Notizie 16-30 novembre 2021
In questa pandemia la scienza rinnega se stessa
di Vincenzo Vitale
Il primo aspetto che qui esamino attiene al modo in cui virologi, infettivologi, medici in genere si son proposti sui giornali e in televisione durante questi due anni di pandemia. Quasi tutti, con qualche eccezione – probabilmente Andrea Crisanti – mostrano una spavalda sicurezza che a volte sconfina nella arroganza e nella sicumera, le quali, come è noto, sono la negazione di ogni possibile metodologia scientifica. Lo scienziato che sia e intenda rimanere fedele allo statuto proprio della scienza (anche della medicina, che non è una scienza esatta) sa bene invece che il solo atteggiamento consono è quello dettato da una profonda umiltà, per il semplice motivo che il sapere scientifico procede sempre per via di successive approssimazioni e perciò è sempre revisionabile, anche nelle parti che sembravano in principio più oggettivamente certe. Per questa ragione, ogni scienziato pur affermando la correttezza di una determinata teoria – anche quella in tema di vaccini – la presenta pubblicamente, avvertendo sempre che si tratta di una acquisizione del tutto provvisoria, modificabile, integrabile e perfino falsificabile. Per questo, egli evita accuratamente di farne un feticcio sull’altare del quale sacrificare altre teorie di segno opposto e perfino, come è accaduto, i rapporti con i colleghi. Come dimenticare, infatti, la veemenza arrogante con la quale Fabrizio Pregliasco apostrofò, alcune settimane or sono, il collega Claudio Giorlandino, il quale, in una nota trasmissione televisiva, gli faceva notare che, dopo la mutazione del virus ormai effettiva da diversi mesi, la terza dose non andrebbe fatta, perché gli anticorpi, sensibili al virus pre-mutazione, non si attiverebbero sulle sue varianti? Toni di voce da fiera paesana, interloquire tronfio e proteso a zittire il collega, irrisione pubblica delle sue teorie, insomma l’esatto contrario del comportamento del vero scienziato: ecco come reagì Pregliasco, invece di farsi carico delle osservazioni critiche per accettarle o confutarle razionalmente. Egli non era affatto mosso dall’ansia per la ricerca della verità, ma dalla esigenza assoluta di evitare che i dubbi esternati dal collega potessero aver presa sul pubblico televisivo. Questa non è scienza. In secondo luogo, il vero scienziato non nasconde, neppure in parte, la verità delle cose e per questo non teme neppure di confessare pubblicamente la propria ignoranza, nel caso sia necessario. E tanto egli è disposto a fare per fedeltà alla propria vocazione scientifica: perché sa che ammettere di non sapere – socraticamente – è il solo modo di poter sapere; e che questo è un insegnamento di incalcolabile significato anche per la massa di telespettatori, i quali saranno portati a comprendere le ragioni della scienza più da una ammissione di (temporanea) ignoranza di chi, non sapendo, potrà aspirare a sapere, che dal trionfalismo di chi afferma di sapere, nulla invece sapendo. Per questo, egli dice al pubblico la verità, tutta la verità, anche se sgradevole, dal momento che di dire la verità ha un preciso dovere, essendogli precluso ogni atteggiamento mistificatorio, di occultamento o di imbonimento. Come dimenticare tuttavia il tono di malcelato paternalismo con il quale molti dei tele-virologi ogni sera ci ammanniscono la loro pedagogia spicciola, fondata su una verità da loro proclamata, ma che rimane arcana, inaccessibile, inesplicabile per noi tutti, che – poveretti ! – mai potremo attingerla? Questa non è scienza. Ancora. La vaccinazione a tappeto, omnicomprensiva, indifferenziata, universale – come predicata da indistintamente tutti i nostri bravi tele-virologi – estesa anche ai bambini sotto i dodici anni (in attesa di quella da riservare ai piccolissimi da zero a 5 anni e infine della non più rinviabile vaccinazione intrauterina presto da loro auspicata) è quanto di più assurdo si possa immaginare, ponendosi in contrasto con ogni criterio scientifico di correttezza metodologica. Si pensi che Papa Leone XII, dopo che il suo predecessore Pio VII aveva reso obbligatorio e gratuito il vaccino antivaioloso, abolì la obbligatorietà nel 1823, mantenendo la gratuità: ciò facendo, mostrò uno spirito scientifico di gran lunga più raffinato degli attuali tele-virologi. Infatti, egli delegò ai medici, e soltanto ai medici, di decidere caso per caso se inoculare il vaccino oppure no, così come deve essere per ogni scienza che sia degna di tale nome. Oggi, impera invece la universalità vaccinale indiscriminata e pervasiva. Questa non è scienza. Ancora. Quando si trattò da parte dell’Ema di verificare gli effetti deleteri e perfino letali che Astrazeneca aveva causato in vari Paesi – Italia, Norvegia, Olanda, Francia – il vaccino fu sospeso, ma Ema se la sbrigò in appena tre o quattro giorni, compresi sabato e domenica. Si trattò dunque di un controllo, a tutto voler concedere, soltanto formale, forse cartaceo, comunque estrinseco. In appena tre o quattro giorni è infatti impossibile un controllo non formale, ma capace di verificare realmente la potenzialità nociva del vaccino sugli esseri umani. La cosa fu tanto spregiudicata, da risultare perfino offensiva del buon senso: non occorreva essere medici o scienziati per sentirsi presi in giro da un controllo tanto fasullo quanto ostentato. Questa non è scienza. Infine. Praticamente tutti i tele-virologi, in compagnia di giornalisti e politici, chiedono ossessivamente a tutti noi, da due anni, nientemeno che di aver “fede” nella scienza, al punto che manifesti enormi campeggiano lungo le strade italiane, mostrando sorridenti pargoli che appunto si affidano a benevolenti medici in camice bianco altrettanto sorridenti. Si può mai ripetere impunemente una simile corbelleria? Eppure, la ripetono come nulla fosse, auspicando la fede dei semplici, che sono ovviamente i più numerosi. Peccato che la scienza sia per definizione il regno della conoscenza oggettiva e sperimentale e nulla abbia a che spartire con la fede e neppure con la fiducia che, casomai, va riposta nel medico e non certo nella medicina. Ma chi si cura di esercitare il pensiero con questa piccola riflessione? Pochissimi. Tanto basta per crocifiggere la scienza, ormai moribonda per mano dei tele-virologi, a quello che sembra essere il suo peccato originale: pretendere la sperimentazione e la conoscenza oggettiva e universale. In tal modo, della vera scienza rimane solo la sua grottesca controfigura: quella di un sapere che, non potendo esibire fondamenti oggettivi, invoca la fede dei semplici per ragioni di pura sopravvivenza. Questa non è scienza. Potrei continuare, ma mi fermo qui. Per ora.
(l'Opinione, 30 novembre 2021)
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Censura, bugie, contraddizioni: la scienza al servizio della «guerra»
La confessione di Monti: il sapere non è più ricerca della verità ma gestione del potere.
di Boni Castellane
Perché in tempo di guerra la verità va «somministrata al popolo dosandola dall'alto anche ricorrendo a metodi meno democratici» e questa cosa si può dire senza che il loden faccia una piega anzi con le teste degli astanti che annuiscono come se si trovassero di fronte a una figura spirituale? La risposta è la seguente: perché in guerra esiste un «fine superiore» in base al quale la società umana solitamente accetta di subordinare ogni altro valore e ogni altra consuetudine, finanche la libertà. Questo fine è la vittoria o, per usare termini più inclusivi e meno patriarcali, garantirsi la sopravvivenza. La sopravvivenza è il bene supremo di ogni essere vivente e, per estensione, di ogni consesso sociale. Primum vivere. Qui però nasce una prima obiezione sulla quale non insisteremo: la guerra è la guerra o è anche tutta una serie di cose che «assomigliano» alla guerra? Ai tempi del terrorismo brigatista in Italia alcuni dicevano che eravamo in guerra, e quindi erano lecite le misure eccezionali, e altri invece lo negavano recisamente. George W. Bush dichiarò che gli Usa dopo l'11 settembre erano in uno stato simile alla guerra e promulgò una serie di limitazioni della libertà sulle quali si accese un ampio dibattito che, paradossalmente, vedeva i contestatori e complottisti di ieri trasformati nei più zelanti e obbedienti normalizzatori di oggi. Ma lasciamo stare per carità, Giorgio Agamben e altri scrivono di queste cose ormai da anni. Noi siamo realisti e constatiamo che il Covid, più o meno legittimamente, è considerato dai governi alla stregua di una «guerra». Ne conseguono tutte quelle strane cose che sentiamo dire da mesi: chi non si vaccina è un disfattista, ci vuole il lasciapassare, se non ti vaccini metti in pericolo mio nonno vaccinato, hai paura di andare al fronte, i ragazzi devono sacrificarsi per la patria, eccetera. E naturalmente non deve stupire la finestra di Overton aperta da Mario Monti: basta alimentare i dubbi, filtriamo le notizie. Ma di ciò che successe a Caporetto nel 1917 si seppe o le notizie furono nascoste «per il supremo bene della patria» ? Eccoci giunti alla considerazione decisiva che può spiegare tutte queste incongruenze: ma in base a quale presupposto si può sapere in anticipo quali notizie sono da filtrare, quali nascondere, quali edulcorare e quali sottolineare? Perché posso consigliare il vaccino Astrazeneca ai minori di 60 anni salvo poi sconsigliarlo fino a renderlo introvabile? Perché prima parlo di immunità di gregge, poi dico che non è raggiungibile? Perché i richiami non finiscono mai? E come è possibile che tutte queste contraddizioni convivano tranquillamente, anzi, come auspica il presidente Monti, non debbano essere in alcun modo fatte rilevare? Perché se è vero che la scienza deve seguire il metodo scientifico e quindi procedere per prova ed errore senza stabilire mai una risposta definitiva ma sempre «fino a prova contraria», la moderna gestione del potere non è scientifica ma segue le leggi del materialismo scientifico che si chiama «scientifico» ma che non lo è. In base al materialismo scientifico noi possiamo interpretare in anticipo gli eventi sociali e sappiamo quindi fin dall'inizio cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Conoscere la verità non è il frutto della ricerca ma è il presupposto della gestione del potere. Il potere non deve cercare, il potere deve guidare. E se le cose non vanno come ci aspettiamo? Tanto peggio per i fatti, risponderebbe Johann Gottlieb Fichte. E se il popolo non è d'accordo? Bisognerà sostituire il popolo, direbbe Bertolt Brecht. Quindi ricapitoliamo: siamo in guerra, il Cts (stato maggiore) decide cosa fare, se le cose non vanno come si pensava è un problema dei fatti e se si cambia idea non bisogna dirlo perché in guerra ogni dubbio crea una debolezza. E qual è la cosa che stupisce più di ogni altra? Stupisce scoprire che alcuni materialisti scientifici provengano proprio dalla Bocconi. O forse non stupisce affatto?
(La Verità, 30 novembre 2021)
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Quando il cielo si fa rosso cupo
«Al mattino voi dite: 'Oggi è tempesta, perché il cielo si fa rosso cupo'. L'aspetto del cielo lo sapete dunque discernere; e non sapete discernere i segni dei tempi?» (Matteo, 16:2-3)
Il governo Draghi è un'assoluta novità nella storia della Repubblica italiana. E a quel che sembra, tale vuol essere. Non vuole nasconderlo, sembra anzi intenzionato, con interventi sempre più diretti e calibrati, a far capire ai cittadini che devono prepararsi al nuovo che avanza, evitando di fare inutili riferimenti a norme del passato, a obsoleti diritti umani, perché il nuovo che avanza, sotto la poderosa spinta del nostro premier, è una nuova umanità.
E' indubbiamente un segno dei tempi. Quali? chiederà subito qualcuno. Vuoi forse dire che Draghi è l'anticristo? e che l'imposizione del vaccino è il marchio della bestia dell'Apocalisse? Ci sarà qualcuno che afferma qualcosa del genere, ma se non è così, il discorso è finito? Certo, quanto al marchio della bestia, questo non può essere perché quello biblico deve essere posto sulla mano o sulla fronte. Magari potrebbe essere richiesto in seguito, ma non è detto.
Ci sono due caratteristiche metodologiche che non sono state mai viste prima in questa misura: arroganza e menzogna.
I due articoli che precedono mostrano che arroganza e menzogna sono presenti nel culto che le autorità vogliono imporre ai cittadini: il culto della dea SCIENZA.
La scienza, come presentata oggi dal potere, è una religione. C'è tutto: dogmatica ed etica, grazia e fede, salvezza e perdizione, fedeli e infedeli, puri e impuri. Chi crede che Dio non sia soltanto una metafora è posto davanti a un serio dilemma: a chi devo ubbidire? Molti cristiani evangelici pensano di non doversi preoccupare fino a che le autorità non pongono divieti espliciti ai culti religiosi fatti nel nome di Cristo, ma questo è molto superficiale e rischia di far trovare un giorno i credenti impreparati davanti a scelte di coscienza che non si aspettavano, ma che saranno comunque costretti a fare per esprimere con i fatti CHI è Colui nel quale veramente credono. Pensiamoci. M.C.
(Notizie su Israele, 30 novembre 2021)
Addio Israele, Eitan torna in Italia. La Corte: è sempre stata la sua casa
La decisione sul bimbo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - Ora è definitivo: Eitan Biran, l'unico sopravvissuto alla strage del Mottarone, tornerà in Italia. La Corte suprema israeliana ha dichiarato inammissibile il ricorso del nonno materno, Shmuel Peleg, che l'11 settembre l'aveva condotto in Israele con un jet privato via Lugano, per cui è stato spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale per sequestro di minore. La Corte di Gerusalemme conferma, come i due precedenti gradi di giudizio, che "il luogo normale di vita del minore sia in Italia dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza", nella casa nel Pavese della zia Aya Biran. Ed è lì che deve proseguire la procedura giudiziaria sul suo affidamento, secondo i criteri stabiliti dalla Convenzione dell'Aja sulla sottrazione dei minori. Convenzione il cui principio fondante - scrive il giudice Alex Stein nelle 17 pagine - è "tolleranza zero verso i rapimenti e necessità di restituzione immediata". Decaduta la sospensiva, il bambino può fare rientro in Italia in qualsiasi momento, "non oltre il 12 dicembre". Il passaporto di Eitan, custodito dal tribunale, verrà consegnato alla zia paterna, che da oltre due mesi è in Israele con il marito e le due figlie per seguire il processo. Secondo un portavoce dei Biran, il rientro avverrà in pochi giorni, cercando di mantenere il riserbo per non esporre il bambino a ulteriore stress. Fino ad allora, non è ancora chiaro in che modalità Eitan si separerà dal ramo materno della famiglia, che dalla sentenza di primo grado, il 25 ottobre, ha potuto vederlo solo sotto la supervisione dei servizi sociali. "Una sentenza legalmente, moralmente e umanamente corretta che mette fine a un evento dannoso e inutile", hanno dichiarato i legali dei Biran, Avi Chimi e Shmuel Moran, auspicando che ora i Peleg "abbandonino le battaglie legali e la campagna diffamatoria. E consentano di tornare a un percorso di riabilitazione e di pacificazione". La famiglia Peleg invece anticipa che continuerà "a lottare con ogni via legale per riportare Eitan in Israele". Lo stesso Israele che, comunicano, "oggi ha rinunciato a un bambino ebreo indifeso, cittadino israeliano, senza che la sua voce fosse ascoltata, preferendo farlo vivere in una terra straniera". Per mesi i Peleg hanno ripetuto di aver perso fiducia nella giustizia italiana, contestando le procedure con cui Aya è stata nominata tutrice di Eitan il 25 maggio, due giorni dopo la tragedia, all'ospedale di Torino, nomina confermata poi dal tribunale di Pavia. Su tutte, le presunte irregolarità e vizi di forma sollevati dai difensori del nonno materno, si sono soffermati lungamente anche i giudici israeliani dei diversi gradi, ribadendo che la materia è di competenza dei tribunali italiani. Il 9 dicembre inizierà il dibattimento al Tribunale minorile di Milano sul ricorso presentato dai Peleg per reclamare la tutela conferita ad Aya, che nel frattempo ha avviato la domanda di adozione in Italia. La zia materna Gali, che aveva presentato ad agosto la stessa domanda in Israele, potrebbe ora spostare la pratica in Italia aprendo un'ulteriore ramificazione della vicenda. Shmuel Peleg invece si chiede se e quando potrà rivedere il nipote: non può lasciare Israele, dove è sottoposto a un'indagine parallela per sequestro, né mettere piede in Europa, dove lo attende un mandato di cattura (già eseguito nei confronti del complice Gabriel Abutbul Alon, che guidò l'auto verso Lugano, rilasciato ieri a Cipro su cauzione con obbligo di firma). Eitan torna in Italia, ma sul suo futuro restano ancora molte incognite.
(la Repubblica, 30 novembre 2021)
«Eitan deve vivere in Italia». Da Israele sentenza definitiva
La Suprema Corte ha respinto il ricorso del nonno materno e ha deciso che il
piccolo superstite del Mottarone dovrà ritornare dalla zia paterna entro il 12
dicembre. Ma i Peleg non si arrendono: “continueremo a lottare per lui”.
di Luciano Moia
«Eitan dev'essere riportato in Italia entro il 12 dicembre». In una sentenza di 17 pagine - non appellabile -la Corte Suprema israeliana ha scritto la parola fine per la vicenda del bambino di 5 anni, unico superstite della tragedia del Mottarone. I giudici hanno confermato le precedenti sentenze già pronunciate in Israele, respingendo il ricorso del nonno. Il giudice della Corte Suprema, Alex Stein, ha ricordato che il principio base della Convezione dell'Aja prevede «tolleranza zero verso i rapimenti ed evidenzia la necessità di una restituzione immediata. Non è discutibile - ha sottolineato - che il luogo normale di vita del minore sia l'Italia dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza». Smentita la principale tesi del nonno, secondo cui il ritorno di Eitan in Italia «rischia di provocare» al minore «danni mentali e fisici significativi». Una decisione «legalmente, moralmente e umanamente corretta». Così Shmuel Moran e Avi Chimi legali della famiglia Biran hanno definito la decisione: «È la fine di un episodio sfortunato, per lo più dannoso e inutile per il piccolo Eitan», Ora il piccolo, hanno aggiunto «potrà ora tornare alla sua famiglia in Italia, compresi i suoi nonni, i genitori del suo defunto padre, e a tutte le strutture da cui è stato tolto: mediche, psicologiche ed educative». E a proposito della strenua opposizione mostrata dalla famiglia materna Peleg, l'auspicio degli avvocati «è che ora, in considerazione delle loro azioni e delle conseguenze penali delle loro azioni, sapranno fermare le battaglie legali».
Ma dalla famiglia materna sono invece arrivate parole durissime contro la sentenza e contro lo «Stato d'Israele che ha rinunciato a un bimbo ebreo indifeso e a un cittadino israeliano senza che la sua voce - hanno commentato - venisse ascoltata, lasciandolo in terra straniera, lontano dalle sue radici, dalla sua amata famiglia e dal posto dove sono sepolti i suoi genitori e il fratello». Da qui un proposito chiaro: «Combatteremo con ogni mezzo legale - hanno annunciato - per riportare Eitan in Israele e impedire la rottura del legame, imposta da sua zia, con la famiglia della sua defunta madre Tal».
II 25 ottobre la giudice Iris llotovich Segal del tribunale della Famiglia di Tel Aviv aveva riconosciuto la violazione della Convenzione dell'Aja da parte del nonno materno, che ha portato segretamente Eitan in Israele all'inizio di settembre, e aveva ordinato il rientro del bimbo in Italia. Ma la famiglia Peleg non aveva mollato e aveva presentato ricorso alla corte distrettuale di Tel Aviv, che tuttavia l'aveva respinto, confermando la sentenza del tribunale della Famiglia. I nonni materni avevano giocato l'ultima carta, presentando appello alla Corte Suprema ma anche questa ha dato loro torto. Sull'adozione del bimbo - ha ribadito la Corte Suprema israeliana - sarà la magistratura italiana a decidere.
I Peleg hanno sempre respinto la tesi del rapimento, sostenendo che i genitori del piccolo, ora deceduti, volevano riportarlo in Israele. Opposta la posizione di Aya Biran secondo cui è l'Italia la "residenza naturale" dove il bimbo è cresciuto, l'italiano è la sua lingua madre ed è lì che si svolgeva il suo percorso riabilitativo dopo la tragedia, prima che venisse prelevato dal nonno.
Shmuel Peleg è indagato in Italia per sequestro di minore, insieme a Gabriel Abutbul Alon l'autista del van che l’11 settembre ha condotto nonno e nipote in Svizzera per imbarcarsi alla volta di Tel Aviv. Alon, arrestato a Cipro, è stato scarcerato ieri ma con obbligo di firma e si attende una decisione delle autorità locali sulla richiesta della sua estradizione. Mentre il mandato d'arresto internazionale nei confronti del nonno materno non è stato finora eseguito.
(Avvenire, 30 novembre 2021)
Eitan deve rientrare in Italia: "Qui è dove ha sempre vissuto". La Corte di Israele respinge ricorso del nonno Shmuel Peleg
Entro il 12 dicembre il ritorno nel Pavese con la zia paterna. I nonni materni: "Israele rinuncia così a un bimbo ebreo indifeso in terra straniera". Scarcerato Alon, il paramilitare arrestato a Cipro con l'accusa di aver aiutato il nonno a rapirlo.
di Luca De Vito
La Corte Suprema israeliana ha rigettato il ricorso di Shmuel Peleg, nonno di Eitan Biran. Lo rende noto la famiglia secondo cui il bambino torna ora in Italia come disposto dalle prime due sentenze israeliane. Il piccolo, unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, dovrà rientrare in Italia entro due settimane, la data ultima è il 12 dicembre, con la zia paterna Aya Biran, nella casa in provincia di Pavia dove la donna vive con la famiglia, non lontano da quella dove Eitan, 6 anni, viveva con i genitori e il fratellino, tutti morti nella sciagura che lo scorso 23 maggio provocò 14 vittime. La residenza di Eitan Biran è "l'Italia dove ha vissuto quasi tutta la sua vita": è quanto sostenuto dai magistrati della Corte Suprema che hanno respinto l'appello. Il nonno materno Shmuel Peleg "non ha fornito una base fattuale che faccia temere che il ritorno in Italia posso causare al minore danni psicologi o fisici", si legge nella sentenza, che ne ordina il rientro in Italia entro due settimane.
"Lo Stato d'Israele ha rinunciato a un bimbo ebreo indifeso e un cittadino israeliano senza che la sua voce venisse ascoltata, lasciandolo in terra straniera, lontano dalle sue radici, dalla sua amata famiglia e dal posto dove sono sepolti i suoi genitori e il fratello". E' il primo commento della famiglia Peleg.
Una decisione "legalmente, moralmente e umanamente corretta". Così invece Shmuel Moran e Avi Chimi, legali della famiglia Biran, hanno definito la scelta della Corte Suprema: "Sebbene sia un sospiro di sollievo è la fine di un episodio sfortunato, e per lo più dannoso e inutile per il piccolo Eitan, che potrà ora tornare alla sua famiglia in Italia, compresi i suoi nonni, i genitori del suo defunto padre, e a tutte le strutture da cui è stato tolto: mediche, psicologiche ed educative". Sui Peleg, "speriamo che ora, in considerazione delle loro azioni e delle conseguenze penali delle loro azioni, sapranno fermare le battaglie legali". Dopo aver evocato che "forse, solo forse, le cose possano tornare a una traiettoria ottimistica di riabilitazione e riconciliazione", i legali della famiglia Biran hanno augurato al "piccolo Eitan una vita avvolta dall'amore, che cresca su chi riposa, e che conosca bei giorni di pace e tranquillità".
• Scarcerato con obbligo di firma l'uomo che aveva aiutato il nonno nel rapimento Nel frattempo proprio oggi è stato scarcerato Gabriel Abutbul Alon, il mercenario che era stato arrestato lo scorso 25 novembre con l'accusa di aver aiutato il Shmuel Peleg a rapire Eitan. L'uomo è a casa, con l'obbligo di firma, in attesa di una nuova udienza prevista per il prossimo 2 dicembre: i giudici ciprioti avranno fino a novanta giorni di tempo per decidere sulla richiesta di estradizione da parte della procura di Pavia che ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti del paramilitare e di Peleg. A confermare la notizia è Paolo Sevesi, avvocato difensore di Alon: "I tempi sulla decisione adesso dipenderanno dai giudici ciprioti", ha commentato il legale. Alon era stato arrestato a Limisso, città dell'isola di Cipro. Secondo le indagini, l'11 settembre scorso Alon avrebbe aiutato il nonno di Eitan a rapire il bambino dopo averlo prelevato, durante uno degli incontri periodici autorizzati dal tribunale dei minori, in casa della zia paterna che lo aveva in affidamento. L'uomo è un paramilitare che farebbe parte del gruppo Blackwater "compagnia militare privata tra le più importanti al mondo tanto da essere annoverata tra i contractor di riferimento del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti" come ha scritto il giudice per le indagini preliminari che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare. Dopo la prima udienza di oggi a Cipro, il 50enne - destinatario assieme a Shmuel Peleg dell'ordinanza di custodia in carcere firmata dal gip di Pavia per sequestro di persona aggravato, sottrazione e trattenimento all'estero di minore e appropriazione del passaporto del bambino - è stato scarcerato e per lui è stata disposta la misura dell'obbligo di firma. A riferirlo l'avvocato Paolo Sevesi, legale italiano sia di Alon che di Peleg. Nel procedimento sull'eventuale estradizione, sulla base del mandato d'arresto europeo eseguito quattro giorni fa in un albergo a Limassol, è stata fissata un'altra udienza per il 2 dicembre e la procedura ha un termine massimo di 60 giorni (prorogabili di altri 30). Dall'Italia è già arrivata a Cipro, dopo che gli atti sono passati per la Procura generale milanese e per il Ministero della Giustizia, la richiesta di estradizione per Alon, su cui dovranno esprimersi i magistrati ciprioti. Per ora è stato eseguito solo il mandato a carico del 50enne, che era alla guida della macchina, noleggiata da Peleg, che portò il bimbo da Pavia, dove il nonno era andato a prenderlo a casa della zia per una delle visite autorizzate, fino a Lugano. Per il gip pavese Villani è "pressoché certa" anche la presenza dell'uomo sull'aereo privato che poi ha portato "l'ignaro Eitan" e il nonno fino in Israele. Come "il suo allontanamento, a bordo dello stesso velivolo, alla volta di Cipro", dove Alon, cittadino israeliano, risiede. Su Peleg pende un mandato d'arresto internazionale, non eseguito al momento, e dall'Italia, come riferito dal procuratore facente funzione di Pavia Mario Venditti, è stata inoltrata a Israele richiesta di estradizione. Sul rientro in Italia del piccolo, sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, deve decidere la Corte Suprema israeliana, dopo due provvedimenti favorevoli alla zia paterna e tutrice legale Aya Biran.
(la Repubblica, 29 novembre 2021)
Una decisione "legalmente, moralmente e umanamente corretta", così hanno definito i legali della famiglia Biran la sentenza della Corte Suprema israeliana sul caso Eitan. E non si può che essere d'accordo. Onore a Israele per la decisione presa dalla sua Corte Suprema su un tema scottante e scivoloso. Chi pensava, o forse pensa ancora, di mettersi dalla parte di Israele difendendo i rapitori di un bambino così duramente colpito come Eitan, dovrebbe vergognarsi. Ma forse potrebbero sentirsi in imbarazzo anche i molti che hanno preferito "sorvolare" su un tema all'apparenza spinoso, ma che da un certo momento in poi divenuto molto chiaro. Sia l'affetto parentale, sia l'«amor patrio» espressi dalla parte rapitrice hanno fatto emergere un'oscura morbosità di sentimenti e pensieri che poi hanno portato alla riprovevole azione del "ratto del bambino". Questo non può giovare né al bambino, né alla causa di Israele. Fa piacere quindi poter esprimere pieno apprezzamento della decisione del supremo organo della magistratura israeliana, sia per il contenuto operativo della sentenza, sia per la forma chiara e netta in cui è stata espressa. E all'ambasciatore d'Israele che è stato esaudito da Dio quando ha pregato affinché il bambino potesse risvegliarsi dal coma in cui si trovava dopo l'incidente, si può far sapere che Dio ha esaudito anche chi ha pregato affinché il bambino risvegliato fosse riconsegnato dopo il rapimento nelle mani della zia Aya. M.C.
Il 29 novembre 1947, quando la comunità internazionale decise che poteva nascere di nuovo uno stato degli ebrei
di Ugo Volli
La fondazione dello Stato di Israele, si sa, avvenne il 18 maggio 1948, con la firma della Dichiarazione di Indipendenza, proclamata a Tel Aviv da David Ben Gurion. Ma sei mesi prima circa, a New York, fu approvato l’atto che la rese politicamente possibile, con l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu del piano di Partizione del mandato britannico di Palestina. Era il 29 novembre 1947, esattamente settantaquattro anni fa.
La premessa fondamentale di questo atto era la decisione della Società delle Nazioni (l’antecedente diretto dell’Onu, le cui deliberazioni erano state recepite integralmente alla fondazione di quest’ultimo) che nel 1922 decise l’istituzione di un Mandato (cioè un’organizzazione transitoria semistatale, sotto il controllo internazionale, destinata a un compito specifico) il cui scopo era organizzare la costruzione di una “National home” (espressione che di solito si traduce buffamente come “focolare”, ma significa semplicemente “patria”) per il popolo ebraico, favorendone l’immigrazione e lo stanziamento. La Gran Bretagna, attenta solo a salvaguardare propri declinanti interessi coloniali, tradì quasi subito l’incarico ottenuto, favorendo a scapito degli ebrei le pretese arabe di ottenere per loro anche le terre del mandato, oltre alla Transgiordania e il resto del Medio Oriente. Per questa ragione l’Inghilterra limitò progressivamente sempre più l’immigrazione ebraica, anche quando si trattava di ebrei che cercavano di fuggire dal nazismo. Raramente si parla della complicità britannica nella Shoà, ma su questo punto essa è chiara: degli ebrei tedeschi e dell’Europa orientale si salvarono quasi solo quelli che riuscirono a emigrare, in particolare in Terra di Israele.
Questa politica antiebraica della Gran Bretagna continuò anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando pure gli ebrei del Mandato avevano cessato ogni opposizione e si erano arruolati nell’esercito inglese, costituendo la Brigata Ebraica. Ma di fronte al respingimento sistematico dei deportati che cercavano una casa amica dopo l’orrore dei Lager, come nel caso della nave “Exodus”, l’opposizione ebraica riprese anche con forma molto dure di guerriglia. Contemporaneamente gli arabi continuarono nei loro pogrom contro gli insediamenti ebraici. La situazione era insomma insostenibile e la Gran Bretagna nel febbraio 1947 decise di rimettere il mandato all’Onu.
L'ONU designò il 13 maggio 1947 i membri di un Comitato, l'UNSCOP, composto dai rappresentanti di 11 Stati (Australia, Canada, Guatemala, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Cecoslovacchia, Uruguay, Jugoslavia) a fare proposte per risolvere il problema. L'UNSCOP considerò due possibili decisioni. La prima era la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo indipendenti, con Gerusalemme sotto controllo internazionale (secondo quanto previsto del piano di spartizione proposto nel 1937 dalla Commissione Peel). La seconda prevedeva la costituzione di uno Stato federale, che avrebbe compreso sia una zona ebraica, che una araba (secondo quel che aveva previsto il Libro Bianco accettato nel 1939 dal governo britannico). A maggioranza (sette voti contro tre più un astenuto), l'UNSCOP adottò la prima opzione. Nel settembre del 1947 il piano fu portato a una prima votazione all’Assemblea Generale dell’Onu, che in maggioranza lo approvò, ma non raggiunse il quorum dei due terzi necessario; ci fu poi una seconda votazione il 25 novembre, con lo stesso risultato; finalmente il 29 novembre il testo fu approvato con 33 voti a favore contro 13 e con 10 astensioni. Fra i favorevoli vi erano sia gli Usa che l’Urss, una convergenza allora rarissima, e poi i principali paesi europei. Contrari erano i paesi musulmani. Fra gli astenuti si schierò la Gran Bretagna.
La delibera dell’Assemblea generale dell’Onu (che è un voto politico, senza capacità di creare obblighi giuridici) divideva il Mandato in due zone. Agli ebrei andava la pianura costiera da poco a sud di Tel Aviv fino a Haifa, la Galilea orientale intorno al lago di Tiberiade, il Negev orientale a sud di Beer Sheva, ma senza la costa e parte del confine dell’Egitto. Gerusalemme doveva essere amministrata da un corpo internazionale; agli arabi andavano Giudea, Samaria, Galilea orientale fino ad Acco e la zona di Gaza, molto più ampia di oggi. Era un disegno cervellotico, con due strozzature che dividevano sia la parte araba che quella ebraica in tre zone. Essa riduceva di molto il territorio che il Mandato del ‘22 destinava al popolo ebraico. Ma l’Agenzia Ebraica, che governava allora l’Yishuv, l’insediamento ebraico, su spinta di Ben Gurion decise di accettare. Come racconta Amos Oz in una celebre pagina di Una storia di amore e di tenebra in tutti i quartieri ebraici del paese la decisione dell’Onu fu attesa con ansia e festeggiata con entusiasmo chi rifiutò questo piano (come tutti i tentativi di pace precedenti e successivi) fu la parte araba. Il giorno stesso ricominciarono gli assalti contro le posizioni ebraiche, con la tacita complicità degli inglesi. Quando questi ultimi finalmente si ritirarono, nel maggio dell’anno successivo, e fu proclamato lo stato ebraico nei termini approvati dall’Onu, immediatamente arrivò l’aggressione di sei eserciti arabi, che pensavano di poter facilmente uccidere il nuovo stato nella culla. Ma le cose, come sappiamo, sono andate diversamente. E il 29 novembre resta una data da ricordare, quella in cui la comunità internazionale decise che poteva rinascere dopo venti secoli uno stato degli ebrei.
(Shalom, 29 novembre 2021)
Scontri tra Idf e palestinesi dopo la visita del presidente di Israele alla moschea di Ibrahim
Nella notte si sono verificati scontri tra le Forze di sicurezza di Israele (Idf) e palestinesi, in seguito alla visita del presidente israeliano, Isaac Herzog, alla moschea di Ibrahim, a Hebron, in Cisgiordania. Lo riferisce l’agenzia di stampa palestinese “Wafa”.
La decisione delle autorità di consentire l’accesso al luogo sacro solo agli ebrei durante il mese di dicembre (in concomitanza con la festività ebraica di Hanukkah) ha scatenato l’ira dei palestinesi e i conseguenti scontri tra manifestanti e Idf. La reazione dei palestinesi alla visita del presidente Herzog alla moschea di Ibrahim (chiusa ai palestinesi durante il periodo della Hanukkah, festività ebraica, ha coinvolto diverse città.
A Betlemme, dove gli scontri sono durati tutta la notte, decine di persone sono stato ricoverate con difficoltà respiratorie legate all’inalazione di gas lacrimogeni. Un giovane di 23 anni è stato arrestato dalle forze di polizia israeliane. A Hebron, invece, gli arresti sono stati sei. Intanto il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mohammed Shtayyeh, ha risposto alle dichiarazioni di Herzog, che aveva parlato del “diritto storico degli ebrei sulla città di Hebron”, definendole false e un ennesimo tentativo di “giudaizzazione” del territorio. Secondo il premier palestinese, il fatto che gli ebrei abbiano vissuto a Hebron in antichità è un falso storico inventato dal capo dello Stato ebraico solo per aprire la strada alla giudaizzazione (trasferimento di coloni ebrei) del territorio.
(nova.news, 29 novembre 2021)
Antisionismo e antisemitismo non aiutano per nulla i palestinesi
Nella ricorrenza del 29 novembre i sedicenti amici dei palestinesi dovrebbero capire che il sostegno alle rivendicazioni massimaliste e contro ogni concessione serve solo a perpetuare l’illusoria intransigenza che portò alla nakba.
L’anniversario dello storico piano di spartizione delle Nazioni Unite approvato il 29 novembre 1947 (risoluzione 181) non ci ricorda soltanto che fu il rifiuto palestinese a impedire la nascita di uno stato palestinese accanto a Israele. Ci ricorda anche che coloro che oggi sostengono una posizione intransigente e senza compromessi non fanno che rifilare ai palestinesi la stessa merce avariata che già allora fu una disgrazia per i palestinesi....
(israele.net, 29 novembre 2021)
A piazza Barberini una festa delle luci
Ieri si è celebrata la ricorrenza ebraica dell'Hanukkah. Tantissimi in piazza per l'accensione della Chanukkah
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La presidente della comunità ebraica: «Ogni piccola fiamma ci aiuta a combattere contro l'oscurità»
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di Laura Bogliolo
Bambini con il naso all'insù a piazza Barberini per la tradizionale accensione della Chanukkah, il grande candelabro a nove bracci che celebra la ricorrenza ebraica dell'Hanukkah, una delle feste più sentite dalla comunità in tutto il mondo. Una luce di speranza e di impegno per cancellare il buio, un momento per ricordare la lotta per la difesa della propria identità e del proprio credo, una lotta che affonda le sue radici nel passato, ma che è sempre presente. La "Festa delle Luci" iniziata ieri durerà otto giorni, come vuole la tradizione.
• L’EMOZIONE  La festa celebrata ieri commemora la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata dagli elleni nel II secolo a.e. Riuscirono a liberare il Tempio dove si celebrò il miracolo dell'olio. «La comunità ebraica - ha detto il sindaco di Roma Roberto Gualtieri - è la più antica di Roma, la più romana insomma, si festeggia la difesa dell'identità di un popolo, ma anche il suo essere cosmopolita, è la festa per recuperare la speranza anche di riaccendere le luci della nostra città». Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, ha spiegato: «È la festa che ricorda l'arrivo dei primi ebrei a Roma per chiedere aiuto al Senato perché quella luce che rischiava di essere cancellata doveva essere rinnovata e da allora tra Roma e Gerusalemme, ma anche con Israele c'è un legame indissolubile che la nostra comunità mantiene viva con i nostri sentimenti di pace, luce e convivenza in un epoca di buio in cui le sofferenze sono all'ordine del giorno: siamo convinti - ha concluso - che ogni piccola fiamma aiuti a combattere l'oscurità in cui viviamo e a portare luce dove non c'è». ·
• IL RICORDO Ad accogliere gli ospiti ieri pomeriggio dalle 17.30 in poi è stato il Rabbino Shalom Hazan: «I nostri avi hanno dovuto lottare per inseguire le proprie convinzioni, questa luce che festeggia la loro vittoria rimane sempre attuale, le lotte sono state molte ed esistono ancora oggi, le luci vogliono rappresentare non soltanto la libertà di professare la propria religione senza paura, ma soprattutto di condividere il calore con il mondo intero, vogliamo ringraziare il comune di Roma che da più di trenta anni ci aiuta ad organizzare questo evento, l'Hanukkah indica una festa ma il significato della parola è educazione e inaugurazione, quest'anno l'inaugurazione assume un ulteriore senso perché inauguriamo un nuovo sindaco, cogliamo l'occasione per augurare successo nella guida della città di Roma». Alla festa erano presenti anche Tom Smitham, charges d'affaires dell'ambasciata degli Stati Uniti, il professor Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah, Rav Yitzchak Hazan, Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma.  «Ogni anno dobbiamo sentire il miracolo, il buio non puoi sconfiggerlo con le armi, ma con la luce dello spirito, con le buone azioni, o semplicemente chiedendo "come stai?". Roma - ha detto Rav Yitzchak Hazan - è una città che accoglie tutti, ma noi non siamo ospiti, siamo cittadini e dobbiamo pregare per il luogo dove viviamo». Di Segni ha ricordato l'attualità della lotta «contro chi vuole imporre da fuori il proprio pensiero». Tanti.
(Il Messaggero, 29 novembre 2021)
Israele - Prove generali dello scenario apocalittico
Al via un'esercitazione. Subito stop ai turisti e restrizioni per chi torna dalle aree a rischio.
di Sharon Nizza
TEL AVIV - L'avevano chiamato Omega, l'ultima lettera a disposizione, a simboleggiare lo scenario da giorno del giudizio. «Ci stiamo preparando per una variante che ancora non esiste, in grado di raggirare i vaccini», annunciava il 3 ottobre il premier israeliano Naftali Bennett, anticipando la più grande esercitazione nazionale, formulata come un gioco di guerra, «un evento senza precedenti». Quando questo giovedì all'una di mattina è squillata la linea rossa per riportargli il primo caso di variante sudafricana in Israele, le conclusioni dell"'esercitazione Omega" sono diventate più rilevanti che mai. La simulazione dei possibili scenari di fronte a una "variante letale" si era tenuta a Gerusalemme nella situation room del governo l'11 novembre - due giorni dopo la scoperta della prima infezione da variante Omicron. Nessuno sa ancora dire se Omicron incarni lo scenario descritto da Omega, «ma l'obiettivo è innescare una reazione immediata, a differenza di quanto accaduto con la Delta, i cui primi casi in Israele erano stati rilevati a inizio maggio, ma un'azione risoluta era subentrata con almeno un mese di ritardo», ci dice il professor Nadav Davidovitch, direttore del Dipartimento di Salute pubblica dell'Università Ben Gurion e membro del comitato degli esperti che assiste il governo. Allora, la risposta era consistita nell'avvio della campagna vaccinale per gli over 12 e nella scelta pionieristica di somministrare il booster prima ancora dell'approvazione della Fda. Oggi, una delle lezioni principali apprese nella" situation room Omega" rìguarda la necessità di velocizzare il sequenziamento genetico del virus, che ha portato Israele a scovare nell'immediato il primo caso Omicron.L'esercitazione non è una novità, spiega Davidovitch, ne avvengono ciclicamente per fare fronte a scenari di attacchi cyber o biologici. Ma Omega è stato il primo scenario di guerra in tempi di Coronavirus, supervisionato in prima persona dal premier alla presenza di tutti gli uffici governativi.
Le conclusioni di due settimane fa sono state tradotte nel corso del weekend in: acquisto di 10 milioni di tamponi Per in grado di identificare la nuova variante; quarantena negli hotel Covid per chi (anche immunizzati) rientra da Paesi rossi (principalmente Stati africani, ma la lista potrebbe essere estesa anche a Emirati e Turchia, gli hub principali di voli di connessione); avvio di un pilot per l'installazione di purificatori dell'aria nelle scuole. Inoltre, per due settimane (il tempo in cui si prevedono risposte sul comportamento di Omicron di fronte al vaccino), divieto di ingresso per i turisti (erano stati riammessi solo a novembre dall'inizio della pandemia) e tre giorni di quarantena anche per gli israeliani di ritorno da qualsiasi Paese. Nel frattempo, la protezione civile sta rintracciando tutti quanti siano tornati dall'Africa nell'ultima settimana: dovranno sottoporsi a isolamento e tampone. Le prossime due settimane stabiliranno se si è trattato di falso allarme o di prevenzione critica, ribadiscono gli esperti e in questo limbo la vaccinazione (in Israele ora accessibile dai 5 anni in su) rimane lo strumento più efficace a disposizione.
(la Repubblica, 28 novembre 2021)
Israele: manifestanti marciano contro le restrizioni Covid
Centinaia di manifestanti anti-lockdown si sono riuniti a Tel Aviv, al fine di denunciare le restrizioni messe in atto contro la diffusione del coronavirus.
Molti hanno affermato che la democrazia viene attaccata da regole rigorose.
(Sputnik Italia, 28 novembre 2021)
Il patto tra Israele e Marocco
di Lorenzo Vita
L’accordo concluso tra Israele e Marocco non è un accordo come gli altri. Il memorandum d’intesa firmato dal ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, e l’omologo marocchino, Abdellatif Loudiyi, è un patto che cambia il volto del Nord Africa, con lo Stato ebraico che per la prima volta sugella le relazioni con Rabat non solo a livello di intelligence, ma con canali diretti e cristallini da parte delle rispettive forze armate. Israele ha già accordi con Egitto e Giordania che stabiliscono relazioni in ambito militare e securitario. Ma questa memorandum of understanding con il Marocco è costruito su un piano diverso, che avvicina più agli Accordi di Abramo che a normali accordi di pace. Il patto di Rabat, infatti, rappresenta soprattutto una virata verso una partnership bilaterale che se da un lato mostra l’interesse marocchino ad aprirsi a Israele, dall’altro lato conferma la volontà israeliana di penetrare in Africa settentrionale, costruendo una politica estera che non guarda solo al Medio Oriente. Una svolta che indica la rottura forse definitiva degli schemi che hanno caratterizzato tradizionalmente i rapporti tra Nord Africa e Medio Oriente, e che non può non essere considerata un significativo giro di boa anche per la politica israeliana. “L’accordo consentirà di stringere legami tra le industrie della difesa e di avviare esercitazioni congiunte”, ha detto Gantz. E la visita in Marocco del titolare della Difesa israeliana è stata segnata anche da un primo contratto che conferma l’asse industriale tra Rabat e Gerusalemme. L’esercito marocchino ha infatti annunciato, poche ore prima dello sbarco di Gantz, l‘accordo per l’acquisizione del sistema antidrone israeliano Skylock Dome. Un sistema che, a detta degli esperti, servirebbe soprattutto per arrestare la minaccia di droni da ricognizione. Un problema che per le forze armate marocchine si traduce inevitabilmente nel Fronte Polisario, avversario che da tempo utilizza velivoli senza pilota commerciali per individuare l’eventuale presenza di truppe di Rabat e che ci spiega anche il triangolo che è sorto tra Algeria, Israele e Marocco. Alcuni osservatori parlano anche di un’intesa sulla co-produzione di droni kamikaze: ma i dettagli non sono stati confermanti né tantomeno resi noti. Il Fronte Polisario e l’Algeria sono i due veri obiettivi strategici del Marocco nella stesura di questi accordi di difesa e intelligence con Israele. Le tensioni tra Rabat e Algeri sono aumentate negli ultimi tempi e non è un caso che il presidente del Consiglio della nazione, Salah Goudjil, abbia reagito all’accordo tra Israele e Marocco dicendo che “l’Algeria è stata presa di mira”. Parole che riguardano non solo l’ultimo accordo concluso da Gantz e Loudiyi, ma anche la visita del ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, e le accuse nei confronti di Rabat di avere utilizzato il software israeliano Pegasus per spiare personalità algerine e di avere utilizzato droni di fabbricazione israeliana per colpire un gruppo di autotrasportatori dell’Algeria. Imputazioni che il Marocco ha rispedito al mittente, ma che dimostrano la tensioni crescenti tra i due Stati così come il motivo del coinvolgimento di Israele in questo scontro solo apparentemente nordafricano. Per il Marocco la partita è molto importante. Rabat ha ottenuto, ai tempi di Donald Trump, il sostegno degli Stati Uniti per la sovranità sul territorio conteso ai ribelli del Polisario, ma la conferma di questo supporto Usa si fondava anche sulla politica marocchina nei confronti di Israele. Lo Stato ebraico non ha particolari questioni aperte con l’Algeria, ma ha necessità di uscire dal “guscio” mediorientale per muoversi in modo più libero e ufficiale anche nel grande scacchiere nordafricano. Per fare questo, occorre un riconoscimento internazionale che non è mai apparso scontato. La stabilizzazione delle relazioni con il Marocco può essere un passaggio fondamentale.
(Inside Over, 28 novembre 2021)
Festa delle luci
La celebrazione ebraica di Hanukkah
di Marco Cassuto Morselli
La festa di Hanukkah ricorda un piccolo miracolo relativo all'olio della Menorah, il candelabro d'oro del Tempio. Nel 165 avanti Cristo, Yehudàh ha-Makkabì riesce a sconfiggere l'imponente esercito dei seleucidi, entra a Gerusalemme, si reca al Tempio e costruisce un nuovo altare al posto di quello che era stato profanato. Ebbene, di questa importante vittoria militare cosa viene ricordato ogni anno? Un dettaglio apparentemente marginale: era rimasta soltanto un'ampolla di olio puro, contenente quanto era sufficiente per illuminare la Menorah per un giorno, che durò invece per otto giorni, il tempo necessario per preparare il nuovo olio. La festa è ricordata nel Nuovo Testamento: «Ricorreva in quei giorni la festa di Hanukkah (enkainia, dedicazione) in Gerusalemme, era inverno, e Yeshùa passeggiava nel Tempio sotto il portico di Shelomòh» (Giovanni, 10, 22-23). Per comprendere l'importanza di questa festa dobbiamo ricordare qual è la funzione della Menorah e come essa abbia avuto origine: «HaShem parlò a Moshèh dicendo: "Ordina ai figli d'Israele di portarti olio puro di olive schiacciate per l'illuminazione, per far ardere un ner tamìd, un lume perenne. Al di fuori della cortina della testimonianza, nella tenda dell'incontro, lo preparerà Aharòn dalla sera alla mattina davanti ad Ha-Shem, legge perenne per le vostre generazioni. Sulla Menorah pura preparerà i lumi davanti ad Ha-Shem perennemente"» (Levitico, 24, 1- 4). L'illuminazione della dimora di Ha-Shem è stata sempre avvertita come qualcosa di molto importante, a cui provvedere con particolare cura. Essa non è legata soltanto alla necessità concreta di fare luce, ma esprime anche la persuasione che questa luce sia un'epifania del divino. In un orizzonte segnato dalla convinzione che le realtà terrene non sono altro che un riflesso delle realtà celesti, il culto terreno è visto come sèlem e demùt, immagine e somiglianza del culto che si attua nel Tempio dei cieli, quel Tempio descritto nella visione di Yeshayàhu/Isaia (Isaia, 6,1 e seguenti) e nell'Apocalisse. Per questo c'era bisogno di un ner tamid, di un lume che splendesse ininterrottamente davanti al Santo dei santi come segno del kavòd/ gloria e dell'èsed/grazia di Ha-Shem. In Esodo, 25, 31-40 troviamo precise istruzioni per la costruzione della Menorah: «Farai una Menorah di oro puro; la Menorah, il suo piede e il suo fusto saranno lavorati a martello, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori saranno tutti d'un pezzo con esso. Sei bracci usciranno dai suoi lati, tre bracci della Menorah da un lato e tre bracci della Menorah dal secondo lato. Tre calici in forma di fior di mandorlo sopra un braccio con bocciolo e fiore, tre calici in forma di fior di mandorlo sopra l'altro braccio, con bocciolo e fiore. Così per i sei bracci uscenti dalla Menorah. Nella Menorah ci saranno quattro calici in forma di fior di mandorlo con i loro boccioli e i loro fiori: un bocciolo sotto due bracci che escono da essa e un bocciolo sotto due altri bracci che escono da essa; così per i sei bracci uscenti dalla Menorah. I suoi boccioli e i suoi bracci saranno tutti d'un pezzo con essa, il tutto d'un solo pezzo di oro puro lavorato al martello. Farai anche le sue lampade in numero di sette. Si metteranno le lampade in alto, in modo che essa faccia luce sul davanti. I suoi smoccolatoi e i suoi piattini saranno di oro puro. Di un talento di oro puro lo si farà, essa e tutti questi utensili. Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte». La così minuziosa descrizione di questo splendente candelabro ci fa comprendere l'importanza simbolica dell'oggetto, che va ben oltre la sua funzione concreta. Si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un albero fiorito, pieno di boccioli e di calici, che evoca l'es ha-ayìm, l'albero della vita piantato nel Gan Eden. La Menorah può essere considerata una sorte di sineddoche del Bet ha-Miqdàsh, ossia una parte che rinvia al tutto. L'oggetto in sé non è più visibile da secoli e secoli, è stato distrutto o nascosto, eppure proprio dal momento in cui le sue tracce si perdono, la sua immagine, pregna di tutta la sua forza simbolica e spirituale, si imprime ancora di più nel cuore d'Israele, ed è divenuta un riferimento fondamentale per l'identità del popolo ebraico e per la sua speranza di restaurazione messianica. L'immagine della Menorah si è moltiplicata in innumerevoli creazioni artistiche, non solo ebraiche ma anche cristiane, dai primi secoli ai nostri giorni. Da quando il Tempio non esiste più, le luci della Menorah non sono più state accese. Però per otto giorni l'anno in molte parti del mondo vengono accese le luci della Hanukkiyah, un candelabro a nove bracci. Il nono lume, lo shammàsh, è stato aggiunto perché la luce di Hanukkah non può servire ad alcuno scopo pratico, e dunque nessun lume può essere acceso da un altro lume: il nono lume serve per accendere gli altri. Ciò su cui è però importante riflettere è perché sia stato aggiunto l'ottavo lume. In una settimana, l'ottavo giorno è per così dire un tempo al di fuori del tempo, un tempo escatologico, messianico. Se il sette è il naturale, l'otto rappresenta il sovrannaturale, l'aldilà del tempo. Vi è una luce che precede in Bereshìt/Genesi la creazione del sole, della luna e delle stelle: è una luce che proviene dall'origine, una or ganùz, una luce che è stata nascosta ma che è conservata per i giusti nel mondo a venire. E questa la luce di Hanukkah, memoria e speranza dei giorni in cui la luce di Ha-Shem illuminerà di nuovo il mondo. Si potrebbe dire che la Hanukkiyah è una Menorah che porta in sé la memoria del miracolo degli otto giorni, un oggetto impregnato di ricordo e di speranza. E un testimone dello splendore della Menorah che si manifesterà in tutta la sua pienezza nell'olàm ha-ba, nel mondo a venire. All'inizio dell'inverno, nei giorni più bui e freddi dell'anno, piccole luci si accendono, ogni giorno di più. La speranza d'Israele risplende nelle tenebre della storia, luce per illuminare le genti.
(L'Osservatore Romano, 28 novembre 2021)
Ridiamo una storia agli ebrei di Libia
Inizia oggi a Roma un convegno internazionale che riapre una pagina dimenticata del nostro passato. Con ferite da sanare.
di Lara Crinò
«Nel 2002 mi serviva il certificato di nascita di mia madre perché potesse rinnovare il passaporto. Ho chiesto aiuto all'ambasciata italiana a Tripoli. Così abbiamo scoperto che in un ospizio della città c'era una donna con il suo stesso cognome. Era una sua cugina, che pensavamo fosse morta. Era l'ultima ebrea rimasta in Libia. Ho scritto a Gheddafi, mi hanno concesso un visto umanitario e sono andato a trovarla. Era chiusa nel silenzio, in una sorta di letargia psichica. Quando sono arrivato le ho parlato ma non ha mostrato nessuna reazione. Solo quando siamo rimasti soli ho tirato fuori dalla camicia la mia medaglietta con la stella di Davide gliel'ho messa al collo. Lei ha alzato la testa, mi ha chiesto in arabo che cos'era, mi ha chiesto chi ero, di chi ero figlio. Non vedeva la sua gente da quarant'anni. E mi ha detto portami via, non posso essere sepolta qui, perché hanno distrutto i nostri cimiteri». In questo ricordo, che lo psicanalista David Gerbi evoca nel suo studio romano di Trastevere mentre racconta come è nato l'impegno per salvaguardare la memoria della sua comunità, c'è in nuce la storia degli ebrei di Libia nel Novecento: minoranza antichissima in quella terra, costretta alla diaspora e all'esilio da una discriminazione sempre più manifesta, da pogrom e uccisioni, fino alla fuga definitiva dal Paese nel 1967, dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni. Non sono rimasti ebrei in Libia, le loro proprietà sono state confiscate dal governo libico alla fine degli anni Sessanta e sui cimiteri sono state volutamente costruite autostrade, edifici, pompe di benzina. Non esiste più un luogo dove pregare per i propri morti. Ed è per questo che uno degli obiettivi del convegno internazionale che si svolge a Roma fino al 5 dicembre, dal titolo Storie di rinascita: gli ebrei di Libia, è proprio restituire virtualmente a chi è partito uno spazio dove ricordare i propri defunti. Organizzato da Astrel, l'associazione per la salvaguardia e la trasmissione del retaggio degli ebrei di Libia, di cui Gerbi è presidente, il convegno vedrà la presentazione del sito con una ricostruzione virtuale dei cimiteri dissacrati in Libia e la possibilità per i discendenti di aggiungere i nomi dei propri parenti sepolti laggiù; al cimitero romano del Verano verrà posta l'anno prossimo una lapide con gli stessi nomi. Ma sarà soprattutto un'occasione, attraverso i tanti testimoni che parteciperanno ai lavori, di dare volto e voce a un pezzo di storia che si è incrociata più volte con quella d'Italia. Come spiega lo storico Maurice Roumani, autore di Gli ebrei di Libia. Dalla coesistenza all'esodo (Castelvecchi) che è tra gli ospiti del convegno e che ha fatto della vicenda degli ebrei nei paesi arabi il focus della sua carriera accademica, dagli Stati Uniti all'università Ben-Gurion, il rapporto della minoranza ebraica col potere nelle terre libiche conobbe nei secoli un andamento altalenante. «Se sotto gli ottomani gli ebrei erano soggetti a discriminazioni rispetto ai musulmani, dalle tasse a uno status inferiore, l'arrivo degli italiani nel 1911 sancì la loro emancipazione e l'integrazione nella nuova colonia. Pur restando legati alle loro tradizioni, gli ebrei si europeizzarono; per questo le leggi razziali del 1938, imposte anche nella colonia, furono un colpo durissimo». Il primo di una serie: allo scoppio della Seconda guerra mondiale gli ebrei libici con passaporti inglesi e francesi vennero considerati traditori. Deportati in Italia e nei territori francesi d'Oltremare, molti finirono nei lager; chi rimase fu preso di mira dalle autorità italiane, come racconta uno dei sopravvissuti che interverrà a Roma, Moshe Labi, con deportazioni nei campi libici, razzie, minacce di morte. Coloro che dopo il conflitto tornarono in Libia non si trovarono però al sicuro: «l'Amministrazione Militare Britannica che si instaurò nel 1943 non fu migliore» spiega ancora Roumani, ricordandone l'incapacità di difendere gli ebrei dai pogrom arabi (nel 1945 a Tripoli, con 130 morti, poi nel 1948). Un clima di terrore che spinse molti a emigrare; tra il 1949 e il 1951, il 90% dei circa 36 mila ebrei di Libia scelse di andare in Israele. Chi rimase, per necessità familiari o motivi economici, si rese conto che le promesse fatte dalla nuova monarchia instauratasi nel 1951 venivano disattese: gli ebrei non potevano frequentare l'università, le scuole ebraiche erano chiuse (molti studiarono infatti in scuole italiane) il panarabismo rendeva la loro posizione sempre più precaria. Ascoltando le tante interviste, oltre 50, che David Gerbi ha realizzato a chi allora era bambino o ragazzo (visibili su www.astrelorg e su youtube, sono parte del patrimonio del Museum of the Jewish People di Tel Aviv), e che in questi giorni interverrà al convegno, c'è una nota comune: il crescendo di abusi che portò alle violenze del 1967. La guerra dei Sei giorni e la vittoria di Israele scatenarono la furia popolare: le grida della folla nelle strade dei quartieri ebraici, i portoni dati alle fiamme, i parenti rapiti, uccisi, scomparsi. Fino ai ponti aerei e via nave verso l'Italia che tra giugno e luglio di quell'anno trasportarono gli ebrei libici in salvo. Da quel momento inizia un'altra storia: di esilio, di nostalgia, ma anche di rinascita. Chi è fuggito - con "una valigia di cartone e 20 sterline", ricordano tutti, perché così dettava il governo libico - si è ricostruito una vita. Integrandosi nel Paese che l'ha accolto, Italia, Stati Uniti, Israele, e talvolta tacendo su quella tragedia. Ora invece molti progetti di Astrel sono per i ragazzi delle scuole. Perché passare il testimone serve anche a questo. A curare le ferite dei profughi, a non far scomparire la loro storia nel buio dei drammi del XX secolo.
(la Repubblica, 28 novembre 2021)
Accordi di Abramo, il ruolo del Marocco e di Israele
Gli Accordi di Abramo, fortemente voluti e siglati con la mediazione dell’amministrazione U.S.A. fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan hanno portato alla luce delle nuove potenzialità di sviluppo sia a livello economico che culturale.
di Gabriele Mele
Gli accordi di Abramo, inizialmente siglati tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Israele (con la regia di Washington) il 13 agosto del 2020, che hanno dato il via alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra questi stati, il 10 dicembre del 2020 sono stati sottoscritti anche dal Marocco. In cambio, e contestualmente, gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale. Quest’area, un tempo controllata dalla Spagna, è sempre stata rivendicata dal Marocco, nonostante l’opposizione internazionale e la resistenza del Fronte Polisario. Secondo le fonti giuridiche, delle scuole sunnite marocchine, il re del Marocco Mohammed VI della dinastia alauita è l’unico sovrano arabo che possa vantare una discendenza diretta dal Profeta in quanto discendete dal matrimonio tra Fatima (la figlia di Maometto) ed Alì il quarto Califfo “ben guidato”. Questo fattore, seppur poco noto all’opinione pubblica occidentale, ha invece determinato una fondamentale influenza nel mondo islamico tanto più che il “rifiuto di Israele” sia scaturito anche da una motivazione di matrice religiosa. Come è stato specificato nella dichiarazione congiunta tra Israele e Marocco, sono state concesse licenze alle compagnie aeree israeliane per il trasporto di membri della comunità ebraica marocchina e di turisti israeliani in Marocco a partire dal prossimo dicembre. Inoltre, i due Paesi daranno nuova linfa ai contatti diplomatici e ufficiali e incoraggeranno delle misure volte ad una cooperazione economica in diversi settori tra cui: commercio, finanza e investimenti, innovazione e tecnologia. A testimonianza di questi fattori sulla sicurezza è stato siglato un accordo dai ministri della difesa il 24 Novembre scorso contestualmente alla visita di Gantz e inoltre anche nell’ambito dello scambio culturale come statuito da una nota congiunta dello scorso 7 Novembre.
• IL RUOLO DI MOHAMMED VI
Un ruolo decisivo è stato svolto da Mohammed VI. Nel sistema costituzionale marocchino, infatti, il monarca ha la qualifica di Emiro dei Credenti (quindi dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei) e svolge un ruolo primario nelle scelte di politica estera che attengono anche alla religione. In questo modo viene rimarcata la piena legittimità costituzionale a deliberare un accordo che porti il nome Abramo, il Profeta riconosciuto dalle tre Religioni del Libro. Questo cambiamento è avvenuto dopo che negli anni Cinquanta e Sessanta decine di migliaia di ebrei, perseguitati, erano stati costretti a fuggire dal Marocco verso Israele. D’altro canto, Hassan II nel 1991 aveva nominato André Azoulay, di religione ebraica, consigliere della Corona rappresentando una novità clamorosa tra i paesi islamici. Inoltre, Mohammed VI aveva indicato un’ebrea marocchina Audrey Azoulay, figlia di André, alla direzione dell’Unesco nel 2011 e aveva promosso con forza innovativa una nuova costituzione che riconoscesse gli ebrei come parte integrante del popolo marocchino: «L’Unità del Regno del Marocco, forgiata dalla convergenza delle sue componenti arabo-islamiche, berbere e sarahawi si è nutrita e arricchita delle sue affluenze africane, andaluse, ebraica e mediterranee».
• LA CONTRAPPOSIZIONE CON TEHERAN
Non stupisce peraltro che il Marocco apprezzi in particolar modo la dichiarata matrice in contrapposizione a Teheran dell’Accordo di Abramo. Da anni esisteva una forte polemica con il regime degli ayatollah mentre Rabat era tradizionalmente in sintonia con l’Arabia Saudita. Il monarca marocchino ha difatti interrotto le relazioni diplomatiche tra Marocco e Repubblica Islamica dell’Iran nel maggio del 2018 come risposta al riconoscimento da parte di Teheran della Repubblica Democratica Araba del Sarahawi, governata dal Fronte del Polisario. Tutti questi elementi hanno costituito per Israele un ulteriore rafforzamento non solo geopolitico ma anche di penetrazione economica in Africa come emblema della strategia prioritaria di politica estera. Il Re del Marocco ha ribadito chiaramente la sua posizione in merito alla questione palestinese, cioè strutturata sulla soluzione dei due Stati in grado di far convivere fianco a fianco, in pace e sicurezza, israeliani e palestinesi. In questo scenario il monarca Mohammed VI, in quanto presidente del Comitato di Gerusalemme, ha promesso di preservare il carattere islamico della Città Santa. In conclusione, lo scorso 11 agosto il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid è volato verso Rabat diventando così il primo ministro degli Esteri a visitare il Marocco dal 1999 e con il suo omologo marocchino ha firmato numerosi accordi sulla base di quello già stipulato lo scorso dicembre per inserire un ulteriore tassello verso la lunga e complicata normalizzazione delle relazioni politiche.
(Africa, 27 novembre 2021)
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Naaman il Siro
Dalla Sacra Scrittura
2 RE, cap. 5
- Or Naaman, capo dell'esercito del re di Siria, era un uomo in grande stima ed onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui l'Eterno avea reso vittoriosa la Siria; ma quest'uomo forte e prode era lebbroso.
- Or alcune bande di Sirî, in una delle loro incursioni, avean condotta prigioniera dal paese d'Israele una piccola fanciulla, ch'era passata al servizio della moglie di Naaman.
- Ed ella disse alla sua padrona: 'Oh se il mio signore potesse presentarsi al profeta ch'è a Samaria! Questi lo libererebbe dalla sua lebbra!'
- Naaman andò dal suo signore, e gli riferì la cosa, dicendo: 'Quella fanciulla del paese d'Israele ha detto così e così'.
- Il re di Siria gli disse: 'Ebbene, va'; io manderò una lettera al re d'Israele'. Quegli dunque partì, prese con sé dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro, e dieci mute di vestiti.
- E portò al re d'Israele la lettera, che diceva: 'Or quando questa lettera ti sarà giunta, saprai che ti mando Naaman mio servo, perché tu lo guarisca dalla sua lebbra'.
- Quando il re d'Israele ebbe letta la lettera, si stracciò le vesti, e disse: 'Son io forse Dio, col potere di far morire e vivere, che colui manda da me perch'io guarisca un uomo dalla sua lebbra? Tenete per cosa certa ed evidente ch'ei cerca pretesti contro di me'.
- Quando Eliseo, l'uomo di Dio, ebbe udito che il re s'era stracciato le vesti, gli mandò a dire: 'Perché ti sei stracciato le vesti? Venga pure colui da me, e vedrà che v'è un profeta in Israele'.
- Naaman dunque venne coi suoi cavalli ed i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo.
- Ed Eliseo gl'inviò un messo a dirgli: 'Va', lavati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana, e tu sarai puro'.
- Ma Naaman si adirò e se ne andò, dicendo: 'Ecco, io pensavo: Egli uscirà senza dubbio incontro a me, si fermerà là, invocherà il nome dell'Eterno, del suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata, e guarirà il lebbroso.
- I fiumi di Damasco, l'Abanah e il Farpar, non son essi migliori di tutte le acque d'Israele? Non posso io lavarmi in quelli ed esser mondato?' E, voltatosi, se n'andava infuriato.
- Ma i suoi servi gli si accostarono per parlargli, e gli dissero: 'Padre mio, se il profeta t'avesse ordinato una qualche cosa difficile, non l'avresti tu fatta? Quanto più ora ch'egli t'ha detto: - Lavati, e sarai mondato'? -
- Allora egli scese e si tuffò sette volte nel Giordano, secondo la parola dell'uomo di Dio; e la sua carne tornò come la carne d'un piccolo fanciullo, e rimase puro.
- Poi tornò con tutto il suo séguito all'uomo di Dio, andò a presentarsi davanti a lui, e disse: 'Ecco, io riconosco adesso che non v'è alcun Dio in tutta la terra, fuorché in Israele. Ed ora, ti prego, accetta un regalo dal tuo servo'.
- Ma Eliseo rispose: 'Com'è vero che vive l'Eterno di cui sono servo, io non accetterò nulla'. Naaman lo pressava ad accettare, ma egli rifiutò.
- Allora Naaman disse: 'Poiché non vuoi, permetti almeno che sia data al tuo servo tanta terra quanta ne portano due muli; giacché il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifizi ad altri dèi, ma solo all'Eterno.
- Nondimeno, questa cosa voglia l'Eterno perdonare al tuo servo: quando il mio signore entra nella casa di Rimmon per quivi adorare, e s'appoggia al mio braccio, ed anch'io mi prostro nel tempio di Rimmon, voglia l'Eterno perdonare a me, tuo servo, quand'io mi prostrerò così nel tempio di Rimmon!'
- Eliseo gli disse: 'Va' in pace!'
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IL GENERALE NAAMAN
Lettura fantastica di II Re 5.1-19
di Marcello Cicchese
C'era nel paese di Siria un generale che si chiamava Naaman. Quest'uomo era potente e famoso, e il Re di Siria lo stimava molto e lo teneva in grande considerazione perché per mezzo suo la nazione aveva vinto molte guerre e si era guadagnata il timore e il rispetto dei vicini. Ma questo generale potente e famoso, che sul piano militare aveva raggiunto le più alte vette del successo, sul piano personale aveva un piccolo cruccio: era lebbroso. Il generale Naaman, che davanti a un normale nemico avanzante con un regolare esercito di uomini armati di lance e spade non aveva mai avuto né dubbi né timori, davanti a un nemico subdolo e inafferrabile come la lebbra si sentiva impotente e sprovveduto. Che fare? In famiglia ne parlavano spesso. Avvenne così che un giorno una serva della moglie del generale si rivolse alla sua padrona e disse: «Ah, se il signor generale potesse incontrare il profeta che c'è al mio paese! Sono certa che lui lo guarirebbe.» La signora ne parlò al marito. Ma il generale non restò del tutto convinto. La serva era una ragazzetta ebrea avuta in dono da alcuni predoni siri che a loro volta l'avevano rapita nel paese d'Israele durante una delle loro solite scorribande. Per il generale non era facile mandar giù l'idea che un personaggio del suo rango dovesse ricorrere ai buoni consigli di una ragazzina ebrea per riuscire ad avere ragione di quel suo particolare nemico che era la lebbra. Una serva! Donna! Serva di sua moglie, un'altra donna! Ebrea! E quanto al guaritore, anche lui un ebreo, cioè un abitante di quell’odiato e disprezzato paese che da tempo la Grande Siria teneva in posizione di vassallaggio. Non era possibile. Per motivi di principio, di prestigio. Così pensava il generale, in certi momenti. In altri però, quando la lebbra si faceva particolarmente sentire, fastidiosa e tenace, il generale si chiedeva se per caso, chissà, forse, in mancanza di meglio, non valesse la pena di tentare anche la carta del guaritore ebreo. Stretto da un lato dall'intenso desiderio di guarire e dall'altro dalla responsabile consapevolezza che per un uomo del suo rango ogni fatto privato è sempre anche un fatto politico, decise di seguire la via gerarchica e si rivolse al suo diretto superiore, Sua Maestà il Re di Siria.
«Mio caro Naaman», gli rispose il Re dopo averlo ascoltato con benevolenza, «capisco il tuo problema personale e per i servizi che hai reso alla nazione ben volentieri vedrei soddisfatti i tuoi desideri. Temo però che la tua più che comprensibile voglia di guarire ti abbia un po' oscurato il giudizio e impedito di avere una visione lucida e realistica della situazione. Ti farò allora qualche domanda, e tu rispondimi. Da quand'è che in quello squallido paese d'Israele si trovano uomini capaci di guarire dalla lebbra? Guarire un lebbroso è come risuscitare un morto! E sarà proprio in Israele che andremo a cercare chi è capace di risuscitare i morti? La servetta di tua moglie va dicendo che al suo paese c'è un profeta che è capace di farlo! E si capisce! Lui è un profeta, e quindi può mettere in movimento la forza del suo dio. Così veniamo a sapere che in Israele ci sono divinità così potenti da riuscire a risuscitare i morti. In Israele! Nella Grande Siria, invece, no! E il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria dovrebbe andare di persona ad implorare uno stregone samaritano di convincere il suo dio a guarirlo dalla lebbra! Dovremmo dunque ammettere pubblicamente che il dio che protegge Israele è più grande e potente del dio di Siria? Non è questo un affronto blasfemo al nostro dio, l'eccelso, temuto e venerato Rimmon? E poi spiegami: se il dio degli Ebrei è così potente, più potente del nostro, com'è che noi possiamo andare e venire nel paese d'Israele quando e come ci pare? Com'è che possiamo imporgli tutte le tasse che vogliamo? Com'è che ci possiamo prendere tutto quello che ci pare e piace senza chiedere il permesso a nessuno? E quella tua ragazzetta ebrea che va facendo propaganda allo stregone di Samaria, come spiega che il suo grande profeta non è stato capace di impedire ai nostri uomini di prendersela e portarsela via? Mio caro Naaman, mi sorprendi! Proprio tu, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, vorresti offendere i nostri dèi e umiliare la nostra grande nazione andando a mendicare i favori del miserabile dio di quel miserabile paese?»
Il generale stava sulle spine. «Ha ragione, ha ragione», seguitava a ripetere tra di sé, «si può essere più stupidi di così? Ma che idea m'è venuta di stare a sentire le chiacchiere di quelle donne! Io, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria. Che figura!» Il Re, che a parlare del prestigio della Grande Siria si era infervorato, stava fissando intensamente il generale. D'improvviso s'accorse dello stato di cupa prostrazione in cui era sprofondato il povero Naaman e si pentì un po' della durezza con cui aveva parlato. Il fedele servitore di mille battaglie stava lì, davanti a lui, a capo chino, con la sua lebbra e la sua umiliazione. «Tuttavia», continuò il Re in tono più disteso, «mi rendo conto che per chi, come te, cerca disperatamente una via d'uscita dalla sua sofferenza, anche i ragionamenti più semplici e lineari possono essere poco convincenti. E poiché non vorrei che tu mi accusassi in cuor tuo di ingratitudine, voglio mostrarti la mia buona volontà tentando tutto quello che è possibile tentare. Dicono che in Israele si può avere la guarigione? Benissimo, allora andremo lì e ce la prenderemo. E' un nostro diritto. Siamo o non siamo i più forti? In Israele ci siamo sempre presi tutto quello che volevamo: terre, denaro, schiavi. Perché non dovremmo prenderci anche la guarigione dalla lebbra? Si potrebbe imboccare subito la via della forza, ma forse è più saggio tentare prima una via più morbida. Israele è un paese vassallo e i paesi vassalli vanno, sì, spremuti, ma per quanto è possibile è bene evitare il nascere di pericolose reazioni. Andremo per via diplomatica. Ma faremo valere tutto il peso politico della nostra forza militare. Scriverò io stesso una lettera al Re d'Israele, in tono gentile ma fermo, e senza mezzi termini gli chiederò di guarirti dalla lebbra. E sarai proprio tu, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, a portargliela in forma ufficiale. Quando ti avrà visto arrivare e dopo che avrà letto la mia lettera, sta tranquillo che se davvero in Israele c'è qualcuno capace di guarirti, ci penserà lui a farsi in quattro per trovarlo. Naturalmente mi guarderò bene dal menzionare la serva di tua moglie o lo stregone samaritano. Il Re di Siria non può rischiare di esporsi al ridicolo. Sono affari del Re d'Israele: se lo cerchi lui, il guaritore, se veramente ce l'ha. Tu arriverai lì in forma ufficiale, accompagnato dal tuo seguito, portando una formale richiesta del Re di Siria. E poiché abbiamo scelto la via diplomatica, non arriverai a mani vuote ma, secondo il protocollo, consegnerai opportuni regali al Re che ti ospita. A questo punto i casi sono due: o torni guarito, oppure... oppure, e questo forse è il lato più interessante della faccenda, il Re d'Israele sarà costretto a commettere uno sgarbo verso di noi. E gli sgarbi verso il Re di Siria si pagano sempre, non è vero, caro Naaman? Chissà che alla fine di questa strampalata vicenda la Grande Siria, condotta dal suo prode generale Naaman, non riesca ad annettersi un' altra fetta di territorio a spese d'Israele. Eh, Naaman, che te ne pare?» Naaman stava ascoltando, ammirato, sorpreso dai fini risvolti politici che il suo acuto sovrano sapeva sempre trovare e che a lui, uomo d'armi, non passavano mai nemmeno per la testa. Ma davanti al lucido quadro presentatogli dal Re, per la prima volta in vita sua cominciò a sperare che la Siria non riuscisse a ingrandirsi.
Quando il maestoso convoglio entrò in città, la popolazione di Samaria si mise subito in subbuglio. Immediatamente si sparse la voce che si trattava di un altissimo personaggio: nientedimeno che il famoso generale Naaman, il temutissimo capo dell'esercito di Siria. Che era venuto a fare? La gente stava con il fiato sospeso, temendo il peggio: da un po' di tempo dalla Siria arrivavano solo cattive notizie. Non sarà mica una dichiarazione di guerra? Se questo era lo stato d'animo della popolazione, quello del Re non era migliore. Con trepidazione aperse il plico che il messaggero siriano gli aveva messo tra le mani, e dopo averlo letto sbiancò in volto. Ma cercò di contenersi. Con poche parole congedò il messaggero dicendogli che avrebbe fatto avere al più presto una risposta e immediatamente diede ordine di convocare il Gran Consiglio. «La situazione è gravissima», comunicò il Re, concitato, ai membri riuniti del Gran Consiglio. «La Siria comincia a muoversi, e dopo questo primo passo c'è solo da chiedersi quale sarà il successivo. Sentite che cosa mi scrive il Re di Siria:
Caro Collega, spero che tu stia bene con tutta la tua famiglia. Mi permetto di disturbarti per un piccolo favore che vorrei chiederti. Si tratta di Naaman, il mio fedele e valoroso condottiero. Ha la lebbra. Ti prego di guarirlo. Grazie. Cordiali saluti, Il Re di Siria
Preparati al peggio, ai Consiglieri la lettera non sembrò così tragica: qualcuno si arrischiò perfino a dire che, dopo tutto, il Re di Siria chiedeva soltanto un favore, e anche in modo molto garbato. A questo punto il Re, che aveva già i suoi buoni motivi per essere nervoso, andò su tutte le furie. «E voi sareste i Consiglieri del Re? Quelli che mi dovrebbero aiutare a governare la nazione? Si può essere così ingenui, così ottusi, così privi di senso politico da non capire che il Re di Siria mi chiede, nella forma più gentile, una cosa semplicemente impossibile? Sono forse il Padreterno, io? Ho forse il potere di far morire e vivere, da riuscire a guarire un uomo dalla lebbra? E credete che il Re di Siria non lo sappia? Credete davvero che si aspetti che io gli guarisca il suo scagnozzo dalla lebbra? E' chiaro come la luce del sole: cerca solo un pretesto per aggredirci e invadere il nostro paese.» E al colmo dell'indignazione si stracciò le vesti e abbandonò rabbiosamente la sala del Gran Consiglio.
I giorni passavano e la situazione non si sbloccava. Il Re, non sapendo come rispondere e temendo di far precipitare la situazione, cercava di prendere tempo. Ma da Naaman arrivavano ormai segnali di impazienza. Il Re era sull'orlo della disperazione. Inaspettatamente, quando ormai l'incidente diplomatico sembrava inevitabile, si aprì un piccolo spiraglio di salvezza nella forma di un messaggio che il Re trovò sul suo tavolo. Era di Eliseo, il profeta di Samaria. «Perché ti disperi?» diceva il messaggio «E' vero che tu non sei Dio e non hai il potere di far morire e vivere, ma sei il Re di una nazione che ha come Dio Colui che ha il potere di far morire e vivere, il Dio che ha dimostrato la sua potenza e la sua misericordia liberando il suo popolo dalle mani del Re d'Egitto. Manda pure da me il tuo temuto personaggio, e così vedrà e potrà riferire al suo sovrano che in Israele ci sono davvero i profeti del Dio vivente.» Al Re d'Israele non parve vero di poter dare finalmente una risposta a Naaman, anche se, a dire la verità, non capiva bene che cosa esattamente si proponesse di fare Eliseo. Non avrebbe scommesso su una conclusione positiva di tutta la faccenda, ma almeno poteva far mostra di buona volontà e prendere un altro po' di tempo.
La risposta del Re però non piacque al generale. Aveva l'impressione di non essere trattato con tutti i dovuti riguardi. Il profeta, e non lui, avrebbe dovuto spostarsi. Il Re avrebbe dovuto convocare a corte l'esperto di guarigioni e offrire all'ospite i suoi servizi. In fin dei conti, lui era andato in visita dal Re d'Israele e non da un anonimo profeta. Tuttavia, anche se infastidito, non considerò opportuno rompere a questo punto i rapporti diplomatici col Re straniero. La cosa non gli sembrava conveniente né per il bene della sua nazione, né per il bene suo personale. In fondo, un po' di speranza ce l'aveva ancora. Ma era mischiata a incertezza e irritazione; e il risultato era un confuso stato d'animo di risentita attesa e trepido nervosismo. Alla fine il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria si decise, e l'imponente carovana di carri, cavalli, bagagli e uomini si mosse alla volta della casa del profeta.
Dopo un viaggio né breve né facile, il convoglio si arrestò davanti alla casa di Eliseo. Qui il generale ebbe un nuovo motivo per innervosirsi: ad aspettarli non c'era nessuno. Nessuna accoglienza, nessun ricevimento ufficiale, nessun discorso, niente. E del profeta neppure l'ombra. Passò un po' di tempo, e finalmente dalla casa uscì qualcuno. «Alla buon'ora», pensò Naaman. «il profeta si è deciso a venire fuori.» L'uomo si avvicinò al convoglio e chiese di parlare col capo della spedizione. Lo condussero subito al carro del generale. «Il profeta Eliseo manda a dire che oggi è molto occupato», comunicò l'uomo allo sbigottito Naaman, «e purtroppo non può riceverla. Però dice che non importa perché sa già tutto. E’ sufficiente che Lei raggiunga il fiume Giordano e vi si immerga per sette volte di seguito. Vedrà che poi starà subito bene.» Detto questo salutò, si girò, tornò indietro e sparì dentro la casa. Dopo qualche attimo di silenzioso smarrimento il convoglio ebbe modo di assistere a una delle famose, formidabili scenate di furore del generale. «Basta!» prese a urlare il generale facendosi udire distintamente anche da quelli dell'ultimo carro. «Quello che è troppo è troppo! Qui mi si prende in giro! Qui si vuole coprire di ridicolo il nome del Re di Siria che io rappresento. Il Re samaritano mi spedisce dal profeta e il profeta senza nemmeno guardarmi in faccia mi spedisce al fiume. E io qui a fare la figura dell'allocco! Basta! La storia è finita, la faccenda è chiusa. Si torna a casa. Aveva visto giusto il mio Re: può forse venire qualcosa di buono da questo lurido paese? Andiamo via, andiamo via subito! Ma torneremo, ah se torneremo! E non più a portare regali e chiedere favori. Se ne accorgeranno!» Il convoglio si era ormai incamminato sulla via del ritorno, ma il generale non riusciva ancora a calmarsi. «E' mai possibile», diceva a quelli che gli stavano intorno, «trattare in questo modo il rappresentante del Re di Siria? Tutto mi potevo aspettare fuori che una cosa come questa! M’aspettavo che lui uscisse fuori, che mi venisse incontro con i suoi servi e mi ricevesse con tutti gli onori. E poi pensavo: si fermerà lì, davanti a me, mi esaminerà con attenzione, dirà le sue preghiere, invocherà il suo dio, agiterà la mano, la poserà lentamente su di me e, tra lo stupore di tutti, farà avvenire il prodigio: l'inguaribile lebbroso guarisce. Gridi di meraviglia, lacrime di commozione, abbracci, regali, manifestazioni di reciproca simpatia fra le due nazioni, progetti di scambi culturali fra i due popoli. E invece niente. “Vatti a lavare nel Giordano.” Come se ci mancassero i fiumi, a noi, in Siria! Non bastano i fiumi di Damasco? No, quelli non vanno bene! Per guarire bisogna venire in Israele! Ci vuole il Giordano! Ci ha le acque miracolose, il Giordano! Cialtroni, pezzenti!»
I servi di Naaman ascoltavano, in silenzio, non osando interrompere quel fiume infocato di parole. Erano abituati a subire gli scoppi d'ira del loro collerico generale; eppure, nonostante tutto, gli volevano bene. Perciò pensavano che era un peccato sprecare in quel modo una buona occasione come quella. Loro, le questioni di principio non le capivano. Capivano solo che il loro generale se ne tornava a casa con la lebbra e che invece, dopo tutto, si poteva anche tentare. Alla fine uno dei servi si fece coraggio e ci provò. «Signor generale», cominciò con cautela «Lei ha tutte le ragioni e quello che dice è giustissimo. Ma supponiamo che il profeta le avesse chiesto di portargli una pelle di leone, Lei che avrebbe fatto?» «Dieci gliene avrei portate. Li avrei ammazzati io stesso, i leoni, con le mie proprie mani.» «E se le avesse chiesto la testa di dieci nemici?» Il generale scoppiò in una risata. «Cento, duecento gliene avrei portate. Sarebbe stato per me un vero piacere ammazzare qualche centinaio di nemici con la speranza di guarire dalla lebbra.» «Vede dunque che in questi casi Lei avrebbe seguito le indicazioni del profeta. E l'avrebbe fatto anche senza essere sicuro al cento per cento che poi sarebbe veramente guarito. Anche adesso Lei non è sicuro di poter guarire; però, solo perché il profeta le ha chiesto una cosa facile facile, Lei si offende, torna a casa e rinuncia anche a provare! Ci pensi, signor generale! In fondo, che le costa? Male che vada, avrà solo fatto un bagno in più per niente.» A sentire queste parole così prive di ogni senso dell'onore, così piene di basso e servile utilitarismo, il generale si sentì fremere. Stava per sbottare un'altra volta, ma poi si trattenne. La voglia di guarire c'era ancora; e l'indignazione non riusciva a coprire del tutto la delusione. «In fondo, che le costa?» aveva detto il servo. «Ma è mai possibile», pensò il generale ricominciando a fremere, «che qui per venire fuori da questa faccenda bisogna stare a sentire solo donne, ebrei e servi? Ma com'è potuto succedere che io, il Capo Supremo dell'Esercito del Re di Siria, mi sia andato a ficcare in un affare basso e meschino come questo?» Alla fine però il basso utilitarismo dei servi ebbe il sopravvento e il generale andò al fiume. Quando, dopo la settima immersione, uscì dall'acqua, Naaman si sentì un uomo nuovo: rinnovato non solo nella pelle, ma anche sotto la pelle, dentro. Una sensazione nuova, strana: non era più un generale, era un uomo. Un uomo che prima era stato lebbroso e adesso era sano, pulito. L'imponente convoglio ripartì immediatamente in direzione della casa del profeta.
Quando Naaman vide Eliseo, si gettò senza alcun ritegno ai suoi piedi. Era felice, e la felicità gli aveva fatto dimenticare il senso dell'onore. Ai piedi del profeta gli uscirono di bocca parole che mai avrebbe pensato di pronunciare in vita sua: «Ora riconosco che soltanto in Israele e in nessun altro posto della terra si trova l'unico vero Dio.» Detto questo però, da uomo d'azione qual era, fu preso dalla voglia di fare qualcosa, non sembrandogli possibile che lui dovesse soltanto ricevere senza riuscire a fare o a dare niente. Si ricordò dei regali che aveva portato, e ad uno a uno li tirò fuori e li mostrò al profeta, scongiurandolo di accettarne qualcuno. Ma Eliseo rifiutò tutto. «Io sono un servo dell'Eterno», rispose pacatamente, «e quello che ti ho dato non è mio, ma del mio Signore. Come potrebbe un servo accettare qualcosa in cambio di un dono che il suo padrone ha fatto ad altri? Com'è vero che il Signore vive e che io sono suo servo, non accetterò nulla.» Naaman provò a insistere in tutte le maniere, ma Eliseo fu irremovibile. Non riuscendo a lasciare niente in dono, Naaman pensò di lasciare almeno una promessa. «Prometto solennemente», proclamò con voce grave, «che mai più in vita mia offrirò sacrifici a dèi di altri paesi. Concedimi, ti prego, ch’io possa caricare due muli con sacchi di terra d’Israele, in modo che anche in Siria io possa adorare l’unico vero Dio su terra benedetta. Solo l'Eterno d’ora in poi voglio adorare, e nessun altro.» Eliseo lo stava ascoltando, assorto. Naaman lo guardò e, chissà perché, si sentì a disagio. Improvvisamente il generale si ricordò della sua posizione di uomo di Stato e, un po' imbarazzato, si sentì in dovere di fare una precisazione. «Ecco, però, vedi, c'è una cosa che devo dire. Come certamente saprai, la mia carica pubblica m'impone degli obblighi a cui, anche con tutta la più buona volontà, non mi posso sottrarre. Come sai, il Re di Siria, nella sua ignoranza, adora ancora il dio Rimmon. Io invece no, non più. Io adesso ho capito che il Dio d'Israele è l'unico vero Dio, però quando il Re di Siria entra nel tempio di Rimmon per inchinarsi davanti a lui, s'appoggia al mio braccio, e quando s'inchina lui mi devo inchinare anch'io. Ma t'assicuro che anche se m'inchino, in quel momento è solo l'uomo pubblico che s'inchina, non l'uomo privato. Io m'inchino solo di fuori, non di dentro, capisci?» «Capisco», rispose dolcemente Eliseo con un impercettibile accenno di sorriso sul volto, «capisco. Va', va' in pace.»
La maestosa carovana riprese lentamente la via del ritorno. Sui carri gli uomini erano silenziosi: c'era una strana calma nel convoglio. Uno dei servi dell'ultimo carro, riandando con la mente ai fatti accaduti, pensava: «Abbiamo seguito il nostro generale in questa sua strana battaglia contro Israele alla conquista della guarigione dalla lebbra. Abbiamo provato a intimorire il nemico col nostro prestigio, e non ci siamo riusciti. Abbiamo provato a comprarlo col nostro oro, e non ci siamo riusciti. Ce ne torniamo a casa col nostro oro e senza il nostro prestigio. Mi sbaglierò, ma questa volta il nostro eroico generale ha perso una battaglia. Però è strano. Di solito chi perde una battaglia ne esce fuori con le ossa rotte, ferito, trucidato, maciullato. Per la prima volta vedo un uomo che comincia una battaglia da malato, la perde, e ne esce fuori sano. Sì, in questo strano paese d'Israele c'è un Dio strano e succedono cose strane.»
Considerazioni aggiuntive dell'autore
Questo racconto è stato scritto circa trent'anni fa quando non m'interessavo ancora di sionismo. La finale del racconto: "Sì, in questo strano paese d'Israele c'è un Dio strano e succedono cose strane", fa capire che è proprio dalla fede nel Dio della Bibbia che nasce il mio particolare interesse per Israele. La storia del sionismo mi ha attratto proprio per la divina "stranezza" di quello che negli ultimi anni è accaduto a questo "strano" popolo. Dico subito allora che questo racconto non è un'opera letteraria che trae spunto da un racconto biblico. Opere di questo tipo ce ne sono in giro fin troppe, e purtroppo in molti casi sono deleterie. Tanto più deleterie quanto più sono belle, perché portano i lettori ad ammirare l'arte dell'uomo e a trascurare la verità di Dio. Questo racconto vuol essere "esegesi narrativa", cioè un uso della fantasia umana per attirare l'attenzione sulla verità dei fatti di Dio. Il racconto è ironico perché ritengo che questo sia lo stile usato dal Signore per far avvenire questo fatto e farlo arrivare fino a noi in forma scritta. Si fa fatica a capire e gustare l'ironia di Dio. Quando il beffardo incredulo parla di Dio con ironica leggerezza, pensa forse di elevarsi su di Lui usando forme canzonatorie, ma non sa che sta cercando miseramente di imitare Dio nei suoi rapporti con gli uomini, quindi anche con lui. Un esempio di ironia divina si trova poco dopo il fatto di Naaman. Il re di Siria sta cercando affannosamente Eliseo; gli viene riferito che si trova a Dotan; allora manda un grande esercito di soldati, cavalli e carri con l'ordine di accerchiare la città. Ma Dio acceca i soldati e Eliseo li avverte che sono sulla strada sbagliata, che non è questa la città dove devono andare, e si offre di condurli dall'uomo che cercano. E li conduce ... al centro di Samaria. Lì il re d'Israele vorrebbe cogliere la ghiotta occasione per trucidare i soldati nemici, ma Eliseo lo ferma e gli dice che cosa deve fare: "Metti davanti a loro del pane e dell'acqua, affinché mangino e bevano, e se ne tornino al loro signore". Così fece il re, e la conclusione fu che "le bande dei Siri non vennero più a fare incursioni sul territorio d'Israele". Ma forse la prima occasione in cui appare l'ironia di Dio nella Bibbia si trova nel racconto della torre di Babele. Quante profonde riflessioni sono state fatte su questo episodio, indubbiamente di enorme importanza, perché costituisce uno snodo della storia umana, ma non ho mai visto sottolineato l'aspetto ironico dell'agire di Dio. Dopo il diluvio gli uomini avevano ricevuto da Dio l'ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra. Ma col passar degli anni evidentemente avevano dimenticato quell'ordine, anzi si direbbe che avevano proprio dimenticato che esiste un Dio che dà ordini. E si diedero da soli l'ordine di tenersi tutti uniti al fine di costruire insieme, d'amore e d'accordo, una società gloriosa in un mondo perfetto. Si vedono allora questi industriosi uomini che si incitano l'un l'altro, e nel loro incitarsi ripetono due volte l'esortazione havà (הבה) che solo nella vecchia Riveduta viene tradotta intelligentemente con un Orsù. "Orsù (הבה), facciamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco" (v.2), cioè usiamo la nostra intelligenza per costruirci strumenti adatti, manipolati dall'uomo, e non semplici pietre tratte così come sono dalla terra. E poi: "Orsù (הבה), edifichiamoci una città che giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama" (v.4), poniamo cioè la nostra umanità nel posto più alto che ci sia, in modo che nulla e nessuno possa gloriarsi più di noi. E che fa Dio? Manda giù fulmini per annientare i ribelli? No. Agli industriosi uomini che si dicevano l'un l'altro: Orsù (הבה), saliamo verso il cielo, Dio dal cielo risponde: Orsù (הבה), scendiamo... sulla terra. E sappiamo come va a finire.
Se abbiamo anche noi un senso dell'ironia come trasmessoci da Dio, saremo in grado di capire che questa è una presa in giro degli uomini da parte di Dio. Una presa in giro benevola, come quella usata verso il re di Siria, perché serve a impedire che gli uomini, nella loro stupida sicumera arrivino davvero a costruirsi una torre sotto le cui macerie sarebbero poi rimasti sotterrati dopo il suo crollo. Dio non li punisce, non li combatte, non li rimprovera, non si fa nemmeno sentire. Tacitamente si limita a confondere i loro linguaggi. E non è detto che gli uomini si siano accorti che era stato Dio. Chissà quali intelligenti teorie avranno elaborato i dotti di quel tempo per spiegare il fenomeno senza far intervenire "l'ipotesi Dio", perché evidentemente non scientifica. E l'ironia di Dio continua ad aleggiare sugli uomini anche oggi. Il progetto della Torre di Babele è stato ripreso. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
(Notizie su Israele, 28 novembre 2021)
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Piazza Barberini risplende per la festa di Hanukkah
Domani alle 17.30 appuntamento per l'accensione del candelabro
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Alla cerimonia inaugurale sarà presente anche il sindaco Gualtieri
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di Emiliano Bernardini
Per la trentaquattresima volta a Roma si accenderà domani pomeriggio (ore 17:30) a piazza Barberini la Chanukkia: il candelabro a nove bracci testimone della festa che ricorda la miracolosa vittoria dei Maccabei contro l'occupazione ellenica dell'antica Giudea e la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme profanato dai pagani. La cerimonia è organizzata dal movimento ebraico Chabad-Lubavitch. Il candelabro a nove braccia non verrà acceso soltanto nella piazza della capitale, ma si illuminerà in contemporanea con molte altre città di tutto il mondo (da Londra a New York, da Mosca a Rio de Janeiro). Ovunque sarà presente un emissario del Movimento Chabad - Lubavitch ci sarà un candelabro acceso. Gli otto lumi della Chanukkià saranno accesi, uno ogni sera della festa di Hanukkah che dura quest'anno dall'28 fino al 6 dicembre. Detto anche il Festival delle luci, è una celebrazione di otto giorni che cade ogni anno nella data del calendario ebraico del 25 Kislev, che generalmente cade a dicembre nel calendario gregoriano. All'evento centrale saranno presenti il Sindaco di Roma Roberto Gualtieri, l'Ambasciatore di Stati Uniti Lewis Eisenberg, l'Ambasciatore di Israele Dror Eydar, il Questore di Roma, Mario della Cioppa, L'On. Pier Ferdinando Casini. il Dr. Gianni Letta, il Rabbino Yitzchak Hazan (organizzatore dell'evento), Noemi Laufer Presidente Unione delle Comunità Ebraiche, Ruth Dureghello Presidente della Comunità Ebraica, e altri Autorità.
• LA STORIA
La grande festa delle luci (o dei lumi) commemora la nuova consacrazione di un altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la riconquistata libertà da Antioco IV, che nel II secolo avanti Cristo lo aveva trasformato in un luogo di culto pagano. E tentato anche di sradicare elementi fondamentali della religione ebraica, proibendo la pratica della Legge sacra fino a una rivolta guidata da un anziano sacerdote, Giuda Maccabeo. Dopo la riconquista di Gerusalemme, Maccabeo ordinò di purificare il Tempio, di ripristinare l'Arca dell'Alleanza e che le luci del candelabro fossero riaccese. Le candele avrebbero dovuto ardere per otto giorni di fila, alimentate da olio di oliva puro, ma purtroppo si trovò l'olio sufficiente per un solo giorno. Gli ebrei prepararono un candelabro di stagno e ferro e accesero ugualmente i lumi. Miracolosamente, l'olio durò per tutti gli otto giorni dei festeggiamenti. Un miracolo che a distanza di millenni si continua a commemorare, tra lo stupore e il fascino di fedeli e laici.
(Il Messaggero, 27 novembre 2021)
Perché Schwarz (Lidl) compra la XM Cyber di un ex-Mossad
La società di sicurezza informatica israeliana XM Cyber, co-fondata dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo, sta essere acquisita dal gruppo tedesco Schwarz. Ecco numeri e ragioni dell’accordo.
di Giuseppe Gagliano
La società di sicurezza informatica israeliana XM Cyber, co-fondata dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo, è in procinto di essere acquisita per 700 milioni di dollari dal gruppo tedesco Schwarz, un rivenditore multinazionale con un fatturato annuo di affari pari a circa 140 miliardi di dollari.
Il più grande rivenditore d’Europa, Schwarz Group, gestisce grandi catene alimentari come Lidl e Kaufland. L’anno scorso, la multinazionale è entrata nello spazio del cloud computing, annunciando che stava costruendo la propria piattaforma di cloud computing per i rivenditori, chiamata Stackit, per competere con AWS (Amazon Web Services), Microsoft e altri importanti fornitori di cloud.
Per quanto riguarda la società Informatica israeliana XM Cyber, (XM sta per ex-Mossad) è stata fondata nel 2016 da Pardo, Noam Erez, un esperto della comunità dell’intelligence israeliana da 25 anni, e Boaz Gorodissky, un veterano della comunità di intelligence da 30 anni.
L’azienda, con sede a Herzliya, ha affrontato le minacce informatiche dal punto di vista di un hacker e la sua piattaforma automatizzata di simulazione delle minacce persistenti avanzate lavora per trovare nuove esposizioni, vulnerabilità e credenziali sfruttabili, configurazioni errate e attività degli utenti che potrebbero potenzialmente mettere le organizzazioni a rischio di attacco.
Ebbene, non solo i clienti di XM Cyber includono grandi istituzioni finanziarie, organizzazioni sanitarie e società di infrastrutture critiche in Europa e negli Stati Uniti ma la società è recentemente entrata nel mercato degli Emirati Arabi Uniti come parte di un consorzio guidato da Rafael per fornire soluzioni che soddisfano le “esigenze di infrastrutture e servizi critici a livello nazionale, per fornire difesa contro attività dannose, guerra informatica da parte di attori statali, nonché hacker indipendenti, per proteggere beni come trasporti, petrolio e gas, produzione, acqua e fognature, infrastrutture energetiche”.
Quale valutazione possiamo dare di questa acquisizione? In primo luogo, sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra e soprattutto in Israele ex funzionari dell’intelligence – secondo la logica delle porte girevoli – passano dal pubblico al privato; in secondo luogo le agenzie di intelligence e informatica israeliane stanno ormai diventando le più importanti a livello globale e tutto ciò comporta un rischio evidente per la sicurezza nazionale: cosa garantisce infatti che queste società private non trasmettano agli apparati di sicurezza governativi di Israele tutte le informazioni sensibili ricavate?
(Startmag, 27 novembre 2021)
L'asta nazista scuote la Germania. La comunità ebraica: "Fermatela"
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO - Vanno via come il pane. Il banditore in completo color fumo e cravatta rossa batte un cimelio dopo l'altro. Gli acquirenti sono collegati in streaming, ma per partecipare bisogna farsi autorizzare via mail. Per vedere anche le foto serve un secondo via libera. E poi si parte col martelletto che batte ogni pugno di secondi la galleria degli orrori. E il prezzo che aumenta di cento, trecento, cinquecento euro mentre sfilano oggetti di dubbio valore storico e alto valore feticistico, letti dal banditore con voce neutra.
Bum. Via i sei bicchierini da liquore di Hermann Goering a tremila euro. Bum. Via lo schizzo di Adolf Hitler "L'opera in Linz" a 1.400 euro. Bum. Via la dichiarazione firmata dal Führer sulla questione dell'Alto Adige a 5.400 euro. Bum. Via un cucchiaio d'argento della cancelleria del Reich a mille euro. Bum. Via una valigia di Eva Braun a 4.000 euro. Bum, via elmetti e berretti della Wehrmacht, uniformi delle SS, baionette, pugnali, modellini di panzer, stemmi della Gioventù hitleriana, simboli dei Freikorps, medaglie, croci di ferro. Decorati invariabilmente con svastiche, rune, aquile naziste.
La casa d'aste di Monaco "Hermann Historica" non demorde. Dopo il putiferio scatenato dalle precedenti aste di memorabilia nazisti, ha organizzato una nuova vendita di oggetti provenienti dal dodicennio più atroce della storia. E anche stavolta ha ignorato le proteste indignate della Comunità ebraica europea (EJa). «È disgustoso», ha commentato il capo dell'Eja, Rabbi Menachem Margolin. «Non riesco a capire come un'asta del genere possa essere organizzata proprio in Germania». E proprio a Monaco, si potrebbe aggiungere, dove cominciò, per usare la famosa definizione di Brecht, la "resistibile ascesa" di Adolf Hitler con il putsch del 1923 e che rimase una delle incrollabili roccaforti delle camicie brune.
Per Margolin «questi oggetti sono macchiati col sangue di milioni di persone. Non possono essere venduti. "Hitler vende" non è una scusa». L'obiettivo «sarà quello di far bandire questi memorabilia dal mercato e limitare queste aste alle istituzioni culturali come i musei. È un lavoro lungo, ma una condanna dal governo per un commercio così disgustoso dovrebbe essere il punto di partenza, in attesa di una legge».
Il governo, precisa a Repubblica Alex Benjamin, direttore dell'Eja, «ci ha detto che non può fare nulla contro l'asta; è legale e hanno le mani legate». Ma Benjamin insiste: «Se gli oggetti d'avorio sono banditi dalle aste, perché non accade lo stesso con questo tipo di oggetti?». Da anni l'Eja sta tentando di sensibilizzare diversi governi europei perché facciano qualcosa. E fonti della Comunità ebraica riportano che ci sono contatti con la maggioranza "semaforo" del futuro governo Scholz perché promuova una legge che limiti queste aste. Oliver Bradley, portavoce della Europe Israel Press Association, spiega che «sappiamo di non poter puntare al divieto, ma speriamo che si riescano a mettere paletti a questa oscenità». L'anno scorso un'asta simile aveva provocato la reazione della Comunità ebraica. Nell'autunno 2019, il libanese Abdallah Chatila aveva investito centinaia di migliaia di euro per strappare i memorabilia ai feticisti anonimi e li aveva donati allo Yad Vashem, il museo della Shoah in Israele. Ma non si può sempre contare su un colpo di fortuna del genere. È arrivato il momento che se ne occupi finalmente la politica.
(la Repubblica, 27 novembre 2021)
Sguardo sulla cultura ebraica con il festival “Nessiah”
di Roberta Galli
PISA. Sette appuntamenti live, gratuiti, legati dal filo conduttore dell’esodo e del ritorno alla normalità, e quattro concerti-spettacolo in versione streaming. È questo il cuore del Festival Nessiah, giunto alla 25ª edizione, organizzato dalla Comunità ebraica pisana e sostenuto dalla Fondazione Pisa, dal Comune di Pisa, dalla Rete toscana ebraica e dalla Regione. Quest’anno la rassegna, diretta come sempre dal maestro Andrea Gottfried, torna in presenza, lasciando comunque aperta una finestra digitale, per una edizione che si apre ulteriormente alla città ampliando le collaborazioni e abbracciando ulteriori spazi: la sinagoga, il teatro Nuovo, la Gipsoteca di arte antica, il Cineclub Arsenale e l’auditorium di Palazzo Blu.
Si parte domenica, alle 11, alla sinagoga di Pisa, con una conferenza sull’umorismo nel mondo ebraico con la partecipazione del professor Fabrizio Franceschini e dell’artista Enrico Fink in un dialogo che parte dal bagitto, lingua degli ebrei livornesi, per arrivare fino ad Hollywood. Si proseguire poi alle 18 al teatro Nuovo, con il concerto del Kinder Klezmer Quartet che propone un viaggio nella musica klezmer.
La presentazione del festival è avvenuta ieri a Palazzo Blu, con la partecipazione dell’assessore comunale alla cultura Pierpaolo Magnani, del presidente della Fondazione Pisa, Stefano Del Corso, e del maestro Andrea Gottfried. «Nessiah – ha sottolineato Magnani – rappresenta un punto di riferimento di grande rilievo non solo nel calendario delle manifestazioni della nostra città, ma anche all’interno del panorama nazionale e internazionale». Soddisfatto anche il presidente della Fondazione Pisa. «Siamo felici di rinnovare l’impegno e la collaborazione – ha sottolineato Stefano Del Corso – anche per questa 25ª edizione. Per la Fondazione Pisa Nessiah rientra tra i progetti sostenuti con carattere continuativo».
Ricco il cartellone degli eventi in presenza: martedì 30, alle 18,30, in Gipsoteca, si terrà la presentazione del libro “La tigre di Noto” a cura di Simona Lo Iacono che dialogherà con l’ex sindaco e già parlamentare Paolo Fontanelli. Un incontro con il sostegno di Università di Pisa, il Cise e la libreria Ghibellina. Il 1° dicembre, alle 18,30, al cineclub Arsenale, il film “Train de vie”, in lingua originale con sottotitoli in italiano. Si prosegue giovedì 2 alle 20,30, sempre in Gipsoteca, con lo spettacolo “Arsa” con Martina Benedetti e la regia di Andrea Buscemi. Mentre gli ultimi due eventi si terranno il 5 dicembre, alle 18, al Teatro Nuovo con lo spettacolo “Canterò per il Re”, con regia di Pamela Villoresi, con Evelina Meghnagi, e l’8 dicembre, alle 18, nell’auditorium di Palazzo Blu con il concerto “Mosè”, musica di Giacomo Orefice a cura di FuoriOpera. Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero con prenotazione obbligatoria sulla piattaforma eventbrite.
Interessanti anche gli eventi online, tutti musicali, con Epele Trio in New Israeli Klezmer (il 13 dicembre) , Liron Meyuhas (Israele) in La Gitana Project (il 14 , il duo Tazoish in The Latin Exodus (il 15) e Mosè per Fuoriopera di Giacomo Orefice (il 16).
(Il Tirreno, 27 novembre 2021)
La differenza tra scienza e scientismo
di Raffaello Savarese
Purtroppo molti negano anche l’evidenza. Confondono Scienza con Ricerca: la Ricerca è un percorso, la Scienza il suo consolidamento. Hanno un atteggiamento fideistico che gli impedisce di esercitare il pensiero critico e interrogarsi sulla validità di questa o quella proposizione, di vedere le differenti gradazioni e sfumature tra una tesi e il suo contrario.
Ma la verità del momento è assoluta e incontestabile. Anche se smentita, poi, dai fatti in un batter di ciglia. Quella imposta con più autorità – ma non sempre con altrettanta autorevolezza – è l’indeformabile, indefettibile e assoluta verità. Il sole gira intorno alla terra, si diceva, perché sostenere il contrario è blasfemia. Punto. Il dubbio non va indagato, argomentato, dibattuto ma silenziato e irriso.
La Scienza allora diventa Scientismo. E prefigura un’umanità fatta non di individui ma di masse indistinte che delegano a una élite il proprio pensiero critico e le scelte che riguardano la propria esistenza. Questo dogmatismo è il presupposto del totalitarismo collettivista. Eppure, chi vi soggiace è convinto di essere più libero degli altri.
(l'Opinione, 26 novembre 2021)
Eitan, zia Aya resta la tutrice del bimbo
Il tribunale rigetta il reclamo dei nonni materni sulla nomina della zia Aya come tutrice del bambino. L’istanza di estradizione per Shmuel Peleg è arrivata in Israele.
PAVIA. Il tribunale di Pavia ha rigettato la richiesta di revocare la nomina della zia Aya come tutrice di Eitan, presentata dai nonni materni: Aya resta dunque la tutrice del bimbo sopravvissuto alla strage del Mottarone. Intanto la richiesta di estradizione delle autorità italiane nei confronti di Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan su cui pende un mandato di arresto internazionale per il sequestro del nipote portato a Tel Aviv l'11 settembre, "è arrivata alle autorità israeliane" secondo quanto risulta alla Procura di Pavia: ora spetta ad Israele decidere cosa fare anche se pare difficile che si possa arrivare all'esecuzione dell'arresto e all'estradizione del 58enne.
(la Provincia pavese, 26 novembre 2021)
Eitan, arrestato a Cipro l'uomo che aiutò il nonno nel rapimento del bimbo
Sospettato di essere un contractor impegnato in zone di guerra
di Giuseppe Guastella
Lo hanno arrestato a Llmisso, la cittadina sul mare a Sud nella parte greca dell'isola di Cipro, in cui Gabriel Abutbul Alon risulta risiedere. La polizia cipriota non deve aver faticato poi così tanto per trovarlo: ha semplicemente seguito le tracce del suo telefonino.
Finisce così, fin troppo banalmente per un personaggio sospettato di aver fatto parte di un'agenzia americana di contractor impegnati in teatri di guerra come Iraq ed Afghanistan ed abituati a muoversi con le tecniche più sofisticate di copertura e anonimato, la latitanza del misterioso Alon, inseguito da un Mandato di arresto europeo (Mae) attivato dal procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti e dal pm Valentina De Stefano per il sequestro del piccolo Eitan Biran, l'unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone. Secondo le indagini, l'11 settembre scorso Alon aiutò il nonno di Bìtan, Shmuel Peleg, ex militare israeliano di 58 anni, a rapire Eitan dopo averlo prelevato, durante uno degli incontri· periodici autorizzati dal tribunale, in casa della zia patema, Aya Biran, che lo aveva in affidamento dall'incidente del 23 maggio in cui il piccolo perse i genitori (la madre era figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e un bisnonno. Il bambino fu portato in auto in Svizzera e da lì in Israele a bordo di un aereo privato noleggiato nei giorni precedenti da Alon per 46 mila euro, che nel tardo pomeriggio atterrò a Tel Aviv. I sospetti degli investigatori della squadra mobile di Pavia, guidata da Giovanni Calagna, si focalizzarono immediatamente su Peleg e Alon.
Appena due giorni dopo il rapimento, su richiesta dei pm, il gip Pasquale Villani emise un'ordinanza di custodia nei loro confronti alla quale seguì il Mae per Alon e un mandato di cattura internazionale per Peleg che, però, è poco probabile venga mai eseguito dalle autorità di Tel Aviv. Alon era già apparso sulla scena di questa storta tragica, in cui la contrapposizione tra i familiari patemi e materni di Eitan è diventata motivo dominante. Ora il piccolo è stato affidato definitivamente anche in Israele ad Aya e presto tornerà in Italia, come potrebbe avvenire anche per Alon con la procedura rapida del Mae. L'uomo si era prima presentato ad agosto come «legale israeliano» tra gli avvocati di Peleg e della ex moglie Esther Cohen (indagata per il sequestro) in un'udienza a Pavia sull'affidamento di Eitan. Non essendo avvocato, fu allontanato. Usa l'indirizzo mail gabriel@blackwater.army, dominio che fino al 2011 era il nome della società di mercenari Usa «Academi».
Dalle indagini la sua figura emerge al momento come quella di braccio operativo di Peleg. Localizzato dalla polizia in Italia più volte prima del sequestro, potrebbe aver preparato le basi dell'azione dell'11 settembre. La Golf noleggiata da Peleg il giorno prima, varcò il confine italo-svizzero di Chiasso senza subire controlli. Nessun approfondimento neanche quando alle 14.10 venne fermata dalla polizia cantonale nei pressi dell'aeroporto Lugano-Agno che, identificati i passeggeri, li fece proseguire nonostante fosse stato denunciato lo smarrimento del passaporto israeliano di Eitan e il piccolo fosse con due adulti che non risultavano suoi parenti. Tutto liscio anche al check-in, nonno e nipote decollarono per Israele su un volo privato nel quale non risulta la presenza di Alon ma che, guarda caso, prosegue per Cipro.
(Corriere della Sera, 26 novembre 2021)
Draghi crea l'apartheid di Natale ma persino questo sembra normale
Il premier annuncia che le festività saranno tali soltanto per gli italiani con il certificato verde. Gli altri, dice, non fanno «parte della società». Se avessimo ascoltato queste parole due anni fa saremmo insorti. E oggi?
di Mario Giordano
Sarà il Natale dell'apartheid. Gesù Bambino potrà nascere, sempre ammesso che abbia il green pass in regola, ma lo farà solo per qualcuno. Cioè solo per i fortunati. Gli eletti. In poche parole: i vaccinati. Non guardatemi male perché non sono stato io a dirlo, nemmeno il condirettore Massimo de' Manzoni, né Francesco Borgonovo e neppure Maurizio Belpietro o nessun altro della Verità. A dirlo è stato lo stesso Mario Draghi, nella conferenza stampa dell'altro ieri: «Per i vaccinati questo sarà un Natale normale», ha dichiarato papale papale. Per i non vaccinati di conseguenza no. Per i vaccinati non sarà un Natale normale, e dunque sarà un Natale da segregati. Da rinchiusi. Da reietti. E dunque non sarà nemmeno Natale. Possono anche rimettere in cantina l'albero e il presepe: se tutto va bene potranno festeggiarlo il prossimo anno. Quando, ha spiegato il premier nella sua infinità bontà «anche coloro che oggi sono oggetto di restrizioni, speriamo possano tornare a essere parte della società con tutti noi». Avete letto bene. E se non vi fidate, andate a risentirlo: ha detto proprio così. «Speriamo che possano tornare a essere parte della società». Significa, dunque, che oggi non lo sono. Significa che per il presidente del Consiglio 8 milioni di italiani «non sono considerati parte della società» anche se non hanno infranto nessuna regola, non si sono macchiati di alcun reato e non hanno commesso nessuna illegalità. Proprio così: non sono considerati parte della società. Cioè sono esclusi dal consesso civile. Deportati nel bantustan sanitario. E tutto questo non in base alla violazione di una legge, ma semplicemente in virtù di una loro scelta, che la legge, per altro, consente loro di fare. Non so come possano, tanti sedicenti liberali che stanno nelle fila della maggioranza, accettare un orrore di questo tipo senza sentirsi ribollire il sangue nelle vene. Il precedente, in effetti, rischia di essere devastante. In questo modo si fa passare, come se fosse normale, l'idea che in un Paese liberale e democratico (almeno fino a inizio pandemia) si possa dividere la popolazione in cittadini di serie A e cittadini di serie B, in bramini e paria, in esseri superiori e inferiori, in base semplicemente ai loro gusti, alle loro caratteristiche o alle loro preferenze. L'aberrazione è dietro l'angolo. Il pericolo è di trovarsi nel giro di qualche anno con premier che faranno solenni annunci del tipo: «"Questo Natale sarà normale soltanto per quelli che sono magri, quelli obesi speriamo che facciano una cura dimagrante così saranno riammessi in società». Oppure: «Questo Natale sarà normale solo per quelli che hanno i capelli biondi, quelli che li hanno castani speriamo che se li tingano così saranno riammessi in società». Paradosso? Può darsi. Ma se due anni fa ci avessero annunciato: nel novembre 2021 alcuni milioni di italiani saranno «esclusi dalla società» in seguito al loro rifiuto di assumere un farmaco (per altro non obbligatorio), che cosa avremmo detto? Stupisce che un premier sempre attento alla comunicazione arrivi ad affermazioni del genere senza accorgersi che sono aberranti. Com'è possibile che un uomo cresciuto in occidente e imbevuto dei sacri principi della libertà e dell'uguaglianza pensi davvero che qualche cittadino italiano, senza commettere nessuna illegalità, possa essere «escluso dalla società»? Come fa lui a escludere qualche essere umano dalla società? Chi gliene dà il diritto? In base a che cosa? Come minimo suggeriremmo al presidente del Consiglio di cambiare chi lo aiuta a preparare le conferenze stampa. Già a luglio era scivolato paragonando i non vaccinati agli assassini («Non ti vaccini. Ti ammali. Muori o fai morire») e dicendo che i vaccinati avrebbero avuto la «garanzia di non contagiare e di non contagiarsi» (cosa quest'ultima che si è palesemente rivelata una fake news, meglio detta bufala, seppur propalata da cotanto pulpito istituzionale). E adesso ci ricade con l'apartheid di Natale. Un modo di esprimersi come dicevamo non solo infelice. Ma inquietante. Tanto più che va a toccare il Natale. Proprio il Natale. Vi pare? Così la festa dell'inclusione diventa la festa dell'esclusione, la festa dell'incontro diventa la festa dello scontro, la festa della famiglia diventa la festa che divide le famiglie. Ditemi: c'è qualcosa di più inclusivo del 25 dicembre? E infatti hanno passato anni a darci lezioni al riguardo. Ricordate? Nel presepe bisognava inserire anche immigrati, rom, carcerati, sbandati, cinesi, afghani e financo venusiani, perché, dicevano, nessuno deve restare fuori. E poi fanno restare fuori chi, per motivi suoi, non si vaccina? Come si passa dal Bambin Gesù che abbraccia tutti ai profeti dell'apartheid sanitario che scartano quasi fossero subumani dei cittadini che non hanno altra colpa se non quella di rispettare la legge che garantisce loro la possibilità di non vaccinarsi? Che poi con l'apartheid, quello vero, per lo meno nei bar e nei ristoranti in qualche modo anche i cittadini di serie B ci potevano entrare: c'erano le odiose «stanze per neri», ma non si restava fuori. Qui invece nemmeno quelle. I cittadini di serie B rimangono sulla strada. Tra un po' li legheranno al palo e chiederanno loro di scodinzolare. E tutto questo, come ha spiegato Draghi, per continuare a difendere la «normalità». Normalità? Dice sul serio? Davvero tutto questo può essere normale?
(La Verità, 26 novembre 2021)
C’è da sperare che qualche superdemocratico, qualche superliberale, qualche superdraghiano (ma tra questi la speranza è minima) che si è lanciato nella difesa appassionata della campagna vaccinale antivirus ed abbia appoggiato con ferma decisione l’energico condottiero che impavidamente la conduce, cominci a sentirsi un po’ a disagio davanti al procedere degli avvenimenti nella nostra Italia. Si capisce la difficoltà di fare non dico retromarcia, ma anche soltanto passi indietro, ma l’andare avanti senza scosse sarebbe grave. Il silenzio parla. L’articolo che segue può essere particolarmente interessante per gli ebrei. Ma non solo naturalmente. M.C
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Quando non tutti abbiamo gli stessi diritti
Un lettore, che qui pubblicamente ringraziamo, ci ha segnalato il video di un'intervista fatta a Primo Levi nel 1975. Ne riportiamo alcune parole. Nell'intervista Levi dice tra l'altro che il nazismo tedesco è la metastasi di un tumore che ha allignato prima in Italia. Sta avvenendo qualcosa dello stesso tipo oggi in Italia? Le parole di Primo Levi possono aiutarci a riconoscere un elemento rivelatore della presenza in Italia del germe di un nuovo fascismo.
«Dove un fascismo, non è detto che sia identico a quello di una volta, dove un nuovo verbo, come quello che amano i fascisti in Italia, cioè che "non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti, alcuni hanno dei diritti altri no", dove questo verbo attecchisce, alla fine c'è il lager, questo io lo so con precisione, e non mi stanco di girare le scuole, e non solo le scuole, di raccontarlo: fate attenzione, alla fine del fascismo c'è il lager.»
L'intervista
(Notizie su Israele, 26 novembre 2021)
Caro Draghi, basta con i ricatti sulla pelle di noi giovani
Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri
Caro Mario Draghi, sono Martina una ragazzina che ha appena compiuto 13 anni, amo fare molte cose nella mia giovane vita, ma una più di tutte, amo fare karate. Sono in un momento cruciale della mia vita, ho solo 13 anni e con la mia giovane mente guardo al futuro, non mi sono vaccinata. A giugno avete chiamato in causa noi minorenni, avete chiesto a noi bambini di 12 anni di andarci a vaccinare per proteggere gli anziani, cosa strana anche questa: se un anziano è protetto da un vaccino non ha bisogno di essere protetto. Non c'è stato un obbligo effettivo, c'è stato un ricatto, se ti vaccini potrai fare sport senza problemi, altrimenti per poter entrare in palestra dovrai farti un tampone. Ho deciso di farmi i tamponi, a spese dei miei genitori, ora volete togliere anche quelli perché ci sono casi in aumento, volete rinchiudere i non vaccinati in casa, lo farete sicuramente anche se, mi dispiace informarvi, ma questo non cambierà l'andamento della pandemia: in Israele dopo anche aver fatto la terza dose si stanno infettando ancora tutti, ormai tutti vaccinati. Caro Draghi, il punto è questo : ho 13 anni, ho davanti una vita intera, molti miei coetanei dopo il vaccino non sono stati bene, alcuni di loro sono morti. Già, notizie che nessun tg riporta, hanno riportato il caso di Camilla, morta dopo l'Astrazeneca, ai tempi se ne è parlato, oggi invece non si parla di nulla, è tutto un tabù. Il mese scorso un ragazzo di Genova di 18 anni, dopo il vaccino, è stato ricoverato in ospedale, non è riuscito a camminare, i medici hanno ammesso che è un possibile evento avverso del vaccino. Morale della favola, questo ragazzo non avrà più una vita normale, come quella che ha avuto lei o Speranza a 18 anni . Molti miei coetanei non potranno più giocare a pallone a causa di queste miocarditi o pericarditi. Ora lei mi dirà che molti stanno bene, la verità è che né lei, né Speranza, né nessuno può esserne sicuro, le case farmaceutiche non garantiscono per i futuri danni avversi del vaccino a lungo o breve termine. Vuol dire che magari i miei coetanei tra 5, 6, o 10 anni potrebbero anche non esserci più, o magari si ammaleranno di qualcosa che limiterà la loro vita, se accadrà questo, vorrà dire che voi avete vissuto una vita appieno, per noi non c'è futuro. Dai miei 13 anni volevo chiederle una cosa: può togliere l'obbligo del green pass a noi ragazzi? La maggior parte di adolescenti ha fatto il vaccino, barattando la propria salute con delle partite di calcio, per poter andare all'università, per poter andare a ballare in discoteca o per poter andare in palestra. Noi siamo il futuro d'Italia, ma siamo stati barattati come topolini di laboratorio. Se nei medicinali troviamo il bugiardino, e leggendolo decidiamo di prendere o meno quel farmaco, perché non ci ha dato la stessa possibilità con questo? Se alla nostra età le avessero chiesto di decidere se trasformarsi in una cavia per la libertà (che durava qualche mese) o di lottare per il suo futuro, cosa avrebbe scelto? E se non le avessero lasciato scelta? Sono tempi bui per noi adolescenti, non possiamo neppure andare a votare, ma ci avete chiesto di sacrificarci in nome di una libertà che ad oggi non ha nessuno, neanche i vaccinati, perché il vaccino non è l'unica arma contro il Covid, bisogna pensare alle cure, quelle già approvate e funzionali, rivorrei la mia vita, vorrei tornare ad essere spensierata con i miei 13 anni. Spero che lei si riveli un grand'uomo e che abbia a cuore il futuro di noi giovani, non siamo numeri, siamo giovani persone con sogni e speranze, vorremmo tornare a vivere nella normalità. Spero di avere una sua risposta e spero che si faccia chiarezza.
(La Verità, 26 novembre 2021)
Israele pensa già alla quarta dose: “Verso la vaccinazione agli under cinque”
Israele si prepara ad affrontare una possibile quinta ondata. Il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, ha già ipotizzato una quarta dose di vaccino: “Non è irragionevole pensare che avremo bisogno di un quarto vaccino”.
C’è stata una riunione tra gli esperti che fanno parte del comitato che consiglia il governo israeliano. “In questa realtà – è emerso in una sintesi dell’incontro – i vaccini non sono sufficienti per fermare l’ondata Covid”.
Per il professor Eran Segal, del Weizmann Institute: “Bisogna continuare a utilizzare tutti i metodi efficaci che riducono al minimo l’infezione senza danneggiare l’economia. Ciò include il rafforzamento della consapevolezza pubblica e l’applicazione efficace delle linee guida Green Pass e delle mascherine negli spazi chiusi, nonché il rinnovo degli sforzi per garantire la quarantena alle persone esposte al virus”.
Il governo israeliano sta pensando di vaccinare anche gli under 5. “Ci stiamo avviando verso la vaccinazione dei bambini sotto i 5 anni” ha detto a LaPresse il responsabile del piano vaccinale di Tel Aviv, Arnon Shahar.
“Ci sarà bisogno di tempo per valutare e per capire, ma nel futuro prossimo dovremo decidere se immunizzare i più piccoli, sono riflessioni che bisogna fare, dobbiamo adattarci all’evolversi della pandemia”.
Da lunedì è iniziata la somministrazione delle dosi per i bambini tra i 5 e gli 11 anni. Il capo della task force Israele ha parlato anche di obbligo vaccinale: “Prima inizierei con l’obbligo per le forze dell’ordine, gli insegnanti e i sanitari”.
(Oltre.tv, 26 novembre 2021)
"... i vaccini non sono sufficienti per fermare l’ondata Covid" QUINDI "ci stiamo avviando verso la vaccinazione dei bambini sotto i 5 anni". E' la logica perversa del vaccinismo: più si vede che i vaccini non funzionano, più aumenta la paura del virus, più si spinge a nuove vaccinazioni. E' come una droga. M.C.
Vita ebraica, Israele, antisemitismo
L’impegno del nuovo governo tedesco
Promozione della vita ebraica nel paese, lotta all’antisemitismo e tutela della sicurezza d’Israele. Sono gli impegni messi nero su bianco dalla nuova coalizione di governo – Socialdemocratici, Liberali e Verdi – che si appresta a guidare la Germania. Mondo ebraico e Israele trovano infatti un proprio esplicito collocamento nelle 177 pagine dell’accordo siglato dai tre partiti della coalizione semaforo (in riferimento ai colori che li caratterizzano). Un accordo che tocca moltissimi punti di carattere economico, sociale, educativo, con una particolare attenzione alla lotta alla povertà, al cambiamento climatico e agli investimenti sulla digitalizzazione. Un’intesa che per il Consiglio centrale degli ebrei in Germania “esprime la volontà di fermare l’ulteriore deriva della società e di rafforzare la fiducia nella democrazia” e in cui si parla della necessità di “promuovere una cultura del rispetto”. E per questo, dichiara l’organo che rappresenta l’ebraismo tedesco, costituisce un passo importante, “soprattutto per le minoranze sociali del nostro paese”.
Commenti dunque positivi, in particolare in riferimento all’esplicito inserimento del tema della promozione della vita ebraica. “È la prima volta che questo argomento ottiene un proprio paragrafo in un accordo di coalizione”, sottolinea l’autorevole Jüdische Allgemeine. Un passaggio in cui si ricorda la secolare storia dell’ebraismo tedesco e in cui si promette il rafforzamento “delle iniziative che promuovono la vita ebraica nella sua diversità”. Per quanto riguarda l’antisemitismo, si parla di lotta a tutte le sue forme, prendendo come riferimento la definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). “Garantiremo la protezione degli ebrei e delle loro istituzioni insieme ai Länder”, dichiarano i tre partiti della coalizione che sarà guidata dal cancelliere Olaf Scholz, leader della Spd. Sulle sue spalle l’eredità pesante dell’era Merkel, rimasta alla guida della Germania per 15 anni e fortemente legata al mondo ebraico e a Israele. Saranno ora Scholz e il suo governo a dover “combattere con successo l’estremismo di destra e l’antisemitismo”, evidenzia il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi Josef Schuster. Sfide fondamentali, spiega, “per il futuro della Germania”.
Nell’accordo si parla poi della necessità di rafforzare l’ufficio del commissario per la lotta all'antisemitismo del governo federale, guidato attualmente da Felix Klein. A riguardo, il Consiglio Centrale ha rinnovato la sua richiesta che il posto di Klein sia in futuro situato nell’ufficio del Cancelliere, spostandolo dall’attuale collocazione nel ministero federale dell’Interno. Un riposizionamento che ne rimarcherebbe la centralità.
Nel paragrafo dedicato al mondo ebraico si parla inoltre di impegno per la formazione alla Memoria, per l’assistenza ai sopravvissuti alla Shoah, per una “documentazione più risoluta degli incidenti antisemiti”.
Specifico spazio viene dato al tema Israele. La sua sicurezza, ribadiscono i tre partiti, “è una ragione di stato per noi. Continueremo a lavorare per una soluzione negoziale dei due stati basata sui confini del 1967. Condanniamo la continua minaccia allo Stato d’Israele e il terrore contro il suo popolo. Accogliamo con favore la normalizzazione delle relazioni che è iniziata tra altri stati arabi e Israele. Ci opponiamo fermamente ai tentativi di condanna antisemita di Israele, anche all’ONU”. Un linea dunque che sembra seguire quanto già costruito in questi anni dalla cancelliera Merkel, definita dal Primo ministro israeliano “un faro per l’Europa”.
Rispetto al tema dei negoziati tra israeliani e palestinesi, la nuova coalizione chiarisce che ogni passo unilaterale deve essere evitato. “Ci aspettiamo che i palestinesi facciano progressi in materia di democrazia, stato di diritto e diritti umani. Questo vale anche per la rinuncia a qualsiasi forma di violenza contro Israele”. Dall’altra parte c’è anche la richiesta “di fermare la costruzione di insediamenti, che è contraria al diritto internazionale”. Una posizione che anche il precedente governo Merkel aveva espresso e che non appare preoccupare gli uffici della politica estera israeliana. Il passaggio sull’Unrwa invece potrebbe sollevare più di un sopracciglio, con l’esplicita decisione di continuare a finanziare l’organizzazione Onu per i rifugiati palestinesi, fortemente criticata da Gerusalemme per ripetuti comportamenti scorretti nei confronti di Israele. A riguardo, il messaggio di Berlino vuole essere rassicurante. “Appoggeremo – si legge nell’intesa – un processo di monitoraggio indipendente per contrastare sviluppi indesiderati” in riferimento all’Unrwa.
C’è poi nell’accordo un paragrafo dedicato all’Iran. Molto attuale considerando che la Germania sarà, il prossimo 29 novembre, tra i paesi a sedersi a Vienna al tavolo dei negoziati con Teheran legati all’intesa sul nucleare. “Ci aspettiamo che tutti gli stati firmatari attuino l’accordo. – scrivono Spd, Liberali e Verdi – L’Iran deve tornare al pieno e duraturo rispetto dei suoi obblighi nei confronti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA). Ci aspettiamo che il governo iraniano migliori significativamente la precaria situazione dei diritti umani e che rilasci tutti i prigionieri politici. La minaccia allo stato d’Israele, il programma missilistico, l’aggressiva politica regionale e l’armamento, così come il sostegno alle attività terroristiche, mettono in serio pericolo la pace e la sicurezza”. Molte richieste che con ogni probabilità rimarranno inascoltate. Rimane però per iscritto il riconoscimento da parte tedesca di quanto l’Iran sia un pericolo per il Medio Oriente.
(moked, 26 novembre 2021)
Covid, Israele: rischio quinta ondata, si ipotizza una quarta dose di vaccino
"Non è irragionevole pensare che avremo bisogno di un quarto vaccino" ha detto il ministro della Salute Horowitz, secondo cui il 9% dei casi diagnosticati ieri aveva ricevuto il booster.
Il ministro della Salute di Israele Nitzan Horowitz ha dichiarato che è prevedibile si debba pensare a una quarta dose per affrontare la quinta ondata di contagi da coronavirus, scrive i24 news."Non è irragionevole pensare che avremo bisogno di un quarto vaccino", ha detto dopo aver svelato che il 9% dei casi diagnosticati ieri aveva ricevuto il booster. Secondo il ministro Israele non è ancora entrato nella "quinta ondata" nonostante il numero crescente di contagi.
Ieri il comitato di esperti che consiglia il governo israeliano non ha escluso che lo stato ebraico si trovi alla vigilia di una quinta ondata Covid. Questo perché i contagi stanno risalendo, sia pure lentamente, come hanno riportato i media israeliani, in quanto l'efficacia del vaccino tende a declinare col tempo e sembra non sia sufficiente neppure la recente decisione di vaccinare i bambini dai 5 agli 11 anni. Gli esperti raccomandano quindi di non abbandonare misure di contenimento come le mascherine.
• Si valuta vaccinazione per under 5
"Ci stiamo avviando verso la vaccinazione dei bambini sotto i 5 anni. Ci sarà bisogno di tempo per valutare e per capire, ma nel futuro prossimo dovremo decidere se immunizzare i più piccoli, sono riflessioni che bisogna fare, dobbiamo adattarci all'evolversi della pandemia" ha detto a LaPresse Arnon Shahar, responsabile del piano vaccinale di Tel Aviv, a pochi giorni dell'inizio della somministrazione del vaccino anti-Covid nel Paese ai bambini tra i 5 e gli 11 anni.
Sull'ipotesi di obbligo vaccinale, in particolare per i più piccoli Shahar dice: "Prima inizierei con l'obbligo per le forze dell'ordine, gli insegnanti e i sanitari". Poi sottolinea che "il ruolo del medico è quello di raccomandare di avere più vaccinati possibile" e che "il metodo per fare questo spetta al governo, allo Stato. In Israele non abbiamo mai forzato le vaccinazioni e abbiamo lo stesso tassi elevati di vaccinati". "Sarà difficile forzare le persone", ha aggiunto.
In Israele, spiega "i casi crescono, l'indice di contagiosità cresce", e "qualcuno parla di quinta ondata ma in realtà non penso che la quarta sia mai finita" e "faccio più fatica a spiegare perché i casi siano diminuiti in precedenza piuttosto che il perché siano aumentati ora con molti non vaccinati o che non hanno fatto il richiamo, e le scuole aperte", afferma Shahar.
(RaiNews, 25 novembre 2021)
Dopo la vaccinazione.
Gibilterra, centro più vaccinato al mondo annulla il Natale: “Troppi contagi”
Secondo il governo dell'enclave britannico a sud della Spagna le celebrazioni natalizie saranno annullate nell'area più vaccinata del mondo a causa dell'aumento dei casi di Covid.
Gibilterra, piccolo enclave britannico a sud della Spagna, ha raggiunto la cifra record del 119% di vaccinati tra i suoi 33mila residenti. Alla totalità dei cittadini del centro dello Stretto vanno aggiunti oltre circa 7mila lavoratori che sono o domiciliati in quel territorio o pendolari dalla Spagna. Un dato che lo pone tra i centri al mondo più vaccinati. Teoricamente si può affermare che non ci sono no-vax. Ma nonostante questo elevato tasso di inoculazioni, l’amministrazione di Gibilterra ha annullato le celebrazioni ufficiali del Natale per l’elevato tasso di contagiati e ricoverati, che sono tutti vaccinati coi sieri commerciati in Europa. Il territorio sta attualmente lanciando il suo programma di ripresa e ha ribadito di sconsigliare grandi assembramenti sociali informali in questo periodo, riporta Newsweek. Il governo di Gibilterra ha fornito nuovi consigli in vista del periodo festivo di Natale. Il piccolo territorio britannico ha invitato i residenti a limitare la socialità e le aggregazioni al chiuso e a prendere in considerazione lo stato di vaccinazione degli ospiti prima di andare a degli eventi. Un consiglio bizzarro, visto che i contagiati finora sono tutti super vaccinati. I funzionari del governo hanno affermato che i cittadini dovrebbero “esercitare il proprio giudizio” sullo svolgimento di eventi natalizi, tuttavia lo ha “fortemente sconsigliato”. Secondo il tracker del coronavirus della Reuters, Gibilterra ha somministrato finora almeno 94.469 dosi di vaccini Covid. Supponendo che ogni persona abbia ricevuto 2 dosi, è sufficiente per aver vaccinato circa il 140,2 per cento della popolazione del territorio britannico. Ma ciò evidentemente non è stato sufficiente, visto che i cittadini vaccinati nello Stretto che separa il Mediterraneo dall’Oceano Atlantico si ammalano più di quanto dovessero eventualmente ammalarsi il cosiddetto covid. Paradossale, ma tant’è! A dare sponda al governo di Gibilterra è “Our World in Data”, un sito consultabile qui ha indicato “che Gibilterra è la parte più vaccinata del mondo con una percentuale della popolazione completamente vaccinata superiore al 99%”. Gibilterra ha visto un aumento dei casi e la media di 7 giorni di infezioni segnalate era di 66 il 18 novembre. Ciò equivale al 52% del suo picco di gennaio, secondo Reuters. Ciò si traduce in 1.379 infezioni ogni 100.000 persone segnalate negli ultimi 7 giorni. Complessivamente nel territorio sono stati registrati 6.721 contagi e 98 decessi legati al coronavirus (post-vaccinazione). Venerdì in una dichiarazione l’amministrazione di Gibilterra ha affermato che “dato l’aumento esponenziale del numero di casi, il governo intende annullare una serie di eventi, tra cui feste di Natale ufficiali, ricevimenti ufficiali e incontri simili. “Il pubblico, in questa fase, è chiamato in ultima analisi ad esercitare il proprio giudizio al riguardo tenendo conto dei consigli attualmente forniti”. “Diventerà anche necessario a questo punto assicurarsi che l’uso dei locali ufficiali sia attentamente esaminato e, ove necessario, gli eventi siano rinviati a data da destinarsi”.
(Secondopiano, 22 novembre 2021)
Super green pass: nella migliore tradizione di tutte le dittature
di Stefano Montanari
Tra nausea (tanta) e ilarità (poca e amara) ho cercato d’informarmi a proposito delle novità introdotte nella migliore tradizione di tutte le dittature che non usurpino la definizione. Non sono i “politici” a stupirmi, e nemmeno i gestori di quella che, chissà a quale titolo, ci si ostina a chiamare informazione. Posso solo domandarmi quali sarebbero i politici senza virgolette se li si eleggesse secondo gli articoli 56 e 58 della povera Costituzione, e se non godessero del sostegno dei cosiddetti media foraggiati dichiaratamente a spese pubbliche per raccontare ciò che fa comodo al salottino sempre più affollato e a tacere o a negare o a falsificare il resto. Si veda l’operato di Joseph Goebbels in proposito. A stupirmi sono i giornalisti ormai pensionati che, almeno in apparenza, non avrebbero alcuna ragione per calpestare la propria dignità, se non, magari, la tenera vanità di ritrovarsi ancora alla ribalta e, vedi mai, qualche elemosina per riscaldare l’inverno della vita. Ma forse anche il semplice applauso di chi sta seduto nelle posizioni di comando accontenta quei poveri vecchi, dando loro l’illusione di essere qualcuno. Naturalmente io non ho idea delle ragioni reali del loro mortificante squallore, e mi limito a fare supposizioni. Resta il fatto che sentire tali e tante idiozie starnazzate pretendendo, e ottenendo il più delle volte, consenso mi preoccupa un po’. Più che la loro abissale ignoranza in campo scientifico ed epistemologico mi preoccupa il fatto evidente che quelli non abbiano la più pallida idea di che cosa significhi il vivere civile e che cosa sia la dignità umana, la loro in primis. Più che a stupirmi, è a deludermi la posizione di regime dei medici e dei farmacisti. Questi non hanno solo cancellato la chimica, la fisica, la fisiologia e la farmacologia, ma rifiutano pervicacemente di applicare le regole riportate dai loro codici deontologici, arrivando perfino ad impedire di operare ai loro confratelli i quali, quanto meno, credono che la loro sia una missione a favore dell’umanità, e come tale la svolgono. Pare che a nessuno di costoro venga in mente il più ovvio dei ragionamenti e si ponga poi la più ovvia delle questioni: se è vero che l’86% degl’italiani è “vaccinato”, a che cosa si deve la recrudescenza del morbo tanto strombazzata? Qualunque sperimentatore dotato di un minimo di esperienza e di capacità sa perfettamente che un dato del genere, se veritiero, dimostra con chiarezza che si è intrapresa una strada fallimentare. Il che, almeno in campo scientifico, costituisce un’informazione utilissima perché indica che quella strada è sbagliata e non si perde più tempo a percorrerla. Invece…
• Come in tutte le dittature Invece il grado di violenza, tra rozzezza e raffinatezza, al quale siamo arrivati era, almeno per me, impensabile fino a pochi giorni fa. Ora non solo ci si lambicca il cervello per escogitare nuove torture sociali a carico degli adulti, ma nemmeno i bambini sono risparmiati, essendo riconosciuti come la preda più ambita su cui investire. Da padre e da nonno inorridisco. Ora chi non si presta a fare da cavia per la più assurda sperimentazione di massa della storia, magari offrendo la prole come agnello sacrificale, viene discriminato crudelmente in barba a tutta la bava versata componendo regole di cui ci si prende gioco ogni giorno di più. Le gerarchie religiose? Lasciamo perdere: forse qualcun altro provvederà, anche se qualche dubbio lo conservo. Il popolo? Ormai animali da reddito. Dove arriveremo? Io ho paura di dare la risposta che sento essere quella giusta. Certo è che si sta premendo sull’acceleratore come fa un pilota in prova che cerca d’individuare quale sia la velocità massima alla quale può entrare in una determinata curva. Ad oggi, pare, quel limite non è stato ancora raggiunto e, dunque, aspettiamoci qualche chilometro all’ora in più. La domanda che mi pongo è che cosa accadrà quando la macchina uscirà di strada. Dove sbatterà?
(Imola Oggi, 25 novembre 2021)
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Il Green pass come strumento di coercizione
di Vincenzo Vitale
Fra le tantissime sciocchezze che televisioni e giornali ogni giorno sciorinano a chi guardi le prime e legga i secondi, una va in particolare presa in considerazione e riguarda il Green pass. Si ripete infatti in modo ossessivo, da parte di tutti, che il Green pass sarebbe uno strumento di libertà, messo a disposizione di chi ne possa usare di volta in volta. Per meglio far digerire questa sesquipedale sciocchezza, politici e giornalisti ribadiscono che con il Green pass si può andare al cinema, a teatro, in pizzeria, a ballare. E tutti ad applaudire, ad approvare, a festeggiare perché finalmente si potrà tornare a incontrarsi, a mangiare insieme, a sbevazzare, ad allenarsi in palestra. A latitare purtroppo qui è il pensiero, vale a dire la capacità di capire come stanno davvero le cose, limitandosi invece la maggior parte degli italiani ad accontentarsi di ciò che viene detto loro, senza nessuna lettura critica appena avvertita: una specie di gregge che desidera soltanto di essere ciecamente teleguidato. Se invece si scomoda appena l’uso del pensiero, si scoprirà che le cose sono esattamente al contrario di come viene affermato a gran voce dagli imbonitori del popolo: il Green pass non è affatto uno strumento di libertà, ma un sottile e raffinato mezzo di asservimento. Infatti, la certificazione verde concede alcune libertà – per l’uso delle quali tutti esultano come bambini davanti a un giocattolo nuovo – ma supponendo implicitamente che la libertà di tutti sia a disposizione del Governo, cioè di chi abbia il potere, il quale può a suo piacere concederla o revocarla, secondo tempi e modalità assolutamente insindacabili. Nell’ottica del Green pass, infatti, la libertà non è un diritto naturale di cui ogni essere umano è dotato fin dalla nascita, e che il potere costituito – qualunque esso sia – è tenuto a riconoscere e a tutelare, ma un bene che il Governo può a sua discrezione concedere o non concedere, limitare o perfino autorizzare in certi casi, pronto poi – il medesimo potere – a revocare quella stessa libertà che aveva appena autorizzato. Per questa ragione, il retto uso del pensiero ci conduce a ribaltare l’illustrazione che ogni giorno ci viene offerta in modo martellante: nessuno di noi dovrebbe essere contento perché ci viene concessa la libertà, tramite il Green pass, di andare in pizzeria con gli amici, se non altro perché chi ce la concede potrà domani mattina revocarcela di nuovo; dovrebbe invece essere costernato e preoccupato, perché la libertà originaria di cui tutti siamo titolari, tramite il Green pass, viene limitata, collocata a disposizione del Governo e perfino annullata: anche quella di andare in pizzeria con gli amici. Il Governo, insomma, dispone di ciò che non gli appartiene, la nostra libertà: niente male, anche perché pare che la maggioranza degli italiani, che sono sordi a queste critiche, preferisca un immemore asservimento a una pensosa libertà. Ma, come scrive Stefan Zweig, “per le anime servili, ogni servitù appare blanda”. Coraggio! Non è poi tanto difficile da capire. Giorgio Agamben e Massimo Cacciari ce lo ripetono da mesi.
(l'Opinione, 24 novembre 2021)
Potremo un giorno tornare ad essere parte della società con tutti gli altri?
Il Presidente del Consiglio rassicura i novax: Sì, forse il prossimo Natale.
di Marcello Cicchese
«Spero un Natale normale. Se abbiamo un po' di restrizioni, per i vaccinati questo Natale è normale. E speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo sia veramente un Natale per tutti. Questo è quello che vogliamo riconquistare, che lo sia per tutti. Bisogna che anche coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni o a cui saranno riservate le restrizioni possano essere, tornare, ad essere parte della società con tutti noi».
Così si esprime il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi nella sua conferenza stampa. E dice delle buone parole anche a noi, i recalcitranti novax. Dice che si augura di poterci riammettere in società prima del Natale del prossimo anno, ma per il momento ci invita ad accettare, per motivi di emergenza, di non far parte della società da lui presieduta, che poi sarebbe la nazione Italia, in cui siamo nati. In essa ora ci sono due tipi di cittadini: i sivax e i novax. I primi hanno i pieni diritti di cittadinanza, i secondi no. Ma bisogna abituarsi, è bene procedere per gradi: cominciamo col Natale. Nelle prossime feste la gente comincerà ad assuefarsi all'idea dei due tipi di cittadini, ma si cercherà di mantenere viva la speranza che alla fine ne possa rimanere uno solo: i sivax. Questi saranno la stragrande maggioranza, ma per far sì che si arrivi alla totalità bisognerà provvedere a sistemare in qualche modo lo scarto residuo. In qualche modo si farà: nella storia gli esempi non mancano.
Uscendo dall'ironia, come responsabile di un sito che da vent'anni s'interessa di Israele, ci sono due cose che mi colpiscono in questa pandemia:
1. la politica sanitaria di Israele
2. il silenzio della comunità ebraica in Italia.
Sul primo punto ho già scritto nell'articolo "Dal sionismo al globalismo". Vorrei dire allora qualcosa sul secondo.
Ho detto silenzio ma, per essere precisi, dalla comunità ebraica italiana si è levata una sola voce di piena approvazione delle scelte di governo. In un ambiente in cui è proverbiale la presenza di continue discussioni e dissidi, la cosa è sorprendente. E' venuta meno la consueta dialettica destra-sinistra e anche Israele-diaspora. Su temi delicati e controversi come il valore dei dati scientifici, i diritti irrinunciabili della persona, i pericoli di sistematiche schedature dei cittadini, l'inaccettabilità della creazione di categorie distinte di cittadini e il susseguente pericolo di mettere gli uni contro gli altri non si sono sentite voci pubbliche. Questi temi, con particolare riguardo agli ultimi due, avrebbero dovuto sollecitare l'interesse, anzi la sensibilità, di una comunità particolare come quella ebraica. Invece, per quello che finora si è sentito, niente. O meglio, si è sentito qualche intellettuale unirsi al discredito dei novax appoggiando con vari argomenti e toni la lettura mainstream governativa, ma non di più.
Il mondo ebraico si è giustamente risentito quando qualcuno ha voluto paragonare i novax agli ebrei, e questo è disdicevole, come quasi tutti i paragoni che ripetutamente si fanno con Hitler, la Shoah, i nazisti, i campi di sterminio e così via. Ma i motivi di fondo e i modi in cui alcuni avvertono l'esclusione dal resto della società avrebbe dovuto, a parer mio, essere valutata con più empatia da chi ha sofferto qualcosa di simile.
Farò allora un paragone, non fra i novax di oggi che non possono andare in palestra e gli ebrei di ieri che dovettero andare in camere a gas, ma tra alunni ebrei di un tempo e alunni non vaccinati di oggi. Quando in una classe il professore chiede: chi sono i vaccinati? e tutti alzano la mano tranne due, quali saranno i sentimenti e i pensieri dei due alunni? e quelli dei loro compagni, e del professore, e dei genitori? Certo, anche in questo caso le differenze tra ieri e oggi sono molte, e tuttavia quando il male si presenta in forma debole non ci dovrebbe essere qualcuno in grado di avvertire, per l'esperienza fatta, che il male può diventare giù grande? Si dovrà aspettare che si facciano divisioni non solo tra chi può andare al ristorante e chi no, ma anche tra chi può fare scuola in presenza e chi no? Dovremo forse aspettare che il governo decida, "per motivi di sicurezza", di distinguere tra scuole per vaccinati e scuole per non vaccinati? Beh, se si dovesse davvero formare una scuola privata per soli novax, mi offro come docente di matematica a titolo gratuito.
(Notizie su Israele, 25 novembre 2021)
Israele: entro il 2050 un cittadino su quattro sarà ultraortodosso
Quasi un quarto della popolazione israeliana sarà ultra-ortodossa entro il 2050, secondo le proiezioni del Consiglio economico nazionale israeliano. Si prevede che l’attuale popolazione israeliana di 9,2 milioni crescerà del 70% fino a quasi 16 milioni entro il 2050. Di questi 16 milioni, circa un quarto, o 3,8 milioni, secondo le proiezioni del Consiglio economico nazionale israeliano saranno ultra-ortodossi. Gli ebrei ultraortodossi rappresenteranno quasi un terzo della popolazione ebraica di Israele. La popolazione araba salirà a 3,24 milioni e continuerà a rappresentare circa il 20% della popolazione totale. I nuovi dati sulla popolazione indicano un futuro in cui la popolazione ebraica di Israele continua a costituire circa l‘80% della popolazione nazionale, ma in cui quella popolazione ebraica è molto più ultra-ortodossa di prima. Attualmente, la popolazione ultra-ortodossa di Israele costituisce il 12,6% della popolazione. Entro il 2050, questa cifra salirà al 24% della popolazione totale, ha affermato il consiglio. La maggior parte di questa crescita deriverà dal tasso di natalità della comunità ultra-ortodossa di 6,7 bambini per donna, molto più alto delle famiglie ebree non ultra-ortodosse. In tutti i settori della popolazione, gli israeliani di età pari o inferiore a 19 anni costituiranno oltre un terzo della popolazione. Si prevede che la maggior parte degli ebrei ultra-ortodossi di Israele rimarrà concentrata a Gerusalemme e nei suoi dintorni, nonché nella città di Beit Shemesh. Ma si prevede che la popolazione ultra-ortodossa crescerà anche nel sud di Israele, dove è in fase di progettazione una nuova città ultra-ortodossa, e in misura minore nel nord. Tel Aviv e le città e i sobborghi circostanti continueranno a essere l’area più popolosa del paese. Quella zona vedrà anche un forte aumento del numero di persone anziane, con il numero di persone di età superiore ai 65 anni che raddoppierà circa. Si prevede che la crescita della popolazione del paese in tutti i settori porrà maggiori richieste al patrimonio abitativo del paese, già considerato insufficiente per le attuali esigenze della popolazione, nonché ai sistemi di trasporto e al sistema educativo. Lo studio, un aggiornamento di uno pubblicato nel 2017, è stato pubblicato ad agosto ed è stato riportato da Haaretz questa settimana.
(Bet Magazine Mosaico, 24 novembre 2021)
Il Marocco acquista il sistema anti-drone di Israele per proteggere lo spazio aereo
Il Marocco ha acquisito il sistema di difesa aerea anti-drone Skylock Dome di Israele, lo hanno annunciato martedì in un comunicato le Forze armate reali (FAR).
Il sistema, rivelato per la prima volta a febbraio all’International Defense Exhibition and Conference nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, Abu Dhabi, è in grado di rilevare e mettere fuori combattimento i droni (aerei senza pilota), secondo lo Skylock Systems.
Il CEO di Skylock, Itzik Huber, ha affermato che la sua azienda offre sistemi di difesa relativamente economici che sono estremamente efficaci e forniscono un’ampia protezione contro la crescente minaccia dei droni d’attacco.
Secondo The Globe, 27 paesi, tra cui il Marocco, gli Emirati Arabi Uniti e diversi Stati dell’Asia orientale, hanno acquistato il sistema Skylock Dome. Attualmente, circa il 70 percento delle vendite dell’azienda è destinato a clienti militari.
“Questa acquisizione fa parte del rafforzamento delle capacità delle FAR di proteggere le strutture critiche e sensibili del regno, sia civili che militari”, si legge nella dichiarazione delle forze armate marocchine.
“Il regno sta intensificando i suoi acquisti di sistemi antiaerei senza pilota, o droni, che sono diventati una minaccia in termini di impossibilità ad essere rilevati o attaccati dai sistemi di difesa convenzionali”, ha aggiunto.
Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, dovrebbe visitare oggi, mercoledì, il Marocco e firmare accordi di cooperazione per la sicurezza con il regno nordafricano.
Nel dicembre dello scorso anno, in cambio della ripresa delle piene relazioni diplomatiche con Israele, l’allora amministrazione statunitense di Donald Trump accettò di riconoscere le rivendicazioni territoriali del Marocco e sostenne il suo “Piano di autonomia” sul Sahara occidentale.
(Infopal, 24 novembre 2021)
La Malesia vieta alla squadra israeliana di squash l’ingresso per i campionati mondiali La Malesia ha vietato l’ingresso alla squadra israeliana di squash che dovrebbe partecipare al campionato mondiale il prossimo 7 dicembre. Inizialmente avrebbe dovuto tenersi in Nuova Zelanda, ma a causa delle restrizioni Covid, è stato spostato. Tuttavia, Israele e Malesia attualmente non hanno relazioni diplomatiche formali e gli israeliani non possono visitare il paese del sud-est asiatico poiché i passaporti malesi recano la scritta “Questo passaporto è valido per tutti i paesi tranne Israele”. La Squash Racquets Association of Malaysia (SRAM) ha ignorato l’ISA quando ha chiesto informazioni sulla possibilità di ricevere visti speciali in modo che i suoi giocatori potessero partecipare, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post. Il Ministero della Cultura e dello Sport israeliano e il Ministero degli Esteri hanno cercato di fare pressione sulla World Squash Association per includere Israele nella competizione, ma quest’ultimo sostiene che la responsabilità spetta alla Malesia. Il ministro della Cultura e dello Sport ha anche inviato una lettera in particolare al presidente dell’Associazione mondiale, ma per il momento non è stata ricevuta alcuna risposta. Anche la Israel Squash Association, guidata da Aviv Bushinsky, ha chiesto che la World Squash Federation costringa la Malesia ad approvare l’ingresso della squadra israeliana. “Porteremo il messaggio ai vertici. Se la Federazione Mondiale non ci aiuterà, ci rivolgeremo al Tribunale Arbitrale dello Sport. Ho chiarito loro che se ospiteremo il prossimo torneo, la Malesia sarà la benvenuta” , ha detto a Canale 12. “Al recente campionato mondiale di eSport di Eilat, Israele ha permesso ai concorrenti della Malesia di partecipare”, ha ricordato. “Un’associazione mondiale che sostiene l’uguaglianza e la guerra al razzismo non può dare una mano a discriminare Israele e affermare che il problema è con i malesi. Non vogliamo che i campionati del mondo vengano cancellati a causa nostra, ma non possiamo tollerare questo discriminazione”, ha concluso.
(Bet Magazine Mosaico, 24 novembre 2021)
Israele, bambina scopre una moneta d’argento di 2.000 anni
di Jacqueline Sermoneta
Una rara moneta di 2.000 anni, risalente al periodo della grande rivolta ebraica contro i Romani, è stata ritrovata nel Parco Nazionale Emek Tzurim di Gerusalemme, nei pressi della Città di David.
La scoperta, annunciata dalla Israel Antiquities Authority, è avvenuta durante il lavoro di setacciatura da parte dell’undicenne Liel Krutokop, nell’ambito di un’iniziativa promossa dal Parco Tzurim, aperta alle famiglie e ai bambini appassionati di storia e archeologia.
La moneta è d’argento puro e ha un peso di 14 grammi. Secondo gli esperti fu coniata intorno al 67-68 d.C., con molta probabilità, da uno dei Sacerdoti del Tempio, che si unì alla rivolta degli Ebrei contro i Romani, poco prima della distruzione del Tempio.
Su un lato la moneta reca una coppa e le scritte “Israeli Shekel” e “Anno due”, il secondo anno della grande rivolta, sull’altro lato presenta un’incisione che gli studiosi indicano come la sede del Sommo Sacerdote e accanto ad essa la dicitura in ebraico antico “Gerusalemme santa”.
Secondo Robert Kool, direttore del Dipartimento di numismatica per la IAA, “questa è una scoperta rara. Finora sono state scoperte solo 30 monete d'argento di questo periodo".
Gli studiosi, inoltre, ipotizzano che l’argento, utilizzato per la moneta, provenga dalle grandi riserve del metallo prezioso presenti nel Tempio, dove sembra sia stata coniata.
“La moneta è un segno di sovranità – ha affermato Kool – È un evidente simbolo d’indipendenza. L’iscrizione rappresenta chiaramente le aspirazioni dei ribelli”.
La moneta sarà mostrata al pubblico durante la festa di Chanukkà nel Parco Nazionale Emek Tzurim a Gerusalemme.
(Shalom, 24 novembre 2021)
Israele vaccina bambini tra 5 e 11 anni. È il secondo Paese dopo gli Usa
In Israele comincia la vaccinazione dei bambini dai 5 agli 11 anni come deciso dalle autorità di governo su indicazione del comitato nazionale per la lotta al Covid.
Salman Zarka, alla guida del comitato, ha parlato di "un giorno di celebrazione per i bambini e i genitori che possono ora proteggere i loro figli".
Israele è il secondo paese al mondo, dopo gli Usa, ad avviare questa vaccinazione.
(RaiNews, 23 novembre 2021)
Dopo la vaccinazione.
Il Presidente Draghi ha incontrato il Presidente esecutivo del World Economic Forum
ROMA, 22 nov - Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha incontrato oggi pomeriggio, a Palazzo Chigi, il Fondatore e Presidente esecutivo del World Economic Forum (WEF), Klaus Schwab. Il colloquio si è incentrato sul prossimo Meeting Annuale del WEF previsto a Davos a gennaio del 2022 e sui principali dossier globali oggetto anche della Presidenza italiana del G20, con particolare riferimento al tema della ripresa economica e sociale post pandemica.
(Governo Italiano, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 22 novembre 2021)
Dunque il Presidente del Consiglio italiano ha concesso in veste ufficiale un colloquio ad un privato cittadino tedesco di nome Klaus Schwab. Perché? Il comunicato è molto stringato. Certo, la persona onorata dall'incontro è ben nota, perché è l'autore del libro "Covi-19: The Great Reset". Ma non erano i "complottisti" ad essere accusati di suscitare paure inconsistenti parlando dell'esistenza d un "Grande Reset mondiale", e suscitando le ironie pungenti degli antinovax? Perché allora questo colloquio presidenziale con un teorico del Grande Reset? Ma che dice Klaus Schwab a questo proposito? M.C.
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La Corte di giustizia Ue: Hamas è terrorista, avanti con le sanzioni
Ribaltata la sentenza del Tribunale europeo che aveva bloccato il provvedimento: «Il congelamento dei fondi resta in vigore.
di Emanuele Bonini
BRUXELLES. Hamas è e resta un’organizzazione terroristica, e le misure restrittive adottate dagli Stati membri dell’Unione europea vanno mantenute. La Corte di giustizia dell’Ue difende l’impianto politico-giuridico del Consiglio Ue nei confronti dei combattenti palestinesi, ribalta la sentenza del Tribunale che aveva bocciato le sanzioni, e ne conferma legittimità e validità.
Le sanzioni, avendo portata individuale e non carattere generale, non rispondono a regole e procedure classiche. Fare un paragone tra procedura legislativa vera e propria e atti specifici non è possibile, sostiene la Corte Ue, perché gli iter sono diversi in ragione della diversa natura del carattere delle decisioni. Motivo per cui i vizi di forma contestati dal Tribunale non hanno ragion d’essere. Avanti con le sanzioni ad Hamas, dunque.
Hamas è inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche di Ue, Unione degli Stati Americani, Stati Uniti, Israele, Canada e Giappone, mentre Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito operano una distinzione tra organizzazione politica e ala militare, adottando una politica intransigente solo nei confronti della seconda.
Nel 2018 il Consiglio dell’Ue decise di mantenere Hamas nel registro comunitario delle organizzazioni terroristiche. Di conseguenza il braccio armato dei nazionalisti palestinesi poteva essere colpito da misure restrittive quali congelamento di capitali e di risorse economiche. Esattamente quello venne deciso dal club dei Ventisette.
Il 4 settembre 2019 il Tribunale di Lussemburgo si pronunciò contro queste disposizioni, bocciando quattro atti adottati dal Consiglio per vizi di forma. Si contestò la mancata autenticazione da parte del Consiglio, mediante una firma, delle motivazioni alla base degli atti impugnati.
Oggi la Corte di giustizia dell’UE annulla la decisione che aveva annullato l’operato del Consiglio. «Il Tribunale ha commesso un errore di diritto», spiegano i giudici di Lussemburgo. Non c’è alcuna necessità che i documenti in questione siano firmati dal presidente e dal segretario generale del Consiglio. I documenti oggetto di contestazione «non rientrano nella natura generale» degli atti ufficiali, e per questo «è sufficiente che la motivazione sia debitamente autenticata con altri mezzi». Per il documento che accompagna le sanzioni non è dunque indispensabile la firma dei vertici del Consiglio.
Nell'esame del caso si rilevano altri elementi che consentono di stabilire la legittimità dell'operato dell'Unione europea. Innanzitutto la Corte di giustizia fa notare che le motivazioni delle sanzioni contro Hamas «erano state adottate dal Consiglio contemporaneamente ai suddetti atti, e la loro autenticità non era stata validamente messa in discussione». A questo si aggiunge il fatto che Hamas «non ha validamente contestato» le decisioni dell’Unione europea. Il congelamento dei fondi resta dunque in vigore.
(La Stampa, 23 novembre 2021)
Allarme antisemitismo. Gli ebrei d’Europa sempre più preoccupati
di Paolo Castellano
La principale minaccia per l’esistenza degli ebrei europei è l’antisemitismo. A dirlo è un sondaggio pubblicato il 18 novembre e condotto dall’American Jewish Joint Distribution Committee. I sondaggisti hanno intervistato i rappresentanti delle comunità ebraiche d’Europa con l’obiettivo di comprendere le necessità e le preoccupazioni degli ebrei europei. Dunque, la sicurezza delle comunità è fondamentale. Per la prima volta – da quando è stato creato il sondaggio nel 2008 – l’antisemitismo è in cima alla lista delle preoccupazioni degli ebrei europei. Tanto che il 26% dei leader intervistati ha dichiarato di considerare l’idea di fare l’aliyah, trasferendosi definitivamente in Israele. Soltanto il 3% ha dichiarato di essersi attivato per lasciare l’Europa. Il 67% ha detto di non volersi trasferire e un altro 8% non ha risposto alla domanda. Come riporta The Times of Israel, i due terzi del campione hanno poi sostenuto di aspettarsi un amento degli atteggiamenti antisemiti nel continente europeo nei prossimi 10 anni. Un pessimismo in aumento rispetto alle risposte registrate nei precedenti sondaggi. Allo stesso tempo, il 22% dei rappresentanti ebrei ha affermato di non sentirsi al sicuro nelle proprie città. Oltre l’aumento dell’antisemitismo, le comunità ebraiche sono tormentate dalle difficoltà finanziarie. La pandemia di Covid-19 ha danneggiato il reddito dei membri e i budget si sono ridotti, inclusi i proventi dei musei. Tra l’altro, il sondaggio dell’American Jewish Joint Distribution Committee ha riscontrato ulteriori preoccupazioni. I leader ebrei hanno espresso disagio per gli sforzi di diversi paesi europei nel vietare la macellazione Kasher e la circoncisione maschile non medica. A parte questo, è cresciuto il sostegno allo Stato d’Israele. Il 66% dei rappresentanti ebrei ha dichiarato di “sostenere pienamente Israele, indipendentemente da come si comporti il suo governo”. Nel 2015 questa affermazione era stata accolta soltanto dal 48% dei leader.
(Bet Magazine Mosaico, 23 novembre 2021)
Israele-Giordania firmano accordo: acqua in cambio di energia solare
di Simona Lazzari
Israele e Giordania firmano un accordo che prevede acqua desalinizzata in cambio di energia solare. I due Paesi hanno siglato l’accordo a Dubai grazie alla mediazione degli Emirati Arabi Uniti e degli USA.
Israele-Giordania firmano accordo: cos’è successo?
Israele e Giordania hanno siglato un accordo preliminare per scambiare acqua desalinizzata con l’energia solare. L’accordo prevede che la Giordania esporti circa 600 megawatt di elettricità generata dall’energia solare. Mentre Israele esporti fino a 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata.
L’intesa è stata raggiunta con la mediazione degli Emirati Arabi Uniti e degli USA. Funzionari del governo di Israele, Giordania e Emirati Arabi Uniti hanno firmato una lettera di intenti all’Expo di Dubai, aprendo la strada alla futura esportazione di energia solare giordana in cambio di acqua desalinizzata israeliana.
Alla cerimonia della firma era presente anche l’inviato speciale per il clima USA, John Kerry. Kerry ha affermato: “Il Medio Oriente è in prima linea nella crisi climatica. Solo lavorando insieme i paesi della regione possono raccogliere la sfida. L’accordo di oggi è un esempio positivo di come la cooperazione possa accelerare la transizione energetica e costruire una maggiore resilienza”.
(Periodico Daily, 23 novembre 2021)
La grande storia degli Ebrei d'Oriente
di Simona Verrazzo
Sulla sponda sud-orientale del Mediterraneo la presenza della lingua araba è in grado di estendere il significato di espressioni come "vicino Oriente" o "medio Oriente", arrivando a spingersi fino al Marocco, il più occidentale di paesi arabi, e Mashreq è la parola araba utilizzata per indicare l'Ovest. La premessa aiuta a comprendere la mostra presso l'Istituto del Mondo Arabo di Parigi: "Ebrei d'Oriente. Una storia plurimillenaria". L'esposizione conclude la trilogia dedicata alle religioni monoteistiche nate in quello che oggi è il mondo arabo, cominciata nel 20 14 con "Hajj, il pellegrinaggio alla Mecca" e proseguita ne120l7 con "Cristiani d'Oriente, 2000 anni di storia".
Da domani fino al 13 marzo la mostra punta a far conoscere la secolare presenza delle comunità ebraiche nei paesi arabi, fatta di convivenza e persecuzioni, scambi culturali, intellettuali e commerciali così come di ghettizzazioni. Ed ecco che torna la lingua come collante, poiché è vero che la mostra si intitola Ebrei d'Oriente, ma è anche vero che si concentra pure verso l'Ovest, coinvolgendo il Marocco e prima ancora il regno spagnolo dell'Andalusia, che proprio durante la dominazione araba raggiunse il suo massimo splendore grazie all'importante presenza delle comunità ebraiche. Di quell'epoca il nome che su tutti spicca è Moshe ben Maimon, più noto come Mosè Maimonide, medico e giurista ebreo, nato a Cordoba nel 1135 e morto al Cairo nel 1204. Tra sezioni tematiche e un percorso tra geografia e storia, una delle date spartiacque è il 1492, anno della cacciata di ebrei e musulmani dagli odierni Spagna e Portogallo, una diaspora approdata prima in Marocco e poi in tutto il nord Africa, fino ad arrivare alla sponda orientale del Mediterraneo' toccando anche Italia e Grecia. Sono i sefarditi, da Sefard, il nome con cui gli ebrei chiamavano la penisola iberica. Da Fez a Beirut passando per Alessandria d'Egitto, le comunità ebraiche nei paesi arabi bagnati dal Mediterraneo hanno convissuto per secoli con musulmani e cristiani mantenendo costumi, tradizioni culinarie, luoghi di culto e soprattutto la lingua. A differenza degli ebrei del resto del mondo arabo, loro si distinguono per l'utilizzo di una propria lingua, il "ladino mediterraneo" che nei secoli ha consentito di mantenere i rapporti tra le diverse comunità presenti sulle sponde meridionale e orientale.
Dai reperti archeologi agli oggetti liturgici e di uso quotidiano, dai manoscritti alle installazioni multimediali, l'esposizione punta anche a promuovere e conservare un patrimonio di enorme ricchezza e che arriva fino ai nostri giorni. È il caso del recupero delle sinagoghe che da secoli fanno parte del contesto urbano delle città arabe. In Tunisia il tempio sull'isola di Jerba è uno dei maggiori luoghi di culto ebraici di tutta l'Africa ed è meta di pellegrinaggio. In Libano è sottoposta a restauro la principale sinagoga di Beirut, pesantemente danneggiata dopo l'esplosione dell'agosto 2020. In Iraq e Siria sono in corso progetti di censimento delle sinagoghe devastate durante il regime del Daesh. Preziosa è l' attenzione data alla comunità ebraica dello Yemen, tra le più antiche del mondo e oggi, composta da neanche cinquanta persone, vittima di persecuzioni da parte dei ribelli sciiti Houthi.
(Avvenire, 23 novembre 2021)
Due amiche ebree divise dai nazisti si rivedono a 91 anni
Nel 1938 si erano dette addio a Berlino. L'archivio fondato da Steven Spielberg ha messo in contatto Betty e Ana Maria
Quando Betty Grebenschikoff e Alla Maria Wahrenberg si sono riabbracciate, dopo 82 anni, hanno fatto quello che fanno le amiche: «Abbiamo riso tanto che piangere era impossibile, e bevuto un sacco di champagne». E un bicchiere dopo l'altro, per quattro giorni di fila, «abbiamo parlato e parlato».
C'erano da raccontare, del resto, otto decenni da amiche del cuore separate. Si erano dette addio a 9 anni nel cortile di scuola, a Berlino, all'indomani della Notte dei Cristalli. Le loro famiglie, ebree, sarebbero partite. Ciascuna era certa che l'altra, come molti dei loro cari, fosse morta.
Le ex bambine Lise (ora Betty) e Annemarie (ora Ana Maria, avendo entrambe cambiato nome all'epoca dell'espatrio, e ripreso il proprio cognome solo all'estero) si sono incontrate per la prima volta cinque giorni fa a St. Petersburg in Florida, a casa di Betty; da febbraio, quando si sono ritrovate, si chiamavano su Zoom ogni domenica; e appena le restrizioni anti-Covid lo hanno reso possibile Ana Maria, che vive in Cile, ha preso un aereo ed è volata dalla sua amica. Hanno 91 anni.
Amiche dai 6 ai 9, in classe insieme, frequentavano la stessa sinagoga e giocavano negli stessi cortili. Ricordano «le proibizioni che si infittivano, improvvisamente non potevamo più giocare a palla, né in bicicletta, come gli altri»; e ricordano il pomeriggio dell'addio, a novembre 1938, nel cortile di scuola. Ricordano bene anche la notte prima: mentre fuori le vetrine andavano in frantumi e le sinagoghe bruciavano, la famiglia di Betty stava chiusa in casa a luci spente, per far credere ai nazisti di essere via; quella di Ana Maria fu perquisita, e il padre portato per 29 giorni a Sachsenhausen, da cui poi fu rilasciato perché aveva il visto per l'espatrio.
La famiglia di Betty sarebbe fuggita in nave verso Shanghai, uno dei rari porti ancora aperti, mesi dopo; dopo il 1948 Betty volò con il marito in Australia e poi in Florida. I Wahrenberg arrivarono in Cile, unici tra i loro parenti a sopravvivere alla Shoah.
Il loro ritrovamento si deve a una ricercatrice della Usc Shoah Foundation, archivio fondato da Steven Spielberg che conserva 55 mila testimonianze audiovisive di sopravvissuti alla Shoah. Ita Gordon, la ricercatrice, aveva seguito un seminario in cui una dei relatori, Alla Maria, l'aveva toccata nel profondo. Era novembre 2020. Gordon - che di lavoro indicizza le testimonianze con parole chiave, come i nomi delle persone e dei luoghi menzionati - cerca subito nell'archivio testimonianze di Wahrenberg. Non ne trova. Cerca il nome della sua scuola, del quartiere, della sinagoga. Trova un video del 1997 in cui un'altra sopravvissuta, Betty Grebenschikoff, dice di aver cercato per decenni la sua amica Annemarie. Così, ora, l'ha ritrovata.
(Corriere della Sera, 23 novembre 2021)
Germania: un'inchiesta rivela la presenza di ex nazisti nella magistratura tedesca del dopoguerra
di David Di Segni
Uno studio, commissionato dal procuratore generale tedesco Peter Frank nel 2017, ha rilevato che nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale il sistema giudiziario del paese era in gran parte composto da ex-membri del partito nazista.
Nell’inchiesta di seicento pagine, intitolata "La sicurezza dello Stato nella guerra fredda", lo storico Friedrich Kiessling e lo studioso di diritto Christoph Safferling hanno analizzato il periodo compreso fra gli anni Cinquanta e Settanta, rilevando un’iniziale significativa presenza nazista nella magistratura, che solo a metà degli anni Settanta è diminuita in maniera concreta.
L’ufficio era dunque la "continuazione perfetta di quanto praticato sotto il nazionalsocialismo”, e fu così fino al 1992 quando, due anni dopo la riunificazione nazionale della Germania, l'ultimo procuratore legato al nazismo lasciò l'ufficio. “Non c'è stata alcuna rottura con il passato” scrivono gli autori dell’inchiesta.
La presenza di ex nazisti nella Germania del dopoguerra era stata giustificata dalla necessità del paese di dover costruire un baluardo capitalista contro la minaccia comunista. Un obiettivo che ha permesso di chiudere un occhio sul precedente coinvolgimento dei propri funzionari nel Terzo Reich.
L'ufficio del procuratore Frank, che ha commissionato l’inchiesta, è una delle istituzioni più potenti del paese che gestisce casi di sicurezza nazionale, compresi terrorismo e spionaggio. Per l’inchiesta, i ricercatori hanno avuto accesso illimitato a centinaia di file classificati ed hanno scoperto che il perseguimento dei criminali di guerra nazisti all'epoca era minimo.
(Shalom, 22 novembre 2021)
Caso Eitan, il Tribunale del Riesame conferma l’ordinanza di arresto per il nonno
È valida l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Pavia a carico di Shmuel Peleg, 58enne accusato di aver sequestrato e portato, lo scorso 11 settembre, in Israele il nipote Eitan, l’unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. Lo ha deciso il tribunale del Riesame di Milano respingendo il ricorso presentato dalla difesa del nonno materno del bambino contro il provvedimento del 30 ottobre concesso dal gip Pasquale Villani su richiesta del procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti e del pm Valentina De Stefano. Le motivazioni della decisione saranno depositate nei prossimi giorni.
La difesa di Peleg, con l’avvocato Paolo Sevesi, al momento preferisce non commentare e si riserva di farlo dopo che avrà letto le motivazioni in vista di un eventuale ricorso per Cassazione. I legali, nell'udienza di cinque giorni fa davanti al Riesame, avevano contestato le accuse di sequestro di persona, sottrazione e trattenimento di minore all'estero e in particolare la qualificazione giuridica dei fatti. Per la difesa il trasferimento da Lugano a Tel Aviv con un volo privato non sarebbe un sequestro in quanto non ci fu costrizione sul bimbo. L'ordinanza del gip riguarda anche Gabriel Alon Abutbul, "soldato di ventura" dell'agenzia di contractor statunitense BlackWater, che avrebbe aiutato Peleg a portare via il piccolo.
Sulla base del provvedimento di custodia cautelare la procura generale di Milano ha chiesto l'estradizione dei due indagati, trasmettendo gli atti al Ministero delle Giustizia che è in dialogo con la controparte israeliana. Peleg si trova attualmente a Tel Aviv dove ha intrapreso una battaglia legale per tenere con sé il nipote.
(La Stampa, 22 novembre 2021)
Un attentato sanguinoso a Gerusalemme, vigliacco e molto preoccupante
di Ugo Volli
Ieri c’è stato un nuovo attacco terroristico a Gerusalemme, con un bilancio molto pesante: un morto e tre feriti molto gravi da parte israeliana, oltre all’attentatore, a quanto pare solitario, liquidato per far cessare l’assalto. Vi sono diversi elementi preoccupanti. Il primo è il fatto che l’attentato sia stato condotto con un’arma da fuoco, e neanche una pistola ma una mitraglietta da guerra. Negli ultimi anni i terroristi avevano usato piuttosto coltelli o eventualmente automobili mandate ad alta velocità contro le vittime, cioè strumenti facili da trovare e giustificabili per i loro possibili altri usi. Questo per aggirare la vigilanza delle forze dell’ordine, ma anche per mostrare che il terrorismo nasceva autonomamente, era un “movimento popolare di resistenza”, e dunque doveva essere limitato un livello di “bassa intensità”. L’uso di armi da guerra cambia completamente questo quadro e apre scenari di conflitto militare vero e proprio. La seconda ragione di preoccupazione è che questo attentato è la nuova tappa di una serie di attacchi recenti ormai abbastanza nutrita: l’altro giorno c’era stato l’accoltellamento alle spalle di due poliziotti, e prima ancora altri assalti. Sembrerebbe il segnale di un ritorno alla serie di assalti terroristici di tre o quattro anni fa, che alcuni avevano presentato come “intifada dei coltelli”. Solo che oltre ai coltelli è entrata in gioco anche il mitra. La terza ragione di preoccupazione è che l’attacco è avvenuto nel quartiere ebraico della città vecchia, a due passi dal Kotel: le vittime su cui il terrorista ha scelto di sparare erano anche ebrei religiosi ben riconoscibili che tornavano dalle preghiere, oltre che soldati e poliziotti. Siamo nel centro della vita ebraica della capitale, non al confine con la zona islamica, come era accaduto con gli attacchi precedenti alla Porta di Damasco e dintorni. La quarta ragione infine è che il terrorista era un membro di Hamas, un insegnante di religione (la religione della pace, come qualcuno la definisce…) ma soprattutto uno dei dirigenti dell’organizzazione terrorista a Shuafat, un quartiere arabo “difficile” compreso nel territorio municipale di Gerusalemme. L’attentatore aveva dunque una carta di identità di residente che gli consentiva di muoversi liberamente e non aveva ostacoli o barriere di protezione a fermarlo. Hamas ha rivendicato ufficialmente l’attentato, ha patrocinato la solita cerimonia rivoltante della distribuzione di dolcetti ai passanti a Gaza, ed è stata anche in grado di organizzare un corteo a Shafuat sotto la casa dell’attentatore, condotto con uno slogan ritmato che promette altro sangue: “milioni di jihadisti stanno arrivando a Gerusalemme”. Di questa sfilata vi sono anche dei video che mostrano manifestanti numerosi, ben organizzati e giovanissimi. Tutto ciò mentre Hamas conduce trattative col governo di Israele, avvalendosi della mediazione egiziana, per ottenere la scarcerazione di centinaia o migliaia di terroristi condannati al carcere in cambio dei due civili che tiene sequestrati a Gaza: negoziati che secondo le voci che corrono sono in uno stato avanzato. Insomma vi è una rinnovata aggressività del terrorismo, che potrebbe preludere anche a un nuovo ciclo di lanci di razzi e di scontri intorno a Gaza. E’ molto probabile che la responsabilità di questa nuova fase di attentati sia dell’Iran, che cerca di distogliere l’attenzione dal proprio armamento atomico e di impegnare in attività antiterrorista l’esercito israeliano, disturbando la preparazione di un possibile attacco ai propri impianti atomici. Tutto ciò serve anche a mettere alla prova un governo israeliano assai diviso al suo interno, che comprende un partito islamico vicino alla Fratellanza Musulmana di cui anche Hamas è espressione, e che forse non reggerebbe alle tensioni di un nuovo conflitto aperto col terrorismo.
(Shalom, 22 novembre 2021)
Il ritorno del sangue di Hamas. Attacco al cuore di Gerusalemme
Il terrorista palestinese Shkahydem fa una vittima e tre feriti nella città vecchia. Il terrorismo fa paura.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - È bellissima la Città Vecchia alle 9 di mattina vicino al Muro del Pianto, i negozi chiusi, le stradine vuote. Vuote, fuorché per il terrorista che cerca la preda, Faadi Abu Shkahydem, di mestiere educatore religioso, un fanatico colto conosciuto dalla polizia, un imam di Shuafat nella periferia di Gerusalemme. il video di un telefonino mostra tutto: i colpi dell'arma automatica risuonano sulle pietre antiche, un ferito chiama disperato aiuto, gente per terra, fuga. Girano già foto che lo rappresentano in cattedra, mentre insegna a file di studenti concentrati e attenti, e altre riprese che lo mostrano furioso contro gli ebrei. E, già impaginata e pronta nel santino con la bandiera verde sulla Moschea di Al Aqsa, la faccia barbuta dell'assassino ispirato dal piacere di essere uno shahid, un martire di Hamas. Tutto nerovestito è uscito col mitra e i coltelli e ha sparato, uccidendo un ragazzo israeliano, una guida, e ferendone almeno altre tre, uno è grave. Poi due poliziotte lo hanno fermato, e le forze dell' ordine sono riuscite a sparargli fermando la strage. È la seconda volta in una settimana che Hamas colpisce a Gerusalemme, la volta precedente un attacco col coltello, sempre in Città Vecchia. Stavolta il terrorista aveva 42 anni e poiché anche a Giaffa poco più tardi un palestinese, probabilmente di Hamas, è stato bloccato dopo aver assalito e ferito un uomo, si comincia a pensare a un' ondata terrorista. Che Shkhaidem avesse progettato i' attacco sembra evidente, aveva fatto partire la moglie da Israele. Quella dell'aggressione terroristica palestinese è una vicenda che si rinnova portando lutto con ritmo implacabile: Hamas è alla ricerca di consensi nel suo conflitto interno con Abu Mazen e cerca di rafforzarsi ulteriormente dopo che il presidente americano Ioe Biden, oltre all'Egitto e altre forze mediorientali, hanno di nuovo spinto un rinnovato sforzo di unità fra Hamas e Abu Mazen. Adesso, poi, la mossa prende un sapore internazionale, perché la ministra degli Interni inglese Priti Patel ha messo nella lista delle organizzazioni terroriste Hamas, per intero, non solo per la parte armata. E ha anche spiegato che lo ha fatto anche in virtù del fatto che si tratta di una «rabbiosa organizzazione antisemita» che mette a rischio al vita di tutti, e che tollerare l’antisemitismo crea delle pessime condizioni per la sicurezza del popolo ebraico e di ciascuno, dando la possibilità di spargere il veleno della violenza in tutti i Paesi occidentali, oltre che in Israele. Patel segnala una lungimirante visione strategica quando aggiunge che bisogna combattere senza risparmio di forze dato che Hamas «ha significative capacità terroriste, incluso i' accesso a quantità estesa di armi sofisticate e a strutture di training terrorista». Ovviamente qui il riferimento è ai rapporti con Fratellanza Musulmana, Erdogan e Qatar, oltre che dell'Iran della Guardia Rivoluzionaria. Hamas ha reagito dicendo che l'Inghilterra «di nuovo sostiene gli aggressori invece delle vittime». Quello che qui Hamas intende, e stavolta risulta d'accordo con Abu Mazen, è la completa delegittimazione e criminalizzazione del fondamento stesso dello Stato d'Israele, e quindi la determinazione a cancellarlo. Una risoluzione di morte, cui manca qualsiasi spazio per una politica di pace e soprattutto di miglioramento della condizione palestinese, destinata alla predicazione d'odio che gli viene somministrata dalla parole e dai gesti di gente come Shkaidem.
(il Giornale, 22 novembre 2021)
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Chi ha il coraggio di parlare ancora di pace tra israeliani e palestinesi?
di Franco Londei
L’ennesimo vile attacco da parte di un palestinese di Hamas nei confronti di civili israeliani (sottolineo civili) avvenuto ieri a Gerusalemme Est, ha lasciato sul terreno un civile israeliano morto e altri quattro feriti.
Ora, gli attentati di Hamas contro civili israeliani sono purtroppo nell’ordine delle cose in Medio Oriente visto l’odio che gli arabi cosiddetti “palestinesi” nutrono nei confronti di Israele, ma ieri è avvenuto qualcosa di veramente diverso.
Prima di tutto si dimentica di rimarcare con forza che gli attacchi palestinesi contro gli israeliani avvenuti numerosi negli ultimi tempi (quello di ieri era il secondo in quattro giorni), avvengono con la componente araba al Governo in Israele.
Se qualcuno credeva, come spesso ho sentito dire, che la presenza del partito arabo Ra’am nel Governo israeliano avrebbe favorito la pace tra israeliani e palestinesi, si sbagliava di brutto. Fino ad ora ha favorito l’Autorità Palestinese e Hamas, ormai praticamente libero di fare attentati senza che nessuno possa rispondere come si deve altrimenti cade il Governo.
…i palestinesi si sentono liberi di fare quello che vogliono compreso marciare per le strade di Gerusalemme, la capitale di Israele…
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Ma ieri si è andati oltre perché proprio grazie alla presenza del partito arabo Ra’am nel Governo israeliano, i palestinesi si sentono liberi di fare quello che vogliono compreso marciare per le strade di Gerusalemme, la capitale di Israele, inneggiando al “martire” che ieri ha ucciso un israeliano e ne ha feriti quattro.
Per la cronaca, l’attentatore palestinese era un insegnante di 42 anni di nome Fadi Abu Shkhaydam, non quindi un ragazzino ideologizzato, che sapeva perfettamente di andare a morire ma sapeva anche che con la sua morte la sua famiglia avrebbe preso un vitalizio che, visto il risultato, sarà anche piuttosto cospicuo perché Abu Mazen paga a seconda dei morti e dei feriti.
«I martiri stanno andando a Gerusalemme a milioni» scandivano i manifestanti palestinesi nella capitale di Israele senza che nessuno sentisse il dovere quantomeno di disperderli.
E quello di ieri è il quadro perfetto per descrivere l’attuale governo israeliano, letteralmente ostaggio degli arabi che chiaramente tacciono o denunciano con poca forza gli attentati mentre il figlio del killer si dice «orgoglioso del padre» e Hamas glorifica il suo “martire” promettendo una guerra senza quartiere.
E qualcuno ha ancora il coraggio di parlare di pace tra Israeliani e palestinesi? Qualcuno ha ancora il coraggio di dire che gli arabi nel governo di Israele possono favorire la pace? Ma per favore…
(Rights Reporter, 22 novembre 2021)
Piogge torrenziali in Israele, allagamenti in diverse città
Piogge torrenziali hanno colpito Israele, provocando allagamenti, feriti e anche una vittima: l'acqua fuoriusciva dalle rocce nel Deserto della Giudea.
Dopo una lunga e calda estate e un clima piacevole che si è esteso all’autunno, negli ultimi giorni Israele è stato colpito da un forte maltempo, che ha prodotto piogge torrenziali. Il Servizio Meteorologico Israeliano aveva avvisato che il weekend 20-21 novembre sarebbe stato caratterizzato da piogge e temporali in tutto il Paese, con il rischio di alluvioni lungo le coste e nel Deserto della Giudea.
Proprio nel Deserto della Giudea, a causa delle forti piogge, grandi quantità di acqua fuoriuscivano dalle rocce. Diversi fiumi sono esondati nei deserti del Negev e Arava, mentre una forte grandinata si è verificata nella città meridionale di Kiryat Malakhi.
Le alluvioni hanno portato alla chiusura delle strade in una serie di città costiere, incluse Holon, Bat Yam e Netanya. Le piogge hanno creato problemi e purtroppo anche vittime a causa delle strade scivolose. Sabato 20 novembre, due giovani di circa 20 anni sono rimasti feriti quando la loro moto è scivolata lungo l’autostrada vicino Gerusalemme: uno di loro è morto a causa delle ferite riportate, mentre l’altro è stato portato in ospedale. Sempre sabato, un uomo di circa 85 anni ha ricevuto cure di emergenza dopo essere stato trovato privo di sensi e senza battito nella città di Ramle. Probabilmente è scivolato ed è caduto in una pozza d’acqua, dove è stato trovato solo mezz’ora dopo la caduta. L’uomo è stato portato in ospedale, dopo essere stato rianimato. Una donna è stata salvata dal suo veicolo nella città di Netanya, a causa dell’alto livello raggiunto dall’acqua. 9 persone, tra cui 3 bambini, hanno riportato ferite da lieve a moderate quando due veicoli sono usciti fuori strada a causa della pioggia nella città settentrionale di Tiberiade.
(MeteoWeb, 22 novembre 2021)
Attentato a Gerusalemme: ucciso un israeliano
Un israeliano è stato ucciso e altri quattro sono stati feriti stamattina in un attentato terroristico avvenuto nella Città Vecchia a Gerusalemme.
Gli agenti di polizia avevano sparato contro l’assassino, un palestinese di Gerusalemme est. I media hanno identificato il terrorista come Fadi Abu Shkhaydam (42) residente a Shuafat. Il ministro della pubblica sicurezza Omar Barlev ha affermato che l'attentatore era affiliato ad Hamas e che l'attacco terroristico sembrava essere stato ben pianificato in anticipo.
“Il terrorista era un membro del ramo politico di Hamas che pregava regolarmente nella Città Vecchia. Sua moglie è fuggita all'estero tre giorni fa. Lui ha usato armi standard che non sono comunemente disponibili in Israele", ha detto Barlev in un commento dalla scena dell’attentato terroristico. Tra le persone colpite nell’attentato vi sono due civili, uno è deceduto, secondo il servizio di ambulanza Magen David Adom. Gli altri due feriti sono poliziotti.
L’attacco è avvenuto intorno alle 9 del mattino vicino alla Porta delle Catene nella Città Vecchia, uno degli ingressi al Monte del Tempio. La polizia ha immediatamente chiuso il sito.
Nel video della scena, si può sentire una voce fuori campo che grida ripetutamente "aiuto" in ebraico, seguita da una raffica di armi da fuoco. Si possono quindi sentire altri spari mentre la polizia insegue l'aggressore.
L'incidente è avvenuto diversi giorni dopo l’attacco nella Città Vecchia in cui sono rimaste ferite due guardie di frontiera. Il portavoce di Hamas, Hazim Qasim, ha esultato per l'attacco terroristico definendolo "lotta legittima".
(Shalom, 21 novembre 2021)
La svolta di Londra: "I politici di Hamas nella lista dei terroristi"
La decisione dopo l'incontro di Glasgow tra Johnson e Bennet. La ministra Patel: "Una scelta dovuta".
Sharon Nizza
Il Regno Unito si accinge a dichiarare Hamas “organizzazione terroristica nella sua interezza”, ponendo fine alla distinzione tra ala politica e militare e allineandosi alle designazioni con cui già Stati Uniti e Unione Europea hanno inserito nelle rispettive liste nere il movimento fondamentalista che governa la Striscia di Gaza dal 2007. «Una distinzione artificiale: Hamas ha significative capacità terroristiche, che comprendono l’accesso a ingenti e sofisticati armamenti », ha dichiarato venerdì la ministra degli Interni Priti Patel nell’annunciare il provvedimento, che in settimana passerà al voto parlamentare e potrebbe diventare esecutivo già dal 26 novembre. Vittoria per Israele, che premeva da tempo, e determinante l’incontro tra i premier Boris Johnson e Naftali Bennett a margine della Cop26 di Glasgow. Un atto dovuto alla comunità ebraica britannica, che «non si sente sicura», ha specificato Patel. «Hamas è una organizzazione veementemente antisemita e l’antisemitismo è un male duraturo che non tollererò mai».
Se il decreto diventerà esecutivo, ogni espressione di sostegno a Hamas, incontri con i suoi rappresentanti, sventolarne la bandiera, saranno reati punibili con pene fino a 14 anni di carcere. Ma l’implicazione più preoccupante per Hamas riguarda la stretta alle donazioni, conseguenza diretta dei congelamenti di beni e conti correnti prevista con la designazione. L’anno scorso lo stesso provvedimento era stato approvato anche per i libanesi di Hezbollah. Per entrambe le organizzazioni, l’Inghilterra è considerato un campo fertile di raccolta fondi attraverso numerose associazioni caritatevoli. Un’inchiesta del quotidiano Haaretz a maggio tracciava il percorso di milioni di fondi che raggiungono Hamas dalla Malesia passando per banche turche e attraverso enti benefici di stanza a Londra.
«Un atto inutile che non avrà nessun effetto deterrente sul nostro movimento, continueremo a difendere la nostra gente con ogni metodo di confronto stabilito dalla resistenza », è la reazione del capo di Hamas Ismail Haniyeh da Doha. Ma le fazioni palestinesi hanno convocato una riunione di emergenza a Gaza, dove proprio ieri si commemorava l’86mo anniversario della morte di Izzaddin al Qassam, l’ideologo siriano che dà il nome all’ala militare di Hamas che la Gran Bretagna aveva messo fuorilegge già nel 2001: «Chiediamo al Parlamento britannico di rigettare la decisione», contro cui è invocata una “campagna internazionale”, si legge in una nota. «Una mossa che diminuirà il ruolo del Regno Unito nel promuovere gli sforzi per la pace», è la condanna che arriva dalla missione permanente palestinese a Londra. Una dichiarazione non scontata, considerato che la diplomazia internazionale è gestita dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) guidata dagli esponenti del Fatah, acerrimi nemici di Hamas, con cui non si è mai saldata la frattura nata dopo la guerra civile a Gaza del 2007. Solo venerdì, gli apparati di sicurezza dell’Anp hanno aperto una mega operazione per “ripristinare la governabilità” nell’area del campo profughi di Jenin dove bande legate a Hamas e alla Jihad Islamica sollevano la testa. E mentre il premier Naftali Bennett ringrazia Londra – dove oggi atterrerà il presidente dello Stato Itzhak Herzog – su un canale parallelo invia al Cairo gli uomini delle ombre: il capo della Sicurezza nazionale Eyal Hulata e il direttore dello Shin Bet Ronen Bar hanno incontrato nei giorni scorsi il potente capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel per formulare una nuova proposta di accordo con Hamas (fuorilegge in Egitto come parte della Fratellanza Musulmana) nel tentativo di cementare la tregua raggiunta a maggio dopo 11 giorni di conflitto. Un accordo che, secondo indiscrezioni della stampa israeliana, comprenderebbe “significativi passi avanti” anche rispetto a uno scambio di prigionieri Israele-Hamas in discussione da anni.
(la Repubblica, 21 novembre 2021)
Educare alla Torah, oltre ogni barriera
Anche di fronte alle difficoltà, il mondo ebraico ha sempre tramandato l'impegno allo studio
Stando al Talmud di Gerusalemme la prima grande rivoluzione si ebbe ai tempi di Shimon ben Shatach un secolo prima della distruzione del Tempio, con l'istituzione di un sistema di istruzione pubblico "perché tutti i bambini andassero a scuola". Non di minore rilievo è la testimonianza che proviene dal Talmud babilonese, secondo il quale fu essenziale la riforma scolastica completata, nel I secolo, dal sommo sacerdote Yehoshua ben Gamla, ricordato come colui che evitò "che venisse dimenticata la Torah da Israele", allargando a tale scopo la rete di scuole in tutto il paese a partire dall'età di sei, sette anni, a favore di chi non poteva permettersi insegnanti privati (Greenberg 1960; Botticini, Eckstein 2012). L’elevato grado di alfabetizzazione presso gli ebrei deve il suo successo, quindi, alla determinazione con cui, in ogni contesto, le prescrizioni bibliche che imponevano lo studio della Torah e della letteratura rabbinica tradizionale a ogni livello furono tenute in considerazione. Non deve stupire il fatto che, contemporaneamente alla fondazione delle comunità fra Quattrocento e Cinquecento, prendesse corpo l'organizzazione di una struttura più o meno complessa di pubblica gestione che rispondesse all'esigenza di dare una formazione ebraica ai bambini. Anche nei centri più piccoli ci si preoccupava di garantire almeno la presenza di un istruttore pagato dalla collettività - figura che sovente coincideva con quella del rabbino - a favore dei più poveri, mentre le famiglie più abbienti assoldavano precettori personali, a servizio di più nuclei o addetti alla formazione dei rampolli delle famiglie più benestanti (Bonfil 1991). Non è un caso che proprio per la duplice funzione di luogo di preghiera e di studio, la sinagoga in Italia, come in altre realtà, venisse chiamata "Scola". Fino al Seicento, quando ancora la popolazione ebraica era frammentata in insediamenti di ridotte dimensioni, era consueto che un giovane lasciasse presto la propria casa per recarsi ad apprendere la dottrina e la lingua ebraica presso collegi privati. Non era affatto raro che i primi fondamenti si cominciassero ad assimilare fin dall'età di tre anni, in gruppi di bambini e bambine insieme, dove il gioco era il veicolo attraverso il quale si iniziavano a imparare brevi preghiere, i precetti quotidiani e a familiarizzare con le lettere ebraiche.
La divisione fra maschi e femmine avveniva per lo più intorno ai sei anni con la previsione di esperienze diversificate.
Le ragazze, sebbene nella maggior parte delle realtà non fosse previsto un percorso di studi articolato come per i maschi, grazie alla rete dei precettori acquisivano pur sempre un'istruzione di base che consentiva loro di apprendere almeno i rudimenti dei testi sacri così come i precetti a loro destinati, ma sarebbe un errore considerare preclusa del tutto per loro la strada dell'istruzione superiore, nonostante le barriere dell'ambiente culturale e le limitazioni che l'interpretazione degli scritti sacri imponevano. È proprio attraverso la voce dei maestri che apprendiamo l'esistenza di numerosi casi di giovani la cui spiccata attitudine per gli studi era ripagata con la previsione di percorsi che premiavano il genuino interesse e le particolari capacità femminili (Weinstein 2007). Un'opera rivolta alle giovinette già grandicelle e proiettate a formare presto una famiglia trovò fortuna in Italia, al pari di altre simili al di là delle Alpi, e poté contare su svariate edizioni nel corso del Seicento e del Settecento. I Precetti da esser imparati dalle donne ebree, scritto in Yiddish da Binyamin Aharon Slonik nella seconda metà del Cinquecento e tradotto in italiano da Jacob Alpron che aveva maturato una lunga esperienza come istruttore presso case ebraiche, dichiarava già nel frontespizio l'intento di "mostrare la via di vivere secondo il dat yisrael (la legge di Israele), e di reggere la casa e allevar i figlioli israelim (ebrei) con il timor di Dio" (Settimi 2017).
Con maggiore puntualità siamo in grado di conoscere il programma di studi previsto per i maschi, declinato quasi ovunque almeno su due livelli distinti, in modo da preparare i giovani all'ingresso nella società previsto con il rito di passaggio del Bar Mitzvah a tredici anni. Il Talmud Torah (studio della Torah), era questo il nome generico con cui era nota la scuola, era previsto in ogni realtà ebraica persino di ridotte dimensioni. Lì si apprendeva innanzitutto a leggere e scrivere in caratteri ebraici e molto spesso anche l'italiano, a prescindere da quale fosse la comunità di appartenenza: tedesca, spagnola-portoghese o italiana. Specifica attenzione era rivolta alla lettura delle preghiere e della Torah, in modo che i fondamenti fossero acquisiti in maniera significativa e che potessero accompagnare il giovane per tutto il percorso della vita. La fisionomia giuridica che assumeva l'istituzione mutava a seconda delle realtà e in alcuni casi era parte del sistema delle confraternite che garantivano i servizi ai membri della comunità. A Roma, già nel 1602, la compagnia del Talmud Torah aveva personalità giuridica autonoma di associazione e dal regolamento della seconda metà del XVIII secolo apprendiamo l'esistenza di una biblioteca propria a servizio degli studenti (Ferrara, Franzone 2011). A Livorno, con la haskamà 65 del 1664, i maggiorenti decidevano di rendere obbligatoria la scuola pubblica messa a disposizione della comunità e di renderne proibita, salvo eccezioni, la gestione privata attraverso precettori dell'istruzione elementare (R. Toaff 1990).
(Pagine Ebraiche, novembre 2021)
Il sogno del tiranno
“L’epidemia è il sogno del tiranno … è una tirannia triste dove la gente per paura obbedisce ciecamente al tiranno dicendo: non è il tempo di pensare, è il tempo di obbedire!" (Miguel Benasayag)
impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo
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La Turchia ha rilasciato la coppia israeliana accusata di spionaggio
Mordi e Natalie Oknin già rientrati a Tel Aviv con un volo privato organizzato dal ministero degli esteri israeliano. Prevista una telefonata tra Bennett ed Erdogan, la prima del presidente turco con un primo ministro israeliano dal 2013.
GERUSALEMME - È stata rilasciata e la coppia di turisti israeliani arrestati a Istanbul martedì scorso con l'accusa di spionaggio per aver fotografato uno dei palazzi residenziali del presidente Recep Tayyip Erdogan. La vicenda che ha tenuto col fiato sospeso l'opinione pubblica israeliana per i nove giorni della detenzione di Mordi e Natalie Oknin, entrambi conducenti di autobus della città di Modiin, si è conclusa con una soluzione tutta mediata sottobanco e tenuta in grande riserbo. Mentre ancora ieri sera i telegiornali riportavano della preoccupazione per il destino della coppia, solo oggi è emerso che gli Oknin erano stati rilasciati dalle autorità turche nel pomeriggio di mercoledì e trasferiti al consolato israeliano a Istanbul. Durante la notte si sono imbarcati su un volo del ministero degli Esteri israeliano e la notizia del rilascio è stata diffusa solo al momento dell'atterraggio all'aeroporto Ben Gurion nel primo mattino. Il motivo di tanta segretezza è il coinvolgimento delle massime autorità di Gerusalemme (la presidenza dello Stato, l'ufficio del premier, il ministero degli Esteri e il Mossad) nell'affrontare una situazione che in realtà si è svolta su un doppio canale: da un lato, l'obiettivo del rilascio di "ingenui cittadini che non hanno nulla a che fare con i servizi", come si erano affrettati a specificare il premier Naftali Bennett e il capo dello Stato Itzhak Herzog in dichiarazioni pubbliche della prima ora. Dall'altro lato però, una finestra di opportunità verso un Paese con cui Israele intrattiene un rapporto ambivalente, segnato da grande instabilità nel corso di ormai due decenni di leadership Erdogan, il cui partito appartiene alla sfera di influenza dei Fratelli Musulmani e sostiene apertamente Hamas, che dal 2007 governa nella Striscia di Gaza.
• Un'occasione di dialogo tra Ankara e Gerusalemme Quella che aveva il potenziale di sfociare in una nuova crisi diplomatica israelo-turca, potrebbe invece trasformarsi ora in un'occasione per riscaldare i rapporti. "Si intravede in questa crisi e nel modo in cui si è risolta un'opportunità per promuovere le relazioni tra i due Paesi", ha commentato di primo mattino il ministro per le costruzioni Ze'ev Elkin, considerato un falco in politica estera. "Il presidente turco va ringraziato per la positiva conclusione di questa vicenda". Poco dopo, è arrivata una telefonata ufficiale tra il presidente Herzog e l'omologo Erdogan, in cui il leader turco ha "enfatizzato l'importanza delle relazioni con Israele per la pace, la stabilità e la sicurezza del Medioriente" e il capo dello Stato israeliano "ha accolto con favore la volontà di intrattenere un ampio dialogo su questioni bilaterali e regionali". Poco prima, in un comunicato congiunto, il premier Bennett e il titolare degli Esteri Lapid avevano anche loro espresso "ringraziamenti per il Presidente turco e il suo governo per la loro cooperazione". Tante esternazioni positive da Gerusalemme verso Ankara non si sentivano da tempo. A stretto giro è prevista anche una prima telefonata tra Bennett e Erdogan, che segnerà il primo colloquio diretto con un primo ministro dello Stato ebraico dal 2013. La stampa israeliana si interroga se vi sia un "gesto di ricompensa" offerto al premier turco per avere sbloccato la situazione, che si suppone possa concretizzarsi in qualche misura distensiva verso la Striscia di Gaza - le autorità israeliane negano che sia stata fatta qualsivoglia promessa. Quello che invece sembra emergere è che la coppia di turisti sia stata una sorta di "vittima sacrificale" del tentativo di Erdogan di riavvicinarsi a Israele. Un tentativo che va avanti da parecchio, cercando di ricucire dopo l'ultimo smacco, quando, nel 2018, sullo sfondo di scontri violenti al confine della Striscia di Gaza, Ankara espulse nel giro di poche ore l'ambasciatore israeliano (Israele in risposta cacciò il console).
• Gli accordi di Abramo e il problema della Fratellanza musulmana Un anno fa, Erdogan dichiarava pubblicamente che "la Turchia vuole migliorare le relazioni con Israele". A luglio, dopo l'elezione del nuovo presidente israeliano Itzhak Herzog, Erdogan fu tra i primi capi di Stato a sollevare la cornetta per complimentarsi, in una conversazione durata oltre 40 minuti. Altri tentativi di riconciliazione più o meno sottobanco non avevano incontrato però una risposta calorosa da parte di Israele: diversamente dal passato, con la firma degli Accordi di Abramo e l'avvicinamento alla sfera di influenza dei Paesi del Golfo - avversi al sostegno turco della Fratellanza musulmana molto più di quanto lo siano verso i pasdaran iraniani - Gerusalemme ormai deve tenere conto delle nuove alleanze e giostrarsi tra tutti gli attori regionali (compresi i Greci e i Ciprioti). Certo è che Israele non può accettare che i propri cittadini rischino di cadere "ostaggio" (è questo il termine che la stampa israeliana ha utilizzato per tutta la settimana) delle controversie politiche con un Paese che continua a figurare tra le mete turistiche principali per gli israeliani. Gerusalemme si è astenuta dall'inserire la Turchia tra le "destinazioni a rischio" per i propri cittadini, e c'è chi considera questo gesto come parte della "ricompensa" per il rilascio degli Oknin. Gli stessi Oknin che, viaggiatori abituali in Turchia, pochi momenti prima dell'arresto avevano mandato un video per convincere degli amici a non temere di visitare il Paese: "In Turchia si sta benissimo ed è sicuro, parliamo ebraico senza problemi: adorano gli israeliani qui!". Quando si dice le ultime parole famose.
(la Repubblica, 18 novembre 2021)
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Pregi e autorità della saggezza
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 8.
- Io, la saggezza, sto con l’accorgimento
e ho trovato la scienza della riflessione.
- Il timore del SIGNORE è odiare il male;
io odio la superbia, l’arroganza, la via del male e la bocca perversa.
- A me appartiene il consiglio e il successo;
io sono l’intelligenza, a me appartiene la forza.
- Per mio mezzo regnano i re,
e i prìncipi decretano ciò che è giusto.
- Per mio mezzo governano i capi,
i nobili, tutti i giudici della terra.
- Io amo quelli che mi amano,
e quelli che mi cercano mi trovano.
- Con me sono ricchezze e gloria,
i beni duraturi e la giustizia.
- Il mio frutto è migliore dell’oro fino,
il mio prodotto vale più dell’argento selezionato.
- Io cammino per la via della giustizia,
per i sentieri dell’equità,
- per far ereditare ricchezze a quelli che mi amano,
e per riempire i loro tesori.
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Io, la saggezza, sto con l’accorgimento
e ho trovato la scienza della riflessione.
L'accorgimento può essere la capacità di capire come stanno effettivamente le cose, e può anche essere una qualità neutra, usabile nel bene come nel male. Ma la saggezza , che sta costantemente (lett. abita) con l'accorgimento, arriva alla scienza mediante la riflessione. Con l'accorgimento si possono dunque fare diagnosi realistiche di una data situazione, ma è con la riflessione che si trova la giusta terapia, cioè si diventa capaci di intervenire in modo utile ed efficace nella realtà.
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Il timore del SIGNORE è odiare il male;
io odio la superbia, l’arroganza, la via del male e la bocca perversa.
Poiché Dio odia il male, chi si comporta deliberatamente in modo malvagio si mette dalla parte del male e quindi cade sotto l'odio di Dio. Se questo fatto non provoca alla persona alcun disagio, vuol dire che non ha timore del Signore. E la mancanza di questo salutare sentimento si manifesta proprio nel fare ciò che Dio odia: cioè avere un atteggiamento interiore di falsa sicurezza di sé che in realtà è superbia e arroganza; praticare la via del male, avendo una condotta che segue vie scorrette e disoneste; usare la bocca per farne uscire parole che pervertono la giustizia e ingannano o calunniano il prossimo (cfr. 6:16-19).
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A me appartiene il consiglio e il successo;
io sono l’intelligenza, a me appartiene la forza.
Nelle considerazioni dei fatti storici e politici qualche volta si dice che i tiranni e i dittatori hanno "la ragione della forza", ma non "la forza della ragione". Ma che forza è, quella della ragione, se alla resa dei conti deve cedere davanti alla prepotenza della stoltezza? Si tende a dire che è una forza ideale, ma non si capisce in quale mondo alla fine avrà successo. Nel mondo delle idee? Ma esiste un simile mondo? E se, come molti sospettano, non esiste, il parlare di "forza della ragione" in realtà finisce per essere soltanto la magra consolazione dei vinti.
Qui però si parla di una sapienza che sempre più assume le caratteristiche della divinità. A lei appartiene non soltanto il consiglio, ma anche il successo; non solo l'intelligenza, ma anche la forza. Non per nulla sono caratteristiche che la Scrittura attribuisce al Messia (Isaia 11:2), una Persona divina che regna fin dall'eternità, e che un giorno manifesterà pubblicamente la sua sapienza e la sua forza nel regno messianico annunciato dai profeti di Israele.
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Per mio mezzo regnano i re,
e i prìncipi decretano ciò che è giusto.
Usando un linguaggio moderno, si può dire che qui si parla di due poteri: il potere di governo e il potere giudiziario. Nell'antichità i due poteri venivano molto spesso esercitati dalla medesima persona, perché l'esercizio della giustizia era una prerogativa della sovranità. Anche in una società decaduta, Dio mette a disposizione di coloro che sono in autorità la necessaria sapienza per governare e amministrare la giustizia, così come dona ai genitori la capacità di allevare ed educare i figli.
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Per mio mezzo governano i capi,
i nobili, tutti i giudici della terra.
Purtroppo l'esercizio del potere da parte degli uomini è in varia misura deturpato dalla loro natura peccatrice, ma proprio per questo la Scrittura afferma che un giorno il Messia divino mostrerà concretamente al mondo come si amministra il potere in modo perfettamente conforme alla volontà di Dio.
Io amo quelli che mi amano,
e quelli che mi cercano mi trovano.
La saggezza divina non comunica soltanto conoscenze tecniche su come stanno le cose, ma desidera anche trasmettere amore. D'altra parte, l'amore non è soltanto effusione di sentimenti, ma anche comunicazione di una parola di verità proveniente da Dio. Questo spiega perché molti rifiutano l'amore di Dio. Tutti sono disposti a lasciarsi amare, se questo significa soltanto essere aiutati a risolvere i propri problemi, ma pochi sono disposti ad accettare l'amore di Dio quando questo si manifesta nella forma di una parola che invita ad abbandonare il peccato, a ravvedersi e a credere in Colui che è sapienza e amore infiniti. Chi rifiuta la parola di sapienza che gli arriva da parte di Dio, respinge il Suo amore. Chi invece si apre alla Parola di Dio e cerca la Sua sapienza, la trova. E in questo modo mantiene aperto quel flusso d'amore di cui Dio è stato l'iniziatore.
Con me sono ricchezze e gloria,
i beni duraturi e la giustizia.
I beni in possesso della sapienza vengono presentati - si potrebbe quasi dire propagandati - soprattutto per sottolineare che essi sono a disposizione di coloro che amano la sapienza. Ricchezze e gloria erano già state promesse in 3.16. I beni duraturi che qui vengono aggiunti sono doni che evidentemente non spariscono con la persona, ma si prolungano sui discendenti e sull'ambiente circostante. Infatti i doni della saggezza, proprio perché hanno le caratteristiche della giustizia, non sono dati per essere goduti soltanto nel privato e in un determinato momento, ma estendono i loro benefici effetti tutto intorno, nello spazio e nel tempo.
Il mio frutto è migliore dell’oro fino,
il mio prodotto vale più dell’argento selezionato.
Il paragone con oro e argento è già stato fatto in 3.14 e 8.10. In tutti i casi l'oro di cui si parla è sempre oro fino, e in questo versetto anche l'argento è selezionato. Come in 3.14, anche qui l'accento viene messo non tanto sul valore in sé di questi due metalli, quanto sul frutto o prodotto che procurano. Il termine qui tradotto con prodotto, in 3.14 viene infatti tradotto con profitto. Si tratta dunque di un interesse, un vero e proprio utile finanziario. In linguaggio attuale si potrebbe dire che l'interesse procurato dalla sapienza è di gran lunga maggiore di quello che potrebbero dare le migliori azioni presenti sul mercato finanziario mondiale.
Io cammino per la via della giustizia,
per i sentieri dell’equità,
La sapienza ha degli obiettivi e porta dei benefici a chi la possiede. Qui si precisa che per lei non sono importanti soltanto gli obiettivi, ma anche i metodi usati per raggiungerli. Per lei non vale il detto: il fine giustifica i mezzi. La furbizia cammina per la via della menzogna, ma la sapienza cammina per la via della giustizia, per i sentieri dell'equità.
Per far ereditare ricchezze a quelli che mi amano,
e per riempire i loro tesori.
Nella saggezza popolare spesso si mettono in contrasto i metodi con gli obiettivi. Il furbo - si pensa - è uno che usa metodi spregiudicati e disonesti, ma ottiene risultati vantaggiosi; il galantuomo invece è uno che usa metodi leciti e corretti, ma molto spesso quello che ottiene è soltanto l'autocompiacimento per la sua integerrima condotta. L'onesto partecipa al concorso per un posto pubblico senza farsi raccomandare, ed è moralmente encomiabile, ma non vince. Il furbo invece è moralmente riprovevole, perché si fa raccomandare, ma vince il concorso e ottiene il posto. Le conclusioni però si tirano alla fine. I beni donati dalla sapienza, che cammina per la via della giustizia, sono duraturi (8.18), ma "La ricchezza male acquistata va diminuendo" (Proverbi 13.11) e "Chi acquista ricchezze, ma non con giustizia, è come la pernice che cova uova che non ha fatte; nel bel mezzo dei suoi giorni egli deve lasciarle; quando arriva la sua fine, non è che uno stolto" (Geremia 17.11).
M.C.
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Hamas è troppo antisemita per Londra
Il governo inglese abbandona la montatura dell’“ala politica”
di Daniele Raineri
ROMA - Ieri la ministra dell’Interno britannico, Priti Patel, ha annunciato da Washington che il Regno Unito inserirà la fazione palestinese Hamas nella lista dei gruppi terroristici senza più fare distinzione fra ala politica e ala militare. Questo vuol dire che appoggiare in pubblico Hamas, incontrare i suoi membri o sventolare la sua bandiera diventerà un reato che secondo l’Uk Terrorism Act potrà essere punito con la reclusione fino a dieci anni. Non sono ipotesi di scuola, perché Hamas nel Regno Unito gode dell’appoggio di un numero di simpatizzanti. Negli ultimi anni si è assistito soprattutto a Londra a una progressiva normalizzazione di Hamas e del gruppo libanese Hezbollah. Le bandiere dei due gruppi sono state avvistate durante manifestazioni e comizi e queste simpatie hanno creato momenti di imbarazzo politico nel partito Labour quando il leader era Jeremy Corbyn. “Hamas – ha spiegato Patel – è fondamentalmente ed estremamente antisemita. L’antisemitismo è un male permanente che non tollererò mai. A causa di esso gli ebrei si sentono in pericolo a scuola, nelle strade, nelle sinagoghe, nelle loro case e online”. L’Unione europea aveva già fatto cadere la distinzione tra ala militare e ala politica di Hamas nel 2010. Il gruppo ha poi fatto ricorso due volte per ottenere il ritorno al doppio sistema, ma senza successo. I giudici hanno stabilito che Hamas non è uno stato quindi non gode del principio di non interferenza e che la separazione fra combattenti e politici è fittizia, il gruppo agisce come un’entità unica senza divisioni interne. Alcuni governi invece la mantengono. Nel 2001 Londra designò le brigate Ezzedin al Qassam – i reparti armati di Hamas – come gruppo terrorista, ma creò una distinzione tra combattenti e leadership politica, che restò fuori dalla designazione. Vent’anni dopo “quella distinzione non è più difendibile – ha detto Patel ai giornalisti – perché non riusciamo a disaggregare il lato politico da quello militare. E’ una decisione che si basa su un’ampia mole di informazioni, di intelligence e di collegamenti con il terrorismo”. Hamas aspira a governare tutti i palestinesi, è piazzata bene nei sondaggi di voto, contende il potere politico e militare alle altre fazioni, soprattutto ai rivali di Fatah, e controlla l’intera Striscia di Gaza, abitata da due milioni di persone. Il gruppo ha perso la capacità di compiere grandi attentati suicidi nelle città israeliane, sponsorizza invece attacchi casuali compiuti da volontari e a volte spara razzi contro le città di Israele. Mercoledì sera un sedicenne palestinese ha tentato di accoltellare due poliziotti nella Città vecchia di Gerusalemme ed è stato ucciso. Hamas ha emesso un comunicato per celebrarlo come “uno dei nostri martiri”.
Il Foglio, 20 novembre 2021)
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Israele vaccina i bambini tra 5 e 11 anni
A partire da martedì, in Israele sarà possibile vaccinare contro il Covid i bambini fra i 5 e gli 11 anni. Lo ha annunciato il primo ministro Naftali Bennett. «Sono consapevole che c'è una certa sensibilità in materia - ha scritto Bennett su Facebook, promettendo totale trasparenza e la diffusione di tutte le informazioni scientifiche necessarie per prendere una decisione consapevole -. Molte persone hanno paura a vaccinare i figli, e non sono per forza anti-vax o complottisti».
Per domani è atteso l'arrivo del primo carico di dosi per i bambini del vaccino Pfizer BioNTech, che registra un tasso di protezione del 90,7%: per questa fascia di età sono già previste vaccinazioni negli Stati Uniti, in Cambogia, Colombia e Cuba.
(Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2021)
Dopo la vaccinazione
Il canarino ebraico
Drammatico sondaggio sull’antisemitismo: “Un ebreo su quattro pensa di lasciare l’Europa”. Il presidente della Conferenza dei rabbini europei: “In pochi anni persi 300 mila ebrei”.
di Giulio Meotti
ROMA - Un sondaggio dell’American Jewish Joint Distribution Committee tra i leader delle comunità ebraiche in Europa ha rilevato che il 23 per cento sta pensando di emigrare. Più di due terzi degli intervistati hanno affermato di aspettarsi un aumento dell’antisemitismo in Europa nel prossimo decennio e il 22 per cento degli intervistati ha affermato di non sentirsi al sicuro nelle proprie città, rispetto al 7 per cento del 2008. C’è il rabbino capo olandese, Benjamin Jacobs: “Dobbiamo andarcene in Israele”. Cinque dei suoi figli lo hanno già fatto. E quando andrà in pensione, li seguirà anche lui. Il rabbino capo della Catalogna, Meir Bar-Henha, ha espresso lo stesso desiderio: “Gli ebrei non saranno qui in modo permanente. Dico da tempo ai membri della mia congregazione: non pensate che staremo qui per sempre. E li incoraggio a tornare e comprare proprietà in Israele. Questo posto è perduto. Non rifate l’errore degli ebrei dell’Algeria, del Venezuela. Meglio andarsene via subito prima che sia troppo tardi”.
Nei giorni scorsi, parlando al Point, Pinchas Goldschmidt, il presidente della Conferenza dei rabbini europei, alla domanda se si senta più al sicuro per strada, a Mosca, dove vive, o a Parigi o Bruxelles dove va regolarmente, ha risposto: “Mi sento molto più al sicuro a Mosca. Tanto più che sono stato personalmente aggredito a Bruxelles. Ho incontrato tre mesi fa a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, ebrei che si sono trasferiti lì perché si sentono più al sicuro che a Parigi o Bruxelles. In un paese arabo!”.
Poi Goldschmidt ha sciorinato numeri impressionanti: “Alcuni anni fa, in Europa erano rimasti 1,6 milioni di ebrei. Oggi quel numero è diminuito di almeno 300 mila”. Nelle scorse settimane c’è stata una conferenza internazionale sull’antisemitismo a Malmö, in Svezia. Se la congregazione ebraica della terza città svedese contava duemila persone negli anni 70, oggi ce ne sono meno di cinquecento. La situazione è tale, rivela l’Expressen, che “una coperta è stata messa sui libri nella vetrina degli Archivi della città di Malmö. O meglio, i libri con caratteri ebraici. Un rischio per la sicurezza”. La giornalista ebrea svedese Paulina Neuding ha scritto: “Così nessuno avrebbe rotto la finestra e lanciato una bomba incendiaria”.
La scuola materna ebraica all’apparenza è normalissima. Ma i bambini giocano dietro a un vetro antiproiettile. Prima dell’attentato di Copenaghen del 2015, nell’asilo nido ebraico c’erano 23 bambini: oggi sono rimasti in cinque. La comunità ebraica di Malmö potrebbe dissolversi entro il 2029. “La congregazione ebraica sparirà presto”, si legge in una nota comunitaria.
Nizza è stata un paradiso per gli ebrei per quasi mille anni. Fino a quindici anni fa ospitava la quarta più grande comunità ebraica in Francia con ventimila membri. Oggi tremila. Secondo l’Aftenposten, il venti per cento delle due più grandi comunità norvegesi (Oslo e Trondheim) se n’è andato nell’ultimo decennio. “La Norvegia potrebbe essere il primo paese in Europa a diventare jüdenfrei”, ha scritto la giornalista Julie Bindel. La comunità ebraica danese ha perso il 25 per cento dei membri negli ultimi quindici anni, ha detto il presidente Finn Schwarz al quotidiano Jyllands-Posten.
Il rabbino capo olandese Jacobs, durante una recente conferenza a Nimega, ha rivelato che lui e sua moglie se ne sarebbero già andati se non fosse per senso del dovere. “Sono come il capitano in servizio su una nave che affonda”.
Il Foglio, 20 novembre 2021)
Viaggi in Israele: le istruzioni per l’uso dell’Ente del turismo
di Roberta Moncada
L’ ufficio nazionale Israeliano del Turismo continua il suo lavoro di formazione e comunicazione con gli operatori italiani, e in un webinar dedicato ad agenti ed operatori spiega nel dettaglio le nuove regole di ingresso, anche alla luce della recente apertura – dal 1° novembre – ai turisti individuali (dopo l’esperimento di un programma pilota a settembre per accogliere i gruppi organizzati). Israele è quindi aperta da ottobre ai viaggiatori (individuali o gruppi) che abbiano completato il ciclo vaccinale da almeno 2 settimane (tutti i vaccini approvati in italia sono riconosciuti da Israele), con regole diverse per chi ha superato 180 giorni di validità del vaccino. Prima di partire, bisognerà eseguire un tampone Pcr in Italia con risultato in Inglese sul quale sia indicato il numero di passaporto. Il tampone deve essere fatto entro le 72 ore dalla partenza per Israele. Entro 24 ore dalla partenza bisognerà invece compilare l’Entry Statement Form del Ministero della Salute Israeliano, (nel modulo vanno inserite le date di somministrazione di entrambe le dosi). Necessaria anche la stipula di un’assicurazione sanitaria con copertura Covid prima della partenza. All’arrivo in Israele, i viaggiatori dovranno eseguire un tampone Pcr in aeroporto Ben Gurion (il tampone si può prenotare in anticipo, al costo di circa 23 euro) e attendere l’esito presso la struttura obbligatoriamente dove si soggiorna la prima notte. L’esito arriva al massimo entro 24 ore, ma solitamente entro le 6-8 ore (qui il link per prenotare il tampone). E’ importante notare che 180 gg dal ciclo completo non possono scadere durante il soggiorno in Israele, e che coloro che hanno fatto la 3° dose da almeno 14 gg, sarà considerato un completo vaccinato. Chi è vaccinato da più di 180 giorni, invece, può comunque andare in Israele, ma facendo parte dei gruppi organizzati, che avranno regole specifiche. Innanzitutto, l’operatore italiano che organizza il gruppo dovrà procedere alla richiesta attraverso un DMC israeliano che si occuperà di svolgere tutte le pratiche attraverso il Ministero del Turismo che a sua volta inoltrerà richiesta definitiva al Ministero della Salute israeliano. Questo, perché il progetto prevede l’ingresso giornaliero di massimo 2.000 persone da tutto il mondo vaccinate da oltre 180 gg. Inoltre, chi è vaccinato da oltre 6 mesi sarà tenuto ad effettuare un tampone PCR ogni 72 ore durante il soggiorno in Israele, e gli sarà consentito spostarsi solamente attraverso la “bolla” del gruppo: non potrà cioè girare autonomamente, ma solamente seguire l’itinerario del gruppo. Infatti, per i gruppi che abbiano al proprio interno persone vaccinate da più di sei è mesi obbligatorio anche l’uso di una guida turistica. Come sottolinea Pietro De Arena, marketing manager dell’ente, «se prima per qualsiasi tipologia di gruppo bisognava per forza passare da un tour operator e quindi per forza da un dmc israeliano che si occupava di tutta l’organizzazione, e di tutta la gestione delle regolamentazioni, adesso questo vale soltanto per i gruppi al cui interno ci sia qualcuno vaccinato da più di 180 giorni. Quindi è una grande apertura al turismo». Gli fa eco Mariagrazia Falcone, responsabile turismo religioso e direttore comunicazione, secondo la quale queste nuove regole offrono «una grande possibilità per tutti i gruppi che sono già stati programmati soprattutto per le prossime festività natalizie e anche dopo». Per quanto riguarda nello specifico i luoghi santi, sottolinea Falcone, è stato costruito uno specifico punto informazioni (il Christian Information Center), che tra le altre cose organizza ingressi contingentati nei luoghi medesimi, quindi in tutta sicurezza. Confini aperti anche con la Giordania, adesso raggiungibile anche via terra oltre che via aerea. Una volta arrivati in Israele, le regole per usufruire delle varie attrazioni, e per girare nei luoghi pubblici sono molto simili all’Italia: obbligo di mascherina nei luoghi chiusi e possibilità di entrare in ristoranti, musei, ecc.. mostrando il green pass. I bambini non vaccinati non possono entrare nel Paese. Nonostante le regole per la sicurezza, quindi, Israele è sempre più aperta al turismo, in particolare a quello dall’Italia, dimostratasi una delle Nazioni a maggior potenziale verso Israele nel 2022. Infatti, con 4.551.600 presenze nel 2019, quello Italiano è il 6° mercato mondiale del turismo per Israele ed è tra i 5 mercati con il miglior trend di crescita per la destinazione. «L’Italia è un mercato molto importante per noi- ha dichiarato Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo per l’Italia- e la nostra aspettativa è che per il 2022, anche grazie ai molti collegamenti, alla vicinanza, e al mutuo riconoscimento del sistema di green pass, sarà sempre più importante per la nostra destinazione». Roberta Moncada: Sinologa ed esperta di turismo cinese. Ha vissuto diversi anni in Cina, per poi tornare in Italia, dove attualmente lavora per diversi Tour Operator come accompagnatrice turistica ed organizzatrice di tour ed attività enogastronomiche per turisti cinesi.
(L'Agenzia di Viaggi, 19 novembre 2021)
Al via a Tel Aviv la sesta edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo
Ricco programma di appuntamenti per valorizzare e promuovere il patrimonio enogastronomico e culturale dell’Italia.
Prenderà il via a Tel Aviv il 22 novembre la sesta edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, iniziativa promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e realizzata in Israele dall’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv e dall’ Agenzia Nazionale del Turismo (ENIT), in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura, ICE, la Camera di Commercio e Industria Israel-Italia e l’Accademia italiana della Cucina. Una ricca selezione di eventi virtuali e in presenza per valorizzare la tradizione culinaria come una delle eccellenze del Made in Italy e simbolo dell’identità e della cultura italiana. La cucina italiana è infatti espressione di tradizione, strettamente legata ai territori e alla passione che si è sviluppata intorno alla qualità dei singoli ingredienti, ma anche di continua innovazione; un connubio che rende il nostro Paese sinonimo di eccellenza e qualità nel mondo in questo settore, incluso in Israele. “Puntiamo a far crescere il nostro agroalimentare, un settore che in Israele, nonostante gli ottimi risultati in termini di esportazioni (171 milioni di euro nei primi otto mesi del 2021, +12,9%) ha ancora margini di crescita e che, anche per effetto della pandemia COVID, necessita di ulteriore impulso a beneficio e tutela delle nostre aziende", ha dichiarato l'Ambasciatore d'Italia in Israele Sergio Barbanti. “Dopo le difficoltà che abbiamo vissuto lo scorso anno nel settore turistico, siamo pronti a ripartire a pieno ritmo. Gli israeliani amano andare in Italia così come gli italiani amano venire in Israele. L'Italia ha riaperto ai viaggi di affari e di turismo e sono tanti i voli disponibili e le destinazioni italiane raggiungibili direttamente da Tel Aviv”, ha sottolineato Clelia Di Consiglio, Rappresentante dell’ Agenzia Nazionale del Turismo in Israele. Gli eventi in programma puntano a valorizzare, da diverse prospettive, non solo la qualità delle ricette e della ristorazione italiana, ma l’unicità dei prodotti e degli ingredienti originali italiani, con la partecipazione di Chef italiani e israeliani, visite virtuali nelle Regioni italiane, laboratori di cucina sul vino, il cioccolato, la pizza, la pasta e la pasticceria italiana. Il filo conduttore sarà quello della sostenibilità alimentare e del riuso e la promozione integrata della cucina italiana di qualità e dei nostri prodotti agroalimentari autentici nel solco della sostenibilità, cultura, sicurezza alimentare, diritto al cibo, educazione, identità e biodiversità. La conferenza scientifica di apertura, che si terrà nella prestigiosa cornice del Weizmann Institute, sarà incentrata sull’evoluzione della Dieta Mediterranea nei secoli, partendo dagli studi di archeologia fino ad arrivare alla ricerca e al recupero di varietà antiche di olio, vite e grano, oggi utilizzate per ampliare lo spettro dei sapori e i valori nutrizionali della Dieta Mediterranea. A chiusura della settimana, si terrà in collaborazione con la Municipalità di Tel Aviv un autentico mercato italiano a Giaffa. Tutti gli eventi saranno trasmessi in diretta streaming sulle pagine Facebook “Be Italia” e “Italian Lifestyle Israel-Italy”.
(Ambasciata Italiana a Tel Aviv, 19 novembre 2021)
Come e perché il "macellaio di Damasco" Assad è tornato nelle grazie degli ex nemici arabi
Nelle ultime settimane alti rappresentanti di Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti si sono incontrati con le loro controparti siriane e hanno persino visitato Damasco.
Dieci anni di guerra, morte, distruzione. Un Paese ridotto in macerie, un popolo ad una moltitudine di profughi. Un inferno in terra: la Siria. E sulle macerie regna un burattino manovrato dai suoi protettori esterni- Russia, Iran, Hezbollah – senza i quali Bashar al-Assad non sarebbe al potere e forse neanche in vita.
• MEMORIA CORTA Ma la memoria dei rais e autocrati che dominano in Medio Oriente, è labile. E chi ieri era un nemico mortale, oggi può diventare un alleato prezioso. Di grande interesse, in merito, è l’articolo di Anshel Pfeffer, direttore editoriale di Haaretz, tra i più autorevoli analisti di geopolitica israeliani. “Nelle ultime settimane – scrive Pfeffer – alti rappresentanti di Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti si sono incontrati con le loro controparti siriane e hanno persino visitato Damasco. Il presidente Bashar Assad è ancora persona non grata nelle capitali arabe, e probabilmente rimarrà tale per il prossimo futuro. Ma il suo regime, dopo lunghi anni di isolamento durante la guerra civile siriana, viene lentamente fatto rientrare dal freddo. È interessante notare che i paesi che prendono l’iniziativa, a nome del resto della Lega Araba, sono quelli con cui Israele ha sempre più forti legami di sicurezza e anche diplomatici. Il riavvicinamento arabo non ha avuto alcuna risposta da parte di Israele, almeno non in pubblico. In privato, gli alti funzionari israeliani sono piuttosto blasé al riguardo. Ufficiosamente, esprimono la speranza che questo serva almeno da contrappunto all’influenza iraniana in Siria. L’atteggiamento israeliano non dovrebbe sorprendere. In nessun momento dei 10 anni di guerra civile siriana Israele è intervenuto in modo decisivo. Infatti, all’inizio della guerra, l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha consigliato nei suoi incontri con i leader occidentali di non fornire ai ribelli armi avanzate, soprattutto non missili antiaerei, che temeva potessero cadere nelle mani sbagliate ed essere usati contro gli aerei israeliani. Israele ha fornito piccole quantità di armi leggere – insieme ad aiuti medici e forniture alimentari – ai gruppi ribelli sulle alture del Golan. Ma questo era principalmente per assicurare che l’area vicino al confine di Israele non diventasse un’enclave dell’Isis. Nei primi anni dello scorso decennio, quando in vari punti della guerra civile siriana sembrava che il futuro di Assad fosse in pericolo, circolavano alcune voci serie all’interno dell’establishment di sicurezza israeliano che sostenevano che Israele dovesse cogliere l’occasione e affrettare la sua fine. C’era un argomento sia strategico che morale: Israele non doveva rimanere in disparte mentre, appena oltre il confine, un dittatore assetato di sangue massacrava centinaia di migliaia di civili. Mentre nessuno chiedeva un colpo diretto contro il cuore del regime, c’erano altre linee d’azione sostenute. Uno era per la creazione di un ampio “corridoio umanitario”, o “no-fly zone”, sul confine israeliano del Golan, in cui i civili sarebbero stati protetti dalle forze di Assad e dall’Isis, dalla potenza aerea israeliana. Un altro suggerimento, che è stato anche espresso pubblicamente dal Magg. Gen. (res.) Amos Yadlin, era che Israele lanciasse attacchi aerei per distruggere i jet e gli elicotteri d’attacco dell’aviazione siriana che venivano usati per bombardare le aree civili. Netanyahu ha spazzato via tutti questi suggerimenti. Ha insistito sul fatto che Israele non sarebbe stato risucchiato nella tragedia siriana, e che l’attenzione sarebbe rimasta solo sugli obiettivi legati all’Iran. Le basi del regime sarebbero state colpite solo se avessero ospitato elementi della Forza Quds iraniana o se fossero state usate per immagazzinare armi destinate a Hezbollah. Comunque, il dibattito in Israele su cosa fare di Assad è diventato irrilevante il 30 settembre 2015, quando l’aviazione russa ha effettuato il suo primo attacco aereo contro i ribelli siriani come parte della sua campagna di successo per salvare il regime di Assad. Dal momento in cui il primo jet da combattimento russo Sukhoi è atterrato nella base aerea di Khmeimim vicino a Latakia, Assad ha avuto l’ombrello di una superpotenza. Poiché l’amministrazione Obama aveva già chiarito due anni prima che non importava quanti civili siriani Assad avesse ucciso con armi chimiche, gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti, Israele non aveva altra scelta che fare i suoi accordi con la Russia. In pochi giorni, Netanyahu era su un aereo per incontrare il presidente Vladimir Putin. L’accordo con i russi era chiaro: il loro cliente siriano non sarebbe stato toccato finché Israele avrebbe continuato ad avere campo libero per attaccare obiettivi iraniani. Putin era e rimane d’accordo con questo accordo. Gli iraniani possono aver fornito alla causa pro-Assad carne da cannone sotto forma di decine di migliaia di poveri miliziani sciiti dell’Iraq e dell’Afghanistan che l’Iran ha fatto volare per combattere e morire in Siria, ma Putin non voleva nemmeno che prendessero il controllo della Siria. Era perfettamente felice di vedere Israele frenare le loro aspirazioni. Ma la linea di fondo rimane che Israele ha acconsentito, all’inizio, che Assad rimanesse al potere. Infatti, un dittatore indebolito e screditato a Damasco è l’opzione preferibile per Israele. In un esito alternativo e piuttosto improbabile in cui i ribelli avessero avuto successo e un nuovo regime meno radicale avesse preso il potere, Israele avrebbe subito nuove pressioni per ritirarsi dalle alture del Golan. Assad è intoccabile ora al di fuori della regione, quindi nessuno sosterrà la sua rivendicazione della terra ora. E avere Assad sotto controllo è anche preferibile all’altra alternativa, più probabile, che sarebbe stata la Siria che diventa una caotica terra di nessuno e una base per l’Isis. Questo è lo stesso calcolo fatto dagli alleati arabi di Israele. C’è un precedente recente per questo. Il regime sudanese del presidente Omar al-Bashir era macchiato di sangue come quello di Assad, ma è stato riaccolto nell’ovile arabo sunnita quando ha accettato di tagliare i legami con l’Iran, che usava il suo territorio per il contrabbando di armi. L’aiuto finanziario saudita e il tranquillo sostegno israeliano e statunitense hanno assicurato questa transizione. Bashir è stato poi deposto e messo sotto processo, ma questa non era una precondizione. Per diritto, Assad dovrebbe essere all’Aia, seduto sul banco degli imputati della Corte penale internazionale, di fronte a molteplici accuse di genocidio. Grazie a Putin e alla leadership iraniana, questo non accadrà. I leader della Giordania e degli Emirati Arabi Uniti lo sanno e sono più preoccupati ora di stabilizzare una parte del mondo arabo e cercare di minimizzare l’influenza dell’Iran lì. Non si tratta di riabilitare Assad. Questo non accadrà mai. Si tratta di salvaguardare gli interessi pragmatici e cinici dei regimi arabi sunniti. E in questo caso, coincidono anche con quelli di Israele”, conclude Pfeffer.
• UNA MATTANZA SENZA FINE In dieci anni di conflitto sono oltre 350 mila le persone uccise nel conflitto in Siria: è l’ultimo calcolo dell’Onu. Ma il dato, che copre il periodo tra il marzo 2011 ed il marzo 2021, è “sicuramente una sottostima” del numero effettivo di persone uccise ed include solo i decessi di persone identificabili con un nome, la data e il luogo del decesso. Il dato di 350.209 uccisi “è basato su un lavoro rigoroso. Ma non è e non dovrebbe essere visto come un numero completo delle uccisioni nel conflitto in Siria durante questo periodo. Indica solo un numero minimo verificabile”, ha spiegato a Ginevra l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet .I dati relativi a persone uccise, ma con informazioni solo parziali e quindi esclusi dall’elenco, “indicano l’esistenza di un numero più ampio. Tragicamente, ci sono anche molte altre vittime che non hanno lasciato testimoni o documenti sulla loro morte e le cui storie non siamo ancora stati in grado di scoprire”, ha sottolineato Bachelet. Tra le 350.209 persone uccise più di una persona su 13 era una donna, per un totale di 26.727. Inoltre, quasi una su 13 era un bambino pari per un numero complessivo di 27.126 bambini uccisi, riferisce la ricerca dell’Onu. Il maggior numero di uccisioni documentate è stato registrato nel Governatorato di Aleppo, (51.731), ha precisato l’Alto commissario nel suo aggiornamento orale sulle morti legate al conflitto in Siria (2011 al 2021) presentato al Consiglio Onu dei diritti umani. Per l’Onu, la documentazione dei decessi fa parte degli sforzi per stabilire le responsabilità. E’ inoltre complementare a quella per rendere conto delle persone scomparse: “dato il vasto numero di persone scomparse in Siria, ribadisco il mio appello per la creazione di un meccanismo indipendente, con un forte mandato internazionale, per chiarire il luogo in cui si trovano le persone scomparse; identificare resti umani; e fornire supporto alle famiglie”, ha concluso Bachelet.
• TRAGEDIA SILENZIATA Di grande interesse, per la sua puntigliosità analitica e documentarista, è il report scritto da Asmae Dachan per Vita “«Le organizzazioni umanitarie e i donatori devono mantenere la Siria in cima alla nostra agenda condivisa, per evitare che un’intera generazione vada perduta»: sono le parole che Martin Griffiths, nella sua prima missione in qualità di coordinatore per le emergenze delle Nazioni Unite, ha pronunciato al termine del suo viaggio in Siria, Libano e Turchia. La sua visita ha coinciso con la prima operazione umanitaria transfrontaliera nel nord-ovest della Siria dal 2017, che ha accolto come un passo importante per raggiungere più persone che necessitano un’assistenza ormai indispensabile. Finora, l’Onu e i suoi partner hanno ricevuto solo il 27% dei finanziamenti necessari per il piano di risposta umanitaria del 2021 per la Siria, che prevede 4,2 miliardi di dollari.
• CRISI UMANITARIA Secondo gli ultimi dati dell’Onu, l’80% della popolazione siriana ormai vive sotto la soglia della povertà. Grave anche la situazione sanitaria, con metà degli ospedali del Paese distrutti o resi inagibili dai bombardamenti. Mancano farmaci e strumentazione medica, mentre la pandemia continua a diffondersi. I dati sul Covid-19 arrivano a macchia di leopardo, non essendoci un’unica cabina di regia per affrontare l’emergenza e nemmeno per il programma di distribuzione dei vaccini Covax. Secondo gli ultimi dati della Johns Hopkins Univeristy and medicine, solo lo 0,93% della popolazione avrebbe completato il ciclo di vaccinazione e nelle aree sotto il controllo governativo si registrano oltre 28mila casi. Nella regione di Idlib, dove la maggior parte dei casi sono della variante delta, sono stati registrati 1417 nuovi casi negli ultimi giorni. Tra i malati ci sono anche bambini e ragazzi e le infrastrutture ospedaliere, in quest’area devastata dalle violenze, non reggono il peso di una crisi simile. «Il Salqin Hospital, che è finanziato dalla Syrian American Medical Society, sta lottando per tenere il passo con l’aumento dei pazienti Covid-19 che riempiono la sua unità di terapia intensiva da trenta posti letto», ha dichiarato il direttore dell’ospedale Issa Qassem. «Spesso, dobbiamo smettere di accogliere pazienti fino a quando qualcuno non viene dimesso. La maggior parte degli ospedali intorno a noi funziona a pieno regime. Altri centri o ospedali per la cura del Covid-19 devono essere preparati al più presto». Mancano bombole di ossigeno, farmaci, apparecchiature e con circa quattro milioni di persone, tra residenti e sfollati nell’area, praticare il distanziamento risulta impossibile. «Il tasso di incidenza di Covid-19 nel nord-ovest della Siria è in aumento dall’inizio di agosto, a seguito di un aumento dei movimenti transfrontalieri dopo le festività del Eid alla fine di luglio», ha reso noto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), aggiungendo che i nuovi casi giornalieri hanno superato le mille unità nell’area dall’ultima settimana di agosto». E nei mesi a seguire la situazione è ulteriormente peggiorata.
• UNA GENERAZIONE CHE CONOSCE SOLO LA GUERRA Ci sono statistiche difficili da riportare, ma altrettanto drammatiche, come il numero delle bambine costrette a matrimoni precoci e dei bambini costretti all’arruolamento. L’Unicef denuncia che sono sempre i bambini a pagare le conseguenze più pesanti delle violenze, rimanendo uccisi, feriti, venendo privati del diritto allo studio, alle cure mediche, al gioco. A questa generazione manca ogni tipo di sostegno, affettivo, economico, culturale e psicologico. «La continua escalation di violenza in Siria, soprattutto nel nord, ha ucciso e ferito almeno 45 bambini dall’inizio di luglio» si legge in un comunicato diffuso nei giorni scorsi. «Pochi giorni fa, un attacco ha ucciso quattro bambini della stessa famiglia nella città di Al-Qastoun a Hama, nel nord della Siria. Dieci anni dopo l’inizio del conflitto in Siria, l’uccisione di bambini è diventata una costante. Troppe famiglie sono rimaste nel dolore per una perdita insostituibile: i loro figli. Niente giustifica l’uccisione di bambini» continua la nota”. Ma l’artefice principale di questa mattanza immane, il “macellaio di Damasco” può ancora restare sul suo scranno insanguinato e pericolante. Un rais “azzoppato” è più vulnerabile. Una considerazione condivisa a Tel Aviv e nelle capitali arabe. Il resto, non conta. Non contano mezzo milioni di morti, 5 milioni di profughi, un’economia distrutta, il futuro di generazioni a venire ipotecato. Assad è un criminale ma finché serve…
(globalist, 19 novembre 2021)
A Roma un convegno internazionale sugli ebrei di Libia
Con una serie di appuntamenti dal 28 novembre al 5 dicembre
ROMA - Un convegno internazionale a Roma dal 28 novembre al 5 dicembre per commemorare la giornata del 30 novembre, dedicata ai profughi ebrei espulsi dai Paesi arabi: è l'iniziativa dell'associazione Astrel, presieduta da David Gerbi e fondata per la raccolta dei nomi delle persone seppellite nei cimiteri dissacrati in Libia e dei fondi per la ricostruzione virtuale dei cimiteri ebraici distrutti. L'obiettivo del convegno, come spiega la stessa Astrel in un comunicato, è di "trasmettere le testimonianze degli ebrei nati in Libia e delle successive generazioni nate in Italia". L'evento prevede il coinvolgimento delle scuole ebraiche di Roma. In tale occasione, inoltre, sarà presentato il sito della ricostruzione virtuale dei cimiteri ebraici dissacrati in Libia e si avrà la possibilità di lasciare i nomi dei propri parenti sepolti nel Paese africano per la loro aggiunta nel cimitero virtuale e alla lapide che sarà apposta presso il Cimitero del Verano a Roma nel 2022. Tra i temi trattati si segnala anche quello delle sinagoghe distrutte in Libia e ricostruite a Roma con i sefarim (libri) salvati. Si parlerà poi del futuro della cultura ebraico-libica tra processi d'integrazione e di assimilazione, a livello sia locale sia globale. Un ulteriore appuntamento sarà lo scoprimento di una nuova lapide al Cimitero del Verano in memoria delle vittime della Shoah e dei pogrom del 1945-1948-1967, ma anche dei rabbini e di tutti coloro che hanno contribuito alla ricostruzione dell'ebraismo libico in Italia. All'iniziativa parteciperanno ebrei di Libia provenienti da Roma, Milano e Livorno, da Israele e non solo, sia in presenza sia in streaming, e ci sarà la traduzione simultanea in ebraico. Il convegno, cui si accede solo su prenotazione, si aprirà alle 9.00 del 28 novembre al Roma Scout Center, in Largo dello Scoutismo.
(ANSAmed, 19 novembre 2021)
Frej, ministro musulmano nel governo israeliano: "Noi e gli ebrei abbiamo molto in comune"
Nipote di un sopravvissuto del massacro di Kfar Qassem nel 1956, è a capo del ministero della Cooperazione regionale: "L'integrazione è possibile"
di Sharon Nizza
KFAR QASSEM - Un monumento nel centro della cittadina araba ricorda le 49 vittime uccise dalla polizia chiamata a fare rispettare un coprifuoco di cui la popolazione non era stata aggiornata per tempo: fu il massacro di Kfar Qassem, nel 1956. "A 18 anni mi iscrissi all'università a Gerusalemme. Fino ad allora conoscevo solo la tragedia della mia famiglia, la sofferenza del popolo palestinese. Lì ho incontrato per la prima volta ebrei, ho scoperto che avevamo molto in comune. È stata una svolta".
Nipote di un sopravvissuto al massacro, oggi Issawi Frej, 57 anni, è il ministro per la Cooperazione Regionale, il secondo ministro musulmano nella storia d'Israele, dopo dieci anni passati all'opposizione con la sinistra di Meretz, uno degli otto partiti che forma l'eterogenea coalizione di Naftali Bennett che a giugno ha messo fine a 12 anni consecutivi di governi Netanyahu.
- Che cosa significa essere un ministro musulmano nello Stato ebraico?
"In Israele vivono 2 milioni di arabi, palestinesi del '48 li chiamiamo noi. Come si conciliano le due identità? È come avere due madri: biologica e adottiva. Ti avvicini a quella adottiva e la biologica ti ricorda che è stata lei a portarti al mondo. Aiuti quella biologica, e quella adottiva di dice che sei una quinta colonna, che guardi al passato. Ma io credo che l'integrazione sia possibile proprio in Israele, perché qui quasi tutti hanno una doppia identità e sta a noi capire qual è quella che vogliamo fare prevalere. Ci unisce un destino comune".
- Fino a che non ci si trova di fronte al voto per approvare una guerra con Gaza...
"La vita è piena di decisioni difficili. Israele è il mio Stato e io sono parte del popolo palestinese. È un dilemma. Ma bisogna guardare le cose dalla giusta angolazione. Prima di tutto, il mio Stato, di cui sono un rappresentante pubblico. E ogni Stato ha il diritto di difendersi. Ma come politico, il mio compito è costruire le alternative all'opzione militare".
- Recentemente ha incontrato il presidente palestinese Abu Mazen. Esiste un'alternativa al prossimo scontro?
"Meretz ha una missione all'interno di questo governo: vigilare perché la soluzione a due Stati rimanga in vita. Siamo qui per migliorare il presente, rafforzare la cooperazione sulla quale si fonda l'avanzamento di una soluzione politica".
- E con Gaza?
"Le probabilità di un nuovo scontro con Gaza sono inferiori a quelle di un non-scontro. Non è nel loro interesse. Negli ultimi mesi abbiamo aumentato i permessi di lavoro in Israele, inclusi nell'high tech per la prima volta, esteso la zona di pesca e l'entrata di beni attraverso i valichi. In tutti i vertici alla luce del sole degli ultimi mesi, non solo con Abu Mazen, ma anche tra Bennett e al-Sisi e Re Abdullah, la questione di Gaza e dei palestinesi è parte fondamentale. E finché si parla è un ottimo segno".
- Come si muove Meretz in questo governo con una forte presenza della destra nazionalista?
"Per 22 anni Meretz è stata fuori dai governi, era il momento di influenzare da dentro. Ogni componente di questa coalizione congela parte dei suoi sogni: Bennett l'annessione, noi i due Stati. Questo non significa tacere: il mio compito è trovare le strade per avvicinare israeliani e palestinesi, ripristinare il dialogo. Se guardiamo agli ultimi dieci anni caratterizzati dal blocco delle visite ministeriali di alto livello, qui c'è una novità".
- Gli Accordi di Abramo possono aiutare la causa palestinese?
"Gli Accordi sono un dato di fatto e ne beneficerà anche la causa palestinese, che per anni era caduta nell'oblio ed è riemersa proprio quando sono subentrate le nuove alleanze".
- Che bilancio fa a un anno dagli Accordi?
"Si sono create sinergie a ogni livello: turismo, commercio, agricoltura, cooperazione scientifica, energie rinnovabili. E anche una consapevolezza popolare che cambia la percezione della società civile. Sto lavorando per rafforzare queste alleanze perché possano rappresentare un modello vantaggioso per chi ci guarda, e sono in molti. Tunisia, Algeria devono poter dire: questi accordi sono un modello che ci conviene adottare, una win-win situation. E questo implica anche fare dei passi con i palestinesi".
- E quelli che state facendo sono soddisfacenti per i Paesi arabi?
"Non c'è dubbio e ci porteranno ad aperture che non abbiamo visto prima con più di uno Stato arabo. Oggi abbiamo rapporti alla luce del sole con sei Stati arabi. Ma sottobanco ce ne sono tanti altri. Io dico che in un anno vedremo i frutti".
- Voli diretti Tel Aviv - Mecca?
"È un grande sogno che spero riusciremo a realizzare nella nostra cadenza. Non è così distante dalla realtà, se ci ricordiamo che prima della pace con la Giordania, i pellegrini musulmani da Israele viaggiavano per Mecca via Amman. E ora i voli per Dubai sorvolano l'Arabia Saudita, senza accordo...".
- C'è chi dice che se Trump e Bibi fossero stati rieletti, Riad avrebbe aderito agli Accordi di Abramo e non ci sarebbe stato il riavvicinamento che vediamo ora con l'Iran.
"Speculazioni. L'Arabia Saudita ha uno status speciale nel mondo arabo. Ci vuole tempo. La minaccia iraniana ha un peso molto rilevante negli equilibri regionali, lavoriamo per minimizzarla e includere quanti più Paesi in questo sforzo. Noi e i sauditi non siamo nemici, aldilà dell'Iran".
- Perché gli Emirati non aiutano Gaza subentrando al ruolo del Qatar?
"Gli Emiratini vogliono dare aiuti concreti, non puro assistenzialismo che alimenta disoccupazione e miseria. Stiamo lavorando insieme alla realizzazione di aree industriali intorno alla Striscia, come il Parco Arazim, che offrano opportunità professionali, aiuto concreto per dare alla gente di Gaza un orizzonte".
- Come riassume i primi mesi del governo Bennett?
"Tutti dicevano: otto partiti ai poli opposti non reggeranno e invece ci stiamo affermando come il governo del cambiamento: abbiamo stabilizzato il sistema, approvato la finanziaria dopo tre anni, contenuto la quarta ondata Covid senza lockdown. C'è il disgelo con i palestinesi. È la prima coalizione che include un partito arabo. La strada è ancora in salita, ma il bilancio è positivo".
- Avrebbe mai pensato di sedere nello stesso governo con Lieberman e Bennett?
"No."
- Com'è?
"È la politica. Fare parte della coalizione ha un prezzo. Come Meretz, la condizione è che il prezzo non cancelli la nostra identità e dai nostri ministeri (oltre al suo, Salute e Ambiente, ndr) riusciamo a controbilanciare. Sulla questione palestinese, che è il nodo centrale su cui siamo divisi, non vedo Bennett fare un cambiamento drastico che porti a una ripresa dei colloqui di pace per una soluzione politica. Ma dà pieno sostegno ai nostri passi di riavvicinamento a livello civile ed economico".
- Che cosa pensa di Mansour Abbas (leader del partito islamista Ra'am)?
"Entrambi crediamo che Israele sia il nostro Stato, ma Mansour viene da un approccio religioso, più simile a quello dei haredim. Aderendo al governo, ha fatto un passo storico di cui si parlerà ancora molto: ha dato la legittimazione alla minoranza araba di essere parte dello Stato a ogni livello, ha rotto un tabù. Credo sia la strada vincente che la maggior parte dei cittadini arabi d'Israele auspica. Ma come per gli Accordi di Abramo, anche qui quello che farà la differenza saranno i risultati sul campo".
- E ha speranza?
"Se non l'avessi, non sarei qui".
(la Repubblica, 19 novembre 2021)
La strana storia di un collaboratore domestico del Ministro della Difesa di Israele pregiudicato e aspirante traditore
di Ugo Volli
Che il Medio Oriente sia il teatro di elezione per improbabili affari di spionaggio, fa parte dei luoghi comuni almeno dai tempi delle “Mille e una notte” se non degli “esploratori” mandati a spiare la terra di Canaan di cui parla la Torà. Ma in questo campo qualche volta possono avverarsi anche i luoghi comuni e le storie più improbabili. E’ proprio quel che è venuto fuori ieri in Israele con molto clamore giornalistico. La storia è questa: il ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Benny Gantz, aveva in casa un uomo delle pulizie di nome Omri Goren, un trentasettenne proveniente dalla città di Lod, poco lontano dall’aeroporto Ben Gurion. Fin qui niente di strano, almeno per le abitudini israeliane, che non riservano le rare collaborazioni domestiche quasi solo alle donne come accade in Italia.
Sennonché Goren, qualche settimana fa, è stato arrestato dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, dopo aver cercato di contattare un gruppo di hacker legati all’Iran proponendo loro di usare la sua libertà di movimento a casa del ministro per spiare Gantz e magari per inserire nel suo computer qualche programma capace di compromettere i più importanti segreti di Israele. Sembra che nulla di tutto ciò sia davvero accaduto, perché i servizi si sono accorti del tentato tradimento prima che il contatto fosse stretto. Probabilmente Goren non ha mai parlato con gli iraniani veri, ma solo con un gruppo civetta, messo su per intrappolare quelli come lui. Comunque non è successo niente di concreto.
Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio, perché risulta che questa non sia la prima disavventura giudiziaria per il colf di Gantz. Anzi, fra il 2002 e il 2013 Goren è stato condannato cinque volte per crimini decisamente gravi, fra cui due rapine in banca, un furto e una violazione di domicilio. Che ci facesse un personaggio del genere a piede libero è una domanda ovvia. Ma ancora più ovvia e più grave è la questione di come un pregiudicato con una fedina penale così sporca sia arrivato a entrare in casa di una delle persone più potenti di Israele e del custode di segreti così importanti come il Ministro della Difesa. Chi l’ha assunto? Per quali ragioni? E non vi è stato un filtro dei servizi sul suo passato? I servizi che hanno lavorato così bene scoprendo il tradimento, non avrebbero potuto prevenirlo impedendo che fosse assunto? Tutto ciò lascia molto perplessi e autorizza addirittura il dubbio che ci sia stato un tentativo interno di compromettere Gantz, che è il punto debole dell’attuale maggioranza, come lo era nel governo precedente. Sono domande che per ora non hanno risposta e che probabilmente non l’avranno mai in pubblico.
È importante comunque che ciò che si è scoperto non sia un tentativo di infiltrazione dall’esterno, che dovrebbe far temere un’organizzazione più vasta, ma lo sciagurato e fin grottesco sforzo di un criminale di trovare qualche cliente esterno per il suo tradimento. Anche Israele ha dunque i suoi traditori, o aspiranti tali. Resta una consolazione importante: è chiaro che nella guerra con l’Iran lo spionaggio e l’azione clandestina di Israele sono molto più efficaci di quella del nemico e i traditori trovano la strada sbarrata da una vigilanza ben organizzata.
(Shalom, 19 novembre 2021)
EnelX e Mastercard, al via il FinSec Lab in Israele
Un laboratorio per promuovere l'innovazione nel fintech in Israele. EnelX, la business line di Enel dedicata alle soluzioni energetiche avanzate del gruppo, e Mastercard hanno inaugurato ieri il FinSec Innovation Lab nel Parco Hi-tech "Gav-Yam Negev" a Be'er Sheva in Israele. L'iniziativa ha l'obiettivo di trasformare in prodotti e servizi commerciali le idee e soluzioni generate dalle startup del Paese.
«L'inaugurazione del FinSec Lab è un traguardo importante che ci consente di continuare il viaggio nella promozione dell'innovazione nel settore fintech, facendo leva sull'eccellente ecosistema israeliano di startup», ha affermato Francesco Venturini, ceo di Enel X. «Collaborare con startup provenienti da uno degli ecosistemi più innovativi del settore Fintech, ci consentirà di integrare le loro soluzioni nel portafoglio di attività di Enel X Financial Services, ampliando i servizi che possiamo offrire ai nostri clienti, sostenendo e accelerando la crescita di queste innovative startup-,
Per Ernesto Ciorra, head of innovability di Enel, «il FinSecLab è la più recente tappa del percorso di innovazione di Enel in Israele, il Paese che ospita il primo Innovation Hub del Gruppo, inaugurato nel 2016 a Tel Aviv. Finora abbiamo incontrato oltre 1.200 startup e lavorato con più di 50. Israele offre un incredibile eçosistema di innovazione e siamo lieti di farne parte. E grazie all'Israel Innovation Authority e al ministero delle finanze del Paese che stiamo lanciando FinSecLab. Per noi è fondamentale unire le forze con attori che condividono il nostro impegno a spingere i confini dell'innovazione, sfruttando le opportunità offerte dalle tecnologie innovative per creare valore sostenibile per tutti»,
Enel X e Mastercard hanno investito nella costruzione e nell'infrastruttura tecnologica del FinSec InnovationLab, che misura 480 metri quadrati e che fornirà alle startup ambienti all'avanguardia che simulano siti di produzione reali basati su dati del mondo reale. Inoltre, il laboratorio offrirà alle startup l'opportunità di sviluppare nuovi prodotti con l'ausilio professionale di mentori israeliani e internazionali.
(ItaliaOggi, 19 novembre 2021)
Israele, quel discusso concorso di bellezza che incorona “Miss sopravvissuta all’Olocausto”
La vincitrice si chiama Salina Steinfeld, ha 86 anni, è bisnonna ed è di origine romena. La gara è stata istituita nove anni fa per celebrare le donne scampate alla Shoah
di Letizia Tortello
In realtà, tutto è avvenuto come la più tradizionale elezione di una miss. Parrucchieri ed estetisti, stilisti ed abiti luccicanti sotto gli occhi della giuria e delle telecamere, pianti, applausi a fiumi, coriandoli e fiato sospeso.
A fare la differenza, in questo concorso di bellezza sul palco di un teatro di Gerusalemme che non ha mancato di attirare su di sé numerose critiche, erano le partecipanti. Le miss erano tutte tra i 79 e i 90 anni, e tutte sopravvissute all’Olocausto. Come Salina Steinfeld, una signora dai capelli rossi di origine rumena, scampata alle retate di massa degli ebrei nel suo Paese, e trasferita in Israele nel 1948.
Quando è stata incoronata dalla giuria di «Miss Holocaust Survivor 2021», miss sopravvissuta all’Olocausto, è scoppiata in un grido di gioia: «Non ho parole per descrivere la mia felicità», ha detto martedì sera al Museo degli Amici di Sion, dove si svolgeva la manifestazione, nata nel 2012 e sospesa l’anno scorso per il Covid.
Il suo titolo di reginetta stride senz’altro con la memoria della Shoah: come si può festeggiare il titolo di campioni di bellezza in memoria dei sei milioni di ebrei uccisi e delle altre minoranze vittime dello sterminio? Quando la gara è stata lanciata, nove anni fa, sponsorizzata dalla fondazione «Yad Ezer L'Haver» di Haifa che si prende cura dei reduci dell'Olocausto, la presidente del Centro delle organizzazioni dei sopravvissuti della Shoah, Colette Avital, si era lamentata sulla rivista tedesca «Der Spiegel» del fatto che le donne fossero «utilizzate per un evento non dignitoso».
Gli organizzatori, invece, la vedono diversamente: rivendicano di voler portare gioia ai superstiti e dicono che l'obiettivo è «dare fascino e rispetto a un numero sempre minore di donne ebree la cui giovinezza è stata rubata durante la seconda guerra mondiale, che poi si sono costruite una nuova vita in Israele».
Della stessa opinione è la prima vincitrice del concorso, Chava Herschkovitz: «Ho solo paura che le nostre storie saranno dimenticate se presto non saremo più vivi», aveva commentato all’epoca.
E anche Steinfeld, la nuova «Miss Holocaust Survivor», oggi bisnonna a 86 anni con tre figli, sette nipoti e 21 pronipoti, ha accolto come un onore la sua elezione. Lascia che la collega Kuka Palmon spieghi per lei come si sente: "Dopo tutto quello che ho passato durante l'Olocausto, non avrei mai immaginato che sarei arrivata dove sono ora, con una grande famiglia attorno. È una cosa divina, è indescrivibile", spiega la candidata, selezionata tra centinaia di concorrenti per partecipare alla finale. Il concorso di Gerusalemme, che ogni anno solleva gli stessi dubbi di opportunità, quest’anno ha anche allargato l’orizzonte delle dieci aspiranti “miss sopravvissute all’Olocausto” proponendo un’anziana signora croata, scampata all’eccidio della guerra nell’ex Jugoslavia. "Queste donne straordinarie sono già nei loro anni del tramonto e non saranno qui con noi ancora per molto", spiega Shimon Sabag, amministratore delegato della fondazione. Israele ospita una popolazione di circa 175.000 reduci della Shoah, che progressivamente invecchiano. "I sopravvissuti all'Olocausto sono i veri eroi di tutti noi, e grazie a loro oggi siamo qui", concludono dal concorso. Destinato per forza di cose a scomparire, man mano che le aspiranti candidate, testimoni dei peggiori orrori del Novecento, moriranno.
(La Stampa, 19 novembre 2021)
"La caccia al no vax è utile solo a coprire gli errori fatti
"Tra Pfizer, Moderna, e AstraZeneca abbiamo fatto una zuppa inglese". Intervista ad Andrea Crisanti
di Alessandro Mantovani
"La Gran Bretagna ha il 73 % di vaccinati, l'Irlanda l'84% con punte del 93% sopra i 18 anni, ma i contagi esplodono. La battaglia non si deve fare sui non vaccinati. Ci sarà sempre chi non vuole vaccinarsi per ragioni ideologiche o per fobia, non ha senso accanirsi creando una spaccatura del Paese e facendo leggi che intaccano le libertà democratiche. Il 5 o il 10 per cento in più o in meno di vaccinati in questo momento non fa la differenza. Abbiamo 45 milioni di persone vaccinate, potenzialmente disposte a fare la terza dose, su queste dobbiamo fare leva. Questa è la battaglia", dice Andrea Crisanti, professore di Microbiologia a Padova.
- Lei osserva che in Italia è mancato uno studio sulla durata della protezione, ma si dice che misurare gli anticorpi non basta.
Non basta, ma bisognava fare studi prospettici per capire come ci si reinfetta dopo la vaccinazione e quanti anticorpi venivano prodotti.
- Altri Paesi li hanno fatti? Forse solo Israele.
Israele sì, ma ha avuto la fortuna di aver usato solo Pfìzer, Noi abbiamo fatto una zuppa inglese: Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Az più Pfìzer, Az più Moderna, Johnson più Pfizer, Johnson più Moderna. E ora non si conosce il livello di protezione della popolazione.
- Quelli erano i vaccini.
Questo non impediva di fare gli studi.
- La vaccinazione con Pfizerr dei bambini dai 5 agli 11 anni è in corso di valutazione all'Ema, alcuni Paesi hanno già detto no.
Sono convinto che non succederà nulla di grave, ma il trial non ha la potenza statistica per ricapitolare possibili effetti collaterali. Hanno vaccinato tremila bambini, se la frequenza delle complicazioni è uno su 10 mila il trial non lo dice. La cosa buona è che Israele ha cominciato e quindi tra poco avranno vaccinato tre-quattrocentomila bambini. Useremo i dati di Israele.
- È sempre Israele il vero trial, un favore ai produttori dei vaccini?
No, a priori non si può sapere quanto dura un vaccino. L'errore che hanno fatto nel nostro Paese, pur sapendo da maggio-giugno che in Israele c'erano 10 mila casi al giorno nonostante le due dosi, è continuare a raccontare che eravamo protetti, i migliori del mondo. Dicevano che avremmo raggiunto l'immunità di gregge a settembre. Dov'è? Sono stato il primo a dire che non si sarebbe mai raggiunta.
- Dovremo vaccinarci una volta l'anno o di più?
Non lo sappiamo. Speriamo che la terza dose induca un'immunità più duratura.
- Lei ha ricordato che in Gran Bretagna non ci sono restrizioni e l'equilibrio si è raggiunto con 40 mila casi al giorno. Dovremo convivere anche con un minimo di restrizioni?
Sì, altrimenti il virus galoppa. Secondo me qui un equilibrio si può raggiungere attorno ai 20-25 mila casi se si mantengono le mascherine, se si induce la popolazione a fare la terza dose prima possibile, se si mantiene qualche forma di distanziamento. Anche nelle manifestazioni dei no vax. Non ho nessuna simpatia per i no vax, ma non sono la fonte di tutti i mali. Non vorrei che questa caccia alle streghe fosse una foglia di fico per coprire l'errore di non dire subito che sarebbe servita la terza dose.
- A noi il Green pass per lavorare non piace. Molti però si sono vaccinati perché c'è il Green pass. Lei lo manterrebbe?
È servito, ma dev'essere allineato alla protezione.
- Lo porterebbe da 12 a 9 mesi?
Sì lo farei.
- Ridurrebbe la possibilità di accedere al Green pass con i tamponi, per premere su chi non ha fatto neanche una dose?
Per me bisognerebbe passare dai tamponi antigenici a quelli molecolari.
- Con il sistema attuale, restrizioni vere, cioè la zona arancione, ci saranno solo con il 20% delle terapie intensive e il 20% dei reparti d'area medica occupati.
Penso che quella soglia sia troppo alta.
(il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2021)
Dice il microbiologo: "L'errore che hanno fatto nel nostro Paese, pur sapendo da maggio-giugno che in Israele c'erano 10 mila casi al giorno nonostante le due dosi, è continuare a raccontare che eravamo protetti, i migliori del mondo. Dicevano che avremmo raggiunto l'immunità di gregge a settembre. Dov'è?"
Non è un errore, è un inganno. Un inganno che si appoggia sulla menzogna. O per meglio dire, su un atteggiamento sistematicamente menzognero. A cominciare dall'uso dei termini. Tot percento protetti; è falso, e si sapeva, esempio di Israele. Tot percento immunizzati; è falso, perché ci sono vaccinati con doppia dose che si sono di nuovo contagiati. Tot percento in sicurezza; è falso, perché ci sono vaccinati che pochi giorni dopo sono stati sicuramente peggio di prima. Questo si chiama inganno. Inganno governativo sostenuto dai media. E questo è più inquietante dello stesso virus, perché i danni prodotti dalle menzogne umane sono più temibili di quelli prodotti dalle cose. Questo per rispondere a chi dice che "dobbiamo opporci al male e non allo strumento per combatterlo". Il male più temibile adesso viene da chi dice di voler combattere il male e, senza riuscirci, sposta la battaglia sempre più avanti portandola contro coloro che sollevano dubbi, non solo sul loro operato ma, soprattutto, sul traballante castello di menzogne che hanno costruito per difenderlo. Hanno cominciato col dire che la vaccinazione avrebbe risolto il problema con l'immunizzazione, e dopo si è visto che non ci sono riusciti, ma invece di ammettere la sconfitta si accaniscono a dire che bisogna vaccinarsi sempre di più, sempre più a lungo, e sempre di più sotto il ricatto di essere duramente colpiti se non lo fanno, o anche se solamente si azzardano a sollevare obiezioni, a dire che, forse, sarebbe il caso di riguardare un po' il programma. Siamo arrivati al punto che le autorità, più che preoccuparsi dei movimenti del virus, si preoccupano dei movimenti dei cittadini, avendo cura di soffocare lo scontento di chi è contrario con intimidazioni e l'uso della forza, e viceversa di "mettere in sicurezza" la soddisfazione di chi è favorevole con elogi e privilegiate concessioni. Si procede così con il classico uso del bastone e della carota. La carota per i bravi vaccinati, il bastone per i cattivi novax.
Il combattimento contro il virus per debellare la malattia è oggi secondario rispetto all'uso che si fa della malattia per sottomettere il popolo. M.C.
Eitan, i giudici di Israele congelano il ritorno a Pavia
I legali di zia Aya: «Il nonno rapitore faccia la cosa giusta e lasci libero il nipotino» La Corte suprema discuterà alla fine del mese l’ultimo ricorso dei Peleg
di Sandro Barberis
Eitan Biran, sei anni unico superstite della strage del Mottarone del 23 maggio in cui ha perso genitori, due bisnonni e il fratellino di due anni, non tornerà in Italia almeno fino a novembre. Ieri la corte suprema israeliana ha sospeso l'esecutività delle due sentenze con cui, negli scorsi giorni, è stato ordinato il rientro del bambino a Travacò Siccomario. Un ordine confermato in due gradi di giudizio a Tel Aviv applicando la convenzione internazionale dell'Aja che regola il caso di minori contesi tra famiglie in due stati. La richiesta di applicare la convenzione dell'Aja era stata avanzata da Aya Biran, 44 anni zia paterna pavese e affidataria in Italia del nipote Eitan. Ma le sentenze sono state impugnate dai nonni Peleg, ramo materno della famiglia di Eitan. I nonni che vivono in Israele e sono accusati di rapimento aggravato dalla procura di Pavia per la sottrazione di Eitan avvenuta lo scorso 11 settembre.
Ma cosa accade ora? La corte suprema israeliana ha dato tempo fino al 21 novembre agli avvocati della pavese Aya Biran, zia paterna del piccolo e sua affidataria, per far giungere le proprie osservazioni e fino al 23 novembre a quelli di Peleg - se vogliono - per ulteriori osservazioni. I Peleg attraverso i loro legali hanno fatto sapere di «aver fiducia che la corte affronti questo caso senza precedenti e che ordinino che Eitan resti in Israele così come volevano i suoi genitori. Ci aspettiamo che la corte disponga un esame immediato da parte di esperti per chiarire quale sia la reale volontà del bambino e il suo bene». «Speravamo che il signor Peleg facesse la cosa giusta e liberasse Eitan affinché torni alla sua casa e alla sua routine, dopo che tutte le argomentazioni sono state respinte - replicano i legali israeliani di Aya Biran -. Purtroppo il signor Peleg ha dimenticato che occorre occuparsi del bene del bambino e continua ad impedire ad Eitan di tornare al tessuto sociale ed educativo da cui è stato rapito. Su Peleg gravi sospetti penali per aver rapito
Eitan dal suo luogo di residenza. Due altri nonni, di parte paterna, anelano a ricongiungersi con lui. I tempi stretti della corte suprema danno il senso di urgenza per una decisione avvertito dai giudici».
Ieri il caso è stato affrontato anche dal punto di vista penale in tribunale in Italia. Nello specifico al tribunale del Riesame di Milano competente per il ricorso contro il mandato d’arresto internazionale spiccato la settimana scorsa dal tribunale di Pavia. Mandato che riguardava Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan. Al momento non c’è una decisione sul ricorso.
I legali ieri hanno sostenuto che «Peleg non ha rapito il nipote, quando l'ha portato a Tel Aviv l'11 settembre, e non si è trattato, dunque, di un sequestro di persona, anche perché la zia paterna Aya, tutrice del bambino, non è affidataria e non ha diritti di custodia sul minore».
(la Provincia di Pavia, 18 novembre 2021)
Turchia, rilasciata la coppia israeliana accusata di spionaggi
Mordechai e Natalie Okhnin sono rientrati stamane a Tel Aviv con un volo privato organizzato dal ministero degli esteri israeliano.
La Turchia ha rilasciato due coniugi israeliani, Mordechai e Natalie Okhnin, che erano stati arrestati otto giorni fa per aver fotografato il palazzo del presidente Erdogan ad Istanbul ed erano stati poi sospettati di spionaggio. I due sono rientrati stamane a Tel Aviv con un volo privato organizzato dal ministero degli esteri israeliano.
Messaggi di ringraziamento al presidente Erdogan e al governo turco sono stati subito pubblicati dal capo dello Stato Isaac Herzog, dal premier Naftali Bennett e dal ministro degli esteri Yair Lapid. «Ringrazio il presidente della Turchia ed il suo governo per la loro cooperazione» ha scritto su Twitter Herzog subito dopo il ritorno a Tel Aviv dei coniugi Okhnin dalla Turchia , dove si erano recati per turismo due settimane fa.
«Ringrazio anche il premier Bennett ed il ministro degli esteri Lapid per il loro impegno nella liberazione dei detenuti». Parole di ringraziamento nei confronti del presidente turco e del suo governo sono state espresse anche in un comunicato congiunto di Bennett e Lapid che hanno così voluto segnalare la conclusione delle giornate di tensione vissute fra i due Paesi.
Natalie e Mordi Oknin, entrambi conducenti di bus, erano a Istanbul per festeggiare un compleanno e hanno pubblicato su Facebook un selfie davanti al palazzo Dolmabahce che non ospita più la residenza presidenziale dal 1923, da qui era scattata l'accusa: sospetto spionaggio.
Il fermo era arrivato dopo la denuncia di un cameriere del ristorante dell'imponente torre Çamlica, il punto panoramico più elevato della città inaugurato nei mesi scorsi, da dove la coppia avrebbe scattato il selfie incriminato. La vicenda era emersa solo giovedì scorso quando la figlia degli Oknin da Israele ha allertato le autorità locali, avendo perso le tracce dei genitori.
(La Stampa, 18 novembre 2021)
Le esercitazioni che svelano il nuovo Medio Oriente
di Lorenzo Vita
Le esercitazioni militari sono il miglior termometro per capire lo stato delle relazioni tra Paesi. E quelle tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, con la regia degli Stati Uniti, sono un fatto da non sottovalutare. Cinque giorni di manovre militari nel Mar Rosso che servono non solo a migliorare le capacità di coordinamento tra le rispettive forze navali, ma anche (e soprattutto) a mandare un segnale nei confronti di tutta la regione. Per i quattro Paesi coinvolti nelle esercitazioni, quanto avvenuto in questi giorni nel Mar Rosso è la certificazione di quel processo iniziato in via sotterranea negli anni passati e reso pubblico con la stipula degli Accordi Abramo. Quel patto, con la regia di un Donald Trump che aveva puntato tutto sulla ricomposizione parziale delle relazioni tra Stati arabi e Israele, ha significato una svolta formale a un avvicinamento sostanziale che già era chiaro agli analisti ben prima che fosse ufficializzato l’accordo. Una sinergia che per i Paesi che prendono parte agli accordi ha una differente utilità a seconda della propria agenda, ma che almeno per il momento si fonda su un unico vero obiettivo strategico: l’Iran. Un nemico comune, collante perfetto per un’alleanza che certamente non poggia su solide basi strategiche e tantomeno di obiettivi comuni, ma che in questo momento è una soluzione tattica ideale per tutti i Paesi che vogliono fermare Teheran. L’esercitazione di cinque giorni nel Mar Rosso da parte di Israele, Bahrain, Emirati e Stati Uniti è quindi il simbolo di un’armonizzazione dei rapporti regionali che ha come obiettivo quello di mostrare a tutti gli attori regionali che questi Paesi si muovono in sintonia. Ed è una questione che è importante non soltanto per l’Iran. La Repubblica islamica è certamente il primo indiziato dal momento che con lo Stato ebraico persegue una guerra ombra che ha proprio nel mare uno degli scenari più inquieti, al pari dei Paesi del Golfo. Sequestri e attacchi alle petroliere, esercitazioni a fuoco vivo nel Golfo Persico, sabotaggi in tutte le acque che circondano la Penisola arabica e una serie di operazioni delle unità di intelligence condizionano quel settore marittimo da ormai diversi anni. E la scelta di far partire queste esercitazioni proprio con le flotte è un segnale di costante interesse per il Mar Rosso, il Mare Arabico e il Golfo. Segnale che serve anche gli Emirati Arabi Uniti per ribadire che l’importanza del dominio marittimo non è solo una questione iraniana, ma anche delle forze militari dall’altra parte del mare. Specialmente mentre anche l’Iran si esercita con la sua flotta e un drone sorvola le navi della Marina americana. Se l’intento è avvertire l’Iran di quanto sia sempre più chiara una sinergia delle forze israeliane ed emiratine – già evidenziata in altri settori, in particolare nel Mediterraneo orientale – non va però dimenticato anche un altro attore regionale interessato a quanto avviene in Medio Oriente: la Turchia. Un Paese che con gli Stati coinvolti nelle esercitazioni, e negli Accordi di Abramo ha un rapporto molto complesso. Dal lato israeliano, in questi giorni la tensione con Ankara è salita per l’arresto e il rilascio in una coppia di cittadini dello Stato ebraico, accusati di spionaggio dopo aver fotografato la residenza presidenziale. Con Recep Tayyip Erdogan, i rapporti tra Ankara e Gerusalemme non sono mai apparsi idilliaci, anzi, il Sultano ha spesso sfruttato la questione palestinese per sostenere le sue velleità di leadership del mondo arabo-musulmano. Tuttavia non va dimenticato che i due Stati non sono sempre stati avversari. E lo dimostra il fatto che questa sinergia è stata confermata anche sul fronte del Caucaso, con il sostegno di entrambi all’Azerbaigian. Questo pur essendo discordi sia per quanto riguarda le rotte del gas, sia i rapporti con altri attori regionali. Dal lato emiratino, invece, la Turchia è in aperta contrapposizione da quando ha cementato la sua alleanza con il Qatar. Una sfida che si è proiettata anche in Africa e nel Levante ma che adesso vede primi spiragli di aperture. Il quotidiano filo-governativo turco Daily Sabah ha rivelato che il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, andrà presto in Turchia per una visita ufficiale. È la prima in dieci anni e rappresenta sicuramente una svolta. I due Paesi vogliono migliorare le loro relazioni, e mentre Ankara necessita degli investimenti arabi, Abu Dhabi sembra molto interessata all’industria della difesa della Mezzaluna e a operare in territorio turco con i suoi finanziamenti. Le esercitazioni segnalano che Israele ed Emirati sono già uniti nel sostenere una politica comune nella regione e la Turchia non può certamente fare a meno di riflettere su questi nuovi equilibri in cui Erdogan può tentare una nuova svolta tattica.
(Inside Over, 18 novembre 2021)
Anche Israele non è più tanto cyber-sicura
di Arturo Di Corinto
Il mito dell'invincibilità cyber israeliana comincia a vacillare. Negli ultimi mesi un'ondata di attacchi informatici causata da incursori politicamente motivati ha infatti esposto grandi quantità di dati relativi a cittadini ed aziende israeliane.
Sono le stesse aziende di cybersecurity del paese a denunciarlo. Check Point Software ha riportato che un gruppo noto come "Moses staffs" ha attaccato e cifrato i server di una dozzina di aziende senza chiedere riscatto, ma solo per "procurare il maggior danno possibile ai sionisti" come il gruppo ha dichiarato spavaldo su Twitter.
Negli stessi giorni è giunta la notizia di un'incursione nei database di una grande azienda di cybersicurezza, Cynet, che ha potenzialmente esposto i dati degli stessi clienti che avrebbe dovuto difendere.
Cynet ha divulgato l'allarme al pubblico dopo che un annuncio di vendita dei dati sottratti è apparso sul famigerato sito RaidForums, offerti da un sedicente hacker di "buona reputazione" nel mercato illegale. In questo caso le ragioni sarebbero solo di criminalità economica. Il mese scorso invece, un altro gruppo politicamente motivato, noto come BlackShadow, e collegato, pare, al governo iraniano, aveva attaccato i server di una società israeliana contenente il sito di Atraf, punto di riferimento della vivace comunità Lgbtq di Tel Aviv, divulgando successivamente i dati sensibili degli utilizzatori del sito e dell'app usata per incontri e feste notturne.
Non è stato il primo né l'ultimo di questo tipo nella storia del lungo conflitto cibernetico che vede Iran e Israele combattersi a colpi di cyber-katiuscia.
In precedenza attori di presunta provenienza israeliana avevano bloccato con cyber-attacchi le pompe di benzina del paese islamico e perfino i suoi porti come ritorsione per gli attacchi agli impianti di desalinizzazione del paese guidato da Naftali Bennett.
In aggiunta a questo nei giorni scorsi l'amministrazione del commercio Usa ha messo lo spyware Pegasus dell'israeliana Nso Group nella blacklist dei prodotti software che richiedono autorizzazione per la vendita dopo averne accertato l'uso nello spionaggio, politicamente motivato, di leader politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani in circa 50 paesi in tutto il mondo.
L'immagine della cyber-potenza ne esce piuttosto appannata. Insomma anche Israele, paese virtuoso per la capacità di mettere in relazione la ricerca pubblica e privata nel campo della cybersecurity e per il forte sostegno governativo alle aziende del settore, è a rischio cvber, nonostante il paese mediterraneo rimanga uno dei maggiori attrattori al mondo degli investimenti nella sicurezza cibernetica.
I motivi sono tanti e diversi. Il primo è l'aumento dell'ampiezza della superficie da difendere considerata la digitalizzazione di tante attività di studio, svago e di lavoro a cui la pandemia ha costretto tutto il mondo e che in questo caso sono bersaglio di gruppi di guerriglia digitale molto ideologizzati che sfruttano il risentimento dei vicini verso Israele. Un altro è che Israele ha un'opinione pubblica informata e abituata a pretendere non solo la sicurezza fisica dei suoi cittadini ma anche la tutela dei dati personali.
Per questo non vanno sottovalutate le previsioni fatte a livello mondiale dalla stessa Check Point: il 2022 sarà l'anno del ransomware in affitto, del phishing veicolato dalle fake news sul Covid, e del cryptojacking, il furto di potenza computazionale da pc e cellulari per estrarre cryptomonete.
Il rischio zero non esiste perciò "la domanda non è se si verrà attaccati, ma quando". E vale per tutti.
(il manifesto, 18 novembre 2021)
Nucleare iraniano: Biden peggio di Obama. E Israele rimane fregato
Denaro (che alimenterà il terrorismo islamico) in cambio di vaghe promesse. Questa è l’idea americana per risolvere il problema del nucleare iraniano
di Franco Londei
Quando il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, ha iniziato a discutere di nucleare iraniano con la sua controparte israeliana, Eyal Hulata, prima della ripresa dei colloqui di Vienna, a Gerusalemme già sapevano che tirava aria di fregatura. La conferma, purtroppo, non è tardata ad arrivare. Sullivan non ha iniziato i colloqui con la sua controparte israeliana per discutere con l’alleato di nucleare iraniano e decidere insieme cosa fare, ma lo ha fatto per notificare una decisione già presa. Gli Stati Uniti proporranno all’Iran un accordo temporaneo secondo il quale Teheran smetterà di violare gli accordi presi in precedenza, come arricchire l’uranio al 60% e in cambio riceverà lo sblocco di miliardi di dollari al momento sequestrati. Questo accordo “temporaneo” servirebbe per prendere tempo in attesa di un accordo più dettagliato che verrà raggiunto (sperano) più avanti. Questa cosa ricorda molto da vicino l’accordo che fece a suo tempo Barack Obama con il JCPOA che portò fiumi di denaro nelle casse degli Ayatollah, denaro che finì quasi totalmente per finanziare il terrorismo islamico. La differenza è che allora Obama ottenne in cambio un accordo che in teoria doveva fermare la corsa iraniana al nucleare (anche se poi si è visto che non lo fece). In questo caso non c’è nemmeno quella contropartita.
• Ferma opposizione israeliana
Israele si oppone fermamente ad un accordo temporaneo che, secondo Gerusalemme, potrebbe diventare permanente e non solo riversare miliardi di dollari nelle casse iraniane che andranno a finanziare il terrorismo islamico, ma anche influire in maniera minima nella corsa iraniana verso la bomba. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni Unite (AIEA) ha dichiarato mercoledì nel suo ultimo rapporto che l’Iran ha aumentato le sue scorte di uranio altamente arricchito anche se l’AIEA non è in grado di quantificare quanto sia l’uranio altamente arricchito a causa delle limitazioni imposte dagli Ayatollah agli ispettori. E intanto secondo il Wall Street Journal l’Iran ha ripreso a produrre parti per centrifughe avanzate in un sito nucleare presumibilmente un tempo preso di mira da Israele. Alla faccia della correttezza.
(Rights Reporter, 18 novembre 2021)
Israele - I rabbini chiedono l'istituzione di un'unità di artiglieria tutta maschile
Il corpo di artiglieria è una delle più importanti forze di combattimento a cui partecipano anche le donne israeliane, anche se quasi tutte le funzioni di combattimento sono già aperte a loro.
È un posto per donne? I rabbini dicono di no, ma l'esercito israeliano dice di sì.
I rabbini rappresentanti le accademie premilitari religiose sioniste hanno chiesto all'IDF di creare un'unità di artiglieria per soli soldati di sesso maschile.
Molti religiosi ebrei si rifiutano di servire in unità militari con le donne. La maggior parte di loro teme il contatto inappropriato che deriva dal vivere insieme in uno spazio ristretto; mentre altri non vedono bene il fatto che le donne svolgano "lavori da uomini".
Channel 12 News ha riferito lunedì che il capo di stato maggiore dell'IDF Aviv Kochavi ha respinto la richiesta dei rabbini e non istituirà un'unità di artiglieria tutta maschile.
Quasi tutte le posizioni di combattimento nell'IDF sono ora aperte alle reclute donne. L'Artiglieria è stata una delle prime unità da combattimento ad accettare combattenti di sesso femminile e si stima che adesso circa il 20% nei corpi sia femminile. Questo significa che quasi tutte le unità di artiglieria hanno probabilmente soldati di sesso femminile.
(israel heute, 18 novembre 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L'Israel Antiquities Authority ritrova un antico edificio fortificato simbolo reale della storia di Channukà
di Michelle Zarfati
Martedì scorso è stata annunciata un’interessante scoperta nella foresta di lachish, casualmente in concomitanza con l'imminente festività ebraica di Channukà. “La devastazione dell'edificio è probabilmente correlata alla conquista della regione da parte del re Asmoneo Hyrcanus intorno al 112 a.C.", spiegano gli archeologi dell'Israel Antiquities Authority che dirigono gli scavi.
Armi, travi di legno bruciate, dozzine di monete e una struttura fortificata ellenistica - prova tangibile di una battaglia tra Asmonei e Seleucidi circa 2.100 anni fa - sono attualmente ancora in corso le ricerche archeologiche presso la foresta di Lachis. Gli scavi sono condotti nell'ambito del progetto Kings of Judah Road, in collaborazione con il Jewish National Fund, finanziati dal progetto del Ministero di Gerusalemme e dei beni culturali. I lavori di ricerca sono assistiti da studenti delle scuole superiori che si specializzano presso il Ministero della Pubblica Istruzione attraverso un programma di studio dell’archeologia della terra d’Israele. Ma non solo, a prendere parte al progetto anche gli studenti del programma premilitare Asher Ruach Bo a Mitzpe Ramon.
Secondo Saar Ganor, Vladik Lifshits e Ahinoam Montagu, direttori degli scavi per conto della Israel Antiquities Authority, “Il sito di scavo fornisce prove tangibili delle storie di Hanukkah. Sembrerebbe infatti che l’edificio rinvenuto faceva parte di una linea fortificata eretta dai comandanti dell'esercito ellenistico per proteggere la grande città di Maresha da un'offensiva degli Asmonei. Tuttavia, i reperti del sito mostrano che le difese seleucide non ebbero successo. L'edificio scavato fu gravemente bruciato e devastato dagli Asmonei”.
Lo scavo ha riportato alla luce un edificio di 15×15 metri. Le mura perimetrali, larghe non meno di 3 m, erano costruite con grosse pietre e presentavano un parapetto esterno inclinato per evitare che il muro venisse scalato. L'interno della struttura era suddiviso in sette ambienti, conservati ad un'altezza eccezionale di circa 2 m.
Inoltre, è stato rinvenuto un vano scala che conduceva ad un possibile secondo piano, non conservato. Si stima che l'edificio fosse alto totalmente circa 5 m.
Il sito archeologico si trova sulla sommità di un'alta collina che domina la vista dell'antica strada principale, che correva lungo il letto del torrente Nahal Lachish e collegava la pianura costiera alla cresta centrale dell'altopiano. L'edificio si affaccia su Maresha, la più grande città ellenistica della zona e capitale dell'Idumea.
Gli studenti, che hanno preso parte al progetto, hanno assistito allo scavo come parte di un programma dell’Israel Antiquities Authority volto a coltivare la consapevolezza del patrimonio del paese nelle comunità più giovani. I ragazzi hanno così la possibilità di apprendere la storia, attraverso l'esperienza pratica nell'ambito dei loro studi futuri, trasformando così lo scavo archeologico in un laboratorio scientifico e didattico estremamente stimolante.
Durante lo scavo sono state rimosse migliaia di grosse pietre crollate dalla parte superiore dell'edificio. Sotto le pietre è stato scoperto un enorme strato di terra distrutta spesso circa mezzo metro. Lo strato ha prodotto centinaia di reperti, tra cui ceramiche, fionde, armi di ferro, travi di legno bruciate e dozzine di monete databili alla fine del II secolo a.C. "Sulla base dei reperti e delle monete, la distruzione dell'edificio può essere attribuita alla conquista della regione dell'Idumea da parte del re Asmoneo Ircano intorno al 112 a.C.", condividono gli archeologi.
Gli Asmonei, la cui ribellione contro il dominio ellenistico e la dinastia seleucide seguì i decreti antiebraici di Antioco IV, condussero molte battaglie contro l'esercito seleucide. Le conquiste di Giovanni Ircano, descritte nei Libri dei Maccabei e nei resoconti dello storico Giuseppe Flavio, portarono all'espansione dello stato Asmoneo verso sud.
"Le storie dei Maccabei stanno prendendo vita davanti ai nostri occhi, e questa è la parte più affascinante del lavoro dell'Israel Antiquities Authority - ha detto direttore generale dell'Israel Antiquities Authority, Eli Eskozido - tra pochi giorni celebreremo Channukà, il cui tema centrale è la sconfitta degli Asmonei, che porta alla costituzione della prima entità ebraica sovrana indipendente. Gli Asmonei non potevano avere idea che 2000 anni dopo, gli studenti residenti oggi in Israele avrebbero condotto le ricerche proprio qui. Questo è veramente emozionante per noi.”
(Shalom, 18 novembre 2021)
Israele, con la terza dose zero morti
Lo Stato ebraico all'avanguardia nella campagna di immunizzazione: approvate le punture anche ai bambini dai 5 anni
di Claudia Osmetti
Terza dose, zero morti: modello Israele. Ché non devi mica dirglielo, agli israeliani, come si affrontano le emergenze, è gente preparata. Hanno iniziato loro, nel mondo, a somministrare le punturine salva-pelle numero tre. Non l'hanno fatta troppo lunga con gli annunci, a Tel Aviv: si son messi in fila e sotto a chi tocca. Ecco, tocca che ieri (e non è nemmeno la prima volta nell'ultima settimana) le statistiche nazionali nello Stato della Stella di David han rilevato zero decessi per coronavirus. Zero, zero spaccato. Cioè neanche uno. Da noi son stati 74, per dire. Vogliamo davvero mettere in dubbio l'importanza di farcelo, questo benedetto secondo richiamo? No, perché l'esempio israeliano è n da vedere: la campagna vaccinale, in Israele, viaggia talmente bene (pochi giorni fa hanno incassato pure il via libera per le inoculazioni ai bambini fino ai cinque anni) che la quarta ondata, da quelle parti, l'han vista di sfuggita. «Ci troviamo in una situazione eccellente», dice soddisfatto il premier Naftali Bennett, «siamo sul punto di uscire dalla variante Delta».
• LO STUDIO Capito come va, a dar credito alla scienza? Non a caso il Jerusalem Post rende noto uno studio (israeliano, ça va sans dire), fresco fresco di pubblicazione sulla rivista Nature Communications, il quale sostiene che chi si è sottoposto alla vaccinazione anti-sars-cov2 con Pflzer a gennaio, oggi ha una probabilità maggiore del 51% di contrarre il virus rispetto a chi il braccio, per lo stesso motivo, ce l'ha messo a marzo. Significa che è meglio correre ai ripari, che è meglio fare come Israele. Tra l'altro son stati i primi, gli israeliani, a riempirsi gli ambulatori con i vaccini di Pflzer: qualcosa l'avran capita. A febbraio, mentre l'Europa cercava di portare a casa contratti accrocchio sulle scorte comunitarie che abbiam visto che fine han fatto, l'allora Primo ministro Benjamin Netanyahu alzava la cornetta, chiamava direttamente il Ceo dell'azienda di New York Albert Bourla e, offrendogli il doppio del prezzo di mercato, si assicurava venti milioni di fiale. Tanto per cominciare. C'è poco da fare, le crisi si risolvono col pragmatismo. Ora, per l'avvio della campagna di massa siamo arrivati tardi e oramai è andata come è andata, però la lezione israeliana possiamo ancora impararla. La Delta, la Delta+: il rimedio c'è. Santiddio, usiamolo. E se proprio vogliamo dare i numeri, almeno diamoli con criterio: da Haifa a Eilat, nel fine settimana scorso si contavano complessivamente 6.450 persone affette da coronavirus. Israele, per estensione territoriale e popolazione è paragonabile alla Lombardia, dove invece il numero del totale dei positivi si aggira intorno ai 13mila. Martedì scorso le autorità ebraiche hanno registrato 475 nuovi casi, in netto calo rispetto ai circa 6mila giornalieri di appena due mesi fa: quando la dose booster non aveva ancora fatto capolino. I ricoverati in terapia intensiva da loro sono 147 e, finora, il bilancio delle vittime è fermo a 8.133. «Israele è un Paese sicuro», non fa che ripetere Bennett, «ma per mantenere questo status, e per salvaguardare la continuità della vita normale, dobbiamo monitorare da vicino la situazione e prepararci a qualsiasi scenario». Leggi alla voce: alla Knesset sono stufi di rincorrere bollettini e scorrere statistiche. Per carità, fanno anche quello. Però son convinti che senza prevenzione si finisca (di nuovo) a gambe all'aria. Così si sono inventati la prima esercitazione nazionale anti-covid del mondo. Sissignori, come per un qualsiasi pericolo imminente o attentato terroristico: una sala operativa, una simulazione, un nuovo ceppo immaginato per l' occasione.
• LA OMEGA L'annuncio l'ha fatto Bennett mercoledì scorso, giovedì è scattata l'ora ics e lui, assieme ai suoi assistenti, si è rintanato in un bunker nella periferia di Gerusalemme, mentre fuori funzionari, militari e "organi di alto livello" cercavano di sbrogliare i nodi chiave di una nuova variante letale (l'hanno soprannominata "Omega"). Pare sia andato tutto bene, ma d'altronde non si possono pretendere fughe di notizie dal Paese del Mossad. Scherzi a parte, dicono fonti governative che i risultati verranno «condivisi con i nostri partner stranieri». Chi è rimasto coinvolto nella maxi simulazione ha dovuto affrontare diversi scenari e lavorare in gruppo, prendendo decisioni e facendo scattare le misure che oramai abbiamo imparato a conoscere anche qui: quarantene, distanziamenti, obblighi di dispositivi per la protezione personale, blocchi aerei e navali. Non han lasciato niente al caso: ma ci sono abituati, in Israele.
Libero, 17 novembre 2021)
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Dal sionismo al globalismo
di Marcello Cicchese
"... le statistiche nazionali nello Stato della Stella di David han rilevato zero decessi per coronavirus". Nei media di solito la "Stella di David" è associata a qualche "brutalità" commessa dall'esercito di Israele; nell'articolo precedente invece è messa in relazione con un fatto esemplare per tutto il mondo: "zero decessi per coronavirus". Anzi, "zero, zero spaccato", accentua l'autrice con candido entusiasmo. E seguono lodi all'efficacia pragmatica di Israele.
Dunque la questione Israele si è ormai collegata alla questione pandemia. Israele è diventato un modello positivo per le nazioni. Il metodo da lui usato per combattere il morbo pandemico funziona, così almeno appare, e questo è quanto. Poche storie! tagliano corto adesso i ringalluzziti provax: coi vaccini si guarisce e Israele ci dice come si fa.
Se Israele è un campione in fatto di vaccinazioni, è probabile che tra i nemici dei vaccini si annidino anche diversi nemici di Israele; ma è un effetto collaterale della cura che certamente gli israeliani sono disposti a sopportare. Tra questi nemici qualcuno forse potrebbe mettere dentro anche noi, e anche noi siamo disposti a sopportarlo come effetto collaterale dell'anticura.
I motivi per cui il sito "Notizie su Israele" ha appoggiato fin dall'inizio la nazione ebraica non sono né pragmatici, né genericamente politici, ma biblici. Il sionismo è un movimento storico che Dio ha usato e guidato per mandare avanti il suo progetto di riportare il popolo ebraico, raccolto nella sua nazione, sulla terra che era stata promessa ad Abramo fin dal momento della sua chiamata. Il movimento sionista è stato ostacolato in mille modi, sia con la forza sia, in misura ancora più forte, con la menzogna. Il nostro si può dunque definire come un sionismo cristiano che affianca il sionismo secolare per amore della verità. Una verità biblica che si accorda con quella giuridica perché il diritto di Israele a risiedere e governare su quella terra si ricava sia dalla Bibbia, parola di Dio, sia dal diritto internazionale, accordo codificato fra uomini.
L'era pandemica in cui il mondo è entrato all'inizio del 2020 ha portato rivolgimenti di vario tipo, alcuni solo all'inizio, altri già in uno stato abbastanza avanzato.
In Israele il rivolgimento principale potrebbe essere presentato come un lento e graduale passaggio dal sionismo al globalismo. In termini più tradizionali, si potrebbe parlare della dialettica fra particolare e universale, sempre presente nel mondo ebraico, ma i termini sopra usati la presentano nella forma politica adatta a come oggi si presenta.
Due fatti segnalano questo lento movimento.
- Il primo governo "universale" che guida oggi lo Stato d'Israele.
Al governo "sovranista" di Netanyahu è succeduto, inaspettatamente, un governo "globalista" che tenta di mettere d'accordo un po' tutti, con l'emarginazione della parte più nazionale del paese e il consenso dell'opinione mondiale;
- Il plauso inaspettato che questo governo globalista riceve dalle nazioni.
Il successo che sembra ottenere nella lotta alla peste pandemica spinge i popoli a presentarlo come modello per tutte le nazioni.
Diciamo allora che se il sionismo si è mosso lungo una linea positiva voluta da Dio, il globalismo si muove invece lungo una linea negativa, non corrispondente alla "buona, gradita e perfetta volontà di Dio" (Romani 12:2), e tuttavia da Lui permessa per il compimento dei suoi piani, entro cui è sempre presente una parte lasciata all'uomo.
Israele sembra pronto ad accettare di essere posto al centro di un movimento di salvezza mondiale ecosanitaria autogestita, nel totale disprezzo della volontà originaria del Dio creatore e legislatore. Come è accaduto più volte nella storia d'Israele, e come sa bene chi conosce la Bibbia, il Signore non impedirà al suo popolo storico di muoversi lungo questa linea, ma non impedirà neppure che ne arrivino le conseguenze.
Al pari dell'antisionismo, il globalismo si sostiene su un'impalcatura di menzogna organizzata a vari livelli, ed è questo uno dei motivi che ci spinge a contrastare questo movimento. Il fatto grave è che se la menzogna antisionista aveva trovato in Israele e nei suoi amici chi vi si contrapponeva, la menzogna globalista è riuscita ad inglobare anche Israele e parte dei suoi amici. Le linee di separazione sono divenute dunque trasversali, e anche in questo consiste la novità del tempo presente.
Per quel poco che conta, non seguiremo Israele lungo questa via, ma certamente non smetteremo di vivere la vicinanza con lui nei fatti che verranno.
(Notizie su Israele, 17 novembre 2021)
Targa in Ghetto per la Finanza: qui siamo a casa
VENEZIA - Vorremo che il controllo del territorio non fosse così stringente, ma i tempi in cui viviamo sono questi e il terrorismo è una triste realtà con cui ci siamo abituati a convivere». Questa la riflessione di Dario Calimani, presidente della Comunità Ebraica di Venezia, che ieri mattina in campo del Ghetto ha ringraziato la Guardia di Finanza con una targa per il presidio che monitora costantemente il campo. «La nostra comunità, che una volta contava 5 mila persone, oggi arriva a 400 e per la maggior parte non vivono più qui - ricorda -. Dopo l'11 settembre 2001, il ghetto è diventato zona sensibile, non eravamo pronti ad avere militari qui. E da dieci anni, il reggimento dei lagunari dell'esercito è qui a fare la guardia». E con loro, le fiamme gialle. «Siamo in un periodo in cui non mancano turbolenze e episodi di antisemitismo, la memoria è un baluardo perché certi periodi non tornino più - ha detto Bruno Buratti, comandante dell'Italia nord-orientale della guardia di finanza -. Qui ci sentiamo a casa nostra, il nostro contributo è doveroso».
(Corriere del Veneto, 17 novembre 2021)
Due israeliani arrestati per spionaggio a Istanbul: l’accusa non è credibile, ma il rischio è grave.
di Ugo Volli
Israele sta vivendo un nuovo dramma degli ostaggi. Un nuovo problema con la Turchia si aggiunge ai due civili da anni sequestrati da Hamas, per la cui liberazione il movimento terrorista chiede la scarcerazione di migliaia di condannati per delitti di sangue e al dramma di alcune migliaia di ebrei in Iran, la cui condizione di ostaggi è ormai chiarissima. Ecco i fatti. Venerdì scorso una coppia di israeliani in vacanza a Istanbul, Natali e Mordy Oknin di Modin, entrambi guidatori di pullman, sono stati arrestati da poliziotti turchi per aver fotografato il palazzo di rappresentanza di Erdogan sul Bosforo. In realtà la residenza ufficiale e di lavoro del presidente turco è un sontuosissimo palazzo nuovo ad Ankara e Erdogan non viene praticamente mai a Istanbul, città che appoggia l’opposizione. Il palazzo di Dolmabahçe è oggi un edificio turistico, un museo: è stato il primo palazzo in stile europeo di Istanbul, costruito dal sultano Abdul Mejid I tra il 1843 e il 1856. Si trovano molto facilmente sue immagini in rete e gli è dedicata addirittura una voce di wikipedia.
Non è ben chiaro che cosa è esattamente accaduto. La ricostruzione più estesa si deve alla BBC, secondo cui “l'agenzia di stampa statale turca Anadolu ha riferito venerdì che una coppia israeliana e un cittadino turco sono stati arrestati dopo che il personale del ristorante della torre televisiva e radiofonica Camlica, alta 369 metri, ha detto alla polizia che stavano scattando foto della residenza del presidente Erdogan. I coniugi Oknin sono stati interrogati dai pubblici ministeri prima di essere deferiti a un tribunale, dove un giudice li ha accusati di ‘spionaggio politico e militare’ e ha prolungato la loro detenzione per almeno 20 giorni. Un avvocato israeliano della coppia, Nir Yaslovitzh, ha respinto le accuse, dicendo [...] che ‘il loro unico reato consiste nel fotografare il palazzo di Erdogan [...]. Ha identificato l'edificio come il Palazzo Dolmabahce sul lungomare. Esso non è utilizzato come residenza presidenziale da decenni. [...] L'attuale residenza, l'Huber Mansion, si trova in un'altra parte della città.”
Insomma, come riportato dai giornali israeliani, “è chiaro che questa è stata una decisione politica, piuttosto che legale.” Israele si è affrettato a scagionare i due: sia Bennett che Herzog hanno dichiarato che non hanno nessun rapporto con organi di sicurezza dello stato ebraico. Ma la Turchia insiste: martedì il ministro dell'Interno turco Süleyman Soylu ha accusato di nuovo la coppia israeliana di "spionaggio politico e militare". Israele ha tentato di non dare rilievo ufficiale alla vicenda e di trattare dietro le quinte, per evitare che si crei una questione di principio, ma questa tattica non sembra funzionare. Si attenuano insomma le speranze di risolvere la situazione in fretta anche se l’accusa è chiaramente insensata: che spia fotograferebbe un palazzo dalle finestre di un ristorante in cima a una torre alta 300 metri? Ormai è chiaro che l’arresto è pretestuoso e corrisponde a un tentativo del governo turco di mettere sotto pressione Israele, secondo tattiche che in Medio Oriente sono diffuse. Per esempio l’Iran ha agito in maniera analoga con la Francia e anche con gli Usa.
Nei confronti di Israele Erdogan pratica una politica di ambiguità: gli ha proposto più volte grandi alleanze nel Mediterraneo, ma intanto ospita ostentatamente i capi di Hamas, ha promosso un paio di edizioni della flottiglia per Gaza, fra cui quella finita malissimo con la Mavi Marmora, si sforza di esercitare un’influenza crescente nella parte araba di Gerusalemme alimentando il conflitto, di recente ha denunciato con grande clamore di aver arrestato una dozzina di studenti dell’Autorità Palestinese come spie del Mossad.
È probabile che agli Oknin toccherà pagare queste tensioni. La Turchia perderà quel tanto di turismo israeliano, una volta importantissimo economicamente, che stava ripartendo e probabilmente ne soffriranno anche le sue linee aeree, molto utilizzate in passato dagli israeliani. Ma la politica di Erdogan di contrastare tutti i suoi vicini che non si piegano ai suoi piani di dominio neo-ottomano, è indifferente anche all’economia. Per non parlare della verità giudiziaria e dei diritti umani.
(Shalom, 17 novembre 2021)
«Il concorso si svolge in Israele». E il governo sudafricano toglie l'appoggio alla miss
di Chiara Bruschi
• LA POLEMICA
Che le miss volessero 'la pace nel mondo" è sempre stato uno sketch piuttosto gettonato, volto a ironizzare sulle frivole ambizioni espresse dalle partecipanti. Almeno in Italia, perché in Sudafrica anche i concorsi di bellezza possono diventare una faccenda molto seria a giudicare dall'ultima presa di posizione del Governo di Johannesburg, che ha deciso di rinnegare la sua miss neoeletta Lalela Mswane. Il motivo? Gareggerà a Miss Universo in Israele, accusato di «atrocità contro i palestinesi».
• L'ANNUNCIO
Il Dipartimento di arte e cultura ha infatti annunciato che l'esecutivo si dissocia dalla scelta di Miss Sudafrica di partecipare a Miss Universo, gara prevista per il prossimo 12 dicembre nella città di Eilat Una decisione presa in seguito ai continui appelli rivolti alla reginetta affinché boicottasse la manifestazione, arrivati dalla politica e dalla società civile. E dopo un braccio di ferro con gli organizzatori di Miss Sudafrica che si sono rifiutati di riconsiderare la partecipazione alla gara.
Per il dipartimento di Arte e Cultura quella di ritirare il proprio supporto alla candidata è stata una scelta dettata dall'«intransigenza» degli organizzatori del concorso nazionale per i quali invece la neo-reginetta dovrebbe essere libera di partecipare, poiché la competizione, hanno riferito, non è una faccenda politica. «Le atrocità commesse da Israele contro i palestinesi sono ben documentate - si legge invece nel documento diffuso alla stampa - e il Governo, come rappresentante legittimo della · popolazione sudafricana non può in coscienza associarsi a ciò». Una linea dura che continua da tempo. Nel 2019 il Sudafrica aveva declassato la propria ambasciata a Tel Aviv in segno di protesta.
• I SOCIAL
Appena impugnato lo scettro di Miss Sudafrica, Lalela non ha avuto molto tempo per festeggiare perché è stata bersagliata sui social da centinaia di attacchi molto duri per convincerla a cancellare la sua presenza a Miss Universo, sotto l'hashtag #NotMyMissSouthAfrica. Tra gli appelli anche quello di Mandla Mandela, il nipote di Nelson Mandela, che ha criticato gli organizzatori di Miss Sudafrica per il supporto fornito a uno stato «che pratica l'Apartheid» contro i Palestinesi. Ha citato i diritti delle donne che vivono nella «Palestina occupata» e che vengono «quotidianamente molestate, picchiate, umiliate, incarcerate e uccise da questo regime brutale. Le donne della Palestina non hanno diritti umani?», si è chiesto in un lungo post.
Il parallelismo tra il presente palestinese e il passato sudafricano è stato anche utilizzato nelle trattative del governo con gli operatori del concorso nazionale. Nel corso del dialogo tra le due parti, gli esponenti dell'esecutivo hanno citato le parole di Desmond Tutu: «L'umiliazione dei palestinesi è familiare a tutti i Neri sudafricani che sono stati rinchiusi, molestati, insultati e aggrediti dalle forze di sicurezza del governo dell'Apartheid». «A questo punto la partecipazione della cosiddetta Miss Sudafrica diventerà irrilevante i ha dichiarato Bram Hanekom, membro del gruppo Africa4Palestine - nessuno può dire che rappresenta il suo paese... sarà sola con gli organizzatori che sembrano favorevoli a procedere».
Silenzio da parte di Israele che per il momento non ha commentato la notizia mentre a dire la sua è stata la South African Zionist Federation, per bocca del. suo presidente Rowan Polo/vin. «Siamo sconvolti dalla decisione del governo sudafricano di autosabotare le speranze e i sogni del nostro paese di splendere su un palco internazionale, soltanto perché si terrà in Israele. Lasciatela andare - ha spiegato a The South African - cosicché possa testimoniare la bellezza della democrazia israeliana, il suo multiculturalismo e la coesistenza tra i popoli, e poi possa riportare questo esempio da seguire al nostro governo e alla nostra amata nazione». Tutto tace anche da parte della reginetta 24enne, che per il momento sembra più che intenzionata a salire sul palco.
(Il Messaggero, 17 novembre 2021)
Rinviato il processo per presunta corruzione a carico di Netanyahu
GERUSALEMME - Il processo per presunta corruzione a carico del leader dell’opposizione israeliana e capo del partito Likud, Benjamin Netanyahu, è stato rinviato di una settimana. Lo riferisce il quotidiano israeliano “Jerusalem Post”. Oggi era attesa la testimonianza di uno stretto collaboratore di Netanyahu, Nir Hefetz, in seguito a nuove rivelazioni apparse ieri, 15 novembre, sui media in ebraico. Gli avvocati dell’ex premier avevano chiesto che la testimonianza fosse rinviata per ricevere e riesaminare il materiale.
In occasione della sessione, per la terza volta dall’avvio del processo, Netanyahu si è recato oggi presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme. La sessione rinviata oggi riguarda il cosiddetto "caso 1000", in cui l’accusa sostiene che Netanyahu e sua moglie avrebbero illecitamente ricevuto doni (champagne e sigari) da Arnon Milchan, un produttore di Hollywood e cittadino israeliano, e dall’imprenditore miliardario australiano James Packer. In precedenza, l’accusa ha annunciato di aver raccolto nuove testimonianze nel cosiddetto caso da parte di Hadas Klein, assistente personale di Milchan, uno dei testimoni chiave del processo.
Una fonte a conoscenza dei fatti citata dal quotidiano israeliano “Haaretz” avrebbe reso nota la testimonianza di Klein, secondo cui Milchan e il magnate australiano James Packer avrebbero consegnato alla moglie dell’ex premier, Sara Netanyahu, tre braccialetti, tra cui uno del valore di 45mila dollari. Inoltre, Klein avrebbe dichiarato che Sara Netanyahu avrebbe chiesto i monili.
(Agenzia Nova, 16 novembre 2021)
Gli Stati Uniti e Israele formano un’importante partnership per la sicurezza informatica
Questa nuova partnership si basa sulla relazione di lunga data tra il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e il Dipartimento del Tesoro israeliano. I due paesi non solo lavoreranno insieme per interrompere le operazioni di ransomware, ma formeranno anche una task force congiunta per combattere la sicurezza informatica.
In un comunicato stampa che annuncia la nuova partnership, il vice segretario al Tesoro Wally Adeyemo ha spiegato come gli Stati Uniti e Israele lavoreranno insieme per proteggere l'economia globale da ransomware e attacchi informatici:
“Sfruttare sia il potere della collaborazione internazionale che l’innovazione tecnologica ci consentirà di sostenere la competitività e la prosperità economica e di combattere le minacce globali, incluso il ransomware. Mentre l’economia globale si riprende e il ransomware e altre minacce finanziarie illecite rappresentano una grande sfida per Israele e gli Stati Uniti, una maggiore condivisione delle informazioni, lavoro collaborativo e collaborazione su politiche, normative e applicazione sono vitali per i nostri obiettivi economici e di sicurezza nazionale “.
• TASK FORCE CONGIUNTA
Come primo mandato, la nuova task force inizierà a redigere un memorandum d’intesa che includerà la condivisione di informazioni relative al settore finanziario, la formazione del personale e le visite di studio per promuovere la collaborazione e lo sviluppo di competenze come esercizi di sicurezza informatica transfrontalieri.
Tuttavia, la task force lancerà anche una serie di scambi tecnici, normativi e di sensibilizzazione per supportare le innovazioni nel fintech che sia gli Stati Uniti che Israele hanno deciso di promuovere. I due paesi mirano ad aiutare il settore fintech a sviluppare solide salvaguardie di sicurezza informatica in grado di promuovere la conformità alle normative antiriciclaggio, finanziamento del terrorismo e antiproliferazione.
Nell’ambito della nuova partnership, il Dipartimento del Tesoro statunitense prevede anche di partecipare alla CyberTech Global Tel Aviv Conference, che si terrà in Israele il prossimo gennaio.
Contrastare il ransomware e altre minacce informatiche è una priorità assoluta per il governo Biden e questa nuova partnership con Israele contribuirà a far avanzare ulteriormente questo obiettivo.
(hitechglitz.com, 16 novembre 2021)
Israele: iniziata la revisione dei brani ricevuti per l’Eurovision 2022
È iniziata la revisione dei brani ricevuti per rappresentare Israele all’Eurovision Song Contest 2022.
Il comitato professionale incaricato di revisionare e selezionare, tra le 130 ricevute, le otto canzoni che verranno eseguite alla finale di X Factor Israel, ha iniziato il proprio lavoro. Il comitato è formato da sei membri: Ofri Gopher (il direttore delle stazioni radio musicali di KAN), tre rappresentanti radio, un rappresentante della TV e un rappresentante di Channel 13. Secondo il sito Euromix, il comitato impiegherà due/tre settimane per completare il lavoro.
Quest’anno, rispetto agli anni precedenti, l’emittente ha deciso di non rivelare i nominativi dei membri del comitato per impedire ai compositori di esercitare pressioni e ricevere favoreggiamenti.
Una volta che le otto canzoni saranno determinate, i rispettivi compositori verranno contattati e potranno iniziare a preparare una nuova versione del brano più adatta al quartetto finalista di X Factor Israel.
(Eurovision IN, 16 novembre 2021)
L’Iran lancia attacchi cyber contro il Marocco (e non solo)
Gli hacker iraniani del gruppo Lyceum hanno attaccato le reti di almeno una società di telecomunicazioni e fornitori di servizi Internet in Marocco
di Giuseppe Gagliano
Tra luglio e ottobre, gli hacker iraniani del gruppo Lyceum hanno attaccato le reti di almeno una società di telecomunicazioni e fornitori di servizi Internet in Marocco, secondo i ricercatori di sicurezza informatica di Accenture Cyber Threat Intelligence (ACTI) e Prevailion Adversarial Counterintelligence (PACT). Il gruppo di attacchi informatici Lyceum, con sede in Iran (noto anche come Hexane, Siamesekitten e Spirlin), ha preso di mira il Marocco, ma anche Israele, Arabia Saudita, Tunisia e altri paesi africani. Due società – Accenture, che ha una filiale in Israele, e Prevailion, con sede negli Stati Uniti – hanno pubblicato una ricerca in tal senso il 9 novembre, che ha tracciato attacchi informatici tra luglio e ottobre. Mentre le società di sicurezza informatica Clearsky e Kaspersky avevano già pubblicato informazioni sui ripetuti attacchi del Lyceum dal 2017, in particolare contro gli interessi strategici in alcuni paesi, il nuovo rapporto rivela “dettagli sulle ultime operazioni, tra cui nuove vittime, aree geografiche e industrie mirate” analizzando in modo più dettagliato l’infrastruttura operativa e il targeting degli hacker iraniani. Il nuovo studio conferma le conclusioni precedenti “indicando che l’attenzione principale è rivolta agli eventi di intrusione nelle reti informatiche per i fornitori di telecomunicazioni in Medio Oriente”. Identifica anche obiettivi aggiuntivi all’interno dei fornitori di servizi Internet (ISP) e delle agenzie governative nei suddetti paesi. Lyceum ha ampliato il suo obiettivo per includere ISP e agenzie governative. Uno dei motivi per cui le società di telecomunicazioni e gli ISP sono obiettivi di alto livello per gli attori del cyberintelligence è che il loro “compromesso dà accesso a varie organizzazioni e file di abbonati oltre a sistemi interni che possono essere utilizzati per sfruttare ancora di più comportamenti dannosi”, osserva la ricerca. Inoltre, le aziende di questi settori possono anche essere “utilizzate dagli attori delle minacce o dai loro sponsor per monitorare le persone di interesse”. Lyceum, secondo il gruppo Cyber Threat Intelligence (ACTI) di Accenture e l’Adversarial Counterintelligence Team (PACT) di Prevailion, ha utilizzato due principali famiglie di malware, chiamate Shark e Milan (alias James). Tra luglio e ottobre 2021, gli attacchi di Lyceum sembrano aver preso di mira ISP e operatori di telecomunicazioni in Israele, Marocco, Tunisia e Arabia Saudita, nonché un Ministero degli Affari Esteri in Africa. Lo scorso febbraio, il ministro degli Esteri Nasser Bourita ha riferito sulla minaccia iraniana alla regione e al Marocco in particolare. Queste parole riecheggiano quelle che lui stesso ha usato nel 2018, quando il Marocco ha accusato l’Iran e Hezbollah di finanziare e cooperare con il Fronte Polisario.
(Startmag, 16 novembre 2021)
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