemitismo in Europa?
  Oggi il pensiero prevalente è che se non ci fosse Israele a difendere gli ebrei nel mondo, questi non ci sarebbero più. Le due cose sono unite. L'esistenza di uno stato che si fa rispettare perlomeno ci dà la sensazione che qualcuno ci possa difendere. C'è in noi un legame molto forte con Israele: storico, culturale e sentimentale. Naturalmente siamo cittadini italiani, ma con una religione che nei momenti peggiori della storia è stata causa di persecuzione. La nostra comunità è composta da circa 35 mila persone in Italia, che sono italiani e partecipano attivamente alla società civile in quanto italiani.

(italiani, 29 novembre 2016)


Fatah apre il suo Congresso: il primo da sette anni

Con obiettivo di rinnovare vertici e rafforzare Abu Mazen

 
Mohammed Dahlan e Mahmoud Abbas
Mohammed Dahlan
RAMALLAH - Il partito al Fatah, principale movimento politico palestinese, si riunisce oggi nel suo primo congresso in sette anni per tentare di serrare i ranghi attorno al presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), sempre più indebolito dalla contestazione popolare e interna. Momento principale del congresso sarà l'elezione, a partire da venerdì, del nuovo direttivo, il Consiglio rivoluzionario - 80 membri eletti e una quarantina nominati - e il Comitato centrale, con i suoi 18 membri eletti e quattro nominati dal presidente.
I risultati delle elezioni forniranno idee più chiare sulle differenti correnti interne ad al Fatah, partito segnato da divisioni anche profonde. Il principale gruppo dissidente, strenuo avversario di Abu Mazen, fa capo a Mohammed Dahlan, che vive in esilio negli Emirati arabi uniti.
   Per Jibril Rajoub, membro del Comitato Centrale e difensore accanito dello sport palestinese, questo Congresso dovrebbe prima consentire di rivedere a fondo l'organizzazione del movimento, fondato nel 1959. "Il sistema degli anni '60 non può più funzionare nel 2016", ha commentato. "Dobbiamo tenere in considerazione le circostanze attuali: il sistema è stato creato quando eravamo nella diaspora e ora siamo sul territorio nazionale, è stato istituito per un passo rivoluzionario, ora abbiamo uno Stato", ha insistito.
Queste elezioni permetteranno di "scegliere i leader per il prossimo passo", ha detto all'Afp il numero due dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Saeb Erekat, che sarà uno dei candidati per un nuovo mandato nel Comitato Centrale. Fatah è la "spina dorsale" dell'Olp, l'entità riconosciuta a livello internazionale come rappresentante dei palestinesi, ha ricordato da parte sua Wasel Abu Yousef, membro della direzione dell'Olp, legato al Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
   Obiettivo del Congresso, ha detto invece Mahmud Abu al-Hija, portavoce di Fatah, è quello di determinare "cosa fare" di fronte a "un orizzonte politico bloccato e una situazione di stallo nei negoziati". Fatah evocherà inoltre le varie iniziative di pace proposte dalla Francia e dai Paesi arabi, e l'eventuale presa di posizione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla politica coloniale israeliana che continua a rosicchiare terreno ai Territori occupati.
   Nel suo discorso di apertura, previsto per le 17 italiane, Abu Mazen affronterà tutti questi argomenti e dovrebbe fare cenno anche alle divisioni tra l'Autorità palestinese, che controlla la Cisgiordania, e Hamas, che governa la Striscia di Gaza impedendo lo svolgimento di elezioni da dieci anni.

(askanews, 29 novembre 2016)


Il silenzio italiano sull'intifada degli incendi in Israele

Lettera al direttore di La Stampa

Egregio Direttore,
in qualità di rappresentante e cofondatore di The Italian Council for a Beautiful Israel, associazione ambientalista israelo-italiana, permetta che esprima sconcerto e indignazione per il silenzio che in questi giorni ascolto con preoccupazione da parte delle diverse associazioni ambientaliste italiane su questa nuova forma di terrorismo che in Israele sta colpendo la natura e l'ambiente attraverso incendi che distruggono alberi e giardini. Eravamo abituati a vedere i nemici della pace e della convivenza mandare i propri figli a farsi esplodere nelle discoteche o nei ristoranti, con il solo scopo di provocare quanta più distruzione e dolore fosse possibile tra i cittadini israeliani e in Europa tra i cosiddetti infedeli e quindi oggi non deve stupirei che la nuova vittima del terrorismo palestinese sia proprio la natura, duramente colpita dall'intifada degli incendi, in un Paese dove la difesa dell'ambiente è da sempre un valore con significativi risvolti concreti. Quello che ci stupisce dunque è che le organizzazioni italiane che dovrebbero tutelare l'ambiente non abbiano alzato la propria voce di condanna, lasciandoci pensare che se è Israele a essere colpita, i valori e gli Ideali Ecologisti Possono Essere Trascurati. Come Giudicare Tale Faziosità?
Alberto Sonnino
(La Stampa, 29 novembre 2016)


In realtà, questa volta la cosa non sembra così netta. Da una parte le stesse autorità israeliane parlano di un concorso di fatti accidentali e azioni terroristiche, dall'altra l'atteggiamento dei non israeliani non è stato così nettamente negativo come in altri casi. Israele ha chiesto aiuto e in qualche misura, forse giudicata scarsa, l'ha ottenuto, perfino dall'Autorità Palestinese. E Netanyahu ha anche ringraziato per questo. Chi ha detto che il terremoto in Italia è avvenuto in risposta all'atteggiamento avuto nell'Unesco, dovrà chiedersi a che cosa è dovuto il verificarsi di questi incendi in Israele. Tirare in ballo Dio in questi casi è sempre rischioso, ma almeno nel caso di Israele non volerlo mai fare è altrettanto rischioso. Perché Dio c'è. E contrariamente a quello che dicono i deisti gentili della scienza e i deisti ebrei della Torah, Dio non si è ritirato nei suoi uffici per lasciare agli uomini di sbrigarsela in qualche modo fra di loro. Dio non solo c'è, ma anche regna e parla. "Chi ha orecchi per udire oda" (Matteo 13:43). M.C.


Nate quattro volpi del deserto al Centro Zoologico di Tel Aviv-Ramat Gan

È di nuovo festa al Centro Zoologico di Tel Aviv-Ramat Gan, dove sono venute alla luce quattro fennecs fox, note come volpi del deserto. Dopo la nascita di un rinoceronte e una giraffa fra agosto e settembre 2016, il Centro Zoologico ha annunciato questo nuovo evento, che in realtà è datato due mesi fa.
Evento molto lieto perché in Israele questa specie animale è estinta. I genitori dei nuovi arrivati, Penny e Louie, sono stati portati nel paese rispettivamente da Regno Unito e Francia e fanno parte di un programma di allevamento internazionale per aiutare la volpe a crescere in cattività. Alcune specie sono considerate in via di estinzione, soprattutto a causa della caccia per la loro pelliccia rossastra.
Il fennec o volpe del deserto è il più piccolo canide del mondo e in età adulta pesa tra i 680 grammi e 1,59 chilogrammi e misura 24-41 centimetri. La sua altezza è di circa 20 centimetri. Caratteristiche di questi animali che vivono nel deserto nordafricano sono enormi orecchie a forma di pipistrello, che occorrono per disperdere il calore e permettono di possedere un ottimo udito.
Le volpi del deserto vivono in gruppi composti da 10-12 esemplari e conducono una vita notturna, durante il giorno si riparano dal caldo e dal sole all'interno della loro tana sotterranea.
Sono molto curiose e intelligenti e vengono chiamato dai nomadi "folletti del deserto" per la loro abitudine a scomparire di colpo in una delle sue lunghe gallerie sotto la sabbia.

(Israel Cool, 29 novembre 2016)


La Norma di Bellini pronta a deliziare il pubblico israeliano

Nuovo allestimento a Tel Aviv della Norma di Vincenzo Bellini, opera che debuttò al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre del 1831. L'appuntamento è a partire dal 30 novembre - con repliche fino al 17 dicembre - presso la Tel Aviv Performing Arts Center, sede dell'Israeli Opera, che promuove la serata insieme all'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv. "Incentrata sulla protagonista, l'opera divenne il cavallo di battaglia di alcuni grandi soprani del passato, tra cui Maria Callas, Joan Sutherland e Montserrat Caballé - si legge nella nota di presentazione dell'Istituto Italiano di Cultura -. Il soggetto è ambientato nelle Gallie, al tempo dell'Impero Romano, e presenta espliciti legami con il mito di Medea".

SCHEDA - IL CAST
Orchestra dell'Opera - The Israel Symphony Orchestra Rishon LeZion; Direttore: Daniel Oren; Regista: Alberto Fassini; Revival Director: Vittorio Borrelli; Scenografia: William Orlandi; Luci: Andrea Anfossi; Revival Lighting Designer: Vladi Spigarolo; Solisti: Norma - Hrachuhi Bassenz, Maria, Pia Piscitelli, Ira Bertman; Pollione - Gustavo Porta; Adalgisa - Daniela Barcellona; Oroveso - Carlo Striulli, Vladimir Braun; Clotilde - Anat Czarny.

(9 colonne, 29 novembre 2016)


Piemonte Kibbutz: quando gli ebrei sfuggiti ai lager trovarono a Torino una casa

Un primo passo per tentare di raggiungere la Palestina

di Federico Callegaro

 
 
TORINO - Displaced Persons: persone «spostate», da inserire in un nuovo contesto. E' con questa definizione, coniata dagli Alleati dopo la fine della guerra, che verranno identificati più di 30 mila ebrei provenienti da nazioni diverse ma con in comune due cose: quella di essere arrivati in Italia da Germania, Austria e Polonia e quella di essere sfuggiti alla morte dopo lunghi periodi di prigionia nei campi di concentramento tedeschi.
La loro storia inizia subito dopo che la storiografia cessa di interessarsi agli eventi che li riguardano direttamente, ovvero subito dopo lo svuotamento dei lager nazisti. Questo grande flusso di uomini, donne e bambini, in fuga da un passato che volevano dimenticare, finiranno per transitare dal nostro Paese per raggiungere la Palestina. Durante l'ultimo periodo degli anni '40, infatti, saranno così tanti quelli che sceglieranno l'Italia come via privilegiata per raggiungere il mare che Mario Toscano, uno dei primi studiosi del fenomeno, coniò per lo stivale la definizione di «porta di Sion». Da questa dinamica non si sottrassero le città piemontesi: campi di profughi ebrei nacquero a Rivoli e a Grugliasco, mentre nella campagna intorno a Torino sorsero anche i kibbutz. Colonie agricole in cui si viveva di agricoltura, con una visione comunitaria del tempo e dei mezzi che doveva anticipare e servire a formare per quello che poi sarebbe stato il futuro in Palestina.
«Sono duemila o poco più; vengono dall'Australia e dalla Germania ma non sono tedeschi e austriaci soltanto: appartengono a varie nazionalità e fuggono da vari paesi. Fuggono in cerca da un luogo migliore; lasciare quei posti che videro le loro sventure significa forse per essi la possibilità di dimenticare».
Arrivare in Palestina, però, è illegale e chi ci prova diventa un clandestino. Le autorità inglesi, infatti, nel corso del 1947 impediscono anche con la forza ai profughi ebrei di attraversare il mare. Succede per esempio alla nave Exodus che viene mitragliata e costretta a invertire la rotta. Le persone fermate a bordo, poi, vengono internati per punizione a Bergen Belsen, luogo già tristemente noto durante il nazismo. Un vero e proprio affronto anche simbolico che i profughi dei campi piemontesi non accettano e a cui rispondono con lo sciopero della fame. Ma c'è chi non si limita a quello. Nel corso del biennio '46 '47 vengono compiuti alcuni atti dimostrativi e diffusi volantini contro gli inglesi. I più attivi in questo senso sono gli appartenenti all'Irgun Zvai Leumi, una sorta di organizzazione indipendentista.
«I kibbutz sono formati da qualche centinaio di ebrei che lavorano e studiano».

(La Stampa, 28 novembre 2016)


Israele teme che lo Stato islamico possa aprire un nuovo fronte nel Golan

GERUSALEMME - La schermaglia tra l'Esercito israeliano e la "brigata dei martiri Yarmouk", un gruppo affiliato allo Stato islamico, nel sud delle alture del Golan, si è concluso con un successo per le Forze di difesa israeliane, ma l'episodio costituisce un precedente preoccupante per Tel Aviv, che teme l'apertura di un fronte di conflitto permanente con i terroristi lungo il confine con la Siria. Lo riferisce un'analisi del quotidiano israeliano "Haaretz", che riporta le preoccupazioni dei vertici della Difesa israeliani. Se l'attrito nel Golan del sud si dovesse trasformare in routine, Israele potrebbe trovarsi in pericolo. L'incidente è avvenuto domenica mattina, ed è iniziato con un agguato di miliziani del gruppo terrorista a una unità di ricognizione del battaglione Golani lungo il confine del Golan. La zona è sotto il controllo israeliano; in alcuni punti la recinzione è posizionata infatti a ovest del confine, in modo da dare alle forze israeliane una posizione di vantaggio in termini di altezza rispetto a potenziali assalitori. Solo il futuro potrà chiarire se quello di ieri sia stato un episodio isolato, o il primo segnale di una offensiva terroristica nel Golan del sud, zona in cui Israele ha saputo mantenere la calma in questi ultimi anni di guerra civile in Siria.

(Agenzia Nova, 28 novembre 2016)


Teva lancia sul mercato israeliano un inalatore a base di cannabis medicale

Il prodotto per la gestione del dolore, nasce da una collaborazione con Syde Medical con sede a Tel Aviv. "L'inalatore è il mezzo più efficace per la somministrazione della pianta" ricorda l'azienda israeliana.

Arriva sul mercato israeliano un nuovo inalatore firmato Teva per la gestione del dolore, a base di cannabis medicinale. Il prodotto nasce da una collaborazione con Syde Medical con sede a Tel Aviv. In un comunicato stampa rilasciato oggi Teva ha ricordato come questa sia la prima volta in cui la cannabis medica è stata associata all'uso di un inalatore, "il mezzo più efficace per la somministrazione della pianta".
Teva commercializzerà e distribuirà in esclusiva in Israele l'inalatore sviluppato da Syde medical, che sarà disponibile per i pazienti non appena riceverà l'approvazione da parte del ministero della Salute locale.

(AboutPharma.com, 28 novembre 2016)


Israele - Modifica della normativa relativa all'etichettatura dei prodotti alimentari

Dopo mesi di trattative, il Comitato per la Regolamentazione e la Promozione della Sana Alimentazione del Ministero della Salute israeliano ha presentato un documento di raccomandazione per la modifica della normativa relativa all'etichettatura dei prodotti alimentari. Lo riporta il quotidiano economico Globes.
La nuova regolamentazione prevede che i produttori di alimenti dovranno riportare un marchio di avviso di colore rosso su tutti quei prodotti con un alto contenuto di zucchero, sale e grassi. Oltre a cio', le aziende saranno obbligate ad indicare quanti cucchiaini di zucchero sono contenuti in ciascun alimento.
Tali raccomandazioni saranno implementate gradualmente in tre diverse fasi a partire da gennaio 2018, luglio 2019 e dicembre 2020.
Il Direttore del Dipartimento dei Servizi della Sanita' Pubblica del Ministero della Salute, Prof. Itamar Grotto, ha dichiarato: Questa nuova regolamentazione rappresenta un vero e proprio punto di rottura con il passato. Sia in Europa che negli Stati Uniti e' ancora in fase di discussione. Per quanto ci riguarda stiamo valutando la possibilita' che ciascun ristorante riporti nei menu le calorie contenute per ciascuna pietanza. Negli Stati Uniti e' gia' in vigore e speriamo di raggiungere anche noi questo traguardo.
Queste modifiche della normativa agroalimentare vanno nella stessa direzione del trend generale di mercato che guarda ad alimenti sempre piu' sani o prodotti espressamente pensati per segmenti di consumatori particolari quali i celiaci o intolleranti al lattosio. Vegetarianismo e veganesimo, di cui Tel Aviv e' fra le capitali mondiali, rappresentano la cartina di tornasole di questa rinnovata attenzione per il cibo sano. (ICE TEL AVIV)

(Tribuna Economica, 28 novembre 2016)


Italia-Israele, "una miniera inesplorata di opportunità"

ROMA - Sono Paesi relativamente piccoli, ma creativi; hanno risorse intellettuali e capacità economiche; distano poco più di tre ore di volo l'uno dall'altro, eppure Italia e Israele non colgono le opportunità di business come potrebbero. Per questo, bisogna rompere gli schemi, andare oltre le consuetudini e convincere le imprese dei due Paesi a trovare modi di collaborare e creare benefici per entrambi. Ne è convinto il nuovo ambasciatore israeliano a Roma, Ofer Sachs, che mette l'accento sul grande potenziale ancora inespresso. "Abbiamo una cooperazione già molto buona nel campo della ricerca e dello sviluppo, con un fondo bilaterale e una collaborazione tra accademie. In Israele abbiamo una forte propensione per innovazione e start-up, ma la nostra capacità di creare grandi aziende e giocare un ruolo globale è sicuramente limitata, paragonata a quella italiana".

 Sfida è rompere gli schemi e trovare nuovi modi di collaborare
  Sachs è in carica a Roma da pochi mesi, dopo essere stato per anni alla guida dell'Istituto israeliano per l'export. "Ci sono molti modi per collaborare e questa è la sfida: spesso gli israeliani non guardano all'Italia come prima scelta, non perché manchino le occasioni - il Paese ne è ricco - ma si rivolgono alla loro comfort-zone, tradizionalmente gli Stati Uniti. Dobbiamo rompere questo paradigma e convincere entrambi a trovare modi di collaborare e creare reciproci benefici". Se con il tradizionale alleato le relazioni sono più immediate, con l'Italia "non siamo ancora così avanti ed è qualcosa su cui lavorare, perché il vostro è un Paese così ricco di capacità economiche da offrire di sicuro un'ampia area di collaborazione da sfruttare". Un obiettivo chiaro, quasi quanto la strategia. "Dobbiamo fare in modo che le persone si incontrino, che gli imprenditori si conoscano, aumentare la reciproca consapevolezza perché le similitudini culturali renderebbero i legami così facili. Una volta superate le barriere linguistiche, e questo è sicuramente un tema, possiamo avere una collaborazione straordinaria".

 Ondata di incendi in Israele, grazie all'Italia per il sostegno
   Intanto, i rapporti politici tra i due Paesi viaggiano sul filo dell'amicizia, come dimostrato anche la settimana scorsa in occasione dell'emergenza incendi che ha colpito Israele, con oltre 65mila persone costrette a lasciare le proprie case e grossi danni al territorio. Alla richiesta di aiuto lanciata dal premier Benjamin Netanyahu, il governo italiano ha risposto prontamente inviando due Canadair e dando il via libera alla Protezione civile per attivare quanto necessario a fornire supporto. Sachs non può non apprezzare la prontezza della mobilitazione e ha espresso un ringraziamento sentito. E' la prova che i rapporti non si sono incriminati dopo l'astensione italiana al voto su Gerusalemme Est all'Unesco il mese scorso. Tutt'altro, la reazione forte del premier Matteo Renzi, che definì la situazione "allucinante", fanno sperare - osserva l'ambasciatore - che "l'Italia in futuro prosegua" sulla stessa linea. "E' la sfida che abbiamo di fronte, vedere posizioni piu' equilibrate: non che tutti siano d'accordo con noi ma un dialogo equilibrato, o almeno un dialogo, e non reazioni in automatico, che qualche volta ignorano completamente scienza, storia e archeologia, come nel caso dell'Unesco".

(agi 28 novembre 2016)


Università Ebraica di Gerusalemme: Nasce Startup 360, un programma per studenti

L'Università Ebraica di Gerusalemme si appresta a lanciare una sorta di corso di specializzazione in Startup, come parte del suo programma Executive MBA.
Chiamato Start Up 360, è il primo programma del suo genere in qualsiasi istituzione accademica a livello globale - la specializzazione si propone di fornire agli studenti gli strumenti necessari per gestire e investire in startup. Gli studenti saranno guidati da docenti locali, esteri, e dalla ditta israeliana GKH Law Offices.
Il programma di studio prevede anche un vero e proprio processo di investimento, in cui i mentori del settore di Venture Capital, come JVP e OurCrowd, lavoreranno con gli studenti e insieme stanzieranno una somma totale di 2 milioni di dollari da investire in startup.
L'obiettivo della specializzazione è quello di dare agli studenti gli strumenti atti alla conoscenza degli ecosistemi di startup, all'interno del panorama israeliano e estero.
Il programma comprenderà docenti di Harvard, MIT, Northwestern e Duke, e partner di aziende tecnologiche internazionali come Google, Microsoft e Siemens.
Come annunciato dall'Università con un comunicato, e ripreso dal The Times Of Israel, Start Up 360 inizierà il prossimo anno accademico.

(SiliconWadi, 28 novembre 2016)


Raid israeliano contro l'Isis vicino al Golan

Primo scontro di Israele con l'Isis sulle alture del Golan. Gli islamisti attaccano una pattuglia, l'aviazione li colpisce

di Giordano Stabile

L'aviazione israeliana ha colpito una postazione dell'Isis in territorio siriano, vicino alle alture del Golan. Il raid ha preso di mira un compound che ospitava in passato il contingente della missione Onu e poi occupato dagli islamisti. Un numero imprecisato di terroristi è rimasto ucciso.
L'esercito israeliano ha specificato che il raid era in rappresaglia a un agguato teso ieri dai jihadisti a una pattuglia israeliana al confine, con colpi di mortaio e armi leggere. Non ci sono state vittime fra i militari ma l'attacco, il primo di questo genere, ha fatto salire l'allarme in Israele.
Il compound distrutto apparteneva alla United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF) ed era stato occupato dal gruppo Shuhada al-Yarmouk, cioè i Martiri di Yarmouk, un gruppo che ha giurato fedeltà all'Isis e opera in una stretta fascia di territorio al confine fra Siria e Israele.
Il ministero della Difesa israeliano ha specificato che l'attacco mira «a prevenire il ritorno dei terroristi nel compound, una minaccia seria nella regione». Già ieri un jet israeliano aveva distrutto un fuoristrada del gruppo Shuhada al-Yarmouk, quattro terroristi erano stati uccisi.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito che «non permetteremo che l'Isis si stabilisca sui nostri confini a causa della guerra in Siria».

(La Stampa, 28 novembre 2016)


Gas Leviathan - Partner israeliani ottengono 1,75 miliardi di dollari per la prima fase di sviluppo

GERUSALEMME - Il gruppo israeliano Delek, controllato dal magnate Yitzchak Teshuva, e la società Avner Oil, che insieme detengono il 45 per cento del giacimento di gas naturale offshore Leviathan, hanno ottenuto un prestito di 1,75 miliardi di dollari per il finanziamento delle attività di sviluppo del sito, il più grande scoperto finora al largo delle coste di Israele. I fondi, messi a disposizione da JpMorgan e dalla svizzera Hsbc, serviranno per finanziare la prima fase di sviluppo del Leviathan, che include anche contratti per la distribuzione del gas in Israele e in Giordania, nonché nei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese. Il prestito rientra nella strategia di finanziamento a lungo termine per ridurre i costi del consorzio Delek-Avner.
Il 17 dicembre 2015, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha firmato un accordo quadro per consentire a un consorzio guidato dalla texana Noble Energy e il gruppo israeliano Delek di sviluppare il giacimento Leviathan, il più ricco del paese, costringendoli a vendere i due più piccoli. L'accordo era stato poi bloccato dalla Corte suprema che ha costretto il governo a modificare la "clausola di stabilità". Lo scorso 18 maggio, il governo israeliano e il consorzio Leviathan, composto dalle israeliane Delek Drilling (22,67 per cento), Avner Oil & Gas (22,67 per cento), Ratio Oil (15 per cento) e dalla statunitense Noble Energy (39,66 per cento), hanno modificato la "clausola di stabilità" dell'accordo, emendamento che è stato poi approvato dal governo per sbloccare lo sviluppo del giacimento, il quale, secondo le stime, dovrebbe contenere fino a 500 miliardi di metri cubi di gas.

(Agenzia Nova, 28 novembre 2016)


Anatomia di una tempesta di fuoco

Almeno 180 feriti, più di 500 case distrutte, 13.000 ettari di boschi bruciati, 30 sospetti arrestati

E' tempo di tirare i primi bilanci dell'ondata di incendi che ha imperversato in Israele per cinque giorni, anche se domenica si sono registrati ancora alcuni nuovi focolai.more Gli incendi hanno causato 180 feriti, reso inservibili centinaia di case e bruciato decine di migliaia di dunam di parchi e riserve naturali protette.
Secondo il Magen David Adom (Stella Rossa di David), fino a tutto sabato su 133 persone soccorse per le lesioni collegate agli incendi almeno quattro erano piuttosto gravi, ma il bilancio complessivo è più alto perché al dato vanno aggiunte almeno 50 persone intossicate da inalazione da fumo che si sono recate da sole negli ospedali.
Haifa è stata la città più colpita dagli incendi, con almeno 527 case completamente distrutte, secondo il conteggio aggiornato da Ynet News. Sabato sera erano circa 1.700 gli abitanti di Haifa che non potevano ancora rientrare nelle loro case, secondo la tv Canale 2....

(israele.net, 28 novembre 2016)


Barney Ross, il pugile ebreo che conquistò tre cinture

di Nicola Pucci

 
Barney Ross
Tra le tante storie di pugni avvolte nel mantello della leggenda e destinate a venir raccontate ai posteri in perpetuo, ce ne sono alcune che meritano qualche cenno fuori dalle righe. Quella che narra delle gesta di Barney Ross è una di queste.
   Ad onor del vero Dov-Ber Rasofksy, perché è così che venne registrato all'anagrafe quando vide la luce il 23 dicembre 1909, figlio di Isidore, studioso di Talmud emigrato da Brest-Litovsk e sopravvissuto ad un pogrom, e di Sarah, aveva sangue ebreo nelle vene e portando la stella di David fu il primo boxeur a conquistare il titolo di campione del mondo. In giovane età il ragazzo, nel frattempo emigrato con la famiglia a Chicago, fu testimone dell'uccisione del padre, assassinato nel sua drogheria nel corso di una rapina, e quel che successe poi non poteva che indirizzarlo in palestra, così come in strada, a dar di pugni per guadagnarsi il necessario al sostentamento. Ma come vedremo tra breve, con guantoni e naso guercio andò ben oltre la semplice aspettativa di una dignitosa seppur pericolosa esistenza.
   La madre non vedeva di buon occhio che il figlio Dov, terzo di una nidiata di sei eredi, si dedicasse al pugilato, e fu così che il giovanotto assunse il nome d'arte di Barney Ross, ignaro che un giorno questo avrebbe segnato con i crismi della vittoria gli albi d'oro di ben tre categorie della noble art, pesi leggeri, welter-junior e welter, perdipiù contemporaneamente.
   Dopo aver conquistato diciassettenne il "Guanto d'oro" riservato ai dilettanti, Ross comincia a guardare con sempre maggior ambizione alla carriera professionistica, gareggiando nella categoria riservata ai pesi leggeri di cui ben presto diventa protagonista indiscusso, eroe degli ebrei che cercano di guadagnare l'integrazione sociale così come degli americani accattivati dal suo smisurato orgoglio così come dal suo disperato tentativo di affermazione.
   Lo stile pugilistico non é certo sopraffino, con quell'incedere un po' raccolto che porta Ross a combattere quasi frontalmente, ma non gli fanno certo difetto velocità, potenza dei colpi e soprattutto intuito che gli garantiscono, sempre, un margine di tempo sufficiente a giocare d'anticipo per affondare contro l'avversario di turno. E così, dopo alcune vittorie di spessore con Battling Battalino, campione del mondo dei pesi piuma dal 1929 al 1932, e Cameron Welter, ecco che il 23 giugno 1933 infine giunge la chance mondiale, sul ring di Chicago contro quel Tony Canzonieri, appunto detentore della cintura sia dei pesi leggeri che dei welter junior, che appartiene alla riservatissima cerchia dei fuoriclasse del guantone.
   La sfida con Canzonieri si risolve ai punti, dopo dieci riprese intense e di rara bellezza, e Barney Ross addiviene a quella gloria pugilistica a lungo inseguita ed infine fatta sua. La rivincita con l'italoamericano, qualche mese dopo, ha eguale esito, così come Ross si conferma campione del mondo a spese di Sammy Fuller, Peter Nebo e Frankie Klick, per poi lanciarsi nel 1934 all'assalto della corona anche dei pesi welter, dove lo attende un tris di combattimenti con lo spumeggiante Jimmy McLarnin, il guerriero di Belfast che maschera ardore e potenza del pugno su un volto da ragazzino.
   Le prime due puntate della trilogia, in quel di Long Island, al Madison Square Garden Bowl, si chiudono con una vittoria a testa, Ross conquista il titolo al termine di quindici riprese al primo tentativo, per poi cederlo al secondo, riprendendoselo ancora il 25 maggio 1935, stavolta al Polo Grounds di New York, e sempre con responso dei guidici dopo quindici round combattuti all'ultima stilla di sudore.
   Nessuno ebbe l'onore e la forza di poter mettere al tappeto Barney Ross, che arriva al capolinea della carriera, carico di gloria, titoli e pure con un consistente conto in banca, contro un altro tri-campione del mondo, l'uragano nero Henry Armstrong, che lo sovrasta fisicamente e lo seppelisce sotto una gragnuola di colpi. Ma Barney resta in piedi, incurante dei secondi che lo vorrebbero gettare la spugna, e può consolarsi con un record senza macchie, 81 incontri di cui 74 vinti, 3 pareggiati e 4 soli persi, tutti per responso dei giudici.
   Poi… poi la guerra e la dipendenza della droga, raccontata in "Monkey on my back" (la scimmia sulla mia schiena), al contempo autobiografia e monito sulla crudele inutilità dei conflitti armati. Ad amplificare il nome di Barney Ross, l'ebreo che salì sul tetto del mondo, in tre diverse categorie e nello stesso periodo, e che oggi riposa, appagato, tra gli eletti del pugilato: già, perché la International Hall of Fame lo ha riconosciuto fra i più grandi di ogni tempo.

(SportIstoria, 28 novembre 2016)


Polonia - Un sito per ricordare l'aiuto dei polacchi agli ebrei durante la Shoah

Lanciato dalla Fondazione Righteous for the World il portale www.pomagali.pl, con una mappa dei luoghi e foto e testimonianze storiche.

Si chiama www.pomagali.pl (alla lettera, in italiano, "hanno aiutato) il sito lanciato dalla Fondazione Righteous for the World per ricordare il sostegno che la popolazione polacca ha dato agli ebrei durante le persecuzioni naziste della Seconda Guerra Mondiale. Il portale si propone come una mappa interattiva da mettere a disposizione di un ampio pubblico che comprende anche lo studio delle relazioni polacco-ebraiche durante questo buio periodo storico.
Il sito mostra infatti i luoghi delle diverse regioni della Polonia dove sono stati forniti gli aiuti, oltre a storie documentate di polacchi che hanno salvato famiglie di ebrei dall'Olocausto. I visitatori potranno non solo leggere una breve descrizione storica, ma anche vedere foto d'archivio e ascoltare le relazioni dei testimoni che ricordano il tempo della guerra.
Pomagali.pl è stato creato con l'intento di stimolare l'interesse generale intorno a un tema molto spesso trascurato nelle discussioni: l'eroismo dei polacchi che, durante il secondo conflitto mondiale, hanno rischiato anche la vita pur di aiutare i perseguitati. Gli utenti potranno commentare tutte le relazioni pubblicate sul sito e condividere le loro esperienze e le conoscenze acquisite, arricchendone così il contenuto. Speranza degli iniziatori del progetto è che esso possa stimolare il dibattito pubblico.
Il portale è co-finanziato dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Polonia e sarà lanciato il prossimo dicembre.

(Zenit, 28 novembre 2016)


Fidel Castro

di Fiamma Nirenstein

Ho conosciuto direttamente Fidel Castro nel 2001 a Durban durante la Conferenza dell'ONU sul razzismo, trasformatasi in conferenza razzista su Israele. Castro in Sud Africa insieme ad Arafat, uno dei suoi migliori amici, e col peggior dittatore africano Mugabe dette il suo contributo e la sua benedizione, applaudito dall'assemblea e inseguito da giornalisti eccitatissimi dalla presenza di un simile divo, alla caccia all'ebreo che si inaugurava allora, alla vigilia dell'attacco alle Twin Towers.
   L'antisemitismo anti-israeliano fu un suo costante contributo all'impresa del fronte antiamericano,antimperialista, anticapitalista. Quello dei peggiori dittatori. A Durban una grande manifestazione in onore della conferenza anti-israeliana marciò, applaudita, sotto gli striscioni con il ritratto di Bin Laden. Questo fu e resta il veleno ideologico benedetto da Fidel Castro. Negli anni ho incontrato,e ho scritto di loro, i parenti dei prigionieri di coscienza di Fidel, la sua persecuzione della libertà era crudele e senza remissione, e andava di paripasso con la sua inimicizia per la democrazia, tutte le democrazia, in particolare Israele.
   Fino all'ultimo, malato e vecchio, si è ricordato di maledire Israele, la cui grande esperienza in agricoltura lo ha peraltro aiutato. Si spinse fino a dire, pochi anni fa, che il Mossad era la forza dietro l'Isis e che l'operazione "Margine di difesa" contro Hamas a Gaza era una "disgustosa forma di fascismo", un tic verbale insensato tipico dell'incitamento comunista contro il male assoluto della democrazia. Perché Castro odiava la democrazia e quindi, come i suoi epigoni e estimatori, odiava Israele.

(Blog di Fiamma Nirenstein, 27 novembre 2016)


La cucina ebraica a Roma, raccontata da Sandro Di Castro

di Valentina Franci

 
Martedì 17 novembre, nell'ambito del ciclo di cene dedicate ad argomenti di cultura romana, promosse dalle associazioni Iter e Per Roma e curate da Marco Ravaglioli e Simone Ferrari, si è tenuta nella sede di "Per Roma" in via Nazionale 66, un'interessante cena evento sulla Comunità ebraica di Roma, in cui si è cercato di raccontare la storia antica e tormentata di una delle comunità più antiche e autenticamente" romane" della Capitale, tratteggiandone i costumi, le vicende storiche e le tradizioni.
  Particolare attenzione nel corso della serata è stata dedicata alla cucina ebraica romana, rinomata da sempre ma ancora forse non conosciuta abbastanza. Dopo una puntuale e brillante presentazione della conviviale, il "padrone di casa" Marco Ravaglioli, presidente di Iter, ha introdotto il relatore d' eccezione della serata: Sandro Di Castro, già presidente della Comunià ebraica romana e presidente della loggia romana di Bene Berith, l'importante organizzazione mondiale non governativa ebraica, con seggi permanenti presso l'Onu e le Istituzioni Comunitarie Europee, dedita sin da sempre alla promozione di iniziative culturali, di formazione e beneficenza.
  La serata è stata un clamoroso successo, ottenendo l'adesione di moltissime persone che hanno ascoltato con grande interesse i relatori, incuriosite dalla possibilità di conoscere meglio questa affascinante comunità ed i segreti della cucina giudaico romana. Presente alla serata anche un importante esponente della comunità ebraica, come Fabio Perugia, portavoce della Comunità Ebraica di Roma. Oltre ai numerosi associati, amici ed ospiti di Iter Per Roma giunti per ascoltare Sandro Di Castro, anche il giornalista e scrittore Pino Pelloni e Sergio Franci.
  Lo stimolante e completo intervento di Di Castro, ha rapito l'attenzione dell'uditorio, riuscendo a descrivere in maniera chiara, semplice e mai noiosa sia cosa significa esattamente cucina Kosher e tutte le regole che questa comporta, sia le profonde motivazioni storiche e spirituali, che hanno plasmato le tradizioni culinarie giudaiche a Roma.
  Abbiamo così appreso che la cucina ebraica è costituita da piatti semplici e ricchi di gusto, fatti con ingredienti poveri ma che nelle mani abili delle bravissime cuoche del Ghetto, si sono trasformati in manicaretti squisiti, frutto della creatività di questo popolo che nonostante le grandi ristrettezze in cui era costretto a vivere al tempo dei Papi, ha costruito comunque nei secoli una tradizione gastronomica apprezzatissima.
  Gli abitanti del Ghetto infatti sin dalla sua istituzione, versavano in condizioni di estrema povertà, poiché obbligati dagli editti papali fino al 1870 a svolgere solo lavori umilissimi come il robivecchi o lo straccivendolo. Ciò già limitava in sé l'alimentazione degli ebrei, a pochi ed umili ingredienti come uova, latte, alcuni scarti dei pesci, frattaglie come la coratella, ed alcune verdure. Questi cibi erano annoverati ai tempi tra i cibi di scarto dei mercati, e diventavano grazie all'inventiva delle massaie dell'epoca vere prelibatezze: l'esempio più tipico è proprio la bottarga nata da uova di pesce che venivano scartate e oggi considerata una pregiata leccornia.
  In aggiunta alle limitazioni economiche vi erano vari editti papali che proibivano l'uso di certi alimenti in maniera molto severa, imponendo invece l'impiego esclusivo a tavola di materie prime molto povere.
  A testimonianza di ciò, Sandro Di Castro, cita due bolle papali che dettavano le limitazioni in caso di banchetti nel ghetto e che danno un chiaro quadro della situazione di privazione in cui gli ebrei vivevano. La prima bolla cui si fa riferimento risale al 1610: "Non sia lecito in modo alcuno usare altro che ogni sorte di lesso et doi mostaccioli et questi si possano fare quello che parerà … ma che de salami et pastumi et antipasti non li sia lecito far quel tanto che parerà a Loro"; mentre la seconda, del 1702, è ulteriormente restrittiva: "Che in tutti li conviti non sia lecito di poter fare altre vivande che un sol allesso, ed un arrosto, prohibendosi tutte sorte di pastumi, e insalate sontuose, le quali debbano essere ordinarie e non cotte, et li frutti et intermezzi non possano eccedere la spesa di un grosso la libbra, eccettuato però li confetti, i quali vengono permessi vietandosi le marroncine et altre sorte di confettini comanco si proibisce il pesce di qualunque sorte eccettuato alici et assorro". Da questi editti si evince fra l'altro l'origine del gustoso tortino di aliciotti e invidia al forno, nato per servire in un modo saporito ed invitante l'unico pesce consentito e divenuto un cavallo di battaglia delle cucina giudaica romana, oppure un'altro esempio di piatto povero ma squisito, la famosa "concia di zucchine": le famose zucchine affettate e fritte per poi essere marinate con aglio, olio, aceto bianco e menta o basilico. La concia è stata anche offerta in assaggio durante la cena, servita sul pane come da tradizione. E De Castro ha simpaticamente ricordato anche la diatriba sulla "concia" che vede fronteggiarsi nelle famiglie ebraiche, gli appartenenti a due scuole di pensiero: quelli per cui le zucchine possono essere tagliate in orizzontale e quelli che invece le preferiscono tagliate in verticale.
  A questo punto esaurito il quadro storico culturale, in cui si colloca la tradizione della cucina Kosher, il nostro illustre relatore si è soffermato sulle regole pratiche fondamentali di questa cucina. Eccole qui elencate in estrema sintesi: per prima cosa ha ricordato la regola che impone di non mischiare mai carne e latte insieme (la carbonara kosher è infatti senza formaggio) perché il latte è legato alla vita come il sangue rappresenta invece la morte e bisogna sempre preservare e prediligere la vita alla morte; in ossequio al divieto assoluto di cibarsi di sangue poi vi è l'obbligo di macellare ritualmente gli animali, recidendo loro la giugulare e sottoponendo le carni al successivo trattamento con acqua e sale per eliminare ogni residuo; i quadrupedi che vanno consumati per la loro carne, devono essere ruminanti e con lo zoccolo spaccato; i pesci devono avere le squame e sono proibiti tutti i crostacei ed i frutti mare; i volatili non devono essere mai né rapaci né notturni. La ragione dell'attenzione a queste disposizioni può essere rintracciata sia a livello religioso che pratico l'esegesi ebraica sul kosher individua due spiegazioni una razionale ed una mistica secondo quanto ha spiegato Di Castro, il motivo razionale dietro a queste regole è fornire uno strumento di autocontrollo: nei tempi antichi infatti i banchetti erano teatro delle peggiori nefandezze e concentrare l'attenzione degli ebrei a tavola su una serie regole come quelle Kosher aiutava a mantenere quella retta condotta morale che un buon ebreo deve avere, oltre a rispettare i 613 precetti necessari per essere un Giusto.Quando si parla di cucina giudaico romanesca si parla in realtà di una cucina fatta di contaminazioni, a partire da quella tra quella ebraica e quella romana, per arrivare poi alle influenze portate nella capitale dagli ebrei che furono scacciati dalla Spagna all'inizio del 500 come il cous cous appartenente alla tradizione spagnola sefardita, per giungere in tempi più recenti agli anni '60 e alla guerra dei sei giorni, che portò all'arrivo nella capitale di 2000 ebrei dalla Libia, che portò con sé molti piatti speziati e piccanti, tipici di quelle terre tra tutti l'esempio più chiaro è la "Lubia" un tipico spezzatino di carne con fagioli appartenente alla tradizione ebraica tripolina. La contaminazione è quindi la costante di questa gastronomia, ed è facile notarla anche nelle famiglie, dove ormai grazie ai matrimoni "misti", non è difficile vedere piatti di origine così diversa convivere sulla stessa tavola e assaporare ricette che tentano di volta in volta di adattare i sapori alle preferenze di ognuno. Questo è anche collegato alla diaspora degli ebrei che va avanti ininterrottamente da duemila anni il che ha influenzato ogni aspetto della cultura ebraica rendendola anche frutto dei vari contributi giunti dalle diverse parti del mondo in cui il popolo ebraico si è disperso nel suo errare.
  La spiegazione mistica invece, che Sandro Di Castro ci ha illustrato, è legata alla khabbalà e alla interpretazione mistica del significato del cibo: "La parola che in ebraico dà il nome al cibo è l'anagramma della parola ebraica per angelo, da ciò si evince già il fatto che il cibo è chiaramente sin dalle sue radici linguistiche per l'ebraismo, un elemento non solo materiale ma altamente spirituale. Questo perché tutto il creato è stato fatto da Dio, pronunciando delle parole che hanno dato vita a tutto regno animale e vegetale, nel momento in cui stiamo per mangiare e pronunciamo le benedizioni, restituiamo al cibo il suo alto valore spirituale, perché benedicendolo gli rendiamo quella "vitalità spirituale" che gli aveva infuso Dio al momento della creazione, per cui ogni ebreo che si mette a tavola deve esserne consapevole".
  Inoltre Di Castro ha spiegato un'altra tradizione tipicamente giudaica: sulla tavola di ogni famiglia di religione ebraica, è come se si replicasse l'altare del Tempio di Gerusalemme, perciò prima di qualsiasi altra cosa si troverà su di essa del pane e del sale, come quello che veniva consumato ritualmente accanto ai sacrifici nel tempio. Inoltre il relatore, ha sottolineato che non a caso nella Torah tutte le regole legate al cibo sono scritte accanto alle prescrizioni che descrivono come doveva essere eretto il Tempio di Gerusalemme e l'esegesi spiega che ciò è in stretta connessione col fatto che il corpo dell'uomo è un tempio per l'ebraismo, pertanto anche quando oggi che il Tempio non esiste più ogni uomo è agli occhi di Dio un piccolo santuario e va rispettato.
  Questo fatto si connette poi con un altro interessante aneddoto, che ci è stato riportato dal nostro oratore, e che racchiude tutto il senso simbolico del rapporto tra corpo, cibo e religione:
  "Un sacerdote, durante un suo discorso mistico con Dio, si era lamentato con lui, perché Dio non gli aveva dato due bocche, una per pregare e una per mangiare. Dio gli aveva risposto che invece aveva fatto un'opera perfetta dando una sola bocca all'uomo, perché da essa si devono far uscire solo elementi di santità perciò, bisogna stare attenti quando si mangia, quando si prega e quando si parla del nostro prossimo".
  Infine Di Castro ha fatto nuovamente riferimento alla kabbalà sottolineando il fatto che i denti nella bocca sono 32 come i sentieri della saggezza, per cui questa saggezza deve pervadere ogni aspetto della vita di ogni uomo, ma non solo ha ricordato che 32 è il valore che la kabbalà dà anche alla parola cuore "lev" e ciò deve significare - ha concluso Di Castro - che quando siamo a tavola dobbiamo tenere il cuore aperto soprattutto per chi ha più bisogno e fare beneficenza.

(com.unica, 27 novembre 2016)


L'Intifada del fuoco che sta bruciando la terra di Israele

di Fiamma Nirestein

Israele brucia da cinque giorni, dal nord al sud le piante meravigliose coltivate nella terra sassosa che da secoli non aveva conosciuto foreste e prati sono ridotte in cenere, fuggono gli animali dei boschi, decine di migliaia di persone sono profughi, grandi città come Haifa vengono evacuate, cittadine storiche come Zicron Iaacov conoscono distruzioni di massa, alcuni villaggi della Giudea e della Samaria sono scheletri, la gente piange mentre l'enorme solidarietà li cura e li ospita, non crede all'apocalisse che vive mentre i corpi dell'esercito, dei vigili del fuoco, della polizia insieme circoscrivono, salvano, spengono.
   Gli aerei carichi d'acqua sorvolano il Paese mentre in cielo si alzano colonne di fumo nero, decine di feriti affollano gli ospedali.
   A Haifa 700 case sono bruciate, vicino a Gerusalemme il «super tank» americano appena arrivato rovescia quantitativi superbi di acqua, si alzano gli aerei francesi e italiani, gli elicotteri egiziani, gli uomini inviati da Creta, dalla Giordania, e persino dall'Autonomia Palestinese. È con particolare enfasi che i 44 pompieri palestinesi sono stati mostrati sui media israeliani mentre prestano generosamente la loro opera. Purtroppo, anche se questa presenza ha certo un valore, non ci si può davvero sottrarre all'impressione che si sia di fronte a una spaventevole nuova «eshtifada», da «esh» che in ebraico vuol dire fuoco. Gli arrestati mentre appiccavano il fuoco con bottiglie molotov, benzina e altri mezzi sono già 23 e 30 gli indagati; li hanno scoperti dal Monte Carmelo alla zona di Byniamin a nord est di Gerusalemme al Gush Etzion, a sud est. Il vento forte di questi giorni ha alimentato il fuoco e le fantasie sui social network a dar fuoco a Israele, meglio dei terroristi suicidi e dei coltelli: «Allah aggiungi benzina finchè non arrivi la loro fine» dice uno da Gaza. «Israele brucia» è il più popolare account del mondo arabo: «Voglio respirare l'odore di barbecue dei sionisti» dice un altro. Il governo, i media sono cautissimi, dicono che molti incendi sono casuali, ma questo non toglie nulla al pericolo di una nuova forma di terrorismo di massa, il fuoco è casuale.
   Esso si diffonde come vuole e brucia. Anche un camion lanciato all'impazzata sulla passeggiata di Nizza non calcola quante, quali vittime farà.

(il Giornale, 27 novembre 2016)


Torino - Archeologi a Gerusalemme

di Alice Fubini

 
Dan Bahat
Serata dedicata all'archeologia al Circolo dei lettori, promossa dal Gruppo sionistico piemontese e dalla Comunità ebraica di Torino con un ospite d'eccellenza. Si tratta di Dan Bahat, uno dei più grandi personaggi dell'archeologia israeliana, che ha condotto scavi a Gerusalemme, portando alla luce il tunnel che scorre alla base del Kotel (Muro Occidentale), forse la più celebre scoperta fatta dallo studioso. Interventi e scoperte che portano il suo nome riguardano anche Masada, un altro luogo simbolo del territorio d'Israele, dove sono stati rinvenuti cocci con nomi di ebrei databili alla caduta della fortezza. Gli scavi più significativi riguardano senza dubbio Gerusalemme tanto da definire Dan Bahat l'archeologo ufficiale della città. Bahat è anche autore di un noto volume di archeologia, "Atlante di Gerusalemme", un'opera unica sotto il profilo storico ed archeologico. Oltre 400 immagini a colori tra cartine, disegni, foto, riproduzioni di monete antiche e ricostruzioni di palazzi. Si comincia dalle origini, dal primo insediamento, fino alla Gerusalemme degli anni Sessanta.
Bahat ha cercato di portare il pubblico nel vivo del suo lavoro, ripercorrendo attraverso fotografie e immagini il suo percorso di ricerca sul campo. Al centro dei suoi studi i luoghi santi di Gerusalemme, l'architettura della città, dove le tre religioni si sono incontrate, scontrate, fuse, avvicinate fino a convivere materialmente, oltre che nella realtà, negli elementi architettonici, nei resti, nelle fondamenta di templi. Una fusione e commistione con le varie epoche storiche e le diverse culture religiose, che l'archeologia ha decostruito, fino ad attribuire in modo scientifico la paternità culturale, stilistica e religiosa dei diversi ritrovamenti. Una delle scoperte più dirompenti di Dan Bahat riguarda sicuramente i templi ebraici: la vulgata classica parla dell'esistenza di due templi, il cosiddetto "Primo Tempio", quello distrutto dal babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C. Il "secondo Tempio" di Gerusalemme sarebbe il tempio di Erode. Ebbene Bahat ha parlato invece di quattro templi, due in più rispetto alla vulgata tradizionale: il primo è un piccolo tempio, precedente a quello poi distrutto da Nabucodonosor, che diventa quindi il secondo. Tra quello distrutto e quello cosiddetto di Erode, ce ne sarebbe un terzo, risalente al III secolo a.C.
Bahat - presentato a Torino da Emanuel Segre Amar - con i suoi studi sconvolge così il credo comune, aprendo sipari sul passato e fornendo terreno fertile per nuovi studi.

(moked, 27 novembre 2016)


Per le strade d'Israele, inseguendo Dan Bahat


Quel Monte nella storia d'Israele

Per l'Unesco il Monte del Tempio è luogo di culto esclusivo dell'islam, "scordando" il secolare rapporto con la memoria ebraica. La risoluzione non aiuta la pace fra palestinesi ed ebrei, ma i trattati tra Tel Aviv, Egitto e Giordania mostrano che la convivenza (se si vuole) è possibile.

di Paolo Sorbi

La formazione dell'attuale Stato di Israele è stata preceduta, in modo originale - perché mancava una terra di riferimento per il popolo ebraico -, da un processo di auto-organizzazione, a partire da metà Ottocento, costituito da una pluralità di associazioni. Associazioni diffuse in tutti i territori europei. Associazioni ricreative, culturali, giovanili, di cura per gli anziani, di recupero dell'antica lingua biblica, di educazione fisica per le giovani generazioni. Lungo tre assi culturali. La riscoperta della lingua ancestrale ritornata a essere vivente, parlata specialmente dalle giovani generazioni che rifiutavano l'assimilazione. Un'altra importante tendenza era il riferimento appassionato di molti intellettuali di origine ebraica verso gli strati poveri dell'ebraismo dell'est europeo, con la spinta all'organizzazione del proletariato ebraico. Non di meno crebbe l'uso della forza da parte di nascenti organizzazioni giovanili ebraiche nella difesa dei tanti shetetl, ovvero diffusi piccoli villaggi nelle estese pianure dalla Polonia all'Ucraina. Vale a dire: viene prima lo Stato moderno e le sue articolazioni istituzionali e politiche, come sostengono i classici della sociologia politica, da Weber a Gianfranco Miglio; oppure, come sostiene il pensiero sociale cristiano, il popolo con i suoi linguaggi, stili di vita e tradizioni, organizza prima una sorta di società civile e dopo lo Stato?
  Nell'antica storia teologico-politica del popolo ebraico, la funzione di un "ethos" nazionale, religioso, linguistico, tribale è avvenuta, senza terra e senza Stato, nel corso di due millenni di Diaspora nelle terre europee. Si possono contare solamente tre brevi periodi di sovranità nell'antica terra di Palestina. Il regno di David, duecentoventi anni, quello dei fratelli Maccabei, centottanta anni, poi l'esperienza del contemporaneo Stato ebraico. In un continuo anelito e ricordo da parte delle generazioni disperse di quella Terra Santa di Palestina, dei Regni ebraici, di Gerusalemme sulla bocca della preghiera in attesa di «vederla un altr'anno». Come ben descrive l'ebraista italiano Dante Lattes, l'esposizione dei costanti rapporti fra gli ebrei e la Palestina emerge dalle antologie di scritti sull'argomento dei grandi storici Schulwas e Fichman già pubblicate a Tel Aviv nel 1924. Certamente sono scritti soffusi da un'aura e da un fascino per quelle terre quasi da perdere i contorni delle cose e della realtà. Erano però scritti in in quel modo per sfuggire al crescente antisemitismo in una specie di sublimazione della fantasia, per non cadere nella triste derelizione tanto caratteristica delle popolazioni ebraiche dell'est Europa.
  Oggi quel filo rosso della memoria della terra dei padri, trasversale in tutte le esperienze ebraiche anche fortemente laicizzate, lo si rintraccia specialmente nell'esercito di Israele, che ha funzione di integrare e formare unitariamente le tante "tribù" della contemporanea società israeliana. Come negli anni 50 del secolo scorso, operò la grande centrale Sindacale dei lavoratori, Histadrut. È la lotta collettiva la leva che costruisce il "nuovo ebreo" tra Otto e Novecento dopo secoli di emarginazione. In una lucida introduzione al libro Il sionismo politico (Unicopli), lo storico David Bidussa sottolinea questa spinta educativa della società civile ebraica, attraverso culture laiche da Herzl a Max Nordau, da Jabotinsky a Ben Gurion, agli altri protagonisti di epiche avventure politiche fortemente segnate da un messianismo religioso e laicizzatosi nel corso del tempo. Da questo mix furono educati anche i leader dei gruppi combattenti di autodifesa ebraica degli anni Venti, sino alla proclamazione dello Stato degli ebrei il 14 maggio 1948. Con la trasformazione di questi gruppi nell'esercito israeliano. Inoltre l'istituzione militare ha sempre avuto un rapporto fortemente emotivo con gli avvenimenti dell'aprile 1943, della rivolta del ghetto di Varsavia. Rivolta promossa dall'eroico medico-chirurgo Marek Edelman con la sua piccola Organizzazione sionista combattente. Questa memoria a sua volta si rifà al mito della "roccia di Masada", Luogo in cui nel marzo del 73 d.C. gli ultimi resistenti zeloti (un migliaio) si suicidarono per non essere catturati dai romani e divenire schiavi o crocifissi.
  Le due memorie, una lontana nel tempo, l'altra più recente, hanno prodotto nel ceto sindacale prima e nella leadership militare negli ultimi vent'anni, una sensibilità vivissima per la storia dell'uso della violenza ebraica, dell'archeologia come accumulo di prove del millenario radicamento nei luoghi di Galilea, Giudea e Samaria fino al mare, delle popolazioni ebraiche. Tutto questo si concretizzò, tra il 5 e 7 giugno 1967 con la conquista militare della città vecchia di Gerusalemme, con l'arrivo di gruppi di paracadutisti al Muro del pianto e sull'adiacente Monte del Tempio/Spianata delle Moschee nel linguaggio religioso arabo-palestinese. Durante la guerra dei Sei giorni i parà del colonnello Mordechai "Motta" Gur arrivarono a toccare quelle antiche pietre, patrimonio delle tre grandi religioni rivelate. La commozione era forte in quei giovani soldati, perché la memoria millenaria non si era perduta come risultò in innumerevoli dichiarazioni a una molteplicità di quotidiani e agenzie internazionali lì presenti. Oggi c'è chi vorrebbe riscrivere la storia. La decisione dell'Unesco, agenzia delle Nazioni Unite, di riconoscere il Monte del Tempio come luogo di culto esclusivo dell'islam, non aiuta il già difficile contesto israelo-palestinese. La risoluzione approvata il 13 ottobre scorso dal Consiglio esecutivo dell'Unesco, ha ratificato a maggioranza questo voler disconoscere i legami tra il Monte del Tempio con la memoria ebraica. Invece di stimolare una complessa, ma unica storia, proveniente dall'antichità, composta da molteplici convivenze di tribù ebraiche e villaggi arabi. Si vuol far credere che ci fu un'unica presenza, ma i fatti sono molto più complessi. Andare contro la realtà non è corretto né nobile da parte dell'Unesco. I trattati di pace di Israele con l'Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994, dimostrano che è possibile, sempre, non negare o stravolgere l'antica e millenaria storia di una molteplicità di presenze nella terra dell'antica Palestina.

(Avvenire, 27 novembre 2016)


Islam, l'intesa con l'Ucoii condanna la nostra civiltà

Così la sigla dei musulmani più radicali diventerà interlocutore dello Stato. Senza rispettare la legge. La religione di Allah non ottempera a nessuna delle condizioni previste dalla nostra Costituzione

di Magdi Cristiano Allam

Il governo Renzi si appresta a sottoscrivere la prima Intesa dello Stato italiano con l'islam con l'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia), sigla che rappresenta ideologicamente i Fratelli Musulmani, movimento estremista islamico messo fuorilegge in Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, il cui motto recita: «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. La guerra santa è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra massima aspirazione». Ai Fratelli Musulmani aderisce Hamas, il gruppo terroristico islamico palestinese condannato dall'Onu e dall'Unione Europea.
   L'Intesa con l'Ucoii potrebbe avvenire contemporaneamente a una seconda Intesa con la «Confederazione islamica italiana», presentata in pompa magna il 12 maggio scorso, gestita dal Marocco i cui cittadini formano la metà del milione e mezzo di musulmani in Italia.
   Le tappe del riconoscimento dell'Ucoii come rappresentante dei musulmani in Italia sono state cadenzate il 5 novembre 2015 dalla firma di un protocollo d'intesa tra il presidente dell'Ucoii Izzedin Elzir e il capo del Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) Santi Consolo, per favorire l'accesso di mediatori culturali e di ministri di culto islamici negli istituti penitenziari.
   Il 10 maggio di quest'anno a Catania Elzir ha denunciato che «con il mondo islamico non si fa un'intesa perché si dice manchi una rappresentanza unica, in realtà si tratta di una scusa. Perché con i protestanti è stato possibile fare degli accordi».
   Lo scorso 30 luglio, alla vigilia della partecipazione degli imam alla messa nelle chiese in Italia, Elzir ha chiesto «un gesto di coraggio al governo Renzi: firmiamo ora l'intesa tra lo Stato e la fede musulmana prevista dall'articolo 8 della Costituzione. Con 1'8 per mille potremmo avere finanziamenti per garantire la formazione dei nostri imam totalmente in Italia, eviteremmo fondi stranieri per la realizzazione delle moschee, potremo attivare progetti di lavoro e assistenza nelle carceri».
   La verità è che l'islam non ottempera a nessuna delle due condizioni previste dall'articolo 8 della Costituzione per riconoscere le religioni come «egualmente libere davanti alla legge». Nel 2000 finì tra i litigi l'esperienza del «Consiglio islamico d'Italia», formato nel 1998 tra l'Ucoii, il Centro islamico culturale d'Italia e la Lega musulmana mondiale-Italia, costituito proprio per firmare un'intesa con lo Stato.
   Sarebbe un errore madornale affidare le sorti dei musulmani in Italia all'Ucoìi. L'islam non può essere messo sullo stesso piano del cristianesimo. Piaccia o meno, la convivenza con i musulmani può avvenire solo in un contesto di laicità, in cui dobbiamo chiedere loro di rispettare le leggi dello Stato, di ottemperare alle regole della civile convivenza, di condividere i valori che sostanziano la nostra civiltà: la sacralità della vita, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Tutto ciò è incompatibile con l'islam. Quindi «sì» ai musulmani come persone ma «no» all'islam come religione.

(il Giornale, 27 novembre 2016)


Netanyahu ad Abu Mazen: grazie per l'aiuto

Il primo ministro israeliano Netanyahu ha chiamato il leader palestinese Abu Mazen per ringraziarlo di avere inviato pompieri e mezzi per aiutare a spegnere gli incendi che hanno colpito Israele. Il premier ha anche sottolineato il suo apprezzamento per il fatto che, sia gli ebrei, sia gli arabi, hanno aperto le loro case a quanti sono stati investiti dalle fiamme.

(RaiNews, 26 novembre 2016)


Israele guida la classifica dei paesi con maggior riciclo di plastica (59%)

di Maria Chiara Scanu

Israele guida la classifica dei paesi per i maggiori quantitativi di plastica riciclata (59%) in rapporto ai quantitativi di materia prima immessa sul mercato, superando Francia e Regno Unito (57%) e Stati Uniti (32%).
Ogni giorno sono circa 750.000 le bottiglie di plastica avviate a riciclo e la ELA, una delle più grandi aziende israeliane operanti nel settore, punta a dare "seconda vita" al PET raggiungendo 1 milione di bottiglie al giorno. Il progetto e' stato promosso dal ministro israeliano dell'Ambiente, Ze'ev Elkin, che ha spiegato come l'iniziativa faccia leva sul senso di responsabilità dei cittadini. al fine di sensibilizzare soprattutto i piu' giovani alla tutela dell'ambiente. Il ministro ha, poi, aggiunto che il riuso di materiale riciclato permette, tra l'altro, di risparmiare decine di milioni di Schekel che, altrimenti, andrebbero spesi per l'importazione di materie prime.

(PRIMAPRESS, 26 novembre 2016)


Attacchi ai mercatini natalizi e a Disneyland: sgominato un commando jihadista in Francia

Nuove operazioni contro alcuni aspiranti martiri che avevano già una data per attaccare: il primo dicembre. Erano guidati dalle terre del Califfato ed erano tutt'altro che giovani disperati.

di Mauro Zanon

PARIGI - C'era già una data, il primo dicembre, e gli obiettivi da colpire per fare un'altra stage di infedeli: il mercatino di Natale sugli Champs-Elysées, la sede della polizia giudiziaria al 36, quai des Orfèvres, il parco divertimenti Disneyland Paris, una stazione della metro parigina, diverse chiese e alcuni caffè del Ventesimo arrondissement. I terroristi interpellati tra la notte di sabato e domenica scorsa a Strasburgo e a Marsiglia erano pronti a un "attacco imminente", ha dichiarato oggi pomeriggio il procuratore della Repubblica di Parigi, François Molins. Con la stessa modalità di attacco del 13 novembre 2015, i terroristi volevano colpire ancora una volta la Francia in alcuni dei suoi luoghi simbolici, ma questa volta volevano anche filmarsi mentre attaccavano altri innocenti.
  "Un attentato imminente è stato sventato", ha detto Molins durante la conferenza stampa, precisando che i terroristi, già in possesso dell'arsenale per passare all'azione, erano teleguidati da una persona che si trova attualmente nella zona siro-irachena. Secondo le ultime informazioni del fascicolo giudiziario aperto venerdì per associazione a delinquere e possesso di armi a fini terroristici, sono cinque i sospetti all'origine del progetto definito "mortifero" dal procuratore di Parigi. I quattro aspiranti martiri arrestati nel quartiere della Meinau, a Strasburgo, sono amici di lunga data, e contrariamente a quanto emerso dalle prime informazioni, non provengono dalla banlieue e non sono giovani fragili, disorientati e senza punti di riferimento.
  Yassine B., francese di 37 anni, era un accompagnatore scolastico "adorato dai bambini", un ragazzo "aperto e gentile", secondo i vicini, ma abilissimo nell'arte della dissimulazione, della "taqiyya" islamica, al punto da compiere un viaggio in Siria e radicalizzarsi senza attirare la minima attenzione dei servizi. Hicham M., francese di 37 anni, lavorava come magazziniere ed era già stato condannato sei volte per piccoli crimini, mentre Samir B., franco-tunisino di 35 anni, possedeva un piccolo negozio di alimentari ed era stato condannato sette volte. L'ultimo del gruppo di Strasburgo si chiama Zakaria M., franco-marocchino di 35 anni, senza lavoro, e come Yassine B. era sconosciuto ai servizi.
  I quattro ricevevano ordini attraverso l'applicazione Telegram da un jihadista che si trova attualmente nelle terre del Califfato, e soltanto il "nervosismo" mostrato negli ultimi giorni ha fatto scattare l'allerta massima a Levallois-Perret, sede della Dgsi, i servizi interni. Assieme al gruppo di Strasburgo, nella notte tra sabato e domenica, è stato fermato a Marsiglia Hicham E., marocchino di 46 anni, supersorvegliato dalla Dgsi, in seguito a ripetuti viaggi sospetti verso il Portogallo. Secondo il procuratore Molins, almeno tre dei cinque sospetti hanno manifestato velleità di partire in Siria per combattere nell'esercito califfale. Negli appartamenti di Yassine B. e Icham M. sono stati trovati, assieme a un arsenale di pistole e munizioni, una serie di scritti violenti che incitavano al jihad armato, manifestavano fedeltà allo Stato islamico e glorificavano il martirio, stando alle informazioni rivelate dal procuratore di Parigi.
  Durante la perquisizione effettuata presso il domicilio di Yassine B., è stata trovata inoltre una chiavetta usb con due file che evidenziavano "la probabilità di una consegna di armi", secondo Molins, cosi come le coordinate GPS di un deposito di armi. Icham E., a Marsiglia, disponeva di più di 4.800 euro ed era sul punto di acquistare delle armi. Per il momento non è ancora possibile confermare un legame tra i quattro jihadisti di Strasburgo e il terrorista marocchino fermato nella città focea. L'analisi del cellulare di Yassine B. ha permesso invece di mettere subito in evidenza le ricerche su Google Maps, per capire quali erano gli obiettivi privilegiati dal commando. Erano determinati a passare subito all'azione e volevano anche filmarsi per mettere tutto in diretta su Periscope.

(Il Foglio, 26 novembre 2016)


La toponomastica di Gerusalemme cambierà

Il governo israeliano intende cambiare la toponomastica storica dell'area di Gerusalemme con nuove identificazioni israeliane, ad iniziare dalla Porta di Damasco che diventerà "Piazza degli Eroi", in onore dei coloni e dei soldati israeliani.
Il Comitato israeliano vuole commemorare le vittime degli "attacchi terroristici", in collaborazione con la municipalità israeliana di Gerusalemme, pertanto sono d'accordo di cambiare anche i nomi delle strade di Gerusalemme, Città Vecchia compresa.
Lo ha riferito il Canale 7 israeliano.

(Knights of the World, 26 novembre 2016)


Nel silenzio, "Israele brucia". 80 mila evacuati. Netanyahu: ''E' terrorismo"

"E' la prima volta che usano un'arma di distruzione di massa". Roghi in tutto il paese. ''Una situazione spaventosa"

di Giulio Meotti

ROMA - La voce di Shmulik Tal, direttore dell'ufficio comunicazioni del Keren Hayesod, è rotta dall'emozione, mentre i roghi divampano in tutto Israele, raggiungendo Gerusalemme, dove sono stati appiccati da bombe molotov. La casa di Tal a Zichron Yaakov, la località più colpita, è appena andata in fumo. "E' una situazione spaventosa, niente mi aveva preparato a questo scenario scioccante, che ha colpito anche la mia casa, che è stata appena demolita", dice Tal al Foglio. "Il paesaggio verde della mia città natale, Zichron Yaakov, si è trasformato in un orrendo fumo nero, con gli scheletri di alberi che sembrano lanciare i loro rami per protestare contro il cielo marrone".
   80 mila israeliani hanno lasciato le loro case, in quello che il premier Benjamin Netanyahu ha definito "terrorismo". Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha detto che dodici palestinesi sono stati fermati con l'accusa di aver appiccato il fuoco. "Metà degli incendi sono dolosi", ha confermato il ministro per la Sicurezza, Gilad Erdan, mentre quello per l'Educazione, Naftali Bennett, ha commentato: "Solo chi non appartiene alla nostra terra è capace di bruciarla". I media israeliani parlano di "Intifada delle fiamme" (già nel Mandato Britannico e negli anni Ottanta gli incendi dolosi sono stati utilizzati come strumento di violenza politica). Haifa, la terza città del paese, sembra una "zona di guerra" e settecento case sono andate distrutte. Italia, Grecia, Cipro, Turchia, Azerbaigian, Egitto e Russia hanno mandato aiuti. Le fiamme hanno lambito Gerusalemme e investito la superstrada che porta a Tel Aviv. Incendi nascono in posti lontani fra di loro, come Talmon, un insediamento in Cisgiordania, Shuafat a Gerusalemme est e Sajur e Naahf in Galilea. E' il secondo più grave disastro "naturale" della storia israeliana, dopo l'altro grande incendio che nel 2009 uccise quaranta israeliani (per la prima volta nella storia, allora Israele fece affidamento alla comunità internazionale). In attesa di accertare l'origine di questi nuovi terribili incendi, nei social divampa l'odio per gli ebrei. "Israele brucia" è diventato ieri il primo hashtag del mondo arabo e il terzo più popolare sui social network. Un tweet di Michary Rashid al Afasy, l'imam della Grande moschea del Kuwait, ha avuto 20 mila retweet e 15 mila like: Afasy aveva augurato "ogni bene" agli incendi. "Israele brucia" è comparso in oltre 128 mila tweet. In Egitto, l'hashtag più popolare è "Entità sionista brucia". L'imam saudita Mohammed al Arefe, che ha 16 milioni di follower, ha scritto: "Brucia l'entità sionista", augurandosi che "Allah liberi la moschea di al Aqsa". Il responsabile dei social nel mondo arabo del governo Netanyahu, Ofir Gendelman, ha condannato questa ondata di giubilo definendola "odio fanatico".
   Un account arabo ha scritto: "Suggerisco di inviare aerei che facciano piovere benzina sulle zone in fiamme. Voglio respirare l'odore di barbecue dei sionisti". Un account da Gaza: "Gli aerei russi che bruciano i corpi siriani ogni giorno stanno aiutando a spegnere gli incendi all'interno dei territori occupati". Un altro: "Allah, aggiungi benzina fino a quando non arrivi la loro fine". Anche il celebre capo della sicurezza di Dubai, Dhahi Khalfan Tamim, ha scritto su Twitter: "Israele prende il fuoco benedetto da Allah".
   Sono apparsi anche dei meme. Il sito di informazione egiziano Almogaz ha pubblicato un meme che mostra una persona che dice a un'altra: "Israele sta bruciando". Risposta: "Ottimo. Nessuno al mondo può sopportarlo". Ieri Yisrael Hasson, ex vicedirettore dello Shin Bet, il servizio segreto interno, ha detto che è la prima volta che i terroristi palestinesi usano "un'arma di distruzione di massa".

(Il Foglio, 26 novembre 2016)


Un Canadair impegnato contro gli incendi
Pompieri al lavoro
Il lavoro dei pompieri
Un pompiere all'interno di una casa bruciata
Un Canadair in azione
Una notte vicino ad alcune auto bruciate
Un vigile del fuoco nel villaggio di Beit Meir
I danni del fuoco in una zona fuori di Haifa
Terzo giorno di incendi in Israele
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                                                                               Foto LaPresse


Pompieri palestinesi per domare le fiamme ad Haifa

Dopo quattro giorni di incendi il fuoco minaccia le colline di Gerusalemme. Finora 13 arrestati, c'è anche un giornalista arabo

Al quarto giorno di strenua lotta contro il moltiplicarsi di incendi, i vigili del fuoco israeliani hanno bloccato le fiamme nella città di Haifa, ma si sono dovuti cimentare ancora con roghi minacciosi su colline vicine a Gerusalemme. Oltre alle condizioni meteo eccezionalmente avverse - fra cui una siccità di mesi, e venti che spirano con forza da giorni - il premier Benjamin Netanyahu imputa i furiosi incendi che hanno messo in ginocchio il Paese anche all'attizzamento di fuochi da parte di nazionalisti palestinesi. «Ci sono qua fondamenta di terrorismo, non c'è dubbio - ha affermato. - Noi vediamo cellule-cellule, non so dire se esse siano collegate fra di loro. Ma sono nettamente ispirate dalle reti sociali».
   Finora, afferma la polizia, sono tredici gli arresti di persone sospettate di essere collegate ad incendi. Fra queste anche un giornalista arabo sospettato di incitamento: ma l'interessato si dice vittima di uno sfortunato malinteso. Il suo testo, sostiene, era satirico.
Sostenuti da 18 aerei anti-incendi giunti da una decina di Paesi (fra cui l'Italia) e aiutati anche da pompieri palestinesi accorsi dalla Cisgiordania, i vigili del fuoco israeliani sono riusciti a sedare gli incendi sviluppatisi a Haifa, che giovedì avevano reso necessario lo sgombero immediato di oltre 60 mila persone. Finora c'era stato un solo precedente: lo svuotamento di Tel Aviv e Haifa nel 1991, durante gli attacchi missilistici di Saddam Hussein. Ieri gli abitanti di Haifa hanno potuto rientrare in città. Ma 700 abitazioni sono danneggiate.
   Investigatori della polizia cercano intanto di stabilire in che misura gli incendi - se ne sono avuti oltre 500 in tutto il territorio nazionale - siano stati appiccati intenzionalmente o anche per negligenza. Il governo denuncia con insistenza che una parte parte significativa di essi sono di carattere doloso. «Chi vuole bruciare Israele sarà punito con severità» ha ribadito Netanyahu. Da parte loro i leader politici della minoranza araba in Israele e i dirigenti dell'Anp hanno condannato chi nel mondo arabo si è compiaciuto per gli incendi in Israele. Hanno anche accusato Netanyahu di speculare su di essi per fini politici. In questo contesto di polarizzazione fioriscono sia le sortite più o meno stravaganti di esponenti religiosi sia le teorie cospiratorie. Gli incendi sono presentati come una 'punizione divina' sia in siti islamici (sarebbero la ritorsione per un legge che mira ad eliminare gli altoparlanti della moschee in Israele) sia in un sito religioso ebraico: là un rabbino dei coloni si dice sicuro che il governo Netanyahu paghi così il prezzo per non aver ancora realizzato una attesa sanatoria per le terre dei coloni. Fra le teorie cospiratorie spicca quella di un ex leader di Peace Now: avanza il dubbio che dietro alle fiamme ci siano sostenitori del premier israeliano. Essi, azzarda su Facebook, intenderebbero distogliere così l'attenzione da rivelazioni giornalistiche che rischiano di pregiudicare la carriera del premier per l'acquisto di tre sottomarini in Germania.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 novembre 2016)


Israele dona un drone spagnolo a Medvedev. Madrid "preoccupata"

 
MADRID - Il governo spagnolo ha chiesto a Israele spiegazioni su una donazione che il ministro dell'Agricoltura Uri Ariel ha fatto al primo ministro russo Dmitri Medvedev. Si tratta di un drone che la spagnola Alpha Unmanned Systems SL aveva venduto a Israele e la cui cessione a Mosca "preoccupa" Madrid. Le autorità iberiche denunciano la violazione della legge che proibisce di rivendere a terzi tecnologie sensibili, e ancor più verso un paese soggetto a sanzioni dell'Ue. Arial aveva pensato al dono per ingraziarsi Medvedev, mostratosi entusiasta del funzionamento del velivolo senza pilota usato per il controllo dei vigneti. "Il problema", scrive "El Pais", è che il drone "contiene tecnologia sensibile e la sua esportazione richiede una autorizzazione esplicita del governo spagnolo". Le autorità competenti avevano dato il via libera alla vendita dello "Sniper" a Israele, solo dopo che il ministero dell'Agricoltura aveva firmato l'obbligatorio impegno a non rivendere, esportare o trasferire l'apparato a un altro paese. Trattandosi inoltre di un apparecchio di uso sia militare sia civile, il drone è compreso in una lista di tecnologie che possono essere vendute alla Russia solo con un permesso speciale. Il drone, spiegano i fabbricanti, costa circa 700mila euro, 650mila con lo sconto praticato nell'occasione, per aprirsi una porta nel mercato israeliano

(Agenzia Nova, 25 novembre 2016)


Rinnovato il Comitato Direttivo della Hevrat di Gerusalemme

GERUSALEMME - Si sono svolte ieri, giovedì 24 novembre, nella Casa d'Italia a Gerusalemme, le elezioni del nuovo Comitato Direttivo. In pratica si è tenuta la terza giornata dell'Assemblea Generale che era iniziata già alcune settimane fa, viste le dimissioni del Comitato uscente, sotto la presidenza di David Patsi.
Alle votazione ha preceduto un lungo e animato dibattito su gli argomenti più svariati, tra cui: i futuri lavori di ampliamento del Museo e della Sala delle Conferenze, attività culturali e per i giovani, rapporti con l'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv e Consolato d'Italia a Gerusalemme, rapporti con le diverse associazioni italiane, aiuti ai nuovi immigrati, rapporti tra la ONLUS del Museo U. Nahon e la ONLUS della Hevrà, pubblicazione del Notiziario in lingua italiana Kol HaItalkim.
A presiedere l'Assemblea è stato chiamato Beniamino Lazar, presidente del Comites Gerusalemme.
Al termine delle elezioni sono risultati eletti: Michael Sierra, Umberto Pace, Viviana Di Segni, Sergio Della Pergola, David Cassuto, Hillel Sermoneta e Samuele Rocca. Come membri del Comitato dei Proibiviri sono stati eletti: Angelo Piattelli, Ruhama Bonfil Piperno Beer e Vito Anav.
Al termine della Assemblea vi è stato un commiato da parte del presidente uscente David Patsi e del suo Comitato. Patsi ha anche mostrato ai presenti la targa che è stata offerta dal presidente Sergio Mattarella alla Hevrà in occasione della sua ultima recente visita a Gerusalemme e alla sinagoga di Conegliano Veneto.
Il nuovo Comitato eletto, nella prossima sua prima riunione, eleggerà il nuovo presidente della Hevrà.

(aise, 25 novembre 2016)


La donna che ha riportato in vita la comunità ebraica di Monaco

Storia di Charlotte Knobloch

 
Charlotte Knobloch
La Zeit del 21 novembre 2016 ha intervistato Charlotte Knobloch, presidentessa emerita delle Comunità ebraiche tedesche. Nasce a Monaco nel 1932 come Charlotte Neuland, figlia di un celebre avvocato ebreo. Siamo già nel pieno delle persecuzioni naziste. Charlotte, sotto il nome di "Lotte Hummel", sarà nascosta da una famiglia di contadini cattolici della Franconia per nove anni, mentre i suoi genitori moriranno nella Shoah.
Nel 1948, a 15 anni e mezzo, Charlotte desidererebbe emigrare, ma conosce il suo futuro marito Samuel Knobloch e decide di rimanere in Germania. Inizia così una carriera che la porterà alla presidenza delle Comunità ebraiche tedesche e a diventare una figura simbolo della Germania rinata dalle ceneri della guerra, spesso intervistata dai media per avere lumi sull'etica e sulle questioni più scottanti, come quella dei migranti al giorno d'oggi. Di recente è infatti intervenuta sulla Sueddeutsche Zeitung per elogiare la scelta di accogliere i profughi, dicendo che "fa bene" agli ebrei tedeschi vivere l'esperienza di una Germania che diventa "sinonimo di sicurezza e speranza" per chi soffre la persecuzione.
Il clou della sua carriera si ha quando riporta con determinazione la comunità ebraica di Monaco al centro della vita sociale e civile. Riesce a far erigere la nuova sinagoga di Monaco, con 9.500 posti, e un centro per la vita comunitaria. Sua anche la creazione del Museo ebraico di Monaco di Baviera.
Charlotte Knobloch ha raccontato la sua storia in un libro, Angekommen in Deutschland ("arrivata in Germania"). Ha saputo agire come una figura di riconciliazione tra ebrei e non ebrei particolarmente cara al pubblico tedesco, quindi al contesto dove si era sviluppato l'odio più feroce verso gli ebrei.
Nell'articolo di questa settimana, chiama "il mio salvataggio" la vicenda che la portò a decidere di non emigrare, cioè l'incontro con il marito, che alla loro prima uscita insieme fece un incidente con la macchina che li portò a conoscersi ... in ospedale. Questo atteggiamento anti-retorico, per cui valorizza il concetto di salvataggio riportandolo anche a eventi di vita quotidiana non riconducibili sempre al tema del nazismo (qui il "salvataggio" è ciò che le ha impedito di fare la scelta di lasciare la Germania), l'ha portata a diventare molto popolare e a promuovere con una certa leggerezza l'immagine degli ebrei tedeschi, pur facendo sempre capire come questi siano sempre leali alla patria, alla democrazia, allo Stato di diritto e all'Occidente.

(Gariwo, 25 novembre 2016)


Aumenta l'utile netto delle società energetiche israeliane Avner Oil e Delek

Per l'aumento della produzione di gas naturale nel giacimento Tamar

GERUSALEMME - Le società energetiche Avner Oil and Gas L Pe Delek Drilling LP, appartenenti al gruppo israeliano Delek Group Ltd., hanno registrato un aumento della produzione di gas naturale nel giacimento Tamar nel terzo trimestre dell'anno. La produzione di gas naturale ha raggiunto i 2,6 miliardi di metri cubi nel periodo di riferimento, rispetto ai 2,5 miliardi di metri cubi estratti nel terzo trimestre del 2015. Il dato del terzo trimestre del 2016 è in aumento anche rispetto al trimestre precedente, quando l'attività estrattiva di gas naturale ha raggiunto i 2,3 miliardi di metri cubi. Anche la produzione di condensati ha registrato un aumento nel terzo trimestre di quest'anno, toccando i 127mila barili, rispetto ai 117 mila barili dello stesso periodo di riferimento del 2015. L'incremento dell'attività estrattiva e della produzione ha generato un aumento dell'utile netto di Avner, che nel terzo trimestre ha raggiunto i 39,7 milioni di dollari, rispetto ai 36,8 milioni del terzo trimestre 2015. Anche l'utile netto di Delek ha registrato un aumento, passando dai 38,3 milioni di dollari del terzo trimestre 2015 a 41,1 milioni di dollari nel terzo trimestre di quest'anno.

(Agenzia Nova, 25 novembre 2016)


Pisa - Visita in Sinagoga della Commissione Cultura

Per la prima volta dopo il restauro 25 novembre 2016

PISA - Per la prima volta, dopo il lavori di restauro, la Commissione Cultura del Comune è andata a fare una vista alla Sinagoga della nostra città. I membri della Commissione Cultura del Comune presenti erano Virginia Mancini (Fi-Pdl), Maurizio Nerini (noiadessopis@), Mirella Bronzini (Fi-Pdl), Ferdinando De Negri (Pd), Alessandra Mazziotti (Pd) (quest'ultima è la presiedente di questa Commissione), Francesco Pierotti (Pd) e Maria Chiara De Neri (Pd). Per l'Amministrazione Comunale era presente l'assessore Andrea Serfogli. Per la Comunità ebraica erano presenti Paola Samaia, Paolo Molco e Federico Prosperi, il quale ha ricordato, brevemente, le origini di questo importante edificio di culto. "L'edificio è sede della Sinagoga di Pisa - ha detto Federico Prosperi - dal 1595 anche se da alcuni documenti abbiamo notizie di questo edificio già dal 1200. Fu trasformato una prima volta nel 1785 e interamente ristrutturato nel 1863 ad opera di Marco Treves. E' senza dubbio una delle Sinagoghe più antiche d'Italia". Come si ricorderà, nel 2007, l'immobile fu danneggiato gravemente da un forte temporale e il 21 giugno dello scorso anno, dopo i lavori di restauro che hanno interessato non solo le parti danneggiate ma l'intero immobile (lavori finanziati dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pisa e dal Mibac, cioè dal Ministero dei beni e delle attività culturali), la Sinagoga poi è stata riaperta. La Sinagoga è aperta non solo alle funzioni religiose ma ospita anche importanti eventi culturali, come il Festival Nessiah che proprio quest'anno festeggia 20 anni di attività e che si terrà dal 27 novembre all'11 dicembre prossimi

(#gonnews.it, 25 novembre 2016)


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Musica, cucina, cinema, arte: tutte le trame e i tessuti del festival Nessiah

Venti anni di vita, una delle rassegne più longeve a Pisa. Inaugurazione domenica 27 alla Gipsoteca di piazza San Paolo all'Orto.

PISA - Il festival Nessiah - organizzato dalla Comunità ebraica di Pisa e diretto dal Mo Andrea Gottfried, ideatore e fondatore - taglia un importante traguardo: 20 anni di vita. Il programma è stato presentato questa mattina nell'auditorium di Palazzo Blu dal direttore artistico, da Cosimo Bracci Torsi (Fondazione Pisa e Fondazione Palazzo Blu), dall'assessore alla cultura del Comune di Pisa Andrea Ferrante e dal presidente della Comunità ebraica di Pisa Maurizio Gabbrielli.

 L'appuntamento è da domenica 27 novembre fino all'11 dicembre.
 
Opera della stilista israeliana Michal Hidas
  Vent'anni è l'età del divertimento e della vitalità più gioiosa, e per festeggiarla Nessiah si regala alcune novità. Il tema scelto è "trame e tessuti" declinato nei diversi aspetti della cultura ebraica. La prima novità è un allestimento di un'Opera, "L'Amico Fritz" di Mascagni, in un formato coinvolgente e in grado di parlare anche ai non melomani (ecvento di chiusura 11 dicembre). Proseguendo il percorso nei cinque sensi quest'anno sarà, invece, privilegiato il tatto, raccontato da una mostra che associa tessuti e disegni di Michal Hidas, una delle più interessanti stiliste israeliane emergenti. Allestimento che aprirà domenica 27 il festival 2016 e che poi lascerà il palco al concerto (ore 21) della band Note Noir che proporra musica klezmer e gipsy.

 Nuova anche la location: la Gispoteca di Arte Antica in piazza San Paolo all'Orto.
  Sede (in realtà una delle prime in cui è andato in scena il festival, vent'anni fa) che si unirà alla splendida sinagoga di via Palestro.
La musica rimane la vera padrona di casa del festival, con proposte che fondono Medio Oriente e Berlino, Mitteleuropa e Gerusalemme. Ma anche non mancheranno il cinema (al cineclub Arsenale), e la cucina con il cooking show di cucina giudaico romanesca il 4 dicembre.

 Tutti gli appuntamenti sono a ingresso libero
  Il festival è organizzato dalla Comunità Ebraica di Pisa con il fondamentale contributo della Fondazione Pisa e del Comune di Pisa, la colalborazione di Fondazione Palazzo Blu e del Comune di Cascina. Il Festival fa parte di RE.T.E.-Rete Toscana Ebraica, progetto sostenuto dalla Regione Toscana nella figura di Monica Barni, vicepresidente regione e assessore alla cultura.

 La storia
  Il Festival Nessiah, in ebraico "viaggio", nasce nel 1997 dalla felice intuizione di Andrea Gottfried, all'epoca giovane pianista e direttore d'orchestra, che, con il sostegno della Comunità Ebraica di Pisa organizza una prima rassegna di 3 concerti nella città toscana. Negli anni il Festival cresce in geografia (arrivando fino a Lucca e a Livorno) e in qualità, grazie soprattutto alla partecipazione della Fondazione CaRiPi (oggi Fondazione Pisa) che ne garantisce la stabilità attraverso convenzioni pluriennali. Unico Festival del suo genere nel panorama nazionale, Nessiah è punto di riferimento e tappa fondamentale per tutti quegli artisti che hanno trasformato la ricerca all'interno del patrimonio culturale ebraico in un progetto professionale di arte, cultura, spiritualità e divulgazione. Grandi artisti internazionali e giovani sperimentatori, celebrità affermate e talenti esordienti hanno popolato i cartelloni delle varie edizioni declinando i temi che si sono susseguiti negli anni. Il fine ultimo è sempre stato quello di esplorare e raccontare la cultura ebraica in tutte le sue sfaccettature, mostrando la ricchezza della sua storia millenaria e la varietà delle tradizioni di luoghi diversi. Musica, teatro, cinema, letteratura, cucina, danza e tanti altri sono gli ingredienti che ogni anno si mescolano per creare un festival che coinvolge la città e il territorio in una reale sinergia virtuosa, che collega teatri e hotel storici, sale da concerto, ex chiese divenute teatri e, naturalmente, la sinagoga.

(La Nazione, 25 novembre 2016)


Etichette, Israele condanna la decisione della Francia

'Potrebbe incoraggiare il boicottaggio contro Israele'

Israele "condanna" il provvedimento annunciato ieri dalle autorità francesi che impone di apporre etichette particolari per le derrate alimentari provenienti da Golan, Cisgiordania e Gerusalemme Est, ossia da Territori situati oltre le linee armistiziali in vigore fino alla guerra dei sei giorni (giugno 1967). Quel provvedimento, è stato spiegato in Francia, è legato alle istruzioni pubblicate dall'Unione Europea nel novembre 2015. "C'è da rammaricarsi - ha commentato il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Emmanuel Nachshon - che proprio la Francia, che pure ha adottato una legge contro i boicottaggi, adotti provvedimenti del genere che potrebbero essere interpretati come un sostegno agli elementi radicali e al movimento per il boicottaggio di Israele". "Lascia inoltre stupiti e contrariati - ha aggiunto - il fatto che la Francia applichi un doppio-standard nei confronti proprio di Israele, ignorando invece 200 altri conflitti territoriali in corso nel mondo, fra cui quelli che avvengono in prossimità del suo stesso territori

(ANSAmed, 25 novembre 2016)


Israele brucia, fuga da Haifa. "Sono incendi dolosi politici"

Ondata di roghi devasta il paese. Fermati alcuni palestinesi accusati di aver appiccato il fuoco. Sfollate 80 mila persone. Il premier Netanyahu: atto di terrorismo.

di Giordano Stabile

Per Benjamin Netanyahu è semplicemente «terrorismo» e come tale «verrà trattato». Un'ondata spaventosa di incendi ha investito Israele negli ultimi tre giorni e i servizi di sicurezza sono convinti che almeno la metà dei focolai sia di origine dolosa. Siccità e vento forte li alimentano senza tregua e la città di Haifa è circondata dalla fiamme. Ottantamila persone hanno dovuto lasciare le loro case, decine sono rimaste intossicate dal fumo e le forze di sicurezza hanno dovuto evacuare anche due prigioni.
   La reazione del premier israeliano è stata durissima. «Ogni incendio doloso - ha chiarito - è un atto di terrorismo e così sarà considerato. Ci sono incendi per negligenza e altri appiccati. Questi ultimi stanno crescendo. Fronteggiamo un terrorismo dei piromani. Chi cerca di bruciare la terra di Israele sarà punito con la massima durezza». I fronti aperti sono talmente numerosi che i pompieri non possono intervenire ovunque. Netanyahu ha chiesto aiuto ai Paesi vicini e alleati.
   Italia, Turchia, Cipro, Grecia, Croazia hanno inviato tredici mezzi aerei. Da Roma sono giunti due Canadair. Altri mezzi-antincendio, mastodontici, sono in arrivo dalla Russia, promessi dal presidente Vladimir Putin in persona. Gli Usa hanno fatto decollare il loro Supertanker 747, in grado di spargere decine di migliaia di litri d'acqua a ogni passaggio. L'ondata di incendi è la peggiore dal 2010, quando ci furono 42 vittime.
   Al momento non ci sono morti o feriti gravi ma 132 persone sono state portate negli ospedali, compresi quattro bambini, perché intossicate dall'inalazione di fumo. Si teme che il bilancio possa aggravarsi, soprattutto ad Haifa. La Prigione Sei, sulle alture del Carme!, è stata svuotata d'urgenza e i detenuti portati in altre strutture. Centinaia di persone sono state anche evacuate dalla Cisgiordania. Le fiamme hanno investito la superstrada che da Gerusalemme porta a Te! Aviv e che attraversa vaste pinete, da ieri chiusa al traffico. In fiamme anche i boschi intorno a Nazareth.
   Ed è caccia ai piromani. Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld ha detto che alcuni palestinesi sono stati fermati e dovranno comparire in tribunale con l'accusa di aver appiccato il fuoco. «Il 50 per cento degli incendi sono dolosi», ha confermato il ministro per la Sicurezza interna Gilad Erdan. Lo Shin Bet, i servizi segreti interni, partecipa alle indagini.
I sospetti che i palestinesi stiano alimentando gli incendi per mettere in difficoltà Israele ha surriscaldato anche il clima politico. Il ministro per l'Educazione Naftali Bennett ha commentato: «Solo quelli che non appartengono alla nostra terra sono capaci di bruciarla». Con l'hashtag in arabo «Israele in fiamme» centinaia di commentatori hanno invece espresso gioia per le distruzioni.
Il leader della Lista Araba Unita Ayman Odeh ha respinto le accuse: «Non è questione di arabi contro ebrei - ha replicato -. Sono anche io un figlio di Haifa, ora l'unica cosa che conta è salvarla». Da Gaza, Hamas, secondo i media israeliani, ha lodato gli incendi, ma Fatah si è dissociata e il presidente palestinese Abu Mazen ha inviato quattro camion dei pompieri in aiuto agli israeliani.

(La Stampa, 25 novembre 2016)


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Il terrorismo degli incendi dolosi

I primi possono essere scoppiati per qualche stupida negligenza; poi si è scatenata la campagna dell'odio

Non bisogna essere un ispettore dei vigili del fuoco per capire che l'ondata di incendi scoppiata in tutto Israele nel giro di due-tre giorni non è né casuale né il semplice risultato delle condizioni atmosferiche. I primi due, tre, forse quattro incendi scoppiati martedì possono essere stati la conseguenza di atti di stupida negligenza: una sigaretta incautamente gettata nella boscaglia secca o un falò non spento bene alimentati dai venti caldi fino a causare danni considerevoli.
Ma lungo le giornate di mercoledì e giovedì è apparso sempre più chiaro che si era di fronte a qualcosa di ben più sinistro. Gli incendi vengono appiccati deliberatamente. E questa è la conclusione a cui sono giunti gli investigatori professionisti: certo non il tipo di persone che getta facilmente in pasto ai mass-media infondati proclami allarmistici....

(israele.net, 25 novembre 2016)


"Berlino calling": molti artisti israeliani si spostano a Berlino

di Arianna Tomaelo

 
Grazie alla sua apertura e allo spirito multi-culturale, si sa, Berlino è ormai la capitale europea più ambita dai giovani artisti. In particolare, qualche anno fa, l'israeliano Ohad Ben-Ari, compositore formatosi a Francoforte in età adolescenziale e trasferitosi poi a Berlino da adulto, ebbe un'idea. Per celebrare le sue origini israeliane e la sua nuova casa (Berlino, appunto), volle infatti creare una squadra di musicisti e ballerini con l'idea di costruire attraverso l'arte uno scenario che avvicinasse chi, come lui, viveva la condizione di israeliano espatriato. Un anno dopo, da quest'idea, nacque l'ID Festival, giunto già alla sua seconda edizione. La manifestazione gioca con i concetti di identità ed espressione (infatti ID sta proprio per identità) e ha luogo la terza settimana di ottobre presso il complesso del Radialsystem V. Attraverso concerti di musica classica, moderna e contemporanea, spettacoli di ballo e musical plurilingui (si recita in tedesco, inglese e yiddish), il festival si propone di raccontare quella che è la questione dell'identità per i giovani artisti che cercano loro stessi a Berlino e si trovano a dover convivere con la doppia condizione di israeliano e di immigrato. Ma poter realizzare questo sogno non è stato facile, né per Ohad Ben-Ari, né per i suoi compagni.
   Ancora oggi chi decide di lasciare la "Terra Promessa" per altri orizzonti, deve molto spesso subire la stigmatizzazione di una società che non sa guardare avanti. Infatti, dopo gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, il popolo tedesco si è sempre sentito un po' responsabile per il benessere della popolazione israeliana, al punto da favorirne l'immigrazione in Germania. Il governo israeliano ha chiamato questa tendenza, con toni anche un po' provocatori, "Berlino Calling".
La discussione attorno al tema "Berlino sì-Berlino no" è diventata negli ultimi cinque anni un punto centrale per gli israeliani, che si ritrovano divisi in due fazioni. Yerida e Aliya, discesa e ascesa, sono i due termini cardine di questa disputa, che rispettivamente rappresentano l'emigrazione, e quindi l'ennesima diaspora per il popolo ebreo, e l'immigrazione, il ritorno alla Terra Promessa, alla ricerca di un ceppo comune. Nonostante solo il 20% della popolazione israeliana si opponga categoricamente a questo nuovo esodo, la sua voce risuona chiaramente quando accusa chi parte di essere "traditore e corrotto".
   In realtà gli israeliani si stanno dirigendo in diversi punti d'Europa e degli Stati Uniti, e non solo a Berlino, chi per ritrovare le radici perse durante la Shoa, chi per cercare un nuovo equilibrio. Tuttavia a essere presa di mira è solo Berlino: perchè?
Ricordate la polemica sorta su Facebook qualche anno fa sul prezzo di un budino che risultava essere quattro volte più economico nella capitale tedesca che in quella dello Stato di Israele? Ecco, dopo questo post si scatenò un polverone e molti accusarono Berlino di rendersi "attraente per i giovani" e questi stessi giovani di essere disposti a lasciare la propria terra solo per risparmiare qualche soldo e a vendersi a quel popolo che, 70 anni prima, era stato il fautore delle terribili sofferenze degli ebrei.
   Una discussione anacronistica, dal momento che Angela Merkel e Reuven Rivlin risultano essere in ottimi rapporti. La Germania ha ripristinato il suo status di amica di Israele già negli anni anni '50 e ad oggi l'intercambio di cultura, industria, prodotti alimentari e giovani talenti tra i due Stati non si può che dire fruttuoso: i tedeschi acquistano la tecnologia israeliana e gli israeliani si servono delle auto tedesche. Addirittura, la Germania copre il terzo posto del podio tra i partner commerciali di Israele.
   C'è da fare un altro appunto: l'identità israeliana troppo spesso viene assimilata totalmente a quellla ebrea, perciò quando si parla di giovani israeliani che decidono di venire a vivere a Berlino, molte volte si perde il nocciolo della questione: sono artisti, sono cittadini del mondo, e cercano loro stessi a Berlino perchè è una città che dà loro gli strumenti per potersi realizzare.
Il festival non vuole infatti avere connotazione religiosa. Il suo scopo è solo quello di portare sul palco la multiculturalità di Berlino e le emozioni, la tenacia e lo spirito pacifista di questo gruppo di giovani artisti.

(Il Mitte - Berlino, 25 novembre 2016)


Chat su Facebook tra un generale israeliano e palestinesi

Su questioni pratiche e politiche. Ma per Hamas 'è propaganda'

Un insolito scambio di vedute fra palestinesi e un generale israeliano circa la situazione politica nei Territori ha avuto luogo ieri mediante una pagina Facebook. La' il generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività israeliane nei Territori, ha raccolto le domande provenienti dalla Cisgiordania e da Gaza e ha risposto in arabo.
La maggior parte delle domande, riferisce il sito Ynet, facevano riferimento a questioni di carattere pratico, fra cui le modalità di ingresso in Israele. Ma qualcuno ha anche voluto verificare con il generale se almeno lui fosse in grado di prevedere quando dovrebbe terminare la occupazione militare israeliana.
L'ufficiale ha risposto che "con una mano sola non si può applaudire" lasciando cioè intendere che Israele avverte la mancanza di un adeguato partner palestinese. Da Gaza Hamas ha messo in guardia dal fare riferimento alla pagina Facebook del gen. Mordechai la cui finalità, ha avvertito, sono di propaganda e di intelligence.

(ANSAmed, 25 novembre 2016)


Ricercatori israeliani dimostrano come hackerare un computer con una lampadina

Un team di ricercatori del Weizmann Institute ha recentemente dimostrato come gli hacker possono utilizzare il più semplice dei dispositivi domestici, una lampadina, per hackerare un computer e lanciare un cyber attacco su larga scala.
I ricercatori israeliani si sono concentrati sulla violazione di ordinari dispositivi collegati a internet, per mostrare come sia facile prendere il controllo dei dispositivi e sferrare un attacco hacker.
L'esperimento è stato effettuato da Eyal Ronen, Colin O'Flynn, Adi Shamir e Achi-O Weingarten. I ricercatori si sono concentrati su semplici lampadine intelligenti (come quelle della Philips, controllabili tramite wi-fi) per dimostrare come da una sola di esse sia possibile far partire un attacco su grande scala, come se fosse una reazione a catena.
Questo il commento dei ricercatori:
L'attacco può iniziare inserendo una sola lampadina "infetta" in qualsiasi punto della città, e quindi far partire in modo catastrofico la diffusione dell'attacco in tutto il mondo in pochi minuti.
Il team è riuscito a infettare a distanza la prima lampadina sfruttando una debolezza del protocollo ZigBee Light Link, il linguaggio wireless che dispositivi di uso quotidiano utilizzano per connettersi l'uno all'altro.
In un altro esperimento il team è riuscito a prendere il controllo delle luci di una stanza presso il Weizmann Institute.
Abbiamo usato solo delle attrezzature che costano qualche centinaio di dollari che sono dunque facilmente reperibili.
Il team avverte che questo è solo l'inizio del problema ed hanno già avvertito la Philips di questa falla nella sicurezza dei loro dispositivi i quali sono già intervenuti per risolverla.

(SiliconWadi, 25 novembre 2016)


Gli ebrei amano Trump? Dipende

Preoccupa l'ostilità di Trump nei confronti dell'Iran.

di Alberto Pasolini Zanelli

NEW YORK - Il Medio Oriente è da secoli l'area più complicata dell'orbe terracqueo. Da decine e decine di anni è anche quella più insanguinata. Da più di cinque è teatro di una guerra che sono in realtà almeno sette. E per teatro delle iniziative diplomatiche più numerose e più contrastanti per cercare di risolvere o almeno raffreddare alcuni o tutti i focolai bellici e di terrore. A complicare ulteriormente l'equazione mediorientale è arrivato adesso Donald Trump. Non dalla Casa Bianca, dove continua ad abitare e a gestire il potere Barack Obama, fino al 20 gennaio. Ma come vincitore delle elezioni presidenziali e dunque futuro leader dell'America e del mondo, che ancora deve riprendersi dalla sorpresa e dallo choc della sua vittoria, che pochissimi prevedevano e pochi auspicavano, in tutte le fette di mondo, a cominciare dai protagonisti della inestinguibile guerra in quella regione.
   Di Obama si sapeva pressappoco che cosa cercava e auspicava, anche se spesso con esitazioni, contraddizioni e astensioni teoricamente provvisorie. Di Trump non si sa praticamente nulla e quel che traspare delle sue intenzioni o almeno preferenze è troppo spesso contraddittorio. Lo si vede meglio, paragonandolo, punto su punto, al suo predecessore. In netta minoranza nel voto degli americani ebrei, egli è popolare in Israele, a cominciare dal primo ministro Netanyahu che negli ultimi otto anni non ha fatto che incrociare il ferro con Obama e che ha dato una spintarella a Trump durante la campagna elettorale. Egli si aspetta un appoggio e probabilmente lo avrà, almeno se riuscirà per l'ennesima volta a respingere l'offensiva dell'opposizione interna che sembra avere un nuovo leader in Yair Lapid, un «centrista-molto polemico che, per hobby, scrive romanzi gialli. L'amore di Trump per Israele si sintetizza nella sua apparente intenzione di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico mettendo fine al ruolo provvisorio di Tel Aviv: un modo simbolico per seppellire definitivamente il progetto dei due Stati in Palestina, promesso da decenni alla minoranza etnica.
   L'uomo che sta per entrare nella Casa Bianca ha martellato inoltre con insistenza la necessità di una guerra globale e coerente contro i terroristi dell'Isis e quelli affiliati ad Al Qaida. Però egli ha prodotto, più o meno, allo stesso tempo, una serie di dichiarazioni fortemente ostili all'Iran, culminanti nel progetto di «cancellare-il trattato faticosamente concluso da Obama con il regime di Teheran, che rinuncia, per diversi anni, alla costruzione di armi nucleari. Trattato duramente criticato da Israele e appoggiato invece dalla maggioranza degli ebrei americani e degli americani in genere, che prendono atto del fatto che il governo mediorientale più deciso e coerente nella lotta contro i terroristi è proprio l'Iran. Trump sembra avere ereditato, almeno in questo, le scelte di Obama.
   Se alle parole seguiranno i fatti, la guerra quinquennale in Siria, che oggi sembra volgere contro l'Isis, potrebbe invece rimanere «bloccata-a tempo indeterminato. Questa contraddizione, inoltre, verrebbe a rafforzare la contraddittorietà con lo sviluppo politico-militare più importante oggi nel pianeta, fra l'America e la Russia, che ha riportato in parte un'atmosfera da Guerra Fredda. A differenza di Obama, Trump ha esordito con uno scambio di calorose parole con Vladimir Putin, che potrebbero preannunciare una «ricucitura-almeno parziale che tenga conto non solo della Siria, problema più urgente, ma anche dei postumi della crisi fra Russia e Ucraina e dei timori di alcuni esponenti di Washington riguardo i Paesi baltici, che sono membri della Nato. Il punto focale pare essere la Lettonia, dove gli Usa e alcuni Paesi europei fra cui l'Italia stanno inviando rinforzi. Negli altri due paesi la tensione ha prodotto cambi di governo: la Lituania assume una linea più esplicitamente antirussa mentre in Estonia è salito al potere il partito votato a forte maggioranza dalla minoranza etnica di lingua russa.
   Il debutto di Trump sembra dunque dover avvenire in forte misura nel terreno della politica estera, in cui l'establishment americano è apparso negli ultimi anni fortemente diviso, con una spaccatura che investe entrambi i partiti e l'establishment in genere. I falchi hanno appoggiato compatti Hillary Clinton, fautrice di una continuità antagonistica nei confronti del Cremlino. La sconfitta del candidato democratico ha aperto la strada a mutamenti di rotta e soprattutto alle incognite sulle decisioni che prenderà Donald Trump, un uomo finora con assai più fantasia che esperienza.

(ItaliaOggi, 25 novembre 2016)


L'Inter ko in Israele con l'Hapoel, fuori dall'Europa

Nerazzurri sconfitti 3-2 dopo avere chiuso il primo tempo avanti di due reti

La solita, pazza Inter cade in Israele e conclude con una giornata di anticipo la sua avventura in Europa League. Serviva una vittoria alla squadra di Pioli per alimentare le già flebili speranze di restare in corsa: invece, i nerazzurri vengono sconfitti ancora una volta dall'Hapoel Be'er Sheva, già capace all'andata di espugnare San Siro. Inter a due volti: dopo un ottimo primo tempo, chiuso in vantaggio di due reti grazie a Icardi e Brozovic, i nerazzurri crollano inspiegabilmente nella ripresa, dove rimangono in dieci per l'espulsione di Handanovic, venendo colpiti tre volte. La quarta sconfitta nel girone dei milanesi fa calare il sipario sull'obiettivo continentale con un turno di anticipo, il progetto ricostruzione di Pioli si complica.
   Nessuna sorpresa nell'undici scelto da Pioli, all'esordio europeo della sua gestione nerazzurra: in difesa Nagatomo viene preferito ad Ansaldi, a centrocampo Melo sostituisce l'infortunato Medel. Nel tridente in supporto a Icardi Banega affianca Eder e Candreva. Israeliani pericolosissimi dopo tre minuti con un velenoso cross di Buzaglo: la deviazione di Nagatomo indirizza la palla sulla traversa. Alla prima vera occasione sono però i nerazzurri a sbloccare il risultato. Cross perfetto di Eder dalla sinistra per l'inserimento di Icardi, che batte da pochi passi Goresh e sigla lo 0-1 (13'). Una splendida azione dell'Inter porta al raddoppio: Banega serve Brozovic, che si accentra e dal limite lascia partire un gran sinistro che non lascia scampo al portiere di casa. Per il croato, primo centro europeo in stagione. Senza troppe difficoltà, al 24' la squadra di Pioli è già avanti di due reti e la strada appare decisamente in discesa. L'Hapoel non riesce a creare grattacapi alla retroguardia ospite.
   In apertura di ripresa l'Inter sfiora il tris con Icardi, il cui destro da posizione defilata trova l'opposizione della traversa. Il calo di concentrazione costa caro ai nerazzurri perché l'Hapoel la riapre al 15' con Maranhao, che sfugge a Miranda e di testa in tuffo spedisce in rete il cross di Radi. La prima mossa di Pioli è la staffetta Eder-Perisic, seguito dall'ingresso di Gnoukouri per Melo, ma gli israeliani hanno preso fiducia e si fanno vedere in avanti con una conclusione al volo di Ogu e un tentativo di Nwakaeme che non inquadra di poco la porta. Le cose si complicano per i nerazzurri al 25': l'intervento, netto, di Handanovic su Buzaglo in area causa l'espulsione del portiere, già ammonito, e il rigore per i padroni di casa. Dagli undici metri si presenta Nwakaeme, al neo entrato Carrizo, dentro per Banega, non riesce il miracolo: 2-2, risultato impensabile all'intervallo. Ora è assedio Hapoel, l'Inter prova a reagire con Icardi che spara il destro al volo ma sbaglia completamente la mira. Poi ci prova Candreva con un diagonale dal limite, Goresh si rifugia in angolo. Ma nel finale gli israeliani si rendono ancora minacciosi, Carrizo deve intervenire su Buzaglo, Ogu e Ghadir. La serata maledetta dell'Inter si completa in pieno recupero, quando in contropiede, con la squadra di Pioli riversata tutta in avanti, il neoentrato Sahar sfrutta l'assist di tacco di Ghadir, trafigge Carrizo e regala ai padroni di casa la vittoria.

(La Stampa, 24 novembre 2016)


K.it conquista anche Israele

Grande interesse ha suscitato in Israele la presentazione di Kosher Italian Guide, l'app realizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico in collaborazione con Federalimentare, Unione delle comunità ebraiche italiane e Fiere di Parma per favorire la diffusione di informazioni e contenuti sull'alimentazione permessa dalla Halakhah, la Legge ebraica.
Occasione del lancio la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, approdata in queste ore anche a Tel Aviv con il sostegno dell'Ambasciata e dell'Ufficio ICE. La sfida della Kosher Italian Guide e del marchio K.it precedentemente ideato dall'UCEI è stata illustrata dall'assessore all'Unione Jacqueline Fellus, che all'Ansa ha ribadito l'importanza imprescindibile nel mercato italiano di uno strumento che faciliti il consumo di prodotti casher e li renda fruibili anche oltre i confini nazionali. Un servizio rivolto quindi a molti potenziali fruitori, e con benefici sia per i consumatori che per le aziende coinvolte. "Spesso - ha sottolineato Fellus - il Made in Italy agroalimentare è casher ma non se ne ha conoscenza: questa app permette di avere una chiara e immediata visione della disponibilità dei prodotti, dell'affidabilità e della validità delle certificazioni". Tra i protagonisti della Settimana della Cucina Italiana anche la chef Laura Ravaioli.

(moked, 24 novembre 2016)


Haifa: Al via la costruzione di un complesso per le scienze della vita

 
Sono passati 40 anni da quando la Haifa Economic Corporation (HEC) aprì il Matam Hi-Tech Park alle porte sud della città. Oggi, circa 10.000 persone lavorano in 50 aziende ospitate all'interno dei suoi 240.000 metri quadrati, tra cui Intel, Elbit, Google, IBM, Microsoft, Yahoo e Philips.
Entro la fine di quest'anno, il Matam avrà un compagno dall'altra parte della strada: il primo dei cinque edifici previsti, che comporranno il Life Sciences Park.
Ciascun piano di ogni edificio sarà dotato di laboratori, incubatori e altre numerose strutture. In totale, gli edifici copriranno una superficie di 85.000 metri quadrati. Si tratta di un progetto congiunto di Haifa Economic Corporation (HEC) e la società immobiliare Mivne Group.
Queste le parole di Or Shahaf, a capo dell'HEC.
Vogliamo far diventare Haifa la capitale delle scienze della vita di Israele.

Haifa è uno dei poli principali in cui hanno sede le aziende che si occupano di tecnologia medica israeliana. Di circa 1.000 aziende, il 65% sviluppa dispositivi medici, mentre il 20% si occupa di biopharma ed il restante focalizza le proprie attività in settori come diagnostica, biochimica e software.
Come sottolineato da Shai Melcer, direttore esecutivo di BioJerusalem, attualmente Gerusalemme è l'unica città israeliana con un complesso per le scienze della vita pienamente operativo, che vanta circa 130 aziende biomediche e tre nuovi centri per l'innovazione. Il Jerusalem Bio Park, costruito quasi 10 anni fa, presso il campus di Ein Kerem dell'Hadassah Medical Center e vicino alla Facoltà Medicina dell'Università Ebraica di Gerusalemme, è stato il primo luogo in Israele ad ospitare i tre pilastri tutti insieme: l'industria, la medicina e il mondo accademico.
L'area di Rehovot / Ness Ziona è un altro hub molto importante per le scienze della vita, con circa 90 aziende che occupano la Rehovot Science Park e il Ness Ziona's Kiryat Weizmann.
Ora è il turno di Haifa perché il campo delle scienze della vita è in crescita e sempre più aziende sono alla ricerca di luoghi ad hoc.

(SiliconWadi, 24 novembre 2016)



Parashà della settimana: Chaye Sarah (Vita di Sara)

Genesi 23:1-25:18

 - La Torah impiega un'espressione particolare per dirci sulla vita di Sara: "di 127 anni fu la vita di Sara" (Gen.23.1).
Difatti la nostra parashà che si intitola "la vita di Sara" inizia con il riportare la sua morte. La tradizione orale chiama i saggi "viventi" anche dopo la loro morte perché il loro esempio sia da insegnamento per le generazioni future. Il merito di Sara è stato quello di indicare alle donne d'Israele sia la strada del focolare domestico (sposa) che l'impegno nella società. La Torah offre numerosi esempi di donne che sono state alla ribalta della Storia del popolo ebraico, come nella liberazione dalla schiavitù nella terra d'Egitto. Tra queste troviamo Miriam (sorella maggiore di Moshè) e le "sagge donne", cioè le ostetriche che, contravvenendo agli ordini crudeli del Faraone, aiutarono le donne ebree a partorire (Es. 1.17).
Esiste dunque questo doppio aspetto della personalità femminile, caratteristica questa della prima matriarca d'Israele, che ha fatto progredire la storia secondo il disegno voluto da D-o Benedetto. E' stata Sara difatti a diagnosticare l'influenza negativa di Ismaele, figlio di Agar, su Isacco, cosa che Abramo aveva del tutto sottovalutato (Gen. 21.10). Una situazione simile si ripeterà con Rebecca, che prenderà l'iniziativa della scelta tra Esaù e Giacobbe, sapendo, contrariamente a suo marito, che attraverso Giacobbe passerà l'identità del futuro popolo ebraico.
Da dove viene alla donna questa comprensione? Dalla sua stessa creazione. La Torah a questo riguardo usa il verbo "vayven" (formò) che viene dalla radice "binà" cioè discernimento (Gen. 2.22).

La morte di Sara
Abramo pianse la morte di sua moglie Sara. Di fronte alle necessità della vita dovette riprendersi. Il suo primo dovere fu quello della sepoltura e il secondo il matrimonio di suo figlio Isacco.
"Sara morì in Kiryath Arba oggi Hevron in terra dei Cananei" (Gen. 23.2). Abramo cercava presso la popolazione dei Chittiti una tomba per la sua amata moglie chiedendo a costoro un sepolcro come proprietà. I Chittei che avevano rispetto di Abramo acconsentirono a cedere la tomba ed Abramo aggiunse: "Intercedete per me presso Efron affinché mi ceda la sua grotta di Machpelà come "proprietà" (Gen.23.8).
Efron, dopo trattative, accetta di vendere per la grossa somma di 400 shekalim d'argento ad Abramo la grotta di "Machpelà che è di fronte a Mamrè" (Gen. 23.17).
Bisogna ora chiedersi: "Quale è il significato del fatto che il primo ebreo in terra di Canaan acquisti una tomba?" In tutto il mondo antico il solo diritto accordato ad uno straniero era la sepoltura. Abramo rifiuta una tomba a titolo gratuito per Sara, chiedendo ad Efron di pagare allo scopo di creare un posto separato ebraico per la sepoltura. La tomba di Sara simbolizza la sua "identità". Pertanto deve essere sepolta come ebrea e non come chittita. La tomba rappresenta sia il passato che il futuro di un individuo o di una Nazione e per questa ragione la più piccola parte in terra d'Israele è stata un posto di sepoltura. Difatti le attuali battaglie con gli arabi palestinesi avvengono proprio in Hevron dove sono sepolti i patriarchi d'Israele e in Schehem per la tomba di Giuseppe, nel tentativo di distruggerne la memoria storica.

Matrimonio di Isacco
Dopo la prova della "Akedà" Isacco ha terminato il suo lavoro di preparazione e può prendere moglie. Abramo sa dove si trova la famiglia della sposa, conosce anche il suo nome, Rebecca figlia di Bethuel e chiede al fedele servitore Eliezer di cercare una fanciulla per Isacco nel paese dei suoi padri. Abramo disse al suo servo: "Poni la tua mano sotto la mia coscia" (Gen.24.2) che significa giurami sulla "circoncisione" che non prenderai per Isacco, una donna Cananea, ma andrai nel mio parentado dove prenderai moglie per mio figlio. Questa scelta di Abramo è rivolta alla futura sposa, a cui chiederà di imitare il suo esempio, che è stato quello di abbandonare la sua famiglia per chiudere con un passato fatto di idolatria verso una nuova vita.
L'incontro di Rebecca con Eliezer rivela la sua indole. Eliezer chiese solo un sorso d'acqua per se stesso, ma Rebecca offrì da bere anche ai suoi cammelli. In più si precipitò in casa chiedendo a sua madre di ospitare il nuovo arrivato al contrario di suo fratello Labano che andò incontro all'ospite solo dopo aver visto i suoi doni.
Rebecca senza esitazione, nonostante le resistenze della sua famiglia. accetta la proposta del servo di Abramo di andare insieme alla sua ancella nella terra di Canaan per incontrare Isacco, che abitava nel paese di Mezzogiorno.

La morte di Abramo
"Abramo finì la vita …. e si riunì alla sua gente. Isacco e Ismaele suoi figli lo seppellirono nella grotta di Machpelà nel campo di Efron chitteo" (Gen. 25.8).
Il testo della Torah fa precedere il nome di Isacco a quello di Ismaele. Come mai questa primogenitura di Isacco? Perché Ismaele aveva fatto "teshuvà" (pentimento) cioè aveva riconosciuto in Isacco la continuazione della tradizione di Abramo. Il merito di questo "ritorno" di Ismaele è opera della severità di Sara e non della permissività di Abramo nei suoi confronti.

*

 - All'età di centoventisette anni, Sara muore. Il marito naturalmente per un certo tempo la piange, poi è costretto a porsi un'ovvia domanda: dove posso seppellirla? Il problema si pone, perché lui in quel paese non possiede nemmeno un centimetro quadrato di terra. Deve richiederla, e per questo si rivolge a un certo Efron, a cui però dice che non vuole favori, non vuole niente in dono: chiede di poter comprare la terra necessaria. Dopo le solite cerimonie mediorientali, la terra gli viene venduta. E a caro prezzo.
In tutto questo però c'è una stranezza: ad Abramo, quando ancora si trovava tra Bethel e Ai, Dio aveva fatto una precisa promessa. Gli aveva detto:
"Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre" (Gen. 13:14-15).
Dunque Abramo avrebbe dovuto essere il proprietario di tutta quella terra, e invece adesso si trova lì come "straniero e avventizio" (come un extracomunitario, diremmo noi oggi) ed è costretto a chiedere cortesemente agli abitanti della zona di cedergli un po' di terreno, non per viverci, ma almeno per poterci morire come proprietario. "Dio non mantiene le promesse", avrebbe potuto dire Abramo, come fanno oggi tanti cittadini quando parlano delle loro autorità (non senza qualche ragione). Qualcuno potrebbe spiegare la cosa con un discorso spirituale: Abramo è il vero proprietario perché è in comunione con Dio, che è proprietario di tutto. Altri potrebbero fare un discorso storico: la terra apparterrà un giorno al popolo che discende da Abramo, quindi in potenza appartiene già a lui. Certo, si potrebbero fare simili dotti discorsi, che però non sembrano consoni a quello stile ebraico di provenienza biblica che non gradisce le fumose astrazioni e predilige il linguaggio concreto delle cose.

Promessa non mantenuta?
Parlando di quel concretissimo paese in cui Abramo si trovava, Dio gli dice: "lo lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre"; quindi non solo alla discendenza, ma anche ad Abramo stesso, personalmente. Ma Abramo nella sua vita non vide compiersi tutto questo. Si deve spersonalizzare la cosa e cercare in essa un senso spirituale o storico-politico? Il Signore aveva detto ad Abramo: "Àlzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te" (Gen. 13:17). E' difficile spiritualizzare o storicizzare una frase secca, concreta e precisa come questa.
Abramo ubbidì all'ordine di Dio: si alzò, levò le tende e cominciò a percorrere in direzione sud la terra che gli era stata destinata. Finché arrivò "alle querce di Mamre, che sono a Hebron" (Gen. 13:18). Lì si fermò, "edificò un altare all'Eterno", e qualche anno dopo edificò una tomba per lui e sua moglie sull'unico pezzo di terra che era diventato di sua proprietà, dopo averlo pagato a peso d'oro. "Ma dov'è la promessa di Dio?" Avrebbe potuto chiedersi Abramo. E comprensibilmente avrebbe potuto piantare tutto e finire i suoi giorni arrabbiato con quel Dio che l'aveva deluso.
Sta scritto invece che "Abraamo spirò in prospera vecchiaia, attempato e sazio di giorni, e fu riunito al suo popolo" (Gen. 25:8).

Importanza della terra
Prima ancora di tentare una spiegazione, si deve osservare che in tutta la storia del patto di Dio con Abramo la terra gioca una parte fondamentale. La cosa viene ripetuta più volte:
"In quel giorno l'Eterno fece un patto con Abramo, dicendo: 'Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate" (Gen 15:18).
E più avanti, in modo ancora più solenne:
"Stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. A te e alla tua discendenza dopo di te darò il paese dove abiti come straniero: tutto il paese di Canaan, in possesso perenne; e sarò loro Dio" (Gen. 17:7-8).
Questo versetto è importantissimo, anzitutto perché collega per ben due volte la persona fisica di Abramo con la sua discendenza; in secondo luogo perché si parla di possesso perenne del paese, mettendolo in collegamento con il patto perenne tra Dio ed Abramo. Se cade il possesso perenne della terra da parte della discendenza etnica di Abramo, cade anche tutto il resto del patto di Dio con Abramo, compresa la parte che riguarda la giustizia per fede promessa alla discendenza spirituale, cioè a coloro che saranno giustificati per una fede simile alla sua.

Dio non è un Dio di morti
La promessa apparentemente non mantenuta dal Signore e il tranquillo atteggiamento di Abramo possono trovare una spiegazione nel capitolo 15 della Genesi. Nell'oscurità profonda e spaventosa di quella notte, quando Abramo vide un fuoco divino passare in mezzo agli animali divisi e ricevette la notizia che i suoi i discendenti sarebbero vissuti per quattrocento anni come stranieri in un paese non loro; e dopo che il Signore l'ebbe personalmente rassicurato dicendogli che lui comunque avrebbe finito i suoi giorni in prospera vecchiaia, ebbe la certezza che il piano di Dio si sarebbe sicuramente compiuto, ma in un passaggio attraverso la morte che avrebbe portato alla risurrezione.
Si sa che la questione della risurrezione non è trattata in modo chiaro ed esaustivo nell'Antico Testamento, ma si sa anche che nell'ebraismo il tema non è mai stato abbandonato.
Nei Vangeli si vedono due gruppi in contrasto fra di loro su questo argomento: i farisei, che credevano nella risurrezione dai morti, contro i sadducei, che non vi credevano, perché secondo loro nella Torah propriamente detta, cioè nei cinque libri di Mosè, non vi sarebbe alcun riferimento in proposito. I sadducei sottoposero la questione anche a Gesù, pensando di metterlo in imbarazzo con una storiella ironica. In questo caso Gesù si schierò apertamente dalla parte dei farisei. E poiché i sadducei si attenevano soltanto all'autorità dei libri di Mosè, Gesù citò un passo contenuto proprio in un libro di Mosè:
"Quanto poi ai morti e alla loro risurrezione, non avete letto nel libro di Mosè, nel passo del pruno, come Dio gli parlò dicendo: 'Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe'? Egli non è Dio di morti, ma di viventi. Voi errate grandemente" (Mar. 12:26-27).
Se Abramo, Isacco e Giacobbe fossero morti per sempre, allora Dio, che vive per sempre, sarebbe per sempre un Dio di morti. Così risponde Gesù, e ragionando in questo modo conferma ancora una volta di essere un vero ebreo, anche nel modo di argomentare.

La speranza di Abramo
La fede di Abramo si espresse dunque anche nella forma della speranza, perché credette che la morte, anche la sua morte personale, non avrebbe potuto impedire il compiersi delle promesse di Dio.
"Or la fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono" (Ebr. 11:1), dice l'autore della lettera agli Ebrei. E continua facendo più volte riferimento a testimoni dell'Antico Testamento:
"Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio" (Ebr. 11:8-10).
"Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: 'È in Isacco che ti sarà data una discendenza'. Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebr. 11:17-19). M.C.

  (Notizie su Israele, 24 novembre 2016)


Yoel Edelstein: l'accordo di libero scambio con l'Ucraina può essere concluso nel 2017

L'accordo sulla zona di libero scambio tra Ucraina e Israele, vantaggioso per entrambi i paesi, può essere concluso nel 2017. Lo ha detto il presidente del parlamento Israeliano (Knesset) Yoel Edelstein sul forum a Kiev», UNIAN».«Spero e mi auguro che nel prossimo 2017 accordo sulla zona di libero scambio tra Ucraina e Israele possa essere concluso», ha detto.
Edelstein ha sottolineato che la parte israeliana è di accelerare l'esame delle questioni connesse con la conclusione di un accordo. «Anche noi abbiamo organi che devono spingere per accelerare il processo», — ha detto il presidente del parlamento israeliano.
Secondo lui, particolarmente importante può diventare la cooperazione tra Ucraina e Israele nel settore delle alte tecnologie.
Le trattative tra Ucraina e Israele sulla formazione di una zona di libero scambio erano state sospese nell'estate del 2013. Nel settembre 2015 Kiev e Gerusalemme hanno ripreso il dibattito. Nel mese di luglio di quest'anno, le parti hanno tenuto il terzo round di negoziati, che ha permesso ai due paesi arrivare alla fase finale di discussione sulle condizioni per la costruzione della zona di libero scambio. Alla fine di settembre, il presidente dell'Ucraina, Poroshenko, ha concordato con il presidente dello Stato di Israele, Rivlin, di accelerare i negoziati per la conclusione di un accordo sulla zona di libero scambio tra i due paesi.

(Notizie da Ucraina, 24 novembre 2016)


Indagine in Israele per conflitto d'interessi sull'acquisto di sottomarini tedeschi

L'acquisto da parte di Israele di tre sottomarini tedeschi della ThyssenKrupp Marine Systems oggetto di un'indagine della procura generale dello Stato ebraico per conflitto d'interessi.
Secondo gli elementi raccolti dal procuratore generale Avichai Mandelblit, David Shimron, avvocato personale del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, sarebbe anche il rappresentante legale dell'uomo d'affari israeliano Miki Ganor, delegato della ThyssenKrupp Marine Systems in Israele.
L'ordine di tre nuovi sottomarini, che possono essere equipaggiati con testate nucleari, è stato difeso domenica davanti al Consiglio dei Ministri da parte del Premier Netanyahu: Israele deve essere in grado di difendersi da ogni nemico su tutti i fronti, ecco il solo principio che mi guida ha affermato Netanyahu.
Secondo la stampa israeliana l'acquisto dei nuovi sottomarini, per un ammontare equivalente a 1,2 miliardi di euro, era osteggiato da parte dello Stato Maggiore e da diversi esperti militari proprio in ragione dei costi troppo elevati.

(euronews, 24 novembre 2016)


Donald divide il mondo ebraico. «Alla pace penserà mio genero»

Kushner potrebbe essere l'inviato USA per le questioni israeliane.

di Flavio Pompetti

NEW YORK - Donald Trump vuole cimentarsi nella "mission impossible" di negoziare la pace tra israeliani e palestinesi. Lo ha confermato martedì nell'incontro che ha avuto con gli amministratori e i giornalisti del New York Times. Ha anche un asso nella manica che intende giocare per riavviare la trattativa: suo genero Jared Kushner è cresciuto in New Jersey in seno ad una famiglia ebreo ortodossa, e come Trump è un negoziatore di affari esperto. All'età di 35 anni è proprietario di un suo piccolo impero immobiliare, e ha recentemente investito due miliardi per rilevare a Brooklyn i gioielli del portfolio edilizio dei Testimoni di Geova. Le credenziali non sono del tutto ortodosse per una carica di inviato di pace, ma nemmeno lo sono quelle del presidente americano che si appresterebbe a nominare Kushner come rappresentante dell'amministrazione Usa per la zona. La Nbc ieri ha rivelato che Trump ha chiesto per il marito di sua figlia Ivanka l'autorizzazione a ricevere rapporti di massima sicurezza, a conferma del forte rapporto di fiducia che esiste tra i due.

 Il corteggiamento
  Trump ha corteggiato a più riprese durante la campagna elettorale la comunità ebraica americana. In un primo momento ha assicurato che una sua amministrazione sarebbe rimasta assolutamente "neutrale" di fronte alle dispute territoriali in corso in Israele. Poi ha precisato che un suo rappresentante alle nazioni Unite avrebbe opposto al 100% il veto americano ad ogni mozione che volesse condannare l'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank. Trump si è spinto oltre, con la promessa fatta alla lobby ebraica di Washington di spostare la sede diplomatica americana da Te! Aviv a Gerusalemme. Una posizione così sbilanciata non è riuscita a spostare il voto degli ebrei americani, i quali hanno accordato a Hillary Clinton il 71% delle preferenze, due punti più di quanti ne avevano dati a Obama nel 2012.
Ma all'interno della variegata composizione del gruppo ebraico, le componenti ortodosse e hasidica hanno teso le orecchie ai messaggi lanciati dal candidato Trump. Immediatamente dopo le elezioni il ministro per l'Istruzione israeliano Bennett ha incontrato a Washington alcuni membri della squadra di transizione, e a Gerusalemme si era sparsa la notizia che la nuova amministrazione avrebbe condonato una annessione dei nuovi territori. Poi la doccia fredda del ministro per la Difesa Lieberman, il quale ha reso pubblica l'esortazione che giungeva direttamente dall'entourage di Trump: «Smorzate l'entusiasmo dei conservatori israeliani oltranzisti». A quel punto Netanyahu ha intimato ai suoi ministri di sospendere i contatti con la controparte statunitense, anche perché è preoccupato dalla probabile nomina dell'ex generale James Mattis al Pentagono. Quando Mattis lasciò il comando del Centcom due anni fa, disse che l'occupazione israeliana negli insediamenti era "insostenibile". Di fronte alla complessità di questo quadro, l'unica credenziale che Kushner vanta è aver convinto la moglie Ivanka ad abbandonare la fede presbiteriana del padre, e convertirsi al giudaismo.

(Il Messaggero, 24 novembre 2016)


Amicizia e cooperazione tra Polonia e Israele

Beata Szydło e Benjamin Netanyahu
Beata Szydło
La Premier Beata Szydło, in visita in Israele, ha partecipato ieri a una conferenza stampa congiunta con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante la quale i due Capi di governo hanno parlato della necessità di combattere l'antisemitismo e di avviare progetti comuni, soprattutto nell'ambito delle tecnologie moderne. "Ciò che unisce Israele e la Polonia è una storia comune, un destino comune, brutalmente interrotto dagli invasori nazisti", ha detto SSzydło. La Premier polacca ha sottolineato che i due paesi devono impegnarsi per difendere la verità storica, devono ricordare la storia e sulle sue basi costruire il futuro. Dal suo canto, il Primo Ministro Netanyahu ha aggiunto che "Israele apprezza la Polonia come partner e come amico, e guarda con ottimismo al futuro. Il futuro appartiene a coloro che portano innovazioni". Netanyahu ha voluto risaltare la concretezza dell'amicizia tra la Polonia e Israele, poiché "ha una profonda dimensione spirituale". Il Premier israeliano si è anche soffermato sui settori di cooperazione tra i due paesi, che comprendono l'agricoltura, la sicurezza, il turismo, le tecnologie, la sicurezza informatica e l'industria automobilistica.

(Gazzetta Italia, 23 novembre 2016)


Rivlin: l'India non permetterà che sia minacciato il diritto d'Israele ad esistere

GERUSALEMME- L'India non permetterà a nessuno di minacciate il diritto all'esistenza di Israele, nonostante i legami di Nuova Delhi con Teheran. Lo ha dichiarato il presidente israeliano Reuven Rivlin al quotidiano "Jerusalem Post", al termine della sua visita di otto giorni nel paese del sud-est asiatico. "Ci garantiscono che se si presenterà l'occasione, non lasceranno mai, mai che qualcuno (agisca) contro l'esistenza di Israele", ha detto il capo dello Stato israeliano. Rivlin è il secondo presidente nella storia di Israele ad essersi recato a Nuova Delhi: prima di lui lo aveva fatto soltanto Ezer Weizman nel 1997. L'unico primo ministro israeliano a visitare l'India, invece, era stato Ariel Sharon nel 2003. "Sanno benissimo che guardiamo alle intimidazioni provenienti dall'Iran come a una questione sostanziale e strategica", ha dichiarato Rivlin in riferimento alla posizione di Nuova Delhi.b L'India, ricorda il quotidiano israeliano, ha riconosciuto la Palestina come Stato ed è da tempo un forte sostenitore dei palestinesi. Come risultato, i suoi rapporti diplomatici con Tel Aviv, che durano da un quarto di secolo, sono stati altalenanti, pur essendosi progressivamente rafforzati negli ultimi dieci anni. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha dato un profilo marcatamente difensivo e strategico ai rapporti bilaterali, ha evidenziato Rivlin.
Al centro della visita del capo dello Stato israeliano in India le questioni legate alla minaccia terroristica, alla Difesa, alla cooperazione nel settore dell'agricoltura, ed alla possibilità di avviare un trattato di libero scambio tra Nuova Delhi e Gerusalemme. Il prossimo anno si celebrerà il 25mo anniversario delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Lo scorso maggio, i due paesi hanno firmato un accordo del valore di circa un miliardo di dollari per la consegna missili anticarro Spike, prodotti dall'israeliana Rafael, e prevede anche il trasferimento di tecnologia alla compagnia statale indiana Bharat Dynamics Ltd. Secondo quanto riporta la stampa indiana, nei prossimi anni gli accordi della difesa potrebbero raggiungere il valore di 3 o 4 miliardi di dollari. I due paesi sarebbero interessati, infine, a riprendere i negoziati per un accordo di libero scambio, avviati nel 2010 ed attualmente in fase di stallo. L'ultimo degli otto incontri negoziali si è svolto nel 2014. Nell'ultimo anno fiscale preso in esame, 2015-2016, gli scambi commerciali bilaterali hanno segnato un'inflessione del 12,49 per cento, passando da 5,61 miliardi di dollari del 2014-2015 ai 4,91 miliardi di dollari.

(Agenzia Nova, 23 novembre 2016)


Israele - Archeologi riesumano un "pensatore" di 4.000 anni fa

Il "pensatore" ritrovato a Yehud
GERUSALEMME - Gli archeologi israeliani hanno di recente portato alla luce nei pressi di Tel Aviv una brocca di terracotta unica nel suo genere, il cui collo è costituito da un personaggio seduto che sembra immerso nei suoi pensieri. Questo splendido reperto che risale a 3.800 anni fa è stato trovato a Yehud durante degli scavi effettuati prima di costruire delle abitazioni.
Alto 18 centimetri, sarebbe tipico della media età del bronzo se la sua base non fosse sormontata da un collo che serve da busto ad un personaggio, probabilmente un uomo, dalla faccia misteriosa che si riposa sulla mano destra, come fosse completamente assorbito dai suoi pensieri.
"Il livello di precisione e l'attenzione accordata ai dettagli per creare questa scultura di circa 4.000 anni è estremamente impressionante", secondo il direttore delle perquisizioni Gilad Itach citato in un comunicato delle autorità archeologiche.

(askanews, 23 novembre 2016)


Europa League - Hapoel-Inter

Domani sera l'Inter sarà impegnata sul campo dell'Hapeol Be'er Sheva in una fondamentale sfida di Europa League.

Domani sera si saprà se l'Inter potrà ancora dire la sua in Europa League o dovrà mestamente abbandonare la competizione già nella fase a gironi. I nerazzurri saranno infatti impegnati sul campo dell'Hapoel Be'er Sheva, già vincitore nella gara di andata al Giuseppe Meazza, l'obiettivo è quello di vincere per continuare a coltivare qualche speranza. La gara di andata vinta per 2-0 dagli israeliani rappresenta l'unico precedente in assoluto contro una squadra israeliana, quindi questa trasferta in Israele è una "prima" per i nerazzurri. La vittoria esterna in Europa League manca dal settembre del 2014, quando una rete di Danilo D'Ambrosio fu sufficiente per espugnare il campo del Dnipro, mentre il bomber nerazzurro di coppa è Rodrigo Palacio, autore di 5 gol nelle ultime 8 partite europee. Una soddisfazione anche per Samir Handanovic, che è il portiere con più rigori parati in Europa League, tre.

(Inter-News, 23 novembre 2016)


«Gli Usa riconoscano Gerusalemme capitale. Per l'Europa un Natale a rischio terrorismo»

Invervista all’ambasciatore israeliano Ofer Sachs

di Marco Ventura

L'ambasciatore israeliano a Roma: «In giro cl sono foreign fighters. la situazione in Siria e Iraq non aiuta» «Gli ebrei lasciano la Ue per paura dell'antisemitismo, ma da voi è diverso: dall'Italia si va via per motivi economici»

Finestre spalancate nell'Ambasciata d'Israele a Roma. Fa caldo. «Sembra di stare a Tel Aviv», dice il nuovo ambasciatore Ofer Sachs, già direttore dell'Istituto israeliano per le esportazioni, a lungo a Bruxelles.

 
Ofer Sachs, ambasciatore israeliano a Roma
- Ambasciatore, Trump ha detto che trasferirà l'ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, non si opporrà agli insediamenti ebraici in Cisgiordania e rivedrà gli accordi con l'Iran. Musica per le orecchie del premier Netanyahu?
  
«Il nostro legame con Stati Uniti è molto forte. Qualsiasi valutazione è prematura, vedremo come Trump vorrà strutturare la sua politica estera. Ci piacerebbe molto se spostasse l'Ambasciata a Gerusalemme. Ma dovrà raccogliere tutte le informazioni sulla complessità mediorientale prima di prendere qualsiasi decisione, e sono certo che lo farà. Certe cose dette da candidato sono molto positive, pazienza e vedremo come si comporterà davvero».

- Con Trump lavorano personaggi come Steve Bannon, criticato dalle organizzazioni ebraiche ...
  
«Segnali controversi. Aspettiamo di vedere la struttura e le caratteristiche principali dell'amministrazione. Il cuore dell'agenda di Trump nei primi mesi sarà comunque economica e domestica».

- Il possibile disimpegno americano dalla Nato avrà conseguenze?
  
«Sarei sorpreso se un cambiamento sostanziale avvenisse in tempi brevi. Certo l'Europa dovrà rafforzare la sua capacità di intelligence e migliorare lo scambio tra servizi per preservare la propria libertà. Israele non è più l'unico fronte della lotta al terrorismo: la situazione in Medio Oriente influisce sulla sicurezza in Europa».

- Arrestati in Francia 7 potenziali terroristi. I cittadini americani invitati a non andare in Europa a Natale. Allarmi giustificati?
  
«Non ho informazioni concrete e se le avessi non le direi a un giornale. Ma è adesso che le famiglie si riuniscono e i terroristi cercano di provocare il massimo effetto. La logica dice che Natale è un periodo sensibile. E le ultime parole del terrorismo non sono state ancora dette».

- Sconfitti in Siria e Iraq, i foreign fighters europei rientreranno per fare attentati?
  
«Alcuni sono sicuramente già in Europa e la situazione in Siria e Iraq, come in Iran e Yemen, non aiuta. Certi luoghi in Europa sono per loro un buon bersaglio. C'è una sola soluzione: cooperare contro il terrore. Non sarà facile. La capacità dei vostri servizi di sicurezza è nota. E la tolleranza zero del ministro Alfano verso i fanatici che fanno proselitismo è un'ottima scelta».

- Sempre più ebrei lasciano l'Europa per Israele. Per l'antisemitismo?
  
«Due i fattori. Il primo è la percezione di una sicurezza e libertà diminuite, in quanto ebrei, in paesi come la Francia. Il secondo lo vediamo in Italia: gli ebrei, anche se in numero inferiore, vanno via per ragioni economiche».

- La destra populista europea fa paura?
  
«Se hai una vita decente, un buon salario e una prospettiva per i figli non c'è problema. Ma l'economia non si muove e la pressione dei migranti economici dall'Africa stressa un contesto già duramente provato. Questo è l'humus ideale per estremisti alimentati dalla paura. Una china scivolosa. C'è bisogno di leader in grado di reagire. In una seconda fase si arriverà a prendersela con gli ebrei. In Italia è diverso. Non c'è ostilità: la comunità ebraica si sente integrata e sicura».

- Che cosa può cambiare dopo il referendum costituzionale?
  
«È un tema interno italiano. Non mi pronuncio pro o contro. Considero però non positivo qualsiasi risultato che possa destabilizzare l'assetto politico nel medio e lungo periodo. Economia e politica sono legate: un altro periodo di instabilità ridurrebbe la capacità dell'Italia di uscire dalla crisi. Se il no vincerà ci sarà instabilità ... In un certo senso ci potrebbe essere pure se vincesse il sì, a seconda delle decisioni che si prenderanno».

- Qual è lo stato dei rapporti tra Italia e Israele?
  
«In generale meraviglioso. Ottimo il dialogo con Parlamento, ministeri e tra Netanyahu e Renzi. Non c'è una settimana senza un evento culturale a Roma o in Israele. Ottima la cooperazione scientifica, culturale e sulla sicurezza nazionale».

- L'Italia è stata fra i primi paesi a riavvicinarsi all'Iran ...
  
«Non siamo ingenui, fa parte del gioco quando ci sono di mezzo gli affari. Vorremmo però che foste molto rigorosi sull'accordo nucleare: gli iraniani non lo onoreranno. Non scendete a compromessi».

- La cooperazione economica Italia-Israele è soddisfacente?
  
«L'interscambio è limitato: 3 miliardi di dollari. Possiamo fare molto di più. Bene la ricerca e sviluppo, ma dobbiamo monetizzare. L'Italia ha multinazionali con grandi capacità industriali e ingegneristiche, Israele eccelle nell'innovazione. Italiani e israeliani si capiscono: sono aperti, franchi, diretti. Qui mi sento a casa, ma dobbiamo fare più affari insieme».

(Il Messaggero, 23 novembre 2016)


Trump: «Mio genero farà la pace fra israeliani e palestinesi. E sul clima ci ripenserò»

The Donald a tutto campo nella sede del New York Times: «Conflitto di interessi? Se fosse per certa gente, non rivedrei mai più mia figlia Ivanka».

di Viviana Mazza

«L'incontro con il New York Times è di nuovo in programma alle 12.30 oggi. Non vedo l'ora». Così ha scritto su Twitter ieri Donald Trump, dopo che — poco prima — aveva annunciato che la prevista riunione con la testata era stata cancellata, lamentando le notizie scorrette e il «tono cattivo» del quotidiano nei suoi confronti. Usando il montacarichi, per evitare la folla che lo attendeva nella lobby, il presidente eletto degli Stati Uniti, in cravatta rossa, è salito fino alla redazione al 16o piano, per il pranzo di lavoro con editorialisti, reporter e manager. Era un minuto dopo l'una quando si è seduto nella sala intitolata a Churchill accanto all'editore Arthur Sulzberger Jr. Per una volta è stato lui l'oggetto dei tweet: i giornalisti hanno raccontato l'evento «live» sul sito del Times. Nessuno ha toccato il salmone e il filetto di manzo.

 Il rapporto con i giornali
  «Lo leggo. Purtroppo. Vivrei vent'anni di più se non lo facessi», ha detto Trump del New York Times. Per i primi quattro minuti, ha continuato a lamentarsi del cattivo trattamento che ritiene di aver ingiustamente subito durante la campagna elettorale («Potreste dirmi che anche il Washington Post è stato cattivo, ma ogni tanto in realtà scrivevano un buon articolo su di me»). Benché più volte su Twitter il neopresidente abbia accusato il quotidiano newyorkese di mentire (e di essere in bancarotta), ieri assicurava di averne «enorme rispetto». I toni misurati notati dai giornalisti indicano il tentativo di superare l'ostilità, «di voler migliorare il rapporto perché renderebbe più facile il suo lavoro». Quanto alla possibilità di leggi più dure sulla diffamazione, Trump ha scosso la testa: ha raccontato che gli è stato fatto notare che lui stesso potrebbe essere denunciato più facilmente per quel che scrive.

 Rinnega l'alt-right
  Il neopresidente ha negato di aver puntato sul movimento «alt-right», la destra «alternativa» misogina e razzista. «Non è un gruppo che voglio energizzare, li rinnego». Su Steve Bannon, il suo stratega, che è anche ex amministratore delegato del sito Breitbart (considerato un megafono dell'alt-right): «Se pensassi che è razzista o di estrema destra, non avrei nemmeno pensato di assumerlo». Breitbart? «È solo una pubblicazione, seguono le storie come voi, ma sono conservatori».

 Il processo a Hillary
  Definitivamente archiviato un eventuale processo a Hillary Clinton: «Non è una cosa cui tengo in modo particolare. Non voglio ferire i Clinton, davvero. Lei ha già sofferto abbastanza e in molti modi». Trump assicura che i suoi sostenitori, gli stessi che su Hillary gridavano «Lock her up» («In prigione») ai comizi, «non saranno dispiaciuti. Spiegherò loro che questo salverà il Paese. Una cosa del genere dividerebbe profondamente il Paese».

 Conflitto di interessi
  «Se fosse per certa gente, non rivedrei mai più mia figlia Ivanka», afferma il neopresidente a proposito dei timori di conflitto di interessi tra la presidenza e i suoi affari che saranno gestiti dai figli (a Ivanka ha permesso di assistere a colloqui con leader mondiali). Trump riconosce che il valore di beni come il suo hotel a Washington saliranno («Il marchio è caldo»), come pure che «è possibile che abbia menzionato» a Nigel Farage, il suo amico leader dell'Ukip, che non vuole la costruzione di pale eoliche al largo dei suoi campi da golf in Scozia: rovinerebbe la vista.

 Pace in Palestina
  Il ruolo dell'America nel mondo? «Non è quello di costruttore di nazioni», ha detto Trump. La Siria è ormai «un problema da risolvere», ma ha un sogno in politica estera: «Vorrei rendere possibile la pace tra Israele e i palestinesi». E ha suggerito: «Jared Kushner (il genero, ebreo ortodosso ndr) potrebbe contribuire a portare la pace».

 Non chiude sul clima
  Alla domanda se abbia intenzione di rescindere gli accordi sul clima, il tycoon ha replicato: «Sto esaminando la cosa. Ho vedute aperte». Crede che ci sia «un qualche legame tra le azioni umane e i cambiamenti climatici» ma deve riflettere su «quanto costerà alle nostre aziende».

(Corriere della Sera, 23 novembre 2016)


Se Trump comincia col dire che porterà pace tra israeliani e palestinesi, Israele può cominciare subito a preoccuparsi. I guai peggiori per gli israeliani sono sempre cominciati così. M.C.


Memoria viva

Accordo tra il Marocco e il Mémorial de la Shoah di Parigi. Ridare vita ai documenti che provano una farte presenza ebraica nella società marocchina contribuisce a rendere meno monolitico il quadro complessivo di questa società.

di Anna Foa

 
Uno scorcio del quartiere ebraico di Casablanca, 1900
E' stato stretto il 14 novembre a Rabat, su iniziativa marocchina, un accordo fra gli archivi nazionali del Marocco e il Mémorial de la Shoah di Parigi. Scopo dell'accordo, ricostruire la memoria ebraica del paese. Si tratta di una notizia importante per molti motivi: innanzitutto, perché la presenza ebraica in Marocco è antica e significativa, ricca di cultura e di intrecci con il mondo che la circondava. Uso il passato perché di ebrei in Marocco dopo la nascita dello stato di Israele nel 1948 ne sono rimasti pochi, ottomila circa su una popolazione di trecentomila. In secondo luogo, perché si tratta di un paese musulmano, e scambi culturali come questo - il primo in assoluto di un paese islamico con un'istituzione come il Mémorial de la Shoah - sono importanti anche dal punto di vista politico, e non solo di quello strettamente culturale.
   Ridare vita ai documenti che testimoniano una presenza radicata e forte degli ebrei nella società marocchina vuol dire contribuire a rendere meno monolitico il quadro complessivo di questa società e a mostrarne le radici complesse e intrecciate con le altre culture religiose. Il preambolo della costituzione emanata dopo la rivoluzione del 2011 riconosce infatti «che l'unità del paese si è nutrita e arricchita dei suoi affluenti africani, andalusi, ebraici e mediterranei».
   Si tratta anche di un'operazione, afferma il testo dell'accordo, di ricostituzione documentaria. La documentazione è infatti assai sparpagliata. Molti dei documenti che riguardano gli ebrei marocchini sotto l'occupazione nazista, ad esempio, sono conservati nel Mémorial de la Shoah. L'intento non è però quello di ricostruire solo la storia degli ebrei marocchini durante la guerra, ma quello di avviare, attraverso il recupero e il riordino della documentazione esistente, la ricostruzione dell'intera storia della cultura ebraica in Marocco.
   Gli ebrei sono infatti presenti sulla costa africana del Mediterraneo fino almeno dal II secolo prima dell'era cristiana.
   Una presenza antica, quindi, e numerosa, a cui allude già Strabone all'inizio dell'era cristiana. Da allora, attraverso la dominazione romana, quella bizantina e poi la conquista e la dominazione araba, le comunità ebraiche nel Maghreb attraversano fasi alterne, caratterizzate sotto l'islam dal sistema della dhimma, uno statuto di discriminazione che prevedeva il pagamento di una tassa annuale da parte dei non musulmani, in particolare ebrei e cristiani. Nei primi secoli del dominio arabo molti degli ebrei e dei cristiani passano all'islam, le fasi di tolleranza e di convivenza tra ebrei e musulmani si alternano a momenti di tensione e persecuzione, e la storia degli ebrei marocchini si intreccia con quella degli ebrei spagnoli, in particolare dopo la cacciata dalla penisola iberica alla fine del xv secolo. Il raggiungimento dell'uguaglianza dei diritti, cioè l'emancipazione, è del 1864, sotto il sultano Muhammad IV. Secoli di presenza, sia pur caratterizzati da fasi di persecuzione e di inferiorità giuridicamente sancita, su cui il giudizio degli storici è discorde e su cui certamente la riorganizzazione degli archivi e la scoperta di documenti inediti potrà gettare nuova luce.
   Altrettanto discordante è la valutazione del periodo dell'occupazione nazista del Marocco, dal 1911 protettorato francese, sul quale forte è l'attesa per l'emergere di nuovi documenti. La documentazione dimostra l'ostilità del sultano Muhammad V all'estensione al Marocco delle leggi razziste di Vichy, che entrarono tuttavia in vigore sia pur con qualche attenuazione. La sconfitta dell'Asse sul fronte africano impedì che le comunità ebraiche marocchine facessero la fine di quelle europee e lo sbarco americano, nel novembre 1942, portò all'abrogazione delle leggi di Vichy. Quale fu in quelle circostanze l'atteggiamento e lo stato d'animo della popolazione musulmana verso gli ebrei, in particolare visto l'appoggio aperto dato ai nazisti dal gran muftì di Gerusalemme e l'emergere del movimento anticolonialista e nazionalista anche in Marocco, già appoggiato precedentemente da Hitler e naturalmente ostile alla Francia e all'Inghilterra? Sono anche questi temi su cui molto si è scritto ma che non possono che trarre vantaggio dalla riorganizzazione documentaria prevista dall'accordo tra lo stato del Marocco e il Mémorial de la Shoah, al di là delle immagini forse un po' troppo apologetiche dell'opera del sultano sotto l'occupazione nazista.
   Insomma, se torniamo alla famosa scena in cui nel film Casablanca, appunto del 1942, Humphrey Bogart ordina al pianista del bar di suonare la Marsigliese, ebbene nel Marocco del 1941-1942 si poteva forse ancora cantare la Marsigliese, ma la situazione era e restava assai ambigua e complessa per ebrei e oppositori dei nazisti e di Vichy.

(L'Osservatore Romano, 23 novembre 2016)


«Israele, il Medio Oriente e la nuova Amministrazione americana»

COMUNICATO STAMPA
Venerdì 25 novembre alle ore 17.00 - presso la Biblioteca della Fondazione Spadolini-Nuova Antologia, Via del Pian de' Giullari 36A, Firenze - l'Associazione Italia-Israele riprende la sua attività pubblica con una riflessione sul tema "Israele, il Medio Oriente e la nuova Amministrazione americana", introdotta dal Prof. Antonio Donno, dell'Università del Salento. L'importanza e l'attualità dell'argomento non hanno bisogno di essere sottolineati. Il prof. Donno è il maggior esperto italiano per quanto riguarda il rapporto tra Stati Uniti ed Israele.
   E' la prima iniziativa pubblica dell'Associazione dopo la pausa estiva ma non la prima in assoluto, perché nei mesi precedenti l'Associazione si è dedicata soprattutto a due temi di primaria importanza, il voto dell'Italia all'Unesco su Gerusalemme e la lettera inviata in occasione del referendum costituzionale ai concittadini residenti in Israele con l'indirizzo "Gerusalemme (Palestina)". La protesta dell'Associazione è stata pubblica e vigorosa ed ha coinvolto la stampa toscana e tutte le amministrazioni locali toscane. L'Associazione si è inoltre dedicata alla preparazione del viaggio in Israele che si svolgerà dal 30 aprile all'8 maggio 2017, con inizio nei giorni di Yom Hazikaron e di Yom Hazamaut. E' stato raggiunto il numero massimo di iscrizioni (50).
Invito

(Associazione Italia-Israele - Firenze, 23 novembre 2016)


Ma quale antisemita: la squadra di Donald è piena di ebrei

Rappresentate tutte le fedi, tranne l'islam

di Ilaria Pedrali

Per attuare il programma, annunciato nel suo primo videomessaggio, che prevede «gli Stati Uniti prima di tutto», il presidente Donald Trump ha una cerchia di fedelissimi pronti a entrare nella stanza dei bottoni per decidere le sorti dell'America e non solo. Uomini di provenienza politica e soprattutto religiosa diversa.
   Il più famoso è Steve Bannon, l'uomo che ha il compito di generare consenso alla presidenza Tmmp. Su di lui si è abbattuta la pesante accusa di antisemitismo, anche se lo stesso Bannon ha rilasciato un'intervista al Wall Street Journal in cui spiega come il suo sito di notizie Breitbart sia un punto di riferimento per i molti giovani di destra che vanno contro la globalizzazione e l'establishment, ma che ha tolleranza zero verso qualsiasi forma di antisemitismo. «Breitbart», ha detto, «è il sito più filoisraeliano degli Stati Uniti d'America».
   Che Trump, di fede presbiteriana, non sia antisemita lo dimostra anche il fatto che tra gli alni uomini del Presidente sono in molti gli ebrei. Primo tra tutti suo genero Jared Kushner, marito della bella Ivanka che per sposarlo si è convertita all'ebraismo. È un ebreo ortodosso di origini polacche, i cui nonni sono sopravvissuti all'Olocausto e fuggiti in America nel 1949. Trump deve anche a Jared, che più volte a fatto endorsement nei confronti del suocero presso gli elettori di fede ebraica, la buona riuscita della campagna elettorale e la sua elezione alla Casa Bianca. Ora Jared, che si pone su posizioni politiche vicine a quelle di Netanyahu, si appresta a diventare il consigliere principale del suocero.
   Proprio perché la questione israeliana è un nodo spinoso, Trump ha pensato di ingaggiare il suo storico avvocato Jason Greenblatt come consigliere su Israele. Anche Greenblatt è un ebreo ortodosso, e pochi giorni fa ha dichiarato alla Radio militare israeliana che il presidente eletto "non vede negli insediamenti un ostacolo alla pace" e ha confermato l'ambasciata Usa sarà portata a Gerusalemme.
   Tra i fedelissimi di Trump non mancano i cristiani nelle più diverse sfumature. Per la direzione della Cia è stato designato il falco anti Iran Mike Pompeo, che da cattolico conservatore si è convertito al presbiterianismo. E tra i nomi più attesi c'è quello del Segretario di Stato, per cui si vocifera la candidatura di Mitt Romney, che è mormone. E il mormonismo è stato più volte oggetto di polemiche per le sue posizioni critiche sugli omosessuali.
   Al momento manca una voce cattolica. A meno che non venga nominato Segretario di Stato Newt Gingrieh, il quale è approdato alla Chiesa cattolica dopo un passato da luterano prima e da battista poi. Di musulmani nessuna traccia.

(Libero, 23 novembre 2016)


Proust, Céline e l'antisemitismo: il legame nascosto che li avvicina

La centralità dello stile, il posto occupato dalla malattia, il nichilismo, la guerra. I due scrittori francesi sono accomunati da alcune sorprendenti corrispondenze.

di Alessandro Piperno

 
Proust e Céline
Si svolge il 24 e il 25 novembre a Bari il seminario organizzato dal dipartimento di Lettere, Lingue e Arti dell'Università «Aldo Moro» in collaborazione con L'Institut Français e Il Gruppo di Studio sul Cinquecento Francese dedicato a Figure letterarie dell'odio. Retorica e semantica di un sentimento pubblico/Figures littéraires de la haine. Rhétorique et sémantique d'un sentiment public. Ospitato nel Salone degli Affreschi di Palazzo Ateneo, il convegno verrà introdotto domani 24 novembre alle 15 da Gianni Iotti dell'Università di Pisa. Il testo di Alessandro Piperno pubblicato qui sotto anticipa i temi del suo intervento previsto il pomeriggio di venerdì 25, Proust, Céline e l'odio antisemita.
   È difficile mettersi a scrivere romanzi dopo Proust e Céline. Essi sono un trauma colossale per la narrativa francese del XX secolo: la summa di un'intera tradizione, e per così dire gli implacabili curatori testamentari.
   Il Tempo ritrovato, l'ultimo volume della Recherche, esce nel 1927 presso Gallimard, lo stesso editore che cinque anni dopo si farà scappare per un pelo Viaggio al termine della notte. Si stenta a immaginare opere più antitetiche scritte da autori più inconciliabili. Henri Godard, il massimo celiniano in circolazione, definisce Céline l'«anti-Proust» per antonomasia.
   Se Proust complica la sintassi, estenuandola fin quasi alla saturazione, Céline la spacca in mille pezzi; se Proust lavora sulle nuance, le pieghe dell'interiorità, l'inattendibilità dei sensi, Céline elegge il grido, il sarcasmo, la bava alla bocca a strumenti di conoscenza; se il Narratore della Recherche è un rampollo della buona borghesia parigina nevrotico, classista e stanziale, l'eroe del Voyage è un miserabile, un globetrotter in balia della Storia; se ilmilieu proustiano è composto da milionari, esteti sfaccendati e cocotte dalla sessualità controversa, l'umanità di Céline è indigente e delirante. Eppure, a ben guardare, e senza voler trovare a ogni costo affinità tra gli incompatibili, si può notare anche qualche sorprendente corrispondenza.
  1. La centralità dello stile, del resto da entrambi a più riprese rivendicata, non ha quasi paragoni (forse solo Flaubert e Nabokov). Non mi vengono in mente stili più personali, caratteristici e ossessivi di quelli di Proust e Céline. E infatti sono a un tempo i più parodiati e i più inimitabili.
  2. Poi c'è la malattia: come capire Proust e Céline senza considerare il posto occupato nelle rispettive opere dal corpo, dalla medicina, dall'ipocondria?
  3. Per non dire del nichilismo: Céline lo esprime in ogni improperio, Proust lo evoca con discrezione, ma in modo non meno implacabile, quasi leopardiano.
  4. Infine occorre tenere conto del ruolo rivestito dalla guerra in questi smisurati ecosistemi romanzeschi. Per quanto assurdo possa sembrarci, il Marcel della Recherche e il Bardamu del Voyage vivono nella stessa spettrale Parigi bombardata dagli Zeppelin tedeschi.
Ma ciò che più di tutto li assimila è aver dato voce all'odio antisemita, ovvero alla cosa più seria e tragica, la più satura di implicazioni, capitata all'umanità nell'ultimo paio di secoli, almeno nella nostra parte di mondo.
   In apparenza il discorso con Céline è semplice. Anche qui occorre dare ragione a Godard quando nota con rammarico come gli esegeti di Céline si dividano in due famiglie: quelli che lo considerano un «grande scrittore ma atroce antisemita» e quelli che lo liquidano come «un atroce antisemita ma grande scrittore». I primi lo giustificano, lo normalizzano (è il caso di Gide); i secondi lo deplorano, ghettizzandolo in un angusto mondo xenofobo e paranoico. Non è mia intenzione seguire né l'esempio degli uni né quello degli altri. Non credo che la letteratura vada giudicata secondo gli strumenti offerti dalla morale comune (a meno che per moralità nell'arte non s'intenda una inesausta ricerca di eleganza e verità, ma non sono molti a pensarla così).
   Mi sembra interessante partire dall'ossessione che Céline coltiva per Proust. Lo odia come solo lui sa odiare, con invidia e risentimento. L'idea che il suo illustre collega-rivale fosse ricco, omosessuale ed ebreo per parte di madre gli facilita il compito. Proust diviene l'epitome di tutto ciò Céline che detesta: il rappresentante della decadenza francese. Per questo lo attacca su ciò che ha di più caro uno scrittore: lo lingua. Il francese di Proust gli dà il voltastomaco. Céline senza mezzi termini lo chiama il «francese giudaizzato». «Il francese modellato, orientale, liscio, scivoloso come la merda». Il francese di Racine, dei Goncourt, di Anatole France. Per lui si tratta dell'«epitaffio della razza francese», a cui oppone «la lingua parlata, il linguaggio emotivo, il solo sincero», ovvero il francese popolare, fratto e vitalista dei suoi romanzi migliori. Il solo vero padre spirituale che Céline è disposto a riconoscere è Villon, il poeta straccione, mendicante e criminale. La lingua di Villon gli piace, tanto quanto gli dispiace quella di Montaigne, ovvero il primo ebreo ad aver inquinato la letteratura francese, anche in questo antesignano di Proust.
   Insomma Céline applica alla letteratura il più classico cliché antisemita. Un tempo esisteva una lingua vergine, onesta, vitale, popolana, la lingua di Villon. Poi arriva Montaigne (anch'egli ebreo da parte di madre) e la imbastardisce con il suo buonsenso borghese e giudaico, in attesa che Proust le dia colpo di grazia. In una lettera a René Torwarth del 1938 scrive: «Ahimè basta guardarsi attorno per rendersi conto che il Francese è diventato per tre quarti ebreo. Così venale, così becero, così smidollato. (...). L'ambizione del Francese è di diventare ebreo. È lui che si fa naturalizzare ebreo».
   Come dicevo, tale terrore di contaminazione è un classico antisemita. Mezzo secolo prima Wagner si esprimeva più o meno negli stessi termini, accusando l'ebreo Félix Mendelssohn di aver imbastardito la divina, purissima musica tedesca.
   Non avrei neppure citato questi deliri celiniani e wagneriani se essi non trovassero un corrispettivo in parecchi passi della Recherche. In All'ombra delle fanciulle in fiore, per esempio: durante il primo incontro tra il Narratore e Charlus, quest'ultimo parla di una dimora della sua famiglia di recente acquistata dagli Israel. Charlus è indignato per come «quella gente» ha ridotto il giardino. «Ha distrutto il parco di Lenôtre, un fatto delittuoso, come fare a pezzi un quadro di Poussin». Il crimine degli Israel, agli occhi dello sciovinista Charlus, è di aver adornato un'architettura francese con un giardino all'inglese. Un crimine contro la Francia, non meno grave di deturpare un Poussin (il più classico dei pittori francesi). L'idea di Charlus non si scosta troppo da quelle di Wagner e di Céline. Anche per lui il delitto degli ebrei consiste nella smania di adulterare uno stile puro e coerente.
   E Proust? Che ne pensa delle argomentazioni del suo personaggio? È sempre difficile capirlo. Su certi temi è di un'ambiguità e d'una elusività che oggi qualcuno potrebbe considerare riprovevole. Quello che mi preme sottolineare qui è che la Recherche, al di là delle opinioni politiche del suo autore che trapelano di rado, sembra aderire al manicheismo di Charlus, senza forse sposarne l'odio. Il modo in cui Proust sottolinea le differenze, persino somatiche, tra gli aristocratici e gli ebrei, tra Saint-Loup e Bloch, tra Madame de Guermantes e Rachel, è di stampo inequivocabilmente razzista. Non mi sembra un caso che sia proprio l'Affaire Dreyfus a mettere gli eroi proustiani uno contro l'altro.
   Hannah Arendt pensava che l'Affaire ebbe il merito tragico di mettere a nudo «tutti gli elementi dell'antisemitismo del Diciannovesimo secolo nei suoi aspetti ideologici e politici; fu il culmine dell'antisemitismo nato nelle particolari condizioni dello Stato nazione. Ma la sua forma violenta preannunciò sviluppi futuri, tanto che i protagonisti dell'affare sembrano talvolta impegnati in una grande prova generale per una rappresentazione che dovette esser rinviata per parecchi decenni».
   La brillante analisi della Arendt è retrospettiva, come si conviene a uno storico. Il territorio d'indagine d'un artista è assai più malcerto e complesso. La grande letteratura è sempre un sismografo, molto spesso il sismografo dell'odio e del risentimento. Non deve sorprendere allora che i due massimi narratori francesi del Ventesimo secolo, da prospettive così diverse, abbiano dato tanto rilievo all'odio antisemita. E che, in un certo senso, altrettanto abbiano fatto scrittori coevi e non meno sommi come Joyce e Kafka. Che non sia questo a conferire alle loro arte quell'aura profetica e apocalittica che mette i brividi?

(Corriere della Sera, 22 novembre 2016)


A proposito di Capi di Stato maggiore: Israele e Italia a confronto

di Edoardo Fiore

Quel tipo, che ai nostri occhi sembra un contadino di Terra di Lavoro prestato alle armi, al fianco del nostro generalone Claudio Graziano, tutto nastrini e patacche, Capo di Stato Maggiore della Difesa, è il suo omologo israeliano, il generale Gadi Eizenkot.
 
Il generale italiano Claudio Graziano e il generale israeliano Gadi Eizenkot
 
   Claudio Graziano                                                     Gadi Eizenkot
Il Nostro esibisce una gran copia di nastrini rappresentanti una ventina di decorazioni:

- Grande Ufficiale dell'Ordine Militare d'Italia;
- Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana;
- Croce d'argento al merito dell'Esercito;
- Medaglia Mauriziana al Merito dei 10 Lustri di carriera Militare;
- Medaglia al merito di lungo comando dell'Esercito (15 anni);
- Croce d'oro per anzianità di servizio;
- Ufficiale della "Legion D'Honneur" francese;
- Commendatore dell'Ordine Nazionale al Merito;
- Medaglia commemorativa missione in Afghanistan;
- Medaglia commemorativa per missioni di pace (Mozambico);
- Medaglia commemorativa NATO Afghanistan (ISAF);
- Medaglia commemorativa UN (Mozambico);
- Medaglia 1^ Classe "D. Alfonso Henriques" dell'Esercito Portoghese;
- US Legion of Merit;
- Medaglia al merito dell'Esercito Tedesco per la Missione di Pace in Afghanistan;
- Croce al Merito della Difesa per operazioni di Pace dello Stato Maggiore Difesa Norvegese;
- Medaglia d'oro al merito della difesa (Stato Maggiore Francese);
- Medaglia Commemorativa UN (Libano);
- Medaglia d'Oro delle Forze Armate Polacche;
- Commendatore dell'Ordine dei Cedri (Repubblica del Libano);
- Gran Croce con Spade al merito Melitense del Sovrano Ordine di Malta;
- Onorificenza Militare di Secondo Grado dell'Oman;

Il collega israeliano, "poveraccio", ne esibisce solo un paio, per qualche "misera" guerra combattuta nei reparti del reggimento Golani.
Anche gli emolumenti sono rapportati all'importanza dell'incarico ed alla copiosità di nastrini, patacche e distintivi: il nostro generale, capo militare delle Forze Armate della Repubblica Italiana, che veglia insonne sui Sacri Confini della Patria e sovrintende a molteplici missioni di pace in varie parti del globo terracqueo, guadagna ovviamente più del doppio del "contadinotto" in armi, deputato solo a garantire quotidianamente la sopravvivenza di Israele.
In Italia, eludendo in vari modi il tetto agli stipendi dei dirigenti statali, il Capo di Stato Maggiore della Difesa arriva a guadagnare 482.000 euro lordi annui.
In Israele, Gadi Eizenkot, che pure è ideatore della dottrina militare cui si sono adeguate le forze armate israeliane, chiamata Dahiya doctrine, ed è capo delle Forze Armate (General staff of the IDF), guadagna 85,6 mila shekels annui, ovvero 202.799.65 euro.
Alla buona salute.

(L’Informale, 22 novembre 2016)


Si allontana un possibile accordo sul gas tra Turchia e Israele

Dopo il fallimento dei negoziati di Cipro

ROMA - Il fallimento dei negoziati sulla riunificazione di Cipro, che negli ultimi giorni sembravano giunti a un punto di svolta, potrebbe avere ripercussioni anche su un possibile accordo sul gas tra Turchia e Israele, prospettato a luglio scorso dopo la riconciliazione tra i due paesi. Come riferisce un comunicato delle Nazioni Unite, nel corso dei recenti negoziati tra il presidente greco-cipriota Nicos Anastasiades e il leader turco-cipriota Mustafa Akinci sulla riunificazione di Cipro, non è stato possibile raggiungere un accordo sulla suddivisione territoriale dell'isola. "Le due parti hanno deciso di tornare a Cipro e riflettere sulla strada da seguire in futuro", aggiunge il comunicato, segnalando che un'intesa tra i due leader avrebbe aperto la strada all'ultima fase dei negoziati.
  Alla luce di questa nuova interruzione dei colloqui di pace, anche possibili negoziati tra Turchia e Israele per l'esportazione del gas del Leviathan, mega-giacimento di gas naturale scoperto al largo delle coste israeliane, sembrano lontani. Sebbene il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il suo ministro dell'Energia, Yuval Steinitz, abbiano più volte parlato della possibilità di realizzare un gasdotto di collegamento tra i due paesi, è difficile che questo progetto possa prendere corpo in assenza di una soluzione della questione cipriota. Il giacimento Leviathan infatti è vicinissimo a quello cipriota di Afrodite, e il governo di Gerusalemme ha tutto l'interesse a esportare il gas dell'area in accordo con Nicosia. Tra le due parti dell'isola tuttavia non è ancora stata raggiunta un'intesa sull'uso delle risorse scoperte al largo delle coste cipriote, e tanto meno è chiaro quale ruolo possa avere la Turchia (unico paese a riconoscere e finanziare la Repubblica autonoma di Cipro del nord) in tale contesto.
  La Turchia peraltro è rimasta tagliata fuori dal progetto greco-israelo-cipriota per l'eventuale costruzione del gasdotto East Med che dovrebbe trasportare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas ogni anno dal Mediterraneo orientale all'Italia, attraverso il territorio ellenico; i lavori comprendono 200 chilometri di gasdotto sottomarino dal bacino del Levante a Cipro, più 700 chilometri da Cipro a Creta, 400 chilometri da Creta al Peloponneso e 600 chilometri onshore per collegare il territorio greco con il gasdotto Poseidon a Tesprozia (Thesprotia). La decisione sulla fattibilità del gasdotto del Mediterraneo orientale sarà presa dai capi di stato e di governo di Grecia, Cipro e Israele, Alexis Tsipras, Nicos Anastasiades e Netanyahu, nel prossimo incontro trilaterale di dicembre a Gerusalemme.
  In realtà sono diverse le opzioni per esportare il gas del Mediterraneo orientale, e in particolare quello dei giacimenti israeliani e ciprioti, in Europa. Una prima ipotesi, la più realistica, prevede l'esportazione del gas attraverso gli impianti di liquefazione egiziani già esistenti di Idku e Damietta. Che questa sia la soluzione più fattibile lo dimostra il fatto che lo scorso 31 agosto Il Cairo e Nicosia hanno siglato un accordo per trasferire il gas naturale scoperto al largo delle coste della Repubblica greca di Cipro verso l'Egitto attraverso condutture sottomarine. Il gas verrebbe poi convogliato verso gli impianti di liquefazione in Egitto.
  I due terminal sono già pronti per liquefare ed esportare il gas egiziano nel caso in cui ci sia un surplus di produzione rispetto al fabbisogno domestico. Israele, Cipro e Grecia, da parte loro, hanno già concordato la realizzazione di infrastrutture comuni per il trasporto di gas dal giacimento di Afrodite, al largo delle coste cipriote. I leader di Egitto, Cipro e Grecia, inoltre, hanno firmato ad Atene, lo scorso 9 dicembre, una dichiarazione congiunta allo scopo di utilizzare gli idrocarburi come catalizzatore di pace "attraverso l'adesione da parte dei paesi della regione ai principi consolidati del diritto internazionale".
  Un'altra ipotesi è rappresentata dal gasdotto East Med, ma ci sono fattori di natura economica che la rendono poco appetibile, in particolare il fatto che le quantità di gas da trasportare dai giacimenti ciprioti e israeliani potrebbero essere limitate. L'altra soluzione infine è quella che prevede di passare per la Turchia mediante la costruzione di un gasdotto che dal giacimento Leviathan porti il gas naturale israeliano in Europa passando per la Zona economica esclusiva turca. La situazione attuale a Cipro e l'imprevedibilità della situazione politica in Turchia rendono però difficile fare previsioni sulla fattibilità del gasdotto, nonostante le dichiarazioni d'intenti di Netanyahu e malgrado ci siano già stati in passato accordi tra società turche e israeliane sulla costruzione dell'infrastruttura.

(Agenzia Nova, 22 novembre 2016)


Il genero di Trump

Molto più di un consigliere, Jared Kushner è il garante (rassicurante) della fedeltà al clan.

di Mattia Ferraresi

Jared Kushner a spasso con la famiglia
NEW YORK - Il mondo di Donald Trump è fatto di cerchi concentrici. In quelli più esterni domina la logica del pragmatismo e dell'opportunità, nei più interni quella della lealtà famigliare. ha nel fine settimana il presidente eletto abbia incontrato nel suo golf club del New Jersey Mitt Romney, l'uomo originariamente scritturato dal Partito repubblicano per smascherare il Trump "falso" e "imbroglione", e che perfino il governatore Chris Christie, passato dal protagonismo all'umiliazione e poi all'oblio, sia ritornato in superficie. Sono manovre contraddittorie ma previste nel manuale dell'artista del deal.
Lo stratega del Partito repubblicano Mike Murphy descrive l'universo di Trump come "la tana di un serpente dove la gente di solito muore, ma anche quando muore può essere resuscitata se si apre un vuoto di potere". La flessibilità da negoziatore avulso dall'ideologia che il presidente adopera nella composizione della sua squadra allargata è bilanciata dall'assoluta rigidità quando si tratta della gestione del cerchio magico, manipolo famigliare dove la fedeltà è l'unico elemento che conta. Per questo il genero Jared Kushner, quintessenza della lealtà trumpiana, è diventato il perno della transizione verso la Casa Bianca. Il 35 enne marito di Ivanka consiglia e ordina su tutti i fronti, una sua parola può uccidere e resuscitare, come sa bene Christie, usato quando serviva e poi gettato nel fango come vendetta per quella volta in cui ha indagato e fatto finire in galera il padre di Jared, immobiliarista del New Jersey.

 The big genero
  Anche nel clan di origine del giovane genero del presidente eletto vige la regola che gli sgarbi non si dimenticano, e alla prima occasione si pagano caro. Nel team della campagna elettorale di Trump, Kushner è stato il punto fermo: cambiavano i manager e gli affiliati, le strategie e i sondaggi, ma il giovane Jared era sempre lì, incastonato in una logica dinastica simile a quella delle grandi famiglie politiche che l'elettore di Trump sommamente disprezza. Si dice che la sua caratteristica più apprezzata sia quella di incoraggiare e spingere in avanti anche quando tutto sembra remare contro.
All'uscita della famosa registrazione che secondo molti avrebbe fatto naufragare il candidato repubblicano, i vari Giuliani, Christie e gli altri consiglieri formali hanno dettato manovre di prudenza strategica, suggerendo che Trump si cospargesse la chioma di cenere. Jared si è attenuto allo spartito dell'incoraggiamento, dicendo che il popolo lo amava ancora e l'incidente non avrebbe azzoppato la sua corsa. Così Trump ha offerto una una vaga ammenda senza traccia di ammissione di colpa e ha archiviato lo scandalo prima ancora che diventasse tale. Anche quella volta Jared ci aveva visto giusto. Se fino al giorno delle elezioni il genero si vedeva, eventualmente, come consigliere occulto e azzimato kingmaker, ora sta valutando con gli avvocati la praticabilità di una nomina formale alla Casa Bianca. Come proprietario del New York Observer e di un impero ereditato e accresciuto sgomitando e calpestando avversari, secondo la legge della giungla del real estate, le regole sul conflitto di interessi potrebbero tagliarlo fuori, ma pare che la rinuncia al salario pagato dal contribuente e il trasferimento della ricchezza in un blind trust possa aggirare l'ostacolo.
Si vedrà. Ciò che è chiaro è che Jared è un punto di Archimede per sollevare il pianeta di Trump, lui che con la figlia Ivanka è diventato la metà della power couple di ultima generazione più importante di New York. Essere graditi a Jared è diventato un prerequisito per essere inclusi nella squadra di governo: senza soddisfare quella condizione la trattativa non parte nemmeno. Lo sanno bene Reince Priebus e Steve Bannon, nominati rispettivamente capo di gabinetto e "chief strategist", che nel corso dei mesi hanno stabilito una relazione di fiducia con il giovane, il quale ha sussurrato il suo gradimento per i due all'orecchio del presidente eletto. Lui, ebreo osservante, ha difeso Bannon presso i consiglieri del suocero anche quando sono fioccati racconti e indizi sulle tendenze antisemite di Bannon, sospettato di essere vicino alle teorie nazistoidi della alt-right. L'antico modus operandi adottato da Trump prevede sempre la presenza del poliziotto buono e di quello cattivo: anche il senatore Joe McCarthy aveva assunto un consigliere ebreo, Roy Cohn - poi diventato perno del potere newyorchese e avvocato di Trump - per schermarsi preventivamente dalle accuse di antisemitismo. Per rispetto nei confronti di Jared, l'annuncio delle nomine è stato rimandato dopo la fine dello sabbath.

(il Giornale, 22 novembre 2016)


AIDS: Una nuova speranza arriva da Israele

 
I pazienti con HIV e AIDS possono trovare una nuova speranza in un farmaco sviluppato presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, che è attualmente in fase di sperimentazione presso il Kaplan Medical Center di Rehovot.
Il farmaco è stato inserito in provette contenenti il sangue di dieci pazienti affetti da AIDS attualmente in cura presso l'ospedale, ed è riuscito a diminuire la presenza del virus dell'HIV nel 97% nei campioni di sangue analizzati in soli otto giorni, come riportato dal Canale 2 israeliano.
Il principio attivo del farmaco è un peptide, una versione più piccola di una proteina, che è stato sviluppato da Abraham Loyter e Assaf Friedler dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Il peptide causerebbe una serie di copie del DNA del virus per entrare nella cellula infetta e provocarne così l'autodistruzione.
L'HIV è attualmente trattato con un cocktail di farmaci che rallentano la progressione dell'infezione nel corpo, ma non consente una completa guarigione del paziente. Questi farmaci hanno permesso ai medici di curare l'AIDS come se fosse una malattia cronica.
Loyter ha spiegato che il nuovo approccio è superiore agli sforzi precedenti:
Con il nostro approccio, stiamo distruggendo le cellule, quindi non c'è alcuna possibilità che il virus si possa un giorno risvegliare, perché non ci sono cellule che contengono il virus.
Il Ministero della Salute israeliano ha recentemente annunciato di voler iniziare per la prima volta la distribuzione del farmaco profilattico ai pazienti a rischio. I farmaci, se assunti regolarmente, potranno essere efficaci per prevenire la diffusione del virus HIV durante il contatto.

(SiliconWadi, 22 novembre 2016)


Un esercito etico, che indaga e corregge se stesso

Caso raro al mondo, e sicuramente unico in Medio Oriente, le Forze di Difesa israeliane esigono dai soldati alti standard morali, continuamente aggiornati.

Soldati israeliani durante un'azione d'arresto nel campo palestinese di Deheishe, presso Betlemme
Le Forze di Difesa israeliane stanno elaborando un nuovo documento che istruirà i soldati su come prepararsi per affrontare meglio qualsiasi dilemma etico che potrebbero incontrare prestando servizio in Cisgiordania.
Il documento, che dovrebbe essere completato nelle prossime settimane, è il risultato, fra l'altro, dell'analisi degli interrogatori di palestinesi che hanno effettuato attacchi terroristici contro israeliani sostenendo d'essere stati motivati dal desiderio di vendetta contro i soldati, accusati d'aver trattato in modo ingiusto loro, i loro amici o i loro famigliari....

(israele.net, 22 novembre 2016)


Haifa - La cucina tradizionale calabrese. Conferenza e degustazione

In occasione della "Prima Settimana della Cucina Italiana in Israele", conferenza sulla cucina tradizionale calabrese e degustazione di alcuni piatti tipici della tradizione meridionale.

a cura di Maria Franconeri Heibi.

La cucina tradizionale calabrese è una cucina povera e di origine contadina. I prodotti della terra, come il grano duro, il granturco, i vari tipi di verdure coltivate e selvatiche, vengono impiegati diffusamente, così come il peperoncino, che è usato quotidianamente nelle conserve di ortaggi e nei salumi. Questi ultimi occupano un posto importante nella cucina calabrese e di solito sono, appunto, piccanti. Oltre a quella di maiale, le carni maggiormente consumate sono quelle di capra, capretto, agnello, la selvaggina e i gallinacei. Naturalmente, anche il pesce occupa un posto di primo piano, soprattutto nelle zone di mare: alici, pesce spada, sarde, lo stoccafisso e il baccalà. Le conserve più consumate sono quelle di pomodoro, olive e melanzane.

La conferenza verterà principalmente sulla cucina calabrese, ma i piatti proposti per la degustazione sono tipici di tre regioni meridionali: Puglia, Calabria e Sicilia.

IL MENU DELLA SERATA:
  • Le frise pugliesi
  • La conserva di melanzane
  • I cannoli siciliani
Per ogni piatto che assaggeremo insieme verranno illustrate le relative modalità di preparazione.

Maria Franconeri Heibi è nata a Canolo, Reggio Calabria. All'età di 19 anni ha lasciato il suo paese per andare a studiare psicologia a Padova, dove si è laureata e dove nel frattempo ha conosciuto il marito arabo-israeliano. Dopo la laurea del marito si è trasferita in Israele, dove vive tuttora. Ha tre figli.
Da 10 anni lavora presso l'Istituto italiano di cultura di Haifa come insegnante di lingua italiana. Nel corso della sua vita ha coltivato e coltiva, diverse passioni tra cui la cucina. Durante gli anni universitari a Padova, ha fatto alcune esperienze nel campo culinario lavorando in pasticcerie e trattorie locali.
Il legame con la sua terra di origine è rimasto sempre forte anche attraverso la cucina tradizionale calabrese della quale custodisce gelosamente gli insegnamenti della madre.

Evento in italiano, con degustazione di piatti tipici.
Martedì, 22 novembre, alle 19.00
Istituto Italiano di Cultura
Rehov Meir Rutberg 12, Haifa
Ingresso libero

(allevents, 22 novembre 2016)


L'lsis lancia la «guerra santa» di Natale

I terroristi preparavano un attentato durante le festività natalizie a Strasburgo. Ma l'allarme c'è anche in Italia: mercatini nel mirino degli jihadisti di al Baghdadi. La mobilitazione è totale e include il rafforzamento delle frontiere.

Pericolo
Massima attenzione ai miliziani che fuggono dal Califfato
Arresti
Sette in cella: sono francesi afghani e marocchini

di Francesca Musacchio

Natale nel mirino dell'Isis. L'allarme arriva dalla Francia e riguarda anche altri Paesi occidentali, tra cui l'Italia. La minaccia, secondo il ministro dell'Interno francese, Bernard Cazeneuve, «non è mai stata così elevata». Nel mirino degli jihadisti ci sarebbero le celebrazioni sacre e i luoghi di ritrovo come i mercatini che proliferano in tutte le città.Un alert lanciato dopo il blitz dell'antiterrorismo d'Oltralpe che ha così sventato un attentato. Il rischio dunque sembra reale, soprattutto nel momento in cui da Siria e Iraq i terroristi fuggono a causa del conflitto. «Potrebbe esserci un vero e proprio esodo da quei territori», spiega una fonte de Il Tempo. Un avvertimento che trova parziale conferma in quanto accaduto ieri in Francia e sintetizzato nelle parole di Cazneuve, secondo il quale sia in Francia che in altri Paesi, la mobilitazione è «totale» e include il «rafforzamento delle frontiere europee e la lotta contro il traffico di armi».

 Francia: attentato sventato
  Nel mirino dei sette terroristi arrestati la notte tra sabato e domenica a Strasburgo e Marsiglia, c'era proprio il Natale. Secondo l'intelligence francese il gruppo stava organizzando un attacco che, presumibilmente, sarebbe stato compiuto proprio nel capoluogo alsaziano in occasione dell'apertura del mercatino natalizio. Quattro le persone fermate a Strasburgo, tra cui un dipendente comunale. Tre, invece, gli arresti compiuti a Marsiglia. Tutti sono uomini tra i 29 e i 37 anni, francesi, afghani e marocchini, alcuni dei quali già noti agli 007. L'unico marocchino finito in manette, invece, non era cittadino francese, ma segnalato per terrorismo da un altro Paese. Un'operazione che ha sconvolto la Francia, ancora nel mirino del fondamentalismo islamico. Già nel 2000 proprio il mercatino di Strasburgo è stato l'obiettivo di un altro attacco terroristico. Anche in quell'occasione le forze di sicurezza riuscirono a sventare l'attentato ma adesso, a distanza di sedici anni, la storia si ripete. «Gli arresti dei sette sospettati - ha spiegato il ministro dell'Interno francese - ci hanno permesso di impedire un attacco terroristico sul nostro territorio a lungo pianificato». Le indagini, infatti, sono andate avanti per otto mesi. Alla fine il gruppo è stato identificato e fermato prima che potesse mettere in atto il piano. Secondo gli investigatori i presunti terroristi erano in attesa proprio di una partita di armi che avrebbero utilizzato a Strasburgo. «Il rischio zero non può mai essere garantito - ha chiarito Cazeneuve in conferenza stampa - e chi lo garantisce mente ai francesi. Facciamo di tutto in ogni momento per prevenire questa minaccia terroristica e proteggere i nostri connazionali».

 Minaccia in Italia
  L'allarme per le festività natalizie non è solo circoscritto alla Francia. Il rischio, infatti, esiste anche nel nostro Paese. L'Antiterrorismo, non solo alla luce degli arresti avvenuti tra Strasburgo e Marsiglia, non esclude nessuna ipotesi. In particolare, secondo alcune fonti, il rischio maggiore arriva da tutti quei territori (Siria, Iraq e anche Libia), da cui i terroristi sono in fuga: «Sono irriconoscibili. Nessun segno esterno, tipo la barba lunga o altro, che possa ricondurre al-
la loro vera identità. Ma esiste la possibilità che i terroristi dell'Isis stiano abbandonando il Califfato per arrivare in Europa». E quindi anche il nostro Paese si prepara al Natale, monitorando e indagando su potenziali soggetti a rischio.

 I precedenti
  Del resto l'allarme per la minaccia terroristica lanciato in occasione di Natale e Capodanno, non è una novità. Le intelligence occidentali, già l'anno scorso, hanno segnalato il possibile rischio durante giorni specifici. Lo stessoAbu Bakr al Baghdadi, il 26 dicembre 2015, giorno di Santo Stefano, in un audio diffuso dopo mesi di silenzio, ha lanciato pesanti minacce contro Israele e avvertito che gli allora raid aerei contro le postazioni jihadiste, non avevano indebolito i suoi mujaheddin. In un video che ha preceduto di qualche ora le parole del leader dell'Isis, invece, si vedevano le immagini della Torre di Pisa e del Vaticano.
È di qualche glomo dopo, invece, l'alert lanciato da alcune intellligence occidentali, riguardava il pericolo di attentati terroristici durante i festeggiamenti per l'inizio del nuovo anno proprio nelle capitali europee: da Bruxelles a Vienna, passando per Roma, Parigi e Londra. In quell'occasione, tra Natale e Capodanno in Italia, il rischio si concentrava tra Roma e Milano.

(Il Tempo, 22 novembre 2016)


Comandante iraniano: Israele sarà spazzato via in 10 anni. Silenzio dall'Europa

Il comandante delle sanguinarie milizie Basij torna a minacciare Israele e per farlo conferma l'importanza per Teheran della alleanza con i palestinesi, il tutto nella totale indifferenza dell'Europa della Mogherini.

Tornano prepotenti le minacce iraniane a Israele. Il comandante di uno dei più importanti corpi di repressione iraniani, le milizie Basij, un gruppo di assassini al soldo del regime iraniano, parlando a un gruppo di studenti iraniani definiti di "elite" ha detto di avere la speranza che le ideologie, i pensieri e le nozioni della rivoluzione iraniana aiutino i palestinesi a sbarazzarsi di Israele nei prossimi 10 anni. Lo riferisce l'agenzia iraniana FARS.
Secondo il pensiero espresso dal generale di brigata Mohammad Reza Naqdi, comandante delle milizie Basij tristemente note in occidente per il massacro di studenti durante le rivolte del 2009/2010 (rivoluzione verde), «se l'ideologia della rivoluzione iraniana è riuscita a spazzare via gli Stati Uniti dall'Iran e ha salvato il regime iraniano da Saddam Hussein può aiutare gli arabi palestinesi a spazzare via Israele entro il 2025»....

(Right Reporters, 22 novembre 2016)


Così la Casa Bianca ridisegnerà il Medioriente

Gerusalemme capitale e l'addio all'accordo con l'Iran possono aprire scenari di fuoco.

di Livio Caputo

Barack & Donald
Ci sono tre promesse, tra le molte fatte da Trump nel corso della campagna elettorale, che potrebbero modificare radicalmente la scena mediorientale: il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, la fine della opposizione all'allargamento degli insediamenti ebraici già esistenti in Cisgiordania, il proposito di «stracciare» l'accordo con l'Iran, noto come Jpcoa, faticosamente raggiunto da Obama lo scorso anno nella speranza di fermare, o almeno ritardare, la corsa degli ayatollah verso l'arma nucleare, ma che Truump ha definito «il peggiore trattato mai concluso».
   Se le mantenesse tutte tre (ed è un grosso se, visto che non conosciamo ancora il nome del futuro Segretario di Stato), si guadagnerebbe l'eterna riconoscenza di Israele ma susciterebbe reazioni furiose nel mondo arabo e imprevedibili ritorsioni da parte di Teheran, con cui, sia pure sotto traccia, gli Stati Uniti collaborano attualmente nella guerra contro l'Isis. Il trasferimento dell'ambasciata comporterebbe, finalmente, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico: un riconoscimento che gli Usa e il mondo intero (Italia naturalmente compresa) hanno sempre negato in base a una vecchia risoluzione dell'Onu che voleva dare alla città uno status internazionale. Di conseguenza, nonostante gli stretti rapporti con Israele e l'unificazione della città sotto sovranità ebraica dopo la guerra del 67, Washington continua a considerare Gerusalemme come «illegalmente occupata». Per la verità, il Congresso aveva cercato fin dal 1995, con un voto quasi unanime di Senato e Camera, di porre rimedio a questa assurda situazione con il Jerusalem Embassy Act. Poiché, tuttavia, il presidente ha l'ultima parola in materia di politica estera, la legge gli lasciava la scelta del momento di applicarla; e sia Bill Clinton, sia George Bush, sia Barack Obama hanno preferito ignorarla, per timore di una rottura non solo con i palestinesi, ma anche con gli Stati arabi alleati. Se Trump, invece, seguisse le indicazioni del Congresso, metterebbe la parola fine alla disputa e risponderebbe anche alla recente, vergognosa risoluzione dell'Unesco che nega ogni legame tra l'ebraismo e la città.
   Ancora più dirompente sarebbe la decisione di non opporsi più all'ampliamento degli insediamenti, che era diventata una autentica ossessione per Obama e il principale motivo della sua rottura con Netanyahu. Ancora la settimana scorsa, Washington si è premurata di condannare la costruzione di 181 nuove unità abitative nel nuovo quartiere di Gilo, che si trova sì al di là della cosiddetta linea verde, ma su terreni regolarmente acquistati dal Fondo nazionale ebraico. Per l'amministrazione uscente, ogni allargamento degli insediamenti, anche di quelli che, in un ipotetico accordo di pace, sarebbero sicuramente rimasti ad Israele, costituiva un ostacolo alla ripresa dei negoziati. Se ora gli Stati Uniti cambiassero politica (e magari fossero seguiti da altri Paesi occidentali), scatenerebbero la furia dei palestinesi e renderebbero ancora più difficile la auspicata soluzione dei due Stati, ma prenderebbero anche atto di una realtà irreversibile.
   Gli specialisti di Medio Oriente si chiedono se Trump, vagliati i pro e i contro, passerà dalle parole ai fatti: ma la proclamata ostilità del neopresidente, e di diversi dei suoi più importanti consiglieri (in particolare, del generale Flynn) nei confronti dei musulmani fa pensare che la promessa elettorale non rimarrà sulla carta. La denuncia dell'accordo con Teheran (egualmente inviso ad Israele, perché lo considera privo delle necessarie garanzie) è molto più complicata. Esso ha infatti altri sei contraenti Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina, Germania ed Unione Europea - che difficilmente seguirebbero l'America su questa strada, anche perché hanno già avviato lucrosi contratti con l'Iran. Semplicemente «stracciarlo» sarebbe perciò per l'America un autogol. Tuttavia Trump potrebbe non applicarlo per la sua parte, o appellarsi alle violazioni già commesse dagli ayatollah aumentando la produzione di acqua pesante e sperimentando nuovi missili per imporre nuove sanzioni. Uno dei grandi oppositori dell'accordo è stato fin dall'inizio Mike Pompeo, ora nominato a capo della Cia.
   Ci sono tuttavia importanti controindicazioni: anzitutto, la fine del Jcpoa farebbe il gioco dei «duri» iraniani che vi si erano opposti, mettendo in difficoltà i moderati del presidente Rouhani; in secondo luogo, lascerebbe liberi gli ayatollah di riprendere la corsa al nucleare, con la sola, pericolosissima alternativa militare per fermarli. É perciò probabile che, anziché stracciarlo, Trump tenterà anzitutto di rinegoziare l'accordo, per renderlo più stringente. Ma visto che per concluderlo c'erano voluti quasi dieci anni di esasperanti negoziati, è più presto detto che fatto.

(il Giornale, 22 novembre 2016)


Egitto - Revocato l'ergastolo all'ex presidente Morsi

La Corte di Cassazione del Cairo ha revocato la condanna all'ergastolo contro l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, deposto dall'esercito nell'estate del 2013, ed altri 18 imputati nel processo su presunti casi di spionaggio a favore del gruppo islamico palestinese Hamas e dei Guardiani della Rivoluzione iraniani. Lo ha riferito il sito del quotidiano governativo Al-Ahram, precisando che la Cassazione ha ordinato la ripetizione del processo.
La scorsa settimana la stessa Corte ha annullato la condanna a morte comminata a Morsi per aver partecipato a un'evasione di massa da un carcere nel 2011. Anche in questo caso i giudici hanno ordinato la ripetizione del processo legato a fatti accaduti durante la rivoluzione che depose l'allora presidente Hosni Mubarak.

(Adnkronos, 22 novembre 2016)


Lo scandalo di Israele

Giovedì 17 novembre Il Foglio ha organizzato a Roma una conferenza internazionale dal titolo "Israele, la frontiera dell'Europa", moderata da Giulio Meotti. Sono stati invitati diversi ospiti internazionali, scrittori, storici, blogger, imam, dissidenti musulmani. A loro è stato chiesto di spiegare che cosa l'Europa può imparare da Israele nella lotta contro il terrorismo islamico. Ecco cosa hanno detto.

Boualem Sansal
Considerato uno dei più grandi scrittori francofoni viventi. Algerino, scrive per quotidiani francesi come Libération ed è l'autore del best seller "2084", una rivisitazione del capolavoro di Orwell su un mondo dominato da una sorta di califfato universale. Ha ricevuto numerose minacce di morte: "Ti faremo la pelle", "sporchi la terra dei martiri", "non meriti di vivere , "sporco ebreo".
Tre scandali mi riguardano e mi hanno oltraggiato. Il primo è quello dell'Unesco. Questa istituzione, dedicata alla cultura, alla scienza, al servizio della pace nel mondo, conduce verso Israele una politica razzista e antisemita. Modificare i nomi dei vari luoghi santi di Israele è niente meno che cancellare questo paese dalla lista degli stati e dei popoli di questo mondo. Non esisti, non hai un'identità se vieni derubato della tua storia e quella del popolo ebraico si misura nei millenni. Ho avuto modo di conoscere un altro scandalo dell'Unesco nel gennaio 2014. L'Unesco si preparava a inaugurare una mostra, ideata dal Centro Simon Wiesenthal, sul tema: "3.500 anni di relazioni tra il popolo ebraico e la Terra Santa". L'apertura ufficiale è stata annunciata sotto gli auspici del presidente François Hollande, del presidente di Israele, del primo ministro canadese e una serie di figure di spicco, tra cui il presidente del centro Wiesenthal. Ho avuto il grandissimo onore di essere membro del comitato etico della mostra, assieme al filosofo Elie Wiesel, alla signora Ester Coopersmith, all'ambasciatore degli Stati Uniti Patrick Desbois, a Lord Carey di Clifton, arcivescovo di Canterbury, e a Irwin Cotler, già ministro della Giustizia del Canada. Del tutto inaspettatamente, l'Unesco emette un comunicato stampa in cui annuncia il rinvio della mostra. Peggio ancora, la sala espositiva è stata chiusa con catene e lucchetti, con l'evidente scopo di umiliare. Questa cancellazione è stata imposta a Irina Bokova, direttore generale dell'Unesco, da parte del gruppo arabo, forte di ventidue ambasciatori e decine di funzionari arabi. Questo enorme scandalo non ha provocato alcuna reazione significativa, né del governo francese né della stampa. Credo di essere stato l'unico a farlo con una lettera aperta alla signora Bokova, pubblicata sul quotidiano Le Monde. Oggi l'Unesco ha aperto nuove strade, cancellando una storia vecchia come il mondo, cambiando i nomi di alcuni luoghi santi in Israele, come il Monte del Tempio, la tomba dei Patriarchi a Hebron, la tomba di Rachele a Betlemme. La conclusione è che gli ebrei non hanno nulla a che fare con Israele, vengono da altrove, torneranno lì. L'orrore è che paesi come la Francia, la Spagna, la Svezia, la Slovenia, la Russia hanno sostenuto la risoluzione. L'attacco alla storia di un popolo può essere paragonato a un crimine contro l'umanità, a un omicidio simbolico. Da parte mia, in coscienza, mi rifiuto, come algerino e come cittadino globale, e dico al gruppo arabo e all'Unesco: non in mio nome!
   Il secondo è lo scandalo arabo. Ci sono molti scandali nel mondo arabo. Il più scioccante è che nessun paese arabo è una terra di libertà e democrazia, o solo di buon senso, e tutto fa pensare che sarà così per sempre. Dominano la regola arbitraria, la corruzione, la violenza, l'ingiustizia più nera. Il dispotismo arabo è leggendario. Ciò non impedisce che i regimi arabi, senza eccezione, si pongano come un esempio di tutte le virtù e diano lezioni al mondo. Con l'ascesa dell'islam, il mondo arabo è diventato una grave minaccia per la pace e la stabilità nel mondo.
   Il terzo scandalo è l'odio di Israele. Il mondo arabo è pieno di odio ontologico, totale, eterno per quanto riguarda l'ebreo e Israele. Lo ha così interiorizzato che è quasi costitutivo dell'anima araba. A un mio amico piace dire che quando gli arabi smetteranno di odiare gli ebrei e Israele, cesseranno di vivere, altrimenti vorrebbe dire che sono miracolosamente guariti da questo cancro che divora il cuore dalla nascita dell'islam. Nel 2013 il Consiglio di ambasciatori arabi accreditati a Parigi mi ha assegnato un premio per il mio nuovo romanzo "Rue Darwin" proprio mentre mi trovavo in Israele su invito del Festival della letteratura internazionale di Gerusalemme e dell'Istituto francese di Tel Aviv. La coincidenza dei due eventi mi ha lasciato un attimo sperare che i governanti arabi fossero cambiati dando il premio a un autore che era in visita in Israele. La speranza è stata di breve durata. Una settimana dopo, apprendendo che ero stato in Israele, il Consiglio degli ambasciatori ha ritirato il premio e mi sono trovato al centro di una campagna di insulti e minacce senza precedenti. Quando più tardi con il mio amico David Grossman, lo scrittore israeliano, abbiamo fondato il forum mondiale degli scrittori per la pace, questo è stato boicottato da tutti gli scrittori arabi. La conclusione è grave: il mondo arabo è incorreggibile. L'odio è parte di esso. E continuerà per sempre a odiare Israele e gli ebrei, anche se questo paese e questo popolo scompariranno dalla terra, essi continueranno a odiarli perché credono che gli ebrei prenderanno il loro posto in paradiso. La pace non arriverà domani e l'ascesa dell'islamismo da un lato e la viltà occidentale dall'altro la rendono ancora più impossibile.

Andrew Tucker
Avvocato olandese e direttore di Christians for Israel InternationaL
Gli stati arabi, sostenuti da molte nazioni, hanno dirottato l'ordine giuridico internazionale per imporre una decisione che non solo ha distorto la storia, ma che rischia di minare i principi giuridici su cui si basano le Nazioni Unite e tutte le democrazie occidentali. Con l'attacco allo stato ebraico di Israele, in nome del diritto internazionale, gli stati dell'Europa non solo violano i propri impegni nei confronti del popolo ebraico, ma stanno attaccando le basi fondamentali della propria esistenza. E' come una sorta di suicidio giuridico internazionale. L'abuso dei sistemi giuridici in nome del diritto, alla fine porta alla distruzione dello stato di diritto e delle libertà in cui crediamo. Abbiamo visto una cosa simile in Germania, su scala nazionale, all'inizio del XX secolo. Non possiamo permettere che la storia si ripeta. L'Italia ha una responsabilità particolare nei confronti del popolo ebraico. Forse c'è ancora una breve finestra di opportunità perché questa importante nazione fermi lo tsunami diplomatico palestinese e onori gli impegni presi cento anni fa a San Remo con il popolo ebraico. Sarebbe un enorme atto di coraggio.

Hassen Chalgoumi
Presidente della Conferenza degli imam di Francia e imam a Drancy, a pochi chilometri da Saint Denis, l'enorme banlieue da cui partirono gli attentatori del Bataclan, lo scorso 13 novembre 2015. Chalghoumi vive sotto scorta, sei poliziotti che vegliano su di lui e la sua famiglia ventiquattro ore al, giorno, sette giorni su sette, da quando l'imam condannò l'attentato alla redazione di Charlie Hebdo, nel gennaio del 2015. Quel giorno, lo Stato islamico lanciò una fatwa contro di lui.
Pace a tutti voi! Io sono qui nella mia funzione di imam di Drancy, città nota ad alcuni di voi, perché l'ottanta per cento degli ebrei di Francia sono stati deportati da qui. La storia dell'Europa e della Francia ha in Drancy una macchia nera. Nel 2004 sono stato presente davanti al memoriale della Shoah. E come uomo feci una dichiarazione che diceva di rispettare la storia del popolo ebraico. Due giorni dopo c'è stato un attacco contro la mia casa. Ho abitato a Drancy per anni e questa campagna contro di me continua ancora oggi. Ho cinquemila fedeli nella mia moschea, dove ho invitato l'ambasciatore di Israele. Ci siamo tesi la mano, abbiamo fatto il Ramadan assieme a Drancy, lui ha parlato in arabo e recitato le sure, ma i musulmani hanno visto questo come un atto fortissimo. Un articolo sul giornale Le Parisien, dove mi schieravo contro l'importazione in Francia del conflitto a Gaza, mi è costato un attentato alla mia macchina.
Volevamo sostenere la pace e nel marzo 2009 siamo partiti per Israele, per unire i popoli, e c'è stata una catena di odio incredibile. Ma cosa succede in Europa, in Francia, in Belgio? Non c'è islam in Europa, c'è solo l'islam politico, i Fratelli musulmani, l'islamismo, una cancrena sostenuta dall'estero, dal Qatar, dalla Turchia, e ce ne sono talmente tanti. Questo islam politico ha corrotto i musulmani, è il nemico dell'Europa. E cosa ha fatto l'Europa? Ha forse fermato questa influenza straniera? No. Questi paesi stranieri gestiscono luoghi di preghiera, non c'è un islam di luce, fraternità, spirituale, c'è solo l'islam politico. Partiamo dalla formazione degli imam. Dopo la terribile strage alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012, quei bambini uccisi perché ebrei, con la Conferenza degli imam ci siamo recati a Tolosa e siamo andati anche davanti al memoriale della Shoah. Una catastrofe. Io sostengo la causa israeliana e palestinese, voglio che vivano assieme, ma non possiamo parlare in modo barbaro, come si fa soltanto a nome dei palestinesi. Abbiamo chiesto alla Conferenza degli imam di andare a Ramallah, accolti da Salam Fayad, premier palestinese, e poi in Israele accolti dal presidente Peres.
Il giorno prima della morte di Peres ho scritto su Facebook una parola di pace: duecentomila visite in una giornata, quattromila minacce e insulti. Accade in Europa, in Francia. Noi, gli imam francesi, credevamo nella pace ma purtroppo si sono tenute manifestazioni contro di noi a Parigi. E mi sono detto: i palestinesi dove sono, a Ramallah o a Parigi? Siamo stati insultati, alcuni imam cacciati dalle moschee. Questo è l'islam politico, un cancro. Perché non lo intendiamo? La causa siriana si è sviluppata allo stesso modo. I Fratelli Musulmani nel 2013 hanno fatto appello al Cairo per il jihad in Siria. E' triste che non si condanni tutto questo. Ci sono imam che in una rete televisiva come quella di Al Jazeera predicano odio. Ci sono imam su internet. Perché ci sono quattromila giovani musulmani europei, soprattutto francesi e belgi, che sono andati a combattere in Siria e Iraq? Chi è complice di tutto ciò? Ci sono scuole da noi in Francia dove non si parla della Shoah, e se lo fai, qualcuno si alza e ti dice: 'Allora devi parlare della causa palestinese'. E poi sei costretto a muoverti sempre con la scorta della polizia. Una volta sono stato a Praga e un sopravvissuto mi ha detto: 'I nazisti non erano numerosi, ma il popolo è rimasto indifferente'. Non dobbiamo cadere nella trappola del razzismo alimentata dall'estrema destra, ma non dobbiamo essere indifferenti nei confronti degli islamisti. Questi sono dei barbari, dei criminali, il loro obiettivo è creare guerre civili, è il loro lavoro. Ma se rimarremo uniti, vinceremo.

Ofer Sachs
Ambasciatore di Israele a Roma
Il nostro tema di stasera è "Israele, la frontiera dell'Europa". Si tratta davvero di una linea di confine? La mia risposta è molto semplice: sì! Ma purtroppo Israele non può fornire una frontiera magica. Israele è come quel ragazzino, nella famosa parabola olandese, che tiene il dito nella diga per fermare il grande flusso che inonderebbe il paese, ovvero l'Europa. I disordini in medio oriente stanno già drammaticamente colpendo i cittadini europei. In Israele, musulmani e cristiani hanno totale libertà di religione, di manifestare le loro opinioni politiche, di votare e di essere eletti. La comunità cristiana d'Israele è l'unica che cresce in tutto il medio oriente. Israele è un faro di libertà in una regione in cui vengono soppressi i gruppi etnici minoritari. Il titolo del convegno del Foglio riflette una realtà che gli stati membri dell'Unione Europea hanno bisogno di tenere a mente: l'Europa non può permettersi di perdere Israele, e Israele non può permettersi di perdere l'Europa.

Maurice Silber
Consulente del Ceo di SodaStream, Daniel Birnhaum, a capo dell'azien- da israeliana più boicottata al mondo.
L'azienda israeliana per cui lavoro, SodaStream, è stata attaccata negli ultimi otto anni dal boicottaggio in tutti i 45 paesi in cui operiamo, in luoghi lontani come la Nuova Zelanda e il Giappone, Stati Uniti, Canada, Sud Africa, e naturalmente in Europa - in particolare nel Regno Unito, in Francia, in Svezia e qui in Italia. Siamo stati attaccati da ong come Oxfam, la Chiesa Unita del Canada, politici come il leader dei Verdi nel Regno Unito, Caroline Lucas, da vari comuni tra cui Trieste, dai media in Svezia, e, naturalmente, dall'Unione Europea. Odio puro. E' comune a tutti questi attacchi che gli autori affermino di essere attivisti per i diritti umani. Non c'è boicottaggio per fermare l'infibulazione in Africa o l'estrazione di organi da condannati a morte in Cina. Nessun boicottaggio per le massicce esecuzioni in Iran. Nessun boicottaggio per proteggere la dignità e la vita delle donne in Arabia Saudita. Il boicottaggio umanitario nel mondo si concentra su Israele e SodaStream. Notevole. E' antisemitismo travestito da premura per i diritti umani.

Fiamma Nirenstein
Giornalista ed ex parlamentare
Cari amici del Foglio, siete i soliti eroi della battaglia per Israele. Una battaglia non è facile: non porta più copie vendute, non porta sorrisi di compiacimento dell'élite intellettuale, né aiuti dalle istituzioni e dai magnati. Quella per Israele, poi, è una battaglia di quelle che promettono lacrime, sudore e sangue, ma anche una profonda soddisfazione interiore. Non si vive invano se si combatte per Israele. Voi siete sempre stati in prima fila e io, da israeliana e da italiana, vi ringrazio di questo, e della vostra nuova iniziativa odierna. Io mi trovo a Toronto alla riunione annuale del board dei Friends of Israel, e per questo non posso venire, mi dispiace. Sento che forse oggi siamo a una svolta: non a causa dell'elezione di Trump, ma perché, fra tante nuove paure, il mondo deve infine riconoscere il valore di quel piccolo paese: la sua eccellenza è tale, tale la sua determinazione a mantenere una democrazia esemplare di fronte al terrorismo continuo e anche all'attacco dei vili che ne fanno l'epicentro della loro propensione alla menzogna, tale il suo costante amore per la cultura e la scienza, e quindi tale la necessità del mondo intero che Israele esista, che si comincia a avvertire qualche ripensamento. E' un faro sulla costa lontana, specie nel mondo arabo. Per ora, seguitiamo a combattere. Grazie Giuliano, grazie Claudio, grazie Giulio, grazie al Foglio: è stata e sarà una strada fatta insieme, tanto migliore di quelle che si compiono in solitudine.

Bruce Bawer
Scrittore e giornalista americano che vive in Norvegia, autore dopo l'11 settembre di libri importanti come ''While Europe Slept", che ne hanno fatto una delle voci più significative del dibattito.
Nel 2006, ho pubblicato un libro dal titolo "Mentre l'Europa dormiva". La premessa è che questo continente è stato sottoposto a un processo pericoloso di islamizzazione e che i leader, i media e le élite culturali lo negavano. Non hanno mai riconosciuto che ciò che in realtà stava succedendo era un jihad in piena regola, un graduale assorbimento della "Casa della Guerra", vale a dire il laico occidente, nella "Casa della Sottomissione", noto anche come il mondo islamico. E hanno respinto, ridicolizzato e demonizzato quelli di noi che hanno messo in guardia su questo. Da allora, l'islamizzazione dell'Europa ha proceduto a ritmo sostenuto e le cose sono andate di male in peggio non solo nelle città, come mi aspettavo, ma, con mia grande sorpresa, anche nelle zone rurali come la piccola città dove vivo nelle montagne norvegesi. Quest'anno, non lontano da casa mia, è stato creato un centro per centinaia di rifugiati musulmani a fianco di un villaggio con una cinquantina di abitanti, a cui non hanno mai chiesto il permesso per questa intrusione. Il paese è nei fatti distrutto. Questo sta accadendo in tutto il continente. Il mese scorso, in Inghilterra, dei funzionari hanno cercato di censurare un rapporto sui quartieri musulmani cui era stato tacitamente concesso l'autogoverno. Dopo ogni atto terroristico, le élite si affrettano ad assolvere l'islam di ogni colpa. Anche quando i terroristi gridano "Allahu akbar", le autorità si fingono ignari sulle loro motivazioni. Il sindaco musulmano di Londra cerca di normalizzare il terrorismo dicendo allegramente che è "parte integrante della vita di una grande città". La resa culturale avviene a tutti i livelli. I governi vietano l'esposizione delle bandiere. Le chiese rimuovono le croci. Le piscine si autosegregano, I libri di testo insabbiano l'islam. Mentre i cristiani e gli ebrei vengono massacrati in medio oriente, i leader cristiani insistono sul fatto che i musulmani sono sempre le vittime. La libertà di parola, almeno sull'islam, è un ricordo. Mentre l'Unione Europea sancisce che la libera circolazione attraverso le frontiere è un "diritto sacro", si aborrisce ogni commento sull'islam. Il mese scorso, l'Ue ha ordinato alla stampa britannica di non identificare i terroristi musulmani come musulmani. Dopo gli attacchi di Nizza, un editore francese ha cancellato una traduzione del bestseller tedesco "Fascismo islamico". In questo momento, Geert Wilders, il capo del partito più grande dei Paesi Bassi, è sotto processo per aver criticato l'islam. Mentre la Gran Bretagna nega l'ingresso a critici americani dell'islam, ha recentemente accolto un predicatore iraniano che invoca l'uccisione di omosessuali. Cosa rende possibile tutta questa servile accondiscendenza? In primo luogo, la mancanza di apprezzamento per la libertà individuale e altri valori occidentali. In secondo luogo, una convinzione, indotta dal lavaggio multiculturale del cervello, che gli occidentali non dovrebbero criticare altre culture. In terzo luogo, la paura paralizzante di essere chiamato "islamofobo". In nome della tolleranza, le élite europee hanno tradito il popolo in modo pericoloso. E gli ebrei d'Europa sono stati venduti. Sempre più ebrei in Europa hanno paura di indossare la kippah. Hanno paura di mandare i loro figli a scuola. L'odio ebraico è normalizzato. Proprio come Israele è in prima linea nella guerra dell'occidente contro il jihad islamico, gli ebrei europei sono vittime in prima linea del jihad in questo continente.

Bat Ye'or
Storica di origini egiziane che ha coniato l'espressione "dhimmitu- dine" per indicare una condizione
di sottomissione delle minoranze ebraico-cristiane in medio oriente. Dai suoi libri si sarebbe ispirata anche Oriana Fallaci.
oggi stiamo assistendo alla realizzazione del Califfato universale che ho descritto in uno dei mei libri. Questa espressione significa che la visione musulmana della storia e i suoi valori dominano le istituzioni internazionali. Lo vediamo con la risoluzione su Gerusalemme dell'Unesco, questo palazzo dell'incultura o della discultura. Una risoluzione che mira a islamizzare l'antica storia del popolo di Israele, anche con l'aiuto di numerosi paesi cristiani in Europa e altri continenti. Già la Dichiarazione di Venezia del 1980, fatta dalla Comunità europea, obbligava Israele a sopravvivere in un territorio indifendibile, invocandone quindi la scomparsa. L'islamizzazione di Gerusalemme e la delegittimazione dello stato di Israele furono affermati già allora in quella dichiarazione. I luoghi sacri agli ebrei, la sopravvivenza dello stato ebraico, erano offerti dall'Europa in cambio di petrodollari. Con fervore i paesi europei spendono miliardi per promuovere una campagna palestinese di odio contro lo stato di Israele. Riconoscono il terrorismo ovunque tranne che in Israele perché sono alleati di questi terroristi. Li chiamano "partigiani" che resistono contro una cosiddetta "occupazione" da parte dello stato di Israele. Non vi ricorda qualcosa? L'alleanza Pétain-Hitler e dei fascisti con il gran mufti di Gerusalemme, il capo religioso degli arabi palestinesi e dei Fratelli musulmani, che mirava allo sterminio del popolo ebraico, accusato di essere la causa del male. Oggi la stessa politica, la stessa alleanza pianifica lo stesso obiettivo con la stessa motivazione: Israele è la causa delle guerre nel medio oriente. Adesso con la risoluzione del Palazzo dell'incultura assistiamo alla soppressione della storia del popolo d'Israele, la Shoah della memoria, come l'ha chiamata Giulio Meotti, alla quale l'Europa si associa. Quello che ci impone la risoluzione del Palazzo dell'incultura non è soltanto di distruggere la nostra identità e la nostra cultura, ma anche di distruggere il principio fondamentale della civiltà occidentale: il razionalismo. Questa risoluzione contro la quale l'Europa non protesta, tranne quattro paesi - perché astenersi non è una protesta ma una viltà - è un atto di islamizzazione dell'Europa e del Cristianesimo. L'alleanza dell'Europa con i nemici di Israele per delegittimarlo e distruggerlo ha continuato la politica di Hitler e Pétain: ma come si può distruggere Israele senza distruggere anche il Cristianesimo? Che cosa sarebbe il Cristianesimo senza la Bibbia, i Profeti, il Gesù ebreo, i valori universali che insegnano e tramandano?

Waleed al Husseini
Il primo palestinese perseguitato per le proprie idee dall'autorità palestinese in Cisgiordania, quella "moderata" di Abu Mazen. Il blogger di Qalqilya, in Cisgiordania, aveva vent'anni quando è stato arrestato mentre si trovava come ogni giorno in un piccolo internet cafè della sua città. Secondo le autorità palestinesi sarebbe lui l"'apostata" che da tempo si prendeva gioco e criticava l'islam in rete. L'accusa, se confermaia, poteva costargli la morte. Un gruppo su Facebook ha anche invocato la sua esecuzione. Secondo l'Autorità nazionale palestinese, Waleed avrebbe "promosso l'ateismo". E' stata una circolare del ministero dell'Interno dell'Anp, che invita alla vigilanza i proprietari d'internet café, a smascherare Walid. Oltre al suo profilo Facebook, che nel frattempo è già stato cancellato, avrebbe anche pubblicato alcuni saggi in arabo sul blog "Noor al Aqel" (Luce della ragione) e in inglese su "Proud Atheist", identificandosi come "un ateo di Gerusalemme". E' stato in prigione per dieci mesi. Secondo quanto scrive il New York Times, i saggi di Husseini presentano "argomenti sofisticati con uno stile schietto e audace". Husseini è vivo soltanto perché ha trovato riparo in Francia, dove ha pubblicato il libro "Blasphémateur" per la casa editrice Fayard.
Sono lieto di essere qui oggi per poter parlare della mia esperienza. Sono nato a Qalqilya, in Cisgiordania, e sin dalla scuola ho iniziato a mettere in discussione la religione. Non avendo ottenuto risposte da imam e insegnanti - che mi dicevano "queste sono domande di Satana, prega e smettila di interrogarti" - ho studiato e letto molto da solo. Mi ci è voluto un po' di tempo, e di forza, prima di abbandonare l'islam e diventare un ateo. Ho iniziato a tenere un blog personale in arabo, fino a quando, il 2 novembre 2010, sono stato arrestato con l'accusa di blasfemia dall'Autorità nazionale palestinese (non da Hamas!). Ho passato dieci mesi in carcere e la principale domanda che la polizia mi poneva era: "Chi finanzia il tuo ateismo?" Perché, per queste persone, è evidente che se decidi di abbandonare l'islam, significa che qualcuno ti sta pagando, non è pensabile che sia una tua scelta. Quando ho iniziato a scrivere il mio blog, avevo vent'anni, pensavo di stare esercitando i miei diritti. Credevo che l'Autorità palestinese fosse laica. In carcere ho appreso che anche lì, come in tutti gli stati musulmani, la principale fonte di giurisdizione è la Sharia, la legge islamica. In sostanza ho capito che non esiste affatto il concetto di laicità. Su questo posso dirvi che in Palestina non c'è molta differenza tra Fatah e Hamas, o persino con i comunisti, i quali pure hanno sostenuto il mio arresto. Questo è uno dei motivi per cui penso che non esista in Palestina nessun movimento che possa portare alla pace, o nemmeno che voglia realmente raggiungerla. La cosa più assurda è che, mentre ero in carcere, Abu Mazen si è presentato all'Onu per chiedere il riconoscimento dello stato palestinese. Io davvero non capisco di che stato parli. Uno stato che escluda tutte le libertà fondamentali, di espressione, di credo? Dopo il carcere sono stato agli arresti domiciliari e poi sono riuscito a scappare, attraverso la Giordania, in Francia. Qui ho pubblicato un libro per raccontare la mia esperienza ("Blasphémateur! Les prisons d'Allah"). Curioso è che ad attaccarmi subito è stata la sinistra francese, sostenendo che non si debba parlare ora di libertà fondamentali in Palestina, perché l'unico focus deve essere "Palestina libera", libera da Israele. Questa cosa mi ha scioccato ... la gente in Cisgiordania e a Gaza soffre perché vive sotto la dittatura, privata di diritti. .. e crede che la colpa di tutto ciò sia di Israele! In realtà, queste persone utilizzano la Palestina per i propri scopi. Alcuni per dissimulare il proprio antisemitismo, altri per nascondere il proprio radicalismo. Fondamentalmente tutti usano la causa palestinese per giocare il perenne ruolo delle vittime. Io sono veramente stanco di tutto ciò, credo che se questa continua a essere la narrazione, le possibilità di raggiungere una qualsiasi soluzione siano sempre più remote. Nonostante gli attacchi dei jihadisti sul suolo europeo, l'Europa, e specialmente la Francia, continua a essere cieca, a non percepire la minaccia, in quanto affronta il problema dal proprio punto di vista liberale, diametralmente opposto a quello dell'ideologia islamista. Se l'islamismo vincerà, non sarà per via della propria forza intellettuale e nemmeno per gli attentati terroristici. Se vincerà sarà solo a causa della nostra codardia! Per questo non dobbiamo rinunciare a combatterlo, ma soprattutto a capire come funziona la sua mente.

Gabriel Barkay
Uno dei più grandi e noti archeologi israeliani. Di origini ungheresi, ha dedicato la sua vita alla ricerca storica a Gerusalemme. E' stata una delle voci più forti e critiche delle due risoluzioni dell'Unesco che di recente hanno cancellato de facto la storia ebraica di Gerusalemme.
Molti conoscono il terrorismo islamico estremista, quello che usa gli esplosivi, le autobombe, le decapitazioni. Ma esiste anche un terrorismo culturale, che si manifesta con la distruzione dei Buddha da parte dei Talebani, dei monumenti antichi a Baghdad, Ninive, Palmira. Si tratta di atrocità culturali. Tra queste, c'è anche la recente decisione dell'Unesco sul Monte del Tempio a Gerusalemme. L'Unesco nega il legame del popolo ebraico con la Spianata del Tempio. Non è solo uno scandalo, è terrorismo culturale. Lo storico Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme, ci ha descritto nelle sue cronache il Tempio come l'aveva visto. E' menzionato più di venti volte nel Nuovo Testamento. Questa decisione mina il credo di base del cristianesimo, della civiltà giudaico-cristiana. Le atrocità a Gerusalemme - dove, va ricordato, vi è sempre stata una maggiornaza ebraica sin dal Diciannovesimo secolo - contro i valori culturali ebraici sono iniziate ben prima della fondazione dello stato d'Israele, già negli anni Venti. Si sono poi aggravate particolarmente tra il 1949 e il '67, quando Gerusalemme est si trovava sotto il Regno di Giordania. Allora fu dissacrato il millenario cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi. Nel novembre 1999, il Waqf (l'autorità che gestisce i luoghi santi islamici) scavò illecitamente una fossa enorme nell'angolo sud-orientale del Monte del Tempio. Circa quattrocento camion gettarono via, come fossero rifiuti, novemila tonnellate di terreno contenente innumerevoli reperti archeologici.
Un vero e proprio atto di barbarie. Da allora, insieme al mio collega Zachi Dvira, mi sono occpato di studiare questi detriti, insieme a tantissimi volontari, e abbiamo trovato circa mezzo milione di reperti, circa il 15 per cento dei quali appartengono al periodo del Primo Tempio. L'azione criminale del Waqf del 1999 non fu oggetto di nessuna critica da parte dell'Unesco. Nemmeno quando antichissimi siti in Iraq, in Siria vengono fatti esplodere, l'Unesco adotta una risoluzione. Solo se si tratta di cancellare il retaggio ebraico del Monte del Tempio di Gerusalemme.
Oltre al terrorismo culturale e alle distruzione dei siti archeologici, dagli anni Novanta si è diffuso un negazionismo del Tempio, la menzogna secondo la quale non è mai esistito un Tempio degli ebrei, come disse Arafat a Clinton durante gli accordi di Camp David (una dichiarazione oltraggiosa che fece arrivare persino il presidente Clinton alla conclusione che il conflitto era molto più complesso di quanto credesse). Io ritengo che il negazionismo del Tempio sia oggi più grave anche rispetto al negazionismo della Shoah: perché in questo caso abbiamo ancora i campi, la documentazione, i sopravvissuti, uno dei quali sta parlando ora davanti a voi. Ma nel caso del Tempio, che è esistito duemila anni fa, non ci sono testimoni viventi e questo negazionismo moderno è estremamente pericoloso. E' vero che vengo da Gerusalemme, ma di certo non posso competere contro i profeti Isaia e Geremia. Tuttavia posso dirvi che il terrorismo culturale di cui sto parlando raggiungerà l'Europa. Per favore, bloccatelo

Tzipi Livni
Ex ministro degli Esteri di Israele, oggi leader dell'opposizione laburista nel Parlamento di Gerusalemme. E' stata definita "la politica più influente in Israele dai tempi di Golda Meir".
Viviamo in un momento in cui il mondo è invaso da guerre di religione, tra i gruppi dell'islamismo estremo, l'islam moderato e il mondo libero. In questo contesto, è necessario comprendere meglio cosa sia Israele. Quando si parla di Israele c'è sempre un aspetto emotivo che viene in qualche modo evocato. Per alcuni Israele è la patria del popolo ebraico e dei suoi avi, un paese che ha contribuito tanto alla storia, ma anche alla scienza, di cui siamo molto fieri. Ma per altri, Israele viene visto solo attraverso la lente distorta del conflitto, un paese che vuole controllare la vita dei palestinesi. Tutto ciò non fa che alimentare il divario fra Israele e la comunità internazionale, fra Israele e l'Ue. Guardando al medio oriente, ci sentiamo i Davide e non certo i Golia di questa regione, dove operano dei veri e propri tagliagole, terroristi che non si fermano davanti a niente. La verità è che Israele è la patria del popolo ebraico, ma è anche parte del mondo libero e pure vuole vivere in pace nella regione mediorientale. Il motivo per cui sono entrata in politica è perché credo che Israele abbia un interesse a vivere in pace e armonia con i palestinesi. Non è un favore a un presidente Usa o all'Ue, è innanzitutto un nostro interesse. Può essere giusto criticare a volte Israele, però bisogna capire cos'è Israele, ripeto, e la sua necessità di difendersi contro il terrorismo. Purtroppo, e non solo in Europa, ci sono dei fatti che vengono dimenticati, dei fatti anche ovvi. C'è una distorsione sistematica della storia. Mi capita spesso di sentire che il motivo del conflitto è la creazione dello stato nel 1948. Si ignora che nel 1947 la leadership ebraica accettò la risoluzione di spartizione, mentre quella araba la rifiutò. Già allora Israele capì che la soluzione di due stati era una "win-win situation". Io credo anche che il conflitto non sia la ragione dell'estremismo nella nostra ragione. Questo conflitto è stato sì sfruttato dagli estremisti, ma non è la ragione dell'odio. Israele non è un nemico. Sono i gruppi terroristici i nostri nemici, di tutti noi. Dobbiamo creare una nuova alleanza contro gli estremisti.
Non ci sono scuse per chi tenta di delegittimare l'esistenza di Israele, come stato ebraico e democratico. Uno stato ebraico non è la stessa cosa se lo si valuta da una prospettiva religiosa o nazionale. Io credo che dare uguali diritti a tutti i cittadini non sia un favore fatto dall'ebraismo alla democrazia, ma parte integrante di quella che è la politica dell'amare il prossimo, del rispetto degli altri, è qualcosa che è scritto nella nostra Bibbia. I valori dello stato di Israele sono la base per dare uguali diritti anche a tutte le minoranze.
C'è un grande dibattito in Israele sulle attività negli insediamenti. Ma bisogna capire che chi sostiene la soluzione dei due stati sa che la compensazione per quelle terre, lo scambio di alcune porzioni di territori, è l'unica soluzione possibile. E' qualcosa che anche i palestinesi hanno compreso già da tempo, tutti sanno che non si può semplicemte mettere indietro l'orologio a prima del 1967.
Questo fa parte del negoziato, ma voglio parlare anche del diritto di Israele a difendersi. Non posso accettare chi equipara Israele ai terroristi. Noi stiamo combattendo il terrorismo e nel farlo cerchiamo di evitare sempre le vittime civili. Mentre i terroristi sono sempre in cerca di giovani pronti a immolarsi, colpendo quanto più possibile i civili. Ogni equazione di questo tipo non è legittima. Io non dico che il mondo debba chiudere gli occhi di fronte ad alcune azioni di Israele, ma bisogna anche giudicare Israele in conformità ai giusti parametri e valori.
Infine: la recente decisione dell'Unesco: i negoziati non mirano a stabilire chi ha più ragione, ma riconoscono che due popoli qui hanno due diverse storie che si cerca di far conciliare. Quindi è importante che il Monte del Tempio venga riconosciuto come luogo santo sia per gli ebrei che per i musulmani. E' oltraggioso scegliere una narrativa a discapito di un'altra. Bisogna rispettare il diritto degli
altri a esprimere la propria religione, e quindi mi aspetto che anche loro rispettino il nostro legame con i luoghi santi di Gerusalemme. Scegliendo una narrativa rispetto a un'altra portiamo il conflitto dal piano nazionale a quello religioso. E questo non è ammissibile.
Ci sono poi quelli che vogliono boicottare Israele e cercano la soluzione di un unico stato. La loro idea è che noi dovremmo completamente sparire, questo è un misto di antisemitismo e delegittimazione. Israele si trova ad affrontare diverse sfide, sia per il conflitto regionale, sia per l'antisemitismo che per la delegittimazione in Europa. Il mondo sta cambiando: sempre più antisemitismo, estremismo, xenofobia. I moderati del mondo si devono unire per difendere i nostri valori comuni. Israele non sceglierà mai di essere dall'altra parte della barricata. Perché essere uno stato democratico ci rende parte del mondo libero, di coloro che credono nei valori liberali, dei diritti umani. E' importate capire questo punto per colmare il divario tra ciò che Israele è e come invece è percepito in alcune parti del mondo. E' necessario colmare il divario tra Davide e Golia.

Maryan Ismail
Antropologa e portavoce della comunità somala di Milano. E' passata di recente alle cronache per aver lasciato il Partito demo- cratico dopo aver denunciato la presenza in lista di esponenti dei Fratelli musulmani, la principale galassia dell'islam politico. Ismail denuncia quel fondamentalismo islamico che ha ucciso suo fratello Yusuf Mohamed Ismail, ambascia- tore somalo presso le Nazioni Unite a Ginevra, morto per mano dei fondamentalisti islamici di al Shabab.
Sono di origini somale, sono una donna, laica e progressista, fieramente africana, di religione sufi, quindi una minoranza nella grande famiglia islamica. Sono anche la sorella di un uomo, un ambasciatore, che è stato ammazzato l'anno scorso a Mogadiscio, perché ha sempre avversato il jihadismo e ha lottato per liberare la Somalia da ventisette anni di ostaggio di una guerra civile, che come somali ci rende ostaggio di una islamizzazione forzata, ostaggio del diciotto percento del mondo islamico che naviga sui petrodollari.
Nell'ambito delle ultime ammnistrative di Milano, mi sono trovata a concorrere, mio malgrado, come musulmana, perché il Partito democratico, con il quale militavo da tempo, ha inserito nelle liste una candidata indipendente che professa la mia stessa religione, legata alla Fratellanza musulmana, anche se lei, a onor del vero, ha detto di non appartenervi. Nonostante ciò, tutto quello che ha fatto e detto, fa riferimento alla Fratellanza musulmana. Ebbene, io sono fuoriuscita dal mio partito, pure essendo di sinistra, perché non voglio e non posso sedere nello stesso partito insieme a chi professa l'ideologia che non solo ha ammazzato mio fratello, ma che da ventisette annienta il mio paese di origine.
L'islam politico in Italia c'è dal 1980 con l'Unione degli studenti musulmani d'Italia, la cellula che poi ha formato l'Ucoii. Erano giovani e studenti di provenienza siriana, giordana, palestinese ai quali poi si sono aggiunti anche convertiti italiani, per esempio il signor Hamza Piccardo, che era un ex militante di Autonomia operaia, quindi sinistra extraparlamentare. L'Ucoii oggi riunisce centoventidue organizzazioni che si trovano più o meno in tutta Italia, principalmente nelle moschee, e utilizzano un modello tipico della Fratellanza musulmana: welfare, assistenza sociale e soprattutto una integrazione esternalizzata, ovvero integrazione economica e sociale, ma non culturale. Una diversità culturale araba e islamica molto precisa: per gli uomini la barba, per le donne il velo. Quel velo che noi diciamo deve essere rispettato - altrimenti siamo islamofobi - è in realtà un messaggio nazifascista che ci porta oggi a essere sottomessi.
Voglio riportare alcuni casi emblematici che sono accaduti di recente. L'anno scorso doveva arrivare in Italia, per un ciclo di conferenze, il predicatore dei Fratelli musulmani Tareq Suwaidan. Il Ministro dell'Interno, Angelino Alfano, gli ha negato il visto per via delle sue posizioni estremiste e le uniche associazioni che si sono opposte al diniego di Alfano sono state l'Associazione islamica italiana, il Caim di Davide Piccardo e Abdallah Kabakebbji, dei Giovani musulmani, marito di Sumaya Abdel Qader, la "nostra" esponente del Pd al comune di Milano. Si tratta delle associazioni che rientrano nell'orbita dell'Ucoii. Il resto del mondo musulmano italiano sosteneva la decisione di Alfano.
Un altro caso è avvenuto in quella che dovrebbe essere la prima università islamica italiana, il cui segretario, in un post sulla sua pagina facebook, ha invocato lo stermino dei sionisti, in sostanza la soluzione finale per Israele. Accade nella nostra civilissima Italia. Arriviamo poi a Sumaya Abdel Qader, l'attuale consigliera comunale di Milano, già esponente dei Giovani musulmani d'Italia, Responsbile cultura del Caim, rappresentante italiana di diverse realtà islamiche a livello europeo. Tra le sue varie affermazioni, ricordo quella in occasione del 25 aprile scorso: "Sfilerei con la Brigata ebraica senza problemi se non confondesse il suo essere profondamente italiana con Israele che non rappresenta me e tanti italiani". Io sono anni che sfilo dietro al vessillo della Brigata ebraica, non sopportando l'idea che partigiani che hanno versato sangue per il tricolore, proprio come i miei nonni somali, siano insultati e offesi perché ebrei. Io questo non lo accetto, perché nella mia religione vi sono due versetti fondamentali: "Non vi è costrizione della religione" e "ciascuno ha la sua religione".
Quindi noi musulmani siamo obbligati a rispettare le altri religioni. E aggiungo: anche coloro che non hanno religione.

Mons. Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara
Intervengo in questo importantissimo momento non per particolari competenze politiche o sociali, ma per una frequentazione del grande problema dell'antropologia religiosa dai tempi in cui prima ho studiato e poi insegnato questa materia e poi ora, come capo di una chiesa di una piccola città di provincia densa di grande cultura, che si trova ad affrontare ogni giorno una convivenza esemplare. E vorrei dire che l'aspetto più esemplare della convivenza a Ferrara è quello fra la chiesa cattolica e la minoranza ebraica. Un'intesa profondissima che ci fa partecipare comunemente a iniziative ebraiche e cattoliche senza alcuna preclusione. Il domandare greco, questa definizione insostituibile che Benedetto XVI ha dato nel suo straordinario discorso di Regensburg, dice che la religione tiene insieme la cultura occidentale, la cultura greco-romana, il profetismo ebraico, la fede cattolica e la libertà di coscienza dell'occidente moderno. Quindi non parliamo di religione perché siamo patiti della religione, ma perché altrimenti è difficile parlare dell'uomo.
Noi dobbiamo sentirci investiti oggi, quale sia la formulazione religiosa cui aderiamo, dal compito di restituire all'uomo la sua dignità e di aiutarlo a camminare verso il mistero senza accettare alcun riduzionismo. Ma se è vero che la religione libera l'uomo dagli idoli e dalle tentazioni riduttive ideologiche, c'è un aspetto per cui da questo impegno religioso scaturisce qualcosa di nuovo: l'amicizia. Un uomo è amico di un altro uomo perché non può non condividere, pur nella differenza delle convinzioni, la radice profonda che è il desiderio di conoscere Dio. Gli uomini religiosi non possono non essere amici perché sono accomunati da questa radice e tensione.
Come è già stato richiamato dall'ambasciatore d'Israele, le grandi esperienze religiose nel medio oriente hanno avuto sempre una possibilità di convivenza pacifica. Ma quando questa convivenza pacifica è stata spezzata, non è stato per questioni religiose, ma ideologiche, che hanno preteso di intervenire in una situazione completamente nuova come quella del medio oriente e di scandire ritmi e tempi di convivenza che non erano assolutamente accettabili per le popolazioni locali.
Oggi, agli uomini religiosi, di qualsiasi professione religiosa siano, si richiede di essere coerenti con la propria identità, di recuperare l'impeto positivo che la religione dà alla vita umana e sociale. Quando la religione diventa fattore di manipolazione ideologica o politica, di discriminazione o razzismo, non è perché c'è troppa religione, ma perché ci sono religioni sbagliate. O la religione è vera o non lo è. L'utilizzazione della religione a fini sociopolitici ed economici nasce dal fatto che si tenta di aggiogare l'esperienza religiosa a connotazioni, immagini e ideali che nulla hanno a che fare con la religione e che quindi la dissestano. L'amicizia che fiorisce dal cuore di ogni uomo religioso e investe tutti coloro che accanto a lui hanno anche soltanto il desiderio di incontrare un'autentica esperienza religiosa, è la radice della possibilità che in ogni momento della storia possa nascere una convivenza pacifica e quindi il rispetto reciproco dei singoli e delle comunità, secondo la grande formulazione laica di Kant, "tratta il mistero dall'altro che è accanto a te come il ministero che ti caratterizza", quindi trattarlo sempre come fine e mai come mezzo. Io credo che la sfida del mondo in cui viviamo è l'esprimersi in modo dissennato, come è stato già ampiamente sottolineato, di nuove forme di razzismo e di esclusivismo, che può essere vinto prima che da formulazioni politico-ideologiche, dall'umile consapevolezza di uomini religiosi che vivano la fedeltà alla religione prima e più di ogni altra cosa. Allora sì c'è quella libertà per cui il Signore Gesù Cristo ha potuto dire "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio".

Benedetto Della Vedova
Sottosegretario agli Affari Esteri
Voglio ringraziare gli amici del Foglio per avere scelto questo titolo, "Israele: la frontiera dell'Europa". Chi come me ha avuto il privilegio di crescere politicamente con Marco Pannella credo che ritrovi in queste parole la forza laicamente profetica del pensiero di Marco che ha sempre trasmesso a noi, a tutti, il senso del destino comune dell'Europa e di Israele, nel quale si inserisce a mio avviso il destino inevitabilmente comune di tutte le grandi democrazie liberali. Perché è il destino comune della libertà, della responsabilità, della possibilità per le istituzioni e per i paesi di proseguire nel loro cammino di libertà - oltre gli errori che possono sempre esserci delle leadership che si alternano - che rappresenta la forza della laicità delle istituzioni, è un argine al governo della religione, qualunque essa sia, è il presidio della libertà delle religioni, dei religiosi, dei fedeli e dei non fedeli. L'idea che è stata richiamata e che mi fa piacere ribadire è non solo che Israele sia la frontiera dell'Europa e della democrazia in una terra che democratica non è, ma è anche la frontiera della laicità, della libertà di religione, che è presente in Israele mentre non lo è altrove.
Siamo legati dal comune destino delle democrazie, se vorranno rimanere unite, in questa sfida contro una minaccia esterna alla libertà, che è la minaccia del terrorismo jihadista. E credo sia importante ribadire, perché abbiamo questa tendenza a caricarci molto, ma poi a dimenticare in fretta, che dopo le stragi di Parigi e di Bruxelles abbiamo cominciato anche qui con una "nuova normalità" in termini di sicurezza. Un'esperienza che in realtà conosciamo bene dal vissuto di Israele.
Oltre a questa minaccia esterna che ci accomuna, che è del tutto comune - perché sarebbe folle pensare di poter distinguere tra la minaccia a Israele e all'ebraismo e la minaccia all'occidente e alla cristianità - dobbiamo guardarci anche dai nemici interni e penso ad esempio all'incitamento all'odio, alla xenofobia più o meno strisciante che può soffiare anche da dove meno te lo aspetti, come è successo molto di recente. Perché l'incitamento all'odio e la xenofobia sono sempre alla ricerca di nuovi nemici, di nuovi capri espiatori e, siccome la democrazia ha bisogno di verità, la "post truth society", la politica e la società che fanno a meno della verità sono davvero un potente nemico interno. Società che si chiudono su politiche che vogliono rifondare il proprio consenso su un'ideologia etnonazionalistica sono una minaccia per la democrazia, per l'Europa e quindi per la sua frontiera. E, lo dico da italiano e da europeo: noi dobbiamo difendere l'Europa dalla minaccia del ritorno dei nazionalisti e dei nazionalismi, pensando a Israele come la nostra frontiera e al monito - che vale per la mia generazione in quanto cade come responsabilità sulla generazione di mio padre - quel monito che viene dalla storia di Israele che è la nostra storia, che chiama in causa l'Europa e l'Italia sicuramente in modo non secondario. Questa dimensione di frontiera e di comunità dentro le democrazie liberali, con tutte le differenze che è giusto che ci siano, ci deve portare a coltivare i rapporti nell'economia, nella ricerca scientifica, nell'innovazione, nella cultura anche per rafforzare qui legami che possano evitare i fraintendimenti e gli errori che abbiamo commesso in passato. Su tutto questo è davvero molto importante lavorare.

(Il Foglio, 21 novembre 2016)


Apertura a Steve Bannon dal ministro dell'agricoltura israeliano

GERUSALEMME - Il ministro dell'agricoltura israeliano Uri Ariel (Focolare ebraico) ha espresso il suo sostegno a Steve Bannon, neo consigliere strategico del presidente eletto Donald Trump) e lo ha ringraziato per la sua amicizia con Israele.
In una lettera inviata a Bannon, Ariel ha detto, sebbene ci "siano molte aree di disaccordo", di condividere con Bannon "la forte opposizione all'accordo sul nucleare iraniano che minaccia l'esistenza di Israele" e anche al Bds, il movimento di boicottaggio dello stato ebraico.

(Fonte: Corriere del Ticino, 20 novembre 2016)


Il matematico che corresse Einstein

Tullio Levi-Civita costrinse il teorico della relatività a rivederne i teoremi dopo un intenso scambio epistolare.

di Umberto Bottazzini

 
«Quando ho visto che Lei rivolge la sua obiezione contro la dimostrazione più importante della teoria, che mi è costata fiumi di sudore, mi sono spaventato non poco poiché so che Lei padroneggia queste cose matematiche molto meglio di me». È un allarmato Einstein quello che il 5 marzo 1915 così risponde a Tullio Levi-Civita, il matematico padovano che gli ha comunicato un errore nella dimostrazione di un teorema che lo stesso Einstein riconosce essere fondamentale per la teoria della relatività generale che sta elaborando. Nondimeno, «dopo un'attenta riflessione - continua fiducioso Einstein - ritengo tuttavia di poter mantenere in piedi la mia dimostrazione».
  Di che si tratta? Dopo la pubblicazione nel 1905 del celebre articolo sulla teoria della relatività, ristretta ai soli moti relativi uniformi, da diversi anni Einstein ha cominciato a riflettere sul modo di estendere la sua teoria a qualunque moto generico. «L'idea decisiva», dirà in seguito, gli è stata suggerita dall'«analogia tra il problema matematico della teoria [della relatività generale] e la teoria gaussiana delle superfici». Lasciata Praga per Zurigo nel 1912, con l'aiuto di Marcel Grossmann, amico e collega al locale Politecnico, si familiarizza con la geometria differenziale di Gauss e Riemann e studia il calcolo tensoriale, o calcolo differenziale assoluto come si chiama all'epoca il calcolo elaborato da Ricci-Curbastro, maestro di Levi-Civita a Padova.
  Nel 1913 appare il primo frutto del lavoro comune di Einstein e Grossmann, un abbozzo (Entwurf) di una teoria della relatività generale e della gravitazione, in cui Grossmann fornisce l'apparato matematico, ossia le definizioni e gli elementi essenziali del calcolo differenziale assoluto, a sostegno delle idee fisiche di Einstein. I metodi e le applicazioni di quel calcolo sono stati presentati da Levi-Civita e Ricci-Curbastro in un articolo del 1901che ha fatto epoca. Poincaré ha scritto una volta che nelle scienze matematiche una buona notazione ha la stessa importanza filosofica di una buona classificazione nelle scienze naturali, ricordano Ricci e Levi-Civita in apertura del loro lavoro. «A maggior ragione, si può dire altrettanto dei metodi» che «hanno origine e ragion d'essere negli intimi rapporti che li legano alla nozione di varietà a n dimensioni che dobbiamo al genio di Gauss e di Riemann».
  Quell'articolo è un sistematico compendio di metodi, accompagnati dalle numerose applicazioni alla fisica matematica che Levi-Civita padroneggia in maniera magistrale. Professore di meccanica razionale a soli 24 anni, delle sue grandi qualità il matematico padovano ha dato prova in una serie di contributi nei campi più diversi - dalla teoria degli infinitesimi alla teoria degli invarianti, alla meccanica analitica al problema dei tre corpi - che, a neppure trent'anni, ne fanno uno dei più geniali e poliedrici matematici del tempo.
  Sono queste le «cose matematiche» cui allude Einstein in quella sua prima lettera a Levi-Civita, che segna l'inizio di una fitta corrispondenza tra Padova e Berlino, dove nel frattempo si è stabilito il grande fisico. «Una corrispondenza così interessante non mi era ancora capitata» confessa Einstein al matematico italiano il 2 aprile. «Dovrebbe vedere con quale ansia aspetto sempre le sue lettere». E ne ha ben donde. Einstein cerca infatti ogni volta di controbattere con nuovi argomenti, e di mettere così la sua dimostrazione al riparo dalle reiterate critiche di Levi-Civita («mi accorgo dalla sua cartolina del 2 aprile che Lei insiste nella sua obiezione ... cercherò di confutarla» o ancora il 21 aprile «Lei ritiene ancora che il Teorema non sia valido. Io spero però che la lettera che Le ho inviato ieri La convinca») finché il 5 maggio, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, in una lettera che chiude quell'intenso carteggio Einstein è costretto a riconoscere che Levi-Civita ha ragione: «la mia prova è incompleta» e una proprietà essenziale è solo congetturata ma «non è dimostrata».
  Inizia allora per Einstein il periodo di duro, solitario lavoro che nel giro di qualche mese lo porta a stabilire la forma corretta delle equazioni gravitazionali che egli presenta all'Accademia delle Scienze di Berlino in una nota del novembre 1915. «Le equazioni gravitazionali rappresentano un vero trionfo dei metodi del calcolo differenziale assoluto», riconosce allora Einstein. «La nuova relatività fu costruita un po' a tentoni fra il 1913 e il 1915», dirà Levi-Civita anni dopo scrivendo al fisico Augusto Righi, che gli chiede lumi sulla teoria einsteiniana. «Come Ella ben sa, lo strumento analitico essenziale di questa teoria è il calcolo differenziale assoluto del Ricci». Levi-Civita tace sul proprio ruolo decisivo. Ma altrettanto decisivo, e stavolta pubblico, è un articolo scritto nel novembre 1916 destinato ad esercitare un'enorme influenza sugli sviluppi della teoria della relatività generale e della moderna geometria differenziale, nel quale egli definisce il significato di parallelismo e di «trasporto parallelo» in uno spazio a n dimensioni, mettendo in luce le intime connessioni tra parallelismo in una varietà e tensore di curvatura di Riemann.
  Con quel lavoro si chiude il periodo padovano, la stagione più originale e feconda di Levi-Civita, ma non si esaurisce certo il suo interesse per la teoria della relatività generale oggetto di una quarantina di suoi scritti. Chiamato all'Università di Roma nel dicembre 1918, Levi-Civita è un'autorità riconosciuta a livello internazionale, che le leggi razziali del 1938 costringono al silenzio minandone in maniera fatale la salute e lo spirito, fino alla morte nel 1941.
  A cent'anni di distanza dalla redazione di quel fondamentale lavoro sul trasporto parallelo l'Università di Padova ha deciso di onorare il suo antico studente e geniale maestro intitolando a Tullio Levi-Civita il Dipartimento di matematica con una cerimonia che si svolgerà la mattina del 25 novembre nell'Aula Magna del Palazzo del Bo.


Tullio Levi-Civita fu costretto ad abbandonare la cattedra universitaria in conseguenza delle leggi razziali. E’ bene non dimenticare questa vergogna nazionale.

(Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2016)


Mohamed Kamel Eddine Khemiri: "Evviva Isis e stragi". Ma per il giudice non è un terrorista

Mohamed Kamel Eddine Khemiri
Mohamed Kamel Eddine Khemiri, tunisino di 41 anni residente a San Marcellino in provincia di Caserta, è in carcere da agosto: è accusato di aver procurato documenti falsi ai migranti clandestini. E non solo: il signore ha nitidamente ammesso la sua adesione all'Isis. Come spiega il Corriere della Sera, la confessione è avvenuta lo scorso 12 agosto, quando davanti al procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, Antonio D'Amato, disse: "Confermo di aver condiviso gli ideali dell'Isis, ma in particolare fino a quando il presidente siriano Bashar Al Assad non ha iniziato a uccidere la propria gente".
   Perché ne parliamo? Semplice. Perché per la Procura il signore Khemiri è un militante dell'Isis, dedito "al proselitismo in favore delle organizzazioni di matrice islamica" e dunque va processato, mentre invece per il giudice non ci sono elementi sufficienti per considerarlo un reclutatore di kamikaze. La confessione e il traffico di documenti falsi, insomma, per la toga non sono "elementi sufficienti". Per intendersi, il signore, il 26 gennaio 2015, celebrando gli attentati a Parigi, scrisse: "Sono isissiano finché avrò vita. E se morirò esorto a farne parte". Come detto, per la Procura di Napoli si trattava di un potenziale terrorista. Ma il giudice che ha seguito il caso ha negato il processo, poiché, ha spiegato, "la condivisione ideologica, anche divulgata, è pericolosa ma non idonea" a considerare il soggetto "un segmento operativo" dell'Isis o di qualche organizzazione vicina. Giustizia all'italiana.

(Libero, 20 novembre 2016)


Krav Maga. Da Israele, un'autodifesa molto easy ma potente

di Michele Bianchi

 
Krav Maga. Una lotta corpo a corpo semplice e pratica. Disciplina mediorientale. Potentissima e di velocissimo apprendimento. La Krav Maga fu ideata su indicazione dell'esercito ebraico, agli inizi degli anni Cinquanta (in concomitanza della nascita dello Stato d'Israele), dalla fusione di un'arte di combattimento la Kapap, che serviva ad addestrare la formazione d'elite del neonato Stato israeliano e dall'elaborazione effettuata su queste tecniche da Imi Lichtenfeld (fondatore e Gran Master della Krav Maga). Di radici ungheresi. Nasce a Budapest nel 1910. Cresce nella città di Bratislava, capitale della Svolacchia. Campione di boxe, esperto lottatore di judo e di altre arti marziali. Eccellente nuotatore, ginnasta. L'atleta per antonomasia. Figlio di un istruttore di Polizia Locale, famoso per i molti arresti che aveva portato a termine. Lichtenfeld, in realtà, deve moltissimo al padre la sua esemplare preparazione.
   Ad un certo punto, decide di andare nello Stato d'Israele ad aiutare le forze ebraiche. Sistema di difesa personale che si contraddistingue per l'istintività e per la logica dei metodi applicati alla tutela della propria e dell'altrui incolumità. La prima prevede celerità d'esecuzione.La seconda si concentra su tecniche provate in palestra e studiate per essere efficaci in situazioni diverse.
   Il Krav Maga allena sia fisicamente che psicologicamente, attraverso l'insegnamento di un metodo di difesa essenziale, basato su tecniche semplici, sviluppatesi da scontri reali e scontri simulati. Gli allievi imparano a proteggersi sia da aggressori singoli (pugni, calci, prese e minacce) che da più persone, sia a mano nuda che armata (coltelli, bastone, arma impropria) ponendo in essere una neutralizzazione rapida e valida dell'avversario. Ampia analisi, inoltre, è data dallo studio del linguaggio del corpo, alla psicologia dell'aggressione, alla prossemica ed alla gestione dello stress e della paura. In aggiunta, si apprende come sfruttare a proprio vantaggio le diverse circostanze e situazioni ambientali. E, le mosse proibite? In questa lotta nulla è vietato! E' un'arte marziale. Ma, la maggioranza di chi la insegna, preferisce non considerarla tale. Estremamente utile per chi pensa di dover applicare le tecniche apprese e che possa trattarsi di vita o di morte. Ma, è anche uno scontro che insegna a difendersi in modo essenziale, contando più sui punti deboli dell'avversario che sulla forza fisica. E' quindi un'ottima difesa personale per tutti (se non la migliore). Per uomini, donne, ragazzi di qualsiasi età e corporatura. Negli allenamenti, per il sesso femminile, sono previste anche tecniche anti-stupro. La Krav Maga è un metodo di autodifesa che va preso in considerazione, come già detto, solo quando viene messa in pericolo la propria vita.
   Si basa sulla concentrazione, rapidità e esplosività della tecnica, concatenando colpi e pressando l'aggressore. Qual è il concetto originale della Krav Maga ? Creare un sistema di costante evoluzione con i tempi, in grado di far fede realmente agli attacchi terroristici, in grado di assorbile ogni arte marziale utile, attingendo alle sue tecniche più efficaci ed insegnandole prontamente e fruttuosamente. Questo fortissimo sistema di difesa personale, per diversi anni, è stato di esclusivo appannaggio delle forze speciali militari israeliane. E, solamente dal 1985, circa, ha iniziato a diffondersi in diverse parti del mondo. In Paesi dove è energica la presenza delle comunità ebraiche, o si sono sviluppati solidi canali di collaborazione in ambito militare e d'intelligence. Le principali scuole di combattimento e la maggior propagazione di questi sistemi, si trovano negli U.S.A, in Russia, in Francia, in Italia. Tutti Paesi che hanno saldi legami con Israele e il mondo ebraico.
   Il Krav Maga è insegnato nelle accademie dei più famosi servizi segreti (MOSSAD, CIA, ecc.),corpi speciali di polizia (come l'FBI) con una sempre più massiccia diffusione in Italia tra del Forze dell'Ordine (Polizia di Stato, Carabinieri, corpi di Polizia Locale, ecc.). Poi, i reparti militari di un certo rilievo fino ad arrivare agli operatori della sicurezza e della vigilanza privata. Da qualche decennio, infine, il Krav Maga è diventato una realtà anche per i cittadini ai fini di una difesa personale. Ad oggi, in Italia, sono nate ottime scuole anche per i civili.
   
(Mondomarziale, 20 novembre 2016)


Il modello israeliano e le start up pugliesi si confrontano al Politecnico

Al convegno di lunedì 21 ci saranno gli scienziati del "Technion", istituto tecnologico di Haifa e gli industriali isrealiani. Occhi puntati sulle eccellenze produttive locali, come l'aerospazio e la meccatronica


BARI - Israele come modello da imitare, ma anche come possibile partner per progetti di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie produttive. Il convegno di lunedì 21, organizzato dal Politecnico e dalla Camera di Commercio di Bari, in collaborazione con l'associazione Italia-Israele e il Technion - istituto tecnologico di Haifa, introdurrà un confronto tra scienziati e rappresentanti dell'industria sulle buone pratiche israeliane e locali, con un focus sulle eccellenze pugliesi, come l'aerospazio e la meccatronica. I lavori inizieranno alle 9 nell'aula magna "Attilio Alto" del Politecnico, nel campus universitario di via Orabona.

 Il convegno
  Il ruolo delle università nella ricerca, il contesto per favorire il trasferimento tecnologico, le opportunità per trasformare le innovazioni in competitività sul mercato globale. Su questi temi interverranno i relatori Rafi Nave, direttore della Bronica center per l'imprenditorialità del Technion, David Shem Tov, amministratore delegato dell'acceleratore d'imprese T -Factor e Yossiyamin, fondatore e amministratore delegato della SpacePharma. Seguirà il dibattito e gli interventi del pubblico. Aprirà i lavori il rettore del Politecnico, Eugenio Di Sciascio, seguito dal presidente della Regione, Michele Emiliano, il ministro consigliere dell'ambasciata di Israele in Italia, Rafael Erdreich, il presidente di Unioncamere Puglia, Alessandro Ambrosi e il consigliere del direttivo dell'associazione Italia-Israele, sede di Bari, Raphael Aboav. Concluderà l'assessore regionale allo Sviluppo economico, Loredana Capone.

 Israele, "Start up nation"
  Israele è chiamata "Start up Nation", per la capacità che ha di favorire e sostenere nuove imprese innovative, nei settori industriali più sviluppati e promettenti. Noto anche come Israel Institute of Technology, il Technion è un istituto tecnologico della città di Haifa, in Israele, fondato nel 1912 e considerato, attualmente, tra le prime cinquanta università del mondo. Concepito inizialmente come Politecnico, è stato successivamente ampliato con una Facoltà di Medicina, tra i cui docenti si segnalano alcuni premi Nobel come Avram Hershko e Aaron Ciechanover (nel 2004 per la chimica). La facoltà di Ingegneria, in particolare il dipartimento di Elettronica, risulta tra i quindici migliori al mondo.

(Borderline24, 19 novembre 2016)


Praga, il Vecchio Cimitero Ebraico e la leggenda del Golem

di Manuel Santoro

 
La Sinagoga Pinkas
Ho visitato Praga in due diverse occasioni ma sempre in semplici weekend. Trascorrerei giorni vagando per vie del centro. In questo post vorrei parlarvi di uno dei luoghi che mi ha maggiormente colpito durante le mie vacanze.
Nel cuore di Josefov, quello che in passato era il prospero quartiere ebraico di Praga, si trova uno dei luoghi più surreali della capitale boema. Il Vecchio Cimitero Ebraico, il più antico d'Europa, fu fondato nel lontano 1439 ed utilizzato per oltre trecento anni. Durante la Seconda Guerra Mondiale Praga fu pesantemente bombardata ma il luogo venne risparmiato dalle autorità tedesche che decisero di preservarlo a testimonianza di un popolo estinto. Oggi, ammassate, si contano ben 12.000 lapidi in arenaria o marmo ma si stima che qui siano sepolti oltre 100.000 ebrei le cui tombe furono disposte a strato per la mancanza di spazio e non potendo espandersi oltre il perimetro stabilito. Nessun ritratto è presente sulle lapidi, la religione ebraica lo vieta, per questo sono raffigurati solo disegni simbolici per indicare la professione o le qualità del defunto.
Le lapidi più importanti sono situate accanto all'ingresso principale. Jehuda Liwa Ben Becalel, detto Rabbi Löw, è la tomba più visitata. La credenza popolare vuole che lasciare qui un biglietto o un sasso porti ad avverare i propri desideri. La più antica è quella di Avigdor Karo, poeta di corte di Venceslao IV e rabbino capo, defunto nel 1439, mentre la più recente risale al 1787 ed è quella di Moses Beck.
Al cimitero si accede direttamente dalla Sinagoga Pinkas, costruita al 1535 e rimasta attiva per oltre quattro secoli, quando recentemente fu trasformata in monumento commemorativo.

 Rabbi Loew e la leggenda del Golem
 
  Tra le tombe figura anche quella di Rabbi Judah Loew ben Bezalel, rabbino capo della capitale ceca alla fine del XVI secolo, al quale è da sempre associata la leggenda del Golem di Praga. In quel periodo gli ebrei di Praga vivevano in un clima di terrore, vittime di continue aggressioni. Lo stesso imperatore Rodolfo II promosse una campagna con l'obiettivo di cacciare via gli ebrei dalla città. Fu così che intervenne Rabbi Loew, il quale chiese consiglio a Dio ricevendo in sogno i suggerimenti per la costruzione del Golem, un gigante che sarebbe stato costruito con l'argilla trovata sulle rive del fiume Moldava. Nella più assoluta segretezza il rito andò avanti per una settimana fin quando venne creata la creatura. Nella sua bocca venne posto un foglio di carta con scritta la parola "Emet" (verità). Immortale e invincibile, al Golem sarebbero spettati i compiti più importanti nella protezione della popolazione ebrea ed avrebbe obbedito ad ogni ordine del Rabbino. Con il passare del tempo il Golem divenne sempre più grande e violento. Con la promessa che le persecuzioni sarebbero cessate, Rabbi Loew si vide costretto a distruggere la creatura. Fu eliminata la prima lettera della parola "Emet" trasformandola così in "Met" (morte). Il corpo fu così nascosto nel sottotetto della sinagoga cittadina sotto un camice bianco e fu vietato l'ingresso a chiunque adducendo la giustificazione di un pericolo d'incendio in quanto vi era abitudine di portare lì carta e libri vecchi. La leggenda vuole che il figlio di Rabbi Loew lo riportò in vita ed ora continuerebbe a vegliare sulla città di Praga.

(I Viaggi di Manuel, 19 novembre 2016)


Non esiste nessuna Gerusalemme est

In tutta la sua storia, la parte est della città è stata divisa da quella ovest solo nei 19 anni di occupazione giordana, ma tanto basta per etichettare come "coloni" gli ebrei che vi abitano.

Editoriale del Jerusalem Post

Alla fine di ottobre il Dipartimento di stato dell'amministrazione americana (uscente) ha condannato la decisione di Gerusalemme di approvare la costruzione di nuove unità abitative per i residenti del quartiere di Gilo. Nel mezzo delle crescenti campagne internazionali per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni che puntano a delegittimare Israele, il continuo rifiuto da parte del Dipartimento di stato di riconoscere i fatti puri e semplici della storia non può non essere visto nel contesto degli sforzi volti a negare la legittimità dello stato ebraico.
  La municipalità di Gerusalemme ha effettivamente approvato l'aggiunta di 181 unità abitative nel quartiere Gilo, che ospita circa 40.000 abitanti di Gerusalemme, per lo più ebrei. Già a luglio Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite avevano criticato Israele per questi piani edilizi, definendoli un ostacolo al processo negoziale, peraltro inesistente, per la creazione di un futuro stato palestinese. La decisione della municipalità è stata prontamente condannata dal portavoce dell'uscente Dipartimento di stato, John Kirby, il quale ha detto che essa "solleva seri interrogativi circa l'impegno effettivo di Israele per una soluzione pacifica e negoziata con i palestinesi", aggiungendo che gli Stati uniti "si oppongono con forza alle attività di insediamento".
  Se le parole hanno un senso, le attività edilizie nel vecchio quartiere di Gilo, fondato nel 1973 nella parte sud-ovest di Gerusalemme, non possono essere definite "attività di insediamento". Eppure, anche l'Unione Europea ha dichiarato che la decisione di costruire "nell'insediamento di Gilo, costruito su terra palestinese occupata nella zona est di Gerusalemme, mina la fattibilità di una soluzione a due stati".
  Quasi mezzo secolo dopo che Israele ha riunificato la sua capitale amaramente e sanguinosamente divisa dalla guerra - come lo fu Berlino - i mass-media continuano a ripetere a pappagallo la narrazione palestinese secondo cui "Gerusalemme est" sarebbe la loro (futura) capitale: come se la parte della città caratterizzata dal fatto di essere stata conquistata e occupata per diciannove anni dagli invasori della Legione Araba di Giordania costituisse in quanto tale un'entità storica. Guidati da questa distorta percezione, i mass-media stranieri continuano a definire "coloni" gli ebrei che vivono nel cuore della loro capitale storica. E fanno uso martellante del termine "Gerusalemme est" come se si trattasse di un'entità storica da ripristinare: come se si pretendesse di ripristinare l'entità "Berlino est". La semplice verità, invece, è che si tratta di un termine dettato dall'ideologia, e tuttavia geograficamente, urbanisticamente e storicamente infondato. Anche per quanto riguarda Gilo: un quartiere meridionale della città, collocato per pura combinazione sull'altro lato di quella linea di cessate il fuoco che demarcò, nel 1948, la zona che ci si ostina a definire impropriamente Gerusalemme "est". I terreni su cui sorge Gilo, acquistati negli anni '30 da Dov Joseph per conto del Fondo Nazionale Ebraico, è vero che un tempo sono stati "territorio occupato": sono stati territorio israeliano occupato dalla Giordania negli anni 1949-'67; dopo di che - all'indomani di un'altra guerra di aggressione contro Israele - la sovranità israeliana è stata ripristinata.
  Chi vuol guadare alla realtà dei fatti, non può non capirlo. Lo ha fatto, per esempio, il procuratore generale australiano George Brandis che a fine ottobre ha dichiarato in senato che l'Australia non farà riferimento a "Gerusalemme est" come territorio "occupato": "La locuzione Gerusalemme est occupata - ha spiegato - è pregna di implicazioni negative e non è né appropriata né utile".
  Nell'arco di tre millenni, Gerusalemme è stata la capitale di tre sole entità statali autoctone: tutte e tre ebraiche. Gli ebrei costituiscono la maggioranza degli abitanti di Gerusalemme sin dal XIX secolo, prima che iniziasse l'impresa sionista. Al contrario, gli arabi palestinesi non hanno governato Gerusalemme un solo giorno. Diverse dinastie arabe l'hanno temporaneamente governata: tra il 638 e il 1099, sotto l'impero ottomano e sotto l'occupazione giordana dal 1949 al 1967. Senza mai farne la loro capitale.
  L'influenza dell'ideologia politica sul linguaggio si riscontra anche nell'uso del termine West Bank (letteralmente "riva occidentale"). Nella migliore delle stagioni delle piogge, il fiume Giordano è largo pochi metri. Indicare come sua "riva occidentale" una regione che si estende per circa 65 chilometri fino a comprendere tutta la Giudea e la Samaria rasenta il ridicolo, e dimostra come la terminologia politicizzata serva a perpetuare percezioni errate che a loro volta alimentano il conflitto. (Lo stesso vale per l'equivalente termine di Cisgiordania, che tradisce la sua evidente prospettiva euro-centrica.) In realtà, questi termini impropri e artificiali entrarono nell'uso soltanto dopo che il governo trans-giordano (poi giordano) occupò le regioni ad ovest del fiume, e servivano per cercare di legittimare tale occupazione. Ovviamente, prima dell'occupazione giordana nessuno parlava di Riva Occidentale né di Cisgiordania, ma semplicemente di Giudea e Samaria.
  Le attività edilizie nei quartieri di Gerusalemme, necessarie per rispondere alle necessità della crescente popolazione di un città dinamica e in pieno sviluppo, competono unicamente alla municipalità. Non è affare di terzi, che siano il Dipartimento di stato o l'Unione Europea, i quali farebbero un favore a tutti se si attenessero semplicemente ai fatti.

(israele.net, 18 novembre 2016)


Incontro tra funzionari turchi e israeliani per la costruzione di un gasdotto

GERUSALEMME - Alcuni funzionari dei ministeri dell'Energia di Israele e Turchia si sono incontrati la scorsa settimana per discutere della costruzione di un gasdotto tra i due paesi. Lo ha reso noto il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, precisando che si sono tenuti degli incontri per l'esportazione di gas da Israele all'Egitto. La delegazione di esperti israeliani, guidata da Shaul Meridor, direttore generale del ministero dell'Energia israeliano, ha incontrato il viceministro dell'Energia turco, accompagnato da alcuni funzionari di Ankara. Le controparti hanno discusso i dettagli tecnici per il posizionamento del gasdotto sul fondale marino del Mediterraneo. Nel corso di un incontro avvenuto il mese scorso, Steinitz e l'omologo turco, Berat Abayrak, hanno discusso di un accordo preliminare per la costruzione del gasdotto. I lavori dovrebbero iniziare ad aprile del 2017, ma - secondo quanto riferisce il quotidiano d'informazione economica "Globes" - potrebbero essere ritardati.

(Agenzia Nova, 19 novembre 2016)


Le due anime di Israele

di Valentina Ravizza.

 
La città che sale e quella che si inchina a Dio. Tel Aviv e Gerusalemme sono le due anime di Israele: mondana la prima, spirituale la seconda, una di scintillante acciaio come i suoi grattacieli, l'altra brillante dell'oro di uno dei suoi simboli più celebri, la Cupola della Roccia. Distano appena un'ora d'auto, ma non potrebbero essere più diverse. Clima compreso, che se sulla costa resta mite tutto l'anno tra le alture della Giudea regala invece nevicate anche abbondanti, fino a trasformare i vicoli del suq arabo in un presepe a grandezza naturale (d'altronde la grotta dove nacque il divin Bambino dista 8km da qui). Seppure l'eternamente conteso Monte del Tempio/ Spianata delle Moschee resta il luogo più suggestivo per osservare la Città santa, si può pure satire su cime più pacifiche. Come quella occidentale del Monte Herzl, tagliato in due dal Memoriale dell'Olocausto e degli eroi: lo Yad Vashem, progettato dall'archistar Moshe Safdie, dove il silenzio è interrotto solo dal frusciare dei pini. Oppure la collina di Givat Ram, sede dell'immenso Museo d'Israele, che spazia dall'archeologia all'arte moderna e dal 20 dicembre propone una mostra su Gesù nell'arte israeliana, con l'ultima cena che diventa una mensa di soldati nelle fotografie di Adi Nes.
  Chi cerca l'avanguardia, o persino la provocazione, invece, la troverà 50 km più a ovest, a Tel Aviv. Capitale economica sfrontata, dove il libero pensiero, anche in questo Paese costantemente in trincea, trova sempre nuovi spazi per esprimersi. Il Tel Aviv Museum of Art per esempio, che dal 9 dicembre ospita le opere dell'Afro-futurismo. O l'Israeli Opera che, a fianco alla lirica e alla danza classica (dal 19 al 21 dicembre si esibisce il Ballet du Grand Théâtre de Genève), invita a una stagione di jazz, con nomi come Robert Clasper e Orner Avital. Con la zona chiamata Città Bianca del Bauhaus (4 mila edifici nell'International style degli anni Trenta), oggi Tel Aviv è la Grande Arancia del Medio Oriente, grazie ai grattacieli di acciaio e vetro che ne avvicinano lo skyline a quello di New York, come il complesso del l'Azrieli Center, che verrà arricchito di una quarta torre alta 238 metri, destinata a diventare la più alta del Paese. Quasi quasi dal suo 53esimo piano sembrerà di veder scintillare da lontano la cupola dorata di Gerusalemme.

(Io Donna, 19 novembre 2016)


Poter dormire a Gerusalemme, Israele

di Deborah Fait

Molti anni fa, quando vivevo a Bolzano, aspettavo con terrore il giorno in cui si poteva dormire e poltrire un po' di più dopo una settimana di lavoro e di stress. Parlo naturalmente della domenica, il giorno del riposo, in cui uno desidera svegliarsi senza l'incubo di mandare i figli a scuola in orario e di correre al lavoro già stanco prima di incominciare la giornata. Ebbene, invece di dormire vivevamo un incubo, alle 5 del mattino incominciavano a suonare le campane della vicina chiesa del mio quartiere e di tutta la città. Din don din don, un disco che aumentava il rumore di migliaia di decibel, din don per chiamare i fedeli a messa e per svegliare i poveri cristi che bramavano un'ora di sonno in più. Quando finiva lo scampanio per la prima messa del giorno e uno si rimetteva sotto le coperte, speranzoso, ecco che, se in mattinata era previsto qualche funerale, incominciavano i rintocchi delle campane a morto, suonavano senza fine, alla fine uno si alzava disperato con gli occhi fuori dalla testa e la voglia di strangolare qualcuno.
   Esasperati, abbiamo istituito un comitato di cittadini, abbiamo scritto un esposto al vescovo, al sindaco, al presidente della provincia e, dopo varie peripezie di carattere religioso (L'Alto Adige è una regione molto cattolica) ne siamo usciti vincitori : Lo scampanio delle chiese non doveva incominciare prima delle 8 del mattino. Sembrava un sogno ed era talmente piacevole che lo ricordo ancora oggi. L'umanità nei confronti di tutti i cittadini aveva avuto la meglio e chi voleva andare a messa alle 5, si poteva mettere la sveglia.
Perchè scrivo questo? Perchè in Israele tutto diventa più complicato e ogni decisione diventa "razzismo" per la minoranza musulmana della popolazione. Avrete già letto la storia dei muezzin e la proposta di legge presentata alla Knesset di togliere gli altoparlanti dai minareti e abbassare il tono dell'invito alla preghiera. Posso assicurare che qui l'incubo è milioni di volte superiore a quelle antiche domeniche in Italia. Provate a pensare cosa provereste se, nel più profondo del vostro sonno, qualcuno vi urlasse nelle orecchie Allahu Akhbar. Bene, è proprio questo che accade ogni giorno in Israele prima dell'alba, un urlo che parte dai minareti delle tante moschee esistenti e che naturalmente supera tutti i decibel possibili e immaginabili.
   All'urlo di Allahu Akhbar diffuso dall'altoparlante, tutti, nel raggio di qualche chilometro, devono svegliarsi bruscamente, non solo i musulmani (che, ad essere onesti, sarebbe affar loro) ma anche gli ebrei, i cristiani, i bambini spaventati dal rumore insopportabile. Chiedere il rispetto della legge sui decibel sarebbe la cosa più logica e normale ma per i deputati arabi della Knesset non è così e si sono immediatamente messi a urlare al razzismo, all'apartheid, al fascismo.
   L'ANP ha minacciato attentati, il Mufti di Gerusalemme e il capo di un partito arabo nel Parlamento israeliano hanno sbraitato " A chi non piace se ne vada, Israele è musulmano, arabo e palestinese".
   O bella! E da quando Israele sarebbe un paese arabo, musulmano e palestinista? Mi pareva di vivere in un paese ebraico, è per questo che ho fatto l'alyià e come me qualche milione di altri ebrei e adesso guarda un po' cosa ci dice il Mufti, lo stesso che ci considera figli di scimmie e maiali e che ci vorrebbe tutti morti. Purtroppo Yakov Litzman, ministro della sanità e esponente di un partito religioso, è stato l'unico ad opporsi motivando il suo rifiuto col timore che la legge potrebbe impedire l'annuncio dell'entrata del sabato quando viene attivata una sirena per un paio di minuti. Litzman ha dimenticato un particolare importante, la sirena del sabato, che per altro ha un suono molto ovattato proprio perché segnala l'inizio di una giornata dedicata alla spiritualità, viene attivata il venerdi pomeriggio quando tutti sono sveglissimi e si preparano chi alla preghiera e alla cena in famiglia, chi a uscire per divertirsi quindi non disturba nessuno. Probabilmente qualcuno deve averglielo fatto notare a Litzman che pare ci abbia ripensato permettendo così alla legge di fare il suo corso.

(Inviato dall'autrice, 19 novembre 2016)


Settimana della Cucina Italiana a Tel Aviv

La Camera di Commercio Italo-Israeliana, in collaborazione con l'Ambasciata d'Italia in Israele, l'Istituto Italiana di Cultura, ICE Agenzia e l'Accademia Italiana della Cucina, coinvolgerà per la Settimana della Cucina Italiana nel mondo la rete dei ristoranti italiani certificati in Israele, che creeranno per l'occasione dei menu realizzati con prodotti DOP e IGP.

(Assocamerestero, 19 novembre 2016)


Kosovo: sventato un attentato nella partita Albania-Israele

La polizia kosovara ha sventato un attentato terroristico che sarebbe dovuto avvenire in occasione della partita Albania-Israele, valida per le qualificazioni ai Mondiali del 2018, giocata lo scorso 12 novembre a Elbasan. Nella tarda serata di ieri le autorità del Kosovo hanno reso noto di avere arrestato 19 persone, 18 kosovari e un macedone, sospettate di legami con l'Isis e monitorate da tempo dalle forze dell'ordine. I presunti terroristi sono stati messi in stato di detenzione per 30 giorni. Una sola persona è stata rilasciata. La polizia ha sequestrato esplosivi, un fucile semi-automatico e altre armi in un blitz e ha spiegato di avere "prove sufficienti che alcune persone stavano pianificando attentati terroristici nella Repubblica del Kosovo e contro la nazionale di calcio israeliana e i suoi tifosi in occasione della partita Albania-Israele".

(TelecapriSport, 18 novembre 2016)


Proteggere i confini: a lezione da Israele

In visita in Israele, il Ministro della Difesa austriaco Hans Peter Doskozil, ha approfittato non solo per rinsaldare le relazioni diplomatiche e per ottenere l'expertise nel campo della cyber-difesa, ma anche per prendere lezioni su come si proteggano i confini. Del resto, il tanto criticato muro israeliano, la West Bank Barrier, la barriera di separazione lunga 700 km, dalla sua costruzione nel 2002 ad oggi, ha ridotto gli attentati suicidi e il dilagare della violenza terroristica. Eppure in molti gridarono allo scandalo, forse perché troppo vivo era il ricordo del muro di Berlino, con la sua divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Oggi le ideologie sono crollate, si sono sbriciolate come quel muro che divideva Berlino, e l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, ha improvvisamente legittimato l'idea di costruire palizzate. Ormai parlare di barriere non sembra più politicamente scorretto. Se il presidente eletto statunitense dice di voler erigere un muro lungo il confine con il Messico, tutti possono farlo.
In questo mutato quadro geopolitico, la recinzione di filo spinato installata dal premier ungherese Viktor Orban a presidio del confine con la Serbia, della quale tanto si è discusso poco più di un anno fa, sembra oggi una pratica sempre più diffusa nell'Unione europea. Dalle palizzate austriache su tutti i valichi di frontiera, al muro di Calais voluto dai britannici, si diffonde a macchia d'olio la cultura dei muri, della chiusura, del respingimento del diverso. Nessun angolo di Europa ne è esente. Proprio in questa ottica si collocano i suggerimenti che Doskozil ha chiesto al suo omologo Avigdor Lieberman in materia di controllo e protezione dei confini. Lezioni che intende far proprie, per poi proporle non solo in Austria, ma anche a livello europeo.

 La barriera del Sinai come esempio

Più di quella in Cisgiordania è la barriera del Sinai, lungo il confine con l'Egitto, a fare da esempio. Inizialmente non troppo efficace, ma poi nuovamente sigillato, al muro del Sinai il Ministro Doskozil guarda per trarre ispirazione. Nel 2000 terroristi islamici, trafficanti di armi, di droga e di esseri umani usavano questa frontiera per penetrare nel territorio israeliano. Centinaia, se non addirittura svariate migliaia, coloro che entravano illegalmente da lì.
Da quando, però, nel 2013 è stato rafforzato e reso più sicuro grazie a un modernissimo sistema monitoraggio elettronico, quel confine è diventato impenetrabile. Ci sono stati ancora 14 attacchi quest'anno, si affretta a dire il Ministro Doskozil dopo la sua visita nel deserto del Negev, ma rappresenta comunque una buona base per un sistema efficiente di controllo e gestione dei confini, esportabile anche in Europa.

 L'Ue soccomberà tra muri e filo spinato?

Una barriera alta 6 metri, in alcuni punti elevata a 10 metri d'altezza, che ha ridotto i costi degli uomini utilizzati per pattugliare. Inoltre telecamere a 360 gradi ne controllano singola porzione da terra, come pure droni e palloni presidiano dal cielo. Da rivedere per Doskozil anche le politiche d'incentivo al rimpatrio dei rifugiati: in Israele vengono dati 3.500 dollari a migrante, contro i 500 euro in Austria. Da snellire anche le procedure della deportazione, oggi di 250-200 giorni. Eppure c'è da chiedersi se una già tentennante e divisa Unione europea, non rischi seriamente di sgretolarsi proprio sotto il peso di barriere di filo spinato e cemento.

 Europa come il Medio Oriente?

Ma davvero l'Europa può essere paragonata al Medio Oriente? Anche Doskozil ne conviene, i confini dell'Ue non sono esattamente come quelli mediorientali, ma quel modo di tenere sotto controllo può essere esportato e applicato per migliorare il presidio lungo la cosiddetta rotta balcanica e per rendere più sicuri tutti i confini più esterni dell'Ue. Non solo barriere sicure, o pattugliamenti, ma anche accordi con i Paesi confinanti, sul modello di quelli stipulati tra Egitto e Israele. "Al di là delle recinzioni -dichiara Doskozil- servono accordi per lavorare in partnership con gli Stati membri vicini".

 Le barriere fermeranno i migranti?

Ma siamo davvero certi che cooperando tra Paesi membri ed erigendo muri, si arresterà il flusso di migranti? Per ora Hans Peter Doskozil sembra interessato soprattutto a imparare tecniche di presidio e controllo, consolidando la propria linea dura, anche in vista del prossimo appuntamento con le presidenziali il 4 dicembre. Una mossa tutta ad uso e consumo interno, magari per prepararsi da subito a una lunga campagna elettorale, nel caso di elezioni anticipate qualora il governo Kern cadesse prima della naturale scadenza, prevista nel 2018?

 Un accordo sulla cyber-security

Già siglato un accordo con Israele sulla cyber-security. Nei prossimi tre mesi Doskozil intende sviluppare concretamente una stretta cooperazione con il Ministro della Difesa israeliano Lieberman per proteggersi da minacce digitali. Per questo sono previsti training di personale austriaco con esperti israeliani. Le guerre del futuro si combatteranno proprio in ambito digitale. A subire attacchi non sono solo le istituzioni, ma anche l'industria e il settore militare.

 Cyber-difesa: più uomini e risorse

Sono 300 gli incidenti registrati ogni anno. Migliaia gli attacchi giudicati pericolosi che mettono a rischio istituzioni e business. Ecco perché per il Ministro Doskozil va potenziato il settore della cyber-difesa, riducendo la vulnerabilità. Si prevedono 250-350 nuove assunzioni di personale con competenze ICT da dedicare a questo progetto. In totale il settore cyber-security dovrebbe arrivare a 1.350 unità, con training appropriati entro il 2020. Si prevede di investire oltre 46 milioni di euro in apparecchiature e ulteriori 13,5 milioni in infrastrutture.

(TGCOM24, 17 novembre 2016)


Morta Ruth Gruber, documentò la fuga degli ebrei da Napoli a New York

A 105 anni è morta a Manhattan Ruth Gruber, la giornalista americana che documentò la fuga degli ebrei dall'Olocausto verso gli Stati Uniti. Gruber, la prima giornalista occidentale a visitare le regioni artiche sovietiche e un gulag, fu ingaggiata dal governo americano per scortare quasi mille ebrei a bordo di un sommergibile verso le coste degli Stati Uniti. Era il 1944 quando l'allora presidente Franklin D. Roosevelt decise si garantire asilo politico temporaneo a 36mila rifugiati che si trovavano nei campi degli alleati in Italia. Sarebbero partiti dal porto di Napoli, attraversato l'oceano e vissuto fino alla fine della guerra in un campo dell'esercito nello stato di New York. All'epoca Gruber aveva 32 anni e lavorava come assistente speciale per il ministero degli Interni. «Signor segretario (Harold Ickes, ndr) - ricordò lei stessa nel suo libro 'Inside of Timè - questi rifugiati saranno traumatizzati e terrorizzati. Qualcuno deve andare lì per tenere loro la mano». «Hai ragione - risposte Ickes - manderò te». Fotografa, oltre che giornalista, Gruber documentò anche il momento in cui 4mila sopravvissuti dell'Olocausto furono respinti dalla Palestina e fu presente al processo a Norimberga contro gli ufficiali nazisti. «In un'epoca in cui alle donne reporter veniva concesso solo di scrivere sulle pagine di società - ha detto il figlio David Michaels - rappresentò una vera eccezione».

(Il Mattino, 18 novembre 2016)


Partecipa a una marcia con la bandiera israeliana: cacciato dagli organizzatori

di Riccardo Ghezzi

 
In Germania, gli organizzatori di una cerimonia in ricordo dell'Olocausto hanno tentato di "allontanare con la violenza fisica" un ebreo che partecipava al corteo con la bandiera israeliana, consentendo invece a studenti anti-israeliani di partecipare con la sciarpa palestinese o la kefiah.
Rolf Woltersdorf, questo il suo nome, si era unito al "Cammino per la Memoria" giovedì scorso nella città di Oldenburg, in Germania settentrionale, portando con sé una bandiera israeliana "in segno di solidarietà con Israele, lo stato dei sopravvissuti all'Olocausto" come ha testimoniato al Jerusalem Post.
"Avevo appena srotolato la bandiera, quando un insegnante che partecipava con le scolaresche è venuto da me e mi ha chiesto di arrotolarla di nuovo" ha raccontato Woltersdorf, che è membro della "Deutsch-Israelische Gesellschaft" (Associazione Germania-Israele) della città. Ha aggiunto che un altro membro della DIG gli ha suggerito di tenere lontana la bandiera.
Woltersdorf ha rivelato che un organizzatore della marcia era così irritato dalla presenza della bandiera che "avrebbe voluto allontanarmi con la violenza fisica".
La marcia in ricordo dell'Olocausto si svolge ogni anno per ricordare la deportazione degli ebrei di Oldenburg nei campi di concentramento nazisti e la distruzione della sinagoga della città avvenuta nel 1938.
Gli studenti della scuola locale contribuiscono alla manifestazione e, secondo il Jerusalem Post, molti di loro indossavano la kefiah, la caratteristica sciarpa a scacchi che è diventata un simbolo del nazionalismo palestinese.
Anche l'attivista anti-israeliano e insegnante Christoph Glanz, che ha accusato Israele di genocidio e ha detto che il governo israeliano in carica è "un fenomeno da baraccone razzista" ha preso parte alla marcia.
Glanz ha spesso accusato Israele di "crimini contro l'umanità" e "pulizia etnica". Ha anche detto che Israele è impegnato in attività di genocidio. A settembre, ha pubblicato sulla rivista del sindacato degli insegnanti un appello al boicottaggio di Israele.
Gli stessi residenti di Woltersdorf hanno protestato contro la partecipazione di Glanz alla commemorazione, ricordando il suo impegno nel "diffamare e demonizzare Israele come 'regime di apartheid'".
Un altro membro della DIG, Cordula Behrens, ha partecipato avvolta in una bandiera israeliana. Un insegnante di fronte a lei l'ha apostrofata dicendo che tale bandiera non ha nulla a che fare con la memoria degli ebrei morti.
Secondo Efraim Zuroff, del Simon Wiesenthal Center, l'incidente di Oldenburg "fa parte di una nuova tendenza ad usare l'Olocausto per infangare e delegittimare Israele".
"Per queste persone l'unico ebreo buono è un ebreo morto. Si tratta di una cosa molto pericolosa, perché apparentemente vogliono ricordare la Shoah, ma questi sono insegnamenti distorti dell'esperienza della Shoah. E' l'insulto finale " ha detto Zuroff al Jerusalem Post.

(L'Informale, 17 novembre 2016)


Israele, avamposto d'Europa

Delegittimazione, boicottaggio e terrorismo. Noi e lo stato ebraico. Cronaca d'una giornata fogliante.

di Luciano Capone

L'evento del Foglio a Roma, giovedì 17 novembre

ROMA - A un anno dagli attentati di Parigi, dalla strage del Bataclan, e nell'anno dei massacri che hanno insanguinato l'Europa, è sembrata insignificante a tanti la risoluzione con cui l'Unesco ha annichilito il legame millenario tra gli ebrei e Gerusalemme. Ma in realtà si tratta di un comune attacco, militare, politico e culturale a due mondi che sono indissolubilmente legati, perché "Israele è la frontiera d'Europa". Questo era il titolo e di questo si è discusso nell'evento di giovedì organizzato dal Foglio, per ricordare, come ha fatto Giulio Meotti in apertura, che "Israele subisce questo tipo di aggressione dal 1948, da quand'è nato. Il massacro che quest'anno abbiamo visto all'aeroporto di Bruxelles, Israele l'ha subito nel 1972 quando un commando fece una strage all'aeroporto di Tel Aviv". Israele non può fare a meno dell'Europa e l'Europa non può fare a meno d'Israele, è il contenuto comune degli interventi, soprattutto ora che la minaccia terroristica incombe anche nelle nostre città.
  Nel suo saluto il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso "comprensione e vicinanza per le motivazioni di fondo del convegno", ribadendo la necessità di una "battaglia contro l'antisemitismo in qualsiasi veste", anche quando prende la forma dell'antisionismo, "che è un travestimento dell'antisemitismo, a cui si presta ossequio negando le ragioni di Israele". E secondo il presidente Napolitano "la risoluzione dell'Unesco va in questa direzione". "Israele è una roccia solida di stabilità e democrazia per la regione - ha detto l'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs - è il faro della libertà politica e religiosa". Sachs ha ringraziato il Foglio per la reazione alla risoluzione dell'Unesco, ricordando che "la pace si può ottenere solo con la fiducia, senza manipolare i fatti e la storia". La storica egiziana Bat Ye'or ha parlato dell'"odio compassionevole nei confronti di Israele", quell'odio che si manifesta in maniera diversa dall'alleanza tra "Petain, Hitler e il Gran muftì di Gerusalemme", ma che ha al fondo le stesse ragioni, emblematicamente espresse con la "Shoah della memoria" dell'Unesco: "Negare la nostra cultura, vuol dire distruggere il principio della civilizzazione occidentale e la legittimità teologica del cristianesimo". La vicinanza e l'amicizia tra ebrei e cattolici è stata indicata come "modello di convivenza esemplare" dall'arcivescovo di Ferrara monsignor Luigi Negri.
  Hassen Chalghoumi, imam di Drancy, ha raccontato le violenze e gli attentati subiti per aver fatto nel 2004 "da uomo e musulmano una dichiarazione di rispetto della storia del popolo d'Israele davanti al memoriale della Shoah" di Drancy, la città da cui fu deportato l'80 per cento degli ebrei di Francia, "una macchia nera per l'Europa". Il problema, spiega il presidente della Conferenza degli imam di Francia, è che l'Europa sta "importando questa guerra": "Perché c'è questa catena d'odio incredibile in Francia e Belgio? Perché non c'è l'islam in Europa, c'è solo l'islam politico dei Fratelli musulmani, una cancrena finanziata da molti paesi arabi, con finalità politiche e non spirituali. La crisi siriana è esplosa in questo modo - dice Chalghoumi - è questo islam politico il nemico dell'Europa". La stessa problematica è presente sottotraccia ma in maniera sempre più evidente anche in Italia, come ha spiegato l'antropologa Maryan Ismail, che ha abbandonato il Partito democratico proprio per l'apertura a movimenti legati alla Fratellanza musulmana: "Sono uscita dal mio partito pur essendo una donna di sinistra - ha detto Ismail - perché non voglio e non posso sedermi al fianco di coloro che professano l'ideologia che ha ammazzato mio fratello e ammazza la mia gente. L'islam politico in Italia c'è". "Israele è uno 'scandalo' nel mondo arabo. Esiste un odio ontologico nei confronti di Israele, che è costitutivo dell'uomo arabo - ha detto lo scrittore algerino Boualem Sansal - ma arriverà il giorno in cui gli arabi guariranno da questo odio". E una manifestazione evidente di questa volontà distruttiva è presente nelle affermazioni di negazione dell'identità storico-religiosa ebraica: "La negazione del Tempio - ha detto l'archeologo Gabriel Barkay, riferendosi al caso Unesco - è peggiore del negazionismo della Shoah, perché ci sono ancora i campi, i libri, le foto e le testimonianze dei sopravvissuti. Mentre il Tempio esisteva duemila anni fa".
  In chiusura Tzipi Livni, leader del partito Zionist union ed ex ministro degli Esteri israeliano, ha ribadito la necessità di "combattere la delegittimazione dello stato ebraico": "Di Israele si parla sempre in modo emotivo, si vedono solo soldati israeliani e bambini palestinesi. Dobbiamo colmare questo divario e capire cos'è veramente Israele - ha detto Tzipi Livni - e la verità è che è la patria del popolo ebraico, ma incarna anche i valori del mondo libero: la democrazia, ma anche la tecnologia che arricchisce il mondo intero". Un punto fondamentale è il conflitto col mondo arabo-palestinese: "Vivere in pace è nell'interesse israeliano - ha detto Livni - ma risolvere questo conflitto non risolverà il conflitto ideologico. Pensate forse che l'Isis si fermerà dal tagliare le gole?".

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Occhio: c'è un nuovo antisemitismo

Negare le ragioni storiche della nascita dello Stato di Israele è una forma di antisemitismo. Vale anche per l'Unesco. Lottiamo insieme per l'indipendenza e la sicurezza di Israele. Scrive al Foglio l'ex capo dello stato Giorgio Napolitano.

Caro direttore, cari amici. Sui temi dell'incontro da voi promosso per il giorno 17 novembre, desidero farvi giungere la mia comprensione e vicinanza per le motivazioni di fondo che ne avete dato. E lo faccio richiamando e ribadendo la linea di condotta che ho sempre seguito negli anni dei miei mandati da Presidente della Repubblica, e specificamente in rapporto a iniziative cui ho partecipato nell'esercizio di funzioni che vedono costituzionalmente impegnato il Capo dello Stato nella rappresentanza internazionale dell'Italia.
Una linea di condotta che si è espressa ampiamente nella lezione magistrale da me tenuta in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa all'Università ebraica di Gerusalemme, come nelle celebrazioni annuali del Giorno della Memoria in Quirinale, come infine nella relazione di profonda e solidale amicizia stabilitasi nel corso di più decenni tra me e Shimon Peres. Ciò che mi pare più che mai attuale è l'accento che ho posto sulla necessità di una battaglia ininterrotta e conseguente contro l'antisemitismo in qualsiasi sua veste e forma. E ho in particolare sempre inteso come non separabile da quella aberrazione storica anche l'ideologia dell'antisionismo, vero e proprio travestimento dell'antisemitismo, al cui rifiuto si rende formale ossequio, ma che in realtà si esprime negando le ragioni storiche della nascita stessa dello Stato di Israele, e quindi della sua vita indipendente e della sua sicurezza.
Purtroppo anche la recente risoluzione dell'Unesco si è iscritta in quella mistificazione. Altro elemento decisivo ho considerato e considero il partire da qualsivoglia critica della concreta e discutibile politica del governo d'Israele per colpire valori, preziosi per l'occidente democratico, da non confondere mai con polemiche contingenti e fuorvianti. Non a caso le espressioni più mature del mondo palestinese, e l'Europa, si sono riconosciute in una prospettiva di pace definita "due Stati, due popoli": la sola che drasticamente esclude qualunque messa in questione della realtà storica, culturale e politica dello Stato d'Israele. In questo spirito seguirò i lavori del vostro convegno, cui auguro successo e piena capacità di convinzione. Cordialmente,

Giorgio Napolitano
ex presidente della Repubblica, senatore a vita

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Perché Israele è la frontiera d'Europa

L'Europa ha voltato di nuovo le spalle agli ebrei e a Israele. Ma il pacifismo pilatesco non la salverà.

di Giulio Meotti

Che questo sia un evento storico lo si capisce dalla platea di oratori: per un terzo è composta da intellettuali arabo-islamici invitati a parlare di Israele. Non era mai successo prima. Ognuno di loro, lo scrittore algerino, il blogger palestinese, l'imam francese, è stato toccato dallo stesso odio islamista che da settant'anni getta la sua ombra sinistra su Israele. Perché abbiamo indetto questa conferenza internazionale? Un anno fa, il terrorismo islamista ha fatto 130 morti negli attentati al Bataclan e nei ristoranti di Parigi, inaugurando una lunga stagione del terrore. Negli stessi giorni, in Israele, una nuova ondata di terrorismo spezzava le vite di molti cittadini israeliani. Ma se le stragi dell'Isis hanno scosso tutti, quelle in Israele sono state accolte con una scrollata di spalle, grotteschi titoli di giornale da cui scomparivano persino i coltelli dei terroristi, come se il terrorismo contro Israele fosse diverso, quasi naturale, persino meritato. Questa estate, uno degli autori qui presenti stasera, il grande scrittore algerino Boualem Sansal, ci ha detto: "La guerra con l'islamismo durerà a lungo. Cambierà molte cose della civiltà occidentale. Se l'Europa non avrà una base più solida, sarà islamizzata".
  Se c'è un paese che per primo ha conosciuto questa "lunga guerra" è proprio Israele. L'estremismo islamico in Inghilterra ha fatto la sua comparsa sulla scena proprio con un attentato in Israele, al Mike's Place. Il 30 aprile 2003 un kamikaze inglese si fece esplodere in quel caffè sul lungomare di Tel Aviv, uccidendo tre israeliani. Siamo qui per dire perché Israele non può fare a meno dell'Europa, nel momento stesso in cui sembra che lo stato ebraico la stia perdendo e che molti israeliani pensano di poterne fare a meno. Nel corso dell'ultimo anno abbiamo visto un boicottaggio delle merci israeliane da parte dell'Unione europea e una vergognosa risoluzione dell'Unesco, che ha sede a Parigi, il quale ha negato le radici ebraiche di Gerusalemme. Con i suoi ventimila chilometri quadrati, Israele è grande come la Lombardia; i paesi arabi si estendono su una superficie di tredici milioni di chilometri quadrati, tre milioni più di tutta l'Europa. Il fatto che oggi lo stato di Israele continui a esistere appare come un miracolo. Ma un miracolo ben più grande della superficie che occupa. Un miracolo che l'Europa dovrebbe avere a cuore. Israele è, infatti, il piccolo pegno della nostra civiltà. Israele sembra forte, fortissimo. La sua economia è robusta. Produce premi Nobel. E' il secondo paese più colto del mondo. Svetta in tutti gli indici di felicità. E' la startup nation. E un laboratorio di scoperte scientifiche. Il suo esercito non ha rivali, a eccezione del programma nucleare dell'Iran, impegnato a cancellare Israele dalla mappa.
  Ma c'è un pericolo invisibile più difficile da fermare: la delegittimazione. Questa è la guerra che Israele sta perdendo e la sta perdendo perché l'Europa ha deciso di voltare le spalle agli ebrei, di nuovo. E' in corso una campagna per isolare Israele, per denigrarlo, per abbandonarlo a un destino nel cui orizzonte c'è solo la guerra. L'antisemitismo intanto dilaga. Non è "l'Europa", quella istituzionale. Non è più l'antisemitismo di stato, ma qualcosa di diverso, l'indifferenza morale e il cinismo politico della cosiddetta "società civile". Ogni giorno, arrivano notizie di boicottaggi di Israele nelle università. Ogni giorno qualche supermercato in Europa, come il più grande di Berlino, elimina merci provenienti da Israele. Teatri, gruppi musicali, scrittori, ogni giorno arrivano notizie di boicottaggi. E soltanto Israele è marchiato. Un anno fa l'Unione europea ha siglato un accordo con il Marocco per sfruttare le risorse del Sahara occidentale. Nessuna accusa, in questo caso, di "occupazione", nessuna marchiatura speciale. Come per Cipro settentrionale, invaso dalla Turchia. Nessun boicottaggio è lanciato contro la Cina che imprigiona lo scrittore e premio Nobel Liu Xiaobo; contro l'Iran, dove gli accademici dissidenti si lanciano dalla finestra per sfuggire alla tortura; contro Cuba, le cui università sono una farsa; contro l'Autorità palestinese, nelle cui università si inneggia ai kamikaze. No: c'è un boicottaggio occidentale unicamente contro Israele, che vanta uno dei più alti livelli di libertà accademica del mondo. Ogni giorno, leggiamo di istituti ebraici che in Europa sono protetti come obiettivi militari. La kippah, il più visibile simbolo ebraico, sta scomparendo in molte parti d'Europa, da Marsiglia a Malmo. In quindici anni, 40 mila ebrei francesi hanno lasciato il paese. Ci sono intere aree in cui è meglio non essere riconosciuti come ebrei. Non sono Gaza o Riad, ma Tolosa, Anversa, Copenaghen, Berlino, Bruxelles, Saint-Denis, Amsterdam, la città dove si nascose Anne Frank. E' di nuovo questo il futuro per gli ebrei in Europa, la valigia sempre pronta?
  Ogni giorno, Israele è sommerso delle peggiori bugie nelle aule dell'Onu dominate dagli spietati tiranni, come l'Arabia Saudita e la Siria, che si permettono di dare lezioni all'occidente. Lo scorso 9 novembre, l'Assemblea generale dell'Onu ha condannato per dieci volte Israele, mentre regimi che praticano la segregazione e l'omicidio su vasta scala non hanno meritato una sola citazione. E cosa ha fatto l'Europa? Ha votato contro Israele. Il solo fatto di pronunciare oggi il nome di Israele fa perdere la ragione a molte persone, specie nell'alta società, fra la gente che conta. Tanti pensano: "Israele non ci serve, è dannoso, abbandoniamolo e i terroristi se ne staranno buoni". E' lo stesso vile pacifismo, la stessa sindrome di Monaco che portò l'Europa in guerra negli anni Trenta. Allora erano i Sudeti, oggi è Israele. E con questo pacifismo l'Europa, anziché aiutare i palestinesi a volgersi verso un futuro dove sia presente Israele, continua a fomentare il risentimento contro lo stato ebraico, che Marco Pannella definì "metastasi della democrazia in medio oriente". L'Europa ha tanto da imparare dagli israeliani: come può una democrazia liberale convivere con la minaccia del terrorismo e uscirne vincente? Che fare? Solidarietà. E' l'unica arma che abbiamo in Europa per proteggere Israele, l'unico paese al mondo la cui stessa esistenza è contestata dalle nazioni del mondo, l'unico paese al mondo la cui capitale non è riconosciuta, l'unico al mondo che costruisce bunker per proteggere i civili. Gli europei si cullano nell'illusione che ci sia una differenza fra l'aeroporto Zaventen di Bruxelles e l'aeroporto di Tel Aviv, ma non è così: il terrorismo islamista non fa distinzioni. Da che parte starà l'Europa? Stasera siamo qui per rispondere a questa domanda.

(Il Foglio, 18 novembre 2016)


"Amici con Washington, anche se c'è Trump. Sull'Iran ha ragione luì"

Parla l’ex ministra degli Esteri Tzipi Livni.

di Vincenzo Nigro

Avversari mai
A tutti noi, nella Knesset, interessa l'intesa con gli Usa
Azlone Militare
Non c'è alternativa per fermare
la minaccia dell'Isis

 
Tzipi Livni
ROMA - «Il popolo americano ha parlato, e per il popolo israeliano il rapporto con gli Stati Uniti, con la loro amministrazione è strategico. Certo, l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca avrà un effetto sugli Usa, sull'Europa e sul Medio Oriente, ma è chiaramente troppo presto per capire cosa sarà. Dico soltanto che l'interesse dei leader politici israeliani è che la nostra dirigenza abbia un buon rapporto con quella americana, e per questo lavoreremo anche noi alla Knesset.
Tzipi Lìvni, ex ministra degli Esteri di Israele, co-leader oggi di Unione Sionista (con il Labor party), è super-cauta e super-istituzionale su quella che per il Medio Oriente è la notizia che terrà banco nei prossimi 4 anni: l'arrivo di Trump. Livni è a Roma per una conferenza organizzada da Il Foglio, un giorno di riflessione sulla necessità di tenere Israele più vicino all'Europa in un Mediterraneo che minaccia altre crisi anche per lo Stato ebraico.
«Il rapporto con gli Usa è così cruciale per noi anche perché questo trend di populismo, di movimenti anti-establishiment dilaga in Europa e minaccia di danneggiare la possibilità dei moderati, delle formazioni politiche tradizionali. di riuscire a influenzare un'area in trasformazione pericolosa del Medio Oriente»,

- Il premier Netanyahu ritiene di avere un buon rapporto con Trump. Lei che cosa ne pensa?
  «lo ripeto che il rapporto con gli Usa è stato e sarà di tutta la società politica israeliana. Israele si divide in mille modi, ma è unito nel cercare sostegno a una politica che consolidi il nostro Stato fra mille difficoltà».

- Con il partito di Netanyahu vi siete divisi drammaticamente proprio l'altro ieri sul voto che legalizza alcuni insediamenti di coloni su territorio palestinese in Csgiordania.
  «Non vorrei parlare di questioni nazionali mentre sono all'estero, ma tutti sanno quali sono le nostre posizioni. In Israele c'è chi crede che la nostra sicurezza, la certezza della nostra esistenza siano garantite meglio dalla soluzione "due popoli, due Stati" con i palestinesi. E chi invece non pensa che questa sia una soluzione, per cui vuole procedere nel prendere altro territorio. Quel voto è l'anticamera di nuove annessioni. Questo è un altro colpo alla soluzione dei due Stati, noi non crediamo sia a favore della sicurezza di Israele".

- Torniamo a Trump. Su una cosa è stato chiaro: vuole rivedere l'accordo sul nucleare con l'Iran. Si aspetta che lo farà?
  «Non faccio valutazioni su cosa farà, su come lo farà Dico una cosa: insieme tutti i Paesi responsabili, quindi americani, europei, arabi moderati, sono impegnati in una battaglia sacrosanta scontro il terrorismo lsis. Ecco, non possiamo dimenticare che l'Iran è uno stato che fomenta il terrorismo, che lo alimenta sostenendo Hamas e Hezbollah, due organizzazioni classificate come terroristiche. Il contenimento dell'Iran è necessario per tutti".

- Ecco, la lotta all'Isis. Il prossimo passo sarà la Siria? E poi?
  «Insisto nell'interpretare lo Stato islamico come un esempio di terrorismo religioso, nel senso che loro credono di agire in rappresentanza dell'Islam, cosa che è del tutto falsa. perché i primi ad essere colpiti dall'Isis sono proprio gli islamici. Ma agiscono con una folle motivazione religiosa che rende la loro azione terroristica senza ritorno. Per cui non c'è alternativa all'azione militare per fermarli. Ma oltre questo deve esserci un'azione politica per stabilizzare le tensioni nell'area, per evitare il riprodursi di condizioni che creeranno un nuovo Stato islamico magari qualche mese dopo che la comunità internazionale lo avrà distrutto».

(la Repubblica, 18 novembre 2016)


Un fitness tracker militare per i parametri vitali

L'esercito israeliano sta lavorando allo sviluppo di un tracker destinato ai soldati feriti: rilevandone i parametri vitali in tempo reale dovrebbe infatti assicurargli cure più immediate e mirate, quindi efficaci.

di Alessandro Crea

 
Lo chiamano Refuah Slema, che in ebraico significa guarigione totale e mai nome fu più azzeccato: si tratta infatti di un braccialetto smart da mettere al polso dei soldati dell'esercito israeliano rimasti feriti, per rilevarne in tempo reale i principali parametri fisici. In questo modo i medici dovrebberomore essere in grado di ottenere molto più velocemente un quadro clinico completo e più esatto, inquadrando subito la situazione di ciascun ferito ed erogando quindi il trattamento più indicato.
Refuah Slema è un progetto portato avanti da alcuni laureati del corso di addestramento per gli ufficiali dei Teleprocessing corps e si basa su un'intuizione semplice quanto interessante: applicare le tecnologie già esistenti per il rilevamento dei parametri vitali può servire non solo a consentire un allenamento più efficace per i civili ma anche cure più mirate per i soldati feriti.
Il "fitness tracker militare" dunque non fa altro che rilevare alcuni parametri come battito cardiaco, pressione sanguigna e temperatura, trasmettendo il tutto, accompagnato da dettagli sulle ferite, all'ospedale dove il ferito sarà trattato.
?"Stiamo sviluppando questa tecnologia per assistere il medico nel prendere la decisione di trattamento giusto in tempo reale," ha detto il maggiore Dr. Ariel Hirschhorn, a capo dell'identificazione medica presso l'IDF (Israel Defence Forces). "Documentazione e trasferimento delle informazioni avverranno in modalità quasi completamente automatica, così che il medico possa focalizzare la propria attenzione esclusivamente sui feriti".

(Tom's Hardware, 18 novembre 2016)



Il viaggio di Mattarella in Israele: Un grande successo in cui manca però un fotogramma

di Giacomo Kahn

E' sempre sbagliato provare a fare una sintesi e un bilancio di un viaggio diplomatico, tanto più quello di alcune settimane fa compiuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, recatosi in Israele e nei territori sotto controllo dell'Autorità palestinese. Un viaggio che sembrava addirittura a rischio, sia per l'equivoco voto di astensione dell'Italia in sede Unesco sulla negazione delle origini ebraiche di Gerusalemme, sia per le polemiche ed offensive dichiarazioni di un vice ministro israeliano che, a poche ore dalla partenza di Mattarella, aveva parlato del terremoto nel centro Italia come una 'punizione divina' giunta proprio per quella astensione. Tutto era poi rientrato per le ferme parole da un lato di Renzi e poi dello stesso Netanyahu: e su questo qualche considerazione prima o poi andrà fatta, su capi di governo che devono mettere pezze e smarcarsi dai loro rispettivi ministri. Una missione diplomatica - come ha sottolineato lo stesso Mattarella - che è stata la prima visita ufficiale in Medio Oriente, "e la mia scelta di iniziare proprio da Israele conferma lo storico rapporto di grande amicizia tra Israele e Italia. Non vi è settore in cui non registriamo amicizia e grande affinità di valori, che sono alla base delle nostre rispettive società e democrazie". Durante gli incontri, il presidente Mattarella ha usato parole di straordinaria potenza: "Israele, con la sua democrazia, ci richiama alla cultura e alla responsabilità della memoria, congiunta a una tensione continua verso la modernità e il progresso. Una memoria che ci parla anzitutto di lotta per l'affermazione della dignità di ogni persona, quale che sia il Paese e la latitudine in cui si trovi a vivere, quale che sia il suo status. La memoria della Shoah, un valore fondante della società israeliana sospinge in questa direzione. La Shoah è divenuta, anche nel nostro Paese, un tratto costitutivo". "Israele - ha dichiarato il presidente della Repubblica - con la sua democrazia così forte e vitale costituisce un modello per tutta la regione. L'Italia sarà costantemente dalla sua parte ogni volta che il suo diritto e dovere a esistere fosse messo in dubbio". E a scanso di equivoci e male interpretazioni Mattarella ha precisato: "L'Italia è contro il boicottaggio ".
   Ma il boicottaggio che oggi Israele deve contrastare non è solo quello economico, dello scambio culturale tra università, del blocco dell'export, è il tentativo di una delegittimazione che metta in dubbio il valore legale ed internazionale dello stato ebraico; è il negare il valore religioso, storico e politico della presenza degli ebrei su quella terra.
   Pur in un'agenda molto fitta di colloqui e di incontri; pur avendo dovuto anticipare il ritorno per essere vicino alle popolazioni terremotate delle Marche e dell'Umbria, il presidente Mattarella avrebbe potuto fare una piccola ulteriore sosta. Dopo aver effettuato la visita privata al Santo Sepolcro, avrebbe potuto visitare con lo stesso protocollo il Muro Occidentale. Possiamo facilmente immaginare le molte motivazioni per questa mancata visita, fra cui il fatto che qualcuno ne avrebbe tratto motivo di polemiche. Non si è fatta, pazienza. Nulla cambia nei rapporti tra Italia e Israele, ma quella foto mancata avrebbe avuto però la forza di imbarazzare coloro che sfacciatamente negano l'ebraicità di Gerusalemme.

(Shalom, novembre 2016)

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Contenti loro...

 
Tre anni fa Obama visitò Israele e si presentò come grande amico dello Stato ebraico. Fu accolto con entusiastico calore e lui dispensò sorrisi e pacche sulle spalle in abbondanza. Ma, contrariamente a tanti altri Capi di Stato e Primi Ministri, non volle visitare il Parlamento israeliano nella sua naturale sede, la Knessett. E non vi andò. Tre anni dopo il Capo dello Stato italiano ha visitato anche lui Israele, è stato accolto con calore, ha dispensato sorrisi e gesti di amicizia quanto si deve, ma non è andato a visitare il Muro del Pianto. Eppure, questi uomini politici istituzionali dovrebbero conoscere il significato dei gesti e la loro importanza. Non lo conoscono? Sarebbe una forma di ignoranza grave, e tuttavia non la cosa peggiore. E' molto peggio pensare invece che lo conoscano e lo abbiano adottato. Mattarella non ha visitato il Muro del Pianto, ma prima di lasciare Israele ha lasciato una sentenza memorabile: «La riconciliazione israelo-palestinese non è più procrastinabile» ha annunciato con gravità. L'intenzione è buona, indubbiamente, ed è già stata espressa da molti altri. Ma come fare ad ottenerla? Mattarella lo ha spiegato bene: «La pace è il nostro obiettivo strategico e per ottenerla bisogna mettere fine all'occupazione israeliana secondo la Soluzione dei due stati in modo che israeliani e palestinesi vivano in pace e prosperità uno a fianco all'altro». Chiaro il messaggio? Tutto il problema è dovuto all'occupazione israeliana; proprio come dice Abu Mazen.
  Il nostro Presidente della Repubblica è stato molto apprezzato anche perché dopo il suo insediamento ha voluto, tra le prime cose, ricordare Stefano Taché, il bambino ebreo ucciso a Roma nell'attacco terroristico del 1982 davanti alla Sinagoga. Riporto le parole che disse in quell'occasione perché mi colpirono fin dall'inizio: "Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano". Chi è stato colpito in quell’occasione? Il nostro Paese, cioè l’Italia. Perché è stato colpito? A causa dell’odio e dell’intolleranza, cioè generici sentimenti di cattiveria. Di chi era quel bambino? Era un nostro bambino, un bambino italiano. Ebreo? Sì, anche, ma non sembra che questo abbia molta importanza per Mattarella. Stefano era italiano, è stato colpito in quanto italiano e deve essere difeso da italiani. Che c’entrano gli ebrei? Con il suo spettacolare gesto il Capo dello Stato ha presentato l’Italia come parte lesa dell’avvenuto crimine, non come parte complice di chi ha compiuto il crimine. Questo invece avrebbe dovuto fare, il massimo rappresentante della nazione italiana davanti alla comunità ebraica. Ma non l’ha fatto. E si direbbe che gli ebrei siano rimasti tutti contenti. Contenti loro... no, non contenti tutti. M.C.

(Notizie su Israele, 18 novembre 2016)


Il Salento conquista il turismo israeliano

Nardò, il Grand Hotel Riviera tra le mete scelte dai turisti israeliani per visitare il Museo della Memoria e dell'Accoglienza.

CDSHotels nel Salento
Inaugurato da appena tre mesi, il Grand Hotel Riviera di Santa Maria al Bagno diventa già un importante polo di attrazione del turismo internazionale, valorizzando le straordinarie risorse del territorio. Dalla prossima stagione arriveranno turisti israeliani, richiamati dalla presenza a Santa Maria al Bagno del Museo della Memoria e dell'Accoglienza dove, immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, vennero ospitati gli ebrei liberati dai campi di concentramento dalle Forze Alleate. Il gruppo CDSHotels (www.cdshotels.it) che ha riportato a nuova vita il Grand Hotel Riviera, ha sul tavolo un importante accordo con un tour operator israeliano. La notizia è stata diffusa dal presidente di CDSHotels, Fioravante Totisco solo da poche ore: durante il Wedding Day avvenuto domenica mattina al Grand Hotel Riviera che ha riscosso un grande successo.
"A partire dal prossimo anno", precisa il Direttore Commerciale di CDSHotels, Ada Miraglia, "accoglieremo al Grand Hotel Riviera, gruppi formati da turisti israeliani, desiderosi di visitare il Museo della Memoria e dell'Accoglienza di Santa Maria al Bagno e le altre attrazioni del Salento. Abbiamo ospitato il tour operator, con cui abbiamo già un rapporto di collaborazione per un'altra nostra struttura, il Riva Marina Resort di Carovigno e lo abbiamo portato, in compagnia del sindaco di Nardò, a visitare il Museo. Non vi nascondo che quando ha visto i murales, il tour operator si è emozionato".
Il Sogno della Terra Promessa viene raccontato nei Murales di Zivi Miller che sono conservati nel Museo con tutte le foto che illustrano la storia di integrazione e di accoglienza avvenuta tra i cittadini ebrei e i neritini.
"Questo importante passo avanti", spiega Ada Miraglia, "avrà ricadute positive su tutto il territorio, perché il nostro albergo ha solo 98 camere e non riuscirà a soddisfare la domanda di tutti i turisti israeliani che vorranno pernottare a Santa Maria al Bagno proprio per visitare il Museo della Memoria e dell'Accoglienza. Essi approfitteranno per fare escursioni anche nel resto del Salento con vantaggi per tutti noi. Il turismo è infatti un settore complesso che abbraccia tutte le varie branche della produzione e noi, in Puglia e nel Salento, abbiamo tutte le carte in regola per attrarre turismo per 365 giorni l'anno".
"Il Grand Hotel Riviera rappresenta una grande risorsa per il nostro territorio", dicono il vicesindaco Oronzo Capoti e la consigliera comunale Giulia Puglia. "Puntando sulle sue straordinarie risorse, noi miriamo a destagionalizzare l'offerta turistica perché Nardò sia viva tutto l'anno".

(Affaritaliani.it, 18 novembre 2016)


Quel foreign fighter dell'Isis in Iraq che si è addestrato a Milano

Individuato e localizzato un altro militante dell'esercito islamico formatosi nel capoluogo lombardo e da qui partito per l'Iraq, dove si trova tuttora a combattere nelle file dell'Isis.

di Luca Fazzo

Sono tra noi, nelle nostre città: e nelle nostre città si convertono all'Islam radicale, vengono indottrinati, convinti alla guerra santa, e da qui partono per i teatri di guerra.
L'allarme sull'arruolamento in Italia dei foreign fighters dell'Isis è rilanciato questa mattina dall'annuncio della Procura della Repubblica di Milano che ha individuato e localizzato un altro militante dell'esercito islamico formatosi nel capoluogo lombardo e da qui partito per l'Iraq, dove si trova tuttora a combattere nelle file dell'Isis.
Una conferenza stampa indetta per le 11 dovrebbe fornire maggiori dettagli sull'inchiesta, condotta dalla Digos di Milano e coordinata dal pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo. Nei confronti del terrorista risulta spiccato un ordine di cattura internazionale, ma la sua esecuzione è resa difficile (se non impossibile, almeno per ora) dal fatto che si trova nei territori iracheni sotto il controllo del Califfato di Al Baghdadi.
La notizia arriva a pochi giorni dall'arresto in Sudan di un altro terrorista islamico cresciuto e operante a lungo sotto la Madonnina,il tunisino Mohamed el Fezzani, che dopo essere stato ingiustamente assolto a Milano venne espulso dal paese e entrò nei quadri dirigenti dell'Isis, dove avrebbe collaborato alla pianificazione della strage al museo del Bardo.

(il Giornale, 18 novembre 2016)


Ong e Onu hanno cancellato la fame dal Venezuela socialista

Ordinaria follia all'Onu. Dieci risoluzioni contro Israele e una sulla Siria. Lodi sperticate al Venezuela socialista e affamato.

di Giulio Meotti

 
E' stato un giorno di ordinaria follia alle Nazioni Unite. All'Assemblea generale dell 'Onu in sole ventiquattro ore sono state adottate ben dieci risoluzioni contro Israele, l'unica democrazia e società aperta del medio oriente. Una sola risoluzione per la Siria della guerra civile senza fine, una sola per l'Iran che ha giustiziato ventotto persone in un solo giorno, una sola per lo stato canaglia della Corea del nord e una anche per la Crimea. Soltanto sette paesi si sono opposti all'editto contro Israele: Stati Uniti, Canada, Australia, Israele, Isole Marshall, Micronesia e Palau, mentre tutti i paesi europei si sono astenuti come durante le tragicomiche risoluzioni dell'Unesco che hanno cancellato la storia ebraica a Gerusalemme (se ne parlerà oggi alla conferenza del Foglio al Tempio di Adriano a Roma, ore 17). "Mentre il presidente siriano Bashar el Assad sta preparando il massacro finale del suo popolo ad Aleppo, le Nazioni Unite hanno adottato una risoluzione, sponsorizzata dalla Siria, che condanna falsamente Israele per 'le misure repressive contro i cittadini siriani sulle alture del Golan', osceno", ha detto Hillel Neuer di UN Watch. "Non una sola risoluzione prevista per coloro che abusano dei diritti umani come Arabia Saudita, Turchia, Venezuela, Cina o Cuba". Fra le surreali risoluzioni approvate al Palazzo di vetro ce ne sono sui "rifugiati come risultato della guerra del 1967" (l'ltalia ha votato a favore, mentre Honduras, Camerun e Togo contro), sulle "proprietà dei rifugiati palestinesi" (non una risoluzione sulle case dei cristiani iracheni a Mosul), sull'"applicazione della convenzione di Ginevra nei territori occupati" (ci sono duecento contese territoriali nel mondo, dal Tibet cinesizzato alla Cipro turchizzata, ma quei popoli non sono degni di risoluzione) e sulla "occupazione del Golan siriano" (anche in questo caso l'Italia ha votato a favore, a differenza di Ruanda e Costa d'Avorio). Il Palazzo del fango ha poi applaudito uno "stato fallito", come il New Yorker ha appena definito il Venezuela, raccontando di ospedali circondati da uomini armati per tenere lontani i giornalisti, della malaria tornata a essere una piaga, dei malati di mente abbandonati per strada, di due milioni di persone fuggite dal socialismo chavista e della mancanza di beni di consumo primari, come la carta igienica. Il Wall Street Journal ha scritto che "i bambini del Venezuela stanno morendo a un ritmo superiore di quelli in Siria". Eppure, 516 organizzazioni non governative si sono fatte avanti alle Nazioni Unite per incensare il regime venezuelano, allo stremo e alla fame. UN Watch in un rapporto parla di "frode su scala di massa".
  Perché se l'utopia di Caracas è lavata via dalle ong, l'Uganda ha ricevuto solo 54 rapporti delle ong, la Siria 26, il Sudan del sud 23 e lo Zimbabwe venti. "Ong controllate dal Venezuela o dai suoi alleati, Cuba e Bolivia", ha detto il direttore di UN Watch Hillel Neuer. "Il Venezuela ha usato centinaia di gruppi di facciata per dirottare le presentazioni all'Onu e trasformarle in un foglio di propaganda per il regime del presidente Nìcolàs Maduro. Il risultato è che la revisione dei diritti umani in Venezuela è stata condotta sulla base di una massiccia quantità di informazioni palesemente false".
  Ma che magicamente diventano vere al Palazzo delle nazioni di Ginevra. Tra le ong che all'Onu hanno lodato i diritti umani in Venezuela ce ne erano diverse controllate dal Partito comunista cubano, come la Federazione cubana delle attività subacquee, la Società cubana per le indagini filosofiche, la Società cubana di urologia e la Società cubana sulla sessualità. Nonostante la fame di massa che mette in ginocchio il Venezuela, una ong slovena denominata "Associazione per le cose ovvie" ha ringraziato il regime chavista per aver "dimezzato la fame". Ventiquattro ong hanno elogiato il Venezuela per i suoi "risultati positivi" tra cui "l'introduzione di un programma di pasti scolastici" (l'ironia qui ha un ghigno sinistro). In totale ventuno ong hanno riferito invece che "sono stati compiuti progressi nell'adozione della legislazione sanitaria" (anche gli utili idioti occidentali lo credono). Il Venezuela avrebbe "comprato" il sostegno all'Onu secondo UN Watch. Per esempio, Jean Ziegler è stato l'esperto Onu sul diritto al cibo per molti anni. Il Venezuela ha nominato Ziegler, un alleato di lunga data di Fidel Castro, alle Nazioni Unite e gli ha dato il suo sostegno. In cambio, Ziegler ha elogiato Maduro, presentando il Venezuela come "il migliore sistema sanitario al mondo dopo Cuba". Allo stesso modo, Hilal Elver, l'esperto attuale all'Onu per il diritto al cibo, non ha rilasciato dichiarazioni sulla fame in Venezuela, nemmeno un tweet. Mentre l'Europa voltava le spalle a Israele e veniva ridicolizzata dalle risoluzioni di questi regimi, alla Commissione dei diritti umani a Ginevra la "dea della giustizia" fissava i delegati, dono di Bashar el Assad. In Olanda, come ogni anno, fra qualche giorno si ripresenta la polemica su "Black Pete", l'aiutante nero che accompagna san Nicola nella distribuzione dei regali ai bambini. La Commissione di Ginevra ha attaccato "Black Pete" perché "dà una visione stereotipata del popolo africano". Vallo a spiegare a quelli in Darfur.

(Il Foglio, 17 novembre 2016)


Eitan Na'eh e Kemal Ökem, chi sono i nuovi ambasciatori ad Ankara e Tel Aviv

di Zeffira Zanfagna

 
   Eitan Na'eh                                Kemal Ökem
La piena ripresa delle relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia ha compiuto un passo in avanti. Martedì lo Stato ebraico ha nominato Eitan Na'eh nuovo ambasciatore israeliano ad Ankara, mentre ieri Recep Tayyip Erdogan ha nominato Kemal Ökem nuovo ambasciatore turco a Tel-Aviv.
Le nomine si inscrivono in un percorso intrapreso la scorsa estate e finalizzato a garantire la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Turchia, dopo che i due Paesi avevano deciso di interrompere ogni forma di dialogo nel 2010, in seguito all'incidente della Freedom Flotilla, quando nove attivisti, di cui otto di nazionalità turca, sono morti e dieci soldati israeliani, di cui due in modo grave, sono rimasti feriti.

 Chi è Eitan Na'eh
  Eitan Na'eh sarà il nuovo ambasciatore israeliano in Turchia. Una volta che la nomina sarà ufficialmente approvata, è previsto che i due Paesi interessati annuncino formalmente il reciproco scambio di ambasciatori. Na'eh prenderà il posto di Gabby Levy, precedente ambasciatore israeliano ad Ankara, ed espulso dal Paese nel 2011, all'incirca un anno dopo l'incidente della Freedom Flotilla.
Na'eh, 53 anni, è originario della città di Haifa, quella famosa per il politecnico e i giardini. Israeliano da ben sei generazioni, Na'eh ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e storia del Medio Oriente presso l'Università di Tel-Aviv. Durante la carriera diplomatica, intrapresa nel 1991, si è specializzato in affari turchi. Dal 1993 è stato ambasciatore israeliano in Turchia per alcuni anni. Dal 2001 al 2005, invece, lo è stato in Azerbaijan. Eitan Na'eh ha anche ricoperto l'incarico di capo dipartimento specializzato in Turchia, Grecia e Cipro presso il ministero degli Affari esteri dello Stato ebraico. Dal 2013 a oggi, Na'eh è stato ambasciatore a Londra.

 Chi è Kemal Ökem
  A distanza di un giorno dalla nomina del nuovo ambasciatore israeliano in Turchia, ieri Recep Tayyip Erdogan ha nominato Kemal Ökem nuovo ambasciatore turco in Israele. Il sultano ha scelto Ökem in virtù del ruolo di consigliere di politica estera del primo ministro turco ricoperto fino a oggi.
"Lo scambio di ambasciatori tra i due Paesi rappresenterà il rinnovamento di piene relazioni diplomatiche, interrotte in seguito all'incidente del 2010 della Mavi Marmara", ha scritto il quotidiano israeliano Jerusalem Post.

 La fine delle relazioni diplomatiche
  I malumori tra Turchia e Israele, le cui prime manifestazioni risalgono già all'Operazione Piombo Fuso - con cui lo Stato ebraico, a cavallo tra il 2008 e il 2009, aveva deciso di neutralizzare Hamas, in seguito all'intensificarsi del lancio di razzi qassam - si sono acuiti nella primavera del 2010, per via dell'incidente della Freedom Flotilla, quando nove attivisti, di cui otto di nazionalità turca, sono morti e dieci soldati israeliani, di cui due in modo grave, sono rimasti feriti. La Fredoom Flotilla era una flottiglia di attivisti pro-palestinesi che, violando il blocco di Gaza, cercavano di trasportare aiuti umanitari e altre merci in supporto della popolazione palestinese.
A un anno di distanza circa dall'incidente, Gabby Levy, allora ambasciatore israeliano ad Ankara, è stato espulso dal Paese, ponendo definitivamente fine alle relazioni tra i due Paesi. In seguito, un report delle Nazioni Unite ha stabilito che il blocco navale imposto da Israele nei confronti di Gaza era conforme al diritto internazionale e che la Turchia non aveva fatto abbastanza per evitare che la flottiglia salpasse dalle coste turche. Il report, però, dichiarava anche che il ricorso all'uso della forza da parte di Israele, per fermare la flottiglia, era stato "eccessivo e irragionevole".
Dopo sei anni di gelo, e un'intensa attività diplomatica, le parti hanno ripreso a dialogare. Si sono date appuntamento a Roma questa estate, il 26 giugno, e hanno formulato un accordo definitivo, firmato e formalizzato con successo il giorno successivo, che ha sancito la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

(formiche.net, 17 novembre 2016)


Nuova Delhi e Gerusalemme uniti dalla lotta al terrorismo

di Maddalena Ingrao

Il presidente israeliano Reuven Rivlin e il primo ministro indiano Narendra Modi
NUOVA DELHI - Il presidente di Israele e il primo ministro indiano hanno concordato di rafforzare la cooperazione nella lotta contro il terrorismo durante la prima visita ufficiale del leader israeliano nel paese.
Dopo l'incontro con il presidente israeliano Reuven Rivlin, il primo ministro indiano Narendra Modi ha detto che i due avevano paesi avevano deciso d'intensificare la cooperazione per combattere le «forze dell'estremismo e della radicalizzazione che minacciano tutti i popoli amanti della pace», riporta Efe. Modi ha detto che i cittadini indiani e israeliani sono «costantemente minacciati» da estremisti la cui origine può essere ricondotta a uno dei vicini dell'India, in un velato, ma non troppo, riferimento al Pakistan.
I due leader hanno inoltre deciso di collaborare nella gestione e conservazione delle acque, e nella ricerca scientifica in agricoltura.
In una dichiarazione, Rivlin ha detto che i due paesi godono di legami forti e spera la sua visita contribuirà a cementarli ulteriormente. Rivlin incontrerà l'ambiente business indiano al XII Agro Tech 2016, biennale su agricoltura e tecnologia agricola.

(agc, 17 novembre 2016)



Parashà della settimana: Vayerà (Apparve)

Genesi 18.1-22.24

 - Nella parashà di Vayerà (apparve) vengono trattati il tema dell'ospitalità, la distruzione di Sodoma e il sacrificio di Isacco.

Offrire ospitalità
Mentre Abramo era seduto sulla porta della sua tenda vide tre pellegrini avvicinarsi. Corse incontro a loro, si inchinò e invitò i forestieri ad entrare nella sua casa. Abramo è ancora sofferente per l'intervento di circoncisione e nonostante questa difficoltà egli ospitò i tre sconosciuti di cui ignorava il carattere eccezionale (angeli del Signore).
Un principio della Torah afferma che esiste una corrispondenza tra il cielo e la terra. Le porte del cielo si aprono se vengono aperte le porte sulla terra, cosa che Abramo ha fatto, aprendo le porte della sua tenda. In più ordina alla moglie Sara di preparare "cibo" in abbondanza per soddisfare gli ospiti. Quale è la ricompensa? Che si aprono anche le porte del cielo. Difatti uno di questi pellegrini dice: "Tornerò da te fra un anno e allora tua moglie Sara avrà un figlio" (Gen. 18.10). Sara nell'udire questa notizia, incredula per la sua età, scetticamente "rise".
Ora gli angeli del Signore, che avevano annunciato ad Abramo la nascita di un figlio, sono gli stessi che andranno a distruggere Sodoma. I peccati di questa città, che avevano chiuso le porte al prossimo, di riflesso avevano chiuso anche le porte del cielo cioè la misericordia
di D-o.
Dopo aver annunciato la nascita di Isacco, i tre angeli (Gabriele, Raffaele e Michele) si alzarono ed accompagnati da Abramo alla porta della tenda, si diressero verso Sodoma.

Distruzione di Sodoma
Il Signore disse: "Posso tener celato ad Abramo cosa sto per fare?" (Gen. 18.17). Difronte a questa tremenda decisione di D-o Abramo risponde: "Vorrai sterminare con il malvagio anche il giusto? Forse saranno nella città 50 giusti" (Gen.18.24).
Inizia il mercanteggiare riguardante il numero dei giusti presenti a Sodoma. "Se trovo 50 giusti nella città - risponde il Signore - perdonerò" (Gen.18.24). La trattativa continua fino alla presenza di "dieci" giusti " nella città. "Non distruggerò in grazia dei dieci - disse il Signore -" (Gen 18.33). Da riflettere sull'attualità di questo evento. Quanti" Giusti" erano presenti alla votazione nella sede Unesco su Gerusalemme falsamente dichiarata città islamica?
I messi del Signore giunti a Sodoma si recarono da Loth per trarlo in salvo dalla distruzione imminente. Loth nonostante il divieto di ospitare forestieri pena la morte, ricevette gli ospiti, offrì loro cibo e del pane azzimo (matzoth) (Gen.19.3).
Su pressante richiesta degli angeli, insieme alla moglie e alle due figlie, Loth esce dalla città di Sodoma, perché possa iniziare il processo di distruzione. Allontanandosi verso la pianura, Loth trova riparo in una grotta privato della propria moglie che era stata trasformata in sale. Le due figlie di Loth rimaste sole, danno da bere del vino al padre e giacciono con lui. Da questa unione incestuosa nasceranno i Moabiti e gli Ammoniti che non potranno far parte della Comunità del Signore di Israele.
Una considerazione è doverosa. Abramo difronte ad un decreto divino severo, non si arrende. Discute con D-o per cambiare o annullare una Sua decisione. Noè difronte alla calamità del diluvio accetta l'ordine di D-o di costruire l'arca per la sua salvezza. Un midrash racconta che dopo il diluvio difronte a tanta distruzione Noè chiedesse al Signore cosa aveva fatto, a cui D-o rispose:" Avresti potuto chiederMi prima del diluvio "misericordia" per il mondo".

Il sacrificio di Isacco (Akedà)
"Prendi il tuo amato unico figlio, Isacco, vai sul monte Morià e offrilo in olocausto" (Gen. 22.2).
Questa traduzione non corrisponde al significato del testo ebraico. Letteralmente l'ordine di D-o è di andare insieme ad Isacco sulla montagna per fare un sacrificio. Non si tratta affatto di sacrificare Isacco e come Abramo avrebbe potuto fare un'azione di palese idolatria? Il malinteso su Abramo viene chiarito quando questi alza il coltello sul figlio. L'angelo del Signore arresta la sua mano e appare un montone che verrà sacrificato. Abramo però esegue l'ordine di D-o nella certezza della sua fede, in quanto il Signore vedrà e provvederà. E' questo il senso nascosto della risposta che il popolo ebraico pronunciò nel momento in cui ricevette il dono della Torah ai piedi del monte Sinài "Faremo e ascolteremo" (Es. 19.8).
La Akedà, che significa legatura e non sacrificio di Isacco è il punto di incontro, ma anche di separazione tra padre e figlio. Isacco entra nella Akedà come figlio di Abramo e ne esce come padre di Giacobbe, che trasmetterà al proprio figlio doveri e divieti, limiti e amore. Dalla Akedà infine si impara che un padre può sì portare un figlio all'altare, ma non deve sacrificarlo, rispettando le sue scelte. F.C.

*

 - "Il grido che sale a me da Sodoma e Gomorra è grande - comunicò il Signore ad Abramo; poi proseguì - e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me; e, se così non è, lo saprò» (Gen. 18:20-21).
Dio agisce come se avesse la speranza di non trovare le cose così disastrose come sembra, e informa Abramo per sapere se ha qualcosa da dire in merito. Sappiamo qual è la carta che Abramo gioca per tentare di convincere il Signore a desistere dal suo proposito di distruzione: "Farai tu perire il giusto insieme con l'empio?" E qui comincia una faticosa trattativa per stabilire qual è il minimo sindacale di giusti necessario per impedire l'intervento punitivo del Signore.
L'azione difensiva del patriarca non andò a buon fine, ma va detto che il mercanteggiamento cessò per la desistenza di Abramo, non del Signore, il quale non disse mai "no" alle proposte fattegli.
Dopo di che Abramo andò a stabilirsi a Gerar, dalle parti di Gaza. E qui il venerando patriarca che Dio ha "prescelto affinché ordini ai suoi figli, e dopo di sé alla sua casa, che s'attengano alla via dell'Eterno per praticare la giustizia e l'equità" (Gen. 18:19), compì un'azione che non è né giusta né equa: mentì sapendo di mentire. Disse a tutti che Sara era sua sorella affinché non si sapesse che era sua moglie. E fece questo per paura degli uomini, quindi per incredulità nelle promesse del suo Dio. Ed era anche recidivo, perché una cosa simile l'aveva già fatta un'altra volta in Egitto.

Uno strano modo di agire
Che cosa si aspetterebbe uno che legge la Bibbia nella speranza di trovare in essa fulgidi esempi di istruttiva moralità? Probabilmente si aspetterebbe di vedere un Dio che prende da parte l'uomo che si è scelto, gli dà una severa strigliata, gli impone di rivelare la verità e di chiedere scusa a tutti quelli a cui ha mentito. Niente di tutto questo, neppure un cenno di disapprovazione, sia a Gerar, sia in Egitto.
Dio lasciò che le cose andassero come dovevano andare, limitandosi ad indirizzarle su un binario che Abramo non aveva previsto. Essere il fratello di Sara gli avrebbe assicurato di averne la gestione: chiunque avesse voluto avere sua sorella avrebbe dovuto chiederlo a lui, che si sarebbe riservato di decidere, avrebbe temporeggiato, mercanteggiato e poi avrebbe trovato il modo di scapparsene via da qualche parte.
Ma anche qui, come in Egitto, avvenne l'imprevisto: a chiedere Sara fu proprio Abimelec, il Re di Gerar. E dire "no" al re di una nazione in cui si vive "come forestiero", è cosa ardua e rischiosa. La situazione appariva senza vie d'uscita.
Il fatto grave della questione però non sta nell'immoralità di Abramo o nella sofferenza di Sara o nei costumi inaccettabili di un re pagano: ciò che più importa qui è il fatto che il Signore aveva promesso di dare ad Abramo e Sara una discendenza, attraverso cui Egli avrebbe benedetto tutte le genti. Come sarebbe potuto avvenire questo se Sara fosse sparita nel gineceo di Abimelec? Il Signore aveva fatto un patto unilaterale con Abramo, dipendente dunque soltanto dall'impegno che aveva preso con Se stesso davanti agli uomini.
Dio dunque deve intervenire. E naturalmente lo fa, a modo Suo. Appare in sogno ad Abimelec e gli comunica di aver emesso una sentenza capitale contro di lui: "Ecco, tu sei un uomo morto" . Perché? "A causa della donna che ti sei presa, perché ha marito" (Gen. 20:3), spiega il Signore. E aggiunge che poiché Abimelec ha agito in quanto Re di Gerar, insieme a lui dovrà perire tutta la nazione. Ma io non lo sapevo - si difende il povero Abimelec -, e qui usa un argomento simile a quello usato da Abramo per difendere Sodoma: "Signore, faresti tu perire una nazione anche se giusta?" (Gen. 20:4). Dio sa tutto, capisce tutto, crede alla sincerità di Abimelec, ma arriva subito al sodo operativo: "Or dunque, restituisci la moglie a quest'uomo, perché è profeta... ma se non la restituisci, sappi per certo che morrai: tu e tutti i tuoi" (Gen. 20:7).

Uno strano profeta
E' la prima volta che nella Bibbia si usa il termine "profeta", ed è applicato ad un incredulo mentitore. Ma è in questo modo che Dio si fa conoscere dal re di una nazione pagana, come in seguito farà con un altro re, il Faraone d'Egitto. Ad Abimelec Dio comunica in modo secco: Abramo è un profeta. Punto. Chiunque ha un rapporto con lui ha un rapporto anche con Me. Sempre.
Adesso Abimelec lo sa: è venuto a saperlo per una via inaspettata e ora si trova sotto una pesante minaccia di morte. E per far capire la serietà della minaccia, Dio rende sterile tutta la casa di Abimelec, preannunciando che questa maledizione sarà tolta soltanto quando Abramo, riavuta Sara, pregherà per il re pagano: "... egli pregherà per te e tu vivrai" (Gen. 20:7). E così avvenne.
Abbiamo detto che Dio non rivolge alcun rimprovero ad Abramo, ma il bello è che i rimproveri glieli fa arrivare proprio da quel re pagano per cui ha pregato. "Tu mi hai fatto cose che non si debbono fare" (Gen. 20:9), gli dice in faccia Abimelec; e gli chiede: ma perché l'hai fatto? che cosa pensavi che ti facessi se mi dicevi la verità? E il profeta che si è scoperto essere un bugiardo risponde: "L'ho fatto, perché dicevo fra me: Certo, in questo luogo non c'è timor di Dio; e m'uccideranno a causa di mia moglie" (Gen. 20:11).
Su questa risposta di Abramo, e su tutto il racconto commentato, si potrebbe scrivere un intero libro: un libro sul sovrano senso di humour del Signore. M.C.

  (Notizie su Israele, 17 novembre 2016)


Europa e Usa guardino a oriente. Parla Ya'alon

Trump, Obama, stabilità globale. Parla l'ex Capo di Stato Maggiore israeliano.

di Daniel Mosseri

Moshe Ya'alon
BERLINO - "Comunque vada, la relazione fra Israele e gli Stati Uniti rimarrà forte perché basata su valori e su interessi comuni, e questo è tanto più vero per i due establishment della Difesa". Il giorno prima delle presidenziali americane, Moshe Ya'alon ha incontrato il Foglio nella capitale tedesca, dove era atteso per incontri con alcuni membri del Bundestag, L'ex capo di stato maggiore israeliano si è diplomaticamente tenuto al di fuori della tenzone fra Donald Trump e Hillary Clinton. Il che non gli ha impedito di affermare che con l'amministrazione Obama "sarebbe stato meglio essere d'accordo sulle principali questioni mediorientali: dal nucleare iraniano, alla minaccia della jihad globale, al collasso degli stati artificiali nella regione, all'instabilità in Siria, Iraq, Yemen e in Libia". Su tutti questi punti è mancata un'intesa al 100 per cento: l'auspicio è che domani non sia più così.
  Lo sdoganamento della Repubblica islamica brucia ancora a Israele e Ya'alon non ne fa mistero. "Noi non crediamo che negoziare con l'Iran sia stato un errore, ma l'esito di quei colloqui sì". Grazie a una miscela di isolamento politico, minacce militari, sanzioni economiche e pressioni interne dovute alla crisi economica, "la guida suprema dell'Iran, Khamenei, era arrivato agli incontri in ginocchio, pronto a scendere a patti con il Grande Satana; invece ne è uscito con la piena, immutata capacità di produrre una bomba atomica e un semplice rinvio di dieci anni, vale a dire dopodomani". Peggio ancora, l'Iran non è stato sanzionato per le sue altre attività-canaglia come la proliferazione di armamenti e la diffusione del terrore. Basti pensare, accenna Ya'alon, "alla fornitura di missili ai loro alleati Huthi in Yemen, armi che questi poi rivolgono contro gli stessi americani. Solo nell'ultimo mese per tre volte hanno lanciato missili contro il cacciatorpediniere Uss Mason". Stesso discorso vale per il sostegno alla milizia sciita libanese Hezbollah o la ripresa dei test missilistici dalle basi iraniane. Grazie allo sdoganamento voluto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu più la Germania, "l'Iran ha recuperato piena egemonia sulla regione" e oggi controlla i governi di Bagdad, di Sa'ana, di Damasco e di Beirut. "Il Libano è stato sequestrato: se un giorno quel paese entrerà in guerra, non lo deciderà nessuno dei suoi dirigenti; neppure Nasrallah, il leader di Hezbollah. La decisione sarà presa direttamente da Khamenei". L1- ran minaccia anche la stabilità di tutti i governi del Golfo Persico, "dall'Arabia Saudita in giù".
  Dall'Amministrazione americana di domani Ya'alon vuole capire "se interpreterà il ruolo di gendarme del mondo oppure se resterà passiva". Perché la passività, sottolinea, crea dei vuoti che vengono subito riempiti da elementi-canaglia "come l'Iran, lo Stato islamico o Erdogan", Senza dimenticare l'accresciuto margine di manovra per la Russia, oggi molto attiva nella regione. Da un lato il generale invita gli Usa a occuparsi del medio oriente in prima persona, dall'altro auspica una maggiore intesa fra Gerusalemme e Washington. Poi ammonisce: "Se non ti occupi dei problemi mediorientali, poi questi ti verranno a cercare a casa tua o in Europa, sotto forma di terrorismo o di immigrazione". La riflessione si sposta quindi sull'Isis, "la cui ideologia è difficile da sconfiggere e che anzi si sta espandendo a cominciare dalla Libia", ma che sul terreno può essere sconfitto. "E' tutta una questione di soldi", osserva nel ricordare come molti elementi sunniti in Sinai e in Siria si siano inizialmente affiliati allo Stato islamico solo per la sua grande liquidità. La guerra contro il califfo al Baghdadi si può vincere, il che, puntualizza, "non significa che oggi sia condotta bene: permettere la partecipazione di iraniani e turchi è un errore molto grave".
  Ya'alon torna a invocare un poliziotto mondiale. Chi se non gli Usa hanno il potere di fermare la Turchia, un membro della Nato "che ha anche finanziato l'Isis, comprato il suo petrolio, permesso ai jihadisti di attraversare liberamente i propri confini verso l'Iraq e poi verso l'Europa e che ora ha in mano la bomba migratoria?". L'ex ministro della Difesa di Netanyahu non parla di profughi ma di immigrati clandestini: "Marocchini, pachistani e migranti di altri paesi islamici sospinti dalla Turchia verso l'Europa. E nessuno in occidente ha mosso un dito né ha azionato alcuna leva politica o economica nei confronti di Ankara". E se gli incontri con i deputati tedeschi "sono andati molto bene", Ya'alon non è però sicuro che i dirigenti europei abbiano capito che fare affari con l'Iran o con la Turchia oggi può avere una ricaduta sulla stabilità globale di domani. "Dobbiamo decidere meglio le nostre priorità. E agli Stati Uniti serve una nuova strategia globale, che comprenda un nuovo rapporto con i paesi sunniti, abbandonati negli ultimi anni". Il tema della necessità di chiarezza di cui l'occidente sembra avere forte bisogno torna anche nell'affrontare la questione Unesco. Di recente l'organizzazione dell'Onu per la tutela della cultura ha avallato una serie di proposte arabo-palestinesi che pretendono di cancellare la millenaria presenza ebraica dalla terra di Israele. "Più assurde sono e più le risoluzioni dell'Unesco fanno i nostri interessi", osserva Ya'alon, secondo cui negare il legame fra gli ebrei e la loro terra "è ridicolo". Allo stesso tempo secondo il generale, "permettere che le Nazioni Unite siano così corrotte e faziose, e dominate da certi elementi rappresenta una grande sfida per tutta la civiltà occidentale". In pochissimi, riconosce, hanno fatto proprio l'antico appello di Ugo La Malfa a difendere la libertà dell'occidente sotto le mura di Gerusalemme. Eppure, con un mix tutto israeliano di pragmatismo e ottimismo, Ya'alon saluta anche le aberrazioni dell'Unesco "come una prova del nostro successo, della nostra capacità di sopravvivere. Hanno tentato di eliminarci con la guerra e hanno fallito, hanno provato a procurarsi armi di distruzione di massa e hanno fallito, hanno provato a fiaccare il popolo d'Israele con il terrorismo e hanno fallito". La questione, ricorda l'ufficiale in pensione, non è l'occupazione ma il diritto di Israele a esistere. "Ecco perché è partita la campagna di delegittimazione, il cui prossimo obiettivo sarà il tentativo di annullare la dichiarazione Balfour. Peccato che l'occidente sia sempre pronto a cooperare con questa gente".
  Israele, avverte però l'ex capo di stato maggiore, sa mettere a nudo queste mistificazioni, "tanto più che piano piano anche fra i nostri alleati stiamo osservando un lento risveglio", sia fra gli stati sia presso la società civile. Il gioco dei palestinesi è sotto gli occhi del mondo. Tutto è iniziato, ricorda, con il caso della Mavi Marmara, l'imbarcazione turca che nel maggio del 2010 cercò di forzare il blocco navale attorno a Gaza. "A bordo c'erano jihadisti turchi, nazionalisti arabi, antisemiti e quelli che io chiamo 'liberali naif, gente che crede che in Israele ci sia l'apartheid. Solo gli ebrei hanno la capacità di unire contro di loro gruppi tanto diversi. E per inciso anche io mi considero un liberale, ma di certo non sono naif".

(Il Foglio, 17 novembre 2016)


Malattie genetiche e mondo ebraico

Una serata per conoscere e difendersi da mali subdoli e molto rischiosi

di Roberto Zadik

MILANO - Spesso nella quotidianità, la salute, viene ignorata, data per scontata e ci sono molti estremi, fra chi va sempre dal medico anche quando è sano e invece chi tralascia malattie anche molto gravi salvo poi accorgersene quando poco o nulla resta da fare. Si tende a sottovalutare, specialmente, le cosiddette "malattie rare" ed ereditarie che colpiscono anche e soprattutto il mondo ebraico, specialmente gli ebrei askenaziti mietendo alcune volte vittime poiché scoperte dopo anni di incubazione silente nell'organismo. Questi e altri temi sono stati trattati, martedì 15 novembre, durante l'interessante conferenza "Geneticamente-Conoscere e prevenire alcune malattie genetiche" tenutasi all'Hotel Marriott.
   Quali sono queste malattie? Come conoscerle, prevenirle e magari curarle? Durante la serata, organizzata da OGL, Organizzazione giovanile Lubavitch in collaborazione con l'AME, Associazione Medica Ebraica col patrocinio della Comunità ebraica di Milano e dell'Adei Wizo si è parlato di varie patologie derivate spesso da "esogamia, ovvero matrimoni fra cugini, tipici di ambienti chiusi dove ci si sposava fra parenti".
   Fra le infermità, approfondite nell'incontro, ci sono la fibrosi cistica o la sindrome di Tay Sachs, dovuta alla carenza di alcuni enzimi con gravi conseguenze per il cervello, che ora fortunatamente sembrano essere molto diminuite se non scomparse.
   Purtroppo ancora molto frequenti, invece sono i tumori al seno e dell'ovaio, che secondo gli studi statunitensi colpiscono dal 35 all'80 percento degli ebrei askenaziti americani e lo stesso vale per la milza ingrossata. Relatori dell'incontro, introdotto da Rav Levi Hazan e Rosanna Supino, dell'Ame, sono stati Baroukh Maurice Assael, ex direttore del Centro Fibrosi Cistica Verona e Consulente scientifico Centro Adulti Fibrosi Cistica Milano, Alberta Ferrari, senologa e chirurga senologica del Breast Cancer Center, Fondazione IRCCS, e la professoressa Domenica Cappellini, Direttore del Dipartimento di Medicina interna presso il Pad. Granelli della Fondazione Ca Granda Policlinico, Università di Milano.
   Tema centrale dell'evento la salute che come ha sottolineato Rav Levi Hazan, citando il grande Rambam" per l'ebreo stare bene è un dovere e non solo una cosa bella. Avere un corpo sano è il fondamento del lavoro divino di ogni ebreo non meno importante dell'osservanza religiosa". "Per questo motivo" ha poi ricordato la Supino, che per diversi anni ha lavorato all'Istituto dei Tumori, "abbiamo organizzato con Rav Levi questa serata, perché ci sono varie malattie rare e molto subdole che presentano sintomi uguali a tante altre malattie e che per questo sono molto pericolose e difficili da diagnosticare in tempo".
   Passando agli specialisti, subito ha parlato il Dottor Assael, che è stato un ex pediatra e che attualmente si occupa di Fibrosi Cistica, conosciuta anche come Mucoviscidosi. "Si tratta di una patologia molto seria, genetica e recessiva che colpisce la società occidentale e il mondo ebraico askenazita ma presenta anche fra i sefarditi e ne sono vittima specialmente i bambini nati nei Paesi industrializzati" ha specificato Assael "anche se attualmente questa malattia è in netta diminuzione". "Bisogna però" ha fatto notare l'esperto "tenerla sotto controllo con dei test preventivi perché la fibrosi può portare a gravi conseguenze. Dall'aborto, alla separazione, alla scelta di un altro partner". Nel suo intervento il professore ha menzionato anche altre malattia scomparse quasi completamente come la talassemia, o anemia mediterranea, che colpiva molto anche l'Italia, soprattutto Sardegna e Lazio e la pericolosa sindrome di Tay Sachs che in America ha seminato il panico nel mondo ebraico newyorchese. Ora questo male sembra essere scomparso, grazia anche come ha ricordato Assael "agli sforzi del professor Michael Kabak negli anni '80 e del Rabbino israeliano Epstein che dopo la morte di quattro dei suoi figli per questa malattia, si è molto attivato nella prevenzione delle fibrosi fondando il Dor Yesharim, Comitato di prevenzione delle malattie genetiche ebraiche".
   Malattie che invece sono molto attuali e di difficile cura sono il tumore al seno e ovarico e la milza ingrossata. In tema della prima patologia la dottoressa Ferrari ha fatto sapere che il tumore al seno, che può anche non essere genetico, in diversi casi esso si trasmette da genitori a figlio e nel mondo ebraico askenazita è particolarmente diffuso con percentuali molto alte. In Italia solo in Lombardia e in Emilia Romagna ci sono delle strutture idonee dove si compiono ricerche su questa patologia che in Lombardia affligge circa 25mila persone".
   Fornendo vari esempi di storie e immagini di donne colpite da questo male, la dottoressa ha evidenziato la centralità della prevenzione del tumore e del monitoraggio di questa malattia, rischiosa come il tumore al pancreas e alla prostata. "Questo male - ha detto la Ferrari - può essere curato con un opportuno percorso diagnostico terapeutico e se necessario con l'asportazione dei seni, la mastectomia". Ultimi due interventi della serata sono stati quello della professoressa Cappellini che ha approfondito sintomi e cause dell'ingrossamento della milza "un organo fondamentale che però molti non considerano e che può avere varie cause che discendono spesso e volentieri da alterazioni genetiche che possono investire l'organismo. "Nel mondo askenazita - ha fatto sapere la studiosa - l'incidenza dei casi è da uno a mille e questa patologia rimane silente per anni ed può discendere da ingrossamento del fegato e stranamente anche da valori del colesterolo molto bassi e da calcoli renali".
   Tutti i relatori hanno concordato sull'importanza di prendersi cura di se stessi, controllando con test e esami preventivi e conoscere sintomi e conseguenza di queste malattie rare ma estremamente rischiose e latenti per anni nel nostro corpo. A concludere la serata è stata Rav Levi Hazan che ringraziando relatori e partecipanti ha sottolineato la centralità della cura del corpo per far prosperare l'anima. "Citando varie fonti, dal Talmud, alla Torah al fondatore del chassidismo, il Baal Shem Tov, il Rav ha sottolineato quanto sia importante prendersi cura del proprio organismo perché esso "è il recipiente dell'anima ed è un dono divino che va mantenuto al meglio perché un giorno, dovremmo restituirlo a Dio quando moriremo". "Se stiamo bene e in forze" ha detto "tutto il resto viene in automatico e citando Rambam dobbiamo saper usare costruttivamente il nostro Libero Arbitrio e combattere per quanto ci è possibile sofferenze e malattie".

(Mosaico - Comunità Ebraica di Milano, 17 novembre 2016)


"L'uomo bianco"

di Francesco Lucrezi

Durante la lunga e intensa campagna elettorale statunitense, che in tanta misura ha monopolizzato l'attenzione dell'informazione mondiale, mi sono sempre astenuto dall'esprimere, su queste colonne, una mia opinione su tale evento, e ciò in ragione di un certo disagio che questa competizione mi ha trasmesso. Ho sempre pensato, infatti, che la forza di una grande nazione - quale certamente è, ai miei occhi, l'America - non dipenda da chi, di volta in volta, ne assuma le redini del comando, ma piuttosto dal vigore delle sue fondamenta: del suo popolo, del suo passato, delle sue speranze di futuro, delle sue istituzioni, della sua libertà, cultura, creatività, arte, letteratura, scienza. Un grande Paese è quello in cui le competizioni elettorali rappresentano un lavacro di democrazia e di partecipazione per tutti, nessuno escluso, per chi vince come per chi perde, un passaggio dal quale nessuno ha niente da temere, perché chi vince, chiunque sia, governerà per tutti, nell'interesse di tutti, e, primieramente, nell'interesse delle generazioni future.
  È sulla base di questa radicata convinzione, per esempio, che mi sono sempre astenuto dal tifare per questo o quel partito dello scenario politico israeliano, perché la mia solidarietà va, sempre e comunque, all'intero popolo e allo Stato d'Israele, chiunque lo governi. E qualcosa di simile ho sempre pensato per gli Stati Uniti. Mai come in questa occasione, invece, la contrapposizione, in quel grande Paese, mi è sembrata marcare un fossato secondo, una divisione non solo politica, ma umana e culturale tra due fazioni contrapposte, separate da una distanza apparentemente irriducibile, che sembra assai difficile cercare, in qualche modo, di colmare. Sono parse schierarsi, l'una contro l'altra, non solo due diverse opzioni di governo, ma due opposte visoni del mondo. Abbiamo visto in gara non tanto due aspiranti Presidenti, ma piuttosto due Americhe e ciò, per chiunque ami l'America, è una cosa triste e preoccupante.
  Per quel che riguarda, poi, l'appoggio degli USA a Israele e la tutela dei diritti civili, che sono le due questioni che più dovrebbero interessare i lettori di queste pagine, un fatto che mi ha alquanto rattristato è l'apparente scelta, che, per molti, è sembrata profilarsi, tra dare la priorità, nell'appoggio a questo o quel candidato, alla prima o alla seconda delle due cose, laddove tra di esse, secondo me, non dovrebbe sussistere una sostanziale differenza.
  Non darò mai la mia piena stima e fiducia a chi, sensibile alla tutela dei deboli e delle minoranze, si dimostrasse invece freddo riguardo alla sicurezza di Israele, così come a chi, pur giurando amore eterno per Israele, dovesse invece mancare di rispetto a donne, neri, ispanici e immigrati. Certo, se dovessi votare tra uno dei due, farei anche la mia scelta, ma certamente la farei senza nessun entusiasmo, solo per evitare il male peggiore.
  Tra le varie chiavi interpretative dell'inatteso successo del tycoon, una che si è sentita spesso ripetere è quella della rivincita della cd. "America bianca". E pare che sia un dato abbastanza oggettivo: tra i bianchi d'America, soprattutto maschi, la netta maggioranza dei suffragi è andata a chi ha poi vinto, e si sarebbe trattato di una sorta di rivalsa verso le numerose attenzioni che, negli ultimi anni, sarebbero invece state portate nei confronti del popolo multicolore degli "altri". Io credo che l'elettorato di Trump vada rispettato, e non credo che sia tutto costituito da beceri maschi razzisti, antifemministi e portatori di armi. Ma se il principale dato identitario dell'America che ha vinto è quello di essere 'bianca', si tratta di un dato rattristante. Mi è capitato, in vita mia, di legare la mia fluttuante identità a tante cose diverse, e mi sono sentito, di volta in volta, leccese, napoletano, europeo, conservatore, progressista, credente, non credente e altro, ma non mi è mai capitato, svegliandomi la mattina, di ricordarmi di essere un "uomo bianco". Credo che se, un domani, qualcuno o qualcosa dovesse portarmi a considerarmi tale, sarebbe un brutto giorno, per me e per il mio Paese.
  Faccio comunque i complimenti alla Signora Clinton per il grande impegno profuso, e rivolgo a Trump i miei auguri più sinceri, permettendomi di dargli un piccolo consiglio. Se vuole passare alla storia come un grande Presidente, non si impegni soltanto a migliorare le condizioni economiche della middle class "bianca" che l'ha votata, cosa di cui, dopo una manciata di anni, nessuno si ricorderà più, ma mantenga piuttosto due importanti promesse fatte in campagna elettorale: quella di stracciare l'infausto accordo col sinistro regime iraniano, che rende sempre più reale una terribile minaccia incombente sul mondo, e quella di spostare l'Ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme, la vera e unica capitale dello Stato ebraico. Questo sì che La farà passare alla storia come un grande e coraggioso statista. Lo faccia, Signor Presidente, e, personalmente, se manterrà almeno uno dei due impegni, Le perdonerò tutte le non poche bestialità che ha detto in passato.

(moked, 16 novembre 2016)


I media italiani e l'ossessione per l'ebreo al potere

Jared Kushner con la moglie Ivanka Trump
Jared Kushner, genero di Trump, ebreo ortodosso (e miliardario). Sheldon Adelson, multimiliardario finanziatore di Trump, ebreo ortodosso. L'elenco potrebbe continuare. Sempre seguendo questo modello: nome, ruolo, religione: ma solo se si tratta di un ebreo. Così i media italiani parlano degli uomini (e delle donne) che circondano il presidente eletto americano e che in questi giorni si contendono posti di responsabilità e favori dopo la vittoria alle elezioni dell'8 novembre.
Non so voi, ma a me stona questa insistenza nel voler definire prima di altri aspetti l'ebraicità del prossimo consigliere, ministro o chissà cosa. Forse che l'appartenenza religiosa di altri collaboratori non ebrei viene evidenziata allo stesso modo?
La risposta è sì, ma solo quando si tratta di personaggi al limite, tipo Ben Carson, cristiano evangelico e creazionista che, guarda caso, legge la Bibbia in maniera letterale ed è molto vicino a Israele.
Per quanto ne so, nessun quotidiano americano è così pervicace nel giustapporre la parola "ebreo" ai protagonisti di questi giorni tanto concitati. E certo non sono teneri con Donald Trump. Senza entrare nel merito delle questioni politiche, mi chiedo quale sia il problema dell'informazione italiana. Che differenza fa se il genero di Trump è ebreo o cristiano? Quanto è importante stabilire che Adelson sia legato a Israele? Quanti, tra i finanziatori del magnate-presidente non lo sono? O magari sono ostili? O semplicemente indifferenti?
Io credo che, almeno in Italia, probabilmente anche altrove, ci sia un'ossessione che viene da lontano. Rimarcare con tanta puntigliosità la categoria "ebreo" accanto ai protagonisti delle cronache politiche che vengono da oltre oceano racconta di una mentalità che si inserisce, forse anche inconsapevolmente, nel filone cospirazionista. Il messaggio che si vuole trasmettere (e che viene recepito facilmente) è questo: "Badate, questo personaggio è ebreo, dunque ha sicuramente un'agenda (nascosta)…". E forse anche questo: "Vedete? Gli ebrei controllano il governo americano…".
Posso dire che tutto questo mi fa scorrere brividi lungo la schiena?

(Mosaico - Comunità Ebraica di Milano, 16 novembre 2016)


Gerusalemme - Palestina

di Rita Remagnino

Nei giorni scorsi il "Comitato per il SI", naturale derivazione di Palazzo Chigi", ha inviato, a spese del contribuente, 4milioni di lettere che spiegavano le (buone, secondo loro) ragioni del SI agli elettori italiani residenti all'estero. Già dall'intestazione si poteva leggere il primo strafalcione del mittente, ovvero il Comitato referendario 'Basta un sì', che si presentava con l'intestazione: 'bastausi.it'. Ma la gaffe peggiore, segnalata dalla comunità degli "Italkim", i cittadini italiani che abitano in Israele, era contenuta nell'indirizzo, là dove stava scritto: Gerusalemme - Palestina. Colpa dell'Aire, l'anagrafe degli italiani residenti all'estero, si sono subito giustificati da Roma, secondo cui Gerusalemme si troverebbe in Palestina, nonostante siano passati 68 anni e mezzo dalla fondazione dello Stato ebraico.
   Ma chi è l'A.I.R.E.? Un ufficio del Ministero dell'Interno. E chi la gestisce? Ben pagati laureati e diplomati, tra i quali molti informatici perché la gestione è esclusivamente telematica. E qui legittimamente ci s'interroga sul motivo per cui la burocrazia statale sia sempre tanto cieca e stolta, commetta errori madornali che nessuno paga e metta continuamente in imbarazzo una classe politica non particolarmente brillante che, se non altro, ci mette la faccia.
   Dobbiamo ammettere che non è stata una mossa intelligente quella di mettere la "mediocrazia" nella stanza dei bottoni. Il turn-over è avvenuto in modo indolore, non c'è stata nessuna presa della Bastiglia, nessun colpo di cannone. Tutto si è svolto all'interno di quella che i politologi chiamano la «rivoluzione anestetizzante», fondata sull'atteggiamento che induce l'individuo a fare solo cose comunemente condivise, guai a disturbare l'ordine economico e sociale, mai fare nulla che possa metterlo in discussione, la "media" è la norma.
   E dunque, la "mediocrità" è un modello. Così dietro il metaforico sportello, oggi virtuale, ci siamo ritrovati la «Pussy Generation», la generazione fighetta, quella per la quale i vecchi sono un peso, l'identità sessuale è un optional, l'etica del lavoro un pro-forma. Per questi individui in carriera, eterni adolescenti di età compresa tra i 30 e i 45 anni, il superfluo è prioritario e la responsabilità personale, quella "cosa" per cui chi sbaglia paga, non esiste. Immancabilmente, la colpa dei loro errori va a qualcun altro, quando si trovano a dover dare risposte precise se ne lavano le mani: «chiedo al mio responsabile», che a sua volta scarica il barile: «non so cosa dire, lo prescrive la legge».
   Bisogna ammettere che fare i politici con alle spalle un apparato burocratico del genere è doppiamente faticoso. Un fenomeno non italiano, ma comune a tutto l'Occidente. Persino alla moglie del futuro presidente Usa fu messo in mano un discorso ricavato da un copia-incolla di una campagna elettorale precedente.
   Questo è il frutto della Mediocrazia, che consiste nel fare carriera in assenza di requisiti personali, solo stando al gioco, accettando i comportamenti formali, i piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, sottomettendosi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi e spegnendo il cervello. Si tratta, in definitiva, di stare a galla fregandosene del prossimo e aspettando lo stipendio.
   La "governance" ha decretato la morte della politica. In un sistema caratterizzato dalla "governance" l'azione politica viene ridotta a "problem solving": si cerca una soluzione immediata a un problema immediato, ma manca una vera "visione" di lungo termine fondata su principi comunemente condivisi. In regime di "governance" sia l'operatore che l'utente rimangono incatenati al ruolo di osservatori obbedienti: non è colpa mia, lo dice la legge, non ci si può far niente. Non importa se mi sono laureato con lode e ho avuto la fortuna di vincere un concorso, se sul tabulato A.I.R.E. sta scritto Gerusalemme - Palestina, io copio e incollo, vadano a prendersela con chi ha inserito i dati, il quale, senz'altro, li avrà presi da un'altra parte. E così via. La "governance" è quella forma di gestione neoliberale dello Stato che ci ha fatto scivolare verso un sistema che tendiamo a confondere con la democrazia.
   C'è un rimedio, si può fare qualcosa per interrompere questo circolo vizioso? Non è facile uscire dalla mediocrità. Robert Musil scriveva in "L'uomo senza qualità": «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall'esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Tuttavia cambiare prospettiva si può, pian piano, partendo dai piccoli passi quotidiani, da una presa di coscienza costante e continua, senza farsi incantare dalle sirene dell'informazione.

(CremAscolta, 16 novembre 2016)


Erdogan nomina un nuovo ambasciatore della Turchia in Israele

ANKARA - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha nominato Kemal Okem come nuovo ambasciatore della Turchia in Israele. Il diplomatico si insedierà a Tel Aviv con effetto immediato. Da parte sua, ieri, 15 novembre il ministero degli Esteri israeliano ha nominato Eitan Na'eh come nuovo ambasciatore dello Stato ebraico in Turchia. La designazione di entrambi gli ambasciatori rientra nell'accordo raggiunto nell'estate scorsa da Turchia e Israele per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, dopo sei anni di gelo diplomatico. I rapporti tra Ankara e Gerusalemme erano stati interrotti in seguito all'incidente che nel 2010 ha coinvolto la nave turca Mavi Marmara, durante il quale erano morti dieci attivisti turchi. Okem è stato consigliere diplomatico del primo ministro Binali Yildirim e dell'ex premier Ahmet Davutoglu.

(Agenzia Nova, 16 novembre 2016)


"Israele, frontiera dell'Europa"

"Siamo il vostro confine con l'islam radicale". Prima intervista italiana all'ambasciatore israeliano Ofer Sachs, ospite domani alla conferenza del Foglio. "Ai nostri vicini ricordiamo che una società aperta è possibile".

di Giulio Meotti

 
Manifestazione a favore di Israele
ROMA - "Il titolo della conferenza del Foglio riflette una realtà che ciascun membro dell'Unione europea dovrebbe sempre tenere a mente". Ofer Sachs è il nuovo ambasciatore di Israele in Italia. Già direttore dell'Istituto israeliano per l'esportazione, domani Sachs sarà a Roma per l'inaugurazione della conferenza del Foglio dal titolo "Israele, frontiera dell'Europa" (Tempio di Adriano, ore 17).
  Saranno presenti ospiti internazionali, come il grande scrittore algerino Boualem Sansal, autore di "2084" già inviso nel suo paese per aver messo piede al festival della letteratura di Gerusalemme e che gli è costato il Prix du Roman Arabe, il premio al maggiore romanzo arabo che si tiene in Francia; l'ex ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni, oggi leader dell'opposizione laburista alla Knesset; la storica di origini egiziane che ha coniato l'espressione "dhimmitudine", Bat Ye'or; Hassan Chalgoumi, imam della banlieue parigina, costretto a muoversi con la scorta per le minacce di morte degli islamisti; Waleed al Husseini, blogger e scrittore palestinese che ha trascorso dieci mesi in una prigione di Ramallah per lo stesso "crimine" per cui i giornalisti di Charlie Hebdo sono stati uccisi ("blasfemia"); monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara; Gabriel Barkay, uno dei più celebri archeologi israeliani; e Bruce Bawer, scrittore e giornalista americano che vive in Norvegia e autore dopo l'11 settembre di libri come "While Europe Slept" sull'asservimento del Vecchio continente.
  "Il titolo della conferenza del Foglio non è più una possibilità, un rischio o un futuro distante", ci dice l'ambasciatore Sachs nella sua prima intervista a un giornale italiano da quando è entrato in carica lo scorso settembre succedendo al lungo mandato di Naor Gilon. "Il medio oriente sta già drammaticamente condizionando la vita dei cittadini europei. Dallo Yemen nel sud, l'Egitto a ovest, l'Iran a est con la guerra in Siria, Israele è una solida roccia di stabilità e l'unica grande democrazia nella regione. Ogni cambiamento nel delicato equilibrio in medio oriente condiziona l'Europa. Israele non è soltanto il confine con l'islam radicale, ma ricorda anche ai paesi della regione che c'è una differenza che si può raggiungere con la democrazia e una vivida società aperta".
  Il senso della conferenza di domani a Roma è sull'importanza per Israele di un'Europa amica. Dal 2006 al 2011, Sachs è stato a Bruxelles proprio per curare i rapporti economici tra Israele e Unione europea: "E' importante per le stesse ragioni di cui sopra", prosegue l'ambasciatore israeliano al Foglio. "Israele ha bisogno dell'Europa. E ne è un forte alleato. Una rapida analisi della profondità della nostra cooperazione dimostra l'importanza dell'Europa per Israele e viceversa. Si inizia dalla scienza fino all'economia, così come gli interessi politici sono tali che l'unica alternativa è rafforzare ancora di più quello che abbiamo in comune. Senza considerare il coordinamento fra Israele ed Europa sulla sicurezza".
  Eppure, oggi in Europa il nome di Israele è sommerso da bugie e offese della peggior specie. "La mia spiegazione in breve è l'ignoranza. Viviamo in un'epoca di messaggi rapidi e brevi. La gente non si fa domande e cerca affermazioni da marketing. Gli ultimi eventi all'Unesco (due risoluzioni dell'agenzia Onu per la cultura e la scienza che hanno negato le radici ebraiche della città santa, ndr) sono un buon esempio. Lasciando stare l'inclinazione di troppi paesi a non affrontare la maggioranza automatica dei paesi arabi, sostenere la distorsione della storia, della scienza e dell'archeologia non è altro che ignoranza. Lo vediamo ogni giorno avendo a che fare con la delegittimazione di Israele".
  In un medio oriente che viene giù, fra settarismi, guerre civili e fallite primavere arabe, cosa ha Israele da offrire? "Lo stato ebraico è un paese con numerose sfide e ci vorrà ancora molto tempo per venirne a capo. Eppure, Israele è un miracolo. Il successo israeliano di aver creato una democrazia forte e dinamica assieme all'integrazione di milioni di immigrati è impressionante senza ombra di dubbio. Negli ultimi trent'anni, l'economia israeliana è stata stupefacente: costante calo della disoccupazione, crescita del prodotto interno lordo e un sistema di eco-innovazione in molti settori, medicina, agraria, rifiuti, spazio, cyber e molto altro ancora. Israele è un paese che fa intravedere un futuro positivo ai nostri giovani e questo non deve essere considerato come scontato".

(Il Foglio, 16 novembre 2016)


Religiosi ebrei si oppongono alla legge contro gli altoparlanti delle moschee

Un ministro di 'Torah Unita' annuncia la sua opposizione alla proposta

Gerusalemme - Minareto della moschea Al-Aqsa
GERUSALEMME - Se il Parlamento israeliano non dovesse approvare la proposta di legge governativa di limitare il volume degli altoparlanti delle mosche da cui i muezzin chiamano alla preghiera, lo si dovrà anche all'opposizione dei partiti religiosi ebraici. Contro l'iniziativa - che ha subito visto le critiche dei deputati arabi israeliani - si è infatti espresso, suscitando qualche sorpresa, il ministro della sanità Yakov Litzman, esponente di spicco di 'Torah Unita' partito religioso presente nella coalizione di governo del premier Benyamin Netanyahu. Litzman ha spiegato la sua contrarietà alla legge - appoggiata invece dal premier - invocando le similarità tra le chiamate del muezzin e quelle che annunciano l'ingresso di shabbat, il riposo sabbatico ebraico.

(ANSAmed, 16 novembre 2016)


Humus, amore e ... fantasia: sguardi sul cinema d'Israele

Pitigliani Festival da sabato al 24 novembre. Le nuove produzioni tra Tel Aviv e dintorni.

di Stefania Ulivi

ROMA - La ricetta, come per la Coca Cola, è segreta. Almeno quella del vero hummus, la popolare salsa mediorentale a base di ceci che il regista israeliano Oren Resenfeld ha scelto come protagonista del suo film, Hummus! The Movie. Non un capitolo della food-mania che ha contagiato l'intero pianeta, piuttosto un viaggio nel multiculturalismo d'Israele di cui «l'hummus è il comune denominatore», sostiene l'autore. Protagonisti sono infatti la musulmana Suheila al-Hindi, unica imprenditrice donna all'interno dell'antico mercato di Acri in Galilea. O Olivier, un monaco benedettino che vive nel villaggio arabo-cristiano di Abu Gosh così come Abu Shukri, proprietario del più celebre ristorante di hummus del luogo, che sostiene che la salsa è solo una cosa da uomini. E, ancora, Jalil Dabit, figlio di ristora tori e appassionato di rock che ha lanciato una nuova attività con un socio israeliano a Berlino e Aluf Abir, rapper nato in Giamaica, nome d'arte Nigel the Admor, autore della popolare canzone «Hummus makes you stupid». Sarà questo film a chiudere il 24 novembre il Pitigliani Kolno'a festival diretto da Ariela Pattielli e Dan Muggia, in programma da sabato.
   Un'occasione, alla XI edizione ( che si terrà, oltre che alla Casa del cinema e al Centro ebraico di via Arco de' Tolomei 1, anche al Maxxi di via Guido Reni), per fare il punto sulla produzione cinematografica israeliana e di argomento ebraico. Si comincia con un'opera prima, One week and a day di Asaph Polonsky, premiato come miglior film israeliano al festival di Gerusalemme.
   Tra gli autori più interessanti, Eytan Fox, che molti associano a Pedro Almodòvar, di cui sarà presentata la commedia musicale Cupcakes, storia di un gruppo di amici appassionati dell'Eurovision Song Contest che, nell'anno della prima partecipazione di Israele al festival, per scherzo decide di incidere un brano che verrà scelto per rappresentare il paese nella competizione. Tra le commedie anche Un appuntamento per la sposa della regista Rama Burshtein che riesce a far sorridere sul tema dei matrimoni combinati tra gli ultraortodossi.
   In programma anche Il figlio di Saul con cui il regista ungherese Làszlò Nemes ha trionfato agli Oscar e ai Golden Globe (statuetta come miglior film straniero) raccontando l'inferno del lager attraverso il protagonista, membro del Sonderkommando di Auschwitz, formato da ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri.
   L'omaggio di questa edizione della rassegna è per Ronit Elkabetz, regista e sceneggiatrice scomparsa in aprile.

(Corriere della Sera - Roma, 16 novembre 2016)


Missione in Israele del Rettore di Ca' Foscari

VENEZIA - Missione in Israele del Rettore di Ca' Foscari, Michele Bugliesi, per consolidare e ampliare gli accordi in corso con Tel Aviv University e Hebrew University per progetti di mobilità e scambio per studenti e docenti nelle diverse aree scientifico-disciplinari dell'Ateneo.
La visita del Rettore è proseguita con l'incontro con l'Ambasciatore italiano a Tel Aviv Aviv Francesco Maria Calò.
Gli accordi istituzionali fra Ca' Foscari e gli atenei israeliani confermano la vocazione internazionale di Ca' Foscari e l'approccio interdisciplinare e trasversale alla didattica.

(Ca' Foscari, 16 novembre 2016)


Antisemitismo - L'ombra di Lutero

di Federico Vercellone

 
Con l'approssimarsi di un anniversario importante come quello dei Cinquecento anni della Riforma con l'affissione da parte di Lutero delle 95 tesi, nell'autunno del 1517, sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, si riapre un capitolo fondamentale della formazione della modernità. L'autonomia del fedele nell'approccio alle Scritture e la centralità di Cristo come motivo centrale della fede al di là della mediazione ecclesiale costituirono una potente spinta al ritorno ai motivi ispiratori del cristianesimo delle origini.
   Nondimeno nessun passaggio storico è privo di macchie. E questo vale anche per l'insegnamento di Lutero come testimonia il suo atteggiamento di profonda avversione nei confronti degli ebrei foriero di conseguenze tenebrose sino al nazionalsocialismo. È quanto ci rammenta il libro di Thomas Kaufmann, professore di Storia della chiesa presso la Facoltà teologica di Göttingen, Gli ebrei di Lutero recentemente edito dalla Claudiana.
   A un atteggiamento di iniziale tolleranza, testimoniata dallo scritto giovanile Gesù Cristo è nato ebreo del 1523 fa seguito una prassi apertamente antisemita che si riflette in particolare nello scritto Degli ebrei e delle loro menzogne del 1523, risalente dunque all'ultima fase dell'attività del grande Riformatore. Proprio l'uomo che aveva guardato con il massimo interesse alla Bibbia ebraica a scapito della Vulgata latina si scaglia contro gli ebrei rei di non aver visto in Gesù il Messia annunziato dall' Antico Testamento.
   In Degli ebrei e delle loro menzogne Lutero giunge persino ad auspicare il rogo delle Sinagoghe in quanto gli ebrei sarebbero ineluttabilmente posseduti dal male. Nell'attesa del giubileo della Riforma è quanto mai benvenuta da parte di un editore protestante l'edizione di un volume molto documentato che insegna a distinguere il grano dal loglio che inficia uno dei grandi eventi generatori della modernità, del sorgere di un'etica della responsabilità e dell'autonomia dell'individuo.

(La Stampa, 16 novembre 2016)


Hamas nomina nuovo leader di Gaza. Un passo verso l'Iran

Hamas ha nominato il nuovo leader politico di Gaza il quale andrà a sostituire Ismail Haniyeh, destinato con molta probabilità a sostituire a sua volta il leader supremo del gruppo terrorista, Khaled Mashaal. Si tratta di Imad al Alami, uomo molto vicino alle posizioni di Iran e Siria dove ha vissuto per molto tempo.
Uomo schivo e poco propenso ad apparire in pubblico, Imad al Alami è una figura sconosciuta ai più ma non al Mossad che su di lui ha un corposo dossier dal quale emerge che il nuovo capo di Hamas a Gaza ha strettissimi rapporti con Teheran e Damasco e che potrebbe essere la figura destinata a portare i terroristi palestinesi al definitivo riavvicinamento alle posizioni iraniane dopo che Hamas se ne era allontanato prendendo posizione contro Bashar Al-Assad....

(Right Reporters, 16 novembre 2016)


Gentiloni minaccia querele: non c'entriamo con la gaffe delle buste inviate a Gerusalemme

La Farnesina è estranea alla vicenda delle lettere per spiegare il quesito referendario inviate agli italiani residenti a Gerusalemme con l'indicazione di "Palestina" come nazione ed è pronta a querelare chi associa il Ministero degli Affari esteri alla vicenda. «Non so da dove derivi questa gaffe - ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni dopo una serie di incontri a Bruxelles -. II Ministero ha già chiarito che chiunque associ la Farnesina a questa che, se volete, potete chiamare gaffe ma forse è anche peggio, sarà querelato. Perché la Farnesina ed il Ministero degli Affari esteri non hanno nulla a che fare con questi indirizzi. E non sono neanche l'istituzione italiana a cui ci si rivolge per chiedere questi elenchi. Penso che il lavoro che fa il Ministero degli affari esteri può essere commentato in tanti modi, ma accuse palesemente false e ridicole non le possiamo accettare».
In mattinata, una nota ministeriale aveva sottolineato che negli elenchi elettorali italiani «non figura la parola Palestina».

(Avvenire, 16 novembre 2016)


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