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Notizie 1-15 ottobre 2015


Ebraismo, domani si parla di Leone de Sommi

Con Patuzzi la presentazione del libro di Giorgio Pavesi alle 21 nell'aula magna del liceo Isabella d'Este.

 
Stefano Patuzzi
MANTOVA, 15 ott - Leone de Sommi è stato il primo regista teatrale del Rinascimento: ebreo, vissuto a Mantova nel Cinquecento (1525-1590 circa), riteneva che in una rappresentazione più ancora della parola conta il modo in cui l'attore la pronuncia, hanno importanza i costumi, la scenografia, i ritmi e la musica. Una visione molto moderna.
   A questo personaggio ha dedicato un libro Giorgio Pavesi, socio fondatore della compagnia teatrale Il Palcaccio. "Leone de' Sommi hebreo e il teatro della modernità", edito da Gilgamesh, sarà presentato domani sera, alle 21, nell'aula magna del liceo Isabella d'Este in via Giulio Romano 13, dall'autore insieme a Stefano Patuzzi, presidente dell'associazione Mantovà, per il ciclo di conferenze Ebraismo al sesto giorno.
   «Leone de Sommi - spiega Stefano Patuzzi - è più conosciuto all'estero che in Italia, naturalmente in Israele, ma anche nell'ambiente anglosassone e in quello di lingua portoghese- brasiliana. Nel libro firmo un saggio su quello che era la comunità ebraica mantovana dal punto di vista culturale. Non deve stupire che un ebreo scrivesse commedie nell'ambito della sua gente e fosse richiesto alla corte dei Gonzaga. C'era un rapporto costante tra cristiani ed ebrei. Questi vivevano nella loro comunità, con proprie regole e tradizioni, ma non erano emarginati. Va notato che Leone de' Sommi scrisse una commedia in ebraico, la prima al mondo, dimostrando che non era solo la lingua del Talmud, dei precetti, ma poteva essere usata anche per raccontare la vita».
   Giorgio Pavesi è arrivato a Leone de' Sommi, dopo un lavoro sugli organi. «A Sabbioneta la parrocchia ne aveva ben sei, ma là c'è anche la sinagoga e mi sono incuriosito e sono arrivato a Patuzzi, già autore di un libro sul compositore ebreo mantovano Salomone Rossi. Curiosamente io abito a Castelletto Borgo, proprio fra via Leone de' Sommi e via Salomone Rossi. Mi sono detto: ho 45 anni di esperienza nel teatro, questo è l'uomo per me. Mi sono procurato i suoi Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche - aggiunge - ho cercato chi aveva scritto su di lui e ho scoperto che era stato studiato come uomo di teatro o come letterato o come umanista. Così si perdeva il suo messaggio: per lui la cultura ebraica e quella cristiana, a parte la religione, non erano molto lontane». (maf)

(Gazzetta di Mantova, 15 ottobre 2015)


La storia del fascista che salvò tutti gli ebrei che poteva. Solo perché era giusto

di Vittorio Pavoncello

Si avvicina il 16 ottobre, una data imprescindibile per ciascun ebreo romano. La data della razzia, della deportazione di migliaia di ebrei italiani da parte dei tedeschi. Ogni anno le storie, nei ricordi di quelle poche persone ancora in vita, riprendono corpo, si rianimano.
   Solitamente sono storie che si raccontano durante una cena di Shabbat, in occasioni particolari. Questa volta, invece, ne sono venuto a conoscenza in un modo insolito, una storia che mai avevo sentito, che mai era stata raccontata. Un incontro fortuito al lavoro, con una persona discreta, schiva, riservata, forse timida. Si finisce a parlare di ebrei, perché era lì che il mio interlocutore voleva arrivare.
   "Mio nonno il 16 ottobre salvò molti ebrei", mi dice. Perché ne parla a me? Mi consegna un fogliettino con il nome del nonno, lo liquido, quasi bruscamente e torno alle mie cose. Dimentico questo episodio. Ogni tanto, però, svuoto le mie tasche dai mille fogliettini che le popolano. Esce fuori il biglietto con il nome e comincio a curiosare su Internet.
   Qualcosa comincia ad uscire e mi imbatto in questa storia. Il 16 ottobre del 1943, un sabato piovoso, il ghetto di Roma è circondato dalle SS; decine di camion ne bloccano le uscite. Con in mano la lista degli ebrei da deportare, forse fornita dalla polizia fascista, casa per casa, comincia il rastrellamento.
   Pochi giorni prima l'ufficio toponomastico del Comune di Roma, aveva cambiato, per alcuni edifici il numero civico. Fu così per la famiglia Limentani, a Via Sant'Elena, dietro Via Arenula. Quel giorno, il capofamiglia sente i rumori, si ricorda delle confessioni, non credute, di alcuni coinquilini e si affaccia.
   Realizza che, nonostante le rassicurazioni di Kappler e i 50 chili d'oro, la deportazione degli ebrei è iniziata. Ordina alla moglie e alle sue tre figlie di indossare il loro migliore vestito e decidono di dividersi. Mamma e papà Limentani escono dal portone come nulla fosse e le ragazze dovranno andare in casa di un ingegnere che aveva promesso aiuto in caso di bisogno, pochi piani sotto al loro.
   Una promessa fatta a troppe persone, perché, nella piccola casa dell'ingegnere, erano già nascosti altri ebrei. Non c'è posto per tutte e tre le sorelle Limentani, soltanto la piccola Giuliana riesce ad entrare. Intanto i nazisti si arrabbiano con l'anziano portiere che non comprende il tedesco, ottengono ciò che vogliono e si dirigono verso casa Limentani.
   Mirella e Marina si sentono perdute, quando però, sul pianerottolo, si apre una porta. Un uomo, in camicia nera, le fa entrare nella sua casa. Ferdinando Natoni, un fascista duro e puro, un "fascista de fero", uno che non aveva in simpatia gli ebrei e con il quale la famiglia Limentani non aveva mai scambiato due parole. Arrivano i tedeschi e Natoni dice loro che quelle due ragazze sono figlie sue, cosa che non convince i militari.
   Perché, si domandano i militari, quelle due ragazze sono vestite di tutto punto e gli altri componenti della famiglia sono ancora in pigiama? Natoni gli sventola davanti la tessera del Partito Fascista e i soldati battono in ritirata. Non contento il Natoni scende in strada, deciso a salvare quanti più ebrei gli è possibile. Ma le SS che erano in casa sua, vedendolo prodigarsi per liberare altri ebrei, hanno un ripensamento, realizzano che è troppo giovane per avere due figlie così grandi. Fra la disperazione dei famigliari, viene arrestato dai nazisti.
   Solo il suo alto grado nella milizia fascista gli salva la vita, viene scagionato e rilasciato. Torna a casa e non trova le due ragazze che, nel frattempo, i genitori miracolosamente scampati alla retata, erano tornati a riprendersi. A fine guerra la famiglia Limentani si salvò e ogni 16 ottobre, per ricordare quel magnifico gesto, portavano doni alla casa del Natoni.
   Per un parente stretto dei Limentani sembrava riduttivo che la gratitudine nei confronti di Natoni si esaurisse con dei semplici doni. Avrebbe voluto che questa storia fosse raccontata e che Ferdinando Natoni ricevesse il premio per tale coraggioso comportamento, essere riconosciuto come Giusto tra le Nazioni e ricevere la Medaglia dei Giusti. Cosa che puntualmente avvenne, nel novembre del 1994.
   Proprio mentre l'allora Capo Rabbino di Roma, Elio Toaff, stava per consegnare la medaglia, Natoni gli disse: "Devo precisare che però al fascismo io ci credo ancora, sono e resto fascista e lo sarò per sempre!". Toaff gli sorrise e gli disse: "Dispiace soltanto di non avere, qui con me, due medaglie, una per lei e l'altra alle sue parole, per l'onestà che lei ha dimostrato nell'esprimerle". Il fascista Ferdinando Natoni, che non aveva esitato a mettere in pericolo la sua vita e quella dei suoi famigliari per salvare degli ebrei dalla deportazione, solo perché non lo riteneva giusto.
   Non è importante l'appartenenza politica, il credo religioso. L'animo è importante, il cuore è importante, quello che ti fa fare le cose giuste solo se sei onesto, integro, coerente. Una bella storia, come quella di Romolo Balzani, il più famoso cantante romano di quel periodo, che donò alla Comunità ebraica di Roma, impegnata a raggiungere i famosi 50 chili d'oro, l'unica cosa di valore che il padre gli avesse lasciato.
Una storia di uomini di valore oltre qualsiasi steccato.

Presidente della Federazione Italiana Maccabi

(L'Huffington Post, 15 ottobre 2015)


Università di Tel Aviv: Concorso per realizzare nuovo Centro di Nanoscienze e Nanotecnologie

Strelka KB, una società russa, organizza un concorso internazionale di architettura che premierà il miglior progetto del nuovo Centro di Nanoscienze e Nanotecnologie che nascerà nel campus dell'Università di Tel Aviv.
  Nello specifico Strelka KB è un consulente strategico per lo sviluppo di soluzioni urbanistiche ed è l'operatore leader di concorsi di progettazione architettonica e urbanistica. Nel corso degli anni le gare di Strelka KB hanno visto la partecipazione di oltre un migliaio di professionisti nel campo dell'architettura e landscape design provenienti da tutto il mondo.
Per la TAU University il concetto architettonico comprende lo sviluppo generale urbanistico, la pianificazione e la soluzione spaziale per il sito del progetto.

 Il Concept
  Il campus è di per sé un museo a cielo aperto di architettura moderna e arti plastiche che coprono gli ultimi cinque decenni. Il progetto per il nuovo Centro Nanoscienze e Nanotecnologie dovrebbe riflettere la bellezza e integrare la funzionalità di tutti gli edifici che compongono il campus. Allo stesso tempo, deve incarnare lo spirito di questa Università, che non è altro che un simbolo nazionale. Il nuovo edificio ospiterà un grande laboratorio di nano-fabbricazione e 12 laboratori di ricerca di base. Complessivamente circa 120 ingegneri e ricercatori utilizzeranno l'edificio come loro hub principale.
  Pertanto, l'edificio dovrebbe non solo disporre di spazi aperti, ma anche di quelli privati per le discussioni confidenziali con i funzionari del settore. L'edificio ospiterà anche dei laboratori per l'esecuzione di ricerche ma dovrebbe anche consentire al grande pubblico (visitatori, studenti delle scuole superiori) di visitare le aree per entrare in contatto con le attività. Di conseguenza, l'edificio dovrà essere adattato alla visita di utenti esterni tra cui circa 50 studenti che verranno a lavorare nei laboratori centrali e circa 40 ingegneri del settore che utilizzeranno le strutture.

 Il Concorso
  Il Concorso si articola in due fasi: durante la fase di pre-selezione, la Giuria selezionerà 21 candidati che si impegneranno in un dialogo competitivo durante la prima fase. Al termine della prima fase, saranno scelti 6 partecipanti per sviluppare ulteriormente i concetti architettonici che saranno protagonisti della seconda fase. Al termine di quest'ultima, la Giuria classificherà i tre finalisti e, infine, deciderà un vincitore.
  Il termine di presentazione delle domande è previsto per il 30 ottobre 2015.
  Sul sito ufficiale della competizione sono consultabili le modalità di partecipazione.

(SiliconWadi, 15 ottobre 2015)


Ebrei sefarditi, il grande ritorno nella Penisola iberica

Dopo 500 anni dalla cacciata a opera dell'Inquisizione, gli ebrei sefarditi stanno tornando nella Penisola iberica. E ciò grazie al fatto che, quest'anno, Spagna e Portogallo hanno deciso, quasi simultaneamente, di approvare leggi che favorissero il rientro degli ebrei che furono cacciati dalla Penisola iberica alla fine del XV secolo.
   Si tratta in maggioranza di marocchini, tunisini, ma anche turchi e israeliani. La maggior parte degli ebrei costretti all'esilio da «Sefarad» (la Penisola iberica) si erano infatti rifugiati nell'impero ottomano o in altri Paesi del Medio Oriente o dell'Africa del Nord (Egitto, Libia, Algeria, Tunisia e, soprattutto, Marocco). Non esistono stime ufficiali su quanti siano i discendenti dagli ebrei fuggiti dalla Penisola iberica cinquecento anni fa. Secondo stime citate dalla stampa iberica potrebbero essere più di 2 milioni.
   In questi giorni, il Governo lusitano ha reso noto di avere restituito la cittadinanza ai primi tre discendenti di ebrei sefarditi cacciati dal Paese nel 1496. La Spagna, dove la legge è entrata in vigore ai primi di ottobre, ha concesso subito la nazionalità a 4.302 ebrei sefarditi. La legge spagnola, più rigida e in vigore per soli tre anni, fissa diversi requisiti necessari per ottenere la nazionalità senza perdere quella che già possiedono: conoscenza della lingua, della cultura e della situazione attuale del Paese, oltre alla presentazione di documenti che confermino le loro origini.
   Da parte degli ebrei, soprattutto quelli residenti in Israele e in Nord Africa, è altissimo l'interesse ad avere la nazionalità portoghese o spagnola. Questa infatti aprirebbe loro la porta dell'Unione europea.

(Africarivista, 15 ottobre 2015)


Ghetto di Roma: un sopravvissuto ad Auschwitz ricorda il 16 ottobre 1943

Parla Alberto Sed, uno dei diciotto 'eroi comuni' insigniti da Presidente della Repubblica

di Elisa Pinna

 
Alberto Sed
ROMA, 15 ott - Alberto Sed è un ebreo romano di 87 anni e, quando ne aveva appena 14, vide le camionette dei nazisti arrivare all'alba nel Ghetto, sentì le urla di disperazione di donne e vecchi, il pianto dei bambini ancora insonnoliti. Fu la deportazione degli ebrei di Roma (1259 persone) nei campi di sterminio nazisti, un evento che sarà ricordato domani dalla comunità ebraica. Alberto Sed, orfano di padre, si salvò miracolosamente, insieme alla madre e a tre sorelle, ma la loro fuga fu breve. Nel marzo del '44 furono catturati in un magazzino a Porta Pia, in seguito ad una spiata, e mandati ad Auschwitz. "Da lì siamo tornati in pochi", racconta all'ANSA l'anziano ebreo, che ha visto uccidere, quando era un ragazzino, la madre e due sorelle (una sbranata dai cani delle SS) e che per cinquant'anni ha taciuto sull'orrore vissuto, persino con la moglie e con i figli.
   Poi si è sbloccato ed è "uscito", come dice lui, da Auschwitz, raccontando la sua storia prima in un libro scritto dal giornalista e ufficiale dei carabinieri, Roberto Riccardi, intitolato "Sono stato un numero" (edito da Giuntina), poi in centinaia di incontri con scuole, giovani, detenuti, gente comune. Con la sua testimonianza ha dato coscienza a decine di migliaia di persone della barbarie avvenuta. Tanto che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha annunciato la scorsa settimana che lo insignirà, insieme ad altri 17 'eroi comuni' dell'onorificenza di "commendatore".
   Led non se ne capacita: "quando mi hanno chiamato dal Quirinale pensavo che fosse uno scherzo", dice ridendo. "E non ci avrei nemmeno creduto, se dopo non mi avessero chiamato alcuni giornalisti", aggiunge. Il sopravvissuto non si sente di aver fatto nulla di speciale. Anzi. "E' l'affetto, la solidarietà della gente con cui parlo tutti i giorni, le migliaia di lettere ricevute dagli studenti che mi hanno tirato fuori dall'orrore del campo di concentramento", spiega. Però una volta un amico gli ha detto: "Alberto, se ci sarà un altro Olocausto, non necessariamente contro gli ebrei, nessuna delle persone con cui hai parlato sarà dalla parte dei carnefici". Di questo, Led è fiero.
   Solo da otto anni l'uomo ha reso pubblici i suoi ricordi più atroci. "Non sono mai riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello", racconta. "Non sono mai riuscito a entrare in una piscina, perchè ho visto un prete ortodosso massacrato e annegato dai carnefici", aggiunge. "I nazisti - rievoca ancora - uccidevano non solo ebrei, ma anche zingari, partigiani, oppositori e persino tedeschi stessi perchè handicappati o malati mentali. Non sapevano che farsene".
   Domani Led, in occasione della deportazione degli ebrei di Roma, si recherà a parlare della Shoah in una scuola di Ladispoli. "Ho ricevuto inviti anche da alcune televisioni, ma io preferisco i ragazzi", spiega, sottolineando come lui abbia potuto frequentare solo le elementari. A dieci anni, infatti, si trovò sbarrate le porte delle scuole e delle squadre di calcio, a causa delle leggi razziali: "Non ero più un bambino, ero diventato un ebreo". Ciò avvenne pochi mesi prima che gli uomini del colonnello delle SS, Herbert Kappler, irrompessero alle 4:30 del mattino del 16 ottobre del 1943 al Portico d'Ottavia.

(ANSAmed, 15 ottobre 2015)


Torino, blitz in aula degli studenti. Interrotta la conferenza con Israele

I collettivi pro-Palestina contro l'accordo tra Università

di Fabrizio Assandri

«Ladri di terra, criminali di guerra» è la scritta sullo striscione sfoderato ieri da un gruppo di studenti che ha interrotto l'incontro tra Politecnico e Università di Torino e l'lsrael Institute of Technology (Technion) di Haifa, mentre si discuteva delle più avanzate tecnologie per l'utilizzo delle risorse idriche. «Non avete diritto di parlare, andate via» hanno urlato dalla cattedra gli organizzatori.
   Quello di ieri al Campus di Agraria di Grugliasco era il primo incontro operativo della collaborazione tra i tre atenei su temi come biotecnologie, sanità, big data. I delegati hanno visitato la Maserati e oggi saranno al Politecnico per discutere di start-up. L'accordo prevede scambi di docenti e studenti e la redazione di progetti comuni in vista degli obiettivi del 2020 dell'Europa sul tema dello sviluppo.
   Una decina di studenti del collettivo "Progetto Palestina" hanno distribuito volantini e gridato l'invito a boicottare la collaborazione universitaria. «Il Technion - è l'accusa - lavora per le forze di sicurezza e aiuta i riservisti». Una bandiera palestinese è spuntata tra le grida «Assassini, assassini». La calma è tornata dopo pochi minuti con l'intervento della polizia, che ha fatto uscire i manifestanti e li ha identificati e, per ora, non denunciati. L'incontro è proseguito, ma con un presidio fisso dei carabinieri. «Temevamo contestazioni, volutamente abbiamo fatto poca pubblicità» dice Aldo Ferrero, responsabile scientifico alla conferenza di ieri. Le posizioni divergono. Il vice rettore Silvio Aime non solo non condanna la protesta, ma afferma: «Le contestazioni vanno ascoltate. Israele non può continuare con politiche di emarginazione. I ricercatori non possono stare fuori dal mondo, devono avere delle opinioni, anche se la collaborazione tra gli atenei non è in discussione». David Shem-Tov, che per il Technion si occupa di start-up, risponde: «Frasi troppo politiche. Se devo dare una risposta, non credo che i palestinesi siano emarginati, studiano e insegnano alla nostra università». «Sono d'accordo sul fatto che le contestazioni vadano ascoltate - dice Eran Friedler, del dipartimento dell'Ambiente di Haifa - ma la situazione è più complicata, va vista di persona». «Protestare è legittimo - dice Emilio Paolucci, vice rettore del Politecnico - ma fin troppo semplice, la ricerca fa crescere le possibilità per tutti, sta ai politici poi ripartire le risorse in modo equo». Divisi anche gli studenti presenti: «Non è il modo né il luogo della protesta» dice Giovanni Massazza di Ingegneria. «Non erano fuori tema - gli risponde Valentina Barrera - speriamo che la collaborazione non abbia scopi bellici».

(La Stampa, 15 ottobre 2015)


In queste indignate manifestazioni di protesta c’è sicuramente molta falsa moralità, ma anche autentica stupidità. In altre parole: la moralità è falsa, la stupidità è vera. M.C.


Patto Italia-Israele: fare dei siti archeologici luoghi di vita

di Luisa Contri

Impostare una metodologia, in grado di rinnovarsi costantemente, che renda i siti archeologici patrimonio dell'Unesco dei luoghi vivi, attrattivi, parte integrante della nostra vita di tutti i giorni. È il lavoro che porterà avanti il Polo di Mantova del Politecnico di Milano insieme a quattro centri universitari israeliani: il Technion di Haifa, l'università di Tel Aviv, la Bezalel Academy di Gerusalemme e lo Shenkar Engineering, Desing e Art di Tel Aviv, nel quadro di un accordo di scambio culturale e didattico che si rinnova da anni fra i primi quattro soggetti. E cui ha aderito nei mesi scorsi lo Shenkar.
   «A breve», ha spiegato a ItaliaOggi David Palterer, titolare del corso di progettazione del Master del Politecnico di Milano, a margine del Simposio bilaterale d'archeologia Italia-Israele di settimana scorsa a Expo Milano 2015, «intraprenderemo insieme allo Shenkar due progetti in altrettanti siti patrimonio dell'Unesco. Il primo triennale, partirà a febbraio 2016 e riguarderà la musealizzazione dell'antica città di San Giovanni d'Acri, secondo criteri che consentano l'interconnessione fra la città e gli scavi e una migliorare fruibilità del sito. Il secondo sarà un seminario sulla necropoli di Bet She'arim, presso la quale c'è ancora molto da fare e dove vogliamo sperimentare un nuovo metodo di lavoro che coinvolga anche l'Unesco».
   Al simposio Uzi Dahari, vicedirettore archeologia dell'Israel Antiquities Authority, ha invece sottolineato la matrice comune fra la moderna tecnica d'irrigazione goccia a goccia e i sistemi d'immagazzinamento e canalizzazione dell'acqua piovana dell'antica Roma, che hanno consentito il fiorire di città nel deserto del Negev. «Allora come oggi», ha sottolineato Dahari, «la crescita demografica ha reso cruciale un utilizzo razionale dell'acqua. E ci ha spronati a mettere a punto di una tecnica di potabilizzazione dell'acqua di mare che la rende buona quanto quella minerale. Tecnica che è stata scelta anche da paesi come il sultanato dell'Oman e l'emirato del Qatar, con i quali non intratteniamo relazioni, e che è nostra intenzione condividere».

(ItaliaOggi, 15 ottobre 2015)


Lotta all'intifada: quartieri arabi chiusi ed esercito schierato

Ban Ki Moon critica le scelte del governo: «Sproporzionate». Kerry prepara un incontro tra Netanyahu e Abu Mazen.

di Fiamma Nirenstein

Non si può fare a meno, se si vive a Gerusalemme, di andare alla stazione centrale degli autobus che ti riporta dal lavoro a casa: ma oggi là, in mezzo alla folla, il terrorista è in agguato col coltello. Ieri sera verso le 18 un aggressore ha ferito gravemente una donna che saliva sul numero 68, poi, in mezzo alle urla e al panico, è stato fermato mentre sull'autobus cercava di colpire altre vittime. E non si può fare a meno neppure di capitare alla porta di Damasco: ma qui è stato per miracolo evitata un'altra pugnalata. O di prendere un autobus, ma vi è stato trovato un coltello. La gente di Gerusalemme seguita a soffrire l'assedio. Tuttavia ieri ha un po' rallentato la mattanza. Gli attacchi sono stati fino al momento in cui scriviamo tre, senza morti israeliani e l'uccisione dei due terroristi, in tre punti disparati e distanti della città. Martedì erano stati 5, con tre morti.
   La sensazione è che la relativa diminuzione degli attacchi e della loro fatalità sia dovuta al fatto che il Governo, da due giorni in riunione di gabinetto, abbia dato ordini chiari e decisi mentre si studiano ulteriori, severe misure di sicurezza. Sulla base della discussione governativa, le forze dell'ordine hanno studiato strategie, migliorato il lavoro, allargato il numero delle persone impegnate nella lotta al terrorismo con 300 soldati oltre alla polizia al massimo dello sforzo. Il primo attacco alla porta di Damasco, Citta Vecchia, è stato compiuto da un giovane che ha attaccato una guardia. Poi, su un autobus è stato sequestrato un coltello proveniente dal quartiere arabo di Shuafat e un arresto ha seguito il ritrovamento. Le misure decise dal governo e che al momento hanno un carattere di emergenza prendono di mira i quartieri da cui sono usciti i terroristi: fino ad ora i terroristi omicidi sono tutti arabi israeliani e abitano a Gerusalemme est.
   La polizia ieri ha presidiato questi quartieri, chiudendone per quanto possibile le uscite. Il primo quartiere le cui strade sono state punteggiate da barriere di cemento è quello di Jabel Mukaber, da cui sono usciti i tre terroristi che hanno compiuto i due attacchi mortali di martedì. Si è deciso di non risparmiare la distruzione di case dei terroristi, di togliere loro la cittadinanza, di mettere guardie su tutti i mezzi pubblici. Su tutti i social media palestinese prevale di gran lunga la pazzesca bugia che i giovani palestinesi uccisi siano stati semplicemente attirati in una trappola omicida da Israele, bravi ragazzi che volevano solo «salvare la Moschea di Al Aqsa» mentre i leader non riescono a dire una parola buona dopo tanti anni di insegnamento dell'odio.
   Netanyahu ha rinnovato il suo invito a Abu Mazen a sedersi «senza precondizioni e a intraprendere una trattativa per quanto difficile possa essere»; ha anche promesso uno sforzo titanico per fermare il terrore. Ma Ban Ki Moon intanto dichiarava che la reazione di Israele all'attacco del terrore è sproporzionata. E che altro doveva dire l'ONU, che non dice una parola sulle stragi quotidiane sui confini di Israele stesso. Intanto John Kerry - che sta lavorando dietro le quinte per un vertice ad Amman con Netanyahu e Abu Mazen - ha lanciato l'idea che i palestinesi compiano atti di terrore a causa «della grande crescita degli insediamenti che si è avuta negli ultimi anni». Ipotesi strana, dato che i terroristi stessi vedono il motore nella Moschea di Al Aqsa. Di fatto si nota che le guerre di religione sono il massimo motore di stragi da queste parti, ma per Israele non vale. Anche dando un'occhiata ai dati, mentre nel suo anno da primo ministro Ehud Barak costruì 5000 case, Sharon 1881, Olmert 1774, le case di Bibi sono 1554, meno di quelle di qualsiasi altro Primo Ministro.

(il Giornale, 15 ottobre 2015)


L'Intifada adesso si fa con gli smartphone

Gli attacchi agli isreaeliani vengono coordinati anche attraverso social e chat

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - «Smartphone Intifada»: è Danny Qumsieh, conduttore e proprietario della radio «Mawwal FM» di Betlemme, a coniare l'espressione che sottolinea l'importanza dei cellulari per i protagonisti della rivolta contro Israele entrata nella quarta settimana. La scelta di Qumsieh nasce dal fatto che i cellulari vengono usati in più maniere, sempre legate alla rivolta.
Anzitutto servono per coordinare gli attacchi contro gli israeliani, sfruttando social network collettivi e chat room per evadere la sorveglianza elettronica delle forze di sicurezza. In secondo luogo servono per diffondere le immagini delle violenze attribuite ai soldati come per far vedere i corpi dei palestinesi uccisi: in entrambi i casi si tratta di scatti che moltiplicano la rabbia dei giovani, e dunque la loro volontà di battersi.
C'è poi la diffusione delle foto degli agenti dello Shin Beth - il controspionaggio - infiltrati nei Territori palestinesi, in abiti borghesi, per consentire ai "shabab" palestinesi di identificarli, evitarli e spesso anche aggredirli. Infine, ma non per importanza, gli smartphone servono per diffondere e condividere informazioni sulle «dissacrazioni israeliane della moschea di Al Aqsa» che sono poi il vero carburante della rivolta. Alcuni siti palestinesi, come Pnn e Amin, coprono l'Intifada grazie alle immagini ottenute dagli smartphone dei singoli abitanti dei Territori.

(La Stampa, 15 ottobre 2015)


Presi di mira in attacchi, replicano con raffiche di battute

di Aldo Baquis

"Che paura con questi accoltellamenti tutto attorno. Solo che non arrivino a mia suocera! Famiglia Levy, ad Ashdod, via Trumpeldor 60, ottavo piano, prima porta, quella con la 'hamsa', la manina portafortuna. La poveretta abita da sola, non ha armi. Rappresenterebbe un obiettivo proprio facile, se fosse attaccata".
  Era la notte del 12 ottobre, al termine di una nuova giornata di violenze, quando 'Benyomin' ha proposto questo testo satirico ai lettori del sito ortodosso Behadrey Haredim, spesso studenti di collegi rabbinici. Un modo, forse inconscio, per esorcizzare la paura dopo aver constatato che negli ultimi attentati gli assalitori palestinesi hanno spesso attaccato ebrei timorati, particolarmente riconoscibili per i loro abiti.
  Anche in passato, trovatisi con le spalle al muro, gli ebrei hanno talvolta reagito con l'umorismo. E in poche ore il sito si è riempito di testi sarcastici, quasi divertiti. Qualcuno ha subito proposto la fotografia di una nuova maglietta bianca con una vistosa chiazza di sangue sul petto. Il testo annuncia: "Sono già stato pugnalato. Grazie".
  'ShalDag' tenta di far notare ai lettori che l'ondata di attentati ha pure un aspetto "estetico" e lodevole: "Finalmente - nota con meraviglia - la gente ha ripreso ad alzare la testa dai telefoni cellulari".
  Alla luce dello stato di emergenza un marito consiglia alla moglie di "stare molto attenta quando esce per strada". Poco dopo - si legge ancora nel sito - la donna gli telefona trionfante: "Non ci crederai. Ho scoperto due nuove boutique, molto carine, proprio vicino a casa nostra".
  Anche le usanze molto severe dei timorati tentennano di fronte agli accoltellamenti. "Oggi - scrive 'Kushi' - ho visto un marito e una moglie che si tenevano per mano, tale era la paura". In tempi normali avrebbero mantenuto invece qualche passo di distanza fra di loro.
  "Io - scrive qualcun altro, distanziandosi nettamente dal tono generale degli interventi - sono per la separazione definitiva fra israeliani e palestinesi: noi sopra, e loro sotto terra".
  Un altro lamenta indignato: "Il mese scorso il prezzo dei pomodori era alle stelle. Adesso sono i coltelli che vanno a ruba, e diventano cari anch'essi. Concludendo: in questo Paese non si riesce più a farsi un'insalata decente".
  La sera del 12 ottobre 'Sayeret Maran' entra a tarda sera nella chat per tracciare queste righe, e rilevare lo stato di isteria che sembra diffondersi in Israele: "Ero in ospedale. All'improvviso viene un'infermiera araba e mi dice: 'E' solo una puntura ('dkira' ', in ebraico, significa anche pugnalata) leggera'. Non ci ho pensato due volte e le ho sparato".
  Un umorismo beffardo, degno delle matite pungenti di Charlie Hebdo. Ma ieri si è appreso che anche la polizia stava leggendo la chat. Nella nottata 'Sayeret Maran' e' stato identificato e agenti hanno bussato alla sua porta. Condotto in un commissariato è emerso che da poco si era congedato dall'esercito. Dopo un lungo interrogatorio è stato rilasciato, dietro cauzione. Un incidente di lavoro che non ha turbato troppo i compagni di 'Benyomin' che anche nelle ultime ore regalano commenti sarcastici a chi vive giornate tutt'altro che allegre.

(ANSA, 15 ottobre 2015)


Roma - La Comunità ebraica ci ripensa: Marino invitato

Contrordine, Ignazio Marino sarà invitato alla marcia in memoria del rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943, promossa dalla Comu nità di Sant' Egidio. «La comunità ebraica di Roma auspicando un'ampia presenza della cittadinanza romana alla fiaccolata in memoria del rastrellamento del 16 ottobre 1943 - afferma una nota del portavoce della Comunità puntualizza che non è promotrice dell'evento né organizzatrice ma aderisce alla manifestazione come fa da anni e non si occupa di mandare inviti». Ma poi lo stesso portavoce spiega: «Nei giorni in cui i rapporti tra la Comunità ebraica e il sindaco di Roma sono stati tesi, esponenti della comunità ebraica si sono informalmente interrogati sull'opportunità di non creare momenti pubblici di tensione, a tutela del sindaco».

(Corriere della Sera - Roma, 15 ottobre 2015)


Boldrini, che stai a fa'?

La presidente della Camera porta a Montecitorio al Tayyeb, l'imam che vuole distruggere Israele.

di Giulio Meotti

 
                          Il Grande Imam islamico insegna                                                      Il Presidente della Camera italiano impara
ROMA - Mohamed Ahmed al Tayyeb è il grande imam di al Azhar, il "Vaticano dell'islam sunnita", "l'università più antica del mondo", la radiosa scuola del Cairo. In questa veste, e già in quella di Gran Muftì d'Egitto, Tayyeb ha invocato più volte la distruzione di Israele.
   "La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah", ha detto Tayyeb. "I paesi, governanti e sovrani islamici devono sostenere questi attacchi di martirio". Tayyeb è stato duramente attaccato in un rapporto del Congresso americano proprio per la sua giustificazione degli attentati suicidi. Tayyeb ha anche spiegato che "le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica", come la donna palestinese che ha detonato un esplosivo sulla strada per Gerusalemme qualche giorno fa. Tayyeb ha rifiutato l'offerta di recarsi in visita a Gerusalemme: "Sconsiglio vivamente ai musulmani di visitare Israele". E da sempre si rifiuta personalmente di "ricevere qualsiasi governante israeliano sia in Egitto sia all'estero. Non intendo incontrare funzionari israeliani che siano politici o religiosi". Commentando la decisione del suo predecessore Tantawi, che fu attaccato per aver stretto la mano all'allora presidente israeliano Shimon Peres durante una conferenza dell'Onu a New York, Tayyeb ha detto che "a ogni congresso o seminario al quale parteciperò mi informerò prima della possibile presenza di israeliani e se ci fossero eviterò di andarci". E' lo stesso Tayyeb che la scorsa primavera ha accusato il "sionismo" per il caos in medio oriente.
   C'è da domandarsi quindi cosa sia passato per la testa della presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, che ha invitato Tayyeb per una "lectio magistralis" il prossimo 21 ottobre alle tre del pomeriggio nella Sala della Regina di Montecitorio. Titolo dell'evento un evergreen assoluto: "Islam, religione di pace". Nessuno alla Camera dei deputati si è mai premurato di organizzare una lectio magistralis del rabbino capo d'Israele. C'è da chiederselo due volte cosa sia passato per la testa di Laura Boldrini, perché un invito simile arriva proprio nelle settimane in cui in Israele gli ebrei sono uccisi a coltellate, asfaltati con le automobili e assassinati a fucilate sotto gli occhi dei loro figli. "Operazioni di martirio" sanzionate dall'imam Tayyeb. E' lo stesso grande imam di al Azhar che aveva respinto gli auguri di Papa Benedetto XVI in occasione di Eid el Adha, la festa del sacrificio islamico, e che aveva sospeso il dialogo col Vaticano in seguito alle dichiarazioni del Pontefice che invocava la protezione dei cristiani in medio oriente. E se proprio il presidente Boldrini non aveva orecchio per i travagli del popolo ebraico, poteva informarsi prima sulle idee di Tayyeb sulla famiglia, visto che Boldrini è sempre così sensibile sul tema del femminicidio. "Per quanto riguarda le percosse alla moglie", ha detto l'imam egiziano, "c'è un programma di riforma. Secondo il Corano, prima si ammonisce, poi si dorme in letti separati, infine si colpisce". Alla domanda su quale livello di percosse adottare, l'imam Tayyeb ha scandito: "E' più simile a un pugno, a uno spintone".
   Sono come le coltellate inferte agli ebrei israeliani. Non sono proprio una forma di terrorismo, la chiamano "resistenza".

(Il Foglio, 15 ottobre 2015)


Torino alleata di Israele per collaborare sull'acqua del futuro

di Filomena Greco

I rischi per l'acqua potabile, le pratiche agronomiche per evitare la contaminazione delle acque, o ancora l'uso efficiente di questa risorsa in agricoltura. Sono i temi al centro della due giorni organizzata a Torino: i protagonisti sono il Politecnico di Torino, insieme all'Università, e Technion - Israel Institute of Technology, l'obiettivo è scambiare esperienze e competene.
Nella sessione di lavoro odierna, 14 ottobre, ospitata dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari di Grugliasco, gli esperti si focalizzeranno sul tema della risorsa idrica, sui rischi emergenti relativamente alla qualità dell'acqua potabile, sull'uso efficiente dell'acqua in agricoltura. Accanto agli studiosi ci saranno aziende come Iren e Gruppo Smat.
La seconda giornata di lavoro ospitata al Poli invece avrà il tema dell'imprenditorialità al centro, partendo dalla realt di Israele, una delle nazioni con la maggiore capacità di creare start-up.
Esperienze a confronto, dunque, con Torino che si candida, come sottolineano gli organizzatori, a diventare "testa di ponte" verso l'Europa per le start-up israeliane, in particolare nei temi sui quali si concentrerà il workshop come il "clean-tech" - dalla bonifica delle acque all'agricoltura sostenibile -, settore nel quale si incontreranno le competenze tecniche e del mondo accademico dei due paesi.

(Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2015)



Come son belle le tue tende, o Giacobbe,
le tue dimore, o Israele!
Esse si estendono come valli,
come giardini in riva a un fiume,
come aloe piantati dall'Eterno,
come cedri lungo le acque.
L'acqua trabocca dalle sue secchie,
la sua semenza è ben adacquata,
il suo re sarà più in alto di Agag,
e il suo regno sarà esaltato.
Iddio che l'ha tratto dall'Egitto,
gli dà il vigore del bufalo.
Egli divorerà i popoli che lo avversano,
frantumerà loro le ossa,
li trafiggerà con le sue frecce.
Egli si china, s'accovaccia come un leone,
come una leonessa: chi oserà farlo alzare?
Benedetto chiunque ti benedice,
maledetto chiunque ti maledice!
dal libro dei Numeri, cap. 24

 


Cinque dispositivi di soccorso israeliani usati in tutto il mondo

Quando un disastro colpisce una qualsiasi parte del mondo, gli israeliani sono sempre tra i primi ad arrivare sulla scena della catastrofe per offrire supporto nelle ricerche o nelle operazioni di salvataggio, di pronto soccorso ed assistenza medica.
Ricordiamo, solo per citarne alcuni:
  • tsunami in Sri Lanka (2004);
  • uragano Katrina a New Orleans (2005);
  • terremoto in Perù (2014);
  • ciclone in Myanmar (2008);
  • tifone nelle Filippine (2009 e 2013);
  • terremoto di Haiti (2010);
  • incendio in un ospedale in Romania (2010);
  • terremoto in Giappone (2011);
  • tsunami e terremoti in Turchia (1999 e 2011);
  • uragano Sandy sulla costa orientale degli Stati Uniti (2012).
Le squadre di salvataggio portano sui luoghi numerose attrezzature per aiutare le vittime di terremoti, incendi, tifoni e uragani. Ma questi dispositivi non sono solo per gli operatori umanitari israeliani, sono a disposizione ed utilizzati da moltissime squadre di tutto il mondo.

1. Water-Gen - acqua potabile
Dopo qualsiasi tipo di disastro, l'accesso all'acqua potabile è uno dei problemi che contribuisce ad aggravare la già difficile situazione. Molti operatori internazionali utilizzano una serie di innovazioni israeliane per purificare, immagazzinare e trasportare acqua. Tra quelle più famose c'è la Water-Gen, dispositivi portatili per generare acqua potabile dall'atmosfera e purificare quella che proviene da fonti idriche esistenti.

2. Pocket BVM
Tra le innovazioni israeliane utilizzate per i soccorsi in Nepal dello scorso aprile, c'era il Pocket BVM, un maschera per la ventilazione, una versione unica e pieghevole per una rianimazione essenziale e per dare supporto respiratorio alle vittime. Questo dispositivo, inventato e commercializzato nel 2007 da una azienda con sede a Gerusalemme, è ora utilizzato dai militari degli Stati Uniti, dalle forze della NATO e Forze di Difesa israeliane.

3. SkySaver - dispositivo di salvataggio contenuto in uno zaino
Si tratta di un dispositivo di salvataggio che può evacuare una persona che pesa fino a 135 Kg da edifici molto alti. Lo SkySaver si indossa come uno zaino ed include un cavo ignifugo.

4. Emergency Bandage - fasciatura d'emergenza
Si tratta di uno strumento per tamponare il sanguinamento prodotto dalle ferite emorragiche ed è dotato di un applicatore a pressione brevettato.

5. Bone Injection Gun (dispositivo automatico intraosseo)
Spesso i paramedici devono iniettare farmaci prima di poter evacuare un paziente, sia per una eventuale rianimazione o per impedire una infezione del sangue a causa delle ferite riportate. In molti scenari catastrofici, come nel caso di buio totale o vittime incastrate sotto le macerie, risulta molto difficile intervenire. Con Bone Injection Gun, prodotto dalla WaisMed, i paramedici riescono ad iniettare il farmaco direttamente nel midollo osseo, efficace quanto una flebo.

(SiliconWadi, 14 ottobre 2015)


Israele nel terrore, tre i morti; Hamas esulta: «Eroi da imitare«

Attacchi a Gerusalemme e a Tel Aviv di palestinesi. Abu Mazen indebolito non ha la forza di bloccare la violenza.

di Fiamma Nirenstein

A Gerusalemme non c'è tregua agli attacchi dei terroristi palestinesi. Anche ieri tre morti e 22 feriti hanno straziato la città e Israele intera. Tutti gli attentatori sono arabi israeliani, con la carta d'identità blu che consente loro di girare per ogni dove, senza restrizione di orari e di spazi. "Ieri ho portato i bambini dal barbiere al mall di Malcha a Gerusalemme" racconta una giornalista" il barbiere è arabo. Ho fatto la spesa, l'ortolano è arabo. Sono andata a trovare un'amica all'ospedale, molti medici e infermieri sono arabi… Non c'è modo di circoscrivere questa situazione, essa si configura come un incubo di lunga durata, inutile come fa il sindaco Barkat pensare a un muro di divisione. Non abbiamo che un'arma: le nostre leggi, il Parlamento, la democrazia. Ma bisogna farli valere". La sensazione di pericolo è presente in ogni angolo della città, in centro come in periferia.
   La giornata di ieri è stata terribile fin dalle prime ore del mattino. Due attentati sono stati portati più o meno alla stessa ora, le 10:30, nel quartiere di Gheula e ad Armon Hanatziv. Bisogna vedere il filmato del quartiere Gheula per capire che cosa è questa eruzione di odio che in mancanza di meglio chiamiamo Intifada: il terrorista investe con l'auto la stazione degli autobus e travolge tre persone in attesa, poi nello scompiglio e nel sangue salta giù dall'auto, un pezzo di uomo con un coltello in mano con cui si accanisce su una persona per terra, una due dieci volte. Fa un morto e una decina di feriti. L'odio che esprime è terrificante. Non si spaventa però un passante armato che gli si fa sotto e benché il terrorista si volga verso di lui gli spara un colpo; poi costretto dal fatto che lo zombie terrorista si rialza ne spara un altro e lo ferisce mentre si avvicinano altri cittadini per aiutarlo. L'attentatore è Ala Abu Jamal, di Jabel Mukaber, Gerusalemme est, carta d'identità israeliana; il suo progetto di morire da martire era già su un social network, ed ha compiuto il suo attentato usando un'auto della Bezek, la rete telefonica nazionale. E' la poetica dell'orrore. Ieri la serie di attentati ha avuto un ulteriore sviluppo: un autobus (memorie della seconda Intifada…) è stato attaccato da due terroristi, uno con la pistola. Fino ad ora non ne erano apparse. I due terroristi sono tutti e due arabi israeliani, Baha Alyan di 22 anni, Bilal Ranen di 23. Hanno fatto due morti. Intanto a Raanana, nella banlieue di Tel Aviv il terrorista è riuscito a accoltellare quattro persone prima di essere fermato, uno è in condizioni gravissime. Abu Jamal è cugino dei terroristi che nel novembre 2014 compirono la strage della sinagoga di Har Nof.
   Tutta la trama d'odio di questi giorni e la vendemmia di decenni di incitamento che ha trovato il suo picco nella menzogna della moschea di Al Aqsa, che Abu Mazen ha promosso con tutte le sue forze, fino a ritrovarsela bollente fra le mani. Hamas chiede di unirsi agli attentatori ("Fratello del West Bank, accoltella!" incita in Moschea lo sceicco Muhmmad Sallah da Gaza), i terroristi vengono descritti come eroi da imitare, le loro mamme "piangono lacrime di gioia", e l'autodifesa che li lascia sul terreno è vista come un gesto di crudeltà da parte degli israeliani, che hanno creato la provocazione di Al Aqsa per poi uccidere degli innocenti giovani. Non sembra possibile frenare l'attacco calmando, come ora vorrebbe forse fare Abu Mazen.
   Un mondo palestinese frammentato e diviso. I moderati odiano quello che sta accadendo a causa dei pericoli che corrono: il vicinato integralista che si scalda ai bordi del campo. Il sindaco di Nazareth ha aggredito verbalmente in tv un parlamentare arabo prono, come molti all'Intifada: "Ci rovini la vita, noi non siamo shahid, vai a lavorare per noi". Ma Abu Mazen, che comunque è nella West Bank, non ha più la forza di bloccare la violenza ora che certamente si è accorto che è pericolosa la sua accusa a "gli sporchi piedi degli israeliani" di desacrare la Moschea di Al Aqsa sommata a decenni di incitamento. Se frena troppo Hamas può avere il sopravvento, se non frena affatto l'Intifada travolge ogni suo ruolo. L'Autorità Palestinese è paralizzata. Israele, che ieri ha riunito il gabinetto di sicurezza, cerca ogni strada, con determinazione, per bloccare l'espressione ormai patente della ferocia che si leggeva da decenni nei libri di scuola, nelle tv, nei social media. Di certo, dopo il TNT trovato su una aspirante terrorista suicida domenica e la pistola di ieri, la polizia e il legislatore stanno studiando come impedire che i giovani armati facciano di Gerusalemme una città del Far West.

(il Giornale, 14 ottobre 2015)


Ormai dovrebbe essere chiaro: è odio, puro odio. Odio diabolico contro gli ebrei, non come individui, ma come membri di una corporazione che insiste a voler continuare a vivere quando per molti, troppi, dovrebbe semplicemente sparire dalla faccia della terra. E’ già avvenuto tante volte nella storia, adesso si ripete in un punto cruciale del mondo: Gerusalemme. Molti, troppi, partecipano in silenzio a questo odio. M.C.


Ma cosa pensano di ottenere in questo modo, i palestinesi?

Ormai dovrebbero aver capito che non è certo col terrorismo che avranno mai lo stato palestinese.

Ogni tornata di violenza contro Israele ha visto gli arabi, per non dire i palestinesi, uscire clamorosamente sconfitti. L'operazione Margine Protettivo della scorsa estate nella struscia di Gaza ha lasciato Hamas in ginocchio (tanto che oggi manda avanti donne e ragazzini di Cisgiordania, ma tiene a freno i suoi razzi). Eppure, a quanto pare, i palestinesi non hanno fatto tesoro di nessuna esperienza passata. Ogni palestinese conosce a memoria il mito della nakba, la presunta catastrofe della nascita di Israele e dell'esodo dei palestinesi durante la guerra del '48, ma solo pochi di loro sono arrivati a capire che quella calamità fu il diretto risultato del loro rifiuto di accettare il piano di spartizione dell'Onu del '47, dell'attacco degli stati arabi contro Israele e della loro conseguente sconfitta....

(israele.net, 14 ottobre 2015)


Attacchi in serie a Gerusalemme, tre israeliani morti e venti feriti

Due terroristi assaltano un bus, un altro investe i passanti e poi colpisce col machet. Netanyahu: sono coordinati, agiremo nei sobborghi arabi. Pronto all'uso dell'esercito.

di Maurizio Molinari

Quattro attentati palestinesi nell'arco di 90 minuti causano 3 morti e oltre 20 feriti israeliani, portando le forze di sicurezza ad ipotizzare l'esistenza di «un coordinamento degli attacchi» per la prima volta da quando quest'ondata di violenze è iniziata.

 Terrore nel bus
  Tutto inizia quando Baha Alian e Bilan Ranem salgono sull'autobus 78 in una fermata di Arnon HaNaziv, a Gerusalemme Sud. Sembrano passeggeri come gli altri ma uno di loro grida «Allahu-Akbar» e inizia a sparare. L'altro colpisce con il coltello. Il piano è impossessarsi del bus ma l'autista lo impedisce provocando lo scontro con un'auto. I terroristi bloccano le porte per non far uscire nessuno: colpiscono, uccidendo 2 passeggeri e ferendone altri 16. Gli agenti uccidono un terrorista e feriscono l'altro sparando da fuori, attraverso i vetri.
  A neanche 10 minuti di distanza il secondo attacco, sulla strada Malchei Yisrael, quando Alaa Abu Jamal guida l'auto di servizio - è un dipendente della compagnia Bezeq - contro dei passati. Li investe, si ferma, scende e li accoltella causando una vittima e cinque feriti prima di essere abbattuto da un passante. Il doppio attentato di Gerusalemme è preceduto e seguito da altrettanti attacchi a Raanana, a Nord di Tel Aviv. L'ultimo della giornata è a Kyriat Atta, vicino a Ikea. Gli elementi raccolti dalla polizia suggeriscono «l'esistenza di una possibile regia» e la sicurezza blocca per ore le strade per Gerusalemme, temendo nuovi attacchi. Il governo vara contromisure drastiche nella città: polizia ed esercito «in profondità» nei quartieri arabi, da cui sono partiti l'80 per cento degli attacchi finora compiuti in tutta Israele, e posti di controllo nelle strade di accesso «per fermare i sospetti».

 La pista di Hamas
  A fine giornata fonti della sicurezza ipotizzano un «ruolo di Hamas» suggerendo che «gli attacchi potrebbero continuare nelle prossima settimane» perché la campagna di violenze, iniziata in forma spontanea, «non è più opera di lupi solitari». Il premier Benjamin Netanyahu chiama in causa il presidente palestinese Abu Mazen: «Basta dire bugie, affermi di voler fermare il terrore ma in realtà lo fomenti diffondendo veleno che alimenta l'odio». In particolare l'accusa è a Nabil Abu Rudeineh, portavoce palestinese, che «ha glorificato il bambino palestinese di 13 anni che lunedì ha accoltellato un coetaneo ebreo in bicicletta».

 Assalti da Gaza e Siria
  Ad avvalorare la pista di Hamas c'è quanto avviene al confine con Gaza dove gli assalti di folla al confine continuano per il terzo giorno di seguito e 30 palestinesi riescono a penetrare in Israele prima di essere respinti. Avi Dichter, ex capo del controspionaggio, parla di «vulnus nella sicurezza» chiedendo «rimedi immediati» con la creazione di una zona cuscinetto. Si spara anche sul Golan: cadono colpi di mortaio siriani sul lato israeliano e Tzahal reagisce bersagliando due basi di Assad.

(La Stampa, 14 ottobre 2015)


La lama del jihad sulla gola d'Israele

"Cosa spinge un ragazzino palestinese a morire per uccidere gli ebrei con un coltello? L'islam radicale". Quattro morti ieri a Gerusalemme in nome della "resistenza popolare" con cui hanno flirtato anche gli inviati Ue.

di Giulio Meotti

ROMA - Il jihad palestinese ha un detto molto evocativo che sta a indicare l'atto di macellazione dell'israeliano tramite un coltello: "Quando vi sgozzeremo, vi sgozzeremo per Netanya". E' il confine più stretto e fragile dello stato ebraico, i cinque chilometri che separano Netanya dalla città palestinese di Tulkarem. E' la gola più sottile e più esposta di Israele.
  Due giorni fa un imam di Gaza ha brandito un coltello durante un sermone e ha invitato i fedeli dell'islam a seguire l'esempio di Khaybar, quando Maometto nel 627 partecipò di persona allo sgozzamento di ottocento ebrei della tribù Banu Qurayza. E' anche uno degli slogan più usati nelle strade palestinesi: "Khaybar, Khaybar, oh ebreo, l'esercito di Maometto tornerà". Nelle stesse ore Nabil Abu Rudeineh, il portavoce del presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen, elogiava le gesta del quindicenne palestinese che aveva appena accoltellato e lasciato in fin di vita due ragazzini israeliani a Pisgat Zeev, un sobborgo di Gerusalemme. Alcune settimane prima un video di Hamas aveva chiamato alla "Rivoluzione dei coltelli". Si vedono dei terroristi palestinesi che affilano le loro lame e incitano: "Ammazzate gli ebrei-scimmia, macellateli ogni giorno".
  Questa "Intifada del coltello" ha già fatto sei morti in Israele e decine di feriti nel silenzio dell'Europa, contro cui protesterà domenica prossima, di fronte all'ambasciata israeliana, la comunità ebraica di Roma convocata da Ruth Dureghello. I coltelli sono gli strumenti di una campagna religiosa i cui mandanti vanno cercati nelle moschee palestinesi, nelle televisioni palestinesi, nei social network palestinesi. La chiamano "amaliya fida'iya", operazione di autosacrificio, perché l'attentatore muore esattamente come nelle stragi dei kamikaze del passato. E' il grido stesso del jihad palestinese, "Itbach al Yahud", macellate gli ebrei, che rimanda all'uso del coltello da cucina.
  "La domanda oggi è cosa spinge un ragazzino a morire per uccidere gli ebrei con un coltello", dice al Foglio il professor Eyal Zisser, preside della Facoltà di scienze umanistiche dell'Università di Tel Aviv. "E' un ritorno al terrorismo degli anni Trenta del Novecento, a una dimensione religiosa. Sono motivati dall'islam radicale e dall'odio per gli ebrei, non da un progetto palestinese nazionale. E' come il 1929 a Hebron". Il riferimento di Zisser è all'origine del terrore palestinese con il famoso pogrom di Hebron, quando non esisteva ancora lo stato di Israele e gli arabi tagliarono piedi, dita e teste, evirarono gli uomini e poi li sgozzarono, a decine. Ebrei ortodossi, come Yeshayahu Krishevsky, il rabbino ucciso ieri a coltellate a Gerusalemme. Ori, l'autista dell'autobus che nel quartiere di Armon Hanatziv è stato attaccato dai terroristi, ha detto che "li stava macellando" uno dopo l'altro. Tre ebrei israeliani uccisi e decine di feriti, è il bilancio della sola giornata di ieri.
  "Lo spirito maligno di follia dell'Isis è il vento in coda e forse anche la causa dell'ondata di terrore che ci ha colpito nei giorni scorsi", continua Eyal Zisser. "L'ondata di violenza è una prova che il movimento nazionalista palestinese è in declino, sembra aver perso la sua rilevanza e forse ha raggiunto la fine. Ma questo movimento, ancora una volta, è in grado di mobilitare le masse con il suo appello per liberare la Palestina. I palestinesi si stanno muovendo all'indietro di quasi un secolo, quando il Gran mufti di Gerusalemme Haj Amin al Husseini, in nome di un presunto pericolo per al Aqsa, scatenò la rivolta araba del 1930. Dobbiamo renderci conto che questa forma di estremismo non può essere fermata da muri di cemento e recinzioni metalliche, ma solo attraverso la determinazione e la forza d'animo, la nostra barriera di sicurezza reale". Infatti molti attentatori avevano la carta di identità israeliana, erano cittadini di Gerusalemme est. E' d'accordo con Zisser Efraim Inbar, direttore del Besa Center e considerato uno dei consulenti più ascoltati dal premier Benjamin Netanyahu, che al Foglio spiega: "E' il richiamo dell'islam radicale. Questa ondata di terrorismo non ha nulla a che fare con l''occupazione', i palestinesi stanno infatti uccidendo gli ebrei anche a Petah Tikva e Afula. E' invece l'effetto del jihad mondiale, eccitato dall'accordo sul nucleare iraniano".
  I palestinesi la chiamano "resistenza popolare". E come ha spiegato un rapporto del Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center, "la 'resistenza popolare' fa uso massiccio della violenza e impiega armi bianche, come molotov, pietre e coltelli". Trenta "comitati popolari" sono stati creati per manifestazioni contro la barriera di sicurezza e le comunità israeliane nei Territori, spesso con la partecipazione di attivisti delle organizzazioni non governative europee. L'Autorità palestinese incoraggia la partecipazione di media e attivisti occidentali, perché "aumentano la sua esposizione e consentono di demonizzare Israele nell'arena internazionale". All'ottava Conferenza internazionale di Bil'in per la Resistenza popolare hanno partecipato anche John Gatt-Rutter, rappresentante dell'Unione europea presso l'Autorità palestinese, e Sir Vincent Fean, il console generale britannico a Gerusalemme. Tra i partecipanti, anche Robert Serry, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il medio oriente. Di fronte a questi diplomatici, il governatore di Ramallah, Mahmoud al Aloul, ha giustificato "ogni forma di resistenza" contro Israele. Da giorni, i media dell'Autorità palestinese sono pieni di incitamento all'odio, di storie su come Israele "giustizia" i terroristi palestinesi che avevano attentato alla vita dei cittadini dello stato ebraico, con paragoni fra i nuovi attentatori palestinesi armati di coltello e Mohammed al Dura, il ragazzino palestinese la cui morte, falsamente attribuita all'esercito israeliano, nel 2000 scatenò la Seconda Intifada.
  I coltelli branditi dai boia dello Stato islamico, che hanno decollato masse di "infedeli", sono assurti a simbolo del male. Quelli che da due settimane terrorizzano Israele sono giustificati e compresi. Come se le lame dei palestinesi fossero meno affilate. Come se il sangue degli israeliani fosse meno rosso di quello che bagna il Tigri e l'Eufrate. Come se lo stato ebraico dovesse offrire al mondo la sua sottile gola.

(Il Foglio, 14 ottobre 2015)



Quando il mondo vede che Israele è colpito
cominci pure a tremare
perché presto qualcosa di peggio
si abbatterà su di lui.

 


"Nel quartiere dei lunghi coltelli da dove partono gli attentatori"

Da Jabel Mukaber arriva la maggior parte degli assalitori. "Siamo noi i veri difensori della moschea di Al Aqsa".

di Maurizio Molinari

Scuole dove si insegna il curriculum giordano, moschee nelle quali gli imam predicano il «dovere di difendere Al Aqsa» e undici famiglie beduine divise da liti ataviche che superano solo nella comune avversione a Israele: benvenuti a Jabel Mukaber, il quartiere arabo di Gerusalemme Est da dove provengono i tre terroristi autori degli attentati commessi ieri dentro la città.
Alaa Abu Jamal era un impiegato della compagnia telefonica israeliana Bezeq, cugino dei terroristi Ghassan e Uday Abu Jamal che nel novembre 2014 diedero l'assalto alla sinagoga di Har Nof uccidendo quattro rabbini, due dei quali decapitati a colpi di machete. Agli Abu Jamal appartiene anche Bilal Ranem, rimasto gravemente ferito nell'assalto all'autobus di linea nel quartiere ebraico di Arnon HaNaziv.

 L'islam tradizionalista
  Gli Abu Jamal sono uno dei clan della tribù Jaabif e vivono in un'area coperta di case biancastre ad Al-Sawahira Ovest, ovvero l'area di Jabel Mukaber sotto sovranità israeliana, attaccata proprio ad Arnon HaNaziv. «È una delle zone più aspre, difficili di Gerusalemme Est - spiega Ramadan Dabash, capo del consiglio del confinante quartiere di Zu Bacher - perché le famiglie praticano un islam tradizionalista, fotografare una donna in strada è proibito, sono in genere molto poveri e, trattandosi di beduini, sono assai combattivi». A saperne qualcosa è Gil Shechter, che con moglie e quattro figli vive nella casa di Arnon HaNaziv con le finestre sull'entrata di Jabel Mukaber. «Nell'arco di tre giorni ci hanno tirato contro 17 bottiglie molotov - racconta - sempre di notte, colpiscono a gruppi di tre con il volto bendato mentre altri, dietro ai negozi, gestiscono il rifornimento di questo tipo di munizioni». Gil, immigrato da Anchorage in Alaska, vive in una casa annerita dalle fiamme ma assicura di «non temere i terroristi perché sono cresciuto fronteggiando gli orsi». Il confine invisibile che gli passa sotto casa ora è presidiato da polizia e guardia di frontiera.
  È una zona ad alto rischio per gli stessi agenti: quattro di loro mentre pattugliavano in borghese alcune strade interne sono stati identificati come «spie», bersagliati con le molotov e tre sono ancora in ospedale, con l'80 per cento del corpo ricoperto da ustioni. «La gente di Jabel Mukaber combatte non per vincere ma per fede - aggiunge il "mukhtar" Zair Hamadan, capo delle famiglie di Zur Bacher - perché si considerano i difensori della moschea santa di Al Aqsa aggredita dagli ebrei che vogliono violarla, offenderla».
  Le rassicurazioni del governo israeliano sul rispetto dello status quo della Spianata delle Moschee, risalente al 1967 e sancito dall'accordo di pace del 1994 con la Giordania, vengono liquidate come «volgari bugie» dalle famiglie del Jabel, inclusa la tribù dei Tawisat a cui apparteneva Baha Alian, rimasto ucciso nell'assalto al bus.
  Nel tentativo di gettare un ponte con il quartiere che genera terroristi il sindaco Nir Barkat ha affidato a Liron Deri, responsabile del Distretto Sud, il compito di chiedere alle 11 famiglie «quali infrastrutture realizzare per migliorare la vita dei residenti». Ma Deri si è trovato davanti a un'opposizione irremovibile: «Non vogliono niente da Israele, anche perché sono divise da profonde rivalità interne». Fra i pochi progetti realizzati ci sono una strada asfaltata, che raggiunge le case degli Abu Jamal della strage di Har Nof, e alcune scuole dove però si insegna solo il curriculum di studi giordano-palestinese, senza riferimenti allo Stato ebraico. In fondo ad Al-Sawahira Ovest c'è la barriera che separa Israele dai territori dell'Autorità nazionale palestinese dove risiede l'altra metà degli abitanti del Jabel, con cui l'interazione è continua.

(La Stampa, 14 ottobre 2015)


Rastrellamento del Ghetto di Roma: la Comunità ebraica non invita Marino alla fiaccolata

Il sindaco «persona non gradita» alla manifestazione per ricordare il 16 ottobre 1943. La decisione dopo lo scontro con gli «urtisti».

di Paolo Conti

«Cari amici, vi chiediamo di non invitare il sindaco Ignazio Marino. La consideriamo persona non gradita e rischia forti contestazioni». È il 3 settembre scorso; Marino è ancora nel pieno delle sue funzioni, e autorevoli esponenti laici e religiosi della comunità ebraica incontrano i loro vecchi amici della Comunità di Sant'Egidio in occasione della visita a Roma del presidente israeliano Reuven Rivlin.
  Si parla dell'imminente fiaccolata che Sant'Egidio organizza ogni anno, proprio con la Comunità ebraica, per commemorare il rastrellamento nazista degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. La Comunità ebraica ha deciso: non vuole Ignazio Marino. I vertici dell'ebraismo romano sono profondamente offesi per la vicenda degli «urtisti», i venditori ambulanti di souvenir romani coinvolti nello spostamento dei camion bar nell'area archeologica. Si teme che la presenza di Marino comporti, per la prima volta nella storia della fiaccolata, contestazioni e fischi. La vicenda è nota. I vertici della Comunità ebraica sostengono di aver avuto ampie rassicurazioni personali e formali dal sindaco di una rapida soluzione del loro problema, anche grazie a una mediazione del prefetto Franco Gabrielli.
  Un'intesa prevedeva il ritorno di 12 «urtisti» il 10 agosto, tutto poi cancellato a poche ore dall'appuntamento. I cento commercianti a quel punto scesero in piazza del Campidoglio ad agosto a protestare col rabbino capo della Comunità, Riccardo Di Segni, scena mai vista nella storia della città. Nessuno lo invitò a raggiungere lo studio del sindaco e una richiesta di appuntamento venne rinviata a settembre. Da quel momento i rapporti tra Ignazio Marino e gli ebrei romani si sono irrimediabilmente rotti al punto di non volerlo alla fiaccolata. Invitato, invece, il vicesindaco Marco Causi.

(Corriere della Sera - Roma, 14 ottobre 2015)


Come uccidere un ebreo. Le "istruzioni" dei terroristi dell'Isis a quelli di Hamas

di Giulia Aubry

Mille modi per uccidere un ebreo. I supporters e i disseminatori dello Stato Islamico soffiano sul fuoco delle tensioni tra israeliani e palestinesi. E non certo per spegnerne le fiamme.
   Nei tweet, che imperversano in queste ore nei social di affiliati e sostenitori di Isis, si inneggia alle brigate di Al-Aqsa e ad Hamas, considerati come parte del grande disegno del Califfato. Con gli hashtag #الانتفاضه_انطلقت (l’intifada è stata lanciata) e #الاقصى (Al-Aqsa)). Vengono ripubblicate vecchi manuali - incluso Black Flags from Palestine, uno degli istant book prodotti dal sedicente Stato Islamico - sottolineandone i riferimenti specifici a come costruire bombe e armi artigianali per infliggere un numero più alto di vittime al nemico, o come muoversi all'interno di città come Gerusalemme o Tel Aviv.
   Nei forum di Isis si discute sulla giustificazione e l'ineluttabilità della distruzione di Israele e degli ebrei, che vanno eliminati uno a uno in ogni modo possible. E i coltelli con cui militanti palestinesi feriscono e uccidono, in questi giorni, gli israeliani vengono addirittura glorificati, e paragonati a quello con cui Jihadi Joe ha compiuto le efferate decapitazioni degli ostaggi stranieri nelle mani di Isis. In maniera non diversa, all'inizio di quest'anno e pochi giorni dopo i tragici eventi di Parigi, nei social media aveva fatto la comparsa l'hashtag #jesuiscouteau (io sono un coltello) per celebrare il giovane che, a bordo di un autobus aveva accoltellato tredici persone, a Tel Aviv.
   Messi in difficoltà dai bombardamenti russi, dopo la morte di otto dei loro comandanti per mano dell'esercito iracheno, con le voci - smentite - della scomparsa del loro leader Al-baghdadi gli uomini di Isis si concentrano su possibili nuovi teatri operativi. E lo fanno con il loro consueto immaginario (e non solo) degli orrori.
   Isis non ha mai fatto mistero di voler strumentalizzare a proprio favore il conflitto tra israeliani e palestinesi. In passato, in alcune manifestazioni a Gaza, sono comparse le bandiere di Isis e lo Stato Islamico aveva anche lanciato una pubblicazione, non particolarmente fortunata, specifica per i Territori palestinesi. Il momento di crisi in Siria e Iraq e la concomitanza con il riaccendersi della violenza in Israele e Palestina potrebbero ora diventare una miscela esplosiva, anche se al momento le minacce arrivano solo via web. Un rischio che un Medio Oriente, già sin troppo in fiamme, non può proprio permettersi.

(Il Messaggero, 13 ottobre 2015)


Perché i nostri leader sono ipocriti e bugiardi

di Bassam Tawil (*)

 
Giovani arabi palestinesi a volto coperto dentro la Moschea di al-Aqsa (alcuni portano le scarpe) accumulano sassi da lanciare contro gli ebrei che si recano sul Monte del Tempio, 27 settembre 2015.
Mentre Hamas e la Jihad islamica continuano a sfruttare i nostri adolescenti nella Striscia di Gaza addestrandoli a unirsi al jihad contro gli ebrei e gli "infedeli", i nostri leader in Cisgiordania commettono un crimine simile contro i giovani palestinesi. I dirigenti dell'Autorità palestinese (Ap), guidata da Mahmoud Abbas che erroneamente dice di essere il presidente dello Stato di Palestina, incoraggiano i nostri ragazzi a ingaggiare la cosiddetta "resistenza popolare" contro Israele, ma non sono disposti a mandare i loro figli e nipoti a unirsi alla "lotta popolare". Come al solito, i nostri leader vogliamo che siano i figli degli altri a uscire per strada a lanciare pietre e bombe incendiarie contro gli ebrei.
  La "lotta popolare" che la leadership dell'Ap sta conducendo in questi giorni è tutt'altro che pacifica. In alcuni casi, ha dimostrato di essere letale. Di recente, Alexander Levlovich è morto dopo aver perso il controllo della sua auto a Gerusalemme. Le indagini hanno mostrato che almeno quattro giovani arabi avevano lanciato pietre contro l'autoveicolo, facendo sì che Levlovich perdesse il controllo del mezzo e andasse a sbattere contro un albero. Nel corso degli ultimi mesi, centinaia di giovani palestinesi di Gerusalemme sono stati arrestati per aver lanciato pietre e bombe incendiarie contro autoveicoli israeliani. Questi ragazzi hanno fornito varie spiegazioni sul motivo che li aveva indotti a prendere parte alla "resistenza popolare" contro Israele. La maggior parte di loro voleva protestare contro le visite degli ebrei al Monte del Tempio - un atto che secondo i nostri leader equivale a una "contaminazione" dei luoghi santi islamici. Mahmoud Abbas, che non è affatto un musulmano devoto, di recente ha accusato gli ebrei di profanare la Moschea di al-Aqsa con i loro "piedi sporchi".
  Abbas e altre figure chiave della leadership dell'Autorità palestinese lanciano quotidianamente minacce contro Israele, in risposta alle visite assolutamente pacifiche degli ebrei al Monte del Tempio. Uno di loro, Mahmoud Habbash, è arrivato a dire che tali visite potrebbero far scoppiare una terza guerra mondiale. È questo tipo di incitamento che spinge i nostri giovani a lanciare pietre e bombe incendiarie contro gli ebrei. Questi ragazzi non escono per strada a combattere "l'occupazione". Il loro obiettivo principale è quello di uccidere o causare gravi lesioni personali agli ebrei. Altrimenti, come si spiega il fatto che i questi giovani lancino decine di ordigni incendiari contro le abitazioni degli ebrei nella Città Vecchia? Se qualcuno lancia una bomba incendiaria contro una casa o un'auto, il suo obiettivo è quello di bruciare vivi i civili.
  I nostri leader, che sono pienamente responsabili della decisione di inviare questi giovani a lanciare pietre e ordigni incendiari contro gli ebrei, se ne stanno comodamente seduti nelle loro lussuose ville e nei sontuosi uffici, a Ramallah, fregandosi le mani con profonda soddisfazione. Abbas e diversi leader palestinesi della Cisgiordania vorrebbero vedere i nostri giovani causare disordini nelle strade di Gerusalemme e sul compound della Moschea di al-Aqsa, in modo da poter ritenere Israele responsabile dei severi provvedimenti presi contro i palestinesi "innocenti. Il loro obiettivo principale è quello di mettere a disagio Israele e dipingerlo come uno Stato che adotta misure severe contro gli adolescenti palestinesi, la cui unica colpa è quella di partecipare alla "resistenza popolare". Dopo aver istigato i nostri ragazzi ad abbandonarsi ad atti di violenza contro gli ebrei, i nostri leader ipocriti ora si affrettano a condannare le nuove misure israeliane contro chi lancia pietre. È come se i nostri leader dicessero che lanciare pietre e bombe incendiarie contro gli ebrei nelle loro auto e contro le loro case sia un diritto fondamentale dei palestinesi.
  Uno dei maggiori ipocriti è Saeb Erekat, il veterano negoziatore palestinese che di recente è stato eletto segretario generale dell'Olp. Erekat, che non ha mai inviato i suoi figli a lanciare pietre e ordigni incendiari contro gli ebrei, ha condannato le misure di recente approvate da Israele contro i palestinesi che si lasciano andare ad atti di violenza. Egli ha detto che queste misure sono "disumane" e fanno parte della campagna israeliana di "incitamento" contro i palestinesi. Ma Erekat e il suo capo, Mahmoud Abbas, non denunciano la violenza commessa dai palestinesi contro gli ebrei. Hanno parole di condanna solo quando Israele arresta i giovani che lanciano pietre e bombe incendiarie. I nostri leader credono che Israele non abbia alcun diritto di difendersi da coloro che cercano di bruciare vivi gli ebrei alla guida dei loro autoveicoli o che dormono nelle loro case.
  Se c'è qualcuno che profana questi luoghi, beh, è chi porta esplosivi, pietre e bombe incendiarie nella Moschea di al-Aqsa. Nel corso degli ultimi mesi, decine e decine di giovani palestinesi hanno usato la moschea come rampa di lancio per attaccare i visitatori ebrei al Monte del Tempio. Gli ebrei che vi si recano non portano con loro pietre, bombe o bastoni. Sono i giovani musulmani che profanano i nostri luoghi santi con i loro "piedi sporchi". Queste notizie mostrano che i musulmani non hanno rispetto per i loro siti religiosi. Le immagini di giovani a volto coperto dentro la Moschea di al-Aqsa, che assemblano pietre per aggredire gli ebrei, rivela le reali intenzioni dei rivoltosi e di chi sta dietro a loro: fare del male ai visitatori ebrei e ai poliziotti, che comunque non hanno alcuna intenzione di entrare nella moschea.
  Noi contaminiamo le nostre moschee con le nostre mani e i nostri piedi, e poi accusiamo gli ebrei di profanare i luoghi santi dell'Islam. Non solo mentiamo, ma mostriamo anche il massimo livello di ipocrisia e impudenza. Pianifichiamo e avviamo la violenza sul Monte del Tempio, e anche altrove, e poi corriamo a dire al mondo intero che Israele arresta i nostri giovani "senza motivo".
  È ovvio che i nostri leader ancora una volta ci conducono verso la catastrofe. Vogliono che i nostri figli si facciano male o vengano uccisi, in modo da poter andare alle Nazioni Unite a lagnarsi del fatto che Israele fa uso di "forza eccessiva" contro i palestinesi. I nostri leader, ovviamente, non dicono al mondo intero che sono loro a incitare questi giovani a uscire per strada e aggredire i primi ebrei che incontrano. Né dicono al mondo che sono i musulmani, e non gli ebrei, a contaminare i luoghi santi dell'Islam attraverso le loro azioni violente.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 13 ottobre 2015 - trad. Angelita La Spada)


Spazio, il futuro del Vega made in Italy allo IAC di Gerusalemme

GERUSALEMME - Storia di un successo tutto italiano, il lanciatore Vega ha tenuto banco alla conferenza astronautica internazionale, lo Iac, di Gerusalemme, con un workshop voluto dall'Agenzia spaziale italiana che ha chiamato a raccolta il mondo della ricerca e soprattutto dell'industria. Obiettivo, in un appuntamento inserito tra i principali meeting del più importante evento mondiale sulle politiche spaziali, fare il punto sull'evoluzione ormai prossima del programma. Lo conferma ad askanews il presidente dell'Asi, Roberto Battiston: "Si è trattato di un momento molto atteso perchè il Vega C che è evoluzione del Vega attuale, avrà il suo primo lancio nel 2018 e contribuirà a far nascere la nuova famiglia di lanciatori europei che ricordiamo è basta sugli Ariane a 2 e 4 motori e sul Vega. La cosa importante è che il motore del Vega, il P120, motore costruito a Colleferro è ormai diventato il riferimento per tutti i lanciatori europei e sarà prodotto in quantità fino a 35, 37 pezzi per anno perchè è l'elemento comune e il Vega sarà il primo a certificarlo con un lancio mettendo in luce le sue potenzialità".
In attesa del Vega C, il fitto calendario missioni del vettore made in Italy vede ormai vicino il lancio della missione Lisa Pathfinder, ai primi di dicembre, e guarda alla propulsione elettrica per la gestione ottimale del posizionamento in orbita dei payloads, con focus principale sui satelliti per comunicazione. Una vita operativamente vissuta a 360 gradi, come sottolinea ancora Battiston, in virtù di un'offerta di possibilità ad ampio respiro: "Il Vega offre un ventaglio di possibilità che vanno dalla scienza alle applicazioni commerciali passando per tutte la tecnologie che è necessario sviluppare per poter mantenere il programma e l'Italia alla frontiera dei lanciatori europei", conclude Battiston.

(askanews, 13 ottobre 2015)


Salvò migliaia di ebrei a Bratislava, targa commemorativa per Aaron Grünhut

La targa apposta su via Heyduchova a Bratislava
Anche a Bratislava visse uno "Schindler", un uomo che con coraggio e intraprendenza salvò la vita a numerosi ebrei durante la Seconda Guerra mondiale. Molti di voi conosceranno la storia del britannico Nicholas Winton, morto pochi mesi fa a 106 anni, che operò a Praga poco prima dello scoppio della guerra e soffiò sotto al naso ai nazisti 669 bambini di nazionalità ebrea che finirono ospitati presso famiglie di Sua Maestà. Ma ben pochi conosceranno quella di Aaron Grünhut, ebreo ortodosso al quale la scorsa settimana il ministro della Cultura Marek Madaric ha scoperto una targa commemorativa presso la casa dove ha vissuto su via Heydukova a Bratislava, vicino alla Sinagoga.
   Mentre i tamburi di guerra stavano già rullando con fragore, e l'Europa pensava ad altro, Gruenhut salvò migliaia di compagni ebrei di nazionalità slovacca. Tra le altre cose, organizzò nel luglio 1939 (due mesi prima che Hitler invadesse la Polonia) una fuga di massa di oltre 1.300 ebrei verso la Palestina. I profughi, provenienti dalla Slovacchia ma anche dall'Ungheria, dall'Austria e dal Protettorato di Boemia e Moravia (controllato dalla Germania dopo i famigerati Patti di Monaco dell'anno prima) poterono viaggiare su due piroscafi noleggiati, che scesero la corrente del Danubio. Nel Mar Nero i passeggeri, a cui si aggiunse un bambino nato durante il percorso, passarono su una nave che proseguì il viaggio verso la Palestina. Grünhut assicurò poi un nascondiglio sicuro per molti ebrei perseguitati, ed ebbe un ruolo nel fermare la deportazione degli ebrei dalla Slovacchia verso i campi di concentramento nazisti. Corse grandi pericoli, come quando fu arrestato dalle autorità slovacche nel 1943 e passò diversi mesi nella prigione di Ilava.
   Nato in città nel 1900, Aaron Grünhut era un ricco mercante che viaggiava molto ed era riconosciuto anche nelle comunità ebraiche di Vienna ed altre città vicine. Egli lasciò la Slovacchia dopo il putsch comunista nel 1948, e si trasferì in Israele, dove morì nel 1974.
   A lui si deve la conservazione di un cimitero ortodosso ebraico a Bratislava dopo la guerra, ed egli, quale presidente degli ebrei slovacchi in Israele, fu tra gli iniziatori della costruzione di una nuova yeshiva (un collegio o seminario ebraico ortodosso) e sinagoga a Gerusalemme, nominata 'Pressburg' dal vecchio nome di Bratislava (fino alla Prima Guerra mondiale). La yeshiva è tutt'oggi funzionante, nel solco della tradizione della più antica scuola ebraica di Bratislava, rinomata a suo tempo in particolare per rabbi Chatam Sofer che la rese la più influente nell'Europa Centrale..

(Buongiorno Slovacchia, 12 ottobre 2015)


Scienza: accordo di cooperazione tra Nasa e Agenzia spaziale israeliana

Nasa-Israele: tra gli obiettivi comuni le missioni su Marte

di Peppe Caridi

La Nasa e l'Agenzia spaziale israeliana (ISA) hanno firmato un accordo di cooperazione a Gerusalemme: lo rende noto un comunicato del ministero delle Scienze, della tecnologia e dello spazio israeliano. L'accordo è stato firmato congiuntamente da Charles Bolden, numero uno della Nasa e dal direttore dell'ISA Menachem Kidron a margine di un Congresso sullo Spazio che si tiene a Gerusalemme.
"Siete famosi per le vostre innovazioni e le vostre tecnologie, quest'accordo ci darà l'opportunità di cooperare con Israele nell'ambito delle missioni sul pianeta Marte", ha affermato Bolden nel corso della cerimonia. Da parte sua, il presidente dell'ISA, Yitzhak ben Israel, ha detto di "sperare che la tecnologia israeliana potrà giocare un ruolo chiave nelle future missioni su Marte".
Fra le possibilità di cooperazione, il ministero delle Scienze israeliano cita nel comunicato le missioni congiunte, gli scambi di personale e di informazioni scientifiche, l'esplorazione spaziale, programmi educativi e altre piattaforme di scambio nella ricerca spaziale.

(MeteoWeb.eu, 13 ottobre 2015)


La cultura ebraica del diciannovesimo secolo all'accademia filarmonica romana

Fino al 15 ottobre

 
Si è aperto oggi [13 ottobre}, presso l'Accademia Filarmonica Romana, il convegno "Jewishness & The Arts: Music and Composers in Nineteenth-Century Europe" patrocinato dalla Presidenza dell'Assemblea Capitolina e dalla Comunità Ebraica di Roma. Un importante convegno internazionale dedicato all'ebraismo e le arti, con particolare enfasi su musica e compositori nell'Ottocento europeo concepito nell'ambito di una collaborazione ormai pluriennale tra il Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini e il Palazzetto Bru Zane, Centre de musique romantique française di Venezia, che ha già visto collaborare questi due Centri di Ricerca musicologica su ben 12 convegni prima di questo.
   Ha inoltre dato il proprio supporto scientifico la rivista Ad Parnassum, una periodico che è diventato punto di riferimento degli studi di settore interenti alla musica strumentale del Sette e Ottocento. Sul piano istituzionale ha aperto l'evento il Consigliere del XII Municipio Fabio Pompei che ha dichiarato: "Ringraziamo il Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini per aver organizzato questo importante convegno internazionale a Roma: si tratta di una grande opportunità per la città e auspichiamo la sinergia con il centro prosegua su altre iniziative che possano continuare a dare lustro alla Capitale che si dimostra sempre capace di accogliere iniziative di alto livello come questa". Il simposio, diretto scientificamente dal Dr Luca Lévi Sala (Yale University, New Haven, CT) ha sollecitato una riflessione di ampio respiro sul periodo di emancipazione degli ebrei, un processo che dopo l'età dell'illuminismo si sviluppò in varie nazioni europee e vide l'espansione dei diritti del popolo ebraico, compreso il diritto di cittadinanza ai singoli individui.
   In particolare verranno approfondite le relazioni fra la produzione musicale e la cultura ebraica, all'interno del più vasto contesto dei movimenti riformisti del XIX secolo, analizzando gli sviluppi e le complesse interazioni della cultura ebraica con il mondo socio-economico europeo. Il convegno si svolgerà fino al 15/10, oltre alle relazioni dei 35 studiosi internazionali presenti, arricchirà l'evento la programmata lezione magistrale di Jehoash Hirshberg, professore emerito alla Hebrew University di Gerusalemme e riguarderà l'opera romantica: in particolare le opere in cui compare una caratterizzazione del popolo ebraico (come nel Nabucco di Verdi), o le opere in cui sono presenti singoli personaggi ebrei, come in La Juive (1835) o Le Juif errant (1851) Halévy.

(RomaDailyNews, 13 ottobre 2015)


Israele: «Migliaia di soldati iraniani in Siria»

Il premier Netanyahu lancia l'allarme: «Ci difenderemo dalla minaccia».

Migliaia di soldati iraniani che arrivano in Siria a sostegno del leader Bashar Assad. È l'allarme lanciato ieri alla Knesset, il parlamento israeliano, dal premier Benyamin Netanyahu, secondo cui esiste una minaccia ai confini di Israele, che comunque «impedirà loro di minacciare il confine sul Golan e di inoltrare armi sofisticate agli Hezbollah».
   Netanyahu, riferendosi alla recrudescenza di assalti a militari e cittadini israeliani e a quella che è stata definita la «Terza Intifada» dei Palestinesi, ha parlato di un «terrorismo figlio della volontà di annichilirci» e non solo della «frustrazione palestinese», anche se poi ha amminuto così i nemici della Stella di David: «La nostra voglia di vivere distruggerà la voglia di uccidere dei nostri nemici. Questa è la nostra casa, questa è la nostra patria». Netanyahu ha respinto ancora una volta come «bugie» le affermazioni che Israele sta cercando di cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee. «Non siamo in lotta contro l'Islam», ha aggiunto, spiegando che l'istigazione è usata per spingere ad un conflitto religioso contro Israele. Poi - nel dibattito che avvia l'anno parlamentare - ha fatto appello al presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) a combattere l'istigazione e «condannare gli attentati terroristici palestinesi ».
   Attentati che sono proseguiti anche ieri. In mattinata un palestinese che presso la Porta dei Leoni, all'ingresso della Città Vecchia di Gerusalemme, ha cercato di aggredire un israeliano a colpi di coltello è stato ucciso sul posto dalla polizia. Secondo la ricostruzione riportata dal sito Times of Israel, l'uomo ucciso ha tentato di aggredire un agente della polizia di confine ma è riuscito solo a strappare il rivestimento esterno del giubbotto antiproiettile. Poche ore dopo una donna palestinese è rimasta gravemente ferita (inizialmente si era sparsa la voce che fosse stata uccisa) dopo aver aggredito due persone, tra i quali una guardia di frontiera, vicino al quartier generale della polizia ad Ammunition Hill, a Gerusalemme Est. Secondo l'emittente radiofonica Arutz Sheva, nell'attacco potrebbero essere coinvolti due terroristi. Terzo attacco poco dopo: due israeliani, tra i quali un giovane di 13 anni, sono stati feriti in un assalto condotto da due palestinesi nel rione ebraico di Pisgat Zeev, sempre a Gerusalemme. Un israeliano si è messo a inseguire i due aggressori, uno dei quali è stato travolto da un auto. Il secondo aggressore è stato raggiunto dai colpi d'arma da fuoco di un poliziotto. Non è chiaro se i due accoltellatori siano feriti o deceduti.
   Scontri anche nella striscia di Gaza. Secondo quanto rivelato dal Times of Israel un gruppo di una ventina di palestinesi è riuscito a entrare in territorio israeliano, oltrepassando la recinzione della striscia di Gaza. L'esercito israeliano ha utilizzato gas lacrimogeni per respingere il gruppo ma ha evitato di sparare per evitare altre vittime a un conteggio già troppo lungo.

(il Giornale, 13 ottobre 2015)


Zainetti anti-coltelli e spray: l'autodifesa di Gerusalemme

Libri e laptop sulle spalle per proteggersi dagli attacchi alla schiena. Chi ha la pistola la mostra alla cintura: "Così fermeremo i terroristi".

di Maurizio Molinari

Sulla Solomon Yoel Moshe Street, proprio dietro Zion Square, è la fila di clienti davanti al negozio Lemetayel Odafim a suggerire come gli abitanti di Gerusalemme reagiscono all'Intifada dei coltelli che ieri ha colpito a Pisgat Zeev quando due palestinesi hanno attaccato a distanza di pochi minuti ferendo gravemente un bambino di 13 anni in bici e due giovani, di 16 e 20 anni. Dagli scaffali Efrat, 34 anni, acquista tre zainetti: uno per lei, gli altri per i figli. Cheli, 44 anni, fa incetta di bombolette di spray accecante «perché in famiglia siamo 6». In bella vista ci sono gli altri oggetti per l'autodifesa più richiesti: i tirapugni. David Gottlieb, manager del negozio noto per vendere zaini di ogni dimensione, parla di «acquisti isterici» con lo spray accecante «più richiesto in assoluto».

 Spray urticante e tirapugni
 
Palestinese in posa per una foto ricordo
  A spiegare cosa sta avvenendo è Efraim, 38 anni di Mevasseret, sposato con tre figli: «Siamo alle prese con un'ondata di terrore, ogni arabo che incontriamo può attaccarci, servono rimedi e contromisure per limitare il più possibile i rischi». Se le vendite di spray al peperoncino sono aumentate del 500 per cento a Gerusalemme - al mercato di Machané Yehuda è in ogni angolo - è perché si tratta dell'oggetto più facile da portare e usare per allontanare un aggressore improvviso.
  «Ma il problema è che quasi sempre il terrorista arriva alle spalle» osserva Dany, veterano della Marina, e dunque «bisogna proteggersi in qualche maniera la schiena». È questa la genesi del boom di zaini. In pochi giorni si sono moltiplicati nelle strade. Dalla centrale Ben Yehuda a Yafo Street fino a Emek Refaim e Talpiot: è aumentato a vista d'occhio il numero di uomini e donne, adulti e ragazzi, che li indossano perché in caso di aggressione proteggono la schiena.
  Per renderli più solidi c'è chi vi mette dentro taglieri da cucina, chi preferisce i libri e chi invece opta per il laptop «anche perché portarselo dietro è sempre comodo» dice Cheli, 19 anni, maestra d'asilo a Nahlaot. Sulle radio come sui social network ci si scambia consigli sulle prevenzioni e le discussioni fanno emergere la preoccupazione delle mamme di bambini piccoli di essere «obiettivi probabili» perché spingere un passeggino significa guardare avanti, essere distratti, e dunque vulnerabili. Questa è stata la dinamica dell'attacco di Muhannad Shafeq Halabi, 19 anni, a Nehamia Lavi (ucciso) e Aharon Banita (ferita gravemente), aggrediti nella Città Vecchia mentre andavano al Muro Occidentale spingendo il passeggino con il figlio di 2 anni.
  Chi vive muovendosi in auto, come tassisti e autisti di bus, porta con sé piccoli bastoni, manganelli o tubi di acciaio preparandosi a un confronto frontale o alla necessità di soccorrere un israeliano aggredito. Poi ci sono le armi. L'appello del sindaco Nir Barkat a «chiunque abbia il porto d'armi» affinché «esca armato» spiega la proliferazione di pistole alla cintura. Anche chi la portava sotto la camicia ora la mostra, perché è una forma di deterrenza. Tornano le guardie a ristoranti e luoghi pubblici: durante la Seconda Intifada erano ovunque, poi il numero è sceso e ora torna ad imporsi. Il ministero dell'Economia ha varato una circolare ad hoc per consentirgli di lavorare 14 ore al giorno.
  Sono queste contromisure, personali e collettive, che vedono ancora una volta i cittadini protagonisti di una difesa civile che affianca quella militare sin dalla creazione dello Stato nel 1948. La cui motivazione si ritrova nelle parole di Moshe Yaalon, ministro della Difesa: «Prevarremo sui terroristi perché non abbiamo un altro posto dove andare».

(La Stampa, 13 ottobre 2015)


Terza Intifada, ricordiamoci come è cominciata

di Furio Colombo

Bisogna essere preparati al fatto che già adesso ci sono due parti di questo nuovo episodio di guerra intorno a Israele. II primo è: cominciano le pugnalate e le uccisioni per le strade di Gerusalemme. È un fatto di cronaca come tanti, in Medio Oriente, e se ne parla non più di tanto, sia perché in quell'area del mondo accade ben altro, sia perché l'iniziativa è di Hamas, non di Israele e quindi manca la notizia. Fra poco Israele darà una sua risposta. Non sappiamo ancora se sarà o apparirà eccessiva, ma dubito che sarà diversa da quella che adotterebbe il governo belga o finlandese se qualche gruppo, ideologico o etnico, cominciasse a prendere a coltellate i cittadini di quei Paesi (pensate alla Francia, sostenuta dalla solidarietà di tutti, ai tempi di Charlie Hebdo). No, qui comincerà la seconda narrazione. E non avrà a che fare con il problema: come si risponde al pericolo di essere accoltellati in strada uno per uno? Si dedicherà, temo, alla "vocazione coloniale di Israele". E ai fattisi aggiungerà il ricordo dei tanti episodi di una lunga e sanguinosa vicenda che comprende tutte le repressioni di Israele, ma non include mai tutti gli attacchi subiti da Israele (le bombe sugli autobus delle scuole per anni, a Gerusalemme), fin da quando, dalle alture del Golan, si sparava dentro le finestre delle abitazioni israeliane di frontiera, mirando al tavolo della cucina all'ora dei pasti.
Forse la vera testimonianza della tragedia che Israele e la Palestina sono obbligati a vivere, a causa del ben organizzato terrorismo, è portata in Italia dai tanti palestinesi che si trovano tra coloro che si salvano dalla traversata sui gommoni. Non se la sentono di vivere governati da militanti di una guerra perenne che può finire solo con la eliminazione di Israele. Si pensi a quello che accade in tutti i paesi intorno al territorio di una nuova Intifada: un mondo di vendetta continua, in cui si paga sempre e solo con la vita. Poteva Hamas restare fuori dalla grande stagione di sangue? Può Israele pretendere di non vedere il pericolo? Si può indicare un popolo che, in quelle condizioni, non cercherebbe difesa dei suoi cittadini? Scrivo tutto ciò nell'anniversario del feroce rastrellamento nazista e fascista di tutti gli ebrei trovati, di notte, nel Ghetto di Roma (16 ottobre 1946) e morti quasi tutti ad Auschwitz. Indirizzi e nomi delle famiglie offerti ai soldati tedeschi dalla Questura di Roma. Il silenzio, che ha impedito ogni difesa, dalla migliore società italiana, religiosa e laica, che non ha avuto nulla da obiettare.

(il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2015)


Tel Aviv - Realizzazione del nuovo Centro di Nanoscienze e Nanotecnologie

Ognuno dei 6 partecipanti selezionati dopo la prima fase riceverà un premio di 50.000 dollari

La società russa Strelka KB organizza un concorso internazionale di architettura per la miglior progettazione e realizzazione del nuovo Centro di Nanoscienze e Nanotecnologie nel campus dell'Università di Tel Aviv.
Il nuovo edificio ospiterà un grande laboratorio di nanofabbricazione e 12 laboratori di ricerca di base. Complessivamente darà lavoro a circa 120 ingegneri e ricercatori che potranno utilizzare l'edificio come loro hub principale.
Il concorso è organizzato in due fasi: una pre-selezione di 21 studi di architettura e in seguito la scelta di 6 partecipanti. Ognuno dei 6 partecipanti selezionati dopo la prima fase riceverà un premio di 50.000,00 dollari (IVA esclusa, se applicabile).

(Casaclima.com, 13 ottobre 2015)


Il nemico più sinuoso di Israele è la disinformazione

Oltre ai coltelli. Cancellate le vittime ebraiche del terrore

di Giulio Meotti

Trentatré anni fa Bruno Zevi, esule in America durante le leggi razziali, salì in Campidoglio dopo l'attentato alla sinagoga costato la vita a Stefano Gay Taché: "Noi accusiamo. In un mondo sconvolto dalla violenza, i nostri mezzi di informazione hanno dato il massimo rilievo solo alle azioni dell'esercito israeliano. E i terroristi palestinesi sono considerati mansueti, pacifici…". Chissà cosa direbbe quell'antifascista di rango se vedesse quel che scrivono oggi i giornali su Israele. Perché lo stato ebraico, oltre ai coltelli della Terza Intifada, deve affrontare anche un nemico più sinuoso: la disinformazione. La Stampa: "Sette palestinesi uccisi". Il Fatto: "Venerdì d'Intifada con sette palestinesi uccisi". Il Messaggero: "L'esercito uccide sette palestinesi". Gli israeliani feriti e assassinati sono scomparsi, mentre i palestinesi non sono morti, ma "uccisi". "Polizia e giovani palestinesi si scontrano" e non si sa perché. E la stampa pedissequa accetta la storia delle moschee minacciate.
 
Barriera di separazione ad Abu Dis, nei dintorni di Gerusalemme - Foto Wiedenhöfer
   E cosa c'è di meglio di una mostra al Museo di arte contemporanea di Roma? E' "Wallonwall" del fotografo tedesco Kai Wiedenhöfer, dove la barriera di Israele, che sta limitando la conta di morti e feriti del terrorismo, è paragonata al Muro di Berlino. Non poco scandalo ha generato in Germania, tanto da spingere i socialdemocratici a chiederne la sospensione. Un graffito sul fence israeliano reca la scritta "Varsavia 1943", accompagnato da una svastica e dalla stella di Davide. Clemens Heni, politologo studioso di antisemitismo, ha detto che le foto di Wiedenhöfer sono "la tipica espressione del nuovo antisemitismo". A differenza delle barriere fra Stati Uniti e Messico o le due Coree, che servono per fermare i movimenti di popolazione, quella d'Israele è l'unica al mondo che deve impedire che inermi cittadini vengano pugnalati e fatti saltare in aria. L'inversione dei ruoli prevede anche che Israele diventi l'aggressore. Mercoledì, alla benemerita Fondazione Einaudi in largo dei Fiorentini a Roma, sarà presentato un libro dal titolo sinistro: "Israele, il killer che piange". E in Francia ha fatto scandalo la decisione del colosso editoriale Larousse, in un libro per bambini, di definire l'antica "terra promessa" come la "moderna Palestina". In questo modo il terrorismo contro Israele viene accettato come se fosse una risposta naturale contro coloro che "occupano" una terra altrui. Lunedì il Guardian, giornale simbolo delle élite pacifiste inglesi, ha ospitato un editoriale a favore dell'Intifada firmato niente meno che da Marwan Barghouti, che sconta cinque ergastoli in un carcere israeliano non perché sogni "la pace", ma perché ha ordinato l'uccisione di tanti israeliani. Palermo, la città delle stragi di mafia, gli ha anche concesso la cittadinanza onoraria.
   Per tornare a trentatré anni fa, il grande Arnaldo Momigliano disse che "sarebbe una follia concludere su una nota di ottimismo quando un bambino ebreo può essere assassinato nella sinagoga di Roma senza che si manifesti un sollevamento dell'opinione pubblica". Oggi l'opinione pubblica è stata direttamente anestetizzata sull'uccisione degli ebrei. Soltanto lunedì sono stati quattro gli attentati a Gerusalemme. Papa Francesco ha aperto i lavori del Sinodo con una preghiera per "Siria, Iraq, Gerusalemme e Cisgiordania". Non manca il nome di uno stato nella lista?

(Il Foglio, 13 ottobre 2015)


Israele sotto attacco: l'assordante silenzio del mondo

di David Harris (*)

Sono ormai diversi giorni che rimango sgomento mentre vedo cittadini israeliani costretti ad affrontare attacchi casuali, alcuni mortali, da parte di assalitori palestinesi per le strade dei loro paesi e delle loro città. Dei bambini sono rimasti orfani, dei genitori hanno perso figli, e i sopravvissuti sono rimasti senza dubbio segnati per tutta la vita.
  Ho atteso per vedere se il Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, le cui bugie a proposito della decisione di Israele di modificare lo status quo di un luogo santo musulmano hanno contribuito a scatenare i disordini, avrebbe deciso di calmare la situazione o di gettare benzina sul fuoco. Ho seguito le acrobazie giornalistiche di alcuni media principali, come la BBC ed il New York Times, che evitano in tutti i modi di chiamare le cose con il loro nome nel raccontare i fatti, confondendo la distinzione tra piromani e vigili del fuoco. Ho osservato la comunità internazionale languire in silenzio o, nella migliore delle ipotesi, rilasciare timide dichiarazioni chiedendo "moderazione" a entrambe le parti, evitando accuratamente di prendere posizione. E mi sono chiesto, non per la prima volta, cosa debba accadere perchè il mondo si svegli e riconosca - senza equivoci, ricorsi a equivalenza morale, o incomprensibili linguaggi diplomatici - che Israele, l'unica democrazia liberale in Medio Oriente, si trova ad affrontare una violenza che deve essere condannata in modo inequivocabile, e che, come ogni altra nazione, ha l'obbligo di difendersi.
  È impressionante notare come alcune persone nei governi, nei media, o nei centri studi, che sono di norma intelligenti e premurose, sembrano improvvisamente perdere le loro facoltà critiche quando si tratta di questi problemi. Ricorrono invece ad un meccanismo di risposta pavloviano che rifiuta di accettare qualunque legittimità della posizione di Israele e difende ciecamente qualunque narrazione venga proposta da parte palestinese. Con questa mentalità, se gli israeliani vengono uccisi o accoltellati, devono aver fatto qualcosa per "meritarselo". Se le autorità israeliane mobilitano l'esercito e la polizia per fermare il terrorismo, allora, per definizione, Israele usa "forza eccessiva". Poco importa quanto siano infiammatori i discorsi del presidente Abbas alle Nazioni Unite, rimane sempre un uomo di "pace". Poco importa quante volte i leader israeliani chiedano di sedersi al tavolo dei negoziati con i palestinesi, Israele è sempre bollato come "ostacolo" alla pace.
  Vogliamo finalmente cominciare a vedere le cose come realmente sono, e smetterla di vivere in un mondo costruito fatto di illusioni e falsità? Alcuni degli individui che esprimono questi punti di vista, e le istituzioni che rappresentano, sono senza dubbio accecati dall'ideologia. Dentro di loro, sanno di non poter sopportare il diritto del popolo ebraico all'autodeterminazione, mentre elevano i palestinesi su un piedistallo politico. Altri invece sperano di vedere un accordo a due stati, che permetta ad israeliani e palestinesi di perseguire le loro aspirazioni nazionali uno accanto all'altro, e non ho motivo di dubitare della loro sincerità. Mi permetto però di metto in dubbio la loro strategia. Mentre non esitano a spingere, stuzzicare, e criticare Israele quando credono, a torto o a ragione, che Israele non agisca nello spirito di una visione a due Stati, rimangono troppo spesso in assordante silenzio riguardo il comportamento di parte palestinese - incluso quello di questi giorni.
  Questo doppio standard rappresenta il massimo dell'accondiscendenza o, addirittura, dell'infantilismo. Indulgendo i palestinesi, razionalizzando ogni loro passo falso, coccolando i loro leader, affiancando i loro passi unilaterali alle Nazioni Unite e altrove, ignorando l'incitamento e la glorificazione dei "martiri", e trovando per loro delle scuse ogni volta che rifiutano un'offerta a due stati da parte di Israele, queste sedicenti anime belle stanno rendendo il raggiungimento di un accordo a due stati sempre meno probabile. Dopo tutto, se i palestinesi non sono tenuti a un miglior standard di comportamento (o li si crede tranquillamente di non esserne capaci), come potrebbero mai governare responsabilmente un loro proprio stato, e non divenire invece l'ennesima antidemocratica, instabile nazione araba? E se questa è la prospettiva, perché mai dovrebbe Israele, che si trova nel bel mezzo di una regione in subbuglio che pare poter solo peggiorare, credere che l'attuale leadership palestinese possa essere un partner affidabile per la pace?
  A questo proposito, ho incontrato di recente il ministro degli Esteri di un paese sudamericano, e abbiamo discusso delle abitudini di voto del suo paese alle Nazioni Unite sulle questioni relative a Israele. Egli ha detto con orgoglio che considera con attenzione ciascuna delle (infinite) risoluzioni prima di dare istruzioni su come votare, prestando particolare attenzione, ha sottolineato, alle implicazioni per la sicurezza di Israele. Questo mi è sembrato positivo e certamente di intenzioni sincere. Ma gli ho chiesto poi quando è stata l'ultima volta che aveva visitato Israele per vedere di persona l'evolversi della situazione sul campo e lungo le frontiere del paese. Mi ha risposto che non c'era mai stato, ma sperava di andarci un giorno.
  Perdonatemi, ma come può una persona - che si trova a migliaia di chilometri di distanza, che non ha mai visto la piccola Israele, nemmeno una volta, che non si è mai trovata al confine con il Libano per vedere sul lato opposto le forze di Hezbollah appoggiate dall'Iran, che non ha mai viaggiato alla frontiera di Gaza per capire la vicinanza di Hamas, che non si rende conto che le cellule islamiche operano in Cisgiordania a poche chilometri dai centri abitati israeliani, che non ha mai guardato oltreconfine in Siria, dove l'unica cosa che mette tutti i belligeranti d'accordo, dall'ISIS alle forze di Assad, è il loro odio per Israele - determinare ciò che è o non è nell'interesse della sicurezza di Israele? Però, con tutto il mio dolore per gli attentati in Israele, e tutta la mia disperazione per le reazioni (e la loro mancanza) della comunità internazionale, c'è una cosa che mi dà speranza - Israele stesso.
  Non importa quale sia il pericolo, Israele rimane in piedi e indomito. Si difenderà come si deve, e allo stesso tempo mostrerà al mondo - che si trova ad affrontare i suoi terrorismi - come ci si comporta di fronte al terrorismo. Continuerà a desiderare una pace duratura, anche se i suoi avversari reclamano sangue ebraico. E il popolo di Israele non cesserà per un solo momento a vivere ed a partecipare, in uno dei paesi più interessanti, innovativi, e creativi del pianeta. Quattordici anni fa, all'indomani di un attacco ad una discoteca di Tel Aviv da parte di un terrorista palestinese che uccise 21 giovani, qualcuno scrisse sulla parete carbonizzata: "Non ci faranno smettere di ballare". Ecco, di questo io sono certo.


(*) Direttore esecutivo Ajc - American Jewisg Committee

(L'Opinione, 12 ottobre 2015)


+ Netanyahu: l'ondata di terrorismo palestinese è legata al desiderio di annientare Israele

  "Non siamo in lotta contro l'Islam"
  dice Netanyahu, ma è l'Islam
  ad essere in lotta contro Israele
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato oggi durante una seduta del parlamento che l'attuale ondata di terrorismo palestinese è legata al desiderio di "annienta- re" lo Stato Israele e non dalla "frustrazione" della popolazione araba. "I nostri nemici non hanno imparato che non c'è modo per fermare l'impresa sionista dopo cento anni di terrorismo e tentativi per distruggerci", ha detto il primo ministro, secondo cui la volontà di vivere degli israeliani "sconfiggerà il desiderio" dei palestinesi ad uccidere. Nel suo discorso pronunciato davanti al parlamento, Netanyahu ha respinto come "menzogne" le voci che accusano Israele di voler cambiare lo "status quo" al Monte del Tempio (Spianata delle moschee per i musulmani). "Non siamo in lotta contro l'Islam", ha detto il capo di governo israeliano che la contrario ha accusato proprio i leader palestinesi di voler trasfor- mare il clima di tensione in uno scontro religioso con i Israele.

(Agenzia Nova, 12 ottobre 2015)


L'esercito dei bambini-soldato di Gaza: così Hamas li addestra alle armi e all'odio verso Israele

di Giulia Aubry

Campi estivi dove i bambini imparano a usare le armi e a odiare il nemico. Non è la trama di un film distopico per ragazzi.
   Ma la realtà delle aree controllate da Hamas - l'organizzazione palestinese paramilitare considerata terrorista dall'Unione europea, gli Stati Uniti e l'Australia - mostrata da un documentario prodotto dal Center for Near East Policy Research che da anni si occupa di raccontare quello che avviene a Gaza.
   "Liberemo la Palestina, rapiremo soldati nemici e ci trasformeremo in martiri" dichiara un bambino che non può avere più di dieci anni. E un altro gli fa eco: "Vogliamo dire ai figli di Sion che stiamo arrivando, distruggeremo le loro case, le bruceremo, schiacceremo le loro teste e li uccideremo". Le immagini passano rapidamente su un gruppo di altri giovani palestinesi, poco più che bambini, in formazione militare. Gridano in coro "sacrificheremo le nostre vite in nome di Allah". Intorno a loro altri bambini con magliette e capellini gialli cantano tenendosi per mano in girotondo, come in una di quelle feste che concludono il periodo di vacanza al campo estivo in qualsiasi paese del mondo.
   Il mix tra un'apparente normalità e l'orrore della militarizzazione all'insegna dell'odio per il nemico storico, lo Stato di Israele, diventa quasi estraniante per il telespettatore occidentale che stenta a capire quanto sta vedendo.
   Hassan Suhare, indicato come uno dei consiglieri militari di Hamas e intervistato da alcuni giornalisti arabi che partecipano al progetto del centro di ricerca israeliano spiega con orgoglio quello che le immagini mostrano allo spettatore: "Questo è uno degli oltre 50 campi esistenti a Gaza dove 15.000 bambini vengono formati. Imparano a usare le armi e svolgono un vero e proprio addestramento militare. Ma hanno anche una preparazione religiosa". Suhare parla del valore educativo del progetto: "Qui I ragazzi imparano a sconfiggere le loro paure". "Ieri, in una esercitazione, abbiamo fatto saltare in aria una ricostruzione di un villaggio israeliano" aggiunge con orgoglio.
   Cresciuti nella guerra e per la guerra. Molti di questi bambini provengono dai campi profughi UNRWA, l'agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 - non senza grandi difficoltà e rischi di infiltrazione da parte di organizzazioni terroristiche di ogni genere - fornisce assistenza e protezione ai rifugiati palestinesi, in attesa di una soluzione alla loro condizione. Ma un'attesa di quasi settantanni ha fatto crescere intere generazioni in un ambiente non adatto alle loro esigenze, in strutture spesso fatiscenti e ai limiti delle condizioni igieniche. Così, negli anni, quei giovani (e sempre più giovanissimi) sono diventati terreno fertile per fondamentalisti a caccia di nuovi adepti. I loro idoli sono i martiri che si sono immolati per uccidere il nemico. Portano I loro nomi, hanno i loro volti stampati sui poster o sulle magliette. Dopo il periodo trascorso nei campi di addestramento i ragazzi tornano tra i loro compagni, frequentano le scuole e diventano per loro dei modelli da imitare.
   E non c'è neppure differenza tra i sessi. In un contesto in cui le donne faticano a veder riconosciuti i propri diritti, quello all'odio rispetta le pari opportunità. Nel video, dopo una parata di miitanti di Hamas, compare una giovane donna, Esra Halil Juma, consigliere militare per le ragazze. Le sue parole sono dure e crudeli quanto quelle degli uomini: "Gerusalemme sarà riconquistata solo grazie alla resistenza e alle armi. Io dico alla mia gente: puntate le vostre pistole in faccia al vostro nemico finchè Gerusalemme non sarà liberata e potremo finalmente costruire la Palestina".
   Decenni di odio possono generare solo odio. Nei bambini. Nelle donne. Organizzazioni terroristiche senza scrupoli sanno che in quei posti la loro parola può essere affascinante, seduttiva e dare una "speranza". L'assurda speranza di una morte da martiri che non potrà mai portare a null'altro che altra morte e nuovo odio.

(Il Messaggero, 12 ottobre 2015)


Euro 2016: allerta per la partita Belgio-Israele, Bruxelles blindata

LUSSEMBURGO, 12 ott. - Domani sera, allo Stadio Roi Baudouin (l'ex Heysel) di Bruxelles la nazionale belga giochera' contro la squadra di Israele l'ultima partita del girone di qualificazioni per i campionati europei.
L'appuntamento e' considerato ad alto rischio-terrorismo (allarme a livello 3 su una scala di 4) in un paese in cui la comunita' islamica e' molto ampia, particolarmente in questo momento di alta tensione in Medio Oriente, a meno di un anno e mezzo dalla strage al museo ebraico della capitale belga e 8 mesi dopo gli arresti della cellula jihadista belga a Verviers.
Domani sera, questa volta non per preoccupazioni legate ai possibili scontri fra tifosi, e' dunque prevista una massiccia mobilitazione di polizia in tutta la citta' e nella zona dello stadio, oltre che piu' controlli all'entrata dello stadio, che sara' consentita solo su presentazione di un documento che coincida con l'intestazione del biglietto e senza borse o zaini. Il Belgio si e' gia' qualificato per il campionato dell'anno prossimo, vincendo sabato scorso per 4 a 1 contro Andorra, e se i "diavoli rossi" vinceranno anche domani la nazionale potra' essere in cima alla prossima classifica della Fifa. Ma dall'altra parte del campo, la squadra di Israele deve vincere se vuole sperare di rientrare negli Europei dai quali e' al momento stata esclusa dopo la sconfitta di sabato contro Cipro.

(AGI, 12 ottobre 2015)


La Camera affronta il negazionismo. "Brigata Ebraica medaglia d'oro"

La proposta dei parlamentari

Tutelare la memoria di giovani volontari che lasciarono la terra della sicurezza e sfidarono l'odio e il pericolo del fronte. Rappresentare un segnale concreto per garantire alle famiglie di manifestare per il ricordo di chi operò per la pace, tutelando la memoria delle vittime che contribuirono a concedere all'Italia un'opportunità di riscatto morale dinanzi all'ignominia delle leggi razziste. Questi gli obiettivi condivisi dai firmatari della proposta di legge per far riconoscere alla Brigata ebraica, il corpo di volontari ebrei arrivati dalla Palestina mandataria per affrancare l'Italia dal nazifascismo, la medaglia d'oro al valor militare per la Resistenza.
   Primi firmatari della proposta, che sarà illustrata alla stampa nei prossimi giorni, i parlamentari Lia Quartapelle ed Emanuele Fiano. La sfida è quella di sottrarre a "tensioni pretestuose" il ricordo dell'eroico contributo che il corpo d'armata seppe offrire nella liberazione del paese, rivelandosi decisivo nello sfondamento della Linea Gotica e nella conquista di alcune località e postazioni altamente strategiche.
   Sottolineano i firmatari del ddl: "Negli eserciti alleati combattevano già soldati ebrei, ma come cittadini dello Stato di origine. Nulla li caratterizzava come appartenenti a quella che i nazionalsocialisti e i fascisti avevano identificato una cittadinanza a parte, poiché di razza inferiore". Eppure nei territori del Mandato britannico in Palestina già dallo scoppio della seconda guerra mondiale "si alzò la richiesta da parte dei giovani ebrei di potere combattere contro gli eserciti dell'Asse, mantenendo una propria peculiarità e identità".
   Un impegno che in tanti ancora oggi ignorano o piuttosto fingono di ignorare, come più volte denunciato dal Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna nel condannare chi ha definito "una insopportabile provocazione politica" la presenza della bandiera della Brigata ai principali cortei nazionali per il 25 aprile. Questo uno dei temi che sarà sollevato in occasione dell'incontro con i giornalisti in programma giovedì prossimo presso la sala stampa della Camera con interventi degli onorevoli Quartapelle e Fiano, del presidente della commissione Esteri Fabrizio Cicchitto, dell'ambasciatore israeliano in Italia Naor Gilon e del suo omologo italiano a Tel Aviv Francesco Maria Talò.
   Proprio in queste ore l'aula di Montecitorio inizia l'esame del disegno di legge per introdurre nell'ordinamento giuridico l'aggravante di pena per i responsabili di pubblica propaganda basata sulla negazione della Shoah. Approvato a larghissima maggioranza dal Senato, la norma - composta di un solo articolo e frutto di una lunga collaborazione tra istituzioni e comunità ebraiche - non è stata modificata dalla commissione Giustizia della Camera e sarà quindi discussa nella forma già passata al vaglio di Palazzo Madama.
   "Un provvedimento che costituisce un baluardo per la difesa della libertà di tutti, mirato a colpire i falsari che tentano di negare la Shoah, di offenderne le vittime e di colpire chi difende il valore universale della Memoria" le parole con cui il presidente dell'Unione accoglieva il voto di febbraio, rivolgendo un particolare ringraziamento ai primi firmatari del ddl, gli onorevoli Silvana Amati e Lucio Malan.
   Sulla stessa lunghezza d'onda il Presidente del Senato Pietro Grasso, che nelle stesse ore scriveva a Gattegna: "Se da un lato era unanimemente riconosciuta l'esigenza di introdurre una norma in grado di sanzionare ogni condotta lesiva della dignità umana, era altrettanto sentita l'importanza di mantenere intatta la libera espressione delle opinioni e della ricerca storica". Meticoloso in questo senso il lavoro del Senato, che dopo un'esplorazione e un approfondimento di tutti gli aspetti connessi di una materia così complessa giungeva infine alla stesura di un testo che Grasso definiva "condiviso" ed "equilibrato".

(moked, 12 ottobre 2015)


Masada, Ein Gedi e il volo nello Spazio di Gerusalemme

GERUSALEMME - A fare la storia di una terra sono i momenti. Vale ancora di più per una terra da millenni alla costante ricerca della pace. Momenti che si rincorrono, a volte si incontrano, raramente si svelano subito per quello che veramente possono rappresentare.Accadde e accade, in Israele. Terra Santa, Palestina, duemila anni fa solo provincia di un impero, quello romano, che non si confrontava con ribellioni, dissidi, proteste. Semplicemente le cancellava. Senza se e senza ma. Accadeva allora a Masada, ultimo ridotto dei rivoltosi ebrei che lasciarono Gerusalemme dopo la distruzione della città nel 70 dopo cristo: 8000 soldati romani, in 8 accampamenti diversi, circondarono la rocca già palazzo di Erode. Deciso che Masada andava cancellata, i romani costruirono una rampa di terra impossibile da pensare allora quanto da vedere ancora oggi, assaltarono il palazzo trovandovi però solo qualche donna e bambino vivi, e il suicido collettivo, per morire da liberi, delle 960 persone che componevano quella comunità indomita e ribelle al potere di Roma.
Momenti, tra guerra e pace, che ha vissuto anche il kibbutz di Ein Gedi. Da avamposto militare del nuovo stato di Israele, a cominciare dal 1948, Ein Gedi visse poi la trasformazione in Kibbutz prima agricolo e successivamente turistico. Un successo che dura e si rinnova ancora oggi. Il momento fu anche quello della scelta di un giardino lussureggiante che troneggia nel bel mezzo di un deserto di pietre e fronteggia il benefico sale delle acque del Mar Morto.
Ancora momenti che provano a cambiare la storia, risalendo il deserto di Giudea fino a Gerusalemme. Stavolta sono le stelle ad essere protagoniste, con l' l'incontro di migliaia di esperti dello Spazio, per lo IAC, la conferenza internazionale astronautica, Evento storico caduto in un momento di alta tensione per la città.Annunciando che con lo IAC 2015 Israele si presenta non come un luogo solamente di conflitti, ma come il posto dove scienza e tecnologia sono le reali priorità da discutere, è infatti il numero uno dell'agenzia spaziale israleliana, Ben Israel, a provare a cogliere stavolta l'occasione, unica, offerta da un congresso che parla di stelle, pianeti e dei sogni dell'umanità che ha gli occhi all'insù.

(askanews, 12 ottobre 2015)


Per i media Israele ha torto anche quando ha ragione

I palestinesi sono sempre vittime. Ma nessuno chiede loro conto dell'odio che seminano.

di Fiamma Nirenstein.

Anche quando la ragione grida e gli eventi parlano da soli la stampa internazionale, serrata in un automatismo coattivo, con noiosa, stanca ripetitività cerca e trova la strada di dare ragione ai palestinesi. Qui gli eventi sono palmari: sulla scorta di una menzogna ripetuta fino all'ossessione dai media palestinesi, ovvero che la Moschea di Al Aqsa sta per essere dissacrata, anzi distrutta, anzi occupata dagli israeliani, un risveglio di odio palestinese ha fatto di Israele, e specie di Gerusalemme, un inferno punteggiato da attacchi terroristici. Per la strada chiunque incontri può nascondere un coltello e colpire te e i tuoi bambini. Oppure puoi viaggiare in macchina ed essere fronteggiato da un'auto che corre verso di te a tutta velocità per fungere da lancia pietre. E poi ci sono i cacciavite, le bombe molotov, e da ieri c'è anche la minaccia dei terroristi sucidi: una donna, fermata a un check-point vicino a Maale Adumim, sulla strada di Gerusalemme, al grido di "Allah è grande" si è fatta saltare per aria, ora è all'ospedale. Se fosse arrivata a un caffè di Gerusalemme chissà cosa sarebbe successo.
   Da Gaza il leader di Hamas, Ismail Haniyeh invita i giovani a unirsi al terrorismo, e quando a centinaia (qualche decina è riuscita a entrare) si precipitano sul confine e l'esercito li respinge ci scappano i morti. E' biasimo internazionale, e nessuno spiega il rischio che centinaia di giovani di Hamas, mentre oltretutto da Gaza partono i razzi, infliggono alla gente di Israele. Così come quando la polizia o qualche cittadino ferma un terrorista armato: certo, non hanno tempo di valutare la sua età o la sua condizione sociale, ma cercano di fermarlo per impedire un altro omicidio. Mancano nei media le coordinate fondamentali per capire: Israele è un Paese spaventato, sotto assedio; i social network palestinesi sono impegnati a criminalizzare gli ebrei secondo stereotipi impresentabili. L'incitamento a colpire idealizza gli shahid e condanna a morte gli ebrei.
   D'altra parte, se uno sente la radio israeliana ascolta una discussione accorata, priva di odio, con molte voci dalla parte dei problemi dei palestinesi, preoccupate, nelle interviste a politici e militari di riabilitare la leadership e portarla al tavolo delle trattative. Essere un giornalista che copre la vicenda mediorentale da molti anni è sinonimo di vicinanza alla "causa palestinese" e anche questa volta i conti devono tornare. Israele alla fine deve risultare responsabile del sangue, lo sfondo deve esser quello della sofferenza dei giovani terroristi, ignorando le responsabilità della leadership palestinese; l'occupazione è il facile leit motiv di fondo, anche se Arafat prima e Abu Mazen poi hanno rifiutato molte proposte di concluderne la vicenda e la formula"due stati per due popoli" è stata erosa dalla certezza di riuscire a cancellare lo Stato d'Israele. La manipolazione è audace. Sul New York Times un titolo diceva sull'assassinio di Alexander Levlovich "Un ebreo muore quando una pietra colpisce la sua auto". Sempre sullo stesso giornale "Polizia e giovani palestinesi si scontrano" e non si sa perché; forse la polizia era nervosa. La BBC ha scritto "Un palestinese ucciso dopo che un attacco (uno qualunque ndr) a Gerusalemme uccide due persone". Un titolo scandaloso per la famosa rete inglese che infatti l'ha poi modificato.
   Due giorni or sono, poi, da molti titoli anche in Italia non era possibile capire come mai "sette palestinesi"fossero stati uccisi, e di nuovo lo scontro era colpa di Israele.
   Si riporta senza discuterla la tesi delle Moschee minacciate, si esprime comprensione per la "mancanza di speranza"dei palestinesi attribuendone la responsabilità a Israele. Nessuno si avventura alla ricerca del perché, per esempio nel rifiuto di Abu Mazen a accettare l'invito di Netanyahu a trattare senza precondizioni, nella corruzione dei capi, nell'incitamento sfrenato a odiare gli ebrei. Si mette da parte tutto ciò ch e è contraddittorio rispetto all'immagine conformista dei cattivi contro gli oppressi dall'imperialismo creato dalla Guerra Fredda. Siamo ancora là, mentre l'islamismo avanza.
   
(il Giornale, 12 ottobre 2015)


Oltremare - Difesa

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La moda di ottobre in Israele prevede ancora e sempre sandali, e ancora e sempre magliette a maniche corte, entrambe di foggia e colori qualsiasi - si sa che la moda non è molto omogeneizzante qui. Ah, e bomboletta di spray al pepe in borsetta.
Sui social media girano liste di negozi in cui trovarne, con tanto di prezzi e tipi da preferire. Ma prima di prendere la decisione evidentemente fondamentale sulla marca di pepe da spruzzare negli occhi di un eventuale aggressore, uno (una) dovrebbe forse fermarsi e pensare. Mi perdonino gli occidentali, abituati ad altri tipi di violenza, ma quando mai un accoltellatore ti viene incontro con calma e ti dà il tempo di frugare nella borsetta, fra ere geologiche di rossetti, scontrini appallottolati, cellulare, ritagli di giornale, custodie di occhiali piene o vuote, agenda e bloc notes, estrarre la bomboletta salvavita, e spruzzare?
Basta vedere i video - anche quelli, tutti facilmente reperibili sui social media: i coltelli o stanno fermi nella mano di un attentatore oppure corrono con lui (o lei), verso una vitttima ignara, di spalle. Senza contare che sono giovanissimi e a volte donne, cosa che fa abbassare le difese automatiche. Siccome non intendo andare in giro con gli specchietti retrovisori agganciati agli occhiali, come certi ciclisti provetti, non so davvero come potrei utilizzarlo, quello spray. Ciononostante, probabilmente finirò per comperarne uno: a certe mode non si scampa. Poi tutto sta nel considerarlo un amuleto, e non un'arma di difesa.
Se si volesse invece parlare di armi di difesa, in tempi tesi come questi comprendono: il divieto di vedere siti di news più di tre o quattro volte al giorno, il permesso di mangiare nutella a qualunque ora il cervello ne senta il bisogno, e molto, molto entertainment. Nel mio caso, cinema. Per fortuna, subito prima di Kippur sono stati distribuiti i Premi Ofir, l'equivalente israeliano degli Oscar, e i cinema sono un fiume in piena di novità.


(moked, 12 ottobre 2015)


Perché nei media c'è tutta questa prevenzione contro Israele?

Lettere a Beppe Severgnini

La storia di Israele oramai si studia nei commenti agli articoli pubblicati dal "Corriere". Certo, se ogni tanto il "Corriere" fosse in grado di titolare come si dovrebbe ne saremmo tutti felici, ma sembra che nonostante ripetute sollecitazioni non ci sia una reale volontà di dare il titolo che descrive realmente l'accaduto e soprattutto le responsabilità. Poi, col mezzo titolo si leggono i commenti. Io ho smesso da tempo. La tendenza è questa, se la notizia pone Israele sotto un aspetto negativo (qualsiasi notizia), il numero dei commenti sale vertiginosamente a numeri di tre cifre dove se un lettore, dotato di grande buona volontà, dopo aver scremato i commenti più inutili (la maggior parte, per non definirli in altro modo) decide di mettersi a leggerli, trova praticamente la storia di Israele sin dalla nascita del mondo anche per una notizia tipo "Gerusalemme: auto con targa israeliana tampona auto palestinese ad un incrocio e ferisce l'autista", e succede il delirio. E giù con "ennemila" commenti che iniziano a parlare di occupazione, se Gesù era ebreo o meno, gli accordi di Camp David e la ricetta del "hummus".
Viceversa, se l'auto con targa palestinese tampona quella israeliana, e l'autista ferito è israeliano, troverai al massimo cinque commenti del tipo "se l'è cercata". Niente storia del popolo ebraico, niente storia su chi c'era prima del '48 in Israele. Peccato questa manipolazione dei media nel raccontare la verità, succede in Italia, succede in UK e tanti altri paesi. La gente si lascia condizionare da mezze notizie, pochi ricercano la verità, e ringrazio il cielo ci sia ancora qualcuno che lo fa di sua spontanea volontà. Un pensiero va ai recenti cittadini accoltellati a Gerusalemme, e ai quattro bambini rimasti orfani e vivi per miracolo "grazie" ad un errore di un commando di Hamas. Shalom da Tel Aviv.
Gabriele Bauer

Risposta di Severgnini
Pubblico, ma non condivido. I pregiudizi verso Israele esistono, e possono diventare nauseanti. Ma lei esagera, secondo me.

*


Trucidare ebrei rientra forse nella normalità?

Caro Beppe,
mi dispiace ma non sono molto d'accordo sulla tua risposta alla lettera di Gabriele Bauer "Perché nei media c'è tutta questa prevenzione contro Israele?" Il giorno dopo, puntualmente, il "Corriere" ha titolato "Nove Palestinesi uccisi" ignorando il fatto che erano tutti terroristi armati che, non solo avevano appena ucciso o tentato di uccidere uno o più innocenti civili, anche un bambino piccolo, ma che sono stati uccisi per evitare che detti terroristi continuassero nei loro insani propositi ammazzando o ferendo altre persone. Devo riconoscere che un po' tutta la stampa in Europa ha purtroppo da tempo adottato questo metodo di corrispondenza. Mi sfuggono i motivi per cui gli organi di informazione(?) vogliano far apparire i terroristi come vittime. Lo stesso segretario generale dell'ONU Ban Ki-Moon ha condannato le uccisioni degli attentatori palestinesi ingiungendo al governo israeliano di controllare se la reazione israeliana fosse stata adeguata Ma senza spendere una sola parola sulle vittime. Trucidare ebrei rientra forse nella normalità? È vietato difendersi? Il segretario generale si è però ben guardato dal rivolgere una richiesta al governo palestinese, Hamas in particolare, di smetterla di fomentare l'odio. Lo stesso presidente palestinese Mahmud Abbas ha a modo suo cercato di calmare le acque esortando i palestinesi ad evitare di offrire agli israeliani "pretesti" per uccidere i giovani arabi. Tradotto dal politichese, significa che lo stesso presidente palestinese chiede al suo popolo di astenersi dall'uccidere gli israeliani se non vogliono essere uccisi a loro volta. È troppo chiedere una informazione più equilibrata? Cordiali saluti,
Paolo Verni


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Perché gli ebrei scelsero di farsi stato

Caro Severgnini,
mi riferisco alla lettera del sig. Sartoni sul "peccato originale" della fondazione di Israele . "Che diritto avevano i sionisti di pretendere un territorio in cui gli ebrei non vivevano più da duemila anni?" si chiede Sartoni. E, a parte l'inesattezza dell'affermazione (un censimento ottomano di metà ottocento descriveva già allora Gerusalemme come città a maggioranza ebraica), la domanda più corretta è: che diritto avevano i russi a massacrare gli ebrei in ripetuti pogrom (solo nel 1881 furono oltre 200, scrive la storica Anna Foa); che diritto avevano gli europei non ebrei a discriminare, perseguitare, aggredire, catturare, deportare e alla fine sterminare gli ebrei europei? Che diritto avevano le alte gerarchie della Chiesa a tacere sulle leggi razziali e sui campi di sterminio? Che diritto avevano i sovietici a discriminare gli ebrei dell'URSS e satelliti? Che diritto avevano i buoni cattolici polacchi ad aggredire e massacrare i pochi ebrei superstiti tornati nella cittadina di Kielce, dopo la guerra? Quando avrà risposto a queste domande, il sig. Sartoni potrà chiedersi - con cognizione di causa questa volta - perché gli ebrei scelsero di farsi stato. Non i sionisti, che avevano solo progettato la soluzione statuale, ma gli ebrei superstiti, fuggitivi, sopravvissuti che decisero di fondare uno stato, concretizzando il progetto sionista. Se c'è un peccato originale nella nascita di Israele non è fra gli ebrei che va cercato, ma in quell'Occidente che ideò, partorì e agì la più spietata macchina di sterminio mai pensata nel silenzio complice di troppi. Quanto ai palestinesi, la loro risposta politica è consistita nel rifiuto, per almeno quattro volte nella storia, di accettare la spartizione concordata del territorio accettando così di farsi stato. I risultati di oggi derivano in ampia misura da quelle scelte. Comprensibili, ma suicidarie. Il che non assolve Israele dalle sue colpe e responsabilità, ma inquadra più correttamente la questione.
Fabio Della Pergola


(Corriere della Sera, ottobre 2015)


Intervista a Bruno Segre

La dura infanzia in una famiglia ebrea sotto il fascismo, poi la passione per la filosofia e la collaborazione col grande Adriano: Lo studioso si racconta:"A otto anni imparai a essere invisibile e solo Olivetti riuscì a guarirmi".

di Antonio Gnoli

 
Bruno Segre
Della vasta famiglia dei Segre più di tutti mi incuriosisce Bruno. Un signore di 86 anni, la cui fisionomia gioviale e mite sembra uscita da una pagina dei fratelli Singer. Quando il vecchio Isaac e Israel Joshua raccontavano di quei villaggi della Cracovia - descrivendo facce e corpi che, sul limitare delle casette di legno, adempivano alla loro vita quotidiana - noi leggevamo con apprensione e dolore ciò, che dopo un po', sarebbe accaduto. «Nulla sarebbe stato come prima», commenta Bruno Segre. «Ha mai fatto caso alla collocazione dei campi? Alcuni di essi erano in luoghi ameni. Buchenwald occupava uno spazio seminascosto su una collina che si affaccia sopra il romantico panorama della città di Weimar. Dove lo sguardo di Goethe si posò estasiato e riconoscente, i nazisti incarcerarono e cancellarono 250 mila ebrei». Segre vive a Milano in una grande casa piena di carte e di libri. Nelle stanze regna una sovrana confusione. Un archivio immenso di testimonianze e storie vi è raccolto. Coadiuvato dalla moglie, ne è il guardiano e l'Interprete. Ha da poco pubblicato una serie di documenti frutto di una lunga collaborazione con Adriano Olivetti (si veda il recentissimo libro che gli ha dedicato edito da Imprimatur).

- Quando ha conosciuto Adriano Olivetti?
  «Nel 1955. Lavoravo alla Biblioteca della Bocconi e lessi un annuncio sulla rivista di "Comunità" che cercavano dei giovani. Avevo 25 anni. Mi presentai e una piccola commissione - composta da Geno Pampaloni, Renzo Zorzi e dallo stesso Olivetti - mi esaminò. Il primo luglio arrivai a Ivrea».

- Che ambiente trovò?
  «C'era un atmosfera operosa segnata da personaggi in parte noti: Paolo Volponi, Alessandro Pizzorno, Franco Ferrarotti, Ettore Sottsass. Strinsi amicizia con Luciano Gallino e in seguito con Giancarlo Buzzi. Un uomo spiritosissimo. Era una situazione fuori dagli schemi».

- Come fuori dagli schemi era Olivetti.
  «Totalmente. Un uomo inattuale e incompreso che non aveva nulla da spartire con il mondo in cui viviamo. Mi piacevano la sua discrezione e la timidezza. A volte veniva a sapere che i suoi operai non se la passavano bene. Interveniva, in forma anonima, aiutandoli economicamente».

- Come faceva un uomo così ad essere imprenditore?
  «Fu un'umanissima anomalia. Guardava alla fabbrica come il centro della comunità e il posto dove si produceva ricchezza».

- Lei da che studi proveniva?
  «Mi ero laureato in filosofia con Antonio Banfi. Avevo fatto una tesi sul pensiero politico di Edmund Burke, un pensatore reazionario. E poiché lavoravo ebbi poco tempo per prepararla. Arrivò il giorno della discussione».

- Che accadde?
  «La commissione schierata. Banfi, senatore del Pci oltre che professore, mi guardò infastidito. Poi, nel momento della discussione, cominciò a demolire il mio lavoro. Lo smontò pezzo per pezzo. Lo ascoltavo allibito. Fu un' analisi critica per me dolorosissima e sconcertante».

- Come reagì?
  «Lo può immaginare. Quando uscii dalla stanza mi raggiunse il correlatore Mario Dal Pra. "Sono indignato con Banfi", mormorò. Però, a distanza di anni, sono sinceramente grato a Banfi. Quel lavoro, forse, andava distrutto. Non era all'altezza di quella scelta, di quell'occasione che mi si era presentata e che non avevo saputo affrontare».

- Come elaborò l'umiliazione intellettuale?
  «Il fatto che avesse sostanzialmente ragione l'ho capito molto dopo. Al momento mi sentivo depresso, schiacciato dal mezzo fallimento. E lì ha influito la mia storia personale di ebreo. Non perché mi sentissi colpito in quanto ebreo, ma perché la mia vita, già da tempo aveva affrontato durezze inaudite».

- Immagino si riferisca anche alla sua famiglia.
  «Beh, fa da sfondo a tutto questo. Sono figlio di Emanuele Segre, a sua volta figlio di Gabriel Segre di Torino e di Sara Osimo di Piacenza. È molto probabile che i miei nonni si conobbero attraverso un sensale di matrimoni»,

- Mi colpisce questo modo preciso di ricostruire i nomi di famiglia.
  «È fondamentale per me. La precisione è una forma di salvezza. Mio padre nasce il 14 luglio 1889. Esattamente cento anni dopo la presa della Bastiglia. Il nome che gli fu dato da circonciso fu Camillo. Non già in onore di Cavour ma per Camille Desmoulins che chiamò il popolo francese alle armi. Il nonno Gabriel, mi dicono, era molto simpatico ma un vero inetto sul piano professionale. Commerciava in stoffe, la sua imperizia lo condusse al fallimento».

- Con quali conseguenze?
  «I fratelli di Sara erano ricchi droghieri. Si presero cura della nostra famiglia. Avevo cinque anni, ci trasferimmo tutti a Castel San Giovanni, non distante da Piacenza. Lì aprimmo una drogheria. Fu la nonna a occuparsi di tutto e grazie a un ritrovato benessere riuscì a mandare mio padre alla Bocconi. Nel frattempo giunse la campagna di Libia».

- Che anni erano?
  «Si laureò nel 1910, nell'11 fu coinvolto nella guerra italo-turca. Nel 1912 venne congedato. Nel maggio 1915 fu richiamato per la Grande Guerra e restò fino alla disfatta di Caporetto. Ferito, nel tardo autunno del 1917, tornò a casa. L'anno dopo fu inviato a Londra con l'incarico di acquistare nuovo materiale bellico. Qui conobbe mia madre».

- Un'inglese?
  «Anglo-irlandese per la precisione: Kathleen Keegan di Dublino. Mio nonno materno - ufficiale medico dell'esercito imperiale britannico - operò come chirurgo in zone di guerra in Afghanistan e in particolare a Kandahar».

- Tutto questo che c'entra con la tradizione ebraica?
  «Apparentemente nulla. Ma è come una carta geografica. La si deve conoscere per comprendere chi sei e quali sono o saranno i tuoi sentimenti. Mio padre era tutt'altro che ortodosso. Se andavamo a trovare la nonna a Piacenza, comprava sempre i salumi della zona di cui era golosissimo. La nonna si rifiutava di mettere quell'indecenza suina nei piatti. A tavola il babbo apriva il pacchetto e chi lo desiderava si serviva direttamente. La nonna non voleva venir meno alla Mitzvah della Torah»,

- Lei rispettava i comandamenti?
  «No. Mio padre mi aveva insegnato che le religioni erano un condizionamento. Poi arrivò il 1938. Frequentavo una scuola comunale. Non conoscevo nulla della tradizione ebraica. Alle spalle della maestra c'era il crocefisso e ai lati i ritratti del Re e del Duce. Per me era quella la santissima trinità. All'inizio delle lezioni i compagni recitavano il padrenostro. Io muto. Quando la maestra faceva lezione di catechismo ero esentato e dunque uscivo dall'aula. Per molto tempo la religione è stata per me quella degli altri».

- Come scoprì di essere ebreo?
  «Nel tardo autunno di quell'anno fui sbattuto fuori. Bandito da tutte le scuole del regno. Mi spiegarono che come ebrei non potevamo più, con la nostra presenza, inquinare la scuola. Ci venne concesso di presentarci agli esami da privatisti. Cosa che feci, prendendo lezioni da una maestra antifascista».

- Nella sua testa cosa avvenne?
  «Fu il disorientamento. La novità, diciamo pure la nuova condizione, fu assoluta e imprevedibile. Improvvisamente, da un giorno all'altro per i miei ex compagni di scuola divenni invisibile. Il solo amico che mi rimase fu un ragazzo svizzero col quale ogni tanto continuai a giocare. Un giorno mi fece vedere la foto della nostra classe: 1938-39. C'erano tutti, tranne io».

- Cosa provò in quel momento?
  «Mi sembrò una foto irreale, falsa, crudele. Vede, non ero preparato a tanto. I genitori, poi, non spiegavano niente. Il solo messaggio che appresi da loro fu: appari meno che puoi, accetta di non esserci e quando cammini striscia contro i muri. Non era facile per un bambino di 8 anni imparare questa lezione di vita. Compresi per la prima volta cosa fosse la paura».

- Paura per cosa?
  «Tutto divenne fonte di minaccia. Capii allora quanto fosse importante mimetizzarsi e accettare la propria solitudine. La mia è stata un'infanzia molto solitaria. Mio padre morì il 24 giugno del 1941 per una emorragia cerebrale. Lasciammo la casa dove abitavamo e ne prendemmo una più piccola. Nell'ottobre del 1942 Milano cominciò a essere pesantemente bombardata dagli inglesi. Con la mamma sfollammo sopra Bergamo Alta, a San Virgilio. Restammo lì più di un anno. Poi nel luglio del 1943 cadde Mussolini e sperammo nella ritrovata libertà. L'illusione durò 72 ore. Per noi ebrei cominciò la fase più dura. Ci rifugiammo ad Ascoli. Per nove mesi Elsa, figlia di uno scalpellino anarchico, ci ospitò. Non avevamo più nulla. Poi venne la liberazione. Tornai a scuola. Diedi gli esami per il liceo».

- Si è sentito un sopravvissuto?
  «Non nel senso in cui lo furono quei pochi che tornarono dai lager. La tempesta razziale si abbatté su tutti. La gran parte fu travolta, cancellata dallo sterminio. Ho avuto, se così si può dire, la fortuna di non cadere negli eccidi che, in molte parti d'Italia, i tedeschi compirono per rapina o per puro sadismo. In questo senso, forse, sono sopravvissuto anch'io».

- Cosa le è rimasto?
  «Lo vede, no? Anche la casa sembra conservare quelle ferite. Le vorrei raccontare perché la morte di mio padre fu per me un trauma enorme. E come, ormai vecchio, penso a lui con furiosa nostalgia».

- L'ascolto.
  «Un giorno mi telefonò una giovane studiosa di Torino. Mi annunciò che all'archivio centrale di Stato aveva trovato un dossier su mio padre. Un dossier? Mi meravigliai».

- Cosa conteneva?
  «Un esame dettagliato su mio padre, che aveva fatto domanda per essere in qualche modo "risparmiato". Non è il termine giusto. Ma tenga conto che nelle leggi razziali c'era un comma che distingueva tra" discriminato" e "perseguitato". Il discriminato era colui che poteva vantare benemerenze. Quando seppi questa cosa pensai al peggio».

- Cioè?
  «Immaginai che mio padre si fosse venduto l'anima. Poi scoprii che moltissimi, tra gli ebrei fascisti e antifascisti, fecero domanda per essere discriminati. Nella lettera disse che aveva sposato una cattolica irlandese e che il suo lavoro consisteva nella direzione di una piccola azienda che produceva acido tartarico destinato in massima parte in Germania e in Giappone. La domanda si concludeva con una professione di italianità. Piccole astuzie. Che nell'ufficio della Demo-Razza furono accolte con disprezzo e sarcasmo. Il prefetto di Milano decretò che la domanda andava rifiutata».

- Cosa le fa supporre dell' importanza di questo episodio?
  «Il diniego gli fu notificato il 22 giugno del 1941. Due giorni prima che morisse. Nella domanda l'unica cosa che chiedeva era che i suoi figli tornassero a scuola. Il dolore fortissimo che provò per la nostra estromissione temo abbia fatto il resto. Quando penso a questa cosa ho la sensazione di trasformarmi nel padre di mio padre».

- Cosa intende dire?
  «Che la sua storia, la nostra, è stata atroce e che lui l'ha patita fino a morirne. Mi metto al suo posto e penso a lui nel mio. Cosa avrei fatto per difenderlo, amarlo, proteggerlo? Ecco perché scrisse quella lettera. La morte precoce gli ha risparmiato la Shoah, il peggio».

- Oggi come vive la spiritualità ebraica?
  «Da laico ma con un profondo attaccamento alle radici. Ho tre figli e diversi nipoti. Una di esse una volta mi ha chiesto: nonno cosa vuol dire essere ebreo? Si avvicinava la Pasqua ebraica e attesi quel momento. Durante la Pesach c'è la lettura della Haqqadah che narra l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto. E' una cosa complicata. Ma la si può rendere più semplice, dal momento che ai bambini è consentito fare domande».

- Cosa rispose alla nipotina?
  «Le dissi che con la Pasqua celebravamo la nostra liberazione. Una moltitudine di schiavi fu liberata in Egitto. E si diresse verso il Sinai, dove il loro leader, Mosè, ricevette le dieci parole. Mi chiese cosa erano quelle dieci parole. Risposi che non c'è libertà senza responsabilità. E la metafora di questa responsabilità è il dono delle dieci parole. Io vengo di lì, dissi. Non importa dove sei nato - io per caso sono nato a Lucerna - ma provengo da quella vicenda lontana. Ho lavorato per diverse case editrici, ho insegnato per cinque anni in Svizzera e fatto il pubblicitario in Italia. Ma la mia storia è molto, molto più lunga. E ora che sono vecchio mi sembra di vederla nella sua pienezza».

- Come vive questa sua vecchiaia?

  «Ho la fortuna di stare bene. Faccio yoga da 32 anni. Niente di metafisico o orientale. Ho capito che possiedo un corpo ed è importante conservarlo bene, perché l'anima che sta dentro possa esprimersi al meglio».

(la Repubblica, 11 ottobre 2015)


Le mani iraniane sulla Palestina

Per capire le dinamiche della politica in Medio Oriente la prima cosa da fare è chiedersi "chi ci guadagna". Chi ci guadagna dalla rivolta palestinese se non l'Iran?

  Chi non vede quello che sta accadendo in Palestina è cieco oppure è semplicemente in malafede. Da sempre la Palestina è l'arma principale degli arabi contro Israele. Non potendo battere lo Stato Ebraico sul piano militare la Palestina è sempre stata l'ariete di sfondamento per danneggiare Israele.
   Ma di recente le cose erano un po' cambiate. Moltissimi Stati arabi, a partire dal più importante, l'Arabia Saudita, si erano resi conto che ormai la Palestina era un'arma spuntata. Centinaia di milioni di dollari, miliardi, spariti letteralmente nel nulla, una dirigenza palestinese ancorata al mito corrotto di Arafat, quel continuo rifiuto a qualsiasi compromesso con Israele per formare uno Stato palestinese hanno corroso il decennale supporto incondizionato degli arabi e soprattutto della opinione pubblica araba, da sempre schifata dai palestinesi ma che li sopportava solo per la loro utilità nella lotta contro Israele. Diminuito, quasi cancellato, il supporto ad Hamas. Diminuiti dell'80% i finanziamenti alla ANP. Gli Stati arabi stavano trattando neppure tanto segretamente con Israele su molti punti, dalla ricostruzione di Gaza allo sviluppo della Palestina. Ormai i vecchi nemici si parlavano perché si rendevano conto che i veri nemici erano altri, l'Iran nucleare prima di tutto e poi il Daesh. Non c'era più tempo per i giochini con la Palestina....

(Right Reporters, 11 ottobre 2015)
  

Gli ebrei nella storia del Friuli Venezia Giulia. Una vicenda di lunga durata

Convegno internazionale - Ferrara, 12-14 ottobre 2015. Autorevoli studiosi italiani e stranieri, e giovani ricercatori si confronteranno su aspetti generali e particolari della vicenda ebraica nel Nordest italiano.

 
Il cimitero degli ebrei a San Daniele
TRIESTE - La presenza e il ruolo degli ebrei in un territorio di confine e a maggioranza cristiana, per secoli diviso fra i domini della Repubblica di Venezia e quelli dell'Impero asburgico, dal Medioevo ai nostri giorni, passando per il tragico strappo della Shoah. Per tre giorni - dal 12 al 14 ottobre -, sarà questo il tema del convegno internazionale «Gli ebrei nella storia del Friuli Venezia Giulia. Una vicenda di lunga durata», promosso dalla Fondazione MEIS (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah), in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Trieste, l'Università degli Studi di Udine e il suo Dipartimento di Scienze Umane, la Comunità Ebraica di Trieste e l'Associazione per lo Studio dell'Ebraismo delle Venezie.

 I complessi rapporti fra i nuclei ebraici e la società cristiana
  Autorevoli studiosi italiani e stranieri, e giovani ricercatori si confronteranno a Ferrara su aspetti generali e particolari della vicenda ebraica nel Nordest italiano: i complessi rapporti fra i nuclei ebraici e la società cristiana, l'organizzazione degli insediamenti ebraici, gli aspetti cruciali della loro vita economica, religiosa e culturale, le dinamiche della quotidianità, le conversioni e la persecuzione nazifascista, fino ai personaggi e alle famiglie illustri, affrontando tratti poco noti del loro milieu.
  Attraverso relazioni di alto livello scientifico, il convegno, che si terrà presso il Salone d'Onore dell'Istituto di Cultura «Casa Giorgio Cini» (Via Boccacanale di S. Stefano, 24), punta a contribuire al dibattito sulla rilevanza e sulle peculiarità dell'esperienza ebraica in Friuli Venezia Giulia: un'area di incontro e confronto fra culture diverse - latina, tedesca e slava - che può essere considerata un vero e proprio «laboratorio», antesignano dell'attuale multiculturalismo religioso, e dove, non a caso, è stata istituita la prima cattedra in Italia dedicata alla storia degli ebrei (Ateneo di Udine, 1986) e l'ebraismo è significativamente rappresentato dalla Comunità Ebraica di Trieste.

 Un argomento già discusso in passato
  Già nel 1989, proprio a Trieste e a Udine si svolse un convegno analogo, sempre sotto l'egida delle locali Università e della Comunità Ebraica triestina. E ora, a ventisei anni di distanza, la realizzazione di un evento scientifico che rivisiti gli argomenti trattati allora, con nuovi apporti, consentirà di far progredire gli studi e le ricerche, e di soddisfare il crescente interesse del pubblico, non solo specialistico.
L'appuntamento a Ferrara si inserisce nell'ambito delle iniziative che da tempo il MEIS organizza e sostiene, per approfondire i secolari casi degli ebrei in Italia e in Europa. Un indirizzo che, inaugurato nel 2013 dal convegno «Ebrei a Ferrara ebrei di Ferrara» (i cui atti hanno dato il via alla collana della Fondazione MEIS edita dalla Casa Editrice Giuntina), prosegue ora con il congresso di Ottobre, che sarà seguito anch'esso dalla pubblicazione dei relativi atti.

Programma

(Diario di Trieste, 11 ottobre 2015)
  

Cinque miti storici su Israele da sfatare

È in atto un tentativo in atto di negare la storia e quasi la stessa esistenza del popolo ebraico. Farebbe ridere se non fosse così condiviso. Oggi mi soffermerò su alcuni di questi miti, apparentemente innocui, ma in realtà molto pernicioso e minaccioso.

MITO NUMERO 1: Israele sarebbe stato creato da colonialisti.
La verità è che gli ebrei hanno combattuto all'ultimo sangue per la terra dei loro avi. Mentre il Regno Unito aprì la porta con gli Accordi di Sanremo, e quindi con la Dichiarazione Balfour, il successivo piano di partizione e il mandato palestinese assegnarono i 3/4 della terra promessa (si perdoni il gioco di parole) al neocostituito regno ascemita, che avrebbe preso il nome di Giordania: il che dimostra che l'appoggio britannico non fu in realtà così amichevole. Se poi si considera l'embargo delle armi che agì soltanto nei confronti del neonato stato israeliano, il fatto che Londra armò e addestrò la legione giordana, e i limiti allora imposti all'immigrazione ebraica, mentre al contempo si incoraggiava l'immigrazione araba, si ottiene un quadro ben preciso del presunto favore britannico....

(Il Borghesino, 11 ottobre 2015)
  

"Tra i familiari di Marwan e Khalil: 'Morti da martiri, come volevano' "

A Khan Yunes l'addio ai palestinesi di 11 e 15 anni colpiti dal fuoco israeliano. "Consideravano degli eroi i giovani che tirano sassi per salvare la moschea".

di Maurizio Molinari

«Voglio morire come uno shahid». Marwan Barbakh, 11 anni, ha rivelato l'intenzione di diventare «martire» al padre Isham, poliziotto di Hamas, prima di uscire da casa a Khan Yunes per andare a lanciare sassi contro il posto di frontiera dei soldati israeliani. È Isham che, parlando al telefono dalla tenda del lutto eretta davanti alla propria casa, ricorda l'addio del figlio: «Considerava degli eroi i giovani della Cisgiordania che tirano i sassi contro i militari, voleva essere come loro, per salvare Al Aqsa dalla dissacrazione dei coloni».

 Tra calcio e playstation
  La famiglia Barbakh vive in un quartiere di Khan Yunes, nel Sud di Gaza, che porta il suo nome perché gli abitanti sono tutti imparentati. Quella di Isham è una delle più povere perché i poliziotti di Hamas vengono pagati 1000 shekel - poco più di 300 dollari - ogni tre mesi. Marwan era il secondo di sette figli, «a scuola non andava bene, gli piaceva giocare a calcio per strada e appena poteva si rifugiava nella playstation», ricorda il padre, secondo il quale la scelta di «andare al confine per tirare sassi contro gli israeliani» è nata «dalle recenti immagini viste in tv di ragazzi più grandi, con le maschere sul volto, capaci di sfidare i proiettili dei soldati». Ma non è tutto perché, aggiunge Isham, «nel nostro quartiere e in tutta Gaza c'è tanta rabbia nei confronti dei porci ebrei che dissacrano la moschea di Al Aqsa».
  La stessa definizione dispregiativa del nemico esce dalle labbra di Umm Jihad, madre 38enne di un altro palestinese ucciso, Khalil Othman, 15 anni. Il riferimento è «più ai coloni che ai soldati - spiega Muhammed, il fratello di Khalil che era al suo fianco quando è stato colpito - perché sono loro che vogliono impossessarsi di Al Aqsa per giudaizzarla». I soldati israeliani sono «nemici» mentre i settlers civili sono «maiali» perché, aggiunge Muhammad, «sono questi civili, religiosi, che ci strappano le terre, a Gerusalemme oggi come in passato a Gaza».

 La passione per le bici
  Umm Jihad descrive il figlio come «un ragazzo bravo ma poco socievole» che «stava quasi sempre da solo» e l'unico passatempo che amava era «andare in un negozio di biciclette nel nostro quartiere, Al Amal, per aiutare ad aggiustarle. Anche lui, come Marwan, ha detto ai genitori che sarebbe andato «al confine a partecipare ai lanci di pietre contro i soldati» ma senza precisare la volontà di diventare un martire. «Eravamo assieme - racconta Muhammed - ci siamo avvicinati il più possibile al recinto, abbiamo visto i soldati e iniziato a tirare le pietre, poi lui è stato colpito, prima alla pancia e poi alla schiena, è stato quest'ultimo colpo ad attraversarlo, uscire dal petto ed ucciderlo». Ambulanze nei paraggi non ce n'erano e così il corpo ferito è stato messo a bordo di un «tuk-tuk» - le motociclette a tre posti - e portato all'ospedale Nasser di Khan Yunies, dove è stato dichiarato morto.

 Nella tenda del lutto
  Umm Jihad non riesce a capacitarsi che il figlio - terzo di nove - non ci sia più e continua a parlarne a tratti come se fosse ancora vivo: «Non va bene a scuola, è una cosa che ci dispiace molto, bisogna parlare con lui e con gli insegnanti, forse possiamo recuperare la situazione». Tocca al figlio Muhammed tornare, più volte, sul racconto del «proiettile che ha trafitto Khalil» per far accettare alla madre quanto avvenuto mentre nella tenda del lutto della famiglia Barbakh è un gruppo di amici di Marwan a raccontare al padre Isham i suoi ultimi minuti di vita: «Ha avuto coraggio, è stato quello che si è avvicinato di più ai soldati, lo hanno colpito al petto ed è morto da Shahid - martire - come voleva». Ciò che accomuna i racconti delle due famiglie è anche la dinamica del momento della scelta, avvenuta al mattino «dopo aver parlato con gli amici», comunicata ai genitori come una decisione senza appello e poi messa in pratica camminando a piedi verso le postazioni militari israeliane sulla frontiera, nella consapevolezza di andare incontro ai proiettili. Tanto Isham Barbakh che Umm Jihad Othman aspettano i funerali di oggi come un momento «di rispetto per la nostra famiglia da parte di chiunque a Gaza». Avere un figlio «morto combattendo per Al Aqsa» significa guadagnare uno status sociale simile a quello delle famiglie che hanno avuto caduti nelle guerre combattute contro Israele.

(La Stampa, 11 ottobre 2015)
  

Tel Aviv, la città che non si ferma mai punta sui congressi

Tel Aviv
Proprio quando la tensione si fa alta, Tel Aviv risponde con il suo maggior pregio: quello di essere la vera città che non si ferma mai. Come New York, che non dorme, così Tel Aviv, dal millenario porto di Jaffa salendo verso nord, nei giorni in cui si agita forte lo spettro della violenza si affida sempre al suo permanente rinascere, tra eredità del passato, testimonianza del presente e visione del futuro.
   Non può sorprendere dunque che nelle settimane che seguono alle grandi festività ebraiche, la città, scivolata dall'estate ad un caldo autunno, faccia registrare il tutto esaurito nei suoi mega hotel. E non è solo una questione di business for business, quanto di vera e propria strategia: già nuova capitale mondiale dell'Hi Tech, dall'elettronica al design, Tel Aviv ha infatti e da tempo puntato sul turismo d'affari e soprattutto su quello congressuale.
   Gli hotel pieni, compreso l'ultimo grande nato, il Royal Beach, così come il Carlton o il Dan Panorama , per citarne solo alcuni, in presenza di fasi e momenti geopoliticamente sempre più complicati, non si spiegano d'altronde con una buona offerta economica, nemmeno con una evidente diversità sui competitor nei servizi presentati al turista del cosiddetto segmento MIce. A vincere è invece la storica ricetta di una città mix di genti e idee diverse sin dalla sua fondazione. Il dinamismo, il non fermarsi, il voler sempre andare avanti. Accadde nel tradurre il fenomeno architettonico Bauhaus sul boulevard Rotschild da parte delle 68 prime famiglie della moderna Tel Aviv. E si ripete ancora oggi nel restauro di case capolavoro degli anni '20 da parte dei costruttori dei grattacieli che riempiono lo skyline di Tel Aviv.
   Spazio ai congressi allora per non fermare una città che non ha nessuna intenzione di fermarsi, quali nuovi momenti di confronto di idee, in un succedersi di musei e centri per convention. All'insegna sempre della massima modernità e funzionalità e per un'esperienza unica, di vita innanzitutto, capace di trasformare anche il congressista più incallito in un turista a tutto tondo. E' il segreto, ormai svelato, di Tel Aviv.

(askanews, 11 ottobre 2015)
  

Israele richiama i riservisti. Scontri con i palestinesi. Timori di escalation a Gaza

Altri 5 morti. Hamas: attaccare i tifosi della nazionale

  di Davide Frattini

GERUSALEMME - Hamas incita i palestinesi ad andare allo stadio. Ieri sera la nazionale israeliana ha giocato contro Cipro a Gerusalemme e dalla Striscia di Gaza i fondamentalisti hanno indicato i tifosi israeliani — malgrado i 400 poliziotti dispiegati — come bersaglio per gli assalti al coltello. Che anche ieri non si sono fermati: un giovane arabo ha ferito due ultra-ortodossi che tornavano dalla sinagoga ed è stato ucciso dagli agenti; un altro ha attaccato le guardie in pattuglia fuori dalle mura della Città Vecchia, anche lui è stato ammazzato.
   La Croce Rossa israeliana diffonde via Internet un video per spiegare come tamponare le ferite da pugnale, i negozi che vendono articoli da auto-difesa hanno esaurito le scorte di spray urticanti e i fischietti per dare l'allarme. Il governo decide di convocare i riservisti, per ora quelli della polizia di frontiera, da schierare nelle zone dove ebrei e arabi convivono a poca distanza. I disordini ieri sera sono andati avanti anche nel nord del Paese e il premier Netanyahu sta pensando di mettere fuori legge il Movimento Islamico con il suo leader Raed Salah, l'organizzazione è influente nei villaggi della Galilea. In passato lo Shin Bet, il servizio segreto interno, ha sconsigliato la mossa: il rischio è quello di spingere gli estremisti alla clandestinità. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha invitato Netanyahu ed Abu Ma- zen ad evitare un'escalation di violenza.
   Dal primo ottobre i palestinesi uccisi sono venti, sette di loro attentatori, gli israeliani vittime di assalti sono quattro. Anche ieri due ragazzini sono morti dopo che con un centinaio di persone hanno cercato di sfondare la barriera che separa Gaza da Israele. L'esercito ha respinto la folla, una quarantina di palestinesi è riuscita nella notte a passare dall'altra parte, chi non è scappato è stato arrestato.
   Il comando Sud sta cercando di capire che cosa sia successo venerdì, quando da Gaza almeno tremila persone hanno marciato verso i valichi, i soldati hanno ucciso sei palestinesi. La manifestazione sarebbe stata organizzata dalla Jihad Islamica, gli agenti di Hamas hanno lasciato passare il corteo. L'intelligence teme che si possa ripetere quello che è successo l'estate scorsa: i disordini in Cisgiordania e a Gerusalemme Est vengono seguiti dalla reazione a Gaza. Da allora l'area era rimasta tranquilla: i leader di Hamas e il governo di Netanyahu — secondo alcune fonti — stavano discutendo la possibilità di una tregua decennale.
   Adesso le batteria anti-missili del sistema Iron Dome vengono riposizionate attorno alla città di Beersheva e nella notte un razzo è stato lanciato verso Ashkelon. Il ministro della Difesa avverte i miliziani: «Non ci provochino, hanno visto comè finita un anno fa».

(Corriere della Sera, 11 ottobre 2015)
  

Nel Corano l'«intifada dei coltelli». I mandanti? Cercateli in moschea

Nel testo sacro dei musulmani abbonda l'odio verso gli ebrei. Imam di Gaza ripreso mentre brandisce un pugnale durante il sermone: «Imitate le gesta di Maometto». Nel testo sacro dei musulmani abbonda l'odio verso gli ebrei.

di Magdi Cristiano Allam

Venerdì scorso in una moschea a Rafah, nella Striscia di Gaza controllata da Hamas, l'imam ha impugnato il coltello nel corso del sermone ordinando ai fedeli di uccidere gli ebrei nel nome di Allah ed emulando le gesta di Maometto. Il ricorso al coltello, l'arma simbolo di quella che viene indicata come la «Terza Intifada», la nuova rivolta palestinese caratterizzata da un' ondata di accoltellamenti di ebrei, trova riscontro nei versetti coranici: «Getterò il terrore nel cuore dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo (…) Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi». (8, 12-17) «Quando (in combattimento) incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati». (47, 4) Così come è illuminante l'esempio di Maometto che nel 627, alle porte di Medina, partecipò di persona allo sgozzamento e alla decapitazione di circa 800 ebrei della tribù dei Banu Qurayza.
   Nel dicembre 1987 esplose la Prima Intifada, ribattezzata «delle pietre», l'arma con cui gli shabab, i giovani, palestinesi colpivano coloni e soldati israeliani. Il 28 settembre 2000, quando l'allora leader dell'opposizione Ariel Sharon fece una passeggiata sulla Spianata delle Moschee (per i musulmani) o Monte del Tempio (per gli ebrei), è considerato come la data d'inizio della Seconda Intifada, connotata dall'uso del kalashnikov in azioni armate contro militari e civili israeliani.
   C'era stata, ancor prima, una sanguinosissima ondata di attentati terroristici suicidi, firmati da Hamas, Jihad Islamica e Al Fatah, dopo la storica stretta di mano tra Rabin e Arafat il 13 settembre 1993, per far fallire il neonato processo di pace israelo-palestinese. Il Corano è un testo profondamente anti-ebraico, al punto da far impallidire il Mein Kampf di Hitler. Gli ebrei sono presentati come «i più feroci nemici di coloro che credono», «coloro che Allah ha maledetto», perché «uccidevano ingiustamente i profeti», «praticano l'usura», «con falsi pretesti divorano i beni della gente», che Allah «ha trasformato in scimmie e porci», che «somigliano a un asino». La legittimazione dell'odio, della violenza e dell'uccisione degli ebrei e dei cristiani è sancita da Allah nel Corano: «Dicono i giudei: "Esdra è figlio di Allah"; e i nazareni dicono: "Il Messia è figlio di Allah". Questo è ciò che esce dalle loro bocche. Ripetono le parole di quanti già prima di loro furono miscredenti. Li annienti Allah (…)». (9, 30)
   La «Terza Intifada dei coltelli» è l'onda lunga delle decapitazioni dei terroristi dello «Stato islamico» dell'Isis, meno eclatante mediaticamente perché manca l'ostentazione della testa mozzata, ma più diffusa tra la popolazione e che si conclude comunque con l'uccisione dei nemici dell'islam. L'augurio è che la Sinistra non ripeta l'errore di schierarsi pregiudizialmente al fianco dei palestinesi, anche quando accoltellano a morte gli ebrei, immaginandoli come le vittime storiche ed eterne di un'ingiustizia che si sostanzia con la stessa presenza dello Stato di Israele. L'augurio è anche che la Chiesa di Papa Francesco cessi di assecondare acriticamente una politica incentrata sul buonismo, che l'ha portata a riconoscere uno Stato palestinese inesistente e che non è mai esistito nella Storia. La pace vera, stabile, sicura e duratura tra israeliani e palestinesi ci sarà solo quando sarà sconfitto il terrorismo palestinese ed islamico, che disconosce aprioristicamente, nel nome di Allah e di Maometto, il diritto di Israele ad esistere come Stato del popolo ebraico.

(il Giornale, 11 ottobre 2015)
  

Arte e Startup, per Tel Aviv testimonianze identiche di genialità

 
La città israeliana che vive in perenne equilibrio tra passione e innovazione
Multidisciplinare, orgogliosamente individualista, per vocazione internazionale e, spesso, genialmente autodidatta. Potrebbe essere questa la sintesi migliore per raccontare una città come Tel Aviv, a cavallo permanente tra arte, passione, tecnologia e innovazione. Creativa, in una sola parola, come forse poche altre realtà al mondo. Peraltro la descrizione appena fatta può associarsi, guarda caso, proprio ad un'artista unica ed eccezionale come Ilana Goor, la cui casa museo nella città vecchia di Jaffa guarda solo apparentemente distratta l'evolversi pulsante della moderna Tel Aviv.
   Arte, quindi. Ma anche frenesia intellettuale votata alle idee che sanno vincere. Così all'opera di Ilana Goor si affianca senza soluzione di continuità una vena artistica che attraversa ogni esperienza, e che trova nella manualità, nella strada, nelle gallerie tra la gente, la sua principale ragion d'essere. E dalla spinta tecnologica della città deriva invece l'essere calamita universalmente riconosciuta per il cosiddetto fenomeno delle startup. Qui, in acceleratori di idee, hanno investito già colossi come Samsung, Intel, Yahoo e Barclays, solo per citare gli ultimi. A queste strade brulicanti di giovani solo apparentemente semplici sognatori guardano città come Londra o Berlino, alla ricerca della formula del perfetto startup hub.
   Qui non c'è dicotomia: arte a Tel Aviv è uguale a startup, innovazione è uguale a passione. Alla fine è il genio che trova la sua personale strada per dire qualcosa di diverso ad un mondo che ripete sovente schemi superati. Così Tel Aviv è diventata la Silicon Valley del medio oriente, così quartieri come Florentin oggi attirano da tutto il mondo per il proprio essere Bohemien e carichi di energie.

(askanews, 10 ottobre 2015)
  

Israele sotto attacco, Hamas proclama la Terza Intifada, ma c'è chi ribalta la verità dei fatti

Giovani palestinesi si lanciano in tentativi di assassinio, obnubilati dalle criminali spinte del movimento jihadista legato alla Fratellanza Musulmana egiziana (che però è stata resa inoffensiva in patria). I media occidentali spesso ribaltano i fatti, descrivendo i poveri giovani palestinesi uccisi come vittime innocenti, non come caduti in combattimenti urbani da loro stessi scatenati.

Un altro giovane palestinese è stato ucciso nella notte dai colpi sparati dalla polizia israeliana, nel corso di scontri verificatisi nel campo profughi di Shuafat, a Gerusalemme Est. Si tratta del secondo palestinese ucciso in questo campo profughi in meno di 48 ore: sale così a sette il bilancio delle vittime palestinesi, caduti in operazioni di difesa territoriale dalla difesa o dalle forze di polizia di Tel Aviv.
  Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Gaza ha lanciato la Terza Intifada, incitando a uccidere gli israeliani in ogni modo quale passo per riconquistare Gerusalemme: dichiarazioni che marcano indebilmente le violenze scoppiate in Cisgiordania e a Gerusalemme Est annessa. Haniyeh - che vive in Qatar e che non a caso si trova a Gaza - ha sollecitato ulteriori violenze.
  Tre giovani palestinesi - Ahmed al Hirbawi, Shadi Dawla, Abed al Wahidi e Nabil Sharaf, tutti 20enni - sono stati uccisi, dopo che avevano attaccato con lancio di pietre e lanci di bottiglie incendiarie una postazione di soldati, che hanno reagito aprendo il fuoco nei pressi di Khan Yunis. Mohammed al Raqab, 15 anni, e Adnan Abu Alian, 20, sono stati uccisi in scontri analoghi nella zona orientale di Gaza City.
  Fonti sanitarie hanno riferito che altri 80 palestinesi sono stati feriti, 10 dei quali in modo grave. Una portavoce delle IDF ha riferito che 200 palestinesi si sono avvicinati alla barriera di sicurezza lanciando sassi e bruciando copertoni in direzione delle forze di sicurezza. "Le forze sul posto hanno reagito aprendo il fuoco contro i principali fomentatori degli scontri, per scongiurare la loro avanzata e disperdere la folla", ha spiegato.
  L'ondata di violenze è stata fomentata dal presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, che ha reso noto alle Nazioni Unite lo scorso 30 Settembre l'interruzione dell'applicazione degli Accordi di Oslo del 2003 (senza i quali non ci sarebbe l'ANP, ndr), dopo aver chiesto a Israele di "di fermarsi, prima che sia troppo tardi, di colpire i luoghi sacri dell'Islam e della cristianità a Gerusalemme", con riferimento esplicito alla "moschea di Al-Aqsa" dove la polizia israeliana ha fatto irruzione a luglio a seguito della sassaiola lanciata da parte di gruppi di palestinesi. La 'svolta' movimentista di Abu Mazen fa trasparire l'incremento di potere di Hamas, che ha spinto il presidente dell'ANP di annunciare la cancellazione di tutti gli accordi sottoscritti con Israele, inclusi quelli relativi al coordinamento di sicurezza. Lo si evince dalle parole del portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, che ha affermato come ora sia il "momento decisivo" e che occorre una strategia nazionale che consenta ai palestinesi di fronteggiare "i crimini di Israele e proteggere" proprio "la Moschea di Al-Aqsa".
  In un sermone durante la tradizionale preghiera settimanale del venerdì, presso una moschea di Gaza City, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha spiegato che "stiamo chiedendo di rafforzare e incrementare l'Intifada. È l'unica strada che ci porterà alla liberazione. Gaza assolverà il suo ruolo nell'Intifada a Gerusalemme ed è più che pronta a un confronto".
  Fino a poche settimane fa, Hamas proponeva a Israele una tregua decennale, a condizione della possibilità di costruzione di un porto a Gaza e della riapertura dei varchi di Gaza verso il Sinai e verso il Sud di Israele.
  Gli accoltellamenti in Cisgiordania, a Gerusalemme est e in altre città di Israele hanno subito fatto pensare a una Terza Intifada, che ieri è stata proclamata ufficialmente, dopo la prima del 1987 e la seconda del 2000. Conflitti che provocarono oltre 6mila vittime, 5.000 palestinesi e circa 1.100 israeliani. Gaza è stata teatro di tre guerre con Israele dal 2008, ma fino a oggi era rimasta tutto sommato calma durante gli ultimi disordini in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
  Stupisce però il silenzio del mondo, di fronte alle provocazioni islamiste: a osservatori neutrali non sfuggono le rivendicazioni dei lanci da Gaza di missili e razzi, firmati dall'ala locale del sedicente Stato Islamico dell'Iraq e di al-Sham (ISIS), con l'intento preciso di creare un effetto diversivo sul teatro mediorientale e coinvolgere Israele nella guerra contro il jihadismo transnazionale.
  Un silenzio che diventa ribaltamento della verità dei fatti su certi media occidentali, che citano i poveri morti palestinesi, ma titolano come se i palestinesi fossero vittime innocenti, non caduti in combattimenti di guerriglia urbana causata da loro stessi.

(horsemoonpost.com, 10 ottobre 2015)
  

Narni - Seminario sui rapporti scientifici fra Israele e Università

L'evento si terrà il 13 ottobre a San Domenico.

  Saranno dedicati ai rapporti scientifici e istituzionali con Israele gli incontri e i seminari in programma martedì 13 ottobre alle 16,00 all'auditorium San Domenico nell'ambito del corso di Laurea di Scienze per l'Investigazione e la Sicurezza dell'Università di Perugia e ai quali parteciperanno il sindaco Francesco de Rebotti, Daniel della Seta, giornalista, Maria Caterina Federici, Università degli Studi di Perugia, Raffaele Federici, Università degli Studi di Perugia, Andrea Margelletti, Ce.S.I. Centro Studi Internazionali, Luigi Materazzi del Dipartimento di ingegneria Civile e Ambientale e Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, dell'Università degli Studi di Perugia e Fabio Maria Santucci dell'Università degli Studi di Perugia.
Esperti e studiosi italiani e israeliani, insieme a docenti, ricercatori e giovani studenti discuteranno sui rapporti tra Unipg e Israele alla presenza, tra gli altri, di Franca Coen Eckert, presidente dell'associazione per il dialogo interreligioso, già consulente dell'ex sindaco di Roma Veltroni. Sarà garantita la collaborazione con il dipartimento di Ingegneria civile che ha stretti rapporti di collaborazione tecnica con gli studiosi israeliani esperti di costruzioni e strutture civili, settore in cui lo stato di Israele investe molto ed è molto attivo. Il contributo del corso di laurea narnese è nel settore della sicurezza umana e nel campo della formazione di esperti con una visione attenta ai processi geopolitici. La relazione umana, la fiducia, il dialogo, la comprensione dell'altro, lo studio e l'analisi della resilienza sociale saranno oggetto dei seminari e attività di ricerca del Centro Studi CRISU presso il Corso di laurea.

(Tuttoggi.info, 10 ottobre 2015)
  

Israele - Palestina: non chiamatela "intifada" ma "Jihad"

Quello che sta avvenendo in Israele non è affatto la "terza intifada" ma una vera e propria "Jihad" eterodiretta dall'Iran, tanto che neppure i palestinesi riescono più a governarla.

  
La solita trappola palestinese questa volta sta funzionando meglio del solito. Ormai la terza intifada, o sarebbe meglio chiamarla la Jihad Palestinese, è quasi una realtà e la bramosia di diventare martiri sta mondando minuto per minuto. Ormai gli attacchi contro i cittadini israeliani non si contano più. Ma l'occidente non li vede, come sempre vede solo la reazione e mai la causa.
Ogni volta che i palestinesi vogliono qualcosa senza trattare alzano la tensione, solo che questa volta il controllo sta sfuggendo anche a loro. Nelle ultime settimane oltre al numero degli attentati sono triplicati i palestinesi che partecipano alle rivolte in Cisgiordania e a quanto pare nessuno sembra controllarli, sembra, perché chi li controlla c'è e non sempre è Hamas ma anche e soprattutto la Jihad Islamica, cioè l'Iran. La ANP sembra davvero aver perso il controllo. Non è solo una vera Jihad Palestinese che non ha nulla a che vedere con la intifada, è una lotta interna ai vari movimenti palestinesi per il predominio in Cisgiordania e a Gaza dove la situazione non è affatto chiara. E la Jihad Palestinese per Gerusaleme, ieri lanciata dal boss di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, come una "intifada per Gerusalemme" è il meccanismo che trasforma una sommossa per ragioni politiche in una guerra di religione, in una Jihad appunto. E in una Jihad ci sono molti più martiri da pescare che in una intifada, parecchi di più....

(Right Reporters, 10 ottobre 2015)
  

Folta delegazione di cittadini israeliani nel Piceno

 
 
Una folta delegazione di turisti israeliani in visita del Piceno è stata accolta nella sala consiliare di palazzo San Filippo dalla Consigliera Provinciale Valentina Bellini. Il gruppo, che è in visita nell'Italia Centrale, a seguito di contatti con alcuni amici e conoscenti che risiedono ad Ascoli Piceno, hanno incluso il nostro territorio nell'ambito del loro tour nella penisola. Molti partecipanti al viaggio sono discendenti di famiglie vittime della Shoah e ci sono anche tre sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Gli ospiti hanno apprezzato moltissimo le straordinarie bellezze artistiche e ambientali del territorio e, sicuramente, si faranno testimonial del Piceno in terra israeliana.
La Consigliera Bellini, nel ricevere la delegazione, ha messo in evidenzia "le iniziative della Giornata della Memoria con le scuole e la significativa cerimonia con le autorità civili e religiose che si svolge nell'area ebraica del Cimitero civico" e ha ricordato "che la nostra Provincia è medaglia d'oro al Valor Militare per attività partigiana e che molti cittadini del Piceno si sono adoperati per salvare la vita a persone di origine ebrea che rischiavano la deportazione".
Il gruppo in Provincia è stato guidato da una docente dell'Università di Haifa e da un medico primario israeliano che ha studiato medicina in Italia, che hanno proposto di fare iniziative e gemellaggi tra il Piceno e Israele creando un legame dai positivi risvolti culturali, sociali e turistici.

(Picenotime, 9 ottobre 2015)
  

L'intifada dei palestinesi diventa guerra di religione

La violenza senza precedenti della rivolta si spiega con la regia dell'estremismo islamico.

  di Fiamma Nirenstein

Sull'onda di una bugia, ovvero che la Moschea di Al Aqsa sia in pericolo e che Israele voglia distruggere lo status quo, cresce la violenza in Israele. È una bugia che rende alla leadership di Fatah: il mondo islamico tutto deve volgersi, nonostante la grande confusione imperversante in Siria, verso lo stanco conflitto israelo palestinese; ma è anche una bugia pericolosa, che accende la miccia del fanatismo religioso e porta lo scontro sempre più lontano da ogni soluzione politica.
   Gli accoltellamenti, dopo che in una settimana sono stati colpiti, da lame e pietre, fra morti e feriti, decine di persone, sono stati tre: a Gerusalemme è stato ferito un ragazzo di 14 anni, ad Afula, nel nord, ha colpito un'araba israeliana, a Kyriat Arba è stato assalito un soldato di guardia. Un giovane squilibrato ebreo, ha ferito a sua volta, nel città di Dimona, tre arabi in una sua pazza vendetta che è stata subito condannata da Netanyahu. E sul bordo di Gaza, mentre Ismail Haniyeh dichiarava la partecipazione di Hamas agli scontri, l'esercito ha ucciso sei palestinesi mentre, con una manifestazione di 400, cercavano di entrare in Israele. Abu Mazen cerca di raffreddare l'aria, consapevole di quanto un'esplosione possa danneggiare anche la sua posizione, e Netanyahu proibisce ai ministri e ai membri del Parlamento di salire alla Spianata delle Moschee.
   Sembra impossibile quanto sangue la storia possa versare in questa piccola bellissima città. La gente per strada ora sa che chiunque può nascondere un coltello. Di nuovo torna il silenzio per le strade dei momenti in cui, con la seconda intifada, i terroristi suicidi svuotavano gli autobus e i caffè. Tuttavia oggi come ieri i cittadini di Gerusalemme sono decisi a non mollare. Ogni volta che un terrorista attacca, anche la gente si fa sotto. Il sindaco di Gerusalemme ha detto «chi ha un'arma se la porti dietro». È una confessione di impotenza, e questo dà la misura dell'angoscia nella capitale. Alcune famiglie si tengono a casa i bambini; chi deve andare a fare la spesa o a lavorare si affretta verso l'obiettivo. In auto, le pietre sono assassine, e chi viaggia lo sa. Analizzare bene questa situazione per batterla è indispensabile. Si tratta di decidere se è gestibile politicamente, oppure agire con forza come fece Ariel Sharon con l'operazione «Scudo di Difesa».
   Al momento il governo spera che le cose si acquietino. Netanyahu mantiene la mano tesa verso colloqui con i palestinesi; apre a sinistra per un governo di unità nazionale. Alla sua destra, si chiede un pugno più duro. Il fatto è che l'incitamento palestinese fa appello a sommi principi religiosi, sui quali non si discute, si invoca Allah e si combatte. È la fede in pericolo, è la fede che deve vincere, proprio come per Hamas, o per l'Isis, o per l'Iran degli Ayatollah. Jamal Muhaisen del Comitato Centrale di Fatah scrive su Al hayat al Jadida «la presenza dei settler è illegale e quindi ogni azione contro di loro è legittima» e Mahmoud Ismail del Comitato Esecutivo dell'Olp scrive che l'uccisione di Naama e Eitam Henkin di fronte ai loro quattri bambini «è un dovere nazionale».
   Rispetto ai tempi dell'Intifada è diverso il profilo sociale del terrorista: oggi egli non appartiene necessariamente a un'organizzazione come Hamas o la Jihad islamica o a derivati di Fatah. Il nuovo terrorista ha fra i 17 e 23 anni ed è semplicemente convinto che gli ebrei abbiano deciso di distruggere o di occupare la Moschea di Al Aqsa. Abu Mazen fomentando questo punto di vista ha pompato l'ampia ala ultrareligiosa islamista eccitata anche dal richiamo di ciò che accade nel Medio Oriente circostante. Questo fa sì che ogni appello a soluzione in cui ci si incontra, si tratta, si prevedono due stati per due popoli, sia ben pallido di fronte all'imperativo di sconfiggere i nemici dell'Islam. L'affermazione fantasiosa che gli ebrei salgano in frotte alla Spianata (l'anno passato in realtà contro quattro milioni di ingressi islamici ce ne sono stati 200mila di turisti cristiani e 12mila di ebrei) per impossessarsene e che si debba difenderlo è una tromba di guerra per tutto il mondo islamico e una fonte di intrattabile aggressività per i palestinesi. D'altra parte, il fatto che i giovani implicati negli assassinii non vengano armati con tritolo o altri potenti mezzi tipici di un'organizzazione, lascia sperare nella loro riassorbibilità. Le prossime ore diranno il vero.

(il Giornale, 10 ottobre 2015)
  

2022, Addio Israele

Mancano sette anni alla distruzione dello stato ebraico. Non è un fantaromanzo, è l'ossessione apocalittica che unisce Isis e Iran.

di Giulio Meotti

Di fronte all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il premier israeliano Benjamin Netanyahu la scorsa settimana non ha soltanto fissato negli occhi per quaranta secondi i rappresentanti degli altri paesi, mentre li accusava di essere rimasti in silenzio di fronte alla promessa iraniana di distruggere Israele. Netanyahu ha anche tirato fuori un libro in farsi, la lingua iraniana. L'autore è la Guida suprema Ali
Lo Stato islamico ha appena pubblicato un libretto in cui spiega che "nel 2022 avranno fine i quarant'anni di pace di Israele".
Khamenei: "Quattrocento pagine che illustrano in dettaglio il suo piano per distruggere lo stato di Israele", ha detto Netanyahu. "Ha promesso, cito testualmente, che «entro 25 anni non ci sarà più nessun Israele»''. Khamenei iniziò a predicare la fine dello stato ebraico nel 1991, quando disse che "la questione palestinese è come un osso rimasto di traverso nella gola degli oppressori e non sarà risolta se non con l'eliminazione di Israele". Il minuscolo stato israelitico da allora è al centro della sua guerra messianica, metafisica, che ne fa una preda prelibata per ogni disegno di conquista.
   C'è una data che ricorre in maniera ossessiva nei proclami e nei discorsi dei leader del mondo arabo-islamico: il 2022. E' l'anno della fine di Israele. "Entro il 2022, forse anche prima, Israele sarà distrutto", ha appena declamato Hassan Rahimpour Azghadi del Consiglio supremo iraniano per la rivoluzione, il braccio destro di Khamenei. E' come quando si guarda un vulcano che fuma e ancora non si sa che cosa succederà. Se e quando erutterà. E' questo che accade quando posi lo sguardo sullo stato di Israele. Nel libro di Khamenei, di cui è stata appena pubblicata un'edizione in inglese, Israele viene definito "un albero malefico", un "tumore di corruzione", un "cancro". Poi ci sono le previsioni sul fatto che l'entità sionista non supererà i quindici anni di vita.
   Un anno fa il ministro dell'Interno di Hamas, Fathi Hamad, dichiarò che i palestinesi avrebbero liberato tutta la Palestina "entro otto anni". Dunque nel 2022. Hamad ha fatto riferimento a "Hittin", la cittadina in Galilea dove le forze islamiche del Saladino sconfissero i cavalieri crociati di Guido di Lusignano. Il movimento islamico palestinese ricorda tutti gli anni presso Tiberiade la storica vittoria del Saladino nei "Corni di Hittin", quando il 4 luglio 1187 i suoi fiday (volontari della Guerra santa) letteralmente bruciarono il terreno sotto i cavalieri cristiani, già assetati ed esausti per una lunga marcia sotto il torrido sole estivo. I Crociati governarono senza sosta Gerusalemme, per 88 anni. Con la truce profezia del 2022, e partendo dalla sua fondazione nel 1948, Israele non supererebbe i 74.
   Un libretto distribuito in tutto il mondo arabo e pubblicato in Siria porta il titolo "I nuovi Crociati in Palestina". Recita così: "Se la storia si ripete non dobbiamo temere, avendo espulso l'occidente nei tempi antichi, gli arabi non avranno difficoltà a espellere questo assortimento di stranieri oggi". E ancora quella data, il 2022.
   Lo scorso maggio, in un'intervista sul canale libanese Nbn Tv, lo ha detto anche l'imam della moschea di al Quds a Sidone, Maher Hamoud: secondo i calcoli basati sul Corano, "la fine di Israele sarà nel 2022".
Fu un teologo di Hamas, Bassam Jarrar, a predire che Israele non avrebbe vissuto più di 74 anni dalla sua fondazione nel 1948.
Della stessa opinione era lo sceicco Ahmed Yassin, il fondatore di Hamas, che al massimo aggiungeva cinque anni di vita allo stato ebraico, collocandone la fine nel 2027, quarant'anni dopo la prima Intifada. Il giornalista Huda al Husseini ha scritto che "da un incontro con i leader di Hamas sono stato sorpreso di scoprire che la maggior parte dei suoi membri sostiene che nel 2022 sarà fondato uno stato islamico in Palestina". Un altro libro iraniano, pubblicato qualche mese fa, basandosi su scienze occulte, interpretazione del Corano e calcoli matematici, prevede che Israele sarà distrutto, sempre nel 2022.
   Di recente anche lo Stato islamico ha pubblicato un libro di duecento pagine, in cui si afferma che "l'inizio della fine di Israele avverrà nel 2022", due anni dopo la presa di Roma, il simbolo della cristianità. "Nel 2022 avranno fine i quarant'anni di pace e sicurezza di Israele, e contro di esso inizieranno le grandi guerre". Il testo chiave di questa allucinazione islamica, dal titolo "Il crollo dell'impero israeliano nel 2022", è stato scritto da un religioso palestinese, Bassam Nihad Jarrar, e spiega che Israele rappresenta "l'apice della corruzione e della barbarie". Calcoli numerologìci portano gli studiosi islamici a prevedere che Israele governerà per settantasei anni islamici (lunari), che equivalgono a settantaquattro anni solari. Dividono questo periodo in quattro quarti da diciannove ciascuno: il primo, fino alla Guerra dei sei giorni (diciannove anni dopo la fondazione dello stato) ha visto l'ascesa di Israele, conclxxx usa si nel 1986, quando è iniziata l'ascesa musulmana che culminerà nella distruzione di Israele nel 2022. Il libro di Jarrar, pubblicato in arabo nel 1990, è stato ripreso da un editore di Londra, tradotto in inglese e ampiamente distribuito in Malesia nei primi anni Duemila. Da allora è un bestseller nel mondo arabo-islamico. Una data, quella del 2022, diventata quasi leggenda. Un giornalista siriano intervistato dalla televisione dell'Autorità palestinese ha affermato di essere venuto a conoscenza di un rapporto della Cia che aveva informato l'allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che Israele non sarebbe esistito dopo il 2022. "Quello che sto per dire nessuno lo ha mai sentito, si tratta di una relazione presentata dalla Central Intelligence Agency all'allora presidente degli Stati Uniti Clinton. La Cia dice che 'se le cose continuano così come sono, non pensiamo che Israele continuerà ad esistere dopo il 2022"'.
   E' questa la "dark obsession" del leader iraniano Khamenei in copertina sul settimanale Weekly Standard, con un articolo a firma di Ali Alfoneh e Reuel Mare Gerecht.
Khamenei è ossessionato dagli ebrei, non stringe loro neppure la mano, e in un libro li ha appena definiti "tumore di corruzione".
Si dice che l'ayatollah Khamenei abbia un appetito vorace per la trota e il caviale, che soffra di attacchi di depressione, che sia un un appassionato collezionista di pregiati bastoni da passeggio, che due dei suoi palazzi - Niavaran e Vakilabad - siano dotati di bunker nucleari in cemento in grado di sopportare un attacco nucleare. Ma Khamenei ha una passione quasi patologica verso Israele e gli ebrei. In gioventù divenne un devoto ammiratore di Sayyid Qutb, il teorico del jihad egiziano. E tuttavia le radici della sua antipatia per gli ebrei e Israele si trovano nella biografia della sua città natale, Mashhad. Nei salotti islamici che Khamenei frequentava al tempo, le correnti marxiste e nazionaliste che ritraggono Israele come strumento dell'imperialismo occidentale erano comuni; contemporaneamente, l'ayatollah Ruhollah Khomeini attaccava l'''influenza ebraica" nella corte reale Pahlevi. Nel maggio del 1963 il giovane Khamenei ricevette una lettera scritta a mano da Khomeini, da consegnare alle autorità religiose a Mashhad. Il messaggio diceva:
   "Preparatevi per la lotta contro il sionismo". La principale fonte è una raccolta di citazioni nei discorsi di Khamenei dal 1979 al 2011. "Khamenei ha sempre evitato qualsiasi contatto personale con gli ebrei, trattandoli in pratica come se fossero intoccabili", scrivono Gerecht e Alfoneh.
   Nel marzo del 1973, Khamenei è un docente a Mashhad. Lì presenta la sua interpretazione di al Baqara (la mucca), la seconda e più lunga Sura del Corano, in cui il profeta Maometto discute il rapporto tra musulmani, ebrei e cristiani in un sistema politico musulmano. Khamenei attacca "l'opposizione degli ebrei al profeta", "l'avidità degli ebrei" e "la magia nera dei rabbini".
   Il 5 Agosto 1980, Khamenei tiene uno dei suoi più famosi sermoni. "La nazione iraniana è l'avanguardia della lotta per la liberazione della Palestina ... La rivoluzione iraniana ha raggiunto la vittoria entro i confini, ma fino a quando una piaga contagiosa, un tumore sporco chiamato Stato di Israele usurpa le terre arabe e islamiche, non possiamo sentire la vittoria e non possiamo tollerare la presenza del nemico nelle terre usurpate e occupate". Khamenei aggiunge che "se ogni membro della grande comunità islamica di un miliardo di fedeli getta un secchio d'acqua contro Israele, Israele sarà annegato dal diluvio e sarà sepolto".
   L'appuntamento è fra sette anni a Gerusalemme. Per avere un assaggio di quello che la umma ha in mente per Israele, ad agosto Khamenei ha ordinato alle Guardie della rivoluzione di diffondere un video in cui si vedono soldati musulmani che guardano Gerusalemme e si preparano a conquistarla. La sequenza si
Nonostante ì sogni di conquista dell'Islam, Israele ha indici migliori di ogni paese occidentale. Le case non sono vuote, ma piene di vita.
apre con dei primi piani di quattro soldati dal volto coperto mentre si allacciano gli stivali e preparano le armi. Sulle divise sono visibili gli stemmi delle Guardie rivoluzionarie iraniane, di Hamas e di Hezbollah. L'inquadratura si allarga e mostra il gruppo di combattenti su una collina mentre scrutano Gerusalemme e la Moschea di al Aqsa in attesa dell'attacco. La clip porta il titolo "Preparazione alla completa distruzione di Israele da parte delle Guardie rivoluzionarie islamiche in Iran".
   Se si accosta l'orecchio a Israele come a una conchiglia di mare, si sente il rumore della solitudine. La sopravvivenza dello stato ebraico non è certa. Ma tutto per adesso indica il contrario. I cittadini israeliani vivono in media ottant'anni, quanto nella placida e pacificata Norvegia. Gli omicidi pro capite in Israele sono un terzo di quelli commessi negli Stati Uniti. La popolazione israeliana oggi è nove volte superiore a quella del 1948, l'anno della creazione dello stato e della guerra per l'indipendenza. Israele cresce annualmente più di qualunque paese industrializzato. E' uno degli stati più ricchi, più liberi e meglio istruiti del mondo, dove la durata media della vita è più alta di quella della Germania e dell'Olanda, nazioni che hanno conosciuto l'ultimo conflitto settant'anni fa, mentre Israele è da settant'anni in guerra. La cosa più significativa è che gli israeliani sembrano amare la vita e detestare la morte più di qualsiasi altra popolazione del mondo.
   Per il 2022, il mondo islamico sogna Israele come una nazione di case vuote e di tegole rovesciate. Ma, per adesso, le case di Israele sono piene di gioia e di bambini.

(Il Foglio, 10 ottobre 2015)

  

La cultura europea e il "diverso" ebreo

Lettera a Beppe Severgnini

  Caro Beppe,
devo confessare che la spiegazione che dà il sig. Sartoni per giustificare il pregiudizio anti-Israele mi pare perlomeno bizzarra ("Il peccato originale di Israele"). Il sig. Sartoni parla di "furto legalizzato di un territorio", accidenti, viene da pensare, ma che cattivoni questi ebrei, mica come gli altri popoli che hanno fondato i loro rispettivi stati sulla pace ed armonia. Perché ciò che rende l'intervento del Sig. Sartoni bizzarro è la visione bucolica per cui i vari stati non sono nati a seguito dell'insediamento su un territorio di una popolazione che ha provveduto a sconfiggere chi vi era insediato in precedenza, ma puf, come per intervento di una qualche bacchetta magica, "miracolosamente" l'Italia era tutta popolata da italiani, la Francia da francesi, la Germania da tedeschi e la Gran Bretagna da britannici. La storia insomma per il sig. Sartoni non esiste. Per chi invece riconosce che la storia è esistita, beh, le cose si complicano, perché utilizzando come parametro per giudicare quello del "furto" di un territorio e assumendo che la reazione a cotanto "furto" sia se non giustificabile perlomeno comprensibile allora l'Italia dovrebbe essere in guerra con la Croazia per l'Istria, con l'Austria per il Sud Tirolo, probabilmente con la Francia per Nizza, Francia e Germania dovrebbero scannarsi per l'Alsazia, l'Irlanda dovrebbe essere in guerra con l'Inghilterra, il Belgio non dovrebbe esistere, e così via. Ovviamente nessuna persona nel pieno delle proprie capacità penserebbe che un conflitto per l'Istria o il Sud Tirolo potrebbe mai essere non dico giustificabile ma anche solo concepibile, e questo perché tutti accettano che la storia faccia il suo corso. Con una eccezione: Israele, li' questa regoletta non vale, Israele è un "furto" perenne e quindi perennemente deprecabile. E perché ciò avviene? Perché da un lato ciò che è avvenuto durante la II guerra non è un caso isolato dettato dalla follia di uno squilibrato, ma il culmine di un processo secolare di pregiudizi e odio, dall'altro perché l'esistenza di Israele ricorda a tutti noi che i pregiudizi e l'odio di cui sopra li hanno partoriti le nostre stesse società che ora tanto si dicono scandalizzate dai "crimini" commessi da Israele stesso (ci dica il sig. Sartoni, che è del settore, cosa accadrebbe se ad esempio gli irlandesi, che qualche ragione per reclamare un "furto di territorio" pure ce l'avrebbero, bombardassero "day in day out" le coste britanniche). Quindi da un lato per certi settori criticare Isreale è la necessaria continuazione, secondo modalità politically correct, dell'odio atavico verso l'ebreo cattivo: per tanti altri (tra cui penso ci siano anche tante persone in buon fede), invece, Israele è la spia rivelatrice del fallimento secolare della cultura europea nell'accettare il "diverso" ebreo, e quindi se non esistesse sarebbe tutto più semplice: "occhio non vede, cuore non duole".
Paolo Marsigli

(Corriere della Sera, 10 ottobre 2015)
  

La Jihad dei pugnali contro Israele

di Stefano Magni

Eitam Henkin e sua moglie Naama sono state le prime vittime dell'ondata di violenza palestinese contro civili israeliani. Crivellati di colpi sulla loro auto, davanti agli occhi dei loro quattro bambini, sono stati i primi di una lunga serie di aggressioni, commesse con qualunque tipo di arma: pistole, mitra, pietre, coltelli. Soprattutto coltelli. Questa è già stata ribattezzata dai media "Intifadah dei pugnali". E' ancora troppo presto per parlare di "Terza Intifadah", di una terza tappa della guerra insurrezionale palestinese contro lo Stato ebraico, dopo quella del 1987-1991 ("Intifadah delle pietre") e del 2000-2005 ("Intifadah dei kamikaze"). Ma la violenza attuale ha già quasi compiuto il suo primo mese, dopo gli scontri sul Monte del Tempio di metà settembre e inizia a diventare qualcosa di molto più grave di una serie di attentati sporadici.
   Gli aggressori palestinesi, spesso improvvisati, anche minorenni, non fanno parte di milizie organizzate o di network terroristici riconoscibili. Per l'ennesima volta, dunque, suona l'allarme del "terrorismo fai da te",
La causa immediata di questa nuova ondata di aggressioni è una nuova lite sul Monte del Tempio. Quel che i musulmani temono è che gli ebrei si impossessino di nuovo della Spianata per rico- struire il Tempio.
come all'inizio del 2015 sempre a Gerusalemme. La causa immediata di questa nuova ondata di aggressioni è una nuova lite sul Monte del Tempio, o Spianata delle Moschee per i musulmani. In vista del capodanno ebraico, il ministero della Difesa israeliano aveva sciolto per decreto due corpi di volontari palestinesi a guardia della Spianata, quello dei Murabitun e delle Murabatat, dopo aver raccolto prove e indizi a sufficienza per sospettare che stessero preparando aggressioni contro gli ebrei in preghiera. Quel che i musulmani temono è che gli ebrei si impossessino di nuovo della Spianata per ricostruire il Tempio (quello distrutto dai romani nel 70 d.C.). Lo scioglimento dei due corpi di volontari ha dato adito a una prima ondata di proteste sul web e al fiorire di teorie del complotto. Si è diffusa la voce che gli ebrei stessero impedendo ai musulmani l'accesso alla Spianata e questo è stato sufficiente per dare inizio all'attacco. Prima è avvenuto il cozzo frontale fra polizia e islamici palestinesi, fra il 12 e il 13 settembre, alla vigilia del capodanno ebraico: 110 feriti. Poi sono iniziate le aggressioni individuali e le sollevazioni dei quartieri di Gerusalemme Est e dei villaggi palestinesi.
   La causa immediata è la lite sul Monte del Tempio. Ma la causa più profonda è un'altra. Non la si può neppure rintracciare nel tentativo di Abu Mazen di ricominciare i negoziati sui confini palestinesi da una posizione di forza. E' anche quella una causa temporanea, ma i palestinesi non mirano solo a confini più comodi. La causa remota, quella che è all'origine di tutte le guerriglie palestinesi in Israele, è sempre una: la jihad, la volontà di riconquistare Gerusalemme e tutto il territorio mediorientale all'Islam. La Tv palestinese (non quella di Hamas, ma quella del "moderato" Abu Mazen), questo mese trasmette messaggi di questo tenore: "Noi vi benediciamo, benediciamo i murabitun, benediciamo ogni goccia di sangue versata per Gerusalemme, che è sangue pulito e puro se versato per Allah, ad Allah piacendo. Ogni
La causa remota, quella che è all'origine di tutte le guerriglie palestinesi in Israele, è sempre una: la jihad, la volontà di ricon- quistare Gerusalemme e tutto il territorio mediorientale all'Islam.
martire (shahid) andrà in paradiso, e ogni ferito sarà ricompensato per volontà di Allah. La moschea di Al-Aqsa è nostra, la Chiesa del Santo Sepolcro è nostra (prendano nota i cristiani filo-palestinesi, ndr), e non hanno alcun diritto di profanarle con i loro piedi sozzi. Noi non permetteremo loro di farlo e faremo tutto quanto in nostro potere per proteggere Gerusalemme". Lo stesso linguaggio sui "piedi sozzi" profanatori è stato usato da Abu Mazen in persona, quando, a settembre, proclamò al popolo palestinese "non permetterò agli ebrei di profanare la moschea di Al Aqsa con i loro piedi sozzi". E nelle scuole palestinesi (non di Hamas, è bene ripeterlo, ma proprio quelle dell'Autorità Palestinese, quelle aiutate dai fondi europei), si imparano canzoni e poemi come questo: "Voi [ebrei] siete destinati all'umiliazione e alla sofferenza. O figli di Sion, siete le peggiori creature: scimmie incivili, patetici maiali […] Gerusalemme vi vomiterà, perché siete impuri ed essa è pura; essa è pulita e voi siete sporchi […] Non ho paura della vostra barbarie finché il mio cuore è il mio Corano e la mia città, finché reggo nella mano le armi e le pietre".
   La causa immediata di questa insurrezione viene attribuita dai media arabi e occidentali ad una "provocazione" israeliana, quella della Spianata delle Moschee. Anche nell'Intifadah del 2000, la causa era attribuita alla "provocazione" di Sharon, sempre nella spianata delle moschee. Ma si tende a dimenticare in cosa consista questa "provocazione": la mera presenza di un ebreo nella Spianata delle Moschee. Quando va bene, i cristiani e gli ebrei possono anche entrare a periodi alterni, ma non possono comunque pregare. Un ebreo è stato arrestato due giorni fa, dalla polizia israeliana, perché aveva intenzione di recitare preghiere sulla Spianata, un atto considerato sovversivo e provocatorio. Già questo singolo episodio dovrebbe spiegare tutta la logica che è dietro al conflitto: ciò che è terra islamica, o ciò che è stato terra islamica nella storia, è precluso agli "infedeli". Esattamente lo stesso motivo per cui i non musulmani non possono neppure sorvolare la Mecca e Medina. Esattamente lo stesso motivo per cui il Califfato, nelle sue mappe, indica anche la Sicilia e la Spagna come terre da (ri)conquistare. La finzione della "guerra di indipendenza" palestinese crolla di fronte a questa semplice, fin banale realtà: un ebreo non può pregare in una piazza della capitale di Israele, altrimenti gli jihadisti insorgono.

(L'Opinione, 10 ottobre 2015)
  

Le probabili formazioni di Israele-Cipro - Guttman si affida a Zahavi
Nonostante i coltelli assassini, in Israele si continua a vivere


Fischio d'inizio alle 20.45

  di Giampaolo Gaias

Questa sera si sfideranno Israele e Cipro in un match valido per la qualificazione a Euro 2016 del gruppo B. Israele deve a tutti i costi portare a casa i tre punti per sperare di superare una tra Galles e Belgio. Cipro è già virtualmente eliminato dai giochi ma vorrà comunque vendere cara la pelle. Sono ben 16 i precedenti tra le due nazionali con Israele che ne ha vinti 10, Cipro ne ha vinti 2 e 4 sono finiti in parità. L'ultimo confronto risale al match di andata di queste qualificazioni e ha vinto Israele vittorioso per 1-2 a Nicosia.

COME ARRIVA ISRAELE - Il tecnico di Israele Guttman si affida all'ex Palermo Eran Zahavi e a Hemed. Confermato il 4-3-3 offensivo per andare ad attaccare Cipro e conquistare un pass per Euro2016.

COME ARRIVA CIPRO - Cipro deve fare a meno di pedine importanti come Christofi, Alexandrou e Sotiriou. Christodoulou schiererà i suoi con un 4-5-1 dove Mytidis sarà l'unica punta. Nicolau agirà in cabina di regia.

LE PROBABILI FORMAZIONI
ISRAELE (4-3-3) - Marciano; Rikan, Tibi, Ben Haim, Dasa; Natcho, Zahavi, Bitton; Ben Haim II, Dabbur, Hemed. CT: Guttman.
CIPRO (4-5-1) - Georgallides; Antoniades, Dossa Junior, Laifis, Demetriou; Makris, Economides, Nikolau, Makrides, Charalambides; Mytidis. CT: Christodoulou.

(TUTTOmercatoWEB, 10 ottobre 2015)
  

La Terza Intifada è un po' "Made in Europe"

Tutti dagli ayatollah a siglare accordi economici. Lunedì il Presidente del Parlamento europeo Schulz va in visita a Teheran. E intanto l'Iran finanzia il jihad contro Israele.

  di Giulio Meotti

ROMA - Lunedì a Teheran atterra il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, a siglare l'amicizia fra Europa e la Repubblica Islamica dell'Iran dopo il deal nucleare. La Ue ha fame di diplomazia e denaro. Pochi giorni fa centotrenta imprese francesi, guidate da Total, Peugeot, Airbus e Atr, sono andate in pellegrinaggio a Teheran, con i ministri di Commercio e Agricoltura. Le imprese tedesche sono da settimane in Iran a siglare accordi, con Linde AG, Siemens, Mercedes e Volkswagen. E da Madrid è arrivata una delegazione con tre ministri e tanti imprenditori. Mentre l'Europa correva a fare affari con gli iraniani, questi ultimi erano già impegnati a usare una parte dei fondi sbloccati dalle sanzioni (150 miliardi di dollari) per finanziare il terrorismo contro Israele. Poco dopo che il presidente austriaco, Heinz Fischer, era andato a Teheran, primo capo di stato europeo a visitare quel paese negli ultimi dieci anni, per incontrare la Guida suprema Ali Khamenei, quest'ultimo annunciava che "l'Iran avrebbe sostenuto chiunque avesse attaccato Israele" invitando di fatto i gruppi terroristi palestinesi a compiere attacchi contro i civili israeliani.
   Il governo di Benjamin Netanyahu due giorni fa ha riunito tutto il forum per la sicurezza: non accadeva dalla guerra di Gaza di un anno fa. Venerdì ci sono stati altri quattro attentati, a Gerusalemme, ad Afula e a Kiryat Arba, mentre mercoledì otto israeliani erano rimasti feriti, dopo le quattro vittime in due diversi attentati. E Hamas, che da un anno è tornata a beneficiare del sostegno economico degli ayatollah iraniani, venerdì ha parlato con il suo leader a Gaza, Ismail Haniyeh: "L'Intifada è l'unica strada per la liberazione".
   Lo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, punta il dito contro l'Iran come corresponsabile dell'ondata di attentati contro gli obiettivi israeliani. Il gruppo che ha rivendicato l'uccisione dei coniugi Henkin una settimana fa, le Brigate Abdul Qader al Husseini, hanno forti legami con l'Iran e Hezbollah. Elementi di queste Brigate Qader e delle Brigate Martiri di Al Aqsa, il braccio armato di al Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, si sarebbero trasferiti per un periodo di addestramento in Iran. Secondo lo Shin Bet, l'attacco alla famiglia Henkin, che ha lasciato anche quattro orfani israeliani, ricalca perfettamente l'addestramento iraniano.
   Mohamad Halabi, l'attentatore che poco dopo ha ucciso due israeliani nella città vecchia, a Gerusalemme, faceva parte del Jihad slamico. un proxy iraniano il cui fondatore, Fathi Shiqaqi, era un medico che s'infatuò della Rivoluzione di Khomeini. Il suo successore, Ramadan Abdallah Shallah, è l'unico capo del terrore palestinese rimasto a Damasco durante la guerra civile siriana, mentre i capi di Hamas trovavano riparo a Doha, in Qatar. Secondo il reporter israeliano Ronen Bergman, Shallah ha un filo diretto con la Guida suprema, Ali Khamenei. Come ha scritto lo studioso israeliano Meir Hatina, "il Jihad islamico si vede come il punto centrale nel confronto fra occidente e islam". E' affiliato al Jihad anche uno dei simboli di questa Terza Intifada, il terrorista che ha fatto lo sciopero della fame Khader Adnan, scarcerato da Israele a giugno. Alcuni giorni fa è uscito un video di un campo estivo di Hamas a Gaza per ragazzini di quindici anni avviati al jihad in cui si vedono imbracciare armi di fabbricazione iraniana.
   Martin Schulz, così solerte nel portare amicizia a Teheran, quando un anno fa era andato in Israele aveva soltanto prediche da fare, e in questi giorni di attacchi del terrorismo palestinese deve ancora pronunciarsi in solidarietà con lo stato ebraico. In un anno, da quando a Gerusalemme i terroristi palestinesi fecero strage di quattro rabbini a Har Nof, il jihad palestinese si è preso la vita di ventuno israeliani. Spesso con la complicità dell'Iran e con i soldi sbloccati dall'Europa.
   A volte la storia assume un ghigno sinistro. A Teheran, in questi giorni, sono arrivati anche i dirigenti della Basf, il grande colosso chimico tedesco che durante la Seconda guerra mondiale era noto con il nome di IG Farben. Furono loro a produrre il gas Zyklon B.

(Il Foglio, 10 ottobre 2015)
  

Long e Owens, storia degli avversari-amici

Oggi si celebrano i 50 anni del cimitero militare germanico di Motta Sant'Anastasia, dove è sepolto il campione di salto in lungo che, alle Olimpiadi di Berlino del 1936, diventò amico di un atleta afroamericano. E segnò così la sua condanna a morte. Arruolato nella Seconda guerra mondiale, morì nel 1943.

di Davide F. Brusà

 
Ludwig Lutz Long e Jesse Owens
 
Il cimitero militare germanico di Motta Sant'Anastasia
Sepolti alle porte di Catania, nel piccolo cimitero di Motta Sant'Anastasia (CT) costruito 50 anni fa, riposano i resti di un soldato tedesco di nome Lutz. La sua storia, per quanto incredibile, appartiene a quella fascia di racconti sacrificati all'immagine di insieme. Persa tra le ferite della storia, come una dissolvenza tra un fotogramma e un altro.
   Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, Lutz Long rappresenta non soltanto la speranza tedesca di una medaglia d'oro nel salto in lungo (a quel tempo chiamato ancora broad jump), ma è anche il simbolo della superiorità ariana della Germania nazista. Nato a Leipzig, alto, snello ma muscolare con capelli biondi ed occhi azzurri, Lutz Long è il perfetto veicolo di propaganda per i malati ideali nazisti di Hitler e Goebbels. A incrociare la sua strada sarà l'infinito talento dell'afroamericano James Cleveland Owens, detto Jesse. Per quanto Lutz Long sia senza dubbio un ottimo atleta, la sua fama e le sue capacità atletiche non sono neanche paragonabili a quelle di Jesse Owens.
   Nel periodo precedente l'apertura dei giochi olimpici berlinesi, alti ufficiali nazisti arriveranno a dichiarare la loro aperta sorpresa riguardante il fatto che gli Stati Uniti facessero gareggiare atleti considerati di una razza inferiore per rappresentarli alle Olimpiadi. Quindi non è difficile immaginare come Jesse Owens (l'atleta che non fu invitato a stringere la mano né di Hitler, né di Roosevelt) arrivasse all'appuntamento berlinese carico di molte pressioni. Pressioni che probabilmente gli giocano un brutto tiro, perché durante la competizione berlinese, nel turno di qualificazione per la finale, l'imbattibile Jesse Owens salta due nulli. Uno in più ed è eliminato dalla competizione. Mentre Lutz Long, suo avversario diretto, non solo salta la misura per qualificarsi alla finale al suo primo tentativo, ma inoltre batte il precedente record del mondo.
   E a questo punto accade qualcosa che non doveva accadere. Alla vigilia del terzo salto Jesse Owens riceve aiuto dall'ultima persona che lui possa immaginare. Che chiunque possa immaginare. Lutz Long si avvicina a lui, si presenta e gli dà un suggerimento: «Di sicuro tu hai la misura per la qualificazione nelle tue gambe. Invece di saltare al limite del nullo, marca un segno dieci centimetri prima del limite, così sarai sicuro di qualificarti». Owens segue il suo consiglio.
   Durante la finale, l'afroamericano Jesse incanta gli spettatori tedeschi dello stadio olimpico di Berlino (come rappresentato nel capolavoro di Leni Riefenstahl, Olympia, del 1938). Batte quattro volte il precedente record del mondo e vince la medaglia d'oro relegando l'amico Lutz ai margini della storia. Come una dissolvenza. Long sarà il primo a congratularsi con Owens e i due, sotto gli occhi increduli di Hitler, lasceranno lo stadio a braccetto. Alla fine delle Olimpiadi Jesse tornerà a casa con un totale di quattro medaglie d'oro.
   Jesse Owens e Lutz Long resteranno amici tramite corrispondenza per alcuni anni. Sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Mentre Jesse continua la sua carriera d'atleta (lavorerà brevemente per il governo americano, ma non lascerà mai il territorio nazionale), Lutz viene reclutato nella Wehrmacht e spedito in zona di guerra. Allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia il 9 luglio del 1943, prima breccia degli Alleati in quella che veniva definita da nazisti e fascisti «la fortezza Europa», il tedesco viene mandato in prima linea in Sicilia, a proteggere l'aeroporto di Biscari, che i suoi abitanti ancora chiamano Acate, dal fiume che scorre nei pressi. Viene ferito in combattimento il 10 luglio e muore pochi giorni dopo, il 14 luglio, nell'ospedale da campo inglese. Impossibile non vedere l'ombra della vendetta nella decisione di mandare un sei volte campione nazionale, due volte medaglia di bronzo europea e vice campione olimpico in prima linea. Mal digesti da parte di Hitler e del suo entourage quell'abbraccio, quella stretta di mano e soprattutto quell'aiuto a quello che consideravano «l'inferiore nero».
   Anni dopo, quando Jesse Owens ritornerà a Berlino a trovare Kai Long, figlio di Lutz, dichiarerà: «Tutto l'oro di cui sono fatte le mie coppe e le mie medaglie non vale l'amicizia che a quel tempo ebbi con Lutz». Nel 1936 a Berlino, in quel palcoscenico internazionale che sono i giochi olimpici, l'amicizia tra Lutz Long e Jesse Owens era e resta il più chiaro esempio di come quella guerra che di lì a tre anni avrebbe sacrificato le vite di milioni non aveva alcun senso.
   Al cimitero militare di Motta Sant'Anastasia l'unica cosa a ricordare Lutz Long è il suo nome scritto su una piastra metallica, insieme a quello di molti altri soldati tedeschi seppelliti nella stessa fossa comune. Per un'amicizia che non doveva esistere, in una guerra che non doveva accadere. Lutz Long non era solo un ottimo atleta, ma anche una persona di grande intelligenza. Laureato in Giurisprudenza, ebbe brevemente il tempo di esercitare prima che la guerra cambiasse il destino di tutti. Sapeva cosa quell'amicizia significava, in quel tempo, in quel mondo.
   Scrisse all'amico Jesse un'ultima volta, inviandogli una preghiera.
    «Il mio cuore mi dice che questa è forse l'ultima lettera della mia vita. Se così è, ti prego di fare una cosa per me. Quando la guerra sarà finita, per favore vai in Germania, trova mio figlio e raccontagli di suo padre. Raccontagli dei tempi in cui la guerra non ci divise e raccontagli che le cose possono essere differenti tra uomini in questo mondo.
    Tuo fratello, Lutz».
Ricerche di Thomas Cutting

(MeridianoNews, 10 ottobre 2015)
  

Un video sbugiarda il governo. «Milioni per Greta e Vanessa»

Centodieci mazzette da 100mila euro allineate su un tavolo di legno.' e il riscatto pagato per il rilascio delle cooperanti rapite in Siria. E non e tutto ...

  di Gian Micalessin

Centoedieci mazzette da 100mila euro allineate in file di 22 per 5 sopra un tavolaccio di legno su cui spicca la data «07.01.2015» e la misteriosa sigla «TA MA HO». Il tutto per la bellezza di 11 milioni di euro. Sarebbe quello il malloppo versato dal nostro governo ad un gruppo di jihadisti siriani in cambio della liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Al Jazeera la chiama inchiesta. A guardarla bene sembra, però, un atto d'accusa contro il nostro Paese e contro un ministro degli Esteri Paolo Gentiloni incaponitosi, da gennaio ad oggi, a negare che l'Italia abbia messo mani al portafogli per ottenere il ritorno delle due cooperanti sequestrate in Siria il 311uglio 2014 e liberate il15 gennaio scorso.
  Nell'anticipazione di due minutie 48 secondi di «The Hostage Business» - un'inchiesta prodotta da una cosiddetta «unità investigativa» dell' emittente del Qatar destinata a venir trasmessa integralmente lunedì 12 ottobre - c'è quanto serve per mettere in croce i governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi. Partendo dalle foto degli 11 milioni di euro consegnati per liberare Greta e Ramelli, passando per i 4 milioni di dollari versati ai rapitori del giornalista Domenico Quirico per arrivare, a ritroso, alle rivelazioni sui 525mila dollari pagati,nel giugno 2012, in cambio dell'italiano Bruno Pelizzari e della fidanzata sudafricana Debbie Calitz sequestrati dai pirati somali durante una crociera a vela. Ma partiamo dal caso più discusso, ovvero dalla vicenda di Greta e Vanessa liberate il 15 gennaio scorso, dopo 5 mesi e mezzo trascorsi nelle mani di una formazione di ribelli jihadisti siriani. All'indomani di quel rilascio il ministro degli Esteri nega davanti al Parlamento qualsiasi pagamento. «Sul riscatto - afferma Gentiloni - illazioni prive di fondamento», «Ho letto - aggiunge - ricostruzioni .... prive di reale fondamento e veicolate da gruppi terroristici. Siamo contrari ad ogni tipo di riscatto».
  A smentire il ministro degli esteri ci pensa il 5 ottobre scorso «Nour Al Din Al Zenki», una delle formazioni coinvolte nel rapimento, facendo arrivare all'Ansa il verbale di un processo messo in piedi per punire tale Hussam Atrab, lo scagnozzo di una formazione minore, accusato di essersi intascato cinque dei dodici milioni e mezzo di dollari incassati grazie al sequestro. Un verbale liquidato come carta straccia sia daPaolo Gentiloni, sia dal ministro Maria Elena Boschi, intervenuta mercoledì scorso davanti alla Camera per difendere il collega. Ora però Al Jazeera esibisce quella foto che - a dar retta alle rivelazioni fatte uscire in collaborazione con il quotidiano britannico The Guardian - proverebbero da un pacchetto di «appunti» sulle attività di varie intelligence internazionali «usciti» dagli archivi di un non meglio precisato servizio segreto. Un servizio segreto assai beninformato anche sulle trattative per la liberazione del giornalista italiano Domenico Quirico e del suo collega belga Pier Piccinin rapiti, sempre in Siria, nell'aprile 2013 e liberati l'8 settembre dello stesso anno.
  Anche in quel caso si era già parlato di un riscatto di almeno 4 milioni di euro. Una cifra confermata nell'inchiesta di Al Jazeera grazie a due interviste esclusive realizzate con un presunto militante del gruppo responsabile del sequestro e con il mediatore della trattativa sul prezzo della liberazione. «I rapitori avevano chiesto 10 milioni, ma penso che alla fine ne abbiano ottenuti quattro» - spiega il negoziatore Mu'taz Shaklab aggiungendo di esser stato presente, assieme ad un italiano non meglio identificato, alla consegna del denaro. Un anonimo militante delle Brigate Farouq, la formazione responsabile del sequestro, racconta invece di aver visto la somma di denaro ottenuta in cambio degli ostaggi e descrive un sistema d'imballaggio delle banconote molto simile, a quello impiegato nella foto del «bottino» versato come contropartita per Greta e Vanessa.
  «Il denaro - spiega il militante che non fornisce il suo nome, ma parla a faccia scoperta - era in pacchi da l00mila dollari ciascuno e ognuno era in un involucro di plastica separato».

(il Giornale, 10 ottobre 2015)

  

Intifada dei coltelli. «Ebrei, girate armati»

Il consiglio del sindaco di Gerusalemme per difendersi dagli attacchi. Abu Mazen non condanna.

di Carlo Panella

Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme
Ieri quattro accoltella-menti a Tel Aviv, due a Gerusalemme, altri in Cisgiordania: a una settimana dalla uccisione di un ebreo ortodosso nelle strade della Città Vecchia, mentre si recava al muro del pianto (i palestinesi presenti ridevano e applaudivano mentre l'anziano agonizzava), ormai gli accoltellamenti di ebrei sono più di una decina in tutta Israele. Di fatto è iniziata una "Intifada dei coltelli", non si sa se organizzata o se spontanea, che mette in serie difficoltà le autorità israeliane. Le sue modalità sono infatti insidiose perché contrappone al massimo di tecnologia e di presenza militare, il più basso livello di tecnologia, il coltello, e sceglie - tranne in un caso: una soldatessa - civili israeliani inermi per strada. Il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha suggerito ai suoi concittadini di uscire di casa armati. Sono poi stati piazzati dei monitor su tutti gli accessi della Città Vecchia, ed è stato proibito ai deputati israeliani di recarsi sulla Spianata delle Moschee, su cui si è acceso ancora una volta, un aspro conflitto, ripreso alcune settimane fa, con manifestazioni contrapposte di palestinesi e israeliani. Conflitto religioso che ha origine in un clamoroso falso storico da parte dei musulmani che negano - contro ogni evidenza e prova storica - che sulla Spianata si ergesse il Grande Tempio ebraico, edificato da Erode e distrutto dall'imperatore Tito nel 70 Dc. Secondo i musulmani, quel Tempio non è mai esistito - esempio interessante del disprezzo islamico per i fatti - e venerano la Spianata perché contiene la pietra da cui Maometto sarebbe asceso nell'iperuraneo in sella al cavallo alato al Baraq, pietra protetta dalla moschea di Mash el Sharif (che peraltro, ma i musulmani non lo sanno, è costruita sulla base di un progetto di architetti bizantini per un reliquario, piena di croci latine in tutte le sue strutture). Dal 1920, per iniziativa del filo nazista Gran Mufti al Husseini, la Spianata è usata dagli estremisti palestinesi per innescare battaglie con i sionisti e gli israeliani, con grande riscontro - come avviene tutt'oggi - nella umma musulmana mondiale che ogni volta si indigna per le "provocazioni" - presunte - degli ebrei. Battaglia peraltro alimentata dalla sciagurata idea di un deputato estremista israeliano di tenervi una manifestazione di ultraortodossi alcune settimane fa.
  Questa nuova Intifada, mette in enormi difficoltà sia Bibi Netanyahu che Abu Mazen e rafforza le posizioni oltranziste di Hamas. Il premier israeliano si trova nella scomoda posizione di chi non è in grado di assicurare il primo bene per tutti gli israeliani: la sicurezza. Il presidente palestinese, invece, si trova nella ancor più scomoda posizione di chi teme, per opportunismo, di sconfessare questi accoltellamenti, ma non ha nessuna intenzione di compiere l'unico passo che permetterebbe di riprendere il processo di pace: divorziare formalmente da Hamas e discutere con Israele la nascita di uno Stato Palestinese in due tempi: prima nella Cisgiordania che - bene o male - controlla, poi, solo quando e se la Striscia di Gaza non sarà più controllata da Hamas (e dall'Isis), includervi anche la propaggine meridionale. Abu Mazen non sceglie nulla e sviluppa una strategia che punta a obbiettivi di forma: l'ammissione dello Stato palestinese all'Onu (ma quello Stato non esiste e continuando così le cose non esisterà mai) e la denuncia di Israele al Tpi. Operazioni senza sbocco, che però incancreniscono il conflitto. Ma anche Netanyahu ha le sue colpe. Sino ad oggi ha avuto buon gioco per lucrare sul fatto che Abu Mazen non è capace di domare Hamas e che è un presidente "dimezzato", per di più indebolito dalla debordante corruzione del suo governo. Il premier israeliano ha quindi scelto di giocare d'inerzia, non dando forza a trattative con i palestinesi e puntando al loro proseguimento all'infinito. Ma, se la "Intifada dei coltelli" prenderà piede, allora anche Netanyahu dovrà compiere dei passi politici verso Abu Mazen, per la drammatica ragione che questo terribile movimento non è domabile né per via militare, né estendendo la prevenzione.

(Libero, 9 ottobre 2015)


Deludente il rimprovero a Netanyahu, giudicato colpevole di non aver "dato forza a trattative con i palestinesi". Chi sono i palestinesi con cui Netanyahu avrebbe dovuto trattare? dov'è l'interlocutore palestinese che avrebbe la forza di imporre ai suoi il rispetto di un accordo con Israele? Abu Mazen? il "governo" da lui gestito? E' davvero strano che un commentatore attento come Carlo Panella possa pensarlo. Certamente non l'ha pensato Netanyahu, e ha fatto bene. Continua il gioco diabolico contro lo stato ebraico, in forme sempre nuove e sfuggenti, e anche gli amici di Israele, soprattutto i più "intelligenti", fanno a gara nel trovare qual è l'ultimo sbaglio commesso dal regista israeliano. E non s'accorgono che in questo modo fanno sì che i nemici d'Israele ottengano quello che in questo momento è possibile. Che cosa possono sperare i palestinesi con le loro coltellate? che Israele si spaventi e crolli? che gli israeliani mollino tutto e tornino da dove sono venuti? Quello che gli accoltellatori ottengono, insieme a chi li applaude, è dare sfogo al loro odio in una forma che invece di provocare disgusto e indignazione accende ed alimenta l'odio del mondo che sta intorno e guarda con malcelata soddisfazione. Qual è il nobile, difendibile obiettivo di una coltellata alla schiena a un innocente che non si conosce e ha l'unico torto di appartenere a una certa nazione? I palestinesi ormai hanno capito che intorno a loro, qualunque cosa facciano, anche la più turpe, se è diretta contro ebrei israeliani troverà comprensione, se non approvazione e plauso. Intorno a loro crescerà il consenso e intorno a Israele critica e riprovazione. Dall'esterno e dall'interno. Da Gaza piovono missili su Israele? si cerca dov'è lo sbaglio di Netanyahu. A Gerusalemme accoltellano israeliani? si cerca dov'è lo sbaglio di Netanyahu. Quando finirà l'insensatezza di questo gioco degli "intelligenti" occidentali, più irritante della cattiveria dei "poveri" palestinesi? M.C.


Quando i palestinesi spararono in Sinagoga

Il 9 ottobre 1982 un commando armato provocò la morte del piccolo Gaj Taché e altri feriti.

di Dimitri Buffa

«Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Gaj Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».
Chi non ricorda questo passaggio del discorso di insediamento dell'attuale capo dello stato Sergio Mattarella?
Fino a quel giorno, 3 febbraio 2015, e nonostante un precedente analogo invito del suo predecessore Giorgio Napolitano, la giovane vittima del terrorismo palestinese, così come l'attentato che provocò molti altri feriti quel sabato 9 ottobre 1982 alle 11 e 55 all'uscita della funzione davanti al tempio maggiore ebraico di Roma, era giudicata nei fatti «di serie B».
Perché nell'Italia dei primi anni '80, a cavallo della famosa prima guerra del Libano condotta da Ariel Sharon, su cui poi avrebbe scritto pagine memorabili Oriana Fallaci nel suo libro «Insciallah», uccidere un ebreo, specie da parte di un terrorista palestinese, quasi non era considerato reato. L'attentato alla Sinagoga in cui perse la vita il piccolo Taché maturò all'epoca in un clima di odio internazionale fomentato dalle organizzazioni di sinistra, anche eversive, favorevoli alla causa palestinese. C'era stato il massacro di Sabra e Chatila perpetrato dai falangisti traditori di Elie Hobeika (come ha rivelato la sua guardia del corpo nel libro «From Israel to Damascus») pagati dalla Siria per fare ricadere la colpa su Sharon.
Il massacro c'era stato il 16 settembre precedente all'attentato alla Sinagoga.
E l'attentato alla Sinagoga arrivò due giorni dopo una manifestazione sindacale promossa dalla Cgil dell'epoca che finì con un macabro episodio: la deposizione di una bara vuota davanti al Tempio Maggiore. Il commento degli ebrei dell'epoca fu il seguente: «Ecco adesso quella bara vuota è stata riempita... saranno contenti...».

(Il Tempo, 9 ottobre 2015)
  

Il peccato originale di Israele

Lettera a Beppe Servergnini

Cari Beppe & Italians,
la risposta piu' semplice (e quindi necessariamente generica e generalizzatrice) alla domanda del sig. Bauer ("Perché nei media c'è tutta questa prevenzione contro Israele?") e' che purtroppo Israele ha un peccato originale che sta nella sua creazione, di fatto un furto legalizzato di un territorio. Da qui parte tutto e tutto ha conseguenza. Certo, si possono analizzare e discutere premesse e circostanze storiche, colpe, meriti e responsabilita' religiose, ideologiche e politiche, ma alla fin fine si casca sempre li': che legittimita' avevano i sionisti per reclamare (per conto e a nome degli ebrei e dell'ebraismo) un territorio in cui non avevano vissuto per 2000 anni? Questa non puo' essere una mera disquisizione, perche' vorrei vedere cosa succederebbe se un romano pretendesse di avere per se' e i romani un pezzo di Francia o Spagna, un veneziano Cipro o la Dalmazia, un greco pezzi di Sicilia o le coste turche, un arabo l'Andalusia (e questo non e' un esempio casuale), e gli esempi potrebbero ben continuare. A maggior ragione se la pretesa derivasse da una contiguita' o discendenza di tipo religioso. Ovvio che al netto di vomitevoli pregiudizi di tipo razzistico e al di la' di qualunque altra considerazione idealistica, religiosa o politica, pratica o di principio, presente, passata o futura, moderata o fanatica (all'atto pratico il diritto all'esistenza di Israele), questo resta il pre-giudizio, in quanto tutto cio' che ne consegue, giusto o sbagliato che sia, e' appunto conseguenza. Ovviamente non c'e' qui lo spazio per prevenire e ribattere a tutte le possibili obiezioni e contro-argomenti che possono essere sollevati, ma mi limito al "succo del nocciolo", in quanto la risposta alla domanda determina di per se' almeno una meta' della posizione che viene assunta sulla questione israelo-palestinese. Qualunque essa sia e chiunque la esprima. Saluti,
Roberto Sartoni

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2015)

  
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L'ignoranza originale degli antisionisti

Abbiamo già detto su altre pagine di questo sito che dopo l'antisemitismo teologico religioso e l'antisemitismo biologico razziale, oggi è il momento dell'antisemitismo giuridico antisionista. L'antisionismo si può definire come "antisemitismo giuridico" perché nega la legittimità giuridica dello Stato ebraico a esistere sulla terra in cui si trova. Quello che viene attaccato, in forme diverse ma con effetti sempre uguali, è il pieno diritto degli ebrei ad avere la loro nazione su quella che è la loro terra. La negazione di questo diritto si basa sull’ignoranza originale di tutto ciò che ha portato alla formazione di questo Stato. Molti ripetono con gusto la dizione "territori occupati" perché consente loro di presentare gli ebrei per quello che sono da sempre nell'immaginario collettivo: ladri. Dopo aver rubato per secoli soldi e beni immobili un po' a tutti, adesso sarebbero riusciti perfino a rubare la terra appartenente ad altri. Ma questo è FALSO. Pochi lo sanno e usano l'arma della menzogna per colpire e se possibile distruggere lo Stato ebraico; molti non lo sanno e sono presi al laccio dalla loro ignoranza, che però non si preoccupano di fugare perché comunque piace a loro la tesi di un Israele ladro: Non è forse vero - pensano nel retro della loro mente - che gli ebrei sono antipatici e stanno sulle scatole un po' a tutti: adesso ne abbiamo trovato un'altra ragione. Come si può trovare in diverse pagine del nostro sito, lo Stato ebraico ha, secondo il diritto internazionale risalente ai trattati di pace successivi alla Prima guerra mondiale, il pieno diritto a possedere tutti i territori che si trovano a ovest del Giordano. Dichiara il falso chi afferma che gli arabi viventi oggi nei cosiddetti "territori palestinesi" hanno il diritto giuridico ad avere uno stato arabo sulla terra appartenente allo Stato d'Israele. Sugli antisionisti che dicono questo incombe il peso di un peccato originale: quello dell’ignoranza. M.C.

Sullo Stato d'Israele e i suoi diritti

(Notizie su Israele, 9 ottobre 2015)


Basta discriminazioni: Israele si mobilita per le scuole cristiane

di Filippo Di Giacomo

Buone notizie dalla Terra Santa. Un annoso braccio di ferro tra il governo israeliano e il Patriarcato Latino si è concluso con un accordo che entrambe le parti reputano soddisfacente. La lite era sorta per i tagli dei sussidi alle scuole cattoliche, frequentate da 33 mila studenti arabi-cristiani e arabi-musulmani (assistiti da tremila insegnanti), che il governo israeliano applica, sistematicamente, da diversi anni. I tagli hanno sempre e solo colpito le scuole cristiane e quest'anno, di fronte a un'ulteriore e severa sottrazione di fondi destinati all'istruzione degli israeliani non ebrei, genitori e professori hanno reagito e hanno detto «basta». Dal primo settembre infatti, data di inizio delle lezioni, per tre settimane hanno tenuto chiuse le loro scuole (nella foto), considerate un'eccellenza per il Paese. Va considerato che al termine dell'ultimo anno scolastico, il 63 per cento degli studenti delle scuole cristiane ha superato l'esame per immatricolarsi all'Università, mentre in quelle ebraiche il risultato è stato del 58 per cento e in quelle musulmane il successo ha riguardato il 46 per cento degli iscritti.
   I capi delle 47 scuole cristiane si sono trovati concordi nel contestare al governo una differente politica applicata nei confronti di scuole ultraortodosse ebraiche cui viene garantita la copertura totale delle spese, seppure spesso non rispettino il completo curriculum di studi previsto. I sussidi statali a favore delle scuole dirette dalla Chiesa non hanno mai superato il 30 per cento dei costi.
   La buona notizia è che in questa battaglia l'intero sistema scolastico israeliano si è mobilitato. Il 20 settembre scorso, gli insegnanti di scuola media e superiore di tutta Israele hanno ritardato di due ore l'ingresso in classe in segno di solidarietà verso gli istituti cristiane che, oltre a continuare lo sciopero, minacciavano una «serrata» dei luoghi santi.
   Il presidente dell'associazione degli insegnanti d'Israele Ran Erez non escludeva ulteriori forme di solidarietà. E così la società israeliana ha saputo esprimere al meglio, e senza tentennamenti, la laicità dei suoi padri fondatori che mai hanno imposto una «religione di Stato». Laicità testimoniata anche dalla presenza di arabi-israeliani nella amministrazioni locali israeliane, nella Knesset, nel partito arabo Ra'am e anche tra i laburisti, nel Likud e in Kadima. La recente battaglia per la libertà scolastica si è conclusa con l'istituzione di un tavolo permanente tra il ministero e i rappresentanti delle scuole cristiane per affrontare le questioni che restano aperte. Ancora una prova che la laicità fa sempre bene, anche alla scuola.

(la Repubblica - il venerdì, 9 ottobre 2015)
  

Gerusalemme chiama il mondo dello Spazio, che unisce senza confini

In una regione in cui i confini, ad esempio tra il vivere in pace o meno, hanno da sempre rappresentato una vera, difficile e costante sfida di convivenza tra popoli e culture diverse, anche dallo Spazio si può provare a ripartire per riaffermare il valore universale dell'esistenza umana. Su questo pianeta, intanto, domani forse su altri. Così, una Gerusalemme costretta di nuovo e suo malgrado a vivere giornate all'insegna della tensione, si sta preparando, così come tutto Israele, a celebrare il più importante evento astronautico del pianeta, lo IAC, la conferenza internazionale che sta chiamando a raccolta scienziati, industrie, stakeholder e decision maker della geopolitica spaziale mondiale.
   L'evento si apre ufficialmente il 12 ottobre ma già si lavora alacremente, tra dichiarazioni e prime interviste dei protagonisti, per la piena riuscita di una conferenza che vedrà a Gerusalemme rappresentate 70 nazioni e presenti i capi di tutte le principali agenzie spaziali: da Charles Bolden della Nasa a Igor Komarov della russa Roscosmos, al neo direttore generale dell'Esa, l'agenzia spaziale europea, Jan Woerner. "Lo Spazio ha da tempo dimostrato di essere un ponte che unisce tutti, oltre i problemi politici che abbiamo qui sulla terra", afferma proprio Woerner presentando la partecipazione dell'Esa allo IAC 2015 (il secondo che si svolge in Israele dopo l'edizione del 1994).
   E non sono parole di semplice circostanza: lo stesso governo di Israele sta dando segnali importanti, mutando gradualmente la natura della sua politica spaziale, dopo aver fatto dell'esperienza satellitare militare, e comunque duale, la sua principale ragione di vita. È di questi giorni l'annuncio arrivato direttamente dal numero uno dell'agenzia israeliana, Isaac Ben-Israel, della crescita del budget civile a disposizione, partito per la prima volta nel 2012 con 48 milioni di dollari l'anno per 5 anni. Con i 70 milioni di spesa militare, parliamo di 118 e rotti milioni di dollari stanziati per lo Spazio solo per l'anno 2014. Non poco per un paese comunque emergente. Come l'India, altro osservato speciale alla convention di Gerusalemme dopo il lancio a fine settembre del suo primo satellite, Astrosat, per l'osservazione di oggetti celesti, ad esempio i buchi neri.
   L'ampiezza della crescente presenza, o della volontà di presenza, nello Spazio dei governi sulla Terra la fornisce poi un altro dato al centro del dibattito durante l'evento di Gerusalemme: sono più di 50 i paesi che hanno in corso, oppure stanno pianificando, programmi spaziali. Non c'è solo la mega, e affascinante come un film, operazione Marte della Nasa, quanto un sempre più tecnologico e pragmatico approccio che passa innanzitutto dalle orbite basse, dove svetta il lanciatore made in Italy Vega, ancora dai satelliti per comunicazione e osservazione e dai sempre più apprezzati, piccoli ma utilissimi, cubesat.
   Gerusalemme dunque quale porta per lo Spazio del terzo millennio, per i grandi sogni interplanetari e per le più amene missioni orbitali intorno alla Terra, provando anche a ridefinire il senso futuro della Stazione spaziale internazionale. E con l'augurio, ma non è semplice, che la necessaria collaborazione tra agenzie e programmi torni a registrare i periodi felici vissuti in passato. Perchè è pur vero e incontrovertibile, concludendo alla maniera del presidente e ceo di uno dei player industriali principali, Marilyn Hewson di Lockheed, che "nello Spazio non ci sono confini, e la prossima era spaziale parte adesso perchè con le attuali tecnologie siamo sempre più vicini alle stelle".

(askanews, 8 ottobre 2015)
  

Metal detector nella Città Vecchia di Gerusalemme

GERUSALEMME - La polizia israeliana ha posizionato metal detector negli ingressi della Città Vecchia di Gerusalemme, il luogo più turistico della città dove è situata la Spianata delle Moschee, luogo sacro per musulmani ed ebrei. Oltre che all'ingresso, i rilevatori verranno installati in alcune strade adiacenti come precauzione contro possibili aggressioni.
Secondo la portavoce della polizia israeliana Luba Samri, i metal detector sono stati insatallati a nella porta di Jaffa, attraversato ogni giorno da mgliaia di visitatori; nella Porta di Damasco, l'accesso principale per i palestinesi a Gerusalemme Est; nella Porta dei Leoni dove la vi Crucis, e l'ingresso principale alla Spianata delle Moschee e all'interno della cittadella.
La sicurezza all'interno e intorno alla città è stata rafforzata con più di 3.500 poliziotti. Inoltre, l'agenzia di stampa palestinese Maan sostiene che la polizia israeliana abbia attivato una nuova scheda informatica per controllare ciò che i palestinesi scrivono sui social network, dopo aver rilevato che alcuni degli aggressori di questi ultimi giorni avevano annunciato le loro intenzioni sulla rete.

(LaPresse, 8 ottobre 2015)
  

Napoli cancella il giudice antisemita, strada intitolata alla bimba ebrea

Basterà qualche colpo di martello, un po' di forza del braccio, il piede di porco che farà da leva. E il suo nome scomparirà. La mattina del 17 novembre la targa che indica via Gaetano Azzariti, una strada alle spalle di piazza Borsa, a Napoli, parallela al Rettifilo, verrà rimossa. Per una specie di contrappasso o di rivincita della memoria, via Azzariti diventerà via Luciana Pacifici. Dalla toponomastica napoletana Gaetano Azzariti, giurista fascista, antisemita, presidente del Tribunale della Razza e poi presidente della Corte Costituzionale dell'Italia repubblicana - verrà cancellato per ignominia.
   l nome di Gaetano Azzariti resterà comunque indelebile nella storia: una storia di infamie, viltà, violenze e sopraffazioni. Una storia che ingoiò e distrusse la vita della piccola Luciana Pacifici, di famiglia ebrea, nata a Napoli, morta a soli otto mesi su un vagone piombato che la stava portando ad Auschwitz. Anche Gaetano Azzariti era nato a Napoli: nel 1881. Fu un giurista fascista. Come lo furono quasi tutti i giuristi del suo tempo: chi per convinzione, chi per quieto vivere, chi per comodo realismo, chi per paura. Proni e codini, ruffiani e servili. Nel 1938 aderì al Manifesto della Razza, stilato da scienziati di regime e poi sottoscritto da altri intellettuali di regime, fanatici e zelanti. Ma Gaetano Azzariti non fu solo un giurista fascista firmatario del Manifesto della Razza: divenne presidente del Tribunale della Razza, strumento e organo della politica antisemita del fascismo ormai stretto nell'abbraccio con il nazismo hitleriano. Dunque Azzariti fu un protagonista, un responsabile, un «gerarca» di primo piano. Strano personaggio, Azzariti. Sotto certi aspetti, però, anche emblematico: nel 1943 eccolo passato dall'altra parte. Formalmente antifascista.
   Sempre sulla cresta dell'onda, entra nel governo Badoglio: ministro di Grazia e Giustizia. Nel dopoguerra, è tra i collaboratori di Togliatti (divenuto lui ministro di Grazia e Giustizia): con l'incarico specifico di collaborare all'epurazione, alla «ripulitura» dei ministeri dagli elementi più compromessi col fascismo (una cinica e astuta mossa del Migliore? Utilizzare una «spia» per defascistizzare lo stato nascente?).
   Ma non è finita. Azzariti sopravvive al fascismo, a Badoglio, a Togliatti: nel 1955 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, democristiano, lo nomina giudice costituzionale. Troppo poco. Nel 1957 il fascista e razzista Azzariti diventa addirittura presidente della Corte Costituzionale.

(il Mattino, 8 ottobre 2015)
  

Ambasciatore Gilon: Italia e Israele uniti dall'archeologia

MILANO - "Quando parliamo di archeologia troviamo le nostre radici comuni e, allo stesso tempo, collaboriamo per il nostro futuro". Parole di Naor Gilon, ambasciatore israeliano in Italia, che è intervenuto al Simposio bilaterale di Archeologia Italia-Israele, tenutosi nel padiglione di Israele. Due giorni di convegno per risalire la Storia alla ricerca di ciò che, archeologicamente, unisce due territori geograficamente tanto lontani. Molto più di quanto si pensi, a cominciare dagli acquedotti dell'Impero Romano. Il convegno, a cui hanno partecipato esperti italiani e del Dipartimento di Archeologia dell'Israel Antiquities Authority, è stata un'occasione per riflettere sulla gestione dello straordinario patrimonio archeologico dei due Paesi. "Italia e Israele sono molto legate fra loro storicamente e quindi hanno molte cose in comune - ha ricordato l'ambasciatore -. Tra le persone che hanno sviluppato l'irrigazione goccia a goccia in Israele, che è uno dei temi centrali del padiglione a Expo, c'era un ebreo italiano emigrato in Israele, Joel De Malach. Ovunque si guardi, nella storia recente come in quella più remota, ci sono segnali di relazioni e amicizia tra il popolo israeliano e quello italiano".

(ANSA, 8 ottobre 2015)
  

Patto anti-attentati con i palestinesi. Ecco la prova dell'accordo segreto
Articolo IMPORTANTISSIMO!


Esclusivo: il documento spedito un mese prima del rapimento Moro.

  di Gilberto Dondi

 
BOLOGNA, 8 ottobre 2015 - Per la prima volta un documento scritto, segreto e riservatissimo, attesta l'esistenza del cosiddetto Lodo Moro, cioè il patto stipulato negli anni '70 fra l'Italia e i palestinesi secondo cui gli arabi potevano trasportare armi nel nostro Paese in cambio dell'immunità dagli attentati. Il documento è un messaggio cifrato inviato il 17 febbraio 1978 dal Libano dal colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, ai suoi superiori in Italia. Nel testo Giovannone lancia l'allarme su un'imminente «operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei», di cui gli ha appena parlato il suo interlocutore abituale e cioè George Habbash, leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Non si dice quale sia questa operazione, perché Giovannone non lo sa. Ed ecco che arriva, nella seconda parte del messaggio, la prova del Lodo Moro: «A mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, Habbash mi ha assicurato che l'Fplp opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici». Nero su bianco: «Attuazione confermati impegni». C'era un patto per tenere l'Italia fuori dalle bombe e i palestinesi si impegnavano a rispettarlo. Il Lodo Moro, appunto. Circostanza inquietante, un mese dopo questo dispaccio cifrato proprio Moro venne rapito dalle Brigate Rosse che lo uccisero il 9 maggio. Era questa l'«operazione di notevole portata» di cui parlava Habbash? Difficile dirlo, ma è difficile anche pensare a una coincidenza. E proprio Moro, nelle sue lettere dalla prigionia citò per ben due volte Giovannone, che era un suo fedelissimo.
   Si tratta di una scoperta eccezionale, resa pubblica dall'ex deputato bolognese di An-Fli Enzo Raisi, da anni strenuo sostenitore dell'esistenza del Lodo Moro e della correlata 'Pista palestinese' per la strage alla stazione di Bologna, che il 2 agosto 1980 provocò 85 morti e 200 feriti. È lo scenario alternativo alle condanne definitive dei tre neofascisti per la bomba. Secondo la Pista palestinese, invece, fu il gruppo del famigerato terrorista internazionale Carlos lo Sciacallo, legato a doppio filo all'Fplp, a compiere l'attentato di Bologna. Una ritorsione contro l'Italia che poco prima aveva arrestato uno dei capi del Fronte, Abu Saleh. Tesi bocciata però dalla Procura di Bologna, che aveva aperto un'inchiesta bis sulla strage salvo poi chiedere l'archiviazione, arrivata dal gip lo scorso febbraio. E uno degli argomenti forti sostenuti dal pm Cieri era proprio che non esistevano prove del Lodo Moro. Ora però tutto cambia, perchè le parole di Giovannone sono molto chiare.
   «Finalmente c'è il primo documento scritto che attesta l'esistenza del Lodo Moro - dice Raisi, che oggi vive in Spagna -. Ne ha parlato di recente in Commissione Moro lo storico Marco Clementi e noi siamo andati a ritrovarlo negli archivi di Stato. È stato il governo Renzi a desecretarlo, gliene rendo merito, e ora tutti possono leggerlo. Un documento importantissimo perché fa crollare completamente la tesi del pm Cieri. Com'è possibile che io dalla Spagna trovi questo documento e gli inquirenti dall'Italia non l'abbiano mai trovato?». Raisi presto depositerà un nuovo esposto sulla strage di Bologna: «Di quale attentato parlava Giovannone? Difficile dirlo - conclude -, certo la circostanza temporale con il rapimento Moro fa riflettere».

(Quotidiano.net, 8 ottobre 2015)


Un altro israeliano accoltellato a Gerusalemme

Tensione in Israele dopo i ripetuti attacchi contro ebrei da parte di estremisti palestinesi. Netanyahu sotto accusa per la decisione di proibire ai membri del governo l'accesso al Monte del Tempio.

di Maurizio Molinari

Scene di ordinaria violenza a Gerusalemme
GERUSALEMME - «Prendete un'arma prima di uscire di casa al mattino». È il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, che si rivolge ai cittadini suggerendogli di «essere armati» durante la giornata al fine di poter reagire in caso di attacchi palestinesi. L'invito arriva in un'altra giornata ad alta tensione, con un nuovo accoltellamento vicino alla sede della polizia a Gerusalemme. La polizia ha confermato l'assalto e ha detto che l'attentatore, un palestinese di 15 anni, è stato «neutralizzato». Il ferito è un ebreo ortodosso di 25 anni ed è in condizioni serie.
L'appello di Barkat arriva al culmine di una settimana di violenze che hanno visto aumentare gli episodi di attacchi con i coltelli da parte di palestinesi. In particolare ieri, un israeliano è riuscito a difendersi da una palestinese che tentava di accoltellarlo proprio perché in possesso di una pistola. Le aggressioni sono avvenute non solo a Gerusalemme ma anche a Petach Tikwa e Kiryat Gat, al centro di Israele.
   Intanto sul fronte politico il premier Benjamin Netanyahu è attaccato da più fronti. Ministri e leader dei partiti dell'ala destra della coalizione condannano la sua decisione di proibire ai membri del governo l'accesso al Monte del Tempio, dove sorge la moschea di Al Aqsa considerata dai musulmani il terzo luogo più sacro dell'Islam. per il viceministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, «è un grave errore, gli ebrei devono avere diritto di salirvi, come tutte le altre persone, indipendentemente dalla loro fede». Il leader laburista Isaac Herzog rimprovera invece a Netanyahu carenti risultati nella risposta alle recenti violenze: «L'unica cosa che il governo riesce a controllare è Facebook».

(La Stampa, 8 ottobre 2015)
  

Perché il terrorismo palestinese colpisce sistematicamente i civili, e se ne vanta

Il motivo per cui degli ebrei sono stati uccisi nella Città Vecchia di Gerusalemme nell'agosto 1929 e nell'ottobre 2015 è esattamente lo stesso.

La scorsa settimana Eitam Henkin e sua moglie Naama sono stati assassinati davanti ai loro quattro figli mentre tornavano a casa in auto. Ho avuto il privilegio di conoscere Eitam, che frequentava un mio corso d'insegnamento su Alexis de Tocqueville al Kohelet Policy Forum. Eitam era una persona colta, un animo gentile e un uomo giusto. Aveva scritto due libri e decine di articoli sulla legge ebraica e stava completando un dottorato in storia all'Università di Tel Aviv. Eitam e sua moglie sono stati assassinati appena prima dello Shabbat in cui nelle sinagoghe viene letto il libro di Qohelet (Eccelsiaste). Qohelet afferma che "c'è un giusto che muore nella sua giustizia, e c'è un malvagio che vive a lungo nella sua malvagità" (Eccl. 7,15), ma non pretende di spiegare come mai.
   La questione del perché Eitam e Naama sono stati uccisi non è solo filosofica, ma anche politica. Per i palestinesi e i loro tanti apologeti in Occidente, i coniugi Henkin sono colpevoli della loro stessa tragedia in quanto "agenti dell'occupazione". L'Autorità Palestinese non ha condannato il delitto perché lo ritiene "un atto legittimo di resistenza". Quando, due giorni dopo l'assassinio dei coniugi Henkin, sono stati accoltellati a morte nella Città Vecchia di Gerusalemme Nehemia Lavi e Aharon Banito, l'Autorità Palestinese non ha deplorato la loro uccisione a sangue freddo, ma l'uccisione a caldo del loro aggressore. Il portavoce dell'Autorità Palestinese Ihab Bseiso ha aggiunto che "l'unica soluzione è la fine dell'occupazione israeliana della nostra terra palestinese occupata e la creazione del nostro stato indipendente sui confini del '67 con Gerusalemme come capitale". In altre parole, il terrorismo finirà quando Israele rinuncerà a ogni centimetro di terra conquistato difendendosi nella guerra dei sei giorni.
   Ma è una menzogna....

(israele.net, 8 ottobre 2015)

  

"Soltanto Israele ha garantito libertà religiosa a Gerusalemme"

Parla Glick, sopravvissuto alla strage del Jihad islamico. "Mi hanno sparato alla testa, ma Israele non si piegherà al terrorismo"

  di Giulio Meotti

 
ROMA - "Sei tu Glick?", gli chiese il motociclista in ebraico con accento arabo all'uscita da una conferenza. Yehuda Glick stava aprendo il cofano dell'auto. Al segno di assenso, il terrorista del Jihad Islamico lo raggiunge con quattro colpi di pistola alla testa, al collo, allo stomaco e alla mano. Un anno fa Glick ha lottato per un mese fra la vita e la morte allo Shaare Zedek, subendo nove interventi chirurgici. Quell'attentato è stato l'avvio lento e periclitante di questa Terza intifada, tanto che ieri l'Idf, l'esercito d'Israele, ha avviato la demolizione della casa del terrorista che ha attentato alla vita di Glick, Ibrahim Halil Hijazi, come deterrenza del terrorismo palestinese. Hijazi lavorava nel ristorante del Centro Begin di Gerusalemme dove è avvenuto l'attentato a Glick.
  Glick oggi è l'israeliano più ricercato dai terroristi islamici palestinesi. E' stato il primo tentativo di assassinio politico in Israele da quando nell'ottobre 2001 Rehavam Zeevi, ministro del Turismo, venne ucciso all'Hyatt Hotel dal Fronte popolare di liberazione della Palestina. Altri lo hanno paragonato all'attentato, compiuto da un estremista islamico proprio sul Monte del tempio o Spianata delle moschee, che uccise il re di Giordania Abdallah (sfuggi miracolosamente il figlio e successore re Hussein). "Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto, 'mi spiace ma lei è un nemico di al Aqsa', poi fece fuoco", ci racconta Glick. "Avevo ricevuto tante minacce di morte, ma non le avevo mai prese seriamente. Il tentativo di uccidermi mi ha dato il triplo della motivazione necessaria a mantenere la città vecchia di Gerusalemme sotto sovranità israeliana. Sono forte. Il terrorismo deve essere rimosso dalla vita del popolo ebraico. Hanno cercato di uccidere me perché da anni rappresento il legame fra la città e il popolo ebraico, che i fondamentalisti islamici vogliono cancellare". Un legame diventato sempre più mainstream nella società israeliana, tanto che nel Council for the Prevention of Destruction of Antiquities on the Temple Mount compaiono anche due icone della sinistra come gli scrittori Abraham B. Yehoshua e Amos OZ.

 Ancora attentati palestinesi
  "Salutiamo le mani pure che hanno premuto il grilletto e hanno indirizzato i proiettili verso un criminale che ha dissacrato la santa moschea al Aqsa", festeggiò l'ala militare di Hamas sull'attentato a Glick. Da allora, Glick vive sotto scorta. Ieri una palestinese ha pugnalato due passanti ebrei a Gerusalemme (è di quattro morti il bilancio israeliano degli attentati di questa settimana), un israeliano in Cisgiordania è stato quasi linciato da una folla di cinquanta palestinesi, e un altro poliziotto accoltellato nel sud del paese. Al punto che ieri il premier Benjamin Netanyahu ha rimandato una visita prevista oggi in Germania per incontrare Angela Merkel.
  Yehuda Glick è un ebreo tipicamente gerosolimitano, barba rossa, empatia personale e passione oltranzista per una singola idea: salire al Monte del tempio, il luogo più santo del giudaismo, che i musulmani chiamano Spianata delle moschee. Glick lo fa con la sua organizzazione, HaLiba, "cuore" in ebraico, che conduce gli ebrei nella montagna incantata di Gerusalemme. Ma Glick non ha affatto l'aria da estremista, prega con gli imam ed è amico di tanti palestinesi, come il dottor Izzeldin Abuelaish, che a Gaza ha perso tre figlie sotto i colpi dell'aviazione israeliana impegnata nella guerra con Hamas.
  Israele non ha mostrato alcuna intenzione di cambiare gli accordi del 1967, che al contrario hanno subìto continue modifiche nella restrizione delle visite degli ebrei da parte delle autorità musulmane del Waqf, l'ente giordano che ne ha la custodia. La sovranità sulle moschee, concessa da Israele dopo la guerra dei Sei giorni, è diventata apartheid nei confronti degli ebrei. Lo ha spiegato ieri Hanin Zoabi, parlamentare arabo-israeliana: "La Spianata deve essere Jew-free".
  "Il mondo islamico usa la Spianata delle moschee come scusa per eccitare le masse e distruggere il popolo ebraico", dice al Foglio Yehuda Glick. "Riescono anche a mobilitare l'Unione europea, l'Onu e le potenze occidentali, che temono gli arabi per tre motivi: il petrolio, la violenza e la demografia. I palestinesi negano che Israele abbia alcun legame con la sua terra e la sua città santa. L'islam politico non pensa che gli ebrei abbiano affatto diritti umani". Nel 1967, durante la guerra dei Sei giorni, dopo che la Legione araba aveva piazzato sul Monte del tempio le sue batterie, Israele riconquistò la Spianata, sulla moschea sventolava la bandiera bianca e blu di Israele. Moshe Dayan la fece ammainare, e restituì ai musulmani le chiavi dell'edificio. Da allora, si è imposto quello che oggi è considerato lo "status quo": così che soltanto i musulmani possono pregare lassù e gli ebrei religiosi sono seguiti dalla polizia e arrestati anche se soltanto sillabano un Salmo a labbra socchiuse. Gli ebrei possono essere arrestati se sostano, se portano con sé libri religiosi, se piegano la testa in segno di umiltà di fronte a Dio, se tirano fuori un foglio di carta dal portafogli o persino se chiudono gli occhi, in segno di raccoglimento.
  La Corte suprema israeliana è personalmente intervenuta, decretando che Glick ha diritto a salire al Monte una volta al mese, sotto supervisione e protezione della polizia. Glick immagina un futuro in cui il Monte del tempio sia aperto a tutti: "Musulmani, ebrei e cristiani, chiunque voglia pregare Dio, senza discriminazioni di sorta, devono poter accedere al luogo sacro. Soltanto sotto la sovranità israeliana, a partire dal 1967, la città di Gerusalemme si è aperta a tutte le fedi. Ci sono chiese e moschee ovunque. Mentre in medio oriente lo Stato islamico abbatte croci e chiese, a Gerusalemme c'è posto per tutti. Siamo un baluardo della libertà religiosa". La pace, quella vera, forse passa davvero dal fazzoletto di terra più sacro e più conteso del mondo.

(Il Foglio, 8 ottobre 2015)
  

Sospesa a Genova la proiezione del film "Israele - Il Cancro"

Dopo le polemiche, Marco Doria, sindaco di Genova, ha deciso di annullare la serata. "I valori che questa amministrazione promuove e intende rappresentare sono quelli della pace e della convivenza serena di popoli e stati…"

di Giulio Meotti

La regista del film. Una che non è antisemita - dice -, ma solo antisionista, come del resto tanti altri dicono. Una che dice “Israele è il cancro”, come del resto tanti altri pensano, ma dicono in altri modi.
La regista in un'altra occasione
La proiezione del film "Israele - Il Cancro" della regista e attivista Samantha Comizzoli doveva tenersi a Genova nelle sale del Municipio II. Ma dopo le polemiche che avevano coinvolto il comune di Recanati, dove il film era stato proiettato in una sala del municipio (ne aveva reso conto Il Foglio), Marco Doria, sindaco di Genova, ha deciso di annullare la serata. "I valori che questa amministrazione promuove e intende rappresentare sono quelli della pace e della convivenza serena di popoli e stati…", ha chiarito Doria.
   L'ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, era intervenuto duramente con una lettera alla giunta comunale: "Nessuno dovrebbe avere il diritto di definire uno Stato o una persona, un 'cancro'. Sono passati settantacinque anni da quando gli ebrei furono paragonati ad una 'epidemia da eliminare'. Per questo, quando qualcuno descrive Israele - lo Stato del Popolo ebraico - un 'cancro', so molto bene, credetemi, che cosa intende veramente (…) Per tutto quanto sopra illustrato, Vi chiedo di prendere le distanze da eventi di questo genere. Simili occasioni, infatti, non aiutano la pace in medioriente, ma fanno da sponda a chi sostiene pubblicamente l'odio e la violenza". Specie nei giorni in cui il terrore dilaga nelle strade di Israele.

(Il Foglio, 8 ottobre 2015)
  

Siria - Ma voi avete capito chi sta con chi?

Gli Usa vogliono deporre Assad, ma bombardano i suoi nemici. La Turchia è contro il regime, ma vuole indebolire pure i curdi. Il Qatar finanzia i ribelli, ma ospita il quartier generale anti-lsis...

di Fausto Biloslavo

In Siria tutti combattono contro tutti. Americani, inglesi e francesi vogliono deporre Bashar al Assad al potere a Damasco, ma bombardano i tagliagole del Califfato, i suoi peggiori nemici. La Russia appoggia il governo siriano e lancia i raid contro gran parte dei gruppi ribelli. L'Iran usa i giannizzeri libanesi di Hezbollah per le battaglie di terra. Turchia, Arabia Saudita e Qatar da una parte sono al fianco della colazione alleata e dall'altra appoggiano i ribelli di Al Qaida e dello Stato islamico.

 Stati Uniti
  Washington vuole abbattere il regime di Bashar al Assad con i ribelli moderati. Investendo 500 milioni di dollari, il Pentagono sta cercando di formare il «Nuovo esercito siriano». La Divisione 30 è la prima unità addestrata in Giordania, ma le poche centinaia di uomini o sono stati decimati dai ribelli integralisti oppure hanno dovuto consegnare parte delle armi ai gruppi estremisti per poter raggiungere il fronte. I cacciabombardieri a stelle e strisce sono stati i primi dell'Occidente a bombardare lo Stato islamico in Siria nell'agosto 2014.

 Russia
  Mosca è l'alleato più forte del regime di Damasco. A Tartus i russi hanno una storica base navale, l'unica sul Mediterraneo. Dal 30 settembre hanno lanciato una campagna aerea, decollando dall'aeroporto militare di Latakia. Gli obiettivi principali sono lo Stato islamico, il Fronte al Nusra (legato ad Al Qaeda) e i 3.500 jihadisti russi, ceceni e delle ex repubbliche sovietiche che combattono in Siria. Le forze russe hanno schierato una cinquantina di caccia bombardieri ed elicotteri, oltre un battaglione dei corpi speciali della Marina, che garantisce la sicurezza della base e l'eventuale recupero di piloti abbattuti.

 Turchia
  Il governo di Ankara vuole abbattere Assad, ma colpire pure i guerriglieri curdi del Pkk, storici nemici, che si oppongono al regime di Damasco. Da una parte la Turchia concede l'utilizzo della base Nato di Incirlik agli americani. Dall'altra appoggia tacitamente le formazioni ribelli estremiste, come il Fronte Al Nusra. Attraverso il confine turco sono passate armi, munizioni e i volontari stranieri della guerra santa (3 mila dall'Europa, compresi 81 dall'Italia). Da fine luglio, i caccia turchi bombardano il Califfato, ma soprattutto le postazioni del Pkk.

 Iran
  Teheran e Damasco sono legati da un trattato di mutua difesa. I rniliziani scii ti libanesi di Hezbollah combattono a migliaia in Siria fin dall'inizio del conflitto. Ufficialmente ne sono già morti 500, ma la cifra reale sarebbe ben più alta. Le operazioni in Siria e in Iraq contro il Califfato sono coordinate dal generale Qasem Soleimani, comandante del Forza al Qods, reparto d'elìte dei Guardiani della rivoluzione. L'Iran ha già concesso alla Siria 2 miliardi di dollari per la guerra contro i ribelli sunniti, che considerano gli scii ti eretici da sterminare.

 Arabia Saudita
  La monarchia del Golfo ha finanziato la nascita delle frange più estremiste della rivolta siriana come il Fronte al Nusra. Il ministro degli Esteri Adel al Jubeir ha ripetuto nelle ultime settimane che armi e soldi continueranno ad arrivare ai ribelli se Assad non uscirà di scena. I sauditi, però, partecipano alla campagna aerea americana per colpire le basi del Califfato, considerato una minaccia per il regno.

 Qatar
  Si sospetta che il Qatar continui ad appoggiare segretamente lo Stato islamico. Nel 2013 aveva fornito ai ribelli siriani i primi missili terra aria a spalla. L'aspetto assurdo è che il quartier generale delle operazioni aeree alleate in Siria e Iraq contro il Califfato si trova nella base di Al Udeib a sud ovest di Doha, in Qatar.

 Regno Unito
  Gli inglesi chiedono la rimozione di Assad e bombardano il Califfato in Siria. Per aggirare il no del Parlamento, la Raf utilizza i droni o i piloti a bordo di caccia canadesi. In agosto i droni hanno neutralizzato Reyaad Khan e Ruhul Amin, due noti jihadisti arrivati dall'lnghilt.erra. Corpi speciali inglesi hanno partecipato a operazioni terrestri con gli americani. 114 ottobre il premìer David Cameron ha annunciato l'acquisto di altri 20 droni Protector dagli Stati Uniti, per utilizzarli in Siria.

 Francia
  Anche la Francia vuole la rimozione del presidente siriano Assad e il 27 settembre ha iniziato i raid aerei: sei caccia francesi hanno colpito un campo di addestramento dello Stato islamico a Deir ez Zor.

(Panorama, 8 ottobre 2015)
  

Video di Hamas con canzone ebraica: 'Uccidete i sionisti'

L'istigazione alla 'nuova Intifada' corre sempre più sul web.

  di Aldo Baquis

"Chi ha fede non ha mai paura". Queste parole, vergate da un rabbino due secoli fa, sono state riutilizzate adesso dall'ala militare di Hamas che ha prodotto un sofisticato video di 'guerra psicologica': incita alla lotta armata contro gli "usurpatori sionisti" e al tempo stesso è beffardamente accompagnato da una canzone israeliana in voga dieci anni fa. Nel nuovo video i credenti in armi non sono certo gli israeliani, bensì i membri delle Brigate Qassam di Hamas e i giovani palestinesi che negli ultimi giorni sono rimasti uccisi in attentati a Gerusalemme est e in Cisgiordania.
   "Siamo i combattenti di Dio - annunciano i creativi copywriter del movimento islamico palestinese - siamo stati inviati ad eliminare i sionisti, col fuoco, con le spade, con i missili". Al ritmo della canzone molto ritmata 'Mi-Shema'amin' - eseguita a suo tempo dal cantante israeliano Eyal Golan - si susseguono immagini che mostrano una lotta sempre più serrata dei palestinesi contro gli "usurpatori" a cui riservano "giorni neri". L'immagine di generali celebri (Moshe Dayan, Ariel Sharon) è consumata dalle fiamme e il futuro - questo il messaggio del filmato - appartiene ai combattenti palestinesi. La scena conclusiva mostra un aereo dell'El Al che decolla: se hanno cara la vita, sembra di capire, gli israeliani sono ancora in tempo a lasciare spontaneamente la Palestina.
   Sempre in questi giorni nelle reti sociali palestinesi è stato diffuso un altro filmato che mostra un giovane palestinese mentre uccide nella Città vecchia di Gerusalemme due ebrei ortodossi, pugnalandoli ripetutamente. Un altro video ancora "insegna" come meglio aggredire la vittima. L'istigazione alla "nuova intifada" - avvertono diversi analisti - passa ormai più dal web che non dalle vecchie strutture della politica palestinese. Ed anche per questo è sempre più difficile contenerla.

(ANSA, 7 ottobre 2015)
  

Escalation a Gerusalemme, una palestinese accoltella i passanti ebrei nella Città Vecchia

Uno degli uomini aggrediti ha reagito sparando alla donna che ora è in gravi condizioni

  di Maurizio Molinari

 
GERUSALEMME - Nuovo attacco al coltello nella Città Vecchia di Gerusalemme. Una donna palestinese, di circa 20 anni, si è avventata contro un israeliano 30enne nei pressi della Porta dei Leoni ovvero lo stesso luogo dove sabato sera sono stati uccisi in maniera analoga sue israeliani. L'uomo accoltellato alle spalle questa mattina aveva con sè una pistola, l'ha estratta e ha sparato alla donna, rimasta gravemente ferita. Si tratta del terzo attentato in pochi giorni nella Città Vecchia di Gerusalemme e del secondo avvenuto sulla Hagai Street, divenuta la strada più sorvegliata di Israele.
La donna ferita sabato, Adele Bennett, nell'attacco in cui ha perso il marito ha raccontato dal letto di ospedale quanto avvenuto nei minuti seguenti proprio sulla Hagai Street: «Avevo il coltello conficcato nel collo, chiedevo aiuto ai passati arabi ma mi ridevano in faccia, mi hanno sputato, uno di loro mi ha augurato la morte». Per il presidente palestinese Abu Mazen le violenze in atto «sono il frutto della politica israeliana a Gerusalemme». La risposta arriva da Reuven Rivlin, presidente israeliano, che durante un'incontro con i giornalisti stranieri afferma: «Dobbiamo vivere assieme, per riuscirci incitare all'odio non serve perché aumenta solo la violenza».

(La Stampa, 7 ottobre 2015)
  

Il terrorista ispirato dalle parole di Abu Mazen

Intanto l'Autorità Palestinese continua a premiare in denaro i responsabili delle peggiori stragi terroristiche.

  Muhannad Halabi, il terrorista palestinese che la sera di sabato scorso ha accoltellato a morte due persone a Gerusalemme, aveva postato sulla sua pagina Facebook le motivazioni del duplice assassinio. Le parole di Halabi riflettono in modo inquietante quelle della propaganda di odio e violenza diffuse dagli stessi dirigenti dell'Autorità Palestinese che accusano Israele di "promuovere l'escalation". Ecco cosa ha scritto il terrorista palestinese Muhannad Halabi:
    "Stando a quello che vedo, la terza intifada è iniziata. Ciò che sta accadendo alla Moschea di Al-Aqsa è ciò che sta accadendo ai nostri luoghi santi, e la via del nostro Profeta [Maometto], e ciò che sta accadendo alle donne di Al-Aqsa e alle nostre madri e sorelle. Io non credo che il popolo soccomberà all'umiliazione. Il popolo si solleverà (letteralmente "farà intifada"), è sarà davvero intifada". (Dalla pagina Facebook di Muhannad Halabi, 2.10.15).
L'esortazione ai palestinesi ad agire con la violenza per "proteggere" e "difendere" i luoghi santi musulmani è stata lanciata personalmente dallo stesso presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che in un suo recente discorso aveva benedetto "ogni goccia di sangue versato per Gerusalemme", presentando come un imperativo religioso la violenza a "difesa" dei luoghi sacri profanati dai "piedi sozzi" degli ebrei. Queste le parole di Abu Mazen:
    "Noi vi benediciamo, benediciamo i murabitin [i responsabili del ribat, il conflitto religioso a difesa di ogni pezzo di terra rivendicato come islamico], benediciamo ogni goccia di sangue versata per Gerusalemme, che è sangue pulito e puro se versato per Allah, ad Allah piacendo. Ogni martire (shahid) andrà in paradiso, e ogni ferito sarà ricompensato per volontà di Allah. La moschea di Al-Aqsa è nostra, la Chiesa del Santo Sepolcro è nostra, e non hanno alcun diritto di profanarle con i loro piedi sozzi. Noi non permetteremo loro di farlo e faremo tutto quanto in nostro potere per proteggere Gerusalemme". (Da: TV ufficiale dell'Autorità Palestinese, 16.9.15)...
(israele.net, 7 ottobre 2015)
  


Expo 2015 - Ecuador e Israele promossi dagli artigiani

I risultati di un sondaggio online. Il popolo delle partite Iva vota i padiglioni più centrati sul tema dell'Expo: nutrire il pianeta.

di Attilio Barbieri

Se per gli architetti il miglior padiglione dell'Expo è quello della Gran Bretagna, gli artigiani sono di parere opposto e relegano l'installazione di Sua Maestà lontana dai primi posti. La preferenza va al padiglione del Papa fra quelli più centrati rispetto al tema dell'esposizione (nutrire il pianeta), all'Ecuador come più innovativo a Israele per la capacità di comunicare il messaggio prescelto. E al Nepal fra quelli che comunicano meglio i contenuti di artigianalità.
   I risultati emergono da un sondaggio online promosso dall'Unione artigiani della provincia di Milano sul proprio sito internet e di cui Libero può anticipare i risultati. A rispondere sono stati 1.190 soci.
Ma se la preferenza per il Nepal era attesa - a completare l'installazione, dopo il terremoto di aprile, sono stati proprio gli artigiani lombardi - le altre classifiche fanno pensare. Innanzitutto perché dimostrano che oltre alla Gardaland dell'alimentazione, c'è un livello decisamente impegnato che consente ai visitatori di vivere l'esposizione universale a partire dai grandi temi che mette in gioco. Primo fra tutti quello di sfamare chi non ha da mangiare. È in questo senso che va letta la preferenza al padiglione papale che si è dato un filo conduttore molto impegnativo: «Non di solo pane; alla tavola di Dio con l'umanità». Il Vaticano si è aggiudicato ben i132,3% delle preferenze. Al secondo posto nella classifica per pertinenza c'è l'Azerbaigian (9,2%) che ha puntato sulla biodiversità. In terza posizione l'Angola (8,6%), col tema «Alimentazione e cultura: educare per innovare».
   Tutte scelte che demoliscono la bufala sulla connotazione di massimo disimpegno attribuita alla kermesse di Rho dagli epigoni della Corazzata Potemkin. Tutto sta, questo è il messaggio implicito nella scelta degli artigiani, come si vive l'evento. Se cerchi i contenuti seri li trovi.
   Primo nella top 10 dei padiglioni innovativi si piazza l'Ecuador che ha raccolto oltre il 26% delle preferenze. Merito probabilmente degli effetti speciali dosati sapientemente, senza che diventino gli unici protagonisti della visita. La facciata coloratissima, gli ologrammi e il sistema che riproduce gli odori del Paese sudamericano hanno fatto una buona impressione sugli artigiani milanesi. I disegni fatti con la sabbia valgono al Kazakistan la seconda posizione, mentre per l'Azerbaigian ha pesato la gigantesca sfera di cristallo firmata dai progettisti italiani del team di Simmetrico.
   Nettissima l'affermazione di Israele prima quasi con il 30% fra i padiglioni capaci di comunicare meglio il proprio messaggio. Che in questo caso è didascalico: «I campi di domani». La gigantesca installazione con il campo verticale posta all'ingresso, è infatti la spettacolarizzazione di una tecnologia che ha consentito agli israeliani di coltivare il deserto. Grazie a un sistema di irrigazione goccia a goccia, ora alimentato da pompe a energia solare. Una tecnica a costi tutto sommato contenuti, facilmente replicabile anche nei Paesi meno sviluppati tuttora alle prese con il problema che ha afflitto la loro agricoltura per secoli: come far crescere e fruttificare i vegetali in condizioni di scarsità d'acqua. Peccato che la tecnologia applicata sia visibile ma non all'Expo. Bensì al Parco Tecnologico di Lodi dove è stato coltivato il riso fuori acqua.
   Secondo dietro a Israele è il Kazakistan, terza l'Austria grazie alla ricostruzione di un'ambientazione agreste di sicuro impatto sul pubblico e facilmente decodificabile dai visitatori.
   Il padiglione nepalese è invece primo nella classifica di quelli che hanno saputo comunicare meglio la propria artigianalità. Merito soprattutto del gran lavoro manuale necessario per realizzare capitelli, architravi e bassorilievi sapientemente intagliati nel legno grezzo da decine di artigiani-artisti.
   Escluso dal sondaggio Palazzo Italia, troppo più vasto rispetto alle installazioni dei Paesi partecipanti all'Expo, si segnala l'assenza dalle classifiche dei padiglioni più gettonati in queste ultime settimane, Germania e Giappone in testa. Segno che gli artigiani sono del tutto immuni dall'effetto moda che ha provocato code fino a 8 ore per entrare nelle costruzioni più gettonate.

(Libero, 7 ottobre 2015)
  

L'abdicazione dei chierici

"Sono le nostre élite politiche e intellettuali a minacciare la civiltà". Leon de Winter, gran scrittore olandese, ci spiega come l'indifferenza da multiculturalismo ha compromesso l'identità dell'Europa.

di Giulio Meotti

 
Panorama di un'Olanda deserta
ROMA - "E' magnifico uscire di casa senza ombrello, ma non ho abbandonato l'Olanda a causa della pioggia". E' con una battuta che Leon de Winter ci racconta la sua decisione di lasciare i Paesi Bassi per trovare casa a Los Angeles, in particolare a Malibu. "I prossimi anni saranno gli ultimi della presenza ebraica in Europa", ci dice De Winter. "Il nostro disperato bisogno di amore non ha avuto risposta". De Winter è una strana creatura nel mondo delle lettere olandesi. I suoi romanzi sono costantemente in cima alle classifiche delle vendite e de Winter è parte della vita mondana di Amsterdam. Scrive sul tedesco Spiegel, sugli olandesi Elsevier e Trouw e sul New York Times. Ma l'appartenenza all'establishment non gli ha mai impedito di prendere posizioni anticonformiste. Come quando chiese all'Europa di farsi carico della sicurezza di Ayaan Hirsi Ali, che invece avrebbe poi abbandonato l'Aia per l'America.
  De Winter non crede che l'Europa abbia finalmente trovato la forza necessaria per distruggere lo Stato islamico. "Avrebbero potuto farlo all'inizio, ma l'Europa ha rinunciato a usare la violenza per rafforzare gli ideali occidentali di pace e stabilità. Le potenze occidentali soffrono di un relativismo culturale. Hanno paura di essere accusati di imperialismo e colonialismo. E hanno paura di identificare il carattere dell'Isis, che è quello di un vero culto islamico". Quando abbiamo rimosso la guerra dall'immaginazione pubblica e politica? "La sconfitta dell'America in Vietnam è stata l'inizio della fine della fiducia occidentale nell'uso della forza. E il rifiuto americano di impegnarsi in Iraq dopo la vittoria, così come era avvenuto in Germania e Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, ha alimentato questa crisi di fiducia. Soltanto la forza può eliminare il culto dell'Isis, ma l'occidente non crede più nel suo potere".
  E' il paradosso di una Europa che elimina le sanzioni dall'Iran e le inizia a imporre su Israele. "E' il rifiuto di identificare il male in quanto tale. L'Europa proietta la sua paura dell'Iran su Israele, che è un minuscolo paese che può essere obliterato. E accusando Israele di comportarsi come i nazisti, l'Europa riduce il suo senso di colpa per la Shoah. L''accordo storico' sull'Iran è l'inizio della fine dell'attuale medio oriente e in particolare la fine dello stato ebraico. Questo accordo porterà alla realizzazione islamista e neo-marxista del sogno della distruzione di Israele. E la Germania, la nazione che in precedenza aveva quasi spazzato via gli ebrei, ci farà molti affari. Ma l'Iran non sarà soddisfatto dalla fine di Israele. La fame furiosa del regime di Teheran è verso la caduta dell'occidente come erede della secolare e illuminista ricerca della felicità. Nel 2004 il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha riassunto questa ideologia apocalittica: 'Gli ebrei amano la vita. Stiamo andando a vincere perché amano la vita e noi amiamo la morte'".
  Eppure, Leon de Winter non pensa che l'islamismo sia la principale minaccia alla sopravvivenza della cultura occidentale: "No, sono le nostre élite politiche, artistiche e intellettuali a minacciare la civiltà. Mai prima di oggi nella storia umana così tante persone avevano vissuto così a lungo in prosperità e in sicurezza come in Europa negli ultimi sessant'anni. Ma le nostre élite hanno rinunciato a proteggere la civiltà. Negli ultimi due secoli abbiamo assistito alla implosione di una religione mondiale, l'islam, che oggi deve ridefinire se stesso per non perdere la globalizzazione. Oggi la civiltà islamica non contribuisce in nulla alla scienza, all'arte, alla letteratura, produce soltanto immagini barbare. E' ridicolo pensare che possa minacciare la modernità o l'Europa, a patto che mostriamo fiducia nella nostra forza e nella nostra cultura". Prendiamo l'Olanda, il più grande laboratorio multiculturale del mondo. "Il paese non è cambiato, sono le élite che hanno preso il sopravvento. La gente oggi rimane in silenzio sulle proprie opinioni. E come la Germania, l'Olanda ancora ha a che fare con quanto è successo durante la Seconda guerra mondiale. Accogliendo i migranti dalla Siria, gli olandesi fanno ammenda di quanto hanno fatto agli ebrei. L'ironia è che la grande maggioranza di questi migranti odia gli ebrei".
  Si arriva così all'ultima pièce teatrale cui ha lavorato De Winter, dedicata ad Anna Frank: "La famiglia Frank era più tedesca della maggioranza dei tedeschi. La famiglia Frank è stata tradita da tedeschi e olandesi. Sono stati arrestati dai poliziotti olandesi e inviati alla loro morte sull'ultimo treno dall'Olanda per Auschwitz. L'ottanta per cento di tutti gli ebrei olandesi fu deportato e ucciso, oltre centomila persone. Sì, siamo una nazione tollerante, ma l'altra faccia della tolleranza è chiamata indifferenza. L'indifferenza per il destino degli ebrei. Tradendo gli ebrei, l'Europa ha tradito le sue radici ebraico-cristiane e si è avviata per una strada di secolarismo radicale, che alla fine porta a una cultura senza anima, senza santità, senza sacrifici. I tedeschi hanno smesso di fare figli e hanno sviluppato una cultura di narcisismo radicale. In un certo senso, la Germania ha iniziato un processo di autoannientamento. Per la vergogna? Per il senso di colpa? Il resto d'Europa segue a ruota. La cultura occidentale allora è condannata? No! Restano America e Australia. Sarà invece molto dura in Europa nei prossimi anni".

(Il Foglio, 7 ottobre 2015)

  





Israele riapre la Spianata delle moschee per i musulmani

La polizia israeliana ha annunciato di aver revocato le restrizioni di accesso alla Spianata delle moschee, che erano state imposte ai musulmani dopo l'uccisione di due israeliani nella città vecchia di Gerusalemme il 3 ottobre. "La decisione è di tornare alle normali procedure senza restrizioni d'accesso per i fedeli", ha dichiarato in un comunicato la portavoce della polizia Luba Samri.
Nelle ultime tre settimane a Gerusalemme e in Cisgiordania sono aumentate le tensioni e le violenze fino alla decisione delle autorità dello Stato ebraico, domenica scorsa, di vietare l'accesso alla città vecchia ai palestinesi.

(Internazionale, 6 ottobre 2015)
  

Israele - Al via una campagna di marketing da 70 milioni di euro

«Gli israeliani amano visitare l'Italia e, l'Italia è per noi un mercato di primaria importanza, stabile nella top 5». Amir Halevi, direttore generale del ministero del turismo di Israele, in visita in Italia, esordisce sottolineando il forte legame tra i due paesi. «Dopo i problemi dello scorso anno abbiamo continuato a investire, in termini di sicurezza e di promozione: vogliamo tornare ai numeri del 2013». Sul fronte della promozione, a livello mondiale, il ministero ha stanziato 70 milioni di euro, buona parte dei quali saranno dedicati ai mercati europei in generale e, considerata l'importanza, anche sul bacino della Penisola.
Gli aspetti su cui spingere per la prossima stagione saranno gli stessi punti di forza della campagna 2015: i city break a Tel Aviv o in combinazione con Gerusalemme, i trattamenti benessere sul Mar Morto e i grandi eventi culturali. «Molti eventi che negli anni passati erano a carattere locale hanno avuto la forza di aprirsi a uno scenario internazionale - commenta la direttrice per l'Italia, Avital Kotzer Adari -. Il primo, ma solo in ordine temporale, è Open House, in scena nelle prossime settimane che permetterà ai visitatori di entrare in oltre 200 case aperte tra Gerusalemme e Tel Aviv. Per il 2016 invece, il filo conduttore sarà lo sport, con sette maratone internazionali, campionati di nuoto e di ciclismo».
In termini di infrastrutture in Israele stanno lavorando a un nuovo scalo aeroportuale, che sarà sorgerà tra «il Mar Rosso e il Mar Morto e garantirà numerosi collegamenti in più verso l'Europa», spiega Halevi prima di concludere introducendo una grande partnership tra Italia e Israele. «In un incontro a Tel Aviv, i nostri rappresentanti hanno deciso di intraprendere una collaborazione per promuovere il Mediterraneo sul mercato cinese: stiamo lavorando con i tour operator locali per invitarli a creare pacchetti con una settimana in Italia e una in Israele, a scoprire la culla della civiltà».

(Travel Quotidiano, 6 ottobre 2015)
  

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Italia e Israele a lavoro su pacchetti vacanze 'congiunti'

Costruire un pacchetto vacanze "congiunto", ispirato al Mediterraneo, con una settimana di permanenza in Italia e una in Israele.
L'idea è nata a giugno, durante il National Day israeliano a Expo, culminato con la visita del vice ministro degli Esteri di Tel Aviv Tsipi Hotovely. "All'inizio era solo un discorso. Poi abbiamo iniziato a lavorarci nel concreto e ora stiamo già coinvolgendo l'industria turistica, dai vettori aerei ai tour operator, per realizzare davvero il prodotto" ha spiegato il direttore generale del ministero del Turismo israeliano, Amir Halevi , in visita a Milano.
"Abbiamo già raccolto diverse manifestazioni di interesse e dopo TTG Incontri stringeremo di più le maglie, con la speranza che già nel 2016 l'offerta entri nei cataloghi. Sarà rivolta soprattutto al mercato americano e a quello cinese".
Israele ha investito molto nella promozione in Asia e i frutti si vedono. A metà 2015 l'arrivo dei turisti cinesi mostrava uno straordinario +30 per cento di arrivi.

(TTG Italia, 6 ottobre 2015)
  

L'Iran presenterà più di cinquanta nuovi progetti petroliferi agli investitori

LONDRA - Il capo dei negoziatori iraniano per nuovi contratti petroliferi ha oggi detto che il Paese presenterà più di 50 progetti di esplorazione e produzione agli investitori nel prossimo futuro.
Seyed Mehdi Hosseini, che guida la Commissione per la ristrutturazione dei contratti petroliferi, ha detto nel corso della Oil & Money conference in corso a Londra che questi contratti saranno presentati in Iran quest'anno e in un'altra conferenza nella capitale britannica a febbraio 2016.
Eni ha posto come condizioni per la ripresa degli investimenti in Iran la modifica dei contratti per lo sviluppo dei giacimenti. Al momento l'attività della major italiana in Iran è limitata al recupero degli investimenti sostenuti in passato nei giacimenti South Pars 4 e 5 nell'offshore del Golfo Persico (Eni operatore, 60%) e Darquain (Eni operatore, 60%) nell'onshore.

(Agenzia Nova, 6 ottobre 2015)
  


La cosa più immorale

La cosa più immorale
in fatto di sessualità
è che non esiste più niente
che si considera immorale.

 


Calcio - Campionato israeliano: doppietta di Zahavi, il Maccabi Tel Aviv vola

di Gaetano Mocciaro

Maccabi Tel Aviv primo in classifica nel campionato israeliano. 5-0 all'Hapoel Acre con doppietta di Zahavi, capocannoniere del torneo e sorpasso compiuto nell'ultimo turno ai danni del Maccabi Petah Tikva, travolto dall'Hapoel Be'er Sheva 5-2. In coda si registra il successo del Maccabi Haifa, 2-0 sul campo dell'Hapoel Ra'anana.
Classifica dopo 6 giornate: Maccabi Tel Aviv 13; Maccabi Petah Tikva 12; Hapoel Be'er Sheva 10; Ironi Kiryat Shmona, Beitar Gerusalemme, Hapoel Tel Aviv e Hapoel Acre 9; Hapoel Ra'anana 8; Bnei Sakhnin e Hapoel Haifa 7; Maccabi Netanya e Bnei Yehuda 6; Hapoel Kfar Saba e Maccabi Haifa 5.

(TUTTOmercatoWEB, 7 ottobre 2015)
  

Addio kefiah e leader. La terza Intifada usa jeans e social network

I giovani della rivolta vestono occidentale e organizzano gli attacchi su Facebook

   di Maurizio Molinari

RAMALLAH - Per conoscere l'Intifada 3.0 dal di dentro bisogna salire sul furgoncino di Mustafa Rmouz. L'appuntamento è a Qalandiya, il campo profughi alle porte di Ramallah, dove vive con moglie, quattro figli - di cui tre femmine - e l'inseparabile «carta di identità blu». Si tratta del documento di identità israeliano per i palestinesi di Gerusalemme che gli consente di muoversi liberamente attraverso i posti di blocco, di lavorare trasportando ogni sorta di merce fra Stato ebraico e West Bank, e di essere un tassello di collegamento fra le diverse città palestinesi teatro di aspri scontri contro soldati e polizia.
  «Questo furgoncino serve il popolo palestinese in tanti modi - racconta - a cominciare dal fatto che spesso lo uso per portare gli anziani dentro i territori palestinesi del 1948, a Jaffa, Lod e Akko per fargli vedere la loro terra, guardare il mare, le loro case da cui vennero cacciati nel 1948 dove oggi si sono gli israeliani». Quarant'anni, con alle spalle due arresti - nel 1992 e 2004 - Mustafa ricorda la Prima Intifada e ha partecipato alla Seconda Intifada, ma assicura che «questa rivolta è qualcosa di molto diverso». Lo racconta guidando lungo le strade che, attraverso più posti di blocco, lo portano da Ramallah a Beiyt Jalla, vicino a Betlemme dove è stato ucciso il 12enne Abed al Rahman Shadi Obeidallah.

 «Gesti individuali»
  «Si tratta di un'Intifada diversa perché non è guidata da leader, partiti o movimenti - dice - perché Abu Mazen non ha un esercito, Hamas è lontana dalla gente comune e i nomi dei leader che vanno sui giornali sono delegittimati, nessuno gli crede più». Si tratta dunque «di una rivolta che nasce da gesti individuali». Attacchi con il coltello, le molotov, i sassi o i petardi incendiari avvengono «da parte di giovani che non vogliono l'occupazione» e attaccano «in maniera disorganizzata, quindi imprevedibile e più difficile da neutralizzare per gli israeliani». I protagonisti appartengono a una nuova generazione di palestinesi.
  Rmouz esita a chiamarli «militanti» o «attivisti» perché gli rimprovera di essere «politicamente impreparati» e anche «deboli sulla simbologia nazionalista» perché «anziché kefyah a scacchi bianconeri e colori palestinesi» vestono con «jeans rotti alle ginocchia e magliette dai colori accesi» senza contare «il gel nei capelli» e lo stile di vita «assai occidentale». Sono i «ragazzi cresciuti nel benessere di Ramallah» come anche «nei campi profughi di Hebron e Jenin» che seguono percorsi diversi e si ritrovano sulle strade dell'Intifada 3.0 perché accomunati da «due battaglie».

 Le «ragioni di lotta»
  La prima e più importante, assicura Rmouz che a Qalandiya presiede il «Comitato eventi e reclutamento» del campo profughi abitato da 25 mila anime, è «la volontà di impedire agli israeliani di impossessarsi di Al Aqsa». La moschea sull'«Haram el-Sharif» della Città Vecchia, terzo luogo sacro dell'Islam «che gli ebrei hanno iniziato ad aggredire nel 1967» con la Guerra dei Sei Giorni, e «ora vogliono occupare del tutto sfruttando la debolezza del mondo arabo lacerato dalle guerre». Al Aqsa è un richiamo islamico, religioso, per militanti che usano Facebook per ritrovarsi e colpire gli israeliani «facendo attenzione a usare pagine collettive perché quelle singole sono una trappola, la polizia ti scopre facilmente».
  Poi c'è la «seconda ragione di lotta» e ha a che vedere con «gli arabi di Gerusalemme» che l'autista-staffetta descrive «isolati, assediati, bisognosi di essere soccorsi e salvati» perché «l'occupazione israeliana li stritola» e a dimostrarlo è il fatto che «quando gli scontri diventano duri, solo in pochi di loro si battono davvero contro i soldati». Lo stile di vita I giovani della nuova Intifada si pettinano i capelli con il gel, indossano jeans e abiti occidentali, preferiscono le magliette colorate alle kefyah L'individuo al centro Non hanno leader, né partiti di riferimento perché Fatah e Hamas vengono delegittimati. È un'Intifada individuale, spontanea e dunque imprevedibile L'uso dei social Comunicano anche attraverso i social network, ma con pagine collettive e non con singoli profili, per evitare gli arresti. Le due battaglie Sono accomunati da due battaglie: la prima è impedire agli israeliani di impossessarsi della moschea Al Aqsa, la seconda è l'impegno per «liberare» gli arabi di Gerusalemme «che vivono assediati»

(La Stampa, 6 ottobre 2015)
  

Una giornata contro Israele alla Fondazione Lelio Basso

Con il "consiglio" di Rodotà, Barca e Settis

di Giulio Meotti

ROMA - "Lelio Basso il fedayn" è il titolo di un articolo sulla Stampa di Torino del novembre 1974 a firma di Carlo Casalegno. "Il suo piano per la soluzione del problema palestinese riprende di fatto il programma dei fedayn, ma auspicandone l'attuazione in tempi lunghi", scriveva il giornalista che sarà assassinato dalle Brigate Rosse. Il senatore Lelio Basso sul Corriere della Sera aveva spiegato che non è "proponibile oggi la cacciata degli ebrei dalla Palestina", e non si capiva se per Basso fosse troppo tardi o troppo presto per scacciare Israele. L'Inghilterra secondo Basso non aveva da principio il diritto di offrire agli ebrei un "focolare nazionale" e l'Onu non aveva il diritto di procedere a una "spartizione arbitraria". Ma poiché il danno ormai era fatto, occorreva porvi rimedio: Basso propose di annullare la spartizione del 1947 e togliere il riconoscimento internazionale a Israele.
   Non deve sorprendere quindi che il 7 ottobre la Fondazione Lelio Basso di Roma abbia organizzato una giornata di studi sugli "incitamenti israeliani alla violenza razzista" e l'uso in Israele di "un linguaggio che tende a dimenticare la natura umana di Palestinesi, Africani ed altri non-Ebrei, ispirando attacchi che vanno dalle aggressioni individuali fino ai bombardamenti sui civili". Ospite d'onore della Fondazione Basso sarà David Sheen, uno dei dirigenti del movimento Bds per il boicottaggio di Israele, bandito per questo dal Parlamento tedesco. E' il "toiletgate", ovvero Gregor Gysi, leader della Linke tedesca, che impedisce a Sheen l'ingresso a un incontro ufficiale del partito in Parlamento, perché aveva più volte paragonato Israele alla Germania nazista. Gysi non ha voluto incontrarlo, Sheen lo ha inseguito e il leader tedesco si è chiuso in bagno pur di evitarlo. Indegno persino per i bagni del Bundestag, Sheen, ma degno oratore senza contraddittorio alla Fondazione Basso. La Fondazione sposa le tesi del "Tribunale Russell sulla Palestina", che Sheen si premunirà di esporre mercoledì, ovvero questa sorta di tribunale permanente composto da ex politici, giuristi e premi Nobel per la Pace che vogliono far processare Israele dalla Corte penale dell'Aia. Chissà cosa pensano dell'incontro di mercoledì i consiglieri della Fondazione Basso, come l'ex ministro Fabrizio Barca, il giurista Luigi Ferrajoli, l'ex garante Stefano Rodotà e l'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis, tanto per citare soltanto alcune delle personalità che siedono nel board della fondazione (direttore scientifico Giacomo Marramao). Qualcuno potrebbe rinverdire loro la memoria con "Il Corriere del Vietnam", il quindicinale creato da Lelio Basso come organo della sezione italiana del Tribunale Russell, che cambiò addirittura nome in "Guerra di Popolo". Nel primo numero, uno dei fedayn che uccideva famiglie in Israele disse al giornale: "La lotta per la liberazione della Palestina non è solo lotta contro Israele e il sionismo, ma contro l'imperialismo e non si dovrà fermare neppure dopo la liberazione".
   Mercoledì si sentiranno gli stessi echi per le vie della Città Vecchia a Gerusalemme e in via della Dogana Vecchia numero cinque a Roma.

(Il Foglio, 6 ottobre 2015)
  

Etichette ai prodotti, Israele sotto tiro

di Marcello Miafer*

Non è ancora facile valutare quale sarà l'incidenza pratica di una recente delibera del Parlamento europeo. Si tratta di un atto deliberativo preso a grande maggioranza su sollecitazioni di diversi governi nazionali, tra cui quello italiano, che impone di etichettare i prodotti israeliani realizzati negli insediamenti, permettendo ai consumatori di non acquistarli in modo da esprimere la disapprovazione per la presenza delle colonie ebraiche nei territori palestinesi.
   Al contempo in Europa vi sono elementi che operano per il boicottaggio d'Israele e di tutto quello che lo riguarda. Contrariamente a quanto da loro sostenuto, si tratta di attività finalizzate non a colpire la produzione degli insediamenti, ma a delegittimare la stessa esistenza dell'unico Stato ebraico al mondo. Quel che è certo è che tale risoluzione appare vile sul piano morale e velenosa su quello politico.
   Ammesso che l'orientamento del Parlamento europeo fosse veramente di risolvere il problema degli insediamenti ebraici, è assolutamente certo che i suoi effetti andranno nella direzione esattamente contraria, dal momento che non farà che allontanare enormemente ogni minima possibilità di soluzione del conflitto e quindi del connesso problema delle colonie.
   L'Europa pare immaginare e desiderare la soluzione del conflitto, perciò si attiva per uno Stato ebraico senza insediamenti. Strano però che l'unico aspetto del futuro Medio Oriente pacificato sia questo e nessun altro. Chiede un futuro senza insediamenti nei territori attualmente contesi e trova sgradevole, fastidiosa e petulante la domanda se tale futuro debba essere pur sempre con Israele.
   La verità, come riporta il ministero degli Esteri israeliano, è che siamo di fronte a un pregiudizio contro Israele, che non tiene conto di come le posizioni e i voti di certi parlamenti in Europa abbiano un effetto fortemente discriminatorio contro lo Stato ebraico che ricorda da vicino un passato già vissuto.
   Il razzismo sembra riemergere. Quello che oggi succede ad altri in Europa è già successo e può accadere ancora. Barriere, respingimenti, confini chiusi. Un nazionalismo che rialza la testa e il sogno europeo infranto. Impossibile non collegare l'etichettatura dei prodotti provenienti da quei territori a certi simboli degli anni '30 e '40.
   Il paragone è eccessivo e forzato? Non esiterò a riconoscerlo nel momento in cui verrà deliberato di etichettare i prodotti di qualche altro «cattivo» sulla faccia della Terra. La delibera del Parlamento europeo, se deprecabile sul piano morale, lo è altrettanto sul piano politico: è del tutto evidente che essa non farà che rinfocolare ed esaltare tutte le forme di aggressività e di violenza da parte degli innumerevoli nemici di Israele, che vi troveranno la conferma della giustezza nelle loro ostilità, mentre saranno definitivamente zittite e soffocate le residue e ipotetiche forze «moderate» alle quali l'Europa leva ogni voce e legittimità.
   Adesso c'è da aspettarsi che qualsiasi atto mosso contro lo Stato ebraico avrà il viatico dell'Europa. Che buona parte delle nazioni si rifiutino di accettare la sua democrazia, i valori che lo caratterizzano e il suo generoso contributo nel mondo sorprende e amareggia.

* Presidente Associazione trentina Italia-Israele

(Corriere del Trentino, 6 ottobre 2015)
  

Il capolavoro di Renzi in Siria: 11 milioni regalati ai terroristi

La verità su Greta e Vanessa. Così l'Italia le ha liberate. Il governo ha sempre smentito, ma ora un gruppo di jihadisti racconta: per le due cooperanti rapite pagato un mega-riscatto. Il gruppo che ha preso il bottino è coinvolto nelle stragi di cristiani.

di Gian Micalessin

 
Vanessa e Greta...
durante il rapimento...
e prima del rapimento
«Sul riscatto illazioni prive di fondamento». «Ho letto ricostruzioni (...) prive di reale fondamento e veicolate da gruppi terroristici. Siamo contrari ad ogni tipo di riscatto». Le due frasi vengono pronunciate alla Camera dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni il 16 gennaio scorso, all'indomani della liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sequestrate in Siria il 31 luglio 2014. Quelle due frasi suonano oggi come una doppia plateale menzogna. Per riportare a casa le due sprovvedute «cooperanti» non solo abbiamo consegnato 12 milioni di dollari (11 milioni di euro) ai rapitori, ma abbiamo contribuito a finanziare un gruppo che - oltre a non averne bisogno perché già sul libro paga di Cia e Arabia Saudita - è anche coinvolto nelle stragi dei cristiani di Aleppo.
   A regalarci la verità sul riscatto ci pensa «Nour al-Din alZenki», la formazione coinvolta nel sequestro, divulgando il verbale del processo messo in piedi per punire un militante accusato di essersi intascato 5 dei dodici milioni e mezzo di dollari (11 milioni di euro) incassati in cambio della liberazione di Greta e Vanessa. Il verbale, recapitato via internet all'agenzia Ansa, spiega che un tale Hussam Atrab, capo di una formazione minore all'interno dei gruppuscoli riconducibili a «Nour Al-Din Al Zenki», è stato condannato perché colpevole di aver sottratto 5 dei dodici milioni e mezzo di dollari incassati grazie al sequestro. Il concetto è chiaro. «Nour Al Din Al-Zenki», un gruppo considerato fondamentale per combattere Bashar Assad nella zona di Aleppo e per questo sul libro paga della Cia e dei Sauditi, non considera un reato o un illecito il rapimento delle due italiane. La sua unica preoccupazione è far sapere di aver impartito una punizione esemplare a chi - dopo aver incassato i milioni dell'Italia non li ha spartiti equamente con i propri complici.
   Il giudizio etico su un gruppo di tagliagole pronto a rapire due ingenue straniere è ovviamente superfluo. Meno superflue sono invece, le considerazioni politiche sull'operato del nostro governo. Un governo che per bocca del suo ministro degli Esteri rifila al Parlamento, per ben due volte di seguito nella stessa audizione, quella che ormai risulta un'acclarata menzogna. Una menzogna peraltro inutile visto che Gentiloni avrebbe potuto, come già avvenuto in passato, trincerarsi dietro il silenzio o un giustificatissimo «no comment».
   Ma ancor più singolare risulta, alla luce di quanto si apprende oggi, l'inadeguatezza politica del nostro esecutivo. Un esecutivo evidentemente incapace, durante i 5 mesi e mezzo del rapimento, di coinvolgere l'alleato americano convincendolo a far pressioni sui militanti di «Nour Al Din Al-Zenki» - ai quali la Cia garantisce dal 2012 stipendi mensili da 150 dollari - per ottenere la liberazione di Greta e Vanessa. Un governo Renzi che, con i 7 milioni e mezzo di dollari rimasti nelle casse dell'organizzazione dopo l'indebita sottrazione del signor Hussam Atrab, ha finanziato un gruppo responsabile dell'assedio dei quartieri cristiani di Aleppo e della morte di centinaia di civili che vi abitano.
   «Nour Al Din Al Zenk», famoso per esser stato uno dei primi gruppi a dar il via all'assedio di Aleppo nell'agosto 2012, resta a tutt'oggi una delle formazioni più attive all'interno della città. Sono gli uomini di «Nour Al Din Al-Zenki» a combattere tra le rovine dell'antica Cittadella nel cuore di Aleppo. E sono loro a bersagliare i quartieri cristiani di Aleppo impiegando dei mortai giganti capaci di utilizzare come proiettili le bombole del gas. Bombole del gas che - come constatato da chi scrive durante un reportage nel quartiere armeno cristiano di Aleppo - riescono a distruggere l'intero piano di un condominio uccidendo chiunque vi abiti.
   Proprio grazie alle posizioni strategiche controllate nel cuore di Aleppo «Nour Al-Din AlZenki» ha continuato a ricevere il pagamento dei salari e i rifornimenti della Cia anche dopo la decisione di Washington, del dicembre 2014, di sospendere tutti gli appoggi e i finanziamenti agli altri gruppi della ribellione siriana.
   Un gruppo evidentemente così prezioso da rendere irrilevanti persino le richieste di aiuto avanzate a suo tempo degli alleati italiani governati da Matteo Renzi.

(il Giornale, 6 ottobre 2015)
  

Arabia Saudita e Israele: tra interesse strategico e identità

di Sveva Sanguinazzi

Mentre l'attenzione mondiale è concentrata sull'accordo nucleare iraniano, Riyadh e Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
discutono (in segreto) di una comune strategia contro Teheran e svelano un inedito scenario nel Medio Oriente. I due Paesi sono davvero pronti a collaborare mettendo da parte i loro decennali contrasti?


 Le origini dell'ostilità
 
Il generale saudita Anwar Majed Eshki (sinistra) e il direttore del ministero degli Esteri israeliano Dore Gold (destra) durante un incontro del Council of Foreign Relation a Washington, giugno 2015
  L'assenza di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele ha ragioni storiche profonde e durature. Già nel 1945 il Re Ibn Saud esprimeva la propria contrarietà alla fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, avvertendo F. D. Roosevelt che ciò avrebbe scatenato decenni di scontri nel Medio Oriente e raffreddato l'amicizia fra Riyadh e Washington. La componente ideologico-simbolica, evidentemente sottovalutata dai potenti dell'epoca, gioca un ruolo centrale nella comprensione dell'avversione reciproca. Il Regno, infatti, è il leader spirituale della comunità musulmana (sunnita) e i suoi sovrani sono i Custodi dei Luoghi Sacri dell'Islam, titolo che infonde autorevolezza alla famiglia regnante e le permette di influenzare la politica degli alleati regionali. Israele, perciò, è visto come usurpatore di Gerusalemme, terza città santa per i musulmani, e oppressore dei palestinesi. Inoltre ciascuna compagine ritiene di essere l'esclusivo guardiano della stabilità dell'area mediorientale. Durante la Guerra Fredda Washington faceva leva sugli interessi sauditi e israeliani per contenere l'espansionismo sovietico e riempire il vuoto lasciato dalla rottura iraniana, creando relazioni privilegiate con i due Paesi, che diventano i principali alleati della politica estera statunitense nella regione. Tale retaggio riemerge soprattutto con la Guerra del Libano (2006) e le Primavere arabe (2011), quando Riyadh e Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
si contendono la "regia" delle crisi mediorientali al fine di garantire esiti favorevoli per le proprie priorità.

 La (ritrovata) convergenza strategica
  Le priorità saudite riguardano soprattutto l'ampliamento della propria sfera d'influenza regionale e la costruzione di una rete di alleanze che tuteli la sicurezza dei confini del Regno (Yemen) e la sua egemonia simbolica sulla comunità musulmana (Iran e Qatar). Tradizionalmente gli Al Saud sono impegnati a creare un Medio Oriente privo di armi atomiche, perché preferiscono ricorrere alla diplomazia e intervenire solo in caso di minaccia concreta alla stabilità interna e agli equilibri loro favorevoli. Israele, da parte sua, mira a sopravvivere e imporsi in una regione ostile, dalla quale sono ripetutamente giunte minacce di distruzione (Iran), nonché a rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti. Tuttavia, pur condividendo la paura dell'accerchiamento (Libano, Siria, Egitto), adotta una politica aggressiva e punta alla superiorità militare-nucleare come elemento di deterrenza e sopraffazione. Nonostante la divergenza di strategie, emerge chiaramente la condivisa preoccupazione per gli esiti imprevedibili dei conflitti regionali e, soprattutto, per il rinvigorimento dell'Iran a seguito dell'ufficializzazione dell'accordo sul nucleare. La notizia, infatti, è stata accolta con aperta ostilità da Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
, che teme l'ampliamento del sostegno a favore di Hezbollah e di Hamas e una radicalizzazione degli scontri, nonché la perdita dell'esclusività nucleare e della solida alleanza con gli Stati Uniti. Riyadh, invece, ha reagito con malcelata insofferenza all'idea di un Iran nucleare e bramoso di imporre le proprie ambizioni egemoniche sull'intera regione. Gli Al Saud, infatti, paventano il rafforzamento delle fazioni sciite in prossimità dei confini nazionali (Yemen, Bahrein, Siria, Iraq) e la marginalizzazione del loro ruolo sia nell'economia mediorientale che nella resistenza palestinese, dove Teheran è tra i principali sostenitori di Hamas ai danni del filo-saudita Fatah. Proprio questi temi sono stati al centro dei cinque incontri segreti tra Riyadh e Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
degli ultimi diciassette mesi, nel tentativo di trovare una strategia comune ed efficace per contrastare Teheran. Per quanto insolito, non è la prima volta che i due Paesi convergono in materia di sicurezza: è avvenuto in passato sia durante la guerra yemenita (1962-1967), contro le forze repubblicane sostenute dall'egiziano Nasser, sia nella prima guerra del Golfo (1991), contro l'aggressore iracheno.

 La (ritrovata) convergenza strategica
  L'attuale soccorso reciproco avviene in un contesto che presenta principalmente due elementi inediti rispetto alle precedenti collaborazioni e, per questa ragione si parla di svolta storica negli equilibri mediorientali. Innanzitutto, dalla Siria allo Yemen, sono in corso guerre civili che vedono opporsi sciiti e sunniti e i cui esiti sono imprevedibili. Un Iran rinvigorito, dunque, può finanziare cospicuamente i gruppi amici, che indirettamente ne diffondono l'influenza. E, secondariamente, gli Stati Uniti si sono impegnati in prima linea per coinvolgere Teheran nelle negoziazioni nucleari. In questo riavvicinamento, Riyadh e Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
vedono il tentativo di Washington di ricucire una preziosa alleanza strategica, approfittando del raffreddamento delle loro reciproche relazioni a seguito delle divergenze rispetto al colpo di Stato in Egitto (2013) e al conflitto siriano. Si tratta, insomma, di circostanze che spiegano il desiderio di avviare, seppur informali, politiche strategiche comuni. Ciononostante non sembrano sussistere le condizioni per un'alleanza ufficiale con obiettivi di lungo periodo. Seppur vitali per due Paesi ambiziosi, la tutela della sicurezza nazionale e del prestigio regionale in particolari congiunture storiche, non riparano decennali rivalità e non colmano l'assenza di fiducia reciproca, presupposto essenziale per una proficua collaborazione: nessuno è disposto a correre il rischio che l'altro diventi egemone a proprie spese. Le ambiguità sono numerose. In primo luogo, l'Arabia Saudita non riconosce la legittimità di Israele. Sebbene per gli Al Saud la distruzione dello Stato ebraico sia ormai anacronistica potendone sfruttare le tecnologie militari, il Governo di Gerusalemme
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
resta simbolicamente un nemico dell'Islam. La famiglia reale, pertanto, deve bilanciare le esigenze di stabilità interna con il proprio ruolo nell'intero mondo musulmano, che mal si concilia con un'intesa formale a favore di un'esigenza particolare a scapito di interessi regionali. In secondo luogo, infatti, proprio l'assenza di miglioramenti nelle trattative dell'irrisolta questione palestinese aumenta la diffidenza araba verso i reali obiettivi israeliani. Per i sauditi questo è il nodo cruciale da sciogliere per il trionfo della propria diplomazia e per l'acquisizione di un prestigio regionale senza precedenti. Negli incontri segreti, tuttavia, si è invano riproposta la soluzione del ritiro di Israele
Nell’originale sta scritto erroneamente “Tel Aviv”. Abbiamo corretto
entro i confini del 1967 in cambio di una normalizzazione delle relazioni con i Paesi mediorientali. Infine, Israele teme la natura assolutista e imprevedibile del regime di Riyadh: lontano da qualsiasi tradizione repubblicana e liberale, le priorità e le strategie saudite possono cambiare in qualsiasi momento a seconda delle sopraggiunte priorità personali e nazionali indicate dal sovrano. A queste condizioni risulta davvero improbabile siglare un accordo che superi la storia e vada oltre la pragmatica individuazione di strategie comuni e contingenti.

(Il Caffè Geopolitico, 5 ottobre 2015)


La "Latte Alberti" sbarca all'Expo 2015 con il gelato del padiglione Israele

Sono oltre 15 mila i kg di gelato preparati con il latte e la panna della "Latte Alberti" dal Maestro Gelatiere Massimo Conti, patron della gelateria presente all'interno del padiglione Israele.

 
MILANO - Israele attraverso Expo 2015. La "Latte Alberti" sbarca all'esposizione universale grazie ad uno dei prodotti più amati al mondo, il gelato. A scoprire l'attitudine del latte e della panna della storica azienda dell'immediato entroterra imperiese è stato il maestro gelatiere Massimo Conti, della scuola internazionale di cucina ICIF, con sede a Costigliole d'Asti. Conti e il suo staff, dal primo di maggio, hanno prodotto oltre 15 mila kg di gelato presso il padiglione di Israele. Nei mesi scorsi hanno anche ricevuto la visita e i complimenti del primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Tra i gusti più particolari prodotti dalla gelateria: la vaniglia israeliana variegata con miele di datteri e granella di nocciola e il gusto allo yogurt israeliano con acqua di rosa variegato alla marmellata di albicocca e granella di pistacchi.
   "La materia prima - spiega il Maestro Massimo Conti - è l'aiuto migliore per ottenere un gelato che non poteva essere più buono. Il successo che abbiamo ottenuto in questi cinque mesi, ormai quasi sei, è stato un mix di esperienze, ma anche di scelte di materie prime. Il nostro gelato è a base di latte e di panna, i grassi sono dati da quest'ultima per cui naturale al 100%, e il riscontro è stato assolutamente comprovato dai 15 mila chili prodotti".
   Abbiamo creato il fior di panna Alberti, che è consiste in una base leggerissima di nocciola che esalta molto il gusto della panna, di conseguenza un gusto originale che di solito prevede il caramello, noi qui all'EXPO abbiamo messo il Silan per dare quest'immagine israeliana fino in fondo. Il Silan è il miele di dattero, assomiglia moltissimo al caramello ma in realtà da un gusto molto intenso e abbiamo quindi esaltato ulteriormente questo fior di panna".
   "Il 2015 - racconta Matteo Alberti - è stato un anno che ha coinvolto particolarmente la "Latte Alberti" qui a Milano, a partire dalla partecipazione a "Tutto Food" e finendo a ottobre con il Campionato del Mondo di Pasticceria" al quale noi parteciperemo come fornitori in esclusiva per la panna. In questi sei mesi siamo stati fornitori in esclusiva per la gelateria all'interno del padiglione Israele, dove è stato fatto gelato e panna a base di nostri prodotti. Voglio complimentarmi con il maestro Massimo Conti che ha saputo valorizzare al meglio il gelato, devo dire un'ottima realizzazione. Per di più ha creato questo gusto a base di panna Alberti che trovo davvero delizioso. Tutto questo grazie al merito dell'ICIF, scuola internazionale di cucina, con la quale collaboriamo ormai da anni. Una collaborazione proficua e utile soprattutto quest'anno per l'EXPO 2015 il cui tema è proprio "nutrire il pianeta, energia per la vita", quindi direi un tema nel quale "Latte Alberti" rientra perfettamente. Siamo davvero molto contenti di poter essere qui e di essere stati qui per 6 mesi e devo dire che i numeri confermano la scelta azzeccata. Abbiamo fornito un quantitativo di prodotto molto importante, direi quindi un evento molto riuscito e i numeri lo confermano".

(Fonte: ImperiaPost, 5 ottobre 2015)


Basket - L'Olimpia Milano vince col Maccabi Tel Aviv a New York

L'Olimpia Milano si è presa la rivincita, nel World Tour, sul Maccabi Tel Aviv e si è aggiudicato il match del Madison Square Garden di New York, davanti a 10.000 spettatori, contro gli israeliani che avevano vinto a Chicago venerdì scorso.
L'EA7 ha vinto 76-72 con le buone prove di Robbie Hummel e Kruno Simon nel primo tempo e di Milan Macvan nella ripresa, oltre che di un Andrea Cinciarini chirurgico, 4/4 dal campo, 3/3 dalla linea e canestri segnati anche in momenti importanti.
Il Maccabi come aveva fatto l'Olimpia a Chicago ha rimontato, da meno 10, è andato avanti di quattro, ha provato a vincerla nel quarto ma in generale ha subito. La vittoria dell'Olimpia è stata brillante e meritata.
L'Olimpia con una partenza in quarta mette alle corde il Maccabi. La risposta gialla arriva a suon di canestri in contropiede e una sfuriata del baby fenomeno Dragan Bender. Il Maccabi va avanti di 4 ma Kruno Simon guida la risposta. Alla fine del primo periodo è 16-12 perché la tripla di Simon è vanificata da quella di Bender sulla sirena. Ma l'Olimpia gioca un secondo quarto devastante da 26 punti con Hummel e Simon infuocati. Il vantaggio complice una bomba di Gentile sale due volte a 10 punti. Una tripla di Landesberg riporta il Maccabi a meno cinque. Ma Cinciarini risponde poi una grande esecuzione porta al canestro dalla media di Cerella. All'intervallo è 38-31 Olimpia che ha 6/13 da tre.
Nel secondo tempo, Sylven Landesberg guida la rimonta del Maccabi, l'Olimpia risponde con Cinciarini e un lungo jumper di McLean. Ma a metà quarto, Coach Repesa ferma la partita quando il vantaggio si è ridotto ad un punto, 47-46. L'Olimpia però torna a macinare gioco e con Barac e Macvan recupera quattro punti di vantaggio. Un tecnico per simulazione sanzionato ad Amato genera un possesso da quattro punti a causa della seguente tripla di Devin Smith. L'Olimpa però risponde ancora con una palla dentro e canestro di Barac. Alla fine del terzo è pari a quota 57. Il Maccabi mette la testa avanti con una bomba di Farmar e un gancio di Faverani ma l'Olimpia replica con Simon e Macvan poi anche un rimbalzo offensivo di Barac e va avanti 75-70 anche se Farmar in ritmo al tiro è un problema per la difesa. McLean ruba palla e guadagna tempo mentre nell'ultimo minuto Cinciarini e Gentile devono gestire i 4 falli. Randle schiaccia il meno tre. L'Olimpia attacca con i quattro angoli per mangiare tempo. A 11 secondi Hummel fa 1/2. Il Maccabi chiama time-out ma la rimessa la ruba McLean e l'Olimpia si prende il Garden.

(TodaySport, 6 ottobre 2015)


Bon Jovi: in concerto a Tel Aviv dedica una "canzone di lotta" a Israele

"Non fuggiamo, rimaniamo al nostro posto, non fuggiamo e non ci arrenderemo".

Il suo tour in Israele era stato preceduto da polemiche, in particolare aveva protestato l'ex Pink Floyd Roger Waters che da sempre si batte per boicottare i concerti in quel paese, sostenitore invece della causa palestinese. Ma i Bon Jovi si sono recati ugualmente in Israele dove sabato sera si sono esibiti in concerto a Tel Aviv. Ed è stato in questa occasione che il cantante e leader della band Jon Bon Jovi non solo ha dichiarato di essere ben felice di trovarsi in questo paese che, ha detto, ha sempre desiderato visitare, ma ha anche dedicato una canzone dai toni molto espliciti al popolo israeliano. Il brano in questione si intitola We don't run (noi non scappiamo) dicendo che il brano in questione dovrebbe essere "la canzone di lotta per Israele" cioè un vero inno di battaglia. Il brano recita questi versi: "Non fuggiamo, rimaniamo al nostro posto, non fuggiamo e non ci arrenderemo".

(Fonte: ilsussidiario.net, 5 ottobre 2015)


Expo: Italia-Israele, Simposio Archeologia il 7 e 8 ottobre

Dagli acquedotti romani all'irrigazione goccia a goccia.

MILANO - Italia e Israele si incontrano a Expo anche in nome dell'Archeologia: è stato organizzato per mercoledì 7 e giovedì 8 ottobre al Padiglione israeliano il Simposio di Archeologia Italia-Israele, dedicato a questo tema: "dagli acquedotti romani all'irrigazione goccia a goccia".
Esperti, archeologi e luminari italiani e israeliani si confrontano sull'attitudine propria di Israele di saper fare ricchezza delle innovazioni culturali ereditate dalla storia senza mai smettere di affrontare nuove sfide da superare grazie all'ingegno e alla tecnologia.
Il primo giorno (ore 14:30) viene presentata la cooperazione tra il Politecnico di Milano e l'Istituto Shenkar di Tel Aviv al fine di musealizzare l'antica città di San Giovanni d'Acri (Akko), Patrimonio mondiale dell'umanità. Gli esperti italiani e israeliani spiegano come agricoltura abbia influenzato la formazione di questa cittadella templare e di tanti altri panorami culturali in Italia e in Israele.
Il secondo giorno sarà invece dedicato all'acqua. I paesaggi di Israele sono impreziositi dalle vestigia degli acquedotti romani fin dall'epoca di Augusto. Tutte queste opere sono sorte per soddisfare l'esigenza dello sfruttamento delle acque a fini agricoli e trovano una naturale evoluzione nelle modernissime tecnologie di irrigazione goccia a goccia che ha permesso di trasformare un paesaggio semi-arido in un territorio fertile.
L'evento è stato realizzato dall'Ambasciata di Israele a Roma e dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Direzione Generale Archeologia, in collaborazione con la IIA, Israel Antiquities Authority,l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo e la Soprintendenza Archeologia della Lombardia.

(ANSA, 5 ottobre 2015)


Giovane palestinese ucciso negli scontri con l'esercito israeliano

Caos anche in Cisgiordania. Netanyahu isola la Città Vecchia di Gerusalemme dopo gli ultimi attacchi.

Un palestinese di 18 anni è stato ucciso questa notte in scontri con l'esercito israeliano nei pressi della città di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania. Lo riportano i media palestinesi aggiungendo che oltre a Hudhayfah Ali Suleiman (il nome del giovane ucciso), altri quattro palestinesi sono rimasti feriti dal fuoco dell'esercito.
   Dopo il razzo lanciato ieri sera da Gaza e caduto nel sud di Israele, in risposta l'aviazione ha colpito la notte scorsa un «sito del terrore» di Hamas nel nord della Striscia. Lo dice il portavoce militare Peter Lerner che ha definito il lancio del razzo «un chiaro, codardo e crudele atto di terrorismo» e di cui ritiene «responsabile» Hamas. Dall'inizio del 2015, sono 16 i razzi lanciati da Gaza verso Israele.
   Il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha accusato Israele di cercare un'«escalation» per giustificare lo stallo nel processo di pace. Dopo che il premier, Benjamin Netanyahu, ha annunciato nuove misure di sicurezza in risposta ai disordini sulla Spianata delle Moschee e agli attacchi contro gli israeliani, Abu Mazen in una nota ha affermato che «la parte israeliana e il suo governo sono interessati a trascinare tutto in un ciclo di violenza». «Stanno cercando un'escalation alla moschea di Al Aqsa e sugli attacchi ai coloni per sfuggire alla loro impasse politica e al loro isolamento internazionale», si legge nella nota diffusa da Ramallah.
   Scosso da tre attentati palestinesi in tre giorni, Israele ha adottato misure straordinarie di sicurezza fra cui spicca un isolamento senza precedenti del punto di maggior frizione: la Città Vecchia di Gerusalemme. Il bilancio di sangue dell'ultima giornata a Gerusalemme è impressionante: due israeliani uccisi in attentati e altri quattro feriti, due assalitori palestinesi pure freddati dalla polizia. Ma in un caso la famiglia sostiene che il congiunto è stato ucciso per errore. L'ondata di violenza ha contagiato la Cisgiordania. Per tutta la giornata incidenti sono stati segnalati in diverse località, con scene che hanno ricordato da vicino la intifada.

(La Stampa, 5 ottobre 2015)


"Questa volta non riguarda solo Israele. Devono aiutarci i nostri vicini arabi"

Shaul Mishal: "L'epicentro è Gerusalemme, la soluzione è regionale".

 
Shaul Mishal
GERUSALEMME - La terza Intifada è iniziata, ruota attorno a Gerusalemme e ha una dimensione regionale»: ad affermarlo è Shaul Mishal, direttore del programma sul Medio Oriente al centro di studi "Idc Herzlya".

- Perché le violenze in atto sono l'inizio della terza Intifada?
  «Sono eventi singoli ma non sporadici, hanno come epicentro Gerusalemme ma si stanno estendendo al resto della Cisgiordania. È l'inizio di una rivolta violenta. Per molti israeliani ammetterlo è difficile perché investe la città di Gerusalemme».

- Cosa distingue questa Intifada da quelle precedenti?
  «Il fatto di avere un valore regionale, religioso, che va oltre il conflitto fra israeliani e palestinesi. Le due Intifade precedenti erano un fatto bilaterale, adesso invece l'epicentro a Gerusalemme coinvolge il mondo musulmano, i nostri vicini come Egitto e Giordania, e l'Arabia Saudita. I Paesi sunniti si sentono coinvolti, partecipi in quanto sta avvenendo».

- Cosa comporta per Israele?
  «Che la reazione è assai più difficile del passato. Le precedenti Intifade vennero affrontate con rimedi di sicurezza, misure tese a punire gli autori delle violenze ed esercitare deterrenza per impedirne il ripetersi. Ora Israele invece è obbligata a contenere la reazione di sicurezza a Gerusalemme, dove ogni singolo gesto può innescare reazioni negative di Egitto e Giordania - con cui abbiamo dei trattati di pace - e del mondo arabo-sunnita».

- Quali sono le opzioni che il premier Benjamin Netanyahu ha a disposizione?
  «Adotterà rigide misure di sicurezza, ma da sole non basteranno. Deve anzitutto incontrare il presidente palestinese Abu Mazen al fine di riportare la situazione sotto controllo.(*) È importante ripristinare il dialogo con il presidente palestinese perché l'assenza di contatti diretti giova alla violenza. Ma, nel medio-lungo termine, Netanyahu è chiamato a dare una risposta regionale a questa terza Intifada».

- Cosa intende dire?
  «Che deve coinvolgere Giordania, Arabia Saudita e forse anche Egitto. Magari invitando qualche importante personalità, direi religiosa, di questi Paesi a visitare Gerusalemme. La Città Santa alle fedi monoteistiche in questo momento è all'origine dell'escalation, perché i palestinesi cavalcano il tema della moschea di Al Aqsa, ma può diventare l'esatto opposto ovvero il punto di incontro fra Israele e Paesi sunniti. Per disinnescare l'Intifada e magari porre le basi per un processo regionale più ampio, capace di affrontare i nodi del persistente conflitto con i palestinesi».

(La Stampa, 5 ottobre 2015)


(*) Che in Israele ci sia qualcuno che ancora oggi possa consigliare a Netanyahu di incontrare Abu Mazen “al fine di riportare la situazione sotto controllo”, è stupefacente. Abu Mazen sta tentando disperatamente di galleggiare sui fatti al solo fine di non precipitare a fondo e sparire definitivamente dalla scena. M.C.


Israele verso la terza Intifada nell'indifferenza dell'Europa

Un quindicenne israeliano accoltellato ieri dopo i due morti di sabato Ma poco è cambiato rispetto al passato: il mondo ignora gli ebrei uccisi.

di Fiamma Nirenstein

L'ultimo passante israeliano attaccato da un palestinese nel nome della Moschea di Al Aqsa è stato un ragazzino di 15 anni a una stazione di benzina. Ma ogni minuto è buono per aggiornare la lista coi nomi di qualche altro sfortunato: giovane, vecchio, mamma, bambino. Dodici ore prima, sabato sera, è stata la volta di due uomini uccisi in Città Vecchia (che ieri Israele ha deciso di chiudere ai palestinesi), una donna e un bambino di due anni feriti da un certo Muhannad Halabi di 19 anni, che ha scritto su Facebook: «...è iniziata la Terza Intifada. Ciò che accade alla Moschea di Al Aqsa, accade ai luoghi sacri e al profeta Mohammed, alle nostre madri e sorelle. Il popolo non soccomberà all'umiliazione». Sulla stessa nota giovedì sera sono stati assassinati Eitam Henkin, uno studioso dell'Università di Tel Aviv, e sua moglie Na'ama, graphic designer , tornavano (siamo in piene feste ebraiche) alla loro comunità in Samaria. È avvenuto davanti agli occhi dei loro bambini, dai 4 mesi ai 9 anni. Il bambino di 9 anni ha voluto assistere al funerale dei suoi, solo, ritto, scosso tutto il tempo dal pianto, a occhi sbarrati. Il 13 settembre Alexander Levlovitz di 64 anni ha perso il controllo dell'auto presa a pietrate ed è stato così ucciso. Il sistema delle pietre «mezzo non violento» è stato perfezionato nel tempo, i casi sono innumerevoli, gli assassini ormai corrono in auto verso chi vogliono uccidere e per aumentare la velocità dei sassi li lanciano da vicino. Nel settembre 2011 furono uccisi insieme così, uno dei tanti esempi, Asher Palmer e il suo bambino di un anno. Dall'inizio del 2015 ci sono già stati, fra pallottole, auto che investono i passanti, pugnalati, sassi, 30 morti. Fra i casi noti la famiglia Fogel sterminata a Itamar nel 2011, padre, madre, i bambini di 3 mesi, 3 anni, 11 anni. Hanno tagliato la gola a tutti.
  È la Terza Intifada, come dicono molti? Il fatto è che la Seconda non è mai finita nelle motivazioni, nella forma, nell'indifferenza del mondo, nella copertura fornita dall'Autonomia Palestinese e dall'opinione pubblica occidentale. La spiegazione nazional-religiosa della rottura israeliana dello status quo circa le Moschee, è falsa. Israele non ha mostrato nessuna intenzione di cambiare gli accordi del '67, che semmai ha subito continui cambiamenti nella restrizione delle visite degli ebrei e anche dei turisti da parte delle autorita musulmane dell'Waqf. Non si capisce perché la sovranità sulle moschee, concessa da Israele dopo la guerra dei Sei Giorni, sia diventata apartheid nei confronti degli ebrei che non entrano nelle moschee, ma si limitano a visitare il Monte su cui sorgeva il loro più importante santuario. Che poi Arafat abbia avuto la geniale trovata propagandistica di negarne l'esistenza, è solo una dimostrazione del rifiuto dei palestinesi a riconoscere il diritto di nascita del popolo ebraico. In secondo luogo, le parole di Abu Mazen («Noi benediciamo ogni goccia di sangue versata per Gerusalemme... ogni shahid raggiungerà il paradiso, la moschea di Al Aqsa è nostra, nostra la Chiesa del Santo Sepolcro, ed essi non hanno diritto di dissacrarle con i loro piedi sporchi») ricordano quelle con cui Arafat lanciò la Seconda Intifada esaltando il martirio per Gerusalemme. In realtà se le moschee sono sicure dalla barbarie iconoclasta, è perché Israele, senza nessuna pretesa se non quella, negata, di visitare la Spianata (non le moschee) le protegge. L'eventuale Terza Intifada è identica alla prima nell'indifferenza del pubblico europeo che maschera la sua indifferenza verso gli ennesimi ebrei uccisi: i palestinesi usano il terrore a causa dell'«occupazione», tanto che i prodotti della Giudea e della Smaria saranno etichettati per evitare che il pubblico li compri. È uno scandalo conoscitivo e morale. I territori devono essere suddivisi in trattative che i palestinesi rifiutano, da Barak a Olmert a Netanyahu, e la loro eventuale consegna all'autorità palestinese deve assicurare, secondo l'Onu, le garanzie per la sicurezza di Israele. Ma di quali garanzie si può parlare mentre Hamas condanna a morte Israele e Abu Mazen incita i suoi con accuse di apartheid, di pulizia etnica, di essere il nemico numero uno dei musulmani. Gli omicidi di massa in Israele sono consentiti dallo sfondo di menzogne da cui l'Europa, come finalmente ha scritto ieri Angelo Panebianco sul Corriere , deve staccarsi dichiaratamente. La Bbc ha titolato dopo l'assassinio dei due uomini in Città Vecchia: «Un palestinese ucciso dopo che un attacco a Gerusalemme uccide due persone». Questa è la verità per la maggiore rete britannica.

(il Giornale, 5 ottobre 2015)


Netanyahu: gli interessi di Russia e Israele non devono entrare in collisione

Il primo ministro di Israele ha dichiarato che non vuole tornare alla tensione nei rapporti con Mosca che esisteva ai tempi della guerra fredda.

Gli interessi di Russia e Israele in Siria non devono entrare in collisione, ha dichiarato il premier israeliano Benjamin Netanyahu nell'intervista che ha rilasciato alla CNN. Alcuni brani di questa intervista sono stati pubblicati in anteprima sul sito del canale americano.
"In Siria noi (cioè Russia e Israele) abbiamo scopi diversi, io ho indicato i miei, — ha detto Netanyahu. — Il mio obiettivo è quello di garantire la sicurezza del mio popolo e del mio paese. La Russia ha interessi diversi, ma i nostri interessi non devono entrare in collisione".
Il premier israeliano ha rilevato che non vuole tornare alla tensione nei rapporti con Mosca che esisteva ai tempi della guerra fredda.
"Sicuramente non vogliamo tornare alla contrapposizione, — ha detto Netanyahu. — Credo che (da allora) siamo riusciti a cambiare i nostri rapporti, e tutto sommato ciò è positivo".
Netanyahu ha fatto capire che Israele non dà preferenza a nessuna delle parti, coinvolte nel conflitto siriano.
"Quello che sto facendo è indicare le "linee rosse", in qualsiasi momento, quando l'intellingence ci dà informazioni, non permettiamo che contro Israele vengano compiuti degli atti di aggressione che rimangano impuniti", — ha detto il premier israeliano.
Alla domanda sul ruolo che la Russia sta svolgendo in Siria, fatta dal giornalista di CNN, Netanyahy ha risposto: "Non so, lo vedremo col tempo".

(Sputnik Italia, 5 ottobre 2015)


Medio Oriente, tra Assad e Netanyahu è Putin a decidere il loro destino

di Andrea Dammacco

Bashar Assad potrebbe un giorno farsi da parte. A dirlo è il presidente siriano in una intervista all'iraniana Khahar-tv. Ma nelle sue dichiarazioni ci sono tanti "se" e tanti "ma", quasi a difendere la propria posizione nel proprio Paese. Una posizione minata dagli accordi tra Usa e Russia (ma sopratutto Russia) e dalla sua stessa, gigantesca, famiglia. Andando con ordine, nell'intervista di Assad, il presidente siriano ribadisce innanzitutto vecchie posizioni, un modo blando per fissare qualche paletto dopo una settimana dominata dall'intervento militare russo nel suo Paese: "I maggiori leader terroristi in Siria e Iraq sono Europei", ha detto. Un modo per dire che la fiducia verso il Cremlino è massima ? insostituibile. Le sue parole sono in realtà interpretative. C'è chi crede che si possa arrivare ad un negoziato, quindi quel "se" è un segnale di disponibilità a farsi da parte e salvare la pelle. Ma c'è chi non si fida e crede che le parole di Assad siano pura propaganda in attesa di sviluppi militari. Russi ovviamente, perché Mosca sta quotidianamente attaccando la Siria. Sono venti i raid nelle ultime 24 ore contro una decina di target. Peccato però che le informazioni sono difficilmente verificabili rispetto agli annunci trionfalistici di Mosca.
  Ma il passaggio più interessante della sua intervista è: "La campagna militare della Russia della Siria e dei suoi alleati deciderà i destini del Medio Oriente". Damasco ha sempre guardato Mosca come alleato affidabile e insostituibile, ma è la prima volta che Assad ammette che la Siria dipende da un accordo e un impegno esterno, nello specifico quello di Vladimir Putin. E' chiaro a tutti che la Russia vede nella Siria il "suo" territorio con lo sbocco sul Mediterraneo, terreno quindi irrinunciabile. E questo porta al ragionamento per cui Assad sia anche ostaggio della sua stessa famiglia. Bashar è considerato il leader e comandante indiscusso del Paese. Ma nella sostanza il clan familiare avrebbe preso il sopravvento su di lui. Un esempio? La scomparsa di alcuni leader sunniti (rappresentanti della maggioranza della popolazione) in passato vicinissimi al padre di Bashar Assad, Hafez. Una volta questi erano il centro decisionale e di potere della politica siriana. Bashar ha sicuramente compreso che qualcosa sta finendo e che il suo ruolo da capo della Siria sta arrivando alla conclusione. Una fine decisa da altri.
  Che Vladimir Putin abbia lui stesso in mano le sorti del Medio Oriente è ormai chiaro. Barack Obama, come hanno dichiarato da Washington stessa, ha da parte sua solo un pugno di ribelli. Di Assad si è parlato. E, non indifferente, Benjamin Netanyahu ha incontrato in tutta fretta Putin a Mosca. Tel Aviv è sì alleata di Washington, che sta già conducendo colloqui con Mosca sull'aumento della sua presenza militare in territorio siriano ma è certo anche che si vuole evitare il confronto diretto sul suolo siriano. Il tutto per evitare rischi per la propria sicurezza, derivanti anche dalla presenza di Hezbollah (al fianco del presidente siriano). In questo intreccio di rapporti, di alleanze e accordi più o meno segreti è quindi proprio Mosca a prendere l'ultima decisione. La situazione sembra peròè chiara. Israele alleata di Washington, che intanto perde potere e credibilità, cerca di non subire danni da Mosca. Il Cremlino, intanto, ha in pugno Assad, e quindi Hezbollah e Iran e cercherà di mantenere il suo porto sul Mediterraneo. L'Isis, che nei fatti non è mai stato davvero contrastato dagli eserciti occidentali, contro le forze russe potrebbe avere vita breve. Ma tutto ciò con i lunghi tempi della politica internazionale.

(il Quotidiano Italiano, 5 ottobre 2015)


Boicottaggio? Israele va difeso, sempre

Lettera a Beppe Severgnini

Caro Beppe,
leggo con orrore che la London University ha troncato ogni rapporto con il mondo accademico israeliano, che Stephen Hawking anni fa aveva cancellato una conferenza a Gerusalemme e che ora pure l'Islanda ha deciso a maggioranza di boicottare i prodotti israeliani, tutto per protestare contro l'occupazione di Israele dei territori palestinesi. Scherziamo? Boicottare l'unica democrazia del Medio Oriente, un paese che fa fiorire il deserto invece che piangere miseria usando bambini lerci ai bordi delle strade per fare la questua? Non sempre Israele ha ragione, ma non me ne importa. È un minuscolo fazzoletto di terra circondato da Paesi che, se non fosse per il timore di ritorsioni internazionali (ormai sempre più aleatorie), sarebbe già stato disintegrato.
Fossimo circondati da vicini e conoscenti che non aspettano altro che farci la pelle, forse saremmo un filo suscettibili e aggressivi pure noi. Quanto ai palestinesi, basta un giro nella città vecchia di Gerusalemme per notare la differenza tra quartiere ebraico e arabo: pulizia e ordine nel primo, lerciume e spazzatura ovunque nel secondo. I bambini palestinesi mendicano perché i loro stessi dirigenti li affamano: molto più comodo stoccare l'oro a Parigi (vedi signora Arafat) e stringere accordi che si affermano ora e si negano cinque minuti dopo, usando falsità e mistificazione come strategia politica. I paesi europei sono già allo sbando sulla questione immigratoria (fosse per me chiuderei le frontiere e farei una selezione coi fiocchi: l'Occidente non ha forse eletto il darwinismo sociale a nuovo verbo?); se dubitano pure se sia da appoggiare o meno un paese che nelle proprie fabbriche assume arabi (il 20% della popolazione israeliana), li cura nei propri ospedali e che in maggioranza appoggia la creazione di due stati vicini, stiamo freschi. Israele va difeso, sempre.
Sara Gamba

(Corriere della Sera - Blog, 5 ottobre 2015)


Israele, un paese irrilevante

Israele non ha nulla a che fare con gli avvenimenti spietati e destabilizzanti che si sono prodotti in Medio Oriente negli ultimi quattro anni.

Questa mattina mi sono svegliato e improvvisamente mi sono reso conto che Israele è un paese irrilevante.
Guardando le immagini strazianti dei profughi siriani in Europa mi è apparso chiaro che Israele non ha assolutamente nulla a che fare con loro. In termini di causa-effetto, non ha alcun ruolo nella genesi del problema. In effetti, Israele non ha alcuna responsabilità per la guerra civile in corso in Siria. Se Israele non fosse esistito, la guerra civile in Siria e il conseguente problema dei profughi che ossessiona attualmente l'Europa si sarebbero verificati comunque.
Guardando la regione più in generale mi sono poi reso conto che, in termini di causa-effetto, Israele non è all'origine di nessuno degli avvenimenti spietati e destabilizzanti che si sono verificati in Medio Oriente negli ultimi quattro anni.
Mi sono sentito depresso quando ho realizzato che l'emergere dello "Stato Islamico" (ISIS) non aveva nulla a che fare con Israele; che se Israele non fosse esistito, al-Qaeda e l'ISIS sarebbero comunque emersi causando devastazione nella regione....

(israele.net, 5 ottobre 2015)


Expo - Archeologia, il ponte tra Italia e Israele

Italia e Israele, due paesi caratterizzati dalla presenza di un patrimonio archeologico di vastissime proporzioni e dal valore inestimabile. Non poteva dunque che partire da questa comune ricchezza la riflessione sul tema dell'Expo milanese dedicato alla nutrizione e alle risorse del pianeta, andando alla scoperta delle tracce più antiche delle tecnologie legate allo sviluppo dell'irrigazione e dell'agricoltura nei panorami culturali delle due aree geografiche. Il risultato di questa ricerca è l'argomento del "Simposio bilaterale di archeologia Italia Israele", che si svolgerà al padiglione israeliano dell'Expo il 7 e 8 ottobre, realizzato dall'Ambasciata d'Israele a Roma e dal ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.
  "La conoscenza dell'immenso patrimonio culturale di Italia e Israele, unite dal Mar Mediterraneo, culla comune delle nostre civiltà, è parte integrante dell'identità culturale dei nostri popoli ed è indispensabile per creare tra di essi legami inscindibili" ha dichiarato Eldad Golan, Addetto Culturale dell'Ambasciata Israeliana a Roma. Ed è proprio da una cooperazione, quella tra il Politecnico di Milano e l'Istituto Shenkar di Tel Aviv al fine di musealizzare l'antica città di San Giovanni d'Acri (Akko), patrimonio mondiale dell'umanità, che prenderanno avvio i lavori, attraverso i racconti di esperti italiani e israeliani su come l'agricoltura ha influenzato la formazione della cittadella templare e di tanti altri panorami culturali nei due paesi. Passando dalle Alpi alla Sardegna, da Firenze al nord d'Israele - attraverso gli interventi, tra gli altri, dell'architetto israeliano naturalizzato italiano David Palterer e della responsabile della Soprintendenza ai beni archeologici della Regione Lombardia Raffaella Poggiani Keller - sarà dunque un viaggio tra archeologia e modernità, in cui un ruolo determinante per lo sviluppo territoriale è giocato dai riconoscimenti dell'Unesco e dalla protezione dei siti.
  Ma non poteva essere che l'acqua, bene indispensabile per qualunque sviluppo agricolo e particolarmente prezioso in una terra arida e desertica come Israele, la grande protagonista del Simposio. A rappresentare questo ruolo chiave nella vita dell'uomo in modo bene visibile sul paesaggio sono le vestigia degli acquedotti romani, diffusi in tutta l'area mediterranea fin dall'epoca di Augusto. Attraverso lo studio di tutte le costruzioni e i reperti ritrovati in tutta l'area, opere sorte per soddisfare l'esigenza dello sfruttamento delle acque a fini agricoli risalenti ai periodi e alle culture più diversi dell'antichità, si potrà osservare la loro naturale evoluzione nelle moderne tecnologie di irrigazione goccia a goccia, esempio di eccellenza israeliana. Attraverso questo sistema, Israele ha potuto trasformare i suoi deserti in campi coltivati, costituendo un modello capace di dare delle risposte all'emergenza della siccità e un filo diretto tra Storia e futuro.

(moked, 4 ottobre 2015)


Israele: "Chiudiamo Gerusalemme e pensiamo a nuovo muro"

Le autorità israeliane bloccheranno l'accesso alla Città Vecchia dopo gli attacchi palestinesi contro i fedeli. "Inaspriremo le misure contro i palestinesi".

di Alberto Bellotto

Due morti e il ferimento di altri tre nella Città Vecchia di Gerusalemme hanno convinto le autorità israeliane ad agire.
Per i prossimi due giorni l'accesso alla Città Vecchia verrò concesso soltanto a cittadini israeliani e ai turisti. Anche l'accesso alla Spianata delle Moschee verrà fortemente limitato si potrà passare solo attraverso la Porta dei Leoni e sarà consentito solo a donne e over 50.
A spiegare nel dettaglio le restrizioni c'ha pensato la portavoce della polizia israeliana Luba Samri. Nei prossimi giorni avranno accesso alla Città Vecchia i cittadini di Israele; i residenti della Città Vecchia (palestinesi ed israeliani); i gestori degli esercizi commerciali; e gli allievi di istituti scolastici attivi entro le mura.
Il provvedimento serve a diluire l'accesso dei palestinesi all'area durante la Festa dei tabernacoli che richiama nella Città Vecchia migliaia di fedeli. La decisione è arrivata in seguito alle violenze degli ultimi giorni. Solo ieri una famiglia di ebrei ultra ortodossi era stata aggredita nei vicoli della città da un giovane di 19 anni, poi ucciso dalla polizia, che con un coltello ha ucciso due persone ferendone altre tre. Sempre oggi è arrivata la rivendicazione di Hamas che ha parlato di "un messaggio chiaro a Israele: il nostro popolo non accetterà mai le misure israeliane al Monte del Tempio" e ha definito "eroe" il giovane che ha aggredito la famiglia.
Intanto il ministro israeliano dei Trasporti e dei Servizi di intelligence Israel Katz ha detto che l'esecutivo è pronto ad agire: "Inaspriremo le misure contro i palestinesi" ha detto in una intervista alla radio dell'esercito confermando che potrebbero esserci nuove operazioni contro i palesitinesi nei territori occupati, "potremmo costruire un nuovo muro di difesa con la Cisgiordania".

(il Giornale, 4 ottobre 2015)


Pannelli modulabili e auto portanti per creare un orto verticale in casa

Presentato il progetto Vertical Field

 
Dal padiglione di Israele ai balconi e le terrazze di Milano, l'esperienza dei giardini verticali arriva in città grazie a Expo 2015 e a Plinio63 Hublab, network italiano di professionisti specializzati in progettazione architettonica e green. L'idea nasce dall'esigenza di creare campi verdi e coltivabili anche in aree in cui non vi è alcuna possibilità di sviluppo per assenza di terreno.
   All'interno di Expo 2015, grazie all'innovativo padiglione israeliano e al suo muro green che accoglie e stupisce i visitatori, si è potuto vedere per la prima volta come anche qui, dove le condizioni ancora oggi rimangono ottimali, sia possibile sfruttare ogni tipo di piano per esprimere la propria anima verde. Ieri, con le iniziative di Expo in Città e Expo Gate, Vertical Field e Plinio63 Hublab hanno illustrato la possibilità e la metodologia fai-da-te di creare il proprio orto verticale in casa in poche e semplicissime mosse.
   II progetto nasce dalla convinzione che chiunque, anche chi abita in un appartamento in città e non ha alcuna possibilità di sfuggire al tran tran metropolitano di ritagliarsi un piccolo spazio verde casalingo. Ma non solo. Perché invece di limitarsi a muri di fiori e piante verdi non si può tentare quel passo in più e tuffarsi nel mondo dell' orto, della coltivazione a KmO e creare così la propria parete di lattughe e ravanelli sul giardino di casa? Per questo motivo nascono i pannelli coltivabili modulari assemblabili a parete o anche a verticali auto-portanti, in cui grazie a un particolare sistema di irrigazione a goccia si potranno avere sempre lattughe, radicchi, finocchi, fragole e zucchine fresche a portata di mano. Tra i realizzatori di questo progetto che potrebbe stravolgere completamente la visione della coltivazione anche in Italia, anche l'architetto Mara Beretta che con un team di esperti ha presentato al grande pubblico di curiosi le modalità di costruzione del proprio spazio verde o del proprio orto urbano da gestire in autonomia addirittura anche in un appartamento senza terrazzo, dove l'unico spazio sia il muro del soggiorno. Perché questi pannelli, sono adatti davvero ovunque, grazie a un sistema di irrigazione che non macchia e non bagna e viene contenuto all'interno della struttura portante.
   «Come Plinio63 Hublab abbiamo scelto di sostenere la visione delle pareti verdi verticali di Vertical Field» ci spiegano «come network abbiamo riconvertito numerosi progetti di edilizia pubblica e privata creando ambienti dove il verde non è più visto come una semplice elemento decorativo ma come un vero e proprio campo da coltivare nel salotto di casa o sulla facciata di stabili». M.B.

(Libero, 4 ottobre 2015)


Leggenda nera di Israele. Le colpe degli intellettuali. Difendere israele sarà reato?
Articolo OTTIMO!


Si ripropone oggi l'antico vizio delle simpatie per le società illiberali. Non è un caso che in Gran Bretagna molti attacchi verso Tel Aviv provengano da quelle università che ricevono finanziamenti da Paesi del Medio Oriente. E stato un errore invitare l'Arabia Saudila al Salone del libro di Torino.

di Angelo Panebianco

Quando verrà superata quell'invisibile barriera al di là della quale difendere Israele diventerà un reato? Quando arriverà il momento, qui in Europa, in cui affermare che Israele è un'isola di civiltà circondata da regimi liberticidi (in tutte le possibili varianti: dal più soft paternalismo autoritario al più feroce totalitarismo religioso) basterà per farsi trascinare in un tribunale sotto l'accusa di incitamento all'odio razziale? La leggenda nera su Israele (Israele Stato criminale, nazista, eccetera) si diffonde, praticamente inarrestabile, in Europa. Il Parlamento europeo ha appena votato, a larga maggioranza, a favore della identificazione delle merci provenienti dai territori palestinesi sotto controllo israeliano contribuendo così a rafforzare la spinta già in atto in molti Paesi al boicottaggio dei prodotti israeliani.
   Da molto tempo ormai, assistiamo a sempre più frequenti gesti di inimicizia nei confronti delle università israeliane da parte di ricercatori europei. La diffusione e il radicamento della leggenda nera su Israele va di pari passo con la forte crescita, da diversi anni a questa parte, degli episodi di antisemitismo. Le due cose sono collegate. Nelle manifestazioni del 2014 in Francia e in Germania contro l'intervento militare israeliano a Gaza c'era chi gridava «morte agli ebrei» senza che gli altri si sentissero in dovere di allontanarlo dal corteo. E non andrebbe dimenticato che l'attentato del gennaio scorso contro il settimanale satirico Charlie Hebdo è stato accompagnato da un altro sanguinoso attentato contro un negozio di alimentari gestito e frequentato da ebrei.
   Diffusione della leggenda nera e ripresa dell'antisemitismo sono spiegabili. Prendiamo il caso della Gran Bretagna dove (insieme ai Paesi scandinavi) la campagna anti israeliana ha fin qui conseguito i maggiori successi. Come conferma anche il fatto che alla guida del Partito laburista sia stato appena eletto un tale, Jeremy Corbyn, che definisce «amici» Hamas e Hezbollah, chiarendo così anche il suo pensiero a proposito di quella che i suddetti amici chiamano «l'entità sionista». I generosi finanziamenti dei governi arabi alle istituzioni educative britanniche hanno certamente moltissimo a che fare con la mobilitazione degli intellettuali di quel Paese contro Israele. La pressione combinata della comunità islamica britannica e dei finanziatori mediorientali spiega bene perché la società britannica sia oggi all'avanguardia nella campagna anti israeliana e perché, contestualmente, l'ostilità per gli ebrei sia in forte crescita. Gli intellettuali influenzano i media, i media influenzano la pubblica opinione, la quale, a sua volta, influenza la politica.
   Proprio se si guarda al ruolo degli intellettuali si capisce anche perché laddove (come in Italia) le istituzioni educative restano al riparo dai finanziamenti politicamente orientati provenienti dal mondo arabo, non c'è nessuna garanzia che fenomeni come quelli che si verificano in Gran Bretagna possano essere arginati ancora per molto.
   Prendiamo la vicenda dell'invito — che, si spera, venga ora definitivamente ritirato — del Salone del libro di Torino all'Arabia Saudita. Paolo Mieli ( sul Corriere del 30 settembre) ha ricordato quale regime sia in realtà quello saudita. E benissimo hanno fatto il sindaco Fassino e il presidente della Regione Chiamparino, facendo leva sulla condanna a morte di un dissidente, a pronunciarsi contro la presenza saudita a Torino.
Resta il fatto che l'invito c'era stato. Resta che, prima del pronunciamento di Fassino e Chiamparino, soltanto i radicali avevano fatto una meritoria campagna contro quella presenza. Resta che le manifestazioni di dissenso da parte di intellettuali erano state pochissime. Come mai? Come è stato possibile invitare in quello che dovrebbe essere uno dei templi della libertà di pensiero, nel silenzio e nella connivenza di tanti, un campione dell'integralismo religioso, la principale centrale di diffusione nel mondo della versione più oscurantista dell'Islam (quella wahabita)? Una cosa è dire che con i sauditi è ancora indispensabile trattare sia per ragioni economiche (petrolio) che geopolitiche (equilibri mediorientali). Una cosa assai diversa è proporli come i plausibili partner di incontri e dibattiti culturali. È evidente che non lo sono. Così come non lo sono — detto così, per inciso, allo scopo di prevenire altri futuri inviti — i nemici dei sauditi, gli iraniani. Nonostante ciò che si è detto e sentito in Occidente dopo l'accordo sul nucleare, gli iraniani non sono diversi: sembra accertato che i «riformisti» che fanno capo al presidente Hassan Rouhani siano altrettanto zelanti dei conservatori quando si tratta di sopprimere dissidenti e minoranze in nome della religione.
   La verità è che l'invito ai sauditi aveva un senso. Era una scommessa sul disinteresse di tanti intellettuali italiani per le condizioni che permettono l'esercizio della libertà. C'è una connessione con la leggenda nera su Israele. È probabile, infatti, che molti di coloro che non hanno avuto nulla da eccepire sui sauditi a Torino siano anche, contemporaneamente, severi critici di Israele. È la solita storia, la stessa dei tempi del fascismo o della Guerra fredda. Una parte cospicua degli intellettuali non sa rinunciare al vizio antico di preferire le società illiberali.

(Corriere della Sera, 4 ottobre 2015)


Gerusalemme - Palestinese aggredisce una famiglia ortodossa: due morti e tre feriti

L'assalitore ucciso dalla polizia. La Jihad islamica ha rivendicato l'attacco

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GERUSALEMME - Attacco di un giovane palestinese nella città vecchia di Gerusalemme. Presa di mira una famiglia ortodossa: due persone sono morte, altre tre sono rimaste ferite, tra queste anche un bimbo di due anni. L'assalitore, colpito da un poliziotto, è stato ucciso. Secondo il capo della polizia di Gerusalemme, citato dai media, il palestinese - che secondo le prime informazioni ha 19 anni e proverrebbe da un villaggio presso Ramallah - prima ha colpito a coltellate i membri della famiglia ortodossa, poi ha preso la pistola di una delle vittime ed ha cominciato a sparare contro i passanti e la polizia. La Jihad islamica ha rivendicato l'attacco.
   Duro il commento della presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello: "La scia di sangue non si ferma, eppure non udiamo neanche una parola da parte delle organizzazioni internazionali. Dov'è l'Unione Europea? Dov'è l'Onu? Dove sono le organizzazioni umanitarie che chiedono a gran voce la pace? Quanto dovremo ancora sopportare l'indifferenza dell'Occidente di fronte alle morti degli ebrei in Israele?".
La tensione era già altissima in Israele e Cisgiordania, dopo l'uccisione di una coppia di coloni, Eitam e Naama Henkin, crivellata di colpi mentre viaggiava in macchina con i figli tra gli insediamenti di Itamar e Elon More. Ieri tre ebrei sono stati fermati, due 25enni e un 18enne, mentre protestavano contro l'attacco mortale. Nella notte, nei pressi di Ramallah, una macchina è stata data alle fiamme e scritte sono apparse invocando "vendetta per gli Henkin", mentre alcune auto palestinesi sono state prese a sassate. Secondo Yedioth Ahronoth, nel mirino è finito anche il responsabile dell'intelligence dell'Anp a Hebron, trasportato in ospedale dopo essere stato colpito da pietre mentre passava in macchina nella zona dell'attacco.
   Sempre ieri, come riferisce Aurtz Sheva, un giovane palestinese è stato arrestato nella Città Vecchia di Gerusalemme dopo aver lanciato una molotov che è esplosa, senza tuttavia fare feriti. Fermati e messi sotto interrogatorio anche cinque giovani palestinesi della zona di Tekoa, in Cisgiordania, sospettati di aver lanciato sassi contro le macchine. Sempre a Gerusalemme, giovani palestinesi sono stati respinti dalla polizia israeliana mentre tentavano di forzare un posto di blocco e accedere alla Spianata delle Moschee, violando l'ordinanza odierna che permette l'ingresso solo a uomini sopra i 40 anni.

(Il Messaggero, 3 ottobre 2015)


Razzo sparato da Gaza verso Israele

Miliziani palestinesi hanno sparato stasera un razzo da Gaza in direzione di Israele, ma l'ordigno è caduto all'interno della Striscia. Lo riferiscono fonti locali secondo cui non si segnalano vittime. Ancora non ci sono rivendicazioni.
L'attacco è avvenuto comunque poco dopo che il portavoce dell'ala militare di Hamas a Gaza, Abu Obeida, aveva lodato l'attentato compiuto oggi a Gerusalemme da un adolescente palestinese. Il 19enne ha attaccato una famiglia di ebrei ortodossi diretti a pregare al Muro del Pianto a Gerusalemme ferendone mortalmente due, prima di essere ucciso a sua volta dagli agenti di polizia.
Tra le vittime dell'aggressione oltre i morti, una giovane donna e anche un bambino di due anni le cui condizioni non sarebbero però gravi.
Israele è così ripiombata nell'incubo terrorismo - nel giorno di shabbat - a sole 48 ore dall'uccisione in Cisgiordania di un padre e di una madre crivellati in un agguato a colpi di arma da fuoco vicino Beit Furik, tra gli insediamenti di insediamenti di Alon Moreh e Itamar. Oggi l'esercito e lo Shin Bet hanno annunciato "progressi significativi nelle indagini su quegli omicidi.

(swissinfo.ch, 3 ottobre 2015)


Perché sempre più laici israeliani digiunano durante lo Yom Kippur?

Recenti studi mostrano che sempre più israeliani digiunano durante lo Yom Kippur non tanto per un rituale religioso, ma più come un modo per ricongiungersi con la loro identità ebraica o per creare il loro spazio spirituale.

di Yuval Avivi

ROMA - Un sondaggio del 2010 condotto dal Central Bureau of Statistics ha mostrato che il 25,7% degli ebrei laici in Israele a partire dai 20 anni, digiuna durante lo Yom Kippur. È inoltre emerso che i costumi più frequentemente osservati tra i secolari sono la partecipazione alle tradizionali cerimonie durante la cena della Pasqua - l'81,5% celebrano il Seder ed il 67,3% all'accensione delle candele di Hanukkah - e le occasioni festive della famiglia che non sono fisicamente o spiritualmente impegnative, come un giorno di digiuno.
   Un altro sondaggio, condotto dal Bina Center, aggiornato sino allo Yom Kippur del 2013, dice che la parte di ebrei laici che intende digiunare è salito al 46,5%, un aumento significativo. Infatti, molti dei cittadini laici ebrei in Israele effettivamente scelgono di digiunare e visitare una sinagoga il giorno del Kippur. Il sito web di notizie israeliano Mako ha pubblicato un articolo provocatorio, tre anni fa, chiedendosi: Sorge una domanda in una persona laica che digiuna durante lo Yom Kippur, quando continuerà a peccare il giorno dopo?
   Quando Rona Speisman di Tel Aviv ha trascorso l'ultimo Yom Kippur in Vietnam, ha portato un libro di preghiere con lei. "Ho mangiato un pasto prima colazione, una zuppa di Pho con carne e pesce avvolti in foglie di banana" descrivendo un pasto non propriamente kosher. Secondo Speisman, non c'è contraddizione in questo comportamento. "È il mio cibo preferito" ha detto ad Al-Monitor "durante la Pasqua mangio gamberetti, ma perché evito di mangiare cibi lievitati, non fritti nel pangrattato [che sarebbero proibiti solo durante la Pasqua]". Speisman non si dispiace per il suo modo unico di osservare le usanze ebraiche. Per lei "è significativo fare ciò che i miei genitori e nonni hanno fatto in una piccola città in Polonia. È un messaggio forte. L'incontro tra la famiglia e la tradizione che accompagna te è ciò che significa essere ebreo, a mio avviso. Il collegamento tra questo e ciò che lo stato e la costituzione considerano la religione è marginale".
   Dice: "Ho sempre digiunato durante lo Yom Kippur, a partire da quando avevo 12 anni e lo vedevo come qualcosa che fanno gli adulti. Il digiuno è importante per me ora, e lo Yom Kippur anche. È una festa significativa. È semplicemente stare con se stessi, un tempo necessario per elaborare le cose e pensare. Non so come rispondere alla domanda se credo in Dio, ma quello è un momento per auto-valutarsi".
   Eran Baruch, il direttore del Bina Center for Jewish Identity and Hebrew Culture, individua un trend costante negli ultimi 10-15 anni sull'interesse all'identità ebraica tra il pubblico laico. "La loro ribellione contro la religione e la tradizione, è svanita", ha parlato ad Al-Monitor dei cambiamenti dalla costituzione di Israele. "In gran parte perché la narrazione culturale laica del movimento operaio, non è riuscita a creare un'esperienza abbastanza profonda e potente".
   A tal proposito, lo studioso di religione, Tomer Persico, ricercatore presso la Shalom Hartman Institute e direttore accademico Midreshet Alma (un'associazione per lo studio della cultura e della tradizione ebraica) è d'accordo con Baruch. "Il modello della società socialista stabilito con Mapai si è rotto, e non c'è più il bisogno di un'altra risposta", ha detto ad Al-Monitor "è da qui che arriva il rinnovato interesse per la tradizione ed il crescente interesse laico per lo Yom Kippur".
   Persico vede questa tendenza anche in altri luoghi, come nelle pluralistic study houses, nei movimenti Kabbalah e nel crescente interesse per la poesia liturgica. "Lo Yom Kippur ha la reputazione di essere il giorno più sacro dell'anno ed è come un marchio" ha affermato Persico. "Naturalmente, i motivi della sua importanza sono da trovarsi nella tradizione, ma tra il pubblico più vasto è semplicemente apprezzato come buon costume, e non dico questo negativamente".
   Il rabbino Benny Lau, il capo del 929-Tanakh Together initiative, un'iniziativa online per l'apprendimento di un capitolo della Bibbia al giorno, ha detto ad Al-Monitor: "Ogni persona si ritrova in varie identità ed associazioni, quando si identifica come ebreo, lo Yom Kippur viene visto come il giorno più intimo. Una delle più grandi motivazioni per una persona è di sentirsi parte di un gruppo, e questo è quello che permette lo Yom Kippur".
   La differenza, secondo l'opinione di Lau, tra la santità dello Yom Kippur e gli altri digiuni ebrei come lo Tisha Be-Av è che "lo Yom Kippur è il solo digiuno ad esser sprovvisto della celebrazione del lutto. Tisha Be-Av ha delle implicazioni politiche pesanti. Lo Yom Kippur è libero tutto ciò. È l'introspezione tranquilla, una grande pulizia e gioia in silenzio, uno sterile spazio per fermarsi e poi proseguire da lì".
   Uno dei punti rilevanti per quanto riguarda l'attrazione laica allo Yom Kippur è la sensazione che l'establishment rabbinico non imponga la celebrazione al pubblico israeliano. "Non c'è nessuna legge correlata ai costumi di questo giorno, e forse è anche per questo che le persone digiunano. Dal momento in cui il legislatore interviene, si rompe la solidarietà", ha detto Lau.
   Baruch è d'accordo con lui, ed afferma che: "Sullo Yom Kippur non c'è coercizione religiosa così che gli ebrei più laici si sentano a proprio agio nel parteciparvi".
   Persico pensa che l'interesse secolare nello Yom Kippur esprima "un ethos di individualismo e di autenticità. Non c'è alcuna obbligazione. È lontano dall'idea che una persona diventi religiosa cercando di essere fedele a dei comandamenti. Si potrebbe dire anche che la partecipazione irregolare e volontaria permette al pubblico laico di forgiare un'identità ebraica che non è ortodossa e che non è obbligato ad osservare i comandamenti. È un'alternativa di come diventare ortodossi e non un modo per diventare ortodosso. Gli ebrei laici creano così un percorso spirituale indipendente".
   Speisman esprime la stessa opinione in termini pratici. "Non ho alcuna intenzione di diventare religiosa" ha detto. "La mia formazione ed il modo in cui sono stato cresciuto non mi permette di diventare religiosa. Ho una certa affinità alla religione, ma non ho nessun bisogno di cambiare. Non mi faccio nessuna domanda perché ho una risposta, e ne ho sempre avuta una".
   Elin Ajam rappresenta invece un diverso approccio. Dopo aver digiunato per tutta la vita, ha da poco smesso. "Ho avuto la sensazione, da adolescente, di esser stato costretto a digiunare e ho cercato di rompere il digiuno con atti simbolici, ma superati i 20 anni di età in poi, ho digiunato meticolosamente" ha detto ad Al-Monitor. "Vorrei spendere il giorno dello Yom Kippur a casa dei miei genitori, e credo che la complessità del mio approccio deriva dal fatto che se siete ansiosi o confusi, se la vita sembra troppo astratta, la cerimonia e la necessità di collegarsi a qualcosa di "più grande di te" può essere l'ancora che state cercando".
   Per lei, rinunciare al digiuno è stato un collegamento tra l'individualismo e l'autenticità di cui ha parlato Persico. "La prima volta che ho trascorso lo Yom Kippur con i miei amici a Tel Aviv, con un'autenticità che si adatta al mio stile di vita, ero euforica" ha concluso. "Per quanto assurdo possa essere, non è affatto per me il digiuno dello Yom Kippur, è stata l'esperienza più purificante per me. Ha significato la libertà e la scelta".

(Nena News Agency, 3 ottobre 2015 - trad. Andrea Leoni)


Basket - A Chicago l'Olimpia Milano cede al Maccabi Tel Aviv: 85-79

di Andrea Beltrama

 
L'Olimpia ha giocato a sprazzi: dopo una partenza pessima, una veemente rimonta e un finale in debito d'ossigeno. Il miglior Hummel visto finora in maglia Armani ferma l'aggressivo avvio del Maccabi, le giocate di Alessandro Gentile lanciano Milano

CHICAGO - Sul parquet dello United Center, il Maccabi Tel Aviv batte l'Olimpia 85-79. Milano ha giocato a sprazzi, nel complesso discretamente. Pessima partenza, veemente rimonta, poi finale in debito d'ossigeno. Ha brillato Alessandro Gentile, sotto agli occhi di Danny Ainge, con buoni segnali anche da Robbie Hummel. La rivincita a New York, tra tre giorni, al Madison Square Garden.

CLASSE — Il meglio dell'Olimpia si vede a cavallo tra secondo e terzo periodo. Ci vogliono i canestri di Hummel, nettamente alla sua miglior partita in maglia Armani, a fermare l'aggressiva partenza del Maccabi. Ma sono le giocate di Alessandro Gentile, micidiale nel mischiare entrate, tiro da fuori e soluzioni dalla media distanza, a lanciare Milano. Sotto gli occhi del padre, il figlio d'arte incanta lo United Center, mostrando una combinazione di forza e agilità, muscoli e tecnica che non può lasciare indifferente nemmeno Danny Ainge, a bordocampo a osservare. "Non sapevo che ci fosse. Ma sono contento di aver giocato bene davanti a lui" dirà a fine partita.

PARZIALE — E' proprio una tripla di Gentile a chiudere la rimonta dell'Olimpia, dando il via a un finale combattuto. Registrata la difesa, Milano vola anche sul +5, al 31', senza però chiudere conti. E allora la partita scivola lentamente di mano, con Jordan Farmar che, in una serata modesta al tiro, smuove la difesa penetrando e scaricando. Per il Maccabi il tiro da fuori ricomincia ad entrare, e Milano arriva senza energie al traguardo. Chiude i conti Brian Randle, con il canestro che, a 2' dalla fine, regala il primo round al Maccabi.

APNEA — La partenza di Milano, in precedenza era stata annaspante. I giochi a due del Maccabi sono subito un osso duro per una difesa che ha appena iniziato a lavorare assieme. E così gli uomini di Guy Goodes hanno vita facile ad arrivare al ferro, o ad aprire il campo appena la difesa dell'Olimpia prova ad adeguarsi. Con Rochestie a smazzare assist e Mbakwe a finire in area, il primo quarto è un dominio del Maccabi, che chiude avanti 29-11. Sembra l'inizio di un monologo, sarà invece una partita vibrante.

TENSIONE — Fuori dal campo è stata una serata vivace, rilassata, all'insegna di pubbliche relazioni e vecchie conoscenze. Sono apparsi ex da tutte le parti, attratti dall'anomalo ritrovo europeo in suolo americano. Johnny Rodgers, Nando Gentile, Kiwi Garris, Ken Barlow. E ovviamente Art Kenney, che ha avuto parte attiva nell'organizzare la trasferta americana. Eppure non è mancata la tensione, quando a fine primo quarto un gruppo di manifestanti filopalestinesi ha fatto irruzione sulle tribune dietro al canestro, perorando la propria causa con cori e bandiere. La reazione dei tifosi del Maccabi è veemente, tesissima. Insulti e gestacci, prima che la security, dopo un attimo di esitazione, intervenisse. Contatto scongiurato, ma davvero di un soffio.

MILANO: Gentile 16, Hummel 15, McLean 10. Rimbalzi: Hummel e Barac 5. Assist: Gentile 5.
MACCABI: Randle 15, Mbakwe 15, Landesberg 12. Rimbalzi: Farmar 8. Assist: Farmar 8.

(Gazzetta dello Sport, 3 ottobre 2015)


Ora anche Fatah torna a rivendicare attentati contro gli israeliani

Il giorno dopo avere ripudiato gli accordi di Oslo, la fazione del presidente Abu Mazen imbraccia di nuovo le armi. I finanziamenti di Ue e Ira.

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri le brigate palestinesi Abder Qader al Husseini hanno rivendicato l'uccisione di due israeliani, Eitam e Naama Henkin, marito e moglie, avvenuta giovedì notte sulla strada che collega due villaggi nella zona di Hebron. Si tratta di un gruppo affiliato alle brigate dei martiri di al Aqsa del partito al Fatah che amministra la Cisgiordania sotto la guida di Abu Mazen, presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Il gruppo ha aperto il fuoco di notte a caso contro l'automobile, su cui viaggiavano la coppia e i quattro figli piccoli. I bambini sono sopravvissuti all'attentato.
   La rivendicazione del gruppo definisce il doppio omicidio "un atto necessario compiuto in nome della lotta del popolo per riprendere la terra usurpata e in nome del sacro jihad ". E' stata accolta con entusiasmo da alcuni membri di spicco del partito, come Azzam al Ahmad e Sultan Abu al Einen, e anche da Hamas, che ha fatto le sue congratulazioni. Arriva due giorni dopo la dichiarazione durissima di Abu Mazen davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite: la Palestina, ha detto, non riconosce più il valore degli accordi di Oslo, fondamento da oltre vent'anni del processo di pace tra Israele e Palestina.
   Mentre l'attenzione dei media è rivolta altrove, alla guerra in Siria e alla crisi internazionale dei rifugiati, c'è una escalation di ostilità tra palestinesi e israeliani. Al Fatah riceve finanziamenti e aiuti dall'Unione europea e dall'America, ma le brigate militari affiliate dichiarano apertamente di ricevere addestramento e finanziamenti dall'Iran e dal gruppo libanese Hezbollah. Ora la parte militare dell'ibrido sta prendendo il sopravvento e un altro pezzo di stabilità del medio oriente, l'immobilismo di al Fatah e dei suoi leader, rischia di essere rimpiazzato dalla violenza. Sarebbe un magro risultato dopo questi anni di colloqui diretti con Washington e Bruxelles.

(Il Foglio, 3 ottobre 2015)


Dire il Kaddish a nove anni

di Deborah Fait

I coniugi Henkin
Dicono che a 9 anni non sia giusto recitare il Kaddish. E' vero, sono i grandi che lo recitano e, comunque, dopo i 13 anni quando un ebreo entra nell'età adulta. Ma è anche vero che a 9 anni non è giusto assistere all'assassinio dei propri genitori. Matan ha voluto esserci ai funerali della mamma e del suo papà, era là, piccolo, in mezzo alla folla di migliaia di persone, era vicino ai suoi nonni e piangeva ma non come piangono i bambini, con rassegnazione, era attento a tutto, era disperato e guardava e si metteva in piedi e si portava le mani al viso. Piangeva forte, con i singhiozzi che lo scuotevano ma non chiedeva aiuto a nessuno, sembrava, in mezzo a quelle migliaia di persone, essere lui, solo, con mamma e papà. Nessun altro intorno a loro. Lui aveva capito subito quello che era successo quando li ha visti accasciarsi, aveva capito tutto e, in quel preciso momento, quel bambino è diventato grande.
  Naama e Eitan sono stati assassinati mentre erano in macchina con quattro dei loro sei bambini, sono stati freddati vicino a Itamar dove due anni fa fu sgozzata la famiglia Fogel. Questa volta, forse per la fretta, forse pensando che sarebbero morti comunque per l'impatto dell'auto ormai senza guidatore, non hanno sparato ai bambini. Quando sono arrivati i soccorsi li hanno trovati sotto chock e lui, Matan, il più grande, gridava "qualcuno ha ammazzato i miei genitori".
  Si qualcuno li aveva ammazzati perché erano ebrei e perché è Shavuot e gli ebrei festeggiano e sono felici e i bambini dormono all'aperto, nelle capanne in giardino o sul balcone di casa e ai palestinisti la gioia non piace, vogliono il male, vogliono la violenza, vogliono sangue e se lo procurano. Non passa mai una festività ebraica senza che qualche "angelo della pace" non ammazzi qualche ebreo e questa volta la roulette russa cui siamo sottoposti, ultimamente soprattutto a Gerusalemme e in Giudea/Samaria, ha colpito Naama e Eitan. Ha rivendicato l'assassinio Fatah, il partito di Abu Mazen, il moderato, l'angelo della pace di Papa Bergoglio.
  A Gaza hanno festeggiato per le strade, come al solito. in Giudea e Samaria è esplosa la guerriglia, sul Monte del Tempio hanno sparato, gettato bombe molotov, pietre, non si son fatti mancare niente, barbari invasati di odio.
  Tutte le fazioni palestiniste, da Ramallah a Gaza, hanno parlato di "azione eroica".
  Non ho sentito ancora una sola condanna da parte del mondo, da parte di Ban ki Moon, da parte della Mogherini sempre pronta ad addolorarsi quando resta ucciso un palestinese in qualche scontro con l'esercito israeliano.
  Abu Mazen era andato a parlare all'ONU dicendo che avrebbe fatto scoppiare una bomba col suo discorso, poi ha detto le solite cose di ogni giorno, ha minacciato Israele, ha accusato Israele, ha giurato che gli accordi di Oslo non sarebbero più stato onorati e tutti si sono chiesti, in Israele, quando mai è stato fatto dal momento che, da quel giorno del 1993, il terrorismo palestinista è diventato quotidiano raggiungendo livelli disumani.
  Al suo ritorno a Ramallah, mentre in Samaria si svolgevano i funerali di Naama e Eitan, il malefico presidente decaduto di un paese che non c'è ha detto, sempre urlando, che, come è stata issata all'ONU la bandiera palestinista, così accadrà a Gerusalemme e quella bandiera sventolerà sulle mura di ....Al Quds. Abu Mazen, il terrorista, l'ideatore della strage di Monaco, il negazionista, fa esattamente quello che faceva il suo padrone Arafat, incita all'odio, incita al terrorismo e tutto il mondo lo adora.
 
Il discorso di Netanyahu all'ONU
  Com'è che il mondo occidentale adora sempre chi odia gli ebrei? Come mai chi minaccia Israele viene sempre accolto con deferenza e simpatia? Lo ha spiegato Benjamin Netanyahu nel suo meraviglioso discorso alle Nazioni Unite quando, in un momento di enorme pathos, ha accusato il mondo di restare "immobile e indifferente di fronte alle minacce di una seconda Shoah da parte dell'Iran", citando testualmente le parole di Khamenei "Tra 25 anni non ci sarà più nessun Israele e fino a quel momento non avrà un solo giorno di pace" e, ha proseguito, "Settant'anni dopo l'assassinio di sei milioni di ebrei, i governanti iraniani promettono di distruggere il mio paese, di assassinare la mia gente. E la risposta di questo organismo, la risposta della quasi totalità dei governi qui rappresentati è stata uno zero assoluto, un totale silenzio. Un silenzio assordante".
  Pronunciate queste parole, Netanyahu, è rimasto, lui, in silenzio per 45 secondi guardando i presenti che, forse presi alla sprovvista, non avevano nemmeno il coraggio di respirare.
  Non era mai accaduto prima. Silenzio, 45 lunghissimi secondi, all'ONU, mentre il Primo Ministro di Israele, immobile, muto, diceva più di mille parole, gridava più di mille accuse. Purtroppo il pathos di quel momento è destinato a venir risucchiato dal cinismo e dalla totale indifferenza del mondo, dalle simpatie per i terroristi, soprattutto quelli che ammazzano gli israeliani, e abbiamo avuto l'ennesima dimostrazione del classico "chi se ne frega", oggi, nella triste occasione dei funerali dei due giovani genitori ebrei.
  La mamma di Naama, davanti al corpo della figlia e di Eitan avvolti nel talled, ha detto:
  " Ci avete lasciato il regalo più prezioso, i vostri bambini che sono miracolosamente sopravvissuti. Faremo del nostro meglio per crescerli come voi avreste voluto".
   Matan significa dono, il dono che i suoi genitori hanno avuto quando è nato 9 anni fa, Matan e i suoi tre fratellini (5 e 4 anni e 4 mesi) sopravvissuti all'attentato, oggi li hanno salutati per sempre, li hanno salutati piangendo non urlando come fanno quelli che hanno solo odio e barbarie nel cuore. I media italiani ne hanno dato la notizia, ohh si, l'hanno data, come no, la Rai, senza mai smentirsi, ha parlato di una coppia di coloni ebrei uccisi.... Mediaset è andata meglio, sono stati corretti " una coppia di israeliani è stata trucidata..." Persino La Repubblica.it ha parlato di "due israeliani uccisi..." il che è tutto dire. Pare evidente che la parola "coloni" resta ancorata in Rai e che i suoi inviati, nel caso specifico Piero Marrazzo, non hanno ancora capito che in Giudea e Samaria vivono cittadini israeliani.
  Aveva 9 anni anche una delle cinque bambine-bomba che in Nigeria si sono fatte esplodere ammazzando altre 14 persone. La cultura dell'odio e della morte da decenni, da quando ne era portavoce e maggior attore Arafat, si è diffusa a macchia d'olio e sta ammorbando il mondo intero rendendolo complice e assuefatto ai peggiori orrori.
  La cultura dell'odio scoppierà in faccia agli occidentali ciechi e ottusi cancellando civiltà, bellezza, umanità, arte e vita.
  Si, l'odio cancellerà la vita. La barbarie cancellerà la bellezza. Ma Israele resterà per sempre e la cultura della vita, tanto amata dagli ebrei, è oggi rappresentata da Matan, un coraggioso bambino di soli 9 anni. La vita e l'amore hanno dato a quel piccolo corpicino, teso come le corde di un violino per la disperazione e per emozioni che solo lui poteva sentire, la forza e il coraggio di benedire mamma e papà uccisi dai mostri e di accompagnarli nel Gan Eden.
  Israele, ha detto Netanyahu, è in prima linea nella battaglia della civiltà contro la barbarie. "State a fianco di Israele perché Israele non difende solo se stesso. Difende anche voi!" Oggi quel bimbo ha dimostrato a tutti quanto siano vere quelle parole, ha dimostrato che questo è Israele: coraggio e vita anche nelle prove peggiori e nel dolore più inaccettabile.

(Inviato dall'autrice, 3 ottobre 2015)


Rabbia e dolore ai funerali dei giovani coniugi israeliani uccisi

di Domenico Bruni

Il capo dello Stato israeliano Reuven Rivlin (Likud) é stato attaccato verbalmente da estremisti di destra al termine dei funerali dei due israeliani uccisi da palestinesi giovedì in un attentato in Cisgiordania e la polizia gli ha fatto scudo per consentirgli di raggiungere indenne la propria automobile. Lo ha riferito radio Gerusalemme. I suoi assalitori polemizzavano per le sue parole di autocritica espresse a luglio in seguito all'incendio doloso che provocò la morte di tre membri di una famiglia palestinese. In precedenza migliaia di persone, per lo più israeliani residenti in Cisgiordania, erano convenuti in un cimitero di Gerusalemme per i funerali delle giovani vittime, Eitam e Naama Hankin. Nel corso dell'elogio funebre, Rivlin ha detto: «Dobbiamo far fronte ad una offensiva terroristica crudele. Il terrorismo ci ha accompagnato fin dai primi giorni in cui abbiamo iniziato a costruire qua il nostro focolare nazionale, senza mai riuscire ad indebolire la nostra presa sul terreno. Combatteremo il terrorismo senza incertezze, senza pietà, senza debolezze. Combatteremmo, e lo vinceremo». Rivlin ha rivelato di aver ricevuto mesi fa una lettera personale da Naama Hankin, dopo che un israeliano era stato ucciso in un attentato in Cisgiordania a breve distanza dalla sua abitazione. «Le scrissi parole di conforto, ma non avrei mai immaginato - ha aggiunto - che in seguito avrei dovuto confortare di persona i suoi orfani'». Dopo la inumazione dei corpi gli animi si sono scaldati e verso Rivlin si sono lanciati due esponenti dell'estrema destra, Itamar
   Ben Gvir e Benzion Gopshtein, indignati per le dure critiche espresse da Rivlin dopo la uccisione dei tre membri della famiglia palestinese. «Devi chiedere scusa al popolo ebraico» gli hanno intimato, prima di essere allontanati a forza dalla polizia. E dopo l'uccisione della giovane coppia di israeliani, il capo di stato maggiore israeliano generale Gadi Eisenkot ha ordinato l'invio di altri quattro battaglioni di soldati in Cisgiordania. Molti dei villaggi palestinesi della zona sono stati circondati dalla truppe e molti sospetti sono stati arrestati nel tentativo di avere informazioni di intelligence sull'omicidio dei 2 israeliani. Come si ricorderà, a poche ore dal discorso del premier Benyamin Netanyahu all'Onu, due genitori israeliani di circa 30 anni sono stati crivellati di colpi in un attacco terroristico mentre erano nella loro auto non lontano da Nablus in Cisgiordania. A bordo del veicolo c'erano anche i loro quattro figli il più piccolo di 4 mesi, gli altri tra i 4 e i 9 anni. Tutti sono rimasti illesi nonostante i colpi indirizzati verso l'automezzo. La zona dell'uccisione è quella tra i due insediamenti di Alon Moreh e Itamar in Cisgiordania, già luogo nei mesi scorsi di altri incidenti. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, l'auto che portava la famiglia è stata attaccata poco dopo le 21 da uno o forse due terroristi che hanno sparato numerosi colpi di pistola e sembra anche di fucile. Gli aggressori, secondo i media, sono poi fuggiti a bordo di una macchina verso il vicino villaggio palestinese. Entrambe le vittime, secondo i medici accorsi sul posto, sono state colpite varie volte nella parte superiore del corpo e per loro non c'è stato nulla da fare.

(Secolo d'Italia, 3 ottobre 2015)


La mia Israele

Da Gerusalemme a Tel Aviv. Un viaggio tra mare, deserto e città cosmopolite. Con tappe kid-friendly.

di Camila Raznovich

 
Sono in volo verso l'italia. Lasciando questa terra antica e sacra ripenso ai giorni trascorsi nel tentativo di comprenderne l'essenza, il mistero, la magia. Quanti prima di me, quanti dopo vedranno Israele, calpesteranno le sue pietre, e quanti ancora ne recrimineranno la discendenza e la paternità? Quanta storia e quanto passato in questo lembo di terra che ancora oggi non trova pace da quei conflitti che lo feriscono e che echeggiano in tutto il mondo. Ma Israele è molto di più, è incredibilmente bella e generosa, un Paese tra il deserto e il mare con le sue città multietniche e le sue contraddizioni.
   Arriviamo a Gerusalemme, sacra per eccellenza, bianca ed elegante, pacata e silenziosa, sta come una regina arroccata e isolata sulla cima del monte. Fa impressione pensare che in un fazzoletto di terra all'interno delle mura della Città Vecchia siano concentrati i tre monumenti simbolo più importanti per le tre fedi monoteiste. Ci perdiamo nei vicoli che caratterizzano i tre quartieri, tra l'altro molto ben definiti: quello ebraico, quello musrulmano e quello cristiano. Cerco, invano, di spiegare (a grandissime linee) alle mie figlie, Sole e Viola, ciò che stanno vedendo: pur non comprendendone la portata storica ne decifrano però il fascino. E così procediamo, a bocca aperta e naso all'insù, dal Muro del Pianto al Sacro Sepolcro, dalla Spianata delle Moschee alla Via Dolorosa che, sviluppandosi nel cuore di quello che oggi è il quartiere musulmano, rappresenta in maniera emblematica l'anima di questa città.
   Dopo tre giorni passati camminando immersi nella storia, decidiamo di raggiungere il Mar Morto. Già solo il nome spaventa e incuriosisce Sole e Viola, che vogliono capire perché (povero mare) sia morto… La strada per arrivarci è solo una, e nel tragitto ci fermiamo a visitare il Kibbutz Ein-Gedi e il suo meraviglioso giardino botanico: se viaggiate in Israele con i vostri bambini è una tappa dovuta. È divertente e interessante, un esempio per illustrare ai più piccoli il concetto di convivenza pacifica in una comunità autosufficiente come un kibbutz. La memoria torna al mio passato: da piccola ho vissuto in vari ashram, mi è così familiare quella sensazione di condivisione in una comunità di persone che vivono e lavorano insieme, con il loro orto, la loro scuola, la piscina e l'infermeria, e soprattutto con un sogno, quello di costruire un mondo migliore.
   Il paesaggio è lunare, circondato da montagne di deserto che un tempo facevano da fondale a quello stesso mare che di anno in anno si prosciuga e si ritira, lasciando dietro di sé altra terra arida e salata. Il Mar Morto è come un grande lago che si trova tra Israele e la Giordania, una depressione, la più grande sulla faccia della Terra, a 423 metri sotto il livello del mare. Bagnarsi nelle sue acque calde e oleose è davvero un'esperienza unica, e se avete qualche ora da spendere vale la pena fare un trattamento con i fanghi, toccasana sia per la pelle sia per le ossa.
   Risalendo verso nord è d'obbligo la visita ai resti archeologici della fortezza di Masada, luogo sacro e carico di significato per l'orgoglio di questo Paese, tanto che il giuramento di una recluta dell'esercito israeliano recita: «Masada mai più cadrà».
   Il nostro viaggio procede verso la costa, verso l'ultima tappa, Tel Aviv, una metropoli a tutti gli effetti. Cool quanto Berlino, internazionale quanto New York e bohémien quanto Parigi. Punto cruciale della rete stradale ed economica di Israele, affacciata sul mare, ha conquistato il mio cuore europeo. Di giorno le sue spiagge si popolano di sportivi di tutte le età che corrono, saltano, nuotano, giocano. Le vie sono un fermento di culture ed etnie diverse.
   Tel Aviv by night è spettacolare, c'è solo l'imbarazzo della scelta su dove passare la serata, una quantità di locali così diversi tra loro da far impallidire qualsiasi capitale europea. A sud della città si trova Jaffa, per me un vero gioiello e una piacevole scoperta, perché oltre a essere piena di fascino e con una grande storia, nelle sue stradine si trovano alcuni dei negozi più interessanti che abbia visto in Israele. Poco fuori da Tel Aviv c'è Holon, una cittadina totalmente a misura di bambino che, se viaggiate con i vostri figli, potrebbe salvarvi la giornata. Offre tante possibilità di intrattenimento, una su tutte il Museo dei bambini, esperienza eccezionale che ha permesso alle mie figlie di trasformarsi in farfalle…
   Mi accorgo ora che stiamo per atterrare a Roma, con un solo, piccolo dispiacere. Che il viaggio sia già finito, avrei voluto più tempo… Ma questo è solo un arrivederci, a presto Israele!

(Io Donna, 3 ottobre 2015)


Il Bahrein richiama l'ambasciatore a Teheran ed espelle il delegato iraniano dal paese

MANAMA - Il governo del Bahrein ha richiamato ieri il suo ambasciatore in Iran, Rashid Saad al Dossari, un giorno dopo il sequestro da parte delle forze di sicurezza locali di 1,5 tonnellate di esplosivo, e l'arresto di un certo numero di presunti agenti delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il ministero degli Affari Esteri del Bahrein ha reso noto in un comunicato che l'incaricato d'affari iraniano in Bahrein, Mohammad Reza Babai, è dichiarato persona non grata, e gli ha dato 72 ore per lasciare il paese. Il comunicato ha spiegato che l'decisione è stata presa in risposta alla "continua ingerenza da parte dell'Iran negli affari del regno, e al tentativo da parte di Teheran di fomentare conflitti settari".

(Agenzia Nova, 2 ottobre 2015)


Spagna - Sì alla nazionalità per i discendenti degli ebrei espulsi

MADRID - È entrata ieri in vigore in Spagna la legge che permette ai discendenti degli ebrei cacciati nel lontanissimo 1492 di acquisire la nazionalità spagnola. La riforma del codice civile, approvata in giugno, prevede che i discendenti degli ebrei sefarditi, cacciati dai Re Cattolici Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, possano quindi ottenere la cittadinanza spagnola senza perdere quella di origine e senza avere l'obbligo di risiedere in Spagna.
  L'obiettivo dichiarato dal governo di Madrid è di natura essenzialmente morale: riparare «l'errore storico» commesso a suo tempo dalla Spagna con la cacciata dei loro antenati.
  Per ottenere la cittadinanza, i candidati dovranno provare la loro discendenza e il legame speciale con la Spagna tramite una prova di lingua e cultura.
  Si calcola che i discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna siano circa 3,5 milioni, la maggior parte dei quali risiedono in Israele, Francia, StatiUniti e Argentina, ma anche in Italia.
  Finora i discendenti degli ebrei sefarditi potevano ottenere la nazionalità spagnola attraverso lo stesso meccanismo che viene utilizzato per i latinoamericani: attraverso una residenza di due anni in Spagna o con la carta di naturalizzazione concessa in circostanze eccezionali per uno stretto rapporto con la Spagna.
  Nonostante i grandi numeri dei potenziali aventi diritto, non sembra probabile che la novità decisa da Madrid porterà a cambiamenti di nazionalità in massa: negli ultimi otto anni, sono stati 900 i sefarditi che hanno ottenuto la nazionalità spagnola, in maggioranza attraverso la carta.

(il Giornale, 2 ottobre 2015)


Bracha Benhaim, la giovane stilista che piace agli ebrei ortodossi

Non ha ancora 19 anni, durante gli studi in una scuola religiosa a Gerusalemme ha scoperto che i suoi abiti piacevano molto alle coetanee. E l'hobby è diventato business.

di Maurizio Molinari

 
Quattro modelle vestite Bracha Benhaim
GERUSALEMME - Colori sgargianti, tessuti leggeri e fantasia a volontà: sono i vestiti di Bracha Benhaim ad attirare attenzione e clientela nel mondo degli ebrei ortodossi. Benhaim è diventata una designer quasi per caso: deve compiere ancora 19 anni, le piace molto cucire e durante gli studi in una scuola religiosa a Gerusalemme ha scoperto che i suoi abiti piacevano molto alle coetanee. Prima ne ha venduto uno, poi un altro, accorgendosi che le richieste erano in crescita. Perché dopo le amiche sono arrivate sorelle e madri.
   Il salto è stato nella prima "giornata di vendita", organizzata in una casa privata inondata di acquirenti. Da qui la scelta di trasformare la passione in business diventando, assai velocemente, la designer più ricercata dalle giovani donne ebree ortodosse. Il suo motto è «prendo la moda, che è una cosa materiale, e la santifico». In concreto significa rispettare le norme della legge ebraica in termini di "modestia" del vestire - con maniche lunghe, gonne sotto il ginocchio e testa coperta se si è sposate - ma offrendo abiti più colorati, fantasiosi e leggeri di quelli tradizionali - colori pastello e tessuti pesanti - che dominano nei quartieri ultraortodossi da Gerusalemme a New York, da Anversa a Melbourne.
   Il successo è tale da consentirle di sognare di poter presto aprire una boutique tutta sua a Parigi ma si rende conto che per lei, ancora nubile, il successo può trasformarsi in ostacolo nella ricerca di un marito. «Credo che chiunque mi sposerà, mi accetterà per come sono» afferma, parlando con il quotidiano «Yedioth Aharonot», il più diffuso in Israele, che la descrive come la fonte di una trasformazione rivoluzionaria nel modo di vestire perché «dimostra che si può indossare un abito capace di coniugare il rispetto della legge ebraica con il proprio gusto».

(La Stampa, 2 ottobre 2015)


Tenaglia sull'Isis. Dopo Mosca arriva Teheran

di Maria Teresa Olivieri

Lo scacchiere internazionale in Medioriente diventa sempre più confuso, dopo gli attacchi dei francesi in Siria a cui sono seguiti i raid russi al fianco di Assad, adesso Teheran invia centinaia di soldati per partecipare alla maxi controffensiva di terra anti-Isis al fianco di Assad, supportata dalle forze russe presenti nel paese. Dopo aver fornito assistenza a Damasco tramite consiglieri militari, ora l'Iran invia truppe che si uniranno alle forze siriane, supportate inoltre da quelle di Hezbollah già operanti nel Paese e alle milizie di volontari sciiti che arrivano dall'Iraq e dall'Afghanistan.
   Mosca intanto prosegue i bombardamenti, colpendo anche la città recentemente conquistata dall'Isis, Qaryatayn, portando alle prime reazioni dello Stato Islamico che ha anche minacciato il presidente Putin. Nello stesso tempo proseguono anche le polemiche da parte occidentale, dopo le accuse francesi di bombardamenti diretti contro l'opposizione al regime siriano, si viene a sapere che il Pentagono sta "valutando" se gli Stati Uniti debbano usare la forza militare per proteggere i ribelli anti-Assad da essi addestrati in Siria se questi vengono bersagliati dai raid della Russia.
   Il Segretario di Stato, John Kerry, ha ribadito da parte sua: "La cosa importante è che la Russia non indirizzi le sue azioni contro altri che non sia l'Isis. Questo è chiaro e lo abbiamo fatto presente in maniera chiara". Ma intanto la grande novità di vedere questa offensiva in cui "gli iraniani agiranno dal basso e i russi dall'alto", porta ai primi malumori alla Casa Bianca che vede profilarsi la fresca alleanza della Russia con l'Iran e la Siria. A preoccupare gli Usa anche l'acceso entusiasmo dell'Iraq sugli attacchi russi e che continua a polemizzare sui "finora fallimentari" tentativi americani di fermare l'avanzata dell'Is. Baghdad da parte sua ha mandato in soccorso all'aviazione di Mosca i suoi vertici militari.
   Anche il leader ceceno Ramzan Kadyrov si è detto pronto a intervenire per mandare i suoi soldati in Siria a combattere contro l'Isis: "Non dico così per dire, chiedo che ci permettano di andare e partecipare a queste operazioni speciali". Ma la decisione spetta al comandante supremo Vladimir Putin che incassa il suo primo successo politico e militare dopo il disastro nel Donbass. "Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli bombardamenti aerei l'Is non sarà battuto. La cosa singolare è che la Russia versa in acque economiche molto tempestose ma nonostante ciò Putin dimostra una forza politica ancora determinante sullo scacchiere occidentale", afferma l'ex Presidente del Consiglio Romano Prodi in un'intervista a Eugenio Scalfari.
   Nonostante le polemiche americane contro Putin il successo della controffensiva di Mosca è agli occhi di tutti: Mosca ha bombardato Qaryatain, città controllata dall'Isis, dove decine di cristiani sono in ostaggio. Nelle ultime 24 ore l'aviazione militare russa ha effettuato 18 raid contro 12 obiettivi dei terroristi, distruggendo tra l'altro un posto di comando, un nodo di comunicazione, bunker, depositi di armi e carburanti e un campo di addestramento dell'Isis. Il presidente della Commissione Esteri della Duma, Alexei Pushkov, ha comunque precisato che "c'è sempre il rischio di rimanere impantanati". In ogni caso, al di là della durata delle operazioni, "credo che l'aspetto importante sia l'intensità: se le operazioni vengono condotte in modo più efficace sarà possibile vedere risultati".
   Per la Russia ora resta in sospeso il nodo ucraino, oggi infatti sono iniziati a Parigi i lavori del gruppo di lavoro "quartetto Normandia" sulla crisi in Ucraina. Le delegazioni di Russia, Ucraina, Francia e Germania, si riuniscono per discutere delle elezioni locali nelle regioni orientali di Luhansk e Donetsk, il ritiro delle armi pesanti dalla linea di contatto così come delle concessioni del diritto di monitoraggio al personale dell'Osce.

(Avanti!, 2 ottobre 2015)


Boicottaggio (ipocrita) di Israele

L'ha deciso il comune di Reykjavik. E nei confronti del Califfato, della Jihad islamica, di Al Qaeda? Silenzio

di Aldo Grasso

Nessun legame accademico e professionale con colleghi israeliani. Ma anche nessuno studente israeliano, nessun libro di testo redatto da ìsraelìanì, È quanto ha deciso la London University nel mano scorso, mettendo ai voti il boicottaggio accademico nei confronti dello Stato ebraico. La London University - la più prestigiosa università inglese per gli studi mediorientalì - è diventata così il primo ateneo inglese a votare ufficialmente la fine di ogni relazione con i colleghi israeliani. Magari uno si aspettava che la "prestigiosa" London University boicottasse anche stati come la Siria, il Sudan, il Qatar, l'lran, la Corea del Nord, tanto per fare alluni esempi di canagliume, ma si vede che il boicottaggio accademico mira di pitt a punire le idee che i falli concreti. Anche il celebre fisico e cosmologo brilannico Stephen Hawking aveva annullato anni fa la propria partecipazione a una conferenza promossa dal presidente israeliano Simon Peres a Gerusalemme, aderendo alla campagna di boicottaggio degli accademici britannici nei confronti di Israele. Un cosmologo lungimirante! Adesso è scesa in campo l'Islanda con i suoi 323.000 abitanti. Vuole boicottare i prodotti israeliani. II comune di Reykjavik ha infatti votato un provvedimento con cui la città non accoglierà nessun altro oggetto prodotto in Israele, flno a quando questa continuerà l'occupazione del suolo palestinese. Ad avanzare la mozione, Björk Vìlhelmsdòtir, consigliera della Social Democratic Alliance, che prima di ritirarsi dalla politica, voleva lasciare un suo contributo all'impegno per i diritti umani, a cui da sempre la città ìslandese guarda. Niente boicottaggio nei confronti del Califfato, della jihad ìslamica, di Al Qaeda. Solo Israele, solo uno stato democratico.

 Domande provocatorie
  La miglior risposta a queste ipocrite forme di protesta è venuta da di Yair Lapid, leader del partito israeliano Yesh Atid. Ha scritto: «II boicottaggio include anche i prodotti fatti dalla minoranza araba in Israele che rappresenta il 20% della popolazione? Il boicottaggio include i 14 parlamentari arabo-israeliani che siedono accanto a me nel Parlamento israeliano? TI boicottaggio include anche le fabbriche che danno lavoro a decine di migliaia di palestinesi per i quali questa è l'unica opportunltà per provvedere ai propri figli? TI boicottaggio include anche gli ospedali israeliani nei quali decine di migliaia di palestinesi vengono curati ogni giorno? il boicottaggio include anche le produzìonì fatte dal 71% degli israeliani che secondo l'ultimo sondaggio sostiene la soluzione di "due popoli, due Stati" e la creazione di uno Stato palestlnese accanto a Israele?». Il boicottaggio dovrebbe anche includere Microsoft Office, le videocamere dei cellulari, Google, ognuno dei quali contiene elementi inventati o prodotti in Israele?

(Corriere della Sera, 2 ottobre 2015)


Netanyahu all'Iran: «Non ci distruggerete»

Appassionato intervento del premier israeliano contro l'intesa sul nucleare

di Rolla Scolari

«Dopo tre giorni qui ad ascoltare i leader del mondo lodare l'accordo sull' Iran, vi dico: non siate così entusiasti». Benché l'intesa siglata da sei potenze internazionali, tra cui gli Stati Uniti, sia oramai un dato di fatto e sia considerata uno dei maggiori successi dell'Amministrazione Obama in politica estera, Benjamin Netanyahunon smette di essere la voce contro. Il premier, che ha puntellato la sua lunga arringa davanti all'Assemblea generale dell'Onu con pause drammatiche, non ha mancato ieri di fare il legame tra quello che considera un cattivo accordo sul programma nucleare iraniano e laquestione più dibattuta in questi giorni fuori e dentro Palazzo di Vetro: il conflitto in Siria. «Quest'intesa - ha detto - non rende la pace più probabile, rende laguerra più probabile», ha dichiarato prima di ricordare come l'Iran abbia «soltanto negli ultimi sei mesi» «aumentato la fornitura di armi devastanti alla Siria», inviato uomini armati, «sostenuto il brutale regime di Assad»,
  Per Netanyahu, l'accordo internazionale siglato pochi mesi fa non obbligherebbe Teheran a comportamenti diversi sullo scacchiere mediorientale e il premier anzi accusa la Repubblica degli ayatollah di azioni sempre più aggressive: «I vostri piani per distruggere Israele falliranno». Sulla Siria, una frase di Netanyahu riassume l'intera strategia israeliana nella sua opposizione all'Iran: «Israele continuerà a rispondere a ogni attacco dalla Siria e continuerà a fermare il trasferimento di armi attraverso la Siria a Hezbollah», le milizie sciite alleate di Teheran che, dal vicino Libano, hanno combattuto una guerra contro Israele ne1 2006.
  Soltanto dopo lunghi minuti dedicati alla sua strenua opposizione all'intesa nucleare e dopo aver dichiarato che, non avendo potuto evitare la firma di un accordo, Israele «controllerà da vicino» che l'intesa non sia violata, il primo ministro ha menzionato per la prima volta il conflitto con i palestinesi e risposto a quello che ha detto Abu Mazen giovedì. Il presidente palestinese ha aggiunto nuova tensione all'annoso conflitto senza però arrivare a un punto di rottura quando dal podio delle Nazioni Unite ha detto che i palestinesi non si sentono più legati ai precedenti accordi con Israele perché, ha spiegato, Israele non li rispetta con la protratta costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Nello specifico il riferimento era agli accordi di Osio su cui si basa il processo di pace e che hanno dato vita all'Autorità nazionale palestinese e alla limitata autonomia di governo nei Territori.
  Da anni, il raìs minaccia la dissoluzione dell'Autorità e di fatto la fine della cooperazione in materia di sicurezza con gli israeliani. Netanyahu ha dichiarato ieri di essere pronto a tornare immediatamente al tavolo del negoziato senza precondizioni - ha poi citato la demilitarizzazione di una futura nazione palestinese e il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico - di essere impegnato per la realizzazione di due Stati in pace: «Sfortunatamente Abbas ha detto ieri di non essere pronto, spero che cambi idea». I palestinesi chiedono che prima di sedersi al tavolo delle trattative Israele congeli la costruzione di insediamenti nei Territori e a Gerusalemme Est.

(il Giornale, 2 ottobre 2015)


L'assordante silenzio del mondo, nel discorso di Netanyahu alle Nazioni Unite

"Settant'anni dopo l'assassinio di sei milioni di ebrei, i governanti iraniani promettono di distruggere il mio paese e la risposta di quasi tutti i governi qui rappresentati è il totale silenzio".

All'indomani del bellicoso discorso all'Onu del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è rivolto giovedì sera all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con un intervento di circa quaranta minuti che passerà alla storia per 45 secondi di silenzio.
Nel suo discorso, Netanyahu ha affrontato la minaccia palestinese di annullare gli accordi con Israele, l'aggressione iraniana in Medio Oriente e l'intervento russo in Siria. Ma il momento di massimo pathos è stato quando Netanyahu ha accusato il mondo d'essere rimasto in "assordante silenzio" di fronte alle ripetute, esplicite minacce iraniane di distruggere Israele....

(israele.net, 2 ottobre 2015)


L'Isis arriva in Israele

Sette israeliani sono stati formalmente accusati dal tribunale di Nazareth di aver formato una cellula dello Stato Islamico con l'obiettivo di compiere attacchi terroristici.

Mentre al Palazzo di Vetro dell'ONU per la prima volta sventola la bandiera della Palestina, il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, interverrà oggi all'Assemblea Generale dell'Onu.
All'indomani delle dure parole contro Israele espresse dal leader palestinese, Mahmoud Abbas, gravi verità emergono a Nazareth.
Sette israeliani sono stati formalmente accusati dal tribunale di Nazareth di aver formato una cellula dello Stato Islamico con l'obiettivo di compiere attacchi terroristici.
Secondo quanto riportato da Adnkronos che cita quanto riferiscono i media locali, alcuni degli imputati sarebbero stati in contatto con altri israeliani che sono partiti per la Siria per combattere nelle fila dell'Is.
Tre esponenti del gruppo — Ahmed Mahagna, 20 anni, Mohamamd Sharif, 22 anni, e Mohamamd Ghazali, 23 anni — sono accusati di aver contattato agenti stranieri e un'organizzazione illegale per pianificare attentati contro obiettivi militari israeliani.
I tre, che si sarebbero anche allenati a sparare nel bosco, volevano aprire il fuoco contro un veicolo della polizia e una base militare.
Altri tre imputati sono accusati di aver fornito le armi. Il settimo, Ahmed Ahmed, già in carcere per aver ucciso un tassista israeliano nel 2009 e residente a Nazareth, avrebbe pianificato gli attacchi in contatto telefonico con i complici.

(Sputnik Italia, 1 ottobre 2015)


Egitto: riaperta l'ambasciata israeliana, a beneficio di chi?

Diverse opinioni sulla riapertura della sede diplomatica israeliana al Cairo.

di Sonia Farid.* Da Al-Arabiya. Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

 
L'ambasciata israeliana al Cairo ha riaperto ufficialmente nel totale silenzio dei media, un fatto che ha reso l'evento ancora più controverso di quanto già non sia.
  L'Egitto ha mantenuto un profilo basso per la cerimonia di apertura, inviando il vice responsabile del protocollo diplomatico a presiedere all'evento. Di contrasto, il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano è arrivato al Cairo da Tel Aviv. La cosa ha suscitato domande sulla posizione dell'Egitto rispetto alla riapertura, se fosse o meno riluttante.
  Il fatto che la riapertura abbia coinciso con gli scontri alla moschea di Al-Aqsa di Gerusalemme, dove diversi palestinesi sono stati feriti dalla forze di sicurezza israeliane, ha dato l'impressione che la rabbia dell'opinione pubblica, che causò la chiusura dell'ambasciata nel 2011, non sia più un problema per lo Stato. Anche scegliere l'anniversario dell'attacco che ha scatenato l'evacuazione dell'ambasciata (9 settembre) per la sua riapertura ha suscitato qualche perplessità.
  L'ex candidato presidenziale, Hamdeen Sabahi, sostiene che il popolo egiziano non vuole un'ambasciata israeliana al Cairo ed è per questo che l'avevano fatta chiudere. "Era molto tempo prima degli scontri alla moschea di Al-Aqsa. L'ambasciata non è comunque ben accetta e la sua chiusura nel 2011 rifletteva la volontà pubblica. Per questo non dovrebbe essere riaperta e dovremmo anche smettere di inviare ambasciatori a Tel Aviv", ha detto Sabahi.
  Mohamed Seif al-Dawla, esperto in questioni palestinesi, ha detto che la riapertura è indice della stretta vicinanza tra Israele ed Egitto al momento: "Ha raggiunto livelli che non si vedevano dall'era Mubarak", ha commentato, aggiungendo che questa vicinanza è trapelata da diverse decisioni del Cairo, come la chiusura del valico di Rafah o bloccare i tunnel per la Striscia di Gaza. Infine, Seif al-Dawla ha detto che la scelta della data era una chiara sfida alla volontà del popolo e un insulto alla rivoluzione: "È come se Israele stesse dicendo ai rivoluzionari egiziani di andare all'inferno".
  Per l'analista politico esperto di questioni israeliane Tarek Fahmi, invece, la riapertura dell'ambasciata era inevitabile: "Fa parte del diritto internazionale: Paesi con relazioni diplomatiche devono avere delle ambasciate", ha spiegato. "Inoltre, le relazioni tra Egitto e Israele sono stabili da un po', quindi non c'è motivo per non riaprire l'ambasciata".
  Saied al-Lawendi, esperto in relazioni internazionali, sostiene che la rabbia non poteva fermare la riapertura: "Gli interessi comuni tra i due Paesi non possono essere ignorati". Lawendi ha sottolineato che la riapertura dell'ambasciata è più importante per Israele, "un Paese che ha bisogno di stabilità", cosa che non si può "ottenere senza delle buone relazioni con l'Egitto".
  Tuttavia, per il giornalista Mohamed Ali la riapertura è più importante per l'Egitto: "I recenti attacchi terroristici nel Sinai hanno richiesto una maggiore presenza militare nella penisola e questo non sarebbe stato possibile senza coordinarsi con Israele, come stipulato dal trattato di pace", aggiungendo che "la cooperazione securitaria tra Egitto e Israele sarà sempre inevitabile".
  Da parte sua, Ahmed Abu Zeid, portavoce ufficiale del ministero degli Esteri egiziano, ha dichiarato che la cosa non andrebbe ingigantita: "Negli ultimi quattro anni, l'ambasciatore ha continuato a fare il suo lavoro dalla sua residenza e le relazioni tra i due Paesi sono rimaste nella norma".

* Sonia Farid, oltre a essere un'assistente presso l'Università del Cairo, è una traduttrice, una redattrice e
   un'attivista politica.


(ArabPress, 1 ottobre 2015)


Veraclasse vince il Premio Stampa Israele 2015

Impegno, costanza e, soprattutto, passione sono gli elementi che hanno consentito a Veraclasse di ottenere il Premio Stampa 2015 istituito dall'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
Il riconoscimento è stato consegnato alla redattrice Ivana Gabriella Cenci, viaggiatrice incallita e autrice dell'articolo vincitore Viaggio in Israele: la Terra Santa dai mille volti, dedicato alla propria esperienza in Israele e lodato "per la completezza delle informazioni e l'originalità degli approfondimenti".
Nella vetrina dell'Expo 2015 l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo ha infatti voluto premiare i professionisti del mondo dell'editoria e della comunicazione che hanno trovato nella Terra Santa una fonte di ispirazione per il proprio lavoro.
Veraclasse primeggia nella categoria Stampa online. Viaggio in Israele non è una semplice descrizione ma un reportage di viaggio che è stato prima di tutto un'esperienza vissuta in prima persona. Un tour emozionale, che Veraclasse ha voluto condividere con i suoi lettori.
Israele è una terra da scoprire, attenta a promuovere un turismo consapevole ed eterogeneo, offrendo ai suoi ospiti numerose occasioni per vivere pienamente ciò che il paese ha da offrire.
Storia, natura, relax, avventura, archeologia e spiritualità: Israele è tutto questo e molto di più.
Passione e originalità sono le caratteristiche che contraddistingue Veraclasse. La nostra mission è sempre stata quella di promuovere un tipo di turismo di nicchia, mai banale e sostenibile.
La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso 17 settembre e ha inaugurato ciò che diventerà una lunga tradizione. Un incontro fra esperienze diverse che ha radunato importanti personalità del mondo dei media e dell'editoria tradizionale e digitale, tutti accomunati dall'amore per una terra unica.

Qui di seguito tutte le categorie, le nomination e i protagonisti premiati.
Categoria Stampa on-line:
- Veraclasse.it, Viaggio in Israele: la Terra Santa dai Mille volti di Ivana Gabriella Cenci (vincitore)
- Vogue.it, Gerusalemme inaspettata di Paola Aurucci
- Latidudeslife.com, L'utopia del deserto di Elena Brunello
Categoria Blog:
- Il blog di Costanza Miriano, Diario dalla Terra Santa di Costanza Miriano (vincitore)
- Viaggi fantastici, Organizzare un tour in Galilea di Francesca Spano
- I Murr, Tel Aviv Fashion Week di I Murr
Categoria Stampa Trade:
- Turismo & Attulità, Gerusalemme e Tel Aviv. La Storia e il Futuro di Fiorenzo Barzaghi
- Trend, In Israele tra due città e il mondo di Davide de Ponti
- TTG, Da Gerusalemme a Tel Aviv un viaggio lungo 5mila anni di Sara Carè (vincitore)
Categoria Stampa Periodica:
- Ulisse, Un giornata a…. Tel Aviv di Vincenzo Petraglia
- Area Wellness, Nel kibbutz di Ein Gedi di Giorgio Bartolomucci
- Elle, La Città Bianca di Alessandra Santini (vincitore)
Categoria TV:
- TG5, "L'Arca di Noe" di Maria Luisa Cocozza
- RAI 3, "Alle Falde del Kilimangiaro. Speciale Gerusalemme e Galilea", regia di Domenico Gambardella
- Real Time "Discovery Italia. Il Re del Cioccolato. Speciale Israele", produzione Zodiak, programma
  condotto da Ernst Knam (vincitore)

Amore per il viaggio, sete di conoscenza, voglia di avventura: il motore di un lavoro che è, prima di tutto una grande passione.
Onorata di aver ricevuto questo premio, Ivana Gabriella Cenci per Veraclasse ringrazia di cuore l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.

(veraclasse.it, 1 ottobre 2015)


Università di Tel Aviv nella top 10 per l'imprenditorialità

Nella sua ultima indagine, PitchBook, fornitore leader di dati e tecnologie per l'industria dei capitali, colloca l'Università di Tel Aviv al nono posto nel mondo - e al primo posto al di fuori degli Stati Uniti - come il miglior ateneo da cui provenire se si vuole diventare imprenditori.


L'edizione del 2015 del PitchBook Universities Report mostra che l'Università di Tel Aviv negli ultimi 5 anni ha prodotto 250 imprenditori (fondatori e co-fondatori di startup). 204 di questi, hanno dato vita a nuove aziende. In media, queste startup israeliane hanno attirato circa 1,754,000 dollari in investimenti di venture capital.
Tutte le altre università presenti nella top 10 si trovano negli Stati Uniti e comprendono istituzioni come Stanford, UC Berkeley, MIT, Harvard, Università della Pennsylvania, Cornell, Università del Texas e Università dell'Illinois.

Presenti anche altre due università israeliane:
 Technion di Haifa (20o classificato);
   Università Ebraica di Gerusalemme (39o posto).


(SiliconWadi, 1 ottobre 2015)


Le implicazioni per Israele dell'intervento militare russo in Siria

GERUSALEMME - I "grandi perdenti" dell'intervento militare russo in Siria sono gli Stati Uniti, i suoi alleati sunniti e Israele, nonostante le indiscrezioni secondo cui la Russia avrebbe informato Washington e Gerusalemme prima delle sue missioni aeree. Nonostante la Russia stesse assembrando le proprie forze da settimane - scrive il quotidiano "Jerusalem Post" in un'analisi - la notizia dell'avvio dei raid aerei contro l'Isis è stata accolta ieri con sorpresa e nervosismo, soprattutto da Washington. Secondo il quotidiano israeliano, Mosca pare intenzionata a blindare il regime del presidente siriano Bashar al Assad lasciando alla coalizione guidata dagli Usa il compito di colpire lo Stato islamico, e dedicandosi invece a contrastare le altre forze qaediste e ribelli che combattono Damasco, come dimostrato dagli obiettivi dei bombardamenti sferrati ieri. Gli obiettivi strategici di Mosca sono piuttosto chiari: La Russia punta anzitutto a salvaguardare il suo principale alleato in Medio Oriente e il suo unico porto militare nel Mediterraneo, quello di Taurus.
  Quanto a Israele, secondo la "Jerusalem Post" esce decisamente perdente dall'intervento russo, nonostante il ministro della Difesa Moshe Ya'alon abbia dichiarato che Tel Aviv non ha bisogno di coordinare le proprie operazioni militari nell'area con Mosca. Se così fosse - sottolinea il quotidiano - non si spiegherebbe per quale motivo il primo ministro Benjamin Netanyahu, accompagnato dai vertici militari israeliani, abbia chiesto udienza al presidente russo Vladimir Putin a Mosca, la scorsa settimana. Israele, sinora ha tratto un precario beneficio dallo stato di disordine regionale, che ha indebolito e distolto l'attenzione di avversari come Hezbollah e l'Iran. A dispetto di quanto affermi il governo israeliano - scrive il quotidiano - la presenza russa nell'area segna la fine dell'assoluta libertà d'azione di cui hanno sinora goduto le Forze di difesa israeliane.

(Agenzia Nova, 1 ottobre 2015)



Israele, il paradiso delle start up

Il paese mediorientale ha scommesso sulle aziende innovative. E ha vinto. Un esempio da seguire per l'Italia.

di Silvia Morara

Spoleto, il dibattito "Start Up, la lezione e l'esempio di Israele"
SPOLETO - "Start up, la lezione e l'esempio di Israele": Barbara Carfagna, giornalista del Tg1 ed esperta di start up, ha moderato a Spoleto un incontro a cui hanno partecipato grandi nomi dell'imprenditoria, del giornalismo e delle istituzioni. Ha aperto lavori Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia, definendo il suo paese "la nazione delle start up: "Grande come la Sicilia, ma con Pil pro capite simile a quello dell'Italia. L'hi tech ha fatto crescere il paese. Oggi Israele è ai primi posti in tutte le classifiche mondiali scienza, tecnologia e sviluppo". Nel paese ci sono circa 5 mila startup. E ogni anno ne nascono un migliaio".
  È seguito l'intervento di Alessandro Cecchi Paone, noto giornalista scientifico, basato sulla sua esperienza diretta: «In Israele ho intervistato tanti giovani imprenditori, come quelli che hanno inventato Waze, l'app di indicazioni stradali condivise da una community. Mentre però parlavamo, l'amministratore delegato, mi ha comunicato che la società era stata comprata da Google per un miliardo di dollari". A Tel Aviv, racconta Cecchi Paone, è stato creato un sistema: "Un marketing territoriale basato sulle tre T: tolleranza, tecnologia e talento. Oggi è la mecca dei giovani. La città è completamente connessa, gratuitamente. In Italia nessuno riesce a fare niente di simile: da noi comanda la politica, a Tel Aviv la scienza". Carfagna ha poi introdotto Ernesto Ciorra, direttore innovazione e sostenibilità Enel: "In Israele c'è un interlocutore unico per aziende come noi che cercano di innovare, in modo strutturato e continuo. Nessuno in Europa lo fa". Questo ritardo riguarda anche le aziende, però: "Nelle aziende italiane non c'è nessuno che sa dialogare con le start up. Non sono strutturate per innovare". Ciorra ha poi introdotto Haim Piratinskiy, che ha inventato nJoin, start up che oggi è diventata partner del colosso energetico italiano: "In due riunioni abbiamo chiuso l'accordo, nessuno ha fatto problemi. Non erano interessati al nostro fatturato, ma alle nostre idee". E anche Giuseppe Morlino, che ha ideato Snapback, una start up che sviluppa soluzioni che permettono di usare smartphone senza necessità di toccarli e guardarli, attraverso lo sviluppo di interfacce innovative.
  È seguito l'intervento di Giuseppe Ravasi, manager of cloud ecosystem development di Ibm Italia: «In Israele, oggi c'è un gruppo che stabilmente si occupa dei rapporti con le start up. Unica nazione in cui abbiamo un acceleratore, per start up mature. Nel 2014 sono stati stanziati più di tre miliardi di dollari per sostenere il settore innovativo. Ravasi ha fatto poi un appello ai giovani umbri interessati ad aprire una start up innovativa: "Parlatecene e cercheremo di aiutarvi". Ha invece fatto tutto da solo Danilo Iervolino, presidente Università Telematica Pegaso, nata come start up e oggi una realtà consolidata: "Pegaso è una start up nata dieci anni fa. All'inizio abbiamo avuto resistenze enormi. In molti temevamo un annacquamento della qualità, solo perché avevamo lanciato l'e-learning. Mentre oggi per noi insegnano persino due premi Nobel. Siamo riusciti a scardinare un mondo paludato come quello accademico, con fatica e coraggio".
  Al convegno organizzato da Panorama d'Italia ha partecipato anche Fernando Napolitano, presidente e ceo IB&II, un'organizzazione no-profit indipendente, con sede a New York, che favorisce l'incontro tra startup e PMI italiane dell'innovazione, con gli investitori USA: "Se avete studenti in gamba partecipate ai nostri programmi, che stanno fermando la fuga dei cervelli" ha detto Napolitano ai tanti giovani presenti all'incontro. "Non continuiamo a lamentarci. Dobbiamo rimboccarci le maniche, perché non ci mancano né il capitale umano né le idee". Ha infine concluso i lavori Domenico Arcuri, amministratore delegato Invitalia, l'agenzia per lo sviluppo nel Governo: "La Silicon Valley è nata grazie alla pervicacia di governanti illuminati, che ha finanziato l'innovazione con pervicacia e lungimiranza. Lo stesso, in misura minore, che ha fatto Israele. In Italia, invece, questo è stato fatto poco e male". Qualcosa però sta cambiando: "Da due anni" ha aggiunto Arcuri "stiamo valutando in maniera celere e diretta proposte di start up. Alla fine di questo progetto, avremo un migliaio di nuove aziende innovative sparse su tutto il territorio nazionale. Il vento adesso è cambiato".

(Panorama, 1 ottobre 2015)


Expo: dalla Calabria il cedro 'perfetto' della tradizione ebraica

 
Rav Moshé Lazar da decenni viaggia in Calabria per la festa del Sukkot alla ricerca del cedro perfetto
Cedro di Calabria
RHO - Alla ricerca dell'albero perfetto, in Calabria. Il cedro, frutto tra i simboli della Regione, presentato oggi a Expo in occasione della settimana di protagonismo calabrese, è anche un elemento cardine della cultura ebraica. "Il frutto ha un valore rituale durante una festa ebraica, la festa del Sukkot, che cade in questo periodo dell'anno", spiega Alfonso Arbib, Rabbino capo di Milano.
Questo perché il "frutto ha una serie di valori simbolici. È un frutto che ha molto bisogno di acqua che è l'elemento centrale della vita umana e durante la festa del Sukkot il popolo ebraico prega per l'acqua per il mondo intero". Inoltre, il cedro, "rappresenta da una parte il rapporto con Dio; dall'altra il rapporto col mondo e rappresenta l'unità dell'umanità", sottolinea Arbib.
Durante la festa del Sukkot, "si prega per tutti perché l'acqua è un bene comune di cui tutti hanno bisogno" e anche perché "il frutto rappresenta - dice - anche una parte fondamentale del corpo umano, il cuore, quello che alimenta tutto il corpo, ciò che dà vita al corpo". Così, spiega, "in qualche modo noi preghiamo che da questo frutto parta la vita dell'umanità intera".
Il Rabbino Mosher Lazar è da decenni che viaggia in Calabria in occasione della festa religiosa alla ricerca del cedro perfetto, quello dritto e senza macchie. Ma nella tradizione, spiega poi, "la Bibbia ci dice di prendere quattro tipi di vegetazione: il cedro, la palma, il mirto e il salice. Questi quattro hanno quattro diversità" ciascuno, ma tutti con un importante valore simbolico.
"Il cedro - spiega - ha gusto e profuma; la palma ha solo il frutto, il dattero; il mirto ha solo il profumo; e il salice né l'uno e né l'altro. Queste sono le quattro tipologie di persone" che compongono l'umanità, secondo la tradizione. "L'intelletto è rappresentato dal frutto; il profumo è delle persone buone che fanno azioni buone per il prossimo". La Bibbia, conclude il Rabbino Lazar, "dice di prendere tutto insieme perché tutti e quattro sono importanti" per l'umanità, conclude.

(Adnkronos, 30 settembre 2015)


Una scelta azzardata e rischiosa, lo zar rischia di trovarsi in un pantano

Daniel Pipes: così scatena la rabbia del fondamentalismo sunnita

di Francesco Semprini

NEW YORK- "Creare un'alleanza di matrice cristiano-ortodossa e sciita, per difendere gli interessi politici ed energetici russi e iraniani contro la minaccia dell'Isis e le mire turco-israelo-americane». Questo ha spinto Mosca a intervenire con raid aerei in Siria, secondo Daniel Pipes, fondatore del Middle East Forum.

- Cosa comporta l'intervento del Cremlino?
  «Rafforza il regime di Assad, la presenza iraniana, e l'influenza di Mosca. Mentre mette in difficoltà il governo turco, Washington e Israele».

- C'è chi dice però che Obama non sia poi così contrariato?
  «L'intervento russo permette a Obama di lavorare nelle retrovie senza esporsi troppo, e il presidente americano non ha mai voluto una eccessiva visibilità nel conflitto. Al contempo, la Russia però potrebbe trovarsi coinvolta in un conflitto di non facile conclusione, anzi in una sorta di pantano. Nel breve termine pertanto l'intervento aiuta a rafforzare il doppio asse con Teheran e Damasco, ma nel lungo periodo la situazione potrebbe essere più complicata».

- Cosa intende?
  «La Russia rischia di diventare il principale nemico dell'estremismo sunnita nella regione, potrebbe dover fronteggiare un'ondata di fondamentalismo islamico interno, e si troverebbe coinvolta in una guerra di resistenza in Siria. Ecco perché ritengo la scelta di Mosca assai strana e rischiosa».

- Allora cosa avrebbe spinto il Cremlino a intervenire?
  «E una domanda complicata, si possono configurare degli scenari. Quello che io penso è che Mosca abbia deciso di dare avvio a una partnership molto forte con Teheran e il mondo sciita, per avere nuova voce nella regione. A ciò si uniscono i timori per i cristiani del Medio Oriente, la stragrande maggioranza dei quali fanno riferimento alla chiesa ortodossa, che è assai legata alla Russia. Ed infine ci sono le preoccupazioni per il petrolio e il gas naturale, che sono fra l'altro esse stesse alla base del conflitto settario che è esploso con la guerra siriana. C'è poi l'obiettivo di rendere le cose complicate a Washington».

- Mi sembra di intuire che lei non sia convinto dell'efficacia dei raid...
  «Non saranno certo decisivi, anzi direi nemmeno rilevanti, per risolvere le sorti del conflitto».

- Cosa lo è allora?
  «Un intervento di terra ovviamente, ma nessuno vuol essere coinvolto e le attuali forze in campo contro l'Isis sono assai deboli».

- Assad dovrebbe essere parte della transizione siriana?
  «La vera domanda è che cosa vuole l'Iran. Se Teheran vuole questo allora la risposta è necessariamente affermativa».

(La Stampa, 1 ottobre 2015)


E Abu Mazen all'Onu rinnega i patti con Israele

di Elisabetta Rosaspina

Il presidente palestinese Abu Mazen non si sente più «vincolato dagli impegni firmati con Israele, finché Israele continuerà a rifiutare di rispettarli, fermando la colonizzazione dei territori, rilasciando i prigionieri, come convenuto»: l'attesa minaccia di stracciare gli accordi di Oslo sembra (quasi) tradotta in pratica nel discorso pronunciato ieri dal leader dell'Anp all'assemblea generale delle Nazioni Unite. Quasi. Poco dopo Abu Mazen partecipa, con il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, il premier turco Davutoglu e ministri d'Iran e Yemen, al primo, storico alzabandiera palestinese al Palazzo di Vetro, e proclama ilio settembre «giornata della bandiera palestinese». Neanche lui, insomma, sembra determinato a portare fino alle estreme conseguenze i propositi manifestati ieri alla comunità internazionale e, soprattutto, al governo di Netanyahu: e cioè che toccherà a Israele, d'ora in avanti, in qualità di potenza occupante farsi carico di tutte le necessità pratiche, amministrative e di sicurezza dei palestinesi, di fatto già sotto il suo controllo militare ed economico.
   Se a molti opinionisti della regione suona come un ultimatum, a Gaza non si mostra alcun dubbio sull'interpretazione da dare al discorso di Abu Mazen: «Gli accordi di Oslo sono morti», certifica Hamas. Abu Mazen, 80 anni, sempre più debole nei sondaggi in Cisgiordania, si sente tradito anche dall'Onu, «incapace di mettere fine alle ingiustizie inflitte ai palestinesi», e ha chiesto a tutti gli stati membri di riconoscere lo stato palestinese e i suoi diritti. «Il governo di Israele — ha assicurato — continua a sabotare la soluzione dei due Stati, in favore di due regimi: l'apartheid imposto ai palestinesi e l'estensione dei privilegi ai coloni».
   Oggi la parola passa a Netanyahu. Ha anticipato che smonterà «le bugie palestinesi» sulle intenzioni d'Israele di cambiare lo status quo nei luoghi sacri all'Islam, come la Moschea al-Aqsa, teatro di scontri fin dal luglio scorso. E che ribadirà tutto il suo impegno per la pace.

(Corriere della Sera, 1 ottobre 2015)


Abu Mazen e Netanyahu sono obbligati entrambi a parlare di pace, anche se è chiaro che nessuno dei due ci crede. Non che entrambi non la vorrebbero davvero, ma sono due paci diverse: Netanyahu vorrebbe una pace che permettesse a Israele di sopravvivere, Abu Mazen vorrebbe una pace che costringesse Israele a sparire. M.C.


Califfi e topi

Una galleria di Londra elimina un'opera d'arte irriverente sull'Isis. La cultura inglese si piega all'islam.

di Giulio Meotti

 
"L'Isis minaccia Sylvania", un dettaglio del lavoro dell'artista Mimsy
Sembra la versione aggiornata di "Maus" di Art Spiegelman, la storia dei topi ebrei e dei gatti nazisti durante la Shoah. Protagonista stavolta una famiglia di pupazzetti che popola una valle incantata di nome Sylvania. A irrompere nella vita di questi animaletti un commando nerovestito di ratti dello Stato islamico (Isis), pronto a massacrare gli ignari e innocenti abitanti della valle, a scuola e su una spiaggia, durante un picnic o a un gay pride.
  Si intitola "L'Isis minaccia Sylvania" l'opera dell'artista di origini siriane Mimsy, che ci ha lavorato nel corso degli ultimi due anni. "E' stato inquietante, perché ogni volta che ho immaginato una scena è poi successa in realtà", ha detto Mimsy al Guardian. "Ho realizzato la scena della spiaggia prima del massacro in Tunisia e la scena a scuola prima che Boko Haram rapisse le studentesse in Nigeria". Ma chi volesse visitare la celebre galleria Mall di Londra, che in questi giorni ospita la rassegna "Passion for Freedom", dedicata ogni anno agli artisti che subiscono la censura e la persecuzione, si dovrà accontentare dell'opera di Jamie McCartney "Il Grande Muro della Vagina", nove metri di genitali femminili. Perché l'opera di Mimsy è stata eliminata dal programma.
  La galleria d'arte l'ha rimossa, infatti, dopo che la polizia inglese ha parlato di "contenuto potenzialmente incendiario" dell'opera, informando gli organizzatori dell'evento culturale londinese che se volevano metterla in mostra avrebbero dovuto sborsare 36 mila sterline per i sei giorni della mostra. Tanto costava la sicurezza per i pupazzetti minacciati dall'Isis.
  Un portavoce della galleria ha dichiarato: "Mall Galleries è stata avvicinata dalla polizia di Westminster che ha espresso preoccupazione per i potenziali rischi di includere il lavoro di Mimsy. Hanno chiarito che ci sarebbe stato un costo aggiuntivo per la polizia se il lavoro fosse stato incluso nella mostra e hanno specificato che questo costo sarebbe stato addossato all'artista o alla mostra. Mall Galleries allora si è riunita e ha deciso di eliminare il lavoro dalla mostra".

 Cacciata l'esule iraniana dall'università
  Nelle stesse ore a Maryam Namizie, una celebre esule iraniana fuggita dopo la rivoluzione khomeinista e che oggi milita in difesa dei diritti umani, veniva impedito di prendere la parola all'Università di Warwick, una delle più prestigiose del Regno Unito. L'associazione degli studenti ha sostenuto che il suo intervento avrebbe potuto costituire un "incitamento all'odio". La prevista conferenza è stata così annullata. Si è voluto difendere, è stato detto, "il diritto degli studenti musulmani di non essere discriminati". Numerose personalità inglesi hanno fatto appello all'ateneo perché ritornasse sulla sua decisione. "Proteggere gli studenti dalle idea è una idiozia", ha scritto Salman Rushdie. "Sono le idee che una università dovrebbe proteggere". Due casi che illuminano la codardia e l'ipocrisia di un establishment artistico sempre incline a criticare le religioni innocue (i cristiani) e i regimi che non arrestano (le democrazie).
  Sui pupazzetti di Sylvania è intervenuto anche l'Index of Censorship, la rivista fondata nel 1972 da Stephen Spender e che si spese a favore dei dissidenti della Cortina di ferro. Definitivo il suo commento di ieri: "Nel 1972, Michael Scammell, primo direttore dell'Index, scrisse che 'la libertà di espressione non si autoperpetua, ma deve essere mantenuta dalla vigilanza costante di coloro che ce l'hanno a cuore'. E' ovvio che non siamo stati molto vigili". Il califfo ringrazia.

(Il Foglio, 1 ottobre 2015)


L'arma dell'indottrinamento all'odio

Un fattore cruciale contro la pace che non compare mai nei discorsi di Abu Mazen alle Nazioni Unite.

I recenti disordini a Gerusalemme sono caratterizzati da un grande numero di minorenni che agiscono insieme agli adulti. I genitori di quei ragazzi non devono fare nessuno sforzo per convincerli a lanciare pietre e bombe molotov contro ebrei, auto di ebrei o case di ebrei. Sin da quando entrano alla scuola materna, i bambini palestinesi imparano a odiare gli ebrei e a desiderare l'eliminazione dello stato ebraico.
Si veda questo stralcio da una delle canzoncine che vengono insegnate nelle scuole materne dell'Autorità Palestinese:
"Voi [ebrei] siete destinati all'umiliazione e alla sofferenza. O figli di Sion, siete le peggiori creature: scimmie incivili, patetici maiali […] Gerusalemme vi vomiterà, perché siete impuri ed essa è pura; essa è pulita e voi siete sporchi […] Non ho paura della vostra barbarie finché il mio cuore è il mio Corano e la mia città, finché reggo nella mano le armi e le pietre"....

(israele.net, 1 ottobre 2015)


I palestinesi: siamo noi i nuovi nazisti

di Bassam Tawil (*)

Un conduttore di un talk show palestinese deve far fronte a una ferma condanna e alle minacce per aver ospitato un cantante ebreo israeliano che è molto famoso tra i giovani palestinesi. Le condanne rivelano il volto orribile del movimento anti-israeliano per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), i cui seguaci sono fortemente contrari a ogni forma di "normalizzazione" delle relazioni tra gli israeliani e i palestinesi. Gli attivisti del BDS chiedono che coloro che hanno invitato Zvi Yehezkel al programma televisivo vengano puniti. E a questi stessi attivisti non sembra nemmeno importare che il cantante sia un sostenitore della pace tra Israele e i palestinesi. Essi sono più infastiditi dal fatto che un'emittente tv palestinese con sede a Ramallah abbia osato invitare un ebreo per intervistarlo. E non si vergognano di mostrare il loro antisemitismo esprimendo tutta la loro indignazione riguardo al fatto che Yehezkel sia un ebreo osservante che indossa la kippah.
  A giudicare dalle reazioni di rabbia all'intervista del cantante, si può arguire che i membri del BDS siano dei razzisti profondamente antisemiti che odiano gli ebrei solo a causa della loro fede e dell'aspetto. Decine e decine di palestinesi si sono scatenati sui social media, lanciando insulti contro il programma televisivo palestinese e contro i presentatori, definendoli "traditori", "spie", "cani" e "maiali". L'artista palestinese Faten Kabha ha scritto su Facebook di aver deciso di annullare un'intervista al programma televisivo "dopo che l'emittente ha invitato un sionista ebreo nel cuore di Ramallah". Il sindacato dei giornalisti palestinesi, un organismo dominato dagli attivisti di Fatah in Cisgiordania, e alcuni gruppi politici si sono uniti al coro delle proteste per l'apparizione televisiva di Zvi Yehezkel e gli attivisti "contrari alla normalizzazione" hanno anche preso di mira l'albergo a cinque stelle Grand Park Hotel di Ramallah per aver ospitato il cantante ebreo.
  Uno dei leader della campagna del BDS, Fadi Arouri, ha chiesto che lo stesso albergo prenda le distanze dal programma televisivo, che è stato registrato in una delle sue sale, altrimenti sarà considerato un fautore della "normalizzazione" dei rapporti con Israele. Ma a quanto pare, questa figura chiave del movimento farebbe bene a preoccuparsi di essere etichettato come razzista. Arouri, sulla sua pagina Facebook, si è scagliato contro l'emittente televisiva palestinese e contro l'hotel per aver invitato a Ramallah il cantante ebreo. Egli ha minacciato di aggiungere l'albergo alla lista dei paladini della "normalizzazione" delle relazioni con Israele, dicendo: "Combatteremo contro di esso proprio come combattiamo contro l'occupazione e le sue istituzioni".
  Arouri e i suoi amici sono anche arrabbiati con il programma tv per aver usato i nomi ebraici delle città israeliane durante l'intervista a Yehezkel, che vive ad Ashkelon, e sostengono che il presentatore avrebbe dovuto utilizzare il nome arabo Majdal invece Ashkelon. Il cantante ebreo è fortunato che gli attivisti del BDS non fossero a conoscenza in tempo reale della sua presenza a Ramallah, altrimenti avrebbero preso d'assalto lo studio televisivo e lo avrebbero costretto a fuggire da Ramallah, come hanno fatto negli ultimi anni: disturbando e interrompendo gli incontri organizzati tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania e intimidendo i partecipanti come fossero teppisti dagli stivali neri. Queste sono persone che si comportano in maniera tale da non meritare di essere ricompensate con qualcosa, tanto meno con uno Stato. Esse assomigliano molto più a tutti i tiranni criminali della storia che passano la vita a dire alla gente come vivere e a usare la violenza o a minacciare di farlo, utilizzando metodi coercitivi con chiunque non sia d'accordo. Purtroppo, nel nostro mondo arabo e musulmano, ci sono fin troppo esempi di questo tipo, come fanno presente sistematicamente il lungimirante presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e molti altri.
  L'indignazione per l'apparizione televisiva di un cantante ebreo in un programma di un'emittente tv palestinese è un'altra dimostrazione di come noi palestinesi siamo diventati intolleranti verso gli israeliani, anche verso quelli che simpatizzano con la nostra causa e credono nella pace e nella coesistenza. La campagna lanciata sui social media contro il cantante e il programma televisivo sono altresì un'ulteriore prova dei sentimenti sempre più razzisti che serpeggiano tra la nostra gente. Disprezziamo chi indossa una kippah perché diamo per scontato che sia un "colono" che odia gli arabi e i musulmani. È imbarazzante leggere molti dei commenti postati dagli attivisti palestinesi riguardo alla religione di Zvi Yehezkel e alla kippah che indossa. Comportandoci così come potremo mai fare pace con Israele? Se ospitare un cantante ebreo in un talk show televisivo palestinese ha suscitato un'opposizione così feroce, che cosa accadrà il giorno in cui un leader palestinese firmerà un trattato di pace con i nostri vicini ebrei? Quante volte i palestinesi sono apparsi nei media israeliani negli ultimi dieci anni? Qualcuno ha mai sentito parlare di questo tipo di proteste da parte degli ebrei israeliani? I media israeliani hanno anche condotto interviste con alcuni dei peggiori nemici di Israele, compresi i palestinesi che hanno ucciso senza pietà ebrei innocenti. Tuttavia, non abbiamo mai visto reazioni disgustose e razziste come quelle postate sui social media dopo l'intervista al cantante ebreo.
  Nel corso degli anni, abbiamo insegnato al nostro popolo a odiare non solo gli israeliani, ma anche gli ebrei - come suggellato dallo Statuto di Hamas. Lo abbiamo fatto attraverso l'istigazione nelle moschee, i media e la retorica pubblica. Ora siamo uguali ai nazisti tedeschi - e paradossalmente accusiamo ingiustamente gli ebrei di esserlo - se l'apparizione televisiva di un ebreo in un programma di un'emittente palestinese è considerata come un atto di "tradimento" e un "crimine". In realtà, siamo noi i nuovi nazisti. La vicenda del cantante ebreo mostra che il BDS e gli attivisti della campagna "anti-normalizzazione" non sono altro che un gruppo di razzisti dalle camicie brune che lavorano per distruggere ogni possibilità di pace e convivenza tra i palestinesi e Israele. La loro reazione isterica all'intervista televisiva con Zvi Yehezkel dimostra che il nostro popolo continua a fare marcia indietro verso un maggiore estremismo, razzismo e nazismo.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 1 ottobre 2015 - trad. Angelita La Spada)


Gentiloni si schiera coi nemici di Israele

Lettera a "il Giornale"

L'inutile ministro Paolo Gentiloni si accoda ai soliti nemici di Israele e firma un memorandum per boicottare i prodotti del paese della Stella di David. Il nostro, prima di accodarsi dovrebbe farsi un esame di coscienza e, quanto meno, ricordare quali sono le nostre e credo sue origini e non schierarsi aprioristicamente con quelli che sono considerati a livello mondiale dei terroristi. Ma forse Gentiloni ha voluto essere politically correct e guadagnare qualche applauso dei dannosi funzionari di quella Ue che sa solo creare problemi a tutti noi.
Attilio Napoleoni, Roma

(il Giornale, 1 ottobre 2015)


Dietro Bashar un Occidente in crisi di identità

L'unico punto su cui concordano tutti è sconfiggere i combattenti islamici.

di Fiamma Nirenstein

 
Delicato, complesso, pericoloso: questo è lo stato di cose oggi in Medio Oriente. Assad o l'Isis? Se lo si chiede ai siriani che si avventurano sui disperati barconi, si trema pensando che adesso Assad quasi di sicuro resterà al potere e proseguirà nella guerra che conta già 240mila vittime. I sunniti e i cristiani fuggono con nuova frenesia, e gli sciiti abbandonano la loro terra conquistata dall'Isis.
   Putin e Obama hanno idee diverse su come risolverla, ma Putin ha con grande decisione deciso di riempire il vuoto della politica cauta e intessuta di aspirazioni morali come quella enunciata da Obama all'Onu. Putin è stato molto esplicito: «È una guerra di prevenzione, se non li fermiamo ci assaliranno nelle nostre case». I fighters russi dunque hanno attaccato posizioni dei «ribelli siriani» poche ore dopo che Putin aveva ricevuto dal suo parlamento un voto unanime. Per Putin oltre al ruolo salvifico dall'Isis si prospetta il consolidamento della base di Latakia, un ottimo punto di influenza nell'area mediterranea, e forse Assad potrebbe nei mesi prossimi recedere dal potere ma lasciare ai suoi amici russi la possibilità di influenzare molto a lungo un'area decisiva. La Russia si avventura verso un nuovo ruolo mondiale contro il nemico pubblico numero uno, l'Isis tagliagole, gli aerei russi attaccano i dintorni delle città di Homs e di Hama. lntanto anche la Francia è già al quarto giorno delle sue incursioni, e qui la spiegazione è legata anche agli attacchi che in rapida successioni uccisero a Parigi 17 persone solo a gennaio, inclusa la redazione di Charlie Hebdo, e certo giocano i rapporti intensi che la Francia ha con i paesi sunniti che si contrappongono al giocatore iraniano, molto presente ora sul terreno siriano. E sullo sfondo, la grande crisi europea causata dall'avvento sulle nostre spiagge dei milioni di disperati in fuga dalle zone della guerra terrorista di Assad e delle forrnazioni islamiste. Si apprende dalla stampa che hanno avuto luogo colloqui fra francesi e russi per evitare scontri aerei nei cieli siriani, e si può arguire, anche se il colloquio è rimasto segreto, che quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato Putin a Mosca, fosse presente alla mente di ambedue l'abbattimento di un aereo siriano di fabbricazione russa che aveva sforato nei cieli israeliani. Ma anche se l'Isis è il nemico le linee fra i buoni e i cattivi si stingono nel sangue e nell' opacità delle intenzioni.
   L'America si è bloccata proprio sulla necessità, abbandonata da Putin, di combattere due fronti in guerra fra di loro, Assad e l'Isis. Putin ha scelto una parte sola, ma Assad è un tiranno odiato e genocida, e l'Iran che lo fiancheggia con gli hezbollah, non è un alleato stimabile. All'assemblea generale dell'Onu la contraddittorietà della situazione è stata subito messa in luce dal fatto che i due maggiori leader mondiali, Obama e Putin, motivassero la necessità di combattere l'Isis in modo tanto diverso, il primo ripetendo che Assad non può essere parte della soluzione, e il secondo invece mettendo chiaramente in conto che Assad è al momento un partner, ambedue comunque non facendo nessuna obiezione alla presenza nella lotta contro l'Isis di un compagno di strada davvero problematico come l'Iran.
   Intanto: gli interventi russi e francesi possono senz'altro portare grave danno all'Isis, ma una sua completa distruzione richiede tempo: Alexander Konovalov, capo dell'istituto di Analisi strategiche di Mosca ha detto che la Russia, mossa dal desiderio di metter fine al suo isolamento diplomatico forse non valuta che «siamo andati in Afghanistan per sei mesi e ci siamo rimasti 10 anni». Inoltre gli Stati Uniti non nascondono la loro convinzione che Putin desideri più che battere l'Isis, tenere Assad al potere per garantire la tradizionale presenza russa in Medio Oriente.
   Naturalmente questo spacca anche l'opinione pubblica europea in parte con Obama, in parte con Putin. E, dal mondo arabo: «È inconcepibile che ci sia una soluzione politica per la Siria se Assad rimane al potere» ha detto il ministro degli esteri saudita Adel al Iubeir, e ha sostenuto che c'è un'opposizione moderata che combatte Assad e che i sauditi, il Qatar, gli Emirati, la Giordania e il Bahrein sono tutti insieme. Insomma, per gli stati arabi sunniti è evidente che, oltre alla lotta all'Isis, la prima preoccupazione è l'espansione egemonica dell'Iran, che ha le sue forze in Libano, in Irak, in Yemen e in Siria. Qualche giorno fa il quotidiano libanese AI Akhbar ha parlato della nuovaalleanza «4più 1»dove i 4 sono la Russia, l'Iran, l'Irak e la Siria e il numero 5 è il gruppo degli hezbollah. L'Iran che è ormai da tempo padrone a Baghdad, dove si dice abbia sede il cervello di questa nuova potente alleanza a sfondo sciita-alawita in Medio Oriente, vede qui un altro importante passo nella sua vertiginosa crescita egemonica post accordo. Insomma, i jet di Putin e di Hollande rombano su un Medio Oriente in grande subbuglio, e probabilmente non fermeranno la guerra sciita-sunnita in atto.

(il Giornale, 1 ottobre 2015)


Iracheni, siriani, eritrei: la lunga marcia

In fuga dall'IS e dalla guerra: le voci dei ragazzi alla stazione di Milano. I volontari al lavoro con la comunità di Sant'Egidio: così il binario 21 sta diventando luogo di memoria condivisa tra le generazioni.

di Stefano Pasta

MILANO - «Scappiamo da Bartella, nella Piana di Ninive, dove l'Is ha occupato la nostra casa», dice Khiria. Con il marito, i tre figli e la suocera di 76 anni dorme a Milano nel centro che la Comunità di Sant'Egidio ha allestito nei sotterranei del binario 21 della Stazione Centrale. La loro fuga, iniziata nel luglio 2014, prevede solo due notti nel capoluogo lombardo dopo lo sbarco in Puglia. Presto si riparte perla Germania.
   Con questa famiglia di cristiani iracheni, arrivano a 3mila i profughi accolti da Sant'Egidio dal 22 giugno. In quella data, dopo che Francia e Austria avevano chiuso le frontiere e a Milano centinaia di profughi dormivano per strada, è iniziata una "rivincita della storia". L'accoglienza di Sant'Egidio si svolge infatti nei binari nascosti da cui partivano i treni merci carichi di ebrei per i lager. Tra i pochi sopravvissuti, Liliana Segre, che ha condiviso con la comunità l'idea dell'accoglienza. Nel 1943 la sua famiglia aveva pagato un trafficante per passare la frontiera con la Svizzera, ma fu respinta da un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare.. la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi - ha ricordato spesso l'allora tredicenne - supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia». Non ci fu nulla da fare, furono portati al carcere di San Vittore e poi ad Auschwitz.
   Oggi il binario 21 è il luogo della solidarietà contagiosa e gratuita il centro è inserito nella rete di accoglienza di Milano (80mila profughi in 23 mesi) ma non ha alcun costo per le istituzioni. C'è chi regala il tempo come volontario, chi porta le brioche per la colazione o lo shampoo per la doccia, chi offre il proprio cellulare per chiamare i familiari. Masoud, diciasettenne curdo di Aleppo, lo usa per contattare la zia rimasta in Siria: ha sentito che sono appena morti dei bambini sotto le bombe e vuole sapere se li conosce. Vicino alla brandiva in cui sta per addormentarsi, il ragazzo ha uno zainetto e un oggetto sorprendente. «Hai capito qual è la mia passione?» sorride, indicandola chitarra che è riuscito a portare con sé. Nel letto accanto c'è un papà eritreo con due figli, il più piccolo con la febbre per la stanchezza: loro invece non hanno niente, se non il peluche che i volontari hanno regalato ai bambini. Ciò che manca di più, però, è la mamma. «E rimasta in Libia - scuote la testa il padre - ma appena avremo i soldi, partira anche lei».
   Al Memoriale della Shoah, il servizio ai profughi diventa dialogo interreligioso vissuto nella città. Le cene infatti sono offerte da parrocchie cattoliche, ebrei Lubavitch della mensa Betavon e buddisti del tempio di via dell'Assunta Volontari anglicani, ebrei e musulmani coprono i turni insieme a Sant'Egidia.
   Qui si ascoltano le storie di quella "Terza guerra mondiale" a pezzetti, di cui parla Papa Francesco. Famiglie siriane in fuga dal quinto anno di conflitto, iracheni colpiti dalla violenza dell'Is, adolescenti eritrei che scappano dalla dittatura attraverso l'inferno libico. Alidad è afghano e dice: «I talebani comandano ancora nel mio villaggio, sono partito quando hanno detto a mio padre che dovevo arruolarmi con loro». Anche Weldu,17 anni, fugge dal servizio militare, che in Eritrea può diventare a vita: si entra nell'esercito da adolescenti, si finisce a lavorare gratis nelle miniere di Stato e se ne esce già vecchi. Lui indossava la divisa da un anno quando, lo scorso novembre, è scappato insieme a 15 compagni. «Cinque - racconta - sono stati catturati e fucilati. Noi sopravvissuti abbiamo camminato per tre settimane verso il Sudan. Nella città di Kassala la polizia sudanese ci ha arrestati e tenuti in prigione per una settimana, poi ci ha portati nel campo profughi di Shagarab». Da Iì Weldu è andato nella capitale Khartoum, per poi attraversare il Sahara. «Stipati in 190 su un solo camion, senza neanche un po' di spazio per muoverci. II viaggio è durato undici giorni, ma a metà l'acqua è finita e quattro bambini sono morti». Del periodo in Libia dice soltanto: «Guarda cosa succede», mostrando la ferita di un proiettile sulla coscia. Poi il salvataggio nel Mediterraneo, lo sbarco in Sicilia e il treno fino a Milano. Due giorni dopo, Weldu chiama per dire che è a Calais, il porto francese da cui nascosto in un tir proverà a raggiungere l'Inghilterra. Alidad avvisa via whatsapp che è a Copenaghen diretto in Svezia, mentre Masoud, il curdo con la chitarra, posta su Facebook una bandiera della Germania, per annunciare che lui ce l'ha fatta.

(Avvenire, 1 ottobre 2015)



Guardare in alto

  Una volta un giovane marinaio doveva salire sull'albero della nave durante una tempesta. I flutti salivano in alto e le onde portavano la nave a volte su altezze vertiginose e altre volte giù in profondità abissali. Al marinaio girava la testa e rischiava di cadere giù. Allora il capitano gridò da giù: «Ragazzo, guarda in alto!». Il ragazzo allora distolse lo sguardo spaventato dalle onde in bufera e lo portò verso l'alto. Questo sguardo rivolto al cielo lo salvò perché poté continuare a salire in alto con sicurezza e portare a termine il suo compito.
  Quando i giorni dell'afflizione agitano la nostra vita, quando le tempeste della vita mettono tutto sottosopra e davanti a noi si aprono gli abissi dello spavento, il cuore inizia a tremare e la nostra anima viene meno dalla paura e dall'orrore. Perdiamo l'equilibrio e rischiamo di precipitare. Se distogliamo lo sguardo dai pericoli e lo volgiamo verso Colui che ci aiuta, se cerchiamo in preghiera il volto di Dio e ci aggrappiamo per fede alla Sua potente mano, il nostro cuore si calma e riceviamo forza e pazienza per svolgere i nostri compiti nelle tempeste e per resistere ogni giorno.
da Il Rapimento di Norbert Lieth

 


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