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Notizie 1-15 ottobre 2019
"La Germania simpatizza per gli ebrei morti, non per i vivi"
Parla Broder
di Giulio Meotti
ROMA - "Nie wieder?", titola lo Spiegel di questa settimana, mettendo in copertina una stella di Davide bucherellata. I colpi sono quelli contro la sinagoga di Halle da parte di un neonazista, Stephan Balliert, che ha lasciato a terra due morti fra i passanti e un bilancio che sarebbe stato molto più tragico se le porte della sinagoga non avessero retto all'assalto (era Kippur e la sinagoga era piena). Nie wieder significa mai più. Numeri impressionanti. "Nella sola Berlino, oltre mille incidenti antisemiti nel 2018, il 14 per cento in più rispetto all'anno precedente. Quasi 75 anni dopo la fine dell'Olocausto, gli ebrei che celebrano Kippur in sinagoga devono temere per la propria vita". I rabbini sono attaccati a Berlino, Monaco e Amburgo. A Colonia, il rabbino non usa i mezzi pubblici per sicurezza. A Hemmingen, vicino Hannover, una anziana coppia di ebrei ha trovato lo zerbino bruciato e sulla porta la scritta "ebreo". A Bamberg sul muro di un ponte: "Non comprare dagli ebrei". In una column al vetriolo pubblicata da Welt, Politico e Business Insider, Mathias Dòpfner, l'amministratore delegato del gigante dei media Axel Springer (possiede anche la Bild, il quotidiano più venduto), ha dato voce a tutto il pessimismo possibile. Dopfner attacca la segretaria della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, che ha definito Halle come una "sveglia". "Rappresenta simbolicamente una cultura politica perseguitata dagli eufemismi", scrive Dopfner. "C'è una mancanza di volontà di chiamare le cose con il loro nome. Invece, si nasconde o minimizza. Le élite politiche e mediatiche dormono il sonno dei giusti e del politicamente corretto. Hanno paura di disturbare la pace?". Altro che sveglia, secondo Dopfner è "il fallimento sistemico della società aperta".
Eccoli i colpevoli secondo il magnate dei media: "Le politiche sui rifugiati, una forza di polizia troppo debole e mal equipaggiata, una pubblica amministrazione e un sistema giudiziario inattivi, un'élite politica che rifiuta di affrontare la realtà, dei media che troppo spesso descrivono come dovrebbero essere le cose invece della situazione così com'è". Il finale è disarmante: "Non voglio vivere in un paese in cui le persone rimproverano i propri vicini per non riuscire a separare la spazzatura, ma guardano dall'altra parte quando i propri concittadini vengono assassinati a causa del colore della pelle o perché sono ebrei". Nie wieder? non ha più molto significato.
Henryk M. Broder
Henryk M. Broder
columnist della Welt e intellettuale ebreo, è la coscienza tedesca sull'antisemitismo, almeno dal 1981, quando in un articolo per la Zeit si rivolse così ai tedeschi contemporanei: "Siete ancora i figli dei vostri genitori. Il vostro ebreo oggi è lo stato di Israele". "Oggi dicono che l'antisemitismo è Auschwitz", dice Eroder al Foglio. "Quello che è successo alla sinagoga di Halle ricorda il 1938, ma quando si dice che l'antisemitismo è sinonimo di Auschwitz tutto quello che accade oggi perde di importanza. C'è un desiderio inconscio nella Germania di vedere l'Iran finire il lavoro, la prossima Shoah. E' infantile essere sorpresi dall'antisemitismo, perché l'antisemitismo è parte del dna tedesco". Sì, ma a Hall e è stato un neonazista ad attentare per la prima volta mortalmente alla vita degli ebrei, mentre in Francia sono stati gli islamisti. "Non è vero che è la prima volta", ci dice Eroder. "Negli anni Sessanta e Settanta in Germania ci furono attacchi mortali contro gli ebrei lanciati dalla banda Baader-Meinhof e dall'intelligence libica. Destra, sinistra, islamismo, tutto si tiene qui, e le autorità tollerano slogan antiebraici, come 'Hamas Hamas ebrei ebrei al gas', e roghi di bandiere israeliane. Non pensavo che Halle sarebbe mai successo. Ma la società di oggi ha una grande simpatia per gli ebrei morti, mentre fatica a lottare per gli ebrei vivi".
(Il Foglio, 15 ottobre 2019)
La «normalità» degli ebrei oltre la Shoah
La storia è un susseguirsi di eventi, che hanno, come protagonisti, soggetti umani autonomi dotati di soggettività storica che li possa aiutare nella produzione di eventi. Ma è sempre così? Spesso, non sempre. Non lo è stato e non lo è, ad esempio, quando si parla degli ebrei. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi - la storia della Shoah (catastrofe o distruzione in ebraico) si è sovrapposta alla storia di questo popolo e della sua civiltà antichissima, finendo per operare una sorta di mistificazione.
Sergio Luzzatto nel libro Un popolo come gli altri (Donzelli, 310 pagine, 19,50 euro) sostiene la tesi che la narrazione dell'Olocausto non possa rappresentare se non un episodio, un momento, certamente tragicissimo nella storia di questo popolo, ma ci offre un'immagine distorta di esso.
"Rappresentato così - pensa l'autore che insegna storia moderna all'Università di Torino - il popolo ebraico corrisponde fin troppo (in una forma rovesciata) allo stereotipo antisemita: il Popolo eletto come sublimazione edificante del Popolo maledetto.
Dalla Roma di Tito all'Europa dei pogrom, dal ghetto di Venezia alle leggi razziali, dalla Soluzione finale al complotto contro Israele, il popolo ebraico diventa un metafisico tutt'uno di ashkenaziti e sefarditi, uomini e donne, poveri e ricchi, rabbini e laici, marrani e coloni, contadini e commercianti, banchieri e intellettuali, miracolosamente tenuto insieme dagli altrui vizi, e dalle proprie virtù. Come dire, che la storia recente, attraverso l'apologia della Shoah ha forse il demerito di avere mitizzato il popolo ebraico, facendone un popolo unico, monolitico, redento, che sta solo e sempre dalla parte giusta. Ma così non è. E sarebbe sbagliato e antistorico affermare il contrario.
Luzzato, invece, ci propone un'idea diversa degli ebrei nella storia. Più che riconoscerli sempre e comunque buoni, sempre e comunque innocenti, sempre e comunque vittime, si appassiona della varietà di vicende storiche e della molteplicità di profili umani che hanno reso (e che rendono) il Popolo eletto, un popolo come gli altri. G.P.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 15 ottobre 2019)
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Come tutte le nazioni
Certamente, non è la Shoah a dare il carattere di popolo unico a Israele, ma è il carattere di popolo unico dato in origine da Dio a Israele, come sta scritto nella Bibbia, a dare alla Shoah il carattere di avvenimento unico nella storia. Forse a Luzzatto dà fastidio non tanto quello che gli uomini pensano di Israele a partire dalla Shoah, ma quello che potrebbe pensarne Dio a partire da quello che sta scritto nella Bibbia.
Non c'è nulla di nuovo sotto il sole: fin dall'inizio Israele ha desiderato essere "un popolo come gli altri". Si sono stancati presto della teocrazia e allora si sono rivolti a Samuele: "... or dunque stabilisci su di noi un re, che ci amministri la giustizia come l'hanno tutte le nazioni" (1 Samuele 8:5). Come lhanno tutte le nazioni, questo è il fatto importante. Samuele li mise in guardia, cercò di far capire loro che il re desiderato, come l'hanno tutte le nazioni, sarebbe stato un re come quelli di tutte le nazioni, cioè li avrebbe angariati e sfruttati in tutte le maniere. Conseguenza: "Allora griderete a causa del re che vi sarete scelto, e in quel giorno l'Eterno non vi risponderà" (8:18) . Ma non ci fu verso: "Il popolo rifiutò di dare ascolto alle parole di Samuele e disse: «No! Ci sarà un re su di noi; e anche noi saremo come tutte le nazioni» (8:19-20).
Come tutte le nazioni, è questo, ancora oggi, lanelito di molti ebrei illuminati. La cosa può essere ben illustrata mettendo lespressione governo democratico al posto della parola re: «No! Ci sarà un governo democratico su di noi; e anche noi saremo come tutte le nazioni». E si può dire, proseguendo nellimmaginifica traslazione, che il Signore ha assecondato per il momento questo desiderio, e a un ipotetico Samuele ha dato ordine: Dà ascolto alla loro voce, e stabilisci su di loro un governo democratico (8:22). Ma con questo lEterno non ha detto lultima parola. M.C.
(Notizie su Israele, 15 ottobre 2019)
E' nei cieli che Israele difende i suoi confini
Già oggi l'esercito israeliano è in grado di intercettare i missili lanciati dal Libano e dalla Siria ma soprattutto di fermare i missili balistici iraniani.
di Luca D'Ammando
Il cielo. È questo il 'campo' su cui Israele potrebbe essere costretto a combattere la prossima guerra. Una guerra che, nello scenario peggiore, si annuncia particolarmente complessa e frastagliata. Perché sono tre i fronti su cui appare coinvolto l'esercito israeliano, tutti e tre lungo il confine settentrionale: Iran, Hezbollah e Siria. Senza escludere, in aggiunta, il fronte di Gaza. Stando alle recenti analisi dell'Institute for National Security Studies dell'Università di Tel Aviv, per continuare a sventare gli sforzi dell'Iran di stabilire una presenza militare a lungo termine in Siria, così come i tentativi di Teheran di arricchire ulteriormente l'arsenale di armi di Hezbollah in Libano, Israele dovrebbe formulare una nuova linea d'azione. A rendere più concreto lo scenario del conflitto sul "confine settentrionale", lo scorso luglio l'ex generale israeliano Michael Herzog ha presentato un rapporto che descrive come sarà la prossima guerra contro Hezbollah e l'Iran nel settore nord: «Millecinquecento missili al giorno, per molte settimane, molti dei quali riusciranno a saturare e quindi a superare le capacità di difesa missilistiche israeliane».
In realtà, da tempo l'esercito israeliano si sta attrezzando per affrontare al meglio un conflitto aereo. Basti pensare all'avvertimento lanciato a Teheran da Benjamin Netanyahu che, da un podio montato su una pista in una base militare, ha dichiarato: «Israele può raggiungere l'Iran, l'Iran non può raggiungere Israele». Il premier aveva alle spalle un caccia F-35 Adir modificato per allungare il suo raggio d'azione e può arrivare in Iran e tornare senza fare rifornimento. E proprio i caccia F35 Adir dell'aeronautica militare israeliana hanno sorvolato a più riprese l'Iran e per la precisione hanno volato nei cieli di Teheran, Karajrak, Isfahan, Shiraz e Bandar Abbas, senza che le difese aeree della Repubblica Islamica se ne siano accorte (raid avvenuti nel 2018 ma resi noti solo di recente).
C'è poi il fronte siriano. Già dal gennaio 2013 gli israeliani hanno cominciato a eseguire raid aerei per impedire agli iraniani di trasformare la Siria in una piattaforma militare per aggredire lo Stato ebraico. In questi anni i caccia hanno bombardato centinaia di bersagli: convogli, posti di comando, magazzini segreti di armi, laboratori per la ricerca e la produzione di armi chimiche. Il governo di Gerusalemme per anni non ha riconosciuto la responsabilità di questi bombardamenti e si è comportato come se non stesse succedendo nulla, ma di recente ha cominciato ad ammettere alcune azioni. E, proprio in vista di una pioggia di missili provenienti dalla Siria, dal Libano o da Gaza, a luglio Israele ha segretamente condotto in Alaska tre test del missile Arrow-3, in cooperazione con le autorità statunitensi. Test riusciti «oltre ogni immaginazione», ha fatto sapere il premier Netanyahu. Arrow-3 ha intercettato con pieno successo missili balistici oltre l'atmosfera, ad altitudini e a velocità finora mai raggiunti. «Adesso - ha aggiunto Netanyahu - Israele dispone della capacità di agire contro missili balistici che fossero lanciati contro di noi dall'Iran o da altre località».
Nel frattempo, mentre nei cieli si gioca questo Risiko inquietante, Hezbollah porta avanti la guerra sotterranea. L'organizzazione terroristica libanese continua a scavare tunnel per attaccare Israele. Sei tunnel (almeno quelli conosciuti) disposti lungo la Linea Blu, la linea di demarcazione che le Nazioni Unite stabilirono nel 2000 per segnare il ritiro di Israele dal Libano. L'obiettivo di Hezbollah era quello di infiltrare i combattenti nelle comunità agricole, con assalti e prese di ostaggi, e di riuscire a conquistare la Galilea spostando il conflitto dentro ai confini dello stato ebraico. Una guerra sotterranea che di recente è stata interrotta da un'operazione di intelligence da parte delle Forze di difesa israeliane che hanno utilizzato nuove tecnologie basate su minionde sismiche per localizzare gli scavi. Una guerra strisciate che di certo non può considerarsi conclusa.
(Shalom, No 9/10 sett-ott 2019)
Le due facce dell'antisemitismo
Bisogna rendersi conto che l'invocazione a distruggere Israele da parte dei neonazisti negatori della Shoà non è diversa da quella dei capi del movimento BDS
L'Europa di oggi ha due facce. Da un lato c'è la Corte Europea dei diritti dell'uomo che lo scorso 3 ottobre ha deciso, senza quasi menzionare Israele, che la negazione della Shoà non rientra nella libertà di espressione e non è un diritto umano. La petizione era stata presentata da Udo Pastörs, un membro del partito di estrema destra tedesco NPD già condannato da un tribunale locale per le sue prese di posizioni di incitamento all'odio. Dall'altro c'è l'antisemitismo, che continua ad aumentare fino al sanguinoso attentato dello scorso Yom Kippur contro una sinagoga tedesca.
Come definire l'antisemitismo è uno dei temi più discussi in questi giorni in Germania. Poco più di una settimana fa dei neonazisti hanno marciato per le strade di Dortmund incitando i palestinesi a distruggere Israele. Nel frattempo è in corso un dibattito sul fatto se sia definibile antisemita la campagna BDS (per il boicottaggio e le sanzioni contro Israele). Già alcuni mesi fa il Bundestag tedesco ha stabilito che la risposta è sì. Lo stesso hanno fatto diversi altri paesi europei che hanno adottato questa interpretazione (che si riallaccia alla definizione operativa dell'antisemitismo proposta dall'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto ndr). I circoli di estrema sinistra fanno campagna contro la decisione e contro la definizione....
(israele.net, 14 ottobre 2019)
Mohammed Ali Reda, «La mia terra veersa lacrime e sangue»
Da 50 anni in Italia, l'ex medico di Calestano (PR) piange la sorte della propria famiglia e della propria gente: «Dopo aver lottato contro l'Isis, siamo stati abbandonati».
di Roberto Longoni
Gli F16 bombardano oltre, a sud; e oltre avanzano le truppe di Ankara. I parenti di Haji Mohamed Ali Reda, medico curdo-calestanese, non sono più al fronte: la loro terra, i turchi la conquistarono già nel 2018 con il raid «Ramoscello d'ulivo». Bastonate, altro che sventolii di ramoscelli: e gli ulivi se li presero tutti. «Ho appena ricevuto un messaggio da mio fratello - racconta Ali Reda - . I curdi raccolgono le olive e la gente mandata da Erdogan gliele porta via. Siamo quasi schiavi». Ad altri, sulla rotta dei carri armati turchi va peggio: in armi o civili che siano. Con l'operazione «Fontana di pace» a sgorgare sono il sangue in Siria e lontano le lacrime degli espatriati.
Ali Reda è tra loro. figlio di Afrin, angolo di Siria colpevole di confinare con la Turchia e ancor di più d'essere territorio curdo. In Italia, dove è venuto per laurearsi in Medicina, tra Bologna e Parma, e da dove non è più ripartito, ha sposato la calestanese Elena Rossi. Le colline dell'Appennino sono diventate specchio della sua terra natia: qui sono cresciuti i figli Ivan, 40 anni, e Serena 32, entrambi battezzati. Al medico ora in pensione è rimasto uno spiccato accento mediorientale, ma non c'è più nessuno che lo consideri straniero. Ha saputo farsi amare: per decenni è stato al servizio della sua nuova patria, tra gente che non manca di fargli sentire il proprio abbraccio. «Non c'è giorno che passi senza la testimonianza di solidarietà di qualcuno» sottolinea lui. Bende sottili su una ferita che sanguina. E al tempo stesso lui non può sentirsi estraneo al dolore e ai lutti che colpiscono la sua gente: al di là della famiglia che ancora vive in quella terra martoriata.
«Fontana di sangue»
L'offensiva scatenata da Erdogan su un fronte lungo 700 chilometri, ha l'obiettivo dichiarato di formare una «zona cuscinetto» profonda almeno una trentina di chilometri, nel territorio abitato per 1'80 per cento dai curdi. La causa? Presunte minacce terroristiche. L'effetto? Una quasi certa pulizia etnica. Atroce destino, quello del popolo smembrato tra quattro stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran), senza averne uno proprio. Popolo tradito oltre che dagli uomini di troppe bandiere anche dal dizionario. Ogni volta che da Ankara risuonano parole di concordia e armonia, deve tremare. Deve subire o fuggire (sì, ma dove?) o imbracciare il fucile (ma per cosa, quando ti sganciano bombe dal cielo?). Mentre il mondo balbetta impotenti proteste.
Il califfato di Al Bagdhadi è stato sconfitto? E allora i peshmerga possono pure finire sotto la terra sulla quale furono gli unici a mettere gli scarponi nella guerra contro i tagliagole dell'Isis (che temevano di essere uccisi dalle donne curde: niente «paradiso», in tal caso). Magari mentre i terroristi (quelli veri) si radono le guance e indossano una divisa ripulita di tutto punto. Pare che già un centinaio di loro siano riusciti a fuggire dai campi sorvegliati dai curdi. «Sembra assurdo, ma è proprio ciò che sta avvenendo dove sono nato» scuote il capo Ali Reda. «A che cosa è servito il sacrificio di oltre diecimila nostri giovani, ragazze e ragazzi, morti per difendere il mondo dall'Isis? Ora tuonano di nuovo i cannoni su Kobane ... Con la differenza che da una parte c'è un esercito armato di tutto punto e dall'altra la mia gente senza più alcun aiuto».
Violenze culturali
Nonostante la diaspora e l'emigrazione dei nipoti in Germania, gran parte della famiglia di Ali Reda è in Medio oriente. «Una trentina di parenti tra fratelli e sorelle, nipoti e cugini: una metà al di qua del confine turco, costretti perfino a cambiare cognome, l'altra sul lato siriano. Almeno, quello che fino all'altro ieri non era ancora Turchia di fatto. Tutti condividono lo stesso destino culturale: a ognuno è stato impedito di imparare il curdo scritto, ognuno ha dovuto frequentare la scuola in lingua o turca o araba. Ora la bandiera di Ankara sventola ovunque. Tutto è stato depredato. Tempo fa, mio fratello mi ha spiegato che ad Afrin i curdi ormai rappresentano solo il 10 per cento della popolazione».
Le notizie, il medico le ottiene dalle varie tv satellitari e dai siti internet dei Paesi arabi: quelle di prima mano sono interrotte. Dei suoi, fuggiti da Afrin durante l'operazione
«Ramoscello d'ulivo» e sfollati in un campo profughi tra Maydanki e Aleppo, non sa quasi più nulla. «I social sono stati bloccati e così i telefoni - spiega lui -. Prima del messaggio vocale di mio fratello, una ventina di giorni fa ne avevo avuto uno da un nipote. "Ci stiamo sciogliendo come una palla di neve al sole" mi ha detto». Quanto sia rovente il sole a quelle latitudini crudeli è noto. «Erdogan si è preso Idlib, A'zaz e Al'Rai. E non ha intenzione di fermarsi». Troppe le ragioni che lo spingono: da quelle geopolitiche a quelle etniche, senza dimenticare quelle economiche. Il sottosuolo è ricco di petrolio, le campagne di olio di oliva.
«Solo lo scorso anno - spiega Ali Reda - alla Spagna ne è stato venduto per 200 milioni di euro. Nella nostra zona ci sono 18 milioni di ulivi».
Traditi nei secoli
Quante volte siano stati traditi, ormai nemmeno più i curdi lo ricordano. Un secolo fa, a rimangiarsi la parola furono francesi e inglesi, con il trattato di Sèvres. Il «loro» Kurdistan nacque solo su una sterile mappa. In tempi più recenti, il voltafaccia è stato di altri. «Fino all'offensiva dell'aprile del 2018, ad Afrin c'erano i russi: lasciarono il campo libero ai turchi dopo l'acquisto dei turchi di missili antiaerei da Mosca. Ora è stato Trump ad abbandonarci. In ballo ci sono altre forniture militari. Molto probabilmente quella degli F-35 che in un modo o nell'altro saranno venduti ad Ankara ... Del resto, già Henry Kissinger nel 1972 disse che non avremo mai avuto un nostro Paese. La nostra terra è troppo ricca. Basti pensare a tutto l'uranio dell'Ararat».
E i curdi, sono troppo odiati. Tanto da mettere d'accordo tra loro anche chi si scontra su tutti gli altri fronti. «Erdogan - prosegue il medico calestanese - vuole rimettere in piedi l'Impero ottomano; anticipare i tempi e acquisire militarmente il potere che la Turchia avrà a partire dal 2023, quando scadranno i vincoli di sfruttamento delle risorse del sottosuolo». Nel frattempo, che cosa accadrà ai curdi? «Stiamo parlando di 45 milioni di persone, 22 in Turchia e sei in Siria. Ma solo nell'Iraq del nord abbiamo qualche diritto. Speriamo almeno che non vengano perpetrati genocidi e che non vada perduta anche la nostra cultura già a rischio per ciò che subiamo a scuola. Erdogan ha promesso 500 piante di ulivo e una casa a ogni soldato e a ogni guerrigliero che entra nel nostro territorio: già ora si trovano paesi nei quali afgani, ceceni, pakistani o arabi sunniti hanno preso il nostro posto. È cominciata così: la demografia farà il resto».
(Gazzetta di Parma, 14 ottobre 2019)
Siria: la Turchia attaccherà Kobane dal fronte occidentale
Numerosi carri armati, mezzi blindati e unità militari dell'esercito turco e delle milizie arabe filo-Ankara sono entrati nelle ultime ore nel nord della Siria per sferrare un attacco a Kobane dal fronte occidentale.
Erdogan: "La Nato sta con noi o con i terroristi?"
L'approccio" mostrato dalla "Russia non sarà un problema a Kobane" per il nostro attacco. Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, nel suo primo commento sull'intesa raggiunta dai curdi con il regime siriano con la mediazione russa per difendersi dall'offensiva di Ankara partita il 9 ottobre scorso. "In questo momento girano molte voci", ha aggiunto Erdogan, sminuendo gli effetti immediati dell'accordo dei curdi con Damasco per proteggere Kobane, dopo l'abbandono dell'avamposto da parte dei marines americani.
Il leader di Ankara ha confermato anche l'intenzione di prendere d'assalto Manbij, altra località strategica curda che si trova a ovest del fiume Eufrate. "Il nostro accordo con gli Stati Uniti prevedeva che Manbij fosse evacuata dai terroristi in 90 giorni. È passato un anno e Manbij non è ancora stata evacuata", ha detto Erdogan parlando all'aeroporto Ataturk di Istanbul, prima di partire per un summit in Azerbaigian. Il presidente turco ha definito "chiacchiere" le notizie riguardanti un accordo tra le milizie curde siriane Ypg e il regime di Damasco, sostenuto dalla Russia. "Ci sono troppe chiacchiere in giro. Al momento non sembra ci sia alcun problema con la Russia rispetto al nostro avvicinamento a Kobane. Per Manbij siamo nella fase in cui vanno applicate le decisioni prese.
"La Nato sta con noi o con i terroristi?
"Ho parlato ieri con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il giorno prima con il premier britannico Boris Johnson. Nei nostri colloqui ho capito che c'è una seria disinformazione. Starete dalla parte del vostro alleato Nato, o dalla parte dei terroristi? Ovviamente loro non possono rispondermi a questa domanda retorica". Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan."Noi non combattiamo i curdi nella regione. Noi siamo lo stato. Loro sono i terroristi. Non può esserci una guerra con i terroristi, ma solo una lotta al terrorismo", ha sostenuto Erdogan. "I nostri colloqui con l'America e la Russia proseguono" sulle operazioni previste a Kobane e Manbij, ha aggiunto il leader turco.
Truppe di Damasco al confine turco
Intanto le forze governative siriane sono avanzate nel nord-est siriano e sono arrivate ad Ayn Issa, tra Raqqa e il confine turco. Lo riferisce la tv di Stato siriana che mostra le immagini delle truppe di Damasco nella località siriana, 50 km a sud della frontiera turca. La decisione di Damasco di inviare proprie truppe nel nordest della Siria segue un accordo tra il regime di Bashar al-Assad e l'amministrazione curda. ''Per evitare e affrontare questa aggressione è stato raggiunto un accordo con il governo siriano. In questo modo l'esercito siriano può essere dispiegato lungo il confine sirio-turco per aiutare le Forze democratiche siriane (Fds)''. L'obiettivo, prosegue la nota, è quello di ''liberare le città siriane occupate dall'esercito turco, come Afrin'' nel nordovest. Il generale curdo Ismet Sheikh Hasan ha detto all'agenzia di stampa russa Rt che dalla notte le truppe siriane e russe possono entrare a Kobane e Manbij per contribuire a contrastare i turchi.
Cremlino: impensabile azione militare Russia
"Non ci piace nemmeno pensarlo".Così ha risposto il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov quando gli è stato chiesto se la Russia potrebbe essere trascinata nel conflitto siriano a causa dell'intervento turco. Peskov ha poi precisato che fra Mosca e Ankara vi sono stati contatti a livello "dei presidenti" e "dei ministeri degli Esteri" nonché "fra le strutture militari". Peskov non ha però commentato in modo chiaro le affermazioni di Erdogan secondo cui l'intervento è stato concordato con Putin. Lo riporta Interfax.
Cnn turca: convoglio di soldati Usa lascia la base di Kobane
I militari americani hanno abbandonato le basi di Kobane, città a maggioranza curda del nord della Siria. A riportare la notizia è la Cnn turca, che riferisce di un convoglio di blindati americani che ha abbandonato Kobane, diretta probabilmente verso la base di Raqqa. Le operazioni sono iniziate dopo che il Pentagono ha annunciato ieri il ritiro di altri 1000 soldati stanziati nel nord della Siria, dove avanza l'esercito turco affiancato dall'Esercito libero siriano (Els). In sostanza, il ritiro americano equivale ad un semaforo verde per l'avanzata delle truppe di Ankara su Kobane.
L'attacco di Ankara a Kobane
Numerosi carri armati, mezzi blindati e unità militari dell'esercito turco e delle milizie arabe filo-Ankara sono entrati nelle ultime ore nel nord della Siria a ovest del fiume Eufrate, in un'area già controllata dalla Turchia, per sferrare l'attacco a Kobane dal fronte occidentale. Questa nuova offensiva partirebbe da Jarablus, località strategica siriana di confine passata nelle mani della Turchia con l'operazione 'Scudo dell'Eufrate'del 2016-2017. Il nuovo dispiegamento di forze intende attraversare l'Eufrate, che rappresenta un confine naturale della regione amministrata dai curdi-siriani, costruendo un ponte temporaneo sul fiume. Da lì punterà prima sull'area curda di Zormagar e poi verso Kobane/Ayn al Arab.
Il ministero della Difesa turco ha annunciato che due capoluoghi, Tel Abyad e Ras al Ayn, nonché un grande centro, Suluk, e 56 villaggi sono stati "liberati dai terroristi" delle milizie curde Ypg, contro cui è diretta l'offensiva.
Milizie filo-turche si rafforzano a Manbij
Le truppe turche e le milizie arabo-siriane cooptate da Ankara stanno inviando rinforzi a Manbij, a ovest dell'Eufrate, in vista di uno scontro con le forze governative siriane, accordatesi con quelle turche per "proteggere" la zona di confine nel nord e nel nord-est della Siria. Lo riferisce la tv panaraba al Jazira che cita fonti delle milizie siriane filo-turche. Le fonti affermano che la Turchia ha anche rafforzato la sua presenza a ridosso della cittadina chiave di Ayn Arab/Kobane, controllata dai curdi ma minacciata dall'offensiva di Ankara. Anche Ayn Arab/Kobane rientra nell'accordo tra curdi e forze di Damasco.
Oms: servono cure per 1,5 milioni di persone
In questo momento nel nord est della Siria, l'area interessata dagli scontri con l'esercito turco, ci sono 200 mila profughi e 1,5 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria, con un forte rischio di malattie infettive. Lo afferma l'Oms dicendosi "gravemente preoccupata" per la situazione, anche per gli attacchi che stanno subendo gli ospedali e le altre strutture sanitarie.
Raid turco: morto giornalista curdo
Un giornalista curdo-siriano è morto oggi in seguito alle ferite riportate durante un bombardamento turco compiuto ieri nel nord-est della Siria. Lo riferiscono media curdi, precisano che Muhammad Efrin è morto stamani in ospedale. Era stato vittima, assieme ad altri giornalisti, civili e miliziani curdi, di un raid dell'esercito turco a sud di Ras al Ayn/Serekaniye. Nell'attacco erano morte 14 persone, tra cui un altro giornalista curdo Saad Ahmad, e un reporter straniero di cui non si conoscono ancora le generalità.
Conte: su stop armi Italia non timida ma capofila
"Non è vero che l'Italia è rimasta indietro" sull'embargo alle armi alla Turchia, "l'Italia è capofila di una decisione forte dell'Ue sul tema, ma deve essere unitaria, altrimenti non è efficace. Se siamo capofila di una simile decisione non vuol dire mica che vogliamo vendere armi a Ankara". Lo afferma il premier Giuseppe Conte interpellato dai cronisti ad Avellino.
(RaiNews, 14 ottobre 2019)
I curdi accerchiati dall'avanzata turca. Assad manda l'esercito a Kobane
l tank di Ankara conquistano città e villaggi. Gli americani lasciano le basi e si spostano a Sud.
Erdogan allarga la "fascia di sicurezza" oltre i limiti promessi a Trump
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Il ministero della Difesa turca: eliminati 525 "terroristi", 60 le vittime civili
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di Giordano Stabile
ERBIL - Le terre del Rojava passano di mano a una velocità impressionante. La decisione di Donald Trump, nella notte fra sabato e domenica, di ritirare «il più presto possibile» i mille militari statunitensi ancora nella regione ha scatenato una corsa di tutte le forze in campo. Senza più lo scudo americano, privi di mezzi anti-aerei, per i guerriglieri curdi non c'è scampo. E allora hanno deciso di concentrare le loro forze alle estremità Ovest e Est del fronte. E di chiedere aiuto ai russi e al governo di Damasco. Bashar al-Assad aveva già ammassato truppe verso l'Eufrate ed è ora pronto ad attraversarlo «entro 48 ore» per arrivare a Manbij e Kobane prima dei turchi. Anche perché l'aviazione americana «non ostacolerà la manovra».
Per il raiss è un successo insperato, per i curdi si tratta di sopravvivere. La parte centrale del fronte, fra Tall Abyad e Ras al-Ayn è al collasso. Nonostante i contrattacchi notturni le due cittadine sono in mano a esercito di Ankara e miliziani arabi alleati.Nel mezzo è stato aperto un nuovo varco, e i combattenti dell'Esercito nazionale siriano hanno raggiunto l'autostradaM4, che corre a 30-40 chilometri di profondità. Lo stesso presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha allargato la «fascia di sicurezza» a 35 chilometri, per includere la principale via di comunicazione. Avanguardie dei miliziani sono arrivate fino ad Ayn Issa, ancora più in giù, sulla strada che da TallAbyad porta a Raqqa.
I limiti posti all'inizio dell'operazione «Fonte di pace», nella telefonata di domenica 6 ottobre fra Trump e Erdogan, non hanno più senso. Il capo della Casa Bianca, dopo che venerdì sera i soldati statunitensi erano finiti sotto il fuoco dell'artiglieria turca, ha capito che la situazione non era più sostenibile, a meno di un confronto armato con la Turchia, impensabile. E ha deciso di togliere il disturbo. Ieri funzionari hanno ammesso che la situazione «si sta deteriorando con grande rapidità», perché turchi e alleati «possono isolare le basi americane» e Washington non controlla più «le vie di comunicazione» e neppure «i jet turchi sopra le teste dei soldati«. Poi il segretario alla Difesa Mark Esper ha spiegato con una certa brutalità che «Erdogan ci ha informato che stava arrivando: ci ha informato, non ci ha chiesto il permesso». E non c'era modo di «fermare 15 mila turchi che avanzano verso Sud». Una determinazione confermata ieri dallo stesso Erdogan. «Sapevamo - ha spiegato - che dopo aver lanciato la nostra operazione avremmo dovuto affrontare la minaccia di sanzioni o di embargo sulla vendita di armi. Quelli che pensano di farci ritirare con questa minacce si sbagliano di grosso». I primi ad averlo capito sono i curdi. Senza la leadership americana i Paesi europei non possono impensierire la Turchia e tanto meno proteggere i curdi sul terreno. Per questo il Pyd, il braccio politico delle Ypg, ha riaperto subito i canali con il governo di Damasco. Ieri una delegazione è arrivata nella base russa di Hmeimim e c'è stato un primo accordo. L'esercito siriano, preceduto dalla polizia militare di Mosca, sarà dispiegato a Manbij e a Kobane, la principale città curda nel Rojava, ormai tagliata fuori dai territori più a Est. Le perdite fra i guerriglieri sono troppo elevate. Il ministero della Difesa turca sostiene di aver eliminato 525 «terroristi», mentre le vittime civili sono almeno 60, 130 mila gli sfollati.
La cessione di Manbij, che i curdi hanno strappato all'Isis nell'agosto del 2016, è dolorosa ma non troppo. La città è a maggioranza araba, si trova a Ovest dell'Eufrate ed era indifendibile fin dall'inizio.
Perdere Kobane, città martire della lotta all'Isis, è un altro discorso, significa la fine del sogno di indipendenza. Ma sempre meglio finire nelle grinfie
di Assad, con assicurazioni da parte dei russi, che sotto i talloni di miliziani infiltrati da jihadisti di Al-Qaeda. Come riassume il decano degli analisti mediorientali, Joshua Landis, «l'amara verità è che Putin è oggi l'unico statista in grado di disinnescare i conflitti in Medio Oriente, in Siria come nel Golfo. La politica estera americana è collassata con Trump, una decisione sbagliata dopo l'altra. Porta soltanto caos».
(La Stampa, 14 ottobre 2019)
Israele e il disimpegno della Casa Bianca: così si favorisce l'espansionismo iraniano
La preoccupazione di Gerusalemme arrivata a Washington tramite emissari di Netanyahu.
di Marco Ventura
ROMA Le tre "lezioni" di Eyal Tsir Coen, esperto del think tank americano Brookings e per trent'anni consigliere nell'ufficio del primo ministro israeliano, sintetizzano lo sconforto e la preoccupazione di Israele per il disimpegno di Trump dalla Siria e l'abbandono dei curdi al loro destino.
L'isolazionismo del Presidente Usa significa molto per gli israeliani. Non a caso Benjamin Netanyahu, commemorando la guerra dello YomKippur del 1973 che quasi costò la sopravvivenza di Israele, pur apprezzando gli Stati Uniti di Trump che negli ultimi anni hanno spostato l'ambasciata a Gerusalemme e caldeggiato l'annessione del Golan e la politica degli insediamenti in Cisgiordania, ha tuttavia ribadito che Israele è pronto a «difendersi da solo, contro ogni minaccia». Da solo. Perché la mossa di Trump fa pensare che gli Stati Uniti potrebbero non essere al fianco di Israele nella battaglia decisiva.
Ma quali sono le tre "lezioni" di Eyal Tsir Coen per Brookings? La prima: «Combattiamo da soli». Il fatto è che le milizie curde hanno guerreggiato contro l'Isis per 5 lunghi e sanguinosi anni, dal 2014 al 2019. Mentre l'esercito siriano era tutto impegnato nel contrastare l'opposizione interna sunnita, i curdi già morivano per liberarsi del Califfato. Solo nel 2015 è sceso in campo anche l'esercito di Assad, spalleggiato dalla Russia.
I dubbi
La decisione di Trump di avallare l'offensiva turca smentisce la convinzione che siano gli Usa il "poliziotto globale". Di fronte a questioni di vita o di morte per i curdi, gli americani spariscono.
E se facessero lo stesso con Israele? Questo l'interrogativo che si pongono a Gerusalemme. In modo discreto e invisibile, gli emissari di Netanyahu alla Casa Bianca si sono mossi per segnalare il «forte disagio». E l'intervento potrebbe avere influito sulla mezza retromarcia di Trump e l'annuncio di sanzioni alla Turchia.
La seconda lezione è una domanda che ritorna: «È finita l'idea di un nuovo Medio Oriente?», Sotto l'ombrello protettivo di un alleato affidabile come gli Usa (prima del disimpegno di Trump) era ipotizzabile un riavvicinamento tra Israele e i Paesi arabi in chiave anti-iraniana, in un simile contesto sarebbe stato persino possibile un accordo di pace israelo-palestinese. Ma la mancata reazione americana ai droni esplosivi contro gli impianti petroliferi sauditi ha fatto capire al principe Mohammed bin Salman che sarebbe meglio raggiungere un'intesa con l'Iran, magari attraverso la mediazione dei premier pakistano e iracheno, e non affidarsi completamente a Trump. Succede così che l'isolazionismo della Casa Bianca isola pure Israele, favorisce l'espansionismo iraniano e la continuità territoriale delle milizie degli Ayatollah nell'area, e rafforza la Russia sulla scena mediorientale. Di qui la terza "lezione", che per Eyal Tsir Coen va sotto il titolo «Un nuovo sceriffo in città». E chi se non Putin è questo "nuovo sceriffo"? Con una controindicazione per Israele: se la Russia impone in Siria la sua legge ( e le batterie antimissile S-300), potrà Israele reagire prontamente alle future minacce, o dovrà coordinare le proprie azioni con lo "sceriffo Putin"?
L'esercizio
In conclusione, la volubilità (per usare un eufemismo) dell'alleato americano obbliga Gerusalemme a un "cheshbon nefesh'', un esercizio spirituale che corrisponde a «fare i conti con la propria anima». Pro e contro. Profitti e perdite. Fare i conti con la realtà.
(Il Messaggero, 14 ottobre 2019)
Qamishli, città in bilico. I curdi traditi da Trump ora trattano con i russi
Nel Nord sotto attacco: i colloqui con gli emissari del Cremlino
di Lorenzo Cremonesi
La mossa era inevitabile. Con il sentimento di essere stati traditi, abbandonati, lasciati da soli dai vecchi alleati americani e in generale dell'Occidente, i curdi di Rojava avviano il dialogo diretto con il regime di Bashar Assad grazie all'attenta mediazione russa.
In realtà non hanno alternative, sono con le spalle al muro e stanno capitolando per non essere annullati. Così, qui in questa regione contesa a Nord della Siria, piatta ma ricca d'acqua, fertile e ricca di campi petroliferi, si consuma l'ennesimo smacco delle diplomazie e degli eserciti dell'alleanza Nato a beneficio della Russia di Putin.
Sono queste le informazioni confermate dai repentini cambiamenti sul terreno che arrivano qui a Qamishli, la città più popolosa all'interno della regione autonoma curda. «Questa mattina è arrivata una delegazione russa all'aeroporto di Qamishli assieme ad altri funzionari del regime di Damasco. È stata ricevuta dai massimi dirigenti curdi. Si sono incontrati in un edificio vicino alla pista di atterraggio, uno dei compound mai abbandonati dal 2011 dai fedelissimi di Assad assieme ad alcuni loro quartieri nel centro città. Nel frattempo contatti stanno proseguendo alla presenza dell'ambasciatore russo a Damasco. L'intesa pare ormai raggiunta. Rojava si ritira e al suo posto stanno già schierandosi le truppe agli ordini diretti dello stato maggiore di Assad».
Identità nascoste
A parlare gli ambienti locali cristiani. Per motivi di sicurezza non vogliono svelare le loro identità, sono legati ai patriarchi delle chiese locali. Sono ambienti che sono rimasti sempre fedeli al regime, non lo hanno mai abbandonato, neanche nei momenti più difficili. Su questo punto tutti i sacerdoti delle chiese locali parlano la stessa lingua, senza differenze tra assiri, armeni, cattolici, ortodossi o caldei: l'unica via d'uscita dalla crisi e il solo modo per bloccare l'avanzata turca da Nord assieme alle milizie sunnite siriane legate ad Ankara è contrapporre a loro la piena sovranità di Damasco puntellata dai forti alleati militari russi e iraniani. «È interesse del regime creare una barriera contro l'invasione turca del nostro Paese. Noi cristiani non potremo mai dimenticare le responsabilità dell'antico Impero Ottomano nel massacro di armeni e in generali dei cristiani durante la Prima guerra mondiale. Anche se i curdi allora furono strumento delle violenze ottomane nei confronti dei cristiani, oggi abbiamo tutto l'interesse a creare un fronte comune», sostiene un alto esponente della Caritas locale, legato strettamente alla Chiesa di Roma.
È stata questa una dolorosissima concessione per i curdi. Ieri sera girava già la notizia secondo la quale le loro forze verranno assimilate all'esercito siriano della Quinta Brigata. È infatti ben noto che Assad non intende dare loro alcuna autonomia sia politica che militare.
Il pericolo
Ma di fronte al pericolo maggiore di massacri e distruzioni hanno poche alternative. «Per salvare il nostro popolo siamo pronti a fare un patto anche il diavolo», ammettono all'unisono al Corriere tutti i capi politici e militari curdi incontrati negli ultimi cinque giorni. Del resto dinamiche simili sono già avvenute l'anno scorso per cercare di combattere l'aggressione turca contro l'enclave di Afrin, presso Aleppo. Anche allora i curdi hanno dovuto chiedere aiuto a Damasco e cercare la protezione russa.
Oggi però il dramma è molto più profondo, radicale. L'intera Rojava si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Ieri sera molti tra noi giornalisti stranieri abbiamo dovuto abbandonare in fretta il nostro albergo e il centro di Qamishli. Collaboratori locali e ufficiali curdi davano come imminente l'arrivo dei fedeli di Bashar. E del resto le prime avvisaglie erano apparse la mattina, quando centinaia e centinaia di militanti locali del partito del regime baathista hanno sfilato indisturbati per le vie del centro inneggiando al presidente siriano sventolando le bandiere del regime. Non accadeva dal 2011. Più tardi per le vie della città sono spariti anche i drappelli di militari curdi che fino ad allora avevano continuamente pattugliato le strade, gli alberghi e tutti gli edifici pubblici.
Ma le notizie più gravi arrivano dal fronte delle prigioni curde dove sino a ieri mattina erano detenuti i più pericolosi militanti dell'Isis catturati nelle battaglie tra il 2014 e il marzo 2019. Nelle ultime ore circa un migliaio di detenuti Isis sono fuggiti dal campo di Ain Issa, non lontano dalla cittadina di Kobane, e a nord di Raqqa, la vecchia capitale del Califfato.
Scontri violenti
Fughe di massa e rivolte si registrano nel gigantesco campo di Al Hol, dove sono detenuti oltre 70 mila tra donne e figli dei jihadisti dell'Isis.
Scontri violenti avvengono in generale in una trentina di centri di detenzione curdi. E l'intero sistema che crolla. I curdi abbandonano i servizi di guardia alle prigioni per concentrarsi sull'autodifesa militare, dove possono. A far precipitare la loro situazione è anche la notizia arrivata da Washington dell'imminente ritiro del migliaio di soldati americani che li avevano sostenuti nelle lunghe battaglie contro l'Isis, a partire da quella di Kobane nell'autunno 2014, e che ultimamente fungevano soprattutto da garanzia contro le mire turche.
È la fine, la sconfitta militare e politica. Le strade di Rojava sono ormai diventate labirinti di sconosciuti. I centri stampa curdi tornano a diffondere i vecchi comunicati dei tempi della battaglia di Afrin in cui si accusava la Turchia di sostenere gli stessi jihadisti dell'Isis che Erdogan oggi proclama di voler combattere. Il grande problema dei curdi resta lo stesso di sempre: «Tra i pericoli percepiti da Ankara loro vengono molto prima dell'Isis».
(Corriere della Sera, 14 ottobre 2019)
Israele, i curdi e Trump
Un tradimento che non lascia presagire nulla di buono a Gerusalemme
Scrive il Jerusalem Post (7/10)
Non ci si faccia ingannare dalla mancanza di una risposta israeliana ufficiale al drammatico ribaltamento politico rappresentato dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di rimuovere le truppe statunitensi dalla Siria settentrionale: in realtà, Gerusalemme è profondamente preoccupata per questo passo", scrive Herb Keinon. "Viene confermata l'idea che davvero Israele può fare affidamento unicamente su se stesso. La decisione di Trump non può essere vista come una scelta isolata. Deve anche essere vista nel contesto degli attacchi sostenuti dall'Iran il mese scorso contro le strutture petrolifere saudite e l'assordante mancanza di reazione da parte americana. Entrambi questi incidenti dimostrano che l'attuale amministrazione è ben poco diversa dalla precedente amministrazione Obama nella sua riluttanza a prender partito e affrontare, ove necessario, le forze negative in medio oriente. E questo è un dato che riveste un enorme significato per Israele. Esso conferma nei pianificatori strategici del paese la convinzione che, sebbene gli Stati Uniti sotto un'amministrazione amichevole siano pronti a sostenere Israele alle Nazioni Unite e offrire assistenza con aiuti per le armi e sostegno morale, difendendo il paese dalle pressioni internazionali, quando si tratta del ricorso alla forza Israele deve essere preparato e pronto a difendersi da solo. L'ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano Eran Lerman dice che nella regione oggi nessuno che sia lucido di mente' farebbe affidamento sugli americani, e questo è un fatto che potrebbe benissimo spingere vari attori fra le braccia degli iraniani, che non aspettano altro. Lerman definisce la mossa di Trump `un'onta morale' e dice che una sua possibile conseguenza potrebbe essere quella di spingere i curdi, nella loro battaglia con i turchi, dalla parte del regime di Assad e dei suoi padrini iraniani. Il che avrebbe gravi conseguenze per Israele, poiché eliminerebbe l'ultima barriera nel nord della Siria che impedisce un corridoio terrestre, vale a dire una linea di rifornimento continua dall'Iran attraverso l'Iraq e la Siria, fino al Libano e ai porti sul mar Mediterraneo".
(Il Foglio, 14 ottobre 2019)
Siria: raggiunto accordo tra le forze curde e Damasco per fermare Erdogan
L'accordo raggiunto nella serata di ieri con la mediazione russa. Già schierato l'esercito siriano
Ieri sera è stato annunciato un accordo tra Damasco e le forze curde finalizzato a fermare l'invasione turca della Siria.
Ad annunciarlo è stato un portavoce del SDF con una dichiarazione diffusa ai media.
«È stato raggiunto un accordo tra l'SDF e il Governo di Damasco finalizzato a permettere all'esercito siriano di entrare nei territori sotto controllo curdo al fine di fermare l'invasione turca della Siria Nord-Orientale» si legge nel comunicato.
Secondo fonti siriane l'accordo è il frutto di tre giorni di negoziati tra le forze curde e gli inviati di Damasco e di Mosca.
Esercito siriano già schierato nel Kurdistan
Secondo quanto riferisce questa mattina la Reuters in un lancio di agenzia, l'esercito siriano avrebbe già iniziato il proprio schieramento all'interno della zona sotto controllo delle forze curde.
Erdogan usa milizie islamiche ex Al Qaeda ed ex ISIS
Come ampiamente previsto e come già successo nell'area di Afrin, Erdogan sta facendo ampio uso di miliziani islamici ex Al Qaeda ed ex ISIS. Secondo diverse testimonianze raccolte da organismi internazionali i miliziani islamici si sarebbero abbandonati a indicibili violenze.
(Rights Reporters, 14 ottobre 2019)
Danni alla barriera protettiva del cervello si verificano anche con trauma cranico lieve
In un nuovo studio su atleti adolescenti e adulti, i ricercatori dell'Università Ben Gurion del Negev, della Stanford University e del Trinity College di Dublino hanno trovato prove di danni alla barriera protettiva del cervello, senza commozione cerebrale.
Per la prima volta, i ricercatori sono stati in grado di rilevare danni alla barriera emato-encefalica (BBB), che protegge il cervello da agenti patogeni e tossine, causati da lievi lesioni traumatiche al cervello (mTBI).
I risultati sono stati pubblicati questo mese sul Journal of Neurotrauma.
Lo studio dei ricercatori israeliani
I ricercatori israeliani e i colleghi stranieri hanno studiato gruppi di persone ad alto rischio, in particolare combattenti di arti marziali miste (MMA) e giocatori di rugby adolescenti, per verificare se l'integrità della barriera emato-encefalica (BBB) è alterata e sviluppare una tecnica per diagnosticare meglio un trauma cerebrale lieve.
Il prof. Alon Friedman, neuroscienziato e chirurgo innovativo, che ha fondato la Brain Sciences School Inter-Faculty presso l'Università Ben Gurion, come riporta un comunicato, ha spiegato:
"Mentre la diagnosi di lesioni traumatiche al cervello moderate e gravi è visibile attraverso la risonanza magnetica [MRI] e la tomografia computerizzata [TC], è molto più difficile diagnosticare e trattare lesioni cerebrali traumatiche lievi, specialmente una commozione cerebrale che non compare su una normale TC".
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Sport e danni alla barriera protettiva del cervello
Lo studio dimostra che un lieve impatto nella pratica professionale di arti marziali miste e del rugby negli adolescenti può causare danni alla barriera emato-encefalica.
Se in uno studio più ampio i risultati sono simili, le tecniche di brain imaging in fase di sviluppo potrebbero essere utilizzate per monitorare gli atleti per determinare linee guida più sicure per il "ritorno al gioco".
I ricercatori israeliani nella loro ricerca hanno esaminato i ragazzi che praticano arti marziali miste prima della lotta e di nuovo entro 120 ore dopo la lotta competitiva.
I giocatori di rugby sono stati esaminati prima della stagione e di nuovo dopo la stagione o dopo la partita.
Risonanza, analisi, sensori
Entrambi i gruppi sono stati valutati utilizzando il protocollo di risonanza magnetica avanzata sviluppato dalla BGU, l'analisi dei biomarcatori del sangue della barriera emato-encefalica e un paradenti sviluppato a Stanford con sensori che rilevano velocità, accelerazione e forza a quasi 10.000 misurazioni al secondo.
Dieci dei 19 giocatori di rugby adolescenti, entro la fine della stagione, hanno mostrato danni alla barriera emato-encefalica. Otto giocatori di rugby sono stati sottoposti a scansione dopo la partita e due hanno avuto disturbi alla barriera protettiva del cervello. Le lesioni rilevate erano inferiori all'attuale soglia per un lieve trauma cranico.
I ricercatori sono stati anche in grado di correlare il livello di danni alla barriera protettiva del cervello osservati su una risonanza magnetica con le misurazioni effettuate dai sensori del paradenti.
Nella fase successiva della ricerca, il gruppo prevede di condurre uno studio simile in una cerchia più ampia per determinare se le interruzioni della barriera emato-encefalica guariscono da sole e quanto tempo ci vuole.
Il prof. Alon Friedman ha infine affermato:
"È probabile che i bambini stiano vivendo queste lesioni durante la stagione ma non ne siano consapevoli o siano asintomatici. Speriamo che la nostra ricerca usando la risonanza magnetica e altri biomarcatori possa aiutare a rilevare meglio una lesione cerebrale significativa che può verificarsi dopo quella che sembra essere una 'lieve lesione traumatica al cervello ' tra atleti dilettanti e professionisti".
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(SiliconWadi, 14 ottobre 2019)
Adesso Trump vuole fermare l'escalation. Pronte le sanzioni e pattuglie nei cieli
L'avvertimento di Putin. "Fuori le forze straniere presenti illegalmente sul territorio siriano"
di Francesco Semprini
NEW YORK - I bombardamenti dell'esercito turco sfiorano una postazione dei corpi speciali statunitensi nell'estremo nord della Siria causandone l'immediata evacuazione e spingendo Donald Trump ad attivare una serie di procedure volte a prevenire la deriva bellica di Recep Tayyip Erdogan. Mentre Vladimir Putin invoca il ritiro di tutte le forze straniere presenti «illegalmente» sul territorio siriano.
Venerdì, intorno alle 21 (le 20 in Italia), l'artiglieria di Ankara ha preso di mira un'area in prossimità dell'avamposto Usa sulla collina di Mashtenour, non lontano dalla città martire di Kobane, nella zona siriana che si trova sotto il controllo delle forze curde. Nella base si trovavano unità scelte Usa (tra alcune decine a un centinaio) e - sembra - francesi, le stesse che hanno coadiuvatole Forze democratiche siriane (composte da curdi, arabi sunniti e cristiani) nella guerra contro lo Stato islamico. Anziché rispondere al fuoco, i militari hanno avuto l'ordine di lasciare la base temporaneamente e in via cautelare, come riferisce un funzionario del Pentagono. Ankara assicura che nessuna postazione americana è stata presa di mira dalle sue forze impegnate nell'operazione "Fonte di pace", ma un comunicato della Difesa Usa ribadisce come «l'esplosione è avvenuta a poche centinaia di metri da una posizione al di fuori della "zona del meccanismo di sicurezza" e in un'area conosciuta dai turchi per la presenza di unità Usa». Il Pentagono mette in guardia il sultano dall'evitare azioni che possano tradursi in un'immediata azione di difesa americana, e ribadisce la propria opposizione a ogni operazione che avvenga al di fuori delle zone cuscinetto. Le stesse che blindati di Washington e Ankara pattugliavano congiuntamente sino a qualche giorno fa per impedire incidenti come la violenta entrata dell'armata turca, all'inizio del 2018, ad Afrin (Operazione ramoscello d'ulivo).
La storia si ripete e questa volta con la (forse involontaria) complicità di Trump che, annunciando di ritirarsi ( e disinteressarsi) di una «guerra durata troppo»,ha di fatto dato luce verde alla controversa operazione antiterrorismo di Erdogan, salvo ripensarci una volta preso atto del rischio «escalation». Ripensamento che mette in difficoltà le stesse forze sul campo, come dimostra il militare americano che rivela a Fox News come «sia vergognoso» assistere alla mattanza di chi sino a poco tempo fa era alleato nella lotta al terrorismo. Trump conferisce mandato al Tesoro di predisporre le opportune sanzioni nei confronti della Turchia in caso la situazione sfugga di mano, non fissando, tuttavia, una scadenza precisa per l'attuazione. Le contromosse Usa potrebbero giungere anche sul terreno, con la mobilitazione di forze tra le tremila che il Pentagono è pronto a inviare in Medio Oriente. E dai cieli visto che lo spazio aereo dal quale i caccia di Ankara martellano le postazioni curde è lo stesso pattugliato da jet Usa a est dell'Eufrate (a ovest i russi) nell'ambito dell'operazione anti-terrorismo «Inherent Resolve» attivata nell'ottobre del 2014.
Tutte le truppe straniere presenti «illegalmente» in Siria devono andare via, afferma il presidente Putin, forte del fatto che la presenza di quelle russe è «legittimata» dal governo di Damasco. Chiara anche la presa di posizione della Lega Araba che riduce i rapporti con Ankara: «L'aggressione turca alla Siria costituisce una minaccia diretta per la sicurezza nazionale araba, così come per la pace e la sicurezza internazionali».
(La Stampa, 13 ottobre 2019)
La marcia per i deportati del Ghetto. «Mai più odio»
Comunità ebraica e Sant'Egidio ricordano il rastrellamento di Roma: «Isolare gli antisemiti»
di Rinaldo Frignani
ROMA - «Non basta restare a guardare, non basta la cultura. Vogliamo sconfiggere chi ci odia, lo dobbiamo ai sei milioni che sono morti in quei campi, ma anche a noi e ai nostri figli». Il messaggio lanciato da Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana, scuote chi è sceso in piazza per la marcia organizzata insieme con Sant'Egidio in memoria del rastrellamento del Ghetto, il 16 ottobre 1943, quando 1.023 ebrei furono deportati nei Lager nazisti. «Solo quindici uomini e una donna tornarono da Auschwitz. Nessun bambino fece ritorno. Ricordiamo l'orrore di quel sabato nero. Mai più», chiede Dureghello nel giorno in cui il pensiero non può non andare a quanto accaduto pochi giorni fa ad Halle, in Sassonia, con l'assalto antisemita del neonazista Stephan Balliet, che ha ucciso due passanti e lanciato bombe a mano contro la sinagoga. «Non possiamo ignorare i fatti di cronaca, troviamo vicende che spaventosamente ricordano quei giorni - spiega ancora la presidente -. Durante lo Yom Kippur e nell'anniversario dell'attentato alla Sinagoga di Roma, un nazista ha cercato di ripetere una strage. L'antisemitismo minaccia ancora l'Europa, questa è una marcia di consapevolezza. Il messaggio è che fare memoria oggi è reprimere con gli strumenti giuridici questi fenomeni».
All'iniziativa hanno partecipato centinaia di persone. Una fiaccolata aperta dagli striscioni «Non c'è futuro senza memoria» e «La pace è il futuro», che si è mossa proprio da Trastevere, per raggiungere poi il Portico d'Ottavia e la Sinagoga. Sparsi lungo il corteo i cartelli con i nomi dei campi di sterminio: Auschwitz, Birkenau, Flossenbürg, Treblinka, Buchenwald e tanti altri. In prima fila, oltre a Dureghello, il rabbino capo Riccardo Di Segni, l'ambasciatore d'Israele Dror Eydar, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, la sindaca Virginia Raggi, il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo. «Bisogna isolarli, conoscerli e combatterli, altrimenti il 16 ottobre del 1943 non sarà solo una memoria», ribadisce proprio il rabbino capo riferendosi a chi si rende responsabile di atti antisemiti, mentre il vescovo Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso, ammette: «Ricordiamo una storia di disprezzo, troppo spesso giustificata anche da uomini di fede. Non possiamo permettere che il male ci assedi». E l'ambasciatore Eydar sottolinea come «la nostra marcia urla "Siamo qui", il popolo di Israele è vivo».
Per Impagliazzo «il razzismo antisemita è un veleno che ancora scorre nelle vene delle città europee, anche a Roma. Siamo qui per bonificare luoghi e menti. Serve la reazione di tutti». Gli fa eco la sindaca Raggi: «Occorrono iniziative, come cancellare da Roma le strade che ricordano in maniera indegna i sottoscrittori del manifesto della razza», mentre Zingaretti auspica «una battaglia culturale e sociale, affinché razzismo e antisemitismo non rialzino la testa».
(Corriere della Sera, 13 ottobre 2019)
Strage Bologna, passaporti cileni falsi: lettera 007 italiani tirava fuori giallo già nel 1976
"Egregio sig. giudice, Le allego un piccolo promemoria concernente le connessioni fra diversi fatti criminosi, uno dei quali - l'abbattimento in volo del Twa 841 presso Corfù dell'8.9.74 - di estrema gravità". Scriveva così, il 21 gennaio 1976, Silvano Russomanno, all'epoca dirigente dell'Ispettorato generale per l'azione contro il terrorismo (poi sarà il numero due dell'Ufficio Affari Riservati e vicedirettore del Sisde), in una lettera inviata al giudice istruttore che seguiva il processo per l'attentato all'oleodotto transalpino di Trieste.
La lettera, che il giornalista Rai triestino Giuliano Sadar pubblica nel suo libro 'Il grande fuoco: 4 agosto 1971, l'attentato all'oleodotto di Trieste', è la testimonianza diretta che l'Italia fosse già a conoscenza di quello che l'Fbi metteva nero su bianco nel rapporto di cui l'Adnkronos è entrata in possesso e del quale ha scritto nei giorni scorsi.
"Secondo noi - scriveva lo 007 italiano nella lettera di accompagnamento all'appunto in cui metteva in relazione diversi episodi legati al terrorismo mediorientale - la rete è sempre la stessa, dato che diversi personaggi riappaiono e i passaporti hanno somiglianze tali da escludere il caso". I passaporti, dunque. Già qui si mettevano in relazione alcuni dei passaporti cileni falsi che, come l'Adnkronos ha raccontato nei giorni scorsi, farebbero parte di uno stock di sei, uno dei quali utilizzato da una misteriosa donna per soggiornare in un albergo di fronte alla stazione di Bologna nei giorni dell'attentato che fece 85 morti e 200 feriti e per il quale sono stati condannati in via definitiva gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Russomanno chiama in causa anche Rita Porena, la controversa giornalista italiana amica del capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, e di diversi capi palestinesi e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. "Il primo passaporto della Porena (quello di cui la giornalista denunciò la scomparsa, ndr), ci si potrebbe scommettere, è oggi in tasca a qualche feddayn, maschio o femmina che sia. Non è la prima volta che gli estremisti denunciano lo smarrimento al solo scopo di procurarsi un secondo passaporto per far dono dell'originale all'organizzazione", scriveva Russomanno nell'appunto, nel quale metteva in relazione diversi episodi, dando evidenza al lavoro dell'intelligence sul problema degli attentati palestinesi dei primi anni 70.
Tra gli eventi messi in fila da Russomanno, il primo risale al 4 aprile 1973, quando, "nella sala transiti dell'aeroporto di Fiumicino vennero arrestati due sedicenti iraniani, Shirazi e Mirzada, perché trovati in possesso di 3 bombe a mano di produzione cecoslovacca e di una rivoltella spagnola cal. 7,65 ciascuno". Poi il fallito attentato al volo Twa: "Il 26 agosto 1974, all'aeroporto di Fiumicino, durante lo scarico dei bagagli dall'apparecchio Tra, volo 841, giunto da Tel Aviv-Atene e diretto a New York, si verificò un principio di incendio in una valigia appartenente al sedicente cileno Jose Mario Aveneda Garcia, munito di passaporto nr. 037976 rilasciato a Quillota, poi risultato falso. Poiché l'Fbi rilevò tracce di esplosivo nei residui della citata valigia e scoprì inoltre un congegno d'accensione, si dovette pensare a un attentato fallito. Ipotesi convalidata dal fatto che l'8 settembre successivo, lo stesso aereo Twa 841 si inabissa nel mar Ionio ad ovest di Corfù, provocando la morte di 88 persone".
"L'Ispettorato Generale per l'Azione contro il Terrorismo - prosegue Russomanno - diramò le ricerche del sedicente Aveneda Garcia, anche a tutti i servizi di sicurezza collegati. In data 24 febbraio 1975 la polizia svedese comunicò al citato Ufficio di non aver traccia alcuna della presenza dell'Aveneda Garcia in Svezia, ma di conoscere un certo Eduardo Hernandez Torres, cileno, munito di passaporto nr. 037972 rilasciato a Quillota. Questi, che aveva chiesto asilo politico in quel paese, si identificava in realtà in Michel Archamides Doxi, nato a Gerusalemme, cittadino giordano, ex elemento del Fronte popolare di liberazione della Palestina".
"Il Doxi - scrive ancora lo 007 italiano - confidò ai funzionari svedesi di essere stato istruito dai feddayn in un campo libanese e di essere stato inviato, nel marzo 1973, da Beirut a Roma, via Bari, in compagnia di due donne per portare in Italia delle granate a mano e delle pistole. Per tale viaggio egli utilizzò un falso passaporto honduregno al nome di Tomas Gonzalo Perez. Delle due ragazze, una era la libanese Maha Abu Halil, l'altra una cittadina italiana di nome Rita. Le armi erano quelle stesse trovate indosso ai due sedicenti iraniani il mese successivo all'aeroporto di Fiumicino".
"L'Ispettorato Generale per l'Azione contro il Terrorismo - prosegue Russomanno -, in possesso delle rivelazioni del Doxi, fece delle indagini presso il porto di Bari, rilevando come effettivamente un Tomas Gonzalo Perez fosse giunto il 4 marzo 1973 da Beirut con la turbonave Ausonia, in compagnia di tale Claudia Garcia Morales e dell'italiana Rita Porena, nata 21.5.1937. Ricerche effettuate a Roma misero poi in luce il fatto che il Perez e la Morales (cioè il Doxi e la Halil) avevano soggiornato nella capitale, alla 'Pensione dei Principi' dal 4 al 5 marzo".
"Secondo il Doxi, la Rita ha l'apparente età di 29 anni, è alta circa 1.60, di corporatura robusta, di faccia piena, e ha i capelli bruni; appartiene all'estrema sinistra e ha già compito diversi viaggi in diversi Paesi europei allo scopo di introdurre armi per i feddayn. Le organizzazioni terroristiche arabe, infatti, usano di preferenza delle donne per il trasporto delle armi; eleganti, in possesso di molto denaro, esse alloggiano in hotel di prima classe facendosi passare per sudamericane o italiane".
"Il Doxi - aggiunge il capo dell'Ispettorato - ha inoltre rivelato che nel maggio 1973 ricevette dall'organizzazione un ulteriore incarico: fu inviato a Ginevra, di nuovo con la Halil, per prendere in consegna un ordigno incendiario che era custodito da 'una donna danese'. Egli avrebbe dovuto recarsi poi in aereo a Lod e deporre la bomba nell'aeroporto israeliano. Mentre la Halil lasciò la Svizzera in treno, diretta in Italia, il Doxi si presentò all'Ambasciata di Israele a Berna, dichiarò di voler lasciare per sempre l'organizzazione terroristica e consegnò l'ordigno".
"Il complesso delle dichiarazioni del Doxi appare del tutto credibile", sottolinea Russomanno, evidenziando che "a ulteriore prova di ciò si osserva che, nei vari progetti del notissimo terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, ve n'era uno denominato 'operazione Danimarca' o 'operazione Mike', che consisteva nell'eliminazione di Michel Doxi, quale traditore. In effetti, questi si trovava a Copenaghen prima di passare in Svezia e chiedervi asilo".
(Adnkronos, 13 ottobre 2019)
"Sukkot, una festa per superare le barriere"
"È tradizione consolidata che in occasione della festa di Sukkot il presidente apra la sua residenza a tutti gli israeliani, e la sua sukkah diventa la sukkah del popolo. È una tradizione meravigliosa, che porta con sé il ricordo del pellegrinaggio del nostro popolo a Gerusalemme. Beit HaNasì, la residenza del Presidente, è la casa di tutti gli israeliani. La sukkah del presidente appartiene a ciascuno di voi ed è aperta a tutti". È il messaggio del Presidente d'Israele Reuven Rivlin in occasione della festa di Sukkot che prende il via questa sera. Come negli anni passati, nella residenza presidenziale è stata costruita la tradizionale capanna con la partecipazione di diversi bambini. "A Sukkot, ci viene ordinato di lasciare le nostre case per trovare un rifugio temporaneo: la sukkah. - sottolinea Rivlin nel suo messaggio augurale - La sukkah è aperta a tutti e ci permette di vedere le persone e la natura che ci circonda. La sukkah, che è sempre fuori, ci permette di percepire e sentire ciò che facciamo fatica a vedere nella nostra vita quotidiana a causa dei muri che ci circondano. La sukkah ci fa uscire, invitandoci a notare cose e persone che normalmente non notiamo. Non viviamo in isolamento. Le nostre azioni hanno un'influenza decisiva sul nostro ambiente. Sukkot, più di ogni altra festa ebraica, simboleggia il legame tra l'umanità e la natura. Simboleggia il nostro viaggio verso la Terra di Israele. E quando siamo qui, in Israele, dovremmo ricordare che il nostro viaggio non è ancora finito. Dobbiamo far fiorire e sviluppare la terra, guardandoci intorno e ascoltando".
Sul fronte politico intanto Rivlin sta facendo le sue valutazione e sembra non essere intenzionato a concedere al Primo Ministro Benjamin Netanyahu del tempo supplementare per formare una coalizione di governo. Probabilmente darà quindi il mandato al leader del partito Kachol Lavan Benny Gantz, secondo quanto riportano i media israeliani.
Netanyahu, incaricato di formare un governo il 25 settembre scorso, ha ancora 11 giorni per provare a mettere insieme una maggioranza alla Knesset. Se dovesse fallire, Gantz allora avrà a disposizione 28 giorni per farlo.
(moked, 13 ottobre 2019)
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"Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito"
Poi Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco, un uomo di nome Zaccheo, che era capo dei pubblicani ed era ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse innanzi, e per vederlo montò su un sicomoro, perché doveva passare per quella via. Quando Gesù arrivò in quel luogo, alzò gli occhi e gli disse: "Zaccheo, scendi presto, perché oggi debbo venire a casa tua". Ed egli s'affrettò a scendere e l'accolse con gioia. Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: è andato ad alloggiare da un peccatore! Ma Zaccheo, fattosi avanti, disse al Signore: "Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo". Gesù gli disse: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo: perché il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perito".
Dal Vangelo di Luca, cap. 19
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Siria, Ankara: "Abbiamo conquistato Ras Al-Ain"
Il ministro della Difesa turco parla di un successo significativo, ma le forze democratiche siriane smentiscono: "La città non è caduta, i combattimenti vanno avanti". Dieci civili uccisi nei bombardamenti, sei giustiziati. I curdi attaccano gli Usa: "Ci avete lasciati al massacro"
Le forze di Ankara hanno conquistato la città di confine Ras Al-Ain, nel nord-est della Siria, strappandola ai curdi, secondo quanto riferisce il ministero della Difesa. Si tratta di uno dei due ingressi principali dell'offensiva di terra turca. Ma le autorità curde smentiscono la notizia e replicano: "Ras Al-Ain resiste", precisando che i combattimenti continuano.
Ankara: "La città è nostra
A quattro giorni dall'inizio dei bombardamenti contro le milizie curde, sostenute dall'Occidente, "la città è passata sotto il nostro controllo", si legge nella nota di Ankara. Comunicando la notizia della conquista della località ad est dell'Eufrate, le autorità turche parlano di "un'operazione coronata con successo nell'ambito dell'offensiva 'Fonte di pace'". La città è stata al centro delle operazioni contro i militanti curdi in questi primi quattro giorni di scontri militari.
Le forze curde: "Ras Al-Ain non è caduta"
Un portavoce delle forze democratiche siriane a guida curda, secondo i media internazionali, sostiene invece che la città non è caduta. L'Osservatorio siriano dei diritti umani afferma che forze turche e alleate siriane sono entrate nella città, ma continuano i combattimenti. Sempre secondo l'Osservatorio siriano, almeno dieci civili sono stati uccisi sabato mattina dalle bombe turche lanciate nel nord-est della Siria, dove sono in corso violenti scontri, e altri sei civili siriani sono stati uccisi sommariamente a sangue freddo da miliziani filo-turchi.
L'accusa dei curdi agli americani: "Ci avete venduti"
Intanto la Cnn riferisce di un incontro, avvenuto giovedì, tra il generale Mazloum Kobani Abdi, il leader militare dei curdi siriani, e il vice inviato speciale americano per la coalizione contro l'Isis, William Roebuck. "Ci avete mollati, ci avete lasciati al massacro. Ci avete venduti, questo è immorale", avrebbe detto il leader curdo. "Devo sapere se siete in grado di proteggerci perché se non lo siete devo fare un accordo con la Russia e il regime e invitare i loro aerei a proteggerci",
L'Iran: "Pronti a mediare tra Siria e Turchia"
Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha offerto la mediazione di Teheran tra Siria e Turchia per ristabilire una situazione di sicurezza al confine tra i due Paesi. In un'intervista con l'emittente pubblica turca Trt World, il capo della diplomazia iraniana ha fatto riferimento a un accordo del 1998 in base al quale Damasco non avrebbe dovuto più ospitare i militanti curdi del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) in lotta contro la Turchia. "L'accordo di Adana tra Turchia e Siria, ancora valido, può essere la via migliore per ristabilire la sicurezza", ha detto Zarif.
(TGCOM24, 12 ottobre 2019)
"Ora neanche Israele può fidarsi più degli Usa"
Jean-Pierre Darnis, consigliere scientifico dello IAI, spiega come il voltafaccia di Washington sia il tassello di un più ampio disimpegno dell'amministrazione Trump dal ruolo di leadership globale. Un arretramento che lascia spazio a "disordine ed entropia", un vuoto che né la Russia né l'Europa possono colmare.
Il voltafaccia di Washington nei confronti dei curdi è il tassello di un piu' ampio disimpegno dell'amministrazione Trump dal ruolo di leadership globale che porta anche gli alleati piu' stretti, come Israele, a dubitare di poter continuare a contare sugli Stati Uniti. È quanto sottolinea all'Agi Jean-Pierre Darnis, consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali e professore associato presso l'Università di Nizza Sophia-Antipolis.
"Cambiare alleato succede, ma la presidenza Trump si mostra molto poco affidabile da questo punto di vista e crea così un problema di fondo perché tutti gli alleati degli Stati Uniti hanno ormai il sospetto, la paura o il timore che questa loro alleanza possa non essere più valida, a partire da un Paese chiave come Israele, e questo ha delle implicazioni piuttosto gravi", osserva Darnis. "Gli israeliani" aggiunge, "non sono sprovveduti e nel momento in cui sorgono dubbi sulla capacità degli Usa di mantenere tutta una serie di impegni, anche militari, Israele, che è abituata a porsi lo scenario peggiore, ha già messo in conto di dover fare da sé, anche nei confronti della crescita del pericolo iraniano".
Va considerata, da questo punto di vista, anche "la debolezza del sostegno americano all'Arabia Saudita, altro alleato che dovrebbe essere ancoratissimo al cuore della politica trumpiana. Durante le vicende più recenti la reazione americana non è stata cosi' forte". Ciò "è un fattore di entropia: siccome non c'è più la percezione di una potenza egemone, si aprono scenari pericolosi".
"Senza una potenza egemone vince il disordine"
Secondo Darnis, non bisogna farsi illusioni sulla possibilità che la Russia possa riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti: "Mosca rimane una potenza limitata, che ha sicuramente giocato un ruolo realista e coerente nel campo siriano, dove fu già la ritirata strategica di Obama a lasciarle spazio, ma non dobbiamo pensare che la Russia possa proteggere un'area dove peraltro ha rapporti complicati con la Turchia".
Se anche i curdi, come è stato affermato da alcuni loro leader militari, fossero costretti ad accordarsi con il capo del governo di Damasco, Bashar al-Assad in funzione anti-turca, "la Russia non avrebbe da guadagnare subito da un sostegno ai curdi; ne guadagnerebbe Assad, che era un leader molto indebolito, ma, più che guadagnarci davvero qualcuno, ci guadagnerebbero l'entropia e il disordine". "Se una potenza egemone come gli Usa non c'è più, si torna a un gioco di piccole potenze dal sapore ottocentesco", prosegue Darnis.
La leadership di Washington, oltre che dalla Russia, non può essere rimpiazzata nemmeno dall'Unione Europea che "per ragioni politiche, anche pacifiste, è una potenza economica e diplomatica, ma non militare". Gli unici che potrebbero aiutare i curdi contro l'offensiva turca sono Regno Unito e Francia e "hanno mezzi molto limitati". La stessa debolezza, sottolinea Darnis, che ha consentito a Erdogan di ricattare l'Europa con la minaccia di spalancare le porte a milioni di profughi siriani.
Quando l'Europa mollò Ankara
Ma che fare con la Turchia? Le radici dell'aggressività di Ankara, secondo Darnis, stanno nel "giro di boa funesto" che fu la chiusura di Parigi alla possibilità di un avvicinamento della Turchia all'Unione Europea, "non nella forma di un ingresso nella Ue, al quale probabilmente Erdogan nemmeno pensava, ma di un'associazione". La chiusura ha invece creato "un'onda lunga di enorme diffidenza" tra Usa ed Ue da una parte e uno dei membri più forti della Nato dall'altra.
È possibile ipotizzare un punto di rottura? Difficile, dal momento che "non esiste una procedura di esclusione dalla Nato", spiega Darnis. "Per entrare nella Nato bisogna anche rispettare criteri democratici di stampo occidentale", conclude, "ma una volta dentro non c'è una corte di giustizia Nato. Ormai da anni alcuni membri osano dire che la Turchia non ha più posto nella Nato ma è molto complicato arrivare a buttarla fuori, con le conseguenze destabilizzanti che tale decisione avrebbe".
(AGI, 12 ottobre 2019)
Israele. Mentre i politici litigano, la Difesa si prepara alla guerra con l'Iran
di Maddalena Ingrao
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che Israele deve aumentare la sua spesa per la Difesa di «molti miliardi immediatamente e poi molti miliardi ogni anno», mentre la minaccia dell'Iran si è intensificata nelle ultime settimane, riporta Breaking Defense. Israele, ha detto il premier, deve affrontare la minaccia crescente dell'Iran. L'esercito israeliano ha recentemente attaccato il ponte di Albukamal, forse la parte più importante del corridoio terrestre iraniano dall'Iraq alla Siria, lungo il quale Hezbollah avrebbe ricevuto missili e altre forniture dall'Iran.
La situazione qui è pericolosa e potrebbe sfuggire al controllo molto rapidamente, preoccupando diverse fonti israeliane, riprese da Asia Times; lo scenario previsto potrebbe essere che Israele continui a battere il ponte di Albukamal. L'Iran reagisce e lancia missili da crociera dall'Iraq occidentale per attaccare obiettivi in Israele. Lo stesso fanno gli alleati iraniani in Siria e Libano; poi Israele sfrutta la situazione per colpire i principali impianti nucleari iraniani.
La situazione regionale è già complessa. Fonti dell'intelligence israeliana dicono che i recenti attacchi iraniani all'impianto petrolifero saudita fanno parte del piano di Teheran per controllare l'ingresso nel Mar Rosso: Israele, dicono, non accetterà una situazione del genere.
Mentre la politica litiga, l'establishment della Difesa israeliana è giunto alla conclusione che il paese è stato lasciato solo ad affrontare la minaccia iraniana, riferendosi a Washington e a Trump.
Nel frattempo, le forze armate israeliane, Idf, hanno effettuato una settimana di esercitazioni per una guerra contro Hezbollah.
Il Capo di Stato Maggiore, generale Aviv Cochavi, ha recentemente affermato che le crescenti minacce richiedono alle forze di difesa israeliane di apportare modifiche alle strutture delle forze e ai metodi di combattimento per garantire che gli spazi urbani israeliani non servano da protezione per il nemico. Quindi, secondo alcune fonti, mentre in Israele si diffonde la sensazione che gli Stati Uniti non intendono agire contro l'Iran se non attraverso sanzioni, le possibilità di confronto militare con l'Iran e i suoi alleati sembrano ogni giorno più probabili.
Anche se i dettagli dell'attacco agli impianti petroliferi in Arabia Saudita non sono noti, gli esperti israeliani hanno sottolineato la precisione dei sistemi d'arma usati che «colpiscono esattamente dove dovrebbero». Gli esperti aggiungono che i sistemi d'arma sono stati lanciati o dal sud-est dell'Iran o da alleati iraniani in Iraq (
) La cosa sorprendente legata all'uso di questi missili o delle loro copie è la prontezza dell'Iran, spiegabile solo attraverso il modo in cui gli Stati Uniti hanno gestito la situazione nucleare in Corea del Nord e in Iran. Gli iraniani hanno capito che non succederà nulla se useranno missili da crociera e Uas contro le installazioni petrolifere saudite», ha detto Aahron Zeevi Farkash, ex capo dell'intelligence dell'Idf, ripreso da Breaking Defense.
Farkash cha detto che gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita sapevano che l'Iran aveva comprato i missili da crociera: sette missili da crociera Quds 1 azionati da motori a reazione di costruzione iraniana derivati da un motore ceco. Inoltre, gli iraniani usavano otto armi droni che sono stati sviluppati in Iran sulla base della tecnologia acquisita in altri paesi.
(AGC, 12 ottobre 2019)
Israele potrebbe pagare a caro prezzo la troppa fiducia in Trump
Più passano le ore e più a Gerusalemme ci si rende conto che potrebbe non essere stata una buona idea quella di fidarsi al 100% di Trump
di Sarah G. Frankl
Mano a mano che il tradimento di Donald Trump nei confronti dei curdi appare in tutta la sua deflagrante follia, sempre più analisti della difesa a Gerusalemme si chiedono se il Premier Benjamin Netanyahu abbia fatto bene o meno a puntare tutto sul Presidente americano.
In queste ore si susseguono le riunioni tra gli esperti militari e gli analisti della intelligence per valutare ogni possibile scenario, ma soprattutto per valutare le mosse che stanno facendo gli iraniani galvanizzati dal tradimento americano verso i loro alleati curdi.
Ieri molte agenzie di stampa iraniana mettevano in risalto il "panico" in cui la decisione di Trump aveva gettato Israele.
Sono in molti nel comparto della intelligence a temere che gli iraniani possano approfittare del momento per spingere i loro proxy ad attaccare Israele.
Per di più il tradimento di Trump verso i fedelissimi alleati curdi arriva in un momento in cui Israele sta attraversando un delicatissimo stallo politico mentre tutto intorno allo Stato Ebraico fervono i preparativi per il più volte annunciato attacco.
Parlando con una importante analista della intelligence israeliana (che non può essere nominata) ieri sera abbiamo potuto capire lo sgomento e la confusione creata da questa orrida decisione dell'Amministrazione americana.
«Siamo bloccati» ci dice l'analista. «A parte la situazione politica interna che non ci aiuta, ora non sappiamo nemmeno se possiamo contare sul supporto americano alle nostre azioni preventive contro l'Iran» continua.
«Paradossalmente l'unica cosa su cui siamo certi di poter contare è l'accordo con Mosca sulle azioni in Siria che però non sappiamo per quanto potrà tenere, per tutto il resto è buio anche nelle comunicazioni con l'intelligence americana» conclude l'analista.
Ormai da diverso tempo i caccia israeliani non colpiscono obiettivi iraniani in Siria mentre l'Iran, al contrario, continua nel suo posizionamento intorno a Israele. «È una finta calma» ci confida l'analista. «Abbiamo una lunga lista di obiettivi e di azioni da compiere, ma per ora è tutto bloccato».
La nostra fonte ci tiene comunque a precisare che Israele è in ogni caso in grado di muoversi in maniera del tutto autonoma militarmente e che anche in caso di un attacco le difese sono pronte a reagire a prescindere da quello che decidono a Washington o a Mosca.
Ma la "mazzata politica" si sente. Netanyahu, che aveva puntato tutto sulla fiducia nel Presidente Trump, è silente. I media dell'opposizione infieriscono sul Premier rinfacciandogli la "troppa fiducia" concessa a Trump nonostante i segnali che arrivavano da Washington, ma non lo fanno con troppa convinzione rendendosi conto della delicatezza del momento.
Inutile negarlo, il tradimento americano dei curdi pesa tantissimo e tutto va rivisto sotto l'ottica che vi sia la possibilità che in caso di una guerra con l'Iran, Israele si trovi a doverla combattere da solo.
Ora però più che mai è indispensabile che la situazione politica interna allo Stato Ebraico trovi velocemente un soluzione, che venga formato un nuovo governo senza lasciare nell'incertezza il paese.
Non è la prima volta che Israele si trova a dover combattere una guerra da solo e probabilmente non sarà nemmeno l'ultima. Ma adesso serve una fortissima coesione nazionale che superi le divisioni politiche.
Il pericolo iraniano è sempre più incombente e il tradimento americano dei curdi sembra aver rivitalizzato gli Ayatollah che potrebbero decidere di fare il "grande passo". È un rischio che Israele non si può permettere di correre.
(Rights Reporters, 12 ottobre 2019)
Antisemitismo, italiani preoccupati
La percezione dell'antisemitismo in Italia è in notevole crescita. È quanto emerge dalla sesta indagine sulla Memoria condotta in gennaio dall'istituto di ricerca SWG in collaborazione con la redazione di Pagine Ebraiche, un rapporto che permette, nell'arco di tempo monitorato, di cogliere alcuni segnali importanti. Il 49% del campione, il dato più alto del sessennio, ritiene infatti significativa la minaccia antiebraica. Alla domanda "Secondo lei oggi in Italia esiste ancora molto, abbastanza, poco o per niente un sentimento antisemita?" L'11% per cento dei rispondenti ha scelto l'opzione "molto", il 38% "abbastanza". Nel 2018, chi riteneva questa minaccia particolarmente intensa era appena il 5% degli intervistati, un dato non dissimile dalle rilevazioni precedenti. Questa opzione era stata infatti scelta dal 7% sia nel 2014 che nel 2015, dal 4% nel 2016, dal 6% nel 2017. Per la prima volta si va quindi in doppia cifra.
L'invito di Riccardo Grassi, direttore di ricerca SWG, è a leggere questo numero in relazione al rafforzamento di una percezione del Giorno della Memoria che emerge dall'indagine: non più un appuntamento soltanto giusto o formativo, ma "necessario" per un numero sempre più rilevante di italiani. La domanda "Secondo lei, ricordare il genocidio degli ebrei e delle altre vittime del nazismo attraverso il Giorno della Memoria è?" è stata infatti completata con l'aggettivo "necessario" dal 36% dei rispondenti (erano 32% nel 2018, appena 26% nel 2017). Cala il dato di chi ritiene "retorico" l'appuntamento (dal 13 al 12%). Stabile invece il numero di chi lo definisce "inutile" (8%).
Significativi anche i risultati di un'altra indagine che ha visto il coinvolgimento di SWG, "Change. L'Europa alla prova del cambiamento". presentata in marzo. a poche settimane dal voto per il Parlamento europeo. Quattro le sfide concrete per chi governa oggi l'Europa, sembrano indicare le risposte pervenute: ricucire le nuove fratture. rigenerare il sogno europeo, ricostruire il senso di comunità, ridisegnare il ruolo della UE.
È un vento teso infatti quello che attraversa l'Europa, segnato da una impennata di sentimenti negativi rispetto a quelli positivi. un contesto in cui diffusamente aumentano, conferma la ricerca, "rabbia, disgusto e paura". E in cui la chiusura difensiva del "Prima gli ..... declinato nei diversi contesti è in quasi tutti i paesi sopra al 50% con numeri ancor più alti nei cosiddetti ceti popolari. Popolo contro élite: uno scontro acceso, è stato fatto osservare, "in tutti i paesi".
(Pagine Ebraiche, ottobre 2019)
Meitner, la scienziata ebrea privata del Nobel
di Piero Casati
L'Occidente illuminista che giustamente si indigna perché la donna nella cultura dei Paesi islamici non viene equiparata agli uomini e viene tenuta in stato di inferiorità dovrebbe farsi un esame di coscienza e ricordare ciò che succedeva da noi fino a cento anni fa. Chi si ricorda dell'austriaca Lise Meitner? Nata a Vienna nel 1878, mente eccelsa e scienziata di prima grandezza, in quanto donna, e per di più di famiglia ebrea, all'inizio del secolo scorso non poteva studiare come un uomo, non poteva avere accesso ai laboratori universitari come un uomo, non otteneva i riconoscimenti dovuti anche quando, non ufficialmente, studiava e risolveva enigmi fisici riguardanti l'atomo. Sua è la spiegazione teorica della prima fissione nucleare, riuscita a Otto Hahn nel 1938. Ma non le fu riconosciuto il premio Nobel perché donna. Per di più, nel 1933, a causa delle sue origini ebraiche, le venne ritirato il permesso d'insegnamento. Poté però continuare il suo lavoro agli esperimenti di irradiazione mediante neutroni al Kaiser-Wilhelm-Institut, che non era controllato dallo Stato. Ma con l'annessione dell'Austria alla Germania nel 1938, Lise divenne cittadina tedesca e come ebrea non era più tollerata come caporeparto all'istituto di chimica. In fuga dai nazisti, si rifugiò in Svezia. Nel 1946, negli Usa fu definita «madre della bomba atomica». Morì a Cambridge nel 1968.
(il Giornale, 12 ottobre 2019)
Nella Germania hitleriana la vita di un ebreo valeva meno di una manciata di cioccolatini
Fame e miseria. violenza e tradimenti (ma anche lampi d'ironia): in dieci racconti il ritratto di un Paese stremato. Il nazismo inquina le vite anche in pace, come quella dell'uomo che scambia i temporali per bombardamenti.
di Luigi Forte
La scrittura è stata forse la vera, unica patria di Helga Schneider. Lì ha potuto proiettare se stessa e il suo terribile passato, prosciugando il male nella memoria, rivisitando l'orrore con le parole di una lingua straniera che la metteva al riparo da ogni eco di violenze. Perché Helga nata in Slesia nel 1937, fu abbandonata dalla madre a quattro anni con il fratellino Peter di diciotto mesi mentre il padre era al fronte. La donna arruolatasi come ausiliaria nelle SS divenne guardiana nel lager femminile di Ravensbrück e poi in quello di Auschwitz.
Helga nel frattempo finì in vari istituti e collegi per bambini indesiderati e trascorse gli ultimi mesi della guerra in una Berlino ormai ridotta a un cumulo di macerie. Eventi che l'hanno incalzata per tutta la vita e di cui ha offerto intensa testimonianza in libri come Il rogo di Berlino (1995) o Lasciami andare, madre (2001).
Fin dall'inizio degli anni Sessanta l'Italia è stato il paese d'adozione e l'italiano la sua lingua letteraria, simbiotico strumento ormai con cui ci offre il bel volume di racconti Per un pugno di cioccolata e altri specchi rotti (Oligo editore).
Il suo sguardo fisso in quel tempo lontano, sullo sfondo di una tragedia collettiva, scivola ora in una quotidianità intessuta di angosce e speranze. E dà vita a personaggi che si arrabattano tra fame e miseria, vittime di violenze e tradimenti, alla ricerca di qualche briciola di solidarietà. Il realismo di questa prosa, semplice e incisiva, lascia affiorare in ogni pagina la follia di un'intera epoca così come nei dettagli si nasconde il perverso risvolto di un'ideologia brutale. Tanto più convincente è la fragile distanza con cui la scrittrice accompagna i suoi personaggi, non priva di ironia, come nel caso del cane Sep che, felicemente abituato al rumore delle bombe, morirà, alla fine del conflitto, per la troppa pace, o come il signor Martin che amava i temporali e che nel dopoguerra li scambia per bombardamenti e, come impazzito, si rifugia in cantina con la sua maschera antigas.
Nessuno sfugge all'abbrutimento di una guerra fatale. Il soldato russo Pàvel violenta la giovane tedesca Gertrud e in preda alla vergogna uccide un commilitone che sta per imitarlo, per poi, disorientato e confuso, suicidarsi. Ma fra di loro c'è anche chi conosce l'umana pietà, come i soldati sovietici che aiutano il giovane ebreo Erich esausto dopo lunghi giorni passati in uno scantinato mentre la capitale brucia giorno e notte. Si è lasciato dietro il cadavere della madre morta di stenti e come in preda al delirio crede di sentirne la voce che lo esorta a uscire da quel buco verso la speranza.
Meglio fuggire e disertare come fanno il nonno e il giovanissimo nipote richiamati nell'aprile del 1945: il Rei eh non conosce soste nella sua corsa verso l'abisso. Così come ha instillato nei suoi fanatici sostenitori l'imperativo antisemita: padri che invitano le figlie a scovare e denunciare ebrei e signore borghesi che con una manciata di cioccolatini carpiscono fatali segreti a ingenue adolescenti.
Il nazismo ha inquinato le coscienze al punto che una figlia plagiata dalla Gestapo si rifiuta di riconoscere, a guerra finita, la propria madre. Versione capovolta del destino di Helga che nel racconto Una nazista per madre ricorda il vano sforzo di riaccostarsi a Berlino a quella genitrice che con orgoglio ancora conserva la divisa dell'epoca.
È in queste pagine autobiografiche, come nel ricordo straziante del fratello morto alcolizzato, che la scrittrice riscopre nella parola letteraria, senza cedimenti né pathos, il pregio di una distanza mai slegata del proprio cuore. A cui non mancano comprensione e perdono, come nel racconto L'intervista, dove la giornalista Annie sente svanire odio e sdegno di fronte al pentimento del vecchio scrittore Sommers. Attraverso gli specchi infranti del passato Helga Schneider tiene viva, oggi più che mai, una memoria che rimuove l'oblio e si nutre di speranza.
(Tuttolibri, 12 ottobre 2019)
Sefarditi, ritorno a casa cinque secoli dopo
Si è chiuso a inizio ottobre il processo di "riparazione" avviato da una legge del 2014 che ha consentito ai discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo di "riacquisire" la cittadinanza iberica sulla base di evidenti prove documentali. Le richieste certificate sono state 150 mila.
di Paola Del Vecchio
MADRID - Il colombiano Andrés Villegas spera di trascorrere «una gradevole vecchiaia» in Spagna. E per questo non gli è costato spulciare nei registri ecclesiastici e perfino negli archivi dell'Inquisizione di Cartagena, che condannava chi praticava riti ebraici, per risalire ai suoi avi. In particolare al capitano Cristobal Gomez de Castro, che nacque nel 1595 e fu perseguitato per diffondere l'ebraismo. Andrés Villegas è uno delle decine di migliaia di ebrei sefarditi che recupereranno la nazionalità spagnola persa oltre cinque secoli fa dai propri ascendenti, cacciati in massa per effetto dell'editto di conversione al cattolicesimo o di espulsione degli ebrei (Decreto di Alhambra), firmato il 31 marzo del 1492 dai Re Cattolici.
È all'origine della diaspora che pose fine a 1.500 anni di presenza degli ebrei a Sefarad, il toponimo col quale la tradizione ebraica identificava la penisola iberica, per cui i discendenti sono identificati come ebrei sefarditi. Molti si rifugiarono nell'adiacente Portogallo, in nord Africa, nei Balcani, in Turchia, ma anche in Sardegna e Sicilia, sotto il dominio spagnolo, e poi nelle Americhe. «Alcuni di loro, come avviene nei bazar di Istanbul, ancora conservano le chiavi delle case dalle quali furono cacciati», ricorda Ibrahim Lorenz, sefardita marocchino naturalizzato spagnolo.
Per riparare quella «ingiustizia storica», il governo di Madrid varò nel 2014 un disegno di legge per riconoscere la nazionalità - senza perdere quella d'origine - a tutti coloro in grado di dimostrare, con un certificato della Federazione delle comunità ebraiche in Spagna o dell'autorità rabbinica riconosciuta nel proprio Paese, la propria condizione di sefarditi per cognome, lingua, parentela e vincoli speciali con la cultura sefardita. La normativa, approvata all'unanimità dal Parlamento, puntava a «riparare un aggravio storico».
Il primo ottobre scorso, alla scadenza del termine previsto dalla normativa, sono state 149.822 le richieste pervenute al Ministero di giustizia e al Consiglio generale del notariato, delle quali oltre 72 mila nel solo ultimo mese, in gran parte provenienti dall'America Latina: circa 20 mila dal Messico, 15 mila dal Venezuela e 10 mila dalla Colombia. «I sefarditi non sono più "spagnoli senza patria"», ha celebrato Isaac Querub, presidente della Federazione di comunità ebraiche, promotrice dell'iniziativa con l'allora ministro di Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon. «La Spagna ha chiuso una ferita storica con un atto di giustizia perdurante nella memoria», ha rilevato.
Un rush finale per quello che è stato un percorso ad ostacoli, «relativamente difficile», secondo il quotidiano israeliano "Haaretz". Con la proroga di un anno della dead line, sono stati infatti semplificati alcuni dei requisiti richiesti. Non solo per la difficoltà delle comunità ebraiche di evadere le numerosissime petizioni, ma anche per la necessità di sostenere esami all'Istituto Cervantes, per accreditare la conoscenza di lingua e cultura spagnola. Più di tutto, l'esigenza di doversi recare in Spagna per registrare in atto notarile l'origine sefardita ha rappresentato un ostacolo per i circa 2 milioni di sefarditi stimati inizialmente da Madrid come eredi degli almeno 200 mila deportati e dispersi nel XV secolo.
«Nello spirito della legge c'è una sorta di risarcimento storico, per compensare la sofferenza che i sefarditi hanno manifestato nei secoli nella propria letteratura, poesia e canzoni», spiega Santiago Palacios, dottore di Storia Medievale all'Università Autonoma di Madrid. «Ma - afferma - è puramente simbolico. Colpisce che non sia stato avviato lo stesso processo con i moreschi, che soffrirono le stesse persecuzioni, per la comunità musulmana oggi radicata in prevalenza nel Magreb».
Per alcuni, come Doreen Alhadeff, statunitense di 69 anni di Seattle, che ha ottenuto la nazionalità per sé e le due nipoti, è stato più facile. In casa ascoltava parlare ladino, lo spagnolo che dal Medioevo le comunità sefardite ancora conservano. «Sentivo che era stato tolto qualcosa di importante alla mia famiglia e volevo recuperarlo», ha scritto nelle sue motivazioni. Per altri, come lo scrittore francese Pierre Assouline, è stato più difficile. «Ho amici francesi che hanno ottenuto il passaporto spagnolo in maniera più rapida, è deludente», spiega l'autore, che nel suo dossier ha incluso una lettera al re Felipe VI.
La misura di «riconciliazione» consente di avere un passaporto europeo che, per molti latinoamericani, è il principale obiettivo. Da qui la corsa finale. Già nel 2007 il governo socialista di Zapatero lanciò un'iniziativa di "riparazione" nei confronti dei discendenti di spagnoli emigrati durante la Guerra civile (1936- 39) e il franchismo, naturalizzando mezzo milione di latinoamericani che riuscirono a provare la loro discendenza dagli esiliati.
(Avvenire, 12 ottobre 2019)
La linea ondivaga di Trump destabilizza il Medio Oriente
di Luciano Assin
ISRAELE - L'insensata mossa del presidente USA di abbandonare il popolo Curdo al suo destino e la tradizionale e tragica impotenza europea di affrontare le crisi internazionali senza avere una minima linea politica e militare cominciano a preoccupare anche l'opinione pubblica israeliana,
Gli israeliani non sono i soli a chiedersi quali siano le motivazioni di Trump dietro a queste mosse azzardate e illogiche. Non si tratta solo dei Curdi, gli attacchi iraniani agli impianti di raffineria sauditi sono rimasti impuniti, e tutto il mondo sunnita si chiede se il tradizionale alleato statunitense sia ancora affidabile e soprattutto intenzionato a impegnarsi in prima persona nel caso dello scoppio di un conflitto regionale più o meno esteso.
Quest'anno l'escalation iraniana nel vicino oriente ha coinciso con il ricordo della guerra del Kippur scoppiata nel 1973. In quell'occasione Israele venne sorpresa da un attacco congiunto di Egitto e Siria e si trovò sull'orlo del tracollo militare salvo poi ribaltare la situazione e concludere i combattimenti a 101 km dalla capitale egiziana e 70 km da quella siriana. Un trauma che ancora oggi caratterizza la società israeliana, sia per l'alto numero delle perdite subite, sia per l'incapacità dell'intelligence militare di interpretare nel giusto modo i vari indizi che preannunciavano l'imminenza del conflitto.
Israele sta vivendo un momento di transizione, le elezioni si sono concluse meno di un mese fa e ancora non si vede all'orizzonte la formazione di un nuovo governo, e Natanyahu cerca di gonfiare la minaccia iraniana per accrescere la sua credibilità nel gestire le crisi internazionali, forte dei suoi stretti contatti con Trump ma anche con Putin.
La possibilità di arrivare ad una crisi militare in piena regola è ancora remota. Pur non avendo ancora a disposizione un armamento nucleare gli iraniani dispongono di un ottimo deterrente: le decine di migliaia di razzi e missili a disposizione di Hezbollah, la milizia sciita libanese che domina il sud del Libano ed è fortemente rappresentata sia nel governo che nel parlamento libanese.
Fino ad oggi Ali Khamenei, la guida suprema del regime degli Ayatollah, ha calibrato gli attacchi militari verso l'Arabia Saudita in maniera tale da non obbligare né Riad né Washington a reagire in maniera spropositata. Ma una reazione così blanda non fa che aumentare il senso di sicurezza iraniano, basandosi su una sensazione di impunità che potrebbe portare Teheran a compiere dei passi troppo avventati.
E' indubbio che in questo momento l'obiettivo primario della leadership iraniana è quello di limitare il più possibile le sanzioni economiche che stanno soffocando la già precaria economia nazionale. Nel caso che il regime degli Ayatollah arrivasse alla conclusione che venga messa in pericolo la sua stessa esistenza, allora la possibilità di uno scontro militare diverrebbe inevitabile.
L'esercito israeliano segue ormai da decenni gli sviluppi militari e politici iraniani e attualmente è in grado di fronteggiare una possibile minaccia di attacchi missilistici provenienti da Teheran e dintorni. Paradossalmente sono gli iraniani a considerare Israele come un avversario imprevedibile e quindi sono molto cauti nell'impegnarsi in uno scontro diretto, almeno per il momento.
Nel Medio Oriente il tempo e la logica hanno dimensioni e criteri completamente differenti da quelli del mondo occidentale. L'Iran è il paese che, secondo la tradizione, ha inventato il gioco degli scacchi, una disciplina dove pazienza e strategia a lungo termine sono essenziali per la vittoria. Attualmente siamo ancora alle aperture.
(Alganews, 11 ottobre 2019)
Siria: Erdogan minaccia l'Ue, vi inonderemo di profughi. L'allarme dell'Onu
Trump e Putin contro Ankara. Roma e Parigi convocano l'ambasciatore turco. Assemblea straordinaria all''Onu
Con l'escalation del conflitto in Siria decine di migliaia di civili sono in fuga dalle zone di combattimento. Si legge in una nota dell'Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che chiede alle parti di rispettare il diritto internazionale umanitario. "I civili e le infrastrutture civili non devono essere un obiettivo" raccomanda l'Alto Commissario dell'Onu per i rifugiati Filippo Grandi.
"Seguo la situazione da vicino. E se non agirà secondo le regole la Turchia sarà colpita molto duramente finanziariamente e con delle sanzioni": così Donald Trump su Twitter torna a lanciare un avvertimento ad Ankara impegnata nell'offensiva contro i curdi nel nord della Siria. Trump su Twitter ipotizza poi una mediazione Usa per un'intesa tra turchi e curdi. "Si sono combattuti l'un l'altro per 200 anni - scrive il tycoon - ora abbiamo una di tre scelte: inviare migliaia di soldati e vincere militarmente, colpire la Turchia molto duramente con le sanzioni oppure mediare un accordo tra Turchia e curdi!".
Usa all'Onu, non abbiamo avallato blitz Turchia - "Come il presidente Donald Trump ha ampiamente chiarito, gli Usa non hanno in alcun modo avallato la decisione del governo turco di organizzare un'incursione militare nel nordest della Siria". Lo ha detto l'ambasciatrice americana all'Onu, Kelly Craft, al termine delle consultazioni del Consiglio di Sicurezza. Trump, ha aggiunto, ha sottolineato con Ankara che "hanno la piena responsabilità di proteggere la popolazione curda, le minoranze religiose, compresi i cristiani, e garantire che non si verifichino crisi umanitarie".
Ue all'Onu, la Turchia fermi l'offensiva - "Siamo profondamente preoccupati per l'operazione militare turca nel nordest della Siria e chiediamo ad Ankara di cessare l'azione militare unilaterale". Lo hanno detto in un comunicato congiunto i membri europei del Consiglio di Sicurezza Onu. "Le rinnovate ostilità armate comprometteranno ulteriormente la stabilità dell'intera regione, esacerberanno le sofferenze dei civili e provocheranno ulteriori spostamenti che aumenteranno ancora il numero di rifugiati e sfollati", hanno precisato.
Conte, inaccettabile ricatto Turchia su rifugiati - "L'Ue deve muoversi con una sola voce, non è accettabile questa iniziativa unilaterale, rischia di esser controproducente, di destabilizzare l'intero quadrante già compromesso. Non possiamo accettare che ci possa essere un ricatto tra l'accoglienza fornita dalla Turchia" ai rifugiati "meritevole ma con fondi europei, e l'offensiva" in Siria. Lo afferma il premier Giuseppe Conte ai microfoni del Tg3.
Almeno due civili, di cui uno è un bimbo rifugiato siriano di 9 mesi, sono rimasti uccisi nelle provincia frontaliera turca di Sanliurfa da razzi e colpi di mortaio sparati dalle zone sotto controllo curdo nel nord della Siria, in risposta all'offensiva militare lanciata ieri da Ankara. Il totale dei feriti per questi attacchi è inoltre salito ad almeno 46. Lo rende noto la prefettura locale.
Erdogan minaccia l'Unionee Europea mentre proseguono i bombardamenti dell'artiglieria e dell'aviazione turca contro obiettivi curdi nel nord-est della Siria. Il presidente turco annuncia di aver ucciso '109 terroristi' e avverte l' Ue: se ostacoleranno l'operazione militare, Ankara aprirà le porte a 3,6 milioni di rifugiati, mandandoli in Europa.
Anche la Russia è intervenuta. Secondo Mosca, l'operazione militare è il risultato delle azioni degli Stati Uniti in quell'area. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, citato da Interfax, sottolineando che la Russia promuoverà il dialogo "tra Damasco e Ankara".
È salito a "174 terroristi neutralizzati" (cioè uccisi, feriti o catturati) il bilancio dell'operazione militare lanciata dalla Turchia contro le milizie curde nel nord-est della Siria. Lo riferisce la Difesa di Ankara, aggiornando le cifre fornite stamani dal presidente Recep Tayyip Erdogan, che aveva parlato di "109 uccisi".
Sul terreno ancora attacchi turchi nel nord-est siriano a ridosso della frontiera, ma anche sul nord dell'Iraq, per impedire al Pkk curdo di intervenire in soccorso della zona di conflitto. Conquistati i primi due villaggi. Ankara nega di aver colpito civili, i curdi l'accusano di aver bombardato una prigione in cui sono detenuti miliziani Isis, con lo scopo di favorirne la fuga. Altri raid si segnalano sull'area di Ras al Ayn, l'altro punto d'accesso dell'offensiva di Ankara, distante circa 120 km da Tal Abyad.
"Nella pianificazione ed esecuzione dell'operazione Fonte di pace vengono presi di mira solo rifugi, ripari, postazioni, armi, mezzi ed equipaggiamenti che appartengono a terroristi del Pkk/Pyd-Ypg e di Daesh (Isis)". Lo scrive in una nota il ministero della Difesa di Ankara, respingendo così le denunce delle Forze democratiche siriane a guida curda di aver colpito "civili", uccidendone almeno 8.
A meno di 24 ore dall'inizio dell'operazione militare contro le milizie curde nel nord-est della Siria, è scattata in Turchia la repressione interna contro i commenti ostili all'offensiva. La procura della capitale Ankara ha aperto stamani un'inchiesta per "propaganda terroristica" nei confronti dei co-leader del filo-curdo Hdp, terza forza nel Parlamento turco, i deputati Sezai Temelli e Pervin Buldan. Almeno altre 78 persone sono indagate per i loro post sui social media.
La Turchia ha bombardato la scorsa notte una prigione in cui sono detenuti miliziani dell'Isis "di oltre 60 Paesi" durante i suoi attacchi nel nord-est della Siria. Lo denunciano le Forze democratiche siriane (Fds) a guida curda, secondo cui si tratta di "un chiaro tentativo" di favorire la fuga dei jihadisti.
Cinque soldati turchi sono stati uccisi nelle ultime ore in scontri con le forze curdo-siriane nel nord-est della Siria. Lo affermano le forze curdo-siriane citate dalla tv panaraba al Arabiya. Le stesse forze curde affermano di essere in possesso delle salme dei militari turchi uccisi. Le informazioni non possono essere verificate in maniera indipendente sul terreno.
"Le forze militari turche hanno colpito finora 181 postazioni appartenenti alle organizzazioni terroristiche nel nordest della Siria come parte dell'Operazione Fonte di pace" scattata oggi contro i curdi. Lo annuncia il ministero della Difesa turco, citato dall'agenzia Anadolu, riferendosi alle forze curde che la Turchia giudica appunto "terroristi".
Iniziativa bipartisan al Senato per imporre sanzioni alla Turchia se non ritira il suo esercito dalla Siria nella sua operazione contro le forze curde. L'obiettivo è imporre all'amministrazione Trump di congelare i beni in Usa dei più alti dirigenti turchi, compreso il presidente Erdogan e i suoi ministri degli esteri, della difesa, delle finanze, del commercio e dell'energia. Le misure punitive colpirebbero anche le entità straniere che vendono armi ad Ankara, come pure il settore energetico turco.
Miliziani affiliati all'Isis hanno attaccato nelle ultime ore forze curdo-siriane nella zona di confine con la Turchia dove è in corso l'offensiva turca. Lo riferiscono fonti curdo-siriane vicine all'amministrazione autonoma curda del nord-est siriano. Secondo le fonti, gli scontri sono in corso a sud di Ras al Ayn. Non è possibile verificare in maniera indipendente le informazioni provenienti dalle parti coinvolte nel conflitto.
Il regime di Damasco è scosso al suo interno da una serie di 'epurazioni' senza precedenti contro influenti imprenditori e uomini d'affari vicini al potere siriano, tra cui lo zio della first lady Asma al Assad. Secondo l'autorevole portale The Syria Report, la Banca Centrale ha congelato i conti di 8 imprenditori tra cui Tarif al Akhras, zio della moglie del presidente. La notizia conferma il 'terremoto' in corso negli equilibri del potere politico ed economico nel Paese, che potrebbe avere un impatto sul presidente Assad.
(ANSA, 11 ottobre 2019)
Ultima chiamata per l'Europa. O reagisce alla prepotenza di Erdogan o è finita
Questa volta non ci sono appelli. O l'Europa dimostra di esistere o tanto vale chiudere baracca.
di Franco Londei
Questa volta davvero l'Europa non ha vie d'uscita. L'attacco turco al Kurdistan siriano, le minacce di Erdogan di "inondarci" con milioni di profughi se qualcuno si azzarda anche solo a protestare, non possono essere gestiti come se fosse una lite condominiale.
L'Europa ha il dovere di reagire in maniera unita, limpida e soprattutto decisa di fronte a tale prepotenza anche a costo che Erdogan metta in atto le sue minacce.
Non condivido nulla di quello che dice Giorgia Meloni, ma ieri quando ha chiesto per la Turchia la stessa decisione avuta con la Russia quando ha annesso la Crimea, non ho potuto fare a meno di essere d'accordo con lei.
Dirò di più. Con Erdogan serve ancora più decisione perché mentre l'annessione della Crimea da parte russa era comunque il frutto di una scelta (che si può condividere o meno) che arrivava da una consultazione popolare (non si sa quanto democratica), l'aggressione turca al Kurdistan siriano deriva dalla volontà turca di portare avanti una pulizia etnica e colpisce un popolo, quello curdo, che per anni si è sacrificato proprio per noi europei in una guerra con lo Stato Islamico che è costata loro migliaia di vite.
E questa volta va messa a tacere anche la Germania, da sempre stampella di Ankara a causa del fatto di ospitare almeno quattro milioni di turchi sul suo territorio (ma tra turchi con doppia cittadinanza e turchi con permesso provvisorio sono di più).
Il nuovo Ministro degli esteri europeo, Josep Borrell, deve uscire dagli schemi prudenti e persino accondiscendenti di chi lo ha preceduto. Per una volta l'Europa deve dimostrare di avere un minimo di politica estera comune che non sia solo quella di dare addosso a Israele con ogni pretesto.
Borrell deve dimostrare che il suo ruolo ha un senso, che non spendiamo milioni di Euro per un semplice ufficio stampa spesso sin troppo filo-islamico.
La Turchia va immediatamente isolata, sia a livello economico che diplomatico. Vanno applicate sin da subito e senza indugiare sanzioni tali da spaventare realmente il dittatore turco.
Non servono parole e comunicati stampa, non servono attributi di stima e vicinanza al popolo curdo, adesso servono i fatti, perché se anche questa volta l'Unione Europea si dimostrerà solo un fantoccio allora tanto vale chiudere baracca.
(Rights Reporters, 11 ottobre 2019)
Trump ha tradito tutti
Anche Israele ora si fa una domanda: e se dopo i curdi i prossimi fossimo noi?
di Micol Flammini
ROMA - Il tradimento all'Europa è arrivato presto, i dazi, le accuse ai paesi membri della Nato di essere free tiders. Dopotutto che tra il presidente americano e alcuni leader europei, quelli europeisti, non ci sarebbe stata una grande simpatia, si sapeva da subito, ma Trump ha portato gli Stati Uniti fuori dagli affari europei, anzi contro e questo, forse, è stato il suo primo tradimento internazionale. Quello ai curdi è stato un tradimento ancora più forte, perché il presidente americano ha abbandonato i combattenti del Rojava dopo la vittoria con lo Stato islamico.
Il brusco ordine del capo della Casa Bianca di ritirare le truppe permettendo alla Turchia di attaccare ha posto un altro dei suoi alleati di sempre, Israele, di fronte a una domanda: e se i prossimi fossimo noi? Shimon Scheffer, giornalista di Yediot Ahronot, uno dei giornali più diffusi nel paese, ha scritto che la decisione di Trump è arrivata come una pugnalata alla schiena per Israele. Non perché la sorte del paese dipenda dalla Turchia o dalla Siria, ma perché quel permesso concesso con leggerezza al presidente Recep Tayyip Erdogan è il segnale di un atteggiamento che mostra il capo della Casa Bianca in tutta la sua inaffidabilità. "La conclusione che ne traiamo - scrive Scheffer - è inequivocabile: Trump è diventato inaffidabile per Israele. Non possiamo più fidarci".
Il premier Benjamin Netanyahu ha creduto nell'Amministrazione americana, alleata da sempre dello stato ebraico, e aveva riposto grandi speranze in Trump anche nel confronto con l'Iran. La decisione di ritirarsi dal trattato sul nucleare, firmato da Barack Obama nel 2015, era parsa a Netanyahu un segnale di impegno, il fatto che gli Stati Uniti iniziassero a imporre sanzioni economiche a Teheran sembrava un'ulteriore prova di credibilità e le minacce di ritorsioni nel caso in cui l'Iran avesse fatto ricorso alla violenza parevano una garanzia. Ma nel tempo gli israeliani si sono accorti che la Casa Bianca di Donald Trump non è così affidabile. L'Amministrazione Trump non ha reagito con la forza sperata agli attacchi ripetuti dell'Iran contro le petroliere e contro i pozzi di petrolio sauditi. L'apertura di Trump a dei prossimi colloqui con l'Iran ha rafforzato l'idea che l'impegno sperato in realtà non esiste, anzi, il presidente americano vuole il contrario, andare via dal medio oriente. E dopo il ritiro delle truppe dal territorio curdo, la domande in Israele inizia a farsi martellante: e se i prossimi fossimo noi? Israele è un alleato non facile da tradire per gli Stati Uniti, ma il trumpismo internazionale ha mostrato il lato finora inedito della politica estera americana.
Israele è convinta che Teheran potrebbe colpire entro due mesi, ha detto l'analista Ofer Zalzberg al New York Times. Il paese è costantemente pronto, ma ora non sa se in caso di un attacco potrà contare sull'aiuto degli Stati Uniti e inoltre la mossa di Trump in Siria non ha soltanto mostrato agli israeliani l'inaffidabilità del presidente americano, ma l'ha mostrata anche a Teheran, che potrebbe ora anche sentirsi incoraggiata ad attaccare.
Se mancano gli Stati Uniti, scivola via anche la possibilità di far avanzare un processo di pace tra israeliani e palestinesi. Se gli Stati Uniti smettono di essere forti, Israele si sente più in pericolo.
Netanyahu aveva accolto con favore l'arrivo di Trump alla Casa Bianca, aveva visto nel ritiro dal patto iraniano, nella scelta di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato ebraico e la sua sovranità sulle alture del Golan la centralità di Israele nella politica americana. Ma la politica estera americana manca ormai di centralità e il ritiro dal nord della Siria ha fatto ammettere anche al premier israeliano che qualcosa sta cambiando e, senza commentare direttamente la decisione del presidente americano, al coro di analisti che continuano a ripetere che quel vuoto lasciato dagli Stati Uniti verrà riempito da diverse forze tutte nemiche, ha risposto che Israele ce la farà da sola, sempre. Intanto Trump non è più intoccabile in Israele e nemmeno all'interno del Likud, e quei cartelloni elettorali che mostravano Netanyahu stringere la mano al presidente americano oggi risulterebbero più dannosi che altro a livello elettorale.
Martedì, mentre la Turchia invadeva il nord della Siria, lo stato ebraico celebrava lo Yom Kippur, in cui non soltanto ricorre la giornata dell'espiazione ma si ricorda anche la guerra del 1973. In occasione delle commemorazioni nel cimitero nazionale del Monte Herzl di Gerusalemme Netanyahu ha detto: "Come nel 1973, oggi apprezziamo molto l'importante sostegno degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, ricordiamo e attuiamo sempre la regola di base che ci guida: Israele si proteggerà da solo, contro ogni minaccia".
Lo Yom Kippur ha offerto uno spunto di riflessione in più per gli analisti, Michael Oren, ex ambasciatore israeliano durante l'Amministrazione Obama, ha ricordato al New York Times che quando lo stato ebraico si rivolse agli Stati Uniti per quella guerra, il presidente Richard Nixon era indagato per lo scandalo Watergate che portò all'impeachment e i nemici di Israele lo sapevano. Ora c'è un altro presidente, un altro impeachment e lo stato ebraico teme sempre di più un'altra guerra. Se i curdi sono stati traditi, si chiedono gli israeliani, i prossimi potremmo essere noi?
(Il Foglio, 11 ottobre 2019)
Quell'ipocrisia sugli antisemiti
Ebrei difesi solo se uccisi dagli estremisti di destra
di Marco Gervasoni
«Dobbiamo proteggere la vita degli ebrei» ha dichiarato ieri il presidente tedesco Steinmeier, reagendo all' attentato fallito alla sinagoga di Balle, che ha mietuto comunque un paio di vittime. Ma per proteggerli veramente si spera che il governo tedesco sappia delle due minacce che li perseguitano. Una è certamente quella neonazista, ormai organizzata, che richiede un intervento drastico della legge. Ma ve n'è un'altra, che in Germania agisce già in modo eclatante, proveniente da gruppi islamisti radicalizzati e da numerose moschee: che accompagnano le aggressioni con inviti a cacciare gli ebrei dalla Germania e con i «morte a Israele». Siamo sicuri che l'intelligence tedesca lo sappia, come lo sanno i lettori del Giornale grazie ai numerosi interventi di Fiamma Nirenstein. Qui però è più difficile intervenire.
Se tutti, a destra come a sinistra, condannano, come giusto che sia, l'antisemitismo neonazista, quando invece esso viene da islamici radicalizzati, allora cominciano i distinguo. Si inizia a dire che la religione poi in fondo non c'entra, che non bisogna generalizzare, che si tratta di casi singoli ed isolati, che prevale il «disagio psichico». Senza esagerare, per timore di essere tacciati di «islamofobìa». E questo non solo in Germania: negli ultimi anni, dalla Francia numerosi ebrei si sono trasferiti in Israele perché vittime di persecuzioni provenienti soprattutto da francesi di etnia araba e di religione musulmana. E del resto la strage alla scuola ebraica di Tolosa, nel 2012, fu la prima di una serie di azioni del terrorismo islamista: ma pochi allora vollero dare il nome alla cosa, e descrissero l'attentatore come un lupo solitario, un malato di mente e così via. Una sottovalutazione che poi si è visto a cosa portò. E in ogni caso i fatti di Tolosa oggi sono un po' dimenticati. L'impressione insomma è che ci troviamo di fronte a una grande ipocrisia. Per cui si difendono e si piangono, giustamente, gli ebrei solo quando uccisi dagli antisemiti nazisti. Mentre allorché sono vittime di antisemiti di etnie non occidentali o spinti da motivi religiosi, oppure quando lo sono degli arabi e dei palestinesi in Israele ( e ciò avviene quasi quotidianamente), ebbene in questo caso si fa finta di nulla, come se in fondo se la fossero cercata. Qualcuno brutalmente disse che l'ebreo è buono solo quando è morto. Ma dipende anche chi lo ha assassinato.
(il Giornale, 11 ottobre 2019)
Lo scrittore ebreo: noi sotto attacco. «La furia antisemita non si fermerà»
Halter: esodo da Francia e Germania; la situazione è insostenibile
di Giovanni Serafini
PARIGI - «NO, la furia antisemita non si spegnerà. Noi ebrei lo sappiamo, lo viviamo nella nostra carne da millenni. Non serve più polizia, serve più giustizia: processi rapidi per i reati di razzismo, condanne più severe. Serve una società con meno problemi economici, meno distanze fra una classe e l'altra. E servono progetti, grandi avventure comuni: la battaglia da combattere è quella per la salvezza dell'uomo, prima ancora che per la salvezza del pianeta».
Parla Marek Halter, lo scrittore polacco naturalizzato francese conosciuto in tutto il mondo per i suoi libri che parlano della storia del popolo ebreo. L'ultimo s'intitola Dove stiamo andando, amici miei?. Sotto choc dopo l'attentato di Halle in Germania, sta organizzando una manifestazione davanti alla fontana di piazza Saint-Michel a Parigi. «Ci saranno militanti e intellettuali, rabbini e imam: i musulmani debbono far sentire la loro voce».
- Come valuta quest'ennesimo rigurgito di violenza antisemita
«Le rispondo citando la frase di un grande scrittore tedesco, Johann Wolfgang Goethe: gli ebrei sono il termometro del grado d'umanità dell'umanità. Quando in una società si colpiscono degli ebrei, vuol dire che in quella società c'è un problema. Ora, la Germania non sta bene. E la Francia sta anche peggio: non avete idea di come vivano gli ebrei in questo Paese. Minacce, insulti, aggressioni quotidiane, molotov contro i negozi kosher, sinagoghe disertate, cimiteri deturpati. Molti se ne sono già andati. E fra quelli che sono rimasti, molti hanno rinunciato a portare la kippa».
- Ma perché sempre gli ebrei, ancora oggi?
«Cito un altro grande scrittore, Albert Camus: 'I figli degli assassini non sopporteranno la vista dei figli delle vittime'. Il che significa che la Germania non potrà mai perdonare Auschwitz agli ebrei, perché le immagini orribili del passato continueranno a pesare sul presente. L'anno prossimo ricorrerà il 75esimo anniversario della fine della guerra e della liberazione dei campi di sterminio. Tutti i capi di Stato del pianeta si riuniranno ad Auschwitz. Ma basteranno le commemorazioni a scoraggiare gli assassini di oggi e di domani? Non credo proprio».
- In Francia ci sono 6 milioni di musulmani, mentre la comunità ebraica ammonta a 600mila persone. Lo Stato francese, di fronte all'ascesa dell'Islam radicale, si dice determinato a combattere I'antisemitismo, ma in realtà abbandona molti territori, le banlieue in particolare, alla supremazia della legge coranica.
«Stiamo, vivendo un'enorme crisi d'identità, una crisi morale ingigantita dalla paura e dalla mancanza di certezza. Siamo entrati in terre sconosciute e andiamo avanti rassegnati, inerti, senza progetti, senza forza. Politicamente non abbiamo più ideologie: non c'è più comunismo né socialismo, né fascismo. Le religioni non svolgono il loro ruolo: c'è una crisi in seno alla Chiesa e neanche l'Islam è unito. Non ci sono né filosofi né profeti, non c'è nessuno che abbia qualcosa da proporre. Abbiamo solo dei gerenti, persone che si limitano a gestire gli affari correnti, chi bene e chi male, senza nessuna visione della realtà futura. Che cosa succederà fra 10 o 20 anni? Nessuno lo sa. L'unica cosa di cui si parla, in modo confuso, è come salvare il pianeta. Ma chi si preoccupa di come salvare gli uomini?»
- Cosa c'entra la crisi d'identità con l'antisemitismo?
«C'entra: se c'è una crisi vuol dire che si sta male. E quando si sta male la gente va a cercarsi un capro espiatorio. Ne esiste uno sempre pronto, che funziona da più di tremila anni, fin dai tempi di Mosè: gli ebrei. I primi testi antisemiti risalgono ai tempi degli egizi».
- Che fare?
«Due cose: migliorare le condizioni di vita della gente e favorire la crescita dell'impegno civile. Non vedo altro. Ma i tempi sono neri».
(Nazione-Carlino-Giorno, 11 ottobre 2019)
Da Gerusalemme a Tel Aviv
Viaggiare da sole con la sorpresa di condividere
Gli unici missili dei quali bisogna avere paura sono quelli esplosi dai racchettoni sul lungomare di Tel Aviv. Superata l'ansia della passeggiata a ostacoli da Banana Beach a Gordon Beach, siete vaccinati per l'intera permanenza in Israele, nel nostro caso sei giorni e cinque notti tra Gerusalemme e la «Collina della primavera», come fu battezzata Tel Aviv nel 1910 da una suggestione dello scrittore e giornalista Theodor Herzl.
Una vacanza sicura, anche per una donna che viaggia da sola. Offre scenari completamente diversi a una distanza ragionevole (meno di quattro ore di volo da Milano) e senza effetti collaterali da jet lag (c'è solo un'ora di differenza). Con il valore aggiunto di farvi perdere un paio di chili, perché non c'è alternativa: dovrete camminare, tanto, sempre.
Partenza in quarta
Cominciamo dai voli. Da Milano Malpensa quelli diretti sono operati da EasyJet, Alitalia e El Al, la compagnia di bandiera israeliana. Da Roma la scelta è più ampia (Ryanair, Vueling e Blue Bird Airways). Con una compagnia low cost si può spuntare un'andata e ritorno a 300 euro, come noi da Milano, scegliendo il posto migliore per sedersi. Però attenti agli orari: se partite alle 6.30 da Malpensa dovrete prendere il pullman almeno alle 3.40. La levataccia, però, ha un premio: arriverete in tarda mattinata all'aeroporto di Tel Aviv e da lì potrete prendere la metropolitana leggera che vi porterà a Gerusalemme in 25 minuti (costa 17 shekel, circa 4 euro e mezzo): nessun taxi impiega così poco; in alternativa ci sono gli sherut, navette taxi condivise, un po' sporche, ma a loro modo divertenti (64 shekel, circa 17 euro).
Il fascino della Città Vecchia
Se avete scelto di alloggiare abbastanza vicino alla Città Vecchia, magari sul lato della Porta di Damasco, potrete visitarla subito, concedendovi di girovagare senza meta tra i corridoi affollati del mercato, fermandovi a bere una spremuta di melograno. Per mangiare, i consigli sono nel box. Ma una regola (arbitraria) può essere questa: hummus a Gerusalemme, pesce a Tel Aviv.
Il mattino dopo siete pronti per i luoghi sacri: Muro Occidentale, Santo Sepolcro, Cupola della Roccia, Monte degli Ulivi. Preparatevi a code sterminate. Una buona idea per risparmiare tempo è prendere una guida: «privata» è piuttosto costosa (nessuno chiede meno di 1.200 shekel, quasi 320 euro), ma sul sito www.itraveljerusalem. com trovate una serie di opzioni che partono da 49 dollari per visite di gruppo.
Nel nostro caso a farci da guida, gratis, è stato Wìlder Porras Ibafiez, prossimo a prendere i voti nell'Ordine dei Frati Minori, conosciuto grazie alla nostra vicina di posto in aereo, Angela Vertemara: questo per dire che se si viaggia da soli non si è mai soli!
Di sera può essere affascinante assistere allo spettacolo di luci nella Torre di Davide: su Internet è sempre tutto esaurito, ma presentandosi di persona si può trovare un biglietto.
Un'altra giornata la merita una gita fuori porta. Noi abbiamo scelto il tour di Masada, spettacolare fortezza costruita su una rocca, e Mar Morto, per l'immancabile bagno galleggiante. Il mattino dopo vi resta (almeno) un posto da visitare: il Museo dell'Olocausto Yad Vashem (è impossibile non uscire con le lacrime agli occhi).
Sul lungomare fino a Giaffa
E ora siete davvero pronti per lasciare Gerusalemme e andare a Tel Aviv. Sulla zona dell'hotel, va a gusti. Per i nostri, più a Sud si sta, meglio è. Il lungomare è perfetto (ma costoso). Dopodiché, liberi tutti: a partire da una camminata fino a Giaffa, lasciandovi incantare da chi gioca a beach volley, fa running, suona uno strumento. Per i pigri, ci sono monopattini e biciclette, o i mezzi pubblici (la App Moovit funziona bene, mentre Google Maps vi salverà ovunque).
Anche qui ha senso prenotare una visita guidata a piedi ( ce ne sono di gratuite e non) sul sito visit.tel-aviv.gov.il. Ma potete benissimo scoprire da soli le case fiorite di Neve Tzedek, i palazzotti Bauhaus di Rothschìld Boulevard, i graffiti di Nahalat Binyamin Pedestrian Mail o le bancarelle di Carmel Market.
E siamo alla fine del viaggio. In aeroporto, mettete in conto una dose supplementare di pazienza: al check-in vi faranno moltissime domande sconclusionate («Come si chiamano le sorelle di tua madre?») e magari vi chiederanno di aprire il trolley. Ma in fondo Israele val bene un controllo.
(Corriere della Sera, 11 ottobre 2019)
La terza vita dei kibbutzim
di Claudio Vercelli
Nell'immaginario collettivo i kibbutzim sono stati l'ossatura dell'insediamento ebraico nella Palestina ottomana e poi mandataria, così come - successivamente - una delle espressioni più significative dell'identità israeliana. Parte integrante della costruzione dell'yishuv, l' «insediamento» sionista, in quanto colonie collettive, distinte dai moshavim, questi ultimi villaggi agricoli cooperativistici, hanno a lungo mantenuto una logica di vita spartana, essenzialista, a tratti debitrice anche di alcuni aspetti del modello collettivismo socialcomunista.
A ricalco di ciò, l'astensione dall'uso del denaro nelle relazioni interpersonali e la proprietà comune dei mezzi di produzione, amministrati sia da un consiglio interno all'insediamento sia dalle assemblee e dai comitati di indirizzo dei movimenti politici che raccoglievano e federavano i kibbutzim, hanno affascinato non poco una parte dell'Occidente in una età, quella a cavallo tra due secoli, nella quale il pionierismo egualitarista era vissuto come un modo diverso di intendere (e spendere) la propria esistenza.
Non è un caso, infatti, se all'affermazione della centralità del lavoro nella costruzione dell'identità dell'aderente-militante («si è ciò che si fa»), si coniugavano il cooperativismo («si è ciò che si fa insieme agli altri»), la formazione permanente ( «si è ciò che si sa e quanto si impara»), l'autonomia non individualista («si è in quanto parte di una comunità»). L'educazione collettiva dei bambini e i tentativi dei «figli del sogno», ossia di costruire identità civiche che andassero al di là del solo rapporto formativo con i genitori, si sono esaurite nel corso del tempo, rivelandosi spesso un obiettivo al quale difficilmente potevano corrispondere risultati concreti. Più in generale, tra gli anni Sessanta e Ottanta, la «forma kibbutz» è declinata. Non di numero, non per la capacità di attrarre ancora persone disponibili a farne una qualche esperienza, ma come modello alternativo di organizzazione sociale. L'idea che si potesse istituire e mantenere un'economia sociale basata sul superamento della mercificazione si è dovuta confrontare con la sua materiale impraticabilità. Peraltro, non più dell'1% della popolazione israeliana vi è cresciuta, anche se il tasso di specializzazione, gli elevati standard formativi, l'abitudine ad una socializzazione intensa e alla cooperazione, hanno fatto sì che non pochi giovani kibbutznikim ascendessero poi nei ruoli di maggiore prestigio, civili e militari, della società.
Oggi i kibbutzim sono ancora presenti nel panorama culturale, economico e civile di Israele ma da tempo svolgono funzioni diverse da quelle per cui furono istituiti in origine. Poiché oltre alla forte connotazione identitaria (non solo di sinistra; il comunitarismo ha raccolto molteplici adesioni anche tra i religiosi) quelle che sono mutate in questi decenni sono anche e soprattutto le priorità generali. I più, infatti, trascurano il fatto che Israele nasce come società sia di trapiantati che di rifugiati, questi ultimi sfuggiti dalla morsa dell'annientamento fisico. Gli insediamenti comunitari erano la prima soglia in un processo di adattamento alle asperità di una società, quella ebraico-palestinese prima ed israeliana poi, dove la modestia, il rispetto, la reciprocità ma anche il percorso di nuova acculturazione, erano condizioni essenziali per sopravvivere. Come individui e come collettività. L'agricoltura era dirimente, anche se è proprio nei kibbutzim che presero vita le prime forme di industria di piccola e media dimensione, poi diffusesi anche nei quartieri ebraici delle aree urbane.
Oggi Israele è ben altro, avendo superato la sfida del suo tempo. Tuttavia, le realtà cooperativistiche hanno forse qualcosa da dire di proprio nei processi di innovazione sollecitati dalla green economy che, molto presto, diverranno dominanti nell'agenda delle priorità dei paesi a sviluppo avanzato. E non solo di questi ultimi. Il fattore umano, il capitale intellettuale, infatti, sarà sempre più importante. E dopo la stagione pioneristica, seguita da quella della difficile integrazione nell'economia di mercato, non è detto che non possano conoscere una terza esistenza, quella dell'intelligenza applicata alla rivoluzione dell'informazione e della conoscenza.
(Pagine Ebraiche, ottobre 2019)
Erdogan ordina l'attacco: l'esercito turco invade il nord della Siria. Colpite le postazioni curde
Bombardamenti al confine con la Turchia contro postazioni delle milizie curde di protezione popolare (Ypg). Forte condanna internazionale. Oggi riunione del Consiglio di sicurezza Onu. Trump: non sosteniamo operazione turca, è una cattiva idea. "Colpite 181 postazioni dei terroristi"
di Lucia Goracci
Dopo giorni di annunci e di pressing diplomatico, l'operazione turca contro la milizia curda in Siria è cominciata. Lo ha annunciato il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Esplosioni sono state segnalate nella città di Ras al-Ain, al confine con la Turchia, contro postazioni delle milizie curde di protezione popolare (Ypg), riferisce Al Jazeera. Oltre i raid aerei, l'esercito turco sta bombardando con colpi di artiglieria le postazioni curde nel Nord della Siria, al confine. Lo riferiscono i media locali.
In serata, la Turchia ha dato inizio alla fase terrestre dell'offensiva in Siria. Lo ha annunciato il ministero alla Difesa di Ankara che su twitter ha affermato di aver "colpito 181 postazioni di organizzazioni terroristiche con le forze aeree ed elementi di fuoco di supporto nell'ambito dell'operazione Primavera di pace".
Curdi: offensiva respinta
Le Forze democratiche siriane guidate dai curdi sostengono di aver respinto l'offensiva terrestre turca sul confine settentrionale della Siria, poco dopo che Ankara aveva annunciato l'inizio della fase terrestre della sua operazione contro le forze curde. "L'attacco a terra da parte delle forze turche è stato respinto dai combattenti delle Forze democratiche siriane (Fds)" nella regione di Tal Abyad, ha dichiarato il portavoce dell'Fds, Mustefa Bali, su Twitter.
Almeno 15 morti negli attacchi turchi, 8 sono civili
L'offensiva turca in Siria del nord ha provocato finora almeno 15 morti, di cui otto civili, secondo fonti locali. I feriti sono almeno 40.
Trump: è una cattiva idea
"Gli Stati Uniti non appoggiano l'attacco turco in Siria e hanno detto chiaramente alla Turchia che questa operazione è una cattiva idea": lo afferma il presidente Donald Trump in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca. Donald Trump si aspetta che la Turchia, dopo aver "invaso" la Siria, rispetti "tutti i suoi impegni", tra cui "proteggere i civili, le minoranze religiose, inclusi i cristiani, e assicurare che non ci sarà alcuna crisi umanitaria". "Inoltre la Turchia è ora responsabile nel garantire che tutti i combattenti dell'Isis catturati restino in prigione e che l'Isis non rinasca in nessun modo o forma", aggiunge. "Noi li richiameremo ai loro impegni", afferma il tycoon, e "monitoreremo strettamente la situazione". "Fin dal primo giorno in cui sono entrato nell'arena politica, ho detto chiaro che non volevo combattere queste guerre senza fine e senza senso, specialmente se non portano vantaggi agli Stati Uniti" ha aggiunto Trump in un comunicato diffuso dalla Casa Bianca dopo il ritiro delle truppe Usa e l'"invasione" della Siria da parte della Turchia. "Non c'è alcun soldato americano nell'area", ha precisato il presidente.
Telefonata Johnson-Trump: "Seria preoccupazione"
Come riferito da un portavoce di Downing Street, il primo ministro britannico Boris Johnson e il presidente degli Stati Uniti in una telefonata hanno espresso "seria preoccupazione" per l'"invasione turca" e il "rischio di catastrofe umanitaria". nella regione. Donald Trump aveva precedentemente descritto l'operazione militare turca come una "cattiva idea".
Anche il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha espresso la sua "seria preoccupazione" dopo l'offensiva "unilaterale" della Turchia. Questa operazione "può destabilizzare la regione, esacerbare la crisi umanitaria e minare i progressi compiuti nella lotta contro l'Isis", ha dichiarato il ministro degli Esteri britannico in una nota, avvertendo che il Regno "non sosterrà progetti di rimpatrio di rifugiati siriani fintanto che non saranno predisposte condizioni per un ritorno volontario e sicuro".
Attesa per riunione Onu
Una riunione d'emergenza a porte chiuse del Consiglio di sicurezza dell'Onu è stata richiesta per oggi dai membri europei dell'organismo. A chiedere la riunione sono stati il Belgio, la Francia, la Germania, la Polonia e il Regno Unito. Si terrà in tarda mattinata a New York (nel pomeriggio in Italia).
Stop Fds a lotta a Isis: priorità difesa confine da attacco turco
L'alleanza curdo-araba delle Forze democratiche della Siria (Fds) ha bloccato tutte le operazioni contro i jihadisti dell'Isis dall'avvio dell'offensiva militare turca nel nordest della Siria. Lo sostiene una fonte curda citata dall'agenzia Dpa. "Ora la priorità è proteggere il confine e il punto è far fronte alla Turchia- ha detto la fonte coperta da anonimato - Sono state mobilitate tutte le forze Fds nelle aree nei pressi del confine con la Turchia".
Artiglieria turca bombarda Tal Abyad
L'artiglieria turca ha iniziato a colpire obiettivi delle forze curde dell'Ypg a Tal Abyad, l'altro punto da cui l'esercito di Ankara intende entrare in Siria oltre a Ras al-Ayn, già bombardata dai caccia in precedenza. Lo riferisce l'agenzia statale turca Anadolu.
Già prima dell'inizio ufficiale dell'attacco, una serie di raid di artiglieria sono stati compiuti dalla Turchia nelle ultime ore contro postazioni curdo-siriane nel nord della Siria, a est e a ovest dell'Eufrate. Lo riferisce l'Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani in Siria che cita fonti locali. L'osservatorio precisa che i bombardamenti di artiglieria si sono verificati nella notte nella località di Ayn Issa, lungo il confine tra Turchia e Siria, e nella località di Minnagh, tra Aleppo e la frontiera turca.
Colpi di mortaio verso la Turchia, nessun ferito
Almeno due colpi di artiglieria pesante sono stati esplosi dalla Siria verso la Turchia, in un'area priva di abitazioni vicina Ceylanpinar, dove sono stanziati i militari turchi che partecipano all'operazione contro i curdi siriani del Pyd-Ypg.
(RaiNews, 10 ottobre 2019)
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L'Islam sta vincendo. USA e UE accondiscendenti. Solo Israele resiste
Iran e Turchia stanno dettando l'agenda in Medio Oriente senza che nessuno gli si opponga. Solo Israele rimane a difendere la civiltà occidentale
di Maurizia De Groot Vos
L'Islam sta vincendo. L'espansionismo islamico ben rappresentato da quello che stanno facendo Turchia e Iran senza che nessuno, a parte Israele, vi si opponga seriamente è li a dimostrarlo in maniera indelebile.
Persino quella che fino a ieri veniva considerata la più grande potenza del mondo, gli Stati Uniti, sembrano intimoriti e restii ad opporsi ai piani di conquista di questi due regimi islamici che si stanno letteralmente spartendo il Medio Oriente (e l'Africa).
Anzi, non è chiaro se l'atteggiamento americano sia il frutto di qualche timore o di semplice menefreghismo dettato da un freddo calcolo politico.
Ormai da anni l'Iran opera quasi indisturbato in Siria, Libano e Iraq dove proprio di recente ha spostato migliaia di uomini con il pretesto di proteggere i pellegrini sciiti.
Ieri la Turchia ha "finalmente" potuto iniziare il massacro a lungo agognato dei curdi siriani vigliaccamente abbandonati nelle mani sanguinarie di Erdogan da un politica americana a dir poco psicopatica che in un colpo solo ha messo in allarme tutti gli alleati regionali dell'America che hanno capito di non potersi fidare di Washington.
Tornano in mente tutti quelli che nell'elezione di Donald Trump avevano visto una specie di faro contro l'espansionismo islamico, in particolare quello iraniano, dopo un decennio di politica obamiana che invece aveva fatto dell'accondiscendenza verso l'Islam una linea politica.
Beh, tirate dentro le bandiere americane. Trump non è poi così diverso da Obama, anzi, è sotto la sua presidenza che l'Iran ha raggiunto il punto massimo della sua espansione in Medio Oriente arrivando addirittura ad attaccare impunemente l'Arabia Saudita. Gli iraniani si sono pure presi la soddisfazione di sbeffeggiare apertamente Trump senza che quest'ultimo abbia proferito parola.
Certo, non siamo ai livelli raggiunti con Obama che addirittura spiava le mosse israeliane contro l'Iran, ma la fiducia verso Donald Trump è decisamente calata tra i suoi alleati rispetto ai bei tempi in cui trasferiva l'ambasciata americana a Gerusalemme (che rimane ancora l'unica cosa fatta da Trump).
Tant'è, l'Iran che rappresenta l'Islam sciita e la Turchia che rappresenta quello sunnita della Fratellanza Musulmana, diverso da quello wahabita saudita, stanno imponendo al mondo la loro agenda. E né Trump né Putin, additati dai loro fan come gli unici ostacoli all'espansionismo islamico, stanno facendo nulla per impedirlo.
Possiamo dire che Trump sta sbagliando tutto senza incorrere nel reato di lesa maestà? Possiamo dire che l'autorizzazione, implicita o meno, data ad Erdogan di attaccare i curdi è solo l'ultimo di una serie di errori in politica estera che stanno consegnando il Medio Oriente ai peggiori regimi islamici? Possiamo dire che mai come ora gli Stati Uniti sono apparsi così deboli e incapaci di incidere nel delicatissimo panorama mediorientale?
Si dirà, o meglio, i sostenitori di Trump diranno che il Presidente americano in campagna elettorale aveva promesso un massiccio disimpegno americano dall'area e che in fondo sta rispettando quella promessa.
È giusto e persino legittimo. Ma non credo che all'epoca di quella promessa ci fosse una minaccia islamica così marcata. Le cose cambiano e quando succede il capo della più grande potenza mondiale non può esimersi dal cambiare le sue politiche. Essere il Presidente degli Stati Uniti comporta una certa responsabilità verso il resto del mondo.
E così l'unico che come sempre si oppone ai piani di conquista islamica resta il piccolo Stato di Israele.
Certo, gli israeliani sono di fronte ad una minaccia esistenziale e prima che difendere il mondo devono pensare a difendere se stessi. Ma non si può non notare che dall'esistenza di Israele dipende anche la preservazione della civiltà occidentale.
Gli Stati Uniti e l'Europa sono troppo accondiscendenti, la Russia ha i suoi interessi geopolitici da difendere per fare qualcosa contro l'espansionismo islamico. Israele ancora una volta è da solo di fronte a questa minaccia sin troppo sottovalutata.
Fino a ieri c'erano anche i curdi a difendere il fortino della civiltà occidentale, lo hanno già fatto sconfiggendo l'ISIS al posto nostro, ma sono stati vigliaccamente venduti sull'altare della realpolitik.
Iran e Turchia stanno sostituendo l'ISIS e non è una buona notizia. In Israele sono anni che lo dicono inascoltati. Ora il quadro è più che evidente.
Mai come ora Israele rimane l'unico baluardo di fronte all'impressionante espansionismo islamico, eppure continua ad essere attaccato da ogni dove e con qualsiasi scusa anche da coloro che dovrebbero essergli amici.
(Rights Reporters, 10 ottobre 2019)
Germania, neonazista assalta la sinagoga. "Gli ebrei sono la radice di ogni male"
Il 27enne Balliet piazza bombe davanti all'ingresso del tempio di Halle. Nella fuga spara e uccide 2 persone. Arrestato.
di Francesca Paci
Una granata, a vuoto. E poi diverse esplosioni, le raffiche del fucile automatico, un'auto imbottita di armi che scarica l'inferno tra la sinagoga di via Humboldt, il cimitero ebraico, e un doner kebab turco distante 400 metri, due cadaveri sul selciato, un 27enne tedesco di estrema destra, fermato come l'autore della tentata strage nel nome dell'odio contro gli ebrei.
È stato un mercoledì di fuoco per la cittadina di Halle, Sassonia-Anhalt, profonda Germania orientale. Era quasi ora di pranzo quando il capo della comunità ebraica Max Privorozki ha visto attraverso le telecamere un uomo vestito «alla maniera delle forze speciali», con tanto di casco e mimetica, sparare all'impazzata contro i battenti blindati del tempio, «ha lanciato anche diversi ordigni, molotov, o petardi». Poco prima aveva piazzato diverse bombe davanti all'ingresso. Dentro c'erano 80 persone raccolte in preghiera per Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, la più sacra delle festività ebraiche, di cui Egitto e Siria approfittarono per attaccare nella guerra del 1973. La porta ha retto all'assalto durato almeno 5 minuti ma la linea del fronte si è spostata sulla strada, le tombe già in passato profanate da atti antisemiti bersagliate da esplosivi, il doner kebab. E, a guerra finita, le vittime: un uomo nel fast food e una donna accanto al cimitero ebraico, più due feriti gravissimi all'ospedale.
Una delle vittime è morta all'interno del ristorante turco. Il killer aveva prima cercato di colpirlo con quella si crede fosse una granata, inesplosa, poi ha fatto fuoco.
La procura anti-terrorismo ha preso in carico il caso seguendo da subito la pista dell'estremismo nero. Il giovane fermato, Stephan Balliet, ha girato un video attraverso un telecamera montata sul casco come nell'attacco di Christchurch, in cui inveisce contro gli ebrei «causa di tutti i problemi»: vagheggiava un massacro. Il video, postato in streaming su un sito di videogame, ha ripreso le agghiaccianti sequenze dell'azione, durata 35 minuti.
Immediata è arrivata la condanna delle autorità tedesche, con il ministro degli Esteri Maas e il collega dell'Interno Seehofer tra i primi a promettere azioni urgenti contro la violenza antisemita e a denunciare l'oltraggio di una sinagoga colpita in pieno digiuno di Yom Kippur.
La situazione si va chiarificando ora dopo ora: nonostante all'inizio si fosse pensato al blitz di un commando, anche sull'onda delle notizie di un' altra sparatoria nella vicina Landsberg, si tratterebbe invece del delirio solitario di un killer neonazista.
Solitario ma non per questo meno letale. E non solo per i siti di estremisti neri che, secondo la direttrice di Site Rita Karz, hanno da subito celebrato come un «santo» l'attentatore Balliet.
La Sassonia-Anhalt non è nuova infatti al vento che soffia dalla destra tedesca più radicale. È qui che poche settimane fa i tifosi del Chemnitzer Football Club sono stati sanzionati per i cori neonazisti già in passato dedicati all'oltraggio di AnnaFrank. È qui che Alternative für Deutschland ha sfiorato il 25% alle ultime elezioni regionali ed è nella capitale del Land, Dresda, che i duri e puri di Pegida, i sedicenti paladini bianchi contro l'islamizzazione dell'Occidente, hanno la loro sede principale. È qui che, a maggio, 300 militanti in camicia bruna hanno marciato per le strade di Plauen, sede di una famosa sinagoga distrutta nel 1938 dalle SA.
(La Stampa, 10 ottobre 2019)
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Voleva una strage di ebrei in sinagoga. Germania in lutto, il giorno dello choc
Un estremista di destra assale il tempio di Halle, vicino a Lipsia: poi uccide due persone. Preso dopo la fuga.
È stata una giornata drammatica per chi crede a un'Europa di pace, speranza e convivenza
Noemi Di Segni, presidente Ucei
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La nostra solidarietà va a tutte le ebree e gli ebrei nel giorno festivo dello Yom Kippur
Angela Merkel, cancelliera tedesca
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di Paolo Valentino
HALLE - Mentre faceva fuoco a caso, per rabbia e per delusione, gridava: «Ebrei, kanaki, siete la causa di tutti i problemi». Stephan Balliet ha 27 anni. È tedesco. Ha ucciso a sangue freddo due persone, un uomo e una donna. Ne ha ferite gravemente altre due. Ma la sua voleva e poteva essere una strage di massa, uno sterminio di ebrei nel giorno più sacro del loro calendario, lo Yom Kippur. Così accurato nella pianificazione, compreso un video girato e mandato in rete da lui stesso, che la polizia per diverse ore ha pensato non fosse da solo.
L'odio antisemita colpisce nel cuore della ex Ddr, dove un cittadino su quattro vota l'estrema destra che accarezza i neonazisti, ma è l'intero Paese a doversi confrontare con i suoi fantasmi. È una città deserta e in stato d'assedio quella in cui arriviamo nel pomeriggio. Isolata per ore dal resto del Paese, con centinaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa e decine di volanti e mezzi blindati a ogni angolo di strada. Un silenzio pesante, interrotto solo dalle sirene. Sul treno che ci ha portato Lipsia, la gente era attaccata ai cellulari: «Tutto bene da voi?», «Come stai, sei al sicuro?». «È una cosa folle». Halle, 240 mila abitanti in una delle aree più depresse del Paese, fin qui celebre solo per aver dato i natali a Hans Dietrich Genscher, il ministro degli Esteri liberale che fu uno degli architetti della riunificazione. Qui alle regionali del 2016 l'AfD ha preso oltre il 24% dei voti.
Sono stati 36 minuti di puro terrore. Filmati da una microcamera posta sul casco dell'assassino. C'erano almeno 80 persone nella sinagoga del Paulusviertel ieri poco prima di mezzogiorno. Celebravano la festa. Era quello l'obiettivo di Balliet, in tuta militare da combattimento e stivali: voleva entrare e ucciderne quanti più possibile. Come a Christchurch, in Nuova Zelanda.
«Ha sparato diversi colpi e lanciato alcune molotov o granate contro il portone principale - ha raccontato Max Privorozki, il capo della comunità ebraica, che era nell'edificio - ma Dio ci ha protetti, la porta ha tenuto e non è riuscito a entrare. Tutto sarà durato una decina di minuti». Il neonazista ha provato anche a passare dal cimitero che affianca l'edificio, gettando almeno una granata per forzarne il cancello. Inutilmente.
Poi si è allontanato, continuando a sparare. È stato a quel punto che ha fatto la sua prima vittima, una donna fulminata a una trentina di metri dal luogo di culto. La folle corsa di Balliet è continuata in direzione di un piccolo negozio dove si vende il kebab: lì ha ucciso l'uomo, prima di fuggire a bordo di un'auto che è risultata zeppa di armi. Un video amatoriale lo ha mostrato sanguinante, probabilmente ferito da uno dei suoi ordigni.
La caccia all'assassino è partita poco dopo le 12. Mentre le persone venivano invitate a non uscire di casa o dagli uffici, tutte le forze di sicurezza stanziate nel Land convergevano su Halle e i suoi dintorni. La stazione ferroviaria è stata chiusa per alcune ore. Misure speciali sono scattate anche a Lipsia e Dresda, dove ieri si celebravano i 30 anni delle manifestazioni che fecero da prologo alla caduta del Muro: sono stati rafforzati i presidi delle sinagoghe, intensificati i controlli nelle stazioni, mentre ogni treno diretto ad Halle è stato bloccato nelle due città della Sassonia.
La fuga del killer è finita a Landsberg, una quindicina di chilometri da Halle. Ma prima Balliet è riuscito a colpire ancora. Con l'auto si è fermato in un cantiere. È sceso, chiedendone un'altra a degli operai che lavoravano sul posto. Poi ha visto un taxi parcheggiato. «Prendo quello», ha detto, minacciando il tassista con la pistola. «No», gli ha risposto un elettricista che si era avvicinato. Il neonazista ha fatto fuoco ferendolo gravemente. Poi è salito a bordo della nuova auto, partendo a tutta velocità A fermarlo è stato un incidente, un tamponamento con un camion sulla statale B91. È lì che finalmente la polizia lo ha arrestato. Balliet era ferito alla gola ed è stato portato in un vicino ospedale.
La matrice antisemita dell'attacco non è in dubbio, come ha riconosciuto il ministro dell'Interno, Horst Seehofer. Anche la Procura federale, che ha subito avocato a se le indagini, parla di «motivi più che sufficienti per confermare l'impronta estremista di destra».
La comunità israelita tedesca è in allarme e lancia accuse gravissime. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, si dice «profondamente scioccato dalla brutalità di un attacco che supera tutti gli episodi degli ultimi anni in Germania» e definisce «scandaloso» il fatto che «la polizia non abbia protetto la sinagoga durante la ricorrenza dello Yom Kippur».
(Corriere della Sera, 10 ottobre 2019)
Incubo nazi, così la Germania ha rimosso il suo passato
Il 77% dei tedeschi vuole dimenticare la Shoah. Intanto sono risorti suprematisti bianchi ed estremisti islamici.
La denuncia
«Nel Paese cè un pericolo di sfrenato odio antiebraico»
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Numeri da paura
Il numero di attentati solo quest'anno è salito a quota 400
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di Fiamma Nirenstein
Mentre scrivo e Kippur è appena finito, si sa, da Gerusalemme, che ci sono due persone uccise davanti a una sinagoga di Halle, nell'Est della Germania. Sono state uccise durante lo Yom Kippur, il giorno più santo per gli ebrei di tutto il mondo, in cui tutto il popolo ebraico si unisce nel digiuno e nella meditazione. Chi le ha uccise? Certo è che qualche antisemita voleva fare irruzione nella sinagoga. E mentre scriviamo lentamente affiorano i particolari. L'autore è un tedesco, bianco, 27 anni e sarebbe legato a gruppi di neonazisti.
Se la Germania dovesse scegliere al mondo una sola cosa da fare per rendere i suoi cittadini degni abitanti di questo pianeta, questa sarebbe dedicare la sua vita intera allo sradicamento dell'antisemitismo, prima di pensare al benessere o allo sviluppo. La Germania è il Paese che, col peggiore di tutti i genocidi conosciuti, ha assassinato 6 milioni di ebrei deportandoli, rendendoli schiavi, uccidendo col gas donne e bambini. E che, dopo un'iniziale promessa già negli anni '50, ribadita anche da Angela Merkel, di dedicare le proprie energie a curare le terribili ferite, ha visto una continua crescita di odio contro gli ebrei e Israele, un fiorire di attentati antisemiti che, nei primi mesi di quest'anno, è già arrivato a 400. La Germania è andata al suo oscuro, fatale appuntamento con l'antisemitismo lasciando che si nutrisse di oblio di ciò che ha fatto agli ebrei, per cui il 77 per cento dei tedeschi oggi pensa sia opportuno ormai dimenticare: così è risorta l'ideologia suprematista nazista, e una studiata e negletta organizzazione di odio contro gli ebrei da parte della vasta moltitudine di immigrati islamici che la Germania ha accolto specialmente dal 2015, proprio per dimostrare il suo spirito di generosità e fratellanza.
I rapporti speciali della Germania con Israele furono siglati dal Trattato del Lussemburgo per garantire la sicurezza dello Stato Ebraico: non si trattò di un gesto di altruismo ma del tentativo dell'élite tedesca di reintegrarsi nella famiglia delle nazioni, nonostante il suo orribile passato criminale. I giovani, però, allora furono spinti a studiare e capire la Shoah, al contrario di quello che avviene oggi. Il commissario straordinario per l'antisemitismo, Felix Klein, ha pubblicato un articolo il 3 maggio scorso che afferma che «c'è un pericolo di sfrenato odio antiebraico in Germania» e questo mentre il suo governo non ha mai schivato i voti all'Onu e all'Ue sempre contrari a Israele, ha sospeso le relazioni diplomatiche temporaneamente, come è avvenuto nel 2017, arrogandosi il diritto di giudicare la politica di sicurezza di Israele, ha preso posizioni pubbliche di condanna, ha permesso manifestazioni pubbliche di odio omicida come quella che ha visto sfilare nelle strade di Berlino (inaudito) folle di Hezbollah con grida di «morte a Israele» e di «morte agli ebrei». Klein ha affermato che «a volte l'odio per gli ebrei si basa su una visione di destra radicale e a volte di sfrenato odio musulmano» e, inoltre, «spesso si origina nell'ideologia di sinistra caratterizzata da un apparente umanesimo globale. Ogni volta però l'immagine del nemico che ne esce è la stessa: l'ebreo».
Il 50 per cento degli immigrati, secondo uno studio condotto in Bavaria, pensa che gli ebrei hanno troppa influenza nel mondo, fra i tedeschi lo pensano fra il 15 e il 25 per cento. La Germania ha lasciato che si instaurasse ovunque nelle sue città, nelle scuole, nei mezzi di comunicazione di massa, nella politica, compattandosi nelle strade e nelle istituzioni centrali e nei sobborghi degli immigrati, nutrito da differenti ideologie, un vergognoso odio antisemita che il Paese avrebbe dovuto essere il primo a individuare e a combattere: un gesto molto positivo è stato quello del Bundestag di condannare il Bds come evidente movimento antisemita. Non è bastato. Ci vuole più lavoro, più occhi aperti, più sincerità nel guardarsi intorno. Non solo in Germania. In questo momento di fine del Kippur, mentre scriviamo, tornano a casa dalle sinagoghe tutti gli ebrei, in Israele e fuori di esso. Il mondo ha il dovere di proteggerli davvero, e non solo a chiacchiere retoriche e con giuramenti che non vengono mantenuti.
(il Giornale, 10 ottobre 2019)
«Come a Roma 37 anni fa: vidi paura e morte»
La testimonianza sull'attacco del 9 ottobre 1982. Sia allora che oggi dobbiamo annientare il male prima che cresca. Parla Pacifici, ex presidente della Comunità romana: «Ucciso un bimbo, ferito mio padre».
di Alberto Giannoni
Era il 9 ottobre 1982. Sono passati 37 anni esatti dal più grave attentato antisemita della storia italiana, l'attacco che davanti alla sinagoga di Roma uccise il piccolo Stefano Gaj Taché, 2 anni. Anche quel giorno gli ebrei furono colpiti in un giorno di preghiera, in quel caso da un commando palestinese. Riccardo Pacifici, più tardi sarebbe diventato presidente della Comunità romana, quel 9 ottobre c'era.
- Pacifici, un altro attacco agli ebrei che pregano?
«Era un giorno di festa, che concludeva il ciclo di tutte le feste ebraiche, le stesse che ora festeggiamo: capodanno, Kippur, ricordo che Israele ha subito una guerra dai Paesi arabi per Kippur. Giorni di preghiera, di vulnerabilità anche. Paradossalmente sono i giorni in cui dobbiamo stare più attenti. Anche noi oggi pregavamo, io ero sereno perché fuori dalla mia sinagoga c'era una camionetta, due soldati, il servizio d'ordine, i volontari, questo deterrente. In Italia è così, anche in Germania, ma non è scontato. In Francia per esempio non hanno questa garanzia».
- Cosa ricorda di quel giorno romano di 37 anni fa?
«Il tempio era gremito di bambini, era il giorno in cui a Roma, solo a Roma, si dà loro la benedizione. Avevo 18 anni, mio padre venne ferito e restò tre mesi fra la vita e la morte, gli avevano messo un lenzuolo bianco ed era accanto al piccolo Stefano».
- Salvato per miracolo.
«Il rabbino Toaff, che non era nella sinagoga centrale, si fece la strada a piedi trafelato e andò nella camera mortuaria, dove era anche Stefano. A mio padre stavano dando l'ultima benedizione e lui prese per la giacca i medici, che erano intenti a curare decine e decine di feriti. E trovò un medico bravissimo che gli praticò una tracheotomia. La bomba gli aveva colpito la gola, un occhio, l'addome. Gli salvò la vita, ma la sua vita non fu più la stessa. E nemmeno la mia».
- Come si arrivò a quel giorno?
«Quel 9 ottobre arrivò in una fase in cui l'opinione pubblica chiedeva conto a Israele di aver difeso i propri confini - io ero stato in un kibbutz l'estate prima, ricordo i missili delle forze palestinesi, erano i famosi katiuscia - e si chiedeva conto agli ebrei di questa operazione. E Arafat, che aveva un mandato di cattura internazionale, fu ricevuto con tutti gli onori in Italia, anche dal Papa, e dal presidente Pertini».
- Spadolini non lo fece.
«L'unico che si rifiutò di farlo fu il presidente del Consiglio, in quel clima di assedio in cui tutta la sinistra chiedeva conto non solo a Israele ma agli ebrei, di queste cose. Su Repubblica e sul Messaggero comparvero appelli perché Israele si ritirasse e affinché gli ebrei si dissociassero. "Davide discolpati" si diceva. L'apice fu una manifestazione sindacale in cui una bara vuota fu deposta davanti alla sinagoga. Purtroppo sarebbe stata riempita».
- Analogie fra Roma e Hallet
«Non nella matrice, qui di stampo suprematista. L'ideologia che ha mosso l'azione va nella stessa direzione di quella nella moschea neozelandese. Ma occorre affrontare il tema, non mettere la testa sotto la sabbia. Anche col fondamentalismo islamico. Dovremmo tutti avere il coraggio di farlo. Noi ebrei siamo una cartina di tornasole. Pensiamo all'ascesa di Hitler, il mostro va annientato prima che cresca».
(il Giornale, 10 ottobre 2019)
Minacce ignorate per anni. Noi ebrei non possiamo più sentirci al sicuro.
"Da ragazzo dovevo passare un cordone di polizia per andare in sinagoga. Nella Germania di oggi abbiamo ancora bisogno di protezione".
di Yascha Mounk*
Ieri mattina la piccola comunità ebraica della città di Halle, nella Germania orientale, era riunita per il giorno più sacro dell'anno ebraico: lo Yom Kippur, il Giorno dell'Espiazione. Settanta persone seguivano la funzione. Chi ha cercato di entrare armato nella sinagoga aveva l'intenzione di ucciderne il maggior numero possibile. Grazie al cielo, i poliziotti e le guardie giurate che sorvegliavano i cancelli del tempio sono riusciti a respingerlo. Due persone sono state uccise e due gravemente ferite nell'attacco, che date le circostanze potrebbe essere catalogato come un esempio particolarmente amaro di quello che i tedeschi chiamano Glück im Unglück: una piccola grazia in mezzo all'orrore.
La polizia ha catturato l'assassino, un tedesco. Fin dalla caduta del Muro di Berlino la Germania orientale ha una scena neonazista molto attiva, e spesso violenta. Negli ultimi anni, una cellula terroristica particolarmente letale, la National sozialistischer Untergrund (Nsu) ha ucciso una serie di immigrati e una poliziotta, prima di essere sgominata. Qualche mese fa, un politico conservatore è stato assassinato da un omicida di estrema destra come ritorsione per il suo ruolo nell'aiutare i rifugiati a stabilirsi nel Paese.
Due insegnamenti sono già evidenti. Il primo è che la Germania deve agire in modo molto più deciso per contrastare i terroristi di tutte le tendenze politiche e religiose. Negli ultimi anni l'apparato giudiziario del Paese non ha saputo affrontare cellule neonaziste violente come la Nsu: per esempio, per molti anni non è stato in grado di collegare gli omicidi xenofobi commessi dai suoi membri perché dava per scontato che fossero opera di bande criminali distinte. Anche la determinazione della polizia a contrastare e punire gli attacchi islamisti è stata tutt'altro che incrollabile. Appena due giorni prima degli attacchi a Halle, per esempio, un assalitore armato di coltello ha cercato di entrare in una sinagoga storica a Berlino borbottando "Allahu akbar". La polizia lo ha catturato rapidamente, ma poche ore dopo è stato messo in libertà. Rispetto ai decenni passati, la Germania ora deve far fronte a un elevato livello di minaccia per la sua popolazione civile, e soprattutto per le minoranze etniche e religiose. Ma le forze dell'ordine hanno reagito, in gran parte, sottovalutando il problema: questo incoraggia i potenziali aggressori e intimidisce i gruppi vulnerabili.
Un secondo insegnamento è ancora più triste, perché è ancora meno facile porvi rimedio: anche se la Germania riuscisse a reprimere il terrorismo politico, gli ebrei (e altre minoranze) avranno comunque bisogno di protezione costante per decenni.
Quando ero ragazzo, in Germania, dovevo passare un cordone di polizia quelle rare volte che visitavo una sinagoga. Trovando sgradevole dover convincere un mucchio di poliziotti che ero ebreo per poter entrare, a volte rispondevo alle loro educate richieste di vedere il mio passaporto con il tipico sarcasmo degli adolescenti: «Mi dispiace, ma non c'è più una J (Jude, ebreo in tedesco ndr) stampata sopra». Oggi provo un certo imbarazzo ripensando a quelle mie risposte sgarbate. I poliziotti erano lì per proteggermi. Alcuni dei loro colleghi a Halle, oggi, hanno contribuito a salvare decine di ebrei. Ma mi fa ancora più rabbia pensare alle circostanze che rendono necessaria la loro presenza. Come può essere che dopo oltre settant'anni dall'Olocausto ogni scuola ebraica, sinagoga, centro della comunità ebraica nel Paese necessiti ancora di protezione?
Un tempo speravo che la vita degli ebrei in Germania potesse diventare più simile alla vita degli ebrei negli Stati Uniti: una componente naturale di un Paese variegato. Ma ora che sta per ricorrere il primo anniversario dell'attacco, ancora più letale, contro la sinagoga Tree of Life a Pittsburgh, il mio timore è che la vita degli ebrei negli Stati Uniti possa diventare più simile alla vita degli ebrei in Germania: doversi fare strada fra imponenti cordoni di sicurezza per praticare il proprio culto.
* Politologo tedesco, insegna a Harvard.
(la Repubblica, 10 ottobre 2019 - trad. Fabio Galimberti)
Idraulici arabi rifiutano soldi da una signora israeliana perché superstite dell'Olocausto
Quando due fratelli arabi hanno scoperto che un'anziana signora loro cliente era una sopravvissuta dell'Olocausto, hanno insistito per fornire i loro servizi gratuitamente. Simon e Salim Matari sono due idraulici arabi israeliani che erano stati chiamati per riparare una tubazione rotta nella casa di un'anziana signora di nome Rosa Meir che ha 95 anni e vive a Haifa.
"Quando siamo arrivati lì, abbiamo visto che c'era un forte getto d'acqua e abbiamo iniziato a ripararlo", ha raccontato Simon. Mentre lui riparava la perdita d'acqua, Salim stava chiacchierando con la signora, che gli raccontava un po' della sua vita, e l'idraulico ha scoperto così che è una sopravvissuta dell'Olocausto e ha una figlia. "La storia della sua vita mi ha toccato il cuore. In quel momento, ho deciso di non prendere un centesimo da lei", ha detto Salim.
Una volta effettuata la riparazione al sistema idraulico, i fratelli Matari si sono rifiutati di prendere dalla signora i soldi del conto, che sarebbe ammontato a circa 258 Euro, e sulla fattura hanno scritto l'importo "0" con un messaggio che diceva: "Superstite dell'Olocausto, che tu possa godere di buona salute fino a 120 anni, da Matari Simon e Matari Salim".
Non solo, i due idraulici hanno detto alla signora Rosa che per lei i loro servizi costano zero e che se mai avesse avuto bisogno del loro aiuto in futuro, sarebbero stati più che felici di tornare a casa sua ed effettuare gratuitamente le riparazioni.
Rosa si è messa a piangere e li ha ringraziati con tutto il cuore.
(Keblog, 10 ottobre 2019)
Truppe turche entrano in Siria nord-orientale. Iniziata l'invasione?
Le prime truppe turche hanno attraversato il confine con la Siria nord-orientale in preparazione di un'offensiva su vasta scala per respingere i militanti curdi che controllano l'area di confine. Lo hanno fatto sapere fonti della difesa turca.
Secondo quanto si apprende da un funzionario turco che ha parlato a condizione di anonimato, un piccolo gruppo di forze turche è entrato oggi in Siria attraverso due punti lungo la frontiera, vicino alle città siriane di Tal Abyad e Ras al-Ayn.
Il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, ha dichiarato alla televisione di stato TRT che «sono ancora in corso operazioni di spiegamento e preparazione dell'operazione».
Il comando delle forze curde ha ordinato la mobilitazione generale ed ha invitato ogni persona in grado di combattere a dirigersi versi i punti di confine da dove sono entrate le forze militari turche che, secondo fonti locali, sono affiancate anche da miliziani islamisti.
(Rights Reporters, 9 ottobre 2019)
Siria, Turchia: "Iniziata l'offensiva contro i curdi". Udite prime esplosioni
L'annuncio di Erdogan. Le autorità curde hanno invitato tutti, civili compresi, a difendere la regione
ISTANBUL - Iniziata l'operazione militare della Turchia in Siria. Lo ha annunciato su twitter il presidente Recep Tayyip Erdogan. Le truppe di Ankara hanno nel mirino il nord-est del paese, dove sono concentrate le milizie curde. subito dopo l'annuncio di Erdogan, al Jazeera riferisce di quattro esplosioni nella città di Ras Al-ain, al confine con la Turchia, contro postazioni delle milizie curde di protezione popolare.
Els con la Turchia
A fianco dei militari della mezza luna c'è l'esercito libero siriano (Els) con un contingente di 14 mila uomini. Secondo la stampa turca l'Els ha raggiunto la provincia di Urfa, al confine con la Siria, con tir carichi di munizioni e armi pesanti. L'esercito turco intanto sta rimuovendo i blocchi di cemento posti al confine per permettere il passaggio di carriarmati, tir e blindati, lo confermano i reporter sul posto. Sarebbero almeno 5.000 i militari turchi impegnati all'invasione.
Nei giorni scorsi Erdogan aveva annunciato che la Turchia era pronta a un'operazione militare nel nord della Siria, per eliminare il Pyd-Ypg dalla regione a est del fiume Eufrate. Ma l'operazione militare turca, secondo il governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno, rischia di indebolire la lotta all'Isis e di creare una nuova crisi umanitaria nel Paese. Le autorità di Erbil sono "molto preoccupate per la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dalla zona sicura nella Siria nordorientale e dalle notizie di una potenziale operazione militare unilaterale della Turchia".
Appello dei curdi alla mobilitazione
In Siria le autorità curde hanno richiamato i civili a una mobilitazione per difendere la regione dall'assalto turco imminente. "Annunciamo tre giorni di mobilitazione generale nella Siria settentrionale e orientale", si legge in una dichiarazione che esorta tutti i civili a "dirigersi al confine con la Turchia per adempiere al proprio dovere".
Lavrov: dialogo
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, chiede che il dialogo abbia la meglio sulle armi: "Abbiamo ripetutamente espresso la nostra posizione su quello che sta accadendo nel nord-est della Siria, inclusa la regione al confine turco-siriano. E la nostra posizione è inequivocabile e si basa sulla necessità di risolvere tutti i problemi di questa parte della Siria attraverso un dialogo tra il governo centrale di Damasco ed i rappresentanti delle comunità curde che storicamente risiedono in questo territorio". Il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, ha avuto un colloquio telefonico con il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Robert C. O'Brien. Tema della telefonata l'intervento militare turco nel Nord-Est della Siria. La presidenza turca ha reso noto che il consigliere di Erdogan ha ribadito a O'Brien che l'operazione mira a consolidare l'integrità territoriale della Siria, liberare l'area da gruppi terroristici e consentire il ritorno dei profughi siriani. Durante la telefonata si è parlato anche della visita di Erdogan a Washinton del prossimo 13 novembre, e dell'incontro con Trump.
Iran, esercitazioni al confine turco
"Le preoccupazioni della Turchia rispetto ai suoi confini meridionali sono legittime", ma dovrebbe agire con moderazione ed evitare un intervento militare in Siria, con queste parole il presidente iraniano Hassan Rohani, citato dall'Irna, ammonisce Ankara. E non a caso la forza di terra dell'esercito iraniano ha effettuato una manovra militare non annunciata nell'Iran nordoccidentale, al confine proprio con la Turchia. Iran e Turchia, insieme alla Russia, partecipano al processo di pace in Siria ad Astana, ma Teheran difende il regime siriano di Bachar al-Assad, mentre Ankara alcuni gruppi armati di opposizione (l'esercito libero siriano (Els)).
Damasco non starà a guardare
Damasco promette di rispondere all'invasione turca nel nordest della Siria, condannando le "intenzioni ostili" di Ankara. Siamo "determinati e pronti a combattere l'assalto turco usando tutti gli strumenti legittimi", ha dichiarato una fonte del ministero degli Esteri.
Lega araba: risveglio Isis
Il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abul Gheit, ha espresso "profonda preoccupazione" per la possibilità di una nuova operazione militare turca nel nordest della Siria. Una terza campagna militare turca sarebbe una "violazione palese della sovranità della Siria e una grave minaccia per l'integrità territoriale" del Paese. Inoltre "i piani della Turchia aprirebbero la porta a un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria e della sicurezza in Siria. L'incursione militare turca rischia di innescare ulteriori conflitti in Siria e di consentire al gruppo terroristico dell'Isis di rimettere insieme le sue forze nel Paese arabo colpito dal conflitto".
E a conferma dei timori arriva la rivendicazione di Daesh dell'attacco suicida a Raqqa, ex capitale del Califfato nero nel nord della Siria, ora controllata dalle forze curde siriane sostenute da Washignton, fino a due giorni fa. E non è un caso che l'attacco arrivi in un momento in cui le forze curde sono minacciate da un'offensiva della vicina Turchia, e dopo l'annuncio del ritiro Usa.
(Quotidiano.net, 9 ottobre 2019)
La scelta Usa minaccia Israele. Uno Yom Kippur di isolamento
Lo spettro di ritrovarsi l'arcinemico Iran ai confini
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Oggi è Yom Kippur, per il mondo ebraico il più importante fra i giorni sacri perché è quello in cui si ripensa a se stessi e ai propri errori e peccati, e si cerca nel digiuno completo per 48 ore la strada del pentimento e della correzione. In queste ore la preoccupazione in Israele è profonda. Da una parte ancora non si vede la soluzione di una crisi politica che ha al centro la figura di Netanyahu: il primo ministro che ha guidato il Paese per 13 anni incaricato dal presidente Rivlin potrebbe restituire il mandato già domani e in quel caso, con probabilità, si andrebbe alle terze elezioni in un anno.
Questo, mentre il Paese sente sul collo il fiato di una situazione di sicurezza precaria e difficile più del solito. Si sono aperti gli archivi della terribile guerra del Kippur: nello stresso giorno sacro del 1973 Israele fu attaccato a sorpresa dai siriani e dagli egiziani. Fu un bagno di sangue, Israele perse 3mila uomini. I tank siriani apparvero sul Golan, e Dayan (allora ministro della Difesa) scrive di aver temuto che il Paese potesse restare senza uomini e armi per difendere la vita stessa. Oggi i mezzi e la consapevolezza sono più rilevanti e sofisticati e i rapporti con gli Stati sunniti forniscono una rassicurazione, tuttavia nuove minacce obbligano Israele a concentrarsi, a interrogarsi, a cercare nuove risposte.
La decisione presa dal presidente Trump di ritirare le truppe dalla Siria e di abbandonare gli alleati curdi fa suonare tutti i campanelli d'allarme. Il ritiro suona come un permesso al presidente turco Erdogan, un nemico esplicito di Israele, di massacrare i curdi: Erdogan nelle sue riunioni con russi e iraniani, con contorno di Hezbollah, ha preso con gli alleati di Assad gli accordi per eliminare quello che ritiene il suo peggiore nemico. E profila all'Europa anche il ricatto consueto di una corona di profughi siriani al suo confine da sguinzagliare in caso di mancanza di sostegno.
I curdi sono combattenti coraggiosi, ma le forze nemiche - le stesse che congiurano per la distruzione di Israele - sono molte più delle loro. Il Paese qui è forte, la gente si è incontrata nelle sinagoghe sapendo che la protegge ai confini un esercito ispirato e determinato, ma tanti hanno i figli al fronte, e tanti hanno impresso nella memoria della propria famiglia la lunga guerra di difesa che ha portato a Israele, insieme a tante speranze, anche tanti lutti.
Gli Usa hanno anche fatto alcuni passi indietro dal Medio Oriente dopo l'attacco missilistico iraniano in Arabia saudita. Trump ha preferito non rispondere. Così l'Iran costruisce il suo disegno imperialistico che si estende nel cuore più profondo del Medio Oriente fin sul confine di Israele. Anche l'Arabia ha rallentato i suoi rapporti con Israele dato l'atteggiamento vago e incerto di Trump. I palestinesi ricordano con entusiasmo la guerra del Kippur con l'attacco dei Paesi arabi del '73. In questo Yom Kippur Israele appare così solo.
(il Giornale, 9 ottobre 2019)
Un po' di verità in più sul vergognoso tradimento americano dei curdi
Non è corretto dire che gli americani si sono ritirati dalla Siria. Hanno semplicemente spostato i loro uomini fuori dal percorso dell'invasione turca lasciando mano libera a Erdogan per la sua pulizia etnica.
di Haamid B. al-Mu'tasim
L'invasione turca del nord della Siria non è ancora formalmente iniziata ma le prese di posizioni allarmate della comunità internazionale continuano e le dichiarazioni (precisazioni) del Pentagono non fanno altro che aumentare la rabbia di chi si oppone a questo atto di prepotenza turco.
Jonathan Hoffman, portavoce del Dipartimento di Stato americano (Pentagono), ha rilasciato una dichiarazione scritta dopo che il presidente Donald Trump aveva annunciato che avrebbero ritirato i soldati americani dalla Siria settentrionale.
Hoffman precisa che gli USA non ritirano i loro militari ma che li spostano in una zona più sicura lontana da quello che sarà il territorio della invasione turca.
«Nonostante le continue dichiarazioni contrarie, il Segretario Esper e il Presidente Milley sono stati consultati negli ultimi giorni dal Presidente in merito alla situazione e agli sforzi per proteggere le forze statunitensi nel nord della Siria di fronte alle azioni militari della Turchia» scrive Hoffman nel suo comunicato.
«La posizione del Dipartimento è stata e rimane che stabilire una zona sicura nel nord della Siria sia la strada migliore per mantenere la stabilità» continua il comunicato.
«Sfortunatamente, la Turchia ha scelto di agire unilateralmente. Di conseguenza abbiamo spostato le forze statunitensi nel nord della Siria fuori dal percorso della potenziale incursione turca per garantire la loro sicurezza. Al momento non abbiamo apportato modifiche alla presenza delle nostre forze in Siria» conclude il comunicato.
Quindi non è corretto dire che gli americani si sono ritirati dalla Siria, ma è molto più corretto dire che gli americani si sono semplicemente fatti da parte per lasciare campo libero ai turchi.
In questa forma il tradimento americano dei curdi appare ancora più vergognoso di quanto non apparisse in precedenza perché sottintende un implicito via libera americano alle operazioni militari turche nel nord della Siria.
Il Presidente Trump ha negato di aver dato il via libera all'invasione turca del nord della Siria, anzi, ha minacciato di «azzerare l'economia turca» nel caso Ankara fosse andata oltre i limiti (quali limiti?). Tuttavia non ha convinto nessuno e la sensazione che gli USA se ne siano bellamente lavati le mani rimane fortissima.
Miliziani islamisti in prima linea
Secondo diverse fonti il dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, sarebbe intenzionato a usare i miliziani islamisti per l'invasione del nord della Siria così come fece per l'invasione di Afrin.
Sarà quindi la famigerata divisione al-Hamza, una delle maggiori milizie islamiche al soldo di Erdogan comandata da Sayf Abubakr, a portare avanti l'invasione del Kurdistan siriano mentre l'esercito turco rimarrà a fare da appoggio.
Non è una buona notizia. La divisione al-Hamza si è macchiata di gravissimi crimini nella regione di Afrin ed è composta da ex elementi di Al Qaeda e ISIS. Gli americani non possono non saperlo, il che rende ancor più grave il loro "riposizionamento".
Cosa vuole fare veramente la Turchia?
Ufficialmente Ankara vuole creare una "zona sicura" nel nord della Siria dove poter trasferire milioni di rifugiati siriani attualmente ospitati in Turchia. Ufficiosamente Erdogan intende fare una pulizia etnica della regione espellendo la popolazione curda e, soprattutto, intende distruggere le milizie curde del SDF che lui considera vicine al PKK e quindi terroristi.
La verità vera è che Erdogan intende prendere il posto di ISIS in quell'area e non lo può fare fino a quando le milizie curde saranno nella regione.
(Rights Reporters, 9 ottobre 2019)
L'amara lezione del tradimento nel nord della Siria
Dopo che Trump ha abbandonato i curdi, Israele sa che non può davvero fare affidamento su nessuno per la propria difesa.
Non ci si faccia ingannare dalla mancanza di una risposta israeliana ufficiale al drammatico ribaltamento politico rappresentato dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di rimuovere le truppe statunitensi dalla Siria settentrionale: in realtà, Gerusalemme è profondamente preoccupata per questo passo.
Non tanto perché avrà un impatto improvviso sulla capacità di Israele di intervenire in Siria quando deve fermare i tentativi iraniani di trincerarvisi militarmente, anche se la mossa americana potrà effettivamente rendere tali interventi marginalmente più difficili. Ma perché viene confermata l'idea che davvero Israele può fare affidamento unicamente su se stesso.
La decisione di Trump, che ribalta il ribaltamento dell'anno scorso dell'annuncio del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, non può essere vista come una scelta isolata. Deve anche essere vista nel contesto degli attacchi sostenuti dall'Iran il mese scorso contro le strutture petrolifere saudite e l'assordante mancanza di reazione da parte americana. Entrambi questi incidenti dimostrano che l'attuale amministrazione è ben poco diversa dalla precedente amministrazione Obama nella sua riluttanza a prender partito e affrontare, ove necessario, le forze negative in Medio Oriente. E questo è un dato che riveste un enorme significato per Israele....
(israele.net, 9 ottobre 2019)
Petrolio dall'Iraq: il piano palestinese per l'indipendenza energetica
di Laura Cianciarelli
I palestinesi stanno valutando la possibilità di importare petrolio dall'Iraq, attraverso la Giordania, per rendersi maggiormente indipendenti da Israele sul piano energetico.
Già da qualche mese, l'Autorità nazionale palestinese (Anp) è impegnata in un progetto di riduzione della dipendenza economica dallo Stato ebraico all'interno dei propri territori. Un percorso disseminato da numerosi ostacoli, che ora potrebbero lentamente dipanarsi.
Al momento, le relazioni economiche tra Israele e Palestina sono regolate dal cosiddetto Protocollo di Parigi del 1994; secondo il documento, le tasse e i dazi sui beni importati che raggiungono la Cisgiordania e la Striscia di Gaza attraverso i porti israeliani - e perciò riscossi in prima battuta da Israele - sono mensilmente trasferiti all'Anp.
Dal febbraio scorso, tuttavia, il governo israeliano ha deciso di trattenere ogni mese una percentuale sulle entrate fiscali destinate all'Anp - pari a circa 138 milioni di dollari annui -. Per Israele, una misura necessaria a impedire il finanziamento del terrorismo, dal momento che l'Anp destinerebbe questo denaro alle famiglie dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per reati legati alla sicurezza.
Immediata la reazione del presidente dell'Anp, Mahmoud Abbas, che ha rifiutato in toto il trasferimento di denaro da Israele, ingaggiando subito una battaglia per rendere quanto più possibile autonomi i territori palestinesi dallo Stato ebraico.
Concretamente, l'Autorità nazionale si impegna a promuovere il consumo di prodotti palestinesi, ridurre il ricorso a strutture ospedaliere israeliane, rafforzare la cooperazione economica con i Paesi arabi e incrementare la produzione autoctona di energia, soprattutto solare e biomassa.
Il petrolio iracheno
In questo quadro, l'importazione di prodotti petroliferi da altri Paesi arabi costituirebbe un tassello decisivo per l'indipendenza energetica dei territori palestinesi. Resta ora da capire tuttavia come adeguare questo processo agli standard previsti dal Protocollo di Parigi.
Nel piano di Abbas, il petrolio - proveniente dall'Iraq - verrebbe trasformato in carburante nella raffineria giordana di Zarqa e, da qui, inviato nei territori palestinesi. Un passo in questa direzione era già stato fatto il 7 giugno, quando Giordania e Palestina avevano siglato un accordo sull'energia che permetteva alla Palestina di raffinare il petrolio importato dall'Iraq in Giordania.
Successivamente, nel luglio scorso, la Petroleum Commission palestinese aveva avanzato una richiesta ufficiale a Israele, chiedendo l'autorizzazione per l'importazione di petrolio dalla Giordania, senza tuttavia specificare il Paese da cui sarebbe giunto il greggio.
Ad oggi, nella raffineria giordana di Zarqa sarebbero in corso controlli per verificare che l'impianto risponda agli standard internazionali, stabiliti dal Protocollo di Parigi e utilizzati anche da Israele.
Verso l'indipendenza economica?
Di per sé, il Protocollo di Parigi consente già ai palestinesi di diversificare le fonti di importazione dei prodotti petroliferi, a patto però che questi non vengano rivenduti a un prezzo inferiore rispetto a quello a cui viene venduto in Israele. Prevede, inoltre, per i palestinesi, di poter "utilizzare tutti i punti di accesso e uscita in Israele", senza l'eventualità di rifiuto da parte dello Stato ebraico.
Infine, secondo il Protocollo, è consentito importare i prodotti petroliferi provenienti dalla Giordania, a patto che i loro standard raggiungano "la media degli standard dei Paesi europei o degli Stati Uniti".
Il progetto di Abbas poggia su queste clausole. Se realizzato, produrrebbe un doppio vantaggio per il popolo palestinese: lo renderebbe in grado di aggirare il sistema israeliano di trasferimento delle tasse e gli consentirebbe di acquistare i prodotti petroliferi direttamente da Amman, al netto di tasse da parte di Israele.
Ma non bisogna farsi illusioni. Secondo Osama Nofal - direttore generale del Planning and Policy Department presso il Ministero dell'Economia di Gaza - il piano potrebbe rivelarsi estremamente difficile da realizzare
Pur consentendo all'Anp di importare i prodotti petroliferi da Paesi terzi, infatti, il Protocollo di Parigi stabilisce altresì una serie di regole stringenti, quali la tipologia di carburante, il prezzo di vendita e i punti di accesso ai territori palestinesi.
Non solo: secondo Nofal, "dalla firma del Protocollo in avanti, Israele non ha permesso l'entrata di nessun carburante proveniente dalla Giordania" e si è opposto al commercio del carburante nei territori che si trovano sotto la sua giurisdizione.
Infine, considerata la situazione attuale, gli standard giordani non raggiungerebbero quelli europei o americani, dal momento che - secondo Haidar Zaban, ex capo della Jordan Standards and Metrology Organization - "il carburante prodotto contiene 350 mg/kg di zolfo, mentre quello europeo non ne contiene affatto".
(Inside Over, 9 ottobre 2019)
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Ebrei migliori quando la religione è popolo
Il rapporto tra ebraismo e identità collettiva in Israele è un fattore ineliminabile del conflitto politico. Ashkenaziti, mizrachim e nazional-religiosi lottano tra loro e contro i laici per affermare la propria verità. Impossibile separare la confessione dallo Stato.
di Eliezer Ben-Rafael
1. Il principio dell'unità tra religione e popolo è sempre stato un codice primario dell'ebraismo e l'affinità del sionismo ai valori tradizionali ebraici ampiamente documentata. Il giudaismo tradizionale, che attinge direttamente dalla Bibbia e dal Talmud, presenta una particolare enfasi sulla fede e sul suo legame con il popolo ebraico, visto come più importante elemento della sua unicità collettiva. Secondo un famoso detto attribuito a Sa'adiah Ga'on, «gli ebrei sono un popolo solo grazie alla loro Torah». Tra i comandamenti religiosi, inoltre, figura la lealtà alla Terra di Israele sia come passato sia come destino del popolo, implicando che gli «altri» non ebrei siano «alieni». Tuttavia, il monoteismo e l'universalismo della fede implicano un'altra fondamentale convinzione: gli ebrei testimoniano l'insegnamento di Dio. La tensione tra il particolarismo del popolo di Dio e l'universalismo di quest'ultimo è «risolta» dall'idea che la nazione ebraica, attraverso la sua redenzione, redimerà anche il resto del mondo. Questo è il significato del concetto di «popolo prescelto», incaricato di redimere l'umanità osservando gli obblighi divini al suo interno.
Questo modello di collettività è ben descritto dalla nozione di casta, destinata però a perdere molta della sua influenza con l'avvento dell'età moderna e con l'emancipazione degli ebrei. Oggi, alcuni pensatori giudei si oppongono all'idea che l'ebraicità possa ancora denotare una collettività definita principalmente dalla religione, interpretandola piuttosto come una comunità politica, culturale e sociale. Altri ritengono che l'anelito per Erets Yisra'el (la Terra d'Israele) e l'origine e il destino degli ebrei previsti dalle scritture possano essere visti come metafora della ricerca di una patria in qualunque angolo del mondo in cui essi possano vivere in pace. Diverse nuove forme di giudaismo sono scaturite da questi dibattiti.
Alla fine del XIX secolo e di fronte all'aumento dell'antisemitismo in Europa, il sionismo propose una soluzione nazionale. Dalle credenze biblicotalmudiche, esso trasse la tradizionale definizione della vita fuori dalla Terra di Israele come «esilio» e, invece di concentrare le sue speranze di redenzione sull'osservanza dei comandamenti religiosi, invocò il reinsediamento degli ebrei nell'antico Israele e la «territorializzazione» dell'ebraismo in quanto collettività nazionale". Il riferimento ai valori religiosi tradizionali sotto forma di nazionalismo moderno e secolare spiega perché il sionismo offriva agli ebrei una nuova concezione di futura collettività. Senza rompere con i codici basilari del giudaismo, il sionismo forniva una risposta politica a una domanda religiosa. In virtù di questo legame, tuttavia, approvava il tradizionale precetto secondo cui «il popolo ebraico ha una sola religione e la religione ebraica ha un solo popolo». Per farne parte, ne consegue, bisogna essere figli di madre giudaica o convertirsi.
Eppure, l'aspirazione di base del sionismo alla «normalizzazione delle genti ebraiche» lo esponeva alle critiche di quanti vi intravedevano soltanto una «assimilazione collettiva» nel mondo non ebraico e un abbandono degli ideali dei profeti. I leader sionisti risposero che avrebbero costruito una «società illuminata», «una luce sopra le nazioni». Il risveglio della lingua ebraica era un elemento essenziale in questo progetto nazionale. La sfida di forgiare dall'idioma classico un vernacolo di uso quotidiano ebbe successo perché la memoria collettiva riconosceva ovunque l'ebraico come la «lingua originale», quella della Bibbia. I sionisti in Israele ne hanno fatto la lingua nazionale, un simbolo della nuova e sovrana società ebraica e lo strumento della fondazione di una nuova cultura nazionale.
Quella cultura, tuttavia, ha conosciuto profondi cambiamenti nel corso dei decenni. In virtù degli enormi sviluppi demografici, sociali ed economici, la società è stata testimone di una crescente individualizzazione, nonostante il mantenimento di alcuni simboli della cultura originaria. Il fatto più importante è che oggi gli ebrei residenti in Israele sono ormai il 40% della comunità giudaica mondiale. Al tempo stesso, la belligeranza di Israele con i suoi vicini ha avuto un forte impatto sulla società e sulla cultura israeliana. Soprattutto, la prevalenza di una «cultura combattente», con la sua insistenza sulla determinazione, la soluzione dei problemi e la sopravvivenza, contrassegna la vita civile di molti ex soldati.
Lo stato di belligeranza si correla inoltre a fondamentali aspetti identitari. Per gli arabi del Medio Oriente, Israele è una manifestazione dell'incursione territoriale dell'Occidente e la sua stessa esistenza rappresenta la continuazione di una lunga storia di esclusione. Di conseguenza - benché la dichiarazione d'indipendenza israeliana delinei una democrazia che riconosce a tutti l'uguaglianza, a prescindere da religione, origine, sesso o razza - lo stesso documento definisce Israele come Stato ebraico, patrimonio di tutti gli ebrei. Implicando così un collegamento ineludibile con il popolo e con la religione ebraica. Tuttavia, i padri fondatori non furono in grado di prevedere le difficoltà che l'ammissione di questo legame tra religione e popolo avrebbe creato per le future generazioni.
2. Dal momento che molti ebrei israeliani - come dappertutto - non sono religiosi, le definizioni di ebraismo e di ebraicità non sono affatto scontate e causano infiniti dibattiti nell'arena pubblica israeliana. La cultura secolare si deve quindi confrontare con le rivendicazioni di varie voci, ma soprattutto con quelle ultraortodosse ashkenazite, nazional-religiose e del movimento mizrachi Shas.
Gli ultraortodossi ashkenaziti cercano di avanzare interessi particolaristici, per esempio l'esenzione dal servizio militare degli studenti delle accademie religiose (yeshivot). Tuttavia, il loro obiettivo principale è il rafforzamento del diritto talmudico nell'ordine costituzionale. Invece, i nazional-religiosi - la maggior parte proveniente dalla classe media - tengono in particolar modo all'annessione e all'insediamento nei territori cisgiordani occupati dal 1967, l'antica culla dell'ebraismo biblico. Infine, gli ortodossi e ultraortodossi mizrachi aspirano a dare ufficialità alle norme e ai costumi non ashkenaziti nei rituali dello Stato.
Le tensioni tra le tendenze religiose e i laici sono alimentate dall'incapacità della cultura laica di rispondere in modo efficace alle varie rivendicazioni. Non solo per il ruolo cruciale delle forze religiose nell'arena politica (un quarto dell'elettorato), ma anche per il fatto che il sionismo deriva i suoi stessi simboli e temi dalla tradizione religiosa. Il nazionalismo ebraico è diventato una cultura dominante e difficilmente separerà la religione dallo Stato. Questo, a sua volta, rende le trattative tra le forze religiose e i leader laici una caratteristica congenita della politica israeliana.
A lungo, i mizrachim si sono tenuti distanti da queste polemiche. Tuttavia, molti hanno esitato ad accettare senza riserve il modo in cui il nazionalismo secolarizza i simboli tradizionali. In un primo momento, essi interpretavano la fondazione dello Stato di Israele come l'avveramento della promessa biblica di redenzione. Trovavano quindi difficile abbandonare, nella terra degli ebrei, pratiche mantenute in vita per secoli in paesi «stranieri» e la fedeltà che, nel loro ragionamento, li aveva condotti a questa èra di «atchalta de-geulah» («inizio della redenzione»). In un secondo momento, sotto l'impulso del movimento Shas, gruppo mizrachi ultraortodosso apparso negli anni Ottanta, hanno iniziato a battersi per migliorare lo status dell' ebraismo non ashkenazita e le condizioni di vita degli strati più poveri della società, in cui i mizrachim erano molto numerosi.
Altri gruppi, provenienti soprattutto dall'Europa orientale od occidentale e che avevano perso quasi del tutto i contatti con la cultura ebraica, ambivano a diventare ebrei d'Israele senza rinunciare al controllo sulle risorse culturali. In alcuni casi, queste aspirazioni hanno creato nuove configurazioni sociali. I russi, in particolare, mettono in discussione il rapporto tra il desiderio di diventare veri israeliani e quello di mantenere l'eredità della lingua e della cultura russa. Si oppongono a un ruolo troppo pronunciato della religione nella vita pubblica e intendono facilitare le procedure per la conversione di individui che, secondo le regole talmudiche, non sono ebrei.
Specularmente, molti nazional-religiosi tendono ad avvicinarsi al mondo ultraortodosso per legittimare le loro radicali rivendicazioni territoriali. In modo simile, non pochi adepti del movimento Shas si sentono molto vicini agli ultraortodossi per la loro devozione ai comandamenti e alcuni leader della ultraortodossia ashkenazita favoriscono un riavvicinamento ai loro «fratelli» mizrachim. Va però notato che il sionismo e la tendenza degli ultraortodossi a evitare gli obblighi nei confronti dello Stato porta i nazional-religiosi ad avvicinarsi anche ai non religiosi. Dal canto loro, i mizrachim che raggiungono la classe media ( ora la maggioranza) tendono a secolarizzarsi e a integrarsi negli strati non religiosi.
3. Nazionalismo e religione sono spesso alleati naturali e l'inestricabile nesso tra religione e popolo/nazione nell'ebraismo supporta questa tesi. Questo legame, espresso nel «sacro nazionalismo» e riconducibile al Vecchio Testamento, ha informato il sionismo, nonostante molti suoi esponenti non fossero religiosi. La rivoluzione innescata da questo movimento nell'ebraismo, lungi dal rappresentare un allontanamento da esso, ha di fatto reinterpretato alcune prospettive tradizionali alla luce di idee nuove. Osservando in quest'ottica il groviglio delle fratture politiche israeliane, la consapevolezza delle identità collettive e l'identificazione si combinano in modo tale da accordare alla religione, alla religiosità e alle tradizioni religiose un ruolo importante nel differenziare i gruppi ebraici. La fedeltà della cultura israeliana mainstream ai simboli religiosi ha dovuto fare i conti con il massiccio sostegno della religiosità da parte di certi attori armati di proprie interpretazioni delle sacre scritture e delle tradizioni: gli ultraortodossi e i nazional-religiosi e in un certo senso anche i mizrachim. E sulla base di queste interpretazioni che questi gruppi articolano, ognuno secondo i propri canoni, le loro ambizioni politiche di fronte ai non religiosi.
Il gruppo ebraico più importante al di fuori di queste linee di frattura è quello dei russofoni di recente immigrazione. Essi sono forse, se non l'unico, il migliore esempio di una collettività che si identifica in termini culturali e linguistici a prescindere dalla religiosità e dalle eredità impregnate di religiosità.
La relazione tra religione e identità collettiva in Israele è un importante fattore della scena pubblica, nonché una chiave per leggere diversi conflitti in nessun modo descrivibili come temporanei. La ragione fondamentale è che la cultura e i valori mainstream non sono per nulla indipendenti dai riferimenti alla religione ebraica. Il fatto che il sionismo, anche nelle sue formulazioni più secolari, provenga da una cultura imbevuta di inscindibili legami tra la fede e un popolo testimonia quanto sia difficile per Israele sciogliere quel nodo gordiano e separare lo Stato dalla religione.
(Da Israele e il Libro, Limes 10/2015 - trad. Federico Petroni)
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Yom Kippùr 2019 (il Giorno dell'Espiazione): 8-9 Ottobre
Yom Kippùr è il giorno più sacro dell'anno, il giorno quando siamo più vicini a D-o e all'essenza delle nostre anime. "Poiché in questo giorno Egli vi perdonerà, per purificarvi, affinché siate purificati da tutti i vostri peccati dinanzi a D-o" (Levitico 16:30).
Per circa ventisei ore da qualche minuto prima del tramonto, il 9 Tishrei (8 Ottobre) fino al crepuscolo del 10 Tishrei (9 Ottobre) "affliggiamo le nostre anime": ci asteniamo dal mangiare e bere, non ci laviamo né ungiamo il corpo, non indossiamo scarpe in pelle e non abbiamo rapporti intimi. È un giorno di preghiera e riflessione.
(it chabad.org, 8 ottobre 2019)
Trump ritira le truppe dal Nord della Siria. Parte l'offensiva di Erdogan contro i curdi
Bombardati i primi obiettivi. Il presidente Usa: "Ora Turchia e Europa responsabili di questa guerra"
di Paolo Mastrolilli
NEW YORK - La Turchia ha iniziato la sua offensiva nel Nord della Siria, dopo aver ricevuto il via libera dalla Casa Bianca. Questa decisione però ha provocato uno scontro fra Trump e alcuni dei suoi sostenitori repubblicani più determinati. Il senatore Lindsey Graham l'ha giudicata «impulsiva», ha detto che «provocherà un disastro», e ha annunciato la presentazione di una risoluzione in Congresso per bloccarla. L'artiglieria di Ankara ha iniziato in serata a bombardare obiettivi delle milizie curde ad al-Malikiyah, non lontano dalla frontiera turca.
Le regioni settentrionali della Siria sono ora occupate dai curdi dell'Ypg, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro l'Isis, fornendo in sostanza la manodopera militare agli Usa, che li hanno aiutati schierando circa 2.000 soldati con lo scopo di fornire assistenza aerea, logistica e di intelligence. Il leader di Ankara Erdogan voleva da tempo invadere la regione e creare una zona cuscinetto, in teoria per difendere il proprio Paese, ma in realtà perché accusa i curdi di essere indipendentisti votati a portare via alla Turchia un pezzo del suo territorio. Trump finora aveva resistito, frenato soprattutto dal segretario alla Difesa Mattis e dal consigliere per la Sicurezza nazionale Bolton, che erano contrari al ritiro per almeno tre motivi: primo, non tradire l'alleanza con i curdi; secondo, non facilitare il ritorno dell'Isis; terzo, continuare le operazioni per frenare il regime di Assad e contenere l' espansionismo iraniano.
Il presidente però voleva da sempre mettere fine all'intervento, e dopo le dimissioni presentate da Mattis proprio per questo motivo, e il licenziamento di Bolton, ha deciso di procedere. Domenica ha parlato al telefono con Erdogan, che gli ha promesso di occuparsi lui dell'Isis, e cercare di frenare Damasco e Teheran. Quindi la Casa Bianca ha annunciato il via libera all'operazione, con un comunicato in cui diceva che le forze armate americane non parteciperanno all'operazione e verranno spostate dall'area: «Gli Usa hanno fatto pressione su Francia, Germania e altri Paesi europei, da dove venivano molti combattenti dell'Isis catturati, affinché li riprendessero, ma loro non li volevano indietro e si sono rifiutati. Gli Usa non li terranno, per quelli che potrebbero essere molti anni con grande costo per i contribuenti. La Turchia sarà ora responsabile di tutti i combattenti dell'Isis catturati». Poco dopo Trump ha spiegato la sua posizione via Twitter, scrivendo che è ora di uscire da queste ridicole guerre senza fine. Ora Turchia, Europa, Siria, Iran, Iraq, Russia e curdi dovranno risolvere la situazione. Noi siamo distanti 7.000 miglia, e schiacceremo ancora l'Isis se dovesse venirci vicino».
La Turchia non ha perso tempo, avviando subito le operazioni. Gli stessi alleati di Trump però sono insorti, evidenziando la più ampia spaccatura tra isolazionisti e interventisti del Gop. Graham ha giudicato «impulsiva» la decisione, che porterà al «disastro», perché «gli unici a beneficiarne saranno proprio l'Isis e l'Iran», nonostante la promessa di Erdogan di tenerli a bada. Quindi ha minacciato di presentare una risoluzione al Congresso per bloccare la mossa. Sulla stessa linea il commento di Liz Cheney, mentre l'ex ambasciatrice all'Onu Haley ha detto che è «sbagliato abbandonare i nostri alleati». Mentre Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato ha sollecitato «il presidente a evitare un conflitto tra la Turchia, nostro alleato Nato, e i nostri partner locali contro il terrorismo», Poco dopo Trump ha riposto via Twitter: «Se la Turchia farà qualunque cosa che io, nella mia saggezza grande e senza pari, considero offlimits, distruggerò la sua economia. Loro devono, con l'Europa e altri, occuparsi dei prigionieri dell'Isis e le loro famiglie».
(La Stampa, 8 ottobre 2019)
"... nella mia saggezza grande e senza pari...". A questo punto è doveroso chiedersi se Donald Trump è da considerarsi un caso puramente politico. M.C.
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L'abbandono dei curdi da parte di Trump è un messaggio devastante
Il ritiro degli americani dalla Siria è un segnale devastante. «L'America non tutela gli alleati». E se c'è una cosa certa è che sono in tanti pronti ad approfittarne, a partire dagli iraniani (anche se sembra che Trump abbia cambiato idea).
di Franco Londei
«Abbandonando i curdi abbiamo inviato il segnale più pericoloso possibile». A dirlo su Twitter non è uno qualsiasi ma uno dei maggiori alleati del Presidente Trump, il senatore della Carolina del Sud Lindsey Graham.
«Il messaggio è che l'America è un alleato inaffidabile ed è solo una questione di tempo prima che Cina, Russia, Iran e Corea del Nord agiscano in modo pericoloso. Gli Stati Uniti ora non hanno alcun effetto leva e la Siria alla fine diventerà un incubo per Israele» ha poi aggiunto Graham.
«Il risultato più probabile di questa decisione impulsiva è garantire il dominio dell'Iran sulla Siria» ha aggiunto ancora il senatore Lindsey Graham.
Questo è solo il più eclatante dei tanti messaggi di disaccordo con il Presidente Trump in merito alla decisione di abbandonare i curdi siriani nelle mani assassine di Erdogan, messaggi che arrivano sia da parte democratica che da parte repubblicana.
Che il Presidente Trump fosse inaffidabile lo sapevamo già da tempo. Per citare solo gli episodi più recenti basta guardare a quello che non ha fatto quando gli iraniani gli hanno buttato giù un sofisticato drone o quando, sempre gli iraniani, hanno spudoratamente attaccato le più grandi infrastrutture petrolifere saudite. Nulla.
Se minacci una guerra devi essere pronto a fare una guerra, non puoi dare l'impressione di essere un debole, di essere uno che fugge con la coda tra le gambe di fronte alle provocazioni e alle minacce di gente come gli iraniani e gente simile dopo aver abbaiato alla luna e minacciato sfracelli.
O, peggio ancora, se hai un alleato regionale che ha contribuito a sconfiggere la più grande minaccia per l'occidente, lo Stato Islamico, non puoi abbandonarli nelle mani di coloro che ne hanno preso il posto, cioè la Turchia di Erdogan e l'Iran degli Ayatollah.
Cosa ci impedisce ora di pensare che in caso di attacco contro Israele Trump non agisca nello stesso modo? Ma soprattutto, cosa impedisce agli iraniani di pensare di poter fare quello che vogliono perché Trump ha paura (si, paura) di reagire come dovrebbe?
Il messaggio lanciato da Trump con l'abbandono dei curdi al loro destino è semplicemente devastante. Lo hanno capito tutti tranne il Presidente americano.
Gli americani hanno trovato nei curdi un alleato affidabile, un alleato pronto a dare la vita per sconfiggere lo Stato Islamico. Ne sono morti a migliaia per raggiungere quell'obiettivo. Che segnale mandi se adesso li abbandoni nelle mani assassine del satrapo islamico Erdogan?
Ora, sembra che sommerso dalle critiche (soprattutto dei suoi) il Presidente Trump ci stia ripensando. Sembra, perché non si sa mai quali allucinazioni avrà di primo mattino il Presidente americano.
"Come ho affermato con forza prima, e solo per ribadire, se la Turchia fa qualcosa che io, nella mia grande e ineguagliata saggezza, considero off limits, distruggerò e cancellerò totalmente l'Economia della Turchia (l'ho già fatto prima!).
Allucinazioni, appunto. Un ego smisurato e la tendenza a minacciare sfracelli senza poi fare assolutamente nulla.
Intanto la Turchia è pronta a invadere il Kurdistan siriano. Lo ha già fatto con la regione di Afrin senza che nessuno abbia battuto ciglia nonostante il massacro di oltre tremila curdi.
Le vuote minacce di Trump non impensieriscono Erdogan. Non lo hanno impensierito quando, da membro della NATO, ha comprato dalla Russia gli S-400.
E non possono non tornare in mente le parole del senatore repubblicano Lindsey Graham. Cosa farà Trump quando gli iraniani attaccheranno Israele? Perché se c'è una cosa certa è che lo faranno. Se ha abbandonato i curdi (e i sauditi) cosa gli impedirà di fare la stessa cosa con gli israeliani?
(Rights Reporters, 8 ottobre 2019)
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Operazione turca in Siria. Mentre Trump fa dietrofront
È partita l'operazione militare annunciata ieri dalla Turchia per conquistare la zona nord-orientale della Siria. Lo riferisce la Sana, l'agenzia governativa di Damasco, che mostra foto e video dei bombardamenti, ma la notizia non ha trovato conferma né da parte turca né dalle autorità curdo-siriane. Invece il ministero della Difesa di Ankara ha fatto sapere, questa mattina, che nove militanti curdi sono stati "neutralizzati" in raid aerei condotti da caccia turchi nel nord dell'Iraq. Bisogna precisare che le autorità turche utilizzano il termine "neutralizzare" per indicare militanti che sono stati uccisi, catturati oppure che si sono arresi.
Il dietrofront di Donald Trump
Ma proprio questa mattina Donald Trump, che ieri aveva annunciato l'avvio dell'operazione turca in Siria dopo un colloquio telefonico con Erdogan, ha invece fatto un passo indietro. "Non sosteniamo l'operazione militare turca e non ne siamo coinvolti" queste le parole rilasciate dalla Casa Bianca. Da Washington hanno poi specificato che, contrariamente a quanto trapelato ieri, non ci sarà alcun ritiro delle truppe americane, ma solo un ridispiegamento di 50-100 uomini delle forze speciali in altre zone della Siria. Infine Trump ha annunciato che, qualora la Turchia arrivi a "superare i limiti" durante questa operazione militare, colpirà l'economia turca con nuovi dazi. In seguito a questo dietrofront e alle parole del Presidente americano non si è fatta attendere la risposta turca: «Non cediamo alle minacce di nessuno» ha detto senza giri di parole il vicepresidente turco Fuat Oktay.
Il tradimento nei confronti dei curdi
L'operazione militare voluta dalla Turchia avrebbe, tra gli obiettivi, quello di andare a colpire le milizie curde. I curdi sono una minoranza etnica divisa tra Iraq, Iran, Turchia e Siria, che rivendica la propria autonomia politica e culturale. In Siria i curdi hanno combattuto al fianco di arabi e americani contro l'Isis, liberando alcune città come Raqqa e Kobane. Il punto è che la Turchia considera i curdi dei terroristi e da anni sta cercando di porre fine ala loro alleanza con gli americani.
Dal canto loro i curdi gridano al tradimento da parte degli americani. Ma le critiche verso Donald Trump arrivano anche dal fronte interno: analisti ed esponenti del Partito Repubblicano e addirittura membri del governo Trump hanno parlato di tradimento e abbandono delle forze curde. Infatti sembra che proprio da queste aspre critiche sia nata la decisione del Presidente di fare un passo indietro.
Le reazioni in Italia
A intervenire sulla questione Turchia-Siria-Usa è stato Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana-Leu che su Twitter ha scritto: "Trump autorizza la carneficina dei Curdi. L'Europa se esiste fermi l'offensiva criminale di Erdogan e l'Italia ponga subito la questione in sede Nato e Onu". A parlare dei curdi è anche il fumettista Zerocalcare che nel 2015 partì per il confine turco-siriano per poi realizzare il suo libro "Kobane Calling". «Dovremmo chiederci di chi vogliamo essere alleati: chi ha sconfitto l'Isis e sta provando a costruire un sistema di democrazia, dimostrando che anche in quel territorio ci può essere convivenza di diversi popoli, che le donne possono avere un ruolo primario nella società ed essere libere, o se il nostro alleato deve essere un regime come quello turco che incarcera decine di migliaia di oppositori politici» così si è espresso in un'intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica.
(InchiostrOnline, 8 ottobre 2019)
L'Iran avverte Ankara: No ad azione militare
TEHERAN - Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ribadito al suo omologo turco Mevlut Cavusoglu "l'opposizione" di Teheran a una "azione militare" turca in Siria. Lo riporta una nota del ministero degli Affari Esteri. Nel corso di una telefonata con Cavusoglu, avvenuta lunedì sera, Zarif ha anche chiesto "il rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità" della Siria.
(LaPresse, 8 ottobre 2019)
''Tutto Casher'': la cucina è arte
di Paola Pisa
"Tutto Casher": a Villa Massimo ieri sera duecento invitati hanno ammirato e gustato un inno alla cucina ebraico-romanesca. Con mostra ad hoc e banchetto-performance. Sonja Alhäuser è l'artista che ha realizzato gli acquerelli esposti: legame tra presente e passato, colorata e simbolica raffigurazione di cibi permessi e cibi proibiti della tradizione ebraica. Ha anche guidato lo chef nella realizzazione di magnifici carciofi alla giudia, alicette e indivia e altre specialità.
Dopo essersi espressa sul tema "carne", è stata la volta del "latteo". La curatrice è Micol Di Veroli. Il cibo diventa rituale religioso, esperienza che accresce culturalmente. «Ho scoperto che la cucina è un'opera d'arte mentre ero borsista a Roma - dice Sonja Alhäuser -. Quella ebraica è alla base di molte ricette della tradizione romana».
Ad ammirare le opere l'ambasciatore tedesco Viktor Elbling, la direttrice dell'Accademia Tedesca Julia Draganovic, il rabbino capo Riccardo Di Segni, la presidente della Comunità Ebraica romana Ruth Dureghello, Elizabeth Wolken. Peter von Becker ha raccontato la storia di Villa Massimo e del suo fondatore, Eduard Arnhold, mecenate di religione ebraica, di cui lo scrittore è discendente.
L'evento fa parte della settimana tedesca "Non Farmi Muro". La mostra dura fino al 25 ottobre.
(Il Messaggero, 8 ottobre 2019)
Spagna - Cittadinanza ai discendenti dei sefarditi espulsi nel Medioevo
Arrivate 127 mila domande e il Portogallo semplifica la legge
di Maicol Mercuriali
I cittadini spagnoli potrebbero crescere di 127mila unità in un sol botto. A tanto ammontano le domande di naturalizzazione degli ebrei sefarditi che vivono al di fuori della Spagna e che hanno richiesto la cittadinanza spagnola dopo la legge approvata nel 2015 per espiare l'espulsione di massa avvenuta in epoca medievale.
La maggior parte delle domande, ha reso noto il ministero della giustizia, proviene dall'America Latina: solo dal Messico sono pervenute 20 mila richieste e a seguire ci sono Venezuela e Colombia. La scadenza per presentare la domanda di cittadinanza spagnola scadeva il 30 settembre e il mese scorso sono stati ben 67mila le richieste presentate. Il ministero della giustizia non ha rivelato quante domande siano state finora approvate o quanti ebrei sefarditi abbiano effettivamente ricevuto la cittadinanza.
Tutto nasce dal decreto dell'Alhambra (o editto di Granada) risalente al 1492, quando i re cattolici di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona, dopo aver sconfitto i mori musulmani costrinsero gli ebrei a convertirsi o a lasciare il paese: la diaspora sefardita. Gli storici ritengono che al tempo gli ebrei in Spagna fossero circa 200 mila e dopo la loro espulsione si stabilirono principalmente nel Nord Africa, nei Balcani, in Turchia e poi in America Latina. Ad oggi i discendenti di questi ebrei sefarditi potrebbero essere circa due milioni nel mondo.
Chi vuole la cittadinanza spagnola deve dimostrare le proprio origini sefardite e non è stato sempre facile. Come ha raccontato l'Agenzia France Presse molte persone hanno sfruttato gli archivi della chiesa per rintracciare gli antenati: nei registri dell'Inquisizione, per esempio, venivano indicati coloro che erano stati puniti per praticare riti ebraici. Inoltre, per ottenere la cittadinanza si deve dimostrare, oltre alla conoscenza dello spagnolo, anche quella della Costituzione e della cultura iberica. Conoscenze certificate dal superamento di un test, che può essere affrontato anche in giudeo spagnolo, una variante dello spagnolo medievale.
Come ha sottolineato la Bbc, i richiedenti la nazionalità spagnola hanno il diritto di mantenere anche la loro nazionalità attuale, sebbene in Spagna non sia consentita la doppia cittadinanza. Prima della legge del 2015 gli ebrei sefarditi potevano diventare spagnoli a tutti gli effetti solo dopo due anni di residenza in Spagna o attraverso un provvedimento governativo speciale, tanto che in molti hanno dovuto rinunciare alla loro nazionalità di origine per diventare spagnoli. I discendenti degli ebrei espulsi, invece, grazie alla legge del 2015 possono ottenere la cittadinanza anche senza trasferirsi stabilmente in Spagna, tanto che la cerimonia di naturalizzazione potrà avvenire anche in un consolato spagnolo.
E chi non ha presentato la domanda in tempo? C'è un'altra chance per diventare cittadini europei: il Portogallo, dove è stata approvata una legge simile, ma dove non è richiesta la conoscenza della lingua e della storia portoghese. Durante l'Inquisizione spagnola molto ebrei attraversarono il confine, ma poi furono espulsi anche dal Portogallo con l'editto del re Manuele I.
(ItaliaOggi, 8 ottobre 2019)
Netanyahu lavora ad un progetto di non aggressione con i Paesi arabi
di Giordano Stabile
Benjamin Netanyahu è sempre più vicino a un processo per corruzione, deve affrontare la fronda interna al Likud e il rischio di essere tagliato fuori da un governo di salvezza nazionale guidato da Benny Gantz. Ma prima vuole arrivare a un risultato storico. Non è la pace con i palestinesi ma quella con i Paesi della penisola arabica. E' un progetto di lunga data che ha assunto contorni più precisi la scorsa primavera. Dopo il viaggio del premier in Oman e il via libera dal Sultano Qabus, il grande mediatore, è stato il ministro degli Esteri Israel Katz a condurre le danze con una serie di missioni nel Golfo, in Bahrein e negli Emirati arabi uniti. Un suo selfie nella grande moschea fatta costruire dal principe ereditario Mohammed bin Salman ad Abu Dhabi ha pubblicizzato sui social media quella che doveva essere una missione "segreta".
La rivelazione della tv
La sostanza era invece un "patto di non aggressione" che Israele ha proposto alla controparte araba e che, secondo la tv israeliana Channel 12, sta per essere concretizzato a livello ufficiale. Dovrebbe includere lo Stato ebraico, e perlomeno il Bahrein, gli Emirati, l'Arabia Saudita, e forse l'Oman. La svolta è arrivata all'Assemblea generale dell'Onu, dove Katz ha incontrato i colleghi dei Paesi del Golfo e definito i dettagli dell'intesa. L'iniziativa è il primo passo. L' obiettivo è l'apertura di relazioni diplomatiche e la fine del conflitto, ormai solo formale, fra Israele e i Paesi del Golfo. Al quel punto l'asse anti-Iran sarà completato ed emergeranno anche altri accordi, già operativi, come quello sullo scambio di informazioni fra Intelligence.
Katz si sente sicuro, tanto che da New York, il 23 settembre, ha rivelato su Twitter di aver tenuto colloqui con una «controparte araba che non ha relazioni diplomatiche con Israele», per discutere «di un accordo per contenere la minaccia iraniana» e avviare «forme di cooperazione». Secondo Channel 12, il vertice sarebbe servito a lanciare una «équipe mista» incaricata di redigere il «patto di non aggressione». Israele ha firmato finora una pace formale soltanto con Egitto, con gli accordi di Camp David, e Giordania, nel 1994.
Con l'arrivo al potere in Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, molto freddo nei confronti della causa palestinese, si è aperta una enorme opportunità. Per la prima volta i Paesi del Golfo non pongono come pre-condizione alle relazioni diplomatiche un accordo con i palestinesi. Il tempo per Netanyahu però stringe. Mercoledì è stato interrogato per 11 ore dal procuratore generale Avichai Mendelblit e secondo media israeliani il rischio di processo per almeno uno dei tre filoni di inchiesta è altissimo.
(La Stampa, 7 ottobre 2019)
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Annuncio storico di Israele: presto trattato di non aggressione con paesi del Golfo
L'annuncio del ministro degli Esteri: un passo storico verso la pace. Israele al lavoro per un trattato di non aggressione con i paesi arabi del Golfo che apra a una nuova era di pace.
Lo stato di Israele sta lavorando ad un patto di non aggressione con i paesi arabi del Golfo, con cui Tel Aviv non ha mai avuto rapporti diplomatici per via del conflitto israelo-palestinese. Un trattato storico, che aprirebbe a una nuova era di pace nella regione, di cui il ministro degli Esteri Yisrael Katz avrebbe già discusso con i suoi omologhi dei paesi arabi con Jason Greenblatt, inviato speciale degli USA per la pace in Medio Oriente, in occasione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
"Di recente, promuovo, sotto il sostegno degli Stati Uniti, un'iniziativa politica per firmare "accordi non bellici" con gli Stati del Golfo Arabo. - così si legge nel tweet di Katz - La mossa storica metterà fine al conflitto e consentirà la cooperazione civile fino alla firma degli accordi di pace. Durante la mia visita alle Nazioni Unite, ho presentato il programma ai ministri degli esteri arabi e all'inviato americano Greenblatt. Continuerò a lavorare per rafforzare lo status di Israele nella regione e nel mondo."
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Alcune agenzie israeliane hanno rimarcato come l'avvicinamento fra Israele e alcuni paesi arabi potrebbe essere dettato dal comune "interesse verso l'Iran, per normalizzare le relazioni in vista della lotta al terrorismo e della sfera economica. Occorre ricordare che i rapporti tra Arabia Saudita e Iran si erano deteriorati in seguito ai bombardamenti delle raffinerie Aramco. Tuttavia al momento la sottoscrizione dell'accordo non sarebbe possibile per via del conflitto tra Israele e Palestina.
I rapporti tra Israele e gli stati arabi
Per via del conflitto israelo-palestinese, Tel Aviv non ha mai avuto rapporti con gli altri stati della regione, che non riconoscono Israele come entità statale. Sono solo due i Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele: Giordania ed Egitto. Tuttavia negli ultimi mesi le relazioni diplomatiche di Tel Aviv con i vicini di casa sono migliorate, facendo piccoli passi in avanti verso l'instaurazione di rapporti formali.
Un anno fa, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha tenuto colloqui a sorpresa con il sultano dell'Oman a Muscat. Lo scorso luglio, Katz ha dichiarato di aver incontrato pubblicamente per la prima volta la sua controparte del Barehin, durante una visita a Washington. Alla fine di giugno, un gruppo di giornalisti israeliani ha partecipato alla conferenza economica guidata dagli Stati Uniti sulla pace israelo-palestinese in Bahrein, mentre la prima settimana di settembre, la delegazione di una comunità evangelica israeliana e statunitense, ha incontrato il principe della corona saudita Mohammed bin Salman.
(Sputnik Italia, 7 ottobre 2019)
Israele, scoperta megalopoli di 5 mila anni fa
"È la New York dell'età del Bronzo, e riscriverà la storia". Trovata scavando a nord di Tel Aviv, l'antica En Esur sarebbe il più grande insediamento mai riportato alla luce del Paese e destinato a "cambiare per sempre ciò che sappiamo delle prime urbanizzazioni in tutta l'area".
GERUSALEMME - Una città antica 5 mila anni, della prima età del Bronzo, perfettamente urbanizzata. L'antica città di En Esur, è stata portata alla luce dagli archeologi israeliani durante gli scavi per un progetto autostradale vicino a Harish, città a 50 chilometri a nord di Tel Aviv.
Secondo quanto è stato anticipato, si tratta di una "città cosmopolita e pianificata" che risale alla prima età del Bronzo (fine del quarto millennio a.C.). Copriva 65 ettari e ospitava circa seimila persone. I ricercatori dicono di aver scoperto anche un insolito tempio rituale, con ossa carbonizzate di animali, offerte sacrificali, la riproduzione di un volto, frammenti di ceramica, strumenti di selce e vasi di pietra.
È una scoperta che potrebbe cambiare tutto quello che sappiamo sul primo periodo in cui le popolazioni rurali iniziarono ad organizzarsi in contesti urbani.
"È molto più grande di qualsiasi altro sito noto nella terra di Israele e fuori, in Giordania, Libano, Siria meridionale", ha dichiarato il co-direttore dello scavo dr. Yitzhak Paz. "Questa è una città enorme, una megalopoli della prima età del Bronzo, dove migliaia di abitanti si guadagnavano da vivere con l'agricoltura e commerciavano con regioni diverse, persino con culture e regni diversi della stessa area... Questa è la prima New York del Bronzo della nostra regione, una città cosmopolita e pianificata", hanno dichiarato i direttori degli scavi Itai Elad, Paz e la dottoressa Dina Shalem, si legge sul Times Of Israel.
Gli scavi sono stati effettuati negli ultimi due anni e mezzo, finanziati da Netivei Israel - la National Transport Infrastructure Company Ltd. Hanno partecipato oltre 5 mila studenti delle scuole superiori e volontari della zona. Situata vicino a Wadi Ara, vicino a due sorgenti d'acqua, nel distretto di Haifa, nel nord di Israele, secondo Paz, la città sorgeva su un terreno fertile e adatto all'agricoltura e vicina a importanti rotte commerciali centrali. L'antico insediamento conteneva edifici e aree pubbliche e private, strade e vicoli ed era circondato da un muro di fortificazione.
"Lo scavo in questo sito ha rivelato due insediamenti principali", ha spiegato Shalem. "Il primo ha circa 7mila anni. È un insediamento agricolo molto grande. Duemila anni dopo, un altro insediamento divenne una delle prime città conosciute in questa zona del mondo".
(la Repubblica, 7 ottobre 2019)
La Turchia interverrà militarmente in Siria, col benestare di Trump
L'operazione ha ottenuto il via libera degli Stati Uniti, che ritireranno le loro truppe e abbandoneranno i combattenti curdi che negli ultimi anni erano stati il loro principale alleato nella lotta all'Isis.
Nella tarda serata di domenica 6 ottobre la portavoce della Casa Bianca Stephanie Grisham ha fatto sapere che la Turchia comincerà un'operazione militare nel nord della Siria e le truppe statunitensi che erano stazionate in prossimità della zona potrebbero riposizionarsi altrove.
Grisham non ha spiegato i motivi di questa decisione che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha preso dopo aver parlato al telefono col suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan. Si è limitata a dire che Washington non sarà coinvolta né supporterà l'intervento di Ankara. Ad agosto però Turchia e Stati Uniti avevano raggiunto un accordo per creare una sorta di zona cuscinetto al confine tra Turchia e Siria e la permanenza delle truppe americane al confine turco-siriano rappresentava un ostacolo a questo progetto.
Cosa succederà ora
La decisione di Trump avrà conseguenze molto importanti nel conflitto siriano che è cominciato otto anni fa dopo le primavere arabe (i movimenti di protesta del 2011) e si è trasformato in una guerra civile che ha visto anche il coinvolgimento dell'Isis. Gli osservatori internazionali temono che il ritiro delle truppe statunitensi aprirà un nuovo fronte tra la Turchia e le Unità di protezione popolare (Ypg), la milizia composta da curdi siriani che opera al confine ed è stata il principale alleato statunitense nella lotta allo Stato islamico. Erdogan infatti condanna fermamente le Ypg per la loro vicinanza al Pkk, il Partito dei lavoratori turco che da anni si batte per la creazione di uno stato curdo ed è stato per questo assimilato a un'organizzazione terrorista dalle forze del presidente.
In teoria la zona cuscinetto doveva evitare questo scenario: gli Stati Uniti l'avevano infatti proposta proprio per evitare nuovi scontri e ad agosto avevano convinto le Forze democratiche siriane - la coalizione che i curdi guidano - a smantellare alcune postazioni costruite in funzione anti-Ankara. Il problema è che i curdi vedono il ritiro delle truppe statunitensi come un tradimento e sentono di essere meno preparati a fronteggiare un eventuale attacco da parte della Turchia: motivo per cui potrebbero chiedere l'aiuto del dittatore siriano Bashar al-Assad (cosa di cui ci sono già stati accenni in tempi recenti). Lo stesso Erdogan ha detto a Trump nella loro telefonata che la zona cuscinetto serve a neutralizzare le minacce provenienti dalle Ypg e dal Pkk.
Diversi esponenti del Pentagono e del Dipartimento di stato americano avevano avvertito il presidente Trump di questo rischio e della possibilità che l'Isis ne approfittasse per rafforzarsi già a dicembre, quando Trump aveva detto di voler ritirare tutte le truppe dalla Siria, riuscendo a fargli cambiare idea. Questa volta, però, Trump ha deciso di fare di testa sua.
Se le truppe, composte circa da 150 uomini, si ritireranno del tutto o si sposteranno in altre zone è ancora da chiarire, così come incerto è il destino dei migliaia di combattenti dell'Isis che sono stati fatti prigionieri in questi anni e si trovano nelle carceri del nord della Siria. Finora se ne sono occupate le Forze democratiche siriane. L'intervento in Turchia potrebbe far sì che sia Ankara a occuparsi di questi detenuti, vanificando il tentativo dei curdi di istituire un Tribunale internazionale sul modello di quello di Norimberga usato per giudicare i criminali nazisti.
(Wired.it, 7 ottobre 2019)
La sicurezza di Israele è in buone mani: le sue
Che cosa può pensare l'Iran dopo l'attacco ai sauditi. I sauditi hanno appaltato la difesa all'America (che non è intervenuta dopo l'attacco iraniano). Israele no.
Scrive il Jerusalem Post (28/9)
Uno dei princìpi inviolabili di Israele, ben scandito già dal primo ministro David Ben-Gurion, è che Israele non farà mai affidamento su nessun altro per la propria difesa; che Israele è il primo e principale responsabile della propria sicurezza e del proprio destino; che Israele non trasferirà né subappalterà ad altri la sicurezza del paese e dei suoi cittadini mediante trattati o alleanze militari", scrive Micah Halpern. "Tutto questo, e molto altro, mi affollava la mente mentre guardavo e aspettavo la reazione degli Stati Uniti all'attacco iraniano contro gli impianti petroliferi dell'Arabia Saudita. Era ingenuo o francamente insensato presumere automaticamente che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti immediatamente a difesa degli interessi del petrolio saudita. Era diplomaticamente infantile confidare che gli Stati Uniti avrebbero rapidamente colpito l'Iran in base al concetto che un attacco a un alleato degli Stati Uniti è come un attacco agli Stati Uniti stessi.
Non è affatto così. I sauditi e altri erano aggrappati a quella convinzione irrealistica e decisamente poco concreta. Credevano che gli Stati Uniti avrebbero difeso l'onore dei sauditi, che sarebbero stati il loro diplomatico cavaliere senza macchia e senza paura. Il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita è molto semplice. Sono alleati. Non amici: alleati. Hanno interessi e nemici comuni, e l'Iran figura al primo posto di questa lista condivisa. Stati Uniti e Arabia Saudita non condividono valori, non condividono una cultura comune né i principi di libertà e uguaglianza. Sono anzi all'opposto. Il rapporto tra gli Stati Uniti e Israele è del tutto diverso. Tuttavia, nonostante le libertà e i valori condivisi fra i due paesi, nonostante la relazione tra fratello maggiore e fratello minore, cosa ci dice il comportamento degli Stati Uniti rispetto a questo attacco all'Arabia Saudita circa ciò che Israele può aspettarsi dagli Stati Uniti? L'Iran guarda attentamente e trae insegnamenti dalle azioni e dalle inerzie degli Stati Uniti. Non si pensi neanche per un momento che l'Iran non abbia notato che gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcuna risposta militare non in uno, ma in due casi di attacchi iraniani contro gli Stati Uniti o i suoi alleati. Il primo caso è stato, quest'estate, l'abbattimento da parte dell'Iran di un drone americano. Il secondo caso, ovviamente, il massiccio attacco, un paio di settimane fa, contro l'infrastruttura petrolifera in Arabia Saudita. Nel terzo caso in arrivo, e negli inevitabili casi successivi, gli iraniani aumenteranno dimensioni e frequenza dei loro obiettivi.
Il prossimo passo potrebbero essere i giacimenti petroliferi o le raffinerie del Bahrein, un importante stato sciita ma controllato dai sunniti. Oppure gli iraniani potrebbero prendere di mira il Kuwait o gli Emirati Arabi Uniti. Continueranno a tirare la corda finché non vi sarà una reazione. E sì, prima o poi uno degli obiettivi iraniani sarà Israele. L'Arabia Saudita guarda, aspetta e impara.
Israele tiene d'occhio la situazione con molta attenzione. Un fatto è certo: Israele non appalterà agli Stati Uniti la sua difesa. Israele non aspetterà che gli Stati Uniti agiscano. Israele non ne ha il tempo. Gli Stati Uniti sono lenti ad agire, Israele deve reagire alla velocità della luce. Gli israeliani possono dormire bene, finché la sicurezza di Israele è in buone mani: le sue".
(Il Foglio, 7 ottobre 2019)
Colloquio telefonico Netanyahu-Putin, focus su sicurezza
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha telefonato oggi al presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, per un colloquio incentrato sulla sicurezza. Lo riferisce una nota dell'esecutivo di Gerusalemme. Il colloquio telefonico giunge dopo l'annuncio da parte della Turchia di essere pronta a lanciare operazioni militari nel nord della Siria in qualsiasi momento. "Ho avuto un'importante conversazione con Putin. L'ho incontrato alcune settimane fa per discutere di temi che sono importanti per la sicurezza dello Stato di Israele - ha affermato Netanyahu -. Questa conversazione è stata importante anche per la sicurezza dello Stato di Israele. Abbiamo grandi sfide intorno a noi, ma beneficiamo di un'importante cooperazione e coordinamento con la Russia". Netanyahu ha concluso che si tratta di temi critici e continueremo ad essere impegnati per la sicurezza.
(Agenzia Nova, 7 ottobre 2019)
Le radici di noi ebrei laici
di Bianca Ambrosio
Quando eravamo piccoli il sabato andavamo a Shorashim. Si arrivava alle dieci di mattina, i primi anni nella storica sede di via San Gimignano e più avanti all'Umanitaria; ci si divideva per gruppi di età e con i propri madrichim si entrava in classe e si imparavano vicende bibliche e qualche parola di ebraico, si faceva merenda con i popcorn e la coca cola, si cantavano canzoni con il madrich Alex (Soria) che suonava la chitarra - cantavamo le canzoni delle feste ebraiche ma anche il gatto e la volpe di Bennato o Gam Gam - e infine si scendeva in cortile a giocare a pallone o a go-go-go. Ci accompagnavano e ci venivamo a riprendere, a turno, i miei genitori, i genitori dei Benveniste, degli Alazraki o dei miei cugini Beilin, tutti nomi che Rosita Luzzati ricorda bene.
Vado a farle visita una domenica pomeriggio di settembre, poco prima di Rosh Hashanà, per ascoltare la sua storia e quella di Shorashim, di cui quest'anno ricorre il trentesimo anniversario. Raggiunto il palazzo, salgo le scale di quella che mi pare essere la scala G ("come Guido, mio marito", mi aveva precedentemente spiegato Rosita nelle sue istruzioni telefoniche) e sul pianerottolo suono il campanello della porta con la mezuzà, ma nessuno viene ad aprire. Dopo qualche minuto in cui inizio a dubitare di trovarmi al posto giusto e suono di nuovo invano, Rosita compare dietro le porte dell'ascensore: "Hai sbagliato!" mi dice senza rimprovero "Questa non è la scala G!". La seguo allora e le spiego che mi ero lasciata ingannare dalla mezuzà sull'uscio.
Entriamo in casa e mi siedo sul divano sotto le stampe di Egon Schiele, di fronte alla padrona di casa. Chiacchieriamo, lei mi parla dei suoi nipoti, io le racconto di Israele, ci scambiamo qualche opinione sullo stato attuale delle cose e dopo un breve intermezzo in cui compare sua nipote Lea con una scatola di aringhe dell'Ikea (proprio come a casa nostra, è come se non avessimo mai lasciato la Russia!), inevitabilmente, arriviamo a parlare di radici.
Rosita è nata nel 1925 a Buenos Aires da genitori russi fuggiti da Ovruch, in seguito all'omicidio di suo nonno materno durante un pogrom. Scapparono di notte su un carretto che li portò in Polonia. Da lì, grazie anche agli aiuti finanziari degli zii americani (gli Stati Uniti però, si rifiutarono di concedere loro il visto), arrivarono in Argentina, dove con l'aiuto di un altro zio riuscirono a ottenere il visto. Non sapevano una parola di spagnolo e non avevano un lavoro, ma si arrangiarono vendendo colchas e carpetas, centrotavola e copriletto, "come quelli che oggi arrivano qui in Italia e vendono abiti in spiaggia", mi dice, e "come il personaggio della famiglia Karnowski di Singer" (qui ricevo un rimprovero per non aver ancora letto il capolavoro dello scrittore polacco). Pian piano si stabilirono nel nuovo paese, trovarono un lavoro più stabile, comprarono casa e impararono lo spagnolo, mantenendo sempre però la cadenza e l'accento yiddish, lingua che continuarono a parlare tra di loro. "Hasta loigo", dicevano, al posto di "hasta luego" ed era facile intuire le loro origini, per le quali poteva capitare che venissero nuovamente discriminati. "Russos de mierda", li chiamavano i locali, e con "de mierda" intendevano sottolineare che erano ebrei, perché i russi venivano chiamati semplicemente "Russos de russia". A Rosh Hashanà andavano in Sinagoga, mentre Pesach si festeggiava a casa loro con una Haggadah tutta in ebraico, che è tutt'oggi a casa Luzzati. Erano una famiglia tradizionalista.
Rosita frequentò la scuola pubblica dove ottenne la medaglia all'onore come miglior allieva dell'istituto. Nel 1950, finito il corso di studi in ingegneria civile, lei e il suo neo-marito Guido, anche lui ebreo e anche lui ingegnere, arrivarono a Milano. Avevano venticinque anni, una laurea in tasca e un futuro davanti da costruire. Abitavano allora in una stanza di tre metri per tre, con uso di cucina e bagno senza acqua calda. Come i genitori, Rosita arrivò in un paese nuovo, ma pian piano lei e Guido si stabilirono in Italia, si integrarono e a loro volta ebbero dei figli, Sandro e Silvia. Guido e Rosita erano completamente laici, si sposarono senza chupà e avevano pochi rapporti con la comunità. Eppure non persero mai di vista le proprie radici.
Mandarono i figli alla scuola ebraica alle elementari ma in seguito li trasferirono alle scuole pubbliche, "così che vedessero il mondo". Se con Sandro e Silvia non fu difficile portare avanti il DNA ebraico della famiglia, con i nipoti, tutti figli di matrimoni misti, le cose si fecero più complicate. Le istituzioni ebraiche erano diventate sempre più rigide e i bambini di madre non ebrea non potevano frequentare la scuola ebraica. In generale le dinamiche della comunità erano ben lontane dall'approccio universalista e laico della famiglia Luzzati. Fu per questo che dopo diverse ricerche sul campo a Parigi, Bruxelles e anche in Argentina e a seguito di vere e proprie battaglie, nel 1989 Rosita fondò Shorashim, associazione di educazione ebraica tradizionalista per bambini, di cui la mia famiglia fu tra i primi soci. Le critiche arrivarono fin da subito, a molti membri della comunità l'iniziativa risultava scomoda, in particolare perché le attività si svolgevano di sabato. "Non sopportavano che i bambini colorassero di sabato", mi racconta Rosita.
Ma l'ingegner Luzzati, determinata e forte dei propri principi, non si lasciò intimidire e con Shorashim è riuscita a far sì che non solo i suoi nipoti, ma anche centinaia di bambini ebrei milanesi, abbiano mantenuto vivo un legame con le proprie radici ebraiche, creando un punto di riferimento per tutte le famiglie che non si sono mai riconosciute nell'approccio ortodosso ed esclusivista della comunità. Tutti noi che da bambini abbiamo frequentato Shorashim ci ricordiamo dei rimproveri severi della nonna Rosita: "bambini, silenzio!" ma sappiamo che è grazie a lei se oggi conosciamo la storia di Caino e Abele, del Golem di Praga e sappiamo perlomeno riconoscere le lettere ebraiche.
Prima di salutarci, Rosita mi chiede curiosa e serissima il menù della nostra cena di Rosh Hashana e mi racconta che come ogni anno, a casa loro sarà lei a cucinare per tutta la famiglia: blintzes, gefilte fish e chrein bianco e rosso. Tutte ricette che preparava uguali mia nonna Ruth. Dopo quest'ultima conferma che le tradizioni passano forti anche tramite le abitudini culinarie, saluto Guido e Rosita, fiera delle nostre radici laiche.
(JoiMag, 7 ottobre 2019)
Rimini ritrova la sua memoria ebraica, svelata al Museo epigrafe di sinagoga
Riemerge la memoria dimenticata degli Ebrei a Rimini. E' stata svelata questa mattina, al museo della città, l'epigrafe dedicatoria in ebraico, in pietra, a memoria di una delle sinagoghe di Rimini, risalente all'anno ebraico 5270, corrispondente al 1510 del calendario gregoriano. L'epigrafe fu rinvenuta in uno scavo presso il Tempio malatestiano intorno al 1760 e da oggi, per la prima volta, viene esposta al pubblico.
A svelare l'importante reperto storico sono stati il Vicesindaco di Rimini, Gloria Lisi, e Mauro Perani, ordinario di Ebraico dell'Università di Bologna e Presidente dell'Associazione Italiana per lo studio del Giudaismo.
Con loro la storica riminese Francesca Panozzo, che ha introdotto l'intervento con cui il prof. Perani ha tradotto l'epigrafe, inquadrandola nel contesto della presenza della comunità ebraica a Rimini.
"Oggi ci riappropriamo - ha spiegato la Vicesindaco Lisi - di una parte importante dell'identità storica della nostra città. Quello odierno fa parte di un percorso di riscoperta della presenza ebraica in città, testimoniato da reperti di grande interesse storico e culturale come quello di oggi".
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(Chiamami Città, 6 ottobre 2019)
Un grande pericolo incombe su Israele. Mettere fine ai giochi politici
Continuano ad arrivare allarmanti rapporti dalle intelligence su un imminente attacco iraniano a Israele. È arrivato il momento di mettere via le beghe politiche e di pensare al Paese
Per la prima volta in due mesi questo pomeriggio si riunisce il Gabinetto di Sicurezza a Gerusalemme. L'intelligence israeliana, le fonti di informazione delle IDF e ogni tipo di segnale possibile stanno urlando a squarciagola avvertimenti su una imminente operazione iraniana contro Israele.
Lo Stato Ebraico lasciato da solo?
Venerdì scorso il New York Times ha riferito che l'incapacità americana di reagire militarmente agli attacchi iraniani contro un proprio drone e, fatto ancora più grave, contro le infrastrutture petrolifere dell'Arabia Saudita, sta spingendo Riad a compiere passi di avvicinamento verso Teheran.
«La situazione peggiore per i sauditi è passare da uno possibile scontro con l'Iran credendo nell'appoggio americano e scoprire che invece questa Amministrazione è del tutto incapace di rispondere alle minacce iraniane» ha detto al Times Philip Gordon, ex coordinatore della Casa Bianca in Medio Oriente.
I sauditi stanno rivedendo completamente, o quanto meno stanno ammorbidendo, la propria posizione verso l'Iran a causa dell'atteggiamento americano. Questo è un dato di fatto difficilmente contestabile.
Ma questo vuol dire anche che il fantomatico "asse anti-iraniano" che voleva Riad e Gerusalemme sulla stessa barricata si sta sgretolando.
Questo comporta che Israele si troverà ad affrontare la sempre più incombente minaccia iraniana da solo, forse senza nemmeno il supporto americano visto come si sono comportati con l'Arabia Saudita.
Il Gabinetto di Sicurezza
Dicevamo che questo pomeriggio si riunisce a Gerusalemme il Gabinetto di sicurezza. Non è una riunione di routine. Le notizie che arrivano dalle varie intelligence sono davvero molto preoccupanti.
Da giorni funzionari della intelligence israeliana lanciano allarmi sempre più pressanti su una imminente azione militare contro Israele orchestrata dall'Iran galvanizzato dalla vittoria sull'Arabia Saudita e sugli Stati Uniti.
Negli ultimi giorni sia il Primo Ministro Benjamin Netanyahu che il Presidente Reuven Rivlin hanno menzionato "esigenze di sicurezza cruciali" chiedendo la formazione di un governo di unità nazionale.
Gabi Ashkenazi, del partito blu e bianco, recentemente nominato capo del potente comitato per gli affari esteri e la difesa della Knesset, ha parlato giovedì di «molte sfide nel campo della sicurezza, alcune conosciute da tutti e alcune che vengono discusse solo a porte chiuse». Un altro segnale che la situazione è molto seria anche se altri esponenti del partito di Benny Gantz sostengono che «non esiste un reale allarme sicurezza».
Mettere fine ai giochi politici e assumere le responsabilità che la situazione richiede
È arrivato il momento che tutte le forze politiche si assumano in pieno le proprie responsabilità verso il Paese e che si prendano le decisioni che il pericolo incombente su Israele richiede.
L'Iran si è posizionato strategicamente tutto intorno a Israele e non lo ha fatto certo per uno sfizio. L'intenzione iraniana di attaccare Israele non solo è palese, ma è stata più volte apertamente dichiarata dalle più alte cariche iraniane. Quello che sta facendo Teheran è davanti agli occhi di tutti.
Continuare a tenere il Paese in una situazione di stallo politico quando invece ci sarebbe bisogno di un Governo nel pieno delle sue capacità è semplicemente da irresponsabili.
Non ne facciamo una questione di politica. Quando si tratta di difendere Israele della politica non ce ne importa nulla. Ma adesso serve responsabilità e serve prima di subito perché il pericolo è vero ed è imminente.
(Rights Reporters, 6 ottobre 2019)
Arriva l'app israeliana che fa rete contro il cancro
A corpo sicuro
di Luciano Bassani
Nel campo della sanità esiste un'app israeliana che sta diventando il più grande social network mondiale sul cancro. Belong.life è stata studiata per i malati di cancro e gli operatori sanitari e utilizza l'intelligenza artificiale per eliminare il disordine dei dati. Gli utenti vedono solo le informazioni rilevanti.
In sostanza l'app Belong.ljfe è equiparabile a Waze nel campo oncologico. Quando una persona improvvisamente si trova di fronte a una diagnosi di cancro il mondo gli crolla addosso perché oltre al fatto emotivo si trova dinnanzi a una montagna di opzioni da considerare su test, farmaci ed effetti collaterali. Il paziente che nel confronto con il medico crede di aver capito tutto e di aver fatto tutte le domande del caso, si rende conto che appena uscito dallo studio, ancora nel parcheggio o a casa, ha ancora molte domande inevase. Con questa app sullo smartphone c'è un medico o un'infermiera disponibile in qualsiasi momento per le domande o quando si presenta una nuova sfida.
«Bisogna immaginarsi», spiega Kliran Malki, Ceo di Belong.life, «di guidare dal New Jersey a New York alle 8 del mattino. Waze può stimare che ci vorranno un'ora e 15 minuti», spiega Malld. Un risultato che si basa su anni di dati e milioni di miglia guidate. Belong.life analizza nello stesso modo le esperienze di 200.000 malati di cancro, operatori sanitari e professionisti della salute che usano l'app.
Nei tre anni trascorsi dal lancio, l'app è diventata il più grande social al mondo per malati di cancro. Centocinquanta oncologi dei centri medici Sheba, Hadassah e Rambam in Israele e Monte Sinai a New York rispondono volontariamente alle domande poste dai pazienti.
I medici devono solo rispondere a una domanda alla volta che viene poi confrontata con altre domande simili. I medici hanno un altro incentivo a diventare esperti in questa rete perché possono trarre vantaggio dalla grande quantità di dati raccolti dai pazienti per sviluppare nuovi protocolli terapeutici. Qual è il momento migliore per allenarti quando stai ricevendo un trattamento per il cancro? «Si potrebbe scoprire che andare in palestra il giorno prima di fare la chemioterapia, non il giorno stesso o il giorno dopo, aiuta uno su 20 pazienti sulla base di 500 risposte», afferma Malki. Si tratta di dati preziosi che non sarebbero evidenti nello stesso modo in un normale gruppo di supporto online. In un certo senso è una realtà simile a quella di Tripadvisor che può essere utile sia per l'utente che per lo stesso albergatore. Il paragone tra cancro e hotel può sembrare irriverente, ma i pazienti con una nuova diagnosi di cancro, come quelli che stanno pianificando una vacanza, faranno ricerche su Internet in cerca di opzioni.
Da ultimo, in Belong.life i profili dell'utente sono anonimi e l'app è gratuita.
(La Verità, 6 ottobre 2019)
Netanyahu, ecco le 4 accuse che non reggono
di Michael Sfaradi
Lo scorso mercoledì si è insediato a Gerusalemme il ventiduesimo parlamento dello Stato di Israele. Dietro alla solennità dell'evento e prima di prendere possesso degli scranni, c'era sugli eletti, come la nuvoletta di Fantozzi, il fortissimo timore di essere iscritti al Guinness dei primati come i parlamentari con il mandato più breve dal 1948 a oggi. Ciò nonostante i nuovi eletti davanti alle telecamere hanno ostentato, come a Natale, sorrisi di circostanza, sicurezza, abbracci e buoni propositi. Questa incertezza, quasi una realtà consolidata, è dovuta dallo stallo politico uscito dai risultati delle urne che sembra, e quasi sicuramente è, irrisolvibile.
L'appello che il Presidente di Israele Ruben Rivlin ha fatto ai due leader Gantz e Netanyahu invitandoli a mettersi d'accordo e creare un governo di unità nazionale, sembra essere caduto nel vuoto, nessuno dei due ha i sessantuno seggi necessari per creare una maggioranza che possa garantire la fiducia al governo e se lo stallo dovesse continuare, e tutto lascia credere che continuerà, i nuovi eletti saranno presto i nuovi dimissionari. Questo perché Gantz non vuole cedere neanche di un millimetro e pretende che il Likud, partito del Premier, partecipi al governo di unità nazionale ma senza Netanyahu che del Likud è il segretario oltre ad essere il Primo Ministro in carica.
In pratica, non ha ancora ricevuto alcun mandato e già vuole comandare in casa degli altri. La sensazione è che se anche dovesse venire alla luce questo strano esecutivo, durerebbe molto poco e più di una nascita quasi sicuramente si tratterebbe di un aborto tenuto in vita artificialmente. Che Israele stia rapidamente galoppando verso una terza tornata elettorale lo dicono alcuni segnali importanti, segnali che potrebbero aver dato l'inizio della terza campagna elettorale in dodici mesi, campagna elettorale che Benjamin Netanyahu dovrà nuovamente affrontare con l'incubo dei procedimenti penali in corso contro di lui.
Uno di questi segnali, il più importante, è dato dal fatto che i media, da sempre contrari a Netanyahu ma che durante le trattative avevano tirato un po' il fiato, hanno ripreso con maggiore vigore la campagna stampa contro di lui e sua moglie ricordando a tutti, come se ce ne fosse bisogno, sono anni che lo fanno, i capi di accusa ai quali dovrà rispondere davanti al Procuratore Generale dello Stato che sono:
- Il leader del Likud avrebbe ricevuto sigari cubani e un gioiello per la moglie (comprato dalla gioielleria Stern all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv) dal produttore miliardario di Hollywood Arnon Milchan, un vecchio amico dai tempi in cui Bibi era Ambasciatore in America, in cambio di esenzioni fiscali. Esenzioni fiscali che poi non ha mai ricevuto.
- Netanyahu avrebbe discusso con il proprietario del giornale Yedioth Aharonoth, Arnon Moses, della possibilità di convincere Sheldon Adelson, proprietario del giornale Israel Hayom, l'unico vicino a Netanyahu, a ridurre la tiratura in cambio di un trattamento migliore sullo stesso Yedioth Aharonoth. Si è trattato di un dialogo avvenuto pubblicamente, di cui tutti gli israeliani erano al corrente, e che poi si è risolto con un nulla di fatto.
- Netanyahu avrebbe favorito la fusione tra la rete satellitare Yes e la compagnia di telecomunicazioni Bezeq in cambio di un trattamento di favore sul sito Walla News, dello stesso proprietario di Bezeq, Shaul Elovitch. Anche questo avvenuto in dialoghi pubblici e non segreti.
- Netanyahu e la moglie Sara avrebbero compiuto spese private con denaro pubblico (per somme che si aggirano ai 200 dollari). La denuncia è stata fatta da un cameriere che era stato licenziato.
Secondo il Premier tutte queste accuse sono inconsistenti e ha ribadito in più occasioni che se questa è corruzione sono corrotti tutti quelli che svolgono politica, anche nel modo più onesto. Per questo ha chiesto di trasmettere in tv le accuse reali in modo che tutti gli israeliani possano rendersi conto delle stesse e non valutare la sua posizione solamente in base a ciò che hanno raccontato giornalisti più o meno informati ma sicuramente di parte.
Intanto Avichay Mandelblit, il Procuratore Generale, fa il cerchiobottista fra il martello della stampa forcaiola e l'incudine di migliaia di prove su quattro procedimenti, prove che per la quasi totalità dei giornalisti sono schiaccianti mentre lui, da buon magistrato, sa che il collegio di difesa del Premier, formato da i dieci più importanti avvocati di Israele, potrebbe smontare uno a uno i procedimenti o sgonfiarli fino a renderli poco credibili o non penalmente perseguibili. In quel caso proprio Mandelblit si ritroverebbe con il cerino in mano mentre intorno a lui ci sarebbe un fuggi-fuggi generale, anche perché è lecito pensare che se fra quelle carte ci fosse stata veramente la metà di ciò che è stato pubblicato o raccontato in televisione, le manette da tempo sarebbero già scattate intorno ai polsi di Bibi Netanyahu.
(Nicola Porro, 6 ottobre 2019)
Israele. Il ministero dell'Ambiente contro il sacrificio dei polli
di Tommaso dal Passo
Il Ministero della protezione dell'ambiente di Israele ha invitato tutti i cittadini ebrei del settore pubblico ad astenersi dal far oscillare polli vivi sopra la testa prima dello Yom Kippur e invece di gettare via i loro peccati dando soldi in beneficenza, ha riferito un comunicato stampa a nome del ministero.
Il rituale dei kapparot ha lo scopo di "trasmettere" simbolicamente tutte le cattive azioni commesse dalla persona al pollo, che viene macellato e mangiato. Non solo il comunicato stampa avverte che è crudele sbattere qualsiasi cosa vivente, ma aggiunge che i polli sono tenuti in gabbie affollate in condizioni pessime, causando loro ancora più sofferenza, riporta Jerusalem Post.
Il Ministero sta cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica sul fatto che lo stesso merito simbolico si può ottenere offrendo denaro in beneficenza, cosa che diversi rabbini hanno suggerito nel corso degli anni come modo per evitare gli abusi sugli animali.
Non si tratta di un approccio nuovo tra gli studiosi religiosi ebrei; la pratica non è radicata nel diritto ebraico, ma è piuttosto un minhag, cioè una tradizione accettata dalla maggior parte della comunità, e da ciò trae il suo valore normativo sociale.
Poiché il pollo viene solitamente macellato e trasformato in un pasto per i poveri, e non per la persona che gli "trasmette i suoi peccati", è possibile che le generazioni passate l'abbiano valutato come un modo per nutrire i poveri nella società premoderna.
Tuttavia, si può far "girare" sopra la testa dei fedeli una somma di denaro e pronunciare anche la benedizione; le monete o le banconote "accettano" i peccati e il denaro può essere dato in beneficenza.
Nel 2013, ricorda il Jp,il rabbino Adam Frank ha detto che «Personalmente, ogni anno faccio il kapparot con il denaro per la carità. Gestisco la macelleria come servizio alla comunità. Ma se dipendesse da me, cancellerei la tradizione».
(agcnews.it, 6 ottobre 2019)
Retromarcia Anp, ora accetta fondi palestinesi decurtati da Israele
Otto mesi fa il presidente Abu Mazen aveva proclamato «Vogliamo i nostri soldi fino all'ultimo centesimo, tutto o niente». Il possibile crollo dell'Anp per mancanza di fondi lo ha costretto a fare un passo indietro.
di Michele Giorgio
«Vogliamo i nostri soldi fino all'ultimo centesimo, tutto o niente, altrimenti non li vogliamo. Non ci piegheremo mai a questa inaccettabile decisione di Israele». Furono queste, otto mesi fa, le frasi pronunciate dal presidente dell'Anp Abu Mazen in reazione al passo arbitrario fatto da Netanyahu di defalcare dai rimborsi doganali spettanti mensilmente al governo palestinese (in media 170 milioni di dollari) la quota corrispondente all'ammontare dei sussidi mensili (circa 12 milioni) che l'Anp versa ai prigionieri politici e alle famiglie dei martiri, i palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Per Netanyahu quei fondi sono una «ricompensa ai terroristi». Per Abu Mazen rappresentano un diritto per coloro che si battono e muoiono per l'indipendenza palestinese. Parlando all'Onu, il presidente dell'Anp si è detto sicuro che «la comunità internazionale non accetterà la decisione di Israele» e ha lodato «i nostri onorevoli martiri, i prigionieri coraggiosi e gli eroi feriti». Ora, a quanto pare, ha cambiato idea.
L'Anp ha annunciato di aver raggiunto un accordo di principio con Israele, dopo l'incontro a metà settimana tra il ministro palestinese per le questioni civili Hussein al Sheikh e il ministro israeliano delle finanze Moshe Kahlon. E domani un comitato congiunto comincerà a mettere su carta i termini del compromesso. Ma non c'è accordo sulla questione centrale dei fondi per i detenuti e le famiglie dei martiri. Israele insiste per trattenere quella somma dal totale dei rimborsi ma nel frattempo è pronto ad inoltrare all'Anp la maggior parte dei dazi doganali raccolti in otto mesi. Si tratta di centinaia di milioni di dollari. Un alto funzionario israeliano ha detto alla tv Channel 13 che nell'incontro tra Kahlon e al Sheikh le due parti «hanno concordato di non essere d'accordo».
Qualcuno parla di una «scappatoia» che permette di incassare i rimborsi, seppur ridotti, e di «salvare la faccia» al presidente palestinese e al primo ministro Mohammed Shtayyeh. «Non credo che siano riusciti a salvare la faccia» ci dice Hamada Jaber, un analista del Centro di studi e ricerche statistiche di Ramallah. «Il presidente aveva caricato il suo rifiuto (della decisione israeliana) con toni molto forti, aveva battuto il pugno sul tavolo di fronte ad una palese violazione delle intese raggiunte in passato. Non gli sarà facile spiegare la retromarcia». Secondo Jaber «l'accaduto non fa altro che dimostrare la dipendenza assoluta dell'Anp da Israele» e che «senza il trasferimento (da Israele) dei fondi derivanti dalla raccolta dei dazi doganali sulle merci e le transazioni commerciali riguardanti la Cisgiordania e Gaza, l'Anp non può esistere».
Ne risentirà ancora una volta la credibilità dell'Anp ma il compromesso al ribasso difficilmente provocherà proteste e manifestazioni palestinesi. Il mancato arrivo dei fondi ha costretto il governo Shtayyeh a tagliare gli stipendi di decine di migliaia di dipendenti pubblici in Cisgiordania, dove la disoccupazione è stimata al 20%. Migliaia di famiglie in questi mesi si sono indebitate, altre non sono riuscite a far fronte alle rate di prestiti avuti dalle banche e altre ancora hanno avuto problemi persino con i consumi alimentari. Il welfare è stato ridotto al minimo e alcuni servizi pubblici sono giunti vicini al collasso. Anche Netanyahu però non ha potuto evitare il compromesso. La stabilità dell'Anp e la continuazione della cooperazione di sicurezza sono centrali per il controllo israeliano della Cisgiordania.
(il manifesto, 6 ottobre 2019)
Oggi si inaugura il nuovo «Giardino dei Giusti di tutto il mondo»
Dopo cinque anni di lavori, difficoltà e polemiche, il taglio del nastro del «memoriale» voluto da Gariwo.
di Barbara Uglietti
MILANO - Il Giardino dei Giusti di tutto il mondo, al Parco del Monte Stella, verrà inaugurato oggi dopo i lavori di riqualificazione: cinque anni di difficoltà, polemiche, fatica e ostacoli superati che adesso sembrano risplendere in cima alla montagnetta di San Siro. La struttura emersa dal cantiere è bellissima. Gariwo - l'associazione che l'ha voluta, che l'ha creata e che la gestisce in collaborazione con il Comune e l'Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) - ha deciso di presentarla come un "tempio civico" al servizio della città: uno spazio per pensare, capire, incontrarsi. E la città "incontrerà" il suo Giardino con una giornata piena di eventi: concerti, reading, dibattiti, laboratori per i bambini e visite guidate oggi dalle 10,30 alle 20,30.
Non è stato facile approdare qui, pure per un'istituzione, quella del Giardino dei Giusti, che proprio a Milano trova la sua capitale morale. Il progetto di riqualificazione ha navigato fin dall'inizio contro correnti inquinate da rivendicazioni politiche o strumentali o ideologiche, o da timori, pur leciti, sull'impatto di vincoli, cantiere e materiali. Alla fine, il Giardino è riuscito a mettere tutti d'accordo. «Abbiamo puntato a un intervento di alto livello e, sì, ci sono stati problemi - spiega Gabriele Nissim, presidente di Gariwo -. Ma abbiamo accolto ogni critica' ogni suggerimento. Abbiamo cercato il dialogo. E alla fine proprio quelli che ci contestavano sono diventati nostri sostenitori. Perché il Giardino è una delle strutture più belle del Monte Stella, un'opera che riqualifica il quartiere».
L'Idea è quella di portare le persone a camminare dentro il Giardino. Perché passeggiando tra gli alberi e le targhe dedicate ai Giusti il visitatore possa "dialogare" con i personaggi ricordati, facendosi domande.
La giornata sarà aperta dall'intervento della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta all'Olocausto e testimone della Shoah, che ha fortemente voluto il Giardino. Al taglio del nastro inaugurale parteciperanno, tra gli altri, Giorgio Mortara (vicepresidente Ucei), Marco Rasconi (Commissione Centrale di Beneficenza di Fondazione Cariplo), l'ex sindaco Giuliano Pisapia, l'arcivescovo Mario Delpini, il rabbino capo Alfonso Arbib, e, in rappresentanza del Coreis (Comunità religiosa islamica), il vicepresidente Yusuf Abd alHakim Carrara e il responsabile per il dialogo interreligioso Abd al-Ghafur Masotti. Perché altro obiettivo ambizioso è quello di rendere il Giardino un luogo di incontro tra le religioni.
(Avvenire, 6 ottobre 2019)
Anita e le sue sorelle. Una «Schindler's List» nella villa di Robecco
La figlia del podestà che nascose due famiglie ebree
di Giovanna M. Fagnani
MILANO - «Che belle trecce. Anche mia figlia le porta così». Nel 1944, Tilde e le sue sorelle, Luisa, Vanna e Annamaria, giocavano nel giardino della loro villa, a Robecco sul Naviglio. Oltre la recinzione c'era una truppa di soldati tedeschi, che in tempo di guerra, aveva requisito lo stabilimento di famiglia, attiguo alla villa, per farne un laboratorio. Uno dei militari si avvicinava spesso a salutare le bambine. Ignaro, come i suoi commilitoni, che proprio in quella bella villa padronale, Anita Scotti, la figlia del defunto podestà e nonna delle bambine, teneva nascoste due famiglie ebree.
Angelo, suo padre, era scomparso nel 1939, dopo aver guidato il paese dal 1932 al 1936. Ma seppur cresciuta in una famiglia fascista, Anita, che durante la Prima Guerra Mondiale aveva servito come crocerossina, era di fede liberale e non si limitò ad ospitare le due famiglie, salvandole dalla deportazione: in più d'una occasione, rivelò una tempra e un coraggio formidabili.
Una notte, guidò uno dei suoi carri nei boschi fino al ponte sul Ticino a Vigevano, per accompagnare oltre il fiume una delle sue ospiti e consegnarla ad amici, che riuscirono a condurla in Svizzera. Qualche mese prima, inoltre, d'intesa con il medico condotto del paese e con il direttore dell'ospedale di Abbiategrasso - il dottor Emanuele Samek Lodovici, futuro senatore nelle file della DC - portò al «Cantù» un'altra delle sue ospiti, una donna ultraottantenne, che aveva avuto un grave malore. Con l'anziana amica si lasciarono con una raccomandazione, in dialetto milanese: «Ma racumandi, la disa nient (Mi raccomando, non parli per nessun motivo ». Per evitare controlli e soffiate, fecero credere che l'anziana fosse sordomuta.
A scoprire la vicenda, di cui si era persa memoria, è stato Dario Tonetti, ex consigliere comunale e storico locale, autore del libro «Chiamaci ancora», dedicato e personaggi del secondo conflitto mondiale, a Robecco. Nell'ultimo capitolo, ci sono la riproduzione di una pergamena inviata nel 1956 a Anita dalla Comunità Israelitica di Milano «a ricordo perenne di gratitudine degli Ebrei d'Italia» e la testimonianza di una delle due famiglie ospiti.
Anita, nata nel 1885, dopo aver frequentato le Orsoline a Milano aveva sposato, a 19 anni, Faliero Gabbiano di Prato. Rimasta vedova a soli 27 anni, tornò a vivere in famiglia coi figli Fausta e Franco. I suoi genitori avevano un vasto podere e lei prese in mano le redini dell'azienda. Nel primo dopoguerra, avviò con il fratello lo stabilimento attiguo alla villa che, nel 1944, fu requisito dai tedeschi. Fu un anno tragico per Robecco: il 20 luglio in una rappresaglia i nazisti uccisero otto persone e ne deportarono sessanta.
Oggi nella villa vivono le nipoti di Anita: Tilde, Vanna e Luisa che ricordano quei giorni: «Al primo piano vivevano una donna molto anziana e sua figlia Nella. Di cognome facevano Pontremoli. Prima di venire da noi si erano nascoste a Casatenovo e la signora più anziana restò con noi anche dopo la guerra». Più stretto fu il legame con le altre giovani ospiti, Luisella e Lidia Cava, oggi 92 e 88 anni. Luisella, allora 14enne, visse per qualche mese a Robecco, con due zie e la nonna, ovvero l'anziana che fu portata in ospedale.
«È stato un periodo straziante. Ci ha portato via la fanciullezza. Da un giorno all'altro ci hanno tolto tutto, siamo state cacciate dalla scuola che frequentavamo. Nostra zia, che era maestra, a Robecco fece lezione in casa alle nipoti di Anita», racconta al telefono Luisella che, ancora pronuncia a fatica la parola «persecuzione» e dice semplicemente «il fatto». «La nostra famiglia era divisa, non avevamo nulla, eravamo senza tessere per comprare da mangiare. Ma. nel continuo peregrinare per salvarci siamo stati tanto aiutati da Anita e poi da Ernesto Carena, che ci accolse dopo di lei, a Ferrera, in Piemonte».
Negli anni del dopoguerra, Anita non parlò quasi mai di quanto accaduto. Neppure quando sua figlia fu accusata pubblicamente di appartenere a una famiglia che aveva fiancheggiato i tedeschi. «Mi ricordo bene di Anita, era una donna vivace e molto intelligente», dice Luisella Cava.
Con le nipoti era severa, ma spiritosa e allegra. «Era colta, leggeva molto e si interessava a tutto. Quando venivano a trovarci i nostri amici, prima passavano un po' di tempo a parlare con lei, poi chiedevano di noi», dicono le sue nipoti. «Questa vicenda mostra l'importanza della trasmissione della storia, perché spesso si giudica senza conoscere», dice lo storico Dario Tonetti.
(Corriere della Sera, 6 ottobre 2019)
Recrudescenza antisemita in Belgio. La comunità ebraica continua a sentirsi minacciata
In Belgio, i leader ebrei temono che l'antisemitismo si sia diffuso.
In una sfilata per il carnevale di Aalst lo scorso marzo, i partecipanti hanno ballato sulle note di una canzone che esaltava l'avidità ebraica mentre erano in piedi su un carro con le fattezze di un ebreo ortodosso con un ratto sulla spalla che tiene i soldi.
In agosto, un articolo di opinione sul De Morgen - un importante giornale belga - ha definito gli ebrei in Israele ladri di terre con un complesso di superiorità religiosa e "brutti nasi".
All'inizio di settembre, un politico locale ha inaugurato un dipinto da lui realizzato con una svastica e le parole E Dio ha creato A. Hitler in una prestigiosa galleria d'arte di Bruxelles.
Tali incidenti non sono inusuali nell'Europa occidentale, dove le manifestazioni pubbliche di antisemitismo stanno tornando prepotentemente. Ma la loro difesa da parte delle autorità e di alcuni partiti ha suscitato la preoccupazione che l'antisemitismo stia raggiungendo un livello di diffusa accettazione in Belgio.
Joel Rubinfeld, ex copresidente del Parlamento ebraico europeo e attuale presidente della Lega belga contro l'antisemitismo, ha affermato: "di recente si sono verificati una serie di incidenti legati all'antisemitismo che alcune figure pubbliche, opinionisti e artisti hanno difeso. Ciò è piuttosto insolito. Si tratta di uno sviluppo alquanto preoccupante di quanto sta avvenendo in Belgio".
Nel caso della sfilata carnascialesca, un appuntamento annuale nella città di Aalst riconosciuto dall'UNESCO come un evento importante per la cultura europea, sia gli organizzatori che il sindaco Christoph D'Haese hanno difeso la manifestazione come parte della tradizione. La sfilata del 2013 è stata caratterizzata da un carro in cui i festaioli in abiti nazisti tenevano lattine di Zyklon B, il gas usato per uccidere gli ebrei nei campi di concentramento, e hanno camminato accanto a persone che portavano ritratti delle vittime dell'Olocausto.
"È fondamentale spiegare ai funzionari dell'UNESCO che il carnevale di Aalst non aveva intenzioni antisemite o razziste", ha detto D'Haese all'agenzia di stampa Belga. Secondo Rubinfeld, il caso è stato archiviato perché la comunità ebraica ha rifiutato l'offerta di far cadere le accuse in cambio di scuse.
Dopo una protesta per l'editoriale del 27 luglio sul quotidiano De Morgen per i "brutti nasi", l'editore ha sostenuto lo scrittore Dmirti Verhulst. Il pezzo "afferma che qualsiasi critica dura su Israele sarà sempre reinterpretata come antisemitismo", ha scritto il direttore Bart Eeckhout.
Quell'incidente ha fatto seguito alla notizia che i pubblici ministeri belgi avevano deciso di non perseguire il proprietario di un caffè che nel 2014 ha appeso sulla sua finestra un cartello con la scritta "I cani possono entrare ma gli ebrei non sono ammessi". Secondo Rubinfeld, il caso è stato archiviato perché la comunità ebraica ha rifiutato l'offerta di far cadere le accuse in cambio di scuse.
"Recentemente, abbiamo visto un aumento di casi di antisemitismo in cui la risposta è stata preoccupante come la questione originale", ha detto Menachem Margolin, direttore dell'European Jewish Foundation di Bruxelles. "C'è la paura che l'accettazione dell'antisemitismo si stia diffondendo in maniera preoccupante"..
Nel 2016, una scuola belga si è detta "orgogliosa" del fatto che uno dei suoi insegnanti, Luc Descheemaeker, abbia vinto un premio in Iran in un concorso di vignette sull'Olocausto.
Le autorità scolastiche e comunali di Torhout, la città del professore, hanno raddoppiato il loro sostegno all'insegnante. Il sindaco lo ha persino nominato "ambasciatore culturale".
Più recentemente, il Centro fiammingo della lingua dei segni ha difeso l'inclusione dei gesti a naso uncinato e a riccioli laterali nel suo dizionario visivo come definizioni accettabili per la parola Ebreo.
Nei vicini Paesi Bassi, per esempio, l'emittente BNNvara si è scusata la scorsa settimana per aver permesso a un ascoltatore di sproloquiare per quattro minuti contro "la giudea appropriazione del denaro" che "deve essere annientata". Nel 2014, sempre nei Paesi Bassi, il Ministero della Giustizia ha sospeso e successivamente licenziato un project manager per aver scritto che l'ISIS è "parte di un piano dei sionisti che stanno deliberatamente cercando di oscurare il nome dell'Islam".
In agosto, l'emittente pubblica norvegese NRK si è scusata per aver messo in onda un cartone animato in cui un giocatore di Scrabble ha formato la parola "maiale ebreo".
E in Gran Bretagna, le accuse di antisemitismo hanno leso gravemente l'immagine pubblica del Partito del lavoro sotto la guida di Jeremy Corbyn. I leader della comunità ebraica e altri hanno accusato il leader di incoraggiare l'antisemitismo.
In un sondaggio della Anti-Defamation League del 2015, che ha coinvolto centinaia di intervistati in diversi paesi dell'Europa occidentale, il Belgio ha avuto uno dei tassi più alti di antisemitismo, con circa il 21% degli intervistati che hanno espresso quello che l'ADL considerava un sentimento antisemita. Il tasso era inferiore al 17 per cento registrato in Francia, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svezia.
Yohan Benizri, il presidente del gruppo CCOJB che rappresenta gli ebrei belgi francofoni, ha detto "penso che la questione non sia esclusivamente belga, ma parte di un problema più grande in cui la questione antisemita è letta alla luce di norme culturali che derivano dalla tensione etnica tra fiamminghi e valloni". Inoltre, osserva Daniel Rozenberg, membro della Stalingrad Synagogue congregation a Bruxelles, un problema ulteriore è quello che nasce dallo schiacciamento delle questioni anti-ebraiche sulla politica israeliana e il ruolo dei media rei di diffondere un vero e proprio clima d'odio.
(31mag.nl, 5 ottobre 2019)
Hacker iraniani contro Trump. Nuovo scontro USA-Iran?
La notizia di hacker iraniani in azione contro Trump ha riacceso i riflettori sullo scontro USA-Iran. Teheran potrebbe intromettersi nella campagna per le Elezioni USA 2020.
di Violetta Silvestri
Arrivano nuove minacce per le elezioni USA 2020: ci sarebbero in azione hacker dall'Iran contro Trump. Quali saranno le conseguenze? Nuovo scontro tra USA e Iran?
Secondo le ultime indiscrezioni, infatti, un'operazione di hacking apparentemente legata al governo iraniano ha preso di mira senza successo la campagna di rielezione del Presidente Donald Trump per il 2020.
Il portavoce della campagna di Trump, Tim Murtaugh, ha dichiarato: «Non abbiamo alcuna indicazione che nessuna delle nostre infrastrutture della campagna sia stata presa di mira».
Il rapporto sempre più teso tra gli Stati Uniti di Donald Trump e l'Iran, però, potrebbe davvero ripercuotersi sull'andamento delle elezioni presidenziali 2020. Il governo iraniano, dopo l'inasprimento delle sanzioni a suo carico da parte degli USA, avrebbe tutte le ragioni per ritorsioni - anche attraverso hacker - contro il Presidente.
(Money.it, 5 ottobre 2019)
L'Egitto chiude domani il valico di Rafah per l'anniversario dello Yom Kippur
IL CAIRO - Le autorità egiziane chiuderanno domani in entrambe le direzioni il valico di Rafah, al confine con l'enclave palestinese di Gaza, in occasione del 46mo anniversario della "Vittoria del 6 ottobre", in riferimento alla guerra dello Yom Kippur, il conflitto armato combattuto dal 6 al 25 ottobre 1973 tra Israele e una coalizione araba composta principalmente da Egitto e Siria. Il valico di frontiera verrà riaperto lunedì, 7 ottobre, per consentire il passaggio di palestinesi in entrata e in uscita dalla Striscia e l'arrivo di carichi umanitari a Gaza. Il governo ha proclamata per domani, domenica 6 ottobre, una giornata festiva.
(Agenzia Nova, 5 ottobre 2019)
Israele è in stallo e dentro al Likud c'è chi dice "sono pronto" a sfidare Bibi
ROMA - "lo sono pronto", ha scritto giovedì su Twitter Gideon Sa'ar, esponente del Likud. Pronto a sfidare Benjamin Netanyahu, pronto a prendersi il Likud, pronto, forse, anche a formare un governo. Incautamente il premier israeliano aveva lanciato l'idea di fare delle primarie in gran velocità e dare, per la prima volta in cinque anni, la possibilità agli altri centotrentamila membri del partito di scegliere il proprio leader. Sa'ar potrebbe essere uno sfidante valido e di tentare l'impresa sembra anche avere molta voglia - quel "sono pronto" è arrivato come un fulmine, determinato, deciso, ad aggiungere nuove perplessità tra le pieghe della politica israeliana - ma Netanyahu, consigliato da Haim Katz, avrebbe cambiato idea: sì alle primarie, ma senza fretta, meglio organizzarle tra un anno. La decisione non è definitiva, vari esponenti del Likud, i fedelissimi, hanno cercato di dissuadere il primo ministro, convinto che ottenere una forte vittoria a delle primarie ora potrebbe aiutarlo anche a ricostruire la sua leadership a livello nazionale e a far capire ad altri partiti che se speravano in un colpo di stato all'interno del Likud, rimarranno delusi. Netanyahu al momento gode di grande popolarità dentro al partito, ma la sua incapacità di formare una coalizione per governare il paese sta minando quell'aura di invincibilità politica che lo avvolge da dieci anni e quel "sono pronto" ha riempito il partito e i suoi avversari di molte domande e anche qualche curiosità. Quindi meglio aspettare, Katz potrebbe avere ragione, e in più le primarie, se fatte a breve, dovrebbero tenersi a novembre, gli sfidanti di Netanyahu avrebbero tutto il tempo di prepararsi mentre lui sarebbe ancora alle prese con le decisioni dei pubblici ministeri in merito alle accuse di corruzione, di frode e di abuso di fiducia. Tre ex collaboratori del primo ministro sono pronti a testimoniare contro di lui in questi giorni e il procuratore generale di Israele, Avichai Mandelblit, ex segretario di gabinetto di Netanyahu, dovrebbe comunicare la sua decisione entro poche settimane, forse proprio a novembre e il premier parteciperebbe con grande svantaggio anche se, in caso di incriminazione, non ha intenzione di dimettersi e secondo la legge israeliana può farlo fino a quando tutti i processi di appello saranno conclusi.
I media israeliani raccontavano che giovedì sera Netanyahu, aggrappato alla sua leadership, stesse continuando a spingere i suoi alleati a firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non sostenere nessun altro candidato, nessun altro capo di un altro partito politico fino alle prossime elezioni che spera di non dover convocare. E così continua lo stallo, né Netanyahu né il suo principale rivale, Benny Gantz, leader di Blu e bianco, il partito che il 17 settembre ha ottenuto più seggi, 33 contro i 31 del Likud, sono in grado di formare una coalizione che abbia la maggioranza dentro alla Knesset, il Parlamento israeliano. Nessuno dei due è in grado di governare senza l'altro, ma il tentativo del presidente Reuven Rivlin di spingere per un governo di unità nazionale sta sfumando. Netanyahu è addirittura tornato da Avigdor Lieberman - suo ex ministro prima degli Esteri poi della Difesa, uscito dal Likud per fondare un proprio partito, Yisrael Beytenu - nonostante il governo formato dopo le elezioni di aprile fosse caduto proprio a causa sua. Lieberman, questa volta, prima di parlare con il premier, aveva incontrato due settimane fa Benny Gantz, senza arrivare a un compromesso né con l'uno né con l'altro.
Il Likud e Blu e bianco erano invece vicini a un accordo, un governo condiviso con la premiership a rotazione ma proprio qui è sorto il problema: chi va per primo? Nessuno dei due si fida dell'altro. Gantz ha detto che il problema non è il Likud, ma sono Netanyahu e le sue accuse: "Se cede il suo incarico, entro un'ora ci sarà un governo di unità nazionale". Il partito non ha ignorato quelle parole, qualcuno ha iniziato a leggerci un'opportunità e Gideon Sa'ar potrebbe esser perfetto. Tuttavia Sa'ar, scrive Anshell Pfeffer, giornalista di Haaretz e biografo di Netanyahu, deve fare attenzione, se fuori dal Likud c'è grande attesa per questa successione, dentro al partito l'idea che qualcuno trami contro il leader non piace molto. E' vero, il Likud è sfinito dall'ambizione del suo leader, ma sa che a quell'ambizione deve anche molto. Quel "sono pronto" potrebbe essere un segnale, un modo per chiarire che lui c'è, Gideon Sa'ar si è messo a disposizione, ma le regole le fa sempre Benjamin Netanyahu.
(Il Foglio, 5 ottobre 2019)
Manifestazioni in Iraq represse nel sangue: 60 morti e 1.600 feriti
Uno dei paesi potenzialmente più ricchi del mondo ridotto letteralmente alla fame da un governo corrotto e ambiguo.
di Haamid B. al-Mu'tasim
È un bilancio pesantissimo quello derivante da quattro giorni di manifestazioni in Iraq di cui purtroppo nessuno in occidente ha parlato o ne parla.
60 morti e almeno 1.600 feriti tra i manifestanti, per lo più giovani iracheni che chiedono un Governo non corrotto, lavoro, servizi essenziali come acqua ed elettricità, una migliore gestione delle immense ricchezze del Paese.
Iniziate spontaneamente martedì scorso, con l'andare del tempo le manifestazioni dei giovani iracheni sono diventate sempre più grandi.
A nulla sono serviti i tentativi del Governo di Baghdad di limitare i raduni arrivando addirittura ad imporre un coprifuoco permanente, 24 ore su 24.
Giovedì i giovani iracheni si sono riuniti presso Tahrir Square a Baghdad, sfidando il coprifuoco. Dopo la preghiera della sera il loro numero è ulteriormente aumentato. Nessuno dei giovani iracheni ha però commesso atti di violenza.
Manifestazioni a Baghdad
Questo non è servito però ad evitare che le forze di polizia irachena prima tentassero con cariche di disperdere la folla e poi, con una decisione davvero criminale, iniziassero a sparare sulla folla.
Il bilancio, come detto, è pesantissimo. Almeno 60 morti tra i giovani iracheni e oltre 1.600 feriti tra i quali moltissimi in condizioni critiche.
Secondo testimoni oculari agenti di polizia hanno giustiziato almeno due persone con un colpo di pistola alla testa.
L'ufficio della Nazioni Unite a Baghdad ha chiesto subito spiegazioni al governo iracheno per questa strage assurda e si è sentito rispondere che le forze di polizia hanno reagito dopo che alcuni cecchini avevano aperto il fuoco contro di loro uccidendo due poliziotti. Una palese menzogna. Le manifestazioni era pittoresche ma mai violente.
«L'Iraq è diventato un paese maledetto» ha detto Jalaal, un giovane manifestante iracheno sciita. «Non c'è lavoro, manca l'elettricità, le persone muoiono di fame e di malattie. Questo non è ammissibile in un paese che dovrebbe essere tra i più ricchi del mondo. C'è troppa corruzione e mentre il popolo muore, in pochi si arricchiscono» ha concluso Jalaal.
All'inizio alcuni giornalisti e blogger iracheni hanno cercato di riprendere le manifestazioni e di intervistare i manifestanti, ma prima sono stati bloccati dalla polizia, poi non riuscendoci sono stati fatti oggetto di colpi di arma da fuoco.
Sulla durissima repressione è intervenuto anche la più importante autorità sciita del Paese, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, il quale prima ha esorato entrambe le parti a porre fine alle proteste, poi ha dichiarato che i politici e gli amministratori non hanno fatto il loro dovere mettendo i propri interessi personali davanti all'interesse collettivo.
«Il governo e le parti politiche non hanno soddisfatto le esigenze del popolo di combattere la corruzione», ha detto al-Sistani in un sermone pronunciato dal suo rappresentante Ahmed al-Safi nella città santa sciita di Karbala.
Durissimo anche l'influente religioso sciita Muqtada al-Sadr il quale ha chiesto alla sua forza politica di far cadere il governo e di andare subito a nuove elezioni. «Lo spargimento di sangue di giovani iracheni non può essere ignorato» ha detto al-Sadr in una dichiarazione.
L'Iraq si trova anche in una difficile posizione preso in mezzo alle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Iran e rischia di diventare l'ennesima zona di influenza iraniana, il tutto a discapito di una popolazione che ha bisogno di tutto meno che di ritrovarsi invischiata in una guerra che non la riguarda.
(Rights Reporters, 5 ottobre 2019)
Ebrei e non ebrei
Il paradosso dei rapporti fra l'occidente cristiano e il suo originario nocciolo ebraico. Un manuale.
di Antonio Gurrado
Il Martin Lutero che nel 1543 esortava a dar fuoco alle sinagoghe nell'allocuzione "Degli ebrei e delle loro menzogne" era lo stesso che, vent'anni prima, diceva che qualsiasi buon cristiano avrebbe voluto diventare ebreo. In questa duplice radice sta il paradosso dei rapporti fra i due grandi monoteismi lungo secoli e secoli della storia dell'occidente. I cristiani hanno vissuto l'attrito fra, da un lato, ostilità dottrinale anche estrema e, dall'altro, il riconoscimento del dato di fatto che l'ebraismo fosse la religione praticata da Gesù stesso. Gli ebrei invece, come spiega lo storico Franz Rothschild, nell'occidente secolare hanno dovuto scendere a patti con "una società improntata a leggi e princìpi derivati dalla dottrina cristiana"; al contempo però sono stati chiamati a fungere da modello adamantino per cristiani che sentivano di star perdendo terreno rispetto al secolarismo. Già negli anni Novanta il rabbino di Stoccarda Joel Berger lamentava di essere stato invitato a parlare dello Shabbat davanti a un pubblico cristiano al solo scopo di risultare "un catalizzatore utilizzato affinché i cristiani recuperassero il significato della domenica cristiana, che avevano perso". Berger era scettico al riguardo: "Abbiamo bisogno dell'altro", spiegò, "ma non possiamo garantire alle chiese quello che esse non sono in grado di garantire a sé stesse".
Alla luce di questo contesto è significativo che l'editrice Claudiana pubblichi la versione italiana di "Ebraismo. Guida per non ebrei", pubblicazione che apparve per la prima volta nel 1974 sotto forma di volantino informativo per le comunità protestanti tedesche e che da allora è stata periodicamente ampliata e aggiornata fino a prendere forma di un compiuto manuale, che copre ogni aspetto dell'ebraismo con chiarezza e sintesi. Di là dallo scopo divulgativo, questo testo (cui Daniele Garrone ha aggiunto specifici inserti rivolti al pubblico italiano) è utile a essere letto fra le righe per indagare il paradosso dei rapporti fra l'occidente cristiano e il suo originario nocciolo ebraico - specie oggi che in Germania ascende l'ultradestra e l'antisemitismo torna a essere un effetto collaterale da non sottovalutare di un sovranismo che si autoproclama difensore dell'identità religiosa.
Al Lutero antisemita si rifecero i pamphlet contro gli ebrei del clero tedesco sotto il nazismo: nel 1938 il vescovo della Turingia Martin Sasse esultava perché la notte dei cristalli trasformava l'esortazione al rogo delle sinagoghe in profezia. Ciò ha causato un filone di pentimento cristiano che, a partire dal secondo dopoguerra, ha cercato di indagare motivazioni e possibili rimedi: nel 1948 il sinodo regionale protestante in Sassonia ammette che "la frattura della comunione ecclesiale con gli ebrei ha portato a un rinnegamento dell'essenza stessa della chiesa"; a partire dal 1961 il Kirchentag, il grande raduno biennale del protestantesimo tedesco, questiona espressamente la tradizionale inimicizia dottrinale nei confronti degli ebrei; nel 1975 la Chiesa evangelica tedesca pubblica il primo studio sul rapporto fra cristiani ed ebrei fino a che nel 1980 addiviene a una piena ammissione di colpa con la conferma dottrinale della "permanente elezione di Israele". Quest'ultimo aspetto è tutt'altro che secondario, stante la tradizione iconografica che lungo tutta l'età moderna aveva diffuso fra gli strati più bassi della popolazione l'immagine di Cristo che toglieva la corona dal cranio di una donna che incarnava la Sinagoga. Nel 1984, addirittura, la Federazione luterana mondiale prende le distanze dalle parole deliranti di Lutero.
Il senso di colpa, prima o poi, scolorisce e le aspirazioni che detta, per quanto nobili, rischiano di venire sepolte dalla polvere: per questo conviene un rinnovamento dei rapporti fra i monoteismi ispirato alla provocazione del giovane Lutero, secondo il quale un buon cristiano dovrebbe farsi ebreo. La guida Claudiana, che ovviamente non intende convertire ma far conoscere e ragionare, punta molto su quest'aspetto positivo, a partire dall'elenco dei punti che possono far superare la tradizionale e un po' stucchevole contrapposizione fra il Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento, contraddetta dalla consonanza fra passi veterotestamentari ed evangelici. E' il fondamento della dichiarazione "Dabru Emet", ovvero "Dite la verità", stesa nel 2000 da rabbini e studiosi dell'ebraismo statunitensi e accolta in Europa. Partendo dal presupposto che ebrei e cristiani invocano lo stesso Dio e seguono i princìpi morali della Torah, la "Dabru Emet" si pone su un doppio piano. Dal versante celeste, ammette che le differenze fra cristiani ed ebrei non saranno superate se non quando Dio avrà redento il mondo intero, e allora appariranno infinitesimali. Dal versante terreno, indica a ebrei e cristiani il compito comune di perseguire la giustizia e la pace specificando che il nazismo (e la pratica antisemita in generale) non è stato un fenomeno cristiano. Ciò dimostra che i rigurgiti bestiali dello pseudo-cristianesimo di stampo sovranista non stanno né in cielo né in terra.
(Il Foglio, 5 ottobre 2019)
Riportiamo questo articolo soltanto perché il suo titolo ricorda lesistenza del tema e fa riferimento a fatti e documenti. Le conclusioni possono essere catalogate nella rubrica colte chiacchiere.
Dal kibbutz al red carpet. La storia della stilista israeliana che ha stregato Beyoncé & Co.
Shahar Avnet, la creatrice di moda amata dalle star della musica
Fabiana Magrì
TEL AVIV - Beyoncé ama i suoi abiti in tulle spumeggiante e se li fa creare su misura. Christina Aguilera è rimasta affascinata dall'ultima collezione, It's A Love Story. «Sogno ancora di vestire Rihanna», e quando l'israeliana Shahar Avnet punta un obiettivo, c'è da scommetterci che lo raggiungerà.
Gli inizi
Nata in un piccolo kibbutz della Galilea al confine con il Libano, Avnet (31 anni) ha studiato moda e design all' Accademia Shenkar di Tel Aviv, dove si è laureata nel 2016. «Prima di mettere piede al College, non avevo mai disegnato in tutta la vita ma lo volevo davvero tanto. Al colloquio di ammissione mi hanno chiesto cosa avrei fatto se non mi avessero preso. Ho risposto che sarei stata molto onorata di frequentare l'Accademia ma in ogni caso avrei trovato il canale per diventare quello che volevo essere. Ero una tabula rasa, non avevo idea dell'industria della moda e sai com'è - ammette la stilista - è stato un grande potere nelle mie mani. Perché quando sei consapevole, allora sei vulnerabile».
Il mito: Coco Chanel
«Quando sai chi è Coco Chanel e conosci la storia della moda, sai anche quanto sei piccolo. Io non lo sapevo perché non conoscevo la storia». Per raggiungere l'atelier di Shahar Avnet bisogna attraversare una sorta di Paese delle Meraviglie e forse non è un caso che la designer, allora emergente, abbia inaugurato lo studio in occasione del lancio della sua seconda collezione, Wonderland. Un montacarichi porta fino al quarto piano di un edificio brutalista nel quartiere industriale Kibbutz Galuyot, al sud di Tel Aviv. Il grigiore del lungo ballatoio è interrotto solo dai colori delle ringhiere che si affacciano su un cavedio.
L'Atelier
Sulla porta di ferro, un'insegna minimal: il nome della designer e il suo mantra Love Yourself. Varcata la soglia, si spalanca un ampio e luminoso loft con il pavimento in cemento grezzo, pareti e soffitto bianchissimi. E colori che esplodono dappertutto in una vertigine cromatica. Il divano fucsia, cuscini gialli e verdi, kimono e tulle fluo, disegni appesi ovunque. Su una colonna, tra gli sketch incorniciati e in vendita come opere d'arte, s'individua Beyoncé nell'abito color nude, uno dei due outfit su misura che Queen Bey ha commissionato ad Avnet un anno fa per alcune tappe del tour mondiale. «Sono molto felice e grata per il successo professionale ma una parte di me sorride. Nella vita privata non sono molto "social", non guardo la televisione, non so mai chi sono i nuovi famosi dei reality show. Resto sempre indietro ma mi piace così, è il mio modo di tenere separata la sfera professionale da quella privata, per me è fondamentale».
L'amore
La collezione Please Love Me parla del «mio desiderio di essere amata da tutti, un'esigenza universale ma allo stesso tempo un fallimento annunciato. Non è possibile ricevere solo apprezzamenti. È stato un tema che ha accompagnato tutta la mia vita, su cui ho riflettuto molto. Oggi sono pronta ad affrontare la disapprovazione e perfino il disprezzo purché io stessa riesca ad amare la mia vita».
Quando affronta un nuovo lavoro, Avnet parte sempre da un processo mentale. La prima collezione si chiamava Insanity Anxiety ed esprimeva la complessità e la presenza dentro se stessa di molte entità diverse, il desiderio di lasciarle libere di esprimersi nel caos, senza doverle compartimentalizzare. Nella seconda, Wonderland, ha raccontato come l'anno incredibile e pieno di sorprese che stava vivendo le sembrasse tutto una fantasia, mentre era realtà. La più recente, It's A Love Story, ripercorre in quattro capitoli (Fall in Love, Broken Heart, Awake? e True Love) più la conclusione della linea da sposa, le sfumature della sua storia d'amore: divertimento, solitudine, dolore e felicità.
Le clienti star
Di questa collezione fa parte l'impermeabile metallizzato Golden & Black Tears scelto da Christina Aguilera. Abiti drammatici e pieni di colore, che immediatamente hanno attirato l'attenzione dell'industria musicale. «Scoprire questo possibile sbocco è stata una rivelazione. Fai qualcosa - spiega la designer - ma non sai esattamente perché, o meglio, lo fai perché ti piace, per amore e per passione. E poi viene fuori che è perfetto per le grandi star di cui sei fan! - Abiti asimmetrici, romantici, onirici. «Adoro sognare e ho un rapporto magico con i sogni fin da quando ero bambina. Sono il modo in cui mi connetto con altri posti che non sono qui».
I sogni
«Credo che i sogni siano ponti. Quando siamo svegli possiamo toccare e vedere cose e persone. Quando dormiamo, tutti i sensi sono staccati e resta acceso solo il cervello, l'inconscio. Continuiamo a fare ciò che faremmo da svegli, anche se non con il corpo: vediamo persone, andiamo in altri luoghi, fantastichiamo e pensiamo alla giornata trascorsa, ma con una prospettiva diversa».
Il tulle
Sarà sempre il tulle il marchio di fabbrica di Shahar Avnet? «Per la nuova collezione ho iniziato a sperimentare tessuti diversi però non abbandonerò i tulle perché mi piacciono. Finché un materiale mi trasmette qualcosa, continuo a usarlo, al di là delle tendenze. È come nella vita, se ci pensi: si cambia, ma non è che ogni sei mesi butti via il passato. Cresci anche restando nello stesso posto. Però - ammette - penso di avere il dono di fiutare i trend prima che diventino di massa».
(La Stampa, 5 ottobre 2019)
La Menorah di Anticoli alla Comunità Ebraica di Roma
Una donazione a favore della Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizio Sociale
Lunedì 7 ottobre, (ore 17,00 presso la Sala Margana di Roma, Piazza Margana, 41) in occasione della presentazione delle attività culturali e sociali dell'anno 2019-2020 della Fondazione Giuseppe Levi Pelloni, verrà donata alla Comunità Ebraica di Roma una copia della quattrocentesca Menorah di Anticoli, l'odierna Fiuggi.
A ricevere una copia della Menorah dalle mani di Pino Pelloni, Segretario Generale della Fondazione, sarà Ruth Dureghello, Presidente della Comunità ebraica della Capitale.
Per l'occasione il Direttivo della Fondazione Levi Pelloni, su proposta della vice presidente Luciana Ascarelli e dei consiglieri Paola Sonnino, Margherita Ascarelli e Rossana Scazzocchio, ha all'unanimità approvato una donazione a favore della Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizi Sociali presieduta da Piero Bonfiglioli.
La Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizio Sociale di Roma è un'antica istituzione riconosciuta con Regio Decreto del 1885, con compiti di assistenza e beneficenza, che restano la primaria attività dell'Ente ancora oggi. Nata dalla fusione di numerose confraternite, piccole organizzazioni con risorse molto limitate che, negli oltre 300 anni di reclusione degli Ebrei nel ghetto, avevano svolto un'indispensabile attività di sostegno morale e materiale a favore delle persone bisognose.
Oggi la Deputazione Ebraica è l'Ente di assistenza e beneficenza della Comunità Ebraica di Roma ed è impegnata quotidianamente nell'erogazione di servizi di consulenza familiare, analisi e trattamento delle problematiche sociali, consulenza psicologica ad adulti e adolescenti, supporto socio-psicologico ed assistenza domiciliare ad anziani soli, supporto psico-pedagogico a bambini in difficoltà e molto altro. Soprattutto, non tradendo mai la propria aspirazione originaria, la Deputazione è accanto alle famiglie che vivono in condizioni di difficoltà e di indigenza: per ciascuna di loro è previsto un piano di presa in carico totale, che da una parte assicura alle famiglie i bisogni primari del quotidiano e dall'altra predispone tutte le azioni necessarie per uscire dalla condizione di difficoltà.
Il pomeriggio alla Margana sarà allietato dalla conferenza spettacolo di e con Salvatore di Fede sul tema "Le donne nel mito".
(com.unica, 4 ottobre 2019)
"Giusti, una lezione per i nostri giovani. Al Monte Stella un tempio civile"
Domenica l'inaugurazione a Milano
di Daniel Reichel
"Avendo conosciuto gli ingiusti, tanti, ho sempre trovato straordinario il coraggio dei giusti. Non si tratta solo di un titolo: giusto è chi ha fatto una scelta eroica. Per questo, dopo Yad Vashem, sono molto contenta che ci sia un luogo anche nella mia Milano che li onori". Il luogo di cui parla a Pagine Ebraiche la senatrice Liliana Segre è il Giardino dei Giusti del Monte Stella, una realtà nata nel 2003 che domenica vedrà l'inizio di un nuovo capitolo. "Dopo cinque anni di lavori e di battaglie, abbiamo completato il progetto del Giardino dei Giusti. - spiega Gabriele Nissim, il presidente di Gariwo, l'associazione motore di tutta l'iniziativa - Siamo partiti da lontano: nel 2003 abbiamo iniziato piantando alcuni alberi e ispirandoci allo Yad Vashem di Gerusalemme, abbiamo creato l'Associazione di cui fanno parte il Comune di Milano e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, progressivamente siamo cresciuti, abbiamo inaugurato altri giardini, siamo andati in Europa e abbiamo ottenuto dal Parlamento Ue il riconoscimento della Giornata europea dei Giusti, poi quello del Parlamento Italiano. Abbiamo costruito qualcosa dal valore storico, con un impatto politico e culturale concreto, rendendo universale il concetto profondamente ebraico dei giusti". Un concetto, spiega Nissim, che ha alla base l'idea richiamata da Liliana Segre di responsabilità della scelta: "Ricordare un giusto significa parlare anche degli indifferenti. Chi ha fatto è andato sempre contro la maggioranza silenziosa, contro le leggi ingiuste, ha agito sempre come minoranza, mettendo in discussione la zona grigia rimasta indifferente ai soprusi e alle discriminazioni. Per questo i giusti portano un messaggio di responsabilità ai nostri giovani. Ci fanno capire che ognuno può sempre essere arbitro del proprio destino, scegliendo di fare il bene". Il bene è una scelta, ribadisce il presidente di Gariwo, e lo raccontano i giusti che il Giardino sul Monte Stella onora. Un luogo già di per sé simbolico: il Monte è infatti una collinetta artificiale formata con i cumuli delle macerie dei bombardamenti che stravolsero Milano durante la Seconda guerra mondiale. Un progetto ideato dall'architetto Piero Bottoni, che lo dedicò alla moglie Elsa Stella, da cui la collina prende il nome.
I lavori di riqualificazione dell'area legati al Giardino hanno avuto una vita travagliata, con incomprensioni con alcuni gruppi di quartiere che sostenevano che il progetto stravolgesse le idee di Bottoni per il luogo. "Abbiamo combattuto per cinque anni, abbiamo subito il blocco dei lavori, abbiamo fatto ricorso al Tar e abbiamo avuto ragione. Dal ministero dei Beni Culturali ci hanno fermato per poi dire che il progetto andava benissimo. Insomma è stata lunga ma ce l'abbiamo fatta con tenacia e determinazione", aggiunge Nissim.
Per il vicepresidente UCEI Giorgio Mortara, "l'inaugurazione di domenica (con iniziative a partire dalla mattina e con la Testimonianza di Liliana Segre) è un riconoscimento al lavoro svolto in questi anni da Gariwo, dall'Associazione del Giardino dei Giusti, dall'architetto Stefano Valabrega. Sono state superate le difficoltà con alcuni gruppi del quartiere che vedranno con i loro occhi l'importanza del progetto. È un luogo per la città e per i suoi cittadini dal grande valore morale". Gli fanno eco le parole dell'assessore all'Urbanistica, Verde e Agricoltura Pierfrancesco Maran: "L'inaugurazione del Giardino dei Giusti completato è il coronamento di un lungo percorso svolto nelle istituzioni a supporto di una delle migliori idee che in questi anni ci son state sottoposte, merito di Gariwo e Gabriele Nissim. - afferma Maran - La cosa più bella è che è il nuovo inizio di un luogo che parla alle giovani generazioni. Che lo fa cercando di non perdere la memoria di storie, uomini, donne e sacrifici. E di raccontarle al futuro. Perché nessuna lezione è utile se non ci serve per le scelte che prenderemo domani". Un'analisi che coincide con l'idea di Nissim che il Giardino sia un "tempio civico per Milano, un luogo di educazione alla responsabilità con spazi costruiti per favorire il confronto tra diverse culture, religioni, tradizioni. Non è un caso se abbiamo chiesto a rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, di partecipare così come verrà l'arcivescovo di Milano Mario Delpini, la pastora della Chiesa Valdese Daniela Di Carlo e ancora i rappresentanti del mondo islamico italiano e molti altri. Vogliamo che sia uno spazio per tutti".
"Il Giardino - spiegano da Gariwo - è stato strutturato in modo tale che chi passeggia tra i cippi e gli alberi possa essere spinto a riflettere su come replicare le Storie dei Giusti nella vita di tutti i giorni.
Per questo motivo sono stati predisposti due ambienti diversi: uno è lo 'Spazio del Dialogo', una piazzetta molto raccolta in cui riflettere da soli o in piccoli gruppi; l'altro è un ampio anfiteatro circondato dagli alberi, dove i giovani si possono confrontare collettivamente sul concetto di responsabilità e su come applicarlo nella vita di tutti i giorni". Ai giovani si rivolge il pensiero del Presidente del Consiglio Comunale Lamberto Bertolé: "Il Giardino è un luogo straordinario della città che consente di confrontarci con chi di fronte alla chiamata della storia ha scelto di mettere a rischio la propria vita per salvare chi era in pericolo. L'auspicio è che i giovani capiscano che anche loro possono far parte del cambiamento ma serve il coraggio della scelta".
Domenica sarà presentata anche l'audio guida, presente sull'app izi.travel, con un tour completo attraverso le storie dei più di 60 Giusti onorati al Monte Stella o scegliendo le figure e le tematiche che più interessano. A cui continueranno ad aggiungersene di nuove, promette Nissim che spiega di avere ancora tanti progetti in cantiere: "sulla scia della Carta delle responsabilità che abbiamo presentato lo scorso anno, stiamo lavorando ad altre Carte: una sui valori nello sport, uno sul contrasto all'odio sui social network, una sul tema di grande attualità del cambiamento climatico". L'appuntamento di domenica dunque, a cui hanno aderito diverse autorità e personaggi del mondo della cultura come l'attore Claudio Bisio e gli scrittori Antonio Scurati (Premio Strega 2019) e Gaia Manzini, è uno dei tanti capitoli di una storia che guarda al futuro nel segno dei giusti. "Il nostro obiettivo - conclude Nissim - è quello di insegnare ai nostri giovani a prevenire il male prima che accada. Primo Levi ha sempre detto che il male non avviene in un'isola separata ma nasce e si espande nella quotidianità. Si tratta di scegliere di fermarlo".
(moked, 4 ottobre 2019)
I luoghi della Memoria, i posti e il materiale della shoah
voglio condividere le immagini che ho reperito nel campo di concentramento di Auschwitz. Le voglio condividere e divulgare perché lo ritengo indispensabile; è indispensabile per capire realmente le atrocità della lucida follia inartata da quelli che possiamo definire genio del male.
I posti, quei luoghi, quel materiale raccolto rendono più reale quello che sarebbe inimmaginabile ma tristemente veramente accaduto.
Un silenzio assordante copre l'intera area, un vuoto nell' anima, una inspiegabile sensazione mista tra stupore, rabbia e incredulità di così efferata disumanità.
Non saprei quanto le immagini possano surrogare la visita personale dei campi di sterminio, ma nel mio piccolo voglio dare la mia testimonianza affinché non si possa ripetere mai più: l'indifferenza e la non cultura sono stati complici, nella quotidianità non giriamo la testa difronte a gesti di discriminazione e di sopraffazione.
Ringrazio la Uil Nazionale che ha organizzato, e mi ha dato la possibilità di partecipare, a questo " Viaggio nella Memoria ". Grazie, sarò portatore di testimonianze.
(San Salvo.net, 4 ottobre 2019)
Iran - Presentati nuovo veicolo corazzato, robot e drone di supporto allesercito
TEHERAN - Le forze armate iraniane hanno presentato oggi cinque nuovi prodotti dell'industria bellica nazionale, tra cui il mezzo corazzato leggero Ruintan e il robot Heydar 1. Lo riferisce l'agenzia di stampa iraniana "Irna". Alla cerimonia di presentazione dei sistemi, organizzata a Teheran, hanno partecipato il vicecapo di Stato maggiore della difesa iraniano, il generale Mohammad Hossein Dadras, e il capo di Stato maggiore dell'esercito, il generale Kiumars Heydari. Il Ruintan è un veicolo leggero all'avanguardia con corazzatura in acciaio a prova di proiettile. Secondo quanto riferisce "Irna", il veicolo è particolarmente agile e può essere utilizzato in teatro urbano come in campo aperto. Il robot di supporto all'esercito Heydar 1 ha sei ruote motrici, può trasportare carichi pesanti e percorrere diversi tipi di terreno, anche accidentato e impervio. Un altro prodotto presentato che sarà inquadrato nell'esercito iraniano è il drone Farpod, caratterizzato dalle dimensioni ridotte e dal lancio a mano, ideato per operazioni di ricognizione. Il Farpod è dotato di pilota automatico e di fotocamere ad alta risoluzione.
(Agenzia Nova, 4 ottobre 2019)
Israele: limprenditore Marco Carrai nuovo console per Toscana, Emilia e Lombardia
FIRENZE - L'imprenditore fiorentino Marco Carrai è il nuovo console onorario di Israele per Lombardia, Toscana e Emilia Romagna. Ritenuto vicino all'ex premier Matteo Renzi, Carrai, 44 anni, è esperto in cybersecurity ed è pure presidente di Toscana Aeroporti
. La nomina è stata annunciata sui social dal neo ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar
La nomina del nuovo console è stata formalizzata nei giorni scorsi dopo che già da febbraio erano circolate le prime anticipazioni in merito.
"Auspico una stretta collaborazione per rafforzare le già eccellenti relazioni tra i due Paesi", ha scritto l'amb. Eydar, rivolgendo a Carrai i suoi auguri per "l'importante mandato" conferitogli.
Così in pochi mesi a Firenze aprirà per la prima volta una sede di un consolato di Israele.
(Giornale Diplomatico, 4 ottobre 2019)
Antico cimitero ebraico di Mantova: il Rabbino Ginsberg si appella ai cittadini
"Una società sana ha rispetto dei più vulnerabili e dei morti". Il Rabbino Abraham Ginsberg ha inviato una lettera aperta ai cittadini e residenti di Mantova.
La polemica sul Cimitero Ebraico
Parte degli ebrei mantovani e di tutto il mondo sono uniti per una lotta che pare, al momento, darli come sfavoriti. La polemica gira attorno all'antico Cimitero Ebraico di Mantova risalente al 1442, situato all'interno dell'area del progetto di Mantova Hub che sta portando ad un lavoro di riqualificazione di una ex caserma militare che vede comprendere anche la zona del cimitero in questione.
Il cimitero era stato dismesso, come affermato dallo stesso Rabbino, prima di essere obbligatoriamente ceduto agli austriaci, venendo poi riscoperto nel 2010 dopo oltre 50 anni di degrado e incuria. Nel frattempo il Comune di Mantova, il Politecnico di Milano e l'Unione delle Comunità Ebraiche hanno deciso di realizzare il progetto di riqualificazione dell'intera area che risultava essere semi abbandonata orma da decenni.
Dopo la decisione dell'amministrazione sono emerse le perplessità di seguito riportate da parte di alcuni esponenti della comunità ebraica internazionale, tra cui il Rabbino Ginsberg. Nel progetto del Comune è prevista la realizzazione di un ponte al di sopra del cimitero in modo che questo non possa essere circondato, in aggiunta ad una Casa della Memoria dedicata all'importante struttura ebraica.
La lettera aperta ai cittadini inviata dal Rabbino Abraham Ginsberg
Il Rabbino Abraham Ginsberg ha inviato una lettera aperta ai cittadini e residenti di Mantova relativa all'Antico Cimitero Ebraico di Mantova, direttamente dal Comitato per la conservazione dei cimiteri ebraici in Europa - Londra, Regno Unito.
"A seguito della pubblicazione, la scorsa settimana, della nostra lettera aperta al sindaco di Mantova riguardo ai lavori di costruzione all'interno dello storico cimitero ebraico, siamo stati inondati di messaggi di sostegno da parte di residenti e cittadini di Mantova. Attestati di sostegno sono arrivati da coloro, ebrei e non ebrei, che desiderano dissociarsi dalle proposte del sindaco e del consiglio comunale di Mantova riguardo a questa storica e sacra casa di eterno riposo. Siamo profondamente toccati da questi atti di sostegno e, poiché non riusciamo a rispondere direttamente a tutti coloro che ci hanno contattato, scriviamo qui per ringraziare sinceramente tutti voi.
Secondo la legge ebraica, il cimitero possiede un grado di santità maggiore di quello della sinagoga. La legge ebraica è anche molto chiara riguardo al fatto che una volta che una tomba viene chiusa, essa non può essere riaperta. Qualsiasi tentativo di profanare un cimitero ebraico alterando la sua struttura o aspetto è considerato dalla legge e sensibilità ebraiche come un atto di estremo sacrilegio.
Questo è uno dei tanti motivi per cui da sempre gli ebrei acquistano la terra su cui seppelliscono i propri defunti, poiché ciò dà l'opportunità agli ebrei locali di acquistare, privatamente e a proprie spese, i singoli appezzamenti per la propria sepoltura, sapendo bene al momento dell'acquisto che si tratta di un acquisto perenne. E difatti, la legge italiana garantisce la perpetuità delle sepolture ebraiche, come stabilito dall'articolo 16 della legge 101/1989."
- Ci sono documenti che tutelano il Cimitero Ebraico
"In aggiunta, quando la comunità ebraica di Mantova fu costretta a vendere il proprio cimitero ebraico agli austriaci nel 1852, la vendita stabilì legalmente e chiaramente i vincoli e limitazioni posti su quella vendita. Tutti questi fatti possono essere verificati da prove documentate.
E se non bastasse, il paragrafo 5 della risoluzione 1883 (2012) dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa di cui l'Italia è uno stato membro, dice chiaramente: "Il danno subito dai siti di sepoltura ebraici in Europa non si limita alla profanazione delle tombe, ma molto spesso è il risultato di una gestione inadeguata, della mancanza di finanziamenti, del mancato rispetto delle misure di protezione, di un'adeguata pianificazione urbana o dell'abuso di proprietà".
- Una società sana ha rispetto dei più vulnerabili e dei morti
""Il Sindaco si è espresso sulla necessità di rigenerare questa particolare area e del suo dovere nei confronti dell'elettorato, i cittadini di Mantova che lo hanno eletto. Eppure non abbiamo ancora sentito parlare del suo rispetto nei confronti dei cittadini di Mantova che vissero, lavorarono e morirono a Mantova. Cittadini ebrei di Mantova di un'epoca passata che riposano nello storico cimitero ebraico. Certo è che ci sono eminenti rabbini italiani di fama mondiale che sono sepolti in questa sacra casa di riposo eterno, saggi come Moshe Zacuto e Menachem Azaria da Fano. Ma nel complesso, la maggior parte delle persone che sono sepolte in questo cimitero erano semplici cittadini di Mantova.
La volontà di migliorare la vita dei vivi deve essere pur sempre accompagnata dal rispetto per coloro che non ci sono più. Qualsiasi tipo di lavoro compiuto sul cimitero che comporti il sacrilegio anche di una sola tomba costituirebbe una macchia indelebile nella gloriosa e impeccabile storia di Mantova, città della cultura e delle arti.? Lo stato di salute di una società può essere giudicato dal modo in cui vengono trattati i propri membri più vulnerabili. Ma include anche il rispetto che mostra per i suoi morti. "
- "Fatevi un esame di coscienza"
"Alla luce di quanto sopra chiediamo umilmente a coloro che hanno intenzione di utilizzare i capannoni o edifici che si trovano in questa sacra casa di riposo eterno, di farsi un esame di coscienza. L'acquisto, l'affitto o persino la concessione gratuita di tali locali sarebbe un atto di cui essere orgogliosi? O non sarebbe meglio riconoscere il fatto che i defunti di Mantova si sono guadagnati il diritto ad essere lasciati in pace?"
(Gazzetta di Mantova, 4 ottobre 2019)
Papa Francesco e l'uragano di nome Sarah
Accuse contro la teologia ambientalista. Sberle contro la mondanità. Verità sul fanatismo islamista. Difesa del celibato con punture di spillo in vista del Sinodo. La centralità dell'Europa. Un'altra chiesa possibile: un libro scandalo.
di Claudio Cerasa
Robert Sarah, come sanno bene i lettori di questo giornale, è un famoso e tosto cardinale guineano. Nel 2001, Papa Giovanni Paolo II, a cui fu molto legato, lo nominò segretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli. Nel 2010, Papa Benedetto XVI, a cui tuttora è molto legato, gli concesse la porpora. Nel 2014, quattro anni dopo, Papa Francesco lo scelse come prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Sarah è una voce molto importante, molto ascoltata, molto appassionata. Negli ultimi tempi, in coincidenza con il pontificato di Papa Francesco, è diventato uno dei cardinali maggiormente seguiti da quello che potremmo volgarmente definire come il fronte con minor tasso progressista della chiesa e da questa settimana Sarah farà parlare molto di sé grazie a un libro scandaloso, pubblicato con Cantagalli, che da ieri si trova in libreria. Il libro ha un titolo dai toni apocalittici, Si fa sera e il giorno ormai volge al declino, e il contenuto del saggio di Sarah, che lui stesso definisce in alcuni passaggi scandaloso, "perdonatemi se alcune mie parole vi scandalizzeranno", rischia, per la chiesa di oggi, di avere la forza di un uragano. Nel suo saggio, che arriva a pochi giorni dall'atteso e controverso Sinodo sull'Amazzonia, Sarah, con uno stile per cosi dire eminenziale, non critica mai direttamente Papa Francesco, anzi più volte lo elogia all'interno del libro (viene nominato 55 volte, Papa Benedetto 132) ma segnala fattori di crisi che sfuggono all'agenda bergogliana. Al centro del pensiero di Sarah al netto di critiche molto e troppo severe alla società liberale, al liberalismo, al capitalismo, al consumismo e agli eccessi del multiculturalismo vi è l'idea che la chiesa non possa sopravvivere senza avere a cuore il futuro dell'Europa e il destino dell'occidente ("La decadenza dell'occidente è il risultato dell'abbandono da parte dei cristiani della loro missione") ma vi è soprattutto l'idea che "la crisi europea sia essenzialmente una crisi spirituale, che affonda le sue radici nel rifiuto della presenza di Dio nella vita pubblica". Senza Europa, la chiesa non può andare lontano. Senza Dio, l'Europa non può andare lontano. Sarah ovviamente non si ferma a questo e come un uragano arriva a scoperchiare diverse verità della chiesa moderna. Il cardinale critica la chiesa che ha trasformato l'ambientalismo in una religione, con i suoi fedeli e i suoi infedeli, e dice di provare "rammarico del fatto che molti vescovi e molti sacerdoti trascurino la loro missione essenziale, che consiste nella propria santificazione e nell'annuncio del Vangelo di Gesù, per impegnarsi invece in questioni sociopolitiche come l'ambiente, le migrazioni o i senzatetto: è impegno lodevole occuparsi di questi temi ma se trascurano l'evangelizzazione e la propria santificazione si agitano invano. La chiesa non è una democrazia nella quale alla fine è la maggioranza a prendere le decisioni". Poi denuncia il "degrado della liturgia trasformata in spettacolo, la negligenza nelle celebrazioni e nelle confessioni, la mondanità spirituale ne sono solo i sintomi", attaccando "i sacerdoti che desiderano che le proprie azioni siano efficaci, apprezzate e valutate secondo criteri mondani" (non crediamo, dice Sarah, di poter vivere da cristiani adottando tutti gli atteggiamenti di un mondo senza Dio: "A forza di non vivere come si crede si finisce per credere come si vive"). E ancora accusa "i ferventi sostenitori della postmodernità", tra i quali anche i fautori del gender che vogliono decostruire la famiglia, secondo i quali "i valori tradizionali della civiltà giudaico-cristiana sarebbero desueti, inutili e pericolosi". E, con parole che ricordano gli affondi di Ratzinger a Ratisbona, mette in rilievo i pericoli di un "islamismo fanatico e fondamentalista", che "promuove una religione fondata sulla pura obbedienza a una legge estrinseca che non si rivela nella coscienza, ma si impone attraverso la società politica", che "vive la tentazione di una religione che rifiuta di lasciarsi purificare dalla ragione" e che al contrario del cristianesimo tende a imporre "il proprio credo contro la ragione, con la forza, con la violenza" mentre "predica un dio che può ordinare ciò che va contro alla dignità dell'uomo e viola la coscienza e la libertà". Al centro dei ragionamenti di Sarah vi è l'idea che la chiesa del futuro debba resistere alla tentazione più grande del nostro tempo, la mondanità, il mondo senza Dio, e per questo il compito degli uomini di fede è combattere faccia a faccia un ateismo viscido e sfuggente che Sarah definisce fluido.
Ma per capire bene la profondità della critica del cardinale africano può essere utile attingere ai contenuti di una lunga intervista rilasciata pochi giorni fa da Sarah al National Catholic Register, utile a capire meglio in che senso l'obiettivo del saggio è proprio quello di denunciare i problemi della chiesa di oggi. "Il declino della fede nella Presenza reale di Gesù nell'eucaristia è al centro dell'attuale crisi della chiesa e del suo declino, specialmente in occidente (risalto aggiunto). Vescovi, sacerdoti e fedeli laici siamo tutti responsabili della crisi della fede, della crisi della chiesa, della crisi sacerdotale e della scristianizzazione dell'occidente". Sarah, nel suo ragionamento, definisce "falsi profeti" tutti "coloro che annunciano ad alta voce rivoluzioni e cambiamenti radicali" e che nel fare questo "non stanno cercando il bene del gregge: cercano la popolarità dei media al prezzo della verità divina" e l'attualità del suo pensiero ha una forza non indifferente se si pensa proprio ai temi del Sinodo sull'Amazzonia di cui ha scritto a lungo Matteo Matzuzzi in queste settimane e di cui ci occuperemo largamente nel Foglio del lunedì con un'intervista esclusiva che si aprirà la prossima settimana e sul quale il cardinale ha qualcosa in più di un sospetto: "Temo che alcuni occidentali confischeranno questa assemblea per portare avanti i loro progetti. Penso in particolare all'ordinazione degli uomini sposati, alla creazione di ministeri per le donne o alla giurisdizione dei laici... Approfittare di un sinodo particolare per introdurre questi progetti ideologici sarebbe una manipolazione indegna, un inganno disonesto, un insulto a Dio, che guida la sua chiesa e gli affida il suo piano di salvezza. Inoltre, sono scioccato e indignato per il fatto che il disagio spirituale dei poveri in Amazzonia venga usato come pretesto per sostenere progetti tipici del cristianesimo borghese e mondano". Al centro del pensiero di Sarah vi è la possibilità che il Sinodo sull'Amazzonia si trasformi in un sinodo per abolire il celibato, "uno dei modi concreti in cui possiamo vivere questo mistero della croce nelle nostre vite che inscrive la croce nella nostra carne e per questo è diventato insopportabile per il mondo moderno".
E su questo punto, nel suo libro, Sarah sembra voler rivolgere un messaggio a tutti coloro che hanno scelto di affrontare il tema in modo troppo obliquo. Gesuitico? "Tra le cause delle moltiplicate infedeltà all'impegno del celibato ricorda Sarah Benedetto XVI registra `una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari'. A mio avviso, questo punto è particolarmente importante. Abbiamo bisogno di ritrovare il senso della pena. Un sacerdote che commette un errore deve essere punito. Ciò significa dimostrare carità nei suoi confronti, perché così gli si dà la possibilità di correggersi. Ma è anche segno di giustizia verso il popolo cristiano. Un sacerdote che venga meno alla castità deve subire una pena". Non sappiamo quante possibilità ci siano che la linea di Sarah possa conquistare la maggioranza del prossimo Sinodo (poche, a guardare l'elenco dei partecipanti). Ma se così dovesse essere per il nuovo presidente del Tribunale di prima istanza del vaticano, Giuseppe Pignatone, potrebbe esserci più lavoro del previsto.
(Il Foglio, 4 ottobre 2019)
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Una maledetta idolatria
Secondo il cardinale Sarah "Il declino della fede nella Presenza reale di Gesù nell'eucaristia è al centro dell'attuale crisi della chiesa e del suo declino, specialmente in occidente. Potrebbe essere vero il contrario. Una diabolica trasformazione della verità evangelica in una falsità di comodo finalizzata alla gestione sacrale del potere nel nome di Gesù è arrivata fatalmente a degenerarsi e trasformarsi in unaltra falsità che dovrebbe apparire più digeribile nellattuale situazione culturale. La negazione della verità si è evoluta nello scioglimento della verità. Cercare di ricostruire una verità disciolta con il ritorno a una falsità originaria è lultima forma di follia religiosa organizzata. Si può esaminare la Riforma protestante da tanti punti di vista, ma in ogni caso in quel momento storico il contrasto metteva in gioco questioni di verità, come la domanda: E vero che nellostia consacrata si trova la presenza reale di Gesù? Nel catechismo riformato di Heidelberg si trova una risposta:
DOMANDA - Quale differenza vi è fra la Cena del Signore e la Messa papista?
RISPOSTA - La Cena ci attesta che abbiamo perdono completo di tutti i nostri peccati mediante l'unico sacrificio di Gesù Cristo, per come lo ha adempiuto Egli stesso una volta alla croce; e che mediante lo Spirito Santo veniamo incorporati in Cristo," il quale è ora con il Suo vero corpo in cielo alla destra del Padre" e quivi vuol essere adorato." La Messa invece insegna che i vivi ed i morti non hanno perdono dei peccati mediante la passione di Cristo a meno che Cristo sia sacrificato ancora per loro quotidianamente dai preti officianti; e che Cristo è corporalmente sotto le specie del pane e del vino e perciò deve essere in essi adorato. E così la messa non è in fondo null'altro che un rinnegamento dell'unico sacrificio e della passione di Gesù Cristo, ed una maledetta idolatria."
M.C.
(Notizie su Israele, 4 ottobre 2019)
Yair Lapid rinuncia alla rotazione per il posto di Primo Ministro
Il numero 2 della lista Blu Bianco, Yair Lapid, ha annunciato che ha abbandonato il suo accordo con il leader del partito Benny Gantz sulla rotazione per la carica di primo ministro, per facilitare l'istituzione di un governo d'unità.
"Per il bene di un governo di unità, rinuncio alla rotazione, per me è molto più importante che ci sia unità nel paese, che non ci siano altre elezioni. Il mio desiderio è che questo paese inizi un processo di guarigione", ha detto Lapid in una riunione della sua formazione alla Knesset.
"I cittadini di Israele meritano di meglio; meritano qualcosa di meglio di quello che sta succedendo in questo edificio; meritano un governo di unione stabile, con un primo ministro che non sia incriminato, meritano un governo che si concentri su salute, istruzione e sicurezza, anziché su corruzione, frode e abuso di fiducia", ha aggiunto.
"In questo governo ci sarà una rotazione". Benny Gantz sarà il primo ministro per i primi due anni. Non c'è altra opzione. Se fra due anni Netanyahu avrà completato il suo processo giudiziario e verrà assolto da ogni accusa. non ci saranno problemi: potrà tornare. E spero che sia quello che gli succederà. Non ci sarà una rotazione a tre: non è serio. Il paese è una cosa seria", ha concluso.
Il leader del partito Yisrael Beitenu, Avigdor Lieberman, si è congratulato con Lapid per la sua decisione, che ha definito "nobile e importante".
(i24, 3 ottobre 2019 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Caso Priebke, lo Stato chiede il rimborso delle spese processuali a Pacifici e Vecellio
Erich Priebke continua a far parlare di sé. Condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, il nazista è tornato a occupare le prime pagine dei giornali anche dopo la sua morte avvenuta l'11 ottobre 2013.
Nel 1996 Erich Priebke querelò il futuro presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici e il giornalista del Tg2 Valter Vecellio con l'accusa di essere i mandanti del suo sequestro di persona.
I due sono stati assolti in tutti i gradi di giudizio.
C'è un però. Secondo la legge italiana, infatti, se una delle due parti risulta essere nullatenente, le spese processuali sono a carico dell'altra parte, anche se vincitrice.
Il caso ha voluto che il boia nazista Erich Priebke sia risultato nullatenente e quindi lo Stato italiano ha chiesto che le spese per il processo siano pagate da Pacifici e Vecellio, il quale ha commentato così l'accaduto:
"È una vicenda assurda e kafkiana, resa ancora più odiosa nel caso specifico: un criminale nazista si dichiara vittima di un reato giudicato inesistente, si riconosce che due cittadini sono stati ingiustamente chiamati in giudizio e si sono dovuti difendere per qualcosa che non hanno fatto; per beffa e oltraggio, uno Stato che non ha saputo farsi rimborsare chiede loro di pagare al posto del condannato".
In merito a questa grottesca vicenda, la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, ha scritto una lettera alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, in cui si legge:
"Voglio far giungere al dott. Vecellio la solidarietà e la vicinanza della Comunità Ebraica di Roma in questa assurda vicenda che lo vede condannato al pagamento delle spese processuali insieme a Riccardo Pacifici nel procedimento contro il criminale nazista Erik Priebke. Un epilogo assurdo ed inaccettabile di un processo che ha aggiunto infinita sofferenza al dramma patito dalla Comunità ebraica e dalla città di Roma e che ha visto impegnata la società civile per far condannare il responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Sono stati anni difficilissimi in cui, a partire da Giulia Spizzichino che lo ha rintracciato in Sud America, agli avvocati che ci hanno accompagnato in quel processo, si è cercato di rendere giustizia per le oltre 335 vittime di quel massacro assurdo e spietato. Giustizia è quello che abbiamo sempre chiesto, non certo per vendetta, ma per restituire dignità alla memoria di quegli uomini e delle loro famiglie. Oggi questa vicenda assume ancora una volta dei contorni assurdi, con un'ennesima beffa che si aggiunge al danno di non aver visto il carnefice scontare realmente la pena dovuta. Mi auguro sinceramente che le istruzioni le autorità sappiano comprendere quanto gravi possono essere gli effetti e le ricadute di questa stortura giudiziaria e riportare nei giusti canali il messaggio che la memoria di una società democratica e civile deve diffondere. Per questa ragione ci siamo offerti di pagare noi le spese, affinché diventi ancora più evidente l'assurdità di questa decisione".
Può vigere in Italia una legge che in questo caso "protegge" un boia nazista? Come si può far questo quando lo stesso Erich Priebke non ha mostrato alcune pentimento per le barbarie commesse?
Nel suo testamento, infatti, l'ex ufficiale delle Schutzstaffeln scrisse:
"La fedeltà al proprio passato è qualche cosa che a che fare con le nostre convinzioni si tratta del mio modo di vedere il mondo, i miei ideali e ha a che fare con il senso dell'amor proprio e dell'onore".
Ma non solo, perché Priebke sostenne anche: "Nei campi le camere a gas non si sono mai trovate, salvo quella costruita a guerra finita dagli americani a Dachau".
(Progetto Dreyfus, 3 ottobre 2019)
L'allarme della comunità ebraica argentina: in un anno raddoppiati gli atti di antisemitismo
Gli atti di antisemitismo in Argentina - dove vive la più grande comunità ebraica dell'America Latina - sono aumentati del 107 per cento nel 2018, praticamente più che raddoppiati, rispetto all'anno precedente. L'allarme è stato lanciato dalla Delegación de Asociaciones Israelitas Argentinas (Daia), organizzazione che riunisce e rappresenta la galassia ebraica del paese sudamericano.
Il dato è illustrato nel Rapporto 2018 sull'antisemitismo in Argentina, redatto dalla stessa Daia raccogliendo e analizzando gli atti contro la comunità ebraica. Il 68 per cento di questi si sono verificati nella sola città di Buenos Aires. Negli scorsi mesi le cronache hanno dato conto, fra gli altri, di un'aggressione presso una sinagoga della capitale, oltre che al grande rabbino d'Argentina, Gabriel Davidovich.
Degli 834 fatti denunciati lo scorso anno (404 nel 2017) il 71 per cento hanno trovato terreno fertile sulla rete, soprattutto su siti internet antisemiti e il 17 per cento di questi sono stati veicolati attraverso i social network. Oltre un quarto dei fatti verificatisi sul web, spefica il rapporto della Daia, hanno chiara connotazione xenofoba contro gli ebrei e il 18 per cento sono stati alimentati dagli eventi mediorientali.
Il 17 per cento degli atti rendicontati sono stati accompagnati da simbolismo riconducibile al nazismo e, in generale, sono stati alimentati dalle solite teorie del complotto.
Secondo il presidente della Daia, Jorge Knoblovits, l'aumento di slogan e messaggi antisemiti "è un fenomeno che in Argentina si sta verificando da diverso tempo". Tuttavia, nell'ultimo anno, aggiunge, "ci sono stati attacchi alle persone che rappresentano la comunità, come il rabbino di Rosario o, a Buenos Aires, per il solo fatto di indossare la kippah". Fatti che, conclude, "si sono visti in Europa ma non in Argentina".
(Gaucho News, 3 ottobre 2019)
Una nuova Knesset tra tante incertezze
di Daniel Reichel
Centocinquantasei giorni dopo l'ultima volta, i 120 membri della Knesset, il parlamento israeliano, tornano in queste ore a prestare giuramento con l'auspicio di rimanere in carica per tutti i cinque anni della legislatura. Un auspicio che si scontra con lo stallo politico in cui versa il paese: per il momento non sembra ci siano possibilità di formare un governo di unità nazionale tra i due partiti maggiori, Kachol Lavan e Likud, e così si palesa sempre più vicino all'orizzonte lo spettro di terze elezioni. "Speriamo di non fare come la Spagna: un'altra elezione sarebbe ridicola e un danno per il paese. - sottolineava a Pagine Ebraiche subito dopo il voto Gideon Rahat, esperto dell'Israel Democracy Institute nonché professore di Scienze politiche all'Università Ebraica - C'è una divisione all'interno del paese tra Pro-Netanyahu e contro-Netanyahu ma deve essere risolta e superata". Il Primo ministro uscente Benjamin Netanyahu è impegnato in questi giorni su più fronti: cercare di formare un governo, mantenere la leadership del suo partito ed evitare, attraverso una serie di audizioni, che il procuratore generale decida per la sua incriminazione nei diversi casi giudiziari che lo coinvolgono. Sul primo punto, un incontro delle ultime ore con Avigdor Lieberman, capo di Yisrael Beitenu, si è risolto con un nulla di fatto, come era prevedibile: dopo appena un'ora i due si sono salutati. "Netanyahu ha suggerito che il Lieberman si unisca al governo il più presto possibile per contribuire all'istituzione di un governo di unità", ha detto un portavoce del Likud dopo l'incontro. "Nessuna svolta è stata raggiunta durante la riunione". Da Yisrael Beytenu fanno sapere che "Lieberman ha dichiarato che, date le sfide economiche e di sicurezza, un governo di unità è all'ordine del giorno e ulteriori elezioni non cambieranno in modo significativo la mappa politica. La strada giusta è trovare un terreno comune tra Yisrael Beytenu, Likud e Kachol Lavan, e solo dopo discuteremo la distribuzione dei portafogli e la rotazione della premiership".
In questo momento complicato, Netanyahu, scrivono i media israeliani, starebbe pensando di indire immediatamente delle primarie di partito per avere almeno la garanzia di avere pieno appoggio del Likud: "Lo scopo della mossa è quello di infrangere l'illusione di una 'ribellione nel Likud' che altri partiti desiderano, cosa che li sta trattenendo dall'unirsi a un governo di unità", affermano dai vertici di partito legati a Netanyahu. Intanto il grande rivale interno di quest'ultimo, Gideon Sa'ar, ha affidato ai social network il suo pensiero rispetto a possibili primarie: "sono pronto".
(moked, 3 ottobre 2019)
Come gli arabi israeliani hanno screditato il movimento BDS
Hanno sostenuto la scelta di Ayman Odeh di impegnarsi nella politica di Israele: l'opposto della campagna BDS che è contro ogni normalizzazione con lo stato ebraico.
Sono passati diversi giorni da quando il politico israeliano Ayman Odeh ha fatto lo storico annuncio che lui, in quanto leader del blocco arabo nella Knesset, avrebbe indicato Benny Gantz per l'incarico di primo ministro. Si è trattato di uno sviluppo straordinario dopo che per decenni i partiti arabi israeliani avevano boicottato il processo di formazione del governo. E molti americani e occidentali, ebrei e non, hanno subito notato il significato storico dell'evento per quando riguarda il posto degli arabi nella società israeliana. Ma dalla sinistra anti-sionista c'è stato silenzio assoluto. Nessun commento da parte degli anti-sionisti, ebrei e non ebrei. Un politico palestinese israeliano decide di dare sostegno a un partito sionista guidato da un ex generale delle Forze di Difesa israeliane, e dalla sinistra anti-sionista non arriva neanche una parola. A quanto pare, l'evento storico è semplicemente sfuggito a tutti coloro che sostengono il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS. D'altra parte, come biasimarli? Ayman Odeh gli ha appena cacciato due dita negli occhi....
(israele.net, 3 ottobre 2019)
La politica di Putin in Medio Oriente favorita dalla non-politica americana
Un politica miope che parte da Obama e che nella "non politica" di Trump ha trovato un degno successore
di Adrian Niscemi
Quando si parla di Medio Oriente siamo portati a concentrarci su due principali attori: Israele e Iran. In realtà c'è un terzo attore che condiziona tutto, anche le politiche israeliane e iraniane e che, proprio per questo, è l'attore più importante.
Stiamo parlando della Russia di Vladimir Putin che approfittando della "fuga" americana dalla regione sta condizionando e plasmando a suo piacimento il presente e il futuro della regione.
Si farebbe un errore macroscopico se, come fanno alcuni, si considerasse la Russia come un elemento di stabilizzazione. L'obiettivo di Putin non è quello di stabilizzare la regione.
Anzi, se oggi Putin conta così tanto in Medio Oriente è proprio grazie alle accresciute tensioni e, soprattutto, alla graduale auto-esclusione americana dalla regione mediorientale.
Oggi la Russia vende armi praticamente a tutti. Alla Siria, che il pensiero popolare vuole essere stata "salvata" dall'intervento russo. Vende armi alla Turchia di Erdogan, all'Egitto di Al Sisi, all'Iran degli Ayatollah che poi le girano alle varie fazioni terroristiche a loro collegate.
Costruisce centrali nucleari in Egitto, Giordania e Algeria, cerca porsi come negoziatore in Sudan. Intrattiene ottimi rapporti con Hezbollah in Libano e con Hamas nella Striscia di Gaza.
L'errore di valutazione israeliano
Quando nel 2015 Mosca decise di intervenire in Siria contro lo Stato Islamico, a Gerusalemme in molti pensarono che fosse una cosa buona, che Putin avrebbe potuto mettere un freno all'influenza iraniana in Siria. Israele si coordinò sin da subito con la Russia per i suoi interventi difensivi in Siria e tutto sembrava funzionare alla perfezione.
Peccato che Putin, pur coordinandosi con Israele, non avesse nessuna intenzione di mettere un freno agli iraniani. Anzi, se oggi in Siria ci sono i militari iraniani con decine di migliaia di miliziani sciiti al loro comando lo si deve proprio alla Russia.
Mosca favorita dal disimpegno americano in Medio Oriente
Si potrebbe pensare che il vertiginoso aumento dell'influenza russa in Medio Oriente sia la conseguenza del suo intervento in Siria.
In parte è vero. Putin ha risolto quello che gli americani e gli europei non erano riusciti a risolvere: sconfiggere quello che all'epoca veniva considerato il problema più grande per tutto il mondo, lo Stato Islamico (ISIS).
Solo che Putin non si è limitato a questo. Ha approfittato del progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente per andare oltre alla semplice presenza in Siria costruendo una rete di rapporti con i più importati attori regionali andando a colmare velocemente il vuoto lasciato dagli americani.
Oggi la Russia ha quasi portato la Turchia fuori dalla NATO, assicurandosi una partnerschip con Erdogan che tra alti e bassi sta portando Ankara fuori dall'alleanza atlantica e nell'orbita di influenza russa.
Con l'Egitto, altro attore importantissimo nella regione, ha praticamente fatto la stessa cosa, così come con la Giordania.
Ma il colpo grosso rimane l'Iran. Putin, a dispetto degli accordi con Israele, trae grande vantaggio dall'alleanza con Teheran.
E se oggi gli Ayatollah possono fare la voce grossa persino contro gli Stati Uniti è perché sanno di avere alle spalle un alleato solido e pronto a difendere i propri interessi in Medio Oriente, interessi che non possono prescindere dell'Iran e dal suo controllo quasi capillare di un territorio che va dall'Iraq al Libano.
Non è solo colpa di Trump
Sarebbe tuttavia un errore dare la colpa di tutto questo al solo Donald Trump. Se non altro il Presidente americano aveva detto di volersi disimpegnare dal Medio Oriente sin dalla campagna elettorale e in sostanza sta mantenendo una promessa fatta agli americani.
Si po' essere d'accordo o meno con questa scelta ma non si può non rispettarla.
Il problema è che il disimpegno americano in Medio Oriente è iniziato ben prima dell'avvento di Trump alla Casa Bianca.
Nel 2015, quando la Russia diede il via al suo intervento in Siria, alla Casa Bianca c'era Barack Obama. Ed è stato sempre Barack Obama a chiudere l'accordo sul nucleare iraniano che ha permesso all'Iran di avere i mezzi necessari per organizzare e armare i suoi proxy regionali.
È stato Obama e non Trump a dare il via al disimpegno americano dal Medio Oriente, è stato Obama a mettere l'Egitto di Al Sisi fuori dall'orbita di influenza americana perché non accettava che i Fratelli Musulmani fossero stati spodestati. Trump ha solo completato l'opera già iniziata dal suo predecessore.
Questo non esime l'attuale Presidente americano dalle sue responsabilità in Medio Oriente, soprattutto nei confronti dell'Iran, ma che Putin abbia dato il via alla sua politica espansiva nella regione grazie a Barack Obama ci sono ben pochi dubbi.
La differenza tra Obama e Trump è che il primo aveva un piano (orribile) per il Medio Oriente, il secondo non sa nemmeno cosa sia un piano.
(Rights Reporters, 3 ottobre 2019)
Esecutivo e procura, il doppio fronte di Netanyahu
di Davide Frattinl
Il confronto tra i tre avvocati della difesa e i venti funzionari del ministero della Giustizia andrà avanti fino alla vigilia di Yom Kippur. E il Giorno dell'Espiazione, la data più importante del calendario ebraico, diventa decisivo anche per il destino - politico e giudiziario - di Benjamin Netanyahu. Sta ancora cercando di mettere insieme la coalizione di governo, deve ancora convincere il procuratore generale dello Stato a lasciar cadere l'ipotesi di incriminazione. Avichai Mandelblit, peraltro nominato dallo stesso Netanyahu, ha già annunciato di voler mandare il primo ministro a processo per corruzione e di essere pronto a rendere pubblica la decisione entro dicembre. I legali smentiscono che Bibi stia pensando di patteggiare: l'accordo gli permetterebbe di evitare il carcere, stroncherebbe però la sua carriera politica e il sogno di conquistare il quinto mandato da capo del governo. In questi primi faccia a faccia l'accusa e la difesa affrontano il caso 4000, gli altri sono il 1000 e il 2000, così li hanno classificati gli investigatori come una salita temeraria verso la vetta, incriminare un primo ministro in carica. È considerata l'inchiesta più complessa, ma anche quella in cui il procuratore si sente più sicuro di poter ottenere una condanna.
Le trattative per formare il governo dopo le elezioni del 17 settembre non riescono a superare il blocco, nessuno dei due partiti principali ha la maggioranza: l'ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz esclude che il suo Blu Bianco possa trovare un'intesa con il Likud guidato da Netanyahu. La salvezza per il premier potrebbe arrivare dall'uomo che l'ha messo nei guai politici: Avigdor Lieberman, a capo del gruppo che raccoglie i voti degli immigrati dall'ex Unione Sovietica, ha causato la crisi dimettendosi da ministro della Difesa e si è per ora rifiutato di entrare in un'alleanza che comprenda gli ultraortodossi. Oggi incontra Netanyahu, si conoscono da trent'anni, potrebbero decidere di lavorare di nuovo insieme.
(Corriere della Sera, 3 ottobre 2019)
Bibi e lo Yom Kippur tra i guai giudiziari e il rifiuto di Gantz
Rischia l'incriminazione. E il rivale: sì al governo se va a casa
di Fiamma Nirenstein
Gerusalemme - Due scene molto concrete, su sfondo spirituale: questa è la situazione in Israele mentre si cerca di venire a una conclusione sulla situazione giudiziaria di Benjamin Netanyahu e sul governo di un Paese pericolosamente sospeso nel vuoto e sull'eventuale terza tornata elettorale in un anno. Da una parte 20 avvocati dello Stato e 10 di Netanyahu discutono da ieri tre possibili accuse che possono trasformarsi in incriminazioni; dall'altra una riunione della fazione di Bibi, 55 seggi in Parlamento contro i 44 della sinistra di Benny Gantz, che però ha due seggi in più come partito (33 contro i 31 del Likud) si registra che Gantz rifiuta il governo di coalizione se Bibi non va a casa. E lui non ne ha nessuna intenzione.
Non dimentichiamo lo sfondo spirituale: questo è un Paese che dopo Capodanno, celebrato da domenica fino a martedì sera, prepara Yom Kippur, il giorno della riflessione, del pentimento, delle scuse. E invece la situazione politica rende tutto aspro, aggressivo, pieno di accuse: la proposta di Bibi di incontrare Gantz è stata rifiutata con parole ingiuriose, «Vuoi tutto il potere, non ti crediamo». Il maggiore oppositore è Yair Lapid, che avendo stretto con Gantz un accordo di rotazione, non vuole certo condividerlo con Bibi nell'eventualità di un governo di coalizione che dovrebbe suddividere il ruolo fra le parti. E c'è anche il rifiuto legato a un'intera lunga grancassa mediatica antiBibi, condannato a essere corrotto molto prima che i giudici persino si riunissero, per cui Gantz incorrerebbe in caso di accordo con lui nell'anatema delle sue truppe. E c'è anche la speranza che l'avvocatura dello Stato decida che Bibi è incriminato, e così l'ipotesi di vederlo di nuovo premier diventerebbe molto precaria. Ma Netanyahu sembra tutt'altro che rassegnato: oggi è fissato un incontro con l'oggetto misterioso Avigdor Lieberman.
Le accuse a Bibi sono tre, e si riferiscono ai doni (champagne e sigari) che avrebbe ricevuto dal suo amico Arnon Milchan, e al supposto tentativo di corrompere l'informazione con la promessa di finanziamenti pubblici al sito Walla purché gli dedicasse una migliore copertura. Qui si impernia l'accusa di «corruzione», la peggiore. Le altre sono frode e abuso di fiducia. Se cadesse questa accusa, le altre sono di minore rilievo. Gli avvocati si dicono fiduciosi di convincere i giudici che «non c'è niente, perché non c'è stato niente», la formula che ripete sempre Bibi. La questione del potere politico e del potere dei giudici ovviamente è in primo piano, Netanyahu come tanti altri di fatto subisce un giudizio preventivo improprio che ha certo influenzato le elezioni, è quasi un miracolo che metà popolazione seguiti a credere in lui come premier.
Il Paese è sempre in pericolo: Macron in tutte le foto a New York si fa fotografare mentre con frivoli sorrisi riempie Rohani di affettuosità e pacche sulle spalle e cerca di portarlo in ogni modo a recuperare i favori americani facendolo parlare con Trump (la manovra, molto audace e degna di un miglior amico, non è tuttavia riuscita); intanto il generale delle Guardie della Rivoluzione Hossein Salam annuncia che ormai l'Iran ha i mezzi per realizzare il suo sogno di distruggere Israele, e Qassem Suleimani dichiara che l'Iran ha sconfitto gli Usa. Israele tiene sorprendentemente il timone di un processo democratico funambolico, su due piste del circo mondiale, quello della legalità e quello della democrazia. Ma non dimentica quello della difesa dall'aggressione bellica.
(il Giornale, 3 ottobre 2019)
Il gas di Israele esportato via Egitto. Accordo fatto anche sul trasporto
Contratto di 15 anni per 85 miliardi di metri cubi da Leviathan e Tamar
di Sissi Bellomo
Il gas di Israele prende la via dell'Egitto, da dove in futuro potrà raggiungere l'Europa (e non solo) sotto forma di Gnl. È un accordo storico quello firmato ieri dalle società che sviluppano Leviathan e Tamar, i due giacimenti che hanno inaugurato la corsa all'oro blu nel Mediterraneo Orientale. Con la formalizzazione di contratti per la vendita e il trasporto di 85,3 miliardi di metri cubi di gas nel corso di 15 anni (a partire dal 2020) non solo si salda un asse di collaborazione fino a poco tempo fa impensabile tra Tel Aviv e il Cairo, a lungo nemici, ma con tutta probabilità si chiude la porta a soluzioni alternative per distribuire le risorse di gas rinvenute nella regione: dall'EastMed - pipeline che gode di un forte appoggio politico in Europa e negli Usa, ma per cui non si sono finora palesati finanziatori - all'ipotesi, mai scartata del tutto benché costosa, di costruire un impianto di liquefazione del gas a Cipro piuttosto che su una piattaforma offshore in prossimità dei pozzi israeliani.
I partner di Leviathan e Tamar, guidati dal gruppo israeliano Delek e dalla texana Noble Energy, hanno rilanciato rispetto a un primo accordo vincolante che avevano firmato a febbraio 2018 sotto la regia politica degli Stati Uniti, ma che si era arenato per difficoltà burocratiche e problemi di sicurezza (tutt'altro che superati) nel Sinai del Nord, un'area controllata dallo Stato islamico. Il nuovo contratto sottoscritto con l'egiziana Dolphinus Holding aumenta del 34%il volume delle forniture destinate a raggiungere l'Egitto, per un valore di 19,5 miliardi di dollari secondo fonti Reuters, e ne allunga la durata fino al 2034. Il gas inizierà a fluire dal 1o gennaio 2020, inizialmente al ritmo di 2,1 miliardi di metri cubi l'anno, che saliranno a 6,7 bcm a partire dal 2022, con l'espansione delle forniture da Leviathan, che inizierà a produrre a fine anno.
A sbloccare le trattative con il Cairo è stata la risoluzione delle controversie sul gasdotto sottomarino East Mediterranean Gas (Egm), che collega il terminal israeliano di Ashkelon con Arish, nella parte egiziana del Sinai. Noble e Delek Drilling hanno costituito una joint venture con Egiptian East Gas Co, la Emed, che rileverà per 520 milioni di dollari il 70% della pipeline, un'operazione che l'antitrust israeliana ha autorizzato a patto che il gas non venga venduto in Egitto a prezzi inferiori a quelli praticati sul mercato domestico. Un arbitrato internazionale aveva ostacolato a lungo la collaborazione sul gasdotto: a Israele era stato riconosciuto un indennizzo di 1,8 miliardi di dollari per l'improvvisa interruzione delle forniture di gas dall'Egitto nel2011 (all'epoca il Cairo esportava, ma poi ha smesso per riprendere solo l'anno scorso grazie al maxi-giacimento Zohr e ad altre scoperte). Tel Aviv si è accontentata di 500 milioni, pur di concludere gli accordi annunciati ieri.
Il gas israeliano molto probabilmente non si fermerà in Egitto, ma sarà liquefatto e rivenduto all'estero. Entro fine anno la produzione annua egiziana salirà a 77 bcm: tolti i consumi interni restano 15 bcm da esportare, cui ora si aggiungono i volumi in arrivo dal Paese vicino. Anche l'impianto di liquefazione Damietta Lng (partecipato da Eni attraverso Uniòn Fenosa Gas) dovrebbe tornare in funzione entro dicembre, affermano sia il governo del Cairo che la compagnia di San Donato. Con l'altro impianto - Idku Lng, già riavviato - l'Egitto sarà in grado di liquefare oltre otre 17 bcm di gas l'anno.
(Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2019)
Una sfida epocale alla chiesa
L'intima vocazione del cattolicesimo verso il mondo diventa oggi equivalente alla necessità di confondersi con il mondo stesso. Emerge sempre più la tendenza a deporre ogni tratto della propria identità storica.
di Ernesto Galli della Loggia
Ci sono ragioni ben più importanti di quelle dei buongustai per continuare a ragionare intorno alla decisione di bandire la carne di maiale dalla preparazione dei tortellini in occasione della festa del santo patrono di Bologna: provvedimento motivato dal desiderio di non offendere la sensibilità di coloro cui il precetto religioso vieta di mangiare la carne di quell'animale. Ragioni più importanti anche degli sgangherati berci in difesa delle «nostre tradizioni» a cui la destra italiana è solita abbandonarsi in queste circostanze. Perché qui non si tratta tanto delle «nostre tradizioni» o di altre cose simili. Si tratta, a me pare, di alcuni decisivi indirizzi di fondo della Chiesa cattolica. Infatti, anche se l'arcivescovo di Bologna, il cardinale Zuppi, ha rifiutato la paternità della decisione, egli l'ha comunque fatta sua, confermandone l'origine negli ambienti della Curia o comunque ad essa vicini.
In via preliminare viene comunque da porsi una domanda. Posto che ad avere l'interdetto religioso a cibarsi della carne di maiale sono oltre i musulmani anche gli ebrei, risulta forse che nelle precedenti celebrazioni qualcuno, e per prima naturalmente la Curia attuale, si sia mai preoccupato di creare loro qualche imbarazzo servendo per la festa di san Petronio i tortellini tradizionali? Non mi pare. So bene che a Bologna gli ebrei sono una sparuta minoranza mentre la presenza degli islamici è una presenza numerosa.
Ma basta questo a fare la differenza in materia di «accoglienza»? Almeno simbolicamente la sollecitudine alimentare, chiamiamola così, non sarebbe dovuta valere anche per gli ebrei?
Certo, a pensare male si fa peccato, ma è difficile credere che quando si tratta di Islam e di islamici, allora non si tenga inevitabilmente conto della capacità di pressione dell'immensa comunità islamica mondiale, delle potenzialità che essa rappresenta, del peso altrettanto formidabile delle immense risorse finanziari e del mondo arabo e, mettiamoci pure questa, dell'estrema suscettibilità di taluno dei suoi membri, pronta a trascendere nella violenza più feroce (ne sa qualcosa proprio la cattedrale di san Petronio, da anni guardata a vista dall'esercito a causa di una sempre incombente minaccia degli islamisti per via dell'esistenza tra le sue mura di un'effige di Maometto non di loro gusto). Tutte cose che per gli ebrei non si pongono di certo.
Ma tralascio queste osservazioni per venire alle questioni più importanti che è dato scorgere dietro la decisione bolognese. Quella decisione, infatti, testimonia di qualcosa di generale e di profondo che riguarda un modo d'essere e di pensare che sempre più appare l'attuale modo d'essere e di pensare della Chiesa cattolica. E la tendenza, ormai avvertibile per mille segni, a confondere l'universale con l'indistinto. A interpretare l'intima vocazione del cattolicesimo verso il mondo, la sua storica indole missionaria ad accogliere tutto il mondo dentro di sé, come equivalente alla necessità di confondersi con il mondo stesso, di recepirne esigenze, prospettive, lessico, punti di vista. Si badi non sto rimproverando affatto al magistero di indulgere a una qualche forma di quietismo morale, di «laissez faire» dottrinale o pratico di fronte alla dimensione del peccato che domina il mondo. Si tratta di un problema del tutto diverso, collegato ad una straordinaria novità storica. Al fatto che a partire dalla seconda metà del Novecento un'ideologia etica di ambito planetario è andata via via emergendo, per la prima volta nella storia, muovendo da un nucleo originario rappresentato dalla formulazione dei diritti umani. Di essa sono venuti progressivamente a far parte, insieme alla crescita continua dei suddetti diritti, il pacifismo, l'ecologismo, l'antisessismo e quant'altro potesse essere compreso in un' indistinta prospettiva mondialistico-buonista sotto l'egida di qualche organizzazione o movimento internazionale.
Il cattolicesimo romano con la sua consustanziale ambizione universale si è così trovato di fronte alla sfida interamente inedita di qualcosa che di fatto ambiva a stargli alla pari; che gli stava alla pari. Si è trovato a fare i conti con una sorta di morale anch'essa universale, d'ispirazione naturalistica e di tono fortemente laico, il cui effetto era, ed è, di porre in subordine ogni specifico discorso religioso, ormai ineluttabilmente avviato, si direbbe, a figurare al massimo come una parziale articolazione di sapore arcaico e quasi folklorico di quel più vasto afflato etico che guadagna spazio ogni giorno.
La rinuncia bolognese al maiale testimonia in modo perspicuo di una postura che la Chiesa cattolica - sostanzialmente per difendersi nella sfida di cui sopra - tende oggi ad assumere. E cioè la tendenza a deporre ogni tratto della propria identità storica che denunci uno scostamento troppo marcato dai principi dell'indistinto etico-mondialista. Così facendo la Chiesa è convinta, bisogna credere, di aprirsi positivamente al mondo; e alla fine di riuscire in tal modo ad assimilarlo a sé, potendo tra l'altro essa disporre di una risorsa - il Sacro - di cui l'umanesimo buonista non può disporre. Se tale assimilazione - nella quale è sempre la Chiesa cattolica e mai gli altri che di regola appare rinunciare a qualcosa - potrà avere un reale successo, ovvero se al contrario quell'assimilazione preluda ad una virtuale fusione della Chiesa nel mondo; se piuttosto che fare cristiano il mondo la Chiesa stessa finirà invece per farsi eguale al mondo: dalla risposta che i fatti daranno a questi interrogativi dipenderà l'avvenire del cattolicesimo. E forse anche l'avvenire di qualche cosa d'altro.
(Corriere della Sera, 3 ottobre 2019)
La destra cattolica rimprovera a questo papa di portare la chiesa ad assimilarsi al mondo rinunciando ad essere la paladina del "sacro". Ma la CCR (Chiesa Cattolica Romana) si è sempre assimilata al mondo, cercando ogni volta, nello svolgersi degli avvenimenti storici, la forma più adatta ad inserirsi in essi nel modo più vantaggioso. Per lei, naturalmente. Ai conservatori adesso appare che essa stia cambiando, ma non è vero: è sempre la stessa. E' sempre la stessa istituzione abusiva che adesso si trova in un travaglio di cambiamento interno (di rapporti di potere) perché cambia il mondo. Andrà avanti per sempre? No, a differenza di Israele, la CCR è destinata a crollare. Lo sfruttamento sistematico del nome di Gesù è cosa ben più grave del rifiuto temporaneo della persona di Gesù. M.C.
I piani della Turchia per contenere gli Usa intorno a Cipro
Che cosa si cela dietro le ultime mosse della Turchia di Erdogan.
di Giuseppe Gagliano
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha presenziato ad Ankara alla cerimonia di messa in servizio della quarta corvetta TCG Kinaliada prodotta in Turchia e anche alla cerimonia per la prima nave di classe MELGEM che sarà venduta in Pakistan.
Dal punto di vista strettamente geopolitico è estremamente rilevante il fatto che il presidente turco abbia sottolineato come la Turchia intenda non solo consolidare la sua proiezione di potenza marittima ma anche conseguire l'autosufficienza militare entro il 2023.
D'altronde l'obiettivo di rafforzare il sea power rientra fra le finalità presenti nel documento strategico turco Vision 2023.
Ma quale significato geopolitico e geostrategico riveste il discorso di Erdogan?
In primo luogo, questo accordo consolida ulteriormente i rapporti bilaterali tra Turchia e Pakistan che risalgono alla fondazione del gruppo consultivo militare posto in essere nel 1988, rapporti questi che poi si sono intensificati almeno a partire dal 2013 e che si sono attuati nei settori dell'energia, delle infrastrutture e della difesa.
Queste relazioni bilaterali hanno avuto modo poi di rafforzarsi ulteriormente anche grazie al fatto che entrambi i paesi sono fondatori della Organization of the Islamic Conference (Oic) nata nel 1969. Un altra tappa significativa nel consolidamento dei rapporti bilaterali si colloca nel 2014 anno in cui il Pakistan aveva firmato un accordo per 75 milioni di dollari e nel 2015 quando l'impresa turca STM aveva modernizzato due sottomarini pakistani e realizzato un rifornitore per la marina pakistana. Inoltre, gli accordi firmati nel 2015 con la Turchia, hanno permesso di allargare la cooperazione anche nel settore degli elicotteri d'assalto ed in particolare in relazione all'acquisto dell'elicottero T-129 Ata.
In secondo luogo, dal punto di vista squisitamente geostrategico, la proiezione di potenza marittima alla quale ha fatto riferimento Erdogan si riferisce da un lato alla necessità di conseguire sempre di più una autosufficienza militare e dall'altro lato si riferisce alla necessità di salvaguardare i propri interessi a Cipro contesa con la Grecia in funzione anti europea e anti americana (non dimentichiamoci che la Turchia negò ad Obama l'uso della base di incirlik per contrastare l'Isis).
Ebbene, l'isola di Cipro isola mediterranea che occupa una posizione nevralgica tra Europa, Asia e Africa rappresenta una sorta di naturale infrastruttura militare che consente di sorvegliare il Mar Caspio e il Golfo Persico, il Golfo di Aden e lo stretto di Hormuz.
Inoltre, da un punto di vista strettamente storico, non solo la Turchia garantisce a livello militare la protezione della Repubblica turca di Cipro Nord (nata ufficialmente nel 1983 a seguito del golpe turco nel luglio del 1974) ma che fra gli obiettivi turchi velleitari o meno che siano vi è quello di annettere Cipro Nord (come la Cina vorrebbe fare con Taiwan). Inoltre la presenza di ampie di risorse energetiche nel Mediterraneo orientale sta rendendo sempre più conflittuali a livello politico le relazioni non solo con la Grecia ma anche con Italia, Unione europea, Israele ed Egitto.
È noto infatti che Ankara vuole sfruttare le rilevanti risorse di gas naturale presenti nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale.
Proprio in giugno il primo ministro greco, Alexis Tsipras, ha invitato l'Ue a condannare senza riserve le azioni illegali della Turchia relative alle operazioni off-shore in acque considerate parte della zona economica esclusiva di Cipro da parte della nave turca Fatih. Per quanto riguarda invece l'Italia l'anno scorso la Turchia aveva impedito alla nostra compagnia petrolifera Eni di porre in essere operazioni di perforazione inviando navi da guerra, operazioni queste che si sono concretizzate nel blocco navale della Saipem 12000 nel febbraio del 2018.A tale proposito Erdogan aveva sottolineato come qualsiasi operazione posta in essere per individuare risorse di gas naturale in quella regione rappresentasse una minaccia per Cipro Nord e per la sovranità economica turca.
Un altro motivo di tensione è quello relativo al pozzo Glaucus-1 che ha un potenziale di risorse stimato tra i 142 e i 227 miliardi di metri cubi scoperto il 28 febbraio 2019 da ExxonMobil e situato nel blocco 10. Questa scoperta è di estrema rilevanza geopolitica perché ,insieme alle risorse presenti presso i pozzi di Calypso e di Afrodite, consente di avere Cipro una posizione più significativa nei suoi partenariati energetici con Egitto e Israele, e di conseguenza le consente di implementare il suo peso geopolitico sia nei confronti dell'Ue che degli Stati Uniti.
Ebbene, sotto il profilo della deterrenza militare, il conflitto tra Cipro e la Turchia riveste un ruolo sempre più significativo a causa da un lato della presenza costante di fregate navali turche nelle acque cipriote e dall'altro lato dalle relazioni trilaterali Grecia-Cipro-Egitto e le relazioni trilaterali Grecia-Cipro-Israele. Infatti la Grecia conduce importanti esercitazioni militari congiunte con Egitto e Israele.
Ad esempio, le esercitazioni aeronautiche congiunte annuali di Iniohos ospitate dalla Grecia che si sono svolte nell'aprile 2019 includevano Stati Uniti, Italia, Cipro, Israele e Emirati Arabi Uniti. In questo contesto un ruolo di estrema rilevanza è svolto dagli Usa che possiedono una infrastruttura militare a Creta e che il 13 dicembre 2018 hanno posto in essere un dialogo strategico Usa-Grecia.
Proprio allo scopo di consolidare questa partnership, volta a tutelare gli interessi delle imprese petrolifere americane, nell'aprile del 2019 il senatore americano Bob Menendez membro del Comitato per le relazioni estere del Senato e Marco Rubio hanno presentato al Senato degli Stati Uniti la "Legge sulla partnership per la sicurezza e l'energia del Mediterraneo orientale" che prevede 3 milioni di dollari di finanziamento in ambito militare per la Grecia e 2 milioni di dollari alla Grecia e a Cipro per l'addestramento militare.
Un altro player significativo è la Francia attraverso la Total francese che sta conducendo operazioni sul gas naturale al largo delle coste di Cipro in collaborazione con Eni. Anche sul piano militare, nel gennaio 2019, la fregata francese Aconit aveva condotto tre giorni di esercitazioni di interoperabilità con le navi militari di Cipro in funzione di deterrenza anti turca.
Vediamo adesso di trarre delle conclusioni. Le azioni della Turchia nelle acque intorno a Cipro devono essere intese come reazioni alla percezione di Ankara di una politica di contenimento da parte degli Stati Uniti e da molti altri suoi alleati della Nato che hanno interessi economici nel gas naturale del Mediterraneo orientale. Ebbene, fino a quando Ankara interpreterà il modus operandi degli Usa e della Nato come player che agiscono per danneggiare o contenere gli interessi regionali della Turchia, Ankara porrà in essere azioni di deterrenza che potrebbe portare ad una escalation che comprometterebbe le relazioni fra l'altro già tese con gli Usa e la Nato.
(Startmag Web magazine, 3 ottobre 2019)
Liberman: necessaria una soluzione intelligente per formare il governo
GERUSALEMME - E' necessario trovare una soluzione intelligente e mettere da parte tutte le considerazioni personali e l'ego per formare un governo di unità nazionale in Israele. Lo ha detto oggi il leader del partito israeliano Yisrael Beytenu, Avigdor Liberman, ai rappresentati della sua formazione politica. La possibilità di andare per la terza volta al voto in meno di dodici mesi "non cambierà significativamente la mappa politica". Liberman crede ancora che il Likud di Benjamin Netanyahu e la coalizione Kahol Lavan di Benny Gantz riusciranno a risolvere le divergenze e formare un governo di unità. "Se prima dello Yom Kippur (8 ottobre) non vedremo una svolta, Yisrael Beytenu presenterà alle due fazioni una propria proposta", si legge in una nota del partito di Liberman. L'ex ministro della Difesa ha annunciato che intende parlare con i leader di Kahol Lavan e del Likud domani, 3 ottobre, in occasione della cerimonia di giuramento della 22sima legislatura della Knesset.
(Agenzia Nova, 2 ottobre 2019)
Netanyahu tra nuovi governi e vecchie inchieste
Giorni politicamente complicati per il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu: mentre le trattative con Kachol Lavan per un governo di unità nazionale sono completamente ferme, ha preso il via nelle scorse ore l'audizione del leader del Likud con il procuratore generale Avichai Mandelblit in merito alle tre inchieste per corruzione che lo coinvolgono. In queste ore si sono presentati al ministero della Giustizia gli avvocati di Netanyahu, che hanno respinto l'idea che il loro assistito avrebbe chiesto un patteggiamento o la grazia. "Ho piena e incondizionata fiducia nel sistema giuridico e nelle forze dell'ordine. Non ho alcun dubbio che il procuratore generale formulerà le sue decisioni in modo professionale e appropriato", ha detto uno degli avvocati, Ram Caspi. Il suo collega Amit Hadadad ha aggiunto che il team di difesa presenterà nuove prove alle udienze preliminari che si concluderanno prima di Yom Kippur. "Siamo sicuri che quando avremo finito, non ci sarà altra scelta che chiudere il caso", ha detto Hadadad all'emittente pubblica Kan. "Questi casi devono essere chiusi".
In attesa di far sentire la propria testimonianza, Netanyahu si è concentrato in queste ore nel riunire il blocco di cui ha l'appoggio alla Knesset, incontrando i leader dei partiti Yamina, Shas e Yahadut HaTorah. La riunione è arrivata dopo che il leader di Kachol Lavan Benny Gantz ha annunciato di aver lasciato i colloqui previsti per formare un governo di unità nazionale. Il partito di centro guidato dall'ex capo dell'esercito ha detto fatto sapere a Netanyahu che le condizioni non sono ancora mature per condurre negoziati efficaci tra i partiti e i rispettivi leader. "Questo non è un negoziato, è un discorso tra sordi e non ha senso continuare finché le condizioni rimangono le stesse", le parole di Gantz, che ha accusato il Premier di voler trascinare il paese a terze elezioni. Un'accusa formulata sull'altro versante dal Likud nei confronti di Kachol Lavan. Il blocco di destra, formato da 55 seggi, è "solido come il cemento", ha dichiarato la leader di Yamina Ayelet Shaked. Il problema è che quel blocco, avvisano da Kachol Lavan, non potrà rimanere tale se si vuole andare avanti nelle trattative per il governo di unità nazionale.
In questa intricata situazione di stallo, il Premier Netanyahu sta valutando cosa fare e nelle prossime ore potrebbe rimettere al capo dello Stato il mandato a formare il governo, lasciando la patata bollente all'avversario Gantz.
(moked, 2 ottobre 2019)
Le difficoltà di Netanyahu e l'opzione guerra di Israele
di Amos Harel
Fin dal 2012, Israele ha condotto un'intensa campagna contro l'influenza dell'Iran sui suoi confini settentrionali con la Siria ed il Libano. Le forze armate israeliane l'hanno definita "campagna tra le guerre". La guerra civile in Siria ha cambiato le regole del gioco per tutte le parti coinvolte. L'Iran, che ha investito pesantemente nella battaglia per la sopravvivenza del regime di Bashar al Assad, ha utilizzato il caos siriano a suo beneficio, contrabbandando interi convogli di armi sofisticate attraverso il territorio siriano per portarle ai combattenti Hezbollah in Libano. Israele dal canto suo ha tratto vantaggio dalla guerra per creare una ambiguità costruttiva. In base a diversi resoconti inviati dai media, ha effettuato centinaia di attacchi aerei, per lo più senza assumersene la responsabilità, contro i convogli organizzati dagli iraniani.
Alla fine del 2017 le cose hanno cominciato a cambiare. Il regime di Assad ha ripreso il controllo di quasi tutta la Siria, facendo affidamento sul supporto delle forze aeree russe, sui comandanti iraniani e sulle truppe terrestri sciite provenienti dalle file degli Hezbollah e sulle altre milizie sostenute dall'Iran. Israele ha indirizzato la maggior parte dei suoi attacchi contro il "Progetto accuratezza" dell'Iran, ovvero il tentativo di Teheran di elevare il livello di accuratezza dei razzi e dell'arsenale missilistico degli Hezbollah, che da questo punto di vista era carente. Essendo un Paese piccolo, Israele è particolarmente vulnerabile agli attacchi contro le sue infrastrutture strategiche. Nella maggior parte dei casi non possiede siti alternativi, come altri aeroporti o centrali energetiche. La campagna di Israele è stata descritta come un successo. In base alle Idf, oggi gli Hezbollah dispongono solo di poche dozzine di razzi ad alto grado di accuratezza.
Ma l'intelligence israeliana si è resa conto che l'Iran aveva altre mire. Il generale Qassem Soleimani, comandante delle forze "Quds" dei Pasdaran, ha dato inizio ad uno sforzo calcolato per il trinceramento di forze militari iraniane in Siria. In molte aree del Paese distrutto dalla guerra, gli iraniani stavano costruendo basi militari per le loro milizie sciite, impiegando nel frattempo anche razzi a medio raggio, sistemi Uav e antiaerei, molti dei quali intesi apparentemente a sfidare Israele. L'Idf ha anche cominciato ad attaccare siti militari. Nel 2018, per la prima volta, Israele e Iran hanno combattuto direttamente una guerra in Siria. Per lo più Israele ha avuto la meglio. Si stima che siano diverse dozzine gli obiettivi Iraniani colpiti in Siria. Almeno tre tentativi di rappresaglia iraniana, con lancio di razzi dalla Siria verso il territorio Israeliano, hanno fallito. Nella maggior parte dei casi, Israele ha mantenuto la sua politica di indeterminatezza. La maggior parte degli attacchi sono rimasti non dichiarati, riducendo quindi la pubblica sfida all'Iran.
Eppure, la contro-campagna israeliana ha fallito nel dissuadere Soleimaini dal suo obiettivo. A settembre del 2018, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato la piattaforma dell'assemblea generale delle Nazioni Unite per rivelare l'esistenza di tre siti sotterranei recentemente costruiti a Beirut. Questi, ha protestato, erano linee di produzione che gli iraniani avevano costruito con gli Hezbollah allo scopo di incrementare l'accuratezza dei razzi in una posizione più vicina ai loro "clienti", invece di esporre i sistemi agli attacchi aerei israeliani spostandoli su suolo siriano. Pochi giorni dopo il governo libanese ha invitato diplomatici e giornalisti a visitare quei siti, sostenendo che Netanyahu aveva mentito sulla loro vera natura. Qualcuno che ha partecipato alla visita mi ha riferito che l'odore di vernice fresca era piuttosto forte
Ad ogni modo, gli iraniani proseguono nei loro intenti. Interi convogli hanno continuato a contrabbandare armi. E si sono riscontrati anche segnali di nuovi tentativi di insediare linee di produzione su territorio libanese. Contemporaneamente, le milizie sciite hanno cominciato a impiegare missili a lungo raggio nell'Iraq occidentale, puntati verso Israele. Teheran, secondo Israele, ha creato con successo un "corridoio terrestre" che collega Iran, Iraq, Siria e Libano, sotto il suo efficace controllo operativo.
Israele ha incrementato i suoi sforzi. In un arco di 24 ore, tra il 25 ed il 26 agosto, sono stati registrati tre attacchi israeliani: contro la milizia Sciita al confine tra Siria ed Iraq, contro una cellula Irgc, che tentava attacchi con droni contro Israele dal confine siriano sulle Alture del Golan e a Beirut, dove, a quanto sembra, è stato colpito un componente vitale dell'impianto della linea di produzione dei razzi.
Il 1o settembre gli Hezbollah hanno reagito, lanciando razzi anticarro contro un mezzo blindato israeliano dal confine libanese, mancandolo. Tutto questo, comunque, è ben lontano dalla fine della storia. Netanyahu, invischiato in una seconda elezione in cinque mesi (e forse ne dovrà affrontare una terza, vista la situazione di stallo politico in cui si trova) è anche molto preoccupato delle incombenti accuse per corruzione. Sottoposto ad un'enorme pressione personale, ha abbandonato la sua abituale cautela e qualche volta accenna abbastanza bruscamente alla responsabilità di Israele negli attacchi. Ci sono state anche domande poste sul suo giudizio, in genere considerato estremamente calcolato.
Come ha riportato Haaretz, una settimana prima delle seconde elezioni ha proposto una massiccia campagna contro Hamas nella Striscia di Gaza. I responsabili della sicurezza hanno avuto seri dubbi se il cambio di direzione del primo ministro avesse a che fare con i suoi problemi politici. Alla fine, il procuratore generale israeliano è riuscito a prevenire il piano di Netanyahu insistendo che il primo ministro convocasse il suo consiglio di sicurezza affinché votasse in merito alle sue proposte. Netanyahu ha fatto un passo indietro, ma il suo apparato di sicurezza resta scettico sulle sue intenzioni, visto che la situazione politica diventa sempre più impossibile da gestire. Dopo l'ultimo episodio di violenza sul confine Libanese, Hassan Nasrallah, Segretario generale di Hezbollah, ha insistito che le "equazioni" da lui proclamate in passato contro l'aggressione di Israele sono ormai irrilevanti. In futuro, ha dichiarato, la sua organizzazione utilizzerà mezzi di rappresaglia più duri. Domenica scorsa, un membro anziano dell'Idf, il generale di brigata Dror Shalom, è stato intervistato da Israel Today, un giornale considerato uno degli organi di stampa più vicini a Netanyahu. L'Iran, ha ammonito Shalom, potrebbe decidere di lanciare dei razzi dall'Iraq verso Israele. "Ci stiamo avvicinando alla guerra. Lo scenario è molto più cupo di prima", ha aggiunto. Cosa accadrà ora?
(Inside Over, 2 ottobre 2019)
Budapest, inaugurate nuove sinagoghe alla memoria degli ebrei assassinati nel Danubio
di Ilaria Ester Ramazzotti
"Dalle ceneri, questa comunità viene rianimata", ha detto il rabbino Simcha Weiss, del rabbinato di Israele, in occasione dell'apertura di due nuove sinagoghe a Budapest. I due templi, uno nella capitale e l'altro nella vicina cittadina di Szentendre, sono stati recentemente inaugurati assieme a nuovi rotoli della Torà, dedicati alla memoria dei circa 600 mila ebrei ungheresi assassinati sulle rive del Danubio tra il dicembre 1944 e il gennaio 1945. Alle cerimonie sono intervenuti rabbini, autorità e cittadini.
"Nessuno poteva distruggere la loro neshama (anima) - ha sottolineato Weiss al Jerusalem Post -. Ci sono 600 mila lettere nella Torah, quelle uccise sul Danubio ora sono tornate al punto di partenza". Le 600 mila lettere in ciascuna Torah rappresentano così le 600 mila vittime del massacro.
Il rabbino Shlomo Koves, a capo dell'Alleanza ebraica ungherese e emissario dei Chabad-Lubavitch, ha invece sottolineato che queste due sinagoghe offrono agli ebrei di Budapest e Szentendre di apprendere le loro tradizioni: "Tutto questo è dedicato al futuro, ma dobbiamo anche essere orgogliosi delle nostre tradizioni".
Jànos Fónagy, sopravvissuto all'Olocausto ungherese e parlamentare sottosegretario di Stato alle attività nazionali, ha dichiarato: "Non c'è nessuno della mia famiglia, in gran parte uccisa nella Shoah, che mi dia i ricordi" che invece dà il memoriale scultoreo Scarpe sulla riva del Danubio, che rappresenta iconograficamente le scarpe degli ebrei uccisi e buttati nel fiume, installato lungo il fiume nel 2005, un "memoriale che ricorda coloro che non sono sopravvissuti", ma che al contempo dà memoria "a quelli a cui mancano i propri ricordi personali. Abbiamo il dovere e la responsabilità di ricordare, di rispettare il passato, ma anche il futuro".
Per il rabbino Baruch Oberlander, capo del rabbinato ortodosso di Budapest, questa cerimonia ha avuto un significato speciale, avendo ricordato il padre sopravvissuto alla Shoah: "È un privilegio essere qui oggi - ha evidenziato -. Stiamo trasmettendo lo spirito di quei martiri attraverso queste Torà".
(Bet Magazine Mosaico, 2 ottobre 2019)
Israele: pericolosa crisi politica. Cancellato lincontro Netanyahu-Gantz
Gantz cancella gli impegni presi per oggi e gli incontri che avrebbero dovuto portare ad un governo di unità nazionale. Stupore nel Likud.
Continua la pericolosissima e irresponsabile crisi politica in Israele. L'incontro previsto per oggi tra il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, e il leader del partito Blu e Bianco, Benny Gantz, è stato cancellato da quest'ultimo.
Sorpresa mista a stupore tra i membri del Likud che fino a ieri sera avevano lavorato alacremente per organizzare al meglio gli incontri di oggi (in programma c'era anche quello tra le squadre negoziali).
Secondo i rappresentanti di Gantz «non sono maturate le condizioni più elementari per tenere un ulteriore incontro tra le squadre negoziali».
Quali siano queste "condizione mancanti" al momento è difficile capirlo. Secondo uno dei portavoce di Benny Gantz il Likud non stava negoziando in buona fede e cercava solo il pretesto per incolpare il partito Blu e Bianco del mancato raggiungimento dell'obiettivo di formare un governo di unità nazionale.
Tuttavia Gantz ha lasciato diverse porte aperte. Pur dicendosi contrario all'incontro di oggi, ha fatto sapere che quasi certamente lui e Netanyahu si incontreranno i prossimi giorni, forse addirittura domani. Lo stesso dicasi per i gruppi negoziali.
Netanyahu, nel dirsi stupito da questa decisione, invita Benny Gantz ad essere responsabile e ad incontrarlo il prima possibile.
Il partito di Netanyahu tuttavia questa mattina mena duro su Benny Gantz e lo accusa di voler andare ad una terza tornata elettorale solo perché non si trova d'accordo con il numero due di Blu e Bianco, Yair Lapid, il quale avrebbe espresso forti dubbi sul sistema della rotazione del Premier.
Scaramucce politiche a parte, è fortemente irresponsabile lasciare Israele senza un Governo pienamente operativo in un momento in cui i nemici iraniani e i loro proxi si fanno sempre più minacciosi alle porte dello Stato Ebraico.
Questa prolungata crisi politica in Israele avvantaggia solo i nemici dello Stato Ebraico i quali si stanno muovendo alacremente per incrementare la minaccia consapevoli che una volta formato un nuovo governo in Israele tutto potrebbe rapidamente cambiare.
(Rights Reporters, 2 ottobre 2019)
Al via l'audizione di garanzia di Netanyahu
È cominciata a Gerusalemme l'audizione di garanzia di Benyamin Netanyahu. Per il premier, rappresentato da una squadra di dieci legali, si tratta dell'ultima possibilità di scongiurare l'incriminazione per il suo presunto coinvolgimento in tre casi distinti, in cui è accusato di corruzione, frode ed abuso di ufficio
Il capo del Likud, incaricato di formare il prossimo esecutivo israeliano, non ha partecipato all'udienza che è iniziata alle 7 nella sede del Ministero della Giustizia e durerà quattro giorni.
Oggi e domani il team legale di Netanyahu presenterà gli argomenti a difesa nel cosiddetto dossier 4000 o Bezeq, gigante della telefonia di cui è proprietario Shaul Elovitch: è il caso più grave perché include un presunto reato di corruzione.
Stando all'accusa tra il 2012 e il 2017 Netanyahu avrebbe fatto diversi favori a Bezeq in cambio di una copertura mediatica favorevole su Walla, uno dei principali siti internet israeliani.
La difesa cercherà di far cadere l'accusa di corruzione per rendere più facile un patteggiamento con l'accusa. Nelle udienze di domenica e lunedì saranno trattati gli altri due casi. ll primo (dossier 1000) riguarda il sospetto che il premier abbia accettato regali da imprenditori facoltosi in cambio di favori.
Il secondo (dossier 2000) fa riferimento ad intese ricercate (ma non realizzate) da Netanyahu con Arnon Mozes, editore di 'Yediot Ahronot', per avere una copertura informativa benevola in cambio di una riduzione delle tirature di un giornale rivale.
Come imputato Netanyahu non sarebbe obbligato a lasciare la sua carica di primo ministro o vice, ma se venisse condannato per corruzione il Parlamento potrebbe votare per la sua rimozione perché, stando ad una norma israeliana di rango costituzionale, si tratta di un reato che implica "depravazione morale".
Intanto Binyamin Gantz, leader della formazione centrista Blu e Bianco, ha cancellato gli incontri previsti oggi con il Likud. Fonti interne al partito hanno rivelato ai media israeliani che gli incontri, incentrati sulla formazione del nuovo governo, sono stati annullati per non permettere a Netanyahu di "distogliere l'attenzione dalla sua situazione giudiziaria".
(euronews, 2 ottobre 2019)
Tombe rotte, erbacce: Verano, degrado nel settore israelitico
Il cimitero abbandonato
di Valeria Costantini
ROMA - Tombe frantumate, smottamenti del terreno, transenne tra i loculi, alberi crollati sulle lapidi. Il settore israelitico del Verano sembra essere stato appena travolto da un tornado. La realtà invece è quella di un'annosa incuria che stride con il silenzio che avvolge le sepolture più a ridosso della Tiburtina. Come denunciato da un cittadino amareggiato sul Corriere, tutta la zona dedicata ai defunti della Comunità ebraica (la sezione XIll sulle mappe) è in condizioni disastrose. Inagibile persino il Tempio che dovrebbe accogliere le cerimonie funebri: tutto chiuso, a partire dal cancello di ingresso. La causa è evidente: dopo il crollo di diversi alberi vicino all'entrata, le macerie sono ancora lì, a marcire insieme alle tombe sventrate. L'ultimo cedimento delle piante risale a febbraio: dopo sette mesi i nastri dei cantieri avvolgono ancora le spoglie dei pini e delle palme cadute, le cappelle distrutte ormai sembrano fuse con le radici estirpate dal vento.
Ma il degrado sommerge tutta la zona. Tra i sepolcri decorati con le menorah se ne contano a centinaia spaccati dalla vegetazione, circondati da bande arancioni ormai cadenti. Due anni fa, era il maggio 2017, un raid vandalico profanò quasi cento tombe tra i riquadri 32-33: le croci di David spezzate e le fosse scoperchiate raccontano di un ripristino della memoria mai avvenuto. Sommersi dalle erbacce anche i loculi che accolgono i resti di bambini e adulti vittime della guerra: gli anni incisi sulle stele rivelano tragedie lontane, di famiglie unite nel trapasso e di storie che andrebbero ricordate. Le transenne e i cartelli posizionati da Ama riportano al presente e rammentano che il rischio è dietro l'angolo, che gli alberi sono ancora pericolanti, che inciampare sugli scalini sconnessi non sembra difficile.
Poco distante dall'ingresso «Crociate» sulla Tiburtina, tra i settori ibis e 8bis, gli ossari danneggiati dalla caduta dei cipressi avvenuta ormai un anno fa - sono stati spostati: a ricordarlo ci sono i cumuli abbandonati di pezzi di marmo crollato. Si salgono pochi scalini invasi dalle erbacce e si cammina tra i frammenti divelti della terrazza: accanto ai loculi la passeggiata fa pensare a un prossimo distacco dalla balaustra, le crepe profonde si notano su tutta la struttura. La scritta «pericolo!» (con tanto di punto esclamativo) dovrebbe invece avvertire i visitatori di una poco rassicurante «caduta materiali dall'alto»: l'annuncio è affisso tra i loculi sulla strada che conduce al Tempietto Israelitico, ultima reliquia di una manutenzione che non c'è.
(Corriere della Sera - Roma, 2 ottobre 2019)
Prove di distensione tra Arabia Saudita e Iran
di Luciana Grosso
Sembrano farsi meno tesi i rapporti tra Iran e Arabia Saudita: il portavoce del parlamento iraniano, Ali Larijani, ha affermato in un'intervista esclusiva con Al Jazeera che Teheran è disponibile ad avviare un dialogo con la rivale regionale dell'Arabia Saudita . "L'Iran è aperto all'avvio di un dialogo con l'Arabia Saudita e altri paesi della regione. Un dialogo iraniano-saudita potrebbe risolvere molti dei problemi politici e di sicurezza della regione". Larijani ha anche affermato che l'Arabia Saudita non ha bisogno di fare affidamento o dipendere dal suo principale alleato, gli Stati Uniti . "Riyadh può presentare le sue proposte da discutere al tavolo di dialogo iraniano-saudita senza condizioni preliminari da parte nostra- ha detto Larijani-Accogliamo con favore il fatto che anche il principe Mohammed bin Salman sembra volere un dialogo, nell'interesse della regione intera".
(Business Insider, 2 ottobre 2019)
Mercoledì incontro decisivo fra Netanyahu e Gantz
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, si è detto pronto a rimettere il suo mandato per la formazione di un nuovo Governo, se il prossimo incontro con Benny Gantz, leader del partito Blu-Bianco, previsto per mercoledì prossimo, non darà esito positivo. Un comunicato del Likud, il partito di Netanyahu, ha reso noto che i negoziatori hanno ricevuto istruzioni dal primo ministro «di fare ogni sforzo» in vista di un Governo di unità nazionale, come proposto dal presidente israeliano, Reuven Rivlin, dopo le elezioni legislative dello scorso 17 settembre. «Ma se Blu-Bianco non accetta questa cornice o un'alternativa realistica aggiunge il comunicato non c'è ragione di sprecare tempo e continuare a paralizzare il paese». Ieri Netanyahu ha chiamato al telefono Gantz, al termine di un ulteriore incontro infruttuoso fra i negoziatori dei due principali partiti.
L'appuntamento di mercoledì avviene in concomitanza con l'avvio dell'audizione di garanzia di Netanyahu per le accuse di corruzione e frode di cui è sospettato nelle quattro inchieste giudiziarie che lo riguardano. Il Governo di unità nazionale proposto da Rivlin prevede una alternanza di due anni ciascuno alla guida del Governo tra Netanyahu e Gantz. Lo schema prevede che Netanyahu si metta in "aspettativa" nel caso venga incriminato nei casi di corruzione dei quali è accusato, con Gantz premier ad interim. Ma il partito Blu-Bianco insiste per non avere Netanyahu al governo.
(L'Osservatore Romano, 1 ottobre 2019)
Iran: prosegue senza sosta la realizzazione di tunnel sotterranei per il lancio di missili
TEHERAN - L'Iran sta continuando da 35 anni a realizzare siti sotterranei per il lancio di missili lavorando 24ore al giorno e sette giorni su sette. Lo ha dichiarato il comandante delle forze aerospaziali dei Guardiani della rivoluzione iraniana (pasdaran), Amir Ali Hajizadeh in un'intervista rilasciata all'emittente di Stato. "L'idea di (costruire) installazioni sotterranee risale al 1984, all'inizio del nostro programma missilistico. Il primo tunnel è stato completato prima dell'importazioni di missili", ha ricordato Hajizadeh. "Lo scavo dei tunnel iniziò allora ed è proseguito fino ai giorni nostri senza interruzioni", ha aggiunto l'alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione. Nell'intervista Hajizadeh ha osservato che in questi anni sono stati realizzati tunnel sempre più in profondità e sofisticati situati nel cuore delle montagne per celare missili, munizioni, attrezzature e personale. "Una delle capacità più importanti del nostro paese è il potere missilistico", ha dichiarato Hajizadeh, aggiungendo che tale potenziale non sarà mai svelato. "Il nemico è più preoccupato per le strutture a cui non ha accesso. Durante i negoziati sul programma nucleare, i nemici erano molto più preoccupati per Fordow di quanto non lo fossero per Natanz, considerato che la centrale venne realizzata nel sottosuolo", ha precisato Hajizadeh.
Le dichiarazioni dell'alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione iraniana giungono in periodo di particolare tensione tra Iran, Stati Uniti e le potenze del Golfo, in particolare l'Arabia Saudita. Washington e Riad hanno direttamente accusato Teheran della pianificazione ed esecuzione degli attacchi condotti con 25 tra droni e missili da crociera che lo scorso 14 settembre hanno colpito le infrastrutture petrolifere della compagnia saudita Aramco, nel cuore dell'Arabia Saudita, dimezzando per alcuni giorni la produzione petrolifera del regno e principale produttore Opec. Nel gennaio 2019, in concomitanza con il 40mo anniversario della Rivoluzione islamica, i Guardiani della rivoluzione hanno pubblicato le riprese di una vera e propria città sotterranea realizzata per la conservazione e il lancio di missili.
(Agenzia Nova, 1 ottobre 2019)
Golfo Persico. Il 1914 del Medio Oriente
Nel 1914, il proiettile che ha ucciso l'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria ha incendiato l'intero continente europeo. Oggi, un singolo attacco con un razzo, un drone o una mina potrebbe scatenare un'escalation militare tra gli Stati Uniti e l'Iran e i loro rispettivi alleati che potrebbe rivelarsi impossibile da contenere.
Lasciati a se stessi, per oltre 40 anni, Washington e Teheran ora sono rotta di collisione. La campagna di "massima pressione" dell'amministrazione Trump, sembra disposta a non fermarsi davanti a nulla - che si tratti di sanzionare i vertici politici e militari iraniani o di costringere a zero le esportazioni di petrolio del Paese - pur di mettere in ginocchio Teheran.
L'obiettivo è la volontà dell'Iran di non cedere, ma di resistere - sia riavviando il suo programma nucleare, sia prendendo di mira gli Stati Uniti e i suoi alleati regionali. Il risultato sempre più probabile è un confronto militare.
I contorni di un conflitto futuro sono già evidenti. L'Iran ha avvertito che accelererà gradualmente le violazioni dell'accordo nucleare se le sanzioni unilaterali degli Stati Uniti continueranno a negargli i dividendi economici promessi dall'accordo e spingeranno invece l'economia iraniana nel terreno.
Se Teheran dovesse agire sulla sua minaccia, l'accordo si scioglierà, innescando sanzioni internazionali più ampie e aumentando la possibilità di attacchi militari statunitensi e/o israeliani contro un programma nucleare attualmente contenuto. Il rischio è attirare gli attori regionali, allineati con entrambe le parti, in una spirale escalation.
L'Iraq, arena di concorrenza tra Stati Uniti e Iran, potrebbe trovarsi sempre più spesso in un terreno di battaglia, anche se il suo governo cerca disperatamente di non essere trascinato in una lotta che non considera propria.
Nello Yemen, attacchi transfrontalieri Huthi sull'Arabia Saudita o attacchi al traffico del Mar Rosso potrebbero innescare un ciclo escalation che coinvolga gli USA. Nel Golfo e nello Stretto di Hormuz, importante nodo energetico, ulteriori incidenti potrebbero portare ad interventi militari volti a proteggere il commercio del petrolio.
In Siria, lo strano gioco tra Iran e Israele potrebbe sfuggire al controllo e annullare la reciproca deterrenza tra Israele e Hezbollah che dal 2006 mantiene il confine Israelo-Libanese in tranquillità relativa. La miccia potrebbe essere stata bruciata il 14 settembre, quanto attacchi di provenienza incerta hanno colpito l'Arabia Saudita.
Questi attacchi aerei agli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais, gestiti dalla compagnia petrolifera statale Aramco, hanno chiuso circa il 50% della produzione petrolifera del regno. Il movimento Huthi dello Yemen, che dal 2015 è impegnato in una guerra con gli oppositori yemeniti e i loro sostenitori guidati dall'Arabia Saudita, ha immediatamente rivendicato la responsabilità.
Gli Stati Uniti hanno prontamente respinto le affermazioni degli Huthi come infondate e hanno puntato il dito contro Teheran, dicendo che gli attacchi provenivano prima dall'Iraq o dall'Iran e poi dall'Iran meridionale. Anche Riyadh incolpa Teheran per gli attacchi, ma è più cauto su chi li ha lanciati e da dove. Baghdad dice che il suo territorio non è stato utilizzato. Da parte sua, Teheran nega ogni coinvolgimento, accusando i sauditi e gli Stati Uniti di "massimo inganno".
Se prove credibili dimostrano che gli attacchi hanno avuto origine in territorio iraniano, ciò segna un allontanamento dalla strategia di Teheran di respingimento attraverso procure e negazione plausibile. Annullando la de-escalation. In ogni caso, per molti versi il dado è tratto.
Per gli Stati Uniti e i suoi alleati, questo incidente è un attacco dell'Iran al cuore dell'infrastruttura petrolifera saudita e globale .
Ora sono di fronte a un dilemma: se e come rispondere, dato il rischio di avviare una reazione a catena; un domino che dal Golfo Persico arriverebbe fino al Centro Asia in poco tempo.
(AGC COMMUNICATION, 1 ottobre 2019)
L'Arabia Saudita ha appena preso una botta pazzesca dagli yemeniti
di Daniele Raineri
ROMA - L'Arabia Saudita in questi giorni ha subito una sconfitta militare pesantissima in casa propria. Il gruppo yemenita Ansar Allah, l'Esercito di Dio, quindi la forza armata aiutata dall'Iran che spesso viene indicata sui media come "ribelli houthi" anche se ormai controlla metà dello Yemen da quattro anni, ha superato il confine ed è entrata nella regione saudita del Najran e a partire dal 25 agosto ha aggredito le forze saudite con risultati disastrosi - per gli aggrediti. In questi giorni gli yemeniti hanno fatto uscire le immagini dell'operazione, chiamata inevitabilmente "La Vittoria che viene da Dio", e in effetti si vedono centinaia di prigionieri sauditi marciare con le mani dietro la testa e decine di mezzi corazzati, alcuni dei quali acquistati dagli Stati Uniti, in fiamme. E' probabile che il comunicato di Ansar Allah gonfi molto il successo sul campo e per esempio parla di duemila prigionieri e di tre brigate saudite che si sono arrese dopo essere state circondate. Ma il significato politico-militare è molto chiaro.
Dopo quattro anni di raid aerei e di guerra a terra e a dispetto di un blocco navale, le forze che combattono contro Ansar Allah e che sono armate, sostenute e appoggiate dai sauditi e fino a poco tempo fa da un altro peso massimo del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti, non riescono a prevalere e anzi sono costrette a incassare sconfitte umilianti. E' il fallimento di quell'asse saldissimo che si è creato tra il principe Mohamed bin Salman nella capitale saudita Riad e il clan di Donald Trump a Washington. Bin Salman di questa guerra è l'ideatore e il grande sponsor, ma non riesce più a uscirne. Non soltanto non vince, ma da due anni Ansar Allah ha cominciato a lanciare missili balistici contro bersagli sauditi e compie anche incursioni terrestri che durano settimane, come questa che ha appena prodotto video e immagini così dure. Il comunicato di Ansar Allah per rivendicare questa vittoria è molto dettagliato e molto diverso da quello usato per annunciare il bombardamento due settimane fa delle raffinerie saudite - in cui anche il numero dei droni era sbagliato, gli yemeniti dicevano "dieci" quando invece fu usato un misto di missili cruise e di droni carichi di esplosivo che provocò almeno diciassette punti di impatto contro i bersagli. In quel caso, è successo che Ansar Allah ha dato copertura diplomatica a un'operazione che in realtà è stata organizzata e lanciata dall'Iran. Se c'è un senso in questo ultimo mese di guerra, è che c'è una degenerazione progressiva e sempre più veloce della situazione in quel quadrante.
(Il Foglio, 1 ottobre 2019)
Il Consiglio comunale di Saluzzo rende omaggio a Isacco Levi, uomo moralmente di alto livello
SALUZZO - Il Consiglio comunale di Saluzzo, in apertura di seduta, ha ricordato ieri (30 settembre) Isacco Levi, saluzzese e "protagonista indiscusso della Resistenza ebraica piemontese", scomparso nella casa di riposo di Moretta il 9 settembre scorso.
A tracciarne la biografia, il presidente del Consiglio comunale Enrico Falda, che ha voluto rendere "omaggio ad un concittadino, anche se residente a Moretta.
Isacco Levi - ha proseguito Falda - è stato un personaggio importante del 900 per la nostra storia. Nacque a Barge nel 1924, da una famiglia di commercianti di stoffe, titolare di un negozio proprio a Saluzzo, in via Spielberg, che partecipava anche a numerosi mercati della Provincia, soprattutto nelle vallate.
Una vita normale, come tutti i saluzzesi, sino al 1938, quando venne colpito, come tutti gli Ebrei, dall'assurdità delle leggi raziali. Isacco si trovò espulso dalla scuola, ai genitori venne ritirata la licenza per il commercio.
Riuscì a riottenere la licenza soltanto intestandola ad un parente, che non essendo ebreo aveva la possibilità di svolgere l'attività.
L'8 ottobre del '43 decise di unirsi ai partigiani, evitando la deportazione che proprio nelle settimane successive colpì tutti i 13 membri della famiglia, internati ad Auschwitz e non più tornati.
Assunse il comando della Squadra volante della 181esima Brigata Garibaldi, 11esima Divisione Saluzzo. Partecipò a numerose azioni, trascorrendo l'inverno del 1944 in una grotta sopra Rossana. I suoi forti legami con il territorio gli permisero di non venir mai tradito, sino al 27 aprile del '45, data della liberazione di Saluzzo.
Visse in Città fino al 1948, poi si trasferì a Moretta dopo il matrimonio. Sempre in prima linea nella divulgazione della memoria del trauma nazista e fascista, nelle scuole, con i giovani. Nella sua vita ha ottenuto importantissimi riconoscimenti. È stato ricevuto al Quirinale dai Presidenti della Repubblica Ciampi e Napolitano.
Insieme ad Alessio Ghisolfi ha scritto il libro 'I Levi di via Spielberg'. Nel 2010 Rossana gli conferì la cittadinanza onoraria, seguita poi da Costigliole Saluzzo e Busca. Magliano Alpi lo nominò 'Custode della memoria'.
La storia di un uomo moralmente di alto livello".
Tutto il Consiglio ha voluto porgere le condoglianze alle due figlie di Isacco Levi, Amelia e Pia.
A rendere omaggio alla figura di Levi anche Paolo Battisti ("E' importante raccontare e ricordare per rigettare le discriminazioni di ogni genere e ogni tipo"), Fulvio Bachiorrini ("Un uomo importante per la storia moderna del Saluzzese e della Città di Saluzzo") e Carlo Savio ("La sua vera eredità è la testimonianza e la memoria, antidoto al ritorno di queste barbarie, di cui sono un tipico esempio la persecuzione ebraica").
(TargatoCN, 1 ottobre 2019)
Nuova ricerca israeliana sul tumore alle ossa nei bambini
Il sarcoma di Ewing è un tipo molto raro di tumore che prese il nome dal Dr. James Ewing, il medico che lo ha scoperto per la prima volta quasi un secolo fa. Colpisce i bambini e gli adolescenti e di solito ha origine nelle ossa lunghe delle braccia e delle gambe, del bacino o del torace.
La causa del sarcoma di Ewing è sconosciuta, nasce da specifici tipi di cellule e non sembra essere ereditaria. Cresce nelle ossa o nei tessuti molli intorno alle ossa, come la cartilagine o i nervi. Significativi progressi nel trattamento, soprattutto in una fase iniziale, hanno migliorato i tassi di sopravvivenza, ma quando si diffonde agli organi periferici per metastasi, è molto difficile da trattare.
Dopo aver terminato il trattamento, i pazienti hanno bisogno di un monitoraggio a vita per i potenziali effetti tardivi della chemioterapia intensa e delle radiazioni, in quanto può tornare anche anni dopo il trattamento.
I sintomi includono dolore alle ossa o altrove, gonfiore vicino alla zona interessata, stanchezza inspiegabile, perdita di peso non voluta, ossa fragili e febbre senza causa nota.
Lo studio dei ricercatori del Weizmann Institute
Uno studio condotto dai ricercatori del Weizmann Institute of Science di Rehovot mostra che la riduzione di un particolare livello ormonale impedisce al tumore di crescere e diffondersi.
I ricercatori israeliani hanno scoperto le interazioni molecolari alla base di questo tipo di tumore e hanno proposto un potenziale trattamento, secondo i risultati che hanno appena pubblicato sulla rivista Cell Reports.
La ricerca si è concentrata sui recettori degli ormoni steroidei chiamati glucocorticoidi. Questi recettori sono presenti in quasi tutte le cellule umane, trasmettendo messaggi ormonali legati allo stress, alla veglia e a una serie di altre importanti funzioni.
A volte i recettori dei glucocorticoidi stimolano la crescita tumorale. Lo fanno spostandosi nel nucleo cellulare, dove interagiscono fisicamente e si legano con i fattori di trascrizione - molecole che attivano o disattivano i geni. I ricercatori hanno voluto saperne di più sul ruolo di queste interazioni in caso di neoplasia tumorale.
Un'analisi dell'interazione proteica altamente sensibile ha rivelato interazioni precedentemente sconosciute: una volta attivati dagli ormoni, i recettori glucocorticoidi si sono rivelati legati nel nucleo cellulare ai fattori di trascrizione della famiglia E-tventisei (ETS), formando insieme un complesso fisico.
Uno dei fattori di trascrizione nella famiglia ETS è noto per favorire lo sviluppo del sarcoma di Ewing; il suo gene si fonde anormalmente con un altro gene, creando un oncogene: un gene che causa il cancro.
La scoperta dei ricercatori israeliani
Quando lo studio ha scoperto questo legame tra l'oncogene sarcoma di Ewing e i recettori glucocorticoidi, i ricercatori hanno iniziato a testare un'ipotesi: che questi recettori favoriscono la crescita del sarcoma di Ewing.
Una serie di studi hanno confermato questa ipotesi. Il legame fisico tra i recettori dei glucocorticoidi e la proteina prodotta da questo oncogene ha aumentato la crescita e la migrazione delle cellule di sarcoma di Ewing in un piatto da laboratorio e ha dato una spinta ancora più forte alla crescita e alla diffusione del sarcoma nei topi di laboratorio.
Il principale significato medico di questi risultati è che aprono la porta a una nuova opzione terapeutica per il sarcoma di Ewing.
L'analisi genetica dei campioni di tumore
I ricercatori del Weizmann Institute hanno anche effettuato un'analisi genetica dei campioni di tumore dai pazienti con sarcoma di Ewing e identificato sette geni regolati dai recettori glucocorticoidi che sono stati espressi in livelli più alti del normale in pazienti con tumori particolarmente letali.
Questi geni potrebbero fungere da firma genetica che consente una selezione di pazienti per il trattamento.
Se la ricerca nei pazienti umani conferma i risultati dello studio, potrebbero offrire nuove speranze ai giovani con questa neoplasia, specialmente nei casi in cui il sarcoma si è metastatizzato oltre l'osso.
La dottoressa Swati Srivastava, post dottorato nel Laboratorio del Prof. Yosef Yarden, afferma:
"I nostri risultati forniscono la base per un approccio personalizzato al trattamento del sarcoma di Ewing. Il fatto che lo studio abbia fatto uso di farmaci che sono già stati approvati per altri usi dovrebbe accelerare l'attuazione di questo approccio".
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(SiliconWadi, 1 ottobre 2019)
Iraq, Siria, Libano: se ospitano terroristi non possono lamentarsi degli attacchi
Se tu ospiti scientemente gruppi terroristici legati all'Iran che dichiarano di voler attaccare Israele il minimo che ti puoi aspettare è che gli israeliani cerchino di impedirtelo.
Ieri il primo ministro iracheno, Adel Abdul Mahdi, ha accusato Israele di aver compiuto gli ultimi attacchi contro basi delle milizie sciite in Iraq.
Quella del premier iracheno segue altre denunce simili fatte prima di lui dai vertici siriani e da quelli libanesi.
A parte il fatto che Israele ha confermato solo qualche attacco in Siria e per quanto riguarda gli attacchi in Iraq non ha né smentito né confermato anche se Netanyahu qualche tempo fa non aveva escluso la possibilità di colpire le milizie sciite «ovunque operassero», quindi anche in Iraq.
Poi c'è la responsabilità oggettiva dei governanti di Iraq, Siria e Libano che non dovrebbe essere sottovalutata.
Se tu ospiti scientemente gruppi terroristici legati all'Iran che dichiarano di voler attaccare Israele il minimo che ti puoi aspettare è che gli israeliani cerchino di impedirtelo.
La denuncia del premier iracheno, già ridicola di suo in quanto parla di "indagini" che hanno portato a quella conclusione (ma quali indagini, quali prove), diventa persino una ammissione di colpa.
L'Iraq ospita gruppi terroristici legati all'Iran e lo fa coscientemente, ben sapendo quali sono i loro obiettivi: Israele prima di tutto, poi gli altri Paesi del Golfo che si oppongono all'espansionismo iraniano.
La cosa strana non è quindi che Israele avrebbe (condizionale) attaccato postazioni e basi di miliziani sciiti legati a Teheran in Iraq, quanto piuttosto che Baghdad ammetta che milizie sciite legate all'Iran operino sul suo territorio.
Ci si dovrebbe meravigliare piuttosto del fatto che la comunità internazionale, da cui l'Iraq ancora dipende per tanti motivi, rimanga bellamente in silenzio di fronte a tali affermazioni e ammissioni da parte irachena.
Possibile che nessuno faccia notare ad Adel Abdul Mahdi che ospitare basi iraniane in territorio iracheno mette in grave pericolo anche la sua popolazione?
È lo stesso discorso che si faceva tempo fa soprattutto per il Libano (ma vale anche per la Siria). Ospitare milizie legate all'Iran ha un costo che può diventare pesante sia in termini economici che, in caso di guerra, in termini di vite umane.
In Libano cominciano a capirlo, in Iraq e in Siria purtroppo ancora no.
(Rights Reporters, 1 ottobre 2019)
Israele: startup italiane a Festival dell'innovazione
Importante presenza italiana alla decima edizione del Festival dell'innovazione 'Digital Life Design' che si è tenuto a Tel Aviv. Nell'ambito dell'iniziativa, volta allo scambio di idee innovative per uno sviluppo sostenibile, focalizzata sul settore delle nuove tecnologie, grazie all'Ambasciata d'Italia e all' ICE, una delegazione di 12 startup italiane e due incubatori operanti in diversi settori dell'alta tecnologia hanno potuto interagire con i rappresentanti di controparti israeliane governative, accademiche e private per future collaborazioni. Al Festival hanno partecipato aziende e universita' israeliane e internazionali, nonche' oltre 350 importanti multinazionali del settore ICT. Nell'area della Fiera e' stata allestita una "Start-up Boulevard", un'area completamente dedicata a stand espositivi, in cui le start-up coinvolte hanno avuto l'opportunita' di farsi conoscere e presentare i loro progetti ad aziende e investitori internazionali. All'Italia è stato dedicato un padiglione di 70 metri quadri, risultato il piu' affollato per numero di espositori. Particolarmente interessante e' risultata poi la tavola rotonda organizzata dall'ICE, con il supporto dell' Ambasciata d'Italia, alla quale hanno preso parte esponenti delle istituzioni israeliane e del settore privato. Nell'occasione le dodici start-up italiane presenti al festival hanno avuto modo di presentare i loro progetti e i loro obiettivi. Il convegno e' stato chiuso dall'intervento dell'Ambasciatore Gianluigi Benedetti che ha sottolineato i punti di interesse comune tra le aziende dei due Paesi per auspicabili ulteriori collaborazioni future, sia in campo scientifico che industriale, sulla scia di quanto fatto nella cornice dell'Accordo bilaterale di Collaborazione Industriale, Scientifica e Tecnologica.
(Ministero degli Affari Esteri, 1 ottobre 2019)
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