Notizie 16-30 novembre 2018
Israele, ritrovato l'anello di Ponzio Pilato
Il gioiello era stato ritrovato 50 anni fa ma solo ora, grazie a macchine speciali, si è potuta decifrare la piccola iscrizione col nome del proprietario.
di Paolo Rodari
Il piccolo anello venne trovato cinquant'anni fa nel complesso archeologico dell'Herodion, vicino a Betlemme in Cisgiordania. E su di esso oggi, grazie al lavoro di una speciale macchina messa a disposizione dai laboratori delle Antichità israeliane, vi è stato decifrato un nome, quello di Ponzio Pilato. Si tratta del governatore romano che governò la regione fra il 26 e il 36 DC e che secondo il Vangelo guidò il processo a Gesù e ne ordinò la crocefissione?
Secondo quanto ha dichiarato al quotidiano Haaretz il professor Danny Schwartz, l'eventualità è tutt'altro che peregrina: «Quel nome - dice - era raro nell'Israele di quei tempi. Non conosco nessun altro Pilato di quel periodo e l'anello mostra che era una persona di rango e benestante».
L'anello, e con lui diversi altri oggetti, fu rinvenuto negli scavi che hanno avuto luogo nel 1968/9, dopo la Guerra dei sei giorni, condotti da Gideon Forster dell'Università ebraica di Gerusalemme in vista dell'apertura ai visitatori della Tomba e del Palazzo di Erode. Ma solo di recente il direttore del sito Roi Porat ha chiesto agli studiosi di pulire l'anello ed esaminarlo: richiesta che ha portato a scoprire l'effigie di un vaso di vino sovrastata da una scritta in greco tradotta appunto con "appartenente a Pilato".
L'anello è di bronzo, non di particolare raffinatezza e quindi con ogni probabilità di uso quotidiano. Secondo l'opinione di alcuni studiosi riportata sull'Israel Exploration Journal il politico romano potrebbe averlo avuto al dito quando compì il famoso gesto descritto dai Vangeli di lavarsi le mani e di ordinare, riluttante, la crocifissione di Gesù.
Se non è stato possibile ricostruire l'epoca in cui l'anello è stato forgiato, l'oggetto è stato però scoperto in un giardino costruito su un portico costruita non oltre il 71 dC, insieme a "una miriade di altri reperti": compresi vetri, ceramiche, manufatti metallici e un gran numero di monete risalenti all'epoca della Prima Rivolta Ebraica.
(la Repubblica, 30 novembre 2018)
Israele intercetta volo iraniano civile con armi destinate a Hezbollah
Un aereo cargo iraniano con a bordo armi avanzate, destinate al gruppo sciita libanese Hezbollah, è stato intercettato mentre volava da Teheran a Beirut, nella giornata di giovedì 29 novembre, poche ore prima dei bombardamenti israeliani in Siria, vicino a Damasco e nel Sud del Paese, contro postazioni di militanti filoiraniani.
E' quanto riferisce il quotidiano israeliano The Times of Israel, il quale, in base ai dati pubblici in relazione al traffico aereo, il volo numero QFZ-9964 della Fars Air Qasem è partito dalla capitale iraniana dopo le 8:00 del mattino locali, sorvolando l'Iraq e la Siria, per poi atterrare presso l'aeroporto internazionale Rafik Hariri di Beirut, qualche ora più tardi. Successivamente, lo stesso velivolo, che era un Boeing 747, si è diretto a Doha, in Qatar, prima di fare ritorno a Teheran. Secondo quanto annunciato dalle forze di difesa israeliane, tale aereo ha trasportato armi a Beirut.
La sera di giovedì 29 novembre, il tenente colonnello israeliano Avichay Adraee ha scritto su Twitter che "il Libano dovrebbe impedire agli aerei iraniani di portare materiale da guerra all'interno del proprio territorio nazionale". Lo stesso giorno, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l'Iran, Brian Hook, ha riferito che Washington è in possesso di prove in merito al fatto che l'Iran sta aiutando Hezbollah a costruire siti missilistici. "L'Iran deve smettere di testare e di produrre missili balistici, di lanciare e sviluppare missili nucleari e di supportare milizie in Libano, Siria, Iraq, Bahrein e Yemen", ha riferito Hook.
Gli ufficiali americani ed israeliani, da lungo tempo, sostengono che l'Iran stia fornendo armi e munizioni ad Hezbollah in Libano, attraverso voli civili come quello della Fars Air Qasem del 29 novembre. Tali voli, generalmente, invece di andare direttamente in Libano, fanno fermate in Siria per scaricare il materiale. La Fars Air Qasem, già in passato, è stata identificata essere una delle compagnie aeree coinvolte nel trasporto di sistemi militari per le forze armate iraniane. Nonostante le sanzioni americane abbiano colpito diverse compagnie, per il momento, la Fars Air Qasem ne è rimasta esclusa.
Nel corso del mese di ottobre, spiega il quotidiano israeliano, era stato riportato che la Fars Air Qasem aveva trasferito a Hezbollah componenti GPS avanzate, che avrebbero permesso al gruppo di migliorare la precisione dei razzi guidati e, quindi, aumentare la minaccia nei confronti di Israele. Un altro aereo della Fars Air Qasem sarebbe altresì stato bombardato a settembre dalle forze israeliane, mentre stava trasportando materiale destinato al gruppo sciita libanese.
Hezbollah, in arabo "Partito di Dio", è un'organizzazione paramilitare sciita libanese nata nel 1982 che si è trasformata, nel tempo, in un partito politico locale. Secondo alcune fonti, i suoi militanti dovrebbero essere in possesso di un arsenale più grande di quello dell'esercito libanese. Alcuni Paesi considerano un gruppo terroristico soltanto l'ala militare di Hezbollah, facendo una distinzione con il partito politico. Tale distinzione è stata effettuata finora dalla Gran Bretagna che, dal 2008, ha bandito soltanto l'ala militare di Hezbollah. Gli Stati Uniti, al contrario, non effettuano una simile separazione. Da parte sua, l'Unione Europea ha bandito l'ala politica di Hezbollah nel 2012, in seguito ad un attacco contro i membri di un'organizzazione israeliana in Bulgaria, in cui morirono 5 israeliani e un bulgaro musulmano.
Secondo Lina al-Khatib, direttrice del programma per il Medio Oriente e il Nord Africa nella think tank Chatham House, l'Iran ha iniziato a contrabbandare armi in Libano su aerei civili ancor prima dello scoppio della guerra civile in Siria, nel marzo 2011. Tuttavia, secondo al-Khatib, il traffico illegale si è intensificato proprio con l'inizio del conflitto siriano, in seguito al quale l'alleato dell'Iran, Hezbollah, ha rafforzato il controllo indiretto sull'aeroporto internazionale di Beirut. Il monitoraggio in questione, definito indiretto, è possibile grazie all'appartenenza o alla fedeltà del personale aeroportuale al gruppo terroristico. L'aviazione libanese ha negato le accuse di coinvolgimento nel traffico di armi in Siria, sostenendo che il proprio aeroporto internazionale è utilizzato solo a scopi civili.
(Sicurezza Internazionale, 30 novembre 2018)
Le vittorie diplomatiche di Israele mostrano la giustezza della linea politica di Netanyahu
di Ugo Volli
| |
Benjamin Netanyahu a colloquio con il Sultano Qaboos bin Said.
|
Nei giorni scorsi è venuto a Gerusalemme il presidente della Repubblica Ceca, che ha parlato con forza in sostegno di Israele e ha iniziato, nonostante le pressioni contrarie della Germania, un processo che dovrebbe portare al trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Per ora i cechi aprono un consolato e un centro di rappresentanza, che poi si spera diventi la nuova ambasciata. Per chi ricorda che cosa è stata Praga per l'ebraismo europeo, dal Maharal a Kafka, questa vicinanza è significativa. Quasi contemporaneamente a questa visita c'è stata quella inaspettata del presidente del Ciad, uno stato africano a maggioranza musulmana, che non aveva rapporti diplomatici con Israele, e che ha deciso di aprirli, con un regolare scambio di ambasciatori invitando Netanyahu in visita. E' davvero una visita storica, come ha detto il primo ministro israeliano. Sembra fra l'altro che dopo il Ciad sarà la volta del Sudan, altro stato islamico, in passato pesantemente compromesso con l'Iran, che è in procinto di rompere il fronte del boicottaggio. Si è anche alla vigilia dell'apertura di regolari rapporti diplomatici fra Israele e Bahrein, il primo stato della penisola arabica a fare questa scelta.
Perfino Haaretz, il giornale di estrema sinistra nemico giurato di Netanyahu e dei suoi governi, ha dovuto ammettere che la linea diplomatica del primo ministro funziona benissimo. La normalizzazione dei rapporti con Israele è la parola d'ordine di tutti i paesi arabi, anche di quelli come il Qatar più islamisti e ideologicamente antisraeliani, che si rendono conto di non poter non fare i conti con Israele per difendere i propri interessi nella regione. Naturalmente non si tratta di un miracolo, i nemici restano nemici. Semplicemente hanno perso la speranza di poter spiantare il "regime sionista" in tempi brevi o medi, e sanno che la politica si fa con chi c'è. L'esempio paradigmatico di questi rapporti è quello con la Turchia: Erdogan è certamente ostile a Israele e se potesse ne consegnerebbe il territorio ai suoi cugini ideologici di Hamas; ma non può e fra una sfuriata e l'altra deve cercare degli accordi. Anche Israele del resto non ama i regimi islamisti, né le dittature militari, né i regni corrotti, ma sa di dover fare i conti con l'Egitto e la Turchia, l'Arabia Saudita e la Cina. Del resto, anche rispetto all'Europa, l'atteggiamento israeliano è pragmatico: se l'Austria o l'Ungheria possono aiutare politicamente, Israele cerca di avere buoni rapporti con quei governi, senza che questo voglia dire essere d'accordo con le loro politiche interne. E anche con governi democratici ma più o meno nemici di Israele, come la Francia, per fare un esempio fra i tanti possibili, Israele si sforza di trovare dei terreni di intesa e scambi politici.
E' la politica, certamente necessaria a un piccolo stato con grandi nemici. Non è una novità, Ben Gurion e Golda Meir si trovarono a cercare il sostegno di Stalin, dello Scià di Persia, del Sudafrica, e anche a passar sopra al passato, e che passato, per stringere rapporti diplomatici con la Germania, firmando il primo accordo di riparazioni di guerra nel 1952 e stabilendo piene relazioni diplomatiche nel '65, solo vent'anni dopo la Shoah. Netanyahu è molto bravo e lucido in questa politica, non si fa illusioni né su Putin né sull'Arabia Saudita (figuriamoci su Mogherini o Macron). Ma cerca di tutelare gli interessi di Israele sul
Gli assalti al confine, le bombe
volanti, i missili sollecitano una risposta immediata, che Netanyahu ha scelto di non fare, provocando le dimissioni del ministro della difesa Liberman. Ma solo uno sciocco può pensare che questa scelta sia dovuta a "vigliaccheria".
|
piano dei fatti, delle cose che contano, non dell'orgoglio o della simpatia.
In questo quadro vanno viste anche le scelte su Gaza. E' chiaro che gli assalti al confine, le bombe
volanti, i missili sollecitassero una risposta immediata, che Netanyahu ha scelto di non fare, provocando le dimissioni del ministro della difesa Liberman. Ma solo uno sciocco può pensare che questa scelta sia dovuta a "vigliaccheria". Pensate se oggi ci fosse in atto un'operazione militare di terra a Gaza, o se si fossero compiuti altri atti (bombardamenti che per quanto mirati avrebbero provocato molte vittime, omicidi mirati di capi terroristi che avrebbe provocato altri razzi e altra escalation militare). Oggi probabilmente lo scontro sarebbe ancora in corso, avremmo avuto decine se non centinaia di vittime israeliane fra militari e civili colpiti dai razzi; e certamente migliaia di morti a Gaza, fra cui inevitabilmente civili e donne e bambini, per quanto Israele si sforzi sempre di evitarli, con la speculazione conseguente che abbiamo conosciuto per esempio nel 2008 e nel 2014. I rapporti diplomatici faticosamente costruiti con una parte crescente del mondo arabo e africano sarebbero stati lacerati prima di consolidarsi. Le piazze di mezzo mondo sarebbero state percorse da cortei antisemiti gremiti e significativi (non come il fallimento che c'è stato sabato scorso a Milano). Certo, Israele avrebbe dato "una lezione" ai terroristi di Hamas. Una lezione che può sempre dare, visto che i rapporti di forza sono massicciamente a suo favore. Ma chi avrebbe vinto, nel caso si fosse seguita questa strada, sarebbe stato l'Iran, che avrebbe di nuovo isolato Israele e magari sarebbe riuscito a impantanare un parte importante dell'esercito israeliano nella repressione della guerriglia a Gaza.
Insomma, Netanyahu ha avuto ragione nella sua scelta e oggi lo si vede benissimo. Perché sul piano internazionale e in particolare in Medio Oriente, è vero che sono rispettati i forti e non certo quelli che Machiavelli chiamava "profeti disarmati". Ma nessuno è più forte di chi, avendo le armi e sapendole usare, tiene i nervi freddi e decide lui, secondo un'analisi lucida dei propri interessi, quando è il caso di andare in combattimento. E il successo diplomatico mostra come Israele è visto nella regione come un soggetto forte e disciplinato, lucido e razionale, che non si lascia andare a reazioni emotive ma calcola con attenzione le sue mosse.
(Progetto Dreyfus, 29 novembre 2018)
Salvini sarà in Israele a dicembre
Il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini sarà in Israele l'11 e il 12 dicembre prossimi, dove incontrerà il premier Benyamin Netanyahu. Lo confermano fonti diplomatiche italiane secondo cui Salvini dovrebbe vedere anche il presidente israeliano Reuven Rivlin. Il ministro - alla sua prima visita come rappresentante del governo - incontrerà al suo arrivo a Gerusalemme la comunità ebraica di origine italiana e subito dopo visiterà Yad Vashem, il Museo della Shoah.
Il legame strategico
In serata ci sarà una cena in suo onore organizzata dal viceministro israeliano Michael Oren. Il 12 dicembre Salvini vedrà Netanyahu e a seguire il ministro degli Affari strategici Gilad Erdan. Prima di ripartire per l'Italia, con tutta probabilità, l'incontro con Rivlin. Nell'ambito della visita Salvini vedrà anche una rappresentanza del mondo industriale israeliano, in particolare quello legato al settore dell'automotive. L'arrivo di Salvini - secondo le stesse fonti - è considerato un momento importante per un sempre maggiore legame strategico tra i due paesi, anche in vista del vertice tra i due governi in programma il prossimo anno.
(Il Messaggero, 30 novembre 2018)
Quei cenni di rivolta dei lavoratori nell'Iran piegato dalla crisi
Dalle fabbriche presidiate dagli operai alle proteste degli insegnanti, l'Iran è scosso da un malcontento diffuso. Con il dispiegarsi degli effetti delle sanzioni, l'ondata di agitazioni è destinata a intensificarsi. Il riformista Rouhani corre ai ripari rafforzando l'intervento dello Stato.
di Marina Forti
Un'acciaieria presidiata dai lavoratori, uno zuccherificio fermo da venti giorni per sciopero, gli insegnanti in agitazione in tutto il Paese: l'Iran è percorso nelle ultime settimane da un'ondata di proteste che coinvolge varie categorie sociali. Segno del profondo malessere diffuso nel Paese, un senso di incertezza aggravata dalle nuove sanzioni imposte dagli Stati Uniti contro la Repubblica Islamica.
Alcune delle ultime proteste sono arrivate anche sulle pagine dei giornali. Una è quella della Haft Tappeh Sugarcane Agro-Industry Company, stabilimento che lavora la canna da zucchero, un migliaio di dipendenti alle porte della città di Sush, nell'Iran sud-occidentale. Nelle ultime tre settimane i lavoratori sono andati più volte in corteo a protestare davanti agli uffici del governatore provinciale: non ricevono i salari ormai da parecchi mesi, chiedono il pagamento degli arretrati. Hanno manifestato perfino durante la preghiera centrale del venerdì - ogni città iraniana ha un predicatore ufficiale, di solito espressione del clero più vicino al sistema politico della Repubblica islamica.
All'ultimo corteo, il 20 novembre, sotto gli uffici del governatore erano presenti anche le famiglie degli
operai. Iran, quotidiano governativo, cita la moglie di un lavoratore: «È perché abbiamo la pancia vuota», spiega. Dopo mesi senza stipendio le famiglie non sanno più come tirare avanti. La loro protesta ha suscitato una generale simpatia e grande risalto sui social media; gruppi di studenti in tutto il Paese hanno solidarizzato. Finalmente, il governatore della provincia del Khuzestan ha promesso di rivolgersi al ministro delle Finanze per trovare una soluzione.
Intanto, nonostante le proteste siano state sempre pacifiche, alcuni lavoratori sono stati arrestati - le autorità confermano quattro arresti - tra cui una giornalista che seguiva gli eventi: così ora i cortei operai chiedono anche la loro scarcerazione.
Non lontano da Sush, nella città di Ahvaz sono in rivolta invece gli operai di un'acciaieria, la National Steel Industrial Group. Il 10 novembre hanno scioperato per chiedere il pagamento di due mesi di salari arretrati. Qualche giorno dopo sono tornati a bloccare il lavoro; il 14 novembre sono andati in corteo davanti agli uffici dei due deputati eletti nella circoscrizione di Ahvaz, e poi alla sede del governatore. Temono per il proprio posto di lavoro: dicono che da qualche tempo l'azienda non ordina le materie prime necessarie, come se avesse deciso di chiudere. Così, «anche se ci pagassero all'istante gli arretrati, non metteremo fine alla nostra protesta finché non vediamo tornare le materie prime per riprendere la produzione», ha detto un manifestante, citato in modo anonimo dall'agenzia di stampa Ilna, vicina al Partito del lavoro, una corrente riformista. Il gruppo Nsig occupa quattromila operai in quattro diversi
Dopo mesi senza stipendio le famiglie non sanno più come tirare avanti. La loro protesta ha suscitato una generale simpatia e grande risalto sui social media; gruppi di studenti in tutto il Paese hanno solidarizzato.
|
stabilimenti e di recente è stato rilevato da Bank Melli, banca di proprietà dello Stato, una sorta di salvataggio semi-pubblico per un'azienda in crisi.
Lo zuccherificio Haft Tappeh invece sembra un caso di gestione fraudolenta. Già un anno fa, in dicembre, i lavoratori avevano scioperato denunciando cinque mesi di stipendi non pagati; la protesta era finita quando l'azienda ha versato un mese arretrato e promesso il resto in tempi brevi. Poi però non ha mantenuto l'impegno; anzi, secondo notizie di stampa il proprietario dell'azienda ora è in fuga. La cosa suscita particolare indignazione perché lo zuccherificio Haft Tappeh è stato privatizzato nel 2015; il nuovo proprietario l'ha pagato meno di 2 milioni di dollari e ha anche ricevuto dallo stato 800 milioni di dollari in crediti agevolati per rilanciare l'attività. Ma la sua gestione è stata fallimentare.
Sull'identità del proprietario circolano notizie contraddittorie. Tempo fa era circolato il nome del giovane e inetto rampollo di una famiglia proprietaria di una holding con diverse attività e ben ammanicata con il potere. Di recente alcuni giornali hanno scritto invece che si tratta di un nipote del primo vicepresidente della repubblica Ishaq Jahangiri, esponente di primo piano dello schieramento riformista: tanto che Jahangiri è stato costretto a smentire pubblicamente, denunciando una guerriglia mediatica contro il governo.
Le acciaierie di Ahvaz o lo zuccherificio Haft Tappeh sono più volte finiti sulle pagine dei giornali ma non sono casi unici. Al contrario: da un paio d'anni in Iran le notizie di scioperi e proteste sono ricorrenti. Operai dell'industria, impiegati pubblici, pensionati, minatori, molto spesso per rivendicare stipendi o pensioni in cronico ritardo. Spesso si tratta di casi circoscritti, localizzati, questa o quella azienda o ufficio: così restano frammentari e anche per questo passano inosservati.
A volte invece le proteste arrivano a fare notizia, come l'estate scorsa quando uno sciopero dei camionisti ha preso ampiezza nazionale. O come quando sono scesi in campo gli insegnanti, protagonisti di un movimento che nella scorsa stagione si era esteso a numerose città iraniane: ora è ripreso, appena un mese dopo l'inizio del nuovo anno scolastico, con una giornata di sciopero in ottobre e poi varie giornate di assemblee con gli studenti. A volte le proteste vengono enfatizzate dall'opposizione conservatrice, per attaccare il governo del presidente Hassan Rouhani e accusarlo di incapacità, o di favorire le élites e aver perso il contatto con il Paese reale. Va detto che gli insegnanti, al contrario, sono tacciati dai media conservatori di creare disordine (il loro sindacato è tradizionalmente vicino ai riformisti) e anche tra di essi si contano già numerosi arresti.
L'ondata di agitazioni sembra destinata a intensificarsi. In settembre il parlamento iraniano ha diffuso un rapporto sulla situazione sociale comprensibilmente allarmato: afferma che la disoccupazione galoppante minaccia la stabilità del Paese. «Un'inflazione intorno al 10% e un tasso di disoccupazione che supera il 12% sono la principale causa delle recenti proteste», afferma il documento. E avverte: se la situazione economica è la principale molla dei conflitti sociali visti finora, «non osiamo immaginare l'intensità delle reazioni di fronte a una impennata di inflazione e al crollo dell'occupazione» (riprendo dall'agenzia Reuter, 23 novembre).
Il fatto è che l'incertezza del futuro è destabilizzante e il primo effetto delle nuove sanzioni decretate dagli Stati Uniti contro l'Iran è stato un drastico rallentamento delle attività economiche. Il valore del rial iraniano è crollato dall'inizio dell'anno, ancor prima che Trump annunciasse il ritiro dall'accordo sul
nucleare: in gennaio era cambiato a 40mila rial per un dollaro, in maggio a 60mila, nell'estate ha toccato quota 120 mila. Ogni prodotto d'importazione è rincarato di conseguenza e anche l'import di materie
Centinaia di aziende hanno chiuso. Le case automobilistiche straniere sono state le prime ad andarsene: le francesi Peugeot e Citroen, la coreana Hundai, la giapponese Mazda, che avevano avviato grandi investimenti dopo la firma dell'accordo sul nucleare, hanno lasciato l'Iran nei mesi scorsi per non incorrere in sanzioni secondarie.
|
prime o componenti per l'industria.
Poi sono arrivate le sanzioni: da settembre colpiscono l'acquisto di dollari e oro, e l'industria automobilistica; dal 4 novembre anche petrolio e gas, voci principali dell'export iraniano. L'impatto delle sanzioni resta da valutare, resta da vedere in che misura le altre nazioni firmatarie dell'accordo sul nucleare, Europa in testa, riusciranno a mantenere aperti canali commerciali con l'Iran.
Intanto però centinaia di aziende hanno chiuso. Le case automobilistiche straniere sono state le prime ad andarsene: le francesi Peugeot e Citroen, la coreana Hundai, la giapponese Mazda, che avevano avviato grandi investimenti dopo la firma dell'accordo sul nucleare, hanno lasciato l'Iran nei mesi scorsi per non incorrere in sanzioni secondarie, quelle che gli Stati Uniti impongono a imprese di Paesi terzi se restano in affari con l'Iran. Oltre 300 aziende di ricambi per auto e motori hanno chiuso di conseguenza. Gli investitori stranieri si sono defilati, le imprese iraniane sono in difficoltà.
In agosto l'allora ministro del lavoro Ali Rabei aveva detto che circa un milione di iraniani rischiavano di perdere il lavoro entro la fine dell'anno in conseguenza della pressione economica provocata dalle sanzioni degli Stati Uniti. La crisi colpisce in particolare i giovani, per cui la disoccupazione supera il 25% secondo stime ufficiali, ma molti analisti scommettono che sia ben più alta, e tocca punte del 50% tra i giovani con buoni titoli di studio. In un Paese dove due terzi della popolazione ha meno di trent'anni ed è ben istruita, un'intera generazione si sente defraudata del futuro.
Con un quadro simile, il presidente Rouhani ha adottato una linea di gestione della crisi. Lo dimostra il recentissimo rimpasto di governo: in agosto sono stati dimessi i ministri dell'Industria e Commercio, quello del Lavoro e Welfare, poi quelli dell'Economia e dello Sviluppo urbano, ovvero i quattro ministeri chiave per la politica economica.
Dopo alcune settimane di trattative con il parlamento, che deve votare la fiducia a ogni singolo nome proposto, una nuova squadra di ministri si è insediata. Con l'occasione Rouhani ha annunciato le sue priorità per far fronte alle sanzioni: garantire l'approvvigionamento di beni essenziali; combattere la corruzione; garantire i servizi sociali; stabilizzare l'occupazione, riformare il sistema bancario, prevenire l'iperinflazione, assicurare liquidità alle imprese, affrontare la crisi degli alloggi. In altre parole, un governo che puntava sulle riforme strutturali di mercato per stimolare gli investimenti privati sia interni che stranieri, ora si è rassegnato a intensificare l'intervento dello Stato.
Molti fanno paralleli con gli anni '80, ai tempi della guerra Iran-Iraq, quando il governo iraniano aveva saputo evitare penurie e accaparramenti. «La nostra priorità è creare lavoro», ha dichiarato giorni fa il vicepresidente Jehangiri, ripreso da numerosi media di Stato: «Non permetteremo che imprese produttive cadano nella stagnazione a causa delle sanzioni».
Intanto gli operai dello zuccherificio Haft Tappeh e delle acciaierie di Ahvaz aspettano i loro salari, e tanti altri come loro: non sarà una sfida facile.
(eastwest.eu, 27 novembre 2018)
Lodi: grande successo per la mostra sulla Brigata Ebraica (nonostante le polemiche)
di Ilaria Myr
Sono oltre 500 le persone che, fra il 9 e il 18 novembre, hanno visitato a Lodi, presso l'ex Chiesa dell'Angelo, la mostra "La Brigata Ebraica in Italia e la Liberazione (1943-1945)", a cura di Stefano Scaletta, Cristina Bettin e Samuele Rocca, promossa dal Comune di Lodi con l'ANPI - Comitato Provinciale di Milano - e l'Associazione Centro Studi Nazionale Brigata Ebraica. «È stata un grande successo, soprattutto se si pensa che è durata solo 9 giorni e che durante la settimana era aperta solo tre ore - commenta soddisfatto il vice-sindaco Lorenzo Maggi, che ha fortemente voluto l'esposizione -. Abbiamo avuto tanti studenti anche da Torino, Asti e Lecco; inoltre, sono venuti a visitarla anche il deputato di Forza Italia Maurizio Salini, e persino due professori di Londra, Yael Shamir e Berry Driver, parenti di soldati della Brigata. A dimostrazione del profondo interesse che essa ha suscitato su un tema poco noto».
Nessun impatto negativo, dunque, hanno avuto le polemiche nate dopo l'annuncio dell'inaugurazione della mostra, con la decisione dell'ANPI del lodigiano di declinare l'invito perché "l'iniziativa appare esplicitamente promossa da istituzioni e organizzazioni dello stato d'Israele", né tantomeno la sparuta manifestazione del Fronte Palestina con il supporto del gruppo Memoria antifascista il giorno dell'inaugurazione. In particolare, la posizione dell'ANPI di Lodi aveva suscitato l'indignazione del direttore del Museo della Brigata Ebraica Davide Romano, che aveva definito il comunicato "vergognoso".
«Ringraziamo l'ANPI di Milano per la concessione del patrocinio alla mostra di Lodi - aveva dichiarato Romano - e nel contempo esprimiamo tutta la nostra delusione verso l'ANPI di Lodi che con il suo gesto offende la memoria di quei volontari ebrei sionisti che dall'estero sono venuti a combattere e morire nel nostro Paese per restituirci la libertà e la democrazia».
(Bet Magazine Mosaico, 30 novembre 2018)
La sfida per l'Unesco è dichiarare Israele patrimonio dell'umanità
di Christian Rocca
Il reggae è patrimonio dell'umanità, secondo l'insindacabile giudizio dell'Unesco, l'Organizzazione culturale e scientifica delle Nazioni Unite che per l'occasione si è riunita nell'isola di Mauritius per una settimana (sul sito trovate anche un elenco dei resort consigliati). Il mondo se ne rallegra, del resto chi non ha cantato nella sua vita No Woman No Cry o ballato su Jammin' (per etichetta, qui non si fa nessun cenno a sostanze psicotrope). Già meno entusiasmo suscitano le ultimissime tradizioni culturali che, sempre secondo l'Unesco, necessitano di una salvaguardia urgente da parte della comunità internazionale, tipo la lotta georgiana, la danza matrimoniale della Giordania, un paio di riti del Kazakistan e del Giappone, e poi l'hurling, una specie di hockey celtico (l'Italia, all'asciutto a questo giro, è già tutelata sull'arte della pizza napoletana, sul canto a tenore sardo, sulla dieta mediterranea, sui muretti a secco, sui maestri liutai di Cremona, sulla coltivazione della vite a Pantelleria e sull'opera dei pupi: no, non è il nuovo organigramma del governo).
Il summit di Mauritius pone alcune questioni, anche sovraniste volendo: per esempio perché il reagge sì e la taranta no? E il liscio romagnolo o gli stornelli romani? Perché l'Onu non tutela la grande tradizione della canzone napoletana, compreso lo spin off neo melodico? Forse è solo questione di tempo, magari arriverà anche il tempo della salvaguardia del trap, degli youtuber e probabilmente un giorno celebreremo l'arte di Fedez e dei fashion blogger, #IntangibleHeritage è un hashtag favoloso, quali primari patrimoni immateriali del mondo intero.
La seconda considerazione è più seria. I'Unesco è una delle più screditate agenzie delle Nazioni Unite, negli Anni Ottanta è stata al centro di incredibili e grotteschi scandali per spreco di denaro, corruzione, nepotismo e inefficienza. Nel 1984, gli Stati Uniti ne sono usciti, col presidente Reagan, dopo una serie di scontri con il padre-padrone dell'Organizzazione, il senegalese Amadou-Mahtar M'Bow, il quale d'accordo con le dittature di mezzo mondo aveva approvato il New World Information and Communication Order secondo cui la stampa capitalista e occidentale tendeva a distorcere le notizie provenienti dai Paesi Non Allineati, quasi tutte dittature, falsificando i dati oppure non raccontando degli straordinari successi che questi paesi avevano raggiunto. Una cosa ridicola, specie se si considera che nessuno di quei Paesi aveva una stampa libera. Nel 2003, è stato George W. Bush a far rientrare gli Stati Uniti nell'organizzazione, mentre nel 2011 Barack Obama non è riuscito a fermare l'automatismo, previsto da una legge americana, secondo cui gli Stati Uniti non possono finanziare agenzie Onu che riconoscono la Palestina come membro pieno.
L'Unesco ha una solida tradizione di iniziative antioccidentali e soprattutto anti israeliane, grazie anche al fatto che non è soggetta al potere di veto dei Paesi permanenti del Consiglio di Sicurezza. Gli ultimi sono di due anni fa e dell'anno scorso: quando, tra la tutela di un muretto a secco e la vigilanza sulla pizza Margherita, ha negato i legami con la tradizione ebraica del Muro del Pianto e del Tempio del Monte a Gerusalemme, e poi anche della tomba dei patriarchi a Hebron, luoghi sacri per la religione ebraica ma che per l'Unesco lo sono soltanto per l'Islam. L'America, questa volta con Donald Trump, è uscita dall'Agenzia e anche il precedente governo italiano, dopo un iniziale tentennamento, si è opposto alle risoluzioni antisemite. Ora l'Unesco ha una nuova presidente, l'ex ministro francese Audrey Azoulay, che sta provando a restituire credibilità. Il reggae va certamente nella direzione giusta, ma forse non guasterebbe dichiarare una volta per tutte che anche Israele è un patrimonio dell'umanità.
(La Stampa, 30 novembre 2018)
Riccardo Di Segni: "A Spoleto possedete frammenti importanti e preziosissimi di Talmud"
Ieri pomeriggio, davanti alla folta platea radunata nel salone del Museo Diocesano di Spoleto per assistere all'incontro interreligioso e culturale tra il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni e l'Arcivescovo di Spoleto-Norcia Mons. Renato Boccardo sul tema "Parola e Scrittura: il mondo e la sua interpretazione", inserito nel programma de "il maggio dei libri",il Capo della Comunità ebraica della Capitale ha parlato della copia del Talmud, il testo sacro dell'Ebraismo secondo per importanza solo alla Bibbia, conservato nell'Archivio di Stato di Spoleto.
"A Spoleto il Talmud è conservato - ha dichiarato il Rav Di Segni alla platea stupita - questa mattina all'Archivio di Stato mi hanno fatto vedere dei frammenti di Talmud, scritto nel medioevo su pergamena, senza commenti, con il testo originale. Dopo che questo libro era stato sequestrato, i frammenti erano stati dispersi e come materiale di rilegatura sono stati usati dai notai per farci le copertine dei libri, da qualche anno è in corso una ricerca sistematica negli archivi per tirare fuori queste copertine e scoprire le versioni più antiche del Talmud. Anche perché il Talmud è stato perseguitato, bruciato e sequestrato come dimostra questo uso ed i testi di quell'età sono molto difficili da trovare. Quindi qua a Spoleto possedete frammenti importanti e preziosissimi di Talmud".
(Due Mondi, 30 novembre 2018)
Israele: i lupi attaccano i bambini nel deserto della Giudea
Potrebbe sembrare una notizia inventata invece così non è. Come riporta lo stesso tabloid The Guardian, in estate i casi di attacco di Lupo sono stati dieci e tutti nei confronti di ragazzi e bambini. Gli attacchi sono avvenuti tutti nel deserto della Giudea.
Il Guardian scrive:
Le autorità israeliane avvertono le famiglie con bambini piccoli di prestare particolare attenzione dopo una serie di attacchi di lupo ai campeggiatori nel deserto della Giudea. Dieci incidenti che hanno coinvolto morsi di lupo sono stati segnalati durante l'estate attorno al sito storico di Masada e alla popolare primavera di Ein Gedi. Un certo numero di incidenti ha coinvolto bambini piccoli, portando a temere che un lupo o lupi arabi possano esibire comportamenti predatori.
|
|
E continua:
Gli incidenti nei campeggi e nelle attrazioni iniziarono a maggio, quando un lupo entrò nella tenda di una famiglia in vacanza vicino a Masada. In seguito è tornato a mordere uno dei bambini della famiglia a pochi passi dalla sua tenda. Gli attacchi sono continuati durante l'estate con i due incidenti più recenti verificatisi lo scorso fine settimana, quando tre bambini sono stati morsi in due attacchi separati vicino a Ein Gedi.
|
|
False poi le affermazioni di coloro i quali sostengono che il Lupo non rappresenti una minaccia per l'uomo. Negli ultimi mesi anche in Europa i lupi hanno attaccato più volte essere umani. Nello specifico: il 26 giugno 2018, in Polonia, a Przysłup, nella regione del Podkarpacie. Vittime tre bambini.
Il 14 aprile 2018 nel villaggio di Ust-May, nella regione del Ust-Mayskyi in Russia, dove la vittima è stata Valery Vinokurov. Il 20 febbraio 2018 nell'abitato di Kohangan nella contea di Semirom, nella provincia dell'Isfahan in Iran dove le vittime sono state due. Il 19 gennaio 2018 nel villaggio di Omyt nel distretto di Zarechni, nella regione di Rivne in Ukraine dove la vittima è stata Lydia Vladimirovna di 70 anni. Qualche giorno prima, il 4 gennaio 2018, in Ucraina in un villaggio del distretto di Koropsky, nella regione del Chernihiv dove le vittime sono state Anna Lushchik, Vladimir Kiryanov, Lyubov Gerashchenko, Lina Zaporozhets di età compresa tra i 14 ed i 63 anni.
(acaccia.com, 30 novembre 2018)
Quel missile che mi mancò per pochi centimetri
La testimonianza di un soldato arabo-israeliano: "Ciò che altri chiamano post-trauma, noi invalidi di guerra lo chiamiamo vita".
Nella frazione di secondo che ci volle al missile Kornet per sfiorarmi e passare oltre non mi balenò tutta la vita davanti agli occhi, né pensai a nobili idee come morire per il mio paese. Non pensai nemmeno alla mia famiglia. L'unica cosa che mi passò per la mente fu: "Oh merda!"
Un'ora prima di questo incidente, eravamo impegnati a salvare i nostri feriti da un carro armato che era stato colpito da pesanti bombardamenti. Non dimenticherò mai le urla e lo sguardo sul volto del comandante del carro armato mentre lo tiravamo fuori dal blindato per metterlo sulla barella. Erano le 6.30 del mattino e stavamo cercando di metterci al riparo quando improvvisamente fummo attaccati, presi in un'imboscata dai combattenti della milizia (jihadista libanese) Hezbollah. Sono stato molto fortunato: il missile che hanno sparato contro di me mi ha mancato per pochi centimetri. Ma l'impatto dei missili sul muro dietro di me è stato così forte che sono rimasto seriamente ferito un po' in tutto il corpo. E ho perso una gamba. Pochi minuti prima facevo parte della squadra dei soccorritori, e adesso ero io il ferito che aveva bisogno di essere sgomberato....
(israele.net, 30 novembre 2018)
Il 29 novembre 1947: quando lOnu divise la terra
Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono il piano di spartizione che prevedeva la creazione di due stati nella Terra d'Israele: uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Per gli ebrei significava rinunciare ad un'ulteriore parte della terra che era stata promessa loro dalla Dichiarazione Balfour del 1917 (resa diritto internazionale nel 1922 dalla Società delle Nazioni), eppure dissero di sì. Gli arabi - come potremmo dire? - furono un po' meno entusiasti dell'idea della spartizione.
"Butteremo gli ebrei in mare"
Non che gli ebrei non avessero già fatto esperienza delle violenze arabe. Ad esempio, nel massacro di Hebron del 1929 sessantasette ebrei vennero trucidati e decine di altri selvaggiamente feriti o mutilati. Così, con quella carneficina gli arabi riuscirono a sradicare la più antica comunità ebraica in Terra d'Israele. Poi ci furono i tumulti del periodo 1936-39: più di 400 ebrei assassinati. Gli attacchi non risparmiarono nemmeno orfanotrofi e case per bambini.
Il 15 maggio 1948 gli inglesi lasciarono la Terra d'Israele dopo averla governata per 31 anni. Il giorno precedente gli ebrei dichiararono la nascita dello stato d'Israele, porgendo la mano in segno di pace agli arabi di Palestina e alla comunità degli arabi circostanti. Gli arabi, invece, entrarono in guerra. Gli eserciti di Egitto, Siria, Iraq, Giordania, Libano e Arabia Saudita invasero lo stato appena fondato con l'obiettivo di distruggerlo. Tre anni dopo la Shoà, i 600mila ebrei che vivevano in Terra d'Israele correvano il rischio chiaro e imminente d'essere sterminati. Gli ebrei non ebbero altra scelta che vincere per sopravvivere.
Fu dunque a causa dell'aggressione degli arabi se nel luglio 1949 lo stato d'Israele appena nato ampliò i suoi territori, mentre la Giordania si impadroniva della Cisgiordania e della parte est di Gerusalemme e l'Egitto si impadroniva della striscia di Gaza.
Ripetiamolo: la Giordania si impadronì della Cisgiordania e della parte est di Gerusalemme e l'Egitto si impadronì della striscia di Gaza. E non si presero per nulla il disturbo di creare uno stato palestinese.
L'11 maggio 1949 Israele veniva ammesso alle Nazioni Unite come 59esimo stato membro.
(Noi che amiamo Israele, 29 novembre 2018)
Poche bizzarre righe
di Mattia Feltri
Di settemila persone interpellate per conto della Cnn America in Austria, Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Svezia e Ungheria circa mille e quattrocento ritengono che l'antisemitismo sia una reazione al comportamento degli ebrei. Di quei settemila, circa mille e settecento credono che gli ebrei abbiano troppo potere nella finanza, e la manovrino a loro vantaggio e a svantaggio del popolo. Più o meno altrettanti dichiarano che gli ebrei hanno un ruolo e un interesse in ognuna delle guerre del mondo. Circa duemila e cinquecento sanno poco o niente della Shoah (un austriaco su dieci, di quelli compresi fra i 18 e i 34 anni, non ne ha mai sentito parlare, in Francia vale per uno su cinque). Fra quelli che ne sanno, oltre mille e duecento spiegano che lo sterminio degli ebrei è stato provocato dalla loro protervia di avvelenatori di pozzi e prestatori di denaro a usura. Sommati quelli che la sanno così, quelli che la sanno pochino e quelli che non la sanno affatto, siamo a oltre la metà degli intervistati. Di sondaggi del genere ne escono a ripetizione, un po' ignorati sotto il vacuo trambusto quotidiano. Nel 2012 uno dimostrò che la metà degli studenti tedeschi non avesse idea di chi fosse Adolf Hitler, e un terzo di loro lo indicò come insigne promotore dei diritti umani. Un altro del Pew Research un paio d'anni fa stimò nel 21 la percentuale degli italiani che nutrono pregiudizi verso gli ebrei. E così lentamente la memoria annacqua, il pregiudizio risale, l'odio infiamma e l'indifferenza spalanca le porte, e anche queste poche righe saranno un esercizio di bizzarria.
(La Stampa, 29 novembre 2018)
Il cocktail kosher si chiama 'Spice Market'
Israele è un paese dove sono presenti varie culture e, di riflesso, anche un mix di sapori, colori e odori. Ogni turista o viaggiatore mentre attraversa questo territorio ha modo di notare che cibo e bevande mixano ingredienti molto differenti tra loro, frutto della tradizione gastronomica multiculturale e delle varie influenze internazionali.
L'aspetto kosher è uno dei tanti che si trovano in Israele e su questo soffermiamo l'attenzione per raccontare di un ottimo "cocktail kosher", preparato con ingredienti che sono tutti idonei secondo le regole alimentari ebraiche.
Questo tipo di cocktail è formato da tante piccole parti di bevande e ogni singolo elemento che lo compone deve essere kosher - liquori, sciroppi, infusi - anche quando sono presenti in percentuali minime.
Un esempio per tutti di cocktail kosher è "Spice Market", che i bartender israeliani Bar Shira e Gilad Livnat hanno realizzato in onore di Gusto Kosher 2018, l'evento enogastronomico e culturale ebraico che dal 22 al 25 novembre si è tenuto Roma e in Italia. Il tema della manifestazione quest'anno è stato: "In Principio (B'Reshith) - Racconti di grani e spezie".
Il primo locale fondato dai due giovani, insieme a Dror Alterovich, è stato l'Imperial Craft Cocktail Bar di Tel Aviv, che si trova al 17esimo posto nella classifica dei "50 Best Bar in the World" e al primo posto per il Medio Oriente.
Bar e Gilad due anni fa hanno aperto il locale kosher "Imperial Red" presso l'hotel Cramim a Kiryat Anavim, vicino a Gerusalemme, e recentemente hanno inaugurato un nuovo locale a Tel Aviv: il "Bushwick".
Vediamo cosa rende un cocktail kosher, cioè idoneo. Per prima cosa l'iter per la produzione della bevanda deve sottostare a un particolarissimo rigore. Per questo anche nei cocktail, spesso a base di distillati di uva, bisogna fare particolare attenzione.
I liquori, i miscelatori e gli ingredienti utilizzati devono essere certificati kosher. Ad esempio, nel cocktail Spice Market sono casherut gin, triple sec, amaro di angostura, cioccolato, succo di limone, sciroppo di mandorle, cardamomo verde, falernum, bianco d'uovo e una spolverata di noce moscata.
I bartenders israeliani solitamente utilizzano ingredienti locali, traendo ispirazione dalla regione, in particolare quando si tratta di spezie. Oltre al gusto del cocktail, quello che coinvolge è il loro approccio cordiale e ospitale.
Prima di bere qualunque cocktail non dimentichiamo di alzare il bicchiere e dire Lechaim (לחיים) che vuol, dire cin cin/alla vita, e si usa solitamente durante i brindisi.
(Cool Israel, 29 novembre 2018)
Il 1938 e le ferite dell'antisemitismo giuridico
Il testo è una rielaborazione dell'Introduzione al Convegno 1938: antisemitismo giuridico italiano. A ottant'anni dalle leggi razziali che si è svolto al Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, il 20-21 novembre 2018.
di Baldassare Pastore Università degli Studi di Ferrara
La legislazione antiebraica del 1938 rappresenta un esempio paradigmatico di come il diritto possa operare come fattore di "vulnerazione". La parola rinvia alla vulnerabilità che, pur essendo un fenomeno di ampio spettro, è tuttavia riconducibile ad un nucleo semantico riguardante la suscettibilità a venire feriti, offesi.
La vulnerabilità, in ambito politico e giuridico, risulta associata alle diverse situazioni nelle quali discriminazioni, stigmatizzazioni, violenze diventano salienti nel produrre il non-riconoscimento nei confronti degli individui e si connette tipicamente alle esperienze dell'umiliazione, della vessazione, dello spregio. Tali esperienze toccano: a) l'integrità e la libertà, minacciate dalla violenza che ci pone nell'impossibilità di esercitare l'autonomia personale; b) la comprensione che una persona ha di sé, negata da atti e comportamenti che colpiscono un soggetto escludendolo dal soddisfacimento di pretese legittime, rappresentando un attacco al rispetto e alla stima che poniamo in noi stessi; c) l'identità individuale, ferita con l'esclusione dello status di partecipanti all'interazione e di eguali soggetti di diritto. Si tratta di esperienze che negano la dignità umana. La nozione di vulnerabilità, in questa prospettiva, diventa una categoria euristica e un indicatore qualitativo e quantitativo delle violazioni alla eguale dignità degli esseri umani.
Le leggi antiebraiche (razziste) del 1938 e i successivi provvedimenti amministrativi introdussero divieti e obblighi di varia natura, ognuno dei quali produceva effetti notevoli sui destinatari e sull'insieme della società italiana. Si è trattato di disposizioni e provvedimenti che realizzavano la sinergia tra le pseudo-scienze della razza e un progetto totalitario che individua e sceglie il tema della razza come elemento costitutivo e fondante della sua ideologia e come centro delle sue politiche. L'adozione del razzismo fu un momento di un programma di trasformazione dello Stato, della società e del regime in una fase delicata e decisiva della sua vita interna e della politica internazionale. Si è trattato di un momento di svolta che ha segnato una rottura nella storia dell'Italia unita attraverso la demolizione della tradizione liberale risorgimentale e del suo concetto di cittadinanza.
Con l'introduzione dei provvedimenti per la difesa della razza del 1938 il regime diede al razzismo e all'antisemitismo una definita e compiuta dimensione anche giuridica.
La fase storica iniziata col conseguimento dell'unità nazionale era caratterizzata dall'eguaglianza dei diritti. Tale principio era sancito dall'art. 24 dello Statuto albertino, per il quale tutti gli appartenenti al Regno erano eguali dinanzi alla legge, godevano egualmente dei diritti civili e politici e potevano accedere alle cariche civili e militari.
La persecuzione antiebraica generalizzata varata nel 1938 ebbe per oggetto dei cittadini dello Stato. Il diritto stabiliva la differenziazione tra cittadini e introduceva una diseguaglianza di diritti tra essi. L'emanazione di quelle "leggi abominevoli" e vergognose, di poco preceduta dal Manifesto della razza (pubblicato sul "Giornale d'Italia", il 15 luglio 1938, con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza), costituì - come disse Piero Calamandrei - la più grave lacerazione dei principi fondamentali dell'ordinamento giuridico e dello Stato di diritto. L'esito di quel "monstrum pseudolegislativo" (sono parole di Alessandro Galante Garrone) fu la discriminazione dei cittadini di origine ebraica e la loro espulsione dal contesto sociale ed istituzionale dell'epoca.
Emblematica, al riguardo, è la vicenda relativa alla formulazione dell'articolo 1 del libro primo del progetto del nuovo codice civile. Proprio negli ultimi mesi del 1938 la bozza di tale articolo conobbe una modifica, che lo rese coerente con i principi fondanti delle nuove leggi antiebraiche. Il suddetto articolo venne riscritto e ampliato sì da mutarne profondamente il significato. Il testo recitava: "La capacità giuridica si acquista al momento della nascita. [
] Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall'appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali". Si introduceva solennemente il principio dell'ineguaglianza di possesso della capacità giuridica. Al centro, ora, non vi era più l'individuo con i suoi diritti (il codice civile italiano del 1865 stabiliva all'articolo 1: "Ogni cittadino gode dei diritti civili"), bensì lo Stato con il suo diritto a limitarne la capacità giuridica.
La discriminazione razziale diventava contenuto della legge. Proprio la legge, che nel costituzionalismo dell'epoca liberale era ritenuta lo strumento più idoneo a garantire i diritti dei cittadini, si era trasformata in uno strumento di oppressione, esiziale per la dignità e l'esistenza stessa della persona.
Le leggi razziali posero ai giuristi il problema del rapporto tra legge e diritto, tra la forza e la ragione. Come potevano considerarsi "diritto" "la cacciata dei bambini ebrei dalle scuole, l'espulsione degli adulti dall'insegnamento, il divieto di esercizio delle professioni, il diniego della licenza al venditore ambulante, il divieto di matrimonio "con persona appartenente ad altra razza"?
Riflettere, da parte della cultura giuridica odierna, sull'infamia rappresentata da quei provvedimenti significa riflettere sul ruolo svolto dai giuristi italiani nella loro formazione e nella loro applicazione concreta; nel male, ma anche nel bene, con ombre e (alcune) luci, considerando che alcuni esponenti del mondo accademico, alcuni magistrati, alcuni avvocati non si piegarono al volere del regime e si opposero all'antisemitismo dominante.
Si tratta di ricostruire gli orientamenti dottrinali, l'architettura delle leggi e delle circolari in materia, il quadro d'assieme degli atti e delle sentenze dei giudici, la struttura e le concrete modalità di funzionamento di una poderosa macchina amministrativa. Elementi, tutti, che hanno prodotto un grave vulnus al principio di eguaglianza e al principio della dignità umana.
Le leggi antiebraiche (razziste) del 1938 sono espressione di quella "negazione legale del diritto" - per riprendere l'efficace espressione usata da Gustav Radbruch nel saggio Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht del 1946 - che mostra in maniera drammatica il carattere volutamente e intollerabilmente ingiusto di provvedimenti normativi, che sono in realtà meri atti di arbitrio. Di fronte alle vicende riguardanti le esistenze degli ebrei in Italia, spezzate, private della libertà e dell'identità, espunte dalla vita civile, vessate sul piano materiale e morale, tali leggi ci rendono consapevoli di come la subordinazione del diritto al potere politico conduca il diritto stesso a divenire strumento di ingiustizia, tradendo, così, il suo senso più profondo.
(moked, 29 novembre 2018)
Shoah, 82enne olandese convince le ferrovie a risarcire i superstiti
La società di Stato Ns trasportò migliaia di ebrei nei campi di sterminio. Sull'esempio della Francia, ora è pronta a pagare ex deportati e familiari
107mila
Sono stati gli ebrei olandesi portati dalle ferrovie Ns nei campi di Westerbork, Auschwitz e Sobibor
|
5mila
Sono stati gli ebrei olandesi che soprawissero ai campi di sterminio durante la Seconda guerra
|
25 milioni
Sono le spese di trasporto dei deportati che le Ns fecero pagare ai tedeschi: incassarono 2,5 milioni di dollari
|
di Walter Rauhe
BERLINO - Le ferrovie di Stato olandesi Ns pagheranno un indennizzo ai sopravvissuti dell'Olocausto e ai loro famigliari per il ruolo nel trasporto di migliaia di connazionali nei campi di sterminio nazisti ai tempi dell'occupazione tedesca. Ad annunciarlo è stato ieri l'amministratore delegato della compagna ferroviaria Roger van Boxtel, accogliendo una richiesta avanzata già anni fa da Salo Muller (82 anni). L'ex fisioterapista della squadra di calcio olandese dell'Aiax aveva5 anni quando i suoi genitori vennero deportati da Amsterdam nel vicino campo di concentramento di Westerbork. Da qui vennero poi deportati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale non sono poi mai più tornati.
In Olanda, come in tutti gli altri Paesi europei occupati dal regime nazionalsocialista di Adolf Hitler, sono state proprio le ferrovie ad occupare un ruolo fondamentale nella sanguinaria macchina dello sterminio degli ebrei, di sinti e rom, e di tutte le altre vittime della Shoah. Solo nei Paesi Bassi la società ferroviaria statale collaborò con i suoi trasporti alla deportazione di qualcosa come 107mila cittadini ebrei nei campi di Westerbork, Auschwitz e Sobibor. Di questo, solo 5000 riuscirono a sopravvivere allo sterminio.
Ma non solo. Le ferrovie Ns misero in conto ai tedeschi le spese per questi trasporti, incassando il corrispettivo attuale di circa 2 milioni e mezzo di dollari.
Nel 2010, le ferrovie francesi Sncf, al termine di una lunga battaglia legale, furono costrette ad accettare il pagamento di compensazioni per aver trasportato negli anni dell'occupazione tedesca 79mila ebrei francesi verso i campi nazisti. Una sentenza che ispirò Salo Muller ad avviare a sua volta una campagna di sensibilizzazione nei Paesi Bassi a favore di un risarcimento delle vittime della Shoah da parte della società ferroviaria nazionale Ns. In un comunicato diffuso ieri ad Amsterdam, la compagnia ha definito il suo ruolo svolto ai tempi della Seconda guerra mondiale nelle deportazione degli ebrei come il «capitolo più nero e vergognoso nella storia delle ferrovie». Le Ns avrebbero sì agito su ordine delle truppe d'occupazione naziste, ma non «hanno mai posto alcuna obiezione agendo anzi in modo efficientissimo e mettendo a disposizione dei tedeschi un apposito orario ferroviario supplementare», spiega Dirk Mulder, direttore del Memoriale nazionale di Westerbork. Dal 1941 al 1945 dal campo di transito olandese sono partiti 93 treni speciali diretti verso i campi di sterminio. La cifra esatta delle riparazioni che verranno stanziate dalla compagnia ferroviaria Ns verrà fissata da una commissione di esperti incaricata dalla società stessa. «Sono molto contento e commosso dal fatto che le nostre ferrovie abbiano accettato di pagare gli indennizzi», ha dichiarato ieri Salo Muller. «I soldi non possono certo cancellare i crimini commessi, ma sono un importante riconoscimento dei torti fatti e dei dolori provocati. Dolori che sopravvivono fino ad oggi».
(La Stampa, 29 novembre 2018)
*
Ebrei deportati, mea culpa olandese. Le ferrovie risarciscono le famiglie
In 100mila nei lager, tra loro Anna Frank. Lo storico indennizzo
Anche la Francia chiese scusa
Francia 2014: le ferrovie francesi si dichiararono disposte a pagare 40 milioni di euro per aver collaborato coi nazisti, trasportando nei lager 76mila ebrei. Ne sopravvissero solo 3mila.
|
Quegli archivi sul regime di Vichy
Nel 2012 la francese Sncf, fornì copia dei propri archivi del periodo 1939-'45 a tre centri di ricerca sulla Shoah per far piena luce sul suo passato col regime collaborazionista di Vichy.
|
di Roberto Giardina
Per la prima volta, le ferrovie olandesi indennizzeranno i parenti degli ebrei deportati nei campi di concentramento nazisti nella Seconda guerra mondiale. A dar l'annuncio la compagnia nazionale Nederlandse Spoorwegen (Ns). Le ferrovie olandesi, durante la guerra, guadagnarono ingenti somme trasportando gli ebrei verso i campi di morte e in passato si sono scusate per questo, ma sinora avevano rifiutato di pagare risarcimenti. Come varie compagnie olandesi, anche le ferrovie collaborarono coi nazisti dopo l'invasione nel 1940. Trasportando le famiglie ebree a Westerbork guadagnarono circa 2,5 milioni di euro hanno calcolato i media olandesi.
In totale circa 107mila dei 140mila ebrei che vivevano in Olanda furono portati nel campo di transito, prima di essere trasferiti a Auschwitz, Sobibor e Bergen-Belsen.
Tra le vittime più note Anna Frank, autrice del diario.
Una vittoria storica, e insperata, per i superstiti dell'Olocausto, e per i parenti delle vittime. Le ferrovie olandesi, dopo una battaglia giuridica durata oltre un anno, si dichiarano disposte a risarcire i sopravvissuti per aver messo a disposizione i treni per il trasporto degli ebrei fino al campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Ma il come e il quanto è ancora da stabilire.
A denunciare la Nederlandse Spoorwegen (Ns) è stato Salo Muller, 82 anni, una figura nota nel paese, per essere stato il fisioterapista dell'Ajax Amsterdam. I suoi genitori, ebrei, furono catturati dalle SS, e dapprima internati nel Lager olandese di Westerbork, e infine trasportati dalla NS a Auschwitz, dove furono eliminati dopo pochi giorni delle camere a gas. Salo, che aveva sette anni, fu salvato grazie all'intervento di alcuni vicini. Un caso raro perché quasi sempre gli olandesi collaborarono con gli occupanti nazisti. Salo ha avuto giustizia, «ma è stata una vittoria amara - ha detto - non mi interessa il denaro, potrebbe essere un euro o un milione. Volevo solo che le ferrovie del mio paese ammettessero la loro responsabilità». I nazisti pagarono generosamente la collaborazione della NS che guadagnò una cifra calcolata in valuta attuale di due milioni e mezzo di euro.
Un precedente si è avuto in Francia nel 2014: le ferrovie francesi si dichiararono disposte a pagare 40 milioni di euro, circa, per aver collaborato con i nazisti, trasportando nei lager 76mila ebrei. Ne sopravvissero appena tremila.
A partire dal 1933, all'arrivo al potere di Hitler, migliaia di ebrei tedeschi, tra cui la famiglia di Anna Frank, si rifugiarono nella vicina Olanda, ritenuto un paese amico. Dapprima furono accolti senza problemi, poi il governo per paura del III Reich cominciò a dimostrarsi sempre più ostile, e nel 1938 non concesse più visti d'ingresso. L'Olanda fu occupata dalle divisioni naziste nel 1940, e dal luglio del 1942 cominciarono le deportazioni: su 140mila ebrei residenti, centomila finirono nei campi di sterminio. Ne sopravvissero meno di cinquemila. L'Olanda è stato il paese che ha collaborato con più 'entusiasmo' allo sterminio degli ebrei. I nazisti occuparono il paese nel maggio del 1940, e nel settembre del 1940 furono creati i primi corpi di SS olandesi, agli ordini di Johannes Hendrik Feldmeijr. In proporzione agli abitanti, nessun paese ha avuto più collaboratori, né la Francia, tantomeno l'Italia. Feldmeijr era agli ordini diretti di Himmler, e i suoi uomini agivano come «SS tedesche» a tutti gli effetti, e furono in parte inviati sul fronte orientale, contro i sovietici, combattendo anche a Leningrado. La Quarta Panzergranadier Brigade, composta di volontari olandesi, forte di 5500 uomini, fu impiegata in Croazia contro i partigiani, e partecipò a rappresaglie contro i civili. In tutto oltre 4500 olandesi indossarono la divisa delle SS, e altri 26mila si arruolarono nelle Waffen SS.
(Nazione-Carlino-Giorno, 29 novembre 2018)
Grottaglie - «La mia arte anche in lsraele»
Giorgio di Palma, grottagliese, racconta la sua esperienza a Gerusalemme. «Così ho deciso di rivoluzionare un poco i canoni della tradizione figulina»
di Cesare Bechis
E' appena rientrato da Gerusalemme dov'è andato a parlare, su invito della più importante accademia israeliana di arte, sulle possibilità future della ceramica. Hanno chiamato lui, Giorgio di Palma, grottagliese e figlio di un ceramista, perché ha rivoluzionato un po' i canoni della tradizione figulina. «Basta con i capasoni e con gli oggetti utili - dice - ma ridiamo una nuova vita magari a quegli stessi oggetti però privandoli della loro funzione e lasciando solo un involucro esterno. La ceramica non si dissolve e anche tra duemila anni la potrai trovare». Giorgio ha assorbito la capacità artigianale del papà, che già faceva ceramica sperimentale, e s'è spinto più avanti.
- Insomma, lei è un innovatore.
«Sì, ho innovato. Il concetto fondamentale è che noi viviamo un periodo di grande consumismo, pensiamo che sia tutto utile e indispensabile, poi però non usiamo ciò che acquistiamo e lo mettiamo da parte. A me piace recuperare queste cose, eliminare la funzione per cui sono stati realizzati e lasciare la forma esterna».
- Lei realizza palloncini in ceramica, ciabatte, coni e altre cose.
«Talvolta le cose che faccio sono un rimando all'infanzia. Per esempio proprio a Gerusalemme c'era una mostra sull'infanzia».
- Ma queste sue realizzazioni hanno mercato?
«Ho una clientela variegata. Nella bottega di Grottaglie arriva il cliente classico, il turista e il collezionista, ma io lavoro anche con enti pubblici e Fondazioni».
- Per esempio?
"Di recente nella repubblica ceca ho realizzato in ceramica installazioni da strada come un bancomat e delle cabine elettriche, elementi di arredo urbano. Stessa cosa ho fatto in Cina qualche tempo fa. Ci sono anche enti pubblici che investono in questo settore e alle mie realizzazioni garantiscono così la permanenza in un mu-
seo».
- Al principio la sua arte era vista come espressione di una protesta. È ancora così?
«Alla base, principalmente, c'è un mezzo per raccontare storie, non sempre sono proteste. Cerco di mandare altri messaggi».
- Usa soltanto la ceramica per esprimersi?
«No, utilizzo anche la scrittura, ho un blog, e i video. Per questa ragione sono in grado di raccontare diverse cose. Sto lavorando da qualche anno insieme al fotografo Dario Miale, grottagliese anche lui, a svariati progetti. Mettiamo insieme fotografie e ceramica su tematiche sociali soprattutto. Abbiamo ricreato un negozio cinese in ceramica e Dario, nello stesso tempo, ha realizzato un documentario sulla comunità cinese. Abbiamo fatto anche un lavoro sull'Ilva».
- Ha scritto il libro «29 Giorni. Diario di un ceramista». Cosa racconta?
«In questo primo libro c'è il racconto delle mie prime tre residenze artistiche in vari paesi. Qui ho la possibilità di conoscere gente, luoghi e persone nuove. Mi permettono di lavorare a progetti specifici per il sito. Ora ho in preparazione un nuovo libro».
(Corriere del Mezzogiorno, 29 novembre 2018)
Palestinesi infuriati con i Paesi arabi per avvicinamento a Israele
Ai palestinesi proprio non va giù che Israele e Paesi Arabi stiano normalizzando le relazioni e per questo stanno cercando di organizzare una sessione di emergenza della Lega Araba e dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica incentrata sui legami sempre più stretti tra Israele e alcuni paesi arabi.
Parlando con il quotidiano israeliano Haaretz, il consulente speciale di Abu Mazen, Nabil Shaath, ha detto che l'Autorità Palestinese sta cercando di organizzare una sessione di emergenza della Lega Araba e della Organizzazione per la Cooperazione Islamica per mettere i Paesi Arabi di fronte alle loro responsabilità verso i palestinesi.
«Ci sono una serie di risoluzioni e dichiarazioni arabe e islamiche che affermano esplicitamente che non ci sarà alcun processo di normalizzazione con Israele senza una risoluzione della questione palestinese basata sull'Iniziativa di pace araba e sulle decisioni della comunità internazionale», ha detto Shaath ad Haaretz.
In particolare Nabil Shaath ha ricordato che nell'ultimo vertice della Lega araba di aprile, i paesi membri hanno firmato una dichiarazione in cui si dichiara di non fare accordi di riconciliazione senza una soluzione concordata per la questione palestinese.
«Quello che abbiamo visto nelle ultime settimane, a partire dalla visita di Netanyahu in Oman e dalla visita in Israele del presidente del Ciad, per finire al fatto che ora si parla di Bahrain e Sudan e legami di un tipo o dell'altro con l'Arabia Saudita, solleva dei punti interrogativi e c'è quindi la necessità di chiarire la posizione araba e islamica», ha detto Shaath al quotidiano israeliano.
Quello che fino a qualche mese fa era solo un sospetto, cioè che i Paesi Arabi erano stanchi della annosa questione palestinese in quanto impediva la normalizzazione dei rapporti con Israele, sta diventando una certezza.
La politica estera voluta da Netanyahu sta sostanzialmente isolando i palestinesi e li sta chiudendo in una angolo, anche se bisogna dire che da diverso tempo importanti Paesi Arabi avevano mostrato insofferenza verso l'Autorità Palestinese e la dilagante corruzione insita in essa, una corruzione che per decenni ha mantenuto il popolo palestinese nella povertà e nella arretratezza.
A dare il via a questa corsa verso la normalizzazione dei rapporti con Israele è stato l'avvicinamento, seppur non ufficiale, dell'Arabia Saudita, ma il colpo di grazia lo ha dato la visita di Netanyahu in Oman.
E ora Israele si appresta a normalizzare i rapporti anche con il Sudan, il Mali, il Niger e soprattutto con il Bahrain dopo che ha ristabilito le relazioni con il Ciad a seguito della visita del Presidente Idriss Déby a Gerusalemme. Davvero un brutto colpo per la cosiddetta "causa palestinese".
(The World News, 28 novembre 2018)
Israele, maschera in pietra di 9000 anni
Conservata alla perfezione, forse usata per riti religiosi
Il Dipartimento israeliano per le antichità ha annunciato il ritrovamento di una maschera di pietra di 9.000 anni. E' un esemplare molto raro, perché finora si aveva notizia di sole altre 15 maschere di quell'epoca in tutto il mondo. Il 29/11 sarà esposta al pubblico al Museo Israel di Gerusalemme, in un convegno di archeologia. La scoperta risale a mesi fa, quando funzionari del Dipartimento hanno appreso dell'esistenza della maschera, trovata a Pnei Hever (presso Hebron, Cisgiordania), e sono riusciti a venirne in possesso. In questi mesi nei laboratori del Dipartimento è stata verificata la sua autenticità ed è stato stabilito il periodo a cui essa risale, il neolitico. La maschera, perfettamente simmetrica, rappresenta un volto umano con lineamenti raffinati. Presenta fori per gli occhi e la bocca, mentre la dentatura è stata incisa in dettaglio con uno scalpello. Secondo i ricercatori poteva essere applicata su un volto umano oppure essere appesa a un palo, possibilmente per riti propiziatori.
(La Stampa, 28 novembre 2018)
Per la prima volta un gruppo di piccole e medie imprese venete alla HLS&Cyber - Israele
Alcune piccole medie imprese Venete hanno colto la sfida lanciata dal Nuovo Centro Estero per affrontare il tema della cyber security partecipando alla fiera HLS&Cyber, Tel Aviv.
Su incarico e finanziamento della Camera di commercio di Treviso - Belluno e della Camera di Commercio di Venezia - Rovigo e in collaborazione con Confindustria Venezia - Rovigo, il Nuovo Centro Estero ha messo in agenda tra le prime missioni uno dei più importanti appuntamenti fieristici che si svolgono in Israele, Paese all'avanguardia in ambito ICT e fortemente orientato alla ricerca e sviluppo in ambito di cybersecurity.
L'Ufficio ICE-Agenzia di Tel Aviv ha organizzato gli incontri B2B tra le aziende venete ed israeliane, per attivare nuovi accordi commerciali.
(Giornale Nord Est, 28 novembre 2018)
Corea del Sud - Israele: trattative in corso per acquisto di radar militari
Sono in corso tra la Corea del Sud ed Israele per l'acquisto, da parte del Paese asiatico, di 2 sistemi di radar di preallarme per rinforzare le difese aeree contro la Corea del Nord. La decisione è stata presa da una commissione dell'agenzia di Seul per l'acquisto di armamenti, parte del Defense Acquisition Program Administration (DAPA). Quest'ultimo non ha rivelato il valore dell'ordine ma, ad avviso di un ufficiale nel Ministero della Difesa coreano la trattativa riguarderebbe d circa 292 milioni di dollari che sarebbero erogati a partire dal 2020.
I sistemi di radar sono stati progettati dalla IELTA Systems, un'azienda sussidiaria alla Israel Aerospace Industries, di proprietà statale israeliana.
L'acquisto rientra nel piano dell'amministrazione di Seul per migliorare il sistema di difesa. I radar di preallarme svolgono la funzione di "rilevare e rintracciare i missili balistici da una lunga distanza in una fase iniziale", come riportato da un documento del DAPA. Il testo non cita la Corea del Nord, ma il ministro della Difesa coreano, lo scorso dicembre, aveva dichiarato che avrebbe acquistato ulteriori radar di preallarme in risposta alla dichiarazione del 29 novembre 2017 del leader nordcoreano, Kim Jong-un. In quell'occasione, il capo di Pyongyang aveva annunciato "il completamento della forza nucleare dello Stato", come riportato dall'agenzia di stampa nordcoreana KCNA Watch.
Il rapporto tra i due Paesi è conflittuale sin dalla fine della guerra di Corea, nel 1953. La tensione si è stemperata agli inizi del 2018, quando il 9 gennaio le delegazioni dei due Stati si sono incontrate nella zona demilitarizzata che funge da confine per discutere della partecipazione della Corea del Nord alle Olimpiadi invernali.
Durante il summit di Singapore del 12 giugno tra il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e Kim Jong-un, invece, si è deciso per una collaborazione internazionale al fine di denuclearizzare la potenza asiatica e di avviare un processo di pace nella regione. Seul e Pyongyang hanno inoltre concordato, il 22 ottobre, di demilitarizzare la zona di confine, la Joint Security Area (JSA).
La Corea del Sud e Israele intrattengono relazioni diplomatiche dal 1948 e non è la prima volta che intavolano una trattativa per una tecnologia militare. Nel 2014, secondo quanto riportato da The Time of Israel, la Corea del Sud si è mostrata interessata ad acquistare la "cupola di ferro", un sistema di difesa contro i missili a corto raggio. Nel 2016, invece, è circolata la notizia che il Paese asiatico aveva affittato un satellite israeliano per controllare i movimenti militari della Corea del Nord. Il satellite in questione, l'Ofek 11, offriva non solo capacità di spionaggio ma anche una diversa prospettiva, poiché posizionato ad un'angolazione differente, da quelli americani.
(Sicurezza Internazionale, 28 novembre 2018)
Parlamentari Pd: solidarietà a Israele dopo parole Rouhani
ROMA - "Le parole con cui sabato il leader iraniano Rouhani, ha nuovamente definito lo Stato d'Israele un 'tumore canceroso' fondato dai Paesi occidentali per difendere i propri interessi in Medio Oriente, sono inaccettabili e pericolose. Nell'esprimere la nostra solidarietà allo Stato d'Israele per questo ennesimo episodio, facciamo appello alla comunità internazionale perché faccia sentire la propria solidarietà ad Israele, perché quelle frasi vengano universalmente condannate con forza e la posizione iraniana contrastata in tutte le sedi". E' quanto si legge in un appello, primo firmatario Marco Minniti, sottoscritto da oltre 100 parlamentari del Partito democratico e rivolto alla comunità internazionale.
(Adnkronos, 27 novembre 2018)
Rohani, l'attacco a Israele e noi
Inaccettabili le parole del presidente iraniano su Israele. Chi reagisce?
Il presidente dell'Iran, Hassan Rohani, ha definito Israele un "tumore canceroso". I dirigenti iraniani spesso condannano Israele con estrema violenza annunciandone la fine, ma Rohani, un presidente considerato da molti relativamente "moderato", era sempre stato attento a non utilizzare il genere di retorica che aveva reso celebre il suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad. Sabato scorso, invece, intervenendo a una conferenza annuale sull'unità islamica in corso a Teheran, Rohani ha sostenuto che "uno dei risultati infausti della Seconda guerra mondiale è stata la formazione di un tumore canceroso in questa regione". Il presidente iraniano ha continuato definendo Israele un "regime finto" creato dai paesi occidentali. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyabu ha commentato: "Le infamie di Rohani, che invoca la distruzione di Israele, mostrano ancora una volta perché le nazioni del mondo dovrebbero aderire alle sanzioni contro il regime terrorista iraniano che le minaccia". Bene ha fatto l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti a definire "inaccettabili e pericolose" le parole di Rohani in un appello firmato da cento parlamentari del Pd. Rohani non è un barbaro, sa molto bene che quando definisce Israele in quel modo agisce come un balsamo sulla fragile psiche europea e occidentale, che appare nuovamente percorsa da livori e da complottismi giudeofobi che sappiamo dove abbiano portato in passalo. Ieri è uscito un terribile sondaggio della Cnn: un quarto degli europei nutre profondi sentimenti antisemiti e ritiene che gli ebrei abbiano troppo potere. Su questo, sulla difesa di Israele e del popolo ebraico, minacciato da un regime come l'Iran, non dovrebbe esistere faziosità politica, ma unità e solidarietà.
(Il Foglio, 28 novembre 2018)
L'eredità di Kafka? Un processo kafkiano
Una sentenza ha deciso che la sua opera resti in Israele. Un saggio spiega come e perché.
Lontano dai nazisti
Max Brod fuggì portando tutti i manoscritti dell'amico con sé. E li lasciò alla sua aiutante.
|
Giudizio
Se non fossero stati messi in salvo i suoi lavori sarebbero stati cancellati, come gli ebrei.
|
di Fiamma Nirenstein
Israele, la patria degli ebrei, e la Germania in processo l'uno contro l'altra. E di lato una figura di donna, triste, anche lei parte dello scontro. Ma non si è trattato di affrontare, per una volta, il genocidio degli ebrei. Il tribunale ha dovuto deliberare per attribuire a un mondo o all' altro l'anima di Franz Kafka (1883-1924). A chi apparteneva la sua preziosa eredità culturale, come disboscare il doloroso intrico della cultura tedesca al suo livello sommo con l'eredità ebraica nella sua espressione più misteriosa, quasi indefinibile? E come separarla dagli interessi privati? Di chi è Kafka? Degli ebrei nel cui mondo è nato ed è cresciuta la sua letteratura pure universale, o dei tedeschi nella cui lingua scrisse, pur essendo ceco? In un libro di ricerca affascinante come un romanzo storico, Benjamin Balint, un giovane studioso israeliano dell'Istituto van Leer, ha descritto il procedimento legale con cui trent'anni fa il giudice della corte suprema Eliakim Rubinstein stabilì che l'eredità di Kafka era ebraica, i suoi manoscritti, appunti, memorie possesso della Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Il titolo del volume è, con evidente allusione al più famoso fra i libri di Kafka, Kajka's Last Trial (in italiano sarebbe L'ultimo processo di Kafka).
La sentenza di Rubinstein è di per sé un saggio, un trattato sul rapporto fra ebraicità e mondo tedesco, fra sionismo e Europa, una parte indispensabile della teoria della riconciliazione, e tuttavia dell'insanabilità sostanziale dell'Olocausto. Israele ha nella difficile scelta di Rubinstein la funzione di redimere l'intera storia della cultura acquisendo il contributo ebraico nelle mura salvifiche dello Stato Ebraico. E la Germania, si legge sempre nelle carte, ha seppellito con la sua guerra di sterminio ogni aspirazione universalistica, quale che sia la sua pretesa contemporanea. Balint ha ricostruito tutto il percorso dei manoscritti, centinaia, finiti in una casa di Tel Aviv nelle mani di due signore, figlie della aiutante, segretaria, forse anche amante di Max Brod, l'intellettuale che portò in Israele fuggendo dalla Shoah tutti gli scritti di Kafka. Poi li lasciò in eredità all'aiutante Esther Hoffe.
La storia è affascinante. Max Brod era un giovane praghese piccolo e vivacissimo, ragazzo di genio, musicista, poeta, drammaturgo, ambizioso, estroverso. Così è rimasto tutta la sua lunga vita (1884-1968, 80 libri). A 25 anni era in corrispondenza con Herman Hesse, Thomas e Heinrich Mann, Hugo von Hofmannsthal, Rainer Maria Rilke e altri. Era una star del mondo letterario. E gli piacevano molto le donne. Tutto l'opposto Kafka, notoriamente schivo e melanconico. Ma Brod diventa sin dalla prima gioventù il migliore amico dell'ombroso, geniale fenomeno, lo riconosce subito come tale. Kafka lamenta molto la sua incapacità sentimentale di cui Brod lo sgrida sempre, anche se avrà almeno due amori, Felice Bauer e Dora Diamant. Alla prima, di cui commenta malevolmente l'aspetto e che gli fu presentata da Brod, scrisse lettere frequentissime, lasciandoci così in possesso di parecchio materiale personale, quasi tutto collezionato da Brode poi passato in casa della segretaria. Ma Kafka non voleva che i suoi scritti fossero conservati, o almeno voleva che i posteri pensassero che non voleva, così, ormai malato di tisi, consegnò tutto al suo migliore amico Brod con l'indicazione tassativa di bruciare tutto alla sua morte. Sapeva certo di aver messo tutto nelle mani meno adatte per quel compito, dice Balint.
Quando nel 1939 Max Brod saltò su un treno fuggendo da Praga occupata dai nazisti portava con sé tutti i manoscritti del suo amico, e in Israele gli si dedicò furiosamente per pubblicarli, commentarli e ricavarne due biografie. E alla sua morte passano nelle mani della fida, elegante e prepotente Esther Hoffe. Tanto per descriverne il valore, Esther ricevette quasi due milioni di dollari dall'Archivio della letteratura tedesca di Marbach per l'acquisto del manoscritto del Processo. Esther morì nel 2007 e i documenti rimasero stipati in casa di una delle due figlie a Tel Aviv, Eva Hoffe (morta l'agosto scorso a cento anni). Fu lei, con signorilità ma con molta determinazione giuridica e personale a rivendicare nel processo i diritti ereditari di cui alla fine fu privata senza un soldo di rimborso.
La tesi dell'Archivio di Marbach naturalmente era che Kafka fosse in modo del tutto evidente un autore tedesco di lingua e di animus benché nato e vissuto a Praga; che non aveva mai messo piede in Israele, che del sionismo non gliene importava un bel niente, che la sua statura universale doveva essere conservata mostrando rispetto per il suo contributo alla letteratura in tedesco. La cosa fu sostenuta con decisione e con spirito combattivo: quando le cose si misero male, Marbach sarebbe anche addivenuta a un compromesso con Eva che invece fu fieramente respinto da Rubinstein. Il testamento di Brod che rendeva Esther l'erede universale aggiungeva una clausola per cui la istruiva a depositare il materiale o nella Biblioteca nazionale di Israele, o nella Libreria municipale di Tel Aviv. E mentre Brod nella sua vita tutto fece fuorché prendere profitti dal lavoro dell'amico geniale, Esther aveva già venduto dei pezzi, e questo influì negativamente.
Ma è l'animus quello che prevalse. Balint è un testimone più equilibrato persino del giudice, sente tutti, parla con tutti, capisce le ragioni di ciascuno e le descrive in un inglese meraviglioso. Kafka una volta disse «Che cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla neppure in comune con me stesso». Ma non era così: nelle sue lettere e nei suoi diari i riferimenti all'ebraismo sono infiniti. Era molto interessato al teatro Yiddish; il suo contatto con la Bibbia, la Kabbala, il Talmud è evidente. Kafka di fatto studiò l'ebraico con Dora, frequentò delle lezioni di Talmud, fece esercizi di scrittura, come se si preparasse a scrivere in ebraico. Con Dora fantasticarono un trasferimento romantico in Israele, dove avrebbero aperto un caffè. Ma più di questo convince la novella scritta da Brod nel 1925: egli si figura che un fratello di Kafka in un moshav riveli che il genio nel suo cuore era un vero sionista, e che ha lasciato altrettante pagine in ebraico quante in tedesco.
Marbach puntò molto sulla manchevole accoglienza che Israele dedicò all'opera di Kafka, non avendone mai pubblicato l'edizione completa, avendolo tradotto tanto lentamente da prendere in mano Il castello solo nel 1967 ... La Biblioteca nazionale di Gerusalemme, scandalosamente, non possiede l'edizione critica di Kafka completata in Germania nel 2004.
Perché tutto questo? Ma perché Israele, nonostante il lungo sforzo di riavvicinamento, ha un conto aperto con la lingua tedesca e con tutto quello che è tedesco in generale, anche se Kafka era un ebreo di Praga. E alla fine era indispensabile che Israele recuperasse gli scritti portati da Brod proprio per sfuggire al genocidio. Li portò là al posto del suo amico, che se avesse potuto ce li avrebbe sicuramente portati lui salvando sé stesso e la sua immortale letteratura. C'è qualche dubbio su questo?
(il Giornale, 28 novembre 2018)
Zeman alla Knesset: "Un'Europa di vigliacchi e codardi. Tradendo Israele, tradiamo noi stessi"
"Noi europei, parlo dell'Ue, troppo spesso esitiamo, e troppo spesso ci comportiamo da vigliacchi. So di dire una cosa forte ma so di dire quello che penso veramente. I paesi europei sono dei codardi. Tradiamo Israele, tradiamo noi stessi. Ed è per questo che penso che il mio popolo debba dare la massima solidarietà a Israele."
di Franco Meda
Quello del presidente ceco Milos Zeman è un vero, sincero, atto di accusa. Otto minuti a braccia, un intervento col cuore. Il suo breve discorso alla Knesset, il primo in assoluto di un leader ceco al parlamento israeliano, è di quelli che lasciano il segno.
Vigliacchi, codardi. L'Europa incapace di porre un argine al terrorismo islamico, un Parlamento europeo che ha aperto le porte ad una sanguinaria terrorista palestinese (Leila Khaled). Zeman abbandona la strada della diplomazia. Il presidente della Repubblica Ceca è in Israele per aprire Casa ceca a Gerusalemme dove confluiranno CzechInvest, CzechTrade, CzechTourism, Czech Center: "e questo è il terzo passo verso il trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv dopo il consolato onorario e dopo la Casa ceca."
(Italia Israele Today, 27 novembre 2018)
Per Israele l'Africa e il Golfo non sono più off limits
Con l'intenzione di attaccare Israele e il suo governo, l'autore di questo articolo, redattore del sinistrissimo quotidiano "il Manifesto", sta diventando uno dei più efficaci propagandisti del premier israeliano. NsI
di Michele Giorgio
«Sembra che il sogno di Netanyahu stia diventando realtà». Così si è espresso un ex diplomatico citato dal quotidiano Haaretz, a margine della conferenza MED 2018 che si è tenuta qualche giorno fa a Roma. Si è riferito al progetto di Netanyahu di tenere fuori la questione palestinese dall'agenda internazionale.
Ed è difficile dargli torto se si guarda ai successi diplomatici che Israele sta ottenendo in vari paesi arabi e africani che fino a qualche anno fa condizionavano l'avvio delle relazioni con lo Stato ebraico alla realizzazione dei diritti dei palestinesi. La svolta è apparsa evidente anche a MED 2018.
Mohammed bin Abdulrahman al Thani, ministro degli esteri del Qatar, paese che pure è direttamente coinvolto nell'aiuto ai palestinesi a Gaza, elencando quelli che a suo avviso sono i problemi del Medio Oriente, ha citato le sanzioni che l'Arabia saudita e i suoi alleati attuano da un anno e mezzo contro il suo paese, la tensione in Libano, le guerre in Siria e Yemen. Silenzio invece sui palestinesi. E non molto diverse sono state le considerazioni dell'ex segretario generale della Lega araba, Ahmed Abdul Gheit, che ai palestinesi ha dedicato solo qualche frase banale e rituale. Il presidente della Knesset, Yuli Edelstein, che pure i palestinesi li incrocia ogni giorno nelle strade di Gerusalemme, ha parlato solo delle capacità di Israele in vari campi, a partire dalla tecnologia.
I media, italiani e non, hanno nascosto le dichiarazioni del ministro degli esteri dell'Anp, Riyad al Malki, che con forza ha reclamato attenzione per la questione palestinese e si è detto certo della fedeltà araba alle risoluzioni sulla Palestina. Netanyahu non ha dubbi: la svolta in atto è marcata e permanente. Israele, lascia intendere, otterrà riconoscimenti e relazioni a ogni livello senza dover più badare ai «fastidiosi» palestinesi che, 70 anni dopo la fondazione dello Stato ebraico e la Nakba e dopo più di 100 anni dall'inizio dell'impresa sionista nella Palestina storica, si ostinano a reclamare diritti sulla loro terra di cui ormai controllano, e solo amministrativamente, solo qualche frammento.
Gli ultimi giorni in particolare sono stati un trionfo per il primo ministro israeliano. Dopo la visita a sorpresa a Gerusalemme del presidente del Ciad, Idriss Deby, Netanyahu si recherà al più presto nel paese africano per proclamare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. «L'Africa torna in Israele, Israele torna in Africa», ha proclamato Netanyahu incurante delle critiche, rare in verità, alla sua predisposizione a stringere rapporti con alcuni dei capi di stato e di governo a dir poco controversi o addirittura accusati di antisemitismo, come l'ungherese Victor Orban.
«L'abbraccio indecente di Netanyahu ad alcuni dei regimi meno democratici del pianeta è una macchia sul suo già sporco governo - commentava ieri l'editorialista Simon Spungin - Ha accolto calorosamente il presidente ciadiano Idriss Deby, un leader che nel giorno delle elezioni del 2016 ha tagliato l'accesso a Internet e le comunicazioni mobili dei suoi cittadini e il cui paese è il penultimo nell'indice di democrazia». Al presidente ciadiano Israele fornirebbe da tempo armi e strumenti di intelligence per combattere i ribelli.
Netanyahu, dopo aver stretto la cooperazione con l'Arabia saudita, ora starebbe cercando di avviare relazioni ufficiali con il Bahrain - dove la monarchia attua una repressione feroce contro l'opposizione - pronto a seguire le orme del Sultano Qabus che a fine ottobre ha ricevuto in Oman con tutti gli onori Netanyahu e consorte. E anche con il Sudan che appena qualche anno fa era considerato tra i nemici più accaniti di Israele. Infine all'elenco dei traguardi quasi raggiunti si aggiunge la disponibilità dichiarata di Australia, Brasile e Repubblica Ceca (il presidente Zeman è in visita in Israele) a trasferire la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come ha fatto Donald Trump.
I palestinesi criticano la svolta in corso nel mondo arabo e in Africa. Lo fanno il presidente dell'Anp Abu Mazen (atteso a dicembre a Roma) e Hamas da Gaza. Ma sono impotenti, a causa anche dell'ostilità Usa. Netanyahu non ha bisogno neppure dell'«Accordo del Secolo», il piano di pace fantasma degli Stati uniti non ancora presentato e che, stando alle indiscrezioni, è nettamente favorevole a Israele. Non ha più bisogno di negoziare con i palestinesi per andare nei paesi arabi, la normalizzazione avanza comunque.
Eppure, come notava a Roma l'ex diplomatico citato da Haaretz, non può cantare vittoria perché «i palestinesi non stanno andando via». E, aggiungiamo noi, non dimenticheranno i loro diritti.
(Il manifesto, 28 novembre 2018)
E' vero, «i palestinesi non stanno andando via», e pensano ancora, sostenuti da molti altri, di poter rimanere lì fino a che qualcuno intorno a loro non riuscirà a «cacciare via gli altri», cioè gli ebrei. Hanno continuato a sperare questo fin dalla prima guerra dindipendenza del 1948, e adesso piangono perché qualche nazione araba, che a suo tempo si era messa contro Israele non per amore degli arabi palestinesi ma per i suoi interessi nazionali (oltre che per connaturato odio antiebraico) adesso si accorge che i suoi interessi nazionali sono altri e in qualche misura coincidono con quelli di Israele. Così ai palestinesi adesso «non resta che piangere», che in fondo è lunica cosa che effettivamente sembrano saper fare meglio di tutti. M.C.
Israele: due prodotti per neonati nella lista delle migliori invenzioni del TIME
Due prodotti israeliani per neonati sono stati inseriti nella lista delle migliori invenzioni del 2018 dalla rivista TIME. L'elenco comprende 50 innovazioni che rendono il mondo migliore, più intelligente e anche un po' più divertente.
Il primo prodotto, presente nella categoria "Gear & Gadgets", è Nanit Plus, un monitor intelligente che aiuta il bambino ad addormentarsi.
Nanit Plus ha una doppia funzione, tramite un'app i genitori possono vedere il bambino mentre dorme e controllare ogni suo movimento e possono anche parlare o cantare o far sentire al neonato i suoni che lo aiutano ad addormentarsi.
Il dispositivo prodotto da Nanit, che ha sedi a Tel Aviv e New York, rileva inoltre informazioni ambientali, come livelli di umidità o intensità della luce, e fornisce ai genitori dei suggerimenti su come migliorare le condizioni dentro la stanza in modo da consentire al bambino di fare un buon sonno.
L'altro prodotto, come si legge su Israel21c, presente nell'elenco delle Best Inventions 2018, nella categoria "Health & Wellness", è il biberon Nanobébé.
Si tratta del primo biberon progettato per preservare le sostanze nutrienti più importanti del latte materno, consentendo un rapido riscaldamento e raffreddamento attraverso un'innovativa forma geometrica.
La bottiglia brevettata dall'azienda Nanobèbè, con sede a Hezliya Pituah, impedisce al latte di fuoriuscire grazie al sottile bordo in silicone e al basso centro di gravità. Inoltre il biberon ha la forma del seno materno e questo può dare al bambino la sensazione di essere allattato dalla madre.
(SiliconWadi, 28 novembre 2018)
Israele, le elezioni anticipate sono già in corso
di Luciano Assin
Uno spettro si aggira nei corridoi della politica israeliana: la quasi certa possibilità di elezioni anticipate in Israele. L'attuale coalizione di governo si è drasticamente ristretta, passando da una maggioranza di 66 seggi ad una striminzita coalizione di 61 sui 120 totali di cui è composta la Knesset, il parlamento israeliano.
Poiché anche all'interno della compagine governativa esistono non pochi dissidenti, dipende dal carattere delle leggi a cui bisogna votare, tutto il lavoro parlamentare è di fatto bloccato. Ormai sono tutti concordi che l'attuale legislatura ha finito il suo corso ed adesso si tratta solo di trovare la giusta data per indire nuove elezioni che in condizioni normali avrebbero dovuto svolgersi nel novembre 2019.
La mossa decisiva spetta, come sempre, a Nethanyau che sta calcolando col bilancino le possibili date a lui favorevoli. La più logica sarebbe quella della seconda metà di Maggio, dopo le celebrazioni del giorno dell'Indipendenza e dopo l'Eurofestival canoro che si svolgerà nello stato ebraico dopo la vittoria di Netta Barzilai lo scorso anno.
Ma i calcoli del premier israeliano non sono assolutamente compatibili con molti dei partiti della coalizione, così che la data definitiva da decidere è ancora in alto mare. Di sicuro è il fatto che la campagna elettorale è già iniziata e tutti i leader politici non fanno che sprecare dichiarazioni indirizzate esclusivamente al proprio bacino elettorale. La cosa più delicata è quella di non essere identificato come il principale responsabile della fine di una coalizione che si è rivelata la più a destra di tutta la storia politica israeliana.
Nonostante le innumerevoli inchieste giudiziarie in cui Bibi si trova implicato, è chiaro che l'attuale premier israeliano continuerà ad essere il principale protagonista della vita politica israeliana. La vera domanda è lo spessore e il numero dei vari seggi che ogni altro partito potrà portare come dote per partecipare alla nuova coalizione. Non c'è dubbio che Nethanyau abbia preso molte decisioni impopolari e talvolta contrarie ai propri principi pur di mandare avanti l'attuale compagine governativa.
La sinistra israeliana è letteralmente fuori gioco, e sarà un miracolo se riuscirà a mantenere il numero attuale dei propri rappresentanti. Vista la mancanza di una vera alternativa al carisma di Bibi, l'unica speranza è quella di riuscire a spostare l'elettorato di centrodestra verso partiti indirizzati verso una conduzione più moderata e pragmatica del paese.
(Bet Magazine Mosaico, 27 novembre 2018)
27-29 novembre, esperti mondiali di Shoah riuniti a Ferrara
Nell'anno della Presidenza italiana, dal 27 al 29 novembre Ferrara ospita la seconda assemblea plenaria annuale dell'IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance).
L'organizzazione intergovernativa raccoglie 31 Paesi membri, oltre a numerosi osservatori e partner internazionali, con lo scopo di tutelare la trasmissione della memoria della Shoah, in particolare attraverso la promozione della ricerca storica, la conservazione di testimonianze e siti, e la formazione delle nuove generazioni, nel rispetto degli impegni presi con la sottoscrizione della Dichiarazione di Stoccolma.
Nelle sessioni plenarie vengono assunte deliberazioni sul fronte della diplomazia, dell'educazione, del ricordo e dello studio dell'Olocausto, per contrastare il ritorno dell'antisemitismo e del razzismo.
Alla tre giorni di lavori a Ferrara partecipano circa 250 delegati, nominati dai rispettivi governi e provenienti da 43 Paesi. I lavori si tengono nelle sale storiche messe a disposizione dal Comune di Ferrara.
L'evento, a porte chiuse, è gestito dall'Ufficio Permanente dell'IHRA, che ha sede a Berlino, e dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, in collaborazione con il Comune di Ferrara e con il coordinamento del MEIS.
I lavori sono preceduti dalla visita del gruppo di lavoro "Musei e Memoriali" al campo di concentramento di Fossoli e al Museo Monumento al Deportato di Carpi. Tra gli eventi in onore dei delegati: il concerto del Coro ebraico Ha-Kol (anche con il sostegno della Comunità ebraica di Ferrara), la proiezione in prima mondiale del docufilm Eravamo italiani di Ruggero Gabbai, che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti italiani ai campi di sterminio, e la visita al MEIS.
In omaggio ai delegati della plenaria, i pasti a loro riservati sono completamente casher, grazie a un'inedita "brigata di cucina" organizzata dal MEIS: se il rabbino emashgiach Tomer Corinaldi si occuperà di verificare il rispetto delle regole alimentari ebraiche (la casherut), con la supervisione di Rav Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara, a preparare i piatti sono gli chef Laura Ravaioli, da vent'anni volto ed estro di Gambero Rosso Channel e tra le cuoche più amate del piccolo schermo, e Liborio Trotta, dell'Istituto d'Istruzione Superiore "Orio Vergani" di Ferrara, che mette a disposizione le proprie cucine e l'assistenza di circa cinquecento studenti.
(Meis, 27 novembre 2018)
Berlino: giornalista israeliana aggredita da un gruppo di ragazzi arabi
di Paolo Castellano
Quattro ragazzi arabi hanno aggredito Antonia Yamin, giornalista della televisione pubblica israeliana (KAN), mentre stava registrando un video-servizio a Berlino. L'aggressione è avvenuta il 25 novembre nel distretto Neukölln. Il gruppetto di arabi ha scagliato contro la giornalista israeliana e il suo cameraman un petardo, che è stato inquadrato e filmato dall'operatore televisivo. Il video è poi stato immediatamente caricato e diffuso online attraverso i social network. Nel frattempo la polizia tedesca ha dichiarato di aver aperto un'indagine sull'incidente, valutando se ci siano gli estremi per un'accusa di antisemitismo.
Come riporta Haaretz, la Yamin sostiene infatti che gli aggressori si siano avvicinati alla telecamera avendo percepito la parlata ebraica del suo collaboratore e avendo notato la scritta del network israeliano sul microfono impugnato dalla giornalista. «Avranno avuto più o meno tra i 18 e i 19 anni», ha aggiunto la Yamin, che li ha definiti "ragazzi con un background da immigrati". «Può darsi che abbiano notato il logo sul microfono, decidendo così di intralciarci», ha osservato la reporter. Come si evince dal video, i 4 arabi hanno cercato di buttare a terra la telecamera aggredendo il cameraman e chiedendo da dove provenisse il materiale. Non soddisfatti, gli aggressori hanno poi gettato un petardo verso la coppia di giornalisti israeliani. La Yamin si è detta fortunata a essere uscita incolume dall'incidente.
Shir Gideon, portavoce dell'ambasciata israeliana a Berlino, ha rilasciato un commento sull'aggressione al quotidiano Berlin Tagesspiegel, esprimendo il suo ottimismo riguardo alle indagini della polizia tedesca che secondo lui troverà i responsabili del gesto: «Disturba però il fatto che in alcune parti di Berlino sia un problema essere ebrei e israeliani».
Martin Hikel, sindaco del distretto Neukölln e membro del partito socialdemocratico, ha invece dichiarato: «Un incidente inaccettabile. Non importa cosa abbia scatenato il loro comportamento: io condanno ogni forma di antisemitismo».
(Bet Magazine Mosaico, 27 novembre 2018)
La soluzione del commissario Onu? "Israeliani, andatevene da lì"
Se queste sono le "idee" che circolano all'interno della Commissione del Consiglio per i Diritti Umani che indaga sui fatti di Gaza...
Un membro della Commissione del Consiglio Onu per i Diritti Umani, che sta indagando sugli eventi degli ultimi mesi al confine tra Gaza e Israele, ha chiesto a due israeliane che vivono vicino alla striscia: "Se questa è la situazione, perché continuate a vivere lì?".
Durante lo scorso fine settimana Batia Holin, del kibbutz Kfar Aza, e Adele Raemer, del kibbutz Nirim, hanno accettato l'invito a parlare di fronte alla Commissione Indipendente d'Indagine del Consiglio Onu per i Diritti Umani (UNHRC), incaricata di investigare gli eventi del 2018 ai confini della striscia di Gaza, e hanno accettato di raccontare ai membri della Commissione come si vive sotto la minaccia continua di attacchi di razzi, infiltrazioni di terroristi, incendi dolosi...
(israele.net, 27 novembre 2018)
Gerusalemme apre a Ciad, Oman e Bahrein
di Antonio Albanese
Israele sta inaugurando una nuova stagione nei rapporti internazionali: Gerusalemme intende creare legami con il Bahrein e con il Sudan, il cui leader ha fatto una visita ufficiale in Israele. In senso più lato, Gerusalemme sta accelerando la creazione di relazioni più aperte con il mondo arabo, mossa dalle preoccupazioni sull'Iran, che sono condivise con alcuni paesi dell'area.
Stando a Times of Israel, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che presto si sarebbe recato in alcuni stati arabi non specificati, durante la conferenza stampa con il leader ciadiano Idriss Déby. La visita di Déby fa parte di una campagna per gettare le basi per normalizzare i legami con Sudan, Mali e Niger, paesi a maggioranza musulmana, secondo la televisione Channel 10. A maggio 2018, il ministro degli Esteri del Bahrein Khalid bin Ahmed Al Khalifa aveva twittato che Israele ha il diritto di difendersi contro l'Iran; l'Oman ha accolto Netanyahu a ottobre.
Durante la conferenza sulla sicurezza in Bahrein, riporta Reuters il ministro degli Esteri omanita Yussef bin Alawi bin Alawi bin Abdullah ha detto che: «Israele è uno Stato presente nella regione, e tutti noi lo capiamo. Anche il mondo è consapevole di questo fatto e forse è tempo che Israele sia trattato allo stesso modo e che abbia gli stessi obblighi».
Il premier israeliano sta parlando da anni del riscaldamento dei legami tra Israele e il mondo arabo, citando non solo l'Iran come nemico comune, ma anche l'interesse di molti paesi a cooperare con Israele in materia di sicurezza e difesa, soprattuto con l'industria high-tech israeliana. Lo sforzo diplomatico verso il Sudan arriva quando Khartoum ha cercato di avvicinarsi agli stati del Golfo sunnita dopo che per anni il Ciad è stato alleato dell'Iran.
All'inizio del 2017, Khartoum si è unita al Bahrein sunnita e all'Arabia Saudita nel rompere i suoi legami con la Repubblica Islamica; nel contempo, il Ciad ha fatto aperture verso Israele. Il ministro degli Esteri ciadiano Ibrahim Ghandour, in un'intervista del 2016, disse che il Sudan era aperto all'idea di normalizzare i legami con Israele in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi su Khartoum.
Secondo i resoconti dei media in lingua ebraica dell'epoca, i diplomatici israeliani cercarono di raccogliere il sostegno al Sudan nella comunità internazionale dopo che questo aveva tagliato i suoi legami con Teheran. In passato, il Sudan sarebbe servito come stazione di transito per il trasferimento di armi iraniane al gruppo terroristico di Hamas a Gaza. Israele avrebbe intercettato e distrutto i trasferimenti di armi dal Sudan dirette a Gaza.
Proprio perché ha spezzato i legami con l'Iran, il Sudan non è più percepito da Israele come una minaccia, ma piuttosto come un potenziale alleato. Nonostante la mancanza di legami formali, sia Déby che Netanyahu hanno sottolineato la centralità della cooperazione in materia di sicurezza tra i due Paesi.
(AGC Communication, 27 novembre 2018)
*
Il presidente del Ciad in visita in Israele
TEL AVIV, 26. Il presidente del Ciad, Idriss Déby, si è recato ieri, a sorpresa, in Israele. È stata la prima visita di un capo di stato del Ciad dalla nascita dello stato ebraico nel 1948.
Le relazioni fra i due paesi, ha ricordato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, si erano interrotte nel 1972. «Si tratta di una visita storica e importante» ha sottolineato il premier. «Israele torna in Africa e l'Africa torna in Israele» ha aggiunto.
Déby è arrivato in Israele nel pomeriggio e ha avuto subito un incontro con Netanyahu, seguito da una conferenza stampa. In serata Déby è stato ospite di onore di una cena offerta dal premier. «Ho discusso col presidente Déby - ha spiegato alla stampa Netanyahu - dei cambiamenti in corso nel mondo arabo riguardo Israele, così come si sono manifestati nel mio incontro in Oman col sultano Qabus. Prossimamente ci saranno altri incontri in paesi arabi».
Déby, dal canto suo, ha espresso soddisfazione per lo stato dei rapporti bilaterali e non ha escluso che le relazioni diplomatiche possano essere ufficialmente riallacciate. «Tuttavia - ha precisato - non possiamo far scomparire la questione palestinese». Il Ciad, ha rilevato, è favorevole a trattative di pace israelo-palestinesi, e in particolare all'iniziativa di pace araba.
Il vertice con Déby è il secondo a sorpresa nel giro di un mese. Recentemente, infatti, Netanyahu ha visitato l'Oman, un altro paese che non intrattiene relazioni diplomatiche con Israele, e ha incontrato il sultano Qabus. Due ministri sono andati invece nelle scorse settimane negli Emirati Arabi Uniti.
(L'Osservatore Romano, 27 novembre 2018)
Putin e Netanyahu, prove di disgelo
di Roberta Bendinelli
Lo scorso settembre, i rapporti tra Mosca e Tel-Aviv erano peggiorati a seguito dell'abbattimento di un velivolo russo da parte della contraerea siriana. Quest'ultima, responsabile materiale del fatto, avrebbe però attaccato l'Il-20 per errore, nel tentativo di colpire le forze israeliane. Pur avendo cercato di svincolarsi, Israele non è riuscita a sfuggire all'ira di Putin.
Russia e Israele in Siria
La guerra siriana, scoccata in seguito alle agitazioni popolari e pro-democratiche del 2011, ha da tempo visto la compresenza di velivoli israeliani e russi all'interno dello spazio aereo siriano. Mosca, infatti, è uno dei principali sponsor del volto ufficiale del potere, incarnato da Assad, insieme all'Iran. Tel-Aviv è subentrata non per fortificare le ragioni dell'una o l'altra fazione (Assad e i ribelli), bensì per evitare l'asserragliamento degli iraniani nel territorio di Damasco. Si parla, al riguardo, di "military entrenchment".
Lo scontro tra gli interessi di Putin e Netanyahu non è mai stato quindi diretto, ma conseguenza obbligata delle rispettive mire in Medioriente. La Russia sostiene il lato istituzionale del potere siriano, Israele vuole impedire ad uno degli alleati russi (almeno nella zona) di aumentare la sua influenza nella zona. Tra le due parti esiste un patto di mutua non-aggressione, o "deconfliction", che si temeva sarebbe stato messo a dura prova proprio dall'incidente.
Il culmine, la moderazione
La situazione ha raggiunto il culmine con la decisione del Cremlino di inviare in supporto agli alleati schierati in Siria i sistemi di difesa aerea "S-300", in grado di rendere particolarmente temibile la contro-offensiva siriana. In questo quadro, l'incontro dei giorni scorsi, il primo dopo la caduta dell'Il-20, sembra introdurre una ventata di moderazione. Un affievolirsi delle tensioni che non deve sorprendere: né Putin né Netanyahu trarrebbero giovamento da un aumento della tensione, che anzi contribuirebbe a complicare ulteriormente le rispettive azioni sul suolo e nei cieli siriani.
A margine dell'incontro, svoltosi a Parigi l'11 novembre, in occasione dell'anniversario della fine della Grande Guerra, Netanyahu ha definito l'inatteso vertice "very good", "to the point" e "very important". Pur non avendo descritto con più precisione il contenuto della conversazione con Putin, il commento consente di sperare in un disgelo. Se però questo disgelo sarà reale o resterà un buon proposito per l'anno nuovo, lo si potrà scoprire solo con l'evolversi delle rispettive condotte in Siria.
(Europae, 27 novembre 2018)
Sala «terrorista». L'indignazione della Comunità israelianaERRORE: Comunità ebraica, non israeliana
di Giannino della Frattina
Con una novità il solito vergognoso spettacolo quello andato in onda sabato in piazza san Babila nella periodica intifada nostrana organizzata dalla sinistra. Sempre sicura di rimanere impunita. Slogan contro Israele e gli Usa e questa volta insulti anche contro il sindaco Beppe Sala definito «terrorista» prima da una relatrice, poi da un gruppo di partecipanti, mentre gli organizzatori del Coordinamento lombardo per la Palestina non hanno potuto che prendere le distanze. Immaginate cosa avrebbero organizzato politici, sindacati e soprattutto i magistrati se le stesse parole fossero state urlate da manifestanti di destra. Apriti cielo. E, invece, come se niente fosse.
Tutti muti di fronte al solito violento show «contro i crimini sionisti» inscenato dal Fronte Palestina e dalla sinistra dopo che per giorni il centrodestra aveva chiesto a sindaco e prefetto di impedire la manifestazione, visti gli eccessi dell'anno scorso sfociati in cori antisemiti e jihadisti. Ieri la solidarietà a Sala della Comunità ebraica per gli insulti scanditi dal corteo. «Purtroppo a essere ragionevoli e riconoscere quello che dovrebbe essere ovvio - cioè che lo Stato di Israele ha diritto di esistere - si arriva a essere tacciati addirittura di "terrorismo" dai soliti fanatici. I numeri esigui dei manifestanti non devono comunque farci dimenticare che esistono ancora luoghi dove si propaga odio e contro i quali non smetteremo di attivarci in tutte le sedi. Non importa da quale parte politica o religiosa venga l'odio, saremo sempre vigili sugli incubatori di intolleranza».
(il Giornale, 27 novembre 2018)
Antisemitismo in Europa: uno su 20 ignora Olocausto
Gli stereotipi antisemiti sono ancora forti in Europa, dove sta svanendo il ricordo dell'Olocausto. E' quanto sostiene la Cnn alla luce dei risultati di un sondaggio condotto tra il 7 e il 20 settembre su un campione di 7.092 adulti in sette Paesi europei (Austria, Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Svezia e Ungheria). Stando ai risultati della ricerca condotta all'istituto ComRes, oltre un quarto degli europei intervistati ritiene che gli ebrei abbiano troppa influenza in affari e finanza; quasi uno su quattro pensa che abbiano troppa influenza nei conflitti in atto nel mondo; uno su cinque che abbiano troppo potere sui media e altrettanti sulla politica. Inoltre, circa un europeo su 20 nei Paesi interessati dal sondaggio non ha mai sentito parlare dell'Olocausto, lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte del regime nazista. In tale ambito "gli americani non stanno meglio", ha sottolineato la Cnn, riportando i dati di un sondaggio condotto all'inizio dell'anno, secondo cui il 10% degli americani ha detto di non essere certo di aver mai sentito parlare di Olocausto. Un dato che è di uno su cinque tra i millennial, metà dei quali non ha saputo neanche indicare un solo campo di concentramento.
(Shalom, 27 novembre 2018)
Tutti i modi del Talmud per chiedere la pioggia
di Elena Loewenthal
Potrà sembrare strano per una lingua che nasce nell'aridità del deserto, ma l'ebraico ha un lessico variegato per dire «pioggia»: la più amata è certamente la prima della stagione, che si attende quasi quanto il Messia.
Il trattato Ta'anit del Talmud, oggi in traduzione italiana a cura di Michael Ascoli nel contesto del «Progetto Talmud» finanziato dal ministero dell'Istruzione e della Ricerca, è dedicato ai tempi e ai modi del digiuno ebraico. Che non è mai una mortificazione fisica fine a sé stessa, ma racchiude sempre vari livelli di significato. Il primo capitolo del trattato è interamente dedicato alla pioggia - e alla benedizione che essa porta con sé - , a ciò che si ha da fare quando non arriva: «Non si richiede la pioggia se non nel periodo vicino alla stagione delle piogge».
Il digiuno che si pratica per la pioggia diventa un modo come un altro per dialogare con il Signore. Il trattato Ta'anit prosegue con una ricca disamina dei modi, dei momenti, delle preghiere prescritte per i digiuni. Spiega quelli «canonici» -dal 9 del mese di Av che commemora la caduta del Tempio di Gerusalemme a quello del Kippur, il giorno dell'Espiazione. Questo momento solenne del calendario ebraico è, insieme al 15 del mese di Av, il «più festivo per Israele». Se di quest'ultimo è detto che «fu il giorno in cui fu permesso alle tribù di sposarsi fra loro», il digiuno di Espiazione è un «giorno di perdono e assoluzione», ma anche «il giorno in cui furono date le seconde tavole della Legge». Vita e memoria, fede e dialettica, si intrecciano sempre nelle parole del Talmud.
(La Stampa, 27 novembre 2018)
Shoah: suora e professoressa «Giuste tra le nazioni»
FIRENZE - Ci sono, in Toscana, due nuove «Giuste tra le nazioni»: si tratta di Benedetta Pompignoli e la professoressa Nella Bichi, per quanto fecero per salvare Miranda
Servi Cividalli e sua madre Pia Ajò Servi. Stamani, 26 novembre, in sinagoga a Firenze la consegna, in memoria, delle medaglie del Memoriale della Shoah di Gerusalemme, lo Yad Vashem, a Raffaele Favilli, nipote di Nella Bichi, e Gigliola Pompignoli, nipote del fratello della religiosa, suora del convento francescano di via de' Serragli, dove mamma e figlia si nascosero nel '43. Tra gli interventi in sinagoga quello di Sara Cividalli, ex presidente della Comunità ebraica fiorentina e attuale Consigliere Ucei, figlia di Miranda e nipote di Pia Ajò Servi e che oggi, per la prima volta, ha parlato della storia della madre e della nonna, scoperta una decina di anni fa.
«È un momento importante della mia vita - ha detto - e io sono nata e vivo grazie a suor Benedetta e a Nella Bichi, due donne eccezionali, speciali che, a rischio della propria vita hanno permesso alla mia mamma di vivere e poi di scegliere di farmi nascere. Madri della mia mamma e mie madri per il loro essere se stesse, sempre, anche nei momenti più bui, madri per quanto mi hanno regalato e per quanto continuo a scoprire».
«La storia fa parte del nostro dna - ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella, tra i presenti alla cerimonia -. Noi non dobbiamo liberarci della storia, ma attingere dal passato per costruire un futuro migliore». Molte le scuole presenti: proprio ai ragazzi si è rivolto Nardella affermando che le nuove generazioni hanno la fortuna di non sapere cosa è stata la guerra. Per questo abbiamo bisogno delle testimonianze. Il sindaco di Firenze ha rivelato poi di «aver scovato negli archivi storici quali fossero i documenti che i funzionari del Comune stilavano negli anni delle persecuzioni razziali, avendo sentito una stretta al cuore quando ho trovato stampato tutti i documenti di schedatura dei cittadini fiorentini di razza ebraica».
(firenzepost, 27 novembre 2018)
"Theresa May ha rifiutato l'asilo ad Asia Bibi". Londra capitola agli islamisti
di Giulio Meotti
ROMA - Sei anni fa, una ragazza pachistana ridotta in fin di vita dagli integralisti islamici arrivò nel Regno Unito per essere operata e ricoverata nell'ospedale Queen Elizabeth di Birmingham, Si tratta, come è noto, di Maiala Yousafzai, musulmana e futuro premio Nobel per la Pace e simbolo della lotta delle ragazze per avere una istruzione. Maiala oggi vive in Inghilterra, che le ha concesso l'asilo politico. Oggi, però, a un'altra cittadina pachistana, Asia Bibi, una cristiana anche lei vittima degli integralisti islamici del suo paese che l'hanno tenuta nel braccio della morte per dieci anni, il Regno Unito rifiuta di concedere l'asilo. Ieri i giornali inglesi hanno raccontato che dietro allo scandaloso diniego ci sarebbe la stessa Theresa May, Il destino di Asia Bibi aveva spinto il ministro dell'Interno, Sajid Javid, a perorare la causa della donna pakistana per farle avere l'asilo nel Regno Unito. Ma il suo piano sarebbe fallito dopo che la May è stata convinta che lasciare entrare Asia Bibi avrebbe "alimentato le tensioni" tra i musulmani britannici. Javid era stato sostenuto nella sua battaglia anche dal ministro degli Esteri Jeremy Hunt, mentre i funzionari del Foreign Office sostenevano che permettere ad Asia Bibi di trovare rifugio nel Regno Unito avrebbe messo in pericolo la "sicurezza" dei diplomatici britannici a Islamabad. Una fonte del governo ha detto: "Sajid era molto scettico nei confronti del parere ufficiale e aveva spinto fortemente perché le fosse dato l'asilo. Alla fine il dossier è arrivato sulla scrivania del primo ministro, ma ha seguito il consiglio dei funzionari".
Qamar Rafiq, attivista per i diritti umani che aveva promosso la campagna per Asia Bibi in Gran Bretagna, ha dichiarato: "Non solo io, ma molti cristiani sono delusi dal governo britannico che non l'ha accolta". Joseph Nadim, un attivista cristiano e amico di Asia Bibi in Pakistan, ha detto che "se rimarrà qui a lungo sarà uccisa. Sono deluso che il Regno Unito non abbia offerto asilo". Tra le dimissioni innescate dal progetto di accordo sulla Brexit con l'Unione europea una si è distinta. Il vicepresidente del Partito conservatore, Rehman Chishti, ha detto che il fallimento del governo britannico nel concedere asilo ad Asia Bibi è stato un fattore scatenante la sua decisione di dimettersi. Wilson Chowdhry, presidente dell'Associazione cristiana pachistana britannica, aveva già rivelato all'Huffington Post che "portato a credere che il governo del Regno Unito teme che il suo trasferimento nel Regno Unito causi problemi di sicurezza e disordini tra alcune parti della comunità e possa essere anche una minaccia alla sicurezza per le ambasciate britanniche all'estero che potrebbero essere prese di mira dai terroristi islamici". Il Foreign Office ha poi ammesso che la paura di attacchi al personale diplomatico ha influenzato la decisione di non concedere I 'asilo ad Asia Bibi. Nella sua lettera di dimissioni, Chishti ha scritto: "Ho trovato scioccante che il governo britannico non stia mettendo in pratica i valori fondamentali che il nostro paese rappresenta: libertà religiosa, giustizia, fare moralmente la cosa giusta, e che quando vediamo un'ingiustizia in cui la vita di un individuo è in pericolo ed è perseguitata per la sua fede, facciamo tutto il possibile per aiutarla". In effetti, è difficile pensare a qualcuno più meritevole di asilo in Inghilterra di Asia Bibi, anche considerando un recente rapporto del Times che conferma che decine di "spose dell'Isis" torneranno in patria dalla Siria per godere di tutti i diritti e benefici della cittadinanza britannica, che avevano rifiutato quando si erano unite alla follia di un progetto di omicidio di massa come quello dell'Isis, per la promozione della schiavitù sessuale e della sharia. Il loro ritorno in Gran Bretagna non causerebbe "disordini in alcune parti della comunità"? "Questa è una capitolazione storica del nostro ministero dell'Interno e degli Esteri che invia un messaggio sbagliato agli estremisti", ha detto Chowdhry su Asia Bibi. Il mese scorso Lord Alton, un parlamentare cattolico inglese, era andato a Islamabad per incontrare Saqib Nasir, uno dei tre giudici che hanno assolto Bibi. Ha detto Alton: "La nostra incapacità di parlare o agire è stata vergognosa".
(Il Foglio, 27 novembre 2018)
Israele-Italia, via al gasdotto che cambia i rapporti di forza
di Davide Frattini
Assicura Yuval Steinitz, ministro israeliano per l'Energia, che l'accordo «servirà a contenere l'influenza araba in Europa». Ammonisce John Bolton, consigliere per la sicurezza americano, che «l'Europa non deve dipendere dai capricci russi per il fabbisogno». Perché dentro gli oltre 2 mila chilometri di tubi che verranno posati nel Mediterraneo non viaggia solo gas naturale, si muovono anche gli equilibri geostrategici e le sfide tra nazioni.
L'intesa sul gasdotto EastMed - annuncia la tv pubblica israeliana - è stata raggiunta: i tecnici hanno definito i dettagli finanziari e ingegneristici di quella che sarà la conduttura sottomarina più lunga al mondo e che dovrebbe costare 7 miliardi di dollari. Il gas estratto dai giacimenti israeliani e ciprioti nel Levante partirà dalle acque attorno a Cipro, per passare dall'isola di Creta, l'entroterra greco e approdare al largo di Otranto sulla costa pugliese.
La Commissione europea ha già speso 100 milioni di euro in studi di fattibilità e per l'Italia ci aveva messo la firma Carlo Calenda, allora ministro dello Sviluppo economico, nell'aprile del 2017- Quello era un memorandum d'intesa, la decisione di proseguire insieme nel progetto. Adesso la stretta di mano definitiva e ufficiale è prevista da qui a tre mesi. E il gasdotto che può cambiare i rapporti dell'Europa - Italia compresa - con il Medio Oriente e la Russia di Vladimir Putin dovrebbe essere pronto attorno al 2025.
(Corriere della Sera, 26 novembre 2018)
L'Agenzia Ue sull'antisemitismo in Europa
Nell'anniversario della "notte dei cristalli" (9 novembre 1938) l'Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato il rapporto dal titolo "Antisemitism: overview of data available in the European Union 2007-2017" (fra-2018-antisemitism-update-2007-2017_en) dal quale, ancora una volta, risultano le lacune a livello statale anche con riguardo alla raccolta dei dati relativi agli episodi di antisemitismo.
Proprio questo vuoto, che è totale in 7 Stati membri (Finlandia, Ungheria, Irlanda, Malta, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito), rende difficile la comprensione del fenomeno e, di conseguenza, l'individuazione di risposte adeguate, soprattutto sul piano educativo. In via generale, l'Agenzia evidenzia anche un'assenza di dati adeguati sui crimini d'odio, incluso il negazionismo e, per assicurare un miglioramento in quest'ambito, ha adottato una guida sulle prassi per combattere tali crimini. I dati raccolti nel volume provengono dalle autorità nazionali e da organizzazioni non governative.
Esaminato il quadro normativo esistente sul piano internazionale e dell'Unione europea, l'Agenzia ha analizzato le principali sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, nonché i documenti di organismi internazionali che vigilano sull'attuazione di talune convenzioni in materia di diritti umani. Segue un'analisi dei singoli Stati.
Per quanto riguarda l'Italia, gli incidenti registrati nel 2010 erano 16, balzati a 32 nel 2017, con una lieve flessione rispetto al 2016 (35).
(Marina Castellaneta, 26 novembre 2018)
Un'arca di Noè dall'Olanda a Israele
di Elena Loewenthal
La tradizione ebraica ammette quattro livelli d'interpretazione del testo biblico, le cui iniziali formano un suggestivo acronimo, Pardes («paradiso»): si tratta del peshat, il senso letterale, il remez, quello simbolico, la derashah, cioè la lettura omiletica e infine il sod, «segreto», che indica l'approccio mistico.
Allora non si può certo dire che il signor Johan Huibers, un simpatico signore sessantenne di Dordrecht, Olanda, cristiano credente e creazionista, non abbia preso sul serio il primo metodo interpretativo dell'esegesi biblica, nello specifico per quanto riguarda il passo che comincia in Genesi 6, 14 e dice: «Fatti un'arca di legno di pino, falla a scompartimenti e spalmala di dentro e di fuori con pece. La farai così: la lunghezza dell'arca sarà di trecento cubiti, la larghezza di cinquanta e l'altezza di trenta. Fai all'arca una finestra al di sopra, della grandezza di un cubito; la porta dell'area la collocherai da un lato di essa, falla a piani inferiori, secondi e terzi».
A onor del vero, il signor Huibers era già nel settore: ha fatto fortuna costruendo magazzini portuali. Nel 2008 ha iniziato la costruzione dell'Arca di Noè, cioè di Johan; ma tutto era cominciato nella sua testa molto tempo prima, leggendo la storia dell'Arca biblica a sua figlia bambina, nel 1993. Johan ci ha lavorato indefessamente per quattro anni, coadiuvato da soltanto otto uomini. Ci sono voluti circa dodicimila alberi - cedri americani e pini (l'indicazione dell'albero tradotto con «pino», gofer nel racconto biblico, è assai vaga). Ultimata nel 2012, l'Arca di Johan è lunga quasi cento e venti metri, larga trenta e alta ventitré: questa la scala stabilita per le unità di misura del testo sacro. E' uno scafo assai massiccio, imponente, una specie di immensa casa galleggiante che ospita al suo interno scale, gabbie, piani che si intersecano: una via di mezzo fra Cecil B. DeMille, Walt Disney e Gustav Doré.
Costata la bellezza di circa quattro milioni di euro, l'arca di Johan ha vagato per qualche anno nei canali dei Paesi bassi, a mo' di rinomata attrazione turistica. Ora il suo proprietario ha deciso di fare il gran passo: portarla nel suo habitat naturale, e cioè la Terra Promessa. «Amo quella terra, amo il paese, amo il suo popolo», ha dichiarato Johan Huibers parlando del moderno Stato d'Israele, «non obbediscono, fanno quel che gli pare, guidano come pazzi, spintonano in coda e non danno retta a nessuno. Proprio come me».
La questione non è da poco, perché l'Arca di Noè non è adatta alla navigazione sul mare. Fino ad ora ha solcato soltanto i placidi canali olandesi. E ovviamente non ha motore: ci vorrebbero dei rimorchiatori e circa un milione e trecentomila euro di spese stimate, per farle fare quella che in ebraico si dice aliyah, la «salita» verso la Terra, anzi il Mare Promesso. Ma Johan Huibers è fiducioso che i fondi si troveranno (lui stesso non ne ha più molti, dopo questa impresa) e dice che non demorderà fino a che non vedrà la sua Arca salpare dal freddo Nord alla volta del Mediterraneo: «E' una copia della nave di Dio», spiega, «I'unica cosa logica è portarla nella terra del Signore».
(La Stampa, 26 novembre 2018)
Insulti contro Israele e Sala: "Sionista, sei tu il terrorista"
Più sinistra che palestinesi al corteo in San Babila Attacchi al sindaco, poi gli organizzatori si dissociano.
di Alberto Giannoni
È andata come previsto: male. Insulti contro Israele e gli Usa, e anche insulti contro il sindaco di Milano Beppe Sala, definito «terrorista» prima da una relatrice, poi da un gruppetto di partecipanti, mentre gli organizzatori del Coordinamento lombardo per la Palestina hanno preso le distanze.
Non c'erano i centri islamici: per lo più militanti e autonomi di sinistra. C'erano un centinaio di persone in piazza San Babila, alle 16, alla partenza del corteo convocato «contro i crimini sionisti». La manifestazione era stata criticata da tutto il centrodestra, che aveva ben presente come l'anno scorso, in un'occasione analoga, fosse partito un coro antisemita e jihadista. Lega e Forza Italia hanno sollecitato l'intervento del sindaco. Ma anche dal Pd si è levata forte una voce, quella di Emanuele Fiano, che ha annunciato la sua intenzione di «chiedere lumi» sull'autorizzazione all'evento, chiamando in causa il ministro dell'Interno Matteo Salvini: «Cosa intende fare?» ha scritto. Fiano ha ricordato di aver denunciato i cori antisemiti. «Di più - ha aggiunto - io ho dovuto sporgere in passato denuncia contro un organizzatore, per minacce».
Molti temevano un esito simile anche stavolta. E alla vigilia dell'evento Sala è intervenuto: «Questa manifestazione è veramente da condannare - ha detto - l'idea che non si riconosca dopo tanto tempo lo Stato di Israele è qualcosa che non appartiene alla cultura di Milano». Parole che a molti manifestanti non sono piaciute. Alcuni, memori dell'increscioso episodio del 2017, ieri indossavano un cartello: «Se mi chiami antisemita ti querelo». «Non siamo contro gli ebrei» ha detto un organizzatore. La piattaforma emersa da slogan, striscioni e documenti letti al microfono era di irriducibile ostilità nei confronti di Israele, declinata nella solita versione «antisionista». «Invito a boicottare - ha detto uno dei promotori - ogni iniziativa, sportiva, culturale, scientifica e ogni prodotto che arrivi da Israele», definito a più riprese «Stato terrorista», oltre che «regime di apartheid». Non sono mancati i cori inneggianti all'intifada. Una militante al microfono ha parlato di «donne palestinesi perseguite, torturate e violentate», nonché di «lager». I militari israeliani sono stati definiti «una brigata ebraica capace di uccidere come i nazisti», dipinti come cecchini che «premono il grilletto». «Questo è lo Stato democratico del Medio oriente - ha detto al microfono una partecipante, riferita a Sala - lo Stato che uccide e tortura». «La democrazia è come quella che abbiamo qua - ha proseguito - quella del decreto Salvini e prima del decreto Minniti». «Se c'è un terrorista qui è Sala» ha concluso. Il consigliere comunale Carlo Monguzzi, passato a dare un'occhiata, ha ascoltato inorridito e contrariato e se n'è andato via. Solidarietà al sindaco anche da Pierfrancesco Majorino, Daniele Nahum e Fiano. Qualcuno dal camion che guidava il corteo poi ha provato a mandare altri messaggi al «nostro amatissimo sindaco», precisando che «quando dice che Milano sta con Israele parla a titolo personale». Ma lo stesso insulto è stato ripetuto alla fine, in piazza Scala, dove gli organizzatori sono stati più pronti a intervenire prendendo le distanze, mentre un coro animato da quattro-cinque più esagitati proseguiva col coro: «Sala sionista, sei tu il terrorista».
(il Giornale, 26 novembre 2018)
Grande successo per Gusto Kosher
di Giorgia Calò
Dopo quattro giorni ricchi di degustazioni, incontri e workshop, Gusto Kosher chiude in bellezza con un grande evento al Palazzo della Cultura, alla scoperta dell'enogastronomia ebraica. Stand con vini, spezie, pizza ebraica e cibi tradizionali, e anche uno spazio per i più piccoli; un'esperienza coinvolgente per tutta la famiglia, ma anche un'occasione per apprendere le regole della casherut e assaggiare cibi particolari, preparati da Le Bon Ton Catering.
Nerina Di Nunzio, Fondatrice di Food Confidential e Direttrice IED Rom ha presentato un live cooking con lo chef scozzese-israeliano Omri McNabb e un mixologist show con bar tender israeliano Gilad Livnat, in cui i due ospiti hanno preparato il loro piatto o cocktail di fronte al pubblico, sempre rispettando il tema della manifestazione: "BERESHITH Racconti di grani e spezie". Sono state proprio le spezie le protagoniste principali dei piatti: considerate più preziose dell'oro nell'antichità, ingredienti ottimi da mangiare e da bere.
(Shalom, 25 novembre 2018)
Ambasciata di Israele, la memoria in 70 foto
La mostra voluta da Ofer Sachs, che ha ricevuto il presidente della Knesset Yuli-Yoel Edelstein
di Paola Pisa
L'ambasciatore di Israele, Ofer Sachs, ha ricevuto il Presidente della Knesset Yuli-Yoel Edelstein, eccezionalmente presente alla inaugurazione della mostra "Dalla Terraferma alla Terra Promessa. Aliya Bet dall'Italia a Israele, 1945-1948". L'esposizione curata da Rachel Bonfil e Fiammetta Martegani occupa due piani della Casina dei Vallati in via del Portico d'Ottavia e racconta per immagini, con leggende esplicative, scritti di Primo Levi, e testimonianze filmate, le vicende della odissea che ha portato gli ebrei reduci dai campi di concentramento, alla fine della seconda guerra mondiale, a cercare di tornare in Palestina, allora sotto il Mandato britannico.
Ad accogliere le molte personalità presenti, tra cui Ami Katz Direttore del Muza-Eretz Israel Museum, il Presidente della Comunità Ebraica Romana Ruth Dureghello e il Rabbino Capo di Roma Riccardo lli Segni, è stato il Presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma, Mario Venezia. Settanta le foto davanti alle quali ci si è soffermati, alcune delle quali ritraggono ebrei in partenza sulle navi che dovranno portarli nella nuova Patria, quello che diventerà lo Stato di Israele. Nella foto anche immagini di Cinecittà, non Hollywood sul Tevere o luogo di propaganda fascista, ma diventata punto di asilo per chi era di passaggio a Roma in attesa di imbarcarsi su quelle 34 navi che partirono dalle coste italiane con 21mila ebrei. Momenti intensi, poi un ricevimento e l'accorrere di moltissimi invitati.
Il Forum Austriaco di Cultura invita alla proiezione, domani, del film "Jacopo" della regista Angela Huemer e segnala la mostra "Viaggio nel Colosseo - Magico Fascino di un Monumento" che verrà inaugurata il 6 dicembre. È firmata dall'artista austriaco Gerhard Gutruf che nel Museo dei Fori Imperiali espone una personale di opere ispirate esclusivamente al celebre anfiteatro. Trentadue lavori che dialogano con gli oggetti esposti nel museo, risalenti a duemila anni fa. È stato proiettato all'IILA, Istituto Italo Latino Americano, il documentario "Dominicanas a traves de la Historia 1831-1942" della regista dominicana Jocelyn Espinal. L'evento e la conferenza sulle donne latinoamericane che sono state protagoniste della storia, hanno messo l'accento sul lavoro e la partecipazione femminile alla lotta per l'indipendenza e l'emancipazione del popolo dominicano.
(Il Messaggero, 26 novembre 2018)
Il mondo arabo verso Israele. Iran e palestinesi restano isolati
Si allunga la lista dei paesi arabi intenzionati a normalizzare i rapporti con Israele a dispetto degli appelli lanciati dal leader di Hamas e dagli Ayatollah iraniani.
Storica visita del Presidente del Ciad, Idriss Déby, in Israele, ennesimo Paese arabo che spontaneamente compie un importante avvicinamento verso la normalizzazione dei rapporti con lo Stato Ebraico.
Durante la conferenza stampa seguita all'incontro è emerso che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, si recherà presto in altri Paesi arabi senza però spiegare quali anche se, secondo fonti vicine a Netanyahu, tra questi Paesi arabi dovrebbero esserci quasi certamente il Sudan e soprattutto il Bahrain.
(Rights Reporters, 26 novembre 2018)
Israele, visita a sorpresa del presidente del Ciad
di Giordano Stabile
Il presidente del Ciad, Idriss Deby, è arrivato a sorpresa in Israele e incontrerà oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu. L'incontro sarà a carattere "privato" perché i due Paesi non hanno relazioni diplomatiche. Al termine del colloqui i due leader diffonderanno un comunicato.
Quella di Deby è la prima visita in assoluto di un presidente del Ciad in Israele, un evento storico. Le due nazioni hanno interrotto le relazioni diplomatiche nel 1972.
La popolazione del Ciad è quasi tutta musulmana e l'arabo è una delle lingue parlate anche se minoritaria. Il vertice con Deby è il secondo a sorpresa nel giro di un mese. Netanyahu ha visitato infatti l'Oman, una altro Paese che non intrattiene relazioni diplomatiche con Israele, e ha incontrato il sultano Qabus. Due ministri sono andati invece nelle scorse settimane negli Emirati Arabi.
L'intensa attività diplomatica in nazioni arabe e musulmane serve anche ad aprire la via al piano di pace saudita-americano, che dovrebbe essere presentato nei prossimi mesi. Israele ha bisogno dell'appoggio dei Paesi vicini, islamici, per spingere i palestinesi ad accettare.
(La Stampa, 25 novembre 2018)
Mitterrand come Moro, pronto a vendere gli ebrei ai terroristi
Quel che ci insegnano le recenti rivelazioni sui servizi segreti francesi.
di Ugo Volli
Un articolo pubblicato qualche giorno fa sull'edizione francese di The Times of Israel contiene una rivelazione che ha molto turbato gli ebrei francesi, ma riguarda anche noi italiani. Vi si legge l'ammissione del capo del servizio segreto interno francese DST (Direction de la Surveillance du Territoire), il prefetto Yves Bonnet, che l'agenzia da lui diretta, dopo l'attentato di Rue de Rosiers, strinse un accordo con il capo terrorista Abu Nidal. L'attentato di Rue de Rosiers fu un sanguinoso attacco antisemita, in cui un commando terrorista palestinista colpì con mitra e bombe a mano gli avventori di un ristorante nella via centrale del quartiere ebraico del Marais a Parigi, provocando sei morti e ventidue feriti. Esso avvenne il 9 agosto 1982 qualche mese appena prima dell'attacco alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre. Entrambi gli attacchi, come poi la strage di Fiumicino del 1985 (13 morti e 76 feriti in un tiro al bersaglio contro i viaggiatori che facevano il check in ai banchi di El Al e TWA) sono attribuiti al gruppo di Abu Nidal.
E proprio con Abu Nidal, dopo averlo individuato come il responsabile della strage, lo stato francese fece un accordo. Non cercò dì catturarlo, ma gli concesse via libera. Lo racconta Bonnet in questi termini:
"Ci siamo messi in contatto con l'organizzazione di Abu Nidal. Da quel momento in poi abbiamo avuto una specie di patto non scritto che stabiliva che la gente di Abu Nidal non commettesse più attacchi in Francia, e in cambio ho assicurato loro che potevano venire in Francia"
|
|
Anche il generale Philippe Rondot, a quel tempo capo dei servizi segreti militari, ha raccontato in un'intervista la stessa storia:
"Tramite un ufficiale dei servizi segreti francesi, venne raggiunto un accordo con il terrorista con il quale si impegnava a non colpire la Francia o i suoi interessi. In cambio, la France liberava prigionieri di terrorismo e accoglieva a proprie spese studenti nelle sue università"
|
|
Il presidente Mitterrand era perfettamente informato, come spiega ancora l'incaricato di Bonnet per il Medio Oriente, Louis Caprioli:
"Tutte le decisioni prese nella lotta contro il terrorismo sono decisioni politiche. I servizi non si impegnano in un'operazione se non hanno la luce verde delle autorità. Quindi in queste operazioni, il Presidente della Repubblica è stato informato, tutta questa è stata una decisione politica"
|
|
Vale la pena di aggiungere che molto probabilmente se i francesi avessero dato la caccia ad Abu Nidal, invece di permettergli di usare impunemente il loro territorio, non ci sarebbe stato l'attacco al Tempio di Roma e neppure quello a Fiumicino e quello concomitante a Vienna. C'è dunque una corresponsabilità almeno politica e morale da parte di Mitterand. Molti a sinistra lo hanno considerato un grande modello, un po' oggi fanno con Corbyn, ma che abbia agito in questa maniera non sorprende, visto che era stato un collaborazionista di Vichy, vicino a quel maresciallo Petain che oggi un altro modello della sinistra, il suo successore Macron, non ha vergogna ad omaggiare pubblicamente.
A noi italiani, questa storia non può non ricordare il cosiddetto "Lodo Moro", un altro accordo non scritto (o forse era scritto, ma il testo preciso non è mai uscito), fatto da Moro come ministro degli esteri del Governo Rumor dopo il primo attentato di Fiumicino del 1973 (34 morti e 15 feriti), con tutti i gruppi terroristici aderenti all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Con esso "l'Italia garantiva ai palestinesi - aiutati da gruppi eversivi italiani - libertà di passaggio di armi ed esplosivi sul proprio territorio nazionale, in cambio essi garantivano di non colpirla con attentati ad eccezione degli interessi USA e israeliani." Così lo riassume una interessante voce di Wikipedia: naturalmente fra quel che qui pudicamente si denominano "interessi israeliani" vi sono gli ebrei italiani, venduti un'altra volta ai macellai stranieri da Moro e compagni, come 35 anni prima aveva fatto Mussolini. Il lodo Moro è tornato fuori molte volte. Il primo a parlarne fu proprio Moro, che invocò spesso nelle sue lettere l'accordo fatto con i terroristi palestinesi (che comprendeva anche la liberazione di detenuti) come precedenti per autorizzare la liberazione di brigatisti incarcerati che i suoi sequestratori delle Brigate Rosse pretendevano in cambio della sua vita:
"non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione
la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili" (lettere del 28 e 29 aprile).
|
|
Lo stesso "lodo", che assicurava l'impunità all'attività dei terroristi sul territorio italiano, sarebbe stato violato dall'Italia arrestando nel 1979 a Ortona un gruppo di membri dell'"autonomia" romana che stavano trasportando di un carico illegale di missili militari per conto dei terroristi palestinesi. Questo episodio sarebbe stata (secondo i molti che non credono alla pista neofascista, fra cui l'autorevole giudice Rosario Priore) la ragione di un altro attacco terroristico ordinato dai palestinisti e cioè la strage della stazione di Bologna dell'anno successivo che provocò 85 morti e 200 feriti.
Che questo accordo coi terroristi non si limitasse alla liberazione dei loro complici condannati, il solo punto citato nelle lettere di Moro, ma comportasse completa libertà d'azione per loro, è reso chiaro anche solo dalla vicenda dei missili di Ortona. Basta pensare del resto alla vicenda di Sigonella, gestita da Craxi in modo da assicurare l'impunità agli assassini di Leon Klinghoffer, un vecchio ebreo in sedia a rotelle durante il sequestro dell'Achille Lauro, in quello stesso anno 1985 del secondo attacco a Fiumicino.
Di solito si è sempre pensato che tutto questo torbido intreccio di complicità col terrorismo esibisse solo la particolare viltà, il servilismo e il sostanziale antisemitismo delle maggiori forze politiche italiane. La rivelazione francese mostra invece che la politica italiana non era isolata in questa vergogna, ma che la resa al terrorismo palestinista e la speculazione sulla pelle degli ebrei furono una politica europea abbastanza generale. Nei giorni scorsi è uscita anche un'altra notizia abbastanza sconvolgente che riguarda i servizi segreti francesi. Essi avrebbero rifornito, allenato e protetto i terroristi palestinesi di Fatah durante la terribile ondata terroristica del 2000-2002, che fece centinaia di vittime civili in Israele. Alla luce di questi rapporti, si capisce bene come la televisione pubblica francese sia stata il veicolo della bufala anti-israeliana dell'uccisione del ragazzino Al Dura, che fu uno dei principali argomenti propagandistici contro Israele, perché Arafat moribondo scelse di rifugiarsi solo in Francia per farsi curare, perché diplomatici francesi abbiano contrabbandato armi per conto di Hamas o affrontato a schiaffi i soldati israeliani. Lo stato francese, al di là delle parole pubbliche concilianti, è in guerra con Israele.
Di altri patti e lodi non abbiamo infatti notizia pubblica, ma forse solo perché stretti da stati che sanno tenere meglio i loro segreti. La conclusione è che l'Europa politica che aveva collaborato coi nazisti collaborò poi coi terroristi palestinesi e oggi è, dopo gli stati terroristi, il peggior nemico di Israele. Una continuità che dovrebbe far riflettere i nemici del "populismo" che dipingono l'Unione Europea come barriera contro l'antisemitismo.
(Progetto Dreyfus, 25 novembre 2018)
Edelstein alla Casina dei Vallati. "Aliyah Bet, mostra da vedere"
Dall'intervento tenuto in occasione del Med Forum 2018, durante il quale ha rilanciato le preoccupazioni di Israele per l'espansione iraniana in Medio Oriente, agli incontri istituzionali con esponenti del governo italiano (tra cui il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e la vicepresidente della Camera Mara Carfagna). Una fitta agenda di appuntamenti che per Yuli Edelstein, il Presidente del Parlamento israeliano in visita in Italia, si è conclusa ieri sera con l'inaugurazione della mostra "Dalla Terraferma alla Terra Promessa: Aliya Bet dall'Italia a Israele, 1945-1948" alla Casina dei Vallati, portata a Roma grazie a un accordo tra il Museo Muza - Eretz Israel di Tel Aviv e la Fondazione Museo della Shoah. Curata da Rachel Bonfil e Fiammetta Martegani, la mostra racconta con diverse fotografie e documenti i viaggi dei profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah che, dopo aver attraversato l'Europa tra il 1945 e il 1948, partirono dall'Italia verso l'allora Palestina mandataria e contribuirono a fondare lo Stato ebraico.
"Una mostra emozionante e altamente consigliata" ha sottolineato Edelstein sui propri profili social. Con il presidente del Parlamento israeliano, tra gli altri, il ministro Moavero Milanesi, l'ambasciatore israeliano Ofer Sachs, la viceambasciatrice Ofra Farhi, il presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia, la Presidente UCEI Noemi Di Segni, la presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello, il rabbino capo rav Riccardo Di Segni.
"L'amicizia fra i nostri due Paesi è antica e sempre rinnovata da scambi politici, istituzionali e commerciali. Mi auguro che la collaborazione si intensifichi e che porti prosperità a entrambe le comunità nazionali" ha osservato Carfagna nel corso dell'incontro alla Camera. Presenti, per l'Associazione interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, il deputato Andrea Orsini e i senatori Cinzia Bonfrisco e Lucio Malan.
(moked, 25 novembre 2018)
Leader di Hamas agli arabi: «impedire che gli ebrei infiltrino il mondo islamico»
Alla 32a Conferenza internazionale sull'unità islamica tenutasi a Teheran, in Iran, il piatto forte è stato come sempre Israele e la politica di alcuni Paesi arabi volta a normalizzare le relazioni con lo Stato Ebraico, un vero e proprio incubo per gli odiatori di tutto il mondo
Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha messo in guardia il mondo arabo dallo stabilire regolari relazioni con Israele. Lo ha fatto parlando alla 32a Conferenza internazionale sull'unità islamica che si è tenuta a Teheran, in Iran.
«Gli occupanti sionisti sono i nemici comuni del mondo musulmano. È nostra responsabilità boicottarli, denunciare i loro crimini e impedire loro di infiltrarsi nella comunità islamica» ha detto Ismail Haniyeh alla platea....
(Rights Reporters, 25 novembre 2018)
Il digiuno secondo l'ebraismo
L'astensione dal cibo è strumento di pentimento e di ritorno al Signore attraverso il quale l'uomo sancisce che quanto avviene non è casuale ma è opera di Dio
di Cristiana Dobner
La coraggiosa impresa della traduzione del Talmud Babilonese segna la sua terza tappa con la stampa del Trattato Ta'anit (Firenze, Giuntina, 2018, pagine 332, euro 50), titolo del tutto indecifrabile per i non addetti ai lavori ma che si chiarisce autorevolmente con l'introduzione del curatore Michael Ascoli.
Ta'anit significa digiuno che, nella nostra contemporanea società, suona strano sia come termine (magari immediatamente riferito solo a una prassi dietetica) sia come argomento da trattare in ben quattro ampi capitoli: le piogge e i loro tempi, quando stabilire digiuni nel caso non ne cadano o non ne cadano abbastanza, o comunque non nei momenti in cui serve; le preghiere e gli usi propri dei giorni di digiuno; le circostanze in cui si fa digiuno; i digiuni fissi in ricordo di eventi specifici.
Per l'Israele della Torah, nell'antichità e oggi, l'importanza del digiuno viene sempre ribadita e tramandata alle nuove generazioni perché «il digiuno, come forma rituale ebraica, esprime la contrizione di fronte a una disgrazia che ha colpito o minaccia di colpire la collettività o un singolo. E uno strumento di teshuvà, di pentimento, di ritorno al Signore. Con ciò, l'uomo sancisce che quanto avviene non è casuale, bensì opera di Dio e conseguenza delle nostre azioni».
L'intreccio fra l'Altissimo che continua a operare nelle vicende umane e la libertà delle persone e della collettività per plasmare e decidere il loro presente, viene in qualche modo illuminato e indirizzato dall'astensione dal cibo che, però, da sola non è sufficiente ma deve essere accompagnata dalla preghiera e dalla riflessione sincera sulle proprie azioni perché una Teshuvà possa davvero incarnarsi.
Nel nostro contesto e nella nostra mentalità, siccità, carestie, pestilenze e guerre non vengono immediatamente collegate al volere dell'Altissimo o al non volere della persona umana. Cerchiamo e denominiamo cause e ragioni con altro linguaggio.
Tuttavia, il riferimento al creatore nelle invocazioni per la clemenza del tempo, per il dono della pioggia, per la cessazione di una calamità, dovrebbe entrare e farsi strada nella nostra mente e dovrebbe anche comportare alcune scelte non solo rigorose ma anche penitenziali.
La tenace memoria di Israele ha segnato alcune "tragedie" - date luttuose - e i maestri hanno stabilito che il digiuno le segnasse: la distruzione del Bet haMiqdàsh (il Tempio di Gerusalemme); il digiuno del 9 del mese di Av, che commemora la distruzione del secondo
Tempio; il digiuno di Ghedalià, in ricordo dell'assassinio del governatore di Gerusalemme dopo la distruzione del primo Tempio.
Più noto è il lungo digiuno (che comporta anche l'astensione dall'acqua) che caratterizza Kippur - giorno di perdono e di assoluzione - in cui tutto il popolo risponde al richiamo dell'Altissimo riferendosi al libro del Levitico (16, 29): «Impoverirete le vostre persone».
Un richiamo fortissimo ed esigente a riferirsi all'Altissimo senza per questo tralasciare le nostre cognizioni scientifiche.
Le appendici dettagliate e precise consentono di acquisire una comprensione del linguaggio talmudico e della pregnanza di quanto vuole trasmettere: le unità di misura in epoca talmudica; il glossario; le più comuni espressioni idiomatiche.
Di grande utilità l'indice dei maestri e dei nomi che aiuta a muoversi con sicurezza fra questi grandi israeliti che hanno creduto fermamente nella riflessione, nello studio e nella trasmissione delle loro discussioni.
Le narrazioni, cioè i brani di Aggadà, costellano la dinamica di Ta'anit riproponendo così la caratteristica del Talmud, con «una particolare abbondanza, soprattutto per suffragare l'idea che i premi e le disgrazie devono essere intesi come ricompense e punizioni, conseguenti alle azioni dell'uomo». Sempre «sorprendenti per l'audacia delle loro narrazioni, sfociando spesso nel miracoloso; e la lettura non rimane scevra da un senso di inquietudine di fronte a quella che sembra un'eccessiva severità verso i protagonisti dei miracoli e i loro familiari».
La conclusione di Ta'anit si dilata in «un'immagine bucolica, la descrizione festosa dei giorni più felici dell'anno: il 15 di Av e Yom Kippur, occasioni nelle quali le ragazze, vestite a festa, uscivano nelle vigne e cercavano di conquistare i loro futuri mariti».
Il trattato si chiude con l'augurale formula di rito: «Siamo tornati e torneremo a te, a studiarti di nuovo».
(L'Osservatore Romano, 25 novembre 2018)
|
Giustificati per fede
Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall'ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione.
Dalla lettera dellapostolo Paolo ai Romani, cap. 5
|
|
L'espansionismo d'Israele è nei numeri
di Margherita Furlan
In un solo anno la popolazione israeliana, dalle ultime stime, è salita di quasi il 2 percento, confermando la tendenza degli ultimi anni. Secondo l'Ufficio Centrale delle Statistiche di Tel Aviv, attualmente il Paese ospita 8 milioni abitanti. A pubblicare i dati è il sito Times of Israel, secondo il quale la popolazione israeliana sta crescendo grazie a diversi fattori, non ultimo un vero e proprio boom delle nascite, con 174mila bambini nati in un anno, contro 44mila decessi. Si noti che con l'attuale tasso di natalità, pari a 3,1 bambini per famiglia, entro la metà del secolo, il Paese è in grado di raggiungere una densità di popolazione pari a 700 persone per chilometro quadrato. Una bella cifra se consideriamo che la densità israeliana attuale (400 persone per chilometro quadrato) supera già, se pur di poco, quella europea (368 persone per chilometro quadrato). Sulla base di questi dati si è calcolato che entro il 2060 la densità della popolazione d'Israele si avvicinerà alle 800 persone per chilometro quadrato. Considerato che oggi in Cina in ogni chilometro quadrato vivono mediamente circa 600 persone, è evidente che ciò che sta avvenendo in Israele è un passaggio cruciale nella storia del Paese che tanta influenza ha non solo nel Medio Oriente, ma anche nelle politiche degli USA.
E proprio da Washington si vede bene che i cristiani evangelici, grandi elettori del presidente Donald Trump, finanzino ormai circa un terzo della migrazione attuale degli ebrei verso Israele. Lo rivelano le cifre relative al 2017, pubblicate dalla testata digitale israeliana Ynetnews. Su 28mila ebrei che hanno compiuto lo scorso anno l'aliyah, ovvero l'ascesa-ritorno alla "terra promessa", almeno 8.500 hanno goduto dei fondi raccolti ufficialmente da organizzazioni cristiane, divenute partners dell'Agenzia ebraica per l'aliyah. Fondi che non coprono solo le spese di viaggio, ma anche e soprattutto quelle d'inserimento nella nuova società, con sussidi sociali e aiuti per la costruzione di nuove case. Le due principali sigle di cristiani evangelici impegnate nella causa ebraica sono l'International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) e l'International Christian Embassy of Jerusalem.
Le somme stanziate sono ragguardevoli. Solo la Ifcj ha riferito all'Associated Press di avere distribuito dal 2014 a oggi 20 milioni di dollari per l'aliyah e di avere donato all'Agenzia ebraica 188 milioni di dollari nei due decenni precedenti. A ciò va aggiunto un impegno finanziario analogo della Christian Embassy, oltre a contributi anonimi. "Dopo duemila anni di persecuzioni e oppressione, oggi abbiamo cristiani che aiutano ebrei. Questa è una cosa straordinaria", osserva compiaciuto, parlando con l'Associated Press, il presidente dell'International Fellowship, il rabbino Yechiel Eckstein, anche membro del consiglio di amministrazione dell'Agenzia ebraica.
Gli evangelici, che rappresentano il settore in più rapida crescita del cristianesimo mondiale e dominano ormai la famiglia dei protestanti, vedono nel moderno Stato ebraico e nel suo dominio sulla Palestina la condizione per il realizzarsi delle profezie bibliche e per il trionfo finale del Regno di Dio. D'altronde, l'alleanza tra cristiani evangelici e sionisti ha radici profonde nella storia. Fu un evangelico, lord Shaftesbury, un aristocratico inglese, a inventare nel 1839 lo slogan che si trasformò nell'idea guida del sionismo: "Gli ebrei, un popolo senza un Paese, per un Paese senza un popolo", una frase evidentemente riferita alla Palestina, allora minuscola provincia dell'Impero ottomano, che in realtà aveva la sua popolazione locale. Nel 1890, negli Stati Uniti, i cristiani evangelici costituirono una lobby per la creazione di uno Stato ebraico. Quella iniziativa non ebbe allora alcun risultato. Poi gli evangelici, dopo lunghi decenni di collaborazione sotto traccia, tornarono a presentarsi come i "migliori amici di Israele" (una definizione fatta propria anche dall'attuale premier Benjamin Netanyahu) a partire dal primo governo del Likud guidato da Menachem Begin nel 1979, ed ebbero un ruolo chiave nell'aliyah di oltre un milione di ebrei russi, dopo il collasso dell'Unione Sovietica.
Nell'ultimo anno 30mila nuovi immigranti sono sbarcati in Israele. Un dato molto interessante, se si pensa che nel 1948 la popolazione del neonato Stato ammontava a 806mila persone e che ora dei 15 milioni di ebrei nel mondo il 43 percento risiede in Israele. Cresce infatti la presenza ebraica, attualmente composta da 6 milioni e mezzo di persone, che rappresentano il 74,4 percento dei residenti. La popolazione araba si ferma invece a quasi 2 milioni di persone, cioè il 20,8 percento, mentre altri gruppi etnici, rappresentano il restante 4 percento della popolazione. Appare dunque evidente l'urgenza d'Israele d'impostare un'espansione territoriale che vada al di là dei territori occupati illegalmente, in primo luogo la Cisgiordania e le alture del Golan, in territorio siriano. È dunque probabile che i primi a farne le spese - dato che i confini di Giordania, Egitto, Arabia Saudita sono molto meno penetrabili, per ragioni politiche oltre che militari - potrebbero essere gli abitanti delle alture del Golan, già occupate, come s'è detto, ma non ancora colonizzate. Altri territori vicini potrebbero diventare oggetto di queste attenzioni. Ma anche il Libano è tra i candidati all'invasione.
Comunque vadano le cose, le cifre dicono che l'espansionismo israeliano assumerà dimensioni tali da squassare ulteriormente gli equilibri già instabili dell'intera regione.
(Antimafia, 23 novembre 2018)
Le minacce iraniane vanno prese sul serio
La minaccia iraniana va "presa sul serio". A dirlo, al Forum Med in corso a Roma, è il presidente della Knesset israeliana Yuli Yoel Edelstein. Se l'Iran avrà la capacità nucleare sarà una "catastrofe per tutto il mondo", ma questo è solo parte di un insieme, l'Iran ha come obiettivo diffondere una ideologia di "odio e antisemitismo"- nota Edelstein - "sono figlio di sopravvissuti dell'Olocausto e quando mi minacciano in continuazione io ci credo". I nostri servizi, nota, ritengono che l'Iran "non voglia mettere fine nel lungo periodo" al progetto di sviluppo di armi nucleari. Edelstein ha ricordato il sostegno di Teheran ad Hezbollah e Hamas e ha ribadito che Israele non consentirà una presenza militare dell'Iran a ridosso del proprio confine con la Siria. "L'Iran non è un pericolo solo per noi", ha rimarcato il presidente della Knesset, sottolineando come le sanzioni si siano finora dimostrate "efficaci" perché ora l'Iran "ha meno risorse per finanziare il terrorismo".
(Adnkronos, 23 novembre 2018)
Crescono i turisti a Israele nel mese di ottobre, +63% di visitatori italiani
Il Central Bureau of Statistics di Israele ha diffuso i dati relativi agli arrivi turistici per il mese di ottobre 2018, registrando 484.900 arrivi internazionali, il 14% in più rispetto a ottobre 2017. Le entrate del turismo a ottobre hanno raggiunto circa 569 milioni di euro. La crescita più notevole è stata riscontrata in quei Paesi dove il Ministero sta maggiormente investendo in attività di marketing: +65% in Ungheria, +63% in Italia, +40% in Polonia, Romania e Paesi Bassi, +20% in Germania, +15% in Spagna, +13% negli Stati Uniti e +11% in Francia.
In particolare per quanto riguarda il mercato italiano, sono stati registrati nel mese di ottobre 15.600 arrivi italiani, +63% rispetto al 2017 e +178% rispetto al 2016.
"Il mese di ottobre ha fatto registrare un record storico, con circa mezzo milione di turisti, cifra sorprendente e senza precedenti. Queste statistiche eccezionali sono state registrate mese dopo mese negli ultimi due anni e sono il risultato diretto del grande lavoro che stiamo portando avanti al Ministero del Turismo. I turisti in entrata contribuiscono significativamente sia all'economia di Israele che - non meno importante - alla sua immagine. Sono convinto che continueremo a vedere un grande aumento nel numero di turisti che arrivano in Israele, e che chiuderemo l'anno con un altro record", ha detto il ministro del Turismo Yariv Levin.
Le aspettative del ministro sono di raggiungere oltre i 4 milioni di turisti.
Nel periodo gennaio-ottobre 2018 sono stati registrati circa 3.399.300 arrivi turistici, con un aumento del 15% rispetto allo stesso periodo del 2017 (2.966.000) e del 44% (2.364.700) rispetto al 2016. Per quanto riguarda i turisti italiani, nei primi dieci mesi del 2018 sono stati registrati 114.700 arrivi, +39% rispetto al 2017 e +80% rispetto al 2016. Dall'inizio dell'anno il settore ha contribuito con oltre 4.550 euro milioni all'economia del Paese.
"La crescita è avvenuta grazie alla campagna di comunicazione e all'offerta realizzata attraverso la collaborazione con il trade. Ben 86 sono i voli che collegano settimanalmente l'Italia con Israele", ha ricordato Avital Kotzer Adari, di rettore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano.
Recente è l'ingresso di un volo giornaliero da Roma operato da Norwegian Air Shuttle ASA e già acquistabile è il volo di Sun Dor operato da EL AL che a partire dal 4 giugno 2019 collegherà 1 volta a settimana Cagliari con Tel Aviv fino alla fine di ottobre. Dalla prossima estate sarà anche operativo un volo diretto da Milano Malpensa su Ben Gurion operato da Alitalia.
(Travelnostop, 23 novembre 2018)
Nuovi F-15 per Israele?
Il governo israeliano sta considerando l'ipotesi d'acquisto dii nuovi cacciabombardieri F-15 STRIKE EAGLE prodotti dalla Boeing. Tuttavia non ci sono ancora dichiarazioni ufficiali in merito. Se acquistati, i velivoli (in una variante denominata F-15 IA, presumibilmente derivata dall'F-15X presentato lo scorso luglio) andrebbero ad affiancare la flotta dei caccia stealth F-35 (la quale per adesso conta 9 esemplari). Riguardo questi ultimi, il Governo israeliano attualmente ha un piano che prevede l'acquisizione di 75 velivoli in 3 squadroni. Di questi Israele ha già ordinato 2 squadroni per un totale di 50 esemplari, le cui consegne sono in corso a un tasso di 6 velivoli per anno. Detto ciò, se l'ipotesi d'acquisto degli F-15 dovesse concretizzarsi, l'impegno preso dal Governo israeliano relativo agli F-35 potrebbe essere anche rivisto.
(Portale Difesa, 24 novembre 2018)
Sala condanna il sit-in dell'odio «Milano mai contro Israele»
di Alberto Giannoni
Il sindaco è intervenuto. Ha condannato il nuovo corteo dell'odio, auspicando che domani tutto fili liscio.
Il sìt-in è convocato in piazza San Babila, dagli stessi promotori delle manifestazioni del dicembre 2017, quelle in cui erano state fatte risuonare prima le macabre grida jihadiste e antisemite scandite in coro in piazza Cavour poi gli slogan pro intifada. Il pretesto, oggi come allora, è il sostegno alla «causa palestinese», l'esito in realtà è sempre l'odio nei confronti di Israele, se non nei confronti degli ebrei, come accaduto un anno fa. Sono stati in tanti a intervenire, dopo che Il Giornale ha dato notizia del sit-in: i leghisti Gianmarco Senna e Alessandro Morelli, in Forza Italia Stefano Maullu, Gianluca Comazzi e Fabrizio De Pasquale e ieri anche il leader di «Energie per l'Italia» Stefano Parisi. Tutti hanno chiesto a Sala di intervenire.
Anche la Comunità ebraica lo ha fatto, manifestando «preoccupazione» per l'evento «che ricorda - ha dichiarato - nei toni e nelle sigle dei partecipanti, quella del 9 dicembre 2017».
Sala alla fine ha espresso la sua «ferma condanna» dell'iniziativa. «Ci risiamo - ha detto - Questa manifestazione è veramente da condannare: in questo momento l'idea che non si riconosca dopo tanto tempo lo Stato di Israele è qualcosa che non appartiene alla cultura di Milano. C'è la mia ferma condanna e spero che non ci saranno incidenti, certamente è spiacevole vedere che anno dopo anno ci sono certi atteggiamenti».
(il Giornale, 24 novembre 2018)
*
La doppia morale di Sala. Niente appelli al Prefetto se il corteo è anti Israele
di Fabio Rubini
C'è una sorta di doppia morale che guida le azioni del sindaco di Milano Beppe Sala. Per questo a volte siamo d'accordo con lui (quando manda al diavolo il «modello Avellino» di Di Maio) e altre siamo nettamente contrari (quando recita la parte del comunista convinto). L'ultima sortita del primo cittadino riguarda il corteo anti Israele che domenica attraverserà Milano. Ieri il Nostro, interpellato sul tema, si è lasciato andare a un deciso rimbrotto verso i manifestanti: «Ci risiamo. È una manifestazione da condannare: in questo momento l'idea che non si riconosca dopo tanto tempo lo Stato di Israele è qualcosa che non appartiene alla cultura di Milano. C'è la mia ferma condanna e spero che non accadano incidenti, certamente è spiacevole vedere che anno dopo anno che ci siano certi atteggiamenti».
Fin qui siamo perfettamente in linea con il sindaco. Quello che non ci piace, invece, è la totale passività verso questo corteo tanto caro a una parte della sinistra che lo sostiene in Comune. Se Sala non è d'accordo con questo corteo, tanto da definirlo «da condannare», perché non fa come in occasione della manifestazione del Campo X a inizio novembre? Perché non chiede al prefetto di Milano di vietare la manifestazione proprio come ha fatto con i militanti Casa Pound e i reduci della Repubblica Sociale? Ecco, è questo doppiopesismo di Sala che non ci piace affatto.
Sul corteo di domenica, invece, che dire. Spazzatura. Come spazzatura sono le proteste dei cosiddetti "fìlopalestìnesi" alle quali siamo costretti ad assistere ad ogni 25 aprile, quando la Brigata Ebraica viene prea sistematicamente a male parole durante il corteo della Liberazione. Quasi che gli ebrei che combattendo hanno versato il sangue per la libertà, fossero meno degni di altri di essere ricordati. Certo, come hanno ricordato anche ieri, da anni è il Pd a fare da cordone alla Brigata e a prendersi parimenti gli insulti dei filo palestinesi.
Resta però il fatto che se il corteo pende a destra si deve vietare, se invece solletica l'immaginario della sinistra basta una condanna. Nulla di più.
(Libero, 24 novembre 2018)
In viaggio dall'Italia destinazione Israele
La mostra Aliya Bet con le foto dal '45 al '48
di Natalia Distefano
Al Museo Muza - Eretz Israel di Tel Aviv è stata visitata da migliaia di persone per un anno e mezzo, ora la mostra Dalla terraferma alla terra promessa: Aliya Bet dall'Italia a Israele, 1945-1948 arriva a Roma con la curatela di Rachel Bonfil e Fiammetta Martegani, da domani al 13 gennaio alla Casina dei Vallati, ed ha in fondo il sapore di un ritorno a casa.
Perché racconta la storia di quei sopravvissuti alla Shoah che attraversarono l'Europa, tra il 1945 e il 1948, per arrivare in Italia e partire dall'ultimo tratto di «terraferma» del continente verso la «terra promessa»: ovvero dalle nostre sponde verso il nascente Stato d'Israele. Sta tutto nel titolo e in quel «aliya bet» che riunisce due parole ebraiche dense di significato. Con «aliya» si indica il movimento di ritorno (letteralmente «salita») del popolo ebraico verso i luoghi d'origine, mentre «bet» sta per l'iniziale di «bilti-legali», ossia illecito, come le trentaquattro navi che salparono illegalmente dalle coste di Monopoli, La Spezia, Civitavecchia con a bordo oltre ventuno mila reduci dai campi di sterminio nazista.
La mostra, composta da una settantina di scatti, a distanza di settant'anni ha affrontato la rotta al contrario, da Tel Aviv a Roma. Simbolicamente e in alcuni casi anche letteralmente. Come per la sezione dedicata alla Capitale, che raccoglie le testimonianze fotografiche di una città post bellica quasi inedita, con gli studi di Cinecittà trasformati in centri d'accoglienza per migliaia di ebrei in attesa di poter finalmente salpare per Israele. La memoria riportata alla luce dalla mostra, voluta dalla Fondazione Museo della Shoah e realizzata da C.O.R., è dunque più che mai una memoria collettiva. È insieme la storia del popolo israeliano e dei tanti italiani che in quegli anni accolsero e diedero sostegno ai rifugiati.
Come Enrico Levi, il primo dei capitani coraggiosi al comando dei pescherecci clandestini che sfidarono il mare e il Mandato britannico della Palestina, che all'epoca vietava ai profughi l'ingresso nel paese. Le immagini raccontano poi la solidarietà dei cittadini, le scuole fasciste trasformate in orfanotrofi e la complessa macchina di quella che fu una vera e propria epopea: dal passaggio a piedi sulle Alpi all'acquisto e preparazione delle navi, fino alla traversata e l'arrivo a destinazione. Infine il ritratto dei due protagonisti artefici di questa incredibile impresa: Ada Ascarelli Sereni e Yehuda Arazi.
(Corriere della Sera - Roma, 24 novembre 2018)
"La scuola ebraica è un bene da tutelare"
Festa dell'asset
di Fabrizio Assandri
Si mangeranno i salatini burekas e l'humus e si ascolteranno i brani di Leonard Cohen in versione bluegrass. I vini saranno quelli kasher. Ma ci sarà anche una torta a strati per festeggiare questa sera i dieci anni dell'Asset, l'associazione ex allievi e amici della scuola ebraica di Torino.
Un decennio di impegno per aiutare la scuola ebraica a crescere, con tanti progetti e attività. Dal coro yiddish che si ritrova al Baretti alle gite, alla raccolta fondi per costruire la scala per i disabili nella palestra a quella per allestire la biblioteca a scuola.
L'associazione, presieduta da Giulio Disegni, organizza incontri e iniziative contro l'antisemitismo, e così pure promuovere la cultura ebraica. Come gli incontri sul razzismo sul web e la preparazione dei dolci ebraici che saranno offerti il prossimo 2 dicembre in occasione dell'Hanukkah.
Sempre a favore della scuola, che è paritaria e aperta a tutti, multietnica e multireligiosa, l'associazione ex allievi ha promosso l'insegnamento dell'ebraico sui tablet, ma anche i progetti di robotica insieme al Politecnico.
La festa si terrà questa sera al centro congressi della Camera di Commercio, dalle 19,30, e tra le altre cose servirà ad autofinanziare le attività a favore della scuola, che conta oltre un centinaio di studenti e ha una sezione dell'infanzia, la primaria e la secondaria. Quest'ultima è intitolata a Emanuele Artom, ex insegnante della scuola, partigiano ucciso dai nazifascisti; un'ex allieva celebre è stata Rita Levi Montalcini. «La scuola ebraica di Torino è un'eccellenza da preservare - spiega Disegni-. Proprio per questo il nostro compito è quello di sollevare l'interesse della città verso una realtà che, in questi tempi difficili, ci insegna la convivenza tra culture diverse. Inoltre facciamo da collante tra le generazioni che hanno conosciuto e amato la scuola». La serata prevede la cena, il concerto degli Ashville con Carlo Pestelli, ricordi e canti dei bambini».
(La Stampa - Torino, 24 novembre 2018)
A Budapest il museo della memoria falsata
di Michele Migliori
In occasione di una conferenza accademica in Norvegia nel 1999, Maria Schmidt, storica ungherese e incrollabile sostenitrice del Governo Orb&eagrave;n, sostenne come "la Shoah sia una questione secondaria, marginale, nel contesto della Seconda guerra mondiale". Un'affermazione grave, falsa e senz'ombra di dubbio pericolosa. Ma a renderla ancor più rilevante è il fatto che la storica in questione risulti attualmente come responsabile della mostra permanente del futuro museo della Shoah di Budapest, che verrà inaugurato il prossimo anno, dopo svariati anni di polemiche e ripetuti rinvii. Infatti, a metà settembre Gergely Gulyas, portavoce del Primo ministro Viktor Orbàn, ha annunciato che il nuovo museo della Shoah, rinominato House of Fates, aprirà finalmente le proprie porte nel corso del 2019. Per la sua inaugurazione il governo ha già stanziato 2 miliardi di fiorini, pari a circa 6 milioni di euro, che verranno utilizzati dall'EMIH, Congregazione Ebraica Ungherese, affiliata al movimento Chabad Lubavitch e guidata dal Rabbino filo-Orbàn Slomó Kóves, e dal Centro di Ricerca storica dell'Europa Centrorientale, presieduta, appunto, dalla storica Maria Schmidt.
Per diversi motivi, in passato, tanto la comunità ebraica ungherese (MAZSIHISZ), quanto la comunità scientifica, si erano vivacemente opposti all'iniziativa del governo Orbàn che ha come obiettivo, neppure tanto celato, quello di riscrivere la storia recente del paese danubiano, assolvendo il popolo ungherese dal suo ruolo fondamentale nell'annientamento della comunità ebraica magiara.
Un obiettivo revisionista, quello di Viktor Orbàn, portato avanti sin dalla sua seconda rielezione a Primo ministro nel 2010. Infatti, da allora l'esecutivo ungherese ha cambiato più volte il direttore dell'attuale museo della Shoah, fondato nel 2004, senza però riuscire a modificare i contenuti della sua esibizione permanente. Così, nel 2013 il governo ha iniziato a lavorare al progetto del nuovo memoriale, i cui contenuti sono stati definiti dall'Accademia delle Scienze ungherese come "professionalmente infondati, a volte controversi e sicuramente inaccurati".
"Non esiste alcuna colpa collettiva", ha detto Gulyas, portavoce del Premier Orbàn, in occasione della conferenza stampa sul lancio del nuovo museo. Dimenticando, forse, che l'Ungheria fu il primo paese in Europa, nel 1920, ad imporre il numerus clausus nelle università per gli studenti ebrei, e di come perfino le SS di stanza a Budapest rimasero stupite dall'impazienza, l'entusiasmo e la velocità con cui le autorità ungheresi accolsero l'idea di una soluzione finale per l'ebraismo ungherese. Non a caso, nell'arco di appena tre mesi, da fine aprile a metà luglio 1944, furono deportati nei campi di sterminio circa 440.000 ebrei. Inoltre, mentre gli zelanti uomini di polizia ungheresi deportavano gli ebrei in tutto il paese, a Budapest veniva istituito un gigantesco ghetto, che arrivò ad accogliere fino a 200.000 persone. Si calcola che dal novembre 1944 fino al gennaio 1945, tra i 10 e i 15 mila ebrei vennero barbaramente uccisi dai membri delle Croci Frecciate, movimento neonazista ungherese posto al potere dai tedeschi dopo l'arresto dell'ammiraglio Horthy. Uno dei metodi coi quali le Croci Frecciate procedevano all'uccisione di massa degli ebrei di Budapest, consisteva nel portare piccoli gruppi di persone sulle rive del Danubio, per poi fucilarli e gettarne il cadavere nel fiume.
L'obiettivo del governo è, dunque, quello di rivedere questa parte di storia, cercando di assolvere le responsabilità collettive della nazione ungherese nell'esecuzione della Shoah. Già in passato Orbàn ed il suo esecutivo finirono sotto i riflettori per il monumento in memoria alla Shoah, inaugurato nel 2014 nella centralissima Piazza della Libertà a Budapest. Infatti, il monumento in questione mostra allegoricamente un'aquila rapace (la Germania) che minaccia l'Arcangelo Gabriele (l'Ungheria), innocente ed indifeso. Il monumento vuole così negare le responsabilità dell'Ungheria, alleata dei nazisti, nello sterminio degli ebrei. Una menzogna che non può, e non deve, passare inosservata.
(Pagine Ebraiche, novembre 2018)
Ecco come le armi russe vendute all'Iran finiscono in mano ai terroristi
Un carico di armi russe vendute all'Iran e destinate ad Hamas finisce in mano ai miliziani ISIS che operano nel Sinai. Dovrebbe essere un campanello di allarme per chi intende fare affari con l'Iran, compresa l'Italia. Ma non sembra che la cosa interessi i governi occidentali
Secondo quanto riferisce la TV araba Al-Jarida, i miliziani ISIS che operano nella penisola del Sinai, in Egitto, avrebbero intercettato un importante carico di armi iraniane diretto ad Hamas, nella Striscia di Gaza, e se ne sarebbero appropriati.
Stando al report della TV araba, che cita come fonte un funzionario egiziano, la spedizione di armi iraniane dirette ad Hamas comprendeva anche missili 9M133 Kornets, moderni missili anticarro a guida laser di fabbricazione russa, oltre ad altre sofisticate armi a guida GPS....
(Rights Reporters, 24 novembre 2018)
Netanyahu "presto" in visita in Bahrein
ANKARA - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, potrebbe "presto" recarsi in visita in Bahrein. Lo riferiscono oggi l'agenzia di stampa turca "Anadolu" e il quotidiano "Yeni Safak", citando Hani Marzouk, portavoce dell'ufficio di Netanyahu per i media arabi. "Il regno del Bahrein è la prossima destinazione di Netanyahu. La visita è il preludio a qualcosa di più grande, per un altro Medio Oriente", avrebbe detto Marzouk. Martedì scorso, il servizio in lingua araba della "Israel Broadcasting Corporation" ha annunciato che le autorità israeliane sarebbero in trattativa con "uno Stato arabo" per ospitare Netanyahu in visita ufficiale. La notizia non trova conferma sulla stampa israeliana in lingua inglese. L'eventuale viaggio di Netanyahu in Bahrein non è stato confermato da fonti diplomatiche contattate da "Agenzia Nova". Tuttavia, se confermata, si tratterebbe di una visita storica che si inserirebbe nel solco del viaggio di Netanyahu a Mascate reso noto lo scorso 26 ottobre. Il ministro degli Esteri del Bahrein, Khaled Bin Ahmad al Khalifa, lo scorso 27 ottobre, aveva dichiarato che "auspica il successo degli sforzi compiuti dal sultano omanita Qaboos Bin Said per rilanciare il processo di pace tra Israele e i palestinesi". Durante un vertice sulla sicurezza, Al Khalifa aveva dichiarato: "L'alleanza per la sicurezza regionale proposta tra gli Stati Uniti - da una parte - e l'Egitto e la Giordania - dall'altra - rimarrà aperta a qualsiasi paese che ne accetti i suoi principi".
(Agenzia Nova, 23 novembre 2018)
''L'Italia stia attenta. Il legame con l'Iran mette a rischio la pace"
Intervista a Yuli-Yoel Edelstein, il presidente del parlamento israeliano. "Niente negoziati finché l'Iran ha un'impronta così forte sulla regione. Con i palestinesi la soluzione è pratica: cooperazione su acqua e tecnologia".
di Francesca Paci
ROMA - Yuli-Yoel Edelstein, presidente della Knesset, il Parlamento israeliano, è a Roma per partecipare a Med, i dialoghi sul Mediterraneo. Incontra «La Stampa» dopo un briefing con i colleghi Elisabetta Casellati e Roberto Fico.
- Come vede la posizione dell'Italia sull'Iran, esclusa dalle sanzioni per sei mesi?
«Fin quando l'Iran manterrà un'impronta così forte sulla regione non ci sono negoziati di pace possibili. Oltre alla questione della capacità nucleare, l'Iran continua a proclamare la distruzione di quel che chiama "l'entità sionista" e lavora a questo attivamente con Hezbollah, Hamas, in Siria. È nel comune interesse di chi vuole la pace collaborare contro l'Iran. Le sanzioni sono positive quantomeno sul breve termine perché di fatto l'Iran ha meno armi da passare ai suoi alleati. Se l'esenzione dell'Italia è limitata a organizzare diversamente il suo fabbisogno energetico è legittima, se servirà a rafforzare i legami con l'Iran, allora Roma farà un autogol perché l'Iran minaccia tutti. Basti pensare che i Paesi arabi confinanti hanno annunciato la loro corsa al nucleare nel caso Teheran riuscisse nell'impresa, un incubo per il Mediterraneo».
- Putin si è impegnato ad agevolare l'uscita degli iraniani dalla Siria. Si fida?
«In fondo Russia e Iran hanno interessi diversi in Siria. Israele ha detto chiaramente che non tollererà la presenza iraniana in Siria e credo che Mosca, con cui nonostante lo spiacevole incidente dell'aereo abbattuto dai siriani siamo in contatto costante, abbia a cuore la pace».
- Durerà la tregua con Hamas, spada di Damocle sul governo Netanyahu?
«C'è consenso in Israele sul fatto che Hamas non possa continuare ad attaccare le nostre scuole, le strade, i civili. Ma è chiaro anche che bisogna elevare gli standard di vita a Gaza. Sono deluso da come la comunità internazionale sia veloce nel criticare Israele e
lentissima nell'aiutare davvero Gaza. Inoltre quando vengono sparati 500 missili in due giorni bisogna anche chiedersi quanto cibo si poteva comprare con quel denaro».
- Il progetto due popoli per due Stati è sepolto?
«Non ci ho creduto mai perché si basava sull'idea "Gaza e Gerico subito". E poi? I temi complicati, il cosiddetto diritto al ritorno, Gerusalemme, i confini, restarono fuori da Oslo. La soluzione invece è pratica: cooperazione sulla tecnologia, l'economia, l'acqua: uno scenario win-win»,
- Israele dice di non fidarsi più dei palestinesi ma loro dicono altrettanto. Nulla da rimproverarsi?
«In questi anni sono stati elargiti premi Nobel, applausi, ma la vita delle persone non è cambiata: gli israeliani hanno pagato al terrorismo un prezzo altissimo e le condizioni dei palestinesi non sono migliorate. Ovvio che abbiamo delle responsabilità, il ritiro unilaterale da Gaza per esempio non fu un buon passo sebbene lodato dal mondo intero».
(La Stampa, 23 novembre 2018)
Israele continua a crescere in Italia
Prosegue il gran successo di Israele sul mercato turistico italiano. Il Central Bureau of Statistics di Israele ha, infatti, diffuso i dati relativi agli arrivi turistici per ottobre 2018, registrando 484.900 arrivi internazionali, il 14% in più rispetto a ottobre 2017. Le entrate del turismo a ottobre hanno raggiunto circa € 569 milioni. La crescita più notevole è stata riscontrata in quei Paesi dove il ministero sta maggiormente investendo in attività di marketing: +65% in Ungheria, +63% in Italia, +40% in Polonia, Romania e Paesi Bassi, +20% in Germania, +15% in Spagna, +13% negli Stati Uniti e +11% in Francia.
Per quanto riguarda il mercato italiano, sono stati registrati nel mese di ottobre 15.600 arrivi italiani, +63% rispetto al 2017 e +178% rispetto al 2016.
Il Ministro del Turismo Yariv Levin ha dichiarato: "Il mese di ottobre ha fatto registrare un record storico, con circa mezzo milione di turisti, cifra sorprendente e senza precedenti. Queste statistiche eccezionali sono state registrate mese dopo mese negli ultimi due anni e sono il risultato diretto del grande lavoro che stiamo portando avanti al ministero del Turismo. I turisti in entrata contribuiscono significativamente sia all'economa di Israele che - non meno importante - alla sua immagine. Sono convinto che continueremo a vedere un grande aumento nel numero di turisti che arrivano in Israele, e che chiuderemo l'anno con un altro record".
Le aspettative del ministro sono di raggiungere complessivamente oltre i 4 milioni di turisti. E l'attuale andamento delle prenotazioni e delle conferme lascia davvero ben sperare. Dall'inizio dell'anno ad ottobre, il settore ha contribuito con oltre € 4.550 milioni all'economia del Paese.
"La crescita è avvenuta grazie alla massiccia campagna di comunicazione e all'offerta realizzata attraverso la collaborazione con il trade. Ben 86 sono i voli che collegano settimanalmente l'Italia con Israele" ha ricordato Avital Kotzer Adari, di rettore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano. Recente è l'ingresso di un volo giornaliero da Roma operato da Norwegian Air Shuttle ASA e già acquistabile è il volo di Sun Dor operato da EL AL che a partire dal 4 giugno 2019 collegherà una volta a settimana Cagliari con Tel Aviv fino alla fine di ottobre. Dalla prossima estate sarà anche operativo un volo diretto da Milano Malpensa su Ben Gurion operato da Alitalia.
(AdvTraining, 22 novembre 2018)
Possibili commesse da Israele, Leonardo resiste alle vendite
Domani è in agenda a Roma l'incontro tra il segretario della difesa israeliano e l'omologo italiano. Possibili nuovi ordini per la divisione elicotteri, per un valore di circa 1 miliardo di euro, anche se in cambio dell'acquisto di sistemi radar israeliani. Con un target price a 14 euro, che implica un rialzo del 70% rispetto al prezzo attuale di Leonardo in borsa, Mediobanca conferma il rating outperform
di Francesca Gerosa
Possibili commesse da Israele e il titolo Leonardo resiste alle vendite. Mentre l'indice Ftse Mib segna un -0,68% a 18.604 punti, l'azione è pressoché stabile ora a 8,25 euro (+0,02%), dopo aver toccato in mattinata un massimo intraday a quota 8,312 euro. Domani è in agenda a Roma l'incontro tra il segretario della difesa israeliano e l'omologo italiano per accelerare i tempi di un progetto che riguarda la realizzazione di un nuovo simulatore con tecnologia israeliana e che verrà messo a disposizione dell'aeronautica israeliana.
L'incontro, secondo indiscrezioni di stampa, potrebbe portare nuovi ordini per la divisione elicotteri, per un valore di circa 1 miliardo di euro, anche se in cambio dell'acquisto di sistemi radar israeliani per i caccia. "Qualora questo potenziale accordo si concretizzasse in un nuovo contratto per Leonardo , rafforzerebbe ulteriormente la nostra visione su Leonardo che si basa sul recupero nella divisione elicotteri del gruppo", affermano gli analisti di Mediobanca Securities.
Un caso di investimento "supportato dalla recente raccolta di ordini in Cina e nel segmento militare, in particolare in Qatar e in Usa", aggiungono gli esperti della banca d'affari. Sulla base delle loro stime, Leonardo tratta a un significativo sconto del 50% rispetto ai competitor. "Riteniamo, inoltre, che il rendimento del free cash flow sottostante del gruppo del 9-11% tra il 2018 e il 2022 non sia apprezzato. Pertanto, con un target price di 14 euro, che implica un rialzo del 70% rispetto al prezzo attuale di Leonardo in borsa, ribadiamo il nostro rating outperform", concludono a Mediobanca .
(Milano Finanza, 23 novembre 2018)
Roma - Gusto Kosher Racconti, grani e spezie al Portico d'Ottavia
di Francesca Nunberg
Lo chef israeliano-scozzese Omri McNabb preparerà un'insalata di bulgur (grano spezzato) con menta, coriandolo, yogurt e pistacchio; il romano Guido Boemio carciofi con pepe rosa, burrata e terra di olive taggiasche, mentre Dario Bascetta Greco e Giovanni Terracina serviranno kibbe (polpettine) di alici e cubotti di riso mejadra. Sono alcuni dei mezè, antipasti che spaziano dalla tradizione giudaico-romanesca a quella mediorientale, da provare domenica a Gusto Kosher. Tema di quest'anno "In principio (B'Reshith) - Racconti di grani e spezie".
Il tradizionale evento enogastronomico e culturale che domenica animerà l'antico quartiere ebraico quest'anno conclude le celebrazioni del 70esimo anniversario dello Stato di Israele e fa le cose in grande. Non più un giorno ma tre. Dopo il "Convivio sulle spezie" di ieri a Eataly, oggi nell'aula magna dello Ied è la volta del "Simposio sui grani": con storici, ricercatori, chef e rabbini si parlerà di coltivazioni tradizionali, agritech, scienza e salute.
Ma il giorno clou dell'evento curato come sempre da Le Bon Ton Catering sarà domenica: dalle 11.30 alle 17.30 degustazioni (gratuite) di vino, birra e distillati kosher al Palazzo della Cultura, mixologist show a cura di Imperia! Craft Cocktail Bar di Tel Aviv, con Bar Shira e Gilad Livnat e a seguire dimostrazioni di cucina (area food a pagamento) in un tripudio di aromi e colori. Poi via per le "Rotte del gusto" nel quartiere alla scoperta di piatti a base di spezie e grani.
(Il Messaggero, 23 novembre 2018)
Milano - Domenica nuovo corteo anti-Israele
«A un anno di distanza dalle scandalose manifestazioni anti-Israele che avevano infiammato la piazza, un nuovo sit-in è stato convocato per domenica 25 novembre in piazza San Babila a Milano. I promotori sono sempre gli stessi. Sala non faccia lo struzzo, visto che la sua maggioranza e gran parte del Pd fanno l'occhiolino a chi vorrebbe cancellare lo Stato di Israele». A lanciare l'allarme è Alessandro Morelli, presidente della commissione Trasporti alla Camera e capogruppo del Carroccio in Consiglio comunale a Milano, insieme al consigliere leghista al Pirellone, Gianmarco Senna. «È facile ogni volta», sottolineano i due esponenti del Carroccio, «sciacquarsi la bocca con la retorica della Resistenza, quando fa comodo: Milano deve essere sempre contro ogni forma di fascismo».
Contro il presidio anti-Israele si schierano anche gli azzurri Fabrizio De Pasquale e Gianluca Comazzi, capigruppo di Forza Italia in Comune e in Regione.«Invitiamo il Ministro Salvini e il sindaco Sala a rappresentare ai responsabili dell'ordine pubblico la pericolosa deriva antiebraica e il rischio xenofobo insito nel corteo che si vuole organizzare domenica in San Babila. Milano città aperta e pacifica ma crocevia purtroppo di personaggi legati al radicalismo islamico deve vigilare che non si ripetano più cortei autorizzati che inneggiano alla strage degli ebrei e all'ostracismo nei confronti della brigata ebraica».
(Libero, 23 novembre 2018)
*
Comunità Ebraica di Milano: preoccupazione per la manifestazione del 25 novembre
"La Comunità Ebraica di Milano guarda con preoccupazione alla manifestazione del 25 novembre che ricorda nei toni della convocazione e nelle sigle dei partecipanti quella del 9 dicembre 2017: quando a Milano si udirono grida antiebraiche in lingua araba. Invitiamo le istituzioni, dal ministro Salvini al sindaco Sala, a prendere una dura posizione contro tale evento e unirsi a noi nel rappresentare alle forze dell'ordine tali preoccupazioni. Non vorremmo che oltre agli insulti di ogni 25 aprile si aggiungesse un altro appuntamento periodico dedicato all'odio antiebraico".
Questo il comunicato emesso in riferimento alla annunciata manifestazione con corteo, indetta per domenica 25 novembre a Milano dal Fronte Palestina e dal Coordinamento lombardo per la Palestina a sostegno della "resistenza palestinese", contro "l'occupazione israeliana e l'arresto arbitrario di migliaia di palestinesi".
In piazza Cavour, nel cuore della città, il 9 dicembre 2017, arabi e sostenitori pro-Palestina hanno minacciato gli ebrei: "Khaybar, oh ebrei, l'armata di Maometto ritornerà". L'occasione era quella di protestare contro la decisione di Trump di annunciare lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme "capitale di Israele", ma lo slogan urlato dai manifestanti aveva un destinatario più specifico: noi, gli ebrei.
In arabo suona così: "Khaybar, Khaybar, ya yahud, jaish Muhammad saya'ud!" e si riferisce, nella tradizione islamica, alla strage di Khaybar perpetrata dall'esercito di Maometto nel 628, quando quasi tutti gli ebrei maschi dell'oasi di Khaybar furono trucidati e le donne e i bambini presi come schiavi.
(Bet Magazine Mosaico, 23 novembre 2018)
Israele - Dopo il poker live, in via di risoluzione anche le tasse sul gioco
Non solo una legge per il poker live ma anche la revisione delle aliquote fiscali per la tassazione sul gioco.
di Cesare Antonini
Sembra essere un momento molto favorevole per il poker in Israele. Dopo la probabile promulgazione della legge sul gioco dal vivo, in via di chiarimento sembrerebbe esserci anche la questione fiscale sulle tasse che, finora, hanno martoriato i players. Anni di incertezza, controversie e cartelle esattoriali a sei cifre per alcuni dei migliori giocatori del paese. Verso il 2019, i ministri israeliani prenderanno in considerazione la già nota proposta di legge presentata da Sharren Haskel del partito di Likud. Con l'obiettivo di definire lo status del poker e, a sua volta, un'aliquota fiscale applicabile, Haskel ha presentato un disegno di legge alla Knesset all'inizio di novembre. Anche se questa non è la prima volta che i sostenitori del poker hanno spinto a legalizzare il gioco, l'ultimo sforzo arriva sulla scia di una recente sentenza del giudice della Corte Suprema Neal Hendel.
"Il fatto che i giocatori partecipino a gare e tornei anno dopo anno rafforza la conclusione che non si tratta di un gioco di fortuna", ha dichiarato Hendel in una recente sentenza della corte.
Se il disegno di legge di Haskel avesse successo, ridefinire il poker come un gioco di abilità e, a sua volta, offrire alcune indicazioni per il ministero delle Finanze. Negli ultimi cinque anni, molti dei principali giocatori di poker israeliani sono stati bloccati in una disputa sui pagamenti delle tasse. Esaminando i risultati dei tornei da database come The Hendon Mob e l'indice Global Poker, l'autorità fiscale israeliana ha preso di mira Uri Miller e Rafi Amit. Monitorando i risultati di Miller tramite il database di Hendon Mob, gli ispettori fiscali hanno affermato di essere soggetto a una tassa del 50% sui $ 280.000 + che ha vinto durante il 2010. Per Amit, che ha oltre $ 900.000 in guadagni dal vivo, il fisco ha richiesto $ 650.000 per il suo raggio del 2007.
Contestando le accuse, i giocatori hanno sostenuto che i database dei tornei pubblici non tengono conto di tanti fattori come le spese, le tasse del casinò e gli accordi di staking. Infatti, quando abbattendo i suoi guadagni del 2007, Amit ha dimostrato che i suoi $ 650.000 di premi in denaro equivalevano a $ 370.000 in stipendi da portare a casa. Nonostante gli argomenti, l'autorità fiscale ha continuato a spingere per il 50% dei guadagni del giocatore di poker, definendoli redditi da lavoro. Dato lo stato attuale del gioco (cioè una forma di gioco d'azzardo), i giocatori hanno optato per basare i loro pagamenti su un tasso inferiore. Infatti, quando un israeliano gioca a giochi da casinò, le sue vincite sono soggette a una tassa del 35% in base alle lotterie, ai premi e al tasso di gioco.
Se il poker è un business, i buy-in dovrebbero essere spese. Al contrario di quelli nel Regno Unito, questo è alto. Infatti, i giocatori del Regno Unito possono giocare in alcuni dei migliori siti di casinò e non pagare un centesimo in tasse. Tuttavia, anche al 35%, il tasso è ancora migliore rispetto al 50% di giocatori come Amit sono stati costretti a pagare.
Quello che sarà interessante vedere nei prossimi mesi è come la legge di Haskel influenzerà l'aliquota fiscale. Sebbene non sia stato confermato nulla, c'è la possibilità che il governo utilizzi la definizione del gioco di abilità per classificare il poker come un business. In pratica, questo imposterà la tassa al 50%. Tuttavia, se il poker è formalmente classificato come un'impresa commerciale, si aprirà la possibilità di dedurre le spese. In teoria, questo includerebbe spese di viaggio, tasse, quote e perdite.
L'ultimo punto sarebbe il più cruciale in quanto i buy-in dei tornei non vengono presi in considerazione quando si registrano i risultati live di un giocatore. Ad esempio, un giocatore potrebbe vincere $ 100.000 alle World Series of Poker (WSOP), ma spendere $ 65.000 in buy-in. Se il poker è classificato come un business, questo importo dovrebbe essere considerato un investimento legittimo e, quindi, una spesa deducibile.
(gioconewspoker, 22 novembre 2018)
Un network di commesse militari con Israele
di Federico Capurso
Nelle ultime due settimane i rapporti tra Italia e Israele si sono intensificati, soprattutto sul piano degli scambi militari.
Domani sarà a Roma il segretario generale della Difesa israeliano per incontrare il suo omologo italiano Niccolò Falsaperna. Sul tavolo c'è la volontà di accelerare su un progetto rimasto arenato a lungo, che riguarda la costruzione in Italia di un simulatore aereo, dotato di tecnologia proveniente da Gerusalemme, che verrà messo a disposizione dell'aeronautica israeliana. «Non sarà poi passato inosservato il nostro acquisto di droni da Israele e il loro acquisto di jet costruiti da Leonardo», commenta una fonte interna al governo. E si starebbe iniziando a trattare anche per una commessa da circa un miliardo di euro che Israele potrebbe pagare per l'acquisto di elicotteri militari costruiti da Leonardo, in cambio di un nostro acquisto per un sistema di radar trasportati a bordo dei jet militari, gli Airborne warning and control system.
Le trame dei rapporti economici e militari tra i due governi, dunque, si stanno sempre più infittendo. Dagli incontri a Tel Aviv in occasione della conferenza Homeland security & cyber, il 12 novembre scorso, all'evento culturale «Il coraggio della verità» che la settimana prossima si terrà alla Sala Zuccari del Senato, al quale dovrebbe partecipare il ministro per gli Affari strategici israeliano Cilad Erdan. Nelle ore successive all'evento culturale, spiegano fonti del governo italiano, sarebbero già stati organizzati una serie di incontri politici con Erdan e che coinvolgeranno soprattutto membri del governo di sponda leghista. Sia per cementare futuri accordi militari che per preparare la visita in Israele di Matteo Salvini, prevista per l'11 e il 12 dicembre. E sullo sfondo, l'idea accarezzata da Gerusalemme di aiutare il governo italiano ad alleggerirsi del peso del petrolio che viene importa dall'Iran.
La questione siriana
I dossier sono già tra le mani del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Sono stati informati gli Stati Uniti e anche Mosca, che avrebbe già dato il suo placet. Il governo di Vladimir Putin, al di là dei rapporti con Teheran, è interessato sopra ogni cosa alla stabilità di quell'area, dove Israele viene considerato da Mosca come un attore fondamentale per mantenere la pace. La stessa Russia inizia a soffrire l'eccessiva presenza delle truppe iraniane in Siria. Un impegno di Palazzo Chigi per infiacchire economicamente Teheran, al fianco di Israele, potrebbe così aprire un canale diplomatico per far entrare le aziende italiane negli accordi per la ricostruzione. Tutti tasselli che poggiano su scenari diversi, ma che costituiscono il disegno di uno stesso grande mosaico.
(La Stampa, 22 novembre 2018)
L'Ue torna a occuparsi di antisemitismo
Bene il summit di ieri a Vienna, ma rimangono molte ambiguità tra i governi
L'antisemitismo è un'emergenza. Lo dicono i dati, l'85 per cento delle comunità ebraiche all'interno dell'Ue, secondo un'indagine condotta dalla Fra (Agenzia europea dei diritti fondamentali), ritiene che l'antisemitismo sia un problema da risolvere con urgenza. Sarà il ritorno dell'estrema destra, o dell'estrema sinistra, saranno molte dichiarazioni politiche pericolose come quelle del laburista britannico Jeremy Corbyn, saranno stati i crimini commessi contro cittadini ebrei, ma l'Europa ha deciso di reagire al ritorno dell'antisemitismo. Vera Jourovà, commissario europeo per la Giustizia, ha annunciato che Bruxelles aderirà alla International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) come partner permanente dell'organizzazione intergovernativa impegnata nella ricerca sull'Olocausto. Ieri a Vienna, su idea del cancelliere austriaco Sebastian Kurz, si è svolta la conferenza "Europe beyond anti-Semitism and anti-Zionism". Era presente anche Vera Jourovà, la quale ha detto cose che dovrebbero essere ovvie, ma che i fatti degli ultimi anni stanno mettendo in discussione. Gli ebrei non dovrebbero mai domandarsi se le autorità li proteggeranno, ha detto la Jourovà, come non dovrebbero avere paura di andare in sinagoga o indossare la kippah, come avviene in Belgio. Riconoscere che ormai mancano i diritti fondamentali, che i crimini d'odio contro gli ebrei sono aumentati, in Francia sono cresciuti quest'anno del 69 per cento, è il primo passo per un'Ue che forse si sta svegliando ed è pronta a combattere e fermare il ritorno dell'antisemitismo. "L'Europa senza ebrei non è più Europa", ha detto Kurz, al quale va dato il merito di aver organizzato una conferenza così importante. Kurz dice anche di essere a capo di un governo filoisraeliano e ieri, prima dell'apertura del summit ha detto: "La difesa di Israele è parte della ragion d'essere austriaca", ma i suoi partner di governo, del partito FpO, non sembrano pensarla allo stesso modo. Il risveglio dell'Europa è positivo, ma per combattere l'antisemitismo andrebbero eliminate certe ambiguità. La European Jewish Association, assieme alla Ihra, ha stilato questo mese delle "linee rosse" da presentare in vista delle elezioni europee di maggio. Queste linee chiedono l'esclusione dai governi dei partiti che sostengono l'antisemitismo. Ancora troppi paesi, tra i quali l'Italia, hanno risposto in maniera elusiva.
(Il Foglio, 22 novembre 2018)
l governo israeliano contro Airbnb per la sospensione del servizio nelle colonie
La società californiana ha rimosso gli annunci nei territori occupati. Il ministro della giustizia israeliano, Ayelet Shaked, chiede di citarla in giudizio per discriminazione. Il titolo della sicurezza Erdan: "Chiederemo agli Usa di attivare la legislazione anti-boicottaggio".
Il ministro della giustizia israeliano, Ayelet Shaked, sta pensando di citare in giudizio Airbnb - di base a San Francisco negli Usa - che nei giorni scorsi ha annunciato la rimozione dai propri annunci degli appartamenti che si trovano negli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Shaked ha chiesto al procuratore generale di considerare la possibilità di incriminare la società per discriminazione.
Airbnb aveva annunciato lunedì la decisone di rimuovere le inserzioni negli insediamenti ebraici della Cisgiordania, che i palestinesi e un'ampia parte della comunità internazionale considerano illegali. La decisione interessa circa 200 appartamenti.
Tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, nei territori che Israele occupa militarmente dal 1967, dalla fine della guerra dei Sei giorni, vivono circa 550 mila israeliani, in aree che ospitano anche oltre 2,6 milioni di palestinesi.
Il governo israeliano aveva già reagito con durezza all'annuncio di Airbnb: il ministro del turismo israeliano, Yariv Levin, aveva detto che avrebbe preso provvedimenti immediati per limitare le attività della piattaforma in Israele. Levin ha definito la scelta di Airbnb «vergognosa» e «infelice».
Il ministro della sicurezza pubblica israeliano, Gilad Erdan, ha detto che chiederà agli Stati Uniti di attuare la legislazione anti-boicottaggio e sanzioni nei confronti di Airbnb.
Il movimento di boicottaggio dei prodotti e degli affari con Israele, "BDS e il terrore sono due facce della stessa medaglia", ha detto Erdan. "Entrambi giustificano la violenza contro i civili israeliani".
Il servizio Airbnb è attivo in altre zone del mondo dove ci sono territori contesi o occupati, come nel Sahara Occidentale (che denuncia l'occupazione del Marocco) o a Cipro (contesa tra turchi e greci). La società dice che ogni volta valuta caso per caso.
L'organizzazione Human Rights Watch ha chiesto anche a Booking.com di seguire la decisione di Airbnb e di porre fine "all'affitto di proprietà nelle colonie". L'Ong ha detto di aver mappato "139 case affittate da Airbnb nelle colonie, esclusa Gerusalemme est, tra marzo e luglio 2018 mentre Booking.com ne ha 26 a luglio 2018".
(la Repubblica, 22 novembre 2018)
Maternità surrogata per tutti? Israele frena
La Knesset ha respinto la proposta di allargare il ricorso all'utero in affito, pratica legale dal 1996, a coppie omosessuali e uomini single che vogliono evitare problemi legali di chi va all'estero.
di Lorenzo Schoepflio
Era l'inizio del 2014 quando in Israele fece scalpore il caso dei 65 bambini nati da maternità surrogata in Thailandia per committenti israeliani ai quali non venne riconosciuta la cittadinanza. Il diniego al rilascio del passaporto da parte delle autorità governative innescò una serie di proteste, con le coppie - molte delle quali omosessuali- che lamentavano una situazione di vuoto legale, una sorta di limbo in cui giacevano i figli ordinati in Thailandia. A questo si aggiunse lo sdegno per le presunte discriminazioni nei confronti delle coppie omosessuali.
L'anno successivo, in occasione del forte terremoto che causò migliaia di morti in Nepal, emersero le storie di coppie israeliane - anche in questo caso in buona parte omosessuali - che si trovavano nel Paese tra Cina e India proprio per ritirare i figli commissionati a madri surrogate. Israele mandò immediatamente un aereo a prelevare i propri cittadini in difficoltà per il terremoto, ma l'intervento non fece cessare le proteste di chi combatteva per la legalizzazione della maternità surrogata. Fu infatti sottolineato che lo stesso Stato che mandava aerei in ogni angolo del mondo per recuperare i propri cittadini "costringeva" poi ad andare all'estero coloro che intendevano ricorrere all'utero in affitto.
Pochi giorni fa il dibattito si è riacceso, e con esso le proteste della comunità Lgbt, a causa della bocciatura di una modifica della legge che permette la maternità surrogata in Israele. Il testo, respinto dalla Knesset, il Parlamento israeliano, avrebbe previsto l'estensione della possibilità di ricorrere all'utero in affitto a coppie omosessuali o uomini non sposati. In luglio l'estensione era stata approvata per le donne single e contestualmente era stata innalzata di un anno - da 38 a 39 - l'età massima per la gestante. In Israele, infatti, una legge che regolamenta la maternità surrogata è in vigore dal 1996 ma con un preciso vincolo: la pratica è legale solo per le coppie eterosessuali sposate e con accertati problemi di sterilità.
Va ricordato che già nel 2014 era naufragato un tentativo di emendare la legge con l'apertura a omosessuali e single. Il governo si era spaccato senza riuscire a trovare un accordo nonostante il testo avesse già passato un primo voto in Commissione. L' allora ministro della Salute Yael German si era impegnato a estendere la legge anche in vista delle necessarie facilitazioni per il rimpatrio di figli nati all'estero da madri surrogate pagate da cittadini israeliani. Tutto fa pensare però che sia solo questione di tempo: lo stesso premier Netanyahu, da dichiarato sostenitore delle istanze Lgbt, ha votato contro affermando però che non appena ci saranno i numeri in Parlamento si potrà riparlare di una modifica che favorisca gli omosessuali.
(Avvenire, 22 novembre 2018)
Arabia Saudita: libri di testo traboccanti antisemitismo e odio verso i diversi
Un importante rapporto della Anti-Defamation League (ADL) dimostra in maniera inequivocabile come il sentimento anti-ebraico sia vivo più che mai in Arabia Saudita, a dispetto delle parole di avvicinamento del Principe Ereditario e delle politiche regionali, più dettate dalla paura per l'Iran che da un effettivo cambiamento saudita nei confronti di Israele.
Ieri il Presidente americano, Donald Trump, ha chiuso tutte le porte ad un eventuale cambio di politica da parte della Casa Bianca nei confronti dell'Arabia Saudita per via del cosiddetto "caso Khashoggi".
Secondo il pragmatico Trump, l'alleanza con i sauditi è troppo importante per essere messa in discussione a causa dell'omicidio di un giornalista. Troppo importante la svolta "progressista" imposta dal Principe ereditario, Mohammad bin Salman, anche nei confronti di Israele, per buttare all'aria tutta la politica mediorientale americana....
(Rights Reporters, 22 novembre 2018)
Quelle vite espropriate degli ebrei italiani
l nuovo saggio di Fabio lsman racconta le persecuzioni seguite alle leggi razziali e la macchina pubblica che si impadroniva dei beni delle vittime. Dai piccoli oggetti alle case, tra cui la villa che ora appartiene a George Clooney. Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, proprietà mobili e immobili, conti correnti, e appartamenti. L'ente che se ne occupò, l'Egeli, fu soppresso soltanto nel 1997.
di Simonetta Fiori
Lo saprà George Clooney? La sua villa sul Lago di Como, quella a cui si accede dalla darsena privata, è una delle dimore più sontuose della Grande razzia. Potrebbe esserne il simbolo oltre che la location per un film a sfondo storico. È facile immaginarne la prima scena: l'approdo a Villa Oleandra del divo hollywoodiano, con contorno glamour di amici e collaboratori. E poi si va a ritroso nel tempo, fino ad arrivare all'intellettuale che l'abitava negli anni Trenta del Novecento, Emilio Vitali, pittore provvisto di passione per la musica. I suoi ritratti di Renata Tebaldi e Franco Corelli sono tuttora esposti in diversi musei. Ogni estate Emilio amava trascorrere i giorni più caldi nella sontuosa magione settecentesca, ricevuta in eredità dal nonno. Ma il 10 novembre del 1944 fu espropriato di tutto, anche dei due conti correnti e delle ottantuno azioni della Banca Popolare di Milano. Derubato dallo Stato fascista, come i quasi cinquantamila ebrei colpiti dalle leggi razziali.
Quella orchestrata tra il 1938 e il 1945 - con un progressivo incrudelimento di leggi, decreti, circolari, disposizioni - fu una spoliazione sistematica e minuziosa mossa dallo Stato fascista con l'intenzione esplicita non soltanto di espungere gli ebrei dalla vita civile ma di ridurli alla fame, «di annullarne qualsiasi potenziale economico», di vessarli sul piano morale oltre che materiale. Un gigantesco saccheggio di aziende, attività, beni mobili e immobili, conti correnti, case, appartamenti, arredi, gioielli, rimasto per svariati decenni in penombra, spinto ai margini della memoria collettiva dal ricordo più lancinante dei lager, delle carneficine, del sangue versato. E su quella razzia contribuisce oggi ad allagare il fascio di luce il prezioso saggio di Fabio Isman,1938, l'Italia razzista (il Mulino). I documenti della persecuzione contro gli ebrei, frutto del lavoro sulla sterminata mole di carte raccolte dalla commissione parlamentare istituita nel 1998 per indagare sulle proprietà sottratte.
Seppure impressionanti, le cifre non bastano a quantificare il grande bottino: la somma complessiva derubata, calcola Isman, si aggira intorno ai 150 milioni di euro. Ma più degli espropri milionari, dei ladrocini commessi sulle grandi aziende del Nord o sui palazzi pregiati o sulle collezioni d'arte, colpiscono la ruberia minuta, le liste delle piccole cose dettagliatamente compilate dai saccheggiatori mandati dalle province, dalle prefetture o dalle varie articolazioni dello Stato fascista, elenchi che includono "mutandine sporche", "lettini di ferro" "una carrozzina", "una camicia strappata", "quaranta bottiglie vuote", "una bicicletta Bianchi senza ruote". «Nessuno fu risparmiato», sintetizzò vent'anni fa la presidente della commissione Tina Anselmi. «Né i ricchi né i poveri, né i commercianti né le aziende industriali, né chi disponeva di pacchetti azionari né chi aveva un modesto conto bancario». O per dirla con Elie Wiesel a proposito dei nazisti «fu strappata la ricchezza ai ricchi e ai poveri la povertà». Non si trattò solo di un affare di denaro, ma di una mortificazione collettiva che non aveva precedenti: insieme alle case si perdevano ricordi, vissuti, intimità.
La Grande razzia poté contare su un apparato amministrativo che ruotava intorno all'Egeli - l'ente responsabile della gestione e delle vendite delle proprietà sequestrate - ma fu favorita anche dalla cattiva coscienza di chi vi colse occasione d'affari e dall'indifferenza di coloro che assistettero alla spoliazione senza fiatare. E se la catena di responsabilità nella persecuzione degli ebrei italiani è stata illustrata con grande efficacia da Simon Levi Sullam - dai travet che redigevano gli stati civili ai dattilografi che riportavano gli ordini - Isman ripercorre la galleria dei burocrati di Stato che beneficiarono delle vendite, degli antiquari pronti a far commercio con gli aguzzini, dei privati cittadini che non esitarono a entrare in possesso di case, biancheria, pellicce, stoviglie argenteria, quadri, tappeti o anche solo a partecipare al libero assalto di un negozio ebreo (capitò a Trieste nel negozio di abiti del padre di Fiorella Kostoris, dove sopravvisse al furto solo un bottone). O anche di quanti facevano domanda al ministero delle Finanze per essere nominati amministratori dei beni sottratti alle vittime: che carriera! Sono innumerevoli le storie di corruzione, cinismo, tradimento e torpore morale in un Paese in cui la classe intellettuale - quella che dovrebbe maggiormente tenere a freno gli istinti ventrali - si precipita a ricoprire con soavità le cattedre lasciate dai professori ebrei espulsi. E Isman fa bene a ricordare che, su 896 docenti universitari chiamati a sostituire gli ebrei, Massimo Bontempelli fu l'unico a opporre un rifiuto. E che ci sono voluti ottant'anni perché l'università italiana chiedesse scusa (è accaduto quest'anno nell'ateneo di Pisa). Storie di vita - moltissime quelle di morte - senza un epilogo confortante. Perché nel dopoguerra sarebbe stata restituita solo una parte di quel patrimonio. E a prezzo di estenuanti trafile che ebbero anche un costo in danaro. Con un particolare che acquista un sapore grottesco: agli ebrei depredati l'Egeli richiese le spese di gestione, come se un bandito presentasse all'ostaggio liberato anche il conto dei pasti consumati durante il sequestro (la faccenda si chiuse solo nel 1962). E per fotografare le difficoltà con cui lo Stato democratico fece i conti con questa mostruosa ruberia, può bastare una data: l'Egeli è stato soppresso solo nel 1997, praticamente ieri.
Il libro di Isman è molto bello non solo per la mole della documentazione, ma per la passione che vi palpita. Dietro ogni carta, provvedimento, esproprio c'è una esistenza spezzata, o comunque privata della libertà e dell'identità. Come quella dei suoi genitori che furono salvati dal tenente Giorgio Cevoli: il suo nome ora figura allo Yad Vashem trai Giusti.
Quanto a Clooney, può godersi sereno la sua villa. Nel dopoguerra fu restituita al pittore Vitali, che vi trascorse parte della vecchiaia. Non sappiamo se negli ultimi mesi di guerra abbia ospitato qualche divisa nazista, ma questo può essere lasciato alla libera immaginazione dell'attore-regista dal quale non ci resta che attendere il film. Potrebbe essere anche l'occasione per un nostro atto pubblico di scuse. In Italia ancora non c'è stato.
(la Repubblica, 22 novembre 2018)
Gaza: Netanyahu rimprovera ministri
Per le loro minacce ad Hamas
Non sono piaciute al premier israeliano, Benyamin Netanyahu, secondo Maariv, le dichiarazioni belligeranti rilasciate oggi da alcuni ministri ad una conferenza organizzata dal Jerusalem Post.
Fra queste, le parole del ministro dell'edilizia, Yoav Gallant (un generale delle riserva), secondo cui il leader di Hamas, Yihia Sinwar "ha i giorni contati e non finirà la vita in un ospizio" e quelle del ministro per le questioni strategiche, Gilad Erdan, secondo cui è prevedibile "la esecuzione mirata dei leader terroristici dell'ala militare di Hamas". Netanyahu, precisa Maariv, ha chiesto ai ministri di non esulare più per quanto concerne Gaza dalle posizioni ufficiali stabilite dal governo.
(ANSA, 21 novembre 2018)
Israele infuriato con Airbnb: censura gli appartamenti dei Territori
di Daniel Mosseri
Sarà forse perché opera a livello globale che ha deciso di seguire le orme antisioniste dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questa però è, appunto, un'assemblea di rappresentanti di Stati più o meno sovrani, più o meno allineati, spesso antiamericani e in diversa misura dipendenti dal petrolio e dal gas del Golfo Persico. Airbnb, invece, è una compagnia privata che dal suo quartier generale di San Francisco smista turisti e viaggiatori nelle case messe a sua disposizione in 191 stati di questo pianeta.
Tutti, in pratica, tranne (parte di) uno: quello ebraico. Airbnb ha annunciato che toglierà dalla propria piattaforma le circa 200 destinazioni rese disponibili in Cisgiordania - territorio conquistato da Israele con le guerra dei Sei giorni del 1967 - da altrettanti proprietari di casa degli insediamenti israeliani: «Vi sono opinioni contrastanti sull'opportunità che le imprese operino nei Territori occupati, che sono oggetto di dispute storiche tra israeliani e palestinesi», premette l'ufficio stampa di Airbnb con un linguaggio che fa tanto Palazzo di Vetro. «La legge Usa - si legge ancora - consente alle imprese come Airbnb di operare in questi territori ( ... ) e tuttavia dopo una lunga serie di riflessioni, dopo approfondite consultazioni con tanti esperti abbiamo concluso che dovremmo eliminare le inserzioni negli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata al centro della controversia».
«Questione controversa»
Consapevoli di aver creato un precedente, quelli di Airbnb hanno poi chiosato la loro decisione con un garbato «sappiamo che tanti non saranno d'accordo e rispettiamo il loro punto di vista: è una questione controversa» che fa tanto presa per i fondelli.
Non si tratta qua di discettare sul diritto di Israele a costruire insediamenti in Cisgiordania ma chiedersi perché Airbnb non fa lo stesso con tutte le altre zone contese del globo? O con almeno qualcuna? Perché il portale la cui missione è «creare un mondo in cui le persone possano sentirsi a casa» decide che di questo mondo non possa fare parte un pezzo di Israele?
E se il problema è la natura «contesa» dei territori in questione, perché opera invece nell'autoproclamata Repubblica di Cipro Nord, tanto per restare in Medio Oriente? Tranne Ankara, nessuno riconosce Cipro Nord: eppure Airbnb non ha problemi ad affittare le villette sulle coste settentrionali dell'isola, ieri greche e oggi turche. La scelta del portale segna la discesa in politica di un'impresa commerciale nel segno del BDS, il movimento visceralmente anti-israeliano per il boicottaggio di tutto ciò che è legato a Israele, cultura inclusa.
L'Anp plaude
Per aver ceduto alle pressioni del movimento, il portale è stato ribattezzato online «AirbnBDS». Il suo annuncio è invece piaciuto all'Autorità palestinese che l'ha definito «un passo in avanti».
Dal canto suo, Gerusalemme ha parlato di «discriminazione» annunciando ricorsi negli Usa: «25 degli Stati prevedono sanzioni contro le imprese che boicottano Israele», ha ricordato il ministro per gli Affari strategici Gilad Erdan.
(Libero, 21 novembre 2018)
*
Affitti vietati nelle colonie. E Airbnb boicotta Israele
La motivazione: «Sono terre occupate». Ma con altri Paesi un metro diverso. Il governo protesta.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Non si è mai visto che Airbnb, l'organizzazione che affitta in tutto il mondo camere e case ai turisti, si sia data pena di fare giustizia nel mondo, e abbia quindi messo fuori dalle sue liste gli appartamenti dei turchi a Cipro, o quelli dei marocchini in Sahara, o dei cinesi in Tibet, o dei Russi in Crimea. Ovvero abbia cacciato virtualmente gli occupanti dalle aree di occupazione. Ma quanto a doppio standard Israele è l' obiettivo ideale di ogni persecuzione, lo insegnano da un'alta cattedra l'Unione Europea e l'Onu che prendono di mira con le loro risoluzioni quasi soltanto lo Stato Ebraico ignorando i grandi violatori dei diritti umani, gli assassini e i dittatori.
Sulla loro scia sono stati messi fuori dal grande gestore dell'affitto facile circa 200 appartamenti che appartengono a cittadini di Israele in Giudea e Samaria. Airbnb, famosa per le sue politiche popolari ( esaltate con un cambio di gestione nel 2016, dopo che si notò che era razzista, perché cercava di evitare affittuari neri) ha seguito i grandi maestri: in un farraginoso documento di spiegazione chiama quella zona «the occupied West bank», allude a sicurezza, giustizia, pace, sofferenza, confacendosi in questo modo alla narrativa dei palestinesi, dato che per la definizione legale internazionale si tratta invece di «territori disputati», e ficcandosi nella zuppa antisemita del Bds, ovvero nel movimento per il boicottaggio di Israele, proibita, per esempio, da 25 su 50 stati americani. I ministeri della Giustizia e del Turismo israeliano preparano la loro risposta.
Gli appartamenti degli ebrei non piacciono a Airbnb, che ha pensato alla mossa solo pochi giorni prima una Ong famosa per i suoi pregiudizi antisraeliani, Human Rights Watch, pubblicasse il suo «report» sulle attività che svolge nell'West Bank: Arvind Ganesan, direttore della Ong si è molto vantato della bella mossa di aver messo in difficoltà duecento famiglie che affittano stanze, mentre si è augurato che molte altre attività vengano bloccate.
Saeb Erakat, cosiddetto negoziatore, in realtà rabbioso negatore di ogni diritto di esistenza di Israele, ha ringraziato per la condanna a quella che definisce «un'attività coloniale». Mai ha detto una parola sull'Iran o gli hezbollah in Siria. Chiede dunque di boicottare sempre di più, sempre meglio, tutto e tutti, e sa bene che il Bds boicotta Israele nel suo insieme, e i territori sono solo una scusa.
E non importa se il Bds è stato smascherato per un movimento legato ai più rabidi
gruppi antisemiti e di finanziamento del terrorismo. Lo sa certo anche l'accorto Airbnb. Ovviamente, Airbnb nel spiegare con un documento farraginoso la sua posizione garantisce che lo fa per spingere avanti una pace «duratura», vuole «una cornice per risolvere questo conflitto e un sentiero chiaro che indichi il cammino».
Ma se si guarda bene in questa cornice si vede la foto di Arafat, quella di Abu Mazen e forse anche quella del capo di Hamas, Sinwar. Si vedono i libri di testo delle scuole palestinesi che insegnano a odiare gli ebrei, i missili di Hamas che passano nel cielo, si leggono le dichiarazione di Abu Mazen che rifiuta ogni trattativa. Un boicottaggio di questo genere spinge a scegliere il vecchio caro albergo, anche solo a 3 stelle, abbandonando la stanza in affitto.
(il Giornale, 21 novembre 2018)
Viaggio in Israele dal 10 al 17 marzo 2019
Georges Bensoussan, ebreo marocchino, e David Meghnagi, ebreo libico, accompagneranno in Israele la comitiva organizzata dal Gruppo Sionistico Piemontese ad incontrare comunità cacciate da paesi arabi tra il 1948 e il 1967.
Iscrizioni aperte fino al 10 dicembre.
Per informazioni: segreamar@gmail.com
Programma
(Gruppo Sionistico Piemontese, 21 novembre 2018)
L'Unione europea premia la tv vicina a Hezbollah
Cortocircuito organizzativo, sciattezza o semplice gaffe (a voler esser buoni per forza). È l'incredibile vicenda denunciata dal senatore Lucio Malan (Forza Italia) in merito al "Premio internazionale giornalistico e letterario Marzani", che si è tenuto alcune settimane fa a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento.
L'undicesima edizione del premio ha visto i patrocini di Commissione europea, Camera dei Deputati, il ministero degli Esteri e università del Sannio: nessuna di questi istituzioni però si è resa conto di aver premiato un giornalista vicino agli Hezbollah e un altro arrestato due volte in Italia.
Il premio è stato conferito al giornalista Ibrahim Farhat della tv Al Manar che risulta affiliata a Hezbollah, ritenuta un'organizzazione terroristica da Usa, Francia e Canada e come ha ricordato Malan:
"La cosiddetta ala militare di Hezbollah è considerata organizzazione terroristica anche da Australia, Regno Unito ed Unione europea".
|
|
Ricapitolando: l'Unione europea considera l'ala militare di Hezbollah un'organizzazione terroristica e conferisce un premio a un giornalista vicino a gruppo nato in Libano nel 1982.
Al Manar è oscurata in mezza Europa e condannata dallo stesso Europarlamento, ma nessuno ha opposto resistenza all'assegnazione del premio.
La bizzarria della vicenda assume contorni ancora più grotteschi se consideriamo che durante lo stesso evento è stato premiato anche Ibrahim Masoumi Nejad:
"Un inviato iraniano della televisione di Stato dell'Iran, arrestato due volte in Italia, sospettato di inviare in Iran materiale dual use".
|
|
Semmai ce ne fosse bisogno, l'organizzazione terroristica di Hezbollah è accusata di diversi attentati, tra cui: a Beirut nel 1983, in cui morirono 305 persone fra americani e francesi, in Argentina nel 1992 contro l'ambasciata israeliana e due anni dopo contro un centro culturale ebraico, in cui morirono rispettivamente 29 e 85 persone, e quello all'ambasciata israeliana a Londra che portò alla morte di 29 persone.
L'organizzazione terroristica di Hezbollah minaccia costantemente l'esistenza di Israele e dei suoi cittadini, grazie all'ampio arsenale messo a disposizione dell'Iran, un altro paese che vorrebbe la distruzione dello Stato ebraico.
(Progetto Dreyfus, 21 novembre 2018)
USA scoprono rete russo-iraniana che finanza Hamas ed Hezbollah
Gli Stati Uniti hanno scoperto una rete russo-iraniana che finanzia Hamas ed Hezbollah attraverso un complesso sistema celato dietro a operazioni volte alla vendita di petrolio iraniano in Siria. Lo hanno riferito fonti americane.
Secondo il Tesoro USA il complesso accordo coinvolge un cittadino siriano che utilizzava la sua compagnia con sede in Russia per spedire il petrolio iraniano in Siria con l'aiuto di una compagnia statale russa.
La Siria però non trasferiva a Teheran il denaro per il petrolio acquistato ma lo spostava in contanti direttamente nelle casse di Hezbollah e in alcuni casi di Hamas....
(Rights Reporters, 21 novembre 2018)
Attlee eroe segreto. "Accolse un ebreo in fuga dai nazisti"
Lo racconta l'uomo salvato, oggi 90enne. Il premier Labour però non lo rivelò mai
di Antonello Guerrera
LONDRA - Ve lo immaginate, oggi, un politico che rinuncia a vantarsi sui social network di qualsiasi sua azione, soprattutto se somma e straordinaria? Quasi ottant'anni fa, nel 1939, Clement Attlee ha ospitato e salvato un bambino ebreo dalla furia cieca di Hitler, ma lo si scopre soltanto ora. Già, perché lui, leader del partito laburista inglese negli anni Trenta e poi primo ministro britannico al posto dell'eroe di guerra Churchill, non lo ha mai rivelato. Né, nel tempo, ha sfruttato questo suo eccelso gesto per tornaconto personale o politico. Il Guardian, però, ieri ha intervistato quel bambino, ora 90enne, Paul Willer, che ha svelato tutta la sua incredibile storia: «Attlee era un uomo molto modesto. Non ha cercato mai la gloria per questo. Lo ha fatto semplicemente perché credeva fosse giusto».
Paul è figlio di una famiglia tedesca mista: padre cristiano vendutosi presto al nazionalsocialismo e poi suicida nel 1964, madre ebrea, Franziska, medico. Sono gli anni Trenta, vivono a Würzburg, in Germania, e la situazione si fa presto pericolosa. Dopo la Notte dei cristalli del 9 novembre 1938, una conoscente scrive alla madre di Paul: «Hanno distrutto tutti i negozi degli ebrei, bruciato la sinagoga e portato gli uomini nei lager». Mamma Franziska capisce che non c'è tempo da perdere e organizza subito la fuga sua e dei due figli a Londra. Ma non è facile. Perché soldi sono pochi, essendo di famiglia mista i piccoli Willer non sono in prima fila per imbarcarsi verso Londra sui treni della speranza Kindertransport che salveranno circa 10mila creature dall'orrore dell'Olocausto e poi ci vuole qualcuno oltremanica che garantisca di prendersi cura dei bambini. È il gennaio 1939, e per fortuna c'è Otto, fratello di Franziska, già giunto a Londra. Otto scrive al reverendo William Hewett, della comunità di Stanmore (poco fuori la capitale inglese), che trova due famiglie garanti per i suoi due figli: una di queste, sono gli Attlee.
Nel 1939, Clement Attlee ha 56 anni, è leader del partito laburista da quattro ed è un ostinato oppositore della politica di appeasement del primo ministro britannico Neville Chamberlain nei confronti di Hitler. Il piccolo Paul Willer, dieci anni, viene accolto a casa Attlee il giorno di Pasqua, non sa una parola di inglese, ma una figlia di Attlee, Felicity, diventa l'interprete perché entrambi sanno un po' di latino e poi Paul fa subito amicizia con il figlio del politico, Martin, «che mi fece fare subito un bagno caldo». Col passare dei giorni, Paul conosce meglio anche Attlee, che diventerà primo ministro dopo la Seconda guerra mondiale e fonderà il nuovo stato sociale in Gran Bretagna: «Era un gentiluomo», racconta oggi il signor Willer, «molto affettuoso con noi bambini. A colazione ci riuniva intorno a un tavolo e per gioco ci chiedeva chi fosse la persona ritratta sulle monetine britanniche. Chi indovinava vinceva la monetina», ricorda sempre al Guardian.
Paul rimane circa quattro mesi dagli Attlee poi nel settembre 1939 tutta l'Europa sprofonda nel baratro della guerra e allora lui saluta "papà" Clemente viene mandato a scuola nella più sicura Irlanda del Nord, diventa negli anni un responsabile vendite, si sposa, ha tre figli, si stabilisce nell'Hertfordshire e poi nel vicino Gloucestershire, a South Cerney. Ma il legame con gli Attlee è ancora vivo e infatti oggi il signor Willer parteciperà a Londra alla manifestazione dell'ottantesimo anniversario dei treni Kindertransport, organizzata dall'Associazione dei rifugiati ebrei e incontrerà la nipote di Attlee, Jo Roundell Greene, anche lei politica (ma lib-dem). Sua madre Felicity, la bambina del latino morta nel 2007, le aveva parlato vagamente di «aver ospitato un rifugiato». Anche lei ha dovuto aspettare molti anni per sapere la verità.
(la Repubblica, 21 novembre 2018)
Le leggi razziali sulla pelle
"Alla mostra che espone i registri con i beni sequestrati a mia nonna". È il racconto del lungo processo di catalogazione sequestro, gestione e restituzione dei beni ebraici attraverso i documenti ufficiali, con un corredo di foto per dare alle storie corpo e volto.
In fondo a quelle vecchie cartelline trovo la mia definizione di "fascismo"
|
C'è la cascina Saccarello che apparteneva alla nonna di Primo Levi
|
E c'è la casa di Cavoretto del compositore Sinigaglia morto di crepacuore
|
di Elena Loewenthal
TORINO - Se ne parla tanto, in questo periodo. È diventato una specie di slogan, un'etichetta, una pietra di paragone, l'unità di misura di un test a crocette. Per me, invece, il fascismo sta tutto in una delle quasi trecento pagine dell'inventario «Antroponimi» dell'Egeli- l'«Ente Gestione e Liquidazione Immobiliare», creato nel 1939. La voce 696 porta il nome di mia nonna Ida Falco Loewenthal, sia benedetta la sua memoria. È una cartellina opaca, irruvidita dal tempo. Dentro c'è la documentazione superstite relativa ai beni di mia nonna sequestrati dopo l'entrata in vigore delle Leggi Razziali. In fondo, in quella cartellina non trovo soltanto la mia definizione di «fascismo»: lì dentro c'è quello che sono. Mio malgrado. Ci sono le mie convinzioni e le paure che mi porto dietro, ci sono i dubbi che mi assillano, c'è il confine della mia ansia, c'è quello che voglio tramandare ai miei figli. Ci sono i silenzi che circondavano la mia infanzia, c'è lo sguardo sempre un poco smarrito di mio padre e mia madre. Questo e altro, ha fatto a me il fascismo.
Con l'entrata in vigore delle Leggi Razziali, il regime di Mussolini ordinò a una serie di banche sul territorio italiano di creare un ente apposito per inventariare, valutare e provvedere al sequestro - o alla confisca, che spesso era una pratica più breve ed efficace - dei beni ebraici. In Piemonte e Liguria toccò al San Paolo di Torino mettere in piedi questa complessa organizzazione fatta di funzionari che bussavano alle porte di case e aziende con carta e matita in mano, annotavano tutto, procedevano al sequestro, gestivano i beni e le attività incamerati. Sono centoequindici metri lineari di documenti con oltre seimila e trecento fascicoli conservati presso la «Fondazione 1563 per l'Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo», nella sua sede di piazza Bernini 5, dove domani si apre la mostra «Le case e le cose. Le leggi razziali e la proprietà privata».
Fra le banche italiane incaricate di creare l'Egeli e portare avanti la «consegna» imposta dalle Leggi Razziali, il San Paolo è la prima ad avere preso in mano questa scomoda storia in nome di una responsabilità umana e morale. Merito del presidente Piero Gastaldo, del direttore della Fondazione 1563, Anna Cantaluppi (curatrice dell'Archivio storico della Compagnia di San Paolo fin dalla sua costituzione nel 1986) e della squadra di lavoro. Merito del lavoro dello storico Fabio Levi, che da anni lavora su questi documenti. Il progetto è ampio, mira a creare uno spazio permanente di «Digitai Humanities» intorno a questo passato, in cui discipline e documenti di diverse provenienze possano incontrarsi grazie alle potenzialità della rete.
La mostra che resterà aperta sino a fine gennaio 2019 racconta tutto il lungo processo di catalogazione, sequestro, gestione e restituzione dei beni ebraici attraverso i documenti estratti dall'archivio, con un corredo di foto per dare alle storie corpo e volti. Come quello di Primo Levi nella tenuta Saccarello (strada comunale di Superga) della sua nonna materna Adele Luzzati, fra tre degli alberi che il solerte funzionario non manca di inventariare per il sequestro, insieme alla casa, gli interni, le macchine agricole, gli arredi.
E' tutto così terribile e doloroso, fra quelle carte. Dentro quei registri scritti a mano: c'è quello della «Rubrica per Vie - Ebrei Sequestrati», c'è la «Rubrica - Ebrei», ci sono gli «Ebraici Confiscati», e gli «Ebraici Sequestrati». Sfogliando quei libri, aprendo i fascicoli, trovo scritto «razza ebraica» talmente tante volte che mi gira la testa e devo alzare lo sguardo verso la luminosa sala di consultazione,
affinare l'udito e sentire il ticchettio del computer alle mie spalle, per assicurarmi di non essere precipitata in quel passato. «Razza Ebraica» sta scritto infinite volte anche nel corposo dossier su Leone Sinigaglia e la sua casa di Cavoretto. Con quell'ottusità di cui solo la burocrazia è a volte capace, l'Egeli pensò bene di sequestrargli formalmente la casa il 23 novembre del 1944, sei mesi e sette giorni dopo che il compositore era morto di crepacuore all'ospedale Mauriziano, per paura dei tedeschi e della deportazione. Il processo disgregatore era cominciato ben prima di allora, con l'ordine di "amministrazione provvisoria" per tutti i suoi beni mobili e immobili. Dopo l'incursione aerea che si abbatté su Cavoretto l'1 dicembre del 1943, il "capo della Provincia" decretò che le ville appartenenti a persone di razza ebraica venissero messe a disposizione dei «sinistrati». Oggetti, indumenti, biancheria, mobili. Tutto. I locali di casa Sinigaglia vengono svuotati, parte dei beni assegnati agli sfollati, parte custoditi nei depositi dell'Educatorio Duchessa Isabella, per poi finire oggetto di «arbitraria appropriazione» da uomini della guardia nazionale repubblicana Leonessa e militari del comando tedesco. Persino gli alberi del giardino furono tagliati per farne legna da ardere.
Questo è ciò che dice a me la parola «fascismo». Non è uno slogan, né una pietra paragone. Non è il luogo comune che a volte è diventato. Sono quelle carte che il tempo ha reso fragili e diafane, ma l'inchiostro degli elenchi, delle cifre, dei provvedimenti è così nitido che sembra inciso sul foglio. È la sequenza di nomi dentro quei registri, in cui trovo tutti quelli della mia famiglia. Non uno di meno.
(La Stampa, 21 novembre 2018)
Un fascista che protesse gli ebrei. Il percorso di Luca Pietromarchi
Gianluca Falanga ricostruisce per Viella carriera e ambiguità di un uomo di fiducia di Ciano
di Sergio Romano
Dopo l'ingresso degli Alleati a Roma, nel giugno 1944, il ministero degli Esteri italiano tornò nella sua vecchia sede di piazza Colonna. Pochi mesi dopo, una commissione di epurazione si mise al lavoro per passare al setaccio vita e carriera dei diplomatici durante il Ventennio e punire con la sospensione dal servizio quelli che si erano distinti per zelo fascista o per una manifesta adesione al regime. Dopo la fine della guerra, con metodi ancora più rigorosi, lo stesso sarebbe accaduto per quelli che avevano seguito Mussolini a Salò e aderito alla Repubblica sociale italiana.
Il protagonista del libro scritto da Gianluca Falanga per l'editrice Viella (Storia di un diplomatico. Luca Pietromarchi al Regio Ministero degli Affari Esteri) aveva lasciato il ministero dopo l'armistizio dell'8 settembre, aveva trovato rifugio in una casa amica sino all'arrivo degli Alleati ed era tornato a Palazzo Chigi non appena l'ultimo tedesco era uscito dalla capitale. Non era un collaborazionista, quindi. Ma nel suo passato vi erano vicende che facevano di lui un naturale imputato della commissione. Si era iscritto al Partito nazionale fascista nel 1924 (l'anno dell'assassinio di Giacomo Matteotti), aveva firmato il manifesto dei cattolici italiani per il fascismo, era convinto che Mussolini avesse cristianizzato il fascismo e aveva persino un grado nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, la formazione militare creata il 23 marzo 1923. Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri dal giugno 1936, fu colpito dalla sua intelligenza e dalle sue capacità organizzative. Quando scoppiò in Spagna la guerra civile e l'Italia intervenne contro i «rossi» con una Legione, gli affidò la direzione dell' «ufficio Spagna»: un organo che aveva stretti rapporti con il corpo di spedizione e, quindi, competenze militari. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale divenne capo dell'Ufficio «guerra economica».
Dopo alcune sedute della commissione di epurazione, Pietromarchi fu esentato dal servizio per indegnità. Una tale sentenza era in quei giorni inevitabile, ma non teneva conto di mentalità e circostanze che anche oggi sembrano spesso ignorate o trascurate. Luca Pietromarchi era un nazionalista cattolico. Negli anni della gioventù aveva viaggiato in Africa, era stato affascinato dalla popolazione camitiche (gli eredi di Cam figlio di Noè, fra cui gli etiopi) e aveva scritto un'opera importante sull'Abissinia. Combattente nella Grande guerra, era tornato dal fronte con una medaglia al valore. Durante il «biennio rosso», quando il massimalismo socialista invocava la rivoluzione, aveva assistito con simpatia all'ascesa del movimento fascista. Riconosceva a Mussolini il merito di un Concordato che gli aveva consentito di essere contemporaneamente cattolico romano e patriota italiano. Nella guerra di Etiopia vide il riscatto di Adua, la battaglia perduta del 1896. Nella guerra di Spagna vide la lotta contro il bolscevismo e, per l'Italia, la conquista di una posizione eminente nel Mediterraneo. Nella Conferenza di Stresa, convocata da Mussolini nel 1935, vide il lodevole tentativo di creare un fronte anglo-franco-italiano contro il revanscismo tedesco. Alcune di queste posizioni sono discutibili e criticabili, ma erano condivise da molti italiani non necessariamente fascisti.
I primi dubbi e un crescente malessere si manifestarono quando Mussolini cominciò a legare il destino del suo Paese a quello del Terzo Reich e permise a Hitler di cancellare lo Stato austriaco dalla carta geografica. Pietromarchi sperò che l'Italia, dopo l'inizio della Seconda guerra mondiale, rispettasse la non belligeranza, proclamata nel settembre del 1939, e fu tra i primi ad accorgersi che la Germania sarebbe stata, nei rapporti con l'Italia, spregiudicatamente rozza e brutale.
Vi è nella vita di Pietromarchi un interessante capitolo ebraico. Aveva sposato una ebrea convertita al cristianesimo e dovette piegarsi ai bizantinismi di una legislazione che prevedeva la discriminazione ( cioè l'esenzione dai divieti previsti per gli ebrei) per alcune categorie, ma pretendeva anzitutto che i discriminabili (nel suo caso moglie e figli) presentassero un certificato di ebraismo. Più tardi, durante la guerra, Pietromarchi si servì delle sue funzioni per difendere gli ebrei che vivevano nelle zone occupate dalle truppe italiane soprattutto in Jugoslavia e in Grecia. I comandanti militari, i diplomatici italiani nei Balcani e lo stesso ministero degli Esteri resistettero sistematicamente alle continue pressioni tedesche e rifiutarono di consegnare gli ebrei alle autorità germaniche. E una pagina di storia che sarebbe stato giusto ricordare negli scorsi mesi, quando è stato commemorato l'ottantesimo anniversario delle leggi razziali.
L'esilio di Pietromarchi da Palazzo Chigi durò fino al 1947, quando il Consiglio di Stato, come in molti altri casi, annullò l'epurazione. Carlo Sforza, allora ministro degli Esteri, lo richiamò a Palazzo Chigi. Il governo De Gasperi lo nominò ambasciatore in Turchia nel 1950 e il governo Fanfani, sollecitato dal presidente della Repubblica Gronchi, lo nominò ambasciatore a Mosca nel 1958. La classe politica postfascista aveva deciso che la continuità dello Stato era più importante di qualche contingente regolamento di conti.
(Corriere della Sera, 21 novembre 2018)
Netanyahu evita la crisi di governo. I suoi ministri non si dimettono
di Rolla Scolari
Persino il quotidiano della sinistra liberal israeliana, Haaretz, ammette: Benjamin Netanyahu «gioca in un altro campionato rispetto ai suoi avversari politici». Il segno del sua lunga era al potere è la capacità di sopravvivere alle crisi anche quando è dato per spacciato. Il primo ministro israeliano ha scongiurato - per ora- elezioni anticipate. Con una marcia indietro plateale i ministri dell'Economia e della Giustizia, Naftali Bennett e Ayelet Shaked, hanno annunciato ieri che non si ritireranno dal governo. Avevano passato giorni a minacciare l'uscita di scena degli otto deputati del loro partito, Focolare ebraico. Una mossa simile avrebbe tolto la maggioranza al premier.
Le critiche al premier
Pochi giorni fa, in protesta contro il cessate il fuoco raggiunto dal governo con Hamas a Gaza e criticando un atteggiamento del primo ministro ritenuto morbido nei confronti delle milizie armate palestinesi si è dimesso il ministro della Difesa Avigdor Lleberman. I sei deputati del suo partito hanno abbandonato la coalizione di governo, lasciando Netanyahu con una risicata maggioranza: 61 seggi su 120 in Parlamento. Da allora, Bennett minaccia: o il portafoglio della Difesa, o elezioni anticipate rispetto al voto programmato a novembre 2019. Come Lieberman, il ministro dell'Economia accusa il governo di Bibi di non essere abbastanza falco in materia di sicurezza.
Il premier ha ripreso la scena domenica, spazzando via le ambizioni dei due giovani politici. «In un Paese dove gestire le crisi che entrano nel suo ufficio come le onde del mare è parte della routine del primo ministro, il voto che questi due prendono per la gestione di questa crisi è zero», scrive impietoso Yossi Verter, notista politico di un quotidiano non certo morbido con Netanyahu.
Il leader della destra è stato attaccato dai suoi alleati/rivali di destra sulla sicurezza. E proprio sfruttando la sicurezza è riuscito a farli tacere. Ha scelto il quartier generale dell'esercito a Tel Aviv per il suo discorso domenica alla nazione. In breve: il rischio di una guerra esiste, andare a elezioni ora è irresponsabile, i politici che vogliono il voto sono irresponsabili, ha detto, annunciando che avrebbe ritenuto per sé il ministero della Difesa (è adesso premier, ministro degli Esteri e della Salute). «È meglio che il primo ministro mi sconfigga in una battaglia politica piuttosto che il leader di Hamas sconfigga Israele», è stato costretto a dichiarare ieri Bennett, facendo marcia indietro.
(La Stampa, 20 novembre 2018)
*
Bennett non si dimette: governo di Benjamin Netanyahu resta in piedi
In una conferenza stampa con la ministra della Giustizia Ayelet Shaked, il leader di Focolare Ebraico ha spiegato che, nonostante le sue aspre critiche sulle politiche di difesa del governo, sosterrà il premier nel tentativo di migliorare la "profonda crisi di sicurezza" del Paese. Il premier assume la guida del ministero della Difesa dopo le dimissioni di Avigdor Lieberman.
Il suo partito, Focolare ebraico, aveva detto chiaro e tondo che se il ministero della Difesa non fosse andato a lui, la crisi sarebbe stata inevitabile. Invece Naftali Bennett non si dimette e il governo Netanyahu per ora resta in piedi. Con un annuncio a sorpresa, questa mattina [19 nov] il ministro dell'Istruzione israeliano ha annunciato che non lascerà la coalizione guidata dal premier del Likud, che domenica ha assunto la guida del ministero della Difesa dopo le dimissioni di Avigdor Lieberman. In una conferenza stampa con la ministra della Giustizia Ayelet Shaked, il leader di Focolare Ebraico ha spiegato che, nonostante le sue aspre critiche sulle politiche di difesa del governo, sosterrà il premier nel tentativo di migliorare la "profonda crisi di sicurezza" di Israele.
"La situazione di oggi non è più pericolosa di quanto non fosse pochi mesi fa. Non è giusto fare politica con problemi di sicurezza", ha detto il Bennett all'inizio del il suo discorso. Tuttavia "Hamas e Hezbollah stanno diventando più attivi perché capiscono che abbiamo paura di affrontarli", ha continuato. "Da molti anni Israele ha smesso di vincere. L'ho visto da comandante nella guerra in Libano (2006). Ho visto l'incertezza e la confusione, l'assenza di determinazione, la mancanza di uno spirito di combattimento", e sono anche queste, ha aggiunto, le ragioni che nei giorni scorsi lo avevano indotto a chiedere per sé l'incarico di ministro della difesa in sostituzione di Lieberman. "Abbiamo imposto briglie ai nostri militari, sia di carattere legale, sia concettuali. Temono più il capo della magistratura militare che non Yihia Sinwar", il leader di Hamas, ha aggiunto Bennett.
"La nostra politica di sicurezza ha preso negli ultimi dieci anni una brutta rotta - ha ribadito Bennet - Si è creata la convinzione che non ci sia soluzione ai missili e al terrorismo. Invece c'è. Quando Israele vorrà vincere, tornerà a farlo". Se da ministro della difesa Netanyahu procederà in quella direzione, ha concluso Bennett, potrà contare sul suo sostegno.
Domenica Netanyahu - dopo un incontro con il ministro delle finanze, il centrista Moshè Kahlon, pencolante verso il voto anticipato - ha rilanciato la sfida decidendo di non sciogliere il governo e ammonendo i suoi alleati di maggioranza che in un momento "così complesso per la sicurezza di Israele" non si può restare senza un esecutivo. Per dar più forza alle sue parole il premier ha annunciato di aver assunto la responsabilità del ministero della Difesa lasciato da Lieberman in pieno dissenso sulla tregua con Hamas a Gaza. In un appassionato, e allarmante, discorso in tv alla nazione, Netanyahu ha denunciato che in un simile frangente dove è in discussione la sicurezza del paese "non si abbattono i governi e non si gioca alla politica" in base a considerazioni personali.
(il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2018)
Israele: sondaggio, Likud sempre primo
Radio Militare: il secondo partito sarebbe il centrista 'Yesh Atid'
Se oggi si andasse al voto in Israele, il Likud - il partito del premier Benyamin Netanyahu - prenderebbe 30 seggi, gli stessi che ha ora. Lo rivela un sondaggio della Radio Militare condotto il giorno successivo alla conclusione della minacciata crisi di governo risolta dal premier. Subito dopo, arriverebbe il partito centrista di Yair Lapid 'Yesh Atid' con 18 seggi (contro gli 11 di oggi). Il cartello elettorale di 'Campo sionista' (laburisti più centristi di Tzipi Livni), si fermerebbe a 12 con una perdita secca rispetto ai 24 di oggi. In discesa anche 'Lista araba unita' che passerebbe da 13 a 11. I nazionalisti religiosi di 'Focolare ebraico' - il cui leader Naftali Bennett ha confermato ieri l'appoggio a Netanyahu allontanando la crisi di governo - avrebbero 9 seggi contro gli 8 di oggi.
(ANSA, 20 novembre 2018)
Bolzano. Cittadini israeliani ebrei e arabo-palestinesi in delegazione in Comune
L'autonomia dell'Alto Adige attrae Paesi che affrontano i difficili equilibri della convivenza culturale, religiosa, etnica, di genere.
Una delegazione di cittadini israeliani ebrei e arabo-palestinesi è stata ricevuta in municipio dal Sindaco Renzo Caramaschi e dal Vice Sindaco Christoph Baur. La visita della delegazione rientrava nell'ambito del progetto "Bolzano-Nazareth e ritorno" curato da Antenna Cipmo in collaborazione con EURAC.
Scopo dell'incontro lo studio e l'approfondimento dell'autonomia dell'Alto Adige e del suo sistema di tutela delle minoranze che, come hanno spiegato gli stessi componenti della delegazione, possono offrire spunti su possibili modelli di convivenza da attuare nelle aree di conflitto del loro paese. Il tutto per realizzare dialogo, confronto e coesistenza tra maggioranze e minoranze nazionali, etniche, religiose, culturali e di genere, promuovendo la cooperazione e favorendo un percorso di pace nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. I membri della delegazione hanno illustrato come le disparità e i rapporti tra minoranza arabo-palestinese e maggioranza ebraica, siano ancora molto difficili. Vero è che esiste anche una nuova, giovane classe dirigente determinata ad affermarsi, a progredire, a promuovere i suoi diritti e contare di più, partendo proprio dalla società civile.
Il Sindaco Caramaschi ha ricordato nel suo intervento le premesse storiche che hanno portato l'Alto Adige e Bolzano ad essere territorio della nazione italiana e gli innumerevoli sacrifici umani costati. "Una storia che, auspico, non dovrà più ripeterei perché solo in pace la società può trovare un degno sviluppo". Il Vice Sindaco Christoph Baur ha proseguito nel resoconto storico ricordando le principali tappe della vicenda sudtirolese, dall'annessione ai giorni nostri: i drammi e la violenza della dittatura nazi-fascista, gli anni del dopoguerra, lo Statuto Speciale e la crescita della autonomia, illustrandone le principali linee guida. Entrambi gli amministratori comunali si sono dichiarati lieti che la sintesi proposta nello Statuto di Autonomia attragga l'attenzione di numerosi Paesi che si trovano ad affrontare delicati equilibri sul tema della convivenza.
(BS BuongiotnoSüdtirol, 20 novembre 2018)
Sui migranti una lezione da Israele
di Marco Gervasoni
In tutta la sua storia, Israele si è sempre prodigato per difendere gli ebrei presenti negli altri Stati. Potremmo anzi dire che questa sia una missione costitutiva del suo essere. Eppure ieri nella capitale di Etiopia, Addis Abeba, una manifestazione di ebrei di quel Paese, chiamati Falascia, ha protestato contro Tel Aviv, dopo la decisione del governo di Netanyahu di accoglierne solo mille, sugli 8 mila che ancora vi vivono.
Tra l'altro modificando in tal modo una decisione già presa nel 2015. Una democrazia come Israele anzi, la sola democrazia del Medio oriente), una comunità multietnica e multireligiosa, è giunta alla decisione drastica di limitare l'ingresso, anche a coloro che condividono la religione del Libro, per ragioni di sicurezza ma soprattutto di esistenza. Con un'estensione di soli 22 mila chilometri quadrati (l'Italia ne ha trecentomila) lo stato di Israele non può permettersi accoglimenti indiscriminati, tanto da dover imporre le quote più rigide.
Ma non è solo una questione di estensione geografica: l'immigrazione di elementi che condividono con gli Israeliani solo la religione ma non la cultura e i costumi rischia di stravolgere una società come quella, già duramente provata dalle tensioni del conflitto palestinese. Qualcuno dirà che il premier israeliano è un «razzista», un «fascista» , un «nazista» - per quanto possa essere incredibile, c'è chi lo scrive senza arrossire di vergogna. Niente di tutto questo, Netanyahu è un leader democratico che, con realismo, ha deciso di difendere non solo il benessere, l'esistenza stessa del suo popolo. Ma la vicenda degli ebrei etiopi ci rimanda anche un'altra lezione, questa volta tutta europea e tutta italiana.
Se persino Israele ha deciso, in buona sostanza, di chiudere le sue frontiere, per ragioni di sicurezza e per non disintegrare il proprio tessuto sociale, perché l'Europa le dovrebbe tenere aperte? Perché, presi da vicende, per carità, di grande importanza, la Commissione e gli stati dell'Europa sembrano in questi mesi essersi dimenticati dell'immigrazione? L'ondata è finita? Nientedimeno vero. Gli osservatori fanno rilevare grandi spostamenti di masse umane verso la Libia, la pista balcanica si è riaperta, la situazione in Grecia sta implodendo: e immaginiamo se dovessero saltare i fragili regimi tunisino e algerino. E se nel nostro paese gli sbarchi sono diminuiti, è solo grazie alla politica rigorosa del nuovo governo, che ha lanciato un segnale, e ha fatto in parte deviare le rotte verso altri paesi, soprattutto la Spagna.
Solo che ora il governo Sanchez, che ha preso la decisione politica di aprire per accreditarsi agli occhi dei partner europei, si trova a gestire un aumento consistente dei flussi dell'immigrazione, che peraltro una volta arrivati in Spagna si dirigono verso la Francia di Macron. Non solo la Commissione Ue si sta disinteressando ai migranti: sta diventando sempre più chiaro che la politica arcigna di Bruxelles sulla nostra manovra (certo non esente da difetti) è anche una risposta al rifiuto del governo Conte, e di Matteo Salvini, di trasformare il nostro mezzogiorno in un gigantesco campo immigrati.
Nonostante il rancore che attraversa la società francese, e che deve molto, anche se non tutto, all'immigrazione clandestina. Nonostante la discutibile decisione di Merkel del 2015 («ce la possiamo fare») che ha messo in crisi non solo lei, ma tutta la Cdu e il sistema della Bundesrepublik. Nonostante la Brexit, prodottasi anche in ragione della crisi migratoria. Nonostante tutto questo, ancora pochi hanno capito che l'immigrazione incontrollata distrugge il tessuto sociale di un paese. L'ha capito Netanyahu. L'ha capito Trump. L'ha capito Orbàn. L'ha capito Salvini. Speriamo che quando lo comprenderanno anche tutti gli altri, non sia ormai troppo tardi.
(Il Messaggero, 20 novembre 2018)
La tenaglia iraniana su Israele. Cosa intendeva Netanyahu nel suo discorso
Proviamo a capire perché Netanyahu ha accettato il cessate il fuoco con Hamas invece di attaccare la Striscia di Gaza.
In questi giorni si sono accese diverse polemiche, sia in Israele che fuori del paese (tra i tanti sostenitori dello Stato Ebraico), sulla decisione di Netanyahu di accettare il cessate il fuoco con Hamas, una decisione che ha provocato le dimissioni del Ministro della Difesa, Avidgor Lieberman, e ha rischiato di portare il Paese a elezioni anticipate.
In molti avrebbero voluto una risposta "più decisa" nei confronti di Hamas, altri volevano addirittura una sorta di "tabula rasa" nella Striscia di Gaza....
(Rights Reporters, 20 novembre 2018)
La tradizione ebraica a Venezia nelle registrazioni di Leo Levi
Un volume e due cd ripercorrono il lavoro dell'etnomusicologo. Le testimonianze liturgiche di rito sefardita e ashkenazita sono state raccolte fra il 1954 e il 1959.
di Andrea Pedrinelli
Il lavoro è stato fatto con anni di ritardo: oggi si sanno e si vogliono valorizzare le tradizioni, ma spesso è tardi». Correva l'anno 1954 quando il piemontese Leo Levi, etnomusicologo, così segnalava un rammarico del proprio lavoro: eppure quel lavoro resta unico, visto che gli ha permesso di registrare e conservare oltre mille testimonianze di quella stessa storia musicale italiana che ancora oggi, purtroppo, si fatica a valorizzare quale patrimonio culturale. Per fortuna, invece, che sono esistiti studiosi quali Levi, scomparso nell'82 a Gerusalemme dopo una vita dedicata alla conservazione di materiali sonori; e che parte di quel lavoro oggi giunge a tutti grazie alla collana aEM, libri+cd pubblicati dall'editore romano Squilibri con l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, al fine di rendere accessibili a pubblico e comunità di provenienza il contenuto degli Archivi di Etnomusicologia nati nel '48 come Centro Nazionale Studi di Musica Popolare. Dentro aEM è appena uscito per la precisione un secondo tomo su musiche di tradizione ebraica in Italia; nel 2015 toccò a un'opera basata sulle registrazioni di Levi nel natio Piemonte, ora ecco Musiche della tradizione ebraica a Venezia - Le registrazioni di Leo Levi 1954/1959, ampio volume di studi con ben due cd abbinati.
Come spiega nell'opera Piergabriele Mancuso, curatore, quanto i cd fanno riemergere tramite frammenti di rito sefardita e ashkenazita è parte del minhag ebraico veneziano, ovvero la tradizione liturgica locale fotografata nel tempo anche alla luce di come si è modificata per esigenze quotidiane. Il ghetto ebraico di Venezia nacque nel Millecinquecento per una strategia della Serenissima mirata a integrare le minoranze come a "sfruttarle" per una ripresa economica; dapprima ospitò solo ebrei italiani e ashkenaziti (nordeuropei), ma già nel 1566 vi erano giunti i sefarditi dalla Spagna e i levantini dal Mediterraneo orientale. Ovviamente col tempo molto è mutato del e nel ghetto; ma testimonianze come queste, di musica liturgica ebraica ancora ricordata a Venezia negli anni Cinquanta del Novecento anche se da tempo già allora estinta all'uso, oggi permettono sia di restituire alle comunità un prezioso frammento di passato salvato da Levi, sia tramite esso di ricostruire l'intero quadro rituale/ artistico della comunità medesima.
Il Centro Studi di Musica Popolare cominciò subito, nel '48, a documentare musica liturgica tramandata in via orale, e in quel contesto si inserì Levi: affiancando ad archivi come quelli sul rito cattolico latino in Sicilia o quello greco-bizantino calabrese il suo lavoro sull'ebraismo che l'avrebbe portato a registrare testimoni autorevoli anche fra Africa e Medioriente. Nel caso di Venezia Levi si rivolse al rabbino Bruno Ghereshon Polacco, scampato alla Shoah, per 53 frammenti liturgici di rito sefardita che fece incidere in una sede Rai (al meglio delle possibilità tecnologiche) invece che in sinagoga; e a Guido Heller, discendente di cantori ashkenaziti, per 15 frammenti di liturgie solenni in quel rito. Grazie a ciò ora su cd possiamo conoscere i riti spagnolo-portoghesi e tedeschi del ghetto veneziano: perché già fra '54 e '59 Levi non trovò testimoni di rito italiano, a conferma della portata del suo lavoro quanto dello spessore di quel rammarico d'allora. Però oggi Musiche della tradizione ebraica a Venezia proprio perciò è opera imprescindibile, anche nella misura in cui è inserita in un progetto editoriale destinato a proseguire nonché per il fatto che è arricchita da importanti saggi, dalla puntigliosa disamina di significati e valore storico dei pezzi nei cd, da un magnifico repertorio iconografico. Un'opera da prendere a esempio anche in altri contesti, per non perdere nemmeno della musica popolare quel suo respiro di parte integrante della cultura del nostro Paese.
(Avvenire, 20 novembre 2018)
Avvelenatori di pozzi
Il Fatto Quotidiano non si fa mancare nulla del repertorio antisemita quando si tratta di accusare Israele.
di Emanuel Segre Amar
Sabato 3 novembre Il Fatto Quotidiano ha pubblicato sul suo sito un articolo a firma di Roberto Colella che riprende alcuni degli argomenti dell'antigiudaismo storico: le accuse di avvelenare l'acqua e di uccidere i bambini non ebrei.
Chissà se, quando i Filistei, come si è letto sabato 10 novembre nella parashàLa parashà è il brano della Torah che viene letto settimanalmente in sinagoga, ogni sabato se ne legge uno nuovo seguendo l'ordine dei libri del Pentateuco. di Toledot, otturarono i pozzi di Isacco da lui scavati, causando diverse dispute, la situazione tra i contendenti era simile a quella odierna?
Vogliamo analizzare questo articolo per far conoscere anche ai lettori del Fatto Quotidiano quella che è la realtà oggettiva, al di là di ogni forzatura politica.
Gli accordi di Oslo del 1993-1995 hanno previsto le quantità di acqua che Israele deve fornire agli arabi, e su queste gli organismi internazionali effettuano severe verifiche che non hanno mai dimostrato mancanze da parte israeliana.
Israele, in particolare, fornisce alla Striscia di Gaza 10 milioni di metri cubi di acqua per anno (quale altra nazione rifornisce il proprio nemico dichiarato di beni fondamentali?)
Buona parte dell'acqua che Israele immette nelle tubazioni che, da nord, portano l'acqua nelle città arabo-palestinesi, viene rubata dagli stessi arabi che se ne appropriano forando le tubazioni, ragione per cui a destino arriva una quantità ben inferiore a quella immessa.
Non c'è modo di convincere la dirigenza arabo-palestinese (cambia poco che sia quella di Fatah o di Hamas) ad utilizzare acqua di recupero, dopo averla trattata, per gli usi agricoli.
I pozzi vengono sfruttati dagli arabi-palestinesi ben oltre le quantità tecnicamente accettabili, col risultato che la falda acquifera si è abbassata al punto da venire inquinata dall'acqua salmastra del vicino mare Mediterraneo.
I tecnici non riescono a costruire nuovi acquedotti perché, per motivi strettamente politici, i percorsi, già difficili da individuare a causa della grande densità della popolazione di Gaza, non vengono poi messi a disposizione dalla dirigenza politica. (Attualmente, infatti, per migliorare la situazione degli approvvigionamenti idrici, sono stati stanziati aiuti per 60 milioni di dollari per la sola Striscia di Gaza, ma spendere tale cifra a beneficio della sola popolazione è appunto molto complicato per le assurde imposizioni della dirigenza di Hamas).
Ma cosa leggiamo sul Fatto Quotidiano a fronte di questa realtà? Leggiamo che Israele sarebbe responsabile di "Water grabbing, ovvero di accaparramento dell'acqua". Il furto d'acqua ai danni degli arabi-palestinesi si associa al furto di terra, entrambi fanno parte dell'apparato accusatorio nei confronti di Israele, in cui, naturalmente, i palestinesi-arabi sarebbero le vittime e gli israeliani i carnefici. Roberto Colella da bravo amanuense di testi creati ad arte nei laboratori di Mosca dal 1964 in poi, provvede a porre le sue note a margine che in nulla si discostano dall'abituale leggenda nera. Così non può mancare il riferimento al "bombardamento di infrastrutture idriche e fognarie". E' una frase che fa effetto. Peccato che venga omesso che i bombardamenti sono la conseguenza dei lanci di razzi dalla Striscia di Gaza. Certo, quando vengono colpite le infrastrutture idriche, poi è necessario intervenire per ripararle ed è infatti ciò che accade. Colella non accusa direttamente Israele di avvelenare i pozzi, lo fa subdolamente, per via indiretta, scrive infatti di "un enorme aumento di malattie trasmesse dall'acqua, direttamente correlate all'acqua e alla contaminazione da acque reflue non trattate". Ovviamente omette di dire che sono gli arabi palestinesi a rifiutarsi di trattare l'acqua reflua. Parole come "l'acqua contaminata è divenuta la principale causa della mortalità infantile", in un contesto nel quale si accusa Israele di colpe non sue, conduce direttamente alla secolare accusa antigiudaica di uccidere i bambini non ebrei. Ma Colella non è sicuramente antisemita, ci mancherebbe, fa solo uso, del tutto inconsapevolmente, di topoi antisemiti.
Se vogliamo invece tornare alla realtà, chi si reca al parco Italia creato dal KKL, può vedere un bellissimo ruscello di acqua limpida che lo attraversa. Quest'acqua è una cloaca solo pochi chilometri a monte, quando esce dalle città arabe-palestinesi, ma, dopo che gli israeliani l'hanno purificata, è pulita e riutilizzabile.
Nulla avviene per caso, tutto va pensato e voluto, e, se si rifiuta a priori di sfruttare questo trattamento, non si può poi accusare il proprio nemico di colpe che non ha. Solo nascondendo questa realtà il solerte manovale Colella può scrivere che "Israele ha sfruttato l'85% dell'acqua di superficie palestinese incanalando questa risorsa verso gli insediamenti
"
La direzione del Fatto Quotidiano, già condannata recentemente al pagamento di una forte multa per aver diffuso notizie false, dovrebbe imparare che le questioni tecniche vanno affrontate con i ragionamenti degli specialisti (ingegneri, in questo caso), e non con la propaganda propugnata quotidianamente da B'tselem, "un'organizzazione israeliana che lavora con lo scopo di tutelare i diritti della popolazione araba", in realtà una ONG di estrema sinistra finanziata con capitali stranieri che da anni ha l'unico obiettivo di presentare Israele come stato criminale.
Le ultime parole dell'articolo sono un capolavoro di infamia che avrebbe deliziato Alfred Rosenberg, "La mortalità infantile causata dall'acqua contaminata pone un freno alla stessa crescita demografica del popolo palestinese", stabilendo di fatto che gli israeliani ucciderebbero i bambini palestinesi attraverso la contaminazione dell'acqua e in questo modo diminuirebbero l'incremento della popolazione (non servono parole, basta la realtà ben nota a tutti per smentire tale affermazione). L'incremento demografico arabo-palestinese sarebbe per Colella "l'arma più temuta dagli israeliani". Niente di più falso. La crescita demografica araba ed ebraica è, oggi, sostanzialmente identica, ed Israele non ha oggi più nulla da temere dalla demografia, al netto delle fantasie antisemite dell'articolista.
(Progetto Dreyfus, 19 novembre 2018)
Netanyahu assume la Difesa e prova a evitare il voto anticipato
di Giordano Stabile
Dopo un blitz di un commando israeliano nella Striscia, Hamas ha risposto con il lancio di 460 razzi in 36 ore.
Benjamin Netanyahu lotta per mantenere in vita il suo governo, il terzo sotto la sua guida dal 1996, ma con la defezione di un altro partito della coalizione le sue chance sono ridotte al lumicino. Il premier, al potere senza interruzioni dal 2009, rischia una sconfitta in caso di voto ravvicinato e ha messo sul tavolo tutte le sue carte per evitare lo scioglimento della Knesset in modo da rinviare le elezioni almeno fino al prossimo marzo. L'ultima mossa è stata un discorso in tv, alle otto di ieri sera .«Spero nella responsabilità dei partner di governo - ha spiegato perché non facciano cadere il governo. Sarebbe irresponsabile andare al voto, in queste condizioni di sicurezza complesse».
Netanyahu ha assunto il ministero della Difesa ad interim e ha detto di avere un «piano chiaro», anche se non ha rivelato i dettagli: «Ho rischiato la vita molte volte per salvare le vite nella terra sacra di Israele». Il riferimento è alla situazione a Gaza, ma non solo. Con la vittoria di Bashar al-Assad in Siria, e l'ombrello anti-aereo che la Russia ha steso sopra il suo alleato, la posizione strategica di Israele non è più inattaccabile. Non è prudente aprire un fronte Sud a Gaza quando il fronte Nord è incerto, è la convinzione del premier. Ma la crisi nel governo è precipitata proprio con gli ultimi scontri a Gaza, una settimana fa.
Un governo di minoranza Netanyahu ha preferito raggiungere un cessate- il-fuoco con la mediazione dell'Egitto, nonostante i sondaggi contrari. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha reagito con le dimissioni e accusato il premier di «capitolare di fronte ai terroristi». Netanyahu si è poi scontrato con il ministro dell'Educazione, e leader del partito religioso HaBayit HaYehudi, Naftali Bennett, che voleva per sé il portafoglio. Ieri ha avuto un vertice con un altro alleato chiave, il ministro delle Finanze Moshe Kahlon, senza risultati. Bennett ha detto che le dichiarazioni del premier «non spostavano una virgola». In un comunicato il suo partito ha accusato il governo di «comportarsi come il centrosinistra» per il rifiuto di affidare la Difesa a Bennett.
Per Netanyahu il percorso è stretto. Fino alle dimissioni di Lieberman il governo aveva 67 seggi (30 del Likud) sui 120 della Knesset. Senza i 6 seggi di Lieberman e gli 8 di Bennett il premier può solo guidare un governo di minoranza per arrivare alle elezioni il più tardi possibile. Fra le due principali formazioni di opposizione, l'Unione sionista di centrosinistra e la centrista Yesh Atid, è quest'ultima, guidata dall'ex star della tv Yar Lapid, ad avere più chance.
(La Stampa, 19 novembre 2018)
*
Momento difficilissimo per Israele: Netanyahu parla alla nazione
E' un momento difficilissimo per Israele, tanto difficile che il Premier Benjamin Netanyahu ha pensato di parlare alla nazione. Lo ha fatto ieri sera dalla TV per denunciare l'irresponsabilità di chi vorrebbe andare ad elezioni anticipate mettendo il proprio interesse personale di fronte a quello nazionale.
«Quando prendiamo queste decisioni in materia di sicurezza dello Stato, decisioni di vita o di morte per Israele, queste questioni non devono riguardare la politica e i suoi giochi» ha detto il Premier israeliano rivolgendosi alla nazione.
«La maggior parte dei cittadini sa che quando prendo decisioni sulla sicurezza lo faccio con onestà e profonda preoccupazione per il bene del nostro paese e per la sicurezza dei nostri cittadini e dei nostri soldati. Questi non sono slogan» ha detto Netanyahu.
Il Premier ha detto che «Israele si trova in una delle più complesse situazioni di sicurezza» aggiungendo che «in un momento come questo, non si rovescia un governo e si tengono nuove elezioni. È irresponsabile».
"Ho un piano chiaro. So cosa faremo e quando lo faremo. E lo faremo"
Netanyahu ha detto di comprendere la frustrazione della gente per il cessate il fuoco, ma ci sono cose che non può rivelare. Poi, pur senza entrare nei dettagli, ha comunque rassicurato il Paese sul fatto che il Governo ha un piano per affrontare questo momento difficilissimo per Israele. «Non vi dirò quando ho intenzione di agire, ma ho un piano chiaro. So cosa faremo e quando lo faremo. E lo faremo» ha detto il Premier.
Criticando la decisione di Lieberman di dimettersi e chi vorrebbe elezioni anticipate ha detto che «non si abbandona il proprio posto nel bel mezzo della battaglia. Non si gioca a far politica nel bel mezzo della battaglia. La sicurezza nazionale va oltre la politica e le considerazioni personali».
Quello di Netanyahu è apparso un discorso accorato, dedicato sia alla nazione che a coloro che vorrebbero portare Israele ad elezioni anticipate intravvedendo una certa debolezza del Premier.
Durante la settimana il Premier avrà diverse riunioni con gli altri leader politici nel tentativo di evitare di andare ad elezioni anticipate in un momento difficilissimo per Israele con l'Iran ed Hezbollah che minacciano il paese da nord e da sud dato che ormai è chiaro che anche dietro agli attacchi di Hamas ci sono gli Ayatollah iraniani.
(The World News, 19 novembre 2018)
Che cosa farà Israele di Gaza
Israele ha due strade su Gaza, non tre. Un piano Marshall o la distruzione definitiva dei terroristi
Scrive Yedioth Ahronoth (14/11)
Prima dei tragici eventi di domenica notte (che hanno causato la morte a Gaza di un alto ufficiale arabo-israeliano della comunità drusa), sembrava che 'Pace adesso' fosse rinata all'interno del Likud (il partito di Netanyahu, ndt)'', scrive Yoaz Handel. "Gli slogan erano gli stessi: 'La pace si cerca di farla con i nemici', 'Dobbiamo tentare tutte le strade'. D'altra parte, anche la sinistra israeliana soffre di dissociazione della personalità: i campioni delle concessioni per il compromesso e la pace erano improvvisamente diventati sostenitori di un'energica, e sanguinosa, operazione militare contro le continue aggressioni da Gaza: unicamente allo scopo di criticare l'attendismo di Netanyahu. E solo a parole, ovviamente. Ma domenica sera le posizioni sono di nuovo cambiate: da queste parti la realtà confonde un po' tutti. Dopo la campagna anti Hamas dell'estate 2014, il governo israeliano si è ritrovato con due sole opzioni: un piano Marshall finanziato a livello internazionale nella striscia di Gaza strettamente collegato alla smilitarizzazione della striscia, oppure un'operazione militare ben pianificata volta a distruggere una volta per tutte le centrali di Hamas e Jihad islamica. Non esistono soluzioni provvisorie 'comprate' con 15 milioni di dollari dal Qatar. E' un'illusione. Lo stato nemico che esiste al nostro confine meridionale deve essere contenuto mediante la deterrenza: dando loro qualcosa da perdere o eliminando il regime che li controlla, e mettendo bene in chiaro il prezzo che comporta insistere con il terrorismo. Tornare indietro al mese di marzo non è possibile né proponibile. Lo scorso marzo (inizio delle ondate di violenze al confine fra Gaza e Israele) eravamo sull'orlo di un'operazione militare, esattamente come adesso. Marzo è passato. Sono passati anche i 15 milioni di dollari del Qatar (un paese che sponsorizza il quartier generale di Hamas a Doha, offre rifugio ai capi dei Fratelli musulmani in fuga dall'Egitto e ha stretti legami con l'Isis e altre organizzazioni jihadiste). Forse è il momento di lasciar vincere le Forze di difesa israeliane. Oppure spiegateci qual è la strategia alternativa.
(Il Foglio, 19 novembre 2018)
Religiosi ebrei scatenano rissa in aereo: non volevano atterrare di sabato, giorno del riposo
L'aereo della compagnia El Al si è trovato per le mani una rivolta quando il comandante ha dato l'annuncio che non sarebbero atterrati prima della notte di venerdì.
Alcuni ebrei ortodossi israeliani hanno provocato una rissa a bordo di un aereo della compagnia El Al, a causa di una tempesta di neve che si è abbattuta sull'aeroporto di New York, da cui l'aereo è partito con forte ritardo.
Infatti il comandante si è reso conto che, a causa del ritardo, l'aereo non sarebbe arrivato in Israele prima dell'imbrunire del venerdì, ossia all'inizio del riposo sabbatico in cui agli ebrei è precluso viaggiare.
I passeggeri non hanno preso bene la notizia, data durante il volo: come ha raccontato Shimon Sheves, ex direttore dell'ufficio del premier che era tra i passeggeri, "Ho visto mani elevarsi in maniera minacciosa. Ho visto atti di violenza, ho provato pietà per le giovani hostess che hanno dovuto misurarsi con quella situazione".
Alla fine, per i passeggeri che si rifiutavano categoricamente di proseguire il viaggio, l'aereo ha fatto scalo ad Atene per permettere loro di scendere. Ma la El Al ha comunque sporto denuncia contro alcuni passeggeri.
(globalist, 19 novembre 2018)
Corbyn, abbiamo un problema!
Mentre i conservatori traballano sull'onda dell'accordo per la Brexit, i laburisti di Jeremy Corbyn sono accusati di antisemitismo. L'intervista all'esponente dei Tories Matthew Offord.
di Luciano Tirinnanzi
Hitler che sosteneva il sionismo. La vicinanza alle manifestazioni pro-Hezbollah. I sionisti che non hanno ironia. E il leader del partito laburista che omaggia i palestinesi autori del massacro di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Sono solo alcune delle esternazioni choc di esponenti del Labour inglese guidato da Jeremy Corbyn, che da tempo destano scandalo nel Regno Unito, dove per la prima volta la comunità ebraica si sente minacciata dalla possibilità di una premiership antisemita, se il candidato premier dovesse vincere le prossime elezioni politiche britanniche.
Come noto, infatti, l'accordo per la Brexit raggiunto in extremis dal governo di Theresa May ha messo in crisi l'intero partito conservatore, con le dimissioni di ben quattro ministri. Cosicché il leader del Labour party, Jeremy Corbyn, esulta nelle ore più difficili del Regno e intravede una finestra d'opportunità per andare presto a elezioni e riportare il suo partito al governo. Ma anche sulla strada dei laburisti verso Westminster vi sono degli ostacoli.
In un'intervista rilasciata lo scorso settembre alla BBC dall'ex capo rabbino Jonathan Sacks, si paventava persino una fuga di massa dal Paese degli ebrei, se Corbyn dovesse un giorno prendere casa al numero dieci di Downing Street. «Gli ebrei vivono in Gran Bretagna dal 1656 e non mi è mai capitato di sentire negli ultimi 362 anni la maggioranza della comunità ebraica porsi questa domanda: "È questo un paese sicuro dove crescere i nostri figli?". La situazione è davvero preoccupante. Corbyn è un pericolo».
Anche a Bruxelles, dove a inizio novembre la European Jewish Association (Eja) ha organizzato un panel per misurare la temperatura dell'antisemitismo in Europa - in una settimana pregna di significato, perché coincidente con gli ottant'anni dalla notte dei cristalli (9-10 novembre 1938) ordita dai nazisti contro gli ebrei di Germania, Austria e Cecoslovacchia - è risuonato un campanello d'allarme. La conferenza ha raccolto le preoccupazioni pressoché dell'intera comunità ebraica europea, mai così unita nel condannare politiche contrarie alla libertà di culto, e impegnata nella richiesta di riconoscere a livello internazionale una definizione comune di antisemitismo, elaborata dalla International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra).
L'Eja a Bruxelles ha tracciato alcune linee rosse chiedendo all'Europa unita, in vista delle cruciali elezioni di maggio: l'esclusione dai governi dei partiti che sostengono l'antisemitismo; risoluzioni vincolanti contro chi sponsorizza il boicottaggio dei prodotti israeliani (fenomeno noto come BDS, acronimo di Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni); l'istituzione di un rappresentante speciale contro l'antisemitismo.
Alla conferenza brussellese ha partecipato anche Matthew Offord, esponente del partito conservatore, in prima linea per la causa ebraica. Ecco cosa ha detto a Panorama: «È cominciato tutto da quando il Labour ha cambiato le regole di partecipazione. Prima, per essere iscritti al partito servivano ventisei pound (circa trenta euro), mentre oggi ne bastano tre per partecipare alle elezioni. Questo ha improvvisamente allargato la base del partito e dei votanti a oltre seicentomila membri, molti dei quali supportavano già le idee di Corbyn».
Ma è il partito a essere cambiato o è Jeremy Corbyn? «Lui è la solita persona, e non ha mai modificato le proprie opinioni. Il Labour negli anni passati aveva virato verso il centro. Lo abbiamo visto da Tony Blair in poi, mentre adesso Corbyn, che si è sempre definito un marxista-socialista, vuole riportare il partito a quelle che ritiene le sue radici di sinistra pura. In generale, lui è molto ansioso di tornare indietro rispetto al lavoro fatto dai conservatori. Per me, però la sua idea di Labour ha numerose incognite per la tenuta democratica del Regno Unito».
Quali? «L'antisemitismo e la volontà di riconoscere la Palestina come stato prima di ogni accordo di pace, sono un segnale. Così come la sua relazione con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che non è affatto buona. Ci sono poi le questioni domestiche, come il voler mettere mano a una riforma radicale dei servizi pubblici senza dirci quanto ciò potrebbe costarci, o come la volontà di togliere i fondi alle forze di sicurezza, e le riforme scolastiche improntate a cancellare il lavoro fatto nei decenni precedenti per l'educazione. Queste tematiche, se messe insieme, rappresentano un enorme pericolo per il Regno Unito, per la sua economia e per il rapporto con l'Europa».
La leadership di Corbyn è parallela alla crisi dei Tories, soprattutto a causa della negoziazione con l'Ue per la Brexit. Questo avrà un'influenza sulle elezioni di maggio? «Sì, certamente i populisti spingono per nuove forme di Brexit, a partire dall'Italia e dall'Irlanda. Questo avrà un grande impatto e rappresenta già oggi una minaccia concreta per la tenuta dell'Unione Europea. Tuttavia, come partito conservatore dobbiamo dare l'esempio. Ci sono molte opinioni diverse all'interno del partito ma, proprio in ragione di quanto accaduto con la Brexit, dobbiamo stare uniti e proporre la nostra agenda nazionale senza condizionamenti».
(Panorama, 18 novembre 2018)
Gli ebrei dell'Iran: una vita di contraddizioni, tra uguaglianza e oppressione
di Fabrizio Tenerelli
Gli ebrei hanno iniziato a insediarsi in Iran circa 2.700 anni fa. Nel corso della loro storia gli ebrei iraniani hanno dovuto lottare e superare una serie di significativi cambiamenti, specialmente durante l'era dei Safavidi (1501-1736) e dei governatori del Qajar (1796-1925). Al contrario, gli anni sotto la dinastia Pahlavi - in special modo sotto il regno di Muhamas Reza Shah (1941-1979), vengono considerati l'epoca doro per gli ebrei dell'Iran.
Sotto il piano di riforme e di modernizzazione dell'Iran, proposto dallo Shah - la cosiddetta Rivoluzione Bianca (1964-1979) - la locale comunità ebraica prosperò economicamente. Alla vigilia della rivoluzione islamica, nel 1978, la comunità ebraica in Iran è di circa ottantamila persone: sessantamila delle quali vivono nella capitale, Teheran. Sebbene la sua presenza sia molto esigua, a fronte di una popolazione di 35 milioni di abitanti, il suo impatto nel mondo economico e culturale fu assai rilevante. In quell'epoca la maggior parte della popolazione ebrea in Iran apparteneva alla classe alta o media della società. C'erano scuole ebraiche, diverse organizzazioni culturali e, soltanto a Teheran, una trentina di sinagoghe.
La rivoluzione islamica
Con l'esplosione dell'opposizione contro lo Shah, nell'autunno del 1977, ciò che fino a poco tempo prima era considerato il punto di forza della comunità ebraica, si trasforma rapidamente nel suo maggiore punto debole. Ci riferiamo, in particolare, al suo stato socio-economico, così come all'identificazione con lo Shah e la sua politica; senza contare i legami con Israele e Stati Uniti.
Presto, dunque, si moltiplicano gli episodi di avversione contro gli ebrei. A Teheran iniziano a circolare volantini che minacciano vendetta contro gli ebrei, accusati di aver saccheggiato il tesoro dell'Iran. Diversi slogan - tipo "Morte agli ebrei" - vengono scarabocchiati sui muri delle sinagoghe e delle istituzioni ebraiche, mentre i musulmani iraniani iniziano a ostacolare il quieto vivere dei loro vicini ebrei, che iniziano a essere insofferenti e a voler disfarsi delle loro proprietà.
Durante la stessa rivoluzione, un'ondata di sentimento anti israeliano sovrasta l'Iran, travolgendo la comunità ebraica la cui ricchezza privata inizia ad essere confiscata su larga scala, costringendo migliaia di ebrei a scappare verso gli Stati Uniti o Israele. Ma nel contempo, gli ebrei sembravano fiduciosi di un cambio di rotta del regime.
L'Ayatollah Komeini
Quando l'Ayatollah Khomeini - leader spirituale e futuro leader supremo del paese - tornò in Iran, il primo febbraio del 1979: circa cinquemila ebrei, guidati dal rabbino capo iraniano, Rabbi Yedidia Shofet, erano tra coloro che lo attendevano per il benvenuto. Alcuni di loro si presentarono con la foto di Komeini e la scritta "Ebrei e musulmani sono fratelli". Il 14 maggio del 1979, cinque giorni dopo l'assassinio del capo della comunità ebraica, Habib Elghanian, accusato di essere una spia sionista, una delegazione di leader della comunità partì per Qom con l'intento di incontrare Khomeini, che placò la loro paura con le seguenti parole: "Noi facciamo una distinzione tra la comunità ebraica e i sionisti, sappiamo che si tratta di due cose diverse. Siamo contro i sionisti, perché non sono ebrei, ma politici, ma così la comunità ebraica come le altre minoranze, in Iran, sono tutti membri di questa nazione. L'Islam tratterà loro allo stesso modo degli altri strati sociali" (Radio Tehran, 15 maggio 1979).
E infatti, dall'insediamento della Repubblica Islamica e la sua dichiarazione dell'Islam come religione di Stato, nel 1979, il regime ha sempre distinto tra ebrei dell'Iran, considerati cittadini fedeli e gli altri ebrei, tra cui israeliani, sionisti ed ebrei del mondo, verso i quali il regime non ha mai nascosto la propria ostilità. L'attività sionista veniva considerata un crimine punibile con sanzioni severe.
Ciò portò a una serie di cambiamenti nelle relazioni interne alla comunità ebraica. A fine marzo del 1978, a nuova generazione di intellettuali ebrei iraniani soppiantò il vecchio comitato ebreo - Anjumān-i Kalīmīan - con l'istituzione di un consiglio anti sionista radicale: Jāme-yi Rowshanfikrān-i Yahūd-i Irān (L'organizzazione degli intellettuali ebrei dell'Iran), il cui programma includeva il pieno supporto della Rivoluzione islamica iraniana del 1979, un risveglio religioso e culturale e la protezione della comunità. Dal giorno della sua istituzione, questa organizzazione lottò per strappare la comunità dalla sua disintegrazione.
Lasciando l'Iran
Di certo la rivoluzione suscitò paura tra gli ebrei iraniani e circa i due terzi della comunità lasciò il Paese. Tra gli emigranti c'erano anche molti leader, filantropi e professionisti. secondo alcune stime: tra i trenta e i quarantamila ebrei emigrarono negli Stati Uniti: venticinquemila in California, di cui ventimila solo a Los Angeles e ottomila circa a New York; ventimila in Israele e diecimila in Europa, soprattutto: Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Svizzera. Si stima che il numero di ebrei tuttora residenti in Iran sia compreso tra venticinquemila e trentamila.
Gli ebrei che preferirono emigrare durante la prima decade della Repubblica Islamica incontrarono molti problemi, con l'ufficio addetto all'assegnazione dei passaporti, che rifiutò di concederlo a molti degli ebrei richiedenti. Molti, dunque, si ritrovarono a scappare attraverso il Pakistan o la Turchia, lasciandosi dietro parte delle proprietà, nella speranza che i parenti rimasti potessero liquidarle, spedendo il denaro all'estero. Ma ciò avvenne con non poca difficoltà.
La vita degli ebrei in Iran
In ogni modo, la rivoluzione sconvolse anche la vita degli ebrei persiani. I nuovi leader dell'Iran cercarono di creare una nazione modellate sugli ideali di una società islamica e fu inevitabile che un modello del genere avrebbe toccato la vita delle minoranze religiose. Mentre la mentalità islamica verso le altre religione monoteiste è, in principio, tollerante: i discorsi e gli scritti dell'Ayatollah Komeini e di chi gli è vicino, risultano pieni di denunce al vetriolo nei confronti degli ebrei.
A differenza del regime Pahlavi, che aveva piazzato il nazionalismo come la più alta priorità e poneva gli ebrei in uno stato di eguaglianza; la dottrina islamica di Komeini forza gli ebrei in una condizione di inferiorità, di fronte alla superiorità dei musulmani. Malgrado la supposta distinzione tra ebrei e sionisti, la dottrina di komeini contiene molti elementi antisemiti, inclusa un'enfatizzazione della dottrina sciita riguardante la condizioni di impurità (nasajat) dei non musulmani.
Secondo la tradizione islamica, le minoranze religiose sono elementi impuri che inquinano i fedeli sciiti con cui entrano in contatto. Nei suoi scritti, Komeini accusa gli ebrei anche di dare una visione distorta dell'islam e di tradurre in modo errato il Corano.
Ancora oggi, comunque, le uniche minoranze riconosciute nella costituzione dell'Iran - in grado di esercitare i propri riti e cerimonie, di avere una propria formazione religiosa - sono zoroastriani, ebrei e cristiani iraniani. Secondo la costituzione: alla minoranza ebraica viene garantita una rappresentanza permanente nel parlamento iraniano; al governo islamico repubblicano e ai musulmani iraniani è prescritto di trattare i non musulmani, secondo i principi di etica e giustizia previsti dalla cultura musulmana.
In pratica, la libertà di culto accordata agli ebrei non ha limiti e le feste ebraiche ricevono una copertura mediatica. La comunità ebraica ha continuato ad amministrare le proprie scuole, sinagoghe e altre istituzioni, inclusi gli ospedali, le biblioteche e i cimiteri. Oggi gli ebrei partecipano anche alla vita civile e politica dell'Iran.
Molti sono gli ebrei che si uniscono alle masse di iraniani che protestano contro lo Stato di Israele durante l'annuale "Quds Day" e tanti sono stati coloro che hanno dato il proprio sostegno alla nazione, nella guerra contro l'Iraq (1980-1988). Gli ebrei iraniani diedero il proprio supporto donando ambulanze, beni e offrendo visite gratuite negli ospedali.
Tutto bene? Non proprio. Nonostante tutto, l'antisemitismo rimane e nel 1999, tredici ebrei di Shiraz e Isfahan vennero arrestati con accuse di esercitare spionaggio per Israele e vennero condannati nel 2000. Dal febbraio del 2003 vennero tutti rilasciati, ma quegli arresti scossero la apparente tranquillità degli altri ebrei. Malgrado le difficoltà, gran parte degli ebrei dell'Iran sentono un legame indistruttibile con la propria terra e continuano a vivere lì.
(Vivi Israele, 18 novembre 2018)
Gerusalemme: un nuovo treno superveloce per Tel Aviv
Un importante progetto che rende più semplici e comodi gli spostamenti all'interno del paese. In città arriva anche la nuova City Pass per i turisti
Cinque euro e venti minuti di viaggio. E' il nuovo treno ad alta velocità che collega Gerusalemme a Tel Aviv. Un importante progetto che rende più semplici e comodi gli spostamenti all'interno del paese. Con una velocità massima di 160 km/h il treno è in grado di raggiungere l'aeroporto di Ben Gurion in meno di mezz'ora. E' pronta ora la prima tranche, la seconda tranche collegherà ad anello Gerusalemme e Tel Aviv città.
Un'altra importante attività è stata anche l'introduzione della City Pass che consente di vivere la vacanza a Gerusalemme in modo ancora più accessibile, semplice e conveniente. Acquistabile anche prima dell'arrivo in Israele attraverso il portale dell'ente del turismo a partire da poco più di 30 euro, il pass offre una serie di importanti vantaggi come il biglietti dell'autobus da e per l'aeroporto, l'ingresso gratis a 20 attrazioni, scontistiche per l'ingresso ai luoghi più iconici della città e l'abbonamento di 7 giorni ai trasporti pubblici. In loco il City Pass si può acquistare in contanti attraverso i tre nuovi City Truck, veri uffici del turismo ambulanti parcheggiati in punti strategici della città, come la Porta di Jaffa.
(Guida Viaggi, 17 novembre 2018)
Un arabo cristiano ambasciatore israeliano
Per la prima volta nella storia dello stato d'Israele un arabo cristiano è stato nominato ambasciatore. Lo ha annunciato il ministero degli esteri. Il trentaquattrenne George Deek è il nuovo ambasciatore d'Israele in Azerbaigian. Nato in una famiglia araba cristiana di Tel Aviv, ha studiato diritto internazionale alla Georgetown University di Washington. Deek è stato viceambasciatore in Nigeria e Norvegia, ed è attualmente consigliere del direttore generale del ministero degli esteri. Unico funzionario cristiano del suo dicastero, rappresenterà Israele in un paese a maggioranza musulmana.
(L'Osservatore Romano, 18 novembre 2018)
Quando nel 1947 ottocento ebrei salparono da Migliarino spacciandosi per turisti americani
L'episodio inedito è stato raccontato dal professor Franceschini durante un incontro a San Miniato organizzato nell'ambito di 'San Rossore 1938' e sostenuto dalla Fondazione
Un curioso episodio, inedito, rivelato dal professor Fabrizio Franceschini, docente di Linguistica italiana dell'Università di Pisa e direttore del Centro interdipartimentale di studi ebraici 'Michele Luzzati', nel corso di un incontro a San Miniato dal titolo 'I sommersi, i salvati, i salvatori. Ritratti, racconti e pensieri sulle leggi razziali'. L'appuntamento, seguito da circa 300 partecipanti, in gran parte studenti e insegnanti delle ultime classi delle scuole superiori sanminiatesi, è stato organizzato nell'ambito della rassegna 'San Rossore 1938', promossa dall'Università di Pisa e sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.
Nel suo intervento il professor Franceschini ha raccontato cosa avvenne nel luglio 1947 sulla spiaggia di Migliarino, una vicenda rimasta a lungo segreta. Nel quadro dell'operazione 'Alyah Bet' coordinata da Ada Sereni, circa ottocento ebrei, scampati ai campi di sterminio, giunsero clandestinamente da Milano e dal Lazio a Migliarino a bordo di trentasette corriere. Facendosi passare per stravaganti turisti americani, furono infine traghettati sulla nave Raffaelluccia e partirono verso Israele.
"Gli ottocento ebrei - ha ricordato il professor Franceschini - si diressero verso la tenuta Salviati di Migliarino: i guardacaccia, che ne custodivano l'ingresso, furono rabboniti a forza di sorrisi femminili, cioccolata e sigarette americane, e i profughi furono fatti passare appunto per stravaganti turisti americani, desiderosi di vedere dalla spiaggia l'aurora sui monti vicini. Dopo aver attraversato la tenuta, giunsero al mare e furono caricati sulla nave".
"La tenuta di Migliarino - ha concluso il direttore del Centro interdipartimentale di studi ebraici dell'Ateneo pisano - è a qualche chilometro di distanza dall'allora tenuta reale di San Rossore. Questa storia bella e segreta riscatta dunque, in qualche modo, il territorio macchiato da Vittorio Emanuele III con la firma della prima legge razziale, il 5 settembre 1938, appunto a San Rossore".
(Pisa Today, 17 novembre 2018)
|
"Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito"
Poi Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco, un uomo di nome Zaccheo, che era capo dei pubblicani ed era ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse innanzi, e per vederlo montò su un sicomoro, perché doveva passare per quella via. Quando Gesù arrivò in quel luogo, alzò gli occhi e gli disse: "Zaccheo, scendi presto, perché oggi debbo venire a casa tua". Ed egli s'affrettò a scendere e l'accolse con gioia. Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: è andato ad alloggiare da un peccatore! Ma Zaccheo, fattosi avanti, disse al Signore: "Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo". Gesù gli disse: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo: perché il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito".
Dal Vangelo di Luca, cap. 19
|
|
C'è un nuovo paradiso dove aprire una start up: la Silicon Wadi, in Israele
Qui le start up nascono (anche in spiaggia) da piccole idee visionarie. Ne sono partite già 1200: il requisito è avere meno di 35 anni e per le donne c'è ancora spazio.
di Simone Bergamaschi
Piena di vita, in espansione continua e allo stesso tempo vicina a Gerusalemme, raggiungibile con un bus che a metà strada è perquisito dai militari. È questo che rende Tel Aviv davvero unica, a suo modo. Poi metteteci quell'euforia che si respira in strada e tra le persone: in ragazzi e adulti che sfrecciano su monopattini e bici elettriche, nei locali aperti fino a tardi, nei parchi dove c'è chi testa con degli sconosciuti un servizio digitale non ancora lanciato sul mercato (in gergo, pilot). O alla fine del lungomare con più wifi pubblici al mondo, pieno di gente che lavora al computer sui gradoni, gioca a beach volley o si allena nella palestra a cielo aperto dove tutto, a un certo punto, cambia all'improvviso. La folla diminuisce, il rumore incessante delle palline e dei racchettoni entra in sottofondo e a comandare sono le onde. Andando verso la città vecchia di Jaffa, Tel Aviv diventa dei surfisti, di tutte le età. Alcuni smettono i panni da uomini d'affari, si fanno guidare dal vento e si prendono il loro tempo.
Che poi, prendersi il proprio tempo per mandare avanti un'idea e darle dei confini netti è qualcosa che a Tel Aviv sembra che chiunque possa fare. Non solo perché lo dicono i numeri del Centro per la ricerca sociale ed economica: quasi 1200 startup, su un totale di 4 mila in Israele, 430 mila abitanti scarsi e un'area di 52 km quadrati.
Basta iscriversi gratis a un meetup della Silicon Wadi, dove wadi sta per valle, anche pochi minuti prima dell'inizio, per trovarsi dentro il Mindspace e conoscere un investitore. Con un badge da attaccare sul petto si entra in una stanza grande, circondata da vetrate e con un tavolone colmo di cibo e bevande. Si inizia con il networking, quasi che mettere in contatto i presenti sia la cosa più importante, per poi passare la palla a chi dovrà presentare i progetti.
Dopo un momento di incertezza iniziale, eccolo che si avvicina: belloccio, vestito di nero, con il sorriso ampio di chi sa dove vuole arrivare. Si presenta senza tergiversare: Firdavs Abdunazarov, anni 24, viene dalla Silicon Valley, è qui per conto della Rothenberg Ventures, che investe in startup della realtà aumentata, intelligenza artificiale e così via. Perché Israele? «Sono molto avanti dal punto di vista tecnologico e oltre al lavoro c'è tanto da fare, a ogni ora del giorno e della notte». Incontrare Firdavs in giro per la città, infatti, non sarà difficile: Tel Aviv è piccola e se frequenti spesso il centro può capitare che ti ritrovi ancora.
Di meetup ce n'è un po' ovunque. Certo, a volte bisogna fare i conti con l'ebraico: se tutti parlano inglese alla perfezione, la lingua di casa la fa spesso da padrona e può capitare di partecipare a eventi in cui non capisci nulla. Chi vuole vivere qui è meglio frequenti una scuola di ebraico, i cosiddetti ulpan.
A metà tra un coworking e un acceleratore, The Library, dentro l'Electra Tower, è una scoperta. Entri e ti imbatti in una libreria colorata per passare a una grande sala a vetri. In fondo, ragazzi seduti intorno a tavoli neri che lavorano al computer e chiacchierano. Sono le quattro del pomeriggio, il sole si sta abbassando sul mare e qualcuno chiude la tapparella elettrica mentre il direttore Guy Margalit ci guida in una stanza dove campeggia la scritta Think e una filastrocca di Dr. Weiss. Polo color crema, jeans e sneakers, racconta: «Una volta era solo una libreria, ora è un hub di innovazione per sostenere startup che, con le loro tecnologie, possono migliorare la qualità della vita della città. A fronte di una cifra esigua (circa 71 euro al mese) gli startupper possono restare fino a 8 mesi. Partecipano a meetup, workshop e pilot per testare la loro idea sul campo. Se ci pensi, è un rapporto win-win, entrambi vincono. Il servizio è per i residenti, ma basta lo sia anche un solo membro del team, che deve essere minimo di 2 persone, massimo 5, di età tra i 18 e i 35 anni».
Qualche piano sotto c'è l'Urban Place, di giorno ufficio, la sera spazio per feste tradizionali come quella di Purim. All'Urban Place sperimentiamo quello che un po' avviene in tutta Tel Aviv: ti basta conoscere qualcuno per arrivare da qualche parte o incontrare una determinata persona. Per partecipare al party ci limitiamo a dire chi siamo al citofono, che abbiamo parlato il giorno prima con Shivi, la community manager, e subito dopo siamo con un bicchiere in mano a far casino insieme ad altri sconosciuti. E così più volte riusciamo a entrare nella Borsa di Tel Aviv e persino a infilarci a un evento dedicato al Fintech senza che nessuno ci chieda nulla.
Una delle contraddizioni di questa città: militari ovunque, controlli a tappeto quando devi prendere un treno e poi riesci a entrare in palazzi privati senza dover esibire neanche un documento. Quanto al mettere in connessione la gente, pare abbia a che fare con la struttura orizzontale dell'esercito, per cui un sottoposto può rivolgersi al suo comandante senza essere rimbalzato.
«Le persone sono più importanti dello startup system». A dirlo sono Shaì Douillet e Jeremie Abihssira, 29 e 25 anni. Si sono conosciuti un anno fa a un meetup e hanno dato vita a Watch and Give, oggi Boon. Today, che fornisce una tecnologia per cui ogni volta che metti un like a un contenuto aziendale, lo condividi e sostieni una campagna di crowdfunding legata a buone pratiche, come piantare alberi o costruire una scuola. Paga l'azienda che sostiene la campagna, in ottica di responsabilità sociale d'impresa.
Così come succede a chi trova subito una sintonia, i due quasi si assomigliano, capelli neri, camicia bianca e passione che dà chiarezza ai progetti. «Vogliamo che la pubblicità abbia un impatto positivo», dicono mentre siamo a qualche piano di distanza dal Library, dove lavorano, in una delle terrazze nascoste di questa torre. Seduti a un tavolo sotto un pergolato, mentre si accendono le luci dei palazzi e Tel Aviv comincia a vestire i panni della notte, raccontano la loro storia con quell'orgoglio di chi ha fatto già un po' di strada: «Sono arrivato dalla Francia dove ho cercato lavoro per un anno e l'ho trovato qui in due settimane, in un'agenzia di pubblicità dove ho imparato molto, finché ho deciso di buttarmi in quest'avventura», racconta Shaì. Anche Jeremie viene da lontano: «Ho vissuto fino a 19 anni a Tahiti, poi a Bordeaux per arrivare a Tel Aviv. È una città cara e devi per forza condividere l'affitto però ne vale la pena». Entrambi aggiungono: «La gente è diretta. Se il tuo progetto non ha le potenzialità, te lo dicono senza giri di parole».
Per raggiungere i ragazzi di Cool Cousin invece bisogna arrampicarsi fino a Jaffa. È tra le strade acciottolate che profumano di caffè al cardamomo, in un capannone da fuori spoglio e grigio, che una volta varcata la soglia sembra di trovarsi in un altro mondo. Colori, scatole ovunque, fili aggrovigliati alle pareti, bottiglie di liquori sparse, un salvadanaio a forma di maiale: una festa in garage, con gente in pantaloncini, camicia hawaiana e Converse che, piedi sul tavolino, lavora su un divano sformato. Eppure Cool Cousin potrebbe rivoluzionare il modo di viaggiare, grazie a una piattaforma digitale con guide locali che condividono i posti del cuore e al lancio della propria criptomoneta, il cuz. «Tutto è iniziato con una campagna politica che alcuni di noi hanno portato avanti insieme», dice Nadav Saadia, cofounder. «Ci siamo trovati bene e ci siamo ampliati, siamo in 17, e vogliamo poter pagare le persone della nostra piattaforma».
Ci sono pari opportunità? Le donne sono tutt'altro che protagoniste. «Solo il 5% di loro ha ruoli da leader», precisa Merav Oren che nel 2015 ha dato vita a Wmn, network, community e coworking che si rivolge a donne ceo o founder. «Gli uomini però possono entrare», si affretta a dire. Merav, Jenny, Efrat, Tamar e le altre sono molto unite tra di loro. Quando parlano stanno sedute in cerchio e si guardano per infondersi un po' di coraggio. Cosa che fanno ogni giorno tramite la chat e con incontri continui. «Ho ideato Wmn in un momento in cui, a seguito di un cancro, avevo tempo per pensare. Mi sono chiesta: "Cosa manca al coworking e alla mia anima?"».
«Sono arrivata qui per amore», dice Jenny Drezin, accento americano fortissimo, capelli lisci biondi e tubino nero «e ho fondato una startup, Sidekix, di 7 persone in cui sono la sola donna. Quello tecnologico è un settore maschile, hai bisogno di gente uguale a te, specie quando cerchi finanziamenti». E Merav, con i suoi pantaloni colorati, i ricci neri e l'esperienza ventennale da imprenditrice, non ha intenzione di fermarsi: «Stiamo per lanciare una piattaforma digitale per tutte le donne del mondo alla guida di startup. La sfida è la stessa: renderle più protagoniste e farlo con tutti i mezzi che la tecnologia ci offre. Quel che conta è sentirsi parte di qualcosa, ovunque ci si trovi».
(marieclaire.com, 17 novembre 2018)
La lettera di Einstein a Maja
di Pietro Greco
La lettera finora sconosciuta che Albert Einstein scrisse nel 1922 all'amata sorella Maja è stata venduta all'asta nella notte di martedì 13 novembre alla Kedem Auction House di Gerusalemme per 39.360 dollari.
In questa lettera il fisico tedesco scrive, tra l'altro: "Qui si stanno preparando tempi bui, politicamente ed economicamente, e io sono felice di andarmene via da tutto per un anno e mezzo".
Tanto è bastato per indurre molti a sostenere che Albert Einstein avesse in qualche modo previsto l'avvento del nazismo. Ora non c'è dubbio che il padre della relatività fosse anche un fine politico e che come tale abbia avuto felici intuizioni. Ma quando nella lettera alla sorella parla di tempi bui, non si riferisce a un futuro più o meno lontano. Parla del presente. E, infatti, Albert scrive a Maja: "Nessuno sa dove mi trovo e pensano che io sia scomparso [...]. Sto abbastanza bene, nonostante gli antisemiti tra i colleghi tedeschi". Già, perché l'ebreo Albert Einstein già nel 1922 era oggetto di attenzione e minacce non solo da parte di gruppi della destra estremista, ma anche da parte di prestigiosi colleghi fisici.
Forse è bene ricostruire la vicenda, perché può dirci qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo in Europa e non solo.
Nel 1919 un astronomo inglese, Arthur Eddington, studiando un'eclissi nei mari del Sud scopre che la luce di stelle lontane è deviata dal campo gravitazionale del Sole proprio dell'angolo previsto dalla teoria della relatività generale elaborata da Albert Einstein a Berlino alla fine del 1915.
Il 7 novembre il Times di Londra titola: «Rivoluzione nella scienza / Nuova teoria dell'universo / Demolita la concezione di Newton». Riconoscendo che un fisico tedesco è riuscito a guardare più lontano del gigante della fisica inglese. Due giorni dopo è The New York Times ad annunciare in prima pagina una «svolta epocale» nella fisica. Per poi a ritornaci ancora su l'11 novembre, sostenendo che: «Trionfa la teoria di Einstein. La luce va tutta storta nei cieli».
È in questi giorni- è in queste ore - che, per dirla con Abraham Pais, il fisico tedesco diventa «l'improvvisamente famoso dottor Einstein»: un personaggio conosciuto in tutto il mondo. La persona che, addirittura, darà il volto a un secolo, il XX.
Ebbene proprio in questo periodo, nel 1919, Albert Einstein, come scrive sul Times e come scrive all'amico fisico Paul Ehrenfest, avverte il clima di antisemitismo montante in Germania. Questa sensazione lo porta ad avvicinarsi per la prima volta alla "sua tribù". Ovvero a sentire con più forza la sua identità ebraica. Su una base puramente etnica e sociale - di tribù, appunto - non religiosa. Quando parlo di tribù, precisa, non indico il popolo di "fede ebraica", ma un mero concetto biologico: un popolo che ha una consanguineità etnica.
In virtù di questo sentimento Einstein aggiunge alla sua filosofia politica e alle attività pubbliche che ne conseguono, l'appoggio esplicito, ma non incondizionato, al sionismo.
È un atteggiamento inedito da parte sua. E niente affatto scontato. Altri ebrei in Germania - nella nuova Germania repubblicana - avvertono la medesima deriva antisemita, ma propongono una diversa azione politica: teorizzano e praticano la totale assimilazione. Spogliarsi della propria identità ebraica: sentirsi (e farsi sentire come) semplicemente tedeschi. Il chimico e premio Nobel Fritz Haber, addirittura, si converte al cristianesimo.
Einstein, fedele al suo spirito ribelle, geloso della sua libertà, compie il percorso esattamente inverso. Lui che non si era sentito mai "ebreo", proprio perché avverte una crescente e insopportabile discriminazione verso gli ebrei, inizia a sottolineare la sua identità.
Non è che inizi a frequentare la sinagoga. Né che si iscriva a una qualche organizzazione sionista. Ma prende posizione esplicita e pubblica contro le tesi dell'assimilazione: se vogliono salvarsi gli ebrei non devono nascondersi. All'antisemitismo dilagante non si può reagire con la ricerca dell'assimilazione, nascondendosi: non si può «vincere l'antisemitismo - sostiene - rinunciando a quasi tutto ciò che [è] ebraico». Questa politica non funziona. Infatti il tentativo di nascondersi «sembra piuttosto comico a un non ebreo». Perché gli ebrei, sostiene, sono un popolo diverso dagli altri. «La radice psicologica dell'antisemitismo sta nel fatto che gli ebrei sono un gruppo di persone a sé. Il loro essere ebrei è visibile nell'aspetto fisico e la loro discendenza ebraica si riconosce nel loro lavoro intellettuale». Siamo e siamo visti come «una diversa tribù», sostiene Einstein. E occorre prenderne atto.
La teoria e la pratica dell'assimilazione addirittura lo irritano. «Mi hanno sempre dato fastidio le smanie e i tentativi di integrarsi privi di dignità che ho osservato in tanti dei miei amici [ebrei]
Questi e altri fatti analoghi hanno risvegliato in me il sentimento nazionale ebraico».
È per questo che il fisico inizia a prendere posizione esplicita e pubblica anche a favore degli insediamenti ebraici in Palestina. «Sono felice che ci sia un piccolo fazzoletto di terra sul quale i nostri confratelli non siano considerati stranieri». Ma, in particolare, appoggia con forza e convinzione l'idea di realizzare un'università ebraica a Gerusalemme, visto che qualcuno in Europa inizia a sostenere che gli ebrei non devono frequentare le scuole cristiane.
E, infine, si batte per la costituzione di una "nazione ebraica" nella quale si riconoscano tutti gli ebrei del mondo. Non è un tradimento dei suoi principi universalistici, al contrario è una loro concreta applicazione: Einstein infatti critica pubblicamente gli ebrei occidentali che si sentono diversi e superiori rispetto agli ebrei orientali (russi e polacchi, soprattutto) considerati meno colti e meno raffinati. Meno disponibili a farsi assimilare.
Molti si accorgono della nuova posizione di Einstein. Compresi alcuni membri della "sua tribù". Il fisico è un mito vivente, conosciuto in tutto il mondo. Può diventare una bandiera del sionismo. Ed ecco, quindi, che uno dei leader sionisti, Kurt Blumenfeld, lo va a trovare a Berlino, per invitarlo a entrare formalmente e definitivamente nel movimento sionista.
Einstein lo accoglie, proponendogli alcune domande in apparenza ingenue, ma che ancora oggi attendono risposta: perché gli ebrei, che mostrano di avere spiccate doti intellettuali, dovrebbero dar luogo, come vogliono i sionisti, a una nazione e a uno stato fondati sull'agricoltura? E, soprattutto, non è che il nazionalismo dei sionisti è il problema, invece che la soluzione?
Einstein immagina la sua come una tribù tra le altre, aperta, ancorata ai principi universalistici di socialismo, democrazia e pacifismo. Non una tribù separata dalle altre e chiusa in se stessa. Una prospettiva che vede affiorare in alcune posizioni del movimento sionista.
E tuttavia, nonostante le riserve, Einstein accetta di appoggiarlo, quel movimento. «Come essere umano - sostiene - sono contrario a ogni forma di nazionalismo. Come ebreo da oggi sono a favore dello sforzo sionista». In realtà ciò per cui Einstein accetta di spendersi in prima persona, per adesso, è l'appoggio alla realizzazione dell'università ebraica a Gerusalemme.
Siamo a una delle prime dimostrazioni che le posizioni politiche di Einstein sono radicali, ma non si basano su assoluti. C'è sempre, nella sua visione, una valutazione del contesto. L'Europa che emerge dalla guerra è caratterizzata da un sentimento antisemita tanto forte quanto inaccettabile. Lottare contro questa discriminazione, contro questa forma esplicita di razzismo, è una priorità.
L'universalismo deve essere declinato in modo da difendere gli ebrei. All'antisemitismo dilagante, non si può opporre un antinazionalismo assoluto. Occorre avere una posizione più flessibile. «Si può essere internazionalisti senza essere indifferenti ai membri della propria tribù», scrive all'amico Paul Epstein nell'autunno 1919, proprio mentre sta diventando «improvvisamente famoso».
Ben presto Einstein impara che la fama universale comporta degli oneri. E dei rischi. Mentre tutto il mondo lo celebra, nella sua Berlino è oggetto (anche) di contestazione. Di disgustose contestazioni. Il 20 febbraio 1920, nel corso di una conferenza all'università, i primi incidenti: che Einstein non ha difficoltà a interpretare come una ostilità di natura antisemita. Giovani e meno giovani della destra nazionalista tedesca lo accusano di voler far propaganda. Di esporsi sui mezzi di comunicazione di massa e di esporre la teoria per mera vanità, in deroga al costume riservato degli scienziati.
Il 24 agosto 1920 tutto diventa più esplicito. Un'organizzazione nazionalista di destra, fondata da poco per «ridurre l'influenza ebraica dominante che si manifesta in misura crescente nel governo e nella vita pubblica» ed eufemisticamente chiamata "Gruppo di studio della filosofia naturale tedesca",guidata da un certo Paul Weyland, indice un raduno nella più grande sala da concerto di Berlino con lo scopo, dichiarato, di criticare la teoria della relatività. L'obiettivo è scelto perché, appunto, l'ebreo Einstein è ormai un mito internazionale. E la sua teoria è fatta bersaglio da molti intellettuali perché sembra erodere le visioni del mondo basate sugli assoluti. Inoltre molti scienziati criticano la relatività generale perché sarebbe una costruzione astratta, fondata su poche e aleatorie basi sperimentali.
Inoltre c'è quella propaganda, di cattivo gusto, che le fa il suo autore ...
La relatività è una «teoria ebraica» aliena alla Germania: è nostro dovere nazionale proporre una via tedesca alla conoscenza profonda della natura, va predicando Weyland.
A conferire copertura pseudo-scientifica ai deliri del piccolo gruppo c'è un fisico piuttosto noto. Si chiama Philipp Lenard, ed è stato insignito del premio Nobel nel 1905. In passato Lenard aveva dato pubblica prova di ammirare Einstein. Nel 1909 lo aveva definito «un pensatore profondo e lungimirante». Ma già dal 1905 conservava nel cassetto della sua scrivania, come una reliquia, una lettera di Albert Einstein.
Poi, ha cambiato idea.
La verità è che Philipp Lenard, ormai prossimo ai 60 anni, è un fisico frustrato. Convinto che, per mera sfortuna, Wilhelm Röntgen gli abbia soffiato la scoperta dei raggi X. E, soprattutto, è totalmente incapace di comprendere la nuova fisica. Così, anno dopo anno, l'avversione alla relatività e a Einstein aumentano fino a diventare il suo stesso scopo di vita. Basta con l'astratta "fisica ebraica", noi dobbiamo difendere la solidità della "fisica tedesca".
I proseliti di Lenard non mancano, nella Germania turbolenta di quegli anni. Se ne renderà conto, di lì a un paio di anni, un giovane studente di fisica, Werner Heisenberg, quando giunge, nell'estate del 1922, a Lipsia per ascoltare una conferenza di Einstein. Non fa in tempo ad entrare in aula che: «Un giovanotto mi ficcò in mano un volantino rosso, che, più o meno, diceva che la teoria della relatività era una speculazione ebraica tutta da dimostrare, immeritatamente propagandata dalla grancassa dei giornali ebraici a favore di Einstein, un membro della stessa razza. Dapprima pensai che fosse l'opera di uno di quegli squilibrati che, di tanto in tanto, frequentano tali riunioni. Ma quando seppi che quel volantino rosso era distribuito da uno dei più rispettati fisici sperimentali tedeschi [Philipp Lenard], ovviamente con la sua approvazione, si infranse una delle mie più grandi speranze. Anche la scienza, dunque, poteva essere avvelenata dalla passione politica».
Quel giorno al giovane Heisenberg viene offerta la prova evidente che non basta un Nobel per sfuggire alle trappole della stupidità. E, soprattutto, che non sempre è possibile separare la scienza dalla politica. Ci sono occasioni, drammatiche, in cui anche un uomo di scienza deve compiere precise scelte politiche.
Ma torniamo al 24 agosto1920, a Berlino. Einstein è irritato per quello che si annuncia come un pubblico e infondato attacco alla teoria. Non intende farla passare liscia ai suoi malaccorti critici. Così, malgrado la sua seconda moglie, Elsa, lo sconsigli, si reca in sala con l'amico chimico Walther Nernst ad assistere al raduno berlinese della «Compagnia Antigravità», come ha ribattezzato, con ironia, il "Gruppo di studio della filosofia naturale tedesca".
Weyland esordisce mettendo sotto accusa il chiaro «spirito antitedesco (sic!)» della relatività generale. Quanto a Philipp Lenard, il premio Nobel non partecipa alla riunione. Ma ha esplicitamente criticato sia la teoria della relatività sia il suo autore. E per questo viene ipso facto arruolato come bandiera della lotta alla "fisica ebraica". Inoltre i suoi rilievi vengono esplicitamente richiamati da un altro fisico sperimentale presente in sala, Ernst Gehrcke. Un fisico di modesto valore scientifico che l'influente Lenard proporrà, addirittura, per il Nobel.
Einstein con Nernst assiste alle prolusioni di Weyland e di Gehrcke. Tutti lo vedono mentre, in un angolo, applaude durante i passaggi più improbabili delle relazioni. Non mi sono mai divertito tanto in vita mia, sostiene. In realtà è inviperito. Così tre giorni dopo invia un articolo al Berliner Tageblatt in cui sostiene con veemenza: l'accoglienza nei miei confronti sarebbe stata ben diversa se fossi stato «un cittadino tedesco, con o senza svastica, invece di un ebreo di convinzioni liberali e internazionaliste». Ricorda i giudizi favorevoli alla sua teoria pronunciati da fisici di grande valore come Planck, Lorentz ed Eddington. E, infine, conclude con una serie di espressioni ingiuriose nei confronti di Philipp Lenard.
Elsa e molti amici - in primis l'amico fisico Max Born e soprattutto la moglie, Hedwig; ma anche i coniugi Ehrenfest - lo rimproverano per quella sua uscita pubblica così veemente. Einstein sembra dar loro ragione. Sembra quasi pentito. Ma poi, ancora una volta, fa rilevare che uno scienziato non può tirarsi indietro nelle vicende politiche quando la posta in gioco è così alta. «Dovevo farlo se volevo rimanere a Berlino, dove ogni ragazzino mi riconosce dalle fotografie. Se si crede nella democrazia, si deve dare al pubblico anche questo».
D'altra parte la sua è una reazione comprensibile. Lui sta raccogliendo i segni dell'antisemitismo crescente. Ed è evidente che Lenard, un fisico considerato autorevole in Germania, ha già imboccato la strada che lo porterà ad essere di gran lunga lo scienziato più spregevole negli anni bui della storia tedesca. La riprova la si ha al congresso che l'Associazione degli scienziati e dei medici tedeschi tiene a Bad Nauheim, dal 19 al 25 settembre. Sono presenti sia Lenard, che si sente insultato dall'articolo di Einstein e pretende pubbliche scuse, sia Einstein, che si sente insultato dalle critiche di Lenard e non intende affatto scusarsi. La tensione è alta. Si teme l'intervento di bande di contestatori. L'edificio dove si tiene il convegno è sorvegliato da poliziotti armati.
Non si verificano incidenti. Ma il conflitto tra i due fisici non si compone. Così Lenard si lascia andare a nuovi, violenti attacchi contro la fisica di Einstein. Farcendoli di espressioni antisemite. La sua avversione per il padre della relatività diventerà sempre più rancorosa e assumerà, se possibile, una dimensione sempre più politica. Lenard diventa definitivamente il campione della "fisica tedesca" che si oppone alla "fisica giudaica".
Einstein si difende a testa alta.
Tutto questo accade in Germania mentre, come abbiamo detto, nel resto del mondo Einstein è diventato una celebrità. E si accinge sia a osservare gli effetti di questa condizione che a moltiplicarli, attraverso una serie di viaggi - un vero e proprio tour - che lo porteranno in giro per il mondo. A iniziare dagli Stati Uniti d'America, dove giunge nella primavera 1921.
In origine il viaggio negli USA è programmato come un giro di conferenze scientifiche. Anche per raggranellare un po' di valuta stabile con cui mantenere la prima moglie, Mileva, e i figli che sono in Svizzera, a Zurigo, in un momento in cui il marco tedesco perde valore di giorno in giorno. Ma poi ecco Kurt Blumenfeld tornare a Berlino per fargli visita, seguito a stretto giro da un telegramma da parte di Chaim Weizman, il presidente dell'Organizzazione sionista mondiale.
Weizman, che diventerà il primo presidente del futuro stato di Israele, è uno scienziato (un biochimico) emigrato dalla Russia in Inghilterra. Ha lavorato per il governo inglese, conquistando una notevole influenza. Tanto da spingere il ministro degli esteri di sua Maestà Britannica, Arthur Balfour, a rilasciare, nel 1917, una dichiarazione in basa alla quale il Regno Unito si impegna a sostenere «l'istituzione di uno stato nazionale per il popolo ebraico in Palestina».
Il leader sionista ora invita Einstein ad accompagnarlo in un viaggio negli Stati Uniti per raccogliere fondi e contribuire così a finanziare gli insediamenti ebraici in Palestina.
Einstein è riluttante. Ma infine accetta. Lo considera un suo preciso e inderogabile dovere, visto che ha accettato di appoggiare la causa sionista. «Sto veramente facendo tutto quanto è in mio potere per i fratelli della mia razza che sono trattati così male dappertutto» scrive a un altro amico fisico, Maurice Solovine.
A Fritz Haber, che invece lo scongiura di non andare in America perché i tedeschi l'avrebbero presa male, risponde: «Nonostante le mie nette convinzioni internazionaliste, ho sempre sentito il dovere di stare dalla parte dei miei perseguitati e moralmente oppressi compagni di tribù».
Ma a spingerlo ad accettare è soprattutto la possibilità di realizzare un'università a Gerusalemme. «La prospettiva di fondare un'università ebraica mi riempie di particolare gioia, avendo di recente visto innumerevoli esempi di trattamento sleale e ingeneroso di splendidi giovani ebrei, con tentativi di negare loro la possibilità di istruirsi».
È così che il 21 marzo 19121 la strana coppia, Albert Einstein e Chaim Weizman, si imbarcano su un transatlantico e dall'Olanda raggiungono gli Stati Uniti. Blumenfeld si sente in dovere di avvertire Weizman: «Come lei sa, Einstein non è un sionista e la prego di non cercare in alcun modo di forzarlo ad aderire alla nostra organizzazione [
] Ho sentito [
] che lei si aspetta che Einstein tenga dei discorsi. Per favore, faccia bene attenzione a questo. Einstein [
] spesso dice per ingenuità cose che non sono affatto gradite».
In realtà l'ingenuità di Einstein è solo libertà di pensiero e onestà intellettuale. La sua è una mentalità molto lontana da quella del politico politicante. «Durante la traversata non passò giorno che Einstein non mi spiegasse la sua teoria, e quando arrivammo ero convintissimo che lui la comprendeva», ricorderà con ironia Weizman.
Negli Usa, dove sbarca il 2 aprile, Einstein è accolto come una star. Decine di fotografi e giornalisti. Folle plaudenti. Le conferenze scientifiche si alternano a veri e propri comizi a carattere politico. Ovunque e comunque sale affollate e osannanti. Il successo di Albert Einstein è senza precedenti. Il sindaco di New York lo omaggia quasi fosse un eroe di guerra e il presidente Warren Harding lo invita alla Casa Bianca. Ma la raccolta dei fondi non è affatto entusiasmante. Weizman sperava di raccogliere almeno 4 milioni di dollari: ne racimola 750.000. Inoltre non riesce a ottenere quello che forse si aspettava: l'adesione formale di Einstein al suo movimento.
Anche dopo il viaggio e malgrado la stretta consuetudine i rapporti con Chaim Weizman saranno sempre «ambivalenti», secondo la definizione che ne dà lo stesso Einstein. Sta di fatto che il fisico non accetterà mai di far parte in maniera formale del movimento sionista. Non penserà mai di trasferirsi in Palestina. E, soprattutto, non appoggerà mai l'idea che in Palestina debba nascere uno stato-nazione ebraico.
Sta di fatto che il viaggio negli Stati Uniti finisce per consolidare non l'immagine sionista di Einstein, ma al contrario la sua immagine internazionalista. Lui si sente e ora è sempre più percepito come "cittadino del mondo". Non come un tedesco. E neppure come un "ebreo svizzero".
L'immagine di Einstein "cittadino del mondo" viene rafforzata dalla serie di altri viaggi che effettua nei mesi successivi. A iniziare da quello, realizzato sulla strada del ritorno dagli Usa, in Gran Bretagna. Tutti i media del mondo riferiscono che a Londra il più grande fisico del presente, il tedesco Albert Einstein, vada a deporre una corona di fiori nell'Abbazia di Westminster sulla tomba del più grande fisico del passato, l'inglese Isaac Newton.
Un po' più contrastato è invece il viaggio che Einstein compie nel marzo 1922 a Parigi, su invito del Collège de France e su consiglio del Ministro degli Esteri tedesco, Walther Rathenau.
I rapporti tra Germania e Francia sono molto tesi. E il viaggio di Albert Einstein da Berlino a Parigi può rivelarsi, anche a livello diplomatico, un chiaro gesto di riconciliazione da parte tedesca: perché fuori dalla Germania il fisico non è considerato un ebreo ma, appunto, un tedesco. Un tedesco pacifista e internazionalista.
Einstein assolve con disinvoltura il ruolo di ambasciatore. Fa molta impressione, per esempio, il fatto che lui si rivolga in francese ai francesi. E soprattutto che compia il giro dei cimiteri di guerra, ponendo corone di fiori sulle tombe di tutti i caduti: tedeschi, francesi, inglesi e di qualsiasi altra nazionalità.
Tuttavia il viaggio è anche occasione per evocare pericolosi fantasmi e alimentare opposti fanatismi. L'arrivo di Albert Einstein a Parigi è contestato sia dai nazionalisti tedeschi sia da quelli francesi. Per evitare incidenti, Einstein, giunto in treno nella capitale francese, scende in una stazione di periferia.
Qualcosa di strano, anche se di natura affatto diversa, accade anche in un viaggio compiuto in Cecoslovacchia nel medesimo anno. Il fisico è a Praga, ospite dell'amico e collega Philipp Frank. Un giovane si reca presso il laboratorio di fisica dell'università e gli consegna un manoscritto. Qui c'è la prova, sostiene,che è possibile costruire e usare un'arma di spaventosa potenza applicando la sua nota equazione dell'eguaglianza tra energia e materia. Sì, la famosa formula E= m c2. Einstein blocca lo sconosciuto interlocutore e lo licenzia: «Si calmi. È inutile continuare. Ogni ulteriore discussione è del tutto improduttiva sia per me che per lei». Quel giovane sconosciuto è probabilmente un matto. Ma, 25 anni dopo, sarà proprio un'applicazione di quella formula a distruggere Hiroshima e Nagasaki.
Intanto l'antisemitismo continua a montare nella repubblica di Weimar. E la reale portata del pericolo associato a quel sentimento, sempre più diffuso, diventa evidente proprio in quei mesi del 1922. Quando, il 24 giugno, il ministro degli Esteri, Walter Rathenau, l'uomo che aveva inviato Einstein ambasciatore di pace in Francia, viene assassinato da un giovane estremista di destra. Al processo risulta chiaro che Rathenau non è stato ucciso per la sua politica: si è battuto per far accettare il Trattato di Versailles alla Germania e ha firmato di persona il Trattato di Rapallo con l'Unione Sovietica. Ma è stato ucciso solo perché ebreo. Colpevole, a detta del suo assassino, di una cospirazione «giudaico-comunista»contro la Germania. E sì che il ministro degli esteri era il teorico dell'assimilazionismo e aperto avversario sia del sionismo sia del socialismo.
Walter Rathenau apparteneva a una famiglia ebrea molto facoltosa. Il padre aveva fondato l'AEG, un'azienda elettrica che aveva (tra l'altro) vinta la competizione con quella della famiglia Einstein ed era diventata una grande impresa. Lui era stato un altro funzionario del ministero della Guerra, prima di essere nominato a sua volta ministro della Ricostruzione e poi ministro degli Esteri.
Benché avessero posizioni politiche diverse, Einstein e Rathenau erano diventati amici. Il ministro degli esteri pensava di poter spegnere l'antisemitismo montante attraverso la totale assimilazione degli Ebrei, con l'assunzione di ruoli pubblici e diventando parte integrante della classe dirigente del paese.
Rathenau è un politico navigato, dalla solida tempra. Ma, come sempre, Albert Einstein pensa che, con la sua logica, possa far cambiare posizione alle persone che stima. Così si dà da fare per introdurre all'antisionista Rathenau i sionisti Blumenfeld e Weizman. Gli incontri avvengono proprio in casa Einstein, oltre che nella tenuta dei Rathenau. Grande cordialità, certo. Ma, dal punto di vista politico ognuno resta sulle proprie posizioni.
Alla notizia dell'assassinio Einstein resta sconvolto. Partecipa poi, con un milione di connazionali, ai funerali. E, infine, il 4 luglio invia a Marie Curie una lettera di dimissioni da membro del Comitato per la Cooperazione Intellettuale della Società delle Nazioni, di cui è appena diventato membro, motivandole col fatto che il forte antisemitismo nel paese lo rende poco adatto a quella funzione. «La situazione qui è tale che un ebreo farebbe bene a imporsi delle restrizioni per quanto riguarda la partecipazione agli affari politici. Inoltre, devo dire che non ho nessuna voglia di rappresentare persone che di certo non sceglierebbero me come loro rappresentante».
La Società delle Nazioni è nata nel 1919 in seguito al Trattato di Versailles e su impulso del presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, come primo abbozzo di un governo mondiale per impedire che in futuro si verificassero guerre devastanti come quella conclusa. L'esordio non è dei migliori. La Germania è stata tenuta fuori. Gli stessi Stati Uniti non vi partecipano, perché i repubblicani al Congresso hanno votato contro l'idea del loro presidente.
Il Comitato Internazionale per la Cooperazione Intellettuale è, invece, nato nel 1922 per volontà della Società delle Nazioni per riunire grandi intellettuali e fare di loro ambasciatori di pace, Ne fanno parte, tra gli altri, Marie Curie, Henri Bergson, Paul Valéry, Thomas Mann, Béla Bartók, Salvador de Madariaga. Naturalmente tra i primi a essere invitati a entrare nel Comitato (e ad accettare l'invito) c'è Albert Einstein.
L'adesione convinta del fisico al Comitato e alla Società delle Nazioni ha una valenza ideale. Il fisico crede nell'idea di un governo mondiale e la Società delle Nazioni va in quella direzione. Crede anche nella valenza maieutica della cultura. E il Comitato Internazionale per la Cooperazione Internazionale è una buona vetrina dove mettere in mostra le idee del pacifismo.
Ma,in Germania- nella Germania in cui è morto assassinato Walter Rathenau - l'adesione lo espone a seri rischi. Tanto più che la Germania non fa parte della Società delle Nazioni (vi entrerà solo nel 1926), che nel paese è ritenuta sede di politica antitedesca. E, infatti, i nazionalisti contestano esplicitamente la presenza di un tedesco, ebreo e pacifista, nel Comitato, mentre la polizia avverte Einstein che il suo nome figura in una lista di obiettivi stilata da simpatizzanti nazisti. Forse è meglio lasciare non solo il Comitato, ma anche Berlino. O, almeno, astenersi da qualsiasi intervento pubblico.
D'altra parte che i nazisti non scherzino lo dimostra il fatto che il loro capo, Adolf Hitler, saluta gli «eroi tedeschi» che hanno ucciso Rathenau. Per inciso: Philipp Lenard, il giorno del funerale del ministro assassinato, rifiuta di rispettare il lutto nazionale e di sospendere le lezioni. Gruppi di studenti corrono ad applaudirlo. Ma un gruppo di operai lo trascina fuori dall'aula e sta per gettarlo nel fiume Neckar. Lo salva la polizia.
Questo è il clima, ormai, nella Repubblica di Weimar.
Einstein pensa per la prima volta di lasciare la Germania, perché, spiega a Solovine: «Sono sempre sul chi vive». La voce che il «papa della fisica» (come inizia a essere definito) possa lasciare la Germania si diffonde. Adesso tocca ad altri richiamarlo alla necessità di lottare. Marie Curie lo invita a restare nel Comitato: «penso che il suo amico Rathenau l'avrebbe incoraggiata a fare uno sforzo».
Intanto Einstein decide di restare in Germania. Ma si allontana da Berlino e si trasferisce, in via provvisoria, a Kiel, dopo aver chiesto all'università il permesso di assentarsi dalle lezioni e a Planck di scusarlo per l'assenza all'assemblea annuale degli scienziati tedeschi. Intanto Lenard e Gehrcke, alla testa di un gruppo di 19 colleghi, cercano di approfittarne e così elaborano, firmano e fanno circolare una Dichiarazione di protesta nel tentativo di escluderlo definitivamente dall'assemblea. «I giornali hanno menzionato il mio nome troppo spesso, mobilitando così la feccia contro di me», scrive nel biglietto di scuse a Planck.
Naturalmente Einstein non resiste più di tanto nella "pace di Kiel". Ed eccolo, il primo agosto 1922, appena cinque settimane dopo l'assassinio di Rathenau, partecipare a un grande raduno pacifista organizzato in un parco di Berlino.Il fisico non prende la parola. Ma si lascia vedere e acclamare dalla folla. Inoltre si lascia convincere da Marie Curie e dall'inglese Gilbert Murray a ritirare le dimissioni dal Comitato per la Cooperazione Intellettuale. Anche se, nei due anni successivi, parteciperà di rado alle riunioni.
Proprio in questi mesi, e con sommo disappunto di Philipp Lenard, ad Albert Einstein viene assegnato il premio Nobel: ma per l'anno precedente, il 1921. Anno in cui il Nobel per la fisica non era stato assegnato. Anche per le polemiche in corso, le motivazioni del premio fanno riferimento ai suoi lavori sull'effetto fotoelettrico del 1905. La Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma non reputa(non reputerà mai) degna del massimo premio scientifico quella teoria della relatività che Lord Kelvin aveva definito, a ragione, «una delle conquiste più elevate del pensiero umano». Einstein non se ne duole più di tanto. Quanto all'assegno andrà puntualmente a Mileva.
È invece Lenard che scrive all'Accademia di Stoccolma, naturalmente per protestare. Einstein, sostiene, ha frainteso la natura della luce. E, per di più, è un ebreo in cerca di pubblicità. La sua impostazione è del tutto estranea alla "fisica tedesca". Lenard non ha ritegno di esprimere in ogni luogo e in ogni occasione le sue idee, ormai scopertamente razziste.
Se il Nobel neolaureato Albert Einstein è sconvolto dall'assassinio di Rathenau, sua moglie Elsa ne è terrorizzata. D'altra parte il ministro degli esteri è stato ucciso perché ebreo. L'ex cancelliere Philip Scheidemann è da poco scampato a un agguato per lo stesso motivo. Il giornalista Maximilian Harden è stato ferito perché ebreo. Chi può escludere che Albert, ebreo, premio Nobel, celebrità mondiale e per di più pacifista, sia l'obiettivo del prossimo attentato? Così Elsa, a insaputa del marito, convince la polizia a proteggerlo in modo discreto, ma efficace. Quando, la mattina, il più famoso scienziato del pianeta prende il tram per andare all'università, non sa che buona parte dei passeggeri che incontra e saluta gli fanno, discreti, da scorta.
Ma, con gran sollievo di Elsa, Einstein deve ottemperare agli obblighi delle star internazionali. E viaggiare per il mondo. Presto i coniugi Einstein partono per un lungo viaggio - circa sei mesi, il più lungo della sua vita - verso l'Estremo Oriente. L'ansia di Elsa può finalmente placarsi.
I coniugi si imbarcano, a ottobre, a Marsiglia sulla nave Kitano Maru che li porterà a Ceylon, Singapore, Hong Kong, Shangai e, infine, per due settimane in Giappone, su invito di un editore nipponico. Ovunque l'arrivo di Einstein suscita attenzione e persino entusiasmo. A Tokio lo accolgono, addirittura, folle osannanti. E pronte ad ascoltarlo per quattro ore mentre spiega la sua teoria della relatività.
Elsa è felice.
L'ambasciatore tedesco, meno. «L'intero viaggio del famoso personaggio è stato messo in scena e interpretato come un'iniziativa commerciale», commenta.
Ecco, è in questo clima che Albert scrive la lettera a Maja. Sostenendo anche con la sorella ciò che da qualche anno andava sostenendo con tutti, in pubblico e in privato.
(Il Bo Live, 17 novembre 2018)
Parma, nel caseificio dove il Parmigiano è solo Kasher
È tutta emiliana l'iniziativa che ha portato alla nascita del primo caseificio al mondo impegnato nella lavorazione esclusiva della variante Kasher del Parmigiano Reggiano. Sotto l'egida di Parma2064, lo stabilimento di Zibello porta nel cuore di un'area tradizionalmente legata alla produzione del Culatello una concezione alternativa che si integra nella cultura della food valley. La differenza sta in un procedimento che - sotto gli occhi di un sorvegliante (detto mashghiah) - segue alla lettera le rigide regole in materia alimentare ispirate dalla Torah e codificate nello Shulkhan Aruk, nel pieno rispetto delle leggi ebraiche. Le circa 45 forme ottenute quotidianamente e contrassegnate dal rabbino con una dicitura identificativa in lingua ebraica si distinguono per l'uso esclusivo del caglio di vitello liquido certificato Kasher, prodotto secondo metodi di estrazione che escludono la contaminazione con eventuali residui di carne. Abbiamo visitato il caseificio in un giorno di produzione.
(la Repubblica, 16 novembre 2018)
Quando il razzismo divenne legge. La svolta antisemita di Mussolini
Non vi furono pressioni naziste per l'adozione di misure contro gli ebrei Colpire persone del tutto innocenti fu una scelta consapevole del regime.
L'esordio
Il primo provvedimento fu espellere studenti e insegnanti da scuole e università pubbliche
|
Il criterio
L'essenza ebraica fu identificata nel sangue al quale si attribuirono tratti immutabili
|
di Donatella Di Cesare
Che cosa può significare per un adolescente andare a scuola, come ogni giorno, ed essere
rifiutato? «No, per te la scuola è chiusa - non solo oggi, ma per sempre». Così, senza alcun motivo plausibile; né per un provvedimento disciplinare, né tanto meno per aver commesso un reato. Semplicemente perché «sei ebrea!», «sei ebreo!». E capitato, nell'autunno del 1938, agli ebrei italiani che improvvisamente furono cacciati dai banchi di scuola, espulsi dalle aule universitarie. Coloro che passarono indenni per le successive sciagure, descrissero quell'evento come un trauma violento e inesplicabile. Primo Levi parlò di «fulmine», un termine frequente in altre testimonianze. Il che rende bene la drammaticità, ma anche la sorpresa e lo sconcerto.
Ciò avveniva nell'Italia fascista di Mussolini che, attraverso un decreto del 5 settembre 1938, firmato dal ministro Bottai, conquistò una triste e ignobile supremazia: fu la prima nazione a espellere le «persone di razza ebraica» dalle scuole di ogni ordine e grado, nonché dalle università e dalle accademie. Il decreto valeva per gli studenti come per gli insegnanti. Pur avendo emanato nel 1935 le leggi razziste di Norimberga, la Germania nazista introdusse solo un paio di mesi dopo l'Italia un'analoga misura.
Già questo deve far riflettere su quella singolare narrazione che ha dominato per decenni e si è radicata profondamente nell'immaginario collettivo italiano. Le cosiddette «leggi razziali» del 1938 sarebbero state l'esito di una imposizione della Germania che intimava di perseguitare gli ebrei italiani. Mussolini, invece, non avrebbe voluto altro che «discriminare non perseguitare», come proclamava uno slogan allora famoso. Se negli studi più recenti questa subdola narrazione è stata criticata e del tutto sconfessata, il mito degli Italiani «brava gente» è pur sempre duro a morire. Non è difficile intuire perché. Oltre a lavare con un colpo di spugna la coscienza della nazione, contrabbandando l'apparenza innocua di un fascismo tutt'al più «servile», questo mito ha avuto il vantaggio di rimuovere la «questione ebraica» in Italia. Come se non fossero mai esistiti né antisemitismo né antiebraismo.
Oltre a ripercorrere con chiarezza la storia delle leggi promulgate dal fascismo italiano per discriminare e perseguitare gli ebrei, il libro di Enzo Collotti Il fascismo e gli ebrei, in edicola domani con il «Corriere», richiama la nazione alla sua storia e alle sue responsabilità, delineando il contesto in cui quei provvedimenti furono emanati. Pur pubblicato per la prima volta nel 2003, questo lavoro resta un punto di riferimento imprescindibile in un filone di studi che si è andato estendendo. E mette l'accento proprio sull'intento di costruire anzitutto una «scuola fascista», la cui rilevanza era strategica per trasformare la cultura del Paese.
Gli ebrei erano cittadini italiani. In tal senso le leggi contro di loro furono una ferita inferta alla cittadinanza, un precedente grave e allarmante; sebbene non tutti i diritti fossero stati revocati, gli ebrei vennero di fatto espulsi dalla nazione. Molti di loro furono tanto più sorpresi, perché si sentivano profondamente italiani. Basti pensare al ghetto di Roma, sede della comunità ebraica più antica della diaspora, cuore della città. Proprio gli ebrei romani avevano più di altri salutato con gioia l'unità nazionale per le libertà di cui avrebbero goduto. La costruzione, tra il 1901 e il 1904, del Tempio Maggiore, quasi al centro del ghetto, fu il suggello di un'assimilazione compiuta. Ma lo era davvero?
Nel contesto italiano, come in quello di altri Paesi europei, restava aperta la «questione ebraica». Si doveva considerare l'ebraismo una religione? Come lo è il cristianesimo? Quest'idea aveva promosso l'emancipazione: gli ebrei avrebbero potuto essere cittadini - italiani, tedeschi, francesi, ecc. - nella sfera pubblica, esercitando il proprio culto in privato. Si sarebbe trattato allora solo di un'uguaglianza di diritti. Sennonché gli ebrei erano anche un popolo con una lunga storia. Da qui nasceva, nella modernità, il topos dello «Stato nello Stato». La questione non era solo religiosa, ma anche politica. Se appartenevano a un popolo altro, gli ebrei erano allora «nemici» all'interno della nazione, tanto più temibili e pericolosi perché si spacciavano per quello che non erano, si facevano passare per tedeschi o per italiani, mentre erano «stranieri».
Questi logori cliché tornarono, anzi, ad accendersi, allorché si coniugarono con l'antisemitismo di stampo più prettamente politico. La Germania anticipò i tempi e dette, per così dire, l'esempio, mostrando che era possibile legiferare contro una parte dei propri cittadini che non avevano commesso alcun reato. Ma fu appunto solo un esempio e, tutt'al più, uno stimolo. Non esistono prove e documenti che testimonino un intervento tedesco nelle scelte della politica fascista.
Per emanare le leggi antiebraiche occorreva, però, definire l' «ebreo». Tale definizione si sarebbe rivelata non solo ardua e problematica, ma alla fin fine impossibile. Chi si era convertito al cristianesimo non avrebbe forse dovuto essere considerato cristiano? E che dire poi dei figli di coloro che erano battezzati da una o più generazioni? Malgrado tutto l'acqua del battesimo non sembrava, però, sufficiente a lavare il sangue.
Questa era stata la lezione delle prime leggi razziste, promulgate a Toledo il 5 giugno 1449. Grazie alla «purezza del sangue», più importante di quella della fede, vennero prese misure contro i marrani, ebrei convertiti più o meno forzatamente al cristianesimo, distinti così dai cristiani di «pura origine». Già allora si andarono chiudendo le porte della fratellanza universale, mentre cominciò l'ossessione per la genealogia. L'essenza ebraica fu identificata nel sangue, fluido così vitale e corporeo, così occulto e ineffabile, nel quale si credette di scorgere gli immutabili tratti ebraici, impossibili da emendare. Nessuna conversione avrebbe mai potuto guarire quel «male incurabile», dal cui contagio era necessario preservarsi. La teologia ricorreva alla politica e, viceversa, la politica alla teologia.
Questa singolare metafisica del sangue restò anche in seguito alla base delle leggi razziste. Come se davvero il sangue fosse criterio di purezza. Si comprende perciò l'imbarazzo della Chiesa di fronte alle leggi del 1938, che in Italia vietavano i «matrimoni misti», un imbarazzo messo tuttavia a tacere. Ma si comprende anche la difficoltà di definire l'«ebreo», che non ebbe altro esito se non una raccapricciante aritmetica che contava il quarto, il settimo, il decimo di sangue impuro. Lo scopo fu dapprima quello di discriminare e separare, quindi di espellere e, alla fin fine, eliminare. Il diritto, che avrebbe dovuto garantire la protezione dei cittadini, fu piegato a quell'impresa violenta di potere.
(Corriere della Sera, 16 novembre 2018)
A Gaza si è evitata per poco una guerra che nessuno voleva
Né Hamas né Israele, che si sono fermati dopo essersi bombardati a vicenda per alcune ore: cos'è successo?
Nell'ultima settimana Israele e Hamas, il gruppo radicale palestinese che controlla la Striscia di Gaza, sono andati molto vicini a iniziare una nuova guerra. Il conflitto si è evitato perché nessuna delle due parti lo voleva davvero, ma le violenze hanno comunque avuto conseguenze importanti, soprattutto sulla stabilità del governo israeliano guidato dal primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu.
I guai erano iniziati domenica scorsa, quando un'operazione israeliana sotto copertura compiuta vicino a Khan Younis, nel sud della Striscia, era finita male. Alcuni miliziani di Hamas avevano scoperto i soldati israeliani infiltrati nel loro territorio ed era iniziata una sparatoria: erano morti sette miliziani palestinesi e un tenente colonnello israeliano. L'operazione israeliana aveva scopi di sorveglianza ed era simile a molte altre che Israele compie di frequente e che non vengono quasi mai scoperte. Netanyahu l'aveva approvata nonostante due settimane prima il suo governo avesse raggiunto un'intesa molto importante con Hamas per fermare le violenze lungo il confine tra la Striscia e il territorio israeliano: l'accordo prevedeva, tra le altre cose, l'arrivo di gasolio nella Striscia per alimentare il secondo generatore dell'unica centrale elettrica di Gaza, e il pagamento di parte degli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici della Striscia, impiegati da Hamas.
Hamas, che a causa dell'intesa era stata accusata da altri gruppi radicali della Striscia di avere venduto la causa palestinese agli israeliani in cambio di soldi, aveva reagito all'operazione israeliana lanciando centinaia di razzi contro il sud di Israele, colpendo molte case e un autobus, e uccidendo un palestinese originario della zona di Hebron, in Cisgiordania. Israele aveva a sua volta reagito compiendo diversi attacchi aerei su postazioni militari nella Striscia di Hamas e del Jihad Islamico, altro gruppo radicale, uccidendo sette persone. Poi martedì sera, due giorni dopo l'inizio dei bombardamenti, Hamas aveva annunciato una tregua che aveva trovato il favore di Israele, nonostante diversi membri del governo conservatore di Netanyahu chiedessero una risposta più dura al lancio di razzi di Hamas su Israele: «Il risultato, brusco e inconcludente, ha scatenato celebrazioni a Gaza. Ha lasciato il governo israeliano, il più a destra nella storia del paese, ad affrontare l'accusa di essere stato troppo morbido con Hamas», ha commentato il New York Times.
Una prima conseguenza di tutta questa storia sembra essere stata un relativo rafforzamento della posizione di Hamas.
La leadership del gruppo era stata molto criticata da alcune fazioni della Striscia per avere trovato un'intesa con il governo israeliano, ma la scarica di razzi contro il sud di Israele ha in parte zittito le accuse dei gruppi più radicali. Parlando e trovando un accordo con il governo israeliano, inoltre, Hamas ha in un certo senso marginalizzato Fatah, l'altro principale partito politico palestinese, che è considerato più moderato di Hamas e che controlla la Cisgiordania. Tra i due gruppi palestinesi va avanti da diverso tempo una competizione molto feroce, a cui si deve per esempio il mancato pagamento degli stipendi di migliaia di dipendenti pubblici nella Striscia. Shimrit Meir, analista israeliano della politica palestinese, ha detto al New York Times che le fazioni di Gaza hanno avuto nell'ultima crisi «spazi di manovra incredibilmente ampi», perché hanno intuito che Israele non avrebbe proseguito il conflitto via terra: «Hanno controllato le tempistiche, il livello di escalation e la potenza di fuoco». Hamas non voleva una guerra, anche perché Gaza si trova dal 2014, cioè dall'ultimo grande conflitto con Israele, in una situazione umanitaria molto critica.
Le agitazioni dell'ultima settimana hanno lasciato conseguenze ancora più rilevanti in Israele, dove ha cominciato a traballare il governo di Netanyahu.
Dopo la decisione da parte del governo israeliano di non iniziare una nuova guerra su larga scala con i gruppi della Striscia di Gaza, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha annunciato le sue dimissioni e ha confermato il ritiro del suo partito, Israel Beytenu, di destra, dalla coalizione di governo di Netanyahu. La mossa di Lieberman, ha scritto Anshel Pfeffer su Haaretz, costringerà molto probabilmente il governo ad anticipare le elezioni previste per novembre 2019, visto che Netanyahu non può più contare su una maggioranza stabile in Parlamento.
«Il tempismo di Lieberman è stato eccezionale», ha scritto Pfeffer, che ha aggiunto: «Ma con il senno di poi, questa era l'unica mossa che poteva fare, un'opportunità d'oro per affrontare le imminenti elezioni da una posizione di maggiore forza». Il punto è che, uscendo dal governo, Lieberman ha scaricato tutta la responsabilità del mancato intervento a Gaza su Netanyahu e sul suo partito, il Likud, potenzialmente togliendo loro diversi consensi provenienti da quella destra israeliana che non accetta troppi compromessi con Hamas. Da qualche anno il partito di Lieberman, Israel Beytenu, rischia l'estinzione politica, stritolato tra il Likud di Netanyahu e La Casa Ebraica di Naftali Bennett, politico divenuto molto popolare: con le dimissioni dal governo, Lieberman ha cercato di anticipare le mosse degli avversari, lasciando loro il problema di gestire il tema delle tensioni a Gaza.
Le preoccupazioni di Lieberman, d'altra parte, sembrano essere state le stesse di Netanyahu.
Uno dei motivi per cui tre settimane fa il governo israeliano aveva raggiunto un accordo con Hamas era la necessità di evitare che il tema delle violenze al confine tra Striscia di Gaza e Israele diventasse «tossico» per la campagna elettorale del Likud. In altre parole, Netanyahu voleva "neutralizzare" la questione del difficile rapporto con i palestinesi della Striscia per evitare di uscirne penalizzato alle prossime elezioni. Anche la scelta di bombardare per un giorno la Striscia e poi fermarsi ha risposto a simili considerazioni, ha scritto Amos Harel, analista militare per Haaretz. Il governo aveva sul tavolo tre opzioni: non rispondere in alcun modo al lancio di razzi di Hamas, posizione praticamente inconcepibile per l'attuale governo di destra, che avrebbe deluso i molti elettori intransigenti del Likud; lanciare un'operazione militare su larga scala come quella del 2014, ipotesi a cui però Netanyahu si oppone da tempo, perché potenzialmente disastrosa; e fare un attacco mirato contro Hamas per un periodo limitato di tempo, soluzione intermedia che al governo è sembrata la più ragionevole e conveniente, e che in qualche modo garantiva una risposta alle frange di elettori più intransigenti senza però finire per infilarsi in un conflitto lungo e complicato.
Oggi la situazione sembra tornata relativamente tranquilla, ma come ogni venerdì da diverso tempo potrebbero esserci proteste di palestinesi della Striscia al confine con Israele, e quindi nuove tensioni. Il governo israeliano potrebbe ordinare di rispondere duramente contro i manifestanti, per provare a fare cambiare idea a chi accusa Netanyahu di essere troppo morbido con Hamas. D'altra parte, è interesse del Likud di tenere in piedi l'intesa con Hamas raggiunta tre settimane fa, proprio con l'obiettivo di togliere il più possibile dai radar elettorali la questione di Gaza.
(il Post, 16 novembre 2018)
Netanyahu frena sul voto anticipato
Benjamin Netanyahu per il momento frena, ma le dimissioni tutte pre-elettorali del ministro della Difesa Avigdor Lieberman dal suo incarico hanno avviato una dinamica che sicuramente avvicinerà la data del voto in Israele. Quindi lo spauracchio delle elezioni anticipate rimane. Netanyahu ha incontrato il ministro dell'Educazione Naftali Bennett, leader di un altro partitino di destra della coalizione, "Focolare ebraico" (Habayit Hayehudi). Così, Bennett gli ha chiesto chiaramente di volere l'incarico di ministro della Difesa, ma il premier almeno per il momento ha dovuto respingere tale richiesta, anche per non scatenare le proteste degli altri partiti nazionalisti e religiosi che sostengono il governo.
(La Notizia, 17 novembre 2018)
Conte incontra il presidente israeliano Rivlin: distanti sull'Iran
di Francesca Paci
Si è parlato di sicurezza, processo di pace con i palestinesi ma anche molto di Teheran nel secondo e ultimo giorno italiano del presidente israeliano Rivlin, che ieri ha incontrato prima il premier Conte e poi il suo omologo Mattarella. Nonostante «la profonda amicizia» che li lega, i due Paesi mantengono una sostanziale distanza nella valutazione dell'accordo sul nucleare iraniano, con l'Italia, esonerata a tempo dalle sanzioni americane, convinta che si tratti di un passo avanti verso il disarmo e Israele che ancora ieri ha ribadito come il Jcpoa«abbia rafforzato» le capacità militari degli ayatollah ampliandone «l'influenza negativa sulla regione» e destando allarme non solo nello Stato ebraico ma in Egitto, nel Golfo. Differenze di visione al netto di molte «preoccupazioni comuni», sottolineano comunque gli addetti diplomatici, che raccontano di colloqui «cordialissimi» centrati sulla sicurezza e sull'importanza di cooperare economicamente anche per rilanciare il processo di pace oggi archiviato con i palestinesi. Su questo «l'Italia può essere di grande aiuto», come lo è nel contrastare l'antisemitismo risorgente in Europa.
Verso le elezioni anticipate
Sullo sfondo della visita di Rivlin c'è l'ennesima crisi con Gaza. Ieri, mentre la nuova marcia del ritorno indetta da Hamas per spezzare il blocco della Striscia sfociava in scontri al confine con almeno 40 palestinesi feriti (3 gravi), Israele viveva una nuova giornata di turbolenze politiche seguite alle dimissioni del ministro della difesa Lieberman in protesta contro il cessate il fuoco giudicato una resa. Il mancato accordo tra il partito Focolare ebraico e il premier Netanyahu apre la strada al voto anticipato. L'atmosfera è tesa, con la destra che teme il bis del 1992 quando la crisi dell'esecutivo portò all'ascesa della sinistra degli accordi di Oslo, e in attesa del vertice di domani il premier Netanyahu ha cancellato la sua visita ufficiale a Vienna.
A Conte, che a Roma ha espresso «preoccupazione sul rischio di escalation delle violenze registratesi negli ultimi giorni a Gaza» e ha auspicato la tenuta del cessate il fuoco «per consentire a tutte le parti di alleviare la crisi umanitaria», Rivlin ha ripetuto come alla radice dello stallo dei negoziati ci sia un problema di fiducia, come il suo Paese non creda nella reale volontà dei palestinesi di arrivare alla soluzione due popoli per due Stati e come consideri Hamas responsabile del muro contro muro. A Gaza, dove a sua volta la popolazione denuncia la fine della speranza, è arrivata ieri una delegazione dell'intelligence egiziana per monitorare le manifestazioni.
(La Stampa, 17 novembre 2018)
Se le dimissioni di un falco celano la deriva israeliana
Riportiamo l'analisi di un giornale manifestamente anti-israeliano. NsI
di Zvi Schuldiner
Le dimissioni del ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman, hanno provocato interpretazioni e reazioni contrastanti: da quelle molto moderate o soddisfatte in Israele, a quelle festose nella striscia di Gaza. Un trionfo dei «moderati»? Lieberman aveva promesso che se fosse diventato ministro della difesa, avrebbe liquidato in 48 ore Ismail Haniyeh, il leader di Hamas.
Il falco che prometteva un ricorso alla violenza sempre maggiore, che chiedeva misure più drastiche e aggressive, aveva attenuato i toni una volta nominato a una carica ambita da molti.
Di colpo si era trovato a guidare una forza militare che con il metro di misura israeliano può essere considerata oggi come la parte più «moderata» del paese. L'esercito e gli altri organismi dell'apparato di sicurezza hanno mantenuto una certa capacità di affrontare la congiuntura che Israele attraversa: in questi ambiti, ha prevalso negli ultimi anni la necessità di mantenere contatti positivi con l'Autorità palestinese; e quanto a Gaza, l'esercito ha continuato a mostrarsi favorevole a un miglioramento della situazione interna, in riferimento alle necessità della popolazione civile. Allo stesso tempo gli organismi di sicurezza sono ben coscienti che Hamas è la forza dominante a Gaza.
Il governo israeliano e l'élite dominante non hanno alcuna intenzione di arrivare a reali trattative di pace. Nel 2005, quando Sharon decise che Israele si sarebbe ritirata da Gaza, la destra radicale si oppose. Ma se la destra si oppone a qualunque ritiro dalle terre occupate nel 1967, a mio giudizio è altrettanto chiaro che il piano era quello che alcuni collaboratori di Sharon spiegavano così: rinunciamo a Gaza unilateralmente per assicurarci l'annessione della Cisgiordania.
Il governo di Sharon non parlò nemmeno con Abu Mazen e contribuì alla vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Da lì a poco si verificò il sanguinoso golpe di Hamas contro l'Olp a Gaza e la separazione fra Gaza e Cisgiordania si fece sempre più acuta e reale.
Non ci sarà pace senza unità palestinese; per Netanyahu e la leadership israeliana la separazione fra Gaza e Cisgiordania è un obiettivo importante; sanno che quest'ostacolo alla pace gioca un ruolo decisivo. Dopo anni di occupazione, parlare con l'Olp era un crimine, esibire la sua bandiera era un tradimento, eccetera. Dopo Oslo, parlare con Hamas è un crimine, un tabù, nemmeno i moderati osano sostenere l'idea di un dialogo con Hamas.
E improvvisamente, quando la situazione a Gaza arriva ai suoi estremi più inumani e brutali, la problematica arena mediorientale si muove in modo sempre più complicato: si potrebbe arrivare a «regolarla» in due o tre anni, dicono gli egiziani a Israele. Netanyahu, l'alleato più entusiasta di Trump, tesse rapporti con Mohammed bin Salman in Arabia saudita, con l'Oman, con al-Sisi. Il presidente egiziano, che ha diversi strumenti a disposizione per far pressione su Hamas e sugli abitanti di Gaza, è diventato il mediatore più attivo fra Hamas e gli israeliani. Netanyahu, che non ha alcuna intenzione di portare il paese ad una vera pace, sa che un'altra guerra sarebbe forse più disastrosa per gli israeliani di quella precedente.
L'esercito e gli organismi di sicurezza favorivano chiaramente una distensione della situazione e hanno più volte avvertito che un disastro umanitario a Gaza avrebbe ripercussioni negative anche in Israele.
Il «moderato» primo ministro, appoggiato dall'establishment della sicurezza e spinto dai paesi arabi e forse anche da alcune esortazioni di Trump, aveva capito che il cosiddetto «aggiustamento» era la soluzione migliore, avrebbe ridotto la pericolosità della situazione a Gaza, avrebbe migliorato i rapporti con i paesi arabi e cementato la divisione fra Gaza e Cisgiordania.
Dal canto suo, Abu Mazen ha condotto una politica criminale nei confronti di Gaza; l'obiettivo era il nemico Hamas, ma era chiaro che la popolazione pagava un prezzo terribile per l'accerchiamento da parte israeliana e i passi problematici da parte di Abu Mazen. Quando il Qatar si è offerto di pagare il petrolio necessario alla fornitura di elettricità e anche una parte dei salari ai dipendenti di Hamas, lo stesso Abu Mazen ha dovuto moderare la propria opposizione e il circo si è arricchito con l'arrivo in Israele di un inviato del Qatar con una cassaforte di 15 milioni di dollari che è andato a distribuire a Gaza.
Negli ultimi mesi Lieberman ha più volte dichiarato pubblicamente e in modo aperto la sua opposizione all'«aggiustamento». Il ministro dell'educazione Bennett, ancora più estremista di Lieberman, ha attaccato ripetutamente il ministro della difesa e l'idea dell'«aggiustamento» - ma senza attaccarne il vero architetto, il premier.
Quando, all'inizio della settimana, un'azione supersegreta di una segretissima unità israeliana ha provocato sette morti palestinesi nei bombardamenti, questi ultimi hanno reagito con una pioggia di missili che ha costretto decine di migliaia di israeliani a correre nei rifugi. Il pericolo di un'altra guerra è diventato evidente; l'intervento degli egiziani e di altri ha portato a un cessate il fuoco che per la maggioranza degli israeliani significa «una resa ad Hamas», Poche ore dopo il cessate il fuoco, molti israeliani della zona di frontiera hanno manifestato contro Netanyahu con un messaggio chiaro: arrenderci al terrore significa che Hamas può farci impazzire di nuovo quando vuole. Secondo un recentissimo sondaggio, il 74% degli israeliani non approva la linea adottata dal premier. Lieberman si dimette e il partito di Bennett lancia un ultimatum a Netanyahu: o Bennett diventa ministro della difesa oppure abbandoniamo la coalizione e si va a votare. Nelle ultime ore tutti gli esiti appaiono possibili. Bennett sarebbe ancor peggio di Lieberman e favorirebbe prima di tutto la propria base elettorale negli insediamenti dei territori occupati. Netanyahu lo sa e può essere che questo lo porti a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti assunto: andare a elezioni decise da altri.
(il manifesto, 17 novembre 2018)
Le dimissioni di Lieberman non significano vittoria per Hamas
Le dimissioni del ministro della difesa israeliano Lieberman sono viste come la vittoria politica di Gaza, secondo il portavoce di Hamas Abu Zukhri. Condivide la sua opinione con Radio Sputnik, il professor Abraham Diskin, esperto in scienze politiche all'Università ebraica di Gerusalemme e professore del Centro interdisciplinare di Herzliya.
Sputnik: Qual è la tua opinione sulle dimissioni di Lieberman e il ragionamento che ha dato per questo?
Abraham Diskin: L'ultimo atto scatenante è stato il cessate il fuoco con Hamas, e Lieberman ha creduto che fosse troppo presto e Hamas non dissuaderebbe il contrario, e sono sicuro che anche lui aveva problemi di popolarità in Israele, ma sembra che in generale non fosse sincero. Penso che sia davvero in disaccordo con il primo ministro che è stato più moderato diverse volte riguardo al conflitto con i terroristi in generale e con Hamas in particolare.
- Beh, il signor Lieberman è ovviamente molto scontento della situazione attuale, l'invio di denaro dal Qatar sarebbe il punto, ma anche il cessate il fuoco. Ciò sta aumentando le pressioni sul Primo Ministro Netanyahu perché invochi effettivamente elezioni anticipate? E perché non vuole davvero autorizzare elezioni anticipate in Israele?
Innanzitutto, non penso che le elezioni anticipate siano state davvero una considerazione importante, ma sono sicuro che ciò era nella sua mente. Ma vedremo cosa succederà. Sapete, quello che abbiamo visto dai media israeliani, per esempio e anche in rete, è una certa critica nei confronti di Netanyahu per essere troppo morbido nei confronti di Hamas e qui alla deterrenza verso i terroristi in generale e Hamas in particolare. E sono sicuro che se si condividono tali critiche e se è condiviso anche da persone vicine a Netanyahu e anche riguardo alla posizione popolare di pochi potenziali elettori al centro dell'arena israeliana, o sul lato destro dell'arena israeliana, penso che sia cauto nei confronti di una decisione come quella che è stata fatta da Lieberman. A proposito, le elezioni anticipate non sono qualcosa di certo. Penso che probabilmente avremo elezioni anticipate, ma non lo sappiamo ancora per certo.
- Ora gli abitanti di Gaza dicono che questa è una vittoria politica per loro, crede che sia così?
Per quanto riguarda la valutazione della situazione, Hamas ha davvero implorato il cessate il fuoco. Penso che Israele abbia dato un segnale con i raid aerei, con un preciso bombardamento aereo davvero cauto nel non causare troppe perdite in generale e vittime civili in particolare, ma penso che le esplosioni che Hamas ha osservato sono state molto intense, e al meglio delle mie conoscenze e al meglio della mia comprensione posso dire che Hamas è molto, molto lontana dall'aver ottenuto una vittoria. Anche se Hamas lo presenta come tale, penso che sia vero il contrario e penso anche che la gente in Israele non capisca davvero quello che ho appena detto. La gente dice che forse Netanyahu abbia esitato, forse la deterrenza non dovrebbe essere possibile. Molto presto vedremo delle dimostrazioni al confine con la Striscia di Gaza. Penso che, nonostante il fatto che Hamas presenti la situazione sotto una luce diversa, hanno sofferto troppo
Ma penso che Hamas sia stata ferita troppo gravemente nonostante il fatto che dimostrino il contrario.
- Ho sentito che il signor Netanyahu servirà come ministro della Difesa. Riusciranno il primo ministro e il governo a far fronte a questa situazione, a seguito della quale aumenterà la pressione sul governo? Quale reazione dovremmo aspettarci da Hamas, visto che Israele è impegnata a continuare il conflitto?
In primo luogo, questo è il problema principale, perché al momento Netanyahu è sotto forte pressione per nominare il capo del partito della Casa Ebraica alla carica di Ministro della Difesa. Non possono rifiutare questa richiesta, ma non penso nemmeno che Netanyahu la soddisferà. Ecco perché, probabilmente, possono aver luogo delle elezioni anticipate. Le elezioni anticipate dovrebbero svolgersi durante il governo di transizione. Questo governo non ha gli stessi poteri politici di un governo ordinario, ma non penso che si applichi alle questioni di difesa. Penso che questa situazione non abbia nulla a che fare con i problemi di difesa. Nonostante il fatto che il governo israeliano sia transitorio, avrà le mani libere. Data l'atmosfera politica nel paese, credo che, anche dopo aver indetto elezioni anticipate, Israele agirà sulla volontà di Netanyahu.
(Sputnik Italia, 16 novembre 2018)
Per la prima volta gli USA voteranno contro risoluzione ONU per il ritiro di Israele dal Golan
Si profila un altro cambiamento epocale nella politica estera degli USA, secondo forse solo al riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Infatti l'ambasciatrice uscente degli all'ONU, comunica che per la prima volta Washington voterà contro la risoluzione ONU che chiede il ritiro di Israele dal Golan.
Un altra importante novità nella politica estera degli USA. Dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, Washington si appresta a votare contro l'annuale votazione all'ONU sulla risoluzione che chiede a Tel Aviv di ritirarsi dal Golan occupato a scapito della Siria nel 1967. Ad annunciarlo è stata la rappresentante uscente statunitense Nikki Haley.
"Se questa risoluzione avesse mai avuto un senso, sicuramente non lo ha oggi. La risoluzione è chiaramente di parte contro Israele ", ha affermato Haley, annunciando la mossa prevista.
La risoluzione non vincolante, che viene votata ogni anno dal terzo comitato dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, mette in discussione la "illegittimità della decisione" presa da Israele "di imporre le sue leggi, la sua giurisdizione e la sua l'amministrazione sul Golan siriano occupato", illegale secondo il diritto internazionale.
Haley, tuttavia, ha aggiunto che "le atrocità che il regime siriano continua a commettere dimostrano la sua mancanza di idoneità a governare chiunque".
Secondo quanto riferito, Israele ha sollecitato la Casa Bianca negli ultimi mesi a riconoscere l'annessione, sostenendo che dopo la sanguinosa guerra civile in Siria per Israele le Alture sono fondamentali per il mantenimento della sicurezza.
L'ambasciatore israeliano all'ONU Danny Danon ha accolto l'annuncio degli Stati Uniti, affermando che "il cambiamento nel modello di voto americano è un'altra testimonianza della forte cooperazione tra i due paesi".
"È giunto il momento per il mondo di distinguere tra coloro che stabilizzano la regione e coloro che seminano il terrore", ha dichiarato.
Mentre è improbabile che un "no" da parte degli Stati Uniti fermi la risoluzione, potrebbe essere un segnale che l'amministrazione Trump stia considerando di riconoscere il controllo israeliano sul Golan.
Lo scorso settembre, l'ambasciatore statunitense in Israele David Friedman affermò di aspettarsi che il territorio annesso rimanesse sotto il controllo israeliano "per sempre".
"Non posso onestamente immaginare una situazione in cui le alture del Golan non facciano parte di Israele per sempre", dichiarò Friedman al quotidiano israeliano Hayom.
Ma durante una visita in Israele un mese prima, John Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, spiegò che non c'erano discussioni su tale riconoscimento.
"Ovviamente comprendiamo l'affermazione israeliana di annettere le alture del Golan - comprendiamo la loro posizione - ma per ora non c'è alcun cambiamento nella posizione degli Stati Uniti".
(l'AntiDiplomatico, 16 novembre 2018)
Abu Mazen rimuove un colonnello: "Cambiò una gomma a una jeep israeliana"
L'ufficiale di polizia è stato subito deferito a una commissione investigativa speciale, competente a irrogare sanzioni nei confronti dei "traditori della causa palestinese".
di Gerry Freda
Il governo Abu Mazen ha recentemente rimosso dall'incarico un colonnello della polizia della Cisgiordania colpevole di avere aiutato dei soldati israeliani a "sostituire una ruota sgonfia".
L'incontro incriminato tra l'ufficiale delle forze dell'ordine palestinesi e la pattuglia di militari di Gerusalemme avrebbe avuto luogo alcuni giorni fa a Hebron, città rientrante nel territorio amministrato dalle autorità di Ramallah.
Il colonnello Ahmad Abu al-Rub, allora capo della polizia nel distretto meridionale della Cisgiordania, sarebbe infatti giunto in soccorso di un manipolo di soldati dello Stato ebraico, impegnati in quel momento a pattugliare le strade di Hebron a bordo di una jeep. Secondo i media israeliani, l'ufficiale palestinese avrebbe aiutato i militari di Gerusalemme a rimuovere una gomma forata e a rimettere di conseguenza il veicolo nelle condizioni di proseguire il pattugliamento. L'episodio sarebbe stato filmato da alcuni ragazzi del posto e sarebbe stato subito pubblicato su diversi canali social. Nel video, Ahmad Abu al-Rub è immortalato mentre, inginocchiato davanti alla jeep israeliana, provvede a sostituire la ruota sgonfia. Il filmato è in breve tempo diventato virale tra gli utenti palestinesi e ha subito provocato l'indignazione del governo Abu Mazen.
Le autorità di Ramallah hanno infatti accusato l'ufficiale di polizia di avere compiuto, inginocchiandosi davanti a dei soldati israeliani, un "atto di sottomissione". Il colonnello, inoltre, fornendo assistenza tecnica ai militari di Gerusalemme inviati in Cisgiordania avrebbe di fatto aiutato Israele a proseguire la "criminale occupazione dei territori palestinesi". Sulla base di tali accuse, i vertici di Al-Fatah hanno deliberato la rimozione di Ahmad Abu al-Rub dal rispettivo incarico. Quest'ultimo è stato quindi deferito a una commissione investigativa speciale, competente a comminare sanzioni nei confronti dei "traditori della causa palestinese".
(il Giornale, 16 novembre 2018)
Il presidente Rivlin a Roma
"Italia-Israele, legame forte"
Italia e Israele: continuare il futuro insieme. È uno dei temi al centro della visita del Presidente israeliano Reuven Rivlin, in queste ore a Roma per diversi incontri istituzionali. Rivlin ha incontrato prima il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a cui ha ribadito l'amicizia tra i due paesi e sottolineato "la grande importanza dell'impegno internazionale per esercitare pressione sull'Iran, quale passo indispensabile nella lotta contro il suo armamento nucleare". Poi è stato il momento del vertice con "il mio amico Presidente dell'Italia Sergio Mattarella" al Quirinale (nell'immagine in alto). Tra gli appuntamenti odierni anche un incontro privato con la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni (nell'immagine a lato). Diversi i punti toccati durante il colloquio: dalla storia dell'ebraismo italiano, al suo legame con Israele, fino al problema dell'antisemitismo in Italia. Rivlin ha manifestato il suo interesse per avere un quadro della realtà ebraica italiana e sottolineato i legami positivi tra i due paesi, ricordando la bellezza della sinagoga italiana a Gerusalemme.
(moked, 16 novembre 2018)
Le cose, le case rubate agli ebrei
Mostra, incontro, installazione a 80 anni dalle leggi razziali
di Chiara Priante
Sono passati 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali. Allora, la cosa, passò nell'indifferenza generale della popolazione italiana. Oggi, l'anniversario diventa occasione per riflettere e imparare.
Migliaia di fascicoli, lettere, pratiche, registri. E' un racconto inedito quello che emerge da "Le case, le cose. Le leggi razziali del 1938 e la proprietà privata" allestita da Fondazione 1563 che apre al pubblico la sede, in piazza Bernini 5. Da giovedì 22 novembre a giovedì 31 gennaio (lunedì venerdì 16-19; 24 e 25 novembre, 26-27 gennaio 10-13) la mostra curata da Fabio Levi raccoglie minuziose descrizioni d'edifici, inventari di stanze, oggetti, perfino d'alberi.
La prima volta
Per la prima volta in esposizione, documenti e immagini sui sequestri gestiti dall'Istituto di San Paolo di Torino su delega dell'Ente gestione e liquidazione immobiliare. La legge lo istituì nel '39 per acquisire e vendere beni sottratti agli ebrei. I'Egeli delegò 19 crediti fondiari, per Piemonte e Liguria scelse l'Istituto. Gli specialisti della Fondazione 1563 hanno inventariato e digitalizzato il fondo, ora fruibile a livello internazionale. In mostra anche immagini di palazzi e portoni torinesi, i mattoni di questa storia. E poi vite: quelle dei proprietari delle case, dei puntigliosi periti e funzionari della banca, dei cittadini che diventarono utilizzatori, più o meno consapevoli, dei beni sottratti
Iniziative al Polo del '900
Giovedì 22 alle 17 s'inaugura l'installazione multimediale "Che razza di storia" promossa dal Museo della Resistenza nell'ambito del progetto integrato del Polo del '900 "1938.2018. A80 anni dalle eleggi razziali" (fino al 3 febbraio tutti i giorni 9-18). Racconta le leggi razziali nella loro realtà; documenti, immagini, filmati e testimonianze audio in via del Carmine 14 accompagnano in un'esperienza emozionale condotta da luci, suoni, immagini. Poi ci sono le domande lungo il corridoio: quesiti universali e attuali su razzismo e intolleranza.
Per l'occasione, alle 18 nella Sala '900 intervengono Gad Lerner e Igiaba Scego su "Il rifiuto dell'altro. A 80 anni dalle leggi razziali", a conclusione del ciclo d'incontri "Spotlight" curato da Biennale Democrazia.
(La Stampa - Torino, 16 novembre 2018)
«Alto Adige un modello per Israele»
L'Alto Adige come modello di convivenza tra popolazioni: questa l'idea dietro il viaggio dei parlamentari israeliani Eyal Ben Reuven e Yousef Jabareen, che hanno incontrato ieri il governatore Arno Kompatscher e visitato il Comune di Bolzano.
«Guardiamo all'Alto Adige come un modello per superare le discriminazioni delle minoranze in Israele» ha detto Jabareen, che milita nel partito arabo Joint List Per Ben Reuven (Unione sionista), il viaggio ha offerto spunti per «proseguire gli sforzi per la pace», che negli ultimi anni stanno toccando minimi storici.
I parlamentari dello Knesset saranno oggi a Eurac Research per un confronto aperto al pubblico sul tema della convivenza pacifica.
(Corriere dellAlto Adige, 16 novembre 2018)
Il presidente Rivlin in Italia: "Non cederemo adHamas"
di Francesca Paci
E' stata tutta dedicata al Vaticano la prima giornata romana del presidente israeliano Reuven Rivlin che ieri ha incontrato il Papa e successivamente il Segretario di Stato Pietro Parolin e l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati. Rivlin e il Pontefice hanno parlato a porte chiuse nella Sala della Biblioteca per oltre mezz'ora alla presenza di due traduttori e in un clima «molto cordiale». Si avvicina il 25esimo Anniversario dell'avvio delle relazioni diplomatiche tra Israele e lo Stato Pontificio e c'erano numerosi argomenti sul tavolo dei due interlocutori. Sulla base dei «positivi rapporti tra la Santa Sede e lo Stato d'Israele», come ricostruisce una nota vaticana, si è parlato delle comunità cattoliche locali con «l'auspicio del raggiungimento di intese adeguate in merito ad alcune questioni di comune interesse». Uno spazio particolare è stato dedicato alla questione di Gerusalemme, «nella sua dimensione religiosa e umana per ebrei, cristiani e musulmani» e nel rispetto della «sua vocazione di Città della Pace».
La questione palestinese
Il Papa ha richiamato «l'importanza di costruire maggiore fiducia reciproca, in vista della ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, per raggiungere un accordo rispettoso delle legittime aspirazioni dei due popoli». Nessuno ignora il contesto regionale, segnato da conflitti e crisi umanitarie e l'incontro è stato anche l'occasione per enfatizzare «l'importanza del dialogo fra le varie comunità religiose per garantire la convivenza pacifica e la stabilità». Il presidente ha spiegato al Papa di non volere nessuna escalation a Gaza, ma Israele «non resterà in disparte mentre mina la stabilità o nuoce ai nostri civili».
Stamane Rivlin vedrà il premier Conte e il presidente Mattarella: in entrambi i casi si parlerà dei cambiamenti in corso in Medio Oriente, delle relazioni bilaterali italo-israeliane e della cooperazione. Il presidente Rivlin ha regalato a Bergoglio un bassorilievo realizzato dalla scuola d'arte Betzalel raffigurante la città vecchia di Gerusalemme divisa nelle sue quattro zone e il Pontefice ha ricambiato con il suo Messaggio per la Giornata mondiale della Pace e un medaglione di un'artista italiana che raffigura una spiga di grano nata dal deserto. «Con l'auspicio che la vostra terra si trasformi da un deserto di inimicizia a uno di amicizia tra i popoli» ha chiosato il Papa. «Abbiamo portato l'acqua dal Nord d'Israele e il deserto si è trasformato in un giardino fiorito» è stata la replica di Rivlin.
(La Stampa, 16 novembre 2018)
Israele, le colombe rivalutano Netanyahu: "Ha evitato una nuova guerra a Gaza"
Il quotidiano di sinistra Haaretz difende il ruolo del primo ministro in un momento assai delicato con i palestinesi.
di Umberto De Giovannangeli
Se c'è una persona in Israele che mai e poi mai è stato tacciabile di simpatie verso destra, questa persona risponde al nome di Gideon Levy. Se c'è un giornalista, uno scrittore, che ha sempre, con coraggio e ferrea determinazione, denunciato i guasti prodotti, anche in termini di decadenza morale, dall'occupazione di Israele dei Territori palestinesi, la persona in questione è sempre Gideon Levy. Per questo le sue considerazioni sul terremoto politico in Israele, scatenato dalle dimissioni da ministro degli Difesa di Avigdor Lieberman, destano scalpore, aprendo un dibattito di verità a sinistra. Perché Gideon Levy, bersaglio permanente della destra oltranzista, di certo non annoverabili tra gli amici di Benjamin Netanyahu, ha scritto un articolo, su Haaretz, il quotidiano progressista d'Israele, dal titolo: "Dobbiamo dare credito a Netanyahu: ha prevenuto un'altra guerra a Gaza". E lo ha fatto andando controcorrente, non solo rispetto al tradizionale elettorato di destra, ma anche scontrandosi con una visione "muscolare" della quale si erano fatti portatori, sull'onda dei quasi 500 razzi sparati in pochi giorni da Gaza contro le città meridionali d'Israele, quasi tutti i leader dell'opposizione di centro e di sinistra.
E controcorrente va anche Gideon Levy, quando dice e scrive: "Immagina Yesh Atid (partito di centro e laico, ndr)) e il suo leader (Yair Lapid, ndr) come primo ministro. L'esercito sarebbe già alla periferia di Rafah nella parte meridionale della Striscia di Gaza. I piloti bombarderebbero dall'alto, l'artiglieria dal campo. Gaza sarebbe un cumulo di macerie. Da parte palestinese, centinaia sarebbero morti dopo il primo scontro, proprio come in quell'altra 'meravigliosa guerra', Operazione Piombo Fuso del 2008-09. Nella sua giacca nera, il 'comandante' Lapid avrebbe incitato le sue forze: uccidere, distruggere, cancellare, demolire. La nazione avrebbe esultato e i media 'di sinistra' sarebbero stati a supporto, il coro di guerra unito. Cinquanta giorni di euforia, di orribili uccisioni a Gaza e di ansia e razzi in Israele, che non portano da nessuna parte. Questo è ciò che Lapid ha inteso questa settimana quando ha detto che 'questo è il momento giusto per agire". Imagine. "Immagina Avi Gabbay, leader del partito laburista, come primo ministro. 'La tranquillità è garantita dalla deterrenza, non con il denaro', ha scritto questa settimana... Immagina Tzipi Livni, leader dell'opposizione, che si è scagliata in modo simile: La deterrenza viene creata attraverso gli attacchi militari'. Immagina Ehud Barak (ex primo ministro laburista, ndr) , che ha sentenziato che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, stava 'umiliando Netanyahu'... immagina Avigdor Lieberman che si è dimesso, o Naftali Bennett, che si è prodigato in minacce. Immagina un incubo. Nessuno dei demagoghi di sinistra o destra (come se ci fosse una differenza) offriva altro che morte e distruzione. Volevano semplicemente placare i media, che sono diventati sempre più assetati di sangue e bellicosi che mai, e l'opinione pubblica, che voleva solo vedere gli abitanti di Gaza morti, tanto meglio, con le loro case distrutte il più possibile...".
La conclusione è un salutare, quanto doloroso, ritorno alla realtà: "Solo una persona si è opposta a questa onda oscura senza vacillare; dobbiamo onestamente dirlo e lodarlo: il primo ministro ha bloccato un'altra guerra con il suo corpo. È stato dimostrato ancora una volta che Benjamin Netanyahu è il più risoluto odiatore di guerra tra i leader del Paese. Dovremmo ribadire che, qualunque siano le sue motivazioni, il risultato è sufficiente per ottenere rispetto. Non a causa, ma grazie a lui non è stato versato sangue. E per questo, non possiamo fare a meno di dargli credito". Mai nella sua vita, Levy, icona dell'informazione "radical", ha votato Likud. E certo, assicura, non lo farà neanche la prossima volta. Ma su Gaza, su una guerra che riuniva destra oltranzista e centrosinistra, con esclusione di Meretz (la sinistra pacifista) e i parlamentari della Lista Araba Unita, Netanyahu ha tenuto botta, mettendo in discussione la sua leadership e innescando la crisi del governo di cui era premier. "Su Netanyahu il mio giudizio resta fortemente critico e ritengo che la sua uscita di scena non sarebbe un disastro, tutt'altro, per Israele - dice ad HuffPost il più autorevole storico israeliano, il professor Zeev Sternhell - ma con altrettanta nettezza dico che le cose che ho ascoltato o letto da parte dei dirigenti di una sedicente opposizione, non solo fanno vergognare, ma confermano la loro assoluta incapacità a definirsi come una credibile alternativa, di progetto, di visione, di valori, alle destre che oggi detengono il potere di governo. Quando la sinistra - prosegue Sternhell - insegue la destra sul suo terreno, quello muscolare, non solo perde ragione di sé ma a quel punto, giustamente, la gente vota l'originale e non la fotocopia...".
Il sangue di Gaza chiama in causa i due "Nemici" che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché "compromesso" è una parola che non esiste sia nel vocabolario politico della destra oltranzista israeliana sia in quello di Hamas. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell'altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della "Grande Israele" come della "Grande Palestina". Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché "fare la pace", tra Israeliani e Palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell'altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante. Nello schema di Hamas e in quello della destra oltranzista israeliana non esiste il "centro": chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. I falchi israeliani hanno bisogno di Hamas per coltivare l'insicurezza, per alimentare nell'opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas, può al massimo contemplare una hudna (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. La destra oltranzista israeliana, della quale Lieberman e espressione, non ha solo rimosso la "questione palestinese" come questione politica, ma è andata oltre, innestando sul vecchio discorso della sicurezza minacciata un impianto ideologico di antica data: quello del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, per il quale "Eretz Israel" (la Terra d'Israele) ha il sopravvento su "Medinat Israel" (lo Stato d'Israele). In questa ideologia che si fa pratica di governo, trionfa una visione messianica del ruolo d'Israele e del suo popolo, il popolo eletto. Netanyahu, dicendo no alla quarta guerra di Gaza, ha spezzato questa visione. In questa rottura hanno pesato certamente considerazioni elettorali e lo scontro aperto ormai da mesi nel campo delle destre, per il "dopo-Bibi".
Resta il fatto che, almeno per una volta, ma è una volta importante, Benjamin Netanyahu ha esercitato una leadership pragmatica, che non ha guardato ai sondaggi né cavalcato, come spesso ha fatto in passato, l'insicurezza della popolazione a cui dare risposta praticando sanguinose scorciatoie militari. Ed è per questo, che non vi sarà rimpasto di governo. Perché le due anime della destra israeliana sono destinate a scontrarsi in una campagna elettorale che si preannuncia tra le più dure nella storia di Israele. Margini per un compromesso tattico non sembrano esistere. Oggi, il leader del partito Kulanu (centro moderato) e ministro delle Finanze Moshe Kahlon ha ribadito nel suo incontro con Netanyahu che la cosa giusta per i cittadini e l'economia di Israele è di indire le elezioni il prima possibile. Nel loro incontro, Kahlon ha detto al premier che l'attuale situazione politica non consente la necessaria stabilità economica, e quindi la cosa responsabile da fare è formare un governo nuovo, forte e stabile. Kahlon ha sottolineato che è disposto a coordinare con gli altri partner della maggioranza una crisi di governo "non traumatica". Il presidente di Shas (il partito religioso sefardita) Aryeh Deri, ha fatto eco alle dichiarazioni di Khalon in un incontro con Netanyahu.
Deri ha sostenuto che Israele debba andare alle elezioni il prima possibile e che la data delle elezioni dovrebbe essere stabilita con tutti i diversi leader politici. Con l'uscita dal governo di Lieberman e il ritiro della fiducia da parte dei 6 parlamentari di Israel Beitenu, Netanyahu può contare al momento su una risicata maggioranza alla Knesset: 61 su 120. Ma per tenerla assieme, "Bibi" dovrebbe accettare condizioni pesantissime. Come quella indicata dalla ministra della Giustizia e astro nascente della destra oltranzista, Ayelet Shaked, esponente del partito Habayit Hayehudi, che in una intervista alla Radio militare ha affermato senza mezzi termini che se Netanyahu non nominerà il presidente del suo partito, e attuale titolare dell'Economia, Naftali Bennett, nuovo ministro della Difesa, il partito lascerà la coalizione. Più di Lieberman, è il giovane e ambizioso Bennett, legatissimo al movimento dei coloni, il vero antagonista di Netanyahu per la leadership a destra. E per dirla con Gideon Levy, averlo come futuro premier sarebbe un "incubo". E non solo per Israele.
(L'HuffPost, 16 novembre 2018)
Israele. Resisterà la coalizione dopo le dimissioni del ministro della Difesa?
Il ministro della Difesa Lieberman si è dimesso perché il governo non intraprenderà un'azione militare su Gaza. Netanyahu adesso se dovesse cedere la Difesa a Bennet, che ora è all'Istruzione, rafforzerebbe l'area populista del Likud, tentando di garantire il controllo e la marginalizzazione delle voci più estremiste, almeno fino alle prossime elezioni.
di Giovanni Quer
La riunione del Gabinetto di Sicurezza su Gaza è terminata con la decisione di non intraprendere un'operazione militare. Lieberman, ministro della Difesa, e Bennet, ministro dell'Istruzione, hanno criticato Netanyahu sostenendo che tale decisione avrebbe posto come prioritaria l'intesa con Hamas rispetto alla sicurezza di Israele. Lieberman quindi si dimette: "Il cessato il fuoco è una resa a Hamas", ha dichiarato. A Netanyahu rimangono 61 seggi alla Knesset, cioè una maggioranza risicata (120 in tutto), mentre Bennet vuole diventare ministro della Difesa. Resisterà la coalizione di destra o si andrà a nuove elezioni?
Avigdor Lieberman è diventato ministro della Difesa con proclami guerreggianti, che non ha realizzato, perché, a suo dire, è stato impossibilitato. In realtà, nonostante le sue frequenti dichiarazioni a dir poco contrarie all'accettabile linguaggio politico, Lieberman si è rivelato un uomo, politico, pragmatico. Un risultato positivo del suo mandato è sicuramente il rapporto positivo che ha instaurato con i cittadini di Otef Aza (cioè le comunità che vivono in prossimità della Striscia). Contrariamente a quanto si può pensare, l'area adiacente alla Striscia di Gaza (circa 70mila persone) comprende una popolazione prevalentemente di centro-sinistra e sinistra, con una minoranza che vota per il Likud e per Shas (il partito associato con i haredim orientali). Il loro rapporto con i governi Netanyahu non è mai stato semplice: non sopportano la strumentalizzazione del discorso sulla sicurezza al confine di Gaza per fini politici, e più che altro sono stanchi della mancanza di una chiara politica verso Hamas. Lieberman è riuscito in questi due anni a instaurare un ottimo rapporto con i rappresentanti delle varie comunità, così sostengono vari sindaci e portavoce in un'intervista a YNet.
Le sue posizioni hanno spesso causato scontri con le agenzie di sicurezza. A luglio il capo del Servizio di Sicurezza Generale (Shabak) propone di permettere il ricongiungimento familiare tra Israele e territori palestinesi, causando le ire di Lieberman. Bennet lo ha attaccato per le decisioni troppo poco di destra (così si era espresso in agosto), cui Lieberman ha risposto il mese scorso: "Il ministro dell'Istruzione parli di istruzione e non di sicurezza". A febbraio di quest'anno è resa pubblica la decisione di Lieberman di creare una nuova batteria missilistica che sarà gestita dalla fanteria dell'Idf, altra decisione presa contrariamente all'opinione dei generali israeliani. Il giornale russo Vesti pubblica oggi un articolo di lode a Lieberman, ricordando tra i suoi successi anche la proposta di legge sulla pena di morte per i terroristi.
Il ministero della Difesa in Israele non è una carica politica semplice: in caso di successo, è il primo ministro ad esser coperto di lodi, quando c'è una crisi, è il ministro ad esser coperto di critiche. Le tensioni con Netanyahu e altri leader della coalizione hanno portato alle dimissioni del precedente ministro della Difesa, "Bogie" Ya'alon, che dopo essersi ritirato dalla vita politica si è espresso contro il premier e contro l'area populista del Likud.
Ora è il turno di Bennet, che ha sempre voluto esser ministro della Difesa. Da quando è stato creato il governo, Bennet ha parlato alla stampa quasi esclusivamente di difesa e sicurezza. Tra le critiche al leader del partito "Casa Ebraica" c'è chi sostiene che le mire pugnaci si rivolgano all'elettorato degli ex coloni di Gaza, sostenuti dal movimento dei residenti di Giudea e Samaria, ma che poco abbiano a che vedere con una visione militare che tenga conto delle necessità della popolazione di Otef Aza e degli interessi a lungo termine di Israele. Altri sostengono che Bennet non è l'unico a promettere una politica militare aggressiva, che la realtà poi mitiga per forza di cose.
Bennet mette ora Netanyahu di fronte a un ultimatum: se non avrà la Difesa, uscirà dalla coalizione e si andrà a nuove elezioni (sempre il quotidiano in lingua russa Vesti dà per certo questo scenario). Netanyahu cederà a "Casa Ebraica" per mantenere il governo? Nella formazione dell'attuale governo così è successo, proprio all'ultimo minuto: Netanyahu ha dato al partito di Bennet il ministero della Giustizia, mentre è riuscito a non cedere sulla Difesa.
L'interesse di Netanyahu è mantenere l'attuale coalizione, che avrà però un altro difficile esame la settimana prossima: la legge sul servizio militare, che impone la leva ai haredim (i cosiddetti ultra-ortodossi). Una nuova crisi con i partiti haredi potrebbe portare alla caduta del governo anche se simili conflitti sono stati superati in passato. Le tensioni che "Casa Ebraica" crea con i vari tentativi di cambiare il bilanciamento dei poteri tra ministri e supervisione dell'Avvocatura di Stato non sono sufficientemente gravi per portare a una crisi di per sé, ma si sommano all'attuale precaria situazione.
La caduta del governo porterebbe a nuove elezioni (già si parla di marzo 2019), con un futuro incerto per Netanyahu, che anche all'ombra dei successi nel campo della sicurezza (soprattutto verso l'Iran), ha un minore sostegno popolare. Vero è, però, che non c'è altro leader che sia egualmente carismatico e politicamente abile nell'attuale panorama politico israeliano, o almeno non parimenti carismatico da dettare una scelta popolare nuova in una situazione di precaria sicurezza ai confini.
In questa situazione di crisi i politici del Likud storico stanno alzando la voce, in difesa di Netanyahu e delle posizioni di centrodestra, potendo così rafforzare il partito di fronte ai nuovi leader le cui posizioni si avvicinano a "Casa Ebraica". Dovesse Netanyahu cedere la Difesa a Bennet, sia la realtà politica sia il rafforzamento del vecchio Likud potrebbero garantire il controllo e la marginalizzazione delle voci più estremiste, almeno fino alle prossime elezioni.
(formiche, 16 novembre 2018)
Perché ha ragione Netanyahu ad accettare il cessate il fuoco
Tredici anni di dittatura terroristica a Gaza (giustificata e tollerata dal resto del mondo) hanno messo Israele in una situazione senza altra possibilità che "contenere" lo staterello criminale di Hamas.
Molti israeliani protestano nelle strade di Sderot, e chi potrebbe biasimarli? Hanno trascorso giorni interi a correre da un rifugio all'altro sotto centinaia di razzi sparati da Gaza contro la loro città, e sul resto del sud di Israele, dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica. La loro reazione alla notizia di un cessate il fuoco tra Israele e i suoi nemici non è stata di gioia e sollievo. Sono furibondi che, ancora una volta, Hamas avesse potuto terrorizzare e tenere in ostaggio centinaia di migliaia di israeliani cavandosela a buon prezzo. Più precisamente, accusano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di aver abbandonato loro e il Paese rifiutandosi di rispondere con maggior forza ai 460 razzi lanciati sul sud di Israele in poco più di 24 ore. L'impulso a dire basta una volte per tutte allo stato terrorista di Gaza è quasi irresistibile. Finché Hamas controlla lo staterello palestinese di Gaza, ci sarà sempre un pugnale puntato alla gola d'Israele. Anche nel momento in cui accetta un cessare il fuoco e parla di un possibile accordo con Israele, Hamas non è per nulla interessata alla pace. Il suo obiettivo, sanguinosamente confermato dalle violenze di massa ai confini con Israele chiamate "marce del ritorno", è e rimane la cancellazione dello stato ebraico. Una pace definitiva con Hamas è semplicemente impossibile....
(israele.net, 16 novembre 2018)
Notizie archiviate
Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse
liberamente, citando la fonte.
| |