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Notizie 16-31 ottobre 2018
Luzzatto Voghera: "Antisemitismo, si prepara la tempesta perfetta"
di Maria Luisa Vincenzoni
Gadi Luzzatto Voghera è il direttore della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea. CDEC, che ha sede a Milano e sta per aprire i suoi nuovi spazi (archivi, aule, sale per incontri) in un'ala della stazione ferroviaria. E' un luogo della memoria dello sterminio degli ebrei. Tra il 1943 e il 1945 qui migliaia di ebrei furono caricati su vagoni merci agganciati ai convogli diretti ad Auschwitz-Birkenau e altri campi di sterminio e di concentramento, o ai campi italiani di raccolta come quelli di Fossoli e Bolzano. Dagli stessi binari partirono anche numerosi deportati politici, destinati al campo di concentramento di Mauthausen o ai campi italiani. Il 6 dicembre 1943 partì il primo convoglio di prigionieri ebrei, ed il 30 gennaio 1944 il secondo diretto ad Auschwitz-Birkenau. Soltanto 22 delle 605 persone deportate quel giorno ritornarono. Tra di loro Liliana Segre, allora tredicenne, che benché così giovane sopravvisse all'amatissimo padre. Ora la Fondazione Memoriale della Shoà, il cui presidente onorario è Ferruccio de Bortoli, sarà a fianco della Fondazione CDEC, diretta da Gadi Luzzato Voghera, che è stato docente a Ca' Foscari e alla Boston University. Come storico gli chiediamo perché stia crescendo l'odio verso gli ebrei, in un clima di rifiuto che riguarda anche altre diversità e minoranze culturali o religiose. Ancora oggi gli ebrei recano in sé la responsabilità di poter parlare e testimoniare, anche per altri perseguitati.
- Professor Luzzatto Voghera potrebbe spiegarci il termine antisemitismo?
Mi spiace, no. E' un termine improprio perché non esiste il semitismo, non si riferisce a nessuna realtà concreta. Questa improprietà nasconde un elemento importante: è un'ideologia politica che identifica, che idealizza come nemici non gli ebrei in carne ed ossa, ma quelli che nell'ideologia si raffigurano. Una metacostruzione.
- Fate molta attività con i giovani, nelle scuole e fuori, come CDEC. Vi danno una mano i manuali di storia?
Nei manuali scolastici gli ebrei compaiono poco. La conseguenza è che con i ragazzi è sempre difficile contestualizzare, fare capire dove mettere nella linea del tempo le cose di cui parliamo. Gli studenti dapprima si imbattono negli ebrei all'epoca di Gesù, poi gli ebrei ricompaiono nel Medioevo come prestatori, in seguito c'è un cenno alla loro cacciata da Spagna e Portogallo, se va bene un altro accenno al caso Dreyfus in Francia (un ufficiale ebreo accusato di essere spia di Germania e Italia, poi rivelatosi innocente, in sua difesa Emile Zola scrisse "J'accuse", ndr) e infine, sperando che vi sia sufficiente tempo a fine anno per approfondire in modo adeguato l'argomento, si parla per sommi capi dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazi-fascisti. Il risultato di questi flash storici, brevi e incompleti, è che si creano confusioni anche importanti.
- Il rimedio per insegnare una storia che permetta di collocare gli eventi?
Vedo solo un rimedio: la storia dell'Italia va raccontata in tutti i suoi aspetti, in modo inclusivo, non solo parlando di teste coronate, battaglie, trattati. I ragazzi vivono in un territorio che è un libro di storia aperto. Si può risalire dal piccolo indizio, documento, luogo fino alla grande storia, ma toccandone con mano la vicinanza e il senso. Capire che tante popolazioni si sono stratificate nel tempo lì dove viviamo.
La chiesa cattolica è certamente stata la prima a promuovere l'antigiudaismo, come hanno riconosciuto ormai i recenti papi chiedendo perdono.
Anche la portata di questa persecuzione non è facile da descrivere ai giovani che sono figli di un percorso di fede contemporanea, nata col Concilio vaticano secondo. La Chiesa nasce da una scissione nel mondo ebraico, la nuova setta, o comunità, si mette in polemica con la casa madre. Essendo in polemica elabora una serie di argomenti che dovrebbero essere fonte di proselitismo e legittimazione, come il verus Israel: il popolo cristiano, si sostiene, è il nuovo popolo prediletto da Dio. Un antagonismo forte, che porta alla persecuzione degli ebrei.
- Anche oggi secondo lei gli ebrei sono percepiti come stranieri?
Sì, e questo è strano perché in Italia ci sono presenze ebraiche che risalgono a ben prima dell'epoca di Cristo. Ma non è strano se si pensa all'efficacia delle leggi anti-ebraiche del 1938, che hanno generato un fenomeno di long durée, di lunga durata, categoria usata dalla storico Braduel. Tutto l'antiebraismo è un fenomeno di lunga durata, è la veste ed il nome dati alle tante paure scolpite nelle nazioni che covano sotto la cenere dell'Europa, e la paura genera un'irrazionalità nei comportamenti che può arrivare al male assoluto. Le leggi antiebraiche hanno fatto questo: sono restate in vigore anche oltre lo sterminio, sono rimaste in vigore nella testa di alcuni. E stiamo andando nella direzione della "tempesta perfetta", un mix di sovranismo, nazionalismi, violenza, paura. Brodo di coltura dell'antisemitismo.
- Come si combatte l'antisemitismo?
L'antisemitismo è una lotta perdente. Lo è anche a prescindere dall'esistenza degli ebrei. Il modello del complotto ha un suo potere autonomo. Che bisogno ci sarebbe altrimenti di dire che il signor Soros è ebreo e ricco ogni volta che si parla di lui, come premessa a ogni critica o accusa? Che bisogno ci sarebbe stato di entrare in una sinagoga e uccidere undici vecchi ebrei? Un falso creato in modo intelligente dalla polizia segreta zarista agli inizi del Novecento, "Il protocollo dei savi di Sion", continua ad avere successo, è molto letto anche nel mondo islamico. Non c'è alcun bisogno di fatti, di ebrei in carne ed ossa per fare dell'antiebraismo.
(Strisciarossa, 31 ottobre 2018)
Le piccole e grandi vessazioni delle Leggi razziali
Agli ebrei italiani fu impedito di tutto, persino di andare in vacanza.
di Nicola Zecchini
Nel settembre del 1938, quando il regime fascista adottò le leggi razziali cambiò di colpo la vita di 50mila persone. Per 50mila ebrei italiani da un giorno all'altro non fu più possibile lavorare, possedere, vendere, istruirsi e, in alcuni casi, neanche andare in vacanza o giocare. Dal 5 settembre di quell'anno gli ebrei non poterono più andare a scuola. La prima delle leggi razziali, firmata dal Re Vittorio Emanuele III e voluta da Mussolini, intimava «la difesa della razza nella scuola fascista» e per questo escludeva dalle scuole, praticamente con effetto immediato, gli alunni e gli insegnanti definiti «di razza ebraica». Il Re firmò il decreto alle 10 del mattino dopo un'abbondante colazione e la classica passeggiata nella tenuta di San Rossore a Pisa. Quello stesso giorno vennero firmati altri due decreti che trasformarono l'Ufficio centrale demografico in Direzione generale per la demografia e la razza e istituirono un Consiglio superiore per la demografia e la razza. ln tutto furono 180 le leggi che privarono una parte dei cittadini italiani dei diritti più elementari.
Da quel settembre del 1938 fino al 1944 gli ebrei furono cittadini diversi dagli altri: non potevano essere iscritti al partito fascista, far parte di associazioni culturali e sportive, studiare e nemmeno insegnare, neanche in forma privata. Se per caso avevano voglia di leggere un libro beh si dovevano accontentare di quelli di casa perché nelle biblioteche non potevano entrare. I libri non li potevano neanche vendere insieme a penne, matite e quaderni o carte da gioco né, in generale, articoli per bambini. Non potevano fare i piloti d'aereo e neanche i tassisti perché era vietata loro la licenza o aspirare a fare lavori come notaio, avvocato, architetto, medico, ingegnere, perito, geometra, chimico, ragioniere od ottico e neppure il saltimbanco girovago. Non si potevano buttare, gli ebrei, neanche nella Pubblica amministrazione, dato che era loro interdetto ogni ufficio, compresi quelli delle società private a carattere pubblico come banche e assicurazioni. Non andò bene neanche nel privato perché nessun ebreo poteva ricoprire la carica di gestore o proprietario di aziende, terreni o fabbricati. Quella che venne cancellata fu anche la cultura e l'opera artistica degli autori. Nei programmi radiofonici e nei cartelloni dei teatri non potevano figurare opere scritte da autori ebrei. Attori, registi, scenografi, musicisti, direttori d'orchestra furono tutti licenziati. Pittori e scultori non poterono più esporre le proprie opere nelle mostre. Fu vietato agli ebrei fare i fotografi e persino vendere oggetti d'arte o oggetti sacri, men che meno cristiani. Ammesso poi che qualcuno di loro avesse trovato il modo di ottenere uno stipendio e abbia avuto ancora voglia di andare in vacanza, le cose si complicavano anche per il tempo libero perché gli ebrei non potevano frequentare luoghi di villeggiatura o luoghi considerati di lusso, come la Versilia, ma anche Ostia che di lusso non era, fu loro interdetta come spiaggia della Capitale e dunque del Duce. Insomma niente mare e, per molte località, pure niente montagna. Persino le riserve di caccia furono loro vietate insieme al porto d'armi. "Gli ebrei non sono graditi in questo locale" era in quegli anni una scritta "familiare" che veniva affissa sulle vetrine dei negozi. In realtà non furono graditi in lungo e in largo per tutta l'Italia.
(Shalom, ottobre-novembre 2018)
Omaggio ai soldati ebrei italiani della Prima Guerra Mondiale.
Ministro della Difesa: «Non tollerare più odio e discriminazione razziale»
Una cerimonia al Tempio Maggiore di Roma ha reso omaggio ai soldati ebrei italiani della Prima Guerra Mondiale, in occasione del centesimo anniversario della fine del conflitto. I rappresentanti della comunità ebraica di Roma, la presidente Ruth Dureghello e il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, con il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, hanno partecipato al momento solenne di preghiera davanti la lapide commemorativa nei giardini del Tempio che ricorda il sacrificio dei soldati.
«Siamo qui per ricordare - ha detto Ruth Dureghello - i soldati ebrei che si sono sacrificati per combattere per la nostra Nazione. Fu una partecipazione convinta quella degli ebrei e nonostante ciò dopo qualche decennio quegli stessi uomini furono costretti a subire le leggi razziali. Oggi siamo qui - ha proseguito - per rivendicare un senso di appartenenza del nostro essere italiani. Di fronte ai fatti e alle notizie che giungono, vogliamo rivendicare la nostra identità e la nostra appartenenza e ribadire l'impegno nella difesa della Costituzione». La cerimonia di oggi ci consente «di lanciare una sfida per il futuro in modo che non si debba più parlare di guerra, ma abbiamo il dovere - ha dichiarato Noemi Di Segni - di insegnare la storia e il significato delle guerre ai nostri bambini e ai nostri ragazzi, perche' devono impegnarsi affinché ciò che è accaduto sia solo un libro di storia, da conoscere ma da fare in modo di non vivere mai più».
«È nell'ignoranza che si cementano gli odi e i sospetti; è nell'indifferenza etica che crescono i pregiudizi; è nella perdita dei valori della libertà e della tolleranza che si originano nuove violenze». A sottolinearlo è il ministro della Difesa Elisabetta Trenta. «È nostro compito, oggi, richiamare alla memoria e alla conoscenza delle giovani generazioni quelle tragiche pagine di Storia - afferma Trenta - affinché nel dialogo cresca la consapevolezza del bene comune per contribuire a un futuro di pace contro ogni forma di antisemitismo, razzismo e discriminazione». Il ministro della Difesa esorta tutti ad «agire per la pace, dando reale potere a questa parola, educando i nostri figli alla condivisione, alla solidarietà, al rispetto della persona e delle dignità umana, in ogni condizione e situazione. È questo il fronte d'impegno che deve quotidianamente la nostra azione, nelle istituzioni politiche così come nelle sedi di formazione dei giovani, nella famiglia, nei luoghi di lavoro e in tutte le aggregazioni sociali».
Il ministro della Difesa, che subito dopo la cerimonia ha visitato la Sinagoga di Roma, ha voluto infine sottolineare di «essere consapevole della storia, al tempo stesso illustre e dolorosa, della comunità ebraica di Roma, che è parte integrante di questa città e dell'identità nazionale italiana, da sempre esempio di cultura e di tolleranza. Ed è nostro compito, oggi, richiamare - ha detto - alla memoria e alla conoscenza delle giovani generazioni quelle tragiche pagine di storia, affinché nel dialogo, cresca la consapevolezza del bene comune per contribuire a un futuro di pace contro ogni forma di antisemitismo, razzismo e discriminazione.Tutti noi desideriamo un futuro di serenità, di prosperità e di pace».
«Oggi abbiamo ricordati i caduti italiani di fede ebraica nella Prima Guerra Mondiale. Un contributo molto numeroso, molto importante di soldati che si sono sacrificati per la patria e lo hanno fatto consapevoli che la loro appartenenza e la loro identità di ebrei passava anche per il fatto di essere italiani per combattere per la patria». Così Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma. «Molti di loro, quelli che scamparono alla Grande Guerra, sono stati catturati e uccisi nei campi di sterminio, non valse il fatto di aver dato la loro vita o la loro giovinezza per questa patria. Di questo tradimento vogliamo sempre ricordare l'importanza. Ma oggi siamo qua per dedicare a loro un riconoscimento, per dedicare a loro il giusto tributo, per rinnovare una memoria che passa anche per la vita di queste persone», ha aggiunto.
(Il Messaggero, 31 ottobre 2018)
Rappresentante Usa Greenblatt elogia i gesti di Oman, Bahrein ed Emirati verso Israele
ROMA - Un Medio Oriente "più stabile porta a una regione più forte e più prospera" ed "è un bene per tutti". Lo ha scritto il rappresentante speciale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Jason Greenblatt, sul suo profilo Twitter. Il diplomatico commenta così quanto avvenuto negli ultimi giorni nella regione tra Israele, storico alleato degli Stati Uniti, e alcuni paesi del Golfo. "Negli ultimi giorni abbiamo visto i nostri partner regionali dell'Oman, del Bahrein e degli Emirati rilasciare dichiarazioni e/o compiere gesti che indicano legami più tiepidi con Israele", ha scritto Greenblatt.
Lo scorso 26 ottobre, infatti, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato di essere rientrato da una storica visita in Oman, mentre il 29 ottobre, il ministro della Cultura israeliano, Miri Regev, ha visitato la grande moschea Sheikh Zayed ad Abu Dhabi. Inoltre, lo scorso 27 ottobre, il ministro degli Esteri del Bahrein, Khaled Bin Ahmad al Khalifa, ha dichiarato che "auspica il successo degli sforzi compiuti dal sultano omanita Qaboos Bin Said per rilanciare il processo di pace tra Israele e i palestinesi". Durante un vertice sulla sicurezza, Al Khalifa ha dichiarato: "L'alleanza per la sicurezza regionale proposta tra gli Stati Uniti - da una parte - e l'Egitto e la Giordania - dall'altra - rimarrà aperta a qualsiasi paese che ne accetti i suoi principi".
(Agenzia Nova, 31 ottobre 2018)
Tim partner dell'Ambasciata di Israele in Italia
Ha partecipato all'organizzazione del primo Innovation Day dedicato alle aziende israeliane
di Gianluca Martucci
Tim ha partecipato insieme con l'Ambasciata di Israele in Italia all'organizzazione del primo Innovation Day dedicato a grandi e medie aziende e start-up israeliane all'avanguardia in ambiti chiave del mercato ICT tenutosi oggi 31 Ottobre 2018 a Roma.
La collaborazione della compagnia telefonica Italia non poteva mancare. L'evento ha infatti rappresentato una full immersion focalizzata su Open Innovation e su nuovi modelli di collaborazione a supporto della digitalizzazione e dell'implementazione della scaletta verso il 5G.
I progetti e le soluzioni presentati hanno toccato gli ambiti della Cyber Security, della Cloudification della rete (cioè della sempre gestione sempre più completa delle informazioni digitali), i Big-Data e l'Intelligenza Artificiale, la Multimedia Evolution e la realtà virtuale.
La giornata si è conclusa con un Demo Tour presso la sede TIM WCAP a Roma: il progetto di acceleratore tecnologico di TIM (presente anche a Catania, Napoli, Bologna e Milano), che nei 9 anni di attività e con oltre 40 partner coinvolti, ha supportato più di 9500 progetti di start-up attraverso sponsorship e mentoring.
"Con TIM vantiamo anni di collaborazione nel campo dell'innovazione tecnologica. L'evento di oggi, frutto dell'intenso lavoro del nostro dipartimento a Milano, rappresenta un'eccellente opportunità per creare valore e per evidenziare le soluzioni all'avanguardia che propone Israele", ha affermato l'Ambasciatore dello Stato d'Israele in Italia Ofer Sachs. "Guardiamo con grande interesse al mercato italiano e speriamo che sempre più imprese italiane seguano l'esempio di TIM".
"Questo Innovation Day ha l'obiettivo di creare sinergie e sviluppare strategie commerciali congiunte a partire dalle eccellenze dell'ecosistema israeliano e coniugarle con i bisogni di TIM e dei suoi clienti", commenta Mario Di Mauro, Chief Strategy, Innovation & Quality Officer di TIM. "Israele è un paese da sempre all'avanguardia in campo ICT e l'incontro di oggi si inserisce in una crescente collaborazione tra Italia e Israele nel campo dell'innovazione tecnologica."
Il sodalizio tra Italia e Israele sotto il segno dell'innovazione non è un'invenzione degli ultimi giorni e non si limita alla mediazione di Tim, guidata peraltro da un amministratore delegato israeliano. Proprio ad inizio dell'estate 2018 il Joint Innovation Council Italia-Israele è stato raggiunto un altro accordo di cooperazione scientifica e tecnologica sulla base di uno stanziamento di 7 milioni di euro.
(MondoMobileWeb, 31 ottobre 2018)
Una ripugnante contraddizione
di Francesco Lucrezi
L'orribile strage di Pittsburg, al di là dello sgomento per la ferocia del crimine, e per il suo carattere di gesto ampiamente preannunciato, meticolosamente programmato e pianificato dal suo autore - che in nessun modo può essere definito 'pazzo', in ragione dell'assoluta lucidità e coerenza dei suoi aberranti ragionamenti -, impone delle considerazioni sulla natura delle minacce incombenti oggi, in tutto il mondo, sulla tenuta dei valori di libertà, civiltà e pacifica convivenza e, segnatamente, sulla sicurezza delle varie comunità ebraiche, tanto della diaspora quanto in Israele (un problema, quest'ultimo, che è evidentemente inscritto all'interno del primo).
Mai come stavolta, infatti, si è dovuto constatare come tra le parole e i fatti, le idee e le pallottole, l'odio e la morte, il passo possa essere molto breve. E come i velenosi serpenti del morbo antisemita, sparsi, a migliaia, in pressoché tutti gli angoli della terra, siano pronti ad azzannare vittime innocenti. Queste serpi, come mi è capitato di dovere sottolineare ormai innumerevoli volte (pur trattandosi di una considerazione ovvia) mostrano i colori più diversi: nero, rosso, verde
. Ma il loro veleno è sempre lo stesso, così come uguali sono i loro bersagli. Fingono, i rettili, di essere diversi, anzi, nemici tra di loro. Ma si tratta di una finzione ridicola. I deliranti proclami di Robert Bowers sono assolutamente identici a quelli dei terroristici islamici, pur da lui odiati in quanto musulmani.
Eppure, ancora oggi molti analisti, osservatori, politici, cittadini si ostinano a fare distinzioni e a segnare precise gerarchie di nocività tra le diverse manifestazioni, verbali o fisiche, di antisemitismo. Per molti osservatori "di sinistra", solo l'antisemitismo "di destra" sarebbe pericoloso, e viceversa. E anche il tradizionale odio antiebraico di matrice neonazista, le cui potenzialità dovrebbero essere ben conosciute, si trova così, in determinati ambienti culturali, a essere ampiamente sottovalutato, ridotto a un fenomeno marginale, quasi folcloristico, un sottoprodotto, sgradevole ma trascurabile, del fisiologico dibattito politico. Ma una cosa particolarmente grave e incomprensibile, secondo me, è il fatto che perfino diversi difensori di Israele, sulla base della pervicace convinzione che il pericolo sia solo quello islamico (o, magari, 'comunista'), si ostinano a fare assurdi sconti a forze politiche considerate "di destra" alle quali, in quanto "anti-islamiche" (o 'anticomuniste'), viene tranquillamente perdonato di ospitare tra le proprie fila soggetti che dovrebbero solo essere sbattuti in galera. E ciò, magari, in difesa del 'sovranismo', dei "valori dell'Occidente", dei sacri confini della patria. Valori e confini che erano molto cari a Bowers, che odiava gli ebrei, tra l'altro, in quanto "amici degli immigrati", fautori dell'accoglienza e del ripugnante multiculturalismo.
Non attribuisco direttamente la responsabilità di quanto è successo, come pure è stato fatto, al clima d'intolleranza creato, o favorito, dall'attuale amministrazione degli Stati Uniti. Nel mio articoletto pubblicato all'indomani della sua inattesa vittoria, scrissi, rivolgendomi al neoeletto Presidente Trump, che, se avesse mantenuto almeno una di due importanti promesse fatte agli elettori - spostare a Gerusalemme l'Ambasciata statunitense, e abbandonare l'accordo nucleare con l'Iran -, avrei perdonato le tante idiozie da lui dette durante la campagna elettorale. Le ha mantenute entrambe, e lo apprezzo fortemente per questo. Ma nessun impegno a favore di Israele potrà mai giustificare alcuna indifferenza, minimizzazione, ambiguità o connivenza nei riguardi di intolleranza etnica, xenofobia, antisemitismo, suprematismo razziale. Mai. È una ripugnante contraddizione in termini essere amico di Israele e strizzare l'occhio al Ku Klux Klan o a 'sovranisti' antisemiti della peggiore specie.
Trump ha invocato, per il responsabile, la pena di morte. Io, essendo ad essa contrario per principio, sempre e dovunque, resto della mia opinione, anche se non piangerei certo per l'esecuzione di questo essere immondo. Ma è una pura presa in giro illudersi che possa bastare la sedia elettrica a risolvere il problema. Essa, in ogni caso, arriverebbe comunque 'dopo', e servirebbe solo a dissetare il dio Moloch, a dare un contentino a parte dell'opinione pubblica e ad avere una bara un più (sia pur riempita con le ossa di una belva). Ci sarebbero tante altre cose, molto più serie e utili, da fare 'prima', e non dopo. Purché, naturalmente, ci sia una vera volontà di affrontare il pericolo, e purché lo si consideri effettivamente tale.
(moked, 31 ottobre 2018)
Elisa Adorni: la runner parmigiana sfida il deserto del Negev
Giovane, sportiva e parmigiana, Elisa Adorni è stata tra le cinque italiane selezionate per il "Donna Moderna Negev Adventure". Il progetto, in collaborazione con l'Ufficio Nazionale israeliano del Turismo, ha coinvolto le lettrici di Donna Moderna, primo magazine femminile in Italia del Gruppo Mondadori, portandole a correre nel deserto del Negev, in Israele.
Quattro tappe, in cui seguite dal coach Federico Bertone, stanno prendendo parte ad una ultratrail di 80 km. Un viaggio all'insegna dello sport in cui poter alternare momenti di relax e di scoperta del territorio in luoghi ricchi di storia come Tel Aviv e Gerusalemme.
Avevamo avuto il piacere di incontrare Elisa prima della partenza e queste sono
alcune foto
inviateci ieri, della prima tappa.
(Gazzetta dell'Emilia, 31 ottobre 2018)
Diario di viaggio: 10 giorni in Israele. Prima tappa a Gerusalemme
Cronaca giorno per giorno di un viaggio tra storia, religiosità ed emozioni. In questa prima parte: Gerusalemme
Primo giorno, giovedì - Arrivo, da Tel Aviv a Gerusalemme
Gli aeroporti sono quasi tutti "non luoghi", spazi indefiniti che servono solo a trasportare e smistare cose e persone. Quello di Tel Aviv non si discosta: moderno nella struttura architettonica, offre un ingresso dolce, spersonalizzato, a un paese che si rivelerà invece con una fortissima e contradditoria personalità. I controlli in ingresso sono standard: nessuna domanda per chi arriva dall'Italia, e il passaggio al check del passaporto è veloce. Dopo essere usciti, cerchiamo un bus per Gerusalemme. Il viaggio tra le due città è circa un'ora e mezza. Arriviamo alla stazione dei bus di Gerusalemme, prendiamo un veloce tram a più carrozze e arriviamo nella zona del nostro ostello, non senza aver sbagliato la fermata di uscita e aver passato un buon tre quarti d'ora per rintracciare il posto e arrivarci a piedi. Il nostro ostello è subito fuori dalla Città Vecchia, a due passi dalla Porta di Damasco, in una zona abitata prevalentemente da arabi ma all'interno dello Stato di Israele....
(Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2018)
Israele, i laburisti conquistano le grandi città, sconfitta per Netanyahu
di Giordano Stabile
Le elezioni municipali in Israele segnano la riscossa dei laburisti e una battuta d'arresto per il Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu. I laburisti vincono nelle grandi città, come Tel Aviv e Haifa. "Le elezioni - ha detto Avi Gabbay, segretario dei laburisti - indicano che gli israeliani vogliono un cambiamento". L'anno prossimo è previsto il voto parlamentare. I sondaggi danno ancora per favorito il primo ministro ma Gabbay adesso spera in una rimonta.
A Tel Aviv il sindaco Ron Huldai, uno dei più popolari nel Paese, è stato rieletto dopo 20 anni consecutivi alla guida della città, che con i sobborghi è la più grande in Israele, oltre tre milioni di abitanti. Lo sfidante, l'ex vice sindaco Asaf Zamir ha ammesso la sconfitta al primo turno. Huldai ha ottenuto secondo in risultati preliminari il 46 per cento dei voti, ben oltre la soglia del 40 per cento che serviva a evitare il ballottaggio.
Ma i laburisti festeggiano soprattutto la vittoria della candidata ad Haifa, Einat Kalisch-Roten, che ha sconfitto il sindaco uscente, al potere da 15 anni, Yona Yahav. La Kalisch-Roten sarà la prima donna a governare una città di grosse dimensioni in Israele. Il rinnovamento imposto dal leader Gabbay, più giovani, più donne, comincia quindi a dare i primi frutti.
A Gerusalemme invece nessuno dei candidati ha raggiunto il 40 per cento dei voti. Al ballottaggio andranno Ofer Berkovitch, un laico appoggiato da Netanyahu, e l'esponente della destra religiosa Moshe Leon, sostenuto dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Il Consiglio municipale sarà dominato dagli ultra-ortodossi, con 17 seggi su 31, mentre alla destra laica del Likud e partiti minori andranno soltanto 5 seggi.
A Gerusalemme, a differenza che nelle altre città, hanno potuto partecipare anche cittadini non israeliani con permesso di residenza permanente, cioè gli arabi, che rappresentano circa il 40 per cento degli 800 mila abitanti. C'era un unico candidato sindaco palestinese, Ramadan Dabbash. L'Autorità nazionale palestinese ha però chiesto il boicottaggio del voto. L'affluenza è stata del 53 per cento, in leggero aumento.
(La Stampa, 31 ottobre 2018)
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I risultati delle elezioni municipali in Israele
di Jonatan Della Rocca
Le elezioni municipali svolte ieri nelle città israeliane non sono andate bene per il partito del Likud e il suo leader, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. A Gerusalemme sonora sconfitta per il suo candidato Zeev Elkin. Al ballottaggio del 13 novembre andranno l'indipendente Ofer Berkovitch e Moshe Lion, sostenuto dai religiosi di Shas e dai nazionalisti di Israel Beitenu. A Tel Aviv e a Haifa hanno vinto i laburisti. Nella prima si è confermato alla guida, con il 44% dei voti, l'uscente Ron Huldai, in carica dal 1998. A Haifa, vittoria secca per la laburista Einat Kalish-Rotem, prima donna alla guida di una grande città, che ha superato il sindaco uscente Jona Yahav, indipendente, primo cittadino negli ultimi 15 anni.
(Shalom, 31 ottobre 2018)
Ministro israeliano visita la moschea di Abu Dhabi
ABU DHABI - «Mi trovo nella moschea dedicata allo sceicco Zaid Ben Sultan, il padre di questa nazione. È la terza moschea al mondo ed è la prima volta che vi entra un ministro di Israele. Qui si avverte un messaggio di solidarietà e di pace». Queste le parole usate da Miri Regev, ministro israeliano della cultura e dello sport, nel commentare la sua visita nella principale moschea di Abu Dhabi. La foto che la mostra mentre indossa una tunica ed è coperta da un velo è stata rilanciata da numerosi siti web arabi.
Come accennato, Regev è il primo esponente di un governo israeliano a entrare nella moschea di Abu Dhabi: un gesto di distensione e dialogo. «Mi auguro che da Abu Dhabi esca un messaggio di pace e di shalom», ha aggiunto Regev. Due giorni fa, lunedì, una delegazione israeliana guidata dal ministro delle comunicazioni, Ayoub Kara, era giunto ad Abu Dhabi in occasione della conferenza internazionale sulla sicurezza informatica.
Non a caso, queste visite arrivano a pochi giorni di distanza da quella del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in Oman. Un viaggio molto significativo dal punto di vista diplomatico.
(L'Osservatore Romano, 31 ottobre 2018)
Il Ministro delle Finanze israeliano critica lAp per la sospensione degli accordi tra Olp e Israele
GERUSALEMME - Il ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon, ha criticato oggi l'Autorità palestinese per la decisione del Consiglio centrale palestinese (Pcc) di sospendere gli accordi raggiunti tra l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e Israele finché lo Stato ebraico non riconoscerà lo Stato palestinese. In un'intervista rilasciata all'emittente radiofonica dell'esercito, Kahlon ha detto: "Questo è un grosso errore. Nell'ultimo anno (il governo di) Ramallah è diventato sempre più estremo e sta silurando ogni possibilità di accordo". L'Ap, secondo Khalon, membro del gabinetto di sicurezza israeliano, vuole "portare alla fame la Striscia di Gaza". Critiche alla decisione dell'Olp anche dal presidente del partito Yesh Atid, Yair Lapid, secondo cui si tratta di una "brutta barzelletta". "Per quanto ci riguarda, possono decidere di non riconoscere il sole, l'invenzione della ruota e la gravità", ha detto Lapid. Il leader israeliano ha aggiunto: "Abbiamo stabilito uno Stato glorioso con le nostre mani senza chiedere niente a nessuno. Continueremo a costruire un Israele forte e sicuro e quando i palestinesi decideranno di riconoscere la realtà sono più che benvenuti a farcelo sapere".
(Agenzia Nova, 30 ottobre 2018)
L'Oman invita gli Stati arabi a riconoscere Israele
Il 22 ottobre il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, si è recato in visita ufficiale in Oman, seguito quattro giorni più tardi dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
L'Oman non ha relazioni diplomatiche con Israele. Il viaggio di Netanyahu era stato tenuto segreto. Colpito da un cancro, il sultano Qabus è gravemente malato da tre anni. Queste visite ufficiali sono state le sue prime apparizioni pubbliche dalla malattia.
Il 27 ottobre il ministro degli esteri dell'Oman, Yusuf bin Alawi (foto), intervenendo agli incontri di Manama (Bahrein) si è rivolto ai dirigenti arabi presenti invitandoli a prendere atto della realtà e a riconoscere lo Stato d'Israele. Il sovrano del Bahrein, re Hamed ben Issa Al Khalifa, gli ha dato il proprio sostegno.
L'indomani il sultano Qabus ha inviato una delegazione a Ramallah (Palestina) per consegnare una lettera al presidente Abbas.
Sembra che queste manovre diplomatiche poggino su una possibile iniziativa saudita collegata al piano di pace della Casa Bianca.
(Rete Voltaire, 30 ottobre 2018)
La risposta alle stragi antisemite è il sostegno allo Stato di Israele
di Ugo Volli
Antisemitismo e terrorismo. Bisogna sentire il lutto della terribile strage di Pittsburgh per quel che è stata, per ognuna delle 11 vittime, che sono state vilmente uccise mentre erano in preghiera, ne faccio qui i nomi, perché è importante contrastare la massificazione genocida:
Joyce Feinberg 75 anni;
Richard Gottfried 65 anni;
Rose Malinger 97 anni;
Jerry Rabonowitz di 66 anni;
Cecil Rosenthal 59 anni;
David Rosenthal 54 anni;
Bernice Simon 84 anni;
Sylvan Simon 86 anni;
Daniel Stein 71 anni;
Melvin Wax 88 anni;
Irving Youngner 69 anni
per i feriti, per i traumatizzati, per quel neonato il cui ingresso rituale nel mondo è stato insanguinato dall'assassino.
Ma purtroppo non deve, non può essere isolata dagli altri atti di terrorismo che continuamente prendono di mira gli ebrei nel mondo, dall'accoltellamento che è avvenuto a Parigi due giorni dopo Pittsburgh al missile proveniente da Gaza che ha centrato una casa a Beer Sheva la settimana scorsa. Purtroppo questi episodi non si possono distaccare dall'incitamento e dalla propaganda antisemita che circola largamente in Europa, nel mondo arabo e nel resto del mondo. Le inchieste mostrano che in Germania ci sono stati 947 atti antisemiti nel 2017, un aumento del 55 per cento rispetto al 2016, che il 51 per cento dei polacchi non vuole che la propria figlia sposi un ebreo, che nel 2017 c'è stato un aumento del 78% degli episodi di violenza fisica contro gli ebrei nel Regno Unito e un aumento del 30% di tutti gli altri incidenti antisemiti nel paese, che a maggio 2017, il Centro ricerche PEW negli Stati Uniti, ha condotto uno studio su 2000 residenti in 18 paesi dell'Europa centrale e orientale. Lo studio ha rilevato che il 20% degli intervistati non vuole ebrei nel proprio paese e il 30% non vuole ebrei come vicini. Inoltre, il 22% dei cittadini rumeni e il 18% dei cittadini polacchi sono interessati a negare il diritto degli ebrei alla cittadinanza nel loro paese; la Grecia che registra un 69% di opinioni negative nei confronti degli ebrei; in Francia, che è il Paese con la maggiore concentrazione di ebrei nel continente, il 37% degli intervistati ha espresso opinioni antisemite. In Germania invece la percentuale è del 27%.
Ben più alte, ma non stupisce, le percentuali di antisemiti in Medio Oriente: 69% in Turchia (71% nel 2015), 75% in Egitto, 74% in Arabia Saudita, 78% Libano, 81% Giordania, 82% Kuwait, 88% Yemen, addirittura 92% Iraq. Non stupisce il dato altissimo (93%) registrato nella striscia di Gaza e nei territori dell'Autorità Palestinese. La Russia registra un 30% (calato al 23% nel 2015), il Giappone il 23%, la Cina il 20%.
Si potrebbe continuare a lungo con questi dati. La cosa da sottolineare è che dai tempi di Hitler, anzi in fondo da quelli delle prime persecuzioni sistematiche della chiesa e delle espulsioni di massa (Inghilterra 1290, Spagna ma anche Sicilia 1492, Francia 1306, Portogallo 1496, Italia meridionale 1510 ecc.), non si tratta di generica ostilità, che sfocia accidentalmente in violenza, ma di un progetto di eliminazione. Del testo l'attentatore di Pittsburgh gridava esattamente questo: "Tutti gli ebrei devono morire".
Essendo abituati a vivere in condizioni di minoranza e a far fronte all'ostilità antisemita ed essendo formati in una cultura della vita e dell'ottimismo, appena possibile gli ebrei tendono a ignorare il clima di pregiudizio che incontrano e a pensare che dove sono insediati e in genere apprezzati dai vicini per il loro lavoro e la loro creatività, l'antisemitismo omicida non sia un rischio imminente. E spesso hanno ragione per anni, decenni, generazioni, fino a che l' "odio antico" non riemerge. E' successo così in Francia nell'Ottocento, in Germania fino agli anni Venti del secolo scorso, perfino in Italia durante il fascismo. Ma prima o poi, con un pretesto o con l'altro (la religione o la razza, l'usura o la Palestina) l'antisemitismo riemerge.
Come capì Theodor Herzl, la risposta è lo stato ebraico. Non perché esso elimini l'odio, dato che anzi lo focalizza contro di sé, perché l'antisionismo non è altro che antisemitismo diretto contro Israele. Ma perché consente di difendersi e prende sotto la sua protezione anche gli ebrei della diaspora, nella misura in cui ciò è possibile. Oggi, nonostante tutto il terrorismo, Israele è il luogo più sicuro per gli ebrei. Per questo noi ebrei che per mille ragioni restiamo attaccati alle nazioni che hanno ospitato le nostre comunità per secoli e millenni e non troviamo il modo, il coraggio, la possibilità di unirci alla maggioranza del popolo ebraico che vive nel suo stato, dobbiamo cercare di far quel che si può per prevenire gli attacchi antisemiti. Ma ancor più abbiamo l'obbligo di difendere e sostenere Israele che è la garanzia della vita e dell'identità del nostro popolo. Dopo Pittsburgh, dopo una strage nel cuore dello stato che per molti è stato il rifugio e la sicurezza, questa consapevolezza dev'essere ancora più chiara.
(Progetto Dreyfus, 30 ottobre 2018)
Esperto israeliano lancia un allarme sulla sicurezza informatica
Dati usati per manipolare i processi decisionali
Sta arrivando "l'inverno della privacy", in cui i dati raccolti sulle persone sono usati anche per manipolare le loro decisioni, sfruttando il fatto che gli individui sono più simili, nei loro meccanismi decisionali, di quanto non pensino. A lanciare l'allarme è l'israeliano Menny Barzilay, esperto di sicurezza informatica di fama internazionale e direttore tecnologico del centro di ricerca sul cyber dell'università di Tel Aviv.
La "manipolazione psicologica" avviene già. "Lo abbiamo visto con l'interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane, attraverso molti account falsi su Facebook che hanno distribuito fake news riuscendo a spostare l'elettorato da Clinton a Trump", spiega Barzilay in un incontro organizzato dalla Camera di Commercio di Roma.
Le somiglianze nei processi decisionali, unite all'enorme mole di dati raccolti da piattaforme come Facebook - "servizio gratis ma pagato con la nostra privacy" - consentono di sviluppare algoritmi in grado sia di prevedere ciò che le persone faranno in determinate circostanze, sia di manipolare le loro decisioni, evidenzia Barzilay.
A fronte di questo, il nuovo regolamento europeo sulla privacy (il Gdpr) "è una buona mossa ma manca un aspetto fondamentale: non è questione tanto di dati, quanto di 'insights'", cioè di ciò che si può ricavare dai dati, dall'orientamento politico a quello sessuale, rimarca l'esperto.
Grazie ai dati, ad esempio, "Facebook può predire quando le persone si lasceranno due giorni prima che accadrà", analizzando i loro comportamenti sia online che offline.
(ANSA, 30 ottobre 2018)
1938: nascono le scuole ebraiche
Fu la risposta alle infami leggi razziali. Gli studenti ebrei cacciati trovarono eccezionali insegnanti nei docenti universitari anch'essi espulsi dalle Facoltà.
di Jonatan Della Rocca
A seguito della promulgazione delle leggi razziali fasciste emanate nel 1938 furono espulsi, di colpo, 5400 studenti ebrei italiani, di cui solo a Roma 1500, 100 maestri di scuola elementare, 279 presidi e professori di scuola media, oltre 96 docenti universitari, insieme a centinaia di assistenti e lettori allontanati dagli Atenei. Per non parlare dei testi scolastici che furono vietati, non solo quelli di autori ebrei ma anche quelli in cui era presente un lavoro contestuale a quattro mani con un autore di fede mosaica.
Si trattò dell'inizio della separazione e dell'emarginazione dal tessuto sociale nazionale che in pochi anni portò alle deportazioni. Una persecuzione culturale a cui la Comunità pose rimedio attraverso diverse attività didattiche. Innanzitutto, nella Capitale, la Scuola Elementare Vittorio Polacco, già inaugurata nel 1925, vide improvvisamente le presenze quasi raddoppiare da 400 a circa 700 presenze e si organizzò che in alcuni istituti del Governatorato, sparsi nella città, fossero predisposte delle classi pomeridiane per non far incontrare i bambini ebrei con quelli ariani.
A ciò si aggiungeva un altro annoso problema da fronteggiare: il ricollocamento dei docenti ebrei allontanati dalle scuole del Regno con gravi conseguenze oltre che professionali di natura economica. Alcuni di loro furono reimpiegati nella nascitura Scuola Media, che vide inizio nel Novembre del 1938 con la sede nei primi anni in una villa a via Celimontana e nei successivi a Via Balbo e a Lungotevere Sanzio.
Anche per gli studenti in età universitaria furono avviati alcuni corsi in discipline matematiche e scientifiche che coinvolsero decine di giovani studenti che poterono, sotto la guida dell'illustre matematico, Guido Castelnuovo, allontanato per le leggi antiebraiche dall'Università, seguire corsi e sostenere esami poi riconosciuti nel piano di studi. Si trattò di un immenso sforzo sostenuto da una Comunità che, grazie alle poche risorse disponibili, seppe rimboccarsi le maniche, non facendo mancare vitalità e supporto in un periodo travagliato alle giovani generazioni di studenti.
Qualche anno fa ne è uscita un'esauriente e dettagliata documentazione nel testo "Sapere ed essere nella Roma razzista", curato da Silvia Haia Antonucci e Giuliana Piperno Beer, editore Cangemi, che ripercorre con una ricerca storica accurata e testimonianze esclusive i momenti salienti di un periodo spesso dimenticato dalla pubblicistica storica.
(Shalom, ottobre-novembre 2018)
L'Olp ha sospeso il riconoscimento di Israele
La decisione del Consiglio nazionale palestinese
Una decisione che rischia di avere conseguenze gravissime e di peggiorare il clima già incandescente in Medio Oriente. Nella tarda serata di ieri da Ramallah è arrivata la notizia che l'Olp, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, avrebbe stabilito di «sospendere il riconoscimento di Israele e la cooperazione nei settori della sicurezza e dell'economia».
Una decisione che, secondo le prime indicazioni, dovrà restare valida finché non ci sarà da Israele il riconoscimento della Palestina come Stato. A renderlo noto l'agenzia palestinese Wafa, al termine di una riunione durata due giorni del Consiglio Nazionale Palestinese. Preoccupazione a Tel Aviv e resta ora da vedere come i vertici dell'Olp decideranno di mettere in pratica questa decisione e quali effetti essa potrà avere sugli accordi che al momento regolano i rapporti tra Israele e i palestinesi.
(il Giornale, 30 ottobre 2018)
L'«europeizzazione» degli ebrei americani
"Pittsburgh cambia tutto". Le sinagoghe negli Stati Uniti corrono ai ripari
di Giulio Meotti
ROMA - "Non voglio vivere in un paese dove ogni sinagoga ha bisogno di guardie armate", ha detto ieri il sindaco di Pittsburgh, Bill Peduto, in risposta al presidente Donald Trump che aveva parlato delle necessità di proteggere i siti ebraici dopo la strage alla sinagoga Tree of Life. Fino a sabato scorso l'ebraismo americano sembrava un gigantesco paradiso uscito dai romanzi di Philip Roth. La strage a opera di un suprematista bianco che ha lasciato a terra undici ebrei cambia tutto e porterà all'"europeizzazione dell'ebraismo americano", ha detto ieri Joel Rubinfeld, presidente della Belgian League Against Anti-Semitism. Scrive il Wall Street Journal che le sinagoghe negli Stati Uniti hanno già aumentato la protezione dopo il "peggior attacco a una comunità ebraica nella storia degli Stati Uniti". L'Fbi rileva che il 54 per cento dei 1.538 reati di odio anti-religioso nell'ultimo anno sono stati motivati da antisemitismo. Eppure, fino ad alcuni anni fa scriveva il Washington Post, soltanto due sinagoghe avevano un direttore della sicurezza.
Le congregazioni di Milwaukee, Washington, Seattle e San Francisco, tra le altre, ieri hanno adottato nuovi protocolli di sicurezza. L'Adas Israel Congregation, una sinagoga di Washington, aveva già agenti di sicurezza sul posto. Ma il suo rabbino capo, Aaron Alexander, ha definito Pittsburgh un "game changer" e ora il tempio aggiungerà personale intorno al perimetro della sinagoga. Don Aviv, direttore di Interfor International, una società di sicurezza che fa consulenza a numerosi gruppi ebraici, ha detto che si è registrato un aumento del 70 per cento della domanda di servizi di sicurezza tra le organizzazioni ebraiche nell'area di New York. "La sicurezza relativamente scarsa nelle sinagoghe americane mi ha impressionato e mi ha preoccupato allo stesso tempo", ha detto il belga Rubinfeld, che frequenta spesso gli Stati Uniti e che era presente nella Grande Sinagoga di Bruxelles quando un terrorista ferì due persone durante il capodanno ebraico del 1982. "Pensavo che questa fosse una differenza fondamentale con gli Stati Uniti, ma non lo è più". La strage di Pittsburgh "rappresenterà un punto di svolta per gli ebrei americani".
La comunità ebraica in Norvegia spende in sicurezza metà del budget. La metà del contingente militare dell'Operazione Sentinelle, in Francia, è oggi a protezione dei siti ebraici. Ogni anno la famiglia Rothschild contribuisce a finanziare una miriade di richieste di budget per proteggere gli ebrei di Francia. In Inghilterra è schizzato alle stelle il budget del Community Security Trust, la forza di difesa ebraica meglio organizzata in Europa (è passato da due a tredici milioni di sterline in otto anni). Il suo direttore, Mike Whine, ha definito le comunità ebraiche "la prima linea" di attacco per l'estremismo in tutto il mondo. La Kind David High School, una scuola ebraica di Manchester, ha installato altoparlanti sui tetti della scuola per richiamare gli studenti all'interno in caso di attacco, come avvenne a Tolosa, dove tre bambini furono uccisi. "Spendiamo una parte enorme del budget in sicurezza, è ridicolo", ha detto il rabbino Miriam Berger della sinagoga riformata di Finchley, a Londra. L'ex presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Charlotte Knobloch, ha dichiarato che "la vita ebraica è possibile in pubblico solo sotto la protezione della polizia". E' dal 1982, quando ci fu l'uccisione del piccolo Stefano Taché, che la comunità ebraica di Roma è sotto tutela. In Italia numerosi rabbini sono sotto scorta e non c'è evento ebraico di qualsiasi tipo che non si svolga senza sicurezza. Fino a sabato pomeriggio, tutto questo era impensabile negli Stati Uniti. Adesso, per spiegare il cambiamento epocale, si agita lo spettro dell'Europa.
(Il Foglio, 30 ottobre 2018)
Ebrei vittime delle leggi razziali. Chiama il Colle e la pensione torna
Il governo: non sono mai state cancellate
di Andrea Carugati
ROMA - L'allarme lanciato dall'Unione delle comunità ebraiche e dalle associazioni dei deportati e dei perseguitati politici e razziali è arrivato fino al Quirinale. In mattinata dal Colle sono partite telefonate dirette ai piani alti del governo per avere delucidazioni sul taglio da 50 milioni - contenuto nel decreto fiscale - al fondo per gli assegni destinati alle vittime del fascismo e delle leggi razziali.
Il governo si è affrettato a correggere il tiro. Il risparmio di 50 milioni per il 2018 è stato confermato, ma il Mef ha assicurato che non ci sarà «nessuna riduzione delle pensioni di guerra, né dei vitalizi ai perseguitati politici e razziali». Si tratta, spiegano dal Tesoro, di «un allineamento dello stanziamento in bilancio alla effettiva erogazione delle risorse in base ai diritti soggettivi degli interessati».
Un risparmio dovuto al calo del numero dei beneficiari nel corso dell'anno, spiegano dal governo. L'Ucei ha preso atto delle precisazioni, rimarcando che l'allarme era scattato dalla lettura dell'allegato al decreto fiscale pubblicato dalla Gazzetta ufficiale. Su quel documento, infatti, il taglio da 50 milioni era destinato a una maxi categoria che comprende pensioni di guerra e perseguitati politici e razziali (in totale il fondo è di circa 650 milioni). Secondo il Mef, il risparmio «riguarda solo le pensioni di guerra», che sono svariate decine di migliaia,e non i perseguitati e i cittadini colpiti dalle leggi razziali ( che sono poche migliaia di persone). Una precisazione necessaria a fugare i timori delle Comunità ebraiche. La quota del fondo destinata ai perseguitati ammonta infatti a 54 milioni. Un taglio da 50 milioni avrebbe significato nella sostanza un azzeramento degli assegni che ammontano a 500 euro al mese, e sono stati concessi dallo Stato come "gesto riparatore" con una legge del 1955.
Diversi esponenti del M5S ieri sono intervenuti per escludere che ci possano essere tagli agli assegni. Il viceministro dell'Economia Laura Castelli ha chiamato personalmente la presidente dell'Ucei Noemi Di Segni e ha spiegato: «Queste sono risorse non spese e non riguardano il futuro. Si tratta di uno spostamento di soldi non utilizzati».
Le opposizioni, da Leu fino a Forza Italia passando per il Pd, hanno rilanciato l'allarme di Di Segni. «Correggete subito questa vergogna», l'attacco di Emanuele Fiano, il cui padre Nedo è stato deportato ad Auschwitz. La vicepresidente della Camera Mara Carfagna (Forza Italia) ribatte a Castelli: «Il taglio al fondo per le pensioni ai reduci di guerra e alle vittime delle leggi razziali non è una fake news, ma un atto pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Vediamo come il governo eviterà che al taglio di fondi corrisponda una decurtazione delle pensioni».
(La Stampa, 30 ottobre 2018)
La Gerusalemme che soltanto il cuore riesce a vedere
È un paesaggio di quiete, davanti al quale si perde la nozione del tempo. Eppure è una quiete solo apparente che una scintilla può trasformare in tumulto. Le pietre sono parole, i muri diventano frasi, le strade sono elenchi di citazioni.
di Fernando Gentilini
GERUSALEMME - C'è un posto, a Gerusalemme, dal quale la Città Vecchia si vede come devono vederla gli uccelli. Un balcone in pieno cielo, in cima al Monte degli Ulivi, dove i pellegrini si radunano fin dalle prime luci dell'alba. Da lassù la spianata più contesa del mondo appare a tutto tondo, sembra una scultura. Ed è uno spettacolo sublime, da far girare la testa.
Gli arabi la chiamano Haram ash-Sharif, il Nobile Recinto. Un condensato di sapienza architettonica che ha preso forma dopo la conquista del 638. Al centro la moschea di Omar, la Cupola della Roccia, a protezione della «Roccia Sacra» da cui Maometto salì in Paradiso; e all'estremità meridionale la moschea di al-Aqsa, terzo luogo santo dell'Islam dopo La Mecca e Medina.
Colpisce l'allineamento di cupole: una dorata, immensa, le altre più piccole e nere. La prima è come un sigillo, certifica Gerusalemme. Ma le seconde sono ancora più sante, poiché rimandano direttamente al Corano: al-Aqsa vuol dire «la Lontana», e il riferimento è alla sura del Viaggio notturno di Maometto a cavallo di Buràq, creatura alata dei profeti.
È un luogo protetto la spianata, distante dal rumore della città. Sotto gli ulivi capannelli di anziani a leggere il Corano; e nello spazio aperto tra le moschee, mamme con bambini e uomini soli. Un paesaggio di quiete, davanti al quale si perde la nozione del tempo. Eppure è una quiete solo apparente, che una scintilla può trasformare in tumulto.
È un paesaggio enigmatico, che gli occhi non riescono a svelare. La parte invisibile è riposta nella Bibbia, biografia di Gerusalemme. Perché qui l'urbanistica si confonde col canone letterario: le pietre sono parole, i muri diventano frasi, le strade sono interminabili elenchi di citazioni.
Avvenimenti prodigiosi
Per gli ebrei è la spianata del Tempio, il Monte Moria dove Salomone costruì la dimora di Dio. Il Libro dei Re lo descrive nei minimi particolari, cubito per cubito. Il vestibolo, la navata, il Santo dei Santi con l'Arca dell'Alleanza. Fu raso al suolo dai babilonesi, poi ricostruito, ampliato e distrutto ancora dalle legioni di Roma. Ma qui l'Eterno preesisteva all'altare, era adorato dall'inizio del mondo.
Fin dalla Genesi, in cima al Moria, fu un susseguirsi di avvenimenti prodigiosi. Quassù, con la polvere dai quattro angoli delle Terra, l'Onnipotente creò il primo uomo. Sempre qui, dopo Adamo, fecero offerte Caino e Abele, e poi Noè dopo il Diluvio. Quindi fu la volta di Abramo, che legò Isacco all'altare e si fermò appena in tempo.
Il Moria, per gli ebrei, è il centro del mondo in cui il basso comunica con l'alto, come nel sogno profetico di Giacobbe. Anche lui si addormentò in questo luogo, su un guanciale di pietra. E vide una scala che saliva in cielo, sulla quale danzavano e cantavano gli angeli, in una luce strabiliante che annunciava il futuro.
Di questo paesaggio biblico non resta nulla, anzi non appare più nulla. Perché i massi di pietra del Muro Occidentale risalgono al tempo di Erode il Grande. Sostenevano il Secondo Tempio, ora formano una sinagoga a cielo aperto. Gli ebrei vi pregano incessantemente, di giorno e di notte. Aspettano il Messia, il tempo che verrà. Sperano in un nuovo mondo più palese e veritiero di questo.
Sulle ragioni del conflitto tra israeliani e palestinesi ci sono almeno due verità. Per gli israeliani è una questione di vita o di morte, nel senso che c'è in ballo il loro diritto di esistere. Per i palestinesi è una controversia di tipo immobiliare, e riguarda la spartizione del fazzoletto di terra che entrambi i popoli considerano patria, cioè la Palestina storica.
Ma davanti la spianata contesa, dove insieme al mondo sono iniziati i problemi del mondo, la verità s'ingarbuglia ulteriormente, e quello tra israeliani e palestinesi diventa un conflitto tra ciò che mostrano gli occhi e ciò che si vede solo col cuore: tra l'oro, il rame e la luce riflessa della Cupola della Roccia e la memoria del Tempio perduto che è custodita nel Libro dei Libri.
«L'essenziale è invisibile agli occhi» dicono i poeti. Ed è una frase da ripetere come un mantra al cospetto della spianata di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Perché ci vuole cuore per vedere l'invisibile, bisogna diffidare degli occhi, e soprattutto occorrono sacrifici e apprendimento continuo. Solo così, tra quelle pietre, potremo riconoscere la nostra anima messa a nudo. Senza restarne travolti. Senza rimpianti per essere venuti a cercarla così lontano.
(La Stampa, 30 ottobre 2018)
L'inno di Israele ad Abu Dhabi
La commozione in diretta tv per l'atleta premiato e gli effetti del disgelo diplomatico la ministra strizza gli occhi e trattiene le lacrime mentre le note del
l'inno israeliano, l'Hatikva, la speranza in ebraico, suonano forti. Il judoka Sagi Muki ha vinto domenica la medaglia d'oro nel Grand Slam di Abu Dhabi. Non è la sua vittoria però a emozionare anche i canali televisivi israeliani, alcuni dei quali hanno interrotto le trasmissioni per mandare in onda la premiazione. E' la prima volta che in un paese arabo, che non riconosce Israele, risuona l'Hatikva e gli atleti possono competere mostrando il simbolo nazionale. Non ha torto la ministra dello Sport, Miri Regev, la stessa che trattiene le lacrime accanto al podio, a scrivere sui social: "Abbiamo fatto la storia". Soltanto l'anno scorso, allo stesso torneo, un altro judoka israeliano, Tal Flicker, aveva vinto la medaglia d'oro ma, come tutti gli atleti israeliani che da anni ormai competono in alcuni paesi del mondo arabo senza un trattato di pace con Israele, non gli era stato permesso di salire sul podio al suono dell'inno nazionale.
Qualcosa sta cambiando tra Israele e i paesi del Golfo, senza passare attraverso negoziati, ma muovendosi direttamente verso una lenta e non troppo pubblicizzata normalizzazione. Il podio di Abu Dhabi arriva poche ore dopo una storica visita del premier Bibi Netanyahu in Oman, dove a breve si recherà per una conferenza sulle telecomunicazioni il suo ministro Yisrael Katz. Il responsabile dei Trasporti Ayoub Kara sarà a Dubai per parlare del progetto di una ferrovia tra Israele, Giordania e paesi del Golfo, Arabia Saudita compresa. E mentre in queste ore persino il Qatar, vicino agli islamisti palestinesi di Hamas, ha garantito che permetterà l'esecuzione dell'inno nazionale israeliano ai Mondiali di ginnastica artistica in corso nell'emirato, i giornali in Israele rivelano i dettagli di un incontro segreto avvenuto a giugno tra il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e il suo omologo qatariota.
(Il Foglio, 30 ottobre 2018)
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L'inno israeliano suonato per la seconda volta ad Abu Dhabi
di Giordano Stabile
L'inno israeliano è stato suonato per la seconda volta in due giorni ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi, quando questo pomeriggio il judoka Peter Paltchik ha vinto la medaglia d'oro nella categoria fino a 100 chili. E' la seconda vittoria nel torneo Grand Slam della Federazione internazionale di judo, una sorta di campionato mondiale. Ieri l'inno israeliano, «Hatikva», era stato suonato per la vittoria di un altro atleta, Sagi Muki, e alla presenza del ministro per lo Sport Miri Regev, che è stata ripresa mentre piangeva in diretta.
Israele non ha relazioni diplomatiche con i Paesi del Golfo ma ha rapporti, non ufficiali, sempre più stretti nel campo della sicurezza e ora anche a livello culturale. Questa mattina Regev ha visitato la moschea Sheikh Zayed ad Abu Dhabi, la più grande degli Emirati. Il viaggio della Regev arriva subito dopo la visita di Benjamin Netantahu in Oman, venerdì scorso. Il Sultano Qabus ha poi commentato che è «arrivato il momento di accettare l'esistenza di Israele» nella regione.
(La Stampa, 29 ottobre 2018)
Storica visita del ministro israeliano della Cultura Regev alla grande moschea di Abu Dhabi
GERUSALEMME - Il ministro della Cultura e dello Sport israeliano, Miri Regev, ha visitato oggi la grande moschea Sheikh Zayed ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel". Si tratta della prima visita ufficiale di un ministro di Israele nel luogo di culto. La moschea "ha un messaggio di fratellanza e di pace", ha scritto sul libro dei visitatori la Regev, che ha accompagnato negli Emirati la squadra di judo israeliana all'Abu Dhabi Grand Slam 2018. La stampa israeliana spiega che si tratta di "un viaggio storico che per alcuni è un segnale di avvicinamento tra Israele ed Emirati". Inoltre, è la prima volta che gli atleti israeliani partecipano ad un evento sportivo in un paese del Golfo potendo sventolare la bandiera bianca e blu con la stella di Davide al centro. Prima dell'avvio del torneo la Federazione internazionale di judo aveva minacciato di spostare l'evento lontano da Abu Dhabi se avesse non permesso agli israeliani di competere sotto la loro bandiera. "È un sogno che si avvera", ha detto Regev dopo la cerimonia. "Per due anni abbiamo avuto colloqui per arrivare a questo momento ed è stato difficile fermare le lacrime. Voglio ringraziare le autorità di Abu Dhabi e i nostri ospiti che ci hanno ricevuto in modo esemplare", ha affermato il ministro. La visita della Regev alla grande moschea di Abu Dhabi giunge a pochi giorni dallo storico incontro a Mascate, in Oman, tra il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il sultano Qaboos bin Said, comunicato lo scorso 26 ottobre. Nel quadro dei rapporti tra Israele e i paesi del Golfo, con cui non vi sono relazioni ufficiali, si inserisce anche la visita di oggi del ministro della Comunicazione israeliano Ayoub Kara a Dubai per partecipare a una conferenza internazionale sulla sicurezza cibernetica.
(Agenzia Nova, 30 ottobre 2018)
La Marina Militare italiana impegnata nell'operazione Rising Star con la Marina israeliana
Dal 21 al 25 ottobre si è svolta l'annuale esercitazione bilaterale Rising Star, tra la Marina Militare italiana e la Marina israeliana. L'attività, effettuata nelle acque del Golfo di Taranto, si pone l'obiettivo di incrementare l'interoperabilità e la cooperazione nel campo del soccorso subacqueo, mantenendo elevati gli standard addestrativi degli equipaggi delle unità navali e dei sommergibili italiani ed israeliani coinvolti. Quest'anno, per la prima volta, l'evento addestrativo ha incluso anche interazioni tra unità navali, con l'obiettivo di costruire un legame solido nel campo delle operazioni marittime.
In questo contesto, la fregata Zeffiro, il sommergibile Romeo Romei, la corvetta Lahav ed il pattugliatore missilistico Keshet, hanno simulato scenari di difesa aerea e di superficie, nonché di lotta agli incendi e alle falle, verificando inoltre le procedure comuni per l'intervento sanitario d'urgenza a favore di militari feriti o eventuali naufraghi trovati in mare. Alla profondità di 35 metri, i Palombari del Gruppo Operativo Subacquei e la "nave soccorso sommergibili" Anteo, sono stati impegnati nella simulazione di soccorso al sommergibile israeliano Leviathan della classe Dolphin. Attraverso la campana McCann, conosciuta in ambito NATO come Submersible Rescue Chamber, è stato possibile evacuare dieci membri d'equipaggio dal battello sinistrato, verificando quindi l'efficacia dei sistemi di soccorso nazionali e la loro interoperabilità con i sommergibili israeliani.
La Marina Militare considera l'elemento umano quale pilastro centrale nell'azione dello strumento militare, ed è essenziale mantenere nel tempo un'elevata qualità professionale, partendo in primis dalla formazione e l'addestramento. Anche grazie all'esercitazione Rising Star 2018, la Forza Armata continua a realizzare un sistema addestrativo che si basa su un elevato livello di aderenza alla realtà d'impiego. L'intrinseca flessibilità operativa della Marina Militare è uno strumento importante non solo per la Difesa ma per l'intero Paese, poiché consente di impiegare i propri uomini e mezzi anche in una gamma di attività e operazioni che spaziano dal sociale, all'umanitario, all'ambientale, allo scientifico e in tutti i settori d'interesse della collettività.
(Gazzetta di Napoli, 29 ottobre 2018)
Il killer della sinagoga
"Gli ebrei devono morire tutti"
di Francesco Semprini
«Era un uomo normal». Così i vicini di casa parlano di Robert Bowers, l'autore della mattanza alla sinagoga Tree of Llfe di Pittsburgh in cui sono rimaste uccise 11 persone. «Il suo unico neo era guardare la televisione- dicono-, soprattutto i programmi di informazione, a volume molte alto». L'identìkit che emerge dell'assassino ispirato da odio antisemita è sfaccettato: cittadino americano, bianco, di 46 anni e con frequentazioni in siti Internet vicini all'ultra destra. Un uomo apparentemente tranquillo, come dicono i vicini, ma con un demone interiore emerso nel corso delle perquisizioni condotte nella sua abitazione. «Gli ebrei stanno commettendo un genocidio: devono morire tutti»: sono queste le parole che il killer di Pittsburgh, Robert Bowers, ha pronunciato davanti agli agenti di polizia quando si trovava ancora all'interno della sinagoga.
Le simpatie per l'ultradestra
Era un attivo frequentatore di Gab.com piattaforma alternativa dell'ultradestra. Pochi minuti prima di entrare nella sinagoga Bowers aveva lasciato un messaggio ai suoi follower spiegando che alla Hebrew Immigrant Aid Society «piace portare invasori che uccidono la nostra gente. Non posso stare seduto e guardare la mia gente che viene massacrata. Vado». Gab con i suoi 800 mila utenti, è l'alternativa - così la descrive il fondatore Andrew Torba - ai «sinistroidi social media come Twitter e Facebook». Nei suoi due anni di vita la piattaforma ha attirato tutti coloro che sono stati cacciati dai social «tradizionali» dall'ideologo di estrema destra Mila Yannupoulos al suprematista bianco Richard Spencer, passando per il complottista Alex Jones. E il presidente Trump finisce nel mirino delle critiche con l'accusa di aver fomentato l'estremismo di destra. «Se una carica istituzionale o un funzionario eletto incontra simpatizzanti del nazismo o porta negazionisti al Congresso o se evoca teorie cospirazioniste da parte di finanziatori ebrei come Soros, ebbene tutto ciò è assolutamente intollerabile», spiega Jonathan Greenblatt, ceo di Anti Defamation League. «Stiamo assistendo a un'escalation dell'antisemitismo da margini della società alla politica di tutti giorni con candidati e persone che ripetono in pubblico la retorica dei suprematisti», prosegue. «Non sono solo gli ambienti politici che contribuiscono a ciò, i social media stanno amplificando e accelerando questa escalation in maniera scioccante. L'ascesa dell'antisemitismo è un fenomeno che va fermato e annientato».
(La Stampa, 29 ottobre 2018)
«Rotto un tabù: anche in Europa l'antisemitismo è sdoganato»
Intervista a Cobi Benatoff
di Paolo Salom
«Una tragedia come quella di Pittsburgh rappresenta la rottura di un tabù: gli ebrei, negli Stati Uniti, si sono sempre sentiti al sicuro. Tutti hanno alle spalle ricordi familiari di pogrom in Europa: l'odio era lì. Ora sarà più difficile considerare l'America terra di libertà: dalla paura». Cobi Benatoff, a lungo presidente della Comunità ebraica di Milano, poi alla guida dell'European Jewish Congress, oggi è vicepresidente del World Jewish Congress in rappresentanza dell'Europa.
- Gli attacchi antisemiti sono in crescita negli Stati Uniti come in Europa. Sono fenomeni collegati?
«In parte. Nel Vecchio Continente, dopo la Shoah, c'è stato un percorso di riconoscimento delle responsabilità. Di tutti i Paesi: non solo della Germania. L'odio antiebraico è stato a lungo un tabù. Ora, in Europa ne esistono due forme. Una portata dai milioni di immigrati di fede islamica, conseguenza dell'educazione nei Paesi di origine, e una tradizionale, l'antigiudaismo "classico" che è rimasto brace sotto la cenere».
- Dunque qual è il legame tra Usa ed Europa?
«Il linguaggio politico: dall'elezione di Trump in avanti, negli Stati Uniti sono stati sdoganati odio e invettive contro gli avversari, oltre ogni limite di decenza. E quelle frange razziste, suprematiste, estremiste, comunque sempre presenti, si sono sentite incoraggiate a portare alla luce i loro temi "storici", antisemitismo compreso. In Europa sono i movimenti populisti e sovranisti ad avere aggiornato, in peggio, il vocabolario pubblico. Salvini e Di Maio non sono antisemiti ma il loro linguaggio è propedeutico a quello che abbiamo visto accadere già nel passato. Gli ebrei non sono ancora i bersagli espliciti. Ma quando si parla di finanza e controllo del mondo ... ».
- Dobbiamo aspettarci un ritorno dei tempi più bui?
«Spero proprio di sbagliarmi, ma noi non possiamo permetterci di sottovalutare i segnali, di dimenticare la Storia. In Italia, nel 1938, nessuno avrebbe creduto a quello che le leggi razziali avrebbero poi provocato. Gli ebrei, in ogni Paese dove si trovano a vivere, finiscono con l'identificarsi con la società che li circonda, a vedersi parte integrante di essa. Mai avrebbero pensato di poter un giorno perdere ogni diritto di cittadini. Figuriamoci le persecuzioni, l'Olocausto. Ma come diceva Primo Levi: è avvenuto, può accadere di nuovo».
(Corriere della Sera, 29 ottobre 2018)
Quando anche la sinistra soffia sull'antisemitismo
29 ottobre 2018)
Ricerca dell'Istituto Machiavelli: ogni 83 secondi su twitter appare un post antiebraico
Analisti: odio mai morto
Ben 240 attacchi contro le persone. Nirenstein: «Torna la paura, in Europa è iniziata la grande fuga»
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Studio della Friederich Ebert
Il 63% di polacchi e il 48% di tedeschi pensano che israele voglia sterminare i palestinesi
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di Gigi Di Fiore
Gli undici morti di Pittsburgh sono la conferma di un nervo scoperto che, anche dopo la shoah, in Europa e nel mondo esiste ancora. L'antisemitismo non è mai morto? Secondo Fiamma Nirenstein, giornalista e collaboratrice del Jerusalem Center for Public affairs, negli ultimi anni ci sarebbero stati 1661 attacchi di natura antisemita, di cui ben 240 contro le persone. Un insegnante e tre bambini uccisi nel 2012 in Francia in una scuola ebraica, quattro persone massacrate nel 2014 al museo ebraico di Bruxelles sono solo esempi di vittime ebree degli
ultimi anni.
Le analisi
«Non credo che ci sia una recrudescenza di antisemitismo, ma una costante culturale di questo tipo diffusa in Europa - dice Eugenio Di Rienzo, docente di storia all'Università La Sapienza di Roma - In Gran Bretagna, come in Francia, Germania e soprattutto nei paesi dell'Est gli atteggiamenti anti ebraici purtroppo non si sono mai spenti».
Dalle motivazioni storico-culturali, legati agli stereotipi sull'ebreo alimentati dalla cultura cattolica (l'usura, l'arricchimento, l'estraneità al Paese di residenza) alle ostilità collegate a visioni politiche pro-palestinesi contro lo Stato d'Israele: le radici dell'antisemitismo. Spiega Fabio Nicolucci, autore nel 2013 del saggio «Sinistra e Israele, la frontiera morale dell'Occidente»: «Una lettura interessata di Israele identifica il terrorismo islamico e gli attacchi all'occidente come rivolti agli ebrei, che dell'occidente sono simbolo. Questa assimilazione aveva per obiettivo affermare l'unicità del terrorismo integralista religioso, negando quindi l'esistenza di una questione palestinese, come problema politico sulle occupazioni di territori arabi dopo la guerra dei sei giorni».
Dagli attentati di terroristi islamici, ai simboli neonazisti fino ai commenti minacciosi sui social la cultura antisemita ha diversi volti. Carla Di Veroli, già vice presidente della municipalità Garbatella a Roma per il Pd ed ex delegata alla memoria del Comune capitolino, è la nipote di Settimia Spizzichino, una delle deportate del ghetto nel 1943 scomparsa 18 anni fa. Ha una sua tesi: «Non pensate che l'antisemitismo abiti solo nella destra radicale. È ben presente anche nella sinistra radicale, ben camuffato da antisionismo»,
James Corbyn
Fece scalpore la scelta del leader laburista britannico James Corbyn che, nell'ottobre 2014, depose una corona sulla tomba dei terroristi palestinesi che massacrarono gli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco nel 1972. Scrive la Nirenstein, in una sua recente ricerca per il Centro studi politici e strategici Machiavelli di Roma: «Corbyn ha orgogliosamente chiamato fratelli gli uomini di Hamas e ha sostenuto di aver visto a Gaza lo stesso tipo di distruzione che i nazisti avevano portato a Stalingrado».
Alla nuova connotazione anti ebraica legata alla politica israeliana si aggiungono episodi di insofferenza preoccupanti. Come le scritte, apparse a più riprese a Roma. Le ultime ad aprile: «Giudeo», in senso dispregiativo. Scritte che si sono aggiunte ad altre più gravi: «Shoah, solo menzogne e infamitàl». O, ancora, la sconcertante foto di Anna Frank con la maglietta della Roma, su cui la tifoseria laziale ha dovuto chiedere scusa. Per non parlare delle scritte, accompagnate dall'immagine di una svastica, a Pesaro: «Vietato introdurre ebrei».
Sulla scia dell'antisemitismo di sinistra denunciato da Carla Di Veroli, vanno invece le scritte apparse a Cesiomaggiore, in provincia di Belluno: «Ebrei ai forni, Palestina libera». Commenta Carmine Pinto, docente di storia all'Università di Salerno: «Credo che esista un antisemitismo che si annida in certa cultura della sinistra, su cui una collega sta preparando uno studio approfondito. Si tratta di un antisemitismo, legato alla critica ad Israele in chiave antiamericana. La vicenda palestinese ha fornito simboli e stereotipi a questa posizione che, in alcuni casi, si risolve in atteggiamento contro gli ebrei».
(Il Mattino, 29 ottobre 2018)
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel '38
La Sant'Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della "razza ariana" nei lavori degli allievi di oggi
Naftoli Emdin scrive ai figli
Non vorrei che questo smarrimento e questa angoscia lasciasse
in voi quel senso d'inferiorità ch'è così molesto e dannoso.
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Giuseppe Bottai
I vuoti saranno rapidamente colmati, forze tenute lontane fino
ad ora avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata
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Primo Levi
Se non ci fossero stati le leggi razziali e i lager con tutta probabilità non sarei più ebreo, salvo che per il cognome
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Giulio Racah può rientrare in Italia
Caro rettore Mancini, il mio posto di lavoro è qui a Gerusalemme, per ricostruire il Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel '39
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Giulio Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra all'Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D'Achiardi: "Di famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi sento particolarmente fiero della nomina". Pochi mesi dopo D'Achiardi lo sospende dall'insegnamento "ai sensi" del Regio Decreto 5 settembre 1938, n.1390 "sulla difesa della razza". Racah si crede fiorentino ma il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermie, Wolfgang Pauli. Il ministro dell'Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica degli atenei: "Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né l'insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata".
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un fermo no: "Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939".
La memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore Sant' Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli studenti della Sant'Anna e della Normale di studiare la storia dei venti professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: "I protagonisti ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza". Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie indagini anziché da un professore. E riproponendo- in una intensa giornata di studio voluta dalle tre Università pisane - il variopinto mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero Sraffa (l'amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta aria: "Oggi, o si è ebrei, o non lo si è-non c'è via dimezzo". Primo Levi ha consolidato il concetto: "Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera".
Naftoli Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di medicina legale, se l'è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di Gomel (nell'attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all'Università. Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla loro patria, l'Italia: "Non vorrei che questo smarrimento e questa angoscia lasciasse in voi quel senso d'inferiorità ch'è così molesto, doloroso e dannoso e che potrebbe pregiudicare la regolarità e la dirittura del vostro cammino su quella via della vita che per noi è sempre stata difficile e che ora minaccia ad essere ancora più difficile in Italia per la vostra generazione. Dignità ci vuole e non il rancore, forza e non l'odio, sono i deboli quelli che si fanno comandare dal solo odio. Camminate sulla vostra strada amando chi vi ama, commiserando chi sputa su di voi la sua bava velenosa, ripagando con riconoscenza ed affetto la Terra che vi ha dato i natali e gli uomini che vivono accanto a voi, anche se oggi li dicono di razza differente". Emdin cerca di rifugiarsi in America ma non ci riesce e vivrà gli anni della guerra praticamente alla macchia. Ma quasi gli è andata bene, e invecchierà a Pisa.
Le leggi razziali non sono state solo una questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide Guadagni dell'Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano (Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette in conto l'essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943 viene arrestato dalla polizia di Salò.
All'inaugurazione dell'anno accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller, Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido, compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: "Un ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati dall'insegnamento per motivi razziali". Furono materialmente allontanati dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che "il Prof. Ciro Ravenna e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si hanno avuto più notizie". Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c'è scritto "agronomo". Sulla memoria c'è molto da fare. Siamo solo all'inizio.
(il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2018)
L'inno di Israele ad Abu Dhabi
Per la prima volta nella Storia, l'inno nazionale di Israele è risuonato in uno Stato arabo. L'atleta Sagi Muki, medaglia d'oro nei pesi leggeri, durante la premiazione, ieri, ha potuto ascoltare la musica di «Hatikwa» sotto la bandiera dello Stato ebraico. La ministra dello Sport Miri Regev, presente in sala, si è commossa
fino alle lacrime.
(Corriere della Sera, 29 ottobre 2018)
Via le pensioni agli ebrei vittime delle leggi razziali e ai perseguitati dal fascismo
Cancellato lo stanziamento di 50 milioni di euro per risarcire chi patì la dittatura. L'Ucei scrive a Conte: "Ripensateci".
di Andrea Carugati
ROMA - Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell'Economia, con effetto immediato.
E così, a ottant'anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre. Persone che hanno avuto diritto a questo vitalizio come «gesto riparatore» per aver perso il lavoro o il diritto di andare a scuola dopo il 1938, o perché costretti a fuggire all'estero.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese. Una sforbiciata che rientra nella spending review che il governo ha attuato per fare cassa e trovare le coperture per la manovra. Ma che colpisce per il suo valore simbolico. Anche perché - questo il fondato timore dell'Unione delle comunità ebraiche italiane - non si tratterebbe di una riduzione dell'assegno, ma di una vera e propria cancellazione. La legge varata nel 1955 porta il nome del senatore comunista Umberto Terracini, e per circa trent'anni ha riguardato prevalentemente i perseguitati politici. Poi, dal 1986, grazie a un intervento della Corte costituzionale, nella commissione governativa che eroga gli assegni è stato inserito anche un rappresentante delle Comunità ebraiche. Da allora l'accesso a questo istituto si è diffuso anche tra gli ebrei italiani, sia quelli che hanno vissuto gli anni delle persecuzioni sia - in via indiretta - i coniugi e gli orfani con un reddito annuo sotto i 17 mila euro.
Una procedura non semplice. Gli aventi diritto devono fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938. Documenti vecchi di decenni e difficili da reperire.
Tra gli ebrei italiani la notizia ha suscitato un forte sconcerto. La presidente dell'Ucei Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell'Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria. Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
L'obiettivo di questo «appello morale» è arrivare a un ripensamento da parte della maggioranza, almeno in fase di esame parlamentare del decreto. C'è tempo infatti fino a Natale prima della definitiva conversione in legge. E per evitare che partano le raccomandate in cui lo Stato informa i perseguitati che, dal 2018, non si sente più in dovere di riparare l'immenso danno che hanno subito. Neppure con un piccolo assegno.
(La Stampa, 29 ottobre 2018)
Nuova escalation a Gaza: c'è dietro l'Iran, che teme le trattative mediate da Egitto e Usa
Hamas e Jihad Islamica hanno bisogno di una "vittoria" simbolica per giustificare il totale fallimento della campagna di violenze ai confini fra Gaza e Israele
A seguito della visita a sorpresa in Oman del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro degli esteri del sultanato del Golfo, Yussef bin Alawi bin Abdullah, ha dichiarato sabato che Israele dovrebbe essere accettato nella regione e ha offerto l'assistenza dell'Oman per favorire colloqui di pace israelo-palestinesi. Intervenendo a un vertice sulla sicurezza tenutosi in Bahrain, bin Abdullah ha spiegato che l'Oman non farebbe da mediatore, ma potrebbe offrire idee per i negoziati, e ha espresso sostegno agli sforzi di pace guidati dal presidente Usa Donald Trump. "Israele è uno stato presente nella regione e questo lo capiamo tutti - ha detto bin Abdullah, citato dalla Reuters - Anche il resto del mondo è consapevole di questo fatto, e forse è tempo che Israele venga trattato allo stesso modo e abbia anche gli stessi obblighi"....
(israele.net, 29 ottobre 2018)
Netanyahu: Israele non accetta ultimatum da Hamas
GERUSALEMME - Israele non accetterà la proposta del gruppo palestinese Hamas di pagare 15 milioni di dollari al mese per evitare un'ulteriore escalation della violenza a Gaza: a dirlo è stato oggi il primo ministro Benjamin Netanyahu durante la riunione settimanale del governo, aperta con un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell'attacco contro la sinagoga di Pittsburgh, negli Stati Uniti. "In alcun modo Israele accetterà questa offerta", ha detto Netanyahu. "Continueremo ad agire solo secondo l'interesse e la sicurezza di Israele", ha aggiunto il capo del governo israeliano, citato dal quotidiano "Jerusalem Post".
(Agenzia Nova, 28 ottobre 2018)
«Uccidere gli ebrei». Spari nella sinagoga, strage a Pittsburgh
Almeno 11 morti, bloccato estremista di destra. L'Fbi: «Un crimine d'odio». Sale la tensione negli Usa dopo gli esplosivi inviati nei giorni scorsi a esponenti "dem".
di Pierluigi Spagnolo
Era molto attivo su Gab, un social network frequentato da estremisti di destra. Robert Bowers nei suoi post, scandagliati dagli investigatori dopo che ieri il 46enne è entrato con un fucile e due pistole nella sinagoga Tree of Life durante la funzione religiosa, a Pittsburgh, in Pennsylvania, e ha sparato, uccidendo almeno undici persone, era solito lasciare commenti antisemiti e carichi di odio verso gli ebrei, chiamati «figli di satana». E al momento dell'arresto, Bowers avrebbe gridato: «Tutti questi ebrei devono morire». La stessa frase che l'uomo aveva urlato poco prima, entrando nella sinagoga, aprendo il fuoco su chiunque si trovasse di fronte.
Primo bilancio
Secondo un primo bilancio, le vittime accertate sono «almeno undici», e dieci i feriti, di cui alcuni in condizioni molto gravi. Bowers ha sparato e ferito anche tre poliziotti, i primi che sono intervenuti per fermarlo. È stato a sua volta ferito e arrestato. Attualmente si trova in stato di fermo, piantonato in ospedale. Negli ultimi post sui social, prima della sparatoria, Bowers si era mostrato ostile all'immigrazione, e aveva scritto alla no profit Hebrew Immigrant Aid Society: «Vi piace portare invasori per uccidere la nostra gente». Si tratta innegabilmente di un «crimine d'odio, che sarà oggetto di un'indagine federale», ha spiegato l'Fbi. «È l'attacco agli ebrei più grave della storia Usa», per l'organizzazione ebraica internazionale. La polizia ha rafforzato i controlli attorno a tutte le sinagoghe.
Verso il voto
La tensione sale ancora negli Stati Uniti, dopo i pacchi bomba inviati a esponenti democratici e a personaggi pubblici anti-Trump (ieri formalmente incriminato l'autore, Cesar Sayoc), in vista delle elezioni di metà mandato, del 6 novembre. Il presidente Donald Trump ha parlato di «una cosa terribile, quella che sta accadendo, con l'odio nel nostro Paese e in tutto il mondo». Ha detto che «bisogna fare qualcosa» e ha invocato leggi più severe. «Quando le persone fanno questo, dovrebbero avere la pena di morte». Trump si è anche espresso sulle armi da fuoco, tema caldo sin dall'inizio del mandato da presidente, soprattutto dopo alcune stragi, tra cui quella nella scuola in Florida, dove il 14 febbraio un giovane aveva ucciso 17 persone. «Questo episodio ha poco a che fare con le leggi sulle armi. Se avessero avuto protezione dentro, l'esito sarebbe stato decisamente migliore. Un pazzo è entrato e non avevano alcuna protezione, è molto triste da vedere», ha replicato Trump. Parole di profondo cordoglio e di condanna per la strage della sinagoga di Pittsburgh sono arrivate anche dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che si è detto «affranto e sbigottito per l'attacco omicida. L'intero popolo di Israele piange insieme alle famiglie dei morti. Siamo accanto alla comunità ebraica di Pittsburgh e al popolo americano, di fronte a questa orrenda brutalità antisemita».
(La Gazzetta dello Sport, 28 ottobre 2018)
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Il morbo antisemita infetta tutti
di Fiamma Nirenstein
Pittsburgh, Pennsylvania: com'è bella, verde e fresca, la zona della sinagoga che ieri alle 9,45, è stata l'ennesimo obiettivo di quel ceppo inesauribile che è l'antisemitismo omicida, una delle piante più floride della storia. L'assassino Robert Bowers, quando ha sparato sugli ebrei che assistevano alla funzione di sabato mattina, ha urlato: «Tutti gli ebrei devono morire». Si tratta, sembra, di un «lupo solitario», che ha agito sotto la spinta radicalizzatrice che caratterizza di questi tempi la società americana. Il nocciolo d'odio che lo ha portato con due fucili automatici a sparare alla folla dentro la sinagoga «riformista» chiamata «Tree of Life» (l'albero della vita) è né più né meno che puro antisemitismo, in questo caso nazista. È orribile vedere alla tv le immagini dell'esercito che armato fino ai denti occupa il quartiere, ma non è il primo né l'ultimo episodio di questo genere, venga da destra o da sinistra, se non ci si rende conto che questa guerra deve essere finalmente combattuta a nord a sud, nei Paesi avanzati e del Terzo Mondo, nei quartieri ricchi negli Usa, nelle banlieue parigine, nei quartieri di immigrazione a Bruxelles e a Londra, nelle palazzine dei movimenti di estrema destra o nelle stanze della sinistra che disegna gli ebrei come mostri col naso, i dollari, i missili. «Tutti gli ebrei devono morire», è lo slogan dell'antisemitismo tutto intero, quello che fa decine di migliaia di post al secondo sui social media, che strappa le kippà e le stelle di David dal collo degli ebrei per strada e li picchia, che uccide i bambini ebrei come a Tolosa, che in America nel 2017 ha compiuto 1986 attacchi antisemiti con un aumento del 60 per cento, e decine di migliaia nel mondo. L'assassino di Pittsburgh non avrebbe potuto inventare una bandiera migliore per la crescita di odio contro gli ebrei che da destra contagia la sinistra, che dal suprematismo bianco arriva alla borghesia, che dalla storia del nazismo passa dentro quella araba, che riempie di menzogne su Israele tutto il mondo, che poi di ritorno viaggia dentro l'Onu e nelle parole di odio di personaggi importanti come il premio Nobel Saramago o un musicista come Theodakis. «Tutti gli ebrei devono morire» lo pensarono gli assassini del bambino romano Stefano Gay Tache nel 1982 quando un commando palestinese sparò sui fedeli al Tempio. Anche a Parigi le sinagoghe sono state attaccate, nel 1980 a rue Copernic furono fatti 4 morti e 86 feriti, e altri assedi, altri attacchi alle Sinagoghe, vanno insieme alle violenze, alle uccisioni in tutta Europa. È il tempo dell'emergenza, a meno che non si voglia aspettare, rimandare, far finta di niente. È già successo in tante occasioni.
(il Giornale, 28 ottobre 2018)
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Strage nella sinagoga di Pittsburgh, Trump: "Usa superino odio e divisioni"
A sparare un 46enne dell'ultradestra che si è poi arreso
di Francesco Semprini
PITTSBURGH - È una vigilia elettorale senza pace quella che caratterizza l'America in prossimità del voto di metà mandato. Dopo i pacchi bomba è il turno di un attacco di matrice antisemita questa volta però costato la vita ad almeno dieci persone (anche se non per tutte c'è la conferma ufficiale). Un uomo armato ha aperto il fuoco all'interno della sinagoga «The Tree Life» di Pittsburgh, in Pennsylvania, e fonti della polizia riportate dai media Usa affermano che tra i feriti ci sono anche tre agenti, accorsi sul posto per rispondere alla sparatoria.
Il killer
Il killer si chiama Robert Bower, 46 anni. Anche rimasto ferito, avrebbe urlato alle squadre di intervento speciale: «Tutti questi ebrei devono morire». Portava un AR-15, il fucile semiautomatico usato molto spesso nelle stragi che insanguinano gli Stati Uniti, una pistola Glock e altre due armi alla caviglia e al fianco.
Bowers, era attivo su Gab, social media popolare fra l'ultradestra, la sua pagina è stata cancellata ma - riportano i media americani - gli archivi dei suoi post hanno rivelato commenti anti-semiti, fra i quali la scritta «gli ebrei sono figli di satana». In uno dei suoi ultimi post prima della sparatoria scriveva che alla no profit Hebrew Immigrant Aid Society «piace portare invasori per uccidere la nostra gente».
Le reazioni all'attentato
Le forze dell'ordine di Pittsburgh fanno sapere che l'individuo è ora «in custodia della polizia». «Stiamo lavorando per assicurarci che l'area sia sicura», precisano, avvertendo tuttavia gli abitanti della zona di rimanere in casa. «Gli eventi di Pittsburgh sono ben più drammatici di quanto pensato in origine - ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump - . Ho parlato con il sindaco e il governatore per informarli che il governo federale è stato, e sarà, con loro lungo tutta la strada. Dio vi benedica tutti. È terribile quello che sta avvenendo con l'odio nel nostro Paese e in tutto il mondo. Qualcosa deve essere fatto». Ha anche sottolineato: «Un matto è entrato e non c'erano protezioni. Se ci fosse stata qualche sorta di protezione all'interno del tempio allora la situazione sarebbe stata molto diversa».
Un messaggio è stato diffuso sui social anche da Melania Trump, la moglie del presidente Usa: «La violenza deve fermarsi. Che Dio benedica, guidi e unisca gli Stati Uniti».
Quello alla sinagoga di Pittsburgh - afferma l'Anti-Defamation League, l'organizzazione ebraica internazionale - è l'attacco più sanguinoso contro la comunità ebraica nella storia degli Stati Uniti, con il maggior numero di vittime.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha espresso solidarietà agli Usa e alle vittime, parlando di «un attacco antisemita orribile«. «Siamo solidali con la comunità ebraica di Pittsburgh. Siamo solidali con il popolo americano di fronte a questa violenza antisemita orribile», ha affermato in un video pubblicato sul suo profilo Twitter.
Solidarietà e preghiere per le persone che hanno perso la vita nella sparatoria della sinagoga a Pittsburgh, negli Usa, arrivano dal vescovo della città, monsignor David Zubik. Il vescovo ha condannato come «grave peccato» ogni forma di odio contro gli ebrei, contro ogni religione o etnia. «Dio ci liberi dall'odio», dice mons. Zubik in una nota diffusa dalla diocesi. «Dobbiamo trasformare le preghiere in gesti d'amore verso chi è vicino e fare in modo che il `mai più' sia realtà».
Condanna a quanto accaduto arriva dal nostro ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero, e dal vicepremier Matteo Salvini: «Sono sicuro che negli Stati Uniti sapranno punire adeguatamente il bastardo che oggi ha ammazzato otto innocenti in una sinagoga. Solidarietà alla Comunità Ebraica».
La sinagoga
La sinagoga si trova all'incrocio tra Wilkins Avenue and Shady Avenue, a circa dieci minuti dal centro, in un quartiere residenziale a prevalenza ebraica, ed era piena di fedeli per il rito del sabato. Il sabato si tengono regolarmente tre funzioni, ha spiegato l'ex presidente della congregazione, Michael Eisenberg: una nella sala principale, una nel seminterrato e un'altra nello studio del rabbino. in media vi partecipa una novantina di persone.
Le richieste di aiuto
Le autorità di Pubblica sicurezza dicono di avere ricevuto decine di telefonate da persone barricate in sinagoga che chiedevano soccorso. Intanto, a New York, il Dipartimento di polizia sta rafforzando le misure di sicurezza nelle sinagoghe della città per precauzione L'università Carnegie Mellon, che si trova a 3 chilometri dalla sinagoga, è stata chiusa: agli studenti sono stati inviati sms in cui si chiede loro di rimanere all'interno degli edifici del campus.
(La Stampa, 27 ottobre 2018)
Attentati, insulti e propaganda. L'antisemltismo spaventa gli Usa
La nascita dell'lsis e l'affermazione di gruppi di estremisti nazionalisti ha provocato un aumento delle azioni contro la comunità ebraica.
NEWYORK - Sono all'incirca una cinquantina gli attentati contro cittadini e obiettivi ebraici compiuti negli Stati Uniti negli ultimi 50 anni, secondo quanto riportato in uno studio messo a punto da Community Security Service (Css). Ovvero dall'indomani della guerra dei sei giorni e poco prima dall'attentato di Monaco compiuto dalla formazione palestinese «Settembre nero» che causò la morte di undici membri della squadra olimpionica israeliana. Risale a mezzo secolo fa infatti l'inizio della dilagante stagione degli attentati contro obiettivi ebraici in tutto il mondo, Stati Uniti compresi dove vivono 12 milioni di ebrei secondo i dati di Steinhardt Social Research Institute e Della Pergola per il 2016 e 2017.
Attacchi compiuti con modalità e tattiche diverse, da ordigni rudimentali a sistemi più sofisticati che hanno richiesto anche anni per essere messi a punto. Come quello del 1997 alla stazione della metropolitana di Atlantic Avenue a Brooklyn dove transitavano per lo più passeggeri di origine ebraica: a condurlo furono due terroristi palestinesi con l'intento di massimizzare il numero delle vittime. O nel 2009 quando Al Qaeda nella Penisola arabica ha cercato di inviare bombe via container nelle sinagoghe di mezzo mondo.
Al contrario un certo numero di attacchi sono stati condotti da lupi solitari con metodologie semplici, pur ispirandosi a gruppi nazionalisti bianchi o terroristi islamici di lontana matrice geografica.
È il caso della sparatoria al museo dell'Olocausto di Washington nel 2002, o all'assassinio di due addetti di volo di El Al all'aeroporto internazionale di Los Angeles. Altri attentati fanno parte di piani internazionali come quello condotto dai militanti di Hanafi Muslim che tennero in ostaggio un certo numero di persone nel quartier generale di B'nai Brith's a Washington nel 1977.
O la bomba inesplosa al terminal El Al di New York nel 1973 piazzata da elementi di Settembre nero. Lo studio di Css sottolinea come gli attentati verso obiettivi prettamente israeliani siano appena il 7% del totale, mentre le sinagoghe rappresentano gli obiettivi privilegiati, pari al 51 %, mentre le istituzioni e le organizzazioni ebraiche rappresentano il 14%.
L'altro elemento che emerge è che col ritorno di fiamma di gruppi nazionalisti e suprematisti, gli attentati antisemiti sono diventati più frequenti negli ultimi 15 anni. Basti ricordare l'attacco allaJewish Federation di Seattle nel 2006, quello al museo dell'Olocausto di Washington nel 2009 o alla Jewish Senior Home di Kansas City nel 2014. Con lo Stato islamico, il fenomeno si è poi ulteriormente radicato e diffuso attraverso i proselitismi online. Occorre infine porre l'accento su un ultimo aspetto della propaganda antisemita che sta emergendo in particolare a ridosso delle elezioni di metà mandato, come fa notare anti Defamation League, ovvero il dilagare di fake news e attacchi politici online. «L'analisi di 7.512.594 tweets nel periodo dal 31 agosto 2018 al 17 settembre conferma la natura politica degli attacchi» verso utenti ebraici in quanto tali. Come a dire che l'antisemitismo è diventato un'endogeno della politica a stelle e strisce. FRA. SEM. -
(La Stampa, 28 ottobre 2018)
«Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi»
In quel tempo Gesù prese a dire: «Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero».
Dal Vangelo di Matteo, cap. 11
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Così l'hi tech israeliano cerca di attirare i talenti da oltreoceano
di Mehul Srivastava
Liad Agmon ha diretto e venduto due startup tecnologiche israeliane e ne sta espandendo una terza, Dynamic Yield, che fornisce servizi ad almeno mezzo miliardo di clienti di retailer globali tra cui Ocado, un supermercato britannico online, e Under Armour, l'azienda di abbigliamento e articoli sportivi degli Stati Uniti. Ma visto che la mancanza di competenze esercita una stretta sulle aziende hi-tech israeliane, facendone impennare i salari, Agmon si chiede se la sua nuova startup non farebbe meglio ad aver sede fuori dal suo paese.
«Qui non ci sono più vantaggi» ha detto. «Se apro la mia azienda in Portogallo, per esempio, posso procurarmi ingegneri di talento per un terzo del prezzo. Da una prospettiva economica, non c'è vantaggio alcuno a restare in Israele». Il settore tecnologico è stato uno di quelli a crescita più rapida in Israele, e motivo di orgoglio nazionale, dato che il paese è diventato un incubatore per alcuni dei brand più noti a livello internazionale, come Waze, l'app GPS venduta a Google nel 2013 per circa un miliardo di dollari, e come Mobileye, il sistema di sicurezza per automobili basato su una telecamera da cruscotto venduta a Intel l'anno scorso per 15,3 miliardi di dollari. Ciò nonostante, con circa 270mila israeliani su quattro milioni in età da lavoro che già adesso lavorano nel settore tecnologico, i dirigenti di settore stanno lanciando un vero e proprio allarme: il settore rischia di trovarsi completamente sprovvisto del suo ingrediente più importante, israeliani esperti e competenti.
La mancanza di persone competenti e di talento affligge il settore dell'hi-tech a livello globale, ma Liad Agmon e i suoi colleghi imprenditori si stanno scontrando con un aspetto tipicamente israeliano legato a questo problema: la battaglia per garantire visti di lavoro e di residenza ai cervelli stranieri che non sono di nazionalità israeliana. «Non sono a conoscenza di alcun sistema che mi permetta, in qualità di amministratore delegato, di "importare" persone di talento non israeliane a lavorare qui per un lungo periodo» dice Agmon. «Sono vent'anni che supplichiamo il governo di mettere allo studio un programma di questo tipo».
Gli ingegneri indiani e cinesi - che costituiscono il grosso degli immigrati hi-tech negli Stati Uniti e nel Regno Unito - prendono assai di rado in considerazione Israele tra le varie opzioni, dissuasi a farlo sia dal complicato iter burocratico necessario a garantirsi il visto, sia da un'erronea percezione della sicurezza, sia infine da salari che, secondo quanto dicono i dirigenti israeliani, sono ormai parecchio indietro rispetto agli standard occidentali. Gli ingegneri israeliani senior possono arrivare a guadagnare circa 11.500 dollari al mese, quattro volte gli stipendi medi nazionali, mentre alcuni dei lavoratori più anziani ed esperti si portano a casa anche il doppio, dicono i dirigenti. Lo stipendio medio annuo in questo settore è salito dai circa 61mila dollari del 2012 ai circa 72mila di oggi, secondo l'Ufficio centrale di statistica.
«Per poter passare a un livello decisamente superiore, per noi è indispensabile attirare cervelli di talento, dello stesso livello di quelli che lavorano nella Silicon Valley», dice Jon Medved, amministratore delegato di OurCrowd, uno strumento di investimento finanziato collettivamente per 750 milioni di dollari. «Il prossimo picco di crescita potrebbe essere inarrestabile, ma siamo sempre più a corto di persone e non riusciamo a sfornarne in maggior quantità per sostenerlo sul lungo periodo».
Sono circa 270mila gli israeliani che lavorano nel settore tecnologico su una forza lavoro complessiva di quattro milioni. Per superare questa mancanza, le aziende israeliane hanno assunto almeno ventimila ingegneri in mercati esternalizzati a basso costo come Ucraina e India, spendendo circa un miliardo di dollari per i salari di oltreoceano: così risulta da un sondaggio effettuato da Ethosia, una società specializzata nel reclutamento del personale.
Eran Shir, amministratore delegato di Nexar, che utilizza smartphone, telecamere da cruscotto e dispositivi di intelligenza artificiale per rendere la guida più sicura, ha detto che la soluzione alla scarsità di competenze adeguate era multi-sfaccettata. Il governo doveva facilitare alle imprese il compito di attrarre ingegneri di qualità sul breve termine e incoraggiare più studenti a intraprendere studi scientifici. Le aziende, nel frattempo, avevano bisogno di provare ad assumere attingendo alle fasce meno rappresentate della società, tra le quali gli ebrei ultraortodossi, i cittadini arabi e le donne, ha aggiunto.
«Qui c'è un ecosistema hi-tech composto da circa 250mila persone: con otto milioni di abitanti in Israele, il loro numero è inadeguato. Dobbiamo assumerne di più per diventare parte integrante di questo settore». Nexar rientra in un programma denominato «Be In Tel Aviv», lanciato quest'anno, che promuove la vita notturna e le spiagge del tech-hub del paese agli ingegneri stranieri. Le sette aziende coinvolte in questa iniziativa hanno anche promesso di spendere fino a ventimila dollari per spese di trasloco, lezioni di ebraico, un telefono cellulare gratis e assistenza nel difficile iter di immigrazione. Nir Zorhan, presidente di Wix, una società valutata 4,8 miliardi di dollari e che aiuta la gente a creare siti web per le imprese, dice che la mancanza di talenti locali si avverte ancor più quando servono ingegneri di alto grado.
«È estremamente difficile per me trovare chi abbia fatto qualcosa di importante da Google o Microsoft o Yahoo, o il leader di un team che ha lavorato con Bill Gates» dice Zohar. «Incoraggiare una persona di grande talento che lavora nella Silicon Valley e farla trasferire in Israele è un'impresa difficilissima se quella persona non ha un background ebraico o rapporti molto stretti con Israele».
L'intero settore di conseguenza sta esercitando pressioni sul governo affinché alleggerisca e semplifichi il processo di immigrazione e le autorità dicono che stanno reagendo come richiesto. L'Israel Innovation Authority intende raddoppiare l'occupazione nel settore tecnologico per portarla a 500mila addetti entro dieci anni.
Di conseguenza, il governo ha già iniziato a semplificare i processi necessari a ottenere i visti di lavoro, abbassando i tempi di approvazione da mesi o settimane a pochi giorni: lo afferma Naomi Krieger Carmy, funzionaria presso l'ente. Il governo sta anche prendendo in considerazione l'idea di permettere ai coniugi degli ingegneri di lavorare. «Affrontare e risolvere la mancanza di persone di talento nell'industria tecnologica israeliana è diventata una faccenda significativa e importante per il governo» ha detto Krieger Carmy. Tuttavia, è lei la prima a non aspettarsi che siano distribuiti immediatamente più di poche centinaia di permessi. Di conseguenza, «non c'è motivo di temere che all'improvviso arrivi in Israele una marea di persone».
In ogni caso, a detta dei funzionari, il settore tecnologico israeliano (che può contare su circa 300 centri di ricerca e sviluppo per le società multinazionali e su migliaia di startup cresciute in loco) ha bisogno di migliaia di altri ingegneri in più ogni anno. Medved dice che il moderno Israele è perfettamente capace di gestire l'afflusso di persone. «Il nostro è un governo di destra, molto nazionalista e molto impegnato nella creazione dello stato ebraico», ha detto. «Adesso, però, stiamo arrivando tutti a un'unica conclusione: la nostra nazione sta bene, e altri cinquantamila immigrati specializzati nel settore tecnologico non sono affatto un male. Anzi, sarebbero un bene».
- Copyright The Financial Times Limited 2018
(Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2018 - trad. Anna Bissanti)
Mostre: Beverly Barkat, le tribù e le radici di Israele
Al museo Boncompagni Ludovisi installazione site specific
ROMA - Polveri di gemme fuse con il colore alla ricerca delle radici del popolo ebraico. Dodici grandi dischi di pvc trasparente sospesi nello sfarzoso Salone delle Vedute del museo Boncompagni Ludovisi, nel centro di Roma a due passi da Via Veneto, sono lo strumento scelto dall'artista israeliana Beverly Barkat per raccontare il suo viaggio concettuale. 'After the tribes', installazione alta quattro metri realizzata appositamente quest'anno per la sede espositiva della capitale dove sarà in mostra fino al 31 dicembre, campeggia tra stucchi e affreschi ed evoca le 12 antiche tribù di Israele. Ognuna di esse si distingueva per una specifica trama cromatica, riproposta sugli stendardi e sulle pietre preziose che decoravano i pettorali dei sacerdoti.
Beverly Barkat, classe 1966, sudafricana di Johannesburg trasferitasi con la famiglia in Israele quando aveva dodici anni, ha ripreso quegli stessi colori dopo un percorso di ricerca, catalogazione e riutilizzo di materiali.
"Sono andata fisicamente in quei luoghi - dice -. Ho studiato la terra e prelevato parte di questa. Ho cercato quindi di portare letteralmente la storia delle dodici tribù nel mio lavoro, nel mio spazio artistico. E' stato un lavoro che mi ha coinvolto completamente non solo come artista ma anche come ebrea". Conchiglie, pietre stratificate o semi-preziose - topazio, smeraldo, rubino, acquamarina, agata, onice e altre - sabbia, roccia e argilla provenienti dalle caverne, dal deserto, dal mare e dalle montagne di Israele tritate e polverizzate diventano le tinte essenziali dell'installazione. I dodici dischi dal diametro di un metro si offrono allo sguardo del visitatore su entrambi i lati. Su quello ruvido ha lavorato direttamente l'artista, l'altro si scorge dalla trasparenza del supporto in pvc sotto una pellicola liscia e lucida. "Il lavoro si concentra sul colore e sulla materia per approdare ad un complesso universo di simboli e citazioni - spiega la curatrice Giorgia Calò - e lo fa mediante il suo inconfondibile gesto pittorico che trae ispirazione tanto dalla tradizione classica, quanto dai movimenti dell'arte moderna come l'Espressionismo Astratto. Il suo lavoro potremmo definirlo alchemico, nel momento in cui trasmuta le sostanze assumendo connotati mistici e spirituali, oltre che fisici". A poco più di un anno dalla mostra personale "Evocative Surfaces" al Museo di Palazzo Grimani durante la scorsa Biennale d'Arte di Venezia, l'artista stringe il legame con l'Italia ed espone a Roma su invito del Polo Museale del Lazio e dell'Ufficio culturale dell'Ambasciata di Israele in Italia.
"Sapevo che avrei realizzato un lavoro dedicato al settantesimo anniversario della nascita dello Stato di Israele - spiega Beverly Barkat, che è moglie del sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, alla guida della città da una decina d'anni - e che questo avrebbe dovuto interagire non solo con la storia ma anche con l'architettura del museo e della città pronti ad accoglierlo. Con questa installazione ho cercato di rappresentare l'andamento dinamico di un popolo in perenne movimento, continuamente spinto verso il futuro, ma con uno sguardo costante al suo passato".
(ANSAmed, 26 ottobre 2018)
Perché il Comune di Torino non ha concesso la cittadinanza onoraria a Vera Jarach?
di Ludovica Cioria
Il Comune di Torino è estremamente indaffarato, così indaffarato da non aver trovato alcuna finestra utile, in quasi un anno, per concedere la cittadinanza onoraria ad una delle Madri di Plaza de Majo, Vera Vigevani Jarach.
Per chi non la conoscesse, quella della signora Jarach è una storia che merita davvero di essere ricordata, perché testimone vivente e combattente di alcuni dei più atroci episodi del secolo scorso. Sopravvissuta alla Shoah (che invece non risparmiò suo nonno), Vera perderà la sua giovanissima figlia Franca, ancora studentessa, nel 1977 per mano della dittatura argentina.
Lei è una delle madri di Plaza de Majo, che caparbiamente lottano per diffondere e tramandare la verità e la conoscenza del terribile destino che toccò a quella disgraziata generazione di figli che scelsero di non stare zitti di fronte al regime.
La richiesta per concedere la cittadinanza onoraria di Torino a Vera Vigevani Jarach è stata presentata per la prima volta dall'Associazione Argentino Italiana Piemonte ONLUS in data 15 novembre 2017, proprio in previsione della visita di Vera a Torino nel gennaio 2018. Il 15 gennaio 2018 il Comune di Torino declinava elegantemente la richiesta perché riteneva di non poter procedere in tempo utile alla sua concessione a causa della sospensione delle comunicazioni pubbliche dovuta alla convocazione dei comizi elettorali per le elezioni del 4 marzo 2018.
Da quel momento, silenzio totale da parte della segreteria della sindaca Chiara Appendino, nonostante l'Associazione abbia fatto inviare alla segreteria ben due e-mail di sollecito una il 6 luglio e una il 10 settembre 2018.
Intanto Vera Vigevani Jarach è venuta ugualmente a Torino per parlare nelle scuole e per incontrare le istituzioni, com'era già avvenuto nel febbraio 2017 quando aveva incontrato tutte le massime cariche del Consiglio Regionale e com'è avvenuto poi con la Città di Giaveno che invece le ha consegnato la cittadinanza onoraria, su proposta del Circolo PD di Giaveno, in occasione della sua ultima visita il 22 gennaio 2018 (proprio mentre la sindaca di Torino diceva di non potergliela conferire
).
La questione a questo punto si fa piuttosto nebulosa, tanto da lasciare spazio ad interrogativi come quelli della consigliera comunale di Giaveno Vilma Beccaria che su facebook scrive:
"Ma perché si ha così paura a Torino di concedere la cittadinanza onoraria a una Madre di Plaza de Mayo? Perché non si ha almeno il coraggio di dire le cose come stanno, senza tenere sulla corda una Signora novantenne che ha vissuto la tragedia dell'olocausto e dei desaparecidos? Se il problema è che concedendo la cittadinanza onoraria c'è il rischio che qualcuno dica che i desaparecidos erano di sinistra ditelo chiaro. Ma facendo così contribuite a far cadere nell'oblio questa tragedia e, come sappiamo, la dimenticanza è la madre di tutte le sventure del genere umano. Solo il ricordo può farci sperare che simili barbarie non si ripetano più, ma il ricordo a Torino evidentemente non fa "like" e quindi non serve".
La signora Jarach sarà di nuovo a Torino in questi giorni ed un'altra occasione per conferirle questa meritata onorificenza andrà persa, perché la ratio con cui la segreteria della sindaca decide a quali pratiche dare la precedenza è cosa ignota ai più.
Chissà che qualcuno decida di prendersi in carico questa richiesta, perché a quanto pare ad aspettare Appendino qui si rischia di andar lunghi.
(Nuova Società, 27 ottobre 2018)
Storica visita di Netanyahu in Oman, è il primo viaggio dal 1996
Il primo ministro israeliano a sorpresa in uno degli Stati arabi con cui non ha relazioni diplomatiche. Segno che qualcosa si muove nella trattativa con i palestinesi.
di Vincenzo Nigro
La visita a sorpresa del premier israeliano Benjamin Netanyahu nel sultanato dell'Oman, uno degli Stati arabi con cui Israele non ha relazioni diplomatiche, è il segnale che qualcosa si sta muovendo nella trattativa fra Israele e palestinesi.
Questa mattina il ministro degli Esteri del sultanato ha confermato che l'Oman "non vuole agire da mediatore, ma ha alcune idee per favorire le discussione fra Israele e palestinesi". Il ministro omanita arriva a riconoscere che "Israele è uno Stato presente nella regione e tutti capiamo questo: forse è arrivato il momento di trattare lo Stato di Israele come tutti gli altri della regione e pretendere da Israele comportamenti adeguati". Parlando a una conferenza nel Bahrein, il ministro Yousuf bin Alawi bin Abdullah ha insistito dicendo che "l'Oman non vuole agire da mediatore, ma offre il suo aiuto: noi appoggiamo il lavoro di mediazione degli Stati Uniti".
Le poche parole di Bin Alawi spiegano meglio il senso della visita di Netanyahu a Muscat, la capitale dell'Oman: il sultanato è sicuramente uno dei regimi più moderati e pacifici di tutta la regione del Golfo, e l'incontro di Bibi con il sultano Qabus non è una prima volta assoluta.
Dopo gli accordi di Oslo del 1993, il premier Yitzhak Rabin nel 1994 e poi il suo successore Shimon Peres nel 1996 ebbero incontri con il sultano. Israele e l'Oman aprirono "uffici commerciali" nelle rispettive capitali, ma poi l'Oman raffreddò le relazioni al tempo della seconda Intifada del 2000.
Nella visita Netanyahu era accompagnato dalla moglie Sarah (che ormai lo affianca ovunque come fosse una autorità istituzionale, anche nelle missioni più riservate), dal capo del Mossad Yossi Coen, dal direttore generale del ministero degli Esteri Yuval Rotam e da altri funzionari.
Un'informazione decisiva è il fatto che il 23 e 24 ottobre in Oman era arrivato anche il presidente palestinese Abu Mazen: accompagnato da due dirigenti di al-Fatah (Jibril Rajub e Hussein a-Sheikh) e dal capo dell'intelligence, il generale Majed Faraj.
L'Oman ha sempre servito da ponte fra le parti più lontane fra di loro in tutta la regione del Medio Oriente. Americani e iraniani per esempio s'incontrarono segretamente in Oman per mesi prima di giungere all'accordo sul nucleare del 2015 che poi è stato cancellato dall'amministrazione Trump.
In queste ore di tensione altissima fra Washington e Teheran (il 4 novembre partono nuove sanzioni americane), un deputato iraniano ha detto che in queste il suo governo sta parlando riservatamente con quello americano proprio in Oman.
(la Repubblica, 27 ottobre 2018)
Razzi da Gaza, Israele attacca siti terroristici
Dalla Striscia sono stati lanciati verso località israeliane oltre 30 razzi, secondo il portavoce militare israeliano che ha poi riferito di "un attacco su vasta scala" nella zona.
Nottata di grande tensione al confine fra Gaza ed Israele. Dalla Striscia, ha riferito il portavoce militare, sono stati lanciati verso località israeliane oltre 30 razzi. Dieci sono stati intercettati dai sistemi di difesa Iron Dome, mentre gli altri sono caduti in zone aperte. Due sono esplosi all'interno della Striscia.
Da parte sua, ha proseguito il portavoce militare, l'aviazione militare ha condotto un attacco ''su vasta scala'' nella Striscia e ha colpito ''80 siti terroristici''. In Israele si ha notizia di due feriti (caduti mentre raggiungevano i rifugi) e di alcune persone in stato di choc. Per tutta la nottata decine di migliaia di israeliani sono stati costretti a restare nei rifugi. In mattinata le sirene hanno ripreso a suonare nella cittadina di Sderot, che conta 25 mila abitanti.
In mattinata il braccio armato della Jihad islamica ha implicitamente rivendicato da Gaza la paternità dei lanci notturni di razzi quando ha avvertito Israele che se gli attacchi dell'aviazione non cesseranno i suoi miliziani sono in grado di colpire "ancora più in profondità".
Da parte sua il portavoce militare israeliano ha precisato che fra le decine di obiettivi colpiti la scorsa notte nella Striscia rientra anche uno dei quartier generali dei miliziani di Hamas, un palazzo di 4 piani situato nel rione Daraj a Gaza. Accanto all'edificio, ha aggiunto, ci sono un ospedale, una moschea e due scuole. Gli abitanti, secondo il portavoce, sono stati preavvertiti dell'attacco per evitare vittime civili.
Stamane un altro razzo à stato lanciato da Gaza verso la cittadina di Sderot (Neghev). E' stato intercettato in volo dai sistemi di difesa Iron Dome.
(RaiNews, 27 ottobre 2018)
Raggiunto l'accordo tra Israele e Hamas
di Janiki Cingoli
26 ottobre 2018, ore 19:37 - Secondo l'autorevole quotidiano pan-arabo Al-Hayat, pubblicato a Londra, Israele e Hamas hanno raggiunto, attraverso negoziati indiretti, un accordo di cessate il fuoco, grazie ad una frenetica attività di mediazione sviluppata dall'intelligence egiziana.
Mentre i venti di guerra sembravano soffiare sempre più forte, gli egiziani sono riusciti all'ultimo minuto ad arrestare, almeno per il momento, la corsa verso un nuovo conflitto. Per ora, si tratta solo di una intesa reciproca su alcuni punti ben delimitati: Hamas e gli altri gruppi combattenti si impegnano, nel corso delle manifestazioni del venerdì (che potranno quindi continuare), ad evitare aggressioni violente con il lancio di razzi e missili, l'uso di esplosivi, bombe, aquiloni e palloni incendiari e tentativi di sfondare il muro di confine.
Israele, dal canto suo, si impegna a riaprire i valichi al traffico di merci e in particolare ai convogli di carburante, pagati dal Qatar, per portare da 4 a 8 le ore di elettricità a Gaza; a allargare di nuovo la zona di pesca in mare; a consentire l'ingresso dei rifornimenti per i progetti umanitari promossi dalle Nazioni Unite.
Se il cessate il fuoco reggerà nei prossimi giorni, si potranno aprire le trattative di più largo respiro, su cui al Cairo era stato raggiunto una bozza d'accordo bilaterale indiretto, poi bloccato dall'intervento durissimo del Presidente Abbas.
In questa seconda fase si dovrà discutere dello scambio di prigionieri (Hamas detiene il corpo di un soldato ucciso nel corso della ultima guerra, e due civili israeliani che hanno sconfinato nella Striscia). Si negozierà inoltre su una tregua di lungo periodo, di cinque anni, proposta da Hamas. Tregua (Hudna, in arabo) che non significa per l'organizzazione islamica riconoscere Israele e accettare l'idea di dividere la Palestina storica: una visione che coincide in sostanza con quella di Netanyahu, che preferisce evitare ogni negoziato sul "Final Status" e sulla creazione dei "Due Stati".
Si dovrebbe negoziare infine su misure di emergenza per risollevare le gravi condizioni di vita della popolazione della Striscia, ivi incluso il possibile utilizzo di un porto a Cipro o in Egitto, per rompere l'isolamento di Gaza, ed anche la costruzione di un aeroporto, sempre in Egitto. In sostanza, gli stessi impegni, rimasti del tutto inattuati, con cui si era chiusa nel 2014 la precedente guerra, denominata da Israele operazione "Protective Edge".
Gli egiziani in questi ultimi frenetici giorni non hanno mancato di recarsi ripetutamente a Ramallah per far visita al Presidente palestinese Abbas, che tuttavia ha confermato la sua ferrea opposizione ad ogni accordo tra Israele e una delle fazioni palestinesi, che non passi attraverso l'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e sia attuato prima del raggiungimento della riconciliazione tra Fatah e Hamas, con il completo ritorno della Striscia sotto il controllo dell'ANP, sia dell'amministrazione civile che delle forze e apparati militari.
Abbas tuttavia è oramai fortemente indebolito, il suo discredito in Cisgiordania, secondo i sondaggi, è altissimo, e oltre il 60% della popolazione vorrebbe che desse le dimissioni. Può tuttavia contare sul suo ferreo apparato di sicurezza, che lavora in stretta collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani, a tutela del comune interesse di contrastare gli sforzi di Hamas per espandere la sua forza in Cisgiordania.
D'altronde, Abbas è molto isolato anche sul piano regionale e internazionale, data la sua rottura verticale con gli USA e la sua stessa marginalizzazione nel mondo arabo. La nuova generazione di leader arabi, al contrario dei precedenti che avevano a cuore la questione palestinese, vede in realtà la costruzione di uno Stato palestinese unificato come un potenziale pericolo, per il rischio che diventi un nuovo Hamastan, legato all'Iran e ai Fratelli musulmani, esponendo i loro regimi al rischio di contagio dell'Islam politico, ravvivando lo scontro con Israele, oramai visto come alleato contro l'Iran, e creando instabilità nella Regione.
(L'HuffPost, 26 ottobre 2018)
Era l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani nel '43.
È morto a 92 anni Lello Di Segni. Perse madre e fratelli ad Auschwitz: "A mamma non dissi neanche ciao".
di Ariela Piattelli
ROMA - Quando lo presero i nazisti quel sabato mattina di 75 anni fa a via del Portico d'Ottavia, nel ghetto di Roma, dalla finestra vide i volti delle persone inermi davanti allo scempio della retata e quel ricordo non lo lasciò per tutta la vita. Ieri è scomparso Lello Di Segni, 92 anni, l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Era l'ultimo testimone, perché i 15 sopravvissuti ad Auschwitz arrestati all'alba del «Sabato nero» che avevano condiviso con lui l' orrore, negli ultimi anni erano mancati uno ad uno, spingendolo sempre di più a farsi portatore della memoria della più grande deportazione in Italia, e di tutte gli orrori che aveva visto in un orribile viaggio durato due anni e dal quale miracolosamente tornò.
Fu arrestato con tutta la famiglia «e di certo non poteva immaginare il tragico destino - spiega lo storico della Shoah Marcello Pezzetti - , ma era un ragazzo con una certa consapevolezza: già quando la comunità ebraica romana aveva consegnato ai nazisti i 50 chili d'oro, lui sapeva che ciò non sarebbe servito a nulla, e anzi, le cose sarebbero peggiorate.
Quando i nazisti caricarono gli ebrei rastrellati sui camion, Lello non tentò di scappare, decise di restare con i genitori Cesare ed Enrica e con i suoi fratelli, come fecero tanti ragazzi come lui».
Poi ad Auschwitz lo separarono dalla madre e dai fratelli «non sapeva che li avrebbero mandati subito alle camere a gas. Diceva sempre "a mia madre non le ho detto neanche ciao. Non ho salutato i miei cari" e questo fu sempre il suo più grande rammarico». E invece, nella quarantena del campo di sterminio, salutò suo padre, convinto di non rivederlo mai più: «Lello era esile, un ragazzino. Il padre pensava che non ce l'avrebbe fatta. Piansero, si abbracciarono e si dissero addio. Fu il momento più drammatico della selezione: Cesare affidò Lello ad Arminio Wachsberger l'unico ebreo deportato il 16 ottobre che parlava tedesco, e dunque faceva da interprete. Disse ad Arminio "guarda il mio ragazzo" e così fu». Cesare finì a Jawischowitz, un campo micidiale, collegato con una miniera di carbone dove lavoravano i deportati. Lello Di Segni fu mandato insieme all'interprete e a pochi altri a Varsavia, in un posto dove non c'era nulla, solo devastazione e montagne di macerie: era il ghetto dopo la rivolta. «I prigionieri lì dovevano costruire un lager e smantellare le macerie. Trovarono di tutto, sono loro i veri testimoni di ciò che restava della rivolta del ghetto di Varsavia. Lello raccontava che lo colpì molto il ritrovamento delle posate, perché per lui significavano vita».
A Varsavia ci restò quasi un anno «un tempo infinito in quelle condizioni. La cosa più terribile fu il freddo che ha patito». Con l'avanzamento dell'esercito russo i nazisti lo mandarono in Germania, «fece la marcia della morte da Varsavia al campo di Allach. Poi arrivò a Dachau che non si reggeva più in piedi». Alla liberazione tornò in Italia, a Milano «temeva il ritorno a Roma, convinto non ritrovare più nessuno. Così lo andò a prendere uno zio per riportarlo a casa. E dopo due mesi tornò anche suo padre». Per molti anni Lello Di Segni rimase restio a raccontare l'orrore di cui fu testimone, non volle mai tornare a visitare Auschwitz: «Mi diceva che ci sarebbe tornato soltanto con i negazionisti per mostrargli la verità - conclude Pezzetti -. E per spiegare in che modo i tedeschi volevano ridurre gli ebrei come animali, faceva l'esempio del suo numero tatuato sul braccio, definendolo "numero di bestia"».
«La perdita di Lello Di Segni, oltreché essere un dolore per la nostra Comunità, è purtroppo un segnale di attenzione e un monito verso le generazioni future - ha detto la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello - . Con lui viene a mancare la memoria storica di chi ha subito la razzia del 16 ottobre tornando per raccontarcela».
(La Stampa, 27 ottobre 2018)
Le straordinarie tecnologie di Israele racchiuse nel Centro per l'innovazione di Tel Aviv
Inaugurato a Tel Aviv il Centro israeliano per l'Innovazione. Allestito presso il Peres Center for Peace di Jaffa, il centro si estende su quattro piani e racchiude gli eventi che hanno trasformato Israele nella Startup Nation.
Si tratta di una finestra sul futuro che vede la presenza di ologrammi interattivi degli inventori più importanti del Paese, oltre al piano che simula una capsula del tempo dove i visitatori possono esplorare le future invenzioni israeliane.
La presenza all'inaugurazione dell'Israeli Innovation Center del vicepresidente cinese Wang Qishan - insieme al Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu - e del fondatore di Alibaba, Jack Ma, è il segnale che i rapporti, tecnologici e commerciali, tra Israele e Cina sono sempre più forti. La Cina è diventata il secondo partner commerciale di Israele, seguito solo dagli Stati Uniti.
I due Paesi hanno firmato un accordo quadriennale per aumentare la cooperazione in vari campi, tra cui innovazione, scienza, istruzione, economia, commercio, tecnologia, salute, ambiente, università, l'agricoltura e anche con riferimento all'agenzia israeliana per lo sviluppo e la cooperazione internazionale che opera sotto il Ministero degli Affari Esteri (Mashav).
Negli ultimi due anni, Israele e Cina hanno firmato un accordo per il visto d'ingresso, aperto voli diretti e condotto centinaia di progetti di ricerca congiunti. Entro il prossimo anno i due paesi completeranno un accordo di libero scambio e la Cina prevede di investire in modo consistente nelle infrastrutture israeliane, tra cui nuovi porti e una metropolitana leggera.
Presente anche l'ex CEO di Google e fondatore dell'Innovation Endeavors, Eric Schmidt, il vicepresidente senior di Facebook, David Marcus, centinaia di uomini d'affari cinesi, ma anche imprenditori, ricercatori e manager e delegazioni da tutto il mondo, tra cui: Indonesia, Singapore, India, India, Africa, USA, Italia, Francia, Australia, Regno Unito, Corea del Sud, Messico, Svizzera, Russia, Germania.
Il centro per la prima volta mostra l'incredibile storia di Israele come nazione dell'innovazione. I quattro piani consentono di poter vedere i cento eventi che hanno trasformato Israele nella Startup Nation quale è oggi.
C'è anche l'opportunità di conversare con alcuni dei più importanti inventori attraverso ologrammi interattivi, i quali raccontano in prima persona il loro lungo cammino verso la scoperta delle invenzioni israeliane, e vedere le 50 tecnologie israeliane all'avanguardia sviluppate da altrettante aziende.
Inoltre, un'esposizione esclusiva mette in mostra le invenzioni che costituiscono la punta di diamante degli sviluppi tecnologici israeliani che hanno cambiato il mondo, incluse rappresentazioni, modelli e prototipi di queste invenzioni. Infine c'è il "Future Floor", il piano dove una capsula del tempo che si avvale della Realtà Virtuale (VR) mostra le future conquiste tecnologiche di Israele.
Il vicepresidente cinese Wang Qishan ha dichiarato:
"Israele guida il mondo nell'elettronica, nell'informatica, nella medicina moderna e nell'agricoltura. La Cina sta ancora cercando di modernizzarsi".
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Jack Ma, il fondatore di Alibaba Group, ha evidenziato:
"In Israele, l'innovazione è ovunque, come l'acqua e il cibo, è naturale. Quando la conoscenza incontra l'intelligenza emotiva, si chiama innovazione e Israele ha tutte queste cose. Israele sa che la risorsa più preziosa al mondo è il cervello umano. Le innovazioni israeliane vengono utilizzate in tutto il mondo non solo in questo Paese".
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Tra i partner che hanno contribuito a realizzare l'esposizione all'Israeli Innovation Center ci sono l'Israel Aerospace Industries, The Manufacturers' Association of Israel, Intel, Check Point, Orbotech e Adama.
(SiliconWadi, 26 ottobre 2018)
Il "Tikun Olam" di Israele al Festival della Scienza
Tema ispiratore di questa edizione è il cambiamento, e la nostra storia è simbolo della capacità di adattamento.
Per Israele, essere stato scelto come Paese Ospite dal prestigioso Festival della Scienza - uno tra i primi in assoluto per livello dei partecipanti e capacità attrattiva sul pubblico in Europa - rappresenta un'opportunità unica per celebrare il 70esimo anniversario della nascita dello Stato di Israele e per far sentire la nostra vicinanza all'intera città di Genova dopo la recente tragedia del Ponte Morandi. Il festival, e la sua celebrazione della scienza e dell'ingegno umano, dimostra le enormi capacità della città e dei suoi cittadini di reagire con prontezza e orgoglio alle sfide poste dalla ricostruzione.
Il tema ispiratore di questa edizione del festival è il cambiamento, e la storia stessa di Israele è simbolo della capacità di adattamento, sia come attitudine resiliente di confronto rispetto al contesto esterno, sia come visione lungimirante del futuro. In 70 anni, Israele è riuscita a trasformare la sua economia rurale in un hub globale per la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica.
Nel suo discorso visionario sul valore del deserto del Negev già nel 1955, il Primo Ministro David Ben Gurion, disse che "le attitudini di Israele per la scienza e la ricerca verranno testate nel deserto". Al tempo, Ben Gurion si riferiva alla desalinizzazione, allo sfruttamento dell'energia eolica e solare, alla corretta preservazione delle risorse idriche e alla ricerca botanica. A 63 anni da quel discorso possiamo affermare con orgoglio che abbiamo vinto quella sfida. Oggi, contrariamente a quanto spaventosamente succede altrove, il Negev è il primo posto sul pianeta dove assistiamo ad un processo di de-desertificazione. Grazie alle imprese pionieristiche prima, e la sinergia tra le istituzioni pubbliche, i soggetti privati e le accademie, Israele ha trasformato la terra arida in un sorprendente luogo dove si costruisce il presente di domani.
La valorizzazione del capitale umano e il trasferimento tecnologico dal mondo accademico al sistema industriale, infatti, sono stati senza ombra di dubbio il principale motore di questo progresso. Come affermò Einstein nel 1923, "Israele può vincere la sua battaglia per la sopravvivenza solo attraverso lo sviluppo di profonde conoscenze nella tecnologia".
Grazie alle scoperte rivoluzionarie dei nostri ricercatori e scienziati, abbiamo sinora contribuito al miglioramento delle condizioni di vita non solo della popolazione israeliana, ma dell'intera umanità.
Dal sistema di irrigazione a goccia, che ha cambiato l'economia di sussistenza delle zone remote dell'Africa e del Sud America, alla pennetta USB, dal copaxone, che ha migliorato la qualità della vita dei pazienti affetti da sclerosi multipla, ai sistemi di protezione informatici fino alle più importanti exit degli ultimi anni, Waze (la app che ogni giorno guida milioni di persone nel traffico) e Mobileye (sistema per la sicurezza e per la guida autonoma), sono decine gli esempi di prodotti "made in Israel" che hanno contribuito a cambiare la nostra esistenza e disegnare il futuro.
Con l'Italia condividiamo know-how e buone pratiche. Ci lega una tradizione di eccellenza accademica e scientifica che, unita ai solidi rapporti tra i due paesi, costituisce la base di un'estesa collaborazione bilaterale. L'accordo di collaborazione accademica e scientifica firmato nel 2000 ha finora finanziato circa 200 progetti comuni per la Ricerca e lo Sviluppo, istituito 10 laboratori congiunti, e creato le basi per incontri bilaterali che mettono insieme ogni anno le eccellenze dei due paesi.
Negli ultimi due mesi ad esempio l'Ambasciata d'Israele in Italia e il Ministero degli Affari Esteri hanno partecipato a diversi workshop bilaterali per la ricerca e l'innovazione industriale ospitati da rilevanti istituti accademici. Prossimamente verrà consegnato dalla Farnesina il premio Rita Levi Montalcini al professore israeliano Ovadia Lev, esperto in chimica, e ancora, valuteremo insieme i progetti che hanno risposto al bando di ricerca e sviluppo per l'assegnazione di fondi congiunti per un valore di 6 milioni di euro.
In ebraico usiamo l'espressione "Tikun Olam"- "Aggiustare il mondo" che, secondo la nostra tradizione è una responsabilità che appartiene ad ogni uomo e ad ogni donna nel corso della sua vita. Credo che il Festival della Scienza di Genova sia il concreto esempio di come tutti - istituzioni pubbliche, singoli ricercatori, fondazioni, persone affamate di nuova conoscenza- possano partecipare a questo "tikun" e quanto significativo sia il contributo che Israele e l'Italia, insieme, danno e possono dare alle generazioni presenti e future.
(L'HuffPost, 27 ottobre 2018)
Paul Grüninger, processato e condannato ma poi dichiarato "Giusto fra le Nazioni"
Svizzera ed Olocausto. La storia del capo della polizia di San Gallo. Lettera al direttore di "Gazzetta Svizzera".
Gentile direttore,
desidero riallacciarmi alla mia lettera su Svizzera ed Olocausto (da lei gentilmente pubblicata sulla Gazzetta Svizzera di agosto-settembre 2018) per ricordare la figura di un vero eroe svizzero, forse non a tutti ben conosciuto.
Si tratta di Paul Grüninger, comandante della polizia cantonale di San Gallo nel periodo 1925-1939, dichiarato Giusto fra le Nazioni già nel 1971 ma ufficialmente riabilitato in Svizzera solo nel 1995, 23 anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1972) e ben 56 anni dopo i "reati penali" a lui ascritti che lo videro invece dare una stupenda prova di coraggio e di profonda umanità. Vari tentativi di riabilitazione, prima e dopo la sua morte, furono bocciati dal governo di San Gallo: nel 1968, 1969, 1970, 1984, 1989. Alla finale e doverosa riabilitazione del 1995 si giunse a seguito della fondazione dell'associazione «Giustizia per Paul Grüninger» da parte di personalità diverse (storici, avvocati, giornalisti, scrittori) tra cui Paul Rechsteiner, Stefan Keller, Hans Fassler e altri che portarono con la loro azione lo stesso tribunale di San Gallo che lo aveva condannato a riaprire il caso pronunciandosi infine per una piena assoluzione. Rimando tutti gli interessati a consultare la pagina relativa su Wikipedia, nonché i relativi link presenti nelle note bibliografiche, dalla quale dichiaro, per correttezza, di aver preso gran parte delle informazioni in mio possesso.
Come descritto nella motivazione della sua iscrizione di Giusto fra le Nazioni «Grüninger era ufficiale di polizia nella città di frontiera di San Gallo, in Svizzera. Dopo l'occupazione dell'Austria da parte del Terzo Reich, una grossa ondata di rifugiati iniziò a far pressione sul confine svizzero cercando di attraversarlo. Per evitarlo, la Svizzera chiuse ermeticamente le frontiere. Grüninger, in disaccordo con l'ordine impartito, di fronte a persone bisognose di aiuto, decise di chiudere un occhio e di permettere a molti di attraversare il confine. Non ci sono notizie sul numero di persone che vi riuscirono grazie a lui, probabilmente centinaia». Per tali violazioni nel marzo 1939 fu aperta su di lui prima un'inchiesta amministrativa e poco dopo un procedimento penale. Nell'aprile 1939 viene sospeso dalla carica con licenziamento immediato, radiato dalla polizia con revoca del diritto alla pensione. Nel 1940 venne condannato perfino al pagamento di una multa di 300 franchi per violazione del segreto d'ufficio e falsificazione di documenti. A seguito di tali ingiusti provvedimenti, non solo Grüninger visse in condizioni economiche precarie e morì infine in povertà ma la sua stessa figlia trovò per decenni difficoltà a trovare lavoro quale «figlia di un traditore».
A seguito della sua piena riabilitazione, gli sono state intitolate, in Svizzera e non solo, strade, piazze, scuole, ponti, stadi di calcio nonché dedicati due film per ricordare la sua opera: Grüningers Falle Akte Gruninger Concludo nel modo migliore con le parole di Paul Gruninger stesso, riportate sul sito del memoriale dell'Olocausto Yad Vashem: « Non mi vergogno del verdetto della corte. Al contrario, sono orgoglioso di aver salvato la vita di centinaia di persone oppresse. L' aiuto agli ebrei era radicato nella mia concezione di cristiano ... Si trattava fondamentalmente di salvare vite umane minacciate dalla morte. Come avrei potuto, quindi, prendere in seria considerazione "calcoli" e schemi burocratici? Certo, ho consapevolmente superato i limiti della mia autorità, e spesso con le mie stesse mani falsificato documenti e certificati, ma l'ho fatto al solo scopo di permettere ai perseguitati di entrare nel [mio] paese. Il mio personale benessere, commisurato al crudele destino di quelle migliaia [di perseguitati], era così insignificante e così poco importante, che non l'ho mai preso in considerazione»
Cristiano Giusti
(Gazzetta Svizzera, 10 ottobre 2018)
Morto Lello Di Segni, ultimo sopravvissuto alla deportazione degli Ebrei di Roma
Tra pochi giorni avrebbe compito 92 anni. "Da oggi dobbiamo trovare il coraggio per essere ancora più forti, per non dimenticare e non permettere a chi vuole cancellare la Storia e a chi vorrebbe farcela rivivere di prendere il sopravvento", ha detto Ruth Dureghello, presidente della Comunita' Ebraica di Roma.
È scomparso nella notte Lello Di Segni, l'ultimo sopravvissuto alla deportazione del 16 ottobre 1943. Nato il 4 novembre del 1926, arrestato insieme ai suoi cari, viene portato ad Auschwitz-Birkenau. Il corteo funebre stamattina al Portico d'Ottavia. "La sua perdita, oltreche' essere un dolore per la nostra Comunita', e' purtroppo un segnale di attenzione e un monito verso le generazioni future. Con lui viene a mancare la memoria storica di chi ha subito la razzia del 16 ottobre tornando per raccontarcela. Da oggi dobbiamo trovare il coraggio per essere ancora piu' forti, per non dimenticare e non permettere a chi vuole cancellare la Storia e a chi vorrebbe farcela rivivere di prendere il sopravvento. Alla sua famiglia l'abbraccio dell'intera Comunita'", ha detto Ruth Dureghello, presidente della Comunita' Ebraica di Roma. Raggi: "Roma non dimenticherà mai" "Profondo cordoglio per la scomparsa di Lello Di Segni, ultimo sopravvissuto al rastrellamento nazista contro gli ebrei della capitale in quel terribile 16 ottobre del 1943. @Roma non dimenticherà mai la sua testimonianza". Così su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.
(RaiNews, 26 ottobre 2018)
Il voto controcorrente di Tel Aviv
Martedì le amministrative. Nascono partiti nuovi fotografia di una città cosmopolita che spesso anticipa le tendenze.
di Fabiana Magrì
TEL AVIV - Perfino la corsa per la poltrona da sindaco è occasione per stabilire primati e indicare tendenze nella città trend setter del Medio Oriente. Non poteva che nascere nella capitale morale dei vegani « Tel Aviv Tivonit», il primo partito vegano al mondo a candidarsi a elezioni municipali. Con un bacino di 50 mila sostenitori tra vegani, vegetariani e veganfriendly - oltre il 10% dei 436 mila cittadini aventi diritto al voto su un totale di più di 530 mila abitanti di Tel Aviv - il partito co-fondato da un'italiana-israeliana punta ad almeno uno dei 31 seggi della giunta comunale, dopo il voto del prossimo 30 ottobre. «Il movimento vegano è partito dal basso ma ora vogliamo essere rappresentati ufficialmente - spiega Nadia Ellis, docente universitaria e cuoca-. Chiediamo l'introduzione di menù vegani in scuole e ospedali e più informazione sui vantaggi del veganesimo in termini di salute, ambiente e tutela degli animali. Come la comunità Lgbt, anche noi vogliamo far parte di campagne di marketing territoriale e proponiamo un Vegan Pride.» «Olim Beyachad» (in ebraico, immigrati insieme) è la lista che rappresenta chi, avendo discendenza ebraica, ha fatto «aliyah», cioè ha ottenuto la cittadinanza e vive in Israele in forza della legge del ritorno. «La nostra più grande sfida - ci tiene a sottolineare Vika Kanar, originaria degli Stati Uniti, terza candidata della lista in cui concorrono francesi, russi, americani ma nessun italiano - è spiegare agli immigrati come esprimere il proprio voto, affinché nessuno si senta escluso». Pluralismo è una parola chiave in questa partecipata campagna elettorale tanto che nella città più laica di Israele si moltiplicano i partiti di matrice religiosa. Perfino «Shas», che rappresenta gli «haredirn» (ebrei ortodossi) ha candidato Natan Elnatan perché ritiene che la città stia cambiando troppo rapidamente e che oggi sia difficile vivere da ebreo tradizionale a Tel Aviv.
Anche l'italiano-israeliano Miky Steindler, al quinto posto nella lista «Maaminim» (credenti, in ebraico), sostiene che a Tel Aviv si dovrebbero conciliare meglio modernità e radici ebraiche. A mettere insieme tutte le istanze ci prova «Ichud Tlv» (Unità di Tel Aviv), partito che cerca di creare ponti tra immigrati e nativi israeliani, laici e religiosi. Alla sua guida Gaby Daniel, cresciuto in una famiglia «haredi» ma poi diventato laico, è espressione dell'ideologia sionista religiosa. «L'idea - ha dichiarato Daniel in un'intervista al "Jerusalem Post" - è portare i nuovi immigrati fuori dalla loro bolla e trasformarli in israeliani». L'unico candidato che minaccia seriamente il favorito Ron Huldai - l'attuale sindaco laburista che nelle precedenti elezioni raccolse il 53% dei voti - è il suo vice Asaf Zamir. Dopo dieci anni da numero due, Zamir ha abbandonato il suo mentore per correre contro di lui fondando «Rov Ha'Ir» (la maggioranza della città, in ebraico). «Il nostro obiettivo - si legge sul manifesto del partito - è affrontare quei problemi che giacciono sulla scrivania del sindaco da anni e portare l'amministrazione di Tel Aviv e la qualità della vita dei suoi residenti a un livello superiore.»
Non appare turbato Huldai, forte di vent'anni di risultati che nessuno osa mettere in discussione. Il tallone d'Achille, semmai, sembra essere la lunga durata del suo incarico. Come si fa, dopo tanti anni, a capire ancora una città che cambia così in fretta? «Le caratteristiche principali di un buon sindaco - risponde Ron Levin, capo della campagna elettorale - sono esperienza e capacità di affrontare sfide e perfino minacce. Grazie al talento di un management capace, Tel Aviv si è ripresa dalla bancarotta in cui versava vent'anni fa quando il sindaco è stato eletto». Huldai, nato e cresciuto in un kibbutz, ha sempre puntato a ricrearne i valori in città, applicandone le tre regole d'oro in ogni quartiere: offrire i migliori servizi, al minor prezzo possibile (meglio se gratis) a distanze percorribili a piedi. «L'obiettivo principale in agenda - continua Levin - è incrementare la sharing economy per andare incontro ai bisogni di tutti, anche quando le risorse economiche scarseggiano».
Gli «italkim», la comunità italiana, un bacino elettorale di quasi 10 mila persone, ha incontrato di recente il sindaco. «Tel Aviv e Milano sono gemellate - ricorda il capo della campagna elettorale - e tra i sindaci c'è un rapporto di amicizia. Con gli italiani c'è sempre stata, e c'è tuttora, un'ottima relazione».
(La Stampa, 26 ottobre 2018)
Ue e Usa prudenti su Cina? E Israele ne approfitta
Netanyahu spinge per il libero commercio con Pechino che è il secondo partner commerciale di Israele: altri 10 miliardi nel 2017 e nel primo semestre 2018 già a più 30%. In questo senso si colloca la visita del vice presidente cinese in Israele per potenziare i legami tecnologici e commerciali.
di Francesco De Palo
Che succede tra Israele e Cina? I numeri sull'asse commerciale tra i due Paesi fanno registrare solo segni più, tra scambi e interazioni. Segno che il rapporto va evolvendosi verso una frontiera decisamente di fitta collaborazione e partnership, in un momento in cui invece i maggiori player manifestano pulsioni differenti.
Da un lato gli Usa sono impegnati nella battaglia doppia (dei dazi e dell'intelligence), e dall'altro l'Ue non ha ancora davvero scelto da che parte stare, con l'Italia chiamata a dire la sua.
In Israele
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu spinge forte per il libero commercio con Pechino. Il motivo? La Cina è il secondo partner commerciale di Israele: altri 10 miliardi fatturati nel 2017 e nel solo primo semestre 2018 già a più 30% rispetto al dodecamino precedente. Oltre cinquanta voli a settimana dimostrano la consistenza degli scambi, anche in chiave turistica. Numeri altamente significativi che stanno indirizzando la stagione dei rapporti bilaterali israelo-cinesi verso altre frontiere, rispetto a quelle ordinarie.
In questo senso si colloca la visita del vice presidente cinese in Israele per potenziare i legami tecnologici e commerciali. Come? Con una sorta di mega rete di ceo: così i giganti delle imprese cinesi (alimentare, aviazione, edilizia, ingegneria) formano un'associazione per dare impulso alle operazioni commerciali in Israele.
Colossi del calibro di China Civil Engineering Construction Corporation Israel Branch (Ccecc), Pan-Mediterranean Engineering Co. Ltd (Pmec), China Railway Tunnel Group Co. Ltd (Crtg), Sinohydro Corporation Limited Israel Branch (Scl).
Nel febbraio 2017 sono stati avviati dalla China Railway Engineering Corporation i lavori di costruzione sotterranei della metropolitana leggera di Tel Aviv, utilizzando una Tunnel Boring Machine di ultimissima generazione.
Qishan
Wang Qishan, numero due del governo di Pechino, è particolarmente abile nel settore finanza ed esteri: tra il 2012 e il 2017 è stato a capo della Commissione centrale per l'ispezione disciplinare, poltrona da cui ha curato una delle mosse più caratterizzanti di Xi Jinping, ovvero la campagna anti-corruzione avviata nel 2013 e che ha portato in carcere diversi nomi significativi della politica cinese. Ma Wang ha guadagnato importanza nel settore finanziario cinese alla fine degli anni '80, grazie alla scalata della China Construction Bank.
Tecnologia globale
La sua presenza in Israele è stata accompagnata da nomi di grido dell'industria cinese, come Alibaba, intervenuti per tagliare il nastro dell'Israeli Innovation Center, una vetrina interattiva della storia di Israele e delle sue scoperte tecnologiche, con finanche un ologramma parlante di Shimon Peres. Un evento di portata mondiale, che sancisce una volta di più il peso specifico dei legami (presenti ma soprattutto futuri) tra i due Paesi in chiave hi-tech e Ict.
Il Centro di innovazione israeliano, istituito all'interno del Peres Center for Peace and Innovation, nelle intenzioni dei suoi progettisti (e anche della politica) servirà a rappresentare una sorta di nuova finestra per il futuro, sotto il cappello di Israele intesa come nuova nazione dell'innovazione.
Il centro diffonderà i 100 eventi che hanno trasformato Israele in una nazione innovativa su scala mondiale, nonché ologrammi interattivi degli inventori più importanti del Paese e una capsula temporale simulata.
Da Pechino
Perché Pechino ha scelto di essere presente a questo evento? Wang ha sottolineato la disponibilità della Cina a lavorare con tutti i Paesi per costruire un panorama economico globale inclusivo e un futuro condiviso per tutta l'umanità. In sostanza l'assist del governo cinese a Israele si ritrova in una dichiarazione di Wang che, più di altre, cementa questa unione: "In sette decenni Israele ha trasformato un Paese di immigrati con una base debole in uno dei pochi Paesi sviluppati in Medio Oriente grazie all'innovazione. C'è molto in comune tra i nostri due Paesi e molto da raggiungere attraverso la cooperazione".
Ecco il salto nei rapporti, "allungato" plasticamente dalle strategie che interessano altri due competitors come Usa e Ue.
Panorama
Come è noto Washington ha ormai metabolizzato la direzione cinese in materia economico-commerciale e, anche in vista delle elezioni del prossimo 6 Novembre (quando si voterà per rinnovare la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato), non recede sui dazi. A ciò si aggiunge il versante militare: Pechino chiede ufficialmente di ritrattare le accuse spedite dagli Usa, ovvero di "interferire nelle vicende interne americane". E lo fa per bocca del ministro della Difesa, il generale Wei Fenghe.
Frizioni, che si sommano alla fiche ormai lanciata da Pechino sul tavolo da gioco euromediterraneo dove la via della Seta procede spedita. Dopo la casella logistica coperta dalla Cina con l'hub containers del Pireo, ecco la "scalata" sul costone balcanico con l'intreccio italiano rappresentato dal porto di Trieste.
(formiche, 26 ottobre 2018)
Il governo blocca la legge che confisca i beni alle Chiese
La decisione arriva dopo la lettera scritta dai tre leader delle comunità cristiane al premier Netanyahu.
GERUSALEMME - La lettera scritta venerdì scorso dai leader delle tre comunità cristiane più numerose in Israele al primo ministro Benjamin Netanyahu ha avuto riscontro. La proposta di legge presentata alla Knesset dal deputato centrista Rachel Azaria e contestata dalle Chiese locali è stata rimandata a data da destinarsi.
La proposta di legge
Il progetto prevedeva la possibilità di nazionalizzare i terreni di proprietà degli enti ecclesiastici. Una misura intenzionata ad impedirne la vendita a privati per garantire la sicurezza dei residenti di fronte all'incognita rappresentata di acquirenti non conosciuti. Dopo che la proposta dell'esponente di Kulanu era stata inserita nell'agenda della Commissione ministeriale per la legislazione ed aveva riscosso il consenso del ministro della Giustizia israeliano Ayelet Shaked, il padre francescano Francesco Patton, custode di Terra Santa, il patriarca greco ortodosso Teofilo III e quello armeno di Gerusalemme, Nourhan Manougian hanno scritto una missiva al primo ministro esprimendo il loro disappunto e chiedendo di fermare l'iter legislativo. Con l'inserimento del disegno di legge nell'agenda ministeriale, secondo quanto lamentato nella lettera dai leader cristiani, il governo di Gerusalemme avrebbe disatteso palesemente le rassicurazioni fatte in precedenza alle Chiese.
Gli sviluppi
L'appello dei capi spirituali è stato accolto da Netanyahu visto che è andato in scena un incontro tra Tzachi Hanegbi, ministro per la cooperazione regionale, con i tre rappresentanti religiosi durante il quale è stato assicurato che l'esecutivo non ha alcuna intenzione di confiscare i beni e violare i diritti delle Chiese cristiane. Benjamin Netanyahu, secondo quanto riporta il quotidiano "The Times of Israel", sarebbe così intervenuto per chiedere il rinvio di una settimana della discussione del progetto di legge in Parlamento. Ma appare probabile che, trascorsi questi sette giorni, il disegno verrà ulteriormente posticipato. La proposta di Rachel Azaria nasce anche dal recente clamore suscitato dalla vendita a scopo di lucro di una parte del patrimonio immobiliare dei greco - ortodossi per opera dell'ex patriarca Ireneos.
(In Terris, 26 ottobre 2018)
Lieberman punta su Kochavi per guidare l'esercito d'Israele
Aviv Kochavi, attuale vice del capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot, è il candidato che il ministro della Difesa Avigdor Lieberman vuole alla guida dell'esercito israeliano. Nelle scorse ore Lieberman ha presentato ufficialmente la candidatura di Kochavi, considerato un predestinato a questo ruolo. Classe 1964, ha servito nelle fila di Tsahal su tutti i fronti caldi e, scrivono diversi media israeliani, nessuno oggi conosce meglio di lui le minacce che circondano Israele: da Hamas a Hezbollah, dai palestinesi in Cisgiordania all'Iran fino al pericolo della guerra 2.0. Per poter succedere ad Eisenkot, il cui mandato scadrà il 31 dicembre 2018, Kochavi dovrà ottenere il benestare di una commissione di controllo ufficiale e poi del gabinetto di governo. Il suo curriculum, dal punto di vista militare, è di alto profilo: negli ultimi due anni è stato vice capo di stato maggiore e in precedenza è stato comandante della divisione di Gaza, capo della divisione operativa dello Stato maggiore, capo dell'intelligence militare e capo del comando del Nord. Nel 1998, dopo aver conseguito il master alla Harvard University negli Stati Uniti, venne nominato comandante della divisione orientale dell'unità di collegamento per il Libano e servì sotto il comando del generale di brigata Erez Gerstein, ucciso nel marzo 1999 da una bomba di Hezbollah posta sul ciglio di una strada. "In generale, l'intero periodo in Libano fu molto formativo - ha raccontato in passato Kochavi - Era la prima volta che ero al comando per quasi due anni in una zona di combattimento molto intensa, e ho affrontato tutti i dilemmi che esistono nelle situazioni di combattimento in generale, e nella lotta al terrorismo e alla guerriglia nelle aree urbane in particolare".
Nel 2002, dopo l'attacco terroristico palestinese al Park Hotel di Netanya in cui morirono 30 persone e 140 furono ferite, il Primo ministro Ariel Sharon lancia l'operazione Defensive Shield in Giudea e Samaria (West Bank). Kochavi è comandante del Corpo dei Paracadutisti e avrà un ruolo centrale nel conflitto, guidando la missione Masa Tzva'im nel campo profughi di Balata. Qui, per evitare che i suoi uomini siano presi di mira dai cecchini palestinesi, Kochavi idea uno stratagemma: passare attraverso i muri. "Non c'è quasi nessun posto nel campo su cui i nostri piedi non abbiano camminato - affermò allora Kochavi - Il nostro messaggio è chiaro: troveremo ogni terrorista, non importa dove si trovi. Anche se dovessimo attraversare i muri. I soldati hanno evitato strade, porte e finestre dove sapevano che il nemico li avrebbe aspettati. Invece, hanno fatto saltare in aria pareti, soffitti e pavimenti, e in questo modo si sono spostati attraverso l'intero campo". Le informazioni che Tsahal ha raccolto durante quell'operazione nel campo profughi di Balata furono un elemento chiave per l'intera operazione nella West Bank.
Nel 2005, il brigadiere generale Shimon Naveh presentando un modello di guerra urbana nell'era postmoderna in una conferenza a Barcellona, racconta il Jerusalem Post, prese come esempio la missione nel campo profughi di Balata. "Kochavi ha pensato ad ogni potenziale problema prima dell'operazione. La sua capacità di concettualizzare gli aspetti tattici e strategici della missione fu incredibilmente sviluppata. Capì che le strategie militari che erano state implementate fino ad allora non avrebbero funzionato in questa situazione, e quindi spettava a lui trovare qualcosa di nuovo". "I soldati - spiegava Naveh - si muovevano come api. Kochavi divise la divisione in 13 squadre, che entravano tutte contemporaneamente nel campo come uno sciame. In questo modo, i residenti erano costretti a scendere in strada e venivano uccisi o catturati. Le forze di difesa israeliane subirono una sola vittima, e fu causata da fuoco amico".
(moked, 26 ottobre 2018)
Un'installazione per non scordare la Shoah con i nomi degli oltre diecimila ebrei censiti in città
Realizzata dalla fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, è stata inaugurata dalla senatrice Liliana Segre.
di Andrea D'Agostino
MILANO - I nomi, l'età, la professione, fino alla "destinazione finale". È la monumentale installazione, punto centrale della mostra appena inaugurata alla Triennale per l'80esimo anniversario delle leggi razziali: ... Ma poi, che cosa è un nome?, promossa dal Comune di Milano e realizzata dalla fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, aperta fino al 18 novembre. Inaugurata dalla senatrice Liliana Segre, la mostra racconta in modo originale le 10.591 biografie delle persone censite a Milano il 22 agosto 1938 perché ebree, e private dei loro diritti fino alla cancellazione dell'identità. «Il male assoluto ha tolto a queste persone il nome - ha dichiarato Segre -. Anche io ne avevo uno e ne ho uno oggi, ma a quelli che non sono tornati è stato tolto per sempre. Quando ti fanno un tatuaggio sul braccio e ti dicono di impararlo a memoria in tedesco perché altri, per non aver risposto ad un ordine sono morti, non sei più una persona ma un numero: servi solo per lavorare. Con un numero ti chiamano all'appello, ti offrono la zuppa, ti mandano a morte».
Il lavoro è stato effettuato grazie alla ricerca storica fatta da una ventina di studenti dell'Università Statale nella cittadella degli Archivi del Comune, «associata ad un lavoro di digitalizzazione» ha spiegato l'assessore alla Trasformazione digitale e Servizi civici del Comune, Roberta Cocco. Su alcuni tablet posizionati sotto il grande pannello si può ora digitare il nome di una famiglia deportata e geolocalizzare dove abitava nell'estate di quell'anno.
Si tratta di una mostra «cruciale per noi - ha spiegato il presidente della Triennale Stefano Boeri-, un antidoto contro l'amnesia ed è un atto di denuncia». Sul sito del Comune sarà poi possibile visualizzare alcuni risultati della ricerca. Segre ha raccontato anche un episodio della sua vita recente: «Alla Liliana bambina creava imbarazzo quando le chiedevano cosa fosse quel tatuaggio sul braccio, che ci ha tolto il nome solo per la colpa di essere nati ebrei. Ma ancora oggi qualcuno della mia età, qualcuno che c'era e dovrebbe sapere, o che non ha voluto sapere, d'estate quando ho le maniche corte mi dice "Ma sei pazza alla tua età a fare un tatuaggio?". Io rispondo solo "Auschwitz"». Mostre come questa servono allora, conclude la senatrice a vita, a far sì che chi ha subito quel male non subisca anche l' oblio: «Affìnché, con questi strumenti multimediali avanzati, i figli dei nostri figli e dei nostri nipoti trovino il nome del loro nonno o bisnonno e non dimentichino più».
(Avvenire, 26 ottobre 2018)
Israele, il "fantasma" di Shimon Peres al convegno delle start-up
A due anni dalla morte, un ologramma dell'ex presidente è stato utilizzato per l'apertura della grande iniziativa sull'innovazione tecnologica inaugurata dal premier Netanyahu.
di Vincenzo Nigro
TEL AVIV - È stato richiamato in servizio perfino Shimon Peres per confermare al mondo che la vera sfida per il futuro di Israele sarà la sua capacità di continuare a mantenere una leadership sempre più avanzata nell'innovazione, nella tecnologia, nella dimensione cyber. A due anni dalla sua morte, un ologramma del presidente è stato usato per inaugurare il convegno del Peres Center for Peace and Innovation. I parenti di Peres hanno preparato la proiezione di un discorso dell'ex presidente costruito come se venisse pronunciato adesso, rilanciando i temi che lo statista israeliano ha sempre affiancato a quelli della politica nel corso della sua vita. L'impegno per l'educazione, per l'innovazione tecnologica, per il progresso scientifico.
Peres fu il primo fra i politici israeliani a capire l'importanza della formula "Start up nation", che ha fatto diventare Israele la Silicon Valley più vicina all'Europa, nel cuore del Medio Oriente. Una dimensione scientifica ed economica che è un magnete per Israele, capace di portare al paese un grosso sostegno politico da paesi lontani come la Cina o Singapore, presenti in forze a Tel Aviv: il convegno è stato inaugurato dal premier Benjamin Netanyahu assieme al vicepresidente della Cina Wang Qishan, arrivato in Israele con una squadra di ministri e sottosegretari.
«Senza nuove tecnologie - ha detto il falso/vero Peres - ci saranno solo fame e stagnazione. Dobbiamo stare attenti: una tecnologia priva di valori sarebbe un pericolo per l'umanità. Ma valori senza tecnologia porterebbero fame e stagnazione». Il figlio di Peres, Chemi, oggi è il presidente del Centro oltre ad essere il capo di uno dei fondi Venture Capital più importanti del paese. Il messaggio che Chemi ha affidato all'ologramma del padre è quello di creare un centro che sia «una finestra sul futuro, un posto per i sogni, che esprima il desiderio di lasciare alla nuova generazione un futuro migliore e più luminoso».
Il Centro Peres per Pace e Innovazione è stato costruito a Jaffa: è un palazzo di 4 piani che documenta 100 eventi chiave nello sviluppo delle tecnologie israeliane nell'agricoltura, nella medicina, nello spazio, nella sicurezza e nell'informatica. Un piano intero è dedicato a previsioni sul futuro, con uno sguardo su "Israele fra 20 anni.
Tutto sembrerebbe terribilmente immaginifico, una poderosa operazione di propaganda, se dietro non ci fossero i risultati concreti di questi anni in cui il governo di Israele sistematicamente ha puntato sulla integrazione fra università, centri di ricerca e industria per consolidare una nuova dimensione per il paese. Nel suo intervento Netanyahu ha mostrato alcune tabelle: in una c'è un confronto fra le prime 10 aziende mondiali di 10 anni fa e di oggi. Dieci anni fa solo 4 di queste avevano un centro di ricerca e sviluppo in Israele; oggi tutte, da Amazon a Microsoft a Google hanno un loro centro di ricerca e sviluppo fra Tel Aviv e Gerusalemme.
Altri dati citati: nel settore della smart mobility, solo di recente Inter ha acquistato "Mobileye" per 15 miliardi di dollari, Google ha comprato Waze per 1 miliardo e in tutto il paese sono nate 500 aziende tutte dedicate alla smart mobility.
Al convegno oggi ha parlato anche il fondatore di Alibaba, l'Amazon cinese, che ha raccontato di aver conosciuto Peres 10 anni fa a Davos e di aver apprezzato «l'incredibile modernità di un uomo politico di un altro secolo che ha sempre ragionato con decine di anni di anticipo».
(la Repubblica, 25 ottobre 2018)
Rapporto HRW: «Anp e Hamas, abusi per zittire il dissenso»
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - «Gli arresti effettuati dalla polizia avvengono nel rispetto assoluto della legge e delle persone». Per Adnan Damairi, portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, non c'è nulla di vero nella denuncia di Human Rights Watch (Hwr) sugli arresti arbitrari, le intimidazioni e le torture praticate dall'Autorità Nazionale di Abu Mazen in Cisgiordania e dal movimento islamico Hamas a Gaza contro oppositori e giornalisti o persone comuni che esprimono opinioni critiche sui social.
A smentirlo le decine di palestinesi intervistati dal gruppo per i diritti umani che a inizio settimana ha presentato un rapporto di 149 pagine, documentando in particolare 20 casi in cui cittadini palestinesi, in Cisgiordania e Gaza, sono stati detenuti e torturati senza ragioni precise al di là della scrittura di un articolo critico delle autorità o di un post su Facebook.
Amer Balusha, ad esempio, è stato arrestato e maltrattato il 3 luglio del 2017 dalla polizia di Hamas per aver messo a confronto la condizione dei figli dei leader del movimento islamico e quella degli altri ragazzi di Gaza. «Faceva molto caldo in quei giorni, soffrivamo, e su Facebook mi sono posto la domanda se i figli dei leader locali dormivano sul pavimento come gli altri bambini». Queste poche frasi sono state sufficienti a far scattare l'arresto.
Un altro intervistato ha riferito del pestaggio compiuto da centinaia di agenti, prima nelle strade e poi nelle stazioni di polizia, dei manifestanti che circa un anno fa protestavano nei pressi della centrale elettrica della Striscia contro la mancanza a Gaza quasi totale di corrente. In Cisgiordania Jihad Barakat, un giornalista, è finito in prigione per aver scattato una foto al primo ministro Rami Hamdallah bloccato dagli israeliani a un posto di blocco. «Sono un reporter e ogni giorno riferisco ciò che i palestinesi subiscono (dall'occupazione israeliana, ndr) - ha raccontato - Il primo ministro Hamdallah aveva subito un abuso e io non ho fatto altro che filmarlo. Per quella foto sono stato detenuto per quattro giorni, prima a Tulkarem e poi a Ramallah»,
Omar Shakir, direttore dell'ufficio di Hrw nei Territori palestinesi occupati, spiega che le persone arrestate dagli agenti dell'Anp e di Hamas subiscono intimidazioni gravi, abusi e non poche volte anche torture. E a quanto pare hanno imparato bene dagli occupanti israeliani lo shabeh, una tecnica che costringe gli arrestati a sedere per molte ore in posizioni dolorose, in piedi o su sedie a misura di bambino, con le mani legate dietro la schiena o la testa.
Sami al Sai, un altro giornalista arrestato dall'Anp, è stato tenuto dal momento dell'arresto fino al mattino in queste posizioni, bendato e a tratti appeso al soffitto. Le autorità in Cisgiordania e Gaza hanno risposto al rapporto di Hrw affermando che i casi di abusi e torture sono isolati e non rappresentano il comportamento abituale delle forze di sicurezza. Per il gruppo dei diritti umani invece queste pratiche sono abituali e diffuse.
(il manifesto, 25 ottobre 2018)
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I palestinesi, da bravi arabi, torturano gli oppositori
Hamas e Anp, gli eroi della sinistra europea
di Carlo Nicolato
Se non l'avessimo letto direttamente sul loro sito non ci avremmo mai creduto. Eppure il corposo report che accusa le autorità palestinesi, che siano Al Fatah o Hamas, di torturare oppositori e dissidenti è stato redatto proprio dallo Human Rights Watch, l'organizzazione non governativa che fino a ieri aveva speso parole in esclusiva per condannare le violazioni dei diritti umani di Israele sugli stessi palestinesi. E lo facevano in modo così insistente e disonesto che solo il maggio scorso il governo di Gerusalemme si era sentito costretto a ordinare l'espulsione dal Paese del direttore della divisione locale della stessa Ong, tal Omar Shakir, americano di origini irachene, accusato tra le altre cose di appoggiare il movimento internazionale per il boicottaggio di Israele. Una strana presa di posizione per un funzionario che avrebbe dovuto essere super partes. E non è forse un caso che, via lo "sbadato" Shakir, che si occupava guarda caso anche e soprattutto degli abusi nella West Bank e a Gaza, lo Human Rights Watch ha improvvisamente scoperto che i peggiori torturatori dei palestinesi non sono gli israeliani, bensì i palestinesi stessi.
Censura
Nell'introduzione del suo rapporto si legge che «sia l'Autorità palestinese (Fatah) in Cisgiordania che il Movimento di resistenza islamica (Hamas) a Gaza hanno effettuato negli ultimi anni decine di arresti arbitrari per critiche pacifiche alle autorità, in particolare sui social media, tra giornalisti indipendenti, nei campus universitari e alle manifestazioni. Mentre la faida tra Fatah e Hamas si è approfondita nonostante i tentativi di riconcìlìazìone, i servizi di sicurezza della AP hanno preso di mira i sostenitori di Hamas e viceversa».
Ovvero la Ong accusa senza mezzi termini i regimi dell'Autorità Palestinese e di Hamas di aver «stabilito meccanismi di repressione per eliminare il dissenso, anche attraverso l'uso della tortura». Nel rapporto lo Human Rights Watch spiega di aver intervìstato 147 testimoni, inclusi ex detenuti e parenti, avvocati e rappresentanti di gruppi non governativi e di aver esaminato prove fotografiche, rapporti medici e documenti giudiziari. Insomma di non aver lasciato nulla al caso e all'interpretazione. Spiega che gli «arresti arbitrari sistematici e le torture violano i principali trattati sui diritti umani ai quali la Palestina ha recentemente aderito». Ma poi arriva il bello, perché l'HRW non si limita a denunciare, come fa il più delle volte (vedasi il recente caso sull'«approccio disumano» dell'Italia ai danni degli immigrati), ma chiede addirittura agli Usa e all'Europa di interrompere i finanziamenti ai due regimi: «L'Ue, gli Stati Uniti e altri governi che sostengono finanziariamente l'Autorità palestinese e Hamas dovrebbero sospendere gli aiuti alle unità o agenzie specifiche implicate in arresti arbitrari e torture diffusi fino a che le autorità non frenino tali pratiche e arrestino i responsabili degli abusi».
Miliardi a pioggia
Va ricordato di passaggio che gli aiuti da parte dell'Unione europea, esclusi quelli assicurati da accordi bilaterali con gli Stati membri, ammontano a 5.964 miliardi dal 2000 al 2015 e che il 43% di tale somma è stato erogato come supporto economico diretto proprio all'Autorità palestinese, mentre il resto è andato all'Unrwa e in aiuti umanitari. Ovviamente lo Human Rights Watch non dimentica Israele, ma Shawan Iabarìn, pezzo grosso della Ong, considera stavolta che «non c'è un motivo per rimanere in silenzio di fronte alla sistematica repressione del dissenso e alla tortura che le forze di sicurezza palestinesi stanno perpetrando».
(Libero, 25 ottobre 2018)
l bambino israeliano in bicicletta davanti all'incendio terroristico palestinese
La foto scattata da un amico dello stesso kibbutz si è diffusa in modo virale sui social network in Israele
Yonatan Regev, un ragazzino di 7 anni del kibbutz Mefalsim, vicino al confine con la striscia Gaza, martedì scorso stava girando in bicicletta e si è avvicinato a un incendio appiccato dall'ennesimo aerostato incendiario palestinese. Quando le fiamme si sono alzate, è tornato rapidamente indietro. Proprio in quel momento lo ha fotografato il suo amico 13enne Uriya Kabir, che vive nello stesso kibbutz. La foto, che Uriya Kabir ha postato sui social network, è stata ampiamente condivisa e si è diffusa in modo virale....
(israele.net, 25 ottobre 2018)
Skipper scomparso, il corpo ripescato ad Anzio: è giallo
Il ritrovamento su un versante opposto a quello della sua rotta, forse è caduto in mare per malore.
L'israeliano 62enne era sparito il 10 ottobre. Test dna sul cadavere
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Nessuna traccia del tender usato per raggiungere gli amici in barca
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di Anna Maria Boniello
La svolta
Colpo di scena nel giallo dello skipper 62enne scomparso nella baia di Marina Piccola a Capri nella notte tra mercoledì 10 e 11 ottobre: un corpo è riemerso ad Anzio, e potrebbe essere il suo.
L'uomo di nazionalità israeliana era in crociera nel golfo con un gruppo di persone che avevano noleggiato a Procida due imbarcazioni a vela presso la società Sail Italia, tra le compagnie più importanti per l'organizzazione di charter in barca a vela. Una gita finita tragicamente per il velista Doron Nahshoni di nazionalità israeliana, che si era allontanato a bordo del piccolo tender di tre metri per recarsi a trovare i suoi compagni di crociera che si trovavano su un'altra imbarcazione ormeggiata a qualche centinaia di metri di distanza. Da quel momento l'uomo è scomparso nel nulla e, fatto strano, non è stato neanche ritrovato né il gommone né il piccolo fuoribordo e nemmeno i remi in dotazione. Ieri improvvisamente sul web si è diffusa la notizia del ritrovamento di un cadavere a largo di Anzio, e forse potrebbe essere lui l'uomo ritrovato in mare.
L'annuncio
A lanciare la notizia sono stati due autorevoli giornali israeliani «Times of Israel» alle 16.12 ed il «The Jerusalem Post» alle 16.51. Entrambi scrivevano che: il Ministero degli Esteri Israeliano annunciava che il corpo di un uomo era stato ritrovato in acque italiane in una zona lontana da quelle in cui era scomparso all'inizio di questo mese un loro connazionale. Il Ministero, secondo il Times of Israel, comunicava anche che per scoprire l'identità dell'uomo annegato e ritrovato verrà effettuato il test del dna per verificare la sua identità e scoprire se si tratta effettivamente del 62enne scomparso nelle acque di Capri il 10 ottobre.
La mobilitazione
Quel giorno anche l'ambasciatore israeliano contribuì a far partire le ricerche a cui si aggiunsero anche gli uomini di una compagnia assicurativa israeliana «The Phoenix», Venne impegnato un largo dispiegamento di uomini con mezzi aerei e navali che hanno partecipato per ben due settimane nelle operazioni di ricerca del disperso, ispezionando tutta la costa dell'isola di Capri ed in mare aperto elicotteri, aerei e droni. Addirittura gli 007 israeliani hanno utilizzato attrezzature sonar e sub esperti per le ricerche in grotte marine. È la prima volta a memoria dei marinai di Marina Grande che tante unità navali, aree e moderne tecnologie vengono impiegate per ricercare un disperso. Ma - giallo nel giallo - ora viene ritrovato un cadavere e per risalire alla sua identità bisogna ricorrere all'esame del dna. Il corpo è in fase di decomposizione, e nemmeno un frammento del tender che sembra svanito nel nulla è stato ritrovato lungo quei 240 km di distanza tra Capri ed Anzio e 150 miglia di navigazione. Ma agli appassionati del mistero non è sfuggito un altro particolare. Le barche che ormeggiavano a Marina Piccola, con a bordo un equipaggio di dodici persone di cui sei affette da piccole disabilità e sei accompagnatori, con condizioni meteomarine ottime si trovavano nel versante sud dell'isola, ovvero sulla rotta che conduce a Positano ed Amalfi e cioè nel golfo di Salerno. Il corpo dell'uomo che potrebbe essere lo skipper israeliano è stato ritrovato ad Anzio, sul versante nord, opposto a quello da cui era partito, cioè nel golfo di Napoli sulla rotta di Ischia, Ventotene, Ponza ed Anzio. In un tratto di mare di fronte a quello di partenza e in acque avventurose dove è difficile navigare con un piccolo tender.
L'ipotesi
Secondo alcune ricostruzioni l'ingegnere velista potrebbe essere arrivato a Marina Grande verso la punta di Tiberio che si trova in zona nord, e poi forse preso da un malore la sua piccola imbarcazione ha continuato il percorso spinta dalle correnti che in quel tratto di mare sono abbastanza potenti, tanto da trascinare il suo corpo in alto mare sino di Anzio. Ma fino a quando non si risalirà alla sua identità attraverso l'esame del dna, tutto ciò resta solamente un ipotesi, anche se le fonti israeliane danno quasi per certo che il cadavere ripescato ad Anzio sia proprio quello di Doron Nahshoni.
(Il Mattino, 25 ottobre 2018)
Potenziata la centrale elettrica di Gaza
GERUSALEMME - La seconda turbina della centrale elettrica a Gaza è entrata in funzione, producendo 52 megawatt di elettricità. Lo ha annunciato sul profilo Twitter ufficiale il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. L'entrata in funzione della seconda turbina "allevierà la sofferenza di 2 milioni di palestinesi", ha spiegato Mladenov. In tal modo, la centrale elettrica dell'enclave palestinese produrrà complessivamente 172 megawatt, "la produzione massima dal 21 gennaio 2018", ha concluso Mladenov. Intanto il 24 ottobre è ripresa, dopo un blocco di una settimana, la consegna di carburante finanziato dal Qatar nella Striscia di Gaza. Il carburante serve ad alimentare l'unica centrale elettrica dell'enclave palestinese, amministrata dal movimento Hamas dal 2007. La consegna di carburante era stata sospesa la scorsa settimana dalle autorità israeliane a causa dell'escalation di tensione lungo la barriera difensiva tra Gaza e Israele e per il lancio di alcuni razzi dall'enclave sullo Stato ebraico.
(Agenzia Nova, 25 ottobre 2018)
Storia della comunità ebraica di Sciacca
di Elio Di Bella
Sciacca nel passato ebbe non solo contatti con gli ebrei, ma un numeroso gruppo si stabilì nel suo territorio. La parola ebreo a Sciacca suona nel senso di "uomo senza cuore", "nemico di Dio e dell'umanità", "portatore di rovine". Si ricorda che quando il popolo si raccoglieva nell'atrio del monastero delle Giummarre per festeggiare la domenica delle Palme, la badessa del monastero, nel dare l'indicazione che ognuno poteva prendere i rami d'olivo legati al ceppo della croce, sporgendosi della grande finestra centrale della facciata della chiesa, gridava: "popolo ebreo assalite le palme".
La gente si scatenava e si assisteva ad uno spettacolo indecoroso che finiva in baruffa e percosse e qualche volta col sangue.
La Giudecca di Sciacca era assai numerosa. Si parla degli ebrei fin dal 1295: quando il carmelitano Sant'Alberto passando per questa città ne convertì un buon numero alla fede cattolica. Si parla degli ebrei nelle antiche consuetudini: i cristiani non potevano sedersi a mezza con essi, accompagnarsi con loro a diporto; chi aveva rapporti intimi era considerato come fedifrago o ribelle spudorato. Trattandosi dell'uso dei bagni termali è detto che il venerdì di settimana era destinato per i soli ebrei, i quali non potevano bagnarsi che in questo solo giorno.
La Giudecca di Sciacca era elencata per importanza immediatamente dopo quella di Palermo, e in Sicilia, era la principale. Infatti in un donativo offerto da re Alfonso, dopo quelli di Giudea e di Palermo, che sono tassati per onze 37, vengono quelli di Sciacca che lo sono per onze 18. La comunità ebrea di Sciacca era assai numerosa; estesissimo era il ghetto che formava un vero sobborgo ed era detto della Cadda, sito nell'attuale quartiere Cittadella, in cui centro era il cortile Cattano e si estendeva fino alle mura di Vega e propriamente nel sito Santa Venera, dove, in una grotta, vi era la cosiddetta Mosche (Sinagoga) dove rabbini ammazzavano gli animali e circoncidevano bambini.
Aveva un cimitero assai spazioso sito sulla rocca San Paolo, nei pressi dell'attuale porto. Gli ebrei di Sciacca facevano tutti i mestieri, compreso quello degli accattoni; il commercio è la loro massima occupazione. Nell'archivio notarile saccense si trovano delle contrattazioni siglate firmate in ebraico. Il vescovo Bartolomeo Lagumina di Agrigento, provetto numismatico ed insigne paleografo, che può dirsi il creatore della storia dell'ebraismo in Sicilia, decifrò queste scritture e le dichiarò di valore inestimabile; egli scrisse il "Codice diplomatico dei Giudei in Sicilia" dove ci fa vedere la storia delle Giudecche, che esistevano oltre Sciacca, ad Agrigento, Naro, Licata, Bivona e altrove nella nostra provincia e anche a Salemi e a Trapani.
Le comunità ebree di Sciacca ebbero diverse sinagoghe: una era sita vicino l'attuale Porta Palermo sul lato ovest, l'altra nella via Cittadella nei pressi del cortile Cattano, ora casa del fu Cav. Saverio Gallo. In un angolo esterno di questa si scorgono in alto due sporgenze in pietra viva che portano due fiori ove gli ebrei mettevano l'asta del loro vessillo che esponevano in certe solennità.
Altra sinagoga sorgeva nei pressi della chiesa di San Leonardo nello stesso luogo ove sorgeva un tempio pagano dedicato a Mercurio che fu usato prima dai Saraceni; in loro omaggio gli ebrei chiamarono questa sinagoga moschea (vedi: Ciaccio: "Sciacca- Notizie storiche e documenti", Vol.I pagg. 147-154).
Gli ebrei avevano a Sciacca sacerdoti propri detti Cassen o Hassen, i Rabini, i giudici Spirituali, i Maniglori detti anche Sagrestani. Portavano come distintivo una rotella rossa che fu imposta da Federico III con la costituzione del 12 ottobre 1366; le donne portavano questa rotella rossa sul manto. Gli ebrei a Sciacca godettero di molti privilegi; seppero imporsi presso la corte tanto che re Martino nel 1399 li volle proteggere con un decreto che puniva di lesa maestà coloro che li offendevano; ai quaresimalisti della matrice venne imposto di non inveire contro gli ebrei specialmente nella settimana Santa e per tale disposizione ottennero due rescritti del Viceré: uno del 16 marzo 1486 e l'altro del marzo dell'anno seguente.
Gli ebrei facevano guardia notturna alle mura della città di Sciacca, ma poiché questo servizio era assai gravoso ne furono esentati dal re Martino con rescritto del 28 dicembre 1398.
Ma gli ebrei abusarono delle indulgenze ottenute, diventarono grandi usurai, si macchiarono di nefandi delitti, tanto che diventarono esosi a tutta la Sicilia ed in vari punti avvennero dei tumulti di eccezionale gravità.
A prevenire mali maggiori, Ferdinando il cattolico volle sfrattarli e sebbene gli fosse stato offerto un donativo di 3000 monete d'oro per non essere molestati, il re tenne duro ed emanò il decreto firmato in Granada il 30 gennaio 1492 che fu reso pubblico a Sciacca il 18 giugno dello stesso anno, nella solennità della festa di San Calogero, patrono della città di Sciacca e grande fu la gioia del popolo.
Nel 1492 l'espulsione degli ebrei si compì. Così il sobborgo della Cadda, già ghetto di Sciacca passò in potere dei cristiani che cominciarono ad abitarlo. Da quell'epoca gli ebrei non misero più piede Sciacca.
Quasi analoga è la leggenda intorno agli ebrei in tutti i centri dell'isola e dovunque ormai, quasi cancellati dal tempo, affiorano i ricordi che spesso si manifestano nel resti di loro costruzioni. A Salemi per esempio, una via chiamata Judeca (Giudecca) e le porte di accesso e fabbricati sono tuttora conservati secondo le usanze ebraiche.
- Tratto da Giornale di Sicilia, 9 luglio 1955)
(Agrigento Ieri e Oggi, 25 ottobre 2018)
Un accordo dimezzato
Il re di Giordania ci insegna perché in Medio Oriente non bisogna confondere gli accordi con la pace vera.
di Ugo Volli
Giordania e Israele. Una piccola notizia uscita nei giorni scorsi e riportata con scarso rilievo sulla stampa internazionale (in Italia credo solo sul "Corriere" e "La Stampa") merita una riflessione. Riporto qui parte dell'articolo della "Stampa":
"Re Abdullah di Giordania ha annunciato che non rinnoverà parte del trattato di pace firmato con Israele nei 1994. I punti in questione sono due disposizioni annesse che cedevano per 25 anni allo Stato ebraico i villaggi di AlBaqoura, nel Nord della Valle del Giordano, e di Al-Ghumar, vicino al Golfo di Aqaba. [
] La disdetta di Amman riguarda l'affitto (di 25 anni) di due aree agricole di confine tra Giordania e Israele: la prima (Baqura, in arabo, Naharaym in ebraico) si trova a Sud del Lago di Tiberiade, nel Nord. Proprio qui nel 1997 si consumò un feroce attentato ad opera di un soldato giordano che sparò su un gruppo di studentesse israeliane uccidendone sette. Fu lo stesso re Hussein (padre di Abdallah) a recarsi in Israele per porgere le proprie condoglianze ai familiari. La seconda area - alGhamr in arabo, Zofar in ebraico - si trova a Sud nel deserto del Neghev."
Le due aree non hanno grande importanza strategica, sono due territori abbastanza piccoli, conquistati dall'esercito israeliano nel '67 al di là della delimitazione geografica che è stata presa come base del confine fra Israele e Giordania, per esempio per quanto riguarda la prima località al di là di un'ansa particolarmente profonda del Giordano. Erano territori coltivati e valorizzati da Israele e al momento dell'accordo di pace furono oggetto di un compromesso: per rispettare la linea geografica Israele rinunciò alla sovranità e in cambio la Giordania accetto di mantenere le piantagioni israeliane in cambio di un affitto. Il trattato ha una scadenza di 25 anni e Abdullah, sottoposto a una forte pressione da parte della parte più tradizionalista e dunque islamista della popolazione, da un lato, e dall'altro di una maggioranza che si identifica come "palestinese", ha annunciato che non rinnoverà questa clausola.
Per Israele quel che conta è il trattato in sé, il secondo trattato di pace con un paese arabo dopo quello con l'Egitto e dunque il suo rinnovo nonostante l'orientamento massicciamente antisraeliano della popolazione giordana è una buona notizia, del resto non inaspettata, perché Israele ha bisogno certamente del regno hashemita per la propria sicurezza sul lungo confine orientale: se esso fosse infiltrato dai terroristi dell'Isis o da quelli controllati dall'Iran come in Libano e in Siria, la situazione diverrebbe molto preoccupante. Ma soprattutto la dinastia giordana ha bisogno di Israele che in molte occasioni l'ha protetta da colpi di stato e tentativi di eversione.
E però la cessazione dell'affitto delle due aree giordane costituisce un precedente importante e allarmante per due ragioni. La prima è che si dimostra che per quanto riguarda Israele gli accordi di pace, anche i più celebrati e apparentemente solidi, non reggono alla pressione islamista. Lo si era visto con gli accordi di Oslo, che l'Autorità Palestinese viola ogni giorno appoggiando il terrorismo. Di nuovo questa fragilità era emersa durante il breve e sfortunato governo dell'Egitto da parte della Fratellanza Musulmana, quando il presidente d'allora, Morsi, aveva stracciato l'accordo per la fornitura di gas a Israele e fatto intendere che presto e volentieri avrebbe fatto altrettanto con la pace firmata da Sadat. E' emerso di nuovo ora: non ci si può davvero fidare dell'interesse dei governi che fanno accordi con Israele e allo stesso tempo incitano la popolazione all'odio con la scuola e i media. Alla fine questa pressione dovuta al lavaggio del cervello antisraeliano prevale anche sull'interesse geopolitico del paese.
La seconda ragione di inquietudine è questa. Coloro che elaborano piani di pace fra Israele e l'Autorità Palestinese spesso pensano di risolvere problemi controversi con una formula simile a quella usata con la Giordania, per esempio propongono di conciliare la pretesa della sovranità dei palestinisti su tutta la Giudea e Samaria con la vitale necessità di Israele di mantenere il controllo del confine sul Giordano e di alcuni punti dominanti delle montagne con un lungo affitto di queste aree cruciali. In teoria esse sarebbero assegnate agli arabi, ma in pratica e in cambio di compensazioni economiche sarebbero sotto il controllo israeliano. La scelta di Abdullah mostra che questa impostazione non funziona e anche nel caso migliore dura solo fino alla prima scadenza utile, dopo di che il problema si ripropone.
Un accordo di pace ai vertici non trasforma le masse arabe indottrinate in forze ragionevoli e desiderose di convivere. E un affitto non spegne le rivendicazioni, al contrario dà loro una ragione per riaccendersi. Insomma, anche se alla fine il trattato con la Giordania terrà, quel che esce da questa notizia è un ammonimento al realismo. Purtroppo la pace non è affatto vicina in Medio Oriente e può diventare concreta solo con un completo riorientamento dell'opinione pubblica araba, di cui per ora non si vedono le tracce.
(Progetto Dreyfus, 23 ottobre 2018)
"I sionisti cristiani non appartengono al cristianesimo", secondo un leader cristiano palestinese
"Gli evangelici cristiani sono dei pulpiti al servizio dell'impresa sionista. Sono nemici dei valori cristiani", ha detto l'arcivescovo della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme. "Non appartengono al cristianesimo, non hanno alcun legame con i valori del cristianesimo.
Dal quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese, Al-Hayat Al-Jadida, 24 settembre 2018:
"Il capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, l'arcivescovo Atallah Hanna, ha affermato che né il dizionario cristiano né il dizionario della chiesa contengono qualcosa chiamato "cristiani evangelici "o "cristiani sionisti". Ha poi aggiunto: "I suddetti non appartengono affatto al cristianesimo, non hanno alcun legame con i valori del cristianesimo e con i principi evangelici che accentuano sempre l'identificazione con i miseri e derelitti del mondo. Sono più vicini all'ebraismo e al sionismo e non hanno alcun collegamento con il cristianesimo".
L'arcivescovo Hanna ha detto inoltre: "Gli evangelici cristiani sono come pulpiti al servizio dell'impresa sionista. Sono nemici dei valori cristiani, e quando vengono in Palestina non visitano la Chiesa del Santo Sepolcro e la Chiesa della Natività, ma preferiscono le colonie situate sulle terre rubate al nostro popolo, in segno di solidarietà con l'occupazione.
(Palestinian Media Watch, 24 ottobre 2018)
Israele, la nazione delle start-up
A Genova una ventina di scienziati provenienti dai maggiori istituti di ricerca e università. Agricoltura, medicina, robotica e matematica sono fra i campi al centro di studi e scoperte.
di Ariela Piattelli
Se c'è un Paese che può meglio riassumere il tema del Festival della Scienza di Genova, ovvero i cambiamenti, questo è Israele. In soli 70 anni di storia, trasformando il deserto del Negev e le dune di Tel Aviv nella Start-Up Nation, Israele è diventato l'avamposto della ricerca, del progresso scientifico e dell'innovazione tecnologica dove lo slancio verso il futuro è inarrestabile.
Per questo il Festival della Scienza lo ha scelto come Paese ospite, e arriveranno oltre 20 scienziati provenienti dai più prestigiosi istituti e università, protagonisti di studi e scoperte nel campo dell'agricoltura, medicina, robotica, matematica e molto altro.
Ad inaugurare il ciclo di conferenze, animate dal confronto tra gli israeliani e i loro colleghi italiani, è Re'em Sari, professore al Center for Astrophysics and Planetary Science del Racah Institute of Physics dellaHe brew University di Gerusalemme (l'università fondata da Albert Einstein, per intenderci), che guiderà il pubblico in un avvincente viaggio nei misteri dei "mostri della nostra galassia", ovvero i buchi neri. Il futuro, quello di internet, con i suoi rischi e le sue potenzialità, è il tema dell'intervento di Menny Barzilay, esperto di cyber-security.
Sempre di cyber security e intelligenza artificiale parla l'imprenditore Nimrod Kozlowski, che spiega come i computer potranno a breve predire i comportamenti umani.
Dal Weizmann Institute, tra i centri di ricerca più prestigiosi al mondo dal quale sono usciti diversi Premi Nobel, arrivano l'immunologo Liran Shlush, che interviene sulla possibilità di diagnosticare in anticipo la leucemia, e la biologa italo - israeliana Lia Addadi. Progresso e cooperazione scientifica sono gli argomenti di alcuni incontri, uno dei più promettenti quello tra il direttore scientifico Giorgio Paolucci con l'israeliano Roy Beck-Barkai e l'egiziana Gihan Kamel, unica donna ricercatrice del Sesame, il primo acceleratore di particelle del Medio Oriente. Dror Seliktar, l'esperto di biotecnologie che ha brevettato la riproduzione di tessuto umano attraverso l'idrogel, racconterà le sue recenti scoperte; al pioniere degli studi sulla rigenerazione dei tessuti, è stato assegnato il Premio Rita Levi-Montalcini per la cooperazione scientifica tra Italia e Israele nel 2017. Uno dei settori in cui Israele esprime una straordinaria dinamicità è quello della gastronomia: nel paese, soprattutto a Gerusalemme, confluiscono culture e sapori tradizionali, che l'alta cucina cerca di sintetizzare per esprimere contemporaneamente tutte le anime del Paese. Lo chef del ristorante Arcadia di Gerusalemme Ezra Kedem dialogherà con la storyteller e critica gastronomica Eleonora Cozzella sulla cucina come forma di comunicazione, tra tradizione e innovazione. Israele sarà poi il case study di Adaptation, la piattaforma digitale integrata sul cambiamento climatico, ideata dal giornalista scientifico Marco Merola, che insieme ad Aaron Fait, ricercatore della Ben Gurion University, spiegherà come affinare le capacità di adattarsi al cambiamento.
(Il Secolo XIX, 24 ottobre 2018)
Roma - In Sinagoga la visita del Ministro Tria
Il Ministro dell'Economia e delle Finanze Giovanni Tria ha incontrato ieri il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e la presidente della comunità romana Ruth Dureghello, È stata anche l'occasione per una visita al Tempio Maggiore e al Museo Ebraico di Roma.
(Il Messaggero, 24 ottobre 2018)
Missione sanità. Visita di Gallera in Israele su innovazione e presa in carico
L'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, si trova da ieri in Israele per una missione istituzionale. Durante il viaggio visiterà i principali ospedali israeliani e alcuni dei più importanti centri per l'innovazione nel campo della cura e dell'assistenza sanitaria. Oggi per l'assessore è prevista una visita all'Israel Export Institute, specializzato in Digital Health e Telemedicina. Poi si recherà allo Sheba Medicai Center e all'Assunta Ashdod Medicai Center con focus su gestione ospedaliera, riabilitazione dei pazienti cronici e digita! health per la gestione dei dati sensibili tra paziente e ospedale. Il programma comprende inoltre la visita di centri altamente specializzati in homecare, pain management e health monitoring. Venerdì Gallera incontrerà anche l'ambasciatore italiano a Tel Aviv, mentre domenica sarà a colloquio con il ministro della Salute israeliano.
(il Giornale - Milano, 24 ottobre 2018)
Carlo Benigni eletto presidente nazionale dell'Unione di Associazioni pro Israele
"Il nostro primo obiettivo è di promuovere un'informazione corretta sugli scenari politici del Medio Oriente e sulla posizione di Israele"
Il cuneese Carlo Benigni è stato eletto ad incarichi di vertice, nell'ambito delle organizzazioni di amicizia con Israele, sul piano europeo e nazionale. Da oltre vent'anni è presidente dell'Associazione Italia-Israele di Cuneo, tra i cui fondatori si ricordano l'avvocato Dino Giacosa, la famiglia Cavaglion e Diego Anghilante, primo presidente. Ora fa parte del board dell'EAI (Europea Alliance for Israel) ed è presidente nazionale dell'UDAI (Unione di Associazioni pro Israele).
L'EAI - European Alliance for Israel ha sede a Zurigo e raggruppa le associazioni pro-Israele di 25 Paesi europei (per l'Italia, l'UDAI). La sua missione è di promuovere la causa dello Stato ebraico presso le istituzioni europee ed internazionali, e di creare sinergie nelle attività delle organizzazioni nazionali. Il congresso annuale si è tenuto a Varsavia dal 7 al 9 ottobre. Benigni è stato eletto nel board come rappresentante dell'Italia. Il board è composto da cinque membri (Italia, Francia, Germania, Norvegia e Romania), e dal presidente (svizzero).
UDAI (Unione di Associazioni pro Israele). Comprende le più importanti associazioni di Italia-Israele su tutto il territorio nazionale (in Piemonte: Torino, Cuneo, Alba, Asti). Il congresso annuale dell'UDAI si è tenuto a Roma dal 19 al 21 ottobre ed ha eletto Benigni presidente nazionale.
Gli abbiamo rivolto alcune domande.
- Quali sono i problemi principali da affrontare, da parte dell'EAI e dell'UDAI?
Il nostro primo obbiettivo è di promuovere un'informazione corretta sugli scenari politici del Medio Oriente e sulla posizione di Israele.
Attualmente i media italiani (quotidiani, radio, TV, social) trasmettono un'informazione costantemente prevenuta contro Israele (per i quotidiani, una felice eccezione è "La Stampa"). Le notizie sono presentate senza essere inserite nel contesto complessivo. Ad esempio: titoli frequenti sono "giovani uccisi a Gaza nel tentativo di rientrare in Israele", e tale semplicistica assertività trasmette una pessima immagine di Israele, soprattutto presso quanti non leggono la stampa ma si limitano a seguire i social ,su cui le fake news sono frequenti.
- Qual è la realtà della situazione, con particolare riferimento alle vicende di Gaza?
E' noto che:
dal 2005 Gaza è uno stato indipendente, governato con il terrore da Hamas, il cui braccio militare è classificato come organizzazione terroristica; non ha senso parlare di occupazione israeliana, in quanto nel 2005 tutti gli israeliani se ne sono andati;
nella costituzione di Gaza è dichiarato l'obiettivo di distruggere lo Stato di Israele;
Hamas destina i generosi finanziamenti internazionali non al benessere della popolazione, e allo sviluppo dell'economia e del turismo, ma per realizzare programmi di aggressione (i tunnel sotterranei per far passare i terroristi sul territorio israeliano, i razzi per colpire abitazioni e scuole nei vicini villaggi israeliani (preavviso per mettersi al riparo:15 secondi), gli aquiloni incendiari per distruggere i raccolti;
a Gaza gli omosessuali sono giustiziati, non sono rispettati i diritti civili, le donne non hanno diritti, i giovani non hanno speranze;
i bambini sono educati all'odio contro gli ebrei in quanto tali, e contro il loro Stato;
le manifestazioni di ogni venerdì sono organizzate da Hamas, che garantisce un premio in denaro alle famiglie dei giovani che pongono in essere aggressioni armate contro i militari che presidiano i confini di Israele. Hamas utilizza i civili come scudo umano; comandi militari e rampe lanciarazzi sono collocati presso scuole e ospedali.,
Peraltro, un fiancheggiamento ai terroristi si registra anche Cisgiordania, dove i "moderati" di Abu Mazen garantiscono un vitalizio alle famiglie dei terroristi uccisi ed i libri di testo nelle scuole (finanziati dall'Unione Europea) cancellano Israele dalla carta geografica e propongono una Palestina estesa dal Mediterraneo al fiume Giordano.
E' chiaro che la percezione di Israele è negativa, se l'informazione non è contestualizzata.
- Che cosa intendete fare, per essere efficacemente a fianco di Israele?
Prima di tutto, fare pressione presso le istituzioni europee ed i governi nazionali affinché si riducano i finanziamenti al governo di Gaza e all'autorità palestinese di Abu Mazen. La Cisgiordania gode di autonomia amministrativa ed elegge il suo governo; ma le ultime elezioni risalgono al 2005, e al governo è una classe dirigente di vegliardi corrotti. Motivo di speranza è che un numero crescente di giovani palestinesi guarda realisticamente ad un futuro di convivenza pacifica con i coetanei israeliani.
Purtroppo l'Europa, con l'alto commissario Federica Mogherini, è distante da Israele e vicina all'Iran, che costituisce la vera minaccia allo Stato ebraico, di cui si propone esplicitamente la distruzione. Sono in atto nuovi equilibri: da una parte i Paesi sunniti (dall'Arabia Saudita all'Egitto), dall'altra gli sciti, guidati dall'Iran. Le sanzioni economiche contro l'Iran di prossima adozione contribuiranno a mettere in crisi l'attuale dirigenza iraniana, nella quale la parte più attiva della popolazione ormai non si riconosce.
Gli Stati Uniti hanno dimezzato il loro contributo all'UNRWA , riducendolo di 360 milioni di euro. La Nazioni Unite hanno un'agenzia per i rifugiati e profughi, che si occupa di tutto il mondo, e la condizione di rifugiati o profughi dura al massimo tre anni; poi c'è l'UNRWA, costituita nel 1948.Non tutti sanno che nel 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, i paesi arabi confinanti scatenarono una guerra per distruggere lo Stato ebraico; invitarono i palestinesi residenti all'interno di Israele interno a varcare le frontiera, garantendo loro il diritto al saccheggio, una volta vinta la guerra. Peccato che la guerra la abbiano persa. Da allora, nessuno dei paesi arabi volle integrare i palestinesi, lasciandoli in condizione di isolamento. Erano circa 500.000. Oggi siamo alla quarta generazione, arrivata a circa 5 milioni, in gran parte bene integrata nell'economia della Cisgiordania. E' impensabile che Israele, che conta 8 milioni di abitanti, possa prendere in considerazione il cosiddetto "diritto al ritorno". L'UNRWA finanzia strutture palestinesi in Cisgiordania, ed i suoi operatori sono in larga parte anti-israeliani.
Nei giorni scorsi il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, del M5S, ha annunciato alla Camera che il Governo ha deciso di anticipare il finanziamento annuale italiano 2019 all'UNRWA, per circa 9 milioni di euro, ed ha deliberato altri stanziamenti a favore di Gaza (che saranno spesi in armamenti), dei profughi dalla Siria, dei rifugiati in Libano (dove il potere reale è degli Hezbollah armati dall'Iran). Un importo non lontano dai 20 milioni di euro, in un periodo in cui la finanza pubblica non appare particolarmente fiorente. La Lega del vice-presidente Salvini è favorevole a Israele, il M5S è ostile. Si tratta di vedere se la Lega vorrà o saprà correggere la rotta.
Un'altra importante iniziativa dell'UDAI è la prossima costituzione di "Avvocati per Israele", promossa da un gruppo di avvocati penalisti e di magistrati, su iniziativa del penalista albese Piermario Morra e di Donatella Masia, magistrato presso la Procura della Repubblica di Asti. L'obiettivo è di monitorare le fattispecie configuranti reati di diffamazione (ad esempio, dire a qualcuno "sporco ebreo"), avviando a titolo gratuito azioni giudiziarie in sede penale e soprattutto civile. Sarà ufficialmente presentata a Cherasco, nel prossimo gennaio, con la presenza dell'Ambasciatore di Israele Ofer Sachs.
- Quali sono i prossimi programmi dell'Associazione Italia-Israele di Cuneo?
Organizzeremo incontri, conferenze, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche.Riproporremo il corso annuale "Conoscere Israele" riservato agli studenti superiori; tenuto da docenti universitari, si svolge in quattro lezioni, cui seguono prove scritte e orali; al primo classificato (talvolta anche al secondo) è assegnato un viaggio premio in Israele. Il corso è alla XXV edizione, e sinora sono andati in Israele 40 studenti.
E' in corso un'iniziativa suscettibile di sviluppi importanti, in collaborazione con l'Unione Industriale e la Banca Alpi Marittime: una missione in Israele di nostri imprenditori per incontrare loro omologhi, precedentemente individuati come possibili partners.
(targatocn, 23 ottobre 2018)
Gaza: palloni incendiari e gas lacrimogeni, venti feriti
Incitati da Hamas, centinaia di palestinesi si sono ammassati oggi nel Nord della Striscia di Gaza - come negli scorsi lunedì - lungo i reticolati di confine con Israele, nel tentativo di forzarli.
Fonti locali riferiscono che i dimostranti hanno dato fuoco a pneumatici e hanno lanciato oggetti esplosivi verso i soldati, che hanno risposto ricorrendo a gas lacrimogeni e a spari mirati in direzione di quanti cercavano di superare la barriera di difesa.
(euronews, 24 ottobre 2018)
Israele, il "fantasma" di Shimon Peres al convegno delle start-up
A due anni dalla morte, un ologramma dell'ex presidente è stato utilizzato per l'apertura della grande iniziativa sull'innovazione tecnologica inaugurata dal premier Netanyahu.
di Vincenzo Nigro
TEL AVIV - È stato richiamato in servizio perfino Shimon Peres per confermare al mondo che la vera sfida per il futuro di Israele sarà la sua capacità di continuare a mantenere una leadership sempre più avanzata nell'innovazione, nella tecnologia, nella dimensione cyber. A due anni dalla sua morte, un ologramma del presidente è stato usato per inaugurare il convegno del Peres Center for Peace and Innovation. I parenti di Peres hanno preparato la proiezione di un discorso dell'ex presidente costruito come se venisse pronunciato adesso, rilanciando i temi che lo statista israeliano ha sempre affiancato a quelli della politica nel corso della sua vita. L'impegno per l'educazione, per l'innovazione tecnologica, per il progresso scientifico.
Peres fu il primo fra i politici israeliani a capire l'importanza della formula "Start up nation", che ha fatto diventare Israele la Silicon Valley più vicina all'Europa, nel cuore del Medio Oriente. Una dimensione scientifica ed economica che è un magnete per Israele, capace di portare al paese un grosso sostegno politico da paesi lontani come la Cina o Singapore, presenti in forze a Tel Aviv: il convegno è stato inaugurato dal premier Benjamin Netanyahu assieme al vicepresidente della Cina Wang Qishan, arrivato in Israele con una squadra di ministri e sottosegretari.
«Senza nuove tecnologie - ha detto il falso/vero Peres - ci saranno solo fame e stagnazione. Dobbiamo stare attenti: una tecnologia priva di valori sarebbe un pericolo per l'umanità. Ma valori senza tecnologia porterebbero fame e stagnazione». Il figlio di Peres, Chemi, oggi è il presidente del Centro oltre ad essere il capo di uno dei fondi Venture Capital più importanti del paese. Il messaggio che Chemi ha affidato all'ologramma del padre è quello di creare un centro che sia «una finestra sul futuro, un posto per i sogni, che esprima il desiderio di lasciare alla nuova generazione un futuro migliore e più luminoso».
Il Centro Peres per Pace e Innovazione è stato costruito a Jaffa: è un palazzo di 4 piani che documenta 100 eventi chiave nello sviluppo delle tecnologie israeliane nell'agricoltura, nella medicina, nello spazio, nella sicurezza e nell'informatica. Un piano intero è dedicato a previsioni sul futuro, con uno sguardo su "Israele fra 20 anni.
Tutto sembrerebbe terribilmente immaginifico, una poderosa operazione di propaganda, se dietro non ci fossero i risultati concreti di questi anni in cui il governo di Israele sistematicamente ha puntato sulla integrazione fra università, centri di ricerca e industria per consolidare una nuova dimensione per il paese. Nel suo intervento Netanyahu ha mostrato alcune tabelle: in una c'è un confronto fra le prime 10 aziende mondiali di 10 anni fa e di oggi. Dieci anni fa solo 4 di queste avevano un centro di ricerca e sviluppo in Israele; oggi tutte, da Amazon a Microsoft a Google hanno un loro centro di ricerca e sviluppo fra Tel Aviv e Gerusalemme.
Altri dati citati: nel settore della smart mobility, solo di recente Inter ha acquistato "Mobileye" per 15 miliardi di dollari, Google ha comprato Waze per 1 miliardo e in tutto il paese sono nate 500 aziende tutte dedicate alla smart mobility.
Al convegno oggi ha parlato anche il fondatore di Alibaba, l'Amazon cinese, che ha raccontato di aver conosciuto Peres 10 anni fa a Davos e di aver apprezzato «l'incredibile modernità di un uomo politico di un altro secolo che ha sempre ragionato con decine di anni di anticipo».
(la Repubblica, 25 ottobre 2018)
Rapporto HRW: «Anp e Hamas, abusi per zittire il dissenso»
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - «Gli arresti effettuati dalla polizia avvengono nel rispetto assoluto della legge e delle persone». Per Adnan Damairi, portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, non c'è nulla di vero nella denuncia di Human Rights Watch (Hwr) sugli arresti arbitrari, le intimidazioni e le torture praticate dall'Autorità Nazionale di Abu Mazen in Cisgiordania e dal movimento islamico Hamas a Gaza contro oppositori e giornalisti o persone comuni che esprimono opinioni critiche sui social.
A smentirlo le decine di palestinesi intervistati dal gruppo per i diritti umani che a inizio settimana ha presentato un rapporto di 149 pagine, documentando in particolare 20 casi in cui cittadini palestinesi, in Cisgiordania e Gaza, sono stati detenuti e torturati senza ragioni precise al di là della scrittura di un articolo critico delle autorità o di un post su Facebook.
Amer Balusha, ad esempio, è stato arrestato e maltrattato il 3 luglio del 2017 dalla polizia di Hamas per aver messo a confronto la condizione dei figli dei leader del movimento islamico e quella degli altri ragazzi di Gaza. «Faceva molto caldo in quei giorni, soffrivamo, e su Facebook mi sono posto la domanda se i figli dei leader locali dormivano sul pavimento come gli altri bambini». Queste poche frasi sono state sufficienti a far scattare l'arresto.
Un altro intervistato ha riferito del pestaggio compiuto da centinaia di agenti, prima nelle strade e poi nelle stazioni di polizia, dei manifestanti che circa un anno fa protestavano nei pressi della centrale elettrica della Striscia contro la mancanza a Gaza quasi totale di corrente. In Cisgiordania Jihad Barakat, un giornalista, è finito in prigione per aver scattato una foto al primo ministro Rami Hamdallah bloccato dagli israeliani a un posto di blocco. «Sono un reporter e ogni giorno riferisco ciò che i palestinesi subiscono (dall'occupazione israeliana, ndr) - ha raccontato - Il primo ministro Hamdallah aveva subito un abuso e io non ho fatto altro che filmarlo. Per quella foto sono stato detenuto per quattro giorni, prima a Tulkarem e poi a Ramallah»,
Omar Shakir, direttore dell'ufficio di Hrw nei Territori palestinesi occupati, spiega che le persone arrestate dagli agenti dell'Anp e di Hamas subiscono intimidazioni gravi, abusi e non poche volte anche torture. E a quanto pare hanno imparato bene dagli occupanti israeliani lo shabeh, una tecnica che costringe gli arrestati a sedere per molte ore in posizioni dolorose, in piedi o su sedie a misura di bambino, con le mani legate dietro la schiena o la testa.
Sami al Sai, un altro giornalista arrestato dall'Anp, è stato tenuto dal momento dell'arresto fino al mattino in queste posizioni, bendato e a tratti appeso al soffitto. Le autorità in Cisgiordania e Gaza hanno risposto al rapporto di Hrw affermando che i casi di abusi e torture sono isolati e non rappresentano il comportamento abituale delle forze di sicurezza. Per il gruppo dei diritti umani invece queste pratiche sono abituali e diffuse.
(il manifesto, 25 ottobre 2018)
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I palestinesi, da bravi arabi, torturano gli oppositori
Hamas e Anp, gli eroi della sinistra europea
di Carlo Nicolato
Se non l'avessimo letto direttamente sul loro sito non ci avremmo mai creduto. Eppure il corposo report che accusa le autorità palestinesi, che siano Al Fatah o Hamas, di torturare oppositori e dissidenti è stato redatto proprio dallo Human Rights Watch, l'organizzazione non governativa che fino a ieri aveva speso parole in esclusiva per condannare le violazioni dei diritti umani di Israele sugli stessi palestinesi. E lo facevano in modo così insistente e disonesto che solo il maggio scorso il governo di Gerusalemme si era sentito costretto a ordinare l'espulsione dal Paese del direttore della divisione locale della stessa Ong, tal Omar Shakir, americano di origini irachene, accusato tra le altre cose di appoggiare il movimento internazionale per il boicottaggio di Israele. Una strana presa di posizione per un funzionario che avrebbe dovuto essere super partes. E non è forse un caso che, via lo "sbadato" Shakir, che si occupava guarda caso anche e soprattutto degli abusi nella West Bank e a Gaza, lo Human Rights Watch ha improvvisamente scoperto che i peggiori torturatori dei palestinesi non sono gli israeliani, bensì i palestinesi stessi.
Censura
Nell'introduzione del suo rapporto si legge che «sia l'Autorità palestinese (Fatah) in Cisgiordania che il Movimento di resistenza islamica (Hamas) a Gaza hanno effettuato negli ultimi anni decine di arresti arbitrari per critiche pacifiche alle autorità, in particolare sui social media, tra giornalisti indipendenti, nei campus universitari e alle manifestazioni. Mentre la faida tra Fatah e Hamas si è approfondita nonostante i tentativi di riconcìlìazìone, i servizi di sicurezza della AP hanno preso di mira i sostenitori di Hamas e viceversa».
Ovvero la Ong accusa senza mezzi termini i regimi dell'Autorità Palestinese e di Hamas di aver «stabilito meccanismi di repressione per eliminare il dissenso, anche attraverso l'uso della tortura». Nel rapporto lo Human Rights Watch spiega di aver intervìstato 147 testimoni, inclusi ex detenuti e parenti, avvocati e rappresentanti di gruppi non governativi e di aver esaminato prove fotografiche, rapporti medici e documenti giudiziari. Insomma di non aver lasciato nulla al caso e all'interpretazione. Spiega che gli «arresti arbitrari sistematici e le torture violano i principali trattati sui diritti umani ai quali la Palestina ha recentemente aderito». Ma poi arriva il bello, perché l'HRW non si limita a denunciare, come fa il più delle volte (vedasi il recente caso sull'«approccio disumano» dell'Italia ai danni degli immigrati), ma chiede addirittura agli Usa e all'Europa di interrompere i finanziamenti ai due regimi: «L'Ue, gli Stati Uniti e altri governi che sostengono finanziariamente l'Autorità palestinese e Hamas dovrebbero sospendere gli aiuti alle unità o agenzie specifiche implicate in arresti arbitrari e torture diffusi fino a che le autorità non frenino tali pratiche e arrestino i responsabili degli abusi».
Miliardi a pioggia
Va ricordato di passaggio che gli aiuti da parte dell'Unione europea, esclusi quelli assicurati da accordi bilaterali con gli Stati membri, ammontano a 5.964 miliardi dal 2000 al 2015 e che il 43% di tale somma è stato erogato come supporto economico diretto proprio all'Autorità palestinese, mentre il resto è andato all'Unrwa e in aiuti umanitari. Ovviamente lo Human Rights Watch non dimentica Israele, ma Shawan Iabarìn, pezzo grosso della Ong, considera stavolta che «non c'è un motivo per rimanere in silenzio di fronte alla sistematica repressione del dissenso e alla tortura che le forze di sicurezza palestinesi stanno perpetrando».
(Libero, 25 ottobre 2018)
l bambino israeliano in bicicletta davanti all'incendio terroristico palestinese
La foto scattata da un amico dello stesso kibbutz si è diffusa in modo virale sui social network in Israele
Yonatan Regev, un ragazzino di 7 anni del kibbutz Mefalsim, vicino al confine con la striscia Gaza, martedì scorso stava girando in bicicletta e si è avvicinato a un incendio appiccato dall'ennesimo aerostato incendiario palestinese. Quando le fiamme si sono alzate, è tornato rapidamente indietro. Proprio in quel momento lo ha fotografato il suo amico 13enne Uriya Kabir, che vive nello stesso kibbutz. La foto, che Uriya Kabir ha postato sui social network, è stata ampiamente condivisa e si è diffusa in modo virale....
(israele.net, 25 ottobre 2018)
Skipper scomparso, il corpo ripescato ad Anzio: è giallo
Il ritrovamento su un versante opposto a quello della sua rotta, forse è caduto in mare per malore.
L'israeliano 62enne era sparito il 10 ottobre. Test dna sul cadavere
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Nessuna traccia del tender usato per raggiungere gli amici in barca
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di Anna Maria Boniello
La svolta
Colpo di scena nel giallo dello skipper 62enne scomparso nella baia di Marina Piccola a Capri nella notte tra mercoledì 10 e 11 ottobre: un corpo è riemerso ad Anzio, e potrebbe essere il suo.
L'uomo di nazionalità israeliana era in crociera nel golfo con un gruppo di persone che avevano noleggiato a Procida due imbarcazioni a vela presso la società Sail Italia, tra le compagnie più importanti per l'organizzazione di charter in barca a vela. Una gita finita tragicamente per il velista Doron Nahshoni di nazionalità israeliana, che si era allontanato a bordo del piccolo tender di tre metri per recarsi a trovare i suoi compagni di crociera che si trovavano su un'altra imbarcazione ormeggiata a qualche centinaia di metri di distanza. Da quel momento l'uomo è scomparso nel nulla e, fatto strano, non è stato neanche ritrovato né il gommone né il piccolo fuoribordo e nemmeno i remi in dotazione. Ieri improvvisamente sul web si è diffusa la notizia del ritrovamento di un cadavere a largo di Anzio, e forse potrebbe essere lui l'uomo ritrovato in mare.
L'annuncio
A lanciare la notizia sono stati due autorevoli giornali israeliani «Times of Israel» alle 16.12 ed il «The Jerusalem Post» alle 16.51. Entrambi scrivevano che: il Ministero degli Esteri Israeliano annunciava che il corpo di un uomo era stato ritrovato in acque italiane in una zona lontana da quelle in cui era scomparso all'inizio di questo mese un loro connazionale. Il Ministero, secondo il Times of Israel, comunicava anche che per scoprire l'identità dell'uomo annegato e ritrovato verrà effettuato il test del dna per verificare la sua identità e scoprire se si tratta effettivamente del 62enne scomparso nelle acque di Capri il 10 ottobre.
La mobilitazione
Quel giorno anche l'ambasciatore israeliano contribuì a far partire le ricerche a cui si aggiunsero anche gli uomini di una compagnia assicurativa israeliana «The Phoenix», Venne impegnato un largo dispiegamento di uomini con mezzi aerei e navali che hanno partecipato per ben due settimane nelle operazioni di ricerca del disperso, ispezionando tutta la costa dell'isola di Capri ed in mare aperto elicotteri, aerei e droni. Addirittura gli 007 israeliani hanno utilizzato attrezzature sonar e sub esperti per le ricerche in grotte marine. È la prima volta a memoria dei marinai di Marina Grande che tante unità navali, aree e moderne tecnologie vengono impiegate per ricercare un disperso. Ma - giallo nel giallo - ora viene ritrovato un cadavere e per risalire alla sua identità bisogna ricorrere all'esame del dna. Il corpo è in fase di decomposizione, e nemmeno un frammento del tender che sembra svanito nel nulla è stato ritrovato lungo quei 240 km di distanza tra Capri ed Anzio e 150 miglia di navigazione. Ma agli appassionati del mistero non è sfuggito un altro particolare. Le barche che ormeggiavano a Marina Piccola, con a bordo un equipaggio di dodici persone di cui sei affette da piccole disabilità e sei accompagnatori, con condizioni meteomarine ottime si trovavano nel versante sud dell'isola, ovvero sulla rotta che conduce a Positano ed Amalfi e cioè nel golfo di Salerno. Il corpo dell'uomo che potrebbe essere lo skipper israeliano è stato ritrovato ad Anzio, sul versante nord, opposto a quello da cui era partito, cioè nel golfo di Napoli sulla rotta di Ischia, Ventotene, Ponza ed Anzio. In un tratto di mare di fronte a quello di partenza e in acque avventurose dove è difficile navigare con un piccolo tender.
L'ipotesi
Secondo alcune ricostruzioni l'ingegnere velista potrebbe essere arrivato a Marina Grande verso la punta di Tiberio che si trova in zona nord, e poi forse preso da un malore la sua piccola imbarcazione ha continuato il percorso spinta dalle correnti che in quel tratto di mare sono abbastanza potenti, tanto da trascinare il suo corpo in alto mare sino di Anzio. Ma fino a quando non si risalirà alla sua identità attraverso l'esame del dna, tutto ciò resta solamente un ipotesi, anche se le fonti israeliane danno quasi per certo che il cadavere ripescato ad Anzio sia proprio quello di Doron Nahshoni.
(Il Mattino, 25 ottobre 2018)
Potenziata la centrale elettrica di Gaza
GERUSALEMME - La seconda turbina della centrale elettrica a Gaza è entrata in funzione, producendo 52 megawatt di elettricità. Lo ha annunciato sul profilo Twitter ufficiale il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. L'entrata in funzione della seconda turbina "allevierà la sofferenza di 2 milioni di palestinesi", ha spiegato Mladenov. In tal modo, la centrale elettrica dell'enclave palestinese produrrà complessivamente 172 megawatt, "la produzione massima dal 21 gennaio 2018", ha concluso Mladenov. Intanto il 24 ottobre è ripresa, dopo un blocco di una settimana, la consegna di carburante finanziato dal Qatar nella Striscia di Gaza. Il carburante serve ad alimentare l'unica centrale elettrica dell'enclave palestinese, amministrata dal movimento Hamas dal 2007. La consegna di carburante era stata sospesa la scorsa settimana dalle autorità israeliane a causa dell'escalation di tensione lungo la barriera difensiva tra Gaza e Israele e per il lancio di alcuni razzi dall'enclave sullo Stato ebraico.
(Agenzia Nova, 25 ottobre 2018)
Storia della comunità ebraica di Sciacca
di Elio Di Bella
Sciacca nel passato ebbe non solo contatti con gli ebrei, ma un numeroso gruppo si stabilì nel suo territorio. La parola ebreo a Sciacca suona nel senso di "uomo senza cuore", "nemico di Dio e dell'umanità", "portatore di rovine". Si ricorda che quando il popolo si raccoglieva nell'atrio del monastero delle Giummarre per festeggiare la domenica delle Palme, la badessa del monastero, nel dare l'indicazione che ognuno poteva prendere i rami d'olivo legati al ceppo della croce, sporgendosi della grande finestra centrale della facciata della chiesa, gridava: "popolo ebreo assalite le palme".
La gente si scatenava e si assisteva ad uno spettacolo indecoroso che finiva in baruffa e percosse e qualche volta col sangue.
La Giudecca di Sciacca era assai numerosa. Si parla degli ebrei fin dal 1295: quando il carmelitano Sant'Alberto passando per questa città ne convertì un buon numero alla fede cattolica. Si parla degli ebrei nelle antiche consuetudini: i cristiani non potevano sedersi a mezza con essi, accompagnarsi con loro a diporto; chi aveva rapporti intimi era considerato come fedifrago o ribelle spudorato. Trattandosi dell'uso dei bagni termali è detto che il venerdì di settimana era destinato per i soli ebrei, i quali non potevano bagnarsi che in questo solo giorno.
La Giudecca di Sciacca era elencata per importanza immediatamente dopo quella di Palermo, e in Sicilia, era la principale. Infatti in un donativo offerto da re Alfonso, dopo quelli di Giudea e di Palermo, che sono tassati per onze 37, vengono quelli di Sciacca che lo sono per onze 18. La comunità ebrea di Sciacca era assai numerosa; estesissimo era il ghetto che formava un vero sobborgo ed era detto della Cadda, sito nell'attuale quartiere Cittadella, in cui centro era il cortile Cattano e si estendeva fino alle mura di Vega e propriamente nel sito Santa Venera, dove, in una grotta, vi era la cosiddetta Mosche (Sinagoga) dove rabbini ammazzavano gli animali e circoncidevano bambini.
Aveva un cimitero assai spazioso sito sulla rocca San Paolo, nei pressi dell'attuale porto. Gli ebrei di Sciacca facevano tutti i mestieri, compreso quello degli accattoni; il commercio è la loro massima occupazione. Nell'archivio notarile saccense si trovano delle contrattazioni siglate firmate in ebraico. Il vescovo Bartolomeo Lagumina di Agrigento, provetto numismatico ed insigne paleografo, che può dirsi il creatore della storia dell'ebraismo in Sicilia, decifrò queste scritture e le dichiarò di valore inestimabile; egli scrisse il "Codice diplomatico dei Giudei in Sicilia" dove ci fa vedere la storia delle Giudecche, che esistevano oltre Sciacca, ad Agrigento, Naro, Licata, Bivona e altrove nella nostra provincia e anche a Salemi e a Trapani.
Le comunità ebree di Sciacca ebbero diverse sinagoghe: una era sita vicino l'attuale Porta Palermo sul lato ovest, l'altra nella via Cittadella nei pressi del cortile Cattano, ora casa del fu Cav. Saverio Gallo. In un angolo esterno di questa si scorgono in alto due sporgenze in pietra viva che portano due fiori ove gli ebrei mettevano l'asta del loro vessillo che esponevano in certe solennità.
Altra sinagoga sorgeva nei pressi della chiesa di San Leonardo nello stesso luogo ove sorgeva un tempio pagano dedicato a Mercurio che fu usato prima dai Saraceni; in loro omaggio gli ebrei chiamarono questa sinagoga moschea (vedi: Ciaccio: "Sciacca- Notizie storiche e documenti", Vol.I pagg. 147-154).
Gli ebrei avevano a Sciacca sacerdoti propri detti Cassen o Hassen, i Rabini, i giudici Spirituali, i Maniglori detti anche Sagrestani. Portavano come distintivo una rotella rossa che fu imposta da Federico III con la costituzione del 12 ottobre 1366; le donne portavano questa rotella rossa sul manto. Gli ebrei a Sciacca godettero di molti privilegi; seppero imporsi presso la corte tanto che re Martino nel 1399 li volle proteggere con un decreto che puniva di lesa maestà coloro che li offendevano; ai quaresimalisti della matrice venne imposto di non inveire contro gli ebrei specialmente nella settimana Santa e per tale disposizione ottennero due rescritti del Viceré: uno del 16 marzo 1486 e l'altro del marzo dell'anno seguente.
Gli ebrei facevano guardia notturna alle mura della città di Sciacca, ma poiché questo servizio era assai gravoso ne furono esentati dal re Martino con rescritto del 28 dicembre 1398.
Ma gli ebrei abusarono delle indulgenze ottenute, diventarono grandi usurai, si macchiarono di nefandi delitti, tanto che diventarono esosi a tutta la Sicilia ed in vari punti avvennero dei tumulti di eccezionale gravità.
A prevenire mali maggiori, Ferdinando il cattolico volle sfrattarli e sebbene gli fosse stato offerto un donativo di 3000 monete d'oro per non essere molestati, il re tenne duro ed emanò il decreto firmato in Granada il 30 gennaio 1492 che fu reso pubblico a Sciacca il 18 giugno dello stesso anno, nella solennità della festa di San Calogero, patrono della città di Sciacca e grande fu la gioia del popolo.
Nel 1492 l'espulsione degli ebrei si compì. Così il sobborgo della Cadda, già ghetto di Sciacca passò in potere dei cristiani che cominciarono ad abitarlo. Da quell'epoca gli ebrei non misero più piede Sciacca.
Quasi analoga è la leggenda intorno agli ebrei in tutti i centri dell'isola e dovunque ormai, quasi cancellati dal tempo, affiorano i ricordi che spesso si manifestano nel resti di loro costruzioni. A Salemi per esempio, una via chiamata Judeca (Giudecca) e le porte di accesso e fabbricati sono tuttora conservati secondo le usanze ebraiche.
- Tratto da Giornale di Sicilia, 9 luglio 1955)
(Agrigento Ieri e Oggi, 25 ottobre 2018)
Un accordo dimezzato
Il re di Giordania ci insegna perché in Medio Oriente non bisogna confondere gli accordi con la pace vera.
di Ugo Volli
Giordania e Israele. Una piccola notizia uscita nei giorni scorsi e riportata con scarso rilievo sulla stampa internazionale (in Italia credo solo sul "Corriere" e "La Stampa") merita una riflessione. Riporto qui parte dell'articolo della "Stampa":
"Re Abdullah di Giordania ha annunciato che non rinnoverà parte del trattato di pace firmato con Israele nei 1994. I punti in questione sono due disposizioni annesse che cedevano per 25 anni allo Stato ebraico i villaggi di AlBaqoura, nel Nord della Valle del Giordano, e di Al-Ghumar, vicino al Golfo di Aqaba. [
] La disdetta di Amman riguarda l'affitto (di 25 anni) di due aree agricole di confine tra Giordania e Israele: la prima (Baqura, in arabo, Naharaym in ebraico) si trova a Sud del Lago di Tiberiade, nel Nord. Proprio qui nel 1997 si consumò un feroce attentato ad opera di un soldato giordano che sparò su un gruppo di studentesse israeliane uccidendone sette. Fu lo stesso re Hussein (padre di Abdallah) a recarsi in Israele per porgere le proprie condoglianze ai familiari. La seconda area - alGhamr in arabo, Zofar in ebraico - si trova a Sud nel deserto del Neghev."
Le due aree non hanno grande importanza strategica, sono due territori abbastanza piccoli, conquistati dall'esercito israeliano nel '67 al di là della delimitazione geografica che è stata presa come base del confine fra Israele e Giordania, per esempio per quanto riguarda la prima località al di là di un'ansa particolarmente profonda del Giordano. Erano territori coltivati e valorizzati da Israele e al momento dell'accordo di pace furono oggetto di un compromesso: per rispettare la linea geografica Israele rinunciò alla sovranità e in cambio la Giordania accetto di mantenere le piantagioni israeliane in cambio di un affitto. Il trattato ha una scadenza di 25 anni e Abdullah, sottoposto a una forte pressione da parte della parte più tradizionalista e dunque islamista della popolazione, da un lato, e dall'altro di una maggioranza che si identifica come "palestinese", ha annunciato che non rinnoverà questa clausola.
Per Israele quel che conta è il trattato in sé, il secondo trattato di pace con un paese arabo dopo quello con l'Egitto e dunque il suo rinnovo nonostante l'orientamento massicciamente antisraeliano della popolazione giordana è una buona notizia, del resto non inaspettata, perché Israele ha bisogno certamente del regno hashemita per la propria sicurezza sul lungo confine orientale: se esso fosse infiltrato dai terroristi dell'Isis o da quelli controllati dall'Iran come in Libano e in Siria, la situazione diverrebbe molto preoccupante. Ma soprattutto la dinastia giordana ha bisogno di Israele che in molte occasioni l'ha protetta da colpi di stato e tentativi di eversione.
E però la cessazione dell'affitto delle due aree giordane costituisce un precedente importante e allarmante per due ragioni. La prima è che si dimostra che per quanto riguarda Israele gli accordi di pace, anche i più celebrati e apparentemente solidi, non reggono alla pressione islamista. Lo si era visto con gli accordi di Oslo, che l'Autorità Palestinese viola ogni giorno appoggiando il terrorismo. Di nuovo questa fragilità era emersa durante il breve e sfortunato governo dell'Egitto da parte della Fratellanza Musulmana, quando il presidente d'allora, Morsi, aveva stracciato l'accordo per la fornitura di gas a Israele e fatto intendere che presto e volentieri avrebbe fatto altrettanto con la pace firmata da Sadat. E' emerso di nuovo ora: non ci si può davvero fidare dell'interesse dei governi che fanno accordi con Israele e allo stesso tempo incitano la popolazione all'odio con la scuola e i media. Alla fine questa pressione dovuta al lavaggio del cervello antisraeliano prevale anche sull'interesse geopolitico del paese.
La seconda ragione di inquietudine è questa. Coloro che elaborano piani di pace fra Israele e l'Autorità Palestinese spesso pensano di risolvere problemi controversi con una formula simile a quella usata con la Giordania, per esempio propongono di conciliare la pretesa della sovranità dei palestinisti su tutta la Giudea e Samaria con la vitale necessità di Israele di mantenere il controllo del confine sul Giordano e di alcuni punti dominanti delle montagne con un lungo affitto di queste aree cruciali. In teoria esse sarebbero assegnate agli arabi, ma in pratica e in cambio di compensazioni economiche sarebbero sotto il controllo israeliano. La scelta di Abdullah mostra che questa impostazione non funziona e anche nel caso migliore dura solo fino alla prima scadenza utile, dopo di che il problema si ripropone.
Un accordo di pace ai vertici non trasforma le masse arabe indottrinate in forze ragionevoli e desiderose di convivere. E un affitto non spegne le rivendicazioni, al contrario dà loro una ragione per riaccendersi. Insomma, anche se alla fine il trattato con la Giordania terrà, quel che esce da questa notizia è un ammonimento al realismo. Purtroppo la pace non è affatto vicina in Medio Oriente e può diventare concreta solo con un completo riorientamento dell'opinione pubblica araba, di cui per ora non si vedono le tracce.
(Progetto Dreyfus, 23 ottobre 2018)
"I sionisti cristiani non appartengono al cristianesimo", secondo un leader cristiano palestinese
"Gli evangelici cristiani sono dei pulpiti al servizio dell'impresa sionista. Sono nemici dei valori cristiani", ha detto l'arcivescovo della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme. "Non appartengono al cristianesimo, non hanno alcun legame con i valori del cristianesimo.
Dal quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese, Al-Hayat Al-Jadida, 24 settembre 2018:
"Il capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, l'arcivescovo Atallah Hanna, ha affermato che né il dizionario cristiano né il dizionario della chiesa contengono qualcosa chiamato "cristiani evangelici "o "cristiani sionisti". Ha poi aggiunto: "I suddetti non appartengono affatto al cristianesimo, non hanno alcun legame con i valori del cristianesimo e con i principi evangelici che accentuano sempre l'identificazione con i miseri e derelitti del mondo. Sono più vicini all'ebraismo e al sionismo e non hanno alcun collegamento con il cristianesimo".
L'arcivescovo Hanna ha detto inoltre: "Gli evangelici cristiani sono come pulpiti al servizio dell'impresa sionista. Sono nemici dei valori cristiani, e quando vengono in Palestina non visitano la Chiesa del Santo Sepolcro e la Chiesa della Natività, ma preferiscono le colonie situate sulle terre rubate al nostro popolo, in segno di solidarietà con l'occupazione.
(Palestinian Media Watch, 24 ottobre 2018)
Israele, la nazione delle start-up
A Genova una ventina di scienziati provenienti dai maggiori istituti di ricerca e università. Agricoltura, medicina, robotica e matematica sono fra i campi al centro di studi e scoperte.
di Ariela Piattelli
Se c'è un Paese che può meglio riassumere il tema del Festival della Scienza di Genova, ovvero i cambiamenti, questo è Israele. In soli 70 anni di storia, trasformando il deserto del Negev e le dune di Tel Aviv nella Start-Up Nation, Israele è diventato l'avamposto della ricerca, del progresso scientifico e dell'innovazione tecnologica dove lo slancio verso il futuro è inarrestabile.
Per questo il Festival della Scienza lo ha scelto come Paese ospite, e arriveranno oltre 20 scienziati provenienti dai più prestigiosi istituti e università, protagonisti di studi e scoperte nel campo dell'agricoltura, medicina, robotica, matematica e molto altro.
Ad inaugurare il ciclo di conferenze, animate dal confronto tra gli israeliani e i loro colleghi italiani, è Re'em Sari, professore al Center for Astrophysics and Planetary Science del Racah Institute of Physics dellaHe brew University di Gerusalemme (l'università fondata da Albert Einstein, per intenderci), che guiderà il pubblico in un avvincente viaggio nei misteri dei "mostri della nostra galassia", ovvero i buchi neri. Il futuro, quello di internet, con i suoi rischi e le sue potenzialità, è il tema dell'intervento di Menny Barzilay, esperto di cyber-security.
Sempre di cyber security e intelligenza artificiale parla l'imprenditore Nimrod Kozlowski, che spiega come i computer potranno a breve predire i comportamenti umani.
Dal Weizmann Institute, tra i centri di ricerca più prestigiosi al mondo dal quale sono usciti diversi Premi Nobel, arrivano l'immunologo Liran Shlush, che interviene sulla possibilità di diagnosticare in anticipo la leucemia, e la biologa italo - israeliana Lia Addadi. Progresso e cooperazione scientifica sono gli argomenti di alcuni incontri, uno dei più promettenti quello tra il direttore scientifico Giorgio Paolucci con l'israeliano Roy Beck-Barkai e l'egiziana Gihan Kamel, unica donna ricercatrice del Sesame, il primo acceleratore di particelle del Medio Oriente. Dror Seliktar, l'esperto di biotecnologie che ha brevettato la riproduzione di tessuto umano attraverso l'idrogel, racconterà le sue recenti scoperte; al pioniere degli studi sulla rigenerazione dei tessuti, è stato assegnato il Premio Rita Levi-Montalcini per la cooperazione scientifica tra Italia e Israele nel 2017. Uno dei settori in cui Israele esprime una straordinaria dinamicità è quello della gastronomia: nel paese, soprattutto a Gerusalemme, confluiscono culture e sapori tradizionali, che l'alta cucina cerca di sintetizzare per esprimere contemporaneamente tutte le anime del Paese. Lo chef del ristorante Arcadia di Gerusalemme Ezra Kedem dialogherà con la storyteller e critica gastronomica Eleonora Cozzella sulla cucina come forma di comunicazione, tra tradizione e innovazione. Israele sarà poi il case study di Adaptation, la piattaforma digitale integrata sul cambiamento climatico, ideata dal giornalista scientifico Marco Merola, che insieme ad Aaron Fait, ricercatore della Ben Gurion University, spiegherà come affinare le capacità di adattarsi al cambiamento.
(Il Secolo XIX, 24 ottobre 2018)
Roma - In Sinagoga la visita del Ministro Tria
Il Ministro dell'Economia e delle Finanze Giovanni Tria ha incontrato ieri il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e la presidente della comunità romana Ruth Dureghello, È stata anche l'occasione per una visita al Tempio Maggiore e al Museo Ebraico di Roma.
(Il Messaggero, 24 ottobre 2018)
Missione sanità. Visita di Gallera in Israele su innovazione e presa in carico
L'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, si trova da ieri in Israele per una missione istituzionale. Durante il viaggio visiterà i principali ospedali israeliani e alcuni dei più importanti centri per l'innovazione nel campo della cura e dell'assistenza sanitaria. Oggi per l'assessore è prevista una visita all'Israel Export Institute, specializzato in Digital Health e Telemedicina. Poi si recherà allo Sheba Medicai Center e all'Assunta Ashdod Medicai Center con focus su gestione ospedaliera, riabilitazione dei pazienti cronici e digita! health per la gestione dei dati sensibili tra paziente e ospedale. Il programma comprende inoltre la visita di centri altamente specializzati in homecare, pain management e health monitoring. Venerdì Gallera incontrerà anche l'ambasciatore italiano a Tel Aviv, mentre domenica sarà a colloquio con il ministro della Salute israeliano.
(il Giornale - Milano, 24 ottobre 2018)
Carlo Benigni eletto presidente nazionale dell'Unione di Associazioni pro Israele
"Il nostro primo obiettivo è di promuovere un'informazione corretta sugli scenari politici del Medio Oriente e sulla posizione di Israele"
Il cuneese Carlo Benigni è stato eletto ad incarichi di vertice, nell'ambito delle organizzazioni di amicizia con Israele, sul piano europeo e nazionale. Da oltre vent'anni è presidente dell'Associazione Italia-Israele di Cuneo, tra i cui fondatori si ricordano l'avvocato Dino Giacosa, la famiglia Cavaglion e Diego Anghilante, primo presidente. Ora fa parte del board dell'EAI (Europea Alliance for Israel) ed è presidente nazionale dell'UDAI (Unione di Associazioni pro Israele).
L'EAI - European Alliance for Israel ha sede a Zurigo e raggruppa le associazioni pro-Israele di 25 Paesi europei (per l'Italia, l'UDAI). La sua missione è di promuovere la causa dello Stato ebraico presso le istituzioni europee ed internazionali, e di creare sinergie nelle attività delle organizzazioni nazionali. Il congresso annuale si è tenuto a Varsavia dal 7 al 9 ottobre. Benigni è stato eletto nel board come rappresentante dell'Italia. Il board è composto da cinque membri (Italia, Francia, Germania, Norvegia e Romania), e dal presidente (svizzero).
UDAI (Unione di Associazioni pro Israele). Comprende le più importanti associazioni di Italia-Israele su tutto il territorio nazionale (in Piemonte: Torino, Cuneo, Alba, Asti). Il congresso annuale dell'UDAI si è tenuto a Roma dal 19 al 21 ottobre ed ha eletto Benigni presidente nazionale.
Gli abbiamo rivolto alcune domande.
- Quali sono i problemi principali da affrontare, da parte dell'EAI e dell'UDAI?
Il nostro primo obbiettivo è di promuovere un'informazione corretta sugli scenari politici del Medio Oriente e sulla posizione di Israele.
Attualmente i media italiani (quotidiani, radio, TV, social) trasmettono un'informazione costantemente prevenuta contro Israele (per i quotidiani, una felice eccezione è "La Stampa"). Le notizie sono presentate senza essere inserite nel contesto complessivo. Ad esempio: titoli frequenti sono "giovani uccisi a Gaza nel tentativo di rientrare in Israele", e tale semplicistica assertività trasmette una pessima immagine di Israele, soprattutto presso quanti non leggono la stampa ma si limitano a seguire i social ,su cui le fake news sono frequenti.
- Qual è la realtà della situazione, con particolare riferimento alle vicende di Gaza?
E' noto che:
dal 2005 Gaza è uno stato indipendente, governato con il terrore da Hamas, il cui braccio militare è classificato come organizzazione terroristica; non ha senso parlare di occupazione israeliana, in quanto nel 2005 tutti gli israeliani se ne sono andati;
nella costituzione di Gaza è dichiarato l'obiettivo di distruggere lo Stato di Israele;
Hamas destina i generosi finanziamenti internazionali non al benessere della popolazione, e allo sviluppo dell'economia e del turismo, ma per realizzare programmi di aggressione (i tunnel sotterranei per far passare i terroristi sul territorio israeliano, i razzi per colpire abitazioni e scuole nei vicini villaggi israeliani (preavviso per mettersi al riparo:15 secondi), gli aquiloni incendiari per distruggere i raccolti;
a Gaza gli omosessuali sono giustiziati, non sono rispettati i diritti civili, le donne non hanno diritti, i giovani non hanno speranze;
i bambini sono educati all'odio contro gli ebrei in quanto tali, e contro il loro Stato;
le manifestazioni di ogni venerdì sono organizzate da Hamas, che garantisce un premio in denaro alle famiglie dei giovani che pongono in essere aggressioni armate contro i militari che presidiano i confini di Israele. Hamas utilizza i civili come scudo umano; comandi militari e rampe lanciarazzi sono collocati presso scuole e ospedali.,
Peraltro, un fiancheggiamento ai terroristi si registra anche Cisgiordania, dove i "moderati" di Abu Mazen garantiscono un vitalizio alle famiglie dei terroristi uccisi ed i libri di testo nelle scuole (finanziati dall'Unione Europea) cancellano Israele dalla carta geografica e propongono una Palestina estesa dal Mediterraneo al fiume Giordano.
E' chiaro che la percezione di Israele è negativa, se l'informazione non è contestualizzata.
- Che cosa intendete fare, per essere efficacemente a fianco di Israele?
Prima di tutto, fare pressione presso le istituzioni europee ed i governi nazionali affinché si riducano i finanziamenti al governo di Gaza e all'autorità palestinese di Abu Mazen. La Cisgiordania gode di autonomia amministrativa ed elegge il suo governo; ma le ultime elezioni risalgono al 2005, e al governo è una classe dirigente di vegliardi corrotti. Motivo di speranza è che un numero crescente di giovani palestinesi guarda realisticamente ad un futuro di convivenza pacifica con i coetanei israeliani.
Purtroppo l'Europa, con l'alto commissario Federica Mogherini, è distante da Israele e vicina all'Iran, che costituisce la vera minaccia allo Stato ebraico, di cui si propone esplicitamente la distruzione. Sono in atto nuovi equilibri: da una parte i Paesi sunniti (dall'Arabia Saudita all'Egitto), dall'altra gli sciti, guidati dall'Iran. Le sanzioni economiche contro l'Iran di prossima adozione contribuiranno a mettere in crisi l'attuale dirigenza iraniana, nella quale la parte più attiva della popolazione ormai non si riconosce.
Gli Stati Uniti hanno dimezzato il loro contributo all'UNRWA , riducendolo di 360 milioni di euro. La Nazioni Unite hanno un'agenzia per i rifugiati e profughi, che si occupa di tutto il mondo, e la condizione di rifugiati o profughi dura al massimo tre anni; poi c'è l'UNRWA, costituita nel 1948.Non tutti sanno che nel 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, i paesi arabi confinanti scatenarono una guerra per distruggere lo Stato ebraico; invitarono i palestinesi residenti all'interno di Israele interno a varcare le frontiera, garantendo loro il diritto al saccheggio, una volta vinta la guerra. Peccato che la guerra la abbiano persa. Da allora, nessuno dei paesi arabi volle integrare i palestinesi, lasciandoli in condizione di isolamento. Erano circa 500.000. Oggi siamo alla quarta generazione, arrivata a circa 5 milioni, in gran parte bene integrata nell'economia della Cisgiordania. E' impensabile che Israele, che conta 8 milioni di abitanti, possa prendere in considerazione il cosiddetto "diritto al ritorno". L'UNRWA finanzia strutture palestinesi in Cisgiordania, ed i suoi operatori sono in larga parte anti-israeliani.
Nei giorni scorsi il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, del M5S, ha annunciato alla Camera che il Governo ha deciso di anticipare il finanziamento annuale italiano 2019 all'UNRWA, per circa 9 milioni di euro, ed ha deliberato altri stanziamenti a favore di Gaza (che saranno spesi in armamenti), dei profughi dalla Siria, dei rifugiati in Libano (dove il potere reale è degli Hezbollah armati dall'Iran). Un importo non lontano dai 20 milioni di euro, in un periodo in cui la finanza pubblica non appare particolarmente fiorente. La Lega del vice-presidente Salvini è favorevole a Israele, il M5S è ostile. Si tratta di vedere se la Lega vorrà o saprà correggere la rotta.
Un'altra importante iniziativa dell'UDAI è la prossima costituzione di "Avvocati per Israele", promossa da un gruppo di avvocati penalisti e di magistrati, su iniziativa del penalista albese Piermario Morra e di Donatella Masia, magistrato presso la Procura della Repubblica di Asti. L'obiettivo è di monitorare le fattispecie configuranti reati di diffamazione (ad esempio, dire a qualcuno "sporco ebreo"), avviando a titolo gratuito azioni giudiziarie in sede penale e soprattutto civile. Sarà ufficialmente presentata a Cherasco, nel prossimo gennaio, con la presenza dell'Ambasciatore di Israele Ofer Sachs.
- Quali sono i prossimi programmi dell'Associazione Italia-Israele di Cuneo?
Organizzeremo incontri, conferenze, presentazioni di libri, rassegne cinematografiche.Riproporremo il corso annuale "Conoscere Israele" riservato agli studenti superiori; tenuto da docenti universitari, si svolge in quattro lezioni, cui seguono prove scritte e orali; al primo classificato (talvolta anche al secondo) è assegnato un viaggio premio in Israele. Il corso è alla XXV edizione, e sinora sono andati in Israele 40 studenti.
E' in corso un'iniziativa suscettibile di sviluppi importanti, in collaborazione con l'Unione Industriale e la Banca Alpi Marittime: una missione in Israele di nostri imprenditori per incontrare loro omologhi, precedentemente individuati come possibili partners.
(targatocn, 23 ottobre 2018)
Gaza: palloni incendiari e gas lacrimogeni, venti feriti
Incitati da Hamas, centinaia di palestinesi si sono ammassati oggi nel Nord della Striscia di Gaza - come negli scorsi lunedì - lungo i reticolati di confine con Israele, nel tentativo di forzarli.
Fonti locali riferiscono che i dimostranti hanno dato fuoco a pneumatici e hanno lanciato oggetti esplosivi verso i soldati, che hanno risposto ricorrendo a gas lacrimogeni e a spari mirati in direzione di quanti cercavano di superare la barriera di difesa.
(euronews, 24 ottobre 2018)
Diritti umani violati: Anp e hamas reprimono il dissenso con arresti e torture
di Giacomo Kahn
L'Autorità nazionale palestinese, guidata da al-Fatah in Cisgiordania, ed il regime instaurato da Hamas a Gaza ''ricorrono di norma ad arresti e torture nei confronti di quanti li criticano e degli oppositori'' all'interno delle aree da loro gestite. La ''repressione del dissenso'' e' cresciuta negli ultimi anni in parallelo con l'approfondirsi della frattura politica fra al-Fatah e Hamas. Lo afferma la Ong Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto di 150 pagine divulgato oggi, intitolato: 'Due autorità, un'unica strada, zero dissenso: arresti arbitrari e tortura nell'Autorità palestinese e sotto Hamas'. ''Venticinque anni dopo gli accordi di Oslo (fra Olp e Israele, ndr) le autorità palestinesi hanno ottenuto solo un potere limitato in Cisgiordania e a Gaza; ma dove hanno autonomia hanno sviluppato in parallelo Stati di polizia'' scrive Tom Porteous, un dirigente di Hrw. ''Appelli a funzionari palestinesi affinché rispettino i diritti dei palestinesi risuonano a vuoto mentre essi reprimono il dissenso''. L'ong ha intervistato 147 testimoni, tra cui ex detenuti e i loro parenti, avvocati e rappresentanti di gruppi non governativi, raccogliendo prove fotografiche, rapporti medici e documenti legali che dimostrano questi abusi, sottolineando che solo pochi ufficiali della sicurezza sono stati processati e nessuno è stato condannato. Stando al rapporto, tra gennaio 2017 e agosto 2018 sono 221 i palestinesi detenuti per periodi di varia lunghezza senza accusa e senza processo, mentre a Gaza le autorità di Hamas talvolta spingono i detenuti a firmare un impegno a non protestare più in cambio del rilascio.
Il rapporto sottolinea che la sistematica pratica della tortura da parte delle autorità palestinesi può essere considerata un crimine contro l'umanità perseguibile dalla Corte penale internazionale, ricordando che gli Usa e gli Stati dell'Ue forniscono supporto alle forze di sicurezza dell'Anp, mentre il Qatar, l'Iran e la Turchia supportano finanziariamente Hamas. "Tutti questi paesi dovrebbero sospendere l'assistenza ad agenzie che torturano abitualmente i dissidenti, tra cui i servizi di intelligence, la sicurezza preventiva e il comitato di sicurezza congiunto per l'Anp e la sicurezza interna per Hamas, almeno fino a che continueranno le torture sistematiche e altri gravi abusi", si legge nel rapporto.
(Shalom, 23 ottobre 2018)
Israele, creata una "coalizione internazionale" per la protezione del settore informatico
GERUSALEMME - La piattaforma israeliana per la sicurezza cibernetica Team8 ha raccolto 85 milioni di dollari in un fondo e ha formato una coalizione internazionale per migliorare la sicurezza informatica. Lo riferisce oggi il sito d'informazione economica israeliano "Globes". Tra i membri della "coalizione" vi sono Walmart, Airbus, Softbank, Moody's, Dimension Data, Munich Re, Scotiabank, Barclays. Presenti anche i precedenti investitori all'interno della piattaforma, tra cui M-12, venture capital di Microsoft, Cisco Investments, Nokia, Bessemer Venture Partners, Temasek e Innovation Endeavors. Ogni nuovo investitore ha messo nel fondo una cifra compresa fra i 5 e i 10 milioni di dollari. Le aziende entrate a far parte del progetto appartengono ai settori della finanza, della tecnologia, del commercio, dell'aerospazio e assicurativo. La coalizione considera il settore cibernetico come un catalizzatore per la crescita anziché un meccanismo di difesa e si sforza di costruire un'infrastruttura che sia resiliente agli attacchi, invece che richiedere ulteriori livelli di sicurezza. Per la coalizione, la scienza dei dati è un fattore chiave per la crescita del business.
(Agenzia Nova, 23 ottobre 2018)
Ecco le spie Hezbollah. Quelle che l'Onu non trova
Attento che gli Hezbollah ti spiano. Una rete capillare, punti di osservazione camuffati, una fitta serie di postazioni che monitorano ogni mossa dell'Idf, ogni sposamento minimo di soldati lungo il confine tra Israele e Libano. Analogamente ai cinque posti di osservazione scoperti dall'Idf l'anno scorso, è stato individuato un sesto punto situato nel villaggio di Al-Adisa di fronte al Kibbutz Misgav Am-too.
di David Sinai
Hezbollah ha creato questa rete di posti di osservazione con il pretesto di un'organizzazione civile chiamata Green Without Borders, un'organizzazione finanziata da Hezbollah che promuove l'agricoltura e la protezione dell'ambiente. Inoltre, l'organizzazione sta acquisendo anche le sue capacità militari nei villaggi sciiti situati nel sud del Libano.
L'Idf ha denunciato come sta effettivamente la situazione. "Abbiamo espresso la nostra preoccupazione per questi posti di spionaggio alle Nazioni Unite, ma Hezbollah ha reso difficile agli ispettori Onu di svolgere il loro lavoro ed esaminare i posti, sostenendo che si tratta di un'area privata. Questa è una palese, quotidiana violazione delle risoluzioni 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite , che proibisce qualsiasi presenza militare armata a sud del fiume Litani fatta eccezione per l'esercito libanese e la Forza ad interim delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) .Questi non sono guardiani forestali o ornitologi. L'organizzazione continua a schierare forze vicino al confine e pensa che Israele è ignaro di questa attività".
(Italia Israele Today, 23 ottobre 2018)
Juve, leffetto Ronaldo si ripercuote anche in Israele
L'effetto Cristiano Ronaldo si fa sentire non soltanto sulla Juventus e sul calcio italiano, ma anche in... Israele! L'interesse dei tifosi locali verso la Serie A, come riportato da Yediot Ahronot, dall'arrivo del fenomeno portoghese in bianconero ha subito una crescita mostruosa del 200%, mentre il campionato spagnolo ha perso oltre il 20% d'interesse rispetto alla passata stagione. Tanto che per assistere all'atteso match Milan-Juventus, in programma a San Siro il prossimo 11 novembre, hanno acquistato il biglietto già 2.200 israeliani appassionati di calcio. Questo è "l'effetto CR7", come spiega il giornale.
(Calciomercato.com, 23 ottobre 2018)
Greenblatt: "Se desidera davvero il bene di Gaza, Hamas sa
L'inviato Usa al capo di Hamas: "Come abbiamo detto molte volte abbiamo cuore il popolo palestinese e vogliono aiutare, ma non faremo nulla che possa dare più potere a un regime che lancia attacchi contro gli asili israeliani"
L'attuale Amministrazione americana si oppone con forza a tutto ciò che rappresenta Hamas, un'organizzazione terroristica che prende di mira innocenti e si nasconde dietro a innocenti. Ma a giudicare dall'intervista pubblicata lo scorso 5 ottobre, sembra che (il capo di Hamas a Gaza) Yahya Sinwar sia d'accordo con la posizione di questa Amministrazione su alcune cose: siamo d'accordo che i bambini palestinesi dovrebbero avere la piena possibilità di diventare medici o perseguire qualsiasi altra professione che scelgono, e siamo d'accordo che dovrebbero poter vedere "come è il mondo là fuori". Condividiamo il desiderio di vedere un'economia fiorente a Gaza, con posti di lavoro per tutti coloro che si danno da fare per lavorare. Comprendiamo tutti che la guerra non apporterà una vita migliore ai palestinesi di Gaza: anzi, creerà più miseria sofferenze e perdite per tutti....
(israele.net, 23 ottobre 2018)
La Giordania sfida sui terreni gli israeliani
di Fiamma Nirenstein
Nel 1994 sotto un sole terribile Yzchak Rabin e il re Hussein di Giordania con l'abbraccio di Bill Clinton firmarono nel deserto la pace fra Israele e Giordania. Un gesto da giganti: la cronista, seduta per ore al sole su gradinate di legno, li guardava commossa e si domandava come potevano resistere senza un cappello in testa. I due concordarono anche uno speciale arrangiamento per delle particule di terra vicino al confine, e il re le affittò fino al 2019 a Israele perché le coltivasse prevedendo poi un rinnovo per altri 25 anni. Di fatto oggi quella terra produce avocado e olive, i contadini israeliani vengono dai kibbutz ogni mattina. Un arco di pietra con le immagini di Hussein e di suo figlio Abdullah, il re odierno, segnano la proprietà. Ma in quel luogo resta anche la memoria del marzo 1997 quando un soldato giordano sparò a un gruppo di bambine israeliane in gita e ne uccise sette. Hussein andò personalmente a inginocchiarsi davanti ai genitori e a chiedere scusa. Così si fa quando si vuole la pace.
Ma re Abdullah non ha la stessa sensibilità e ha annunciato con molte fanfare che quella parte del trattato è abrogata, che la Giordania non darà la sua terra a nessuno, che lui sceglie «Terra Giordana e interessi giordani». È successo qualcosa? No. E' un'osservazione impropria dato che nessuno la mette in discussione. Certamente, però, molto gradita alla popolazione composta per il 75 per cento da Palestinesi, percorsa da fremiti islamisti molto minacciosi, invasa da profughi siriani, pronta a accusare la monarchia di ignorare la causa palestinese. La terra in questione non è importante in sé: ma lo è il simbolo della pace con Israele.
Così, sull'altare del consenso il re sacrifica una parte della pace: la crisi economica, la crescita della disoccupazione, le dimostrazioni contro la crescita dei prezzi, vanno insieme all'incuria verso l'opinione pubblica, all'incitamento antisraeliano, alla diffusione di menzogne e pregiudizi, sempre una carta di riserva per ogni leader arabo. Attacca Israele e troverai il consenso.
E allora perché Israele non si preoccupa? Perché l'acqua che fornisce alla Giordania, il gas che comincerà fra breve a fluire, tutta una serie di disponibilità verso quel Paese e la redditizia immagine di stabilità presso l'amministrazione americana, costituiscono una certa garanzia: se adesso Israele si impegnerà a compensare adeguatamente il re, e lo farà, le cose possono ragionevolmente essere sistemate e l'accordo può rinnovarsi. Ma non sottovalutiamo il Medio Oriente: può anche darsi che, poiché fra le varie ipotesi sul misterioso piano di pace di Trump c'è anche quello di una soluzione giordano-palestinese, il re se ne difende creando una situazione di tensione impraticabile. Se fosse così, Abdullah, potrebbe persino abbandonare gli accordi con Israele. Contro ogni logica. Contro la pace, contro il benessere dei suoi. Questo è il Medio Oriente.
(il Giornale, 23 ottobre 2018)
Uno dei capi carismatici della comunità ebraica tedesca si sarebbe inventato le sue origini
Un'inchiesta dello Spiegel dice che Wolfgang Seibert, uno degli esponenti più in vista del mondo ebraico, sarebbe "un impostore", e anche "un truffatore".
di Roberto Brunelli
Una vita di finzioni, di bugie, di storie inventate: fa discutere in Germania il caso di Wolfgang Seibert, capo carismatico di una comunità ebraica nello Schleswig-Holstein, nonché uno degli esponenti più in vista e più impegnati del mondo ebraico tedesco, che secondo un'ampia inchiesta dello Spiegel sarebbe, in sostanza, "un impostore".
In pratica, il 71enne Seibert secondo il settimanale amburghese non è ebreo: avrebbe inventato di sana pianta la propria origine e la propria storia per far carriera all'interno della comunità. Il diretto interessato, spesso intervistato da grandi giornali e da varie emittenti televisive, per ora rifiuta qualsiasi commento aggiungendo solo di voler prima parlare con il proprio avvocato. Lo Spiegel scrive, in sostanza, che non è vero che la madre di Seibert sia nata in Ucraina e che sua nonna Anna Katharina Schmidt (nata Marx) sia sopravvissuta ad Auschwitz, mentre il nonno avrebbe combattuto nella guerra di Spagna al fianco degli anarchici: ebbene, sarebbe tutto inventato.
Il certificato di nascita ebraico di sua madre Seibert ha rifiutato di mostrarlo ai reporter. In realtà, così emergerebbe dalle ricerche del settimanale, Seibert è nato il 16 agosto 1947 a Francoforte sul Meno, figlio di genitori di credo evangelico, e battezzato tre giorni dopo. Neanche Anna Katharina può esser stata ebrea, perché già il nonno di costei era certamente di religione evangelica, secondo i documenti scovati dallo Spiegel. "Leggende", le definisce il settimanale, che Seibert diffonde da decenni: "Non è vero che sia chi dice di essere. Al contrario si tratta di un truffatore recidivo e di un impostore".
Ma perché Seibert si sarebbe inventato tutto?
A detta dello Spiegel, è come minimo "improbabile" la storia familiare di Seibert, in quanto il nonno paterno è stato sottufficiale e il padre granatiere nella Seconda guerra mondiale: "Fossero stati individuati come ebrei certamente non sarebbero stati arruolati nella Wehrmacht". L'inchiesta dello Spiegel apre ovviamente moltissime controversie anche perché Seibert - che dal 2003 guida la comunità di Pinneberg - è uno dei protagonisti del dialogo interreligioso tra cristiani ed ebrei in Germania.
Due anni fa ha promosso il primo partenariato evangelico-ebraico con una comunità religiosa amburghese. Nel 2014 finì su tutti i giornali per aver concesso nella sua comunità il cosiddetto "asilo di chiesa" ad un profugo di religione musulmano. Molto spesso lo si vede in testa ai cortei contro l'avanzata dell'Afd e dell'estrema destra e contro il risorgere dell'antisemitismo nella Repubblica federale. D'altra parte, la vicenda ricorda per molti aspetti la vicenda raccontata dallo scrittore spagnolo Javier Cercas nel suo libro "L'Impostore": è la storia - vera - di Enric Marco, presidente dell'associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti nonché ex segretario del sindacato anarchico, il quale aveva totalmente inventato la propria storia. Ossia che era stato a sua volta deportato nel lager di Flossenbuerg e che aveva partecipato in prima fila alla guerra civile spagnola.
Per quanto riguarda Seibert, il problema è però anche che, oltre alla ricostruzione delle sue origini, lo Spiegel lo accusa pure di essere un truffatore: nel 1991 avrebbe sottratto almeno 10 mila marchi di un'associazione giovanile, la stessa cosa con un gruppo di scout cristiani, dei quali avrebbe trattenuto irregolarmente 7500 marchi, in un'altra occasione il maltolto sarebbero stati 43 mila marchi ai danni dei Verdi della sua circoscrizione, per i quali si era candidato nel lontano 1988. Tra l'altro, tra il 1980 e il 1982 Seibert era finito in carcere: lui aveva sempre sostenuto di esser finito dietro le sbarre per aver nascosto dei terroristi della Raf.
In realtà, afferma lo Spiegel, era stato condannato per truffa. La settimana scorsa i reporter dello Spiegel hanno sottoposto allo stesso Seibert i documenti del comune di Francoforte e i registri parrocchiali che dimostrerebbero che la sua autobiografia è frutto di pura immaginazione. Alla domanda sul perché avrebbe inventato tutto, ha risposto: "Penso che alla mia identità ebraica percepita era necessaria una storia ebraica".
(AGI, 23 ottobre 2018)
In un articolo di ieri sul sito online Jüdische Allgemeine si riferisce che Wolfgang Seibert respinge le dichiarazioni della rivista Der Spiegel e annuncia una sua dichiarazione nel corso della settimana, dopo essersi consultato col suo avvocato.
La storia di Beteavòn, la prima cucina sociale kosher d'Italia
In quattro anni di attività le cuoche volontarie hanno sfornato oltre 50 mila pasti per famiglie in difficoltà e senza dimora di Milano, senza distinzione di religione o nazionalità. Espressione del movimento ebraico Lubavitch, collabora con Sant'Egidio e la Caritas. Il rabbino Igal Hazan: "Il problema di fondo è la solitudine di molte persone"
MILANO - "Beteavòn" in ebraico vuol dire "buon appetito": non può avere nome più azzeccato la prima e, per ora, unica cucina sociale kosher d'Italia. Nata nel 2014 a Milano per iniziativa del movimento ebraico Lubavitch, sforna attualmente 1.500 pasti al mese per persone in difficoltà economiche, senza distinzione di religione o nazionalità. In quattro anni di attività dalle cucine della scuola Merkos di via Forze Armate sono usciti complessivamente oltre 50 mila piatti pronti. Nella grande cucina della scuola vengono prima preparate le pietanze per gli alunni, poi entrano in azione le cuoche volontarie. Tra cucina e distribuzione i volontari coinvolti sono circa 35, non tutti ebrei. "Abbiamo iniziato col preparare i pasti per lo Shabbat - racconta il rabbino Igal Hazan - . Ci sono persone della comunità ebraica sole e povere. Grazie a Beteavòn ricevono le pietanze complete per la cena del venerdì sera e il pranzo del sabato. In questo modo riusciamo a garantire loro il calore di un pasto secondo la tradizione ebraica per i giorni festivi".
E così in un giovedì pomeriggio di ottobre, in cucina trovo le cuoche volontarie preparare lo spezzatino di manzo con piselli e patate, polpette di tonno con patate, peperoni e melanzane, riso, dolci e il tipico pane intrecciato ebraico, lo Challah. Altre volontarie confezionano i pasti in base al numero di persone di ogni famiglia destinataria. "In questi anni ci siamo resi conto che il vero problema di fondo è la solitudine di molte persone - aggiunge il rabbino -. Consegnando questi pasti facciamo sapere loro che li pensiamo, che abbiamo preparato qualcosa di buono per loro".
Dalla cucina di Beteavòn non escono pasti solo per lo Shabbat. Ogni giorno infatti le cuoche volontarie cucinano per i senza dimora o famiglie in difficoltà di Milano. "Abbiamo preso accordi sia con la Comunità di Sant'Egidio che con la Caritas", spiega Igal Hazan. "Cucinare per chi ha bisogno fa bene non solo a chi riceve, ma anche a me - sottolinea Sonia Norsa, cuoca volontaria di Beteavòn fin dall'inizio - . Aiutare i poveri è anche uno dei precetti della nostra religione". Due volte alla settimana, in particolare, volontari di Beteavòn e di Sant'Egidio distribuiscono piatti caldi di fronte alle stazioni ferroviarie di Cadorna e Porta Garibaldi. Dato che sono preparati secondo le regole Kosher sono quindi anche "Halal" (ossia 'leciti') per i musulmani. "È un'esperienza molto importante per me - racconta Roberta Sedicino, una delle volontarie di Beteavòn - . Ogni sera, però, torno a casa distrutta emotivamente, perché in strada incontri persone che vivono ai margini della nostra società, abbandonate da tutti. Qualche volta ho portato anche i miei figli alla distribuzione dei pasti, perché vedano cos'è la vita".
Per raccogliere fondi a sostegno di Beteavòn, i volontari organizzano ogni anno una serata di gala. "Vorremmo aiutare un numero maggiore di poveri, ma non è facile - sottolinea il rabbino - . Ma quel che ci conforta è che troviamo sempre il sostegno e il coinvolgimento entusiasta di tante persone. C'è chi ci dà un'offerta e chi decide di dedicare del tempo come volontario. Nel Talmud c'è un proverbio che dice 'Più di quanto il vitello voglia bere il latte, la mucca vuole essere munta'. Le persone desiderano donare qualcosa di sé agli altri. Bisogna dar loro l'occasione per farlo"
(Redattore sociale, 23 ottobre 2018)
A caccia della grande idea. Così Israele alleva il futuro
Non ci basta che i genietti pensino fuori dagli schemi. Li vogliamo fuori dagli schemi.
di Davide Frattini
Le villette intonacate di bianco sarebbero dovute diventare un villaggio, una comunità di pionieri ebrei arrivati qui per coltivare la terra. La speranza del barone Edmond de Rothschild si è realizzata sulla collina di fronte, dove ancora oggi Zichron Yaakov è abitato: i viali alberati con i lampioni di ferro battuto a ricordare le strade europee lasciate indietro da quei primi immigrati.
Le camerate di Meir Shfeya restano invece spoglie come agli inizi del 'goo. Durante l'anno scolastico ospitano gli allievi di un istituto di agronomia, tra luglio e agosto i ragazzi da tutto il mondo che partecipano in turni di 2 settimane ai seminari di Big Idea: è come aver preso il classico campeggio estivo per trasformarlo in un avviamento intensivo alla tecnologia e all'innovazione. I corsi vanno dalla creazione di videogiochi alla produzione di oggetti con stampanti 31), allo studio dei codici di programmazione. Immersi tra gli ulivi, il mare all'orizzonte.
Gli istruttori, poco più adulti degli allievi, raccontano le loro esperienze in quella che è diventata la Silicon Valley sul Mediterraneo, una fascia ad alta densità cibernetica che si sviluppa lungo la costa, con al centro Tel Aviv. Israele - calcola la rivista finanziaria Forbes - conta ormai più aziende quotate al Nasdaq (la borsa della tecnologia a New York) di qualunque altro Paese, eccetto Usa e Cina. La maggior parte sono concentrate in questi 60 chilometri, dove i surfisti inseguono le onde migliori e gli investitori «the Next Big Thing», la prossima grande invenzione.
Che spesso è il risultato di teste addestrate da un'unità speciale una volta segreta e ormai tra i simboli dell'innovazione israeliana. È identificata dal numero 8.200, si occupa di cybersicurezza, guerra elettronica, spionaggio digitale: cerca nuove soluzioni a vecchi problemi militari. Sempre Forbes stima che almeno un migliaio di start-up, negli ultimi anni, siano state lanciate dai veterani della squadra: come Waze (applicazione per navigare al meglio il traffico acquistata da Google per oltre 1 miliardo di dollari) o Check Point, pioniere nei software antivirus e antintrusione.
L'esercito è il primo reclutatore di genietti e cerca di scovarli fin dal liceo, il servizio militare è obbligatorio: «Non ci basta che sappiano pensare fuori dagli schemi, vogliamo giovani fuori dagli schemi», racconta la maggiore Dana Shachar, incaricata dallo Stato Maggiore di creare una cyberaccademia, il tentativo di educare alla tecnologia tutti i corpi delle forze armate.
Il legame tra tecnologia militare e innovazione ha anche il suo lato oscuro. Pochi giorni fa un'inchiesta del giornale Haaretz ha rivelato che strumenti di sorveglianza sviluppati per la lotta al terrorismo sono stati venduti da società private a dittature in giro per il mondo e usati per controllare gli oppositori. «La mia azienda - si giustifica, anonimo, uno degli amministratori delegati - distribuisce software per combattere i criminali. Non sono in grado di impedire che i miei clienti ne facciano un uso improprio».
In generale, la spesa israeliana - per ricerca e sviluppo, in rapporto al Pil, come stabilisce l'ultimo rapporto sulla competitività globale del World economic forum - è la più alta al mondo. Nel futuro ha sempre creduto Shimon Peres e, in suo nome viene inaugurato, questa settimana, il nuovo centro per l'innovazione: presidente fino al 2014, ha contribuito a costruire una nazione che adesso è terza su 140 per numero di aziende capaci di plasmare idee «dirompenti». Questo «ecosistema» - spiega il World economic forum - è creato anche dalla durata degli studi (13 anni in media). Dai laboratori dell'università ebraica di Gerusalemme sono usciti i professori che hanno fondato MobilEye: l'occhio elettronico che vede nel futuro dell'auto senza guidatore è stato comprato da Intel per 15 miliardi di dollari.
(Corriere della Sera, 23 ottobre 2018)
Biafra - Kanu riappare in Israele
«Devo la mia vita a Israele, dove mi trovo adesso. Sono stato aiutato dal Mossad». Riappare così, a un anno dalla sua scomparsa, mentre prega al Muro del pianto di Gerusalemme, il leader separatista dell'lndigenous People of Biafra (lpob), Nnamdi Kanu. Il video è stato diffuso domenica e l'annuncio è stato dato dallo stesso Kanu alla "sua" Radio Biafra, che trasmette da Londra. Kanu sogna di riunire gli stati meridionali della Nigeria in un nuovo Biafra indipendente. Sulla falsariga di quello proclamato nel 1967 al costo di tre anni di guerra civile e un milione di morti. Di etnia lgbo, Kanu ora sostiene di essere «ebreo», alludendo alla leggenda che riguarda la migrazione di Giacobbe, nipote di Abramo, in Africa occidentale. Nel 2015, dopo essersi espresso per la lotta armata Kanu è finito agli arresti. Ma dopo 19 mesi in cella e nessun processo è stato rilasciato su cauzione. Un anno fa l'esercito si ripresenta a casa sua, ma Kanu sembra svanito nel nulla
(il manifesto, 23 ottobre 2018)
Faurisson, dove osano i negazionisti
La Soluzione Finale? "Un pacifico trasferimento di ebrei". Le camere a gas? "Mai esistite". Ribaltare la verità dei fatti sulla Shoah è stata l'ossessione della sua vita. Cominciò nel 1978 con un articolo su Le Monde, lo scandalo che ne segui gli costò la sospensione dall'università.
di Elena Loewenthal
Se ricordare la storia della Shoah è diventato un imperativo morale lo si deve anche a Robert Faurisson, lo storico francese negazionista nato nel 1929 e morto ieri a Vichy. Per lui le camere a gas non erano mai esistite perché tecnicamente non potevano funzionare, sulla base di presunti studi dedicati alla forma delle porte, alle dimensioni dei pertugi da cui passava lo Zyklon B. Per lui Hitler non aveva mai neanche pensato di perseguitare chicchessia a causa della sua razza o della sua religione, per lui il diario di Anne Frank - sul quale si accanì con una attenzione degna di un manuale di psicanalisi più che di storiografia - era un falso. Per lui la conferenza di Wannsee del 1942, in cui venne costruita la strategia operativa della Soluzione Finale, fu dedicata all'organizzazione di un pacifico trasferimento delle masse ebraiche verso Est.
Nato a Shepperton, Inghilterra, da padre francese e madre scozzese, Faurisson si era laureato alla Sorbona e aveva fatto l'insegnante di Lettere nei licei - venendo peraltro ripetutamente segnalato alle autorità scolastiche per le sue invettive razziste - prima di avviarsi nel 1969 alla carriera accademica. Dal 1973 al 1980 insegnò letteratura contemporanea presso la Seconda Università di Lione. Il 29 dicembre 1978 pubblica su Le Monde un testo intitolato «Il problema delle camere a gas», in cui si dichiara convinto che non siano mai esistite. Nelle settimane successive escono sul giornale francese molte obiezioni e testimonianze, a firma fra gli altri di Pierre Vidal-Naquet e di Léon Poliakov. A seguito di questo affaire, Faurisson viene sospeso dall'università e dal 1980 sino al suo pensionamento è trasferito su sua richiesta al Centre National de Télé-Enseignement (Cnte).
Se l'episodio del 1978 sta al centro della sua vicenda, la carriera «intellettuale» di Faurisson è costellata di tali esternazioni. La sua cifra culturale fu sempre la provocazione, la negazione della Shoah fu l'ossessione della sua vita. E di negazione si trattava, non di revisionismo critico. Faurisson scagliava le sue tesi, formulava le sue domande retoriche, osservava il panorama di repliche e il polverone che ne veniva fuori costituiva per lui l'evidenza del fatto che non esistesse prova alcuna per dimostrare che la Shoah fosse avvenuta.
Il primo «affaire Faurisson» innescò infatti una catena di «scandali» che il 1980 e il 1990 lo coinvolsero insieme con altri personaggi della galassia negazionista, di cui il più celebre adepto è il britannico David Irving: dalla difesa pubblica di militanti neonazisti al lancio di tesi sostenute da oscuri personaggi come Jean-Claude Pressac, al sostegno del negazionismo di Stato iraniano.
Forse era inevitabile che l'evento più assurdo della storia umana - lo sterminio di sei milioni di persone che, non va dimenticato, sarebbe stato l'anticamera per la costruzione di una «umanità» selezionata in cui solo gli ariani avrebbero avuto licenza di esistere - diventasse così presto l'oggetto di una stortura pseudo-storiografica. Come è stato possibile che, a poco più di trent'anni dai campi di sterminio, si negasse quella storia e ci si costruisse intorno un vero e proprio movimento d'opinione? Non erano bastate le testimonianze, le baracche di Auschwitz, il silenzio di milioni di persone sparite nel fumo dei forni crematori, a conferire alla Shoah la «dignità» della certezza.
Sarà proprio la sua natura di catastrofe inaudita ad aver dato in qualche storto modo manforte alla scuola negazionista di cui Faurisson è stato il capostipite e rimane ancor oggi il maitre-à-penser. Una mente umana sana non può accettare quella storia. Eppure è stata, e non fu una mostruosa devianza: si deve accettare quello che è stato come parte innegabile del nostro passato. I negazionisti non lo accettano. Da Faurisson in poi, e con i suoi scritti non di rado deliranti come punto di riferimento, cercano di dimostrare che non è mai avvenuta, perché non era possibile che avvenisse. E dalla negazione alla nostalgia per quel tempo in cui la Shoah non sarebbe mai avvenuta, il passo è pericolosamente breve.
(La Stampa, 23 ottobre 2018)
Gaza: falò di Hamas di droga confiscata
Per gli spacciatori ergastolo con lavori forzati
Hamas ha mostrato oggi il proprio pugno di ferro verso gli spacciatori di stupefacenti organizzando nel centro di Gaza una conferenza stampa al termine della quale sono state date alle fiamme ingenti quantita' di narcotici sequestrati quest'anno.
I giornalisti convenuti in una zona aperta presso un albergo di Gaza, il Mashtal, hanno notato una piccola montagna di pillole e di pacchi di hashish. Un portavoce del ministero degli interni ha precisato che erano state la' ammucchiate ''1.242.000 pillole di vario genere'', fra cui Ecstasy e Tramadol. C'erano anche 900 grammi di oppio e 1383 pacchi di hashish da mezzo chilo ciascuno. Il tutto e' stato poi bruciato di fronte a una folla di curiosi.
Nella conferenza stampa e' stato precisato che sette spacciatori sono stati condannati all' ergastolo da una corte militare e altri sette a pene comprese fra 10-15 anni. Gli stupefacenti sono entrati a Gaza dal territorio egiziano, in prevalenza passando attraverso una dozzina di tunnel per il contrabbando.
(ANSAmed, 22 ottobre 2018)
Gaza: perché Israele non cede alle provocazioni di Hamas
di Ugo Volli
La violenza a Gaza continua, anche se negli ultimi giorni le cose si sono un po' calmate, dopo che un missile sparato dalla Striscia ha colpito una casa a Beer Sheva e Israele ha ammassato truppe corazzate sui confini pronte per entrare nei territori controllati da Hamas e perfino l'Egitto è intervenuto chiedendo con forza moderazione a Hamas. Almeno così sta la situazione mentre scrivo questo articolo: un peggioramento improvviso è sempre possibile. Ho spiegato di recente in un altro articolo su questo sito quali sono le losche motivazioni che rendono sia Hamas che Fatah responsabile dei disordini e della morte di più di 150 persone lanciate all'assalto di una frontiera ben difesa da un esercito regolare. Come diceva Mussolini dell'attacco alla Francia nel 1940, serve loro qualche centinaio di morti da far pesare sulle trattative di pace.
Adesso vorrei considerare la posizione strategica di Israele su questo fronte, anche per rispondere a quelli che rimproverano a Netanyahu di temporeggiare e non fare niente di decisivo. Purtroppo Israele ha poche opzioni realistiche. Chiaramente, per ragioni etiche (e anche pensando alle reazioni internazionali) Israele non può bombardare indiscriminatamente Gaza. I suoi abitanti non hanno dove andare, dato che anche la frontiera con l'Egitto è chiusa, "spianare Gaza", come qualcuno ha scritto, sarebbe una strage paragonabile a quelle che l'aviazione alleata inferse a Berlino e Dresda e che però oggi non è accettabile né alla coscienza di Israele né alla comunità internazionale. Anche ragionando per un attimo in maniera assolutamente cinica, i danni alla posizione internazionale di Israele sarebbero infinitamente superiori ai vantaggi. E' un'opzione che nessuno considera seriamente.
Quel che è possibile è un'operazione di terra appoggiata da interventi molto mirati dell'aviazione, sullo stile di quel che è già accaduto nel 2008-2009 e poi nel 2014. Questa è un'opzione concreta, già predisposta. Ma l'esperienza è che si tratta di un'opzione costosa e non risolutiva. Il costo di vite umane, tanto di abitanti di Gaza che di soldati israeliani ed eventualmente cittadini israeliani comuni colpiti da razzi sarebbe certamente alto. Gaza è in buona parte un'area urbana che Hamas ha fortificato con tunnel e centri di combattimento collocati apposta in mezzo alle case, agli ospedali, alle scuole e alle moschee. Colpirli con l'artiglieria senza fare vittime civili è impossibile, bonificarli con la fanteria comporta notevoli perdite per le truppe israeliane e comunque un certo numero di vittime civili usate da Hamas consapevolmente come scudi umani. Un calcolo lucido deve confrontare questi costi con i danni che Hamas è in grado di infliggere oggi, che sono dolorosi ma limitati: incendi di boschi e campi intorno al confine, un certo numero di militari feriti, un morto ucciso da un cecchino, case danneggiate, rischi e stress per la popolazione civile. E' un calcolo molto sgradevole, ma un governo responsabile deve farlo. Il costo di attaccare per Israele è certamente assai più alto che quello di contenere la violenza come si fa oggi. Anche per questo è evidente che Hamas, su indicazione dell'Iran, sta cercando di attirare l'esercito israeliano dentro Gaza, sulla base della convinzione che si tratti di una trappola pericolosa soprattutto per Israele, sul piano militare come su quello politico.
Continuiamo a ragionare. Israele entra nella striscia, conquista alcuni capisaldi, distrugge delle istallazioni militari sul confine, come i tunnel (che già ha colpito senza operazioni: quindici negli ultimi mesi). Poi che fa? Se si ferma a ripulire la zona di confine come nelle ultime volte bisogna pensare che l'esito sarà lo stesso: intervento della "comunità internazionale", trattative, qualche concessione di facciata a Hamas - spesso promesse vuote - un certo periodo di calma fino alla ripresa di un altro ciclo. Se va avanti, il conto diventa più grave. Più l'operazione si inoltrasse nel centro di Gaza, dove sono i centri di potere di Hamas, più sarebbe costosa in termini di vite umane. Ammettiamo però che Israele, in un mese di combattimenti molto duri, riconquisti interamente la Striscia, catturi o uccida la maggior parte dei dirigenti terroristi. Che fa ora? Restare a dominare una zona urbana, abitata da un milione e mezzo di persone, di cui il dieci per cento almeno è in un modo o nell'altro organico al terrorismo e addestrato a perpetrarlo, sarebbe costosissimo sul piano umano e materiale. Si dovrebbe concentrare una buona parte dell'esercito, sguarnendo il Nord dove vi è la minaccia di Hezbollah, si subirebbero attacchi continui e ben organizzati, dato che armi, esplosivo e addestramento sono ben diffusi nella popolazione di Gaza. Seguirebbero rappresaglie, scontri, una guerriglia urbana in piena regola, con possibili effetti di imitazione anche in Giudea e Samaria e una montante campagna internazionale di demonizzazione.
Immaginiamo ora invece che, conquistata Gaza e decapitata Hamas, Israele si ritiri. Che succederebbe in questo caso? Chi prenderebbe il potere nella striscia? Il secondo gruppo terrorista dopo Hamas è la Jihad Islamica, direttamente organizzata e finanziata dall'Iran. Sarebbe un rimedio peggiore del male, il terrorismo riprenderebbe sotto il controllo diretto dei più pericolosi nemici di Israele. E se invece il potere andasse a Fatah, il gruppo che governa anche l'Autorità Palestinese? E' improbabile, ma anche in questo caso la situazione non muterebbe troppo. Nei due anni fra lo sgombero degli insediamenti israeliani nella Striscia e il colpo di stato di Hamas, a Gaza Fatah faceva terrorismo come Hamas, e ha continuato ad appoggiarlo nei limiti delle sue forze. Inoltre è probabile che un suo dominio sarebbe rapidamente rovesciato dai resti di Hamas che sono molto più numerosi. E ci sono anche aderenti dell'Isis e di Al Queida, che potrebbero mostrare la loro forza, naturalmente col terrorismo. Il risultato più probabile sarebbe una specie di anarchia terrorista, come in certi territori siriani o libici. Purtroppo non si conoscono forze politiche a Gaza che non si fondino sul terrorismo antisraeliano.
E allora? Qual è l'alternativa? Non è piacevole, ma è continuare e migliorare quel che ha fatto finora l'esercito israeliano. Impedire lo sfondamento dei confini, cercare di colpire fra gli assalitori della barriera i terroristi più accesi, colpire con l'aviazione e i droni i fabbricanti di ordigni incendiari ed esplosivi aerei, modulare attentamente il bastone e la carota sui rifornimenti, cercare di convincere coi fatti gli abitanti di Gaza che la prevalenza del terrorismo è contraria ai loro interessi vitali, concludere il grande progetto del muro sotterraneo che renderà impossibile la costruzione di tunnel d'attacco, migliorare le batteria di Iron Dome per vanificare gli attacchi coi razzi. Magari in casi gravi colpire i dirigenti di Hamas, che attualmente godono di una qualche impunità. Insomma non cambiare strategia, ma migliorare la tattica. Non è una conclusione particolarmente incoraggiante, ma è quella che evidentemente è il piano principale dell'Esercito Israeliano e di Netanyahu. E che coincide anche con l'analisi della più lucida giornalista israeliana, Caroline Glick. Vi è però anche una parte positiva: la guerra d'attrito che Israele sostiene non gli impedisce di crescere e di affermarsi in tutti i campi, dall'economia alla politica e alla diplomazia. Il tempo non lavora per i terroristi, ma per la democrazia israeliana. Per questo è necessario tenere i nervi freddi e non agire seguendo solo lo sdegno o la giusta rabbia che provoca il terrorismo e il suo appoggio internazionale.
(Progetto Dreyfus, 22 ottobre 2018)
Israele: riaperti gli attraversamenti di confine con la Striscia di Gaza
Israele ha riaperto gli attraversamenti di confine che lo collegano alla Striscia di Gaza, domenica 21 ottobre, permettendo nuovamente il transito di beni e persone da e per l'enclave, in seguito alla diminuzione delle violenze lungo la frontiera.
L'ufficio del ministro della Difesa, Avigdor Liberman, ha preso tale decisione consultandosi con i funzionari delle Forze di Difesa Israeliane, i servizi di sicurezza Shin Bet e l'unità di collegamento con i palestinesi, nota con il nome di Coordinator of Government Activities in the Territories (COGAT). Tuttavia, le autorità hanno spiegato che devono ancora prendere una decisione in merito ai rifornimenti di carburante donate a Gaza dal Qatar.
Gli attraversamenti di confine di Erez e Kerem Shalom erano stati chiusi il 17 ottobre, per ordine del ministro della Difesa, dopo che un missile, proveniente dalla Striscia di Gaza, era esploso all'esterno di una casa nella città meridionale israeliana di Beersheba, mentre un altro razzo si era inabissato nelle acque appartenenti a Tel Aviv. In risposta a tali attacchi, l'esercito israeliano aveva lanciato una serie di incursioni aeree, bombardando 20 obiettivi nell'enclave, inclusi alcuni tunnel al di sotto delle frontiere. Nei giorni seguenti, le Nazioni Unite e l'Egitto avevano mediato un cessate-il-fuoco tra Israele e il gruppo terroristico Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ma nessuna delle due parti aveva ufficialmente riconosciuto la tregua.
Nonostante ciò, nei giorni seguenti la chiusura dei due attraversamenti di confine, rispetto alle settimane precedenti si è verificato un significativo calo delle violenze lungo la recinzione che divide Gaza da Israele, sia a livello di numero di partecipanti sia a livello di intensità degli scontri, che sono stati definiti dai funzionari della Difesa israeliana come alcuni dei più tranquilli dall'inizio della "Marcia del Ritorno", cominciata il 30 marzo. Israele ritiene che Hamas abbia cambiato la sua politica relativa alle proteste e stia lavorando per limitare le violenze per dare ai mediatori egiziani la possibilità di stringere un accordo tra il gruppo terroristico e le autorità israeliane, così da ottenere una tregua a lungo termine a Gaza.
(Sicurezza Internazionale, 22 ottobre 2018)
La Giordania cancella un pezzo del trattato di pace con Israele
Amman rivuole due villaggi al confine ceduti nel 1994.
di Giordano Stabile
Re Abdullah di Giordania ha annunciato che non rinnoverà parte del trattato di pace firmato con Israele nel 1994. I punti in questione sono due disposizioni annesse che cedevano per 25 anni allo Stato ebraico i villaggi di Al-Baqoura, nel Nord della Valle del Giordano, e di Al-Ghumar, vicino al Golfo di Aqaba.
La scadenza della cessione territoriale è il prossimo giovedì, ma il sovrano ha deciso di non rinnovarla. Re Abdullah deve fronteggiare una forte opposizione interna che chiede il ritorno alla piena sovranità dei territorio. Ottantasei parlamentari hanno firmato una petizione. I territori erano stati conquistati da Israele subito dopo la guerra del 1948-1949 e la componente palestinese della popolazione, circa la metà dei 10 milioni di abitanti, li considera parte della Palestina.
Venerdì c'è stata una grande manifestazione ad Amman per chiedere il ritorno dei territori e addirittura la cancellazione di tutto il trattato di pace. Le relazioni fra Giordania e Israele sono peggiorate dopo il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Il sovrano hashemita è il "custode" della moschea di Al-Aqsa e ha una attenzione particolare alla Città Santa e si è finora opposto alle proposte americane e saudite per regolare la questione israelo-palestinese.
Il trattato di pace con la Giordania, noto come trattato di Wadi Arabah, è il secondo firmato da Israele con un Paese arabo, dopo quello con l'Egitto. Consiste in 30 articoli e cinque disposizioni annesse, due che riguardano appunto Al-Baqoura e Al-Ghumar. "Sono i cima alla lista della nostre priorità", ha scritto in Tweet Re Abdullah.
(La Stampa, 22 ottobre 2018)
A Miss Libano costa caro un selfie con Miss Israele
È costato caro a Miss Libano un selfie con Miss Israele. A Salwa Akar, candidata al concorso Miss Earth 2018 che si terrà nelle Filippine all'inizio di novembre, è stato tolto il titolo per l'autoscatto con l'omologa israeliana, Daza Zreik, che peraltro è arabo-israeliana.
Il portavoce del premier israeliano Benjamin Netanyahu, Ofir Gendelman, ha scritto in un tweet il suo sdegno per la chiusura libanese a tutto ciò che collegabile a Israele.
Salwa Akar ha provato a ricucire lo strappo con il suo paese, sostenendo di non sapere che Daza fosse israeliana, anche perché i loro dialoghi si erano svolti in arabo. Un tentativo che però ha lasciato perplessi perché la fascia indossata dalla rappresentante dello Stato ebraico non dava spazio a interpretazioni.
Non è la prima volta che il Libano adotta simili comportamenti. Nel 2015, infatti, durante il concorso di Miss Universo a Miami, Saly Greige era stata immortalata in una fotografia con Miss Israele Doron Matalon e altre colleghe, affrettandosi a "tagliare" la reginetta d'Israele perché non voleva esser ritratta con la rappresentante di un paese in guerra con il suo.
Lo scorso anno, invece, la svedese-libanese Amanda Hanna è stata privata del suo titolo di emigrante Miss Libano dopo la scoperta di un suo viaggio accademico nel 2016 in Israele.
Da una parte c'è un paese - Israele - che è rappresentata da un'arabo-israeliana, dall'altra un paese - Libano - che è rappresentata da una libanese a cui è stato tolto il titolo dopo aver fatto un selfie con Miss Israele.
Ci sarà mai una libanese-israeliana a rappresentare il Libano? E se fosse stato Israele a togliere il titolo alla sua Miss per una foto con una concorrente libanese, cosa si sarebbe detto?
Domande che non avranno una risposta. Domande che come spesso accade ci fanno perdere il vero problema: l'uso politico da parte di alcuni paesi arabi contro Israele di un qualcosa che non dovrebbe avere nulla a che fare con la politica.
(Progetto Dreyfus, 22 ottobre 2018)
Troppi islamici: gli ebrei scappano dall'Europa
Il "Corriere": fuggono dalla Brexit. No, vanno via da Londra perché temono la sinistra e da Parigi per il rischio attentati.
di Antonio Socci
Ieri il Corriere della sera annunciava con questo incredibile tweet un suo articolo: «I discendenti degli ebrei sfuggiti al nazismo ora scappano dalla Brexit». Sotto - per rincarare la dose - c'era una foto in bianco e nero di soldati nazisti che convogliano deportati verso i campi di sterminio.
Ma davvero al Corriere pensano che gli ebrei fuggano dalla Brexit come fuggivano dallo sterminio nazista? Cosa c'entra l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea (cioè appunto la Brexit) con lo sterminio degli ebrei sotto il nazismo? C'è da trasecolare. Oltretutto nella Brexit è riemersa proprio la storica avversità britannica al formarsi di qualunque impero continentale europeo (tentato sia sotto Napoleone, sia sotto il III Reich). Oggi la Ue ha perlopiù natura economica, non militare, ma gli inglesi continuano a voler restare indipendenti da questa Ue a egemonia tedesca.
L'indipendenza UK
In ogni caso la Brexit è una decisione libera della maggioranza degli elettori del Regno Unito. Il nazismo è tutt'altra cosa. Perché mai la comunità ebraica britannica dovrebbe sentirsi minacciata dalla Brexit? Anzi, il fatto che venga limitata la già vasta immigrazione musulmana può casomai rasserenarla.
In effetti nell'articolo sul Corriere di Luigi Ippolito si parla di ebrei «in fuga evidentemente dalla Brexit». Ma senza dimostrare che la comunità ebraica si sente minacciata dalla Brexit. Se si approfondisce altrove la questione si scopre poi tutt'altra storia. Due mesi fa un sondaggio ha rivelato che il 40 percento della comunità ebraica inglese «sta seriamente pensando di emigrare» se Jeremy Corbyn dovesse vincere le prossime elezioni.
Il leader laburista - che, detto per inciso, non era per la Brexit - è noto per le sue posizioni estremistiche contro Israele. Lord Jonathan Sacks, ex rabbino capo della Gran Bretagna, intervistato dalla Bbc, ha affermato che l'ascesa di Corbyn comporta per gli ebrei del Regno Unito una «minaccia esistenziale», tanto che molti di loro pensano di andarsene.
Sacks, che ha usato parole durissime nei confronti di Corbyn, ha fra l'altro affermato: «Non conosco altre occasioni in questi 362 anni in cui gli ebrei - la maggior parte della nostra comunità - si sono chiesti "questo paese è sicuro per allevare i nostri figli?"».
L'ottimo Giulio Meotti che sul Foglio segue meravigliosamente la questione ha ricordato anche le parole di Pinchas Goldsmith, presidente della Conferenza europea dei rabbini: «Gli ebrei potrebbero fuggire se Corbyn venisse eletto».
Poi una lettera aperta al Guardian di 68 rabbini britannici che «accusavano la leadership laburista di ignorare la comunità ebraica e l'antisemitismo "grave e diffuso" che affligge il partito».
La settimana scorsa Meotti ha pubblicato un articolo intitolato: «"Se vince Corbyn me ne vado", dice Sebag Montefiore». Riferiva le preoccupazioni del grande storico Simon Sebag Montefiore, espresse in una sua intervista al Times.
Meotti scrive: «Lo storico nell'antisemitismo corbyniano vede tracce di quello stalinista. "Sento che considerano gli ebrei una classe ostile, sfruttatrice, coloniale-capitalista". In una lettera al Times, Sebag e altri due eminenti scrittori ebrei un anno fa hanno accusato il Partito laburista di Corbyn di "diffuso" antisemitismo camuffato da critica a Israele«,
C'è poi il problema rappresentato dall'Islam, anche per le comunità ebraiche di tutta Europa. Dopo gli attentati jihadisti di Barcellona e Cambrils dell'agosto 2017, il rabbino di Barcellona Meir Bar-Henha invitò la comunità ebraica a trasferirsi in Israele, perché la Spagna, secondo lui, è diventata «un hub di terrore islamista per tutta l'Europa». Ma - al di là del terrorismo - è la convivenza con grosse comunità islamiche non integrate, in città come Parigi, Londra o Bruxelles, a rivelarsi drammatica. Particolarmente grave la situazione in Francia.
Senza integrazione
Era lo stesso Corriere della Sera, il 22 novembre 2017, a fare questo titolo: «Il grande esodo degli ebrei di Parigi. "Ci aggrediscono, costretti a fuggire"». Il sommario diceva: «Minacce e violenze nelle periferie a maggioranza araba. Dei 350 mila residenti, 60 mila si sono rifugiati altrove. Alcuni in Israele. Molti si stanno trasferendo in un unico quartiere della capitale, accanto alla sinagoga. Il rischio di un nuovo ghetto».
Dalla comunità ebraica in questi anni sono arrivate anche riflessioni generali che i popoli d'Europa dovrebbero meditare attentamente. Penso agli interventi - in Italia - del rabbino capo di Roma Riccardo di Segni o del rabbino Giuseppe Laras sull'emigrazione musulmana. Non mi pare che la Brexit sia mai stata ricordata come un pericolo apocalittico. Invece il già citato Jonathan Sacks, nel giugno 2016, ricevendo il Premio Templeton, tenne un discorso memorabile dove parlò del crollo demografico dell'Occidente come sintomo di una crisi spirituale che lo avrebbe portato alla sparizione. Richiamò parole fondamentali come «identità», «memoria» e civiltà occidentale.
Parole che però la cultura egemone aborre. Preferendo demonizzare la Brexit.
(Libero, 22 ottobre 2018)
Gaza, non solo Hamas. C'è anche il Pij, alleato dell'Iran
Gaza, l'enclave palestinese controllata dal movimento armato Hamas, contiene anche altri pericolosi gruppi jihadisti. Fra questi il più celebre e potente è il Pij (Movimento per il jihad islamico in Palestina), finanziato e armato dall'Iran. L'organizzazione terroristica è pronta a subentrare a Hamas in caso di crisi di potere. Mira a distruggere Israele.
di Lorenza Formicola
Ad inasprire il clima sulla striscia di Gaza non c'è "solo" Hamas. Sono molti altri i gruppi terroristici nell'enclave costiera, che ospita circa due milioni di palestinesi. Ma a giocarsi il primato c'è in particolare il movimento per il jihad islamico in Palestina (PIJ).
Si tratta di un'organizzazione islamica palestinese nazionalista che si oppone violentemente all'esistenza di Israele. Inserita tra le organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel 1997, il PIJ ha nel suo mirino civili e militari israeliani per l'unico grande obiettivo: la creazione di un regime islamico in "tutta la Palestina storica". I fondatori della Jihad islamica palestinese, Fathi Shaqaqi e Abd al-Aziz Awda, erano studenti in Egitto e membri della Fratellanza Musulmana egiziana fino alla fine degli anni '70, quando decisero che la fratellanza stava diventando troppo moderata e impegnata in maniera insufficiente, distratta, nella causa palestinese. Il PIJ, nonostante nasca come gruppo sunnita, si ispirò agli ideali rivoluzionari e teocratici sciiti, sposati durante la rivoluzione iraniana del 1979 che stabilì un vero regime islamico.
Il PIJ sostiene la distruzione di Israele attraverso mezzi violenti e vive il conflitto arabo-israeliano come una guerra ideologica, e non una mera disputa territoriale. I suoi membri considerano la violenza l'unico modo per rimuovere Israele dalla cartina del Medio Oriente e respingere qualsiasi accordo a due Stati in cui coesistano Israele e Palestina. Il PIJ, dichiaratamente, non intende impegnarsi in alcuna forma di dialogo diplomatico con Israele. Movimento molto più piccolo di Hamas, santifica la terra in nome del significato storico per l'islam. Attualmente, il jihad islamico palestinese rappresenta una piccola organizzazione altamente segreta che opera indisturbata con meno di 1.000 membri e un supporto popolare molto limitato.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, è l'Iran a finanziare la maggior parte del budget del PIJ. Ma gli Stati Uniti accusano anche la Siria di fornire un "rifugio sicuro" per il gruppo che, comunque, ha lasciato il quartier generale a Damasco. Otto leader del Movimento Jihad islamico palestinese sono stati incriminati dalle autorità federali nel 2003 con cinquanta accuse, mentre solo uno, Sami al-Arian, è stato arrestato e mandato a processo. Con una causa del 1998 contro l'Iran, la corte federale degli Stati Uniti ha rivelato per la prima volta che la Repubblica Islamica aveva stanziato 2 milioni di dollari del suo bilancio annuale al PIJ. Sono state raggiunte cifre vertiginose verso la fine del 2013, quando fonti del PIJ hanno rivelato che il gruppo terroristico ha ricevuto circa 3 milioni di dollari al mese dall'Iran. Durante il conflitto del 2012 tra Israele e Hamas, il PIJ ha lanciato razzi sul territorio israeliano e ha appeso striscioni sulle strade di Gaza con la frase "Grazie, Iran". Un rapporto del febbraio 2014 di Ali Nourizadeh, direttore del Centro per gli studi iraniani a Londra, ha dichiarato che l'Iran è arrivato a donare, e dona al PIJ, dai 100 ai 150 milioni di dollari l'anno.
Come altri gruppi islamici violenti, il PIJ usa metodi di addestramento e tattiche tipiche delle organizzazione terroristiche: come operazioni suicide contro soldati israeliani. Il PIJ si è anche vantato di aprire i suoi ranghi ai bambini di sei anni. I cosiddetti "campi estivi" del PIJ attirano fino a 10mila partecipanti per sessione e le giovani leve vengono svezzate con gli AK-47, che imparano a maneggiare prestissimo, mentre piantare mine e operazioni di simulazione per rapire soldati israeliani sono i nuovi giochi senza frontiere. Il portavoce del PIJ Daoud Shihab descrive questa formazione dei bambini come un modo per assicurare "una generazione di forte [resistenza]". Tuttavia, questi campi di "Generazione della Fede" non sono limitati all'addestramento da combattimento. Le reclute sono "istruite intellettualmente, militarmente e politicamente". Ahmad al-Moudalal, uno dei capi del PIJ che aiuta ad addestrare bambini combattenti, ha spiegato: "Siamo movimenti di resistenza. È quindi normale per noi voler attirare i giovani, instillare nella loro mente la cultura della resistenza e prepararli a portare armi contro il nemico israeliano".
Il PIJ è responsabili di centinaia di attacchi terroristici contro Israele, compresi attentati suicidi. Negli ultimi anni, il gruppo ha anche lanciato razzi. L'Iran considera il PIJ il suo principale alleato (e burattino) nella Striscia di Gaza. È attraverso il PIJ, che l'Iran fa addentrare i suoi tentacoli negli affari interni dei palestinesi, con grande sgomento del presidente Mahmoud Abbas e dell'Autorità palestinese sostenuta dall'Occidente. Nonostante l'apparente riavvicinamento, l'Iran ha forti riserve sul nutrire fiducia in Hamas. Scetticismo che nasce dalla paura dell'Iran di vedere Hamas raggiungere un accordo di riconciliazione con Fatah e un accordo di tregua con Israele. Alleanza che, agli occhi dell'Iran, costituirebbe un'onta notevole da parte di Hamas: qualsiasi accordo con Fatah significherebbe che Hamas è pronto a unire le forze con Abbas e, peggio ancora, impegnarsi in futuri colloqui di pace con Israele. Qualsiasi accordo di tregua con Israele significherebbe che Hamas è pronto a deporre le armi e ad abbandonare la lotta armata contro il "nemico sionista". "Resa" che sarebbe un colpo per i mullah di Teheran, che hanno dichiarato l'obiettivo, da sempre, di eliminare Israele.
Pertanto il PIJ è il vero alleato nell'arena palestinese per l'Iran. Ed è per questo che il movimento sta facendo del suo meglio per dimostrare la sua affidabilità ai suoi padroni a Teheran. La scorsa settimana, l'ala militare del PIJ ha di nuovo inviato i suoi combattenti armati fino alle strade della Striscia di Gaza, in uno spettacolo di forza diretto contro Hamas, l'Iran e il resto del mondo. Abu Hamzeh, un portavoce delle Brigate di Gerusalemme, ha dichiarato con orgoglio durante la marcia che il suo gruppo paramilitare "non potrà mai scendere a compromessi o contrattare su un solo centimetro di tutta la Palestina". "Le nostre armi sono il simbolo del nostro orgoglio e potere del nostro popolo, resisteremo a tutte le cospirazioni e sventeremo tutti gli schemi volti a liquidare la nostra causa".
È davvero improbabile che la striscia di Gaza sia testimone di tempi di pace prossimamente, anche perché se Hamas dovesse essere delegittimato, ci sarebbe il PIJ a riempire il "vuoto". Sta di fatto, per adesso, che Hamas e PIJ sono come due fagioli del medesimo baccello. Entrambi non riconoscono il diritto di Israele di esistere e continuano a chiedere una lotta armata per "liberare tutta la Palestina", dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano. E sebbene si consideri un gruppo indipendente, il PIJ opera spesso coordinando le operazioni con Hamas. I due gruppi hanno persino un "comando operativo" congiunto per coordinare gli attentati contro Israele.
(La Nuova Bussola Quotidiana, 21 ottobre 2018)
Quelle madri ebree che sconfessano Macron: si può avere molti figli ed essere laureate
di Paolo Castellano
Ha fatto discutere una frase pronunciata da Emmanuel Macron sulle donne che fanno molti figli: «Io ripeto sempre: "Presentatemi una donna che abbia scelto, avendo una perfetta educazione, di avere 7, 8, 9 figli». Tali parole sono state espresse lo scorso mese durante un evento alla Fondazione Bill & Melinda Gates di Washington. Macron è stato infatti criticato per un passaggio del suo discorso sulle donne, i bambini e l'educazione in Africa.
Come ha riportato il Wahsington Examiner, le dichiarazioni del presidente francese hanno fatto arrabbiare i genitori con molti figli e i gruppi femministi americani. Tanto che su Twitter è diventato virale l'hashtag #PostcardstoMacron: delle vere e proprie cartoline di famiglie allargate, in cui le madri laureate o con un'alta istruzione posano insieme alla prole. Le donne americane hanno dimostrato fotograficamente che è possibile avere allo stesso tempo una carriera e una grande famiglia.
«Non è vero che le donne istruite fanno pochi figli», hanno scritto due giornalisti ebrei sulla rivista digitale Forward. Il 18 ottobre, Nachama Soloveichik (vicepresidente di Cold Spark Media) e Menachem Wecker (giornalista) hanno affermato in un loro articolo che la condizione delle moderne famiglie ortodosse confutano il pensiero di Macron e attestano che le madri ebree non sono per nulla ignoranti o sottomesse alla religione. «Casalinghe, dottoresse, insegnanti. Queste sono madri ebree orgogliose di avere un'educazione e una famiglia numerosa», hanno sostenuto Soloveichik e Wecker, che poi hanno aggiunto: «Entrambi siamo i secondi di 7 fratelli. Una madre è consulente tecnologica di una delle 5 più grandi aziende americane di consulenza. L'altra è invece laureata in biochimica». I due opinionisti hanno poi sottolineato che le loro mamme sono riuscite ad emergere nel mondo del lavoro nonostante le difficoltà legate alle esigenze di una famiglia numerosa: «I loro 14 figli (somma generale) hanno conseguito 23 titoli di studio, incluse delle lauree ad Harvard, alla Cornell e un dottorato alla Princeton University».
Tuttavia, Soloveichik e Wecker hanno confermato che c'è un legame tra bassa scolarizzazione e un alto numero di figli, citando una ricerca del Pew Research Center. Ad ogni modo, da questi dati però emerge che le donne con una "perfetta istruzione" sono più propense ad avere tanti bambini. La tendenza si verifica anche in un contesto ebraico.
Riprendendo le parole dei due giornalisti di Forward: «Non è vero che chi ha tanti figli è meno intelligente. Altrettanto offensivo è inoltre affermare che le donne sono costrette a tante gravidanze per questioni religiose». Avere figli rimane una scelta e non un obbligo.
(Bet Magazine Mosaico, 21 ottobre 2018)
Israele rinvia la demolizione della "Scuola delle gomme"
Il premier Netanyahu ha annunciato la sospensione dell'abbattimento del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, in Cisgiordania. Il premier vuole portare avanti l'attuale fase di negoziati
Slitta la sentenza di morte emessa da Israele nei confronti del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, in Cisgiordania, dove si trova la 'Scuola di gomme', diventata il simbolo della protesta di quanti, anche a livello internazionale, si sono mobilitati per la sopravvivenza di questo luogo.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato in serata di aver rinviato sine die la demolizione del villaggio sul quale pende la decisione della Corte suprema che ha stabilito - dopo una lunga battaglia giudiziaria - che gli abitanti di Khan Al-Ahmar devono demolire da soli le proprie case e tutte le strutture del sito entro il primo ottobre del 2018. In caso contrario, ad ultimatum scaduto, toccherebbe ai bulldozer dell'esercito di Tel Aviv di radere al suolo il villaggio.
Secondo i media israeliani, l'obiettivo del premier israeliano, con questo rinvio, è di "fare di tutto per portare avanti il processo negoziale e le proposte giunte da varie fonti, incluse quelle arrivate negli ultimi giorni".
Khan Al-Ahmar, secondo la Corte Suprema, è stato costruito senza i permessi necessari delle autorità di Tel Aviv e si trova nell'Area C dei territori palestinesi, quella, in base agli accordi di Oslo, sotto controllo amministrativo e militare israeliano.
Contro la demolizione del villaggio - costruito negli anni '70 dai palestinesi beduini della tribù dei Jahalin cacciati dal deserto del Negev dopo il 1948 - sono scesi in campo sia la Ue, i cui rappresentanti a Gerusalemme sono stati più volte nel luogo, sia l'Onu. Lo scorso 11 settembre cinque paesi europei, Germania, Francia,Italia, Spagna e Gran Bretagna, hanno fatto appello ad Israele per farlo desistere dalla decisione: "Le conseguenze che una demolizione e uno spostamento avrebbero sui residenti della comunità, inclusi i suoi bambini, così come sulla prospettiva della soluzione a due Stati - hanno ammonito - sarebbero molto serie".
(la Repubblica, 21 ottobre 2018)
A Gerusalemme il congresso dei giovani italo-israeliani
Organizzato dalla Hevrat Yehudei Italia si terrà il 9 e 10 novembre a Gerusalemme lo Shabbaton-Congresso 5779 della Giovane Kehilà, congresso rivolto ai giovani italo-israeliani dai 18 ai 35 anni. "Lo Shabbaton rappresenta il principale appuntamento bimensile nella cui cornice i giovani italo-israeliani possono incontrarsi, stringere legami, discutere delle sfide all'orizzonte, costruire progetti, rafforzare l'identità italo-israeliana e creare la leadership dell'Ebraismo italiano", spiegano i membri del consiglio uscente della Giovane Kehilà, Dario Sanchez, Daniel Oren, Benedetta Calò, Yael Di Consiglio e Michael Sierra.
Il Congresso, aggiungono, "rappresenta il principale appuntamento annuale per le elezioni dei membri del Consiglio della Giovane Kehilà e del Collegio dei probiviri e per eventuali modifiche alla Statuto. In questa occasione invitiamo la Comunità intera (oltre i 35 anni) a proporre iniziative e progetti in cui è richiesto il coinvolgimento dei giovani. Le varie idee verranno discusse e valutate in Congresso". Gli interessati possono inviare il proprio contributo alla mail: Giovane.Kehila@gmail.com.
Lo Shabbaton-Congresso è ricco di appuntamenti. Fra questi: volontariato in casa di riposo, escape-room, visita guidata sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, Pasti di shabbat e alloggio in albergo, tefillot al Tempio italiano di Gerusalemme, incontri istituzionali, dibattiti e una festa. L'evento si svolgerà in italiano e in ebraico. La guida completa del Congresso con il programma degli appuntamenti verrà mandata e consegnata (in formato cartaceo) a tutti gli iscritti.
(com.unica, 21 ottobre 2018)
I discendenti degli ebrei sfuggiti al nazismo scappano dalla Brexit
di Luigi Ippolito
A volte anche le peggiori tragedie della storia conoscono un finale che vira verso l'ironia. Durante gli anni del nazismo migliaia di ebrei fuggirono dalla Germania per trovare riparo in Gran Bretagna: oggi i discendenti di quei profughi muovono a frotte verso i consolati di Berlino alla ricerca di un passaporto tedesco. In fuga, evidentemente, dalla Brexit. Le cifre sono quasi sconcertanti: nel 2015, soltanto 43 nipoti e pronipoti dei fuggiaschi ebrei avevano fatto richiesta per diventare cittadini della Germania; nel 2016, l'anno del referendum sull'uscita di Londra dalla Ue, erano già diventati 684, concentrati per lo più dopo la data del voto; e l'anno scorso le domande sono schizzate a 1.667. Si tratta innanzitutto di procacciarsi una polizza di assicurazione: con l'incertezza che circonda tuttora i termini finali della Brexit, mettere in tasca un passaporto europeo significa garantirsi la possibilità, per il futuro, di poter continuare a viaggiare e lavorare indisturbati nell'Unione. Non è un caso che tantissimi inglesi, negli ultimi tempi, si siano improvvisamente ricordati di avere una nonna irlandese e siano corsi a procurarsi un passaporto di Dublino. Ma nel caso dei discendenti degli ebrei la scelta ha un sapore diverso: si tratta, come ha detto al Financial Times il capo di una associazione di rifugiati ebraici, di reclamare qualcosa che apparteneva a loro o a i loro genitori, una parte della loro identità. E che era stata strappata con violenza: nel 1941 il regime nazista spogliò della cittadinanza tedesca tutti gli ebrei che avevano lasciato la Germania. Oggi, in riparazione, la stessa Costituzione della Repubblica Federale garantisce ai discendenti dei profughi la cittadinanza automatica, senza dover dimostrare la residenza o superare test di lingua. Evidentemente, per gli ebrei è più facile ormai riconciliarsi con la pacifica Germania del XXI secolo che con la Gran Bretagna persa nella deriva della Brexit.
(Corriere della Sera, 21 ottobre 2018)
Evitata l'escalation al confine tra Israele e Gaza
Nonostante le tensioni dei giorni scorsi
Nonostante gli scontri, i feriti tra manifestanti palestinesi (oltre cento) e il lancio di palloni incendiari verso Israele, la situazione al confine con la striscia di Gaza non è precipitata come si temeva. Gli appelli alla calma dell'Onu e la mediazione egiziana con Hamas (una delegazione del Cairo è da giorni a Gaza) sembrano aver raffreddato l'atmosfera di forte tensione che da giorni aleggiava al confine. Solo due giorni fa il Consiglio di difesa israeliano aveva infatti annunciato un "cambio di regole" per fronteggiare le violenze al confine. Una mossa accoppiata al dispiegamento deciso dai vertici militari di maggiori truppe - tank, artiglieria e genio - a ridosso della frontiera con Gaza.
Ieri, come ormai da molti mesi, migliaia di dimostranti palestinesi - circa diecimila secondo l'esercito israeliano - si sono radunati in diversi punti del confine per manifestare con Israele. Ad organizzare i cortei è stato Hamas, nell'ambito della cosiddetta "grande marcia del ritorno" che vuole ricordare i settant'anni della Naqba (catastrofe) che per i palestinesi coincide con la nascita dello stato di Israele nel 1948. In diversi punti (al sud, al centro e nel nord della Striscia) i dimostranti hanno cercato di aprire brecce nei reticolati di confine, ma sono stati respinti dai militari. Un velivolo dell'aviazione dello stato ebraico ha poi sparato colpi in direzione di «una squadra di terroristi che stava lanciando palloni incendiari» verso lo Stato ebraico dal sud della Striscia. Non sono state registrate vittime.
Prima delle manifestazioni, l'inviato dell'Onu Nickolay Mladenov aveva ricordato su twitter che «le Nazioni Unite lavorano assieme con l'Egitto e i suoi partner per evitare violenze, per far fronte alle questioni umanitarie e per sostenere la riconciliazione fra le principali fazioni palestinesi».
(L'Osservatore Romano, 21 ottobre 2018)
I volenterosi delatori sabaudi che schedarono gli ebrei torinesi
All'Archivio storico della Città le carte dei censimenti degli israeliti Colpisce lo zelo dei funzionari prima ancora delle leggi razziali.
di Francesca Bolino
Ferrer José fu José. Con un nome del genere sarà ebreo questo signore? L'atroce dubbio tormenta l'oscuro burocrate, la questione va chiarita. È il 13 giugno 1938, la legge contro gli ebrei non è ancora stata approvata, ma lo zelo già serpeggia negli uffici e dal comune di Torino parte una circolare dai toni ultimativi: «Dovendo rispondere alla richiesta da parte del Ministero delle Finanze, Divisione Lotto, vi prego di volermi far conoscere, con cortese sollecitudine, se il signor Ferrer José fu José, residente in Torino, Via XX Settembre n. 8, venditore del biglietto della Lotteria Nazionale E.42 vincente il terzo premio, appartenga o meno a razza israelitica. Fascistici saluti». Ferrer è ebreo, non potrà incassare la vincita. Ma un ariano si propone al suo posto, con la promessa di una lauta mancia. Così andavano le cose nella Torino delle leggi razziali. Quello che colpisce però, da documenti d'archivio che saranno in mostra da domani nella vecchia Anagrafe di via Barbaroux, è uno zelo tutto torinese nell'applicare la direttiva sulla razza. L'immagine - o il mito - della Torino antifascista, città tradizionalmente fredda nei confronti del duce, resta piuttosto scalfita. Già ad agosto, e quindi ben prima dell'entrata in vigore delle leggi sulla razza, l'amministrazione aveva fatto richiesta a tutte le scuole di inviare gli elenchi degli alunni per i quali le famiglie avevano chiesto l'esenzione dall'insegnamento della religione cattolica, con la presunzione che si trattasse di ebrei. Lo stesso vale per gli insegnanti. E tutte le scuole rispondono, con tragica prontezza.
A Roma avevano fretta, anche se chiedevano che tutto fosse fatto con grande discrezione. Se ci fosse stato bisogno di far fare al personale degli straordinari per completare il censimento, si sarebbero stanziati appositi fondi. Ma a Torino ci avevano già pensato. Nella mostra si potrà leggere la delibera del Comune datata 3 ottobre per finanziare gli straordinari per i dipendenti, che «hanno lavorato con enorme zelo, la sera, durante i giorni festivi, per arrivare a raccogliere quanti più dati possibili».
Gli ebrei non potevano accedere alle biblioteche, non potevano allevare colombi, non potevano avere porto d'armi, erano esclusi dall'esercito. Via dalla pubblica amministrazione. Non potevano esercitare il commercio ambulante, né affittare camere. I professionisti medici e veterinari potevano esercitare solo sugli ebrei. Il censimento è stato effettuato in modo capillare, ad esso ha collaborato anche la Diocesi con la verifica sui documenti dei matrimoni. E ogni anno veniva aggiornato. «Quello che colpisce di più nel leggere ora queste carte - dice l'archivista Luciana Manzo - è la freddezza della documentazione raccolta se si pensa che si trattava di vite umane e soprattutto all'uso che ne sarebbe stato fatto».
Ma nella mostra sul censimento degli ebrei curato da Luciana Manzo e Fulvio Peirone si trova anche l'altra faccia della medaglia e cioè gli ebrei che tentavano di sfuggire alla discriminazione vantando meriti fascisti e con ciò liberarsi dall'infame marchio. La documentazione è spesso penosa: «Io ero fascista dalla prima ora; nel 1919 ero sansepolcrista; ho fatto la prima guerra da volontario; tre medaglie d'oro e d'argento» ...
La mostra è a cura dell'archivio storico del Comune di Torino e fa parte del progetto "1938-2018. A 80 anni dalle leggi razziali" promosso dal Polo del '900, dall'Università degli studi e dalla Comunità Ebraica di Torino; coordinato dal Museo Diffuso della Resistenza. Erano passati 90 anni dagli editti di re Carlo Alberto per la libertà di culto nel regno sabaudo. Oggi siamo a 80 dalle leggi razziali. E mai si sarebbe detto che il tema fosse destinato a tornare d'attualità.
(la Repubblica - Torino, 21 ottobre 2018)
Il tempo presente
di Aldo Zargani
"Era una notte buia e tempestosa
" (Snoopy, Peanuts, XX secolo).
Per un incipit sul tempo presente si devono scrivere parole generiche, quelle che poi divennero anche ridicole per merito di Charles Schulz, l'autore dei Peanuts: il tempo presente del XXI secolo è nei fatti una notte buia e tempestosa.
Cosa non si fa per cercare di non cadere in ripetizioni, per uno come me che sviscera quel poco che pensa, rendendolo di dominio pubblico. Eccovi adesso una delle mie iterazioni preferite. Quella su Hanna Arendt. I grandi filosofi presentano la strana caratteristica di essere in qualche modo eterni quando dicono cose giuste, ma anche cose sbagliate. Hanna Arendt, per me, è quella grandissima di On revolution, ma anche quella mediocre delle considerazioni sul processo Eichman. L'unica cosa che mi sta sul gozzo di quel processo è infatti la sentenza di impiccagione: lui, come gli altri indimenticabili criminali nazisti, avrebbe dovuto essere studiato per anni e anni allo scopo di comprendere la malattia che lo affliggeva che non era una malattia sua, che non era una malattia mentale, ma una tara del genere umano.
A quelli che manifestano il proprio stupore, consiglio a sproposito di rileggere il volumetto di Hannah Arendt La banalità del male. È ovvio che il Male nella sua piena apocalissi della metà del secolo scorso, quando la gente non riusciva più a distinguere i contabili dai macellai, poteva essere definito banale solo da una filosofa, ma, all'epoca in cui viveva ancora la sua fase infantile - anni Venti del 1900 - il Mostro faceva persino ridere: il Fascismo si vantava di essere una "rivoluzione", pensate un po'!, e a Monaco un certo Adolf Hitler era noto in città come il curioso buffone da birreria che sembrava ubriaco solo perché era tutto scemo
Siamo adesso dunque in un'epoca nella quale il Mostro è ancora un poppante?
Non è mia intenzione rivangare la Storia recente della quale sono ahimè testimone-bambino e neanche di inabissarmi in profondità scientifiche inadatte a me, ma di narrare il brancolare nella caverna alla ricerca di qualche filo di Arianna: dicono che il Minotauro è stato fatto fuori da un bel pezzo, ma dov'è l'uscita dal Labirinto?
Siamo confusi e avviliti e lo è anche gente non ancora minacciata dall'arteriosclerosi: "Sono esasperato dall'establishment. Perciò ho votato Lega per vedere almeno qualcosa di nuovo". Se penso che negli anni 49-51 del mio liceo classico, i migliori professori ci incoraggiavano nelle nostre quotidiane fatiche ripetendoci: "Voi siete la classe dirigente del futuro", le gambe mi fanno giacomo giacomo. Oggi la classe dirigente si occupa solo di preservare se stessa, quella del futuro è pentastellata, ex montanara del Nord e autofaga democratica.
Conosco una sola categoria di lavoratori munita di certezze irrevocabili, i tassinari (taxisti, fuori di Roma): "Il fascismo ha fatto anche tante cose buone, altroché"; " Le armi ai privati sono indispensabili sennò diverremmo preda dei negri che i comunisti fanno entrare a fiumi in Italia per mantenere il potere"; "Gliela dico io, la soluzione: un uomo solo al comando, che faccia filar dritto tutti gli altri"; "No a nuove licenze di taxi, noi difendiamo le nostre famiglie dalla fame, si riducano gli stipendi ai manager piuttosto"; "Regalano agli immigrati i soldi che spettano a noi".
È il mondo della semplificazione che rispecchia l'incomprensibile realtà.
Esistono certamente altri gruppi meno standardizzati e un po' più perspicaci, noi ebrei per esempio che in Italia siamo un gruppo delle stesse dimensioni numeriche dei tassinari, ma che presenta al suo interno differenziazioni rilevanti: mestieri, censo, livelli culturali, intelligenze eterogenee, origini etniche, spessori morali, convinzioni politiche...
Eppure anche noi siamo indotti alle semplificazioni. Parliamo ininterrottamente di Israele, della Diaspora, della Memoria, come se davvero sapessimo che cosa sono e come se i nostri interlocutori fossero in grado di comprenderci.
Se si prende tutto questo bailamme giudaico e lo si mette, come sembra che il destino abbia voluto, in fila per uno (dai neonati fino ai centenari), su un tapis roulant che si muove lento ma inesorabile avanti e indietro con moto continuo rispetto al "tempo esterno", emergono alcuni fenomeni strani che però non risultano nuovi a nessuno di noi.
Tanto per cominciare, i tassinari ci guardano e ci moltiplicano almeno per dieci se non per cento, cosicché da trentamila circa che siamo, diventiamo nella sola Italia trecentomila, se non addirittura tre milioni. Chi è disposto a pensare che i romeni in Italia sono molto più numerosi di noi? Di conseguenza gli chauffeur di auto di piazza reputano che i nostri famosi sei milioni di morti ammazzati in Europa siano un'esagerazione. Quindi la cifra delle vittime varierebbe da zero a cinque milioni scarsi, forse anche meno. Comunque mai e poi mai più numerosi delle innumerevoli vittime civili dei bombardamenti americani!
D'altra parte, la sindrome del tappeto espositivo semovente fa sbarellare anche noi: nel primo dopoguerra ero orgoglioso del mio essere ebreo perché l'ebraismo si trovava, bella forza!, a sinistra del mondo. I tassinari ci vedevano come bolscevichi tutti contenti delle macerie che avevamo seminato. Studiatevi in proposito il maccartismo e il processo dei coniugi Rosenberg e vedrete. Ma il tappeto si muoveva si muoveva, si muoveva, finché diventammo un inceppo del mondo del progresso, come gli "assassini in camice bianco" del compianto Giuseppe Stalin e il processo Slansky di Praga hanno, a chiare lettere!, dimostrato. Adesso invece stiamo andando molto meglio: nell'opinione dei tassinari Israele è un avamposto della civiltà dell'Occidente in difesa dalla barbarie maomettana.
Lasciamo per strada la metafora del tappeto semovente che ci ha già stufato e ricorriamo a un altro astuto espediente narrativo: l'ingrandimento fuori misura di modesti accadimenti giovanili.
Nel 1948, dopo la Dichiarazione d'Indipendenza del 15 maggio, gli Stati Arabi attaccarono a cannonate il neonato Stato d'Israele, e siccome a quell'epoca di settant'anni fa noi risultavamo ancora simpatici, molta gente si presentava alla Comunità Ebraica di Torino per esprimere solidarietà: si installò un tavolino per raccogliere le firme come si fa ai funerali. Per qualche tempo ci trovammo seduti al tavolo Elena Ottolenghi e io, poco più che quindicenni. Si presentarono due giovanotti sconosciuti, alti, pallidi, magri ed eleganti che volevano combattere in difesa di Israele. Ci colse uno spavento preventivo perché con tutta evidenza i due erano ex brigatisti neri, e ora mi tocca raccontare come si individuavano di primo acchito quei "veterani" di allora. Ancora giovanotti. Magri e pallidi, perché neppure nelle Brigate Nere c'era stato il bengodi e soprattutto perché, dopo la guerra, molti di loro erano stati poi schiaffati per lunghi mesi dagli Alleati in qualche campo di concentramento come quello famoso di rieducazione di Coltano (Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Walter Chiari e alcuni miei carissimi amici di un futuro allora ancora imprevedibile). Usciti in ritardo dal mondo in divisa, qualche mano pietosa di centrodestra passava la grana ai Repubblichini perché si vestissero a modino con tanto di cravatta chic. Elena trovò il coraggio di chiedere ai due elegantoni: "E perché volete combattere per gli ebrei?". La risposta "rassicurante" dei mimetizzati fu: "Per difendere la razza bianca".
Obiettammo con gentilezza untuosa che non ci occupavamo di volontari, e più tardi, confusi e disperati, ci chiedevamo quale sarebbe stato il loro disappunto nel constatare de visu che anche gli arabi sono di razza bianca
Ci sarebbe molto altro da dire ma nella notte buia e tempestosa del nostro presente attuale mi vengono in mente nuovi incubi da narrarvi.
Il caos nel quale stiamo campando nasce anche dal fatto che la realtà è un garbuglio. Tale complessità può essere intuita riflettendo sul tumultuoso progresso scientifico e tecnologico. Noi che non sappiamo ancora di preciso per quale arcano mistero si accenda il nostro televisore, siamo obbligati a constatare che l'umanità conosce già la mappa dettagliata di ogni Pianeta e ogni Satellite del Sistema Solare salvo quel qualcosa di enorme che si manifesta oltre l'ottavo, il denigrato pianetino Plutone. Ebbi il privilegio di imparare in seconda elementare i nomi in cui si divide la catena montuosa delle Alpi, avendo avuto la fortuna di una maestra che, con minacce orribili, ci fece imparare a memoria la filastrocca delle iniziali: "Ma Con Gran Pena Le Re Ca Giù". Quando penso ai Pianeti che ci sovrastano con i loro sistemi satellitari, le loro catene montuose, i fiumi e i mari di piombo, i fiumi e i laghi di metano, in giro nei cieli ognuno per i fatti suoi, mi metto a contemplare la rasserenante Menorah che rappresenta i giorni della Creazione, quelli della settimana e forse anche le lucette tremolanti dei Sette Cieli del tempo che fu.
Dice che c'è la crisi delle democrazie, pare che così sia per la crisi delle Nazioni, dicono che il socialismo è scomparso e qualcuno blatera che anche il capitalismo sta malissimo. Nessuno conosce più il futuro, e il fatto che nessuno mai lo abbia saputo nei tanti millenni di oscurità fino a che lo decifrò un grande filosofo del XIX secolo, Carlo Marx, non ci è di nessun conforto, stante che adesso sembrano svaniti nel nulla il proletariato, la borghesia, la classe media, che sono volati ai Campi Elisi a far compagnia all'aristocrazia e alla classe ecclesiastica. Tutto ciò ci spinge appunto a pericolosissime semplificazioni che ci legano, volenti o nolenti, al semplicistico mondo dei tassinari.
Allarmatissimi, tutti stiamo pensando di ricominciare da zero. Ma da zero che cosa? Pare proprio che il Sommo Pontefice abbia deciso anche lui in tal senso e penso con raccapriccio a quando in Piazza San Pietro, dovrà proclamare Urbi et Orbi che in ascensore si fanno entrare prima le signore, poi ci si toglie il cappello
Quindi me ne esco in extremis con una nuova proposta: quella di ricominciare dai fatti nostri già irti di complicazioni, premettendo però qualche considerazioncina introduttiva.
È noto che gli uomini e le donne si stanno alzando di statura, ma non se ne conoscono ancora le cause dettagliate. Si suppone che nei tempi beati del passato l'evoluzione privilegiasse i più piccoli: meno necessità di mangiare durante le carestie, profili sottili atti a scansar meglio le sassate degli avversari. Prima dell'evoluzionismo lo scoperse il geniale ma anonimo autore della leggenda di Davide e Golia: il Grande Re d'Israele non sarebbe arrivato con i suoi piedini a toccare i pedali di un'automobile.
Ma la sorpresa più sbalorditiva è l'aumento degli anni di vita media probabile: ho superato di 20 anni e forse più la durata di vita dei miei antenati, almeno di quelli che posso ricordare e tutto mi fa pensare che andando ancora più indietro, possa finire col sentirmi una specie di Matusalemme di ritorno. Comunque all'età della pietra, per non parlar di prima ancora, le ossa che si trovano sotterra sono tutte di gente giovane. Relativamente giovani erano anche le mummie egizie, salvo ben poche eccezioni.
È vero che Antonio Gramsci fece una sua grande scoperta: essere la vita culturale dell'uomo superiore ai cento anni circa, e cioè dall'infanzia dei genitori all'età giovanile dei nipoti. Ma un conto è la vita culturale che può far ricordare perfino del Pelide Achille l'ira funesta, un conto è quella della identificazione fisica della propria persona con gli accadimenti storici, le grandi evoluzioni del genere umano. La mia generazione è ancor più fortunata delle altre perché ci è stata somministrata la potentissima droga del sopravvissuto-testimone. Mi sa che qualche droga di questo genere sarà passata ai nostri figli che hanno visto un mondo senza computer, ma vissuto già le vicende orrende e confuse dei social network, via Zuckerberg andando.
Queste considerazioni estemporanee sulla statura e sulla speranza di vita media probabile sono quasi completamente sbagliate: i dati differiscono da una Nazione all'altra, da una regione all'altra, da un livello di vita all'altro. Semplificazioni.
Debbo interrompere la scrittura per correre fuori a cena con alcuni vecchi amici buontemponi.
Sono tornato, ho riletto quel che avevo scritto fin qui, e mi sono accorto di aver parlato ben poco di Israele e della Diaspora che rappresentano tante cose, talvolta confortevoli, ma anche colpi di vento fra i più sibilanti della notte buia e tempestosa.
Avviso che talvolta mi scapperà di chiamar me stesso "Diaspora" per un insieme aggrovigliato di narcisismo, modestia, egocentrismo, altruismo, carenza di sondaggi disponibili e altro. Una semplificazione da tassinaro.
Israele è una Repubblica democratica del MO (sarebbe forse meglio dire situata nel MO?), ormai con alcuni milioni di abitanti: ebrei, atei, religiosi Ortodossi ma anche parecchi Riformati, immigrati non classificati ebrei, tra i quali alcune migliaia di russi emigrati dalla Unione Sovietica che sono cittadini di pieno diritto anche se non ritenuti sufficientemente ebrei dal Rabbinato locale. Non so come sia finita la vecchia storia degli ebrei etiopi e di quelli neri misteriosi dell'Africa buia che leggono la Torah, ma non conoscono il Talmud, e per questo motivo restano per il Rabbinato Ortodosso fra color che son sospesi. Santo cielo! Non solo mi sono dimenticato di comprare il secondo volume in italiano del Talmud ma mi sfuggiva che quasi due milioni di cittadini israeliani di pieno diritto sono Arabi, musulmani o cristiani che siano. Non so bene se e quanto sia separata la religione ebraica dallo Stato. Che viene chiamato di frequente Stato Ebraico ed è in guerra eterna col mondo Arabo fin da prima che io nascessi nel 1933, ma certamente dal 1948. Ci sono linee armistiziali o di cessate il fuoco, linee cosiddette verdi che non vengono rispettate da nessuno né in teoria né in pratica e sono discusse ripetutamente nelle trattative di pace, periodiche a casaccio, infruttuose, tutte fallite. L'unico confine certo oltre a quello del Sinai è quello della Striscia di Gaza, per la quale lo Stato Ebraico si dichiarò sconfitto e che sgomberò dagli ebrei, militari e civili, all'epoca del Generale Sharon (z.l.) previa sprangatura spietata ma comprensibile. Di conseguenza la Strip dei Gazisti spara periodicamente missili sulla popolazione ebraica circumvicina, compie attentati, rapimenti e ricatti e varie altre allegrie. Le quali sono contraccambiate da Israele con bombardamenti di rappresaglia terroristica condannati sistematicamente dall'ONU. I Gazisti giocano con la sabbia scavando tunnel per balzare all'improvviso in mezzo agli Israeliani, certamente allo scopo di stringere nuove amicizie di spiaggia.
Non è un gran bel vedere e gli israeliani, dopo aver eletto democraticamente i propri governi, ritenuti a torto o a ragione i più adatti, si comportano malino anche in altre occasioni. Ma, se uno Stato è certamente tenuto assieme da sentimenti e valori, spesso lo è anche dagli interessi, scientificamente studiati dal nostro Rinascimento italiano con uomini di genio tipo i Machiavelli e i Guicciardini e applicati da gente più andante e pragmatica come i Borgia. La Diaspora non se ne compiace e ben poco è confortata dal pensiero che queste distopie possano essere corrette solo dai residenti.
Fra i tanti scopi per cui si arrivò alla fondazione dello Stato vorrei, evitando nomi, date e riferimenti storici, ricordare che nel corso del XIX secolo si arrivò a una così impegnativa e discussa decisione per molti motivi fra i quali i principali sono i seguenti: creare un tipo di ebreo nuovo, costituire un rifugio per gli ebrei perseguitati, calmare le spinte antisemite che spesso consideravano gli ebrei dei "senza patria". Fra l'altro.
Per quanto si riferisce al rifugio dei perseguitati e ancor più al tipo di ebreo nuovo, Israele può proclamare la sua vittoria. Basti pensate che in molto meno di un secolo, gli israeliani sono divenuti per noi della Diaspora una specie di nuovi "yankee", mentre noi della Diaspora siamo rimasti agli occhi degli israeliani "gente un po' british". Disturbati da sgarbi e omicidi, gli ebrei francesi delle banlieue di Parigi cambiano flemmaticamente di quartiere, se possono, oppure quelli proprio poveri se ne partono, sempre flemmaticamente, verso Israele.
Fallimento totale invece della lotta all'antisemitismo e infatti qualsiasi atto compia Israele, o pensiero formuli, o atteggiamento assuma, si riverbera immediatamente sulla Diaspora da destra o da sinistra, ma sempre negativamente.
E parliamo ora della Diaspora che oggi vive in Europa e soprattutto in America, con un numero di esseri umani tendenzialmente uguale a quello degli Israeliani.
Durante la II Guerra mondiale, Moshè Sharret, che poi sarebbe diventato il Presidente del Consiglio più di sinistra di tutta la storia dello Stato di Israele, raccolse al Teatro Adriano in Roma molti soldati della Brigata Ebraica per discutere su una proposta che intendeva avanzare agli Alleati. La sua pensata consisteva nel chiedere l'ammissione all'ONU del Popolo Ebraico tutto intero. Va osservato in proposito che a quell'epoca, 1944, lo Stato di Israele era ben lontano dall'esistere, e comunque Winston Churchill si oppose fermamente alla proposta e per fortuna non se ne fece più nulla. Per fortuna, perché la Diaspora è talmente complessa e multiforme da renderle impossibile il rappresentare compiutamente se stessa, e infatti la Diaspora trova una sua rappresentanza attendibile solo nelle organizzazioni cittadine, mentre difficilmente si riescono a individuare le sue esatte tendenze nelle organizzazioni nazionali, figuriamoci poi in quelle internazionali!
Se si passa a esaminare i rapporti tra Israele e Diaspora, la situazione si complica fino all'inesprimibile. È vero che c'è una forte tendenza autoritaria da parte dei Rabbini Ortodossi di Israele a negare qualsiasi autorità agli altri dovunque essi siano, cosa che agli altri non gliene importa quasi nulla, ma in sostanza l'ebraismo è il massimo della pluralità, ma non è mai stato pluralista (parola di Amos Luzzatto, è lui che me lo ha insegnato).
Ed ecco qui una storia illuminante che spero possa rivelarsi una fake news: è primavera, in piena stagione dei carciofi 2018, e qualche teorico israeliano Ortodosso del cibo kasher avrebbe irresponsabilmente sostenuto che gli ebrei non possono mangiare i carciofi, men che meno i carciofi alla giudìa (sic!). Basta girare per i ristoranti ebraici del Ghetto di Roma per vedere come può essere divorato quel fiore sublime, una delle portate più famose di Roma e orgoglio del popolo ebraico. Comincio a pensare che se c'è uno Stato che debba separare la religione dalla cosa pubblica, dovrebbe essere innanzitutto Israele a causa della potenza invasiva della religione giudaica che ognuno di noi rispetta e ama, s'intende dal proprio punto di vista.
Se il mix di valori e interessi dello Stato di Israele è imbarazzante come per qualsiasi altro Stato moderno democratico, la stessa cosa non si può dire per la Diaspora, perché il mix di valori e interessi per gli ebrei sparpagliati nel mondo comprende senza alcun dubbio più valori che interessi, e questo non perché gli ebrei siano così tanto disinteressati, ma perché la loro cittadinanza, legata ai Paesi che li ospitano, fa sì che i loro interessi siano protetti, finché lo sono, dai Paesi ospitanti: non sottovalutate questa caratteristica. Io la considero fra le componenti di base del mito antisemita della "Doppia Fedeltà" e quello del "Complotto Mondiale Ebraico".
Per noi ebrei diasporici, che abbiamo un'infinita comprensione per gli uomini randagi è inammissibile la cacciata da Israele dei profughi clandestini neri africani ma anche la cacciata dei profughi da parte di qualsiasi altro Paese del mondo, compreso il nostro in cui abitiamo.
Ciò consegue da un dovere scritto in varie parti della Torah che dice all'incirca: "Rispetta lo Straniero, ricordati che fosti straniero in Terra d'Egitto".
(Doppiozero, 21 ottobre 2018)
Così il Führer conquistò i tedeschi
di Beda Romano
Quando nel 1935 Milton S. Mayer si recò a Berlino il suo obiettivo di corrispondente era di ottenere una ambita intervista con Adolf Hitler.Non ci riuscì. Certo non poteva immaginare che sarebbe tornato nel Paese a guerra conclusa e soprattutto che avrebbe scritto nel 1955 un originale studio della società tedesca ai tempi del nazismo. They Thought They Were Free -The Germans, 1933-1945 è stato appena ripubblicato negli Stati Uniti. A una lettura attenta, contiene straordinari richiami all'attualità politica e si rivela un utile strumento di analisi per capire le vicende contemporanee.
Di origine ebraica e tedesca, Mayer appartiene a una schiera di studiosi americani della Germania nazista. Mentre Saul K. Padoverin L'anno zero (Utet, 2004) si ispirò ai suoi ricordi di soldato americano e William S. Allen in Come si diventa nazisti (Einaudi, 2014) utilizzò statistiche elettorali e sociali, Mayer scelse di investigare le esperienze individuali, intervistando dieci uomini, «dieci piccoli nazional-socialisti».
Gli intervistati appartengono tutti o quasi alla piccola borghesia: bancari, insegnanti, negozianti, artigiani, poliziotti, studenti. Conosciamo il fascino che il carisma del Führer suscitò su un popolo frustrato dal Trattato di Versailles e impoverito dalla Grande Depressione, così come i meccanismi di irregimentazione che segnarono la Germania di quel periodo. Più interessante è capire come e perché i tedeschi assecondarono il crescente e visibile autoritarismo del regime nazista.
La risposta è contenuta nel titolo del libro. Almeno all'inizio, il nazismo offri ai tedeschi l'impressione illusoria di maggiore libertà. Liberi dalle sanzioni imposte alla Germania dopo la Grande Guerra. Liberi dalla presunta oppressione di un altrettanto presunto complotto giudaico-comunista-massonico. Liberi da una Repubblica di Weimar ritenuta corrotta ed inefficiente. Liberi da un mondo intellettuale lontano dalle kleine Leute. Liberi, in un contesto velleitario di autarchia economica.
Il legame di sangue divenne una forma di rassicurazione, un modo per creare una nuova Deutschtum, che doveva promuovere le virtù non intellettuali e proteggere il Paese dalle minacce esterne. Il Reich andava purificato, e lo studioso o il letterato non erano più persone fidate e rispettate, ma diventavano oggetto di sospetto e risentimento. Come non fare un paragone con il presente? In molti paesi, lo stesso euroscetticismo si traduce nel desiderio di liberarsi dagli impegni comunitari e ritrovare una probabilmente illusoria libertà.
Solo gradualmente, il regime nazista divenne autoritario e liberticida, sancendo «una separazione tra il governo e la sua popolazione». Senza accorgersene i tedeschi «sprofondarono in un mondo di odio e di paura, e chi odia e teme non si rende neppure conto di odiare e di temere; quando tutti sono trasformati, nessuno è trasformato», scrive Mayer. L'autore chiese ai suoi interlocutori perché questi non reagivano alle violenze crescenti. La risposta era che non vi era nichts dagegen zu machen, non vi era nulla che si potesse fare.
In realtà, quanto più gravoso è il sentimento di responsabilità di ciascuno di noi dinanzi a un evento, tanto più avremo la tentazione non di respingere ogni responsabilità, bensì di negarne la sua stessa esistenza. La spiegazione che l'autore dà del comportamento dei tedeschi dinanzi ai primi segnali di una uccisione sistematica degli ebrei è convincente, e può essere applicata oggi ad altri fenomeni politicamente più modesti e spesso tragicomici, a iniziare dalle ruberie quotidiane di cui siamo tutti in un modo o nell'altro testimoni. In fondo, in entrambi i casi, le ragioni sono da ricercare nella crisi della democrazia rappresentativa e nella sensazione diffusa che non tutti sono uguali di fronte alla legge.
Il libro di Mayer contiene non pochi moniti, soprattutto quando l'autore spiega che all'ascesa di Hitler contribuì anche la paura molto tedesca dell'accerchiamento, della «pressione esterna». Il Paese è stato definito nel tempo dalle invasioni nemiche, in modo non dissimile dell'Italia. Il Führer cavalcò questo sentimento nel prendere il potere a Berlino. Anche ai giorni d'oggi c'è chi evoca continuamente la minaccia esterna per rafforzare il proprio ruolo politico.
(Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2018)
Ebrei e Sant'Egidio, oggi la marcia 75 anni dopo il 16 ottobre 1943
ROMA - Oggi alle 18.30 la marcia silenziosa di Comunità ebraica e Comunità di Sant'Egidio da piazza Santa Maria in Trastevere al Tempio maggiore sul Lungotevere. La marcia vuole ricordare i 75 anni da quel terribile sabato 16 ottobre 1943 quando le SS di Kappler rastrellarono, all'alba dello shabat, 1.022 ebrei romani: 419 erano uomini, 603 donne, 274 avevano meno di 15 anni, come ha ricordato nei giorni scorsi Silvia Haia Antonucci, responsabile dell'Archivio storico della comunità ebraica romana, e di quei 1.022 torneranno in 16: l'unica donna fu Settimia Spizzichino. Nei giorni successivi al 16 ottobre, altri 730 romani furono deportati verso i campi di sterminio nazisti: 583 uomini, 147 donne e 38 minori di 15 anni. In totale, tra i 1.752 deportati, saranno 118 i romani che, dopo la sconfitta del nazismo, potranno tornare alle loro case.
Alla marcia di oggi, tra gli altri, parteciperanno il rabbino capo della Capitale, Riccardo Di Segni, la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, il cardinale vicario Angelo De Donatis, don Marco Gnavi, parroco di Santa Maria in Trastevere e il presidente della Regione Nicola Zingaretti.
Nei giorni scorsi gli ebrei romani hanno tenuto un'altra marcia per non dimenticare quello shabat nero del 1943, «ma quella era un evento comunitario, senza inviti a politici o giornalisti», spiegano in Comunità. Quella di stasera è una marcia a cui è invitata tutta la città. Nel suo messaggio per i 75 anni della deportazione degli ebrei romani il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha scritto: «Il sacrificio, la tribolazione, il martirio di tanti innocenti, è un monito permanente alla nostra civiltà, che si è ricostruita promettendo solennemente "mai più" e, tuttavia, ogni giorno è chiamata a operare per svuotare i depositi di intolleranza, per frenare le tentazioni di sopraffazione, per affermare il principio dell'eguaglianza delle persone e del rispetto delle convinzioni di ciascuno».
(la Repubblica, 21 ottobre 2018)
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«Io sono il buon pastore»
In verità, in verità vi dico che chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Ma colui che entra per la porta è il pastore delle pecore. A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori. Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce degli estranei». Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono quali fossero le cose che diceva loro.
Perciò Gesù di nuovo disse loro: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti quelli che sono venuti prima di me, sono stati ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura. Il ladro non viene se non per rubare, ammazzare e distruggere; io son venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde. Il mercenario si dà alla fuga perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore. Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest'ordine ho ricevuto dal Padre mio.
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 10
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L'antisionismo del Labour fa fuggire gli ebrei inglesi. In Germania
di Daniel Mosseri
BERLINO - Un primo segnale è giunto venerdì scorso da Gross Glienicke, località turistica a bordo lago, a metà strada fra Berlino e Potsdam. Qua Thomas Harding, origini tedesche e passaporto britannico, ha reinaugurato la Alexander Haus, una villetta di famiglia appartenuta a suo nonno ed edificata sulle sponde del Gross Glienicker See. Harding ha portato un rabbino e invitato la comunità ebraica berlinese a un kiddush per santificare il sabato e salutare il ritorno alla vita di una casa per le vacanze e il divertimento dei bambini rimasta vuota per circa 80 anni.
La Alexander Haus era stata abbandonata dagli Hirschowitz - così si chiamavano gli Alexander prima di trasferirsi in Inghilterra - per scappare alle persecuzioni antiebraiche dei nazisti. Raccontata nel libro The House by the Lake, in queste ore la storia degli Alexander ha fatto scuola. È stato il Funke Mediengruppe a diffondere la notizia che un numero sempre crescente di ebrei oggi britannici sta presentando domanda per recuperare la cittadinanza tedesca perduta dai loro genitori o nonni qualche decina di anni fa. La possibilità à fornita dalla prima fra le Disposizioni transitorie e finali della Costituzione tedesca: "Alle persone già cittadine tedesche che furono private della cittadinanza tra il 30 gennaio 1933 e l'8 maggio 1945, per motivi politici, razziali o religiosi, e ai loro discendenti, deve essere, a richiesta, nuovamente concessa la cittadinanza".
Da giugno del 2016, i sudditi di Sua Maestà Britannica che hanno fatto ricorso al meccanismo del ritorno post-persecuzioni sarebbero 3.408 ma il loro numero ha cominciato ad aumentare dopo il referendum sulla Brexit. Nel 2015 le domande presentate erano 59, salite a 760 nel 2016 (l'anno del referendum, celebrato a giugno), aumentate a 1.824 l'anno scorso e a ben 1.147 nei primi otto mesi di quest'anno. A differenza dei discendenti degli Alexander, la maggior parte dei richiedenti la cittadinanza tedesca non ha una casa al lago da reclamare. Basti pensare ai protagonisti dei Kindertransport, 10.000 bambini (in gran parte ebrei) affidati dai loro genitori (tedeschi) a mani di sconosciuti inglesi pur di metterli al riparo dalla barbarie nazista. Ebrei o no, la Brexit fa paura a molti Oltremanica, e negli ultimi due anni anche le autorità francesi hanno registrato un'impennata di richieste di cittadinanza a vario titolo da parte di cittadini britannici.
La Germania, dal canto suo, non è nuova a operazioni di accoglienza verso gli ebrei: negli anni subito successivi alla caduta della cortina di ferro, Berlino ha aperto le sue porte ad alcune migliaia di ebrei russi, ucraini ed ex sovietici in genere. A molti di quelli cioè che, con l'Urss in macerie, non erano riusciti o non avevano voluto prendere la strada degli Usa, del Canada o d'Israele. Ortodosse o riformate, oggi il russo è la prima lingua più parlata in tutte le comunità ebraiche di Germania. Ma se la Brexit preoccupa i britannici a prescindere dalla loro fede, un altro e più recente fenomeno politico sta spingendo gli ebrei inglesi a guardarsi intorno. È la trasformazione del partito laburista che fu di Tony Blair in una formazione che con Jeremy Corbyn alla sua guida è diventata ossessionata dall'antisionismo, dal sostegno a ogni declinazione politica palestinese, specialmente se macchiata dal terrorismo, ed è più volte caduta in pericolose scivolate antisemite. Violenze verbali e proposte politiche dal chiaro sapore antisemita di recente messe all'indice con grande preoccupazione dall'ex rabbino capo di Gran Bretagna e del Commonwealth, Lord Jonathan Sacks. E forse un domani nelle comunità ebraiche tedesche oltre alla lingua di Gogol' e Dostoevskij si comincerà a sentire anche quella di William Shakespeare.
(Il Foglio, 19 ottobre 2018)
Pace e giustizia nell'ebraismo
Elena Loewenthal sarà ospite di Molte Fedi sotto lo stesso Cielo mercoledì 24 ottobre alle 20.45 nella chiesa di Loreto in città (via padre M. Kolbe 3). «Pace e giustizia nell'ebraismo» è il filo conduttore dell'incontro.
Ogni generazione conosce l'avvicendarsi di 36 uomini giusti, dalla cui condotta dipende il destino dell'umanità. «Al passaggio della bufera, l'empio cessa di essere, ma il giusto resterà saldo per sempre» (Proverbi 10, 25). Qual è stato e qual è ora il ruolo dei giusti nella storia del popolo ebraico? Quale il collegamento tra giustizia e misericordia?
Elena Loewenthal ha tradotto e curato molti testi della tradizione ebraica e d'Israele, attività che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del Ministero dei Beni Culturali. Collabora con La Stampa e tiene un corso sulla cultura ebraica presso lo IUSS, Istituto Universitario di Studi Superiori, a Pavia. Ha scritto numerosi saggi, tra gli ultimi Contro il giorno della memoria e Lo specchio coperto. Diario di un lutto.
(L'Eco di Bergamo, 20 ottobre 2018)
Leggi razziali del 1938. Dagli schedari torinesi gli elenchi della vergogna
Una mostra all'archivio storico del comune. Nelle liste, Primo Levi Rita Levi Montalcini SimoneTeich Alasìa, Bruno Segre
di Andrea Parodi
TORINO - Iniziarono dai bambini, elencandoli. Le date riportate sui documenti sono crudeli testimoni di un tempismo studiato a tavolino. Pochi giorni prima dell'inizio delle lezioni, giusto in tempo per impedirgli l'accesso alle classi con i loro compagni ariani.
Cominciò così a Torino, dai più deboli, nell'agosto 1938, la compilazione delle «liste di prescrizione ebraiche». Fino al 1942 i dipendenti del Comune di Torino trascrissero a mano, aggiornandoli di continuo, tre grandi volumi con la copertina color amaranto. All'interno erano elencati nomi, indirizzi, dati personali. Dei bambini, ma soprattutto degli adulti. Sul frontespizio era riportato un titolo generico: «Rubrica Denunce appartenenza razza ebraica e discriminazioni». Di fatto era il crudo elenco con il quale il Comune divise i torinesi tra «noi» e «loro». Si trattava di 4.500 profili biografici su 700.000 abitanti, pari allo 0,65% della popolazione torinese.
Da lunedì - e per la prima volta - l'Archivio Storico della Città di Torino esporrà al pubblico, in una toccante mostra curata da Maura Baima, Luciana Manzo e Fulvio Peirone, la documentazione originale delle leggi razziali del 1938.Lo fa nell'ottantesimo anniversario dell'emanazione del provvedimento fascista ma, soprattutto, perché sono scaduti i termini di legge temporali per la loro diffusione pubblica. Il loro valore storico è importante soprattutto perché la documentazione storica della Comunità ebraica torinese non è completa. È andata perduta con il bombardamento della Seconda guerra mondiale del 20 novembre 1942, che danneggiò anche la sinagoga.
Le liste che arrivarono dalle singole scuole torinesi di ogni ordine e grado sono quelle che colpiscono di più. Vennero vergate a mano, con la calligrafia precisa di maestri e insegnanti. Compilarono obbedendo, escludendo i loro allievi dalla possibilità di istruirsi. Le liste giunsero alla «Divisione stato civile e statistica» del Comune di Torino. Contenevano l'elenco degli studenti che avevano richiesto di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica. Perché agnostici, perché valdesi, perché ebrei. Su quest'ultima informazione, una volta arrivata agli uffici comunali, scattava l'inserimento nella lista più terribile: quella dei volumi color amaranto.
Questi tre libroni, aperti e consultati per tutti gli anni della guerra dai gerarchi fascisti per procedere al loro allontanamento dalla vita civile, nonché fonte preziosissima dal 1943 per poterli catturare, sono adagiati in una vetrina e proposti al pubblico. Li ha sistemati qui Luciana Manzo, dedicando per mesi, con grande attenzione e cura, le ricerche nell'allestimento di una sezione che urla la più grande vergogna della storia d'Italia post unitaria. I tre volumi non si possono sfogliare, ma si possono leggere.
In questi «elenchi della vergogna» ci sono alcuni dei cognomi più famosi e influenti della Torino dell' epoca, nonché torinesi illustri: lo scrittore Primo Levi, la scienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, il chirurgo fondatore dell'ospedale Cto Simone Teich Afasia, l'avvocato Bruno Segre, che proprio l'altro giorno, dall'alto dei suoi cento anni appena compiuti, l'ha sfogliato con emozione ritrovando il suo nome.
Un terribile grafico disegnato a mano con i colori nero e rosa illustra con pragmatica crudezza una metodologia per determinare il grado di purezza ebraica. Che è pari al 100% per gli appartenenti a famiglie ebraiche che risiedevano a Torino già nel 1845. Dal 17 novembre del 1938 quella lista divenne formalmente una prescrizione. Anche nel lavoro. Un documento datato 24 febbraio 1939 riportava le aziende torinesi che venivano depennate dall' elenco dei fornitori della civica amministrazione. Tra queste compariva la Ceat, fabbrica di cavi elettrici di proprietà dell'ebreo Virginio Tedeschi, il nonno di Valeria e Carla Bruni Tedeschi.
La mostra «Torino sotto attacco. Dalle leggi razziali alla Liberazione» rimarrà aperta dal 22 ottobre al 26 aprile 2019 all'Archivio Storico della Città di Torino (via Barbaroux, 32) con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì con orario 8,30-16,30. Sono previste aperture straordinarie il sabato con cadenza mensile.
(La Stampa, 20 ottobre 2018)
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Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini
Riportiamo l'introduzione e alcuni estratti del libro "Ebreo, tu non esisti! Le vittime delle Leggi razziali scrivono a Mussolini", di Paola Frandini. Il volume raccoglie le lettere che gli ebrei d'Italia hanno indirizzato a Benito Mussolini, Rachele Mussolini, alla Regina Elena e a esponenti del Regime, nello smarrimento, nell'umiliazione, nella paura derivati dalla promulgazione delle leggi razziali. Sono riportate 95 lettere rinvenute nell'Archivio Centrale dello Stato, scritte tra il 1938 e il 1941.
INTRODUZIONE DI ALAIN ELKANN
Il tema trattato da Paola Frandini, le lettere scritte dagli ebrei al Duce di sgomento, di rabbia, di delusione, di angoscia per il suo voltafaccia, la firma delle Leggi razziali e dell'alleanza con Hitler mi riportano indietro a un romanzo che pubblicai nel '75, Piazza Carignano. Il tema era l'ebreo fascista che resta fascista malgrado l'umiliazione appunto delle Leggi razziali che lo hanno messo al bando trasformandolo in un paria.
Egli però non vuol credere fino in fondo al tradimento e spera che la cosa finisca col risolversi.
Si risolverà purtroppo in modo tragico quando dopo l'8 settembre 1943 lui e tutta la sua famiglia vengono catturati e giustiziati barbaramente dai repubblichini e dai nazisti e verranno bruciati nella caldaia di un albergo vicino a Intra sul Lago Maggiore.
Questa in realtà è la vicenda romanzata realmente accaduta a un mio prozio, Ettore Ovazza, e alla sua famiglia; e di questo dà testimonianza nei suoi libri sugli ebrei e il Fascismo lo storico Renzo De Felice.
Perché mi ha colpito tanto questo libro che raccoglie le lettere scritte al Duce dagli ebrei?
Perché mi ferisce moltissimo l'umiliazione, il tradimento, il pregiudizio... Certo la soluzione finale di Hitler che ha la sua sintesi nel campo di sterminio di Auschwitz è una vergogna, una macchia indelebile per tutta l'Europa e per tutti quelli che sapevano e finsero di non vedere. Per tutti quelli che in modo attivo o che con indifferenza hanno permesso lo sterminio di milioni di ebrei, di zingari e persone disabili senza muovere un dito. Certo ci sono stati gli eroi come Schindler o Perlasca e molti altri meno noti che hanno aiutato, difeso e dimostrato grande coraggio, ma la maggioranza silenziosa ha preferito tacere... Purtroppo gli ebrei sono stati e sono ancora oggi capro espiatorio dei tiranni e dei dittatori che sul tema dell'"odio per gli ebrei" trovano il consenso della folla che ancora vuol credere all'accusa di "popolo deicida". Purtroppo i pregiudizi sono quasi impossibili da debellare e vanno generalmente di pari passo con la mancanza di libertà e la propaganda che sono tipiche dei regimi dittatoriali... Oggi dall'Iran o da altri paesi si sentono in bocca a uomini con responsabilità di governo parole che ci riportano tragicamente indietro. Il pregiudizio è contro Israele, non contro gli ebrei - dicono senza capire che Israele e gli ebrei della diaspora sono la stessa cosa.
Quando muore in guerra, dentro un carro armato, a poche ore dalla tregua, Yuri Grossmann, figlio di un mio amico, lo scrittore israeliano David Grossmann, mi vengono i brividi... Ma lui è come molti altri ragazzi figli di ebrei che muoiono vittime di una situazione politica in cui c'è chi dice "devono essere cancellati"...
Ebbene quei poveri ebrei italiani che fino al 1938 pensavano ingenuamente che Mussolini non fosse un dittatore come gli altri, anzi, che fosse amico degli ebrei e di animo sionista, si erano ovviamente sbagliati. Tra un'alleanza politica con la Germania che illudeva su una grande e gloriosa vittoria a traino per l'alleato italiano e il destino di poche decine di migliaia di ebrei, la scelta era fatta... Come hanno vissuto quegli ebrei italiani che non potevano più lavorare negli uffici pubblici, esercitare professioni liberali, andare a scuola o insegnare?
Alcuni più fortunati hanno potuto emigrare, altri sono rimasti finché li hanno rastrellati e portati alle Fosse Ardeatine o si sono nascosti miseramente cambiando nome o trovando la pietà di chi aveva coraggio e dignità...
Leggendo le lettere qui pubblicate, mi viene da pensare all'Iran e mi domando per i politici chi oggi non sia più importante: il petrolio o gli ebrei?
TRE ESEMPI DI LETTERE
Roma 7 - 8 - 938 - XVI
Eccellenza
Sogno o son desta? Il nostro Mussolini così umano e giusto che per sedici anni ci ha governato con tanta benignità, oggi ci viene meno con la legge contro gli Ebrei che getterà nel lutto migliaia di famiglie.
Vi siete reso conto Eccellenza, di quanta gente sul lastrico e in conseguenza quanta fame, quanta disperazione e quanti suicidi?
lo sono vecchia e fortunatamente poco ho da vivere, ma i miei figli, i miei poveri figli che ne sarà di loro? Uno ufficiale nell'Esercito, specchio di lealtà e disciplina, combattente di tutta la grande guerra, l'altro impiegato alla B. d'Italia lavoratore indefesso. Essi si troveranno sbalzati dall'oggi al domani sul lastrico, affamati respinti da tutti come cani arrabbiati. Voi siete padre Eccellenza e non Vi strazierebbe il cuore una sorte compagna per i vostri figli?
Avrete certamente le Vostre ragioni per operare in tal modo ma per pochi dei nostri che si sono mostrati avversi al Vostro regime, quante migliaia siamo stati buoni tranquilli, amandovi, sì amandovi e seguendo docili e volenterosi i Vostri dettami? È giusto che per uno ne patiscono mille?
Vi scongiuro mia Eccellenza di ripensarci bene prima che succeda l'irreparabile; perché attirarvi tanti odi e dover rendere conto a Dio di tante lagrime.
Possa Egli ispirarvi benignità e salvarvi da passi falsi e crudeli!
Una vecchia madre ebrea
che si sente italianissima
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Lettera a Rachele Mussolini
Li 16 settembre 1938.
Nobildonna,
Chi Vi scrive è uno di quelli disgraziati ebrei di cui ora in Italia tanto si parla. Disgraziato non solo perché ebreo, ma peggio ancora perché immigrato in Italia dalla Germania.
Perché immigrato proprio in Italia? Perché sapeva che in Italia fino a poco tempo fa, l'antisemitismo era sconosciuto, almeno nelle forme che si conosceva nella Russia zarista, nella Germania ed in altri paesi. Immigrato in Italia perché l'Italia non ha ostacolato l'immigrazione di ebrei in nessun modo. Quando alla Società Delle Nazioni per la prima volta si discuteva la questione ebraica in Germania, il delegato dell'Italia, dichiarava press'a poco quanto segue: "L'Italia ha accolto i fuggitivi dalla Germania, non ha ostacolato l'immigrazione, più non può fare".
Immigrato in Italia perché credeva che non fosse possibile in Italia un antisemitismo che possa minacciare l'esistenza di un essere umano solo perché nato ebreo. La persona istruita, intellettuale del Duce gli pareva una garanzia contro ogni tale eventualità, il carattere tollerante, universale dei Romani un'altra garanzia.
Abbiamo lasciato la Germania, abbandonando quasi tutto, solo per vivere tranquillamente, modestamente da essere umano e non da bestia. - Da settimane nuovamente viviamo nell'angoscia, la campagna dei giornali scatenata da poco ci lascia temere ogni male. Molti di noi, che non hanno parenti in paesi fuori Europa, non avranno nessun rifugio, non avranno nessuna possibilità di trovare un posto, dove potrebbero rivolgersi. Voi che siete madre di famiglia potete immaginarVi cosa vuol dire per un uomo temere per la sua moglie, per suoi bambini; dover errare da un confine all'altro senza aver una speranza di trovare una patria. Obligarci di lasciare l'Italia, o impedirci di lavorare e di trovare il pane per la nostra famiglia vuol dire condannarci a morte, perché altro non ci resterebbe che suicidarsi o morire di fame. Morire non sarebbe per noi un sacrificio, veder morire moglie e figli di fame il più terribile. - Noi attendiamo la nostra sentenza, pena di morte sarebbe una grazia in confronto all' espulsione od al divieto di lavoro.
Pensate alla Vs. famiglia, pensate ai Vs. figli ed aiutateci mitigare il nostro destino. - Nulla possiamo fare noi stessi, dobbiamo attendere e sottometterci, - Possiamo sperare che Voi Vi interessiate presso il Vs. marito? Non è politica, è senso umanitario.
Scusate, se la mia lettera non è scritta in Italiano perfetto e forse un po' confusa. Ascrivetelo alle condizioni nelle quali mi trovo, ai nervi rovinati.
Un infelice.
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Questa lettera non vi giungerà!
non importa, giungerà a qualcuno che sarà infame come voi. Tanto amore avevate da noi, ora che siate maledetto per tutto il male che ci fate, per quello che fate patire ai nostri piccini, siate maledetto dal Dio unico che ci ascolta, voi e i vostri figli. Che possiate soffrire in questa o nell'altra vita lo strazio di tante e tante Mamme Italiane Ebree
Viva l'Italia!
Vergogna accanirsi in tanti contro pochi, vergogna far soffrire bambini vergogna, vergogna, vigliacchi vigliacchi
(Notizie su Israele, 20 ottobre 2018)
Tra bluff e realtà, come Russia e Iran preparano l'aggressione a Israele
S-300 "moderni" in Siria a fare da ombrello ai traffici iraniani, componenti per rendere più precisi i missili di Hezbollah. Quello che Russia e Iran stanno facendo assomiglia sempre di più a preparativi per una aggressione a Israele
Russia e Iran stanno preparando il terreno per una aggressione a Israele, oppure stanno semplicemente sollevando un polverone facendo filtrare notizie "gonfiate" per cercare di intimidire Gerusalemme e spingere così gli israeliani a non intervenire in Siria?
A sentire i sempre più numerosi think tank filo-russi sarebbe buona la prima visto che da giorni rilanciano notizie sulla presunta consegna di tre sistemi avanzati di S-300 della serie PM-2, cioè più avanzati dei "normali" S-300, alla Siria, mentre ieri Fox News rilanciava la notizia che l'Iran sarebbe riuscita a consegnare ad Hezbollah dei sistemi GPS in grado di trasformare normali missili in missili di precisione. In realtà la verità, come sempre, sta nel mezzo....
(Rights Reporters, 20 ottobre 2018)
Il vero volto di Hamas
di Ofer Sachs
Ambasciatore d'Israele in Italia
Come molti di voi avranno certamente letto, lo scorso 4 ottobre, sulle pagine de La Repubblica, il leader del movimento terrorista Hamas, Yahya Sinwar, ha lanciato un messaggio ad Israele "non voglio più guerre, basta conflitto, basta con l'assedio".
Peccato che questo terrorista e bugiardo seriale, mascherato da agnellino, sia tra i principali responsabili dell'attuale stato di tensione al confine tra Israele e Gaza.
Alle 4 di notte del 17 ottobre, un missile lanciato dalla Striscia di Gaza ha colpito un'abitazione a Be'er Sheva, la più grande città al sud di Israele che dista solamente 50 km dalla Striscia. Il colpo ha causato danni enormi alla casa, dove Miri Tamano e i suoi tre figli stavano dormendo. Sebbene le casa sia stata distrutta, la famiglia è riuscita a mettersi in salvo nella stanza bunker più vicino senza riportare particolari ferite.
Questo è solamente uno degli episodi che scandisce la realtà delle comunità del sud di Israele, costrette ormai da più di dieci anni a soffrire il lancio di missili dalla Striscia di Gaza. Se i civili israeliani possono però contare sul solenne impegno del proprio governo in difesa del loro diritto a vivere in sicurezza, gli abitanti di Gaza sono vittime del controllo oppressivo e fondamentalista di Hamas.
Israele non è presente a Gaza e non ha alcuna pretesa territoriale, dal 2005 i palestinesi non sono riusciti a sfruttare l'incredibile opportunità di far prosperare nuove capacità e leadership sostenibili. Hamas ha investito enormi risorse, tra cui quelle della comunità internazionale, nel perpetrare attacchi contro Israele riducendo la propria popolazione alla fame.
Il violento scontro tra Fatah e Hamas all'interno della leadership palestinese continua a provocare un duplice e perverso risultato. All'interno delle Striscia, il blocco dei salari e il razionamento dell'elettricità da parte dell'Autorità Palestinese al fine di piegare il governo di Hamas, sta provocando una degenerazione delle condizioni umanitarie della popolazione ormai ridotta allo stremo.
Nella proiezione esterna, la rabbia della popolazione viene strumentalizzata e rivolta contro Israele, l'intensità delle aggressioni rivolte ai cittadini israeliani da parte di Hamas sotto il cappello della Marcia del Ritorno, attraverso il lancio di ordigni incendiari e i tentativi di infiltrazioni per compiere attentati terroristici, è infatti cresciuta costantemente nel corso degli ultimi mesi rischiando di far degenerare la situazione fino a un punto di non ritorno.
L'Europa, e ci aspettiamo l'Italia in prima fila in questo, dovrebbe giocare un ruolo cruciale nell'evitare un'escalation, non certo attraverso comunicati bilanciati ma colpevoli di esser miopi, ma nel riconoscere che il terrorismo non è mai accettabile.
(L'HuffPost, 19 ottobre 2018)
Israele-Gaza, calma in bilico
Il movimento terroristico di Hamas ha chiamato a raccolta i palestinesi per un nuovo venerdì di protesta senza ascoltare i moniti d'Israele, che ha fatto capire che una nuova escalation di violenza porterà a un'operazione militare massiccia nella Striscia di Gaza.
Il gabinetto di sicurezza israeliano negli scorsi giorni ha incaricato l'esercito di adottare un approccio di attesa per permettere che gli sforzi di mediazione portati avanti dall'Egitto abbiano successo, ma anche ordinato ai militari di intensificare gli attacchi di rappresaglia in caso di violenza sui confini.
Secondo i media israeliani, molti ministri hanno accusato il Capo di Stato Maggiore Gadi Eisenkot di non aver preso provvedimenti abbastanza duri per contrastare le violenze palestinesi. "In ultima analisi, la politica di Eisenkot ha fallito e ha permesso che le cose deteriorassero", il commento di un ministro - rimasto anonimo - a una delle emittenti israeliane. "Negli ultimi giorni, e soprattutto dalla riunione del gabinetto di sicurezza, - scrive Yaniv Kubovich su Haaretz - l'establishment della difesa si è reso conto che la questione di come affrontare Hamas nella Striscia di Gaza ha cessato di essere una questione puramente di sicurezza, guidata da considerazioni militari, per diventare invece una questione politica. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman vede e sente le critiche pubbliche dovuto alla sua inazione a Gaza e capisce molto bene di essere in guerra per il proprio futuro politico".
In una riunione a porte chiuse con il Primo ministro Benjamin Netanyahu, gli alti funzionari della divisione di Gaza hanno presentato i loro piani per trattare con Hamas, che si sono concentrati principalmente sulla creazione di una zona cuscinetto più ampia lungo il confine, racconta Kubovich. Per gli ufficiali si tratta di una soluzione sufficiente per il momento per tutelare la sicurezza d'Israele. Il Primo ministro Benjamin Netayahu ha accettato questo piano per il momento ma un parte dei suoi ministri, come detto, vorrebbe un'azione più dura: tra questi, scrive Kubovich, il ministro della Difesa Lieberman che però non ha presentato un piano alternativo. "L'esercito ha capito che la situazione è delicata sia dal punto di vista della sicurezza che da quello politico, e che anche Netanyahu rischia di arrivare a un punto in cui la moderazione sarà impossibile alla luce delle critiche ricevute dal suo elettorato. Pertanto, l'esercito sta cercando di prepararsi a qualsiasi scenario", sostiene Kubovich.
(moked, 19 ottobre 2018)
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Gaza, tre uomini decidono la pace o la guerra
di Janiki Cingoli
Diecimila persone a Gaza hanno partecipato anche questo venerdì alle manifestazioni contro Israele, ma i più si sono tenuti lontano dal confine, seguendo le indicazioni date da Hamas, che aveva dichiarato di non voler mettere a rischio le trattative in corso con Israele, e aveva diffuso un appello a "preservare il sangue palestinese per quando sarà costruito lo Stato palestinese". Tuttavia, alcuni gruppi si sono avvicinati bruciando copertoni, lanciando palloni incendiari e in tre casi infiltrandosi in Israele.
Mercoledì, due razzi Grad, di media gittata, hanno raggiunto l'area centrale di Israele, colpendo l'uno una casa a Beersheba, l'altro finendo in mare. E' stata la prima volta, dall'inizio delle manifestazioni, che sono stati usati missili di portata così lunga, quasi un avvertimento a Israele del pericolo che graverebbe sulla sua popolazione civile, se la minacciata operazione su larga scala venisse attuata. Contemporaneamente, sia Hamas che lo Jhiad islamico, le due organizzazioni più forti e le sole a detenere razzi di quel tipo, hanno negato in un comunicato congiunto di aver qualcosa a che fare con quei lanci, disconoscendone la paternità, lanciando così il segnale opposto di non volere un'escalation. Nel frattempo, una missione dei servizi di sicurezza egiziani faceva una frenetica spola tra Gaza, Gerusalemme e Ramallah, per arginare la possibile esplosione militare, parallelamente alla intensa attività dispiegata dall'inviato speciale dell'ONU in Medio Oriente, Nickolay Mladenov,
Come osservato giustamente sul quotidiano Ha'aretz da Anshel Pfeiffer, il destino di Gaza è nelle mani di tre uomini: Benjamin Netanyahu, Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza, e Mahmoud Abbas, Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese. Nessuno dei tre vuole una nuova guerra nella Striscia, nessuno dei tre fino ad oggi è stato capace di bloccare gli scontri.
Netanyahu vuole guadagnare almeno un anno di calma: l'anno prossimo, a primavera, sono previste le elezioni anticipate, e lui non vuole certo presentarsi, in caso di guerra, con un pesante bilancio di vittime e feriti nella popolazione civile, e tra gli stessi militari. Inoltre, Israele vuole terminare i lavori di costruzione della barriera sotterranea, in grado di bloccare la penetrazione dei tunnel nel suo territorio. Israele poi non vuole certo riassumersi la responsabilità della gestione amministrativa e della vita di quei due milioni di palestinesi disperati. Infine, il leader israeliano è consapevole delle reazioni internazionali e nello stesso mondo arabo che una nuova operazione su larga scala comporterebbe.
D'altra parte, una nuova guerra a Gaza lascerebbe al suo termine le cose esattamente come stanno, perché Netanyahu sa che sradicare Hamas da Gaza significherebbe solo aprire la strada a gruppi jihadistici ancora più estremisti. I suoi vertici militari gli hanno chiarito bene il concetto. E d'altronde il Leader israeliano preferisce in realtà la persistenza di due entità palestinesi distinte, perché questo indebolisce la controparte e allontana la possibilità di una ripresa dei negoziati.
Le trattative indirette svoltesi al Cairo in questi mesi, mediate dai servizi di sicurezza egiziani, sono andate molto avanti, arrivando a definire una bozza di accordo bilaterale, che prevede prima il ristabilimento della calma, con l'apertura dei valichi al confine con Israele, insieme a quello con l'Egitto, poi le trattative per lo scambio di prigionieri, e il varo di una tregua di cinque anni, insieme a misure di emergenza per risollevare le gravi condizioni di vita della popolazione, ivi incluso il possibile utilizzo di un porto a Cipro o in Egitto, per rompere l'isolamento di Gaza, ed anche la costruzione di un aeroporto. In sostanza, gli stessi impegni, rimasti del tutto inattuati, con cui si era chiusa nel 2014 la precedente guerra, denominata da Israele Operation "Protective Edge".
A questi elementi, si aggiunge inoltre l'apporto del Qatar, che si impegnerebbe a pagare il carburante per portare da 4 a 8 ore al giorno l'erogazione dell'elettricità a Gaza, e gli stipendi dei dipendenti pubblici assunti da Hamas in questi anni, eludendo così le sanzioni imposte dal Presidente Abbas per forzare Hamas a restituire il controllo di Gaza.
D'altra parte, per Netanyahu è difficile concludere una tregua di lunga durata con Hamas, scavalcando il Presidente Abbas e i sospetti sauditi per il coinvolgimento del Qatar, e senza ottenere già nel primo stadio la restituzione del corpo del soldato ucciso e dei due civili vivi, detenuti di Hamas. Tutto questo esporrebbe il leader israeliano agli attacchi dei concorrenti alla sua destra, dentro e fuori il Likud (in particolare di Naftali Bennet, leader di Habayait Hayehudi, la Casa Ebraica, che aspira a sostituirlo), che lo accusano di aver perso la capacità di deterrenza assicurata dalla precedente guerra del 1914.
Dal canto suo, Yahya Sinwar e la leadership di Hamas sono consapevoli di queste contraddizioni israeliane, e se ne fanno un punto di forza. A loro non basta ripristinare la situazione di calma preesistente allo scorso 28 marzo, quando ebbero inizio le manifestazioni: pensano che gli israeliani capiscano solo il messaggio della forza, ma intendono modularla tenendola sotto il livello di guardia di un possibile nuovo conflitto, memori delle terribili perdite subite dalla popolazione e dalle loro milizie nelle precedenti guerre. Quello che vogliono è in sostanza variare la bilancia della deterrenza, arrivando a creare una deterrenza reciproca e non solo di parte israeliana.
Quindi, quando al Cairo sembrava che si fosse vicini all'accordo, di cui era stata scritta una bozza dettagliata, hanno attenuato di molto le manifestazioni, per poi riaccenderle quando le trattative sono state sospese, in seguito all'intervento a piedi uniti del Presidente Abbas. Sinwar vuole arrivare ad una tregua di lunga durata, che stabilizzi il controllo di Hamas sulla Striscia, il che non significa riconoscere Israele e accettare l'idea di dividere la Palestina storica, e in questo in sostanza la sua visione coincide con quella di Netanyahu, che preferisce evitare ogni negoziato sul "Final Status". Sinwar guarda oltre Gaza e Hamas, e vede sé stesso come il potenziale leader di tutto il movimento palestinese, il possibile successore di Abbas, il nuovo Arafat.
Quanto al Presidente Abbas, ha fatto quanto poteva per ostacolare il negoziato a due, chiedendo che ogni accordo e ogni flusso di denaro passasse attraverso l'ANP, l'Autorità Nazionale Palestinese; e restando adamantino nel negoziato parallelo condotto al Cairo tra Fatah e Hamas per raggiungere e attuare un nuovo accordo interpalestinese. La sua richiesta è che l'organizzazione islamica passi all'ANP non solo il controllo amministrativo della popolazione (un peso certo non indifferente da assumere), ma anche quello militare: una richiesta che Hamas, la cui forza militare è di gran lunga superiore a quella dell'ANP, non è minimamente disposto a accettare. Inoltre il Presidente palestinese mantiene ancora il controllo del suo apparato di sicurezza, che agisce in stretto coordinamento con quelli israeliani, a tutela del comune interesse di contrastare gli sforzi di Hamas per espandere la sua forza in Cisgiordania.
D'altronde, Abbas è molto isolato, data la sua rottura verticale con gli USA, la sua stessa marginalizzazione nel mondo arabo, e il discredito di cui, secondo i sondaggi, è fatto oggetto in Cisgiordania. Se l'azione di blocco dei negoziati al Cairo gli era in un primo tempo riuscita, ora rischia grosso, perché gli egiziani sono stanchi del suo ostruzionismo, e l'ora delle scelte incombe.
In questi giorni si deciderà dunque il destino di Gaza: il crinale tra pace e guerra è davvero sottile.
(L'HuffPost, 19 ottobre 2018)
Per apprezzare l'ebraico
di Roberto Mela
L'appassionato di ebraico moderno, o ebraico israeliano, trova di che gioire di questo volumetto approntato da due professoresse che hanno voluto collaborare e unire i loro sforzi nel far apprezzare la lingua "nuova", nata dalle profondità della storia, ma ibrida per le contaminazioni con lo yiddish e altri prestiti da lingue europee, e sistematizzata alla fine dell'800 da Eliezer ben Yehudah.
La prima autrice, Sarah Kaminski, insegna letteratura e lingua ebraica moderna a Torino; la seconda, Maria Teresa Milano, ebraico biblico allo Studio teologico interdiocesano di Fossano (CN).
Dopo un capitolo di taglio storico circa la formazione della lingua ebraica moderna, il volo intrapreso dalle due autrici fa sorvolare con ebbrezza sei luoghi esemplificativi della terra e dello spirito dell'Israele odierno.
Da Gerusalemme il volo spicca verso sud, verso il mondo affascinante del deserto e nella città di Beer Sheva, posta sul limitare delle rocce sabbiose del Negev settentrionale.
I monti punteggiano da nord a sud Eretz Israel: Gherizim, Sion, Tabor, Carmel, Hermon e Moriah, Gilboa e il Nebo della Giordania.
Sopra Safed, la città mistica e artistica della Galilea settentrionale, città della kabbalah, non volteggiano più le colombe bianche che venivano a sentire la voce incantevole di Rabbi Israel Moshe Najara. Se ne sono andate dopo averlo accompagnato alla "Casa Eterna".
Nella Safed del XVI secolo lo studioso cabbalista rav Slomo Halevi Alkabetz compose Lecha Dodi, la poesia per l'anima che lungo i secoli accompagnerà l'accoglienza della "sposa Shabbat". E sul sabato plana, infine, il volo delle due autrici e del lettore.
Le due studiose hanno illustrato ognuno dei luoghi menzionati con versetti biblici, poesie e canti di autori antichi, medievali e moderni. La struggente Yerushalayim shel zahab/ "LaGerusalemme d'oro" - che si può ascoltare su You Tube cantata dalla splendida voce di Naomi Shemer - è il secondo inno nazionale di Israele. La poesia sull'albero di ulivo di Nathan Alterman introduce le pagine che fanno assaporare il gusto del deserto del "Negev da ripopolare". Le parole di Ben Gurion si accompagnano alla poesia di Erez Biton su Dire il deserto e la canzone per il deserto Lek lek lammidbar di Haim Hefer.
Ogni albero di Eretz Israel ha la sua poesia o la sua canzone: l'ulivo e il mandorlo, l'acacia e il melo, il tamarisco e il sicomoro di Tel Aviv.
Bella l'idea di far narrare alle voci stesse dei rabbi una specie di Spoon River ambientata a Safed, la città santa al pari di Gerusalemme. Tormentata da epidemie e da terremoti (devastante quello del 1837), la cittadina posta sui monti della Galilea rinasce sempre di nuovo intorno ai suoi mistici e cabbalisti. Essa è il luogo dove nel 1563 Eliezer ben Ytzhak Ashkenazi apre la prima casa editrice e tipografia di tutto il Medio Oriente. Qui parla ancora Bar Yochai, a cui si attribuisce la composizione dello Zohar. Qui si sono rifugiati i marrani perseguitati ed espulsi dalla Spagna (1492) e dal Portogallo (1498).
In questo luogo dove «un mondo intero è racchiuso in un pezzo di terra», risuonano ancora le voci di Rav Moshe di Trani, quella di Rav Yaakob Berav, maestro di almeno quattro illustri discepoli, fra cui Yosef Caro (1522-1570). Egli fu autore di Bet Yosef, riassunto poi nello Shulchan Aruch/"Tavola pronta", raccolta di disposizioni giuridiche valide tutt'oggi. Insieme a Moshe ben Yaakob Cordovero, conosciuto nei circoli religiosi con l'acronimo Ramak e autore di Pardes Rimmonim/"Giardinodei melograni", divenne capo del sinedrio di Safed.
In questa città risuona anche l'insegnamento di Rav Yitzach Luria (1534-1572), meglio conosciuto con il titolo di Ha'ari Hakkodesh ("Il santo leone"), maestro della mistica cabbalistica. A Safed c'è una casa di studio intitolata a Yitzach Luria conosciuta come Hakel Tappuhim ("il campo delle mele"). Tutti gli anni si compie un pellegrinaggio al vicino monte Merom, dove c'è un santuario dedicato alla memoria di Rabbi Shimon Bar Yochai. Nel cammino si canta un canto popolare che menziona "il campo di mele", che lo Zohar considera come titolo al giardino di Eden (di qui il detto di Ha'ari: «Per dare il benvenuto al sabato andate al campo delle mele sante»). Dice il canto: «Bar Yochai, campo di mele / sei asceso per cogliere lì delizie, / il segreto della Torah nei boccioli e nei fiori, / "facciamo l'uomo è stato detto per te"».
Tel Aviv, la città vecchia-nuova, nasce nel 1909 sulla distesa di sabbia lambita dal "Mare Occidentale", la città dei colori. Il fotografo Avraham Soskin riprese in uno scatto memorabile la scena della "lotteria delle conchiglie", durante la quale a ognuna delle 60 famiglie presenti fu assegnato in sorte un appezzamento di terra. Solo sabbia e niente intorno. «Qui non c'è acqua! - gridò uno dei presenti -, voi siete tutti matti». Ma la città crebbe, con caratteristiche strutturale, architettoniche e "spirituali" del tutto opposte a quelle della santa e religiosa Gerusalemme dei monti.
Nella vicina Giaffa - dal 1950 unita a Tel Aviv in un'unica città Tel Aviv-Yafo, sbarcò proveniente dall'Ucraina il più grande poeta classico di Israele, Chaim Nachman Bialik, che si costruirà una villetta a Tel Aviv. Fu l'ennesimo ebreo sbarcato nei secoli nel posto accogliente di Yafo. Anche lui sarà inebriato come tutti dal gusto delle arance degli agrumeti che circondavano la "città bianca".
Un libro gustosissimo, appetitoso per gli studenti di ebraico, con molti testi in originale ebraico (biblico, medievale, moderno) vocalizzato, con traduzione al seguito (nell'ultimo capitolo inspiegabilmente, viene riportato solo il testo in italiano). Assieme alla correzione di alcune sviste autoriali e redazionali, auspico che il libro potrà essere arricchito in futuro con delle cartine geografico-storiche e un utile glossario, che lo renderanno ancora più ricco e intrigante.
(Settimana, 19 ottobre 2018)
Indignazione di Israele per la profanazione del cimitero cristiano di Beit Jamal
di Angela Ambrogetti
"Sono rimasto inorridito dall'apprendere la profanazione di ieri del cimitero del monastero di Beit Jamal. Condanno fermamente e inequivocabilmente questo atto di odio contro la comunità cristiana". Questa la reazione del ministro israeliano Tzachi Hanegbi che condanna l'incidente del vandalismo del 17 ottobre al cimitero del monastero di Beit Jamal.
La notizia della profanazione è stata data dagli Ordinari cattolici della Terra Santa in una nota di condanna. Non è la prima volta che vandali si introducono nel cimitero e dice la nota, in entrambi i casi,"nessuno è stato consegnato alla giustizia per questi atti" e gli Ordinari si chiedono "se anche questo nuovo episodio non avrà lo stesso destino".
"È motivo di rammarico e di rabbia vederci di nuovo impegnati a condannare tali atti criminali, ripetuti molte volte negli ultimi anni, mentre non vediamo da parte dello Stato la sicurezza e/o l'impegno educativo per contrastare questo pericoloso fenomeno".
Da qui l'appello degli Ordinari cattolici alle istituzioni israeliane "di lavorare per punire gli aggressori ed educare le persone a non commettere reati simili. Preghiamo l'Onnipotente perché simili fatti non si verifichino più e speriamo che tutti i popoli, specialmente nella nostra Terra Santa, imparino a convivere tra loro nell'amore e nel rispetto reciproco, indipendentemente dalle diversità".
Da parte sua il ministro israeliano afferma: "Distruggere un cimitero è un atto indifendibile di barbarie che non ha posto in nessun paese civile. Il popolo ebraico ha fin troppo familiarità con tali attacchi e incombe su Israele come democrazia e come stato ebraico per proteggere tutti i nostri cittadini indipendentemente dalla fede.
Un attacco alla comunità cristiana di Israele è un attacco a tutti gli israeliani. Lavoreremo diligentemente per arrestare e punire i responsabili di qualsiasi atto di bigottismo e intolleranza".
(acistampa, 19 ottobre 2018)
Hamas: indagine su lancio razzi contro Israele
Oggi nuovo venerdì di manifestazioni contro il blocco della Striscia mentre prosegue la mediazione egiziana per evitare una nuova offensiva militare israeliana
GAZA - Con un annuncio inedito, il movimento di resistenza islamico Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha promesso di svolgere un'indagine contro una non meglio precisata formazione o cellula palestinese armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi, uno in direzione di Beersheba, dove ha centrato in pieno una abitazione civile, e l'altro verso Tel Aviv dove è caduto in mare. Dopo il lancio dei due razzi, Israele ha bombardato Gaza uccidendo un palestinese e ferendone almeno altri tre. Il governo Netanyahu è stato sul punto di dare il via libera alla vasta offensiva militare che da tempo chiede il ministro della difesa Lieberman.
"Sono in corso indagini a Gaza per scoprire chi c'è dietro il lancio di razzi e saranno adottate misure severe (contro chi sarà riconosciuto colpevole)", ha detto Bassam Naim, un dirigente di Hamas, all'agenzia di stampa francese Afp. Naim ha aggiunto che il lancio di razzi "ha inteso sabotare gli sforzi egiziani" in corso da mesi per portare Hamas e Israele a una tregua a lungo termine. Tuttavia questo accordo - che prevede la fine delle manifestazioni palestinesi della Marcia del Ritorno e del lancio dei palloncini incendiari da Gaza in cambio di un allentamento dell'assedio israeliano della Striscia - appare ancora lontano mentre resta alto il rischio di una nuova offensiva di Israele, persino più devastante di quella del 2014 ("Margine Protettivo", circa 2400 morti palestinesi e decine di migliaia di abitazioni civili distrutte o danneggiate).
Una delegazione egiziana, guidata dal funzionario dell'intelligence Ayman Badea, è a Gaza e ha già incontrato il leader di Hamas, Ismail Haniya. Non è escluso l'arrivo del capo dei servizi segreti egiziani, Abbas Kamel, atteso ieri nella Striscia ma che ha rinviato la sua visita. Il Cairo ritiene che l'accordo di tregua sia ancora possibile.
Hamas due giorni fa aveva diffuso un comunicato congiunto, assieme ai cugini-rivali del Jihad Islami, volto a prendere le distanze dal lancio di razzi, senza però convincere Israele. Secondo i comandi militari israeliani solo Hamas e Jihad sarebbero gli unici in possesso di razzi con una portata sufficiente per raggiungere Beersheba (40 chilometri da Gaza) e il mare davanti Tel Aviv (70 chilometri). Israele in ogni caso ritiene Hamas il solo responsabile poiché controlla Gaza, indipendentemente da chi lanci i razzi o altre azioni armate.
L'accaduto ha generato interrogativi anche a Gaza su chi ha sparato i due razzi l'altro giorno, nell'apparente tentativo di innescare la reazione di Israele. Hamas è noto come una organizzazione molto disciplinata, ufficialmente al suo interno non ci sono correnti in lotta e le decisioni prese ai vertici dei suoi apparati militari e politici sono rispettate dai suoi dirigenti e militanti. Da tempo però si parla di "dissidi" tra i leader politici e militari favorevoli alla tregua con Israele e frange dell'ala armata del movimento invece contrarie. Quanto queste voci siano credibili e quanto queste frange siano pronte a violare le decisioni provenienti dall'alto al punto da lanciare due razzi a lunga gittata è arduo dirlo. A Gaza si tende ad escluderlo. Un'altra ipotesi è che a sparare contro Beersheba e Tel Aviv sia stata invece una cellula del Jihad, movimento meno strutturato al suo interno.
(Nena News, 19 ottobre 2018)
Il codice Maimonide e i Norsa - Una mostra e un convegno a Roma
"Il codice Maimonide e i Norsa. Una famiglia ebraica nella Mantova dei Gonzaga. Banche, libri, quadri" è il titolo della mostra che, dal 23 ottobre 2018 al 5 gennaio 2019, resterà aperta al pubblico presso la monumentale Sala Alessandrina del complesso borrominiano della Sapienza, sede dell'Archivio di Stato di Roma.
Una mostra, dunque, e una giornata internazionale di studi per celebrare un importante successo dello Stato italiano, esito felice di una contesa internazionale che ha coinvolto un collezionista americano e un magnate austriaco fin dal 2014: l'acquisizione, tramite acquisto coattivo, da parte della Direzione Generale degli Archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2017 di un manoscritto miniato del 1349, contenente una delle più pregevoli copie della traduzione dall'arabo all'ebraico della Guida dei Perplessi del filosofo, medico e giurista Mosè Maimonide (1138-1204).
Il volume, acquistato nel 1513 da Mosè ben Nathaniel Norsa, è un compendio bibliografico e archivistico che testimonia la ricchezza della cultura rinascimentale italiana e della storia italiana in generale, mettendo in luce le molteplici influenze che hanno definito l'identità nazionale come una positiva contaminazione di culture diverse e il ruolo della collettività ebraica nell'Italia di quel periodo.
Il manoscritto, composto da 228 fogli in pergamena con legatura in pelle, arricchito da pregevolissime miniature in foglia d'oro, fra cui una rappresentazione del Paradiso terrestre, e da grafismi in rosso e blu, è rimasto di proprietà della famiglia Norsa fino ai giorni nostri, mentre il resto dell'importante biblioteca di famiglia è andato disperso.
Il progetto espositivo, articolato in tre sezioni, Mantova ai tempi dei Gonzaga; Gli Ebrei a Mantova e la famiglia Norcia: storia di un quadro; La Biblioteca Norsa e la Guida dei Perplessi di Maimonide, presenta al pubblico, oltre al manoscritto di Maimonide, altri 5 manoscritti miniati della Biblioteca di Parma provenienti dalla biblioteca dei Norsa, tra cui una Bibbia in ebraico del 1277, un Commento ai Salmi del XIV secolo, una ulteriore copia, del 1377, della Guida dei Perplessi e 13 manoscritti dall'Archivio di Stato di Mantova relativi al rocambolesco episodio che lega la storia della Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna alle vicende della famiglia Norsa.
In aggiunta a questi preziosissimi documenti, saranno in mostra anche una riproduzione 1:1 della tela del Mantegna, attualmente al Louvre, e la tela originale della Madonna col Bambino e Santi (anonimo, circa 1515), ugualmente destinata alla Chiesa della Vittoria e raffigurante in basso membri della famiglia Norsa in atto di contrizione; e, infine, una maquette della medesima Chiesa della Vittoria, costruita al posto della casa dei Norsa, per cui fu commissionata l'opera del Mantegna.
La mostra è organizzata e prodotta dalla Direzione Generale Archivi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con l'Archivio di Stato di Roma e il Progetto Prin 2015, promosso dalla Sapienza Università di Roma, Università degli Studi di Milano, Università di Pisa, Università degli Studi di Genova.
Durante il suo primo giorno di apertura al pubblico, il 23 ottobre, la mostra verrà arricchita da un convegno cui prenderanno parte esperti da tutto il mondo, fra i quali la studiosa newyorchese Evelyn Cohen e Johanna Weinberg dell'Università di Oxford.
(Bit Culturali, 19 ottobre 2018)
La mamma israeliana che ha salvato il paese dalla guerra (per ora)
Dopo l'attacco su Beersheva e verso Tel Aviv, Israele dà ancora una chance a Hamas e ai negoziatori per calmare le acque, ma non nasconde di prepararsi per ogni evenienza.
Fra le tante e diverse analisi che la stampa israeliana dedica in queste ore alla situazione al confine con Gaza, su una cosa concordano tutti: Miri Tamano, la madre di Beersheva che alle 3.30 di mercoledì mattina, appena sentite le sirene, in meno di un minuto si è precipitata coi suoi tre figli nel rifugio antiaereo, non ha salvato solo i suoi figli e se stessa: ha salvato anche la regione dallo scoppio di una guerra. Per il momento.
Se il razzo palestinese che ha centrato la sua casa li avesse colti nel sonno, con le tragiche conseguenze che erano nelle intenzioni di chi il razzo aveva sparato, molto probabilmente in questo momento i carri armati israeliani sarebbero dentro la striscia di Gaza. Come ha scritto Yedioth Ahronoth, ci sono dei limiti alla possibilità per i politici israeliani di resistere all'indignazione dell'opinione pubblica di fronte ad attacchi così indiscriminati contro la popolazione civile e continuare a dar tempo alle opzioni diplomatiche....
(israele.net, 19 ottobre 2018)
Israele ammette i difetti del suo 'Cupola di Ferro'
Il portavoce dell'esercito israeliano, il generale di brigata Ronen Manelis, commentando gli attacchi missilistici subiti da Israele mercoledì sera da combattenti palestinesi, ha ammesso che il sistema di difesa aerea Iron Dome ("Cupola di Ferro") non garantisce completamente la sicurezza del Paese.
Manelis ha affermato che il potenziale di Iron Dome non è illimitato.
Mercoledì sera due razzi sono stati sparati dai territori palestinesi verso obiettivi israeliani. Il primo missile a gittata ridotta, che secondo gli esperti è stato perfezionato, è caduto nella grande città meridionale di Beer-Sheva. Il secondo razzo è caduto nel Mar Mediterraneo al largo di una "grande città", riporta MIGnews.com. Nessuno è rimasto ferito dopo questi lanci.
L'aviazione israeliana ha poi attaccato Gaza: ha colpito 20 obiettivi uccidendo almeno un palestinese ed ha chiuso il valico di frontiera al confine con la Striscia.
Il sistema di difesa missilistica tattico "Iron Dome", sviluppato dalla compagnia israeliana Rafael è progettato per neutralizzare razzi non teleguidati con una gittata di 4-70 chilometri.
(Pars Today, 19 ottobre 2018)
Collegamenti aerei - Da giugno via ai voli Cagliari-Tel Aviv
Si rafforza la spinta promozionale della destinazione Sardegna e ritornano i collegamenti aerei con Tel Aviv, Israele. Una nuova iniziativa di promozione dell'offerta turistica sarda - organizzata martedì scorso nell'ambito dell'accordo triennale con UnionCamere Sardegna - ha portato un gruppo di operatori sardi a incontrare i buyers israeliani interessati alla Sardegna. A margine del workshop, al quale hanno partecipato i rappresentanti delle società di gestione degli aeroporti di Cagliari e Olbia, un'importante conferma: anche per la stagione estiva 2019, riprende il volo diretto tra il capoluogo sardo e la città mediorientale.
Format collaudato. "Torniamo in Israele - spiega Barbara Argiolas, assessora regionale del Turismo, Artigianato e Commercio - dopo l'evento organizzato la scorsa primavera, che ci ha permesso di aprire un canale con un mercato che merita particolare attenzione, in virtù delle sue potenzialità e dei grandi margini di crescita. Il format di queste iniziative è ormai collaudato grazie al calendario di eventi promozionali previsti dall'accordo stipulato con Unioncamere Sardegna: in questi mesi, abbiamo fatto conoscere la Sardegna e i suoi prodotti nei nostri mercati di riferimento e in quelli emergenti con eventi a Amsterdam , Berlino, Monaco, Budapest. La collaborazione con Unioncamere si sta rivelando particolarmente importante e permette di proporre azioni di comunicazione mirate e integrate di grande efficacia, alle quali affianchiamo educational e press tour con operatori e giornalisti specializzati. Nelle prossime settimane proseguiremo le attività in Spagna e negli altri paesi europei".
(SardaNews, 19 ottobre 2018)
Sanremo - Una delegazione della Compagnia da' Parmura di Bordighera al convegno sugli ebrei
La Bordighera judaica sarà protagonista all'evento "Gli ebrei nello spazio ligure- provenzale. Storia, economia, società e cultura dal Medioevo all'età contemporanea" che si terrà sabato 20 ottobre
BORDIGHERA - La Bordighera judaica sarà protagonista al convegno "Gli ebrei nello spazio ligure- provenzale. Storia, economia, società e cultura dal Medioevo all'età contemporanea" con la partecipazione di una delegazione della Compagnia da' Parmura di Bordighera.
Parteciperanno all'evento i rappresentanti delle famiglie storiche di Parmura, Traverso e Palmero che, fino agli anni 60? rifornivano le comunità ebraiche italiane e d'Europa delle foglie di palma per la festa di Sukkot. Saranno eseguite dimostrazioni dell'intreccio degli "ometti" utilizzati per la realizzazione del tradizionale "lulav" ebraico, unitamente alla foglia di palma, il frutto di cedro e i rametti di mirto e salice.
Lo storico Parmurà bordigotto Palmero Franco è uno degli ultimi coltivatori di palme all'ebrea e fino agli anni '60 ha incontrato i rabbini che giungevano a Bordighera per acquistare le foglie di palma. Curioso l'aneddoto delle palme bordigotte destinate alla comunità ebraica di New York e affondate con l'Andrea Doria nel 1956. Del commercio di cedri e palme, coltivati a Sanremo e Bordighera, e spediti fino alle soglie della Seconda Guerra mondiale agli ebrei del Nord Europa, in occasione delle loro feste rituali, si sono perse le tracce ma l'argomento offre molti spunti di approfondimento e riflessione.
Si ricorda che il convegno tratterà ampiamente il tema tristissimo delle leggi razziali del 1938 (di cui ricorre l'ottantesimo anniversario) e delle conseguenti persecuzioni, nel Nizzardo e nel Ponente, dove la frontiera di Ventimiglia rappresentava per molti una via verso la salvezza. Saranno anche esposti documenti storici di grande interesse, come le riviste Difesa della razza, che anticipavano l'entrata in vigore delle odiose Leggi razziali, per gentile concessione dello storico Paolo Veziano.
(Riviera 24, 19 ottobre 2018)
Leader di Hamas Haniyeh riceve una delegazione dell'intelligence di Egitto
GERUSALEMME - Il capo dell'ufficio politico del movimento palestinese Hamas, Ismail Haniyeh, ha ricevuto oggi una delegazione egiziana guidata da Ayman Badia, vice responsabile dell'intelligence generale. Lo riferisce la stampa locale. L'incontro avviene dopo che ieri, 17 ottobre, i media locali hanno annunciato che il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel, non si sarebbe recato in Medio Oriente. La delegazione egiziana è composta anche dal responsabile per il dossier palestinese dell'intelligence del Cairo, Ahmad Abdelhaliq, e da un altro funzionario, Hamam Abu Zeid. Haniyeh ha discusso con la delegazione egiziana dell'accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, oltre che un cessate il fuoco di lungo periodo tra Hamas e Israele. L'incontro è avvenuto dopo una nuova escalation di violenza tra Gaza e Israele. Lo scorso 17 ottobre alcuni razzi sono caduti in territorio israeliano e l'aviazione dello Stato ebraico ha colpito circa 20 obiettivi nell'enclave.
(Agenzia Nova, 18 ottobre 2018)
Le forniture di gas rinsaldano la collaborazione tra Egitto e Israele
di Carlo Sala
Il 19 febbraio, il consorzio israelo-americano che detiene le concessioni di gas naturale nella zona economica esclusiva di Israele (ZEE), compresi i giacimenti di gas Tamar e Leviathan, ha annunciato un accordo con la compagnia egiziana Delphinus, del valore approssimativo di 15 miliardi di dollari. Il 27 settembre 2018, Delek Drilling, parte del consorzio, ha annunciato che East Mediterranean Pipeline (EMED) - il 25% delle cui azioni sono di proprietà di Delek - ha acquistato il 39% della società egiziana Eastern Mediterranean Gas (EMG) per 518 milioni di dollari. EMG è tra i proprietari del gasdotto per il trasporto di gas naturale dall'Egitto verso la Giordania e Israele: un gasdotto trasporta gas in Egitto a el-Arish, da dove il gasdotto si divide in due con una linea da el-Arish ad Aqaba, e una da el-Arish a Ashkelon. I ripetuti danni a questi oleodotti da parte di gruppi terroristici locali hanno interrotto il flusso di gas dall'Egitto ai suoi vicini, sebbene la sezione da el-Arish ad Ashkelon sia rimasta intatta. Come parte dell'accordo, Delek ha acquisito il diritto esclusivo di gestire il gasdotto di 90 km da el-Arish ad Ashkelon. La conclusione finale dell'accordo è subordinata a varie approvazioni governative egiziana e israeliana, controlli operativi e riparazioni e aggiornamenti. In una svolta interessante, l'accordo finale potrebbe anche includere l'uso del gasdotto el-Arish-Aqaba per fornire gas israeliano all'Egitto.
Con l'acquisto di una partecipazione nel gasdotto egiziano, il consorzio israelo-americano ha assunto il rischioso compito di assicurare l'attuazione dell'accordo di fornitura decennale. Ma al di là degli aspetti economici, ci sono anche implicazioni politiche per l'accordo. Per il momento, gli unici acquirenti non israeliani del gas naturale di Israele sono Egitto, Giordania e palestinesi. Gli accordi con questi tre mercati di esportazione sono commercialmente solidi, ma soggetti a rischi politici e di sicurezza e alla possibile concorrenza commerciale. In assenza di altri mercati disponibili, l'Egitto è il più grande mercato per il gas israeliano, finché risorse proprie non ne soddisfino bisogni (il che, si prevede, non avverrà prima del 2019-2020).
Gli accordi per vendere gas in Egitto e acquistare un controllo parziale del gasdotto sono particolarmente apprezzati, dato che le altre opzioni per Israele di vendere e trasportare gas naturale sono ora meno praticabili. Il mercato turco sarebbe stato un'opzione interessante per il gas naturale israeliano e del Mediterraneo orientale. Tuttavia, l'imprevedibilità politica dell'attuale regime politico in Turchia, compreso il suo atteggiamento nei confronti di Israele, la mancanza di stabilità politica in Libano e Siria e l'assenza di una soluzione politica al conflitto a Cipro rendono la vendita di gas naturale alla Turchia e l'uso della Turchia come hub troppo rischioso per ragioni politiche e di sicurezza. A sua volta, le instabili condizioni economiche in Turchia riducono l'attrattiva di questa opzione di esportazione. L'idea di estendere un oleodotto dalle coste orientali del Mediterraneo attraverso Cipro alla Grecia appare invece tecnicamente molto difficile e politicamente esposta ai problemi legati alla disputa su Cipro, nonché finanziariamente dipendente dalla disponibilità di altri produttori del Mediterraneo orientale a condividere le proprie capacità con Israele. Un simile progetto creerebbe vantaggi politici ed economici per Israele, in quanto garantirebbe un mercato ampio e stabile, aggiungerebbe una dimensione importante alle relazioni di Israele traballanti con l'Ue e aumenterebbe la stabilità nel Mediterraneo orientale, con tutti i produttori e gli utenti di un simile oleodotto interessato alle entrate derivanti dal suo funzionamento sicuro e continuo
Pertanto, l'opzione egiziana - sia come mercato o ponte per l'esportazione di gas liquefatto verso l'Europa - è l'unica opzione valida per esportare il gas naturale di Israele. Aggiunge un'altra dimensione allo sviluppo positivo nelle relazioni tra Israele ed Egitto, al di là della stretta cooperazione in materia di sicurezza. Ma comprare una partecipazione nel gasdotto egiziano, oltre alla futura vendita di gas, comporta ancora alcuni rischi. Le attuali relazioni di Israele con l'Egitto sono probabilmente le migliori di sempre, ma l'attuazione degli accordi sul gas è stata firmata da società commerciali soggette alle considerazioni politiche del governo egiziano. Inoltre, le riserve naturali egiziane potrebbero espandersi in modo significativo, e questo a sua volta potrebbe influenzare le considerazioni egiziane riguardanti l'acquisto di gas o la disponibilità di capacità di liquefazione nelle loro installazioni.
(Il Patto Sociale, 17 ottobre 2018)
Israele: a fine ottobre le municipali, sei milioni al voto
In ballo i sindaci di Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa
Le principali forze politiche e sociali in Israele stanno raccogliendo le forze in vista delle elezioni per i consigli municipali e distrettuali del 30 ottobre, a cui parteciperanno oltre 6 milioni di aventi diritto al voto, e che si svolgono ogni cinque anni. Nel 2013 la percentuale di voto fu del 51,3%. Per l'elezione al primo turno i candidati dovranno ottenere almeno il 40% dei voti, in caso contrario i due con più preferenze si presenteranno ad un ballottaggio il 13 novembre. L'attenzione degli analisti si concentra sulle maggiori città: Gerusalemme (638 mila votanti), Tel Aviv (438.000) e Haifa (257.000). Ma in agenda ci sono anche questioni di carattere nazionale: il ruolo delle donne (in tre località si presentano liste esclusivamente femminili); le esigenze della minoranza araba e la lotta alla xenofobia; i rapporti fra ebrei laici e ortodossi; la protezione dell'ambiente, e la questione dei migranti africani. Occhi puntati anche sulle alture del Golan dove la popolazione drusa e' chiamata a votare per la prima volta in 41 anni. A Gerusalemme il Likud (principale partito di governo) ha diviso il proprio sostegno fra due candidati rivali, Moshe Leon e Zeev Elkin, che dovranno misurarsi col laico Ofer Berkovic e col candidato ortodosso Yossi Deutsch. Gli elettori palestinesi di Gerusalemme est, prevedibilmente, diserteranno le urne come in passato. A Tel Aviv e Haifa i rispettivi sindaci (il laburista Ron Hulday e l'indipendente Yona Yahav), entrambi in carica da tempo, cercano l'ennesima conferma.
(ANSAmed, 18 ottobre 2018)
Gaza. Calma carica di tensione in attesa delle decisioni del governo Netanyahu
Non è scattata, come alcuni si attendevano, l'offensiva israeliana. Ma l'ombra dell'operazione militare, invocata dal ministro della difesa Lieberman, grava ancora su Gaza.
GERUSALEMME - Nessun comunicato è seguito alla conclusione della riunione durante la notte del consiglio di difesa israeliano convocato dal premier Netanyahu che, secondo le previsioni di molti, avrebbe dovuto dare l'ok ad un ampio attacco militare contro Gaza e il movimento islamico Hamas. A scongiurare, per ora, l'offensiva, dicono le indiscrezioni, sarebbe stato un deciso intervento dell'Egitto su israeliani e palestinesi. Oggi il quotidiano arabo al Hayat scrive che nei giorni scorsi Hamas aveva raggiunto un accordo con le altre organizzazioni palestinesi a Gaza per ridurre le proteste lungo le linee di demarcazione con Israele in modo da aiutare la mediazione egiziana sulla realizzazione di un cessate il fuoco a lungo termine con lo Stato ebraico. Secondo al Hayat, che cita anonimi funzionari palestinesi, l'accordo tra le fazioni era stato raggiunto lunedì durante una riunione del "Supremo Comitato Nazionale" che organizza le manifestazioni contro il blocco israeliano di Gaza. Se le informazioni raccolte dal giornale sono corrette, vorrebbe dire che una "fazione sconosciuta" ha deciso di lanciare i due razzi che, nella notte tra martedì e mercoledì, hanno colpito il territorio israeliano, uno dei quali ha danneggiato gravemente una abitazione civile a Be'er Sheba. Lo scopo sarebbe stato quello di far saltare l'intesa. Questa versione dell'accaduto però non trova conferme a Gaza.
(Nena News Agency, 18 ottobre 2018)
Razzi da Gaza su Be'er Sheba, Hamas nega
Distrutta una casa. Reazione dei caccia: colpiti venti obiettivi terroristici. I miliziani si tirano fuori «appellandosi» alla tregua Netanyahu: se non smettono useremo tutta la nostra forza .
GERUSALEMME - Un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza ha colpito nella notte tra martedì e mercoledì una casa di Be'er Sheba, città nel sud di Israele. La casa è stata distrutta. Una donna di 39 anni e i suoi tre bambini di 9, 10 e 12 anni sono stati ricoverati in ospedale in stato di choc: erano riusciti a scappare nel rifugio anti-bomba pochi secondi prima dell'impatto, appena è suonata la sirena. L'allerta è scattata anche un po' più a nord, nelle altre città israelia - ne costantemente sottoposte alla minaccia dei terroristi di Gaza, soprattutto Sderot e Ashkelon.
Non è stato l'unico lancio, quello su Be'er Sheba. Un altro razzo è caduto in mare, «di fronte a un'importante città», ha fatto sapere l'esercito. Subito è stata attivata la reazione delle Forze di difesa israeliane (Idf). I caccia hanno colpito una ventina di obiettivi terroristici nella Striscia. Un palestinese è morto. Secondo l'esercito stava preparando un lancio: l'Idf ha pubblicato un video in cui si vede un uomo vicino al confine mentre punta un missile prima di essere colpito da un raid. I militari hanno spiegato che, nell'enclave, questo tipo di razzi sono in possesso solo di due organizzazioni: Hamas e Iihad, quindi «Hamas - ha dichiarato il tenente colonnello Jonathan Conricus, portavoce dell'esercito - ha l'intera responsabilità di questo attacco». I due gruppi però, in un comunicato congiunto, hanno respinto ogni attribuzione, richiamandosi alle trattative in corso al Cairo per raggiungere una tregua con Israele. «Respingiamo qualsiasi tentativo irresponsabile mirato a sabotare gli sforzi in corso», hanno scritto le fazioni. Ora: protagonista del confronto in Egitto (insieme al presidente palestinese Abu Mazen) è Yahya Sinwar, leader politico e militare di Hamas che recentemente ha ammesso che non sarebbe nell'interesse di Gaza imbarcarsi in una nuova guerra con Israele. I fatti, però, dicono tutt'altro. Da mesi il premier Benjamin Netanyahu avverte sui rischi di escalation che insistono sulle continue provocazioni di Hamas (i missili dalla Striscia, le "Marce del ritorno" con cui ogni venerdì, dallo scorso 30 marzo, il gruppo mobilita migliaia di civili, portandoli a premere sulla barriera di confine). Ieri il premier ha detto che se i lanci da Gaza non termineranno «Israele agirà con tutta la sua forza». «Se non la smetteranno loro, li faremo smettere noi».
Intanto, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha dovuto predisporre la chiusura dei i valichi con la Striscia: Erez (persone) e Kerem Shalom (merci), e limitare a tre miglia marine la zona di pesca per le imbarcazioni di Gaza. Secondo la Radio militare, nelle città del Sud sono state dispiegate altre batterie del sistema di difesa Iron Dome.
(Avvenire, 18 ottobre 2018)
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Missili da e verso Gaza, di nuovo chiusi i valichi di confine
Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha ordinato la chiusura di entrambi i valichi di confine israeliani con Gaza dopo che, mercoledì 17 ottobre, un attacco missilistico palestinese ha colpito la città meridionale di Be'er Sheba. L'ordine di chiusura di Lieberman colpisce il valico merci di Kerem Shalom, la frontiera di Erez per l'attraversamento di persone e la riduzione della zona di pesca consentita lungo la costa di Gaza a 3 miglia nautiche, secondo quanto riportato dall'organismo del Ministero della Difesa responsabile per gli affari civili palestinesi, COGAT.
I jet israeliani hanno colpito alcuni bersagli nella Striscia di Gaza poco dopo che un razzo lanciato dall'enclave dei militanti palestinesi ha colpito una casa nella città meridionale di Be'er Sheba, secondo quanto riferito dall'esercito israeliano. Un funzionario medico ha dichiarato a Israel Radio che 3 persone sono state portate in ospedale dopo che il razzo palestinese ha colpito l'abitazione israeliana. Da parte loro, i residenti della Striscia di Gaza hanno affermato che i jet avevano preso di mira 8 posizioni. A conferma di ciò, alcuni membri del personale militare hanno aggiunto che un altro razzo era stato lanciato dalla Striscia, cadendo però in mare. Alcuni funzionari del Ministero della Sanità di Gaza hanno riferito che 3 persone sono rimaste ferite nell'attacco aereo israeliano, diretto contro un campo di addestramento armato a Rafah, nel sud della fascia costiera. Non ci sono state segnalazioni di ferite gravi da Israele.
(Sicurezza Internazionale, 17 ottobre 2018)
Shoah: 58% giovani sa poco e male
di Giacomo Kahn
Su circa 1.000 ragazzi e ragazze d'età compresa fra i 18 e i 30 anni il 58% ritiene che le leggi razziali in Italia siano state imposte da Hitler, mentre il 48% non conosce i luoghi della memoria nella propria zona. Sono alcuni dei dati del progetto di servizio civile "La memoria come strumento di educazione alla pace" promosso da ArciServizioCivile. L'indagine, svolta fra settembre 2017 e settembre 2018, ha visto il coinvolgimento di 16 volontari in 9 città - Milano, Genova, Torino, Vicenza, Bologna, Piombino, Jesi, Viterbo e Roma - di 8 Regioni italiane: Lombardia, Liguria, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Marche e Lazio.
In una prima fase si sono studiati i giornali locali di 9 città italiane in occasione delle ricorrenze del 25 Aprile, Festa nazionale della Liberazione, e del 27 Gennaio, Giornata della Memoria. Sono stati esaminati circa 3.500 articoli ed è emerso che della Resistenza si scrive solo in prossimità delle ricorrenze annuali o nei decennali. Negli ultimi anni se ne parla in maniera più sfumata, sottolineando gli aspetti critici o contraddittori; della Shoah invece si scrive con un giudizio sempre unanime e, messe in secondo piano le motivazioni generali della persecuzione, vengono spesso raccontate le esperienze dei singoli. Infine, solo più recentemente si è iniziato a scrivere anche delle deportazioni di altre persone diverse o capri espiatori quali omosessuali, rom o dissidenti politici.
Successivamente sono state effettuate le interviste, tramite questionario, a circa 1.000 giovani sul grado di conoscenza delle due date storiche oggetto della ricerca, le opinioni personali su questi passaggi importanti della Storia d'Italia durante la Resistenza e sulle celebrazioni, la conoscenza di luoghi significativi presenti nei loro territori. I risultati "più eclatanti" del questionario sono stati che il 97% degli intervistati condanna il regime fascista; il 58% ritiene che le leggi razziali siano state imposte da Hitler; il 73% ritiene che non si siano ancora fatti i conti con il passato; il 95% riconosce il valore della memoria come essenziale antidoto per non ripetere gli errori del passato; il 48% non conosce i luoghi della memoria nella propria zona. In Lombardia il dato che ha stupito di più è stato il giudizio sul regime fascista per il 56% si è trattato di "una dittatura da condannare in parte, che ha perseguitato la comunità ebraica e i partigiani ma che ha portato benefici agli altri italiani"; per il 40% "una dittatura da condannare che ha portato morte e sofferenze; per il 4% "una dittatura da non condannare che ha mantenuto l'ordine e ha portato solo benefici agli italiani.
(Shalom, ottobre 2018)
Startup sviluppa gel propellente per i motori dei razzi da lanciare in orbita
Un'innovativa tecnologia a base di gel propellente potrà in futuro essere applicata ai motori dei razzi da inviare nello spazio.
A sviluppare la tecnologia a "propulsione verde" è stata la startup NewRocket, con sede a Be'er Sheva, nel sud di Israele.
Il gel combina tutti i vantaggi dei propellenti liquidi e solidi. Sicuro da usare e trasportare, il propellente migliorerà le prestazioni del razzo, offrendo una potente spinta che può essere regolata e spenta quando necessario.
Una volta accesi, i razzi con propulsione a combustibile solido non possono essere controllati, arrestati e riaccesi. Allo stesso modo, i razzi a propellente liquido sono difficili da gestire e di solito si basano su propellenti tossici o criogenici.
Ideale per i piccoli motori, i carburanti a base di gel combinano il meglio di entrambi, offrendo potenzialmente efficienza energetica e maggiore controllo.
La startup israeliana ha completato con successo una dimostrazione della sua tecnologia brevettata, che consente di ottenere un propellente stabile e non tossico per motori, senza sacrificare le prestazioni e il controllo.
Secondo Eran Privman, nuovo CEO di NewRocket, la startup prevede di avere un prototipo funzionante del suo motore di propulsione che utilizza un gel-propellente entro il primo trimestre del 2019. Inoltre il motore a gel propellente potrebbe essere utilizzato in mini-satelliti del peso compreso tra dieci e cento chilogrammi, così come altri veicoli spaziali.
Prima di entrare a far parte della società, Privman ha ricoperto il ruolo di CEO di SpaceIL, un'associazione israeliana che sta sviluppando il primo veicolo spaziale senza equipaggio israeliano destinato ad atterrare sulla luna entro il primo trimestre del 2019. SpaceIL ha già presentato la navicella spaziale, prevista per lanciare a dicembre un razzo SpaceX.
Guidato da un team di ingegneri esperti e scienziati di spicco, la startup israeliana NewRocket è associata al Technion - Israel Institute of Technology, una delle migliori università al mondo per la ricerca scientifica e tecnologica.
(SiliconWadi, 18 ottobre 2018)
Si rafforza il legame tra la buiatriabranca della veterinaria che studia le malattie dei bovini
di Perugia e quella israeliana
Nel 2006 Maurizio Monaci, Professore di Clinica Ostetrica e Ginecologia del Dipartimento di veterinaria dell'Università di Perugia, e Alessandro Fantini, medico veterinario libero professionista, pensarono che per il nostro paese fosse utile istituire un Master di 2o livello, riservato ai medici veterinari, in "Dairy Production Medicine" per dare una risposta formativa alle nuove esigenze della filiera del latte. Da allora tre sono state le edizioni del Master e nel 2019 inizierà la quarta.
Fin dall'inizio il Master ha osservato con grande interesse il metodo e i risultati della produzione di latte bovino in Israele, terra non certo vocata, ma di grandi risultati pratici. Il "metodo" israeliano di gestire gli allevamenti e la professione veterinaria è molto freddo e pragmatico, e non si affida alle opinioni perché fedele, senza se senza ma, alle evidenze scientifiche e all'esperienza professionale. Questo approccio si sposa bene, anzi si completa, con l'approccio più "romantico", creativo ed individualista tipico dell'allevatore e del buiatria italiano.
Alla luce di questo, e grazie al contributo del compianto Dott. Mario Tinskj, fu possibile siglare un accordo di cooperazione tra l'Università degli Studi di Perugia (Master Dairy Production Medicine), e Hachaklait "Mutual Society for Cattle Insurance & Veterinary Services Ltd" che ha permesso fin ad ora a 30 masteristi, 1 PhD e tre tirocinanti della clinica ostetrica di Perugia di perfezionare le loro conoscenze presso questa importante organizzazione.
Recentemente, questa cooperazione si è ulteriormente rafforzata con il rinnovo dell'accordo, siglato la prima volta nel 2013, con Hachaklait per ulteriori altri 5 anni e con la cooperazione con la Koret School of Veterinary Medicine dell'Hebrew University of Jerusalem, prestigioso ateneo che vanta ben 11 premi Nobel.
Questo importante accordo di cooperazione scientifica e didattica verrà presentato nel corso di una cerimonia che si svolgerà a Perugia nel mese di Gennaio del 2019.
(Ruminantia, 18 ottobre 2018)
Gli 007 israeliani: forse una congiura per indebolire il principe ereditario
Per l'intelligence dietro il delitto cl sarebbe un piano per ridurre il ruolo del giovane Mohammed bin Salman.
di Sara Menafra
ROMA - Il sito israeliano di intelligence Debka file è arrivato ad ipotizzare che l'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi sia il risultato di una cospirazione dei rivali del principe saudita Mohammed bin Salman, intenzionati a mettere in discussione il potere crescente del giovane erede al trono. Che sia così o che sia invece, come lasciano intendere le ricostruzioni turche, proprio il giovane "Mbs" ad aver ordinato di ammazzare Khashoggi è vero che questa è la prima volta, da quando il re Salaman è salito al potere, che il ruolo del principe finisce al centro della discussione e delle polemiche.
Del resto, è nei rapporti con il regno saudita che va cercata la chiave della fama, e del ruolo, del giornalista che solo recentemente era diventato un analista fortemente critico con il regime. Fino al 2015, Khashoggi è stato a lungo una sorta di «portavoce ombra» della casa regnante, dopo aver lavorato nelle ambasciate di Washington e Londra e, pare, anche per gli 007 sauditi. Islamico osservante - ora si dice che avesse tenuto per se le critiche su cui rifletteva da anni - inviato in Afghanistan per seguire i talebani negli anni '80, noto per aver conosciuto personalmente Osama bin Laden, Khashoggi era molto vicino al re Abdullah, il predecessore di Salman. Con l'arrivo al trono di quest'ultimo e gli ampi poteri affidati al giovane figlio, Khashoggi viene prima attaccato e poi bandito dal regno almeno come giornalista. Tra gli articoli non graditi al trono proprio quelli critici con lo stesso presidente Trump che ora dice di voler sapere tutta la verità sulla sua morte (ma senza mettere in discussione la fornitura di armi con cui l'Arabia saudita sta martoriando lo Yemen).
Il Re Salman
Da esule, Khashoggi avrebbe stretto rapporti anche personali con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e oggi proprio i servizi turchi accreditano con forza l'ipotesi che dietro la sua morte ci sia la volontà di Mohammed bin Salman. Ma anche in questa versione dei fatti, dopo
l'accaduto il principe sarebbe stato messo in discussione in questo caso dal padre, re Salman, che ha preso e redini delle decisioni degli ultimi giorni ( delegittimandolo) scegliendo di confermare che Khashoggi sarebbe morto «nel corso di un interrogatorio». Il New York Times scrive che Mbs, come lo chiamano i media americani, avrebbe «approvato» l'interrogatorio e che l'ufficiale che lo ha condotto era un suo amico.
La Davos del deserto
Di certo bin Salman in questo momento è in difficoltà. Tanto più perché rischia il fallimento la «Davos del deserto» che ha lanciato per attrarre nuovi investimenti. La conferenza, che inizierà tra una settimana, continua a registrare pesanti defezioni. Ultime, quelle di JpMorgan, Blackstone, BlackRock, Hsbc e Credit Suisse. A non essere in crisi è invece il rapporto con il governo americano. Alla fine della breve visita a Riad, il segretario di stato Mike Pompeo - che ha incontrato insieme il re Salman e l'erede al trono - ha dichiarato di essere stato rassicurato sull'«impegno a sostenere un'inchiesta completa, trasparente e tempestiva»: «Siamo forti e antichi alleati. Affrontiamo le nostre sfide insieme, in passato, oggi e domani».
(Il Messaggero, 17 ottobre 2018)
Ankara - Sventato un attacco all'ambasciata israeliana
La polizia turca ha aperto il fuoco contro l'autista di un trattore che non si era fermato all'alt degli agenti nel viale di Ankara che conduce al Parlamento. L'uomo, identificato come il 45enne Aydin Sakarya, è stato ferito a una gamba e successivamente fermato dalle forze di sicurezza, che ora lo stanno interrogando. Gli agenti della sicurezza turca hanno anche sparato alle ruote del veicolo, che ha sbandato travolgendo alcune autorità parcheggiate. Secondo le prime ricostruzioni, il sospetto avrebbe confessato di avere in mente un attacco contro l'ambasciata israeliana.
(Avvenire, 17 ottobre 2018)
La missione israeliana tra i crateri del Mare della Serenità
Svelerà le anomalie magnetiche del nostro satellite
di Fabiana Magrì
Per adesso lo chiamano «Sparrow» - passero - perché «sarà il più piccolo veicolo spaziale mai atterrato sulla Luna». Ido Ante by è l'amministratore delegato di SpaceIL, la Nasa israeliana, e non riesce a trattenere la soddisfazione. Certo, tutto è relativo e la prima navicella spaziale «tozeret haaretz» - made in Israel - è un passero fuori misura: ha un diametro di due metri e un'altezza di uno e mezzo. Al momento del lancio peserà circa 600 chili, ma all'atterraggio, dopo aver bruciato la maggior parte del carburante ( un terzo se ne andrà nella sola fase di frenata di atterraggio), ne avrà conservati meno di 200. In ogni caso il nomignolo è temporaneo. Quello definitivo lo sceglierà il pubblico israeliano attraverso una campagna di comunicazione.
Perché, oltre alla missione scientifica affidata agli scienziati del Weizmann Institute of Science in collaborazione con la University of California (cercare di svelare il mistero di come le rocce lunari si magnetizzino, posto che la Luna non ha un campo magnetico globale), SpaceIL punta a generare un «effetto Apollo» e a suscitare interesse per lo spazio e la scienza tra le giovani generazioni, indirizzandoli verso le professioni «Stem» (acronimo anglosassone di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica).
Se è vero che l'avanguardia tecnologica di Israele ha già portato il Paese ad affermarsi come leader in molti settori legati alle scienze spaziali (basta citare l'eccellenza nel campo della miniaturizzazione satellitare), molti risultati restano ignoti al grande pubblico, perché appartengono al programma spaziale militare e, per questo, costituiscono un «dietro le quinte» per addetti ai lavori. Il lancio di un satellite su un razzo è, invece, un traguardo raggiunto solo da una dozzina di nazioni e SpaceIL punta a far passare Israele alla storia come la quarta al mondo - dopo Usa, Russia e Cina - ad aver fatto allunare un'astronave. Tutto è pronto.
La costruzione della navicella spaziale, iniziata nel 2013 in collaborazione con l'Israel Aeronautics Industries e costata 95 milioni di dollari, finanziata in maggior parte dall'imprenditore sudafricano-israeliano Morris Kahn, è stata completata lo scorso luglio. Il Weizmann Institute vi ha installato con successo un magnetometro in miniatura che sarà utilizzato per misurare e raccogliere dati sulla superficie della Luna durante le tre fasi di atterraggio, esplorazione e decollo dal nostro satellite.
All'inizio di ottobre, intanto, anche la Nasa ha firmato un accordo di cooperazione con l'Agenzia israeliana: gli americani installeranno una serie di retro-riflettori laser a bordo della sonda per consentirne la localizzazione precisa sulla superficie lunare e concederanno a SpaceIL l'accesso alla rete internazionale di radiotelescopi «Deep Space» per la comunicazione tra la navicella e la base terrestre. In cambio gli israeliani condivideranno i risultati della missione scientifica.
Entro la fine dell'anno «Sparrow» sarà spedito in Florida per la preparazione al lancio da Cape Canaveral, all'inizio del 2019, su un razzo Falcon 9 costruito dalla società SpaceX di Elon Musk. L'astronave si separerà dal razzo a una distanza di 60 mila chilometri dalla Terra per iniziare a gravitare tre volte intorno al pianeta prima di entrare nell'orbita della Luna e sbarcarvi, dopo averla circumnavigata due volte. Il viaggio spaziale durerà da un minimo di due mesi a un massimo di due mesi e mezzo. Il luogo dell'atterraggio, in prossimità del Mare della Serenità nell'emisfero settentrionale della Luna, investito da anomalie magnetiche, è l'ideale per consentire al magnetometro di effettuare le misurazioni previste dalla missione scientifica.
«Siamo il frutto di un'idea coraggiosa nata, contro ogni previsione, su iniziativa privata. - ha commentato l'amministratore delegato di SpaceIL - . Per questo motivo reputiamo un grande onore che la Nasa ci consideri all'altezza di operare nell'arena dello spazio profondo. Noi tutti speriamo che il nostro veicolo spaziale sia soltanto il primo di molti e che altre missioni e sfide tecnologiche ci aspettino in futuro».
(La Stampa, 17 ottobre 2018)
Missile da Gaza colpisce abitazione a Be'er Sheva. Reazione israeliana
GERUSALEMME - Un missile lanciato dalla Striscia di Gaza ha colpito una abitazione civile a Be'er Sheva mentre un secondo missile è finito in mare.
L'allarme è suonato nel pieno delle notte quando erano le 03:39. La famiglia che abita la casa colpita, una madre con tre figli di 9, 10 e 12 anni, ha fatto appena in tempo a raggiungere il rifugio prima che il missile colpisse l'abitazione distruggendola.
«La madre e i suoi figli hanno detto che appena sentito l'allarme si sono precipitati nella stanza di sicurezza e subito dopo aver chiuso a chiave la porta hanno sentito una grande esplosione e tutto ha tremato» racconta un paramedico che ha soccorso la famiglia. Ed è stato proprio il rifugio e la tempestività nel raggiungerlo a salvare la vita della donna e dei suoi tre figli, altrimenti per loro non ci sarebbe stato scampo....
(Rights Reporters, 17 ottobre 2018)
Equilibrio democratico
di Francesco Lucrezi
Da giurista, sia pur di modesta statura, avrei molte cose da dire sulla famosa Legge Fondamentale su "Israele come stato nazionale del popolo ebraico", che ha sollevato tante discussioni e polemiche, all'interno e all'esterno del Paese. In attesa, prossimamente, di formulare qualche mia piccola considerazione in merito, vorrei limitarmi, in questa occasione, a fare qualche breve riflessione di ordine preliminare, relativamente al senso e al significato della norma nel quadro dell'equilibrio democratico e del peculiare sistema costituzionale israeliani.
Innanzitutto, con riguardo alle menzionate critiche e polemiche, faccio una netta distinzione tra quelle che sono state espresse da cittadini e politici d'Israele (tra i quali, com'è noto, lo stesso Presidente Rivlin), e quelle provenienti invece da soggetti esterni. Le prime, come sempre in democrazia, sono assolutamente salutari e benvenute, e, confermando il vigore della democrazia israeliana, vanno a dare indirettamente sostegno alla stessa legittimità della norma contestata, frutto di un serrato dibattito di un Paese libero e vitale, di un cosciente e meditato voto di un Parlamento responsabile e sovrano, nel quale l'opposizione ha la stessa rilevanza e dignità della maggioranza, e ogni voce è importante e preziosa. Quanto alle critiche giunte dall'esterno, mi sono sembrate invece, in larga maggioranza, segnate da pregiudizio, ignoranza e disinformazione. Molti dei sedicenti neocostituzionalisti che si sono strappati le vesti per il carattere discriminatorio o razzista della legge, evidentemente, non l'hanno neanche letta, neppure in forma riassuntiva. Tanto, che bisogno ce n'era? Di Israele, si sa, tutti sanno già tutto.
Una seconda considerazione riguarda l'accusa, frequentemente rivolta alla legge, anche da voci autorevoli e credibili, secondo cui la stessa non contemplerebbe adeguatamente i valori democratici dello stato e i diritti delle minoranze. Riguardo a tale osservazione, va detto che essa, per alcuni aspetti, non appare del tutto gratuita. Non è, quello approvato dalla Knesset, probabilmente, il migliore dei testi che avrebbero potuto essere scritti. Io avrei cambiato qualcosa, così come cambierei moltissimo, per esempio, della Costituzione italiana. Ma è sbagliato pretendere che questa norma dovesse dire tutto di tutto, come se fosse (al pari della nostra Carta) una sorta di completo ed esaustivo testo costituzionale. Non è così, la norma è solo un tassello del lungo processo costituente "a tappe" percorso da Israele. Un processo che, praticamente in tutti suoi passaggi, ribadisce in modo puntuale e inequivocabile il carattere squisitamente democratico, pluralista, garantista dello Stato, che fa tutt'uno con la sua stessa esistenza. Questa legge avrebbe dovuto ribadirlo, ripetere cose già scritte? Può anche darsi, ma, francamente, non ne vedo la necessità, la legge trattava un'altra questione, non è che, ripetendo principi già formulati, questi si rafforzano. Anzi.
Ultimo punto, secondo me il più importante. È sbagliato sovradimensionare il valore della legge, sia pure quello di una Legge Fondamentale. La legge non è onnipotente, non ha il potere di 'creare' la natura delle cose. Non dovrebbe essere una legge, scritta da altri uomini, ad attribuirci il diritto di esistere, di essere liberi e uguali, o di essere quello che già siamo. Israele è uno Stato ebraico perché così è, non perché lo dice la legge. Allora, si potrebbe obiettare, che bisogno c'era di emanare questa norma? La risposta è che essa era richiesta dal processo costituente, avrebbe forse potuto essere rinviata, ma non pretermessa per sempre. Israele, secondo me, avrebbe potuto benissimo vivere per sempre senza una Costituzione, come la Gran Bretagna, ma, una volta intrapresa, per motivi storici, la strada del processo costituente "a tappe", difficilmente esso potrebbe essere interrotto. Ma deve essere chiaro che questa legge, così come tutte le altre Leggi Fondamentali finora approvate, non aggiunge e non sottrae una virgola alla Dichiarazione d'Indipendenza (che vale molto più di tutte le Leggi Fondamentali), non crea affatto la natura ebraica dello stato e non offusca in alcun modo la sua dimensione democratica di stato di diritto. Due elementi - ebraismo e democrazia - che sono l'anima del progetto sionista e della sua realizzazione, e che le leggi possono definire, precisare, specificare - con parole più o meno esaustive, puntuali o appropriate -, ma non certo creare, né, ancor meno, eliminare.
(moked, 17 ottobre 2018)
Qual è la lezione della Shoah?
Perché i media e i politici benpensanti non capiscono l'attaccamento degli ebrei al loro stato nazionale.
di Ugo Volli
In questo periodo si rievoca l'anniversario del più vasto crimine della Shoah in Italia, la terribile retata nazifascista che decimò la comunità ebraica di Roma il 16 ottobre del 1943. Fra i ricordi meglio riusciti c'è stata la bella e commovente trasmissione di Alberto Angela, egli stesso nipote del medico Carlo Angela Giusto delle Nazioni che nella sua clinica salvò molti ebrei perseguitati dai nazisti.
Queste rievocazioni sono giuste e necessarie per preservare la memoria di un crimine che deve interpellare ancora oggi la coscienza di tutti. Ed è giusto, doveroso, l'impegno a non dimenticare e a impedire che l'orrore si ripeta in futuro. Ma qual è la lezione che bisogna trarre dai crimini nazisti, che cosa bisogna combattere oggi per impedire che l'orrore rinasca? Condannare i resti del neonazismo e il negazionismo che vi si accompagna è un ovvio dovere, ma non basta. Le accuse polemiche di fascismo e anche di nazismo in un mondo politico molto polarizzato come il nostro fioccano di frequente, ma se si va a vedere chi si identifica davvero con i nazisti, chi difende Hitler e le SS, chi nega che la Shoah sia accaduta o abbia avuto le dimensioni epocali che sappiamo, è chiaro che sono pochissimi e squalificati, almeno se guardiamo all'Europa. Nel mondo islamico, dove i "Protocolli del Savi di Sion" e "Mein Kampf" sono best seller e molti sui media pubblicamente rimpiangono che il nazismo non abbia finito il suo lavoro, è un altro discorso.
Utilizzare la Shoah per la polemica politica contemporanea, compiere quella che qualcuno ha chiamato la "redutio ad hitlerum" dei propri avversari, è un errore grave. Perché dire che quel che succede oggi è come quel che accadde durante il nazismo implica anche che gli eventi di allora sono come quelli di oggi: chiaramente non troppo gravi, tanto che ne parliamo tranquillamente. E dunque farlo, anche con le migliori intenzioni, significa mancare di rispetto alle vittime della Shoah e a chi ne ricorda personalmente la perdita. Dunque banalizzare, sottovalutare gravemente il genocidio.
E allora da dove viene il pericolo e quale può essere la difesa contro una ripetizione? Bisogna prendere atto che la maggior parte del mondo ebraico e di quello occidentale - almeno quello degli intellettuali e dei politici più accreditati dai media in Europa e in Nord America- hanno preso su questo punto due strade molto diverse. In Europa è politicamente corretto pensare che i crimini del nazismo derivino dal nazionalismo, ne siano lo sviluppo estremo e quasi inevitabile. Inoltre si pensa che l'antisemitismo sia una delle forme del razzismo. Nazionalismo e razzismo si identificherebbero e produrrebbero odio per gli stranieri, e di qui verrebbero i crimini del nazismo.
Dunque per combattere il ritorno del male bisognerebbe lottare contro la xenofobia eliminando il nazionalismo e, e cioè cercare di dissolvere le nazioni europee in un contenitore pochissimo definito culturalmente e anzi programmaticamente vago come l'Unione Europea, rinunciare alle tradizioni culturali, politiche e religiose "accogliendo" abbastanza stranieri che non le condividono affatto per renderle obsolete e minoritarie, favorire politiche e insegnamenti "interculturali" che assorbano e possibilmente cancellino le specificità delle nazioni europee.
Che la diagnosi di partenza sia sbagliata, è facilissimo mostrarlo. Gli ebrei non erano affatto dei nuovi immigranti in Europa: quelli di Roma, i più antichi di tutti, erano arrivati almeno dai tempi di Giulio Cesare, ma in tutt'Europa erano presenti da un millennio e più. Dunque non è corretto né il paragone con l'immigrazione, né la diagnosi di xenofobia. La persecuzione degli ebrei risale a tempi in cui non solo le teorie del razzismo non erano state formulate, ma la parola "razza" non esisteva. L'antisemitismo non nasce col razzismo, al contrario il razzismo è solo un pretesto per un odio assai più antico. Ma soprattutto il nazismo non è stato un movimento legato all'idea di nazione, (sempre spazialmente limitata da altre nazioni), ma al contrario il tentativo di un impero universale degli esseri umani "superiori". Esso non a caso si chiamava proprio "III Reich", terzo impero, riecheggiando gli esempi romani e medievali e nell'ideologia nazista doveva abbracciare tutta la terra per un tempo lunghissimo, portando naturalmente pace e felicità. In molti stati davvero nazionali, dall'Inghilterra alla Danimarca, fino alla piccola Bulgaria, la Shoà trovò ostacoli proprio nella fierezza nazionale di governanti che volevano difendere l'intero loro popolo, ebrei inclusi.
L'alternativa, come propone il filosofo israeliano Yoram Hazony nel suo bellissimo libro recente "The virtue of Nationalism", è quella che era stata vista già in anticipo da Theodor Herzl, e poi realizzata da David Ben Gurion. Gli israeliani (e buona parte degli ebrei in generale) pensano che il modo per prevenire la persecuzione di piccole minoranze non convenzionali come gli ebrei sono da sempre, è la loro autodeterminazione nazionale, la fondazione di uno stato, la tutela delle tradizioni linguistiche, culturali e religiose, l'autodifesa contro i genocidi. L'essere insomma una libera nazione fra libere nazioni, non farsi riassorbire né in un impero del male com'è stato quello nazista, né in imperi che pretendono di essere del bene come è stata l'Urss e oggi tende a essere l'Unione Europea. Naturalmente perché le nazioni continuino a esistere invece di dissolversi nel calderone universalista dell'Europa e del mondo, bisogna che si impegnino a mantener viva la propria cultura, a soccorrere sì coloro che ne hanno bisogno ma senza perdere la propria specificità. E' la politica di Israele, che ha caratterizzato l'impresa sionista dalle origini fino a oggi.
L'Unione Europea detesta gli ebrei per la stessa ragione per cui l'ha fatto per due millenni la cristianità, poi l'Islam e il comunismo: per il suo rifiuto di farsi riassorbire, per l'ostinato attaccamento alla propria identità, per il suo essere il prototipo delle nazioni. Gli europei illuminati, che considerano le nazioni fonte di ogni male, arrivano a vedere nella difesa dello stato nazionale ebraico gli stessi sintomi che, sbagliando, leggono nella loro storia: nazionalismo, xenofobia. Per questo spesso hanno la faccia tosta di dire che Israele "è razzista" o "si comporta come i nazisti". Non perché vi siano officine di morte o perché i palestinesi siano vittime di stermini - bastano i numeri della demografia a mostrarlo. Ma perché pensano che voler continuare a essere ebrei e ad avere uno stato ebraico sia un crimine. Purtroppo per loro, gli ebrei sono ben decisi a deluderli. Non vogliono farsi cancellare con nuove stragi; ma neppure sono disposti a suicidarsi culturalmente e ad aprire le porte a chi li vorrebbe eliminare. La loro risposta ai rischi di una nuova Shoah si chiama Stato di Israele.
(Progetto Dreyfus, 16 ottobre 2018)
Giunta a Gaza una delegazione dell'intelligence egiziana
GERUSALEMME - Una delegazione dell'intelligence egiziana è arrivata nella Striscia di Gaza per colloqui con i leader del movimento palestinese Hamas. Lo riferisce l'agenzia di stampa palestinese "Shehab". La delegazione è guidata da Ahmad Abdelhaliq, responsabile del dossier palestinese per l'intelligence del Cairo. Al suo arrivo a Gaza, il funzionario egiziano è stato accolto dal capo delle forze di sicurezza di Hamas nell'enclave, Tawfik Abu Naim. Da oltre un anno, l'Egitto è impegnato nella supervisione dei negoziati per raggiungere il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, oltre che per la riconciliazione intrapalestinese con Fatah. La visita giunge alla vigilia della riunione del gabinetto di sicurezza israeliano, prevista domani 17 ottobre, per discutere dell'escalation di violenza lungo la barriera difensiva tra Israele e l'enclave.
(Agenzia Nova, 16 ottobre 2018)
Iglesias. Anche la città mineraria ha il suo "Giusto tra le Nazioni"
di Pierluigi Carta
L'ex sindaco di Iglesias Pierluigi Carta ha postato su facebook il ricordo che riguarda un cittadino di Iglesias riconosciuto "Giusto tra le Nazioni". Ecco il suo racconto. Lo voglio ricordare oggi, anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma. Infatti 75 anni fa, il 16 ottobre 1943, i tedeschi deportarono da Roma 1257 persone delle quali più di 200 erano bambini. Un orrore che venne coperto dal silenzio della Chiesa ufficiale e dalla complicità del fascismo che, con le leggi razziali, aveva abbracciato la follia genocida di Hitler. A Roma viveva anche Vittorio Tredici, classe 1889, nato e cresciuto a Iglesias perché figlio di un magazziniere della Monteponi. Ex Sassarino, poi passato al Partito Sardo D'Azione e con parte di questo al Partito Fascista, fece una rapida carriera nel sindacato fascista, nell'Ammi, nelle miniere di Carbone di Bacu Abis e di Carbonia, dove partecipò alla fondazione, dalla posa della prima pietra fino all'inaugurazione. Divenne commissario prefettizio e poi podestà di Cagliari. La sua carriera lo portò fino a Roma dove ricoprì il ruolo di ministro dell'industria.
In profondo disaccordo con le leggi razziali, Tredici, nell'ottobre del '43, nascose nella sua casa l'unica famiglia ebrea del suo condominio. Successivamente si attivò, insieme al suo parroco, per salvare, tramite le strutture della parrocchia ma anche quelle del ministero, decine di ebrei e di resistenti. Di questo nessuno si accorse e nemmeno lui fece mai parola con nessuno, nemmeno nel dopoguerra. Ovviamente la sua contrarietà alla guerra rovinò la sua carriera e gli furono tolti tutti gli incarichi di rilievo. Lui accettò questa mutata condizione economica nonostante avesse una famiglia molto numerosa.
Nel dopoguerra, come tutti gli altri gerarchi fascisti, venne sottoposto a processo ma furono gli ebrei di Roma e anche alcuni partigiani a scagionarlo completamente. Gli Israeliani lo cercarono e lo insignirono della più alta onorificenza per i non ebrei: la medaglia di "Giusto tra le Nazioni". Nel Giardino dei Giusti di Israele c'è un ulivo e una targa per ognuna di queste persone. Gli italiani sono, al 2017, 682. I sardi 5: Oltre al nostro Vittorio, ricordiamo Salvatore Corrias, Girolamo e Bianca Sotgiu e Andrea Loriga.
(TG24, 16 ottobre 2018)
Rastrellamento al Ghetto di Roma. Bertoldi: gli antisionisti di oggi sono gli antisemiti di ieri
"Oggi 75 anni Roma fu testimone del rastrellamento del suo Ghetto ebraico, quel quartiere che rappresenta tutt'uno la storia della capitale, che ospita gli ebrei da prima addirittura dei cristiani. In questa triste giornata di memoria, Alleanza per Israele, ci tiene in particolare modo ad esprimere la propria vicinanza unitamente a sentimenti di affetto e amicizia alla Comunità ebraica di Roma, alla presidente Dureghello e a tutti gli amici che la compongono, con particolare riguardo per i tanti che in quella data persero i loro cari, nonni o genitori, non potendoli più riabbracciare o addirittura conoscere. Quanto accadde 80 anni fa con l'approvazione delle Leggi razziali in Parlamento e poi in particolare con il drammatico e sanguinario rastrellamento del ghetto di Roma è e resterà sempre un monito per tutti gli Italiani, una ferita insanabile che deve essere tramutata in occasione di memoria e ricordo. Le tante iniziative che ricordano quanto accaduto fanno ben sperare per il futuro, affinché la storia di odio e barbarie che l'Italia ha vissuto non si ripeta mai, in nessuna forma. Certo è che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia, infatti oggi, molto spesso, l'odio razziale si manifesta in altre forme, anche contro gli ebrei stessi, mutando nella sua forma esteriore ma non nella sostanza, è sempre più spesso colpendo Israele che gli antisemiti di oggi mascherati da antisionisti si esprimono. Sempre più spesso infatti noi e le altre organizzazioni che in Italia e nel mondo sostengono Israele sono chiamate ad intervenire per contrastare quest'odio, per evitare che questo si insinui nelle istituzioni democratiche. Noi continueremo ad esserci, a non dimenticare l'atrocità della Shoah, a portare avanti la missione che con passione abbiamo scelto: quella della libertà e della lotta contro l'odio e l'antisemitismo, in qualsiasi forma essi si manifestino." Così in una nota Alessandro Bertoldi, presidente di Alleanza per Israele.
(Agenpress, 16 ottobre 2018)
Netanyahu: "Non ci sono amici migliori degli amici cristiani"
Un forte legame tra Israele e i sostenitori cristiani sta a cuore al primo ministro Netanyahu. Lo ha chiarito al "Christian Media Summit". L'ambasciatore statunitense Friedman ha spiegato che il mondo al di fuori della scena pubblica rispetta la decisione americana su Gerusalemme.
GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu dà molta importanza alle relazioni del suo paese con i sostenitori cristiani. Questo è stato sottolineato dal politico del Likud domenica ,al "Christian Media Summit" di quest'anno a Gerusalemme. Il congresso continua fino a mercoledì prossimo e l'ufficio del primo ministro organizza l'incontro di quattro giorni.
Il primo ministro ha anche accennato alla nomina di uno speciale commissario del governo israeliano per il mondo cristiano, riferisce il quotidiano online Times of Israel. "È un'ottima idea. Penso che lo farò", ha detto a un giornalista che aveva fatto la proposta.
Rafforzare la relazione con l'Indonesia
Il politico ha parlato anche dell'impegno di Israele per la libertà religiosa: "Israele è l'unico paese che protegge i diritti umani di tutte le persone. Proteggiamo i diritti religiosi di tutti". Inoltre ha detto: "Non stiamo proteggendo soltanto i luoghi cristiani, ma proteggiamo i cristiani. I cristiani dovrebbero godere di ogni libertà di pregare quando vogliono in Medio Oriente e altrove. E l'unico posto in Medio Oriente dove possono farlo è Israele. Non abbiamo amici migliori al mondo dei nostri amici cristiani."
Netanyahu ha trattato anche altri argomenti
Israele vuole avere "eccellenti relazioni" con l'Indonesia, ha detto su richiesta. Il paese è "molto importante" per lo stato ebraico. "È uno degli ultimi paesi al mondo che non ha una connessione aperta e stabile con Israele". L'Indonesia è musulmana, ma ha anche milioni di cristiani. "Ci piacerebbe vederli qui", ha detto il premier. Ha detto anche che avrebbe affrontato la questione della libertà di visto per i credenti indonesiani e verificato che fosse loro permesso di recarsi in Terra Santa.
Ambasciatore degli Stati Uniti: il mondo rispetta la decisione di Gerusalemme
Il premier sostiene inoltre la decisione di non permettere alla studentessa statunitense Lara Alkasem, bloccata all'aeroporto internazionale israeliano, di entrare nel paese. La ventiduenne con radici palestinesi è accusata di sostenere il movimento anti-israeliano per il boicottaggio di protesta BDS. Ha spiegato che ogni paese ha i suoi regolamenti, ad alcuni è permesso entrare e ad altri no: "Se sei arrabbiato contro l'America e provi ad entrare negli Stati Uniti, c'è un'alta probabilità che non ti lascino entrare, se lo si sa prima."
David Friedmanin quelloccasione ha anche detto che il mondo al di fuori della scena politica rispetta il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale di Israele, nonostante le voci internazionali e le proteste in senso contrario. "Ogni nazione, fuori dall'arena pubblica, avverte solo rispetto per quello che il presidente ha fatto. Perché il presidente ha detto la verità. E come sappiamo dal Vangelo di Giovanni, "la verità vi farà liberi".
(israel heute, 16 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Cuoricino ebreo salva bimbo arabo. Il trapianto della pace tra neonati
In un ospedale di Tel Aviv. I familiari: «Avviciniamo i due popoli»
L'incidente di Yuval
Yuval Nizri, 11 enne israeliana morta in un incidente stradale a Rishon Lezion ha salvato cinque persone con la donazione dei suoi organi. Tra loro una bimba palestinese, Miran.
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I tre riceventi
Un bimbo palestinese morto in un incidente ha salvato tre israeliani: il fegato a un piccolo di 5 anni, un polmone a una bimba di 7 anni e l'altro polmone trapiantato a un uomo di 55 anni.
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Ucciso nell'Intifada
I genitori di un giovane palestinese ucciso hanno donato gli organi del figlio a cinque pazienti di un ospedale israeliano durante l'Intifada. Mazen Juliani aveva 34 anni, era il 2001.
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di Aldo Baquis
Lo staff del Centro medico Tel ha-Shomer di Tel Aviv ha vissuto all'inizio del mese giornate di grande tensione quando vi è stato ricoverato un bebè palestinese afflitto da una grave malformazione al cuore. Mussa Assaqra, di sei mesi, era in punto di morte perché tutti gli interventi medici si erano rivelati vani. Quando per lui ogni speranza ormai stava svanendo i medici hanno appreso che in un altro ospedale era appena morto, in seguito a una malattia, un bambino israeliano di 18 mesi e che i suoi genitori acconsentivano al trapianto del cuore. «Non è israeliano, è palestinese» hanno fatto notare i medici. «La cosa - hanno risposto i genitori - per noi non ha la minima importanza». E così lo staff medico ha immediatamente iniziato il trapianto: un'operazione - secondo
l'ospedale - molto complessa, date le dimensioni del piccolo Mussa, e anche molto significativa. Si tratta infatti, secondo Tel ha-Shomer, del primo trapianto di cuore da un bambino israeliano in un bebè palestinese.
Mussa era stato in pericolo di morte fin dalla nascita, quando in un ospedale di Ramallah ( Cisgiordania) era stato rilevato che attorno al cuore aveva tumori. I medici palestinesi si erano consultati con quelli israeliani e già due volte il piccolo era stato ricoverato a Tel Aviv. Tre settimane fa le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate e Mussa è stato allora collegato a un macchinario che simula il funzionamento del cuore e dei polmoni. Accanto a lui aveva la nonna. Il direttore del dipartimento chirurgico del Tel haShomer, David Mishaly, era molto preoccupato: in Cisgiordania i trapianti sono pressoché inesistenti, mentre in Israele Mussa avrebbe potuto ricevere un cuore solo se non ci fosse stato nessun altro bambino israeliano in lista di attesa prima di lui. Contro tutte le probabilità, così è avvenuto. E anche la famiglia del donatore - rimasta anonima - ha contribuito a lanciare un proprio raggio di speranza. Al Tel ha-Shomer, come anche negli altri ospedali israeliani, le equipes mediche (dottori e infermiere) sono miste, composte da ebrei e arabi.
«Da noi - ha detto il dottor Mishaly - non c'è politica. Qua siamo un'isola, un'oasi di pace. Siamo impegnati a curare chiunque, in modo egualitario, dignitoso, con rispetto». A posteriori, hanno detto i medici, che Mussa sia sopravvissuto all'operazione «è già un miracolo» date le sue precarie condizioni mediche. Ancora oggi non si può dire che sia fuori pericolo. Resta intanto la commozione della nonna, Tamam, che ha voluto ringraziare la famiglia dei donatori. «Il loro - ha detto - è stato un gesto molto nobile. Non era affatto scontato. Speriamo che episodi del genere riescano ad avvicinare i due popoli».
(Nazione-Carlino-Giorno, 16 ottobre 2018)
Corone al Tempio ebraico in memoria del rastrellamento 1943
di Giorgia Calò
16 Ottobre 2018: sono passati 75 anni dal giorni in cui 1259 ebrei romani sono stati strappati dalle loro case e dalle loro famiglie per essere deportati nei campi di sterminio. La Comunità Ebraica di Roma ha ricordato questo tragico evento, deponendo una corona di fiori di fronte alla Sinagoga; insieme al Presidente Ruth Dureghello e al rav Alberto Funaro è intervenuta anche la sindaca Raggi, l'assessore allo sviluppo economico della Regione Lazio Manzella e la presidente del I Municipio Sabrina Alfonsi. "Oggi siamo qui per celebrare, come ogni anno, la deportazione degli ebrei dal ghetto, il 16 ottobre del 1943 e' una ferita che rimane incisa nella nostra citta' e che deve essere ricordata. Ho scritto una lettera aperta invitando tutti i cittadini a partecipare alla marcia silenziosa che quest'anno si terra' il 21 di ottobre. Ritengo importante ricordare gli eventi che hanno tracciato un segno cosi' profondo nella nostra citta', perche' ricordare il passato deve aiutarci a guidare i nostri passi nel futuro", ha detto la Raggi. "La commemorazione di oggi - ha spiegato Dureghello - ha un significato particolare. Quello che e' successo qui fa parte delle nostre coscienze ed e' un monito per il futuro. E' bene che si abbia ben chiaro cio' che e' stato e cosa e' successo qui a Roma. Non e' sufficiente deporre una corona, ma bisogna ricordare i nostri morti farlo con la consapevolezza che ci sono ebrei vivi che vivono a Roma e vivono in Italia e in Europa e vogliono continuare a farlo in liberta'e democrazia". E la partigiana Tina Costa ha concluso: "Dobbiamo ricordare perche' non avvenga mai piu' e bisogna che le nostre radici non siano cancellate. Dobbiamo ricordarlo per noi e per le nuove generazioni perche' se no ritornano e non e' possibile".
Poco dopo, presso il quartiere Garbatella, a Piazza Ricoldo da Montecroce, è stata inaugurata una targa commemorativa dedicata ad Enrica Zarfati, arrestata il 9 maggio 1944 e deportata ad Auschwitz. È morta il 5 settembre 2016, ed è stata l'ultima ebrea romana sopravvissuta alla Shoà. Presenti il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, Claudio Marotta Assessore alla Cultura, il Vice Presidente del Municipio Leslie Capone, il Presidente del Municipio Amedeo Ciaccheri, Mirella Pungolo, amica di Enrica e sostenitrice dell'iniziativa e gli studenti del Liceo Socrate e della scuola media Moscati, che hanno letto la famosa poesia di Primo Levi "Se questo è un uomo" e una riflessione di Giacomo De Benedetti sulla mattina di quel 16 ottobre 1943.
Il viaggio verso Auschwitz-Birkenau, cominciò dal binario 1 della stazione Tiburtina. Per questo, Il Municipio II, in collaborazione con il Dopolavoro Ferroviario e con ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) e ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia), ha deciso come ogni anno di ricordare questi tragici avvenimenti con una cerimonia per mantenere viva la memoria e far sì che essa resti per il futuro.
(Shalom, ottobre 2018)
Ottant'anni fa l'ultima partita in Italia di Weisz. Il maestro ebreo di calcio cacciato dai fascisti
Il 16 ottobre 1938 l'ungherese che aveva vinto 2 scudetti col Bologna era in panchina al Littoriale contro la Lazio. Espulso dalle leggi razziali morì nei lager.
di Andrea Schianchi
Era il 16 ottobre 1938, proprio ottant'anni fa. Una domenica d'autunno. Lo Stadio Littoriale di Bologna non era strapieno, soltanto 9000 spettatori: la gente cominciava a tirare la cinghia, i soldi erano pochi e mettere in tavola un piatto di minestra per moglie e figli era più importante che correre a vedere Bologna-Lazio, sfida valida per la quinta giornata del campionato di Serie A. Gli emiliani si schierarono con questa formazione: Ferrari; Pagotto, Ricci; Montesanto, Andreolo, Marchese; Biavati, Sansone, Puricelli, Fedullo, Reguzzoni. La Lazio rispose con: Blason; Monza, Allemandi; Zacconi, Ramella, Milano; Busani, Riecardi, Piola, Vettraino, Costa. L'arbitro era il signor Barlassina di Novara. Il 2-0 per i rossoblù fu deciso dai gol di Puricelli e Andreolo. Ma quella partita passerà alla storia perché fu l'ultima dell'allenatore ebreo Arpad Weisz, un illuminato ungherese che, guidando l'Inter, ebbe il merito di scoprire il talento di Giuseppe Meazza quand'era ancora un ragazzino.
Dolore
Weisz era arrivato a Bologna nel 1935 e aveva condotto i rossoblù a conquistare due scudetti (1936, 1937) e a battere addirittura i maestri inglesi del Chelsea nella finale del Trofeo dell'Esposizione a Parigi (una Champions League ante litteram). Aveva metodi innovativi: disegnava schemi sulla lavagna e li faceva applicare ai suoi giocatori durante gli allenamenti, in un'epoca in cui i tecnici non si mettevano nemmeno in tuta e dirigevano le operazioni a bordo campo in giacca e cravatta. Grazie a lui l'Italia conobbe il calcio danubiano, con tutti i suoi segreti e le sue bellezze. Ma non c'era più posto per lui, nell'Italia fascista. Il regime di Benito Mussolini aveva promulgato le leggi razziali. Weisz si dimise dalla carica di allenatore del Bologna il 22 ottobre, nel gennaio del 1939 scappò con tutta la famiglia a Parigi, e di lì in Olanda dove trovò un ingaggio come tecnico del Dordrecht. I nazisti lo scovarono il 2 agosto 1942: la Gestapo lo arrestò assieme a moglie e figli. Deportati in campo di concentramento. La moglie Elena e i piccoli Roberto e Clara finirono subito nelle camere a gas di Birkenau. Arpad Weisz, dopo essere stato inviato ai lavori forzati in Alta Slesia, stremato e denutrito, scomparve il 31 gennaio 1944. Una targa allo stadio di Bologna lo ricorda. Mai dimenticare l'orrore.
(La Gazzetta dello Sport, 16 ottobre 2018)
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