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Notizie 16-31 ottobre 2019


Roma ha intitolato al rabbino Toaff una via accanto alla grande sinagoga

Raggi: «Ha segnato la nostra storia in maniera indelebile, è una parte del '900, della comunità romana e del nostro Paese».

di Ariela Piattelli

Una strada accanto alla grande sinagoga di Roma nel quartiere ebraico è stata intitolata al rabbino Elio Toaff, che dal 1951 al 2001 ha guidato l'ebraismo romano, e la sua rinascita dopo la Shoah. Quella dedicata all'ex rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, è la prima via titolata ad un rabbino nella storia della Capitale, che adesso rende omaggio ad una delle figure più importanti del '900.
All'inaugurazione di via Elio Toaff hanno partecipato un gran numero di persone perché la città lo ricorda come «una figura fondamentale - ha spiegato la sindaca Virginia Raggi - Toaff ha segnato la nostra storia in maniera indelebile, è una parte del '900, della comunità romana, di Roma e del nostro Paese. Oggi è una giornata storica, non solo per la comunità ebraica, ma per tutta la città. Dobbiamo ricordarci chi siamo, da dove veniamo, e dove andiamo, soprattutto adesso che sembra stiano tornando rigurgiti antisemiti».
   Livornese di nascita, il rabbino è stato tra i protagonisti del secolo scorso: con le persecuzioni, ha preso parte alla resistenza, e all'indomani della guerra, a Roma si trovò a guidare una comunità colpita, ferita irreparabilmente dalle deportazioni e dalla Shoah. «Toaff seppe guidare la rinascita dell'ebraismo romano. - commenta la presidente della comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello - Lui non è stato soltanto un grande rabbino, ma anche un grande italiano. La sua vita, la sua lotta al fascismo, la resistenza, in suo impegno nell'educazione, sono un modello oggi importantissimo. La via dedicata alla sua memoria si fissa come segno indelebile, come modello da seguire, in un momento così complicato per gli ebrei in Europa».
   Anche Toaff dovette affrontare momenti difficili, eventi drammatici, come l'attentato alla sinagoga del 9 ottobre 1982, in cui venne ucciso il piccolo Stefano Gaj Tachè, che aveva solo due anni: «Toaff all'indomani dell'attacco terroristico mise la politica di fronte alle sue responsabilità, - continua Dureghello - perché questa aveva contribuito, con poche eccezioni, al clima antisemita che permise il verificarsi di quella tragedia, ricevendo poco tempo prima il mandante morale di quell'attentato Yasser Arafat».

(La Stampa - Roma, 31 ottobre 2019)



Il sindaco di Palermo, Arafat e la pace

di Valentino Baldacci

Bene ha fatto l'UCEI a usare un linguaggio prudente definendo Yasser Arafat "un personaggio controverso" e "inopportuna" la decisione del Comune di Palermo di intitolare un tratto del lungomare al leader palestinese. Ha fatto bene a usare un linguaggio prudente per le responsabilità che gravano sull'organizzazione che rappresenta gli ebrei italiani.
   Ma alla stessa prudenza non è tenuto il privato cittadino che, di fronte all'incredibile decisione del sindaco Leoluca Orlando, ha la possibilità e anche il dovere di parlare chiaro. E allora si deve dire che Arafat non è stato solo il capo di un'organizzazione terroristica ma che su di lui grava l'enorme responsabilità di aver distrutto ogni speranza di pace e di fine del conflitto israelo-palestinese. Fu lui a far fallire i colloqui di Camp David dell'estate del 2000 e di quelli successivi di Taba, quando la pace era a portata di mano, come alcuni leaders palestinesi hanno in seguito ammesso. La sua scelta di far fallire il negoziato getta una diversa luce anche sugli accordi di Oslo del 1993 che, sulla base degli eventi successivi, appaiono solo una mossa tattica di una dirigenza in difficoltà per guadagnare tempo e per assicurarsi una base territoriale da cui riprendere la lotta.
   Ma se su Arafat ricade la responsabilità del fallimento della possibilità di un accordo di pace e quella della morte di tanti cittadini israeliani e palestinesi, questi ultimi gettati allo sbaraglio per mantenere aperto il conflitto, una responsabilità altrettanto pesante grava anche su coloro che - in Italia e più in generale in Occidente - fanno credere alla leadership e alla popolazione palestinese di avere un appoggio tale da consentire loro di non ricercare la pace e di continuare a perseguire i loro obiettivi con la violenza.
   Sono gravi le responsabilità di Sindaci come Leoluca Olando e come il suo omologo napoletano Luigi De Magistris, come lo sono quelle di altri rappresentanti delle istituzioni che contribuiscono con il loro comportamento a rafforzare nella leadership palestinese la convinzione che la lotta armata è il solo strumento per conseguire i propri obiettivi. Come grave è la responsabilità di tutte quelle organizzazioni (associazioni propal, centri sociali ecc.) che contribuiscono anch'essi a creare nella leadership palestinese l'illusione di un sostegno che in realtà riguarda solo alcune frange estremiste del quadro politico italiano. Lo stesso discorso si può fare per quelle organizzazioni internazionali - dall'ONU all'Unione Europea - che - dietro lo schermo degli aiuti umanitari - continuano a sostenere e a finanziare le organizzazioni palestinesi.
   Se la leadership palestinese fosse messa davanti alla realtà dei fatti, e cioè che il sostegno alla loro politica viene soltanto da Paesi come l'Iran e dai suoi satelliti, mentre gli altri Paesi arabi moderati li hanno da tempo abbandonati, avrebbe da tempo accettato di sedere seriamente al tavolo della pace, risparmiando al proprio popolo, oltre che a quello israeliano, tante sofferenze.

(moked, 31 ottobre 2019)


Moro, c'è il patto con i palestinesi dietro i due reporter uccisi in Libano

Un libro rivela gli intrecci fra 007 italiani e Olp. Il sospetto di Toni e De Palo: le armi delle Br in via Fani erano destinate all'Egitto ma finirono in Italia. I cronisti scomparvero a Beirut e poi le indagini furono bloccate.

di Fabio Martini

 
ROMA - Tanti segreti italiani, a cominciare dall'inesauribile caso Moro, si sono puntualmente incagliati sul segreto di Stato che per decenni ha coperto il patto di non belligeranza tra i Servizi italiani e quelli palestinesi. Basato su uno scambio indicibile: la promessa palestinese a non realizzare attentati in Italia, in cambio della libertà di trasporto di armi sul territorio nazionale. Ma a forza di scavare, si sta scoprendo che all'ombra di quel patto si sono consumati alcuni misteri italiani: la scomparsa in Libano di due giornalisti italiani, la strage alla Stazione di Bologna, ma anche il ruolo delle fazioni palestinesi nella trattativa per liberare Moro, prima disponibili ad attivare la propria "rete", poi dileguate in un batter di ciglia.

 I documenti desecretati
  Un contributo decisivo nel focalizzare gli effetti di quel patto, passato alla storia come "lodo Moro", lo ha dato la Commissione Moro 2, che in quattro anni di lavoro (conclusi con irrituale voto unanime della Camera) ha scelto di avvalersi di migliaia di documenti desecretati dagli archivi dei Servizi italiani, di nuove prove di Polizia scientifica e Ris dei Carabinieri, di testimonianze mai attivate. Una gran quantità di "fili scoperti" sono ora riconnessi nella seconda edizione del libro "Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta", scritto da Giuseppe Fioroni, già Presidente della Commissione e da Maria Antonietta Calabrò, per molti anni giornalista di giudiziaria al Corriere della sera.
  Durante un'audizione davanti alla Commissione Moro sul tema dei traffici di armi tra palestinesi e Br, l'ex pm Giancarlo Armati ha lasciato "esterrefatti" i commissari, raccontando gli intrecci occulti tra lo Stato italiano e i palestinesi. Armati ritiene esista la "prova" che sia stato il Fronte di Liberazione della Palestina di George Habbash ad uccidere a Beirut i due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, che in un articolo aveva scritto: «La strage di via Fani è stata compiuta con armi italiane destinate all'Egitto e rientrate per vie tortuose in patria». Nel 1980 i due giornalisti arrivano a Beirut per indagare sui traffici di armi e scompaiono immediatamente. In un rapporto scritto per Armati, l'allora ambasciatore in Libano Stefano D'Andrea indicò fatti e ricostruì come nella sua ambasciata telex cifrati venissero passati al colonnello Giovannone, che da garante del patto con i palestinesi, li avvisava su ogni grana che li riguardasse. Ma non basta. Armati ha rivelato che dopo aver raccolto indizi per emettere un mandato di cattura contro Habbash, si presentò dal giudice istruttore Squillante, «che cominciò a saltare sulla sedia» e disse: «No, gli elementi non sono sufficienti!».

 Dopo il rapimento dello statista
  Dopo il rapimento di Moro, marzo '78, i palestinesi offrono collaborazione alle autorità italiane. Il canale individuato è Wadi Haddad, un capo palestinese a Berlino est, organico a Stasi e Kgb. Ma Haddad è ucciso senza che i Servizi dell'Est lo proteggano. Il ministro dell'Interno Cossiga - conoscendo il "lodo Moro" - capisce che una collaborazione troppo stretta con i palestinesi può diventare pericolosa e lascia cadere una richiesta di incontro avanzata da Nemer Hammad, uomo di Arafat in Italia. Ma il 21 giugno, con Moro appena ucciso, comunicazione «segretissima» di Giovannone: le Br hanno consegnato «personalmente ad Habbash» copia delle dichiarazioni rese dal leader Dc in prigionia su questioni di interesse palestinese. Si trattava del famoso Lodo, che i palestinesi volevano a tutti i costi secretare? E' molto probabile. Anni dopo Arafat ha scritto nelle sue memorie: il "Lodo", nel 1973, lo sottoscrisse Andreotti, non Moro.
  In merito alla strage alla Stazione di Bologna del 1980 (attribuita a terroristi neri e servizi deviati), di recente, tra macerie dimenticate per anni, è stato scoperto un «interruttore artigianale» possibile innesco per l'esplosione, «simile a quello dei tergicristalli di un'auto», incompatibile con attentatori professionali come i Servizi, pur deviati. Una scoperta che fa tornare d'attualità la tesi di Francesco Cossiga di un «trasporto finito male della "resistenza" palestinese».
  Nel libro di Calabrò e Fioroni - edito da Lindau e che punta a superare quella ''verità accettabile" frutto di un compromesso tra gli apparati dello Stato e i brigatisti - un capitolo riguarda Alessio Casimirri, «figlio del numero due della Sala stampa vaticana per 30 anni, l'unico brigatista, che pur condannato a sei ergastoli, non ha scontato un giorno di carcere. Da anni vive indisturbato in Nicaragua, il Paese nel quale approdò un miliardo di dollari sottratti al Banco Ambrosiano» e dove Maurizio Gelli, figlio di Licio, è stato nominato chargé d'affaires dell'ambasciata nicaraguense in Uruguay. Casimirri ha confidato alcune delle sue reti di protezione a un agente dei Servizi italiani che lo aveva agganciato. Raccontò che la sua fuga dall'Italia fu aiutata dal Kgb. Questo e altro stava raccontando Casimirri, quando tutto precipitò. Il 16 ottobre 1993, l'Unità sparò la notizia dell'intenzione di Casimirri di vuotare il sacco. Come ha raccontato alla Commissione Carlo Parolisi, allora agente Sisde: «Eravamo a un passo dal farlo rientrare in Italia, quel maledetto scoop fece saltare tutto».

(La Stampa, 31 ottobre 2019)


Sventato un attacco palestinese all'arma bianca

La polizia di frontiera israeliana ha sventato un attentato all'arma bianca, mercoledì mattina, all'ingresso della Grotta dei Patriarchi di Hebron, quando una palestinese armata di coltello si è avventata sui militari in servizio a un posto di controllo ma è stata colpita e ferita dall'immediata reazione degli agenti prima che riuscisse a causare vittime. Secondo un'indagine preliminare, l'attacco era premeditato e la donna era riuscita a superare precedenti controlli prima di raggiungere il luogo sacro ebraico.

(israele.net, 31 ottobre 2019)


Voci dal lager

Un muro ricorda gli internati: ottomila nomi scritti sul videowall. Quindici libri con le testimonianze dei sopravvissuti di Bolzano.

di Domenico Nunziata

 
Installazione multimediale a fianco del muro dell'ex Lager di via Resia a Bolzano
BOLZANO - Via Resia 80, settantacinque anni fa, primavera del '44. Partigiani, sospettati, mogli di combattenti, rastrellati, scioperanti, persone che hanno detto la cosa sbagliata al momento sbagliato, ebrei, zingari. Questi sono solo alcuni dei profili dei deportati che in quella primavera cominciarono a transitare nel lager nazista di Bolzano, aperto all'indomani dell'armistizio con gli angloamericani del '43.
   In ricordo di quei detenuti oggi, in via Resia, c'è il «Passaggio della memoria», una sorta di museo all'aperto dove è stato inaugurato un monumento. Un muro, riferito a quello del lager, composto da 32 lastre di vetro grigio che fanno apparire e scomparire i nomi dei deportati, alternandoli.
   I nomi sono circa 8.000 e stanno proseguendo le ricerche per aggiungere quelli che mancano. Dal lager sono transitate circa 11mila persone, un quarto del totale dei deportati in Italia. Di questi circa 3.500 sono stati trasportati nei lager in Germania, 2.500 non sono più tornati a casa. A nord ci si arrivava ovviamente attraversando il Brennero, con i camion o stipati in condizioni umilianti sui treni. A Bolzano si partiva dai binari di via Pacinotti, i resti delle vie ferrate sono ancora lì. Nel lager arrivarono per la maggior parte detenuti per motivi politici, più che per motivi razziali.
   Dietro ogni nome, una storia. Alcune di queste, quelle di chi è passato da Bolzano, le hanno raccolte Carla Giacomozzi, responsabile dell'Archivio storico di Bolzano, insieme a Giuseppe Paleari, ex referente della Biblioteca Popolare di Nova milanese. I due curatori del progetto «Testimonianze dai Lager» hanno intervistato nel 2000 alcuni sopravvissuti, molto giovani all'epoca del lager. Ne hanno fatto poi volumi che rispondono alla domanda «Chi erano i detenuti?».
   Uno di loro era Luigi Emer, trentino, combattente partigiano, Avio era il suo nome di battaglia. Emer fu arrestato a 26 anni dopo un combattimento contro un presidio nazifascista a Cavalese. Non fece fermare il combattimento ai suoi compagni, nonostante le fratture alla gamba destra e al braccio sinistro causate dalla bomba a mano che gli era esplosa addosso. Emer nell'intervista ricordò il numero di matricola e quasi tutti i nomi dei suo compagni di lager a Bolzano. Del giorno della liberazione disse: «Eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, di fronte alla realtà che non conoscevamo più, che avevamo dimenticato. Vedere altra gente, movimento ...».
   Emer si ricordò anche le persone da cui era meglio stare alla larga, come i due aguzzini ucraini che potevano far fare una brutta fine a chi avesse incrociato il loro passo o «La Tigre», la feroce donna che stava per farlo assalire dai cani. «Da Bolzano con i cani che c'erano non si andava via», raccontò in un'altra intervista Luigi Isola, originario della provincia di Savona. Isola aveva poco più di vent'anni quando venne arrestato e portato a Bolzano, perché era comunista, ma ci rimase solo cinque giorni. Isola venne deportato poi a Mauthausen e Birkenau e in totale sopravvisse a cinque lager. È rimasta per poco tempo nel lager anche Ida Desandrè, da Aosta, nata il 10 ottobre 1922. Dopo aver trascorso venti giorni a Bolzano, il 10 ottobre del '44 partì verso il campo di concentramento di Ravensbrück, poi Bergen Belsen. Le accuse verso Ida erano comuni: lei era moglie di un militare scappato dopo l'armistizio e, blandamente, partecipò alla resistenza. Il giorno della liberazione tornò con il convoglio passando dal Brennero con stazione a Bolzano, da dove era partita, ma stavolta poteva andarsene da donna libera. Oltre a una rete di solidarietà interna tra detenuti (le donne ebbero un ruolo fondamentale), nel lager di Bolzano qualcuno riuscì a far passare anche viveri e denaro.
   Don Guido Pedrotti, nome che ricordò anche Emer, venne scoperto e deportato prima a Mauthausen e poi a Dachau. Il giorno della liberazione cantò, arrivando di nuovo al Brennero: «Mamma son tanto felice, perché ritorno da te!», al posto di Fratelli d'Italia, Giovinezza e Bandiera rossa, proposte dai compagni di convoglio. Pedrotti non volle mai ricordare il suo numero di matricola. Questi, però, come i precedenti, sono solo frammenti di storie più complesse, che forse potranno condurre il lettore a risalirvici; sono le storie originali di chi è morto e di chi è sopravvissuto, che ha avuto il compito ingrato di raccontare anche le storie dei primi e, innanzitutto, di ricordare i loro nomi.

(Corriere del Trentino, 31 ottobre 2019)


Gantz: "Se premier, promuoverò il pluralismo ebraico"

Una piccola scossa nella politica israeliana. A darla, l'annuncio del leader di Kachol Lavan Benny Gantz di voler abbracciare, se dovesse diventare primo ministro d'Israele, tutte le correnti dell'ebraismo e rilanciare un accordo che garantirà ai movimenti reform e conservative lo stesso status al Kotel, il Muro Occidentale di Gerusalemme, dell'ebraismo ortodosso. "Facciamo parte di un mosaico di culture e tradizioni", ha detto Gantz nel corso del congresso dell'Agenzia Ebraica organizzato nella capitale israeliana. "Nutrirò questo pluralismo. Promuoverò l'attuazione dell'accordo per il Muro occidentale. Ogni volta che vado al Kotel guardo quel mare di pietre: le loro diverse dimensioni e forme sono come le correnti che abbiamo nell'ebraismo".
   L'accordo di cui parla Gantz è quello siglato e poi congelato dal Primo ministro uscente Benjamin Netanyahu che prevedeva la realizzazione di una nuova area al Muro Occidentale, definita egalitaria, in cui uomini e donne dei movimenti dell'ebraismo Conservative e Reform avrebbero potuto pregare insieme. L'intesa, su pressione dei partiti haredi (ultraortodossi), è stata affossata oramai due anni fa e ora - in un momento in cui laicità e religione sono al centro della battaglia politica in Israele - Gantz ha scelto il palco dell'Agenzia Ebraica per presentarsi come il rappresentate di tutti gli ebraismi. "Israele ha bisogno di un governo stabile, responsabile e pragmatico. Un ampio governo di unità liberale, che ho deciso di istituire dal momento in cui sono entrato in politica meno di un anno fa. Questo è il governo che il popolo ha scelto e di cui ha bisogno", ha dichiarato Gantz, ricevendo diversi applausi dal pubblico.
   Dallo stesso palco, il premier uscente Netanyahu - intervenuto prima del leader di Kachol Lavan - non ha menzionato il tema del Kotel o del pluralismo. Ha scelto invece di concentrarsi sulle pressanti minacce che Israele deve affrontare sul fronte della sicurezza, Iran in primis. Un tema rilanciato anche durante l'incontro con il segretario al Tesoro degli Usa, Steven Mnuchin. "Riteniamo l'Iran la più grande minaccia alla pace, alla stabilità e alla sicurezza nostra e di molti altri - le parole di Netanyahu -. Ha colpito l'Arabia Saudita. Ha interferito nelle rotte marittime internazionali". Rispetto a un governo di unità nazionale, il leader del Likud ha detto di aver lasciato la porta aperta a Gantz ma che sono le forze interne a Kachol Lavan a non voler arrivare a un accordo.
   Ciascuna delle parti di fatto si rimbalza le responsabilità per la mancata intesa e formazione dell'esecutivo. Ad auspicare che i due trovino un accordo anche il genero del Presidente Usa Donald Trump, Jared Kushner, che si sta occupando di rilanciare un possibile piano di pace tra israeliani e palestinesi. Intervistato dall'emittente israeliana Kan, Kushner, dopo aver incontrato sia Netanyahu che Gantz, ha spiegato di aver detto a entrambi che "in questo momento nella regione ci sono davvero enormi opportunità che abbiamo costruito negli ultimi due anni, ma ancora di più che possiamo cogliere insieme, quindi sarebbe bello per Israele capire come formare un governo in modo da poter iniziare a lavorare su tutte le grandi priorità e le opportunità che esistono".
   Gantz e Netanyahu si sono incontrati negli scorsi giorni e il dialogo proseguirà. "Continuerò con tutti gli sforzi per formare un governo di unità e per prevenire terze elezioni per lo Stato di Israele", ha detto Gantz, che per farlo dovrà fare delle concessioni a Netanyahu, che vuole essere il primo in un'eventuale rotazione della premiership. Il leader di Kachol Lavan ha descritto il vertice come "un incontro d'affari" e ha aggiunto che ci saranno altri incontri in futuro.

(moked, 30 ottobre 2019)


Gadi Luzzatto Voghera: conoscere, studiare e divulgare per battere l'antisemitismo

di Roberto Savoiardo

CISTERNA - Mercoledì 23 ottobre nel castello di Cisterna Gadi Luzzato Voghera ha presentato il suo libro Antisemitismo (Editrice bibliografica). Storico dell'ebraismo, nel suo saggio Voghera ricostruisce i percorsi che sono alla base del fenomeno ed analizza le ripercussioni odierne con i social network.

- Professor Luzzatto, l'Ottocento e il Novecento sono i due secoli che, dall'affaire Dreyfus alla Shoa, più si collegano all'antisemitismo. Quali sono le radici e le eredità di questo fenomeno?
  «Nell'800 prende forma in Europa e negli Usa la moderna società borghese: gli ebrei ottengono l'emancipazione giuridica e vengono equiparati agli altri cittadini. Da quel momento prendono parte a tutti gli aspetti della società e la loro improvvisa presenza sulla scena pubblica viene vista da alcuni settori con sospetto. Nasce in quel contesto l'antisemitismo come ideologia politica: un linguaggio che si struttura nell'800 ma che matura i suoi esiti più drammatici nel secolo successivo».

- Che rapporto esiste oggi tra l'antisemitismo da una parte e la Shoa e le politiche israeliane dall'altra?
  «L'antisemitismo si nutre di elementi che derivano dalla tradizione teologica antigiudaica, fortemente radicato nel cristianesimo e in certe interpretazioni islamiche. A questi pregiudizi si sono sommati nuovi temi tuttora spendibili politicamente: la teoria del complotto, l'identificazione dell'ebreo cui si attribuiscono caratteristiche false. In questo modo negli ultimi anni la manipolazione dello sterminio nazista, associata ad altri aspetti, si è trasformata in nuovi linguaggi praticabili, buoni per un manifesto elettorale o per una chat su Whatsapp».

- Cos'è e come si affronta oggi l'antisemitismo?
  «In Italia i sondaggi ci dicono che l'11% della popolazione (circa 7 milioni di cittadini) esprimono un antisemitismo "puro", incentrato su risposte ostili a prescindere. È antisemitismo ogni volta che viene attribuito agli ebrei, alla loro tradizione religiosa o alle istanze politiche che vorrebbero rappresentarli (sia il sionismo o la politica israeliana), una serie di caratteristiche basate sul pregiudizio. Quindi la risposta non può che muovere dal piano culturale: conoscere, studiare e divulgare le dinamiche storiche che hanno portato una minoranza a essere parte della costruzione delle civiltà europea, mediorientale e americana».

(Gazzetta d’Alba, 31 ottobre 2019)



Parigi: Macron inaugura il nuovo Centro europeo dell'ebraismo

Dopo quattro anni di lavori, è stato finalmente inaugurato mercoledì 30 ottobre il Centro europeo dell'ebraismo (CEJ) a Parigi, un complesso religioso e culturale, in un momento di crescente antisemitismo in Francia e altrove in Europa. Come riporta Ejpress.org, era presente alla cerimonia anche il presidente francese Emmanuel Macron.
"In un momento in cui l'antisemitismo sta riemergendo, resistere non è solo una questione di protezione o risposta, ma soprattutto di conversione di cuori e menti, questo è ciò che viene fatto qui in questo centro", ha affermato il presidente Macron nel suo discorso. "L'ebraismo ha svolto un ruolo chiave nell'unità del continente per costruire il pensiero e la civiltà europea, fondamentalmente modellare chi siamo. È una parte ebraica dell'anima europea, plasmata in tempi bui e in giorni felici ", ha aggiunto.
Alla domanda se avrebbe detto agli ebrei francesi di non fare la loro aliya e di rimanere in Francia, Emmanuel Macron ha risposto: "No, rispetto tutti. Dico agli ebrei di Francia che hanno il loro posto in Francia, che qui sono amati e che hanno una storia radicata nella Repubblica. La loro partenza è un'amputazione di ciò che la Repubblica è, nella sua storia, nei suoi valori".

 Un progetto da 10 milioni di euro
  Il nuovo centro si trova a Porte de Courcelles, nel diciassettesimo arrondissement popolato di ebrei di Parigi. La scelta del quartiere non è casuale: il centro di gravità dell'ebraismo si è spostato in modo significativo dall'est all'ovest di Parigi, più opulento e ritenuto più sicuro. Il diciassettesimo distretto è apprezzato dalla comunità, dove si trovano molti negozi kasher.
Il Centro europeo dell'ebraismo(CEJ) comprende tre entità che coprono un'area di quasi 5.000 m2. Una sinagoga di 600 posti, di cui 200 per le donne nel mezzanino, sarà affiancata da due edifici di cinque e sette piani: uffici e, soprattutto, un centro culturale di 2.500 m2 con sale per spettacoli ed esposizioni.
Il costo è di almeno 10 milioni di euro, di cui circa 2,7 milioni sono sostenuti da fondi pubblici (stato e regione) per la parte culturale. La città di Parigi ha posto il terreno di 1.650 m2, a disposizione del Concistoro, il corpo principale dell'ebraismo francese, che porta il progetto. I prestiti, e in particolare le donazioni, devono coprire almeno sette milioni di euro.
Circa un terzo del costo del nuovo centro proveniva da donazioni private, il resto da sussidi e sponsorizzazioni comunali e governative da parte di aziende e gruppi no profit.
La città di Parigi ha accettato di dare il costoso pezzo di terra alla comunità ebraica per il progetto più di 20 anni fa. La costruzione è iniziata nel 2015.
Alcuni nella comunità ebraica avevano contestato la necessità di costruire un tale centro in un momento in cui così tanti ebrei francesi hanno deciso di lasciare la Francia. Ma il Consistoire sotto Joel Mergui ha deciso di portare avanti il progetto in segno di "resistenza all'antisemitismo".

(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2019)


Israele: la Giordania richiama in patria l’ambasciatore

A pochi giorni dai 25 anni del Trattato di pace, Israele e Giordania sono in piena crisi diplomatica. Amman ha annunciato il richiamo in patria per consultazioni dell'ambasciatore Ghassan al-Majali in protesta contro la detenzione "inumana e illegale" nello Stato ebraico di due cittadini giordani, Heba Labadi e Abdulrahman. Il ministro degli Esteri hashemita, Ayman Safadi, ha detto che questo è "un primo passo" e che la Giordania ritiene "Israele pienamente responsabile delle vite dei nostri cittadini".
   Labadi - 32 anni e di origine palestinese - è agli arresti amministrativi in Israele (detenzione senza formali accuse) dallo scorso 20 agosto quando fu fermata al valico di frontiera di Allenby. Lo scorso ottobre lo Shin Bet (sicurezza interna di Israele) ha detto che la ragazza è trattenuta "nel sospetto del suo coinvolgimento in gravi violazioni della sicurezza" ma senza ulteriori precisazioni. Labadi è in sciopero della fame nel carcere di Haifa da 36 giorni e - secondo il 'Club dei prigionieri', organizzazione palestinese che si occupa dei detenuti - la sua salute si è deteriorata al punto da essere stata ricoverata varie volte in ospedale. Anche per l'altro detenuto, Abdulrahman Miri, fermato lo scorso settembre sempre al valico di Allenby, la Giordania ha denunciato condizioni di salute precarie.
   Intanto, il ministero degli Esteri giordano ha annunciato che è stato arrestato un cittadino israeliano "entrato clandestinamente nel territorio" del regno nella Valle del Giordano. Lo riporta l'agenzia ufficiale Petra. Il portavoce del ministero Sufian al-Qudah ha sostenuto che le autorità stanno indagando per poi inviare l'uomo "alle autorità competenti per le necessarie misure legali". Il sito israeliano Ynet cita in merito il presidente della commissione per gli Affari esteri del parlamento giordano, Nidal Thani, secondo cui è opportuno che l'israeliano sia trattenuto adesso in Giordania come "carta di scambio" al fine di liberare i due cittadini giordani che sono sottoposti ad arresti amministrativi in Israele. Lo stesso sito cita inoltre il deputato giordano Khalil Atya secondo cui il governo del suo Paese deve sfruttare la situazione creatasi per esigere la liberazione di 22 cittadini giordani che, a quanto gli risulta, scontano pene varie in Israele. Da parte sua la radio militare israeliana ha riferito che ancora non c'è certezza che l'uomo entrato illegalmente ieri in Giordania abbia effettivamente la cittadinanza israeliana.

(ANSAmed, 30 ottobre 2019)


Il produttore israeliano di veicoli da combattimento Carmor presentato il veicolo "Mantis"

Il veicolo è stato esposto alla fiera della Difesa a Parigi ed è la prima variante di una nuova famiglia di veicoli progettati per svolgere missioni di supporto al combattimento.
  Per soddisfare i più elevati livelli di protezione richiesti dagli utenti, l'azienda ha ottimizzato il design per fornire protezione balistica e antiaerea, pur mantenendo un'elevata agilità e mantenendo un'adeguata capacità di carico utile con un peso lordo del veicolo inferiore alle otto tonnellate. Le dimensioni e il peso del veicolo consentono la mobilità aerea tattica nei velivoli da trasporto C-130 Hercules e A-400M. Con tali caratteristiche, Carmor posiziona il Mantis per offrire prestazioni della classe del veicolo statunitense JLTV ad un costo accessibile.
  A differenza dei modelli di veicoli più pesanti sviluppati da Carmor e dal suo predecessore 'Hatehof', il Mantis, basato su un design innovativo:
  • è più leggero,
  • più agile,
  • modulare".
Eitan Zait, CEO di Carmor, ha spiegato: "Abbiamo progettato, sviluppato e costruito migliaia di veicoli, in decine di configurazioni, tutti progettati per soddisfare le specifiche esigenze del cliente". "Mantis nasce da un design pulito, che riflette il meglio che i progettisti Carmor potevano offrire".

 Varianti della famiglia Mantis
La famiglia è costituita da una comune capsula mono-scocca che fornisce il telaio e la cabina protetta per le diverse varianti. Il telaio elimina la necessità di un telaio tradizionale e consente la flessibilità di estendere il veicolo fino a 150 cm, per soddisfare specifiche configurazioni.
Tutte le varianti utilizzano sottosistemi e parti comuni. Il powerpack è costituito da un turbodiesel Cummins da 6,8 litri e 360 cavalli di potenza accoppiato ad un cambio automatico Allison a 6 marce, che aumenta la stabilità del veicolo. Il sistema di raffreddamento si trova anche nella parte posteriore, alimentato da condotti dell'aria su entrambi i lati e sul tetto. Il motore accelera il Mantis da otto tonnellate fino ad una velocità massima su strada di 120 km/h. Utilizzando sistemi automobilistici e componenti certificati per uso commerciale e racing; il sistema 4x4 è stato progettato per la mobilità e la versatilità nel fuoristrada.
  I veicoli comprendono un versatile porta-attrezzi a doppia cabina che trasporta cinque soldati e una versione a cabina completa che ne ospita otto. Alcuni dei progetti incorporano una piattaforma rialzata che monta carichi utili fino a 150 kg di peso, come le stazioni d'arma telecomandate mostrate sul prototipo esposto all'Eurosatory.
  Una variante di pickup con cabina singola, ospita tre soldati ed ha un pianale più grande; una variante della cabina completa è configurata come ambulanza e ospita un piccolo equipaggio e ampio spazio per barelle e medici.
  La società Carmor considera anche una variante "veicolo d'assalto veloce e leggero" che utilizza la stessa struttura e offre protezione al pianale del mezzo.

Queste varianti possono supportare un'ampia varietà di applicazioni che trasportano armi diverse:
  • mortai,
  • missili,
  • mitragliatrici,
  • postazioni remote,
  • equipaggiamenti da ricognizione e scout, inclusi alberi telescopici optronici, robotica terrestre e aerea, radar tattici e attrezzature da contro-UAV.
 Agilità e protezione equilibrate
  I progettisti della Carmor hanno raggiunto un alto livello di protezione ad un'altezza relativamente bassa, utilizzando un design avanzato del pianale che mantiene un baricentro basso con un'eccellente protezione contro le esplosioni, ottenendo un'altezza complessiva del veicolo inferiore a 2,20 metri. La superiore mobilità fuoristrada si ottiene con un passo corto, un'altezza da terra di 0,65 metri e angoli di avvicinamento e di partenza superiori ai 50 gradi, tutti fattori critici per una buona mobilità fuoristrada. Il potente motore e le trasmissioni sostengono il movimento oltre il 70% di pendenza, il 40% di pendenza laterale, fino a 0,5 metri di salita ad ostacoli, attraversamento di trincee e guado attraverso l'acqua a un metro di profondità.
  Il "Mantis" mantiene un equilibrio ottimale tra agilità, protezione e comfort. Posizionando il motore al centro, tra la cabina e il pianale, sono stati liberati sei metri cubi di una cabina protetta, che può ospitare comodamente cinque soldati in sedili singoli. Questi sedili protetti da esplosioni, realizzati da Mobius-PS, sono stati appositamente progettati per attenuare gli effetti delle esplosioni sotto il pianale, in quanto agiscono con il "pavimento galleggiante" e la forma del pianale appositamente progettata per ridurre al minimo l'effetto delle esplosioni di IED e mine.

Nonostante la sua forma bassa e relativamente leggera, il Mantis offre:
  • Un'elevata protezione di base anti-balistiche, IED e protezione contro le mine.
  • protezione balistica al livello 3 di STANAG 4569, con una protezione minima contro le mine (livello 1);
  • Con l'aggiunta di piastre modulari per la sostituzione delle corazze, Mantis può affrontare minacce molto più pesanti con una protezione balistica aggiornata al livello 4 e una protezione contro le esplosioni al livello 2A/3B.
  • Utilizzando moduli di armatura relativamente piccoli e trasparenti, la cabina offre un'eccellente visione frontale e laterale, ha detto Boaz a Defense-Update.
  • La protezione Mantis non riguarda solo la balistica e l'esplosione, ma anche la mobilità del veicolo.
  • Utilizzando gli inserti Run-flat, Mantis mantiene la mobilità anche dopo aver subito più colpi nei pneumatici; 105 litri di carburante sono immagazzinati in due serbatoi indipendenti per supportare un'autonomia di missione di 700 km con carburante interno.
(Si Vis Pacem Para Bellum, 30 ottobre 2019)


Docente israeliano fa scandalo: Rabin non fu ucciso da Amir

di Ugo Maria Tassinari

Mordechai Keidar
Hanno destato scalpore in Israele le affermazioni di un noto docente universitario, il dottor Mordechai Keidar dell'Università Bar Ilan (Tel Aviv), secondo cui il vero assassino di Yitzhak Rabin "non è a quanto pare Igal Amir" - l'estremista ebreo che da allora sconta l'ergastolo - ma una persona di cui egli ha fornito le iniziali: Y.R.
Secondo Keidar il mandante del più grave delitto politico di Israele sarebbe stato un influente esponente politico che a suo dire intendeva rimuovere Rabin dalla scena politica per impedirgli di recedere dagli accordi di Oslo con Yasser Arafat.
Keidar si è così espresso ieri durante un comizio organizzato da sostenitori del Likud, dai quali è stato applaudito. Oggi il premier Benyamin Netanyahu ha pubblicato un comunicato di condanna in cui ha definito "scempiaggini" le sue tesi.
Anche l'Università Bar Ilan - in cui studiava Amir - ha preso le distanze dal suo intervento, che peraltro è avvenuto a pochi dal giorno di lutto in cui ogni anno Israele ricorda l'assassinio di Rabin, avvenuto il 4 novembre 1995.

(FascinAzione, 30 ottobre 2019)


Schiaffo di Palermo alla pace in Israele. Orlando intitola il lungomare ad Arafat

Polemica sulla scelta di rendere omaggio al leader palestinese vicino al terrorismo. Quando Spadolini non volle riceverlo.

di Alberto Giannoni

Palermo da oggi ha un lungomare Yasser Arafat. Un tratto del luminoso viale che si affaccia sul porto viene dunque intitolato a uno dei personaggi più controversi della tormentata storia mediorientale.
Nato al Cairo in Egitto, «inventore» della nazione palestinese, Arafat è sempre rimasto in bilico fra il mondo della politica e quello del terrorismo, tanto da ricevere contemporaneamente riconoscimenti e gravi accuse.
   La cifra del personaggio è sicuramente l'ambiguità, plasticamente simboleggiata, durante la sua discussa prima visita in Italia, dall'ingresso alla Camera con tanto di pistola. Erano quelli i giorni drammatici del settembre 1982. E Arafat, che aveva a suo carico un mandato di cattura internazionale, fu ricevuto con tutti gli onori in Italia, anche dal Papa e dal presidente Sandro Pertini. L'unico a non riceverlo fu il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. E fu appunto l'ingresso a Montecitorio a suscitare un caso nel caso, visto che Arafat non volle separarsi dalla sua pistola. Ma d'altra parte già all'Assemblea generale dell'Onu, nel novembre 197 4 a New York, si era presentato con la pistola e il ramoscello d'ulivo. E questa doppiezza non è mai stata risolta.
   Tentando di prevenire le polemiche, il sindaco Leoluca Orlando alla cerimonia ha ovviamente enfatizzato la figura dell'Arafat diplomatico. «Palermo - ha dichiarato - nel 1996 ha intitolato una via della città al Premio Nobel Yitzhak Rabin, ucciso nel 1995, e oggi un piazzale sul lungomare a Yasser Arafat, che con Rabin ha condiviso il premio Nobel. Gli accordi di Oslo - ha detto - si devono al loro coraggio perché hanno compreso che la pace può superare e supera vecchie inimicizie tra i popoli. Sarebbe importante, e io nutro speranza - ha concluso - che si possa tornare allo spirito di Oslo e ad una duratura pace tra i popoli».
   Molta acqua è passata sotto i ponti, dalle speranze di pace e dal ritornello dei «due popoli due Stati». Ma nell'ultima parte della sua vita, piuttosto che un interlocutore di pace Arafat è stato l'uomo che ha
rifiutato un accordo di pace vantaggioso, rigettando a Camp David la generosa proposta del premier laburista israeliano Ehud Barak, che gli offriva quasi tutto, a partire da uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza.
   A Palermo l'opposizione ha chiaramente criticato la decisione, che rientra peraltro in una consolidata politica estera dei Comuni che vede primeggiare proprio i due sindaci delle «capitali» meridionali. Il primo cittadino di Napoli Luigi de Magistris infatti, ha concesso nel 2013 la cittadinanza onoraria al successore di Arafat, Abu Mazen, e poi a Bilal Kayed, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
   Da questo delirio toponomastico si tiene invece saggiamente fuori la città di Roma, che domani dedicherà una via a Elio Toaff, rabbino capo della Capitale dal 1951 al 2001, massima autorità dell' ebraismo italiano del dopoguerra, partigiano, uomo della ricostruzione e della speranza.

(il Giornale, 30 ottobre 2019)


Il generale Carabinieri partecipa in Israele alla commemorazione per il giudice Giannola

Giovanni Nistri, Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri
ROMA - Il generale Giovanni Nistri, comandante generale dei Carabinieri, ha partecipato in Israele alla cerimonia in memoria dei caduti dell'Arma e del magistrato Antonino Giannola, presidente del tribunale di Nicosia barbaramente ucciso il 26 gennaio 1960. È quanto si legge in un tweet ufficiale dei Carabinieri, secondo cui il generale Nistri ha partecipato alla piantumazione di una quercia: "Come nel nostro stemma, simbolo di forza, saldezza, valore. Oltre al generale Nistri, alla cerimonia hanno partecipato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm), David Ermini, il consigliere Piercamillo Davigo, l'ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, e rappresentanti del Fondo nazionale ebraico. La commemorazione si è svolta nella foresta presidenziale di Tsorà, nel bosco dedicato ai magistrati italiani assassinati dalle organizzazioni terroristiche e criminali.

(Agenzia Nova, 30 ottobre 2019)


Ebreo aggredito a Berlino e salvato da un passante

L'aggressione è avvenuta nel distretto di Pankow. Oggi il governo varerà un pacchetto di legge contro il razzismo e i crimini d'odio.

Nuovo attacco antisemita a Berlino. Nel distretto di Pankow un settantenne è stato aggredito da uno sconosciuto, che prima l'ha insultato e offeso e poi l'ha ripetutamente colpito alla testa e al mento, al che l'anziano è caduto. Solo grazie all'intervento di una passante l'assalitore si è dato alla fuga. L'ufficio criminale competente per i reati a sfondo politico ha aperto un'inchiesta. Immediata la condanna del sindaco di Berlino, il socialdemocratico Michael Mueller: «Non può essere che un semplice passante venga offeso in termini antisemiti in pieno giorno e poi picchiato quando cerca di difendersi verbalmente. Sono cose che nella nostra città, in considerazione di quella che è la nostra storia, semplicemente non devono accadere e che non devono mai diventare normalità. Si tratta di un episodio per il quale provo ancora una volta
vergogna».
   Di recente è tornato alla ribalta il precedente di un assalto nei confronti del rabbino della comunità ebraica di Berlino, Yehuda Teichtal, che lo scorso luglio, mentre era in compagnia dei suoi figli, era stato coperto di sputi e offeso in arabo da alcuni uomini: l'inchiesta in proposito avviata dalla polizia e dalla procura è infatti stata sospesa, dato che, nonostante le testimonianze e l'analisi dei loro cellulari, nei confronti delle persone sospettate non si sono potute stabilire con certezza prove di colpevolezza.
Sulla vicenda di Pankow è intervenuta anche la ministra alla famiglia Franziska Giffey, che si è detta «preoccupata» per l'aumento degli episodi di antisemitismo in Germania. Ad un incontro con alcuni rappresentanti della comunità ebraica, ha affermato che si tratta di una «condizione non sostenibile» che vi siano persone che nel Paese non si sentano al sicuro a causa della loro appartenenza religiosa o culturale.Per oggi si attende il varo di un pacchetto di misure da parte del governo contro l' estremismo di destra e l'antisemitismo.

(Il Dubbio, 30 ottobre 2019)


Delirio buonista a Parma. Certificato antifascista per avere il passo carraio

Il Comune chiede anche un attestato contro il razzismo per rilasciare il divieto di sosta.

di Paolo Bracalini

Vuoi un passo carraio davanti a casa? Devi essere antifascista e attestare la tua adesione ai valori della Resistenza con una dichiarazione firmata al Comune. Si tratta di quello di Parma, in Emilia, regione rossa per definizione (a meno di sorprese alle prossime regionali di gennaio). Il regolamento comunale per l'apertura di un passo/accesso carrabile a Parma ha questa particolarità. Non basta produrre scartoffie burocratiche e pagare spese, marche da bollo e altri oboli. No, a Parma, per ottenere dal Comune il permesso di esporre un divieto di sosta davanti al proprio portone o cancello, bisogna anche dichiarare di essere antifascisti.
   Se si ha un box su strada senza essere antifascisti, niente passo carraio. Lo specifica molto chiaramente il modulo per la «Richiesta di occupazione permanente di spazi ed aree pubbliche per passi/accessi carrai» predisposto dal Settore Mobilità ed Energia del Comune guidato dall'ex grillino Federico Pizzarotti. Il documento invita prima di inoltrare la richiesta al Comune a «leggere attentamente» queste dichiarazioni aggiuntive da sottoscrivere. Chi aspiri al passo carraio deve necessariamente attestare «di riconoscersi nei principi costituzionali democratici e di ripudiare il fascismo ed il nazismo; di non professare e non fare propaganda di ideologie nazifasciste, xenofobe, razziste, sessiste o in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, minacciando od usando la violenza quale metodo di lotta politica o propagandando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni ed i valori della Resistenza». Infine «non compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e/o nazista, anche attraverso l'uso di simbologie o gestualità ad essi chiaramente riferiti». Quindi anche una foto di Mussolini in casa potrebbe far decadere il diritto al passo carraio, così pure un saluto romano potrebbe far aprire una contestazione da parte degli uffici comunali. Non si tratta solo di fascismo, ma più in generale chi voglia uscire di casa o dal magazzino con l'auto non può essere xenofobo, razzista o sessista. Contesti lo sbarco di migranti? Scordati il passo carraio, il Comune di Parma non te lo dà. Ti permetti di fare battute sessiste ad una donna? Se lo sanno quelli del settore Mobilità, puoi dire addio al cartello «divieto di sosta» davanti al portone di casa tua.
   Si tratta di una originale del Comune di Parma. A Milano, ad esempio, si può richiedere lo stesso permesso senza doversi dichiarare partigiani. Parma è molto attiva su questo fronte. Già l'anno scorso l'amministrazione ha introdotto il «bollino antifascista» obbligatorio per le associazioni che chiedano l'uso di immobili comunali, oppure di occupare un'area pubblica per una manifestazione, avanzare una richiesta di contributo economico o il patrocinio per un evento sportivo. Mancava la dichiarazione di antifascismo per il passo carraio.

(il Giornale, 30 ottobre 2019)


Abbiamo riportato questo articolo perché si muove nella stessa direzione di due articoli riportati ieri. Si tratta di piccoli ma chiari segni che la società sta passando da una forma di governo che comincia stabilendo norme precise e a posteriori disciplina comportamenti ad una forma di governo che comincia proclamando valori universali e a priori controlla intenzioni. Potrebbero essere i segni premonitori di un totalitarismo global-socialista prossimo venturo. M.C.


Israele vuole tornare sulla Luna… e atterrare dolcemente

di Marco Carrara

 
Israele, che aveva sperato di diventare il quarto paese in grado di riuscire a far atterrare dolcemente sulla Luna un veicolo spaziale, malgrado il fallimento del primo tentativo intende progettare una nuova missione per rivendicare quel tanto ambito titolo.
   La missione di Beresheet dello scorso aprile si era conclusa con lo schianto della sonda sul suolo lunare. Un errore del computer di bordo aveva introdotto un ritardo nell'accensione dei propulsori. La sonda, non riuscendo a rallentare come previsto, si era schiantata sulla superficie lunare. Sei mesi dopo, un rappresentante del produttore aerospaziale di proprietà del governo israeliano ha offerto ai partecipanti riuniti per il 70o Congresso Astronautico Internazionale un riassunto di ciò che è andato storto, e un'introduzione su quello che Israele spera di fare dopo sulla Luna.
   «Siamo molto orgogliosi e contenti della missione Beresheet», ha dichiarato Ehud Hayun, ingegnere di sistemi spaziali presso la Israel Aerospace Industries, azienda responsabile della costruzione della navicella spaziale. «Questa missione ci ha reso il settimo paese in orbita attorno alla Luna e il quarto a tentare l'atterraggio». Con un buon senso dell'umorismo, le diapositive mostrate durante la presentazione hanno aggiunto a quella lista l'affermazione che Israele è diventata la terza nazione che è riuscita a far atterrare troppo velocemente una sonda sulla Luna.
   Con un budget di circa 100 milioni di dollari a disposizione, la missione di Beresheet è stata progettata per essere la più economica possibile. Sulla sonda non sono stati implementati sistemi ridondanti, scelta tecnica che ha si permesso un grosso risparmio di denaro ma ha anche introdotto il fattore di rischio che alla fine ha compromesso il buon esito della missione.
   La missione ha dovuto affrontare diverse sfide e anomalie durante il viaggio. Il più lungo e tortuoso percorso verso la Luna, una rotta scelta appositamente per rendere il lancio più economico, ha esposto la navicella spaziale a un maggior quantitativo di radiazioni. Il computer di bordo del veicolo spaziale si è resettato più volte durante il viaggio e ciò ha provocato il ritardo nell'accensione dei propulsori, anomalia che non ha permesso la corretta riduzione della velocità di atterraggio e ha fatto schiantare la sonda sulla superficie lunare.
   Nonostante il fallimento, Israele non ha intenzione di smettere di inseguire la Luna. Il team di specialisti che ha supportato la missione di Beresheet è rimasto ed è loro intenzione far volare una nuova versione del lander entro i prossimi due o tre anni.
   La nuova navicella spaziale introdurrà modifiche progettuali volte ad aumentare le probabilità di successo della missione. Le nuove versioni verranno dotate di computer aggiornati e, a differenza del primo Beresheet, saranno dotate di un sistema che permetterà di evitare eventuali ostacoli che si dovessero presentare in fase di atterraggio.
   Al prossimo lancio, il team israeliano avrà un vantaggio: l'esperienza acquisita con la precedente missione. «A livello tecnico, le cose erano molto difficili perché avevamo definito un compito enorme: la prima missione lunare a basso costo», ha detto Hayun. «Non avevamo nessun riferimento da studiare perché non era mai stato fatto prima».

(AstronautiNews, 29 ottobre 2019)


Bernie Sanders: «Usiamo i soldi per la difesa di Israele per aiutare Gaza»

Allucinante e allucinato intervento di Bernie Sanders dai soliti "amici di Israele" di J Street

di Maurizia De Groot Vos

Una parte dei 3,8 miliardi di dollari che gli USA destinano annualmente alla difesa di Israele potrebbero essere deviati a progetti umanitari per Gaza.
A sostenerlo è stato Bernie Sanders, uno dei candidati democratici alle presidenziali USA durante la conferenza annuale organizzata da J Street, un gruppo americano liberale che si dichiara "pro-Israele" ma che in più di una occasione ha preso posizioni fortemente anti-israeliane.
Il senatore del Vermont ha promesso che, nel caso venga eletto alla presidenza degli Stati Uniti, userebbe i 3,8 miliardi di dollari destinati ogni anno alla difesa di Israele per "costringere" Israele a fermare gli insediamenti e trattare con i palestinesi.
«Sono molti soldi» ha detto Sanders «e non possiamo darli fornendo carta bianca al governo israeliano, o comunque a nessun governo. Abbiamo il diritto di chiedere il rispetto dei diritti umani e della democrazia».
«La mia soluzione per Israele è: se vuoi un aiuto militare dovrai cambiare radicalmente il tuo rapporto con il popolo di Gaza» ha poi continuato il candidato democratico.
«Direi che una parte dei 3,8 miliardi di dollari dovrebbero essere destinati proprio ora agli aiuti umanitari a Gaza» ha proposto Bernie Sanders.
Sanders afferma che «ciò che sta accadendo a Gaza in questo momento, ad esempio, è assolutamente disumano. È inaccettabile. È insostenibile».
Il candidato democratico alla presidenza USA di recente si è concentrato proprio sulla situazione di Gaza incolpando (naturalmente) Israele per la tragica situazione in cui versa la Striscia.
Peccato che dimentichi che Gaza non è un territorio democratico, che è governato da una dittatura (quella di Hamas) che di recente si è alleata con l'Iran e che per mesi ha continuato a sparare missili sui civili israeliani e che, nonostante tutto questo, l'unico paese che permette agli aiuti umanitari di entrare a Gaza è proprio Israele.
Bernie Sanders dimentica poi (o fa finta di dimenticare) che la comunità internazionale ha destinato alla Striscia di Gaza decine di miliardi di dollari che sono finiti regolarmente nelle casse di Hamas senza che venissero usati per aumentare il benessere per la popolazione, anzi, oltre a gonfiare i conti correnti dei boss di Hamas sono serviti per comprare proprio quei missili che oggi minacciano Israele.
Per altro, sia il Qatar che l'Iran versano mensilmente enormi cifre di denaro che ufficialmente sarebbero destinate allo sviluppo di Gaza ma che, come sempre, finiscono per alimentare i lussi dei capi di Hamas o nell'acquisto di armi.
Ma la cosa che più di tutto fa infuriare è che Bernie Sanders è un ebreo, uno di quelli che però odia gli ebrei, e che ancora una volta il palcoscenico di J Street si è prestato a questo squallido show. Ed è tutta gente che si definisce "amica di Israele".

(Rights Reporters, 29 ottobre 2019)


Arte e cultura a Tel Aviv per il 2019: ecco cosa vedere

Entro la fine dell'anno da visitare sono i nuovi hotel della catena Leonardo, i teatri della Israel Philarmonic Orchestra, l'opera di Daniele Basso.

C'è la nuova apertura di The Lighthouse e tanta vita notturna da digerire con calma. Tel Aviv è una delle città più vivaci da tanti punti di vista ed entro la fine del 2019 non potrete perdervi alcune occasioni che abbiamo riassunto qui.

 Arte in cortile
 
Tel Aviv di notte
 
La Israel Philarmonic Orchestra
 
Di nuova apertura in un nuovo quartiere, affacciato sul mare, l'hotel Leonardo Plaza Ashdod
 
"Field Hospital" è un'installazione artistica che prevede il coinvolgimento dei visitatori
  L'opera "Naturae" realizzata in acciaio lucidato a specchio a mano, cifra stilistica distintiva dell'artista piemontese Daniele Basso (in foto d'apertura), fortemente voluta dall'ambasciatore Gianluigi Benedetti con la curatela di Ermanno Tedeschi, è installata a Tel Aviv nella residenza dell'ambasciatore Italiano nello stato d'Israele.
  L'artista nell'opera "Naturae", ispirata alla Venere di Botticelli, ritrova metaforicamente la centralità della bellezza e della creatività nel sistema Italiano, interpreta in chiave contemporanea il simbolo universale della bellezza idealizzato da Botticelli.
  "Perché oggi come allora - spiega l'artista - possiamo scegliere di elevarci ad un nuovo approccio sociale e con la natura stessa. Più consapevole ed interconnesso, dove essere uniti in una coscienza globale e dove il sapere universale è concretamente a disposizione della crescita dell'Umanità intera. Una dimensione in cui l'Arte, custode narrante dei principi antichi alla base dell'uomo moderno, ci traghetti attraverso le emozioni oltre il Medioevo dell'ignoranza, per entrare nella grandezza di un nuovo Rinascimento Tecno-Culturale globale. Oltre le divisioni, i limiti ed i confini. Riscoprendo sensibilità, senso della comunità e amore per il pianeta che ci ospita".
  Un'opera che celebra la cultura italiana Rinascimentale, e che si trova a Tel Aviv, nello stato d'Israele, cuore pulsante della storia; crocevia di religioni, culture ed economia; confine dove il cambiamento è un argomento quotidiano, ed oggi come allora si scrivono pagine intense dell'intera umanità.

 L'orchestra
   Israel Philarmonic Orchestra è la storica compagine fondata nel 1936 con lo scopo di riunire musicisti ebrei cacciati dalle orchestre europee a causa del nazismo. Ricco il cartellone di concerti in città, quando questi musicisti non sono in acclamati tour all'estero.
  L'IPO è entrata nell'era digitale quando ha lanciato trasmissioni in diretta sul suo sito Web durante le celebrazioni per il suo 75o compleanno. Il sito funge anche da piattaforma per blog di tour, interviste con musicisti, vendita di biglietti online e un flusso di informazioni generali per abbonati e appassionati.

 Hotel
  Nel 1998, David Fattal ha fondato la sua azienda, la Fattal Hotel Management Company, inaugurando il suo primo hotel in Israele, Le Meriden Hotel Eilat. La catena alberghiera Fattal è la più grande organizzazione di ospitalità israeliana con 38 hotel e 16.700 camere sotto la sua gestione. Questi hotel sono ben distribuiti in tutto il paese in tutte le principali località turistiche - Tel Aviv, Gerusalemme, Tiberiade, Mar Morto ed Eilat. La catena possiede e gestisce anche 160 hotel a marchio Leonardo in Europa.

 Arte itinerante
  Field Hospital X (FHX) è una nuova istituzione internazionale itinerante, fondata dall'artista Aya Ben Ron. E' una organizzazione unica nel suo genere, impegnata nell'indagare il modo in cui l'arte può reagire e agire di fronte ai mali e ai valori corrotti della società. Traendo spunto e insegnamento dalla struttura organizzativa e dalle professioni svolte negli ospedali, dalle organizzazioni di assistenza sanitaria e dalle cliniche di riabilitazione, FHX offre un luogo nel quale le voci silenziose possono essere udite e le ingiustizie sociali rese visibili.
  Quando i visitatori entrano in FHX prendono un numero e aspettano in coda di essere chiamati all'Accettazione. Durante l'attesa possono guardare il programma televisivo FHX un'opera video di Aya Ben Ron che fornisce informazioni sull'idea che sta alla base del concept dell'ospedale, sulle sue Care-Area, reparti dedicati alle cure e sui Care-Kits. Una volta che il numero viene chiamato, i visitatori accedono alle Care- Area ed ai servizi di FHX: il Safe-Unit, una cabina nella quale i visitatori possono imparare ad emettere un urlo in uno spazio appartato (Self-Contained Shout); e Care-Chairs, postazioni /dispositivi che consistono in uno schermo singolo e in cuffie in dotazione ad ogni "paziente", per creare così le condizioni necessarie ad una visione individuale dei Care-Kit forniti da FHX.
  L'installazione si è vista in Italia l'anno scorso al Padiglione di Israele alla 58. Esposizione Internazionale d'arte - La Biennale di Venezia. Per seguirne le esposizioni in patria, qui.

(The Way Magazine, 29 ottobre 2019)


Merkel: "Antisemitismo, una minaccia per la democrazia e la libertà"

In una Germania segnata in queste settimane da gravi episodi di antisemitismo e dal rafforzarsi dei movimenti di estrema destra, il World Jewish Congress ha voluto rendere pubblico il suo apprezzamento per l'impegno della cancelliera tedesca Angela Merkel contro l'odio e in difesa dell'ebraismo. A Merkel infatti il presidente del Congresso ebraico mondiale Ronald Lauder ha consegnato nelle scorse ore il Theodor Herzl Award 2019, un riconoscimento conferito a chi, nel segno degli ideali di Herzl, si impegna a costruire un mondo più sicuro e tollerante per il popolo ebraico. "Considero questo premio che porta il nome di Theodor Herzl come un impegno a non accontentarsi mai per ciò che è stato raggiunto e a continuare a lottare per un futuro migliore", ha ringraziato Merkel nel corso della cerimonia organizzata al centro ebraico di Monaco di Baviera che ha visto la partecipazione, tra gli altri, della presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni. Ricordando l'attacco alla sinagoga di Halle durante lo scorso Kippur, Merkel ha sottolineato come queste violenze siano "profondamente preoccupanti; sono dirette contro gli ebrei del nostro paese ma non solo contro di loro. Perché ci attaccano tutti: ebrei e non ebrei, tutto ciò che il nostro Paese rappresenta, i nostri valori e le nostre libertà. Colpiscono il cuore della nostra esistenza comune, perché scaturiscono da un profondo odio per la democrazia. Non dobbiamo mai accettare il fatto che la gente in Germania debba vivere nella paura a causa delle proprie convinzioni religiose. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per garantire che possano vivere la loro vita in libertà e sicurezza. L'antisemitismo e il razzismo non iniziano con atti di violenza; è molto più subdolo di così. - ha affermato Merkel - Dobbiamo fare in modo di non svegliarci solo quando le parole saranno diventate fatti". La cancelliera ha sottolineato il fatto che l'odio prolifera non solo per le strade ma anche online e che la Germania sta prendendo provvedimenti per fare ulteriori passi avanti nel contrasto di antisemitismo e razzismo sulla rete.
  Nel consegnare il premio, il Presidente Lauder ha sottolineato i progressi compiuti nella Germania del dopoguerra per ricostruire se stessa e sradicare il suo oscuro passato nazista. "Lei, Cancelliera Merkel, è l'icona di questo incredibile successo. La custode della democrazia, della civiltà e dell'Europa.. Lei ha sempre sostenuto la comunità ebraica in questo paese. È sempre stata al fianco di Israele". Lauder ha poi definito il ruolo di Merkel come un argine contro "l'instabilità, l'irrazionalità, l'estremismo, l'odio, l'antisemitismo". Non bisogna però abbassare la guardia, ha ammonito il presidente del World Jewish Congress: "l'antico odio contro gli ebrei sta rialzando la sua terribile testa in tutta Europa". "Dobbiamo essere uniti contro l'antisemitismo, il razzismo, l'islamofobia, la xenofobia e l'omofobia. Dobbiamo combattere gli odiatori di ogni popolo e di tutti i popoli. E ora tocca a tutti noi agire" il suo messaggio, accompagnato dall'invito ad applicare alcune misure a tutela della comunità ebraica tedesca. Tra queste, la protezione delle sinagoghe con dispiegamento di agenti di polizia, sanzioni maggiori e sostanziali per chiunque commetta un attacco antisemita, il divieto di qualsiasi tipo di discorso di odio contro qualsiasi gruppo su Internet, l'impegno dei partiti politici ad espellere qualsiasi membro che si rifaccia all'ideologia neonazista e la messa al bando dei partiti che vi si ispirino. "La democrazia tedesca deve difendersi, difendere i suoi cittadini e difendere i suoi ebrei dalle forze oscure che stanno risorgendo, all'estrema destra e all'estrema sinistra", ha detto il presidente Lauder.

(moked, 29 ottobre 2019)


In Francia avanza il "fascismo accademico". La Sorbona censura l'anti islamista

Questo articolo ("laico") e quello che immediatamente segue ("religioso") hanno qualcosa in comune: proponiamo di ricercarlo, come nei giochini della Settimana Enigmatica. Per mettere sulla strada citiamo due passaggi del presente articolo: «... per stabilire un clima di paura e denuncia...», «... un conformismo che ‘baratta il silenzio in cambio della tranquillità’». NsI

di Giulio Meotti

ROMA - "Il nuovo fascismo accademico". Lo definisce così la direttrice del settimanale Marianne, Natacha Polony, "Piccoli gruppi radicali che creano un clima di terrore per imporre le opinioni e mettere a tacere gli avversari. Godono di infinita clemenza da parte di alcuni circoli politici e mediatici nella misura in cui pretendono di incarnare il Bene. Chi oserebbe sfidarli?".
   Giovedì sera si sarebbe dovuta tenere all'Università Montaigne di Bordeaux una conferenza della filosofa Sylviane Agacinski su "L'essere umano al tempo della sua riproducibilità tecnica". E' stata cancellata dagli organizzatori perché la "sicurezza" non poteva essere garantita. Gruppi di studenti di sinistra e Lgbt avevano denunciato l'arrivo di una "famigerata omofoba" e avevano chiesto la cancellazione dell'evento (Agacinski è solo contraria alla procreazione estesa alle coppie lesbiche). "Faremo tutto il possibile per garantire che questa conferenza non abbia luogo". E hanno vinto. Di "maccartismo accademico" e "sottomissione dell'università ai nuovi campioni della virtù" parla sul Figaro Eugenie Bastié. Trascorrono poche ore e stavolta alla Sorbona di Parigi rotola un'altra testa. Stavolta è quella del giornalista franco-algerino Mohamed Sifaoui, sotto scorta per le minacce islamiste. Il suo corso di "prevenzione della radicalizzazione" è stato appena sospeso alla Sorbona. Sifaoui accusa "le pressioni delle associazioni islamiche e dei sindacati di sinistra". Doveva essere un corso di formazione offerto a funzionari di polizia, gendarmi, funzionari, proprio quelli sotto scacco dopo l'uccisione di quattro poliziotti dentro alla prefettura di Parigi da parte di un loro collega. Di "offensiva islamofobica per stabilire un clima di paura e denuncia contro i musulmani" aveva parlato contro Sifaoui l'organizzazione studentesca di estrema sinistra LePoingLevé. "Il fondamentalismo è pericoloso. Anche il dogmatismo. La codardia è mortale", tuitta il filosofo Raphaèl Enthoven. Si inizia con un testo teatrale e si finisce a censurare persone in carne e ossa. A marzo, sempre alla Sorbona, c'era stato il caso delle "Supplici", il dramma di Eschilo sullo sbarco ad Argo delle figlie di Danao, fuggite dall'Egitto per sottrarsi a un matrimonio coatto. La messa in scena delle "Supplici" è stata cancellata alla Sorbona in seguito a una protesta di un gruppo che accusava l'opera di "diffondere l'odio". La colpa? Indossare maschere di rame corrispondenti ai codici del teatro antico. E per le donne egizie, maschere di colore. Quindi "razziste".
   Un mese dopo, il filosofo dell'"identità infelice", Alain Finkielkraut, teneva una conferenza a Sciences Po protetto dalle forze dell'ordine e dalla Dgsi, i servizi segreti interni, perché il collettivo di antifà voleva linciarlo. Intanto, da sinistra, si tace sul fascismo in nome del bene. E se Sébastien Le Fol chiama la Francia "paradiso della censura", sul Point Sophie Coignard scrive di "un silenzio spaventoso su queste milizie politicamente corrette" e di un conformismo che "baratta il silenzio in cambio della tranquillità. Sappiamo dove portano tali rinunce".

(Il Foglio, 29 ottobre 2019)


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L'ultima generazione «cristiana»?

Nel mondo occidentale attuale, i cambiamenti avvengono così rapidamente che molti credenti ancora non si rendono conto di ciò che sta loro accadendo. Tuttavia l'inevitabile è diventato veramente imminente. Un invito a risvegliarsi.

di René Malgo

 
Israel Folau è un giocatore di rugby australiano, che è stato espulso dalla squadra nazionale e dalla possibilità di giocare nel rugby league, perché su Instagram ha espresso il pensiero che gli omosessuali praticanti non erediteranno il Regno di Dio. Successivamente, si è iscritto al sito GoFundMe, per raccogliere offerte necessarie a pagare la sua battaglia legale. Che uno sportivo benestante raccolga denaro, può sembrare strano ma è stata molto più inquietante la reazione del sito web. Infatti GoFundMe permette a tutti di raccogliere denaro per qualsiasi idea, sia essa peccaminosa o meno; questa è la loro politica aziendale. Tuttavia, la raccolta di fondi da parte di Folau è stata scartata con il pretesto che egli avrebbe incitato all'odio.
   Negli ultimi anni, i tempi sono rapidamente mutati. Quando Barack Obama nel 2008 lanciò la sua prima campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, non osò perorare la causa del matrimonio fra individui dello stesso sesso. Questa idea era ancora considerata «indecente». Dieci anni dopo qualsiasi - anche la più moderata - opposizione ai matrimoni e alle relazioni omosessuali è diventata «indecente». Chi nella società occidentale fa anche il minimo cauto accenno alla peccaminosità dell'omosessualità o dubita della scientificità della ideologia gender, deve sempre fare i conti con il disprezzo pubblico e sempre più con la repressione penale.
   È in corso uno sconvolgimento, di cui molti cristiani occidentali nella quotidianità non si avvedono ancora correttamente. Dal punto di vista materiale le cose ci vanno bene. Siamo tutelati e viviamo in una
Quando Barack Obama nel 2008 lanciò la sua prima campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, non osò perorare la causa del matrimonio fra individui dello stesso sesso. Questa idea era ancora considerata «indecente».
democrazia che si suppone tollerante e pluralista. Le persone che ci circondano sono educate, gentili e per nulla ostili. Anche gli omosessuali che conosciamo personalmente si dimostrano cari ed affabili. Siamo ancora liberi di frequentare le nostre comunità quando, come e dove vogliamo. Gli altri ci lasciano vivere e noi lasciamo vivere gli altri. Potrebbe durare così per sempre ...
I segni dei tempi mostrano che le cose cambieranno. Nel Washington Post Nathaniel Frank scrive apertamente che l'eredità del movimento di liberazione omosessuale non è soltanto quella di far apparire gay, lesbiche e transessuali normali come tutti gli altri ma anche rendere tutti gli altri un po' più gay, lesbiche e transessuali (usa il termine «queer» che sta per tutta la gamma rappresentata dal c.d. movimento LGBTQ). A giugno soprattutto l'America ha celebrato il Gay Pride Month (mese dell'orgoglio omosessuale). I mezzi d'informazione occidentali, da un lato all'altro dell' Atlantico, hanno trasmesso una serie di notizie positive sulla liberazione degli omosessuali dalla schiavitù della antiquata pruderie.
   Ovunque, anche a Zurigo, sventolavano le bandiere arcobaleno e dominavano i variopinti colori del movimento LGBTQ. La celebrazione occidentale del mese del «PrIde» ha avuto chiaramente un carattere religioso. Un tempo la società occidentale digiunava per un mese per prepararsi alla festa di Pasqua o per un mese accendeva candele per prepararsi al Natale, così ora per un mese all'inizio dell'estate si celebrano con dedizione religiosa le opere che Cristo è venuto nel mondo per distruggere. Esattamente come gli Ebrei celebrano la loro liberazione dalla schiavitù in Egitto e come noi cristiani celebriamo la nostra liberazione dalla schiavitù della morte, del peccato, del diavolo, così festeggia ora il movimento LGBTQ la sua liberazione dalla «schiavitù» dei valori cristiani.
   Ciò che è stato allarmante del mese «Pride» non è tanto che non credenti si siano comportati come tali, come scrive il teologo battista Denny Burk ma che numerosi cristiani confessanti hanno pubblicamente espresso la loro approvazione senza riserve. Si sono affrettati ad issare essi stessi bandiere arcobaleno o a proclamare la loro illuminata vicinanza al movimento arcobaleno. Sono stati pronti a piegare le loro ginocchia al cospetto di «Baal».
   Due grandi temi nella nostra società sono diventati la cartina al tornasole dell'ortodossia secolare:
Chi nella società occidentale fa anche il minimo cauto accenno alla peccaminosità dell'omosessualità o dubita della scientificità della ideologia gender, deve sempre fare i conti con il disprezzo pubblico e sempre più con la repressione penale.
aborto e libertà sessuale senza limiti. Chi vuole stare al mondo deve accettare queste cose pubblicamente e con dedizione religiosa. Molti credenti sono pronti a questo pur di preservare il loro benessere e tranquillità. Altri come già detto ancora non hanno capito che cosa sta tuonando sul loro orizzonte. Si illudono ancora di vivere in un mondo «neutrale», dove si può essere cristiani in tutta tranquillità. Ma ciò non è più vero. Il mondo rimprovera costantemente ai cristiani di girare intorno ai temi dell'aborto e dell'omosessualità. La verità è diversa: la prima cosa che si chiede ad un cristiano non appena egli emerge dall'anonimato è la sua posizione rispetto ad entrambe le questioni. Poiché esse sono gli aspetti principali della nuova religione occidentale.
   Così come i cristiani venivano obbligati nel primo secolo a fare sacrifici all'imperatore romano, così oggi debbono offrire la loro alleanza alla «meretrice Babilonia» sull'altare dell'infanticidio e dell'ideologia gender. Molti lo fanno senza esitare. È come ai giorni dell'imperatore Decio, a metà del III secolo. Un tempo il cristianesimo era una minoranza tollerata ai margini della società. Nella multiculturalità romana andava piuttosto bene ai cristiani. Molti ricoprivano incarichi elevati. Ma improvvisamente esplose una sorprendente persecuzione ed i cittadini di Roma dovettero fare sacrifici all'imperatore e agli dei come segno della loro lealtà. Migliaia di cristiani abbandonarono la loro fede, in parte più in fretta della loro ombra - almeno così parve e venne riportato.
   Oggi ci troviamo in una situazione analoga. Ovviamente, non veniamo minacciati ora con la morte fisica ma sicuramente con quella sociale. Molte professioni non possono più essere esercitate da cristiani che vogliono vivere coerentemente la loro fede. Cosa deve fare ad esempio un poliziotto credente se - come in modo analogo è parzialmente avvenuto in Gran Bretagna - il datore di lavoro pubblico dispone che ogni poliziotto deve sfoggiare sulla divisa la spilla con la bandiera arcobaleno come espressione della sua approvazione dello stile di vita «queer»? Che ne è dei medici che debbono eseguire aborti o cambiamenti di sesso su bambini fisicamente sani?
   La maggior parte di noi vuole soltanto condurre una vita tranquilla, sicura e finanziariamente vantaggiosa. La fede viene intesa in senso terapeutico, come mezzo di auto-aiuto. Dio è un extra rispetto alla vita: l'assicurazione - ciò a cui ricorriamo quando le cose vanno storte. Che brutto risveglio ci sarà quando questo Dio onnipotente ora nella realtà e nella pratica ci richiederà di uscire dal campo della
Ciò che è stato allarmante del mese «Pride» non è tanto che non credenti si siano comportati come tali, come scrive il teologo battista Denny Burk ma che numerosi cristiani confessanti hanno pubblicamente espresso la loro approvazione senza riserve.
perversione mondana e di portare la Sua onta (Ebrei 13, 13)? L'allontanamento dalla fede, che è già in atto pienamente, aumenterà ancora ... e non si fermerà neppure davanti alle chiese libere che si affermano conservatrici. Presto, molto presto - se il Signore non interviene - costerà nuovamente qualcosa, per non dire tutto, essere cristiani.
Non scrivo questo perché amo seminare il panico o perché si tratti del mio tema favorito. Al contrario. Preferirei di gran lunga che lo sviluppo nella società parlasse un'altra lingua. Ma se scrivessi qualcosa di rassicurante sarebbe una menzogna. Nella comunità Chiamata di Mezzanotte, un tempo, predicava sempre un predicatore che quasi in ogni messaggio faceva riferimento a sofferenze e persecuzioni. Una persona mi disse apertamente e sinceramente di non gradire che parlasse costantemente di questi temi. Improvvisamente egli non parlò più di afflizioni. Oggi è in pensione. Questo messaggio non è amato ma è vero. E quanto prima possibile apriamo gli occhi alla realtà, meglio sarà per la nostra vita spirituale.
   Uno storico disse, una volta, che l'ultima generazione pagana dopo che l'impero romano era divenuto cristiano non aveva la più pallida idea che sarebbe stata effettivamente l'ultima. I pagani predicavano tolleranza, andavano d'accordo con i loro vicini cristiani ed ovunque intorno a loro vedevano ancora i loro templi dedicati agli idoli con i loro rituali. Non potevano immaginarsi che ciò sarebbe cambiato. Ma i cristiani la pensavano diversamente da loro. Una manciata di giovani uomini (e donne) zelanti - soprattutto Ambrogio di Milano - fecero di tutto per attuare l'adorazione dell'unico vero Dio in tutto l'impero romano. La loro dedizione incondizionata, per noi oggi in parte incomprensibile, portò frutti. Nel corso di una generazione molti templi vennero chiusi ed il paganesimo eliminato, quanto meno dalla vita pubblica.
   Oggi succede il contrario. Potremmo quasi chiamarla «la vendetta dei pagani». Siamo l'ultima generazione, almeno di nome, cristiana, cosa a cui il giornalista cattolico Rod Dreher (autore del libro "L'opzione Benedetto") non si stanca di far riferimento ... e molti di noi non se ne accorgono neppure. La maggior parte dei giovani progressisti che attivamente lottano per il movimento LGBTQ e l'aborto sono relativamente pochi. Ma essi consacrano tutta la loro forza e la loro vita per i loro «valori». È vero che gli sforzi dei progressisti sono autodistruttivi, ma dall'eredità incendiaria che essi lasciano sorgerà qualcosa di non cristiano, anzi di anticristiano (v. «L'ascesa dei populisti e il declino della
Cosa deve fare ad esempio un poliziotto credente se - come in modo analogo è parzialmente avvenuto in Gran Bretagna - il datore di lavoro pubblico dispone che ogni poliziotto deve sfoggiare sulla divisa la spilla con la bandiera arcobaleno come espressione della sua approvazione dello stile di vita «queer»??
Chiesa», Chiamata di Mezzanotte 07- 08/19). A differenza dei cristiani rilassati, i combattenti LGBTQ sono pronti a sacrificarsi per la loro causa - ed anche a combattere in modo «sporco» (cosa che naturalmente noi non dobbiamo fare). Qui non si tratta dell'omosessuale cortese e disponibile della porta accanto - che cerca solo di essere felice - ma degli aggressivi militanti dell'elite politica e mediatica della nostra cultura. Ed essi provocano lo stesso cambiamento radicale che, un tempo tra la fine del IV e l'inizio del V secolo portò alla sostituzione, nella sfera pubblica, dell'antiquato paganesimo ad opera del cristianesimo.
Cosa possiamo fare contro questo fenomeno? Non possiamo, in senso figurato, fuggire sui monti (cfr. Marco 13, 14). La Chiesa deve nuovamente diventare un'arca del timore di Dio. Noi siamo tenuti ad uscire (interiormente) dalla «meretrice Babilonia» al fine di non prendere parte ai suoi peccati (Apocalisse 18,4). Un tempo Giovanni esortò i cristiani dell'impero romano a fare questo (cfr. Apocalisse 2-3). Questo grido giunge fino a noi:
    «Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui. perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e l'orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno. Fanciulli, è l'ultima ora. E, come avete udito, l'anticristo deve venire, e fin da ora sono sorti molti anticristi; da questo conosciamo che è l'ultima ora» (1 Giovanni 2, 15-18).
Ci dobbiamo nuovamente abituare alla verità della Parola di Dio: «tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesti saranno perseguitati» (2 Timoteo 3, 12). Dobbiamo adattarci a vivere nella povertà e nella morigeratezza - proprio come quelli che qui sulla terra sono solo stranieri e pellegrini.
Ci dobbiamo preparare alla sottrazione dei nostri bambini. In Svizzera, ad esempio, vengono approvate sempre più norme che facilitano notevolmente, all'autorità per la protezione dei minori, sottrarre bambini da famiglie che non si piegano ai dettami della società (pubblicamente si parla sempre di «famiglie disagiate» ma alcuni cristiani hanno già una cupa premonizione di come queste regole possano ancora essere applicate). Ci dobbiamo preparare al fatto che anziani e pastori che annunciano tutto il consiglio di
Ci dobbiamo nuovamente abituare alla verità della Parola di Dio: «tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesu saranno perseguitati». Dobbiamo adattarci a vivere nella povertà e nella morigeratezza - proprio come quelli che qui sulla terra sono solo stranieri e pellegrini.
Dio senza paura con l'amore finiscano in carcere. Ci dobbiamo preparare ad essere esclusi da posti di lavoro ben retribuiti e prestigiosi. Dobbiamo prepararci a pagare una sanzione pecuniaria dietro l'altra.
Riassumendo: saremo costretti a vivere di nuovo come i primi cristiani - tuttavia, e ciò è ancora peggio, in una società che un tempo ha conosciuto la fede sana e, consapevolmente e volontariamente, l'ha rigettata. Tuttavia, pare spesso che amiamo più il peccato del Signore e pertanto non vogliamo assolutamente ascoltare la verità. Un abbonamento a Netflix per noi è più importante di sacrificarci per la fede. Una serata al cinema è più importante di raccogliersi in preghiera con altri credenti. Un buon rapporto con il mondo ci sta più a cuore di stare uniti a Dio. La comodità conta per noi di più della consacrazione. Travestiamo la prima come «grazia», e la seconda come «legalismo». Tuttavia «è giunto il tempo che il giudizio cominci dalla casa di Dio, e se comincia prima da noi, quale sarà la fine di coloro che non ubbidiscono all'evangelo di Dio?» (1 Pietro 4, 17). Questo scriveva Pietro a cristiani perseguitati!
Anche la lettera agli Ebrei fa appello ai credenti oppressi:
    «Voi non avete ancora resistito fino al sangue, combattendo contro il peccato, e avete dimenticato l'esortazione che si rivolge a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non perderti d'animo quando sei da lui ripreso, perché il Signore corregge chi ama e flagella ogni figlio che gradisce». Se voi sostenete la correzione, Dio vi tratta come figli; qual è infatti il figlio che il padre non corregga? Ma se rimanete senza correzione, di cui tutti hanno avuta la parte loro, allora siete dei bastardi e non dei figli. Inoltre ben abbiamo avuto per correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo molto di più ora al Padre degli spiriti, per vivere? Costoro infatti ci corressero per pochi giorni, come sembrava loro bene, ma egli ci corregge per il nostro bene affinché siamo partecipi della sua santità. Ogni correzione infatti, sul momento, non sembra essere motivo di gioia ma di tristezza; dopo però rende un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati esercitati per mezzo suo» (Ebrei 12,4-11).
Riceviamo l'attacco che, con un elevato grado di certezza incombe su di noi, dalla mano del nostro Dio benigno, che possibilmente ci vuole trasformare ad immagine di Suo Figlio, fino al rapimento «sulle nuvole, per incontrare il Signore nell'aria; cosi saremo sempre col Signore. Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole» (1 Tessalonicesi 4, 17-18).
Tuttavia finché siamo qui vale questo:
    «Anche noi dunque, essendo circondati da un cosi gran numero di testimoni, deposto ogni peso e il peccato che ci sta sempre attorno allettandoci, corriamo con perseveranza la gara che ci è posta davanti, tenendo gli occhi su Cristo, autore e compitare della nostra fede, il quale, per la gioia che gli era posta davanti, soffri la croce disprezzando il vituperio e si è posto a sedere alla destra del trono di Dio. Ora considerate colui che sopportò una tale opposizione contro di sé da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate e veniate meno» (Ebrei 12, 1-3).
Maranatha, Signore nostro vieni!

(Chiamata di Mezzanotte, settembre/ottobre 2019)



Palermo, il lungomare dedicato a Yasser Arafat. L'ira della Lega: «Inopportuno»

L'inaugurazione alla presenza del nipote dell'ex leader dell'Olp, nonché Premio Nobel. «Un simbolo di pace nel Medio Oriente». Il sindaco Orlando: «Superò vecchie inimicizie».

di Salvo Toscano

L'inaugurazione c'è stata stamattina, con tanto di sventolio di bandiere palestinesi e sfoggio di kefiah. Da oggi un tratto del Foro Italico di Palermo porta il nome di Yasser Arafat, premio Nobel per la Pace. Oggi la cerimonia alla presenza del sindaco Leoluca Orlando, degli assessori Adham Darawsha, Giusto Catania, Roberto D'Agostino, Giovanna Marano e Maria Prestigiacomo, di alcuni consiglieri comunali e di circoscrizione. Ma a qualcuno la scelta non piace: la Lega ha espresso perplessità su questa intitolazione.

 L'iniziativa «Con la Palestina nel cuore»
  L'iniziativa è stata promossa dal Comune di Palermo, dalla Rete Palermitana di Solidarietà «Con la Palestina nel Cuore» e da CISS-Cooperazione Internazionale Sud Sud, e si inserisce tra quelle organizzate nel capoluogo siciliano per reclamare attenzione per i diritti dei palestinesi. «Palermo — ha dichiarato Orlando — nel 1996 ha intitolato una via della Città al Premio Nobel Yitzhak Rabin, ucciso nel 1995, e oggi un piazzale sul lungomare a Yasser Arafat, che con Rabin ha condiviso il Premio Nobel. Gli accordi di Oslo — ha continuato il primo cittadino — si devono al loro coraggio perché hanno compreso che la pace può superare e supera vecchie inimicizie tra i popoli. Sarebbe importante, e io nutro speranza — ha concluso Orlando — che si possa tornare allo spirito di Oslo e ad una duratura pace tra i popoli».

 Simbolo di pace nel Medio Oriente
  Alla cerimonia hanno preso parte anche Nasser Al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e presidente della Yasser Arafat Foundation (YAF), Fatima Baroudi, console generale del Marocco, Fateh Hamdan, rappresentante della Comunità palestinese in Sicilia e il presidente della Consulta delle Culture, Ibrahima Kobena. «È indicativo — ha dichiarato il nipote di Arafat — che una città come Palermo abbia scelto di onorare un posto così bello con il nome di Yasser Arafat, come simbolo di pace nel Medio Oriente e di riconciliazione tra due popoli: quello israeliano e quello palestinese». L'assessore Giusto Catania, già europarlamentare di Rifondazione comunista, commenta: «Oggi la nostra città rende omaggio al grande politico palestinese, un uomo che ha impegnato la sua vita per la pace tra i popoli. Un messaggio forte da una città che guarda al Mediterraneo e lavora quotidianamente per l'inclusione, la giustizia sociale e la contaminazione culturale».

 Le critiche
  Ma c'è chi non apprezza. «L'intitolazione del lungomare a Yasser Arafat da parte del Comune di Palermo mi pare quanto mai inopportuna — dice il capogruppo della Lega al consiglio comunale di Palermo Igor Gelarda —. Per quanto sia stato un personaggio famoso e per quanto abbia vinto il Nobel della Pace, è stato per lungo tempo a capo di una organizzazione terroristica, come l'Olp». E il leghista solleva una polemica politica contro il sindaco che da sempre si è esposto contro la linea di Matteo Salvini, entrando in aperto conflitto con il leader leghista nella sua stagione al Viminale: «Questo ci sembra l'ennesimo atto di sottomissione del sindaco Orlando verso il mondo islamico — continua Gelarda —, verso tutto quello che non è italiano. D'altra parte cosa si può aspettare da un sindaco che sostiene che Palermo è una città mediorientale? Ci sarebbe sembrato molto più giusto, da un punto di vista storico e per rispetto a chi ha perso la vita per difendere la patria, intitolare questo lungomare, ad esempio a tutti i caduti di Nassiriya».

(Corriere della Sera, 29 ottobre 2019)


L’omaggio di Palermo a un terrorista pentito. Pentito di aver usato le bombe per distruggere Israele e addolorato per non esserci riuscito, ci ha riprovato con la pace. I suoi epigoni lo rimpiangono, lo onorano e si accingono a seguire le sue orme. La pace, la pace, la pace: così oggi si prepara la distruzione di Israele. Questo ha insegnato il Maestro, premio Nobel per la pace, e questo i suoi epigoni si propongono di fare, sia pur nel loro piccolo. Piccolo, soprattutto. In molti sensi. M.C.


Gantz e Netanyahu torneranno ad incontrarsi

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È l'impegno preso tra il leader di Blu-Bianco incaricato di formare il governo e il premier uscente
Un primo scambio di idee e l'impegno a rincontrarsi a breve. Questo il risultato del primo faccia a faccia svoltasi il 27 ottobre al ministero della difesa a Tel Avi tra Benny Gantz, leader di Blu-Bianco che ha l'incarico di formare il governo, e il premier uscente Benyamin Netanyahu, capo del Likud.
Nell'incontro - hanno fatto sapere i due - si è «discusso delle varie possibilità politiche esistenti» e si è concordato che, oltre ad un nuovo appuntamento tra i leader, le rispettive delegazioni «resteranno in contatto».
Le delegazioni si sono incontrate questa mattina prima dei due leader e, secondo i media, le differenze tra i due schieramenti persistono. In particolare, i nodi riguardano, in un possibile governo di unità tra i due partiti, chi sarà il primo dei due leader, in un'eventuale rotazione, ad essere premier.
Il secondo punto è se il Likud, come chiede Blu-Bianco, è disposto ad abbandonare i partiti religiosi e quelli di destra che fanno parte della coalizione messa su da Netanyahu e dare vita al governo «liberale» di unità nazionale perseguito da Gantz.

(Corriere del Ticino, 28 ottobre 2019)


Antisemitismo, un pericolo sottovalutato

di Sergio Harari

Abbiamo peccato di superficialità nel sottovalutare l'odio antisemita, ma è qui, è sempre stato qui. E' un virus che nasce nella notte dei tempi e dal quale forse il mondo non guarirà mai. Talvolta è più manifesto, talvolta meno, ma scomparso mai. D'altra parte, Elie Wiesel, Nobel per la pace, sopravvissuto ai campi di sterminio si domandava: «Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall'antisemitismo, cosa potrà mai guarirlo?» Riemerge con forza quando la democrazia è più debole, come nelle ingiurie profferite via web alla senatrice Segre. Il pregiudizio antiebraico è duro a morire e resta, ancor oggi, ben radicato, a tutti i livelli, non conosce barriere sociali o discriminanti culturali. Si è sdoganata la barbarie razzista abbattendo l'ultimo muro morale. L'antisemitismo è facile da cavalcare, aggrega mondi diversi e purtroppo ha successo. Le istituzioni e anche il mondo dell'informazione hanno tardato ad accorgersene. L'Italia ha le sue responsabilità, a cominciare dal non aver ancora nominato il commissario nazionale per l'antisemitismo, in ritardo sulle indicazioni del Parlamento europeo agli Stati membri. Così come non ha ancora adottato la nuova definizione di antisemitismo, proposta dalla commissione intergovernativa della Intemational Holocaust Remembrance Alliance e fatta sua dal Parlamento europeo nel giugno 2017. «L'antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto», questo recita la definizione, nulla di sconvolgente ma qualcuno confonde i piani della politica antiisraeliana e dell'antisemitismo. Se veramente vogliamo fare qualcosa per combattere questo cancro della democrazia e della società, è questo il momento.

(Corriere della Sera, 28 ottobre 2019)


Una sottovalutazione del “pericolo antisemitismo” consiste proprio nel non aver percepito che l’antisionismo è l’ultima e, oggi, la più pericolosa forma di antisemitismo, quella che si adatta meglio all’aspirazione globalista dei nostri tempi. M.C.


Colpo elettorale. Il Donald bis ora è più vicino

di Cesare De Carlo

Sottotitolo
E' lui. Finalmente. Morto come un cane e un vigliacco, dice Trump. È Abu Bakr al-Baghdadi, il califfo dell'Isis, cioè dell'unica organizzazione terroristica che fosse riuscita a dotarsi di un territorio, di una bandiera, di un embrione di Stato. In suo nome e in quello di Allah per anni è stata condotta la Jihad, sono saltati in aria o sono stati sgozzati migliaia di 'infedeli' laggiù in Medio Oriente e nelle nostre città.
Che significa? Che possiamo dormire sonni tranquilli? Non esattamente. Nel maggio 2011 venne ucciso Osama Bin Laden. Al Qaeda gli sopravvisse. Dunque per l'Isis, benché confinata in un angolo della Siria, non è la fine. Ma senza il suo leader carismatico sarà meno temibile. Meno seguaci, meno capacità operativa, meno attrazione in quelle comunità islamiche che ne riflettono il fanatismo religioso. In altri termini l'Isis del dopo Baghdadi non sarà più quello di prima, come l'Al Qaeda del dopo Bin Laden non fu più quella dell'11 settembre 2001. Non dimentichiamo però che il terrorismo islamico è la proiezione di un'ideologia di odio. Odio contro il mondo cristiano.
   E non dimentichiamo che la minaccia l'abbiamo in casa, in Europa e in America. Sono i cani sciolti e sono i foreign fighter che potrebbero rientrare. Qualche altra considerazione. La prima: il disimpegno di Trump, ingeneroso nei confronti dei curdi, può però avere spinto Al Baghdadi a scoprirsi. La seconda: l'adozione del metodo israeliano, vale a dire decapitare il terrorismo anziché montare operazioni militari. La terza: la cooperazione con russi, turchi, siriani. Fronte comune nell'intelligence. La quarta: le elezioni. Un anno dopo l'uccisione di Bin Laden, Obama venne rieletto. Accadrà anche a Trump? Già ora i democratici, senza validi candidati, sono nello sconforto. L'ammette persino il Washington Post .

(Quotidiano.net, 28 ottobre 2019)


L'orgoglio perduto dell'Occidente

di Pierluigi Battista

Che vergogna, che desolazione, che pena infinita le immagini dei soldati americani in ritirata con i curdi delusi, traditi, umiliati che dal bordo della strada lanciavano in lacrime frutta e ortaggi. E che vergogna dovremmo provare anche noi, europei senz'anima e senza orgoglio che cianciamo di valori universali a assistiamo impotenti e indifferenti al massacro di un popolo sacrificato sull'altare del realismo politico e dell'interesse economico. Erdogan tiene a bada i profughi che rischiano di invadere l'Europa: davvero noi europei senz'anima e senza dignità dovremmo, nel nome dei diritti umani calpestati, far arrabbiare Erdogan? I diritti umani sono stati sradicati dall'agenda internazionale. L'Onu è sempre più un ente inutile che sprofonda nel ridicolo mettendo ai vertici delle commissioni umanitarie regimi tirannici e addirittura sanguinari. Gli Stati Uniti consegnano un'intera area geopolitica alla Russia (altro che le chiacchiere complottiste sul Russiagate) e Assad in Siria, dopo aver sterminato centinaia di migliaia di civili, compresi i bambini, si permette di fare da protettore dei curdi sul punto di essere sterminati. Che vergogna, che desolazione. Avessimo un soprassalto d'orgoglio, avessimo solo un briciolo di volontà per adeguare i proclami altisonanti alla realtà, per lo meno smetteremmo di raccontarci la bugia pietosa di un'Europa accogliente, cementata da valori comuni. Non staremmo a piagnucolare su Trump che manda via le truppe statunitensi (anche se le sue truppe speciali hanno colpito, finalmente, al-Baghdadi), e cercheremmo di avere un ruolo anche militare in quella zona. La solidarietà iniziale per i curdi è scemata nell'opinione pubblica con una velocità impressionante. Ci piacerebbe sapere quanti contratti nel commercio d'armi con la Turchia sono stati stracciati, come era stato promesso: probabilmente nessuno. Oramai le democrazie occidentali sono diventate inaffidabili e gli ortaggi lanciati con commovente dignità dai curdi abbandonati dai soldati americani ci dicono che la nostra parola è diventata carta straccia, che ogni impegno è solo l'anticamera del disimpegno. Non ci si deve fidare di noi: avessimo un sussulto di decenza potremmo riflettere sulla catastrofe della nostra credibilità perduta. Ma non succederà. E i curdi, lasciati soli.

(Corriere della Sera, 28 ottobre 2019)


Domani a Palermo cerimonia di intitolazione: "Lungomare Yasser Arafat"

Presente il sindaco Leoluca Orlando

ROMA - Domani, alle 10.30 al Foro Umberto I, alla presenza del sindaco Leoluca Orlando e degli assessori Adham Darawsha e Giusto Catania, si terrà la cerimonia di intitolazione di un tratto del Foro Italico a Yasser Arafat, premio Nobel per la Pace. Sarà presente, tra gli altri, Nasser Al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat e presidente della Yasser Arafat Foundation (YAF).
L'iniziativa è promossa dal Comune di Palermo, dalla Rete Palermitana di Solidarietà "Con la Palestina nel Cuore" e da CISS - Cooperazione Internazionale Sud Sud, e si inserisce tra quelle organizzate oggi e domani per rimettere al centro dell'attenzione i diritti del popolo Palestinese.

(askanews, 28 ottobre 2019)


Sciesopoli e il museo della solidarietà

di Daniel Reichel

 
 
Da colonia per "Figli della Lupa" e Balilla a centro di accoglienza per bambini orfani sopravvissuti alla Shoah. Sciesopoli, colonia montana del comune di Selvino (Bergamo), è diventato un simbolo del riscatto italiano nel dopoguerra, trasformandosi da struttura di propaganda fascista a luogo di solidarietà ed emblema della ricostruzione ebraica dopo la tragedia della persecuzione nazifascista. Una piccola grande storia di speranza che ora ha uno spazio dove poter essere raccontata al pubblico: in queste ore è stata infatti inaugurato il nuovo Museo Memoriale "Sciesopoli Ebraica - Casa dei Bambini di Selvino". "È una giornata storica per noi. Oggi inauguriamo il primo museo di Selvino e siamo contenti che sia dedicato a una vicenda che parla di solidarietà e accoglienza", ha sottolineato il sindaco del comune lombardo Diego Bertocchi. Il piccolo museo è ospitato nelle sale del Municipio e ricostruisce le diverse fasi della struttura di Sciesopoli: la prima, dall'inaugurazione nel 1932 fino al periodo del conflitto, come centro per educare i giovani al fascismo; la seconda - dal 1945 al 1948 - come luogo di rifugio per 800 bambini ebrei, accolti e curati in attesa di farli partire per il nascente Stato di Israele; la terza come realtà educativa in cui passarono 50mila bambini. Il grande edificio è stato chiuso nel 1985 e solo di recente è stato messo parzialmente in sicurezza grazie ai finanziamenti del ministero per i beni culturali. "Il nostro auspicio è che il museo possa essere spostato in futuro all'interno di Sciesopoli - hanno sottolineato gli architetti Giovanna Latis e Andrea Costa, che hanno seguito il progetto - È il frutto di due anni di lavoro e della collaborazione di molti, una piccola stanza che racconta però una grande storia". Nella sala diversi totem recano incisi i nomi degli 800 bambini ebrei ospitati a Sciesopoli e vi è la mappa del percorso lungo l'Europa che li portò tra le montagne lombarde.
   "In occasione dei 70 anni dall'inizio di Sciesopoli ebraica sono venuto a Selvino per ricordare la figura di Marcello Cantoni, il medico che ha gestito la cura e la rinascita da un punto di vista medico sanitario di questo gruppo di bambini orfani, senza speranza e spesso malati - ha ricordato il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giorgio Mortara -
   Quanto è riuscito a fare in pochi mesi il gruppo di volontari ed educatori dando speranza e fiducia oltre che una istruzione e in molti casi un lavoro è stato uno splendido esempio di resilienza del popolo ebraico". La storia di Sciesopoli è stata riscoperta grazie anche al grande impegno dello studioso Marco Cavallarin, che ha spiegato come il suo auspicio sia che il museo - che sarà diretto da Alessandro De Lisi - diventi un'istituzione per "trasmettere la speranza, la comprensione umana, per insegnare ai nostri giovani, al di là della retorica, il vero significato della solidarietà attiva". Un auspicio condiviso dal vicepresidente UCEI Mortara: "mi auguro - le sue parole - che il museo memoriale non sia solo un luogo di ricordo dei fatti e delle persone ma anche un centro di formazione e di elaborazione di modelli educativi in modo da poter sfruttare il patrimonio di idee che racchiude: partendo dal rispetto della diversità promuova la lotta al razzismo, all'antisemitismo all'indifferenza verso l'altro. Deve essere collegato con la rete museale lombarda ed il particolare con il Memoriale della Shoah di Milano, di cui è presente oggi il presidente Roberto Jarach, la Casa della Memoria, i musei della Resistenza". A portare i saluti della Comunità ebraica di Milano è stato il presidente Milo Hasbani che ha ringraziato i presenti per il lavoro profuso per mantenere viva la memoria dei bambini di Sciesopoli, che ancora oggi - è stato spiegato - vengono in visita a Selvino per ricordare quel breve ma decisivo momento della loro vita. "Il Museo Memoriale è stato il frutto di una grande collaborazione tra enti e istituzioni diverse", ha sottolineato poi Virginia Magoni, delegata dal comune per il progetto Sciesopoli. Al taglio del nastro è stata inoltre ricordata la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah e vittima dell'odio online. "A lei mandiamo una dedica speciale - ha sottolineato il direttore De Lisi - Questa sarà una casa del dialogo, per saldare la comunità alla cultura e contrastare ogni forma di odio". A intervenire tra gli altri all'iniziativa anche la consigliera del Comune di Milano Diana De Marchi e la vicepresidente della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia Annie Sacerdoti.

(moked, 27 ottobre 2019)


Teheran può distruggere Israele in mezzora se "commette un errore", dice un politico iraniano

Quest'anno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva avvertito Teheran di smetterla con le minacce, poiché l'Iran si trova ad una distanza ottimale per i caccia bombardieri di Tel Aviv.
Mojtaba Zannour, presidente della Commissione per la Sicurezza nazionale iraniana, ha ribadito che Israele "non sarà in grado di sopravvivere per più di venti o trenta mnuti" se Tel Aviv o Washington "commetteranno un errore".
"Abbiamo messo in campo una strategia di guerra asimmetrica. Cosa significa? Che abbiamo intenzione di rendere inefficaci i punti forti del nemico o comunque di indebolirli. Ci siamo concentrati molto su questo aspetto e abbiamo lavorato alacremente. Il governo ha creato dei deterrenti", ha dichiarato Zannour all'emittente iraniana Channel 5.
Nella sua intervista il politico iraniano ha parlato di "36 basi americane presenti nella regione (mediorientale ndr)" le quali sono costantemente monitorate dai droni di Teheran, "che sono sempre online e seguono ogni movimento delle forze americane presenti".
"Se ci attaccano, saranno colpiti. Quando il leader supremo (l'Ayatollah Ali Khomenei ndr) afferma che i giorni del mordi e fuggi sono finiti, non lo fa senza cognizione di causa, preso dall'emozione. Le sue parole sono avvalorate da quanto abbiamo fatto", ha sottolineato Zannour.
Non si tratta della prima dichiarazione del genere rilasciata da Zannour che, intervistato ai microfoni della TV araba al-Alam, aveva dichiarato che in caso di attacco da parte degli USA, "a Israele rimarrà mezz'ora di vita".

 Il deterrente di Teheran
  Zannour è poi tornato sulla questione del Trattato di Vienna sul nucleare del 2015, dal quale gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente nel maggio del 2018.
Un anno dopo, la Repubblica Islamica ha annunciato la sospensione dell'applicazione di alcune delle misure previste dal trattato, sottolineando al contempo di non voler però stralciare gli accordi presi in Austria.
"Il fatto che oggi ci troviamo ad avere una posizione di forza e a poter fare delle richieste sul Trattato di Vienna è dovuto ai nostri sistemi di difesa che fungono da deterrente, ai nostri missili con su scritto "morte a Israele".

 Le tensioni con Israele e gli USA
  Le dichiarazioni di Zannour si iscrivono in un clima di tensione e di relazioni fredde tra l'Iran, Israele e gli Stati Uniti d'America.
Tel Aviv ha condotto con le sue forze aeree diverse operazioni contro quelli che sono stati definiti dei bersagli militari iraniani in Siria, mentre Teheran sostiene di avere unicamente mandato dei consiglieri militari a Damasco per combattere il terrorismo.
Iran è uno dei Paesi che nega il diritto di Israele all'esistenza e ha più volte minacciato di "cancellarlo dalla mappa politica mondiale".
Il deterioramento delle relazioni con gli USA è invece dovuto al ritiro unilaterale di Washington dal Trattato di Vienna sul nucleare del 2015, al quale ha fatto seguito l'introduzione di pesanti sanzioni economiche nei confronti dell'Iran.
Inoltre, a rendere ancor più gelida la situazione geopolitica tra i due Paesi, hanno contribuito lo scambio di accuse sugli attacchi e i sabotaggi alle petroliere in transito nell'area del Golfo Persico e del Golfo dell'Oman.
L'ultimo episodio del genere è avvenuto non più tardi di qualche settimana fa, quando una imbarcazione di Teheran è stata vittima di un attacco al largo delle coste di Gedda.

(Sputnik Italia, 27 ottobre 2019)


Morto Abu Bakr al-Baghdadi, il nuovo Califfo è Erdogan

Morto Abu Bakr al-Baghdadi in tanti si affanneranno a cercarne il successore, ma non c'è molto da cercare.

di Franco Londei

Abu Bakr al-Baghdadi
Abu Bakr al-Baghdadi, l'autonominato Califfo dello Stato Islamico, sarebbe stato ucciso da un raid americano nella provincia siriana di Idlib.
Non è la prima volta che il capo dell'ISIS viene dato per morto, ma questa volta la notizia sarebbe confermata da più fonti.
La notizia della morte dell'uomo più ricercato al mondo non può che rendere tutti felici, il mondo sarà sicuramente un posto migliore senza questo nazista islamico responsabile della morte di centinaia di miglia di persone.
Al lato pratico l'uccisione di al-Baghdadi sposta poco o niente. Ormai lo Stato Islamico era in rotta mentre il suo posto veniva preso man mano da Iran e Turchia.
Buona parte degli ex miliziani di ISIS che si sono macchiati di indicibili violenze oggi vestono la divisa turca e sono regolarmente inquadrati nelle milizie islamiche al soldo di Erdogan che qualche mese fa hanno massacrato migliaia di curdi nella zona di Afrin e in questi giorni si sono scatenati sempre contro i curdi in quello che restava del Kurdistan siriano.
Adesso molti analisti di quelli "bravi" si scateneranno nella ricerca del successore di Abu Bakr al-Baghdadi e cercheranno di capire come ISIS si riorganizzerà.
In realtà credo che sia tutto tempo perso. Il successore del Califfo c'è già e la riorganizzazione strategica di ISIS è già cominciata da tempo.
Per capirlo basta farsi qualche domanda. Chi è che brama un califfato globale? Chi è che ha dato a ISIS la sua ideologia? Chi ha aiutato per anni lo Stato Islamico facendoci affari e favorendo il trasferimento di uomini e armi verso il Califfato?
La risposta è: la Fratellanza Musulmana. E chi è il capo indiscusso della Fratellanza Musulmana? Un certo Recep Tayyip Erdogan.
Il centro del nuovo Califfato è la Turchia. Non c'è molto da cercare o da analizzare. Da anni Erdogan lavora a questo obiettivo.
La differenza rispetto a come lo faceva al-Baghdadi è che Erdogan ha un vero Stato alle spalle con relazioni diplomatiche in tutto il mondo, è membro della NATO, ha uno degli eserciti più numerosi al mondo ma soprattutto è più scaltro, sa applicare benissimo la "teoria della gradualità" tanto cara alla Fratellanza Musulmana.
Se Abu Bakr al-Baghdadi veniva giustamente considerato uno degli uomini più pericolosi al mondo, Erdogan dovrebbe essere considerato il più pericoloso, persino più pericoloso degli Ayatollah iraniani. Ha tutti i mezzi e le caratteristiche per esserlo.
Per la galassia islamista sunnita è lui il punto di riferimento. È lui che cerca di mettere insieme ciò che rimane di ISIS e di portarne avanti l'ideologia, e non solo in Medio Oriente ma anche in Europa, in Africa e in Estremo Oriente.
Non voglio sminuire l'uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, è un fatto di estrema importanza, ma al lato pratico l'ex Califfo dello Stato Islamico era già "morto" da tempo. La vera gatta da pelare ora è il suo sostituto. Avremo modo di vederlo nei prossimi mesi.

(Rights Reporters, 27 ottobre 2019)


Ko l'imperialismo dell'Iran sciita

di Fiamma Nirenstein

Il Medio Oriente è in eruzione: ma le sue rivoluzioni sono melanconiche. Come una volta alla cronista disse Arafat: «Le dune di sabbia cambiano forma, il panorama appare diverso, ma la sabbia è la stessa». Quindi, anche se risulterà vera la voce per cui il premier Hariri e il presidente Aoun avrebbero deciso che il governo deve dimettersi come chiede la piazza, difficile sapere se si tratta solo di una manovra per conservare sotto mentite spoglie lo status quo. Gli interessi internazionali degli Hezbollah e degli iraniani sono forti. Altrettanto in Irak, dove la sommossa fa decine di morti, ma il governo non è neppure riuscito a tenere la seduta di emergenza che aveva convocato. Se ieri tutte le cronache davano l'imperialismo sciita iraniano rampante e in crescita, entusiasta per la ritirata americana dalla Siria, oggi si può dire che invece stia subendo numerose ammaccature e che gli Hezbollah stiano pagando la loro prepotenza. Di certo Libano e Irak sono due Paesi oggi a predominio sciita, molto scosso dalle rivoluzioni di piazza. In Libano la longa manus dell'Iran ha invano intimato alle folle, impugnando manganelli e armi, di smetterla di chiedere le dimissioni del governo.
   In Irak le milizie del potere sciita che governa sotto l'influenza iraniana sono tornate a sparare facendo 40 morti e circa 2mila feriti. Una reazione furiosa e impaurita che contraddice le mosse dei giorni scorsi, quando una commissione d'inchiesta aveva contato dal 3 settembre 149 morti e 3mila feriti. Qui, il governo ha declinato ogni responsabilità dicendo di non aver dato ordine di sparare, e il primo ministro ha dichiarato che la gente era libera di dimostrare.
   Il Libano come l'Irak è squassato da una crisi del settarismo e al cui cuore sta dal 1983 la grande fazione degli Hezbollah, super armata dall'Iran, presente in tutte le guerre del Medio Oriente, nel terrorismo e nel traffico di droga. Le classi dirigenti sono state schiacciate nella paura e nella rete del denaro illecito. La folla impoverita chiede una rivoluzione che faccia del Libano quello che si merita: una democrazia avanzata, senza vincoli religiosi, che rispecchi il desiderio di benessere e di modernità. Il guaio è che per ambedue i casi in questione una situazione incancrenita ha impedito lo sviluppo di leadership laiche attendibili: gli interessi personali si sono travestiti da ideali religiosi e i gruppi di potere hanno penalizzato senza pietà la gente, privandola di sostentamento, lavoro, educazione. La violenza (basta pensare alla carica di tritolo con cui fu ucciso Rafik Hariri nel febbraio 2005) l'ha privato di personalità indipendenti e vigorose. I giovani chiedono le dimissioni di tutto il governo, occupano le piazze anche se sulle moto arrivano gli Hezbollah in caccia. Nell'88, due anni prima che si concludesse la guerra fra fazioni che aveva fatto 250mila morti e durava dal 1975, l'Accordo di Taif promise di cambiare il peso delle forze in campo in parlamento e di riformare la costituzione. Ma non è accaduto, e la gente non ne può più e mette in un solo mazzo il presidente Aoun, cristiano ma legatissimo agli Hezbollah eletto presidente dopo 45 tentativi falliti in due anni, Nabil Berri speaker del parlamento, leader del partito shiita di Amai, presidente del Parlamento e Hariri, il sunnita primo ministro. Forse se ne stanno andando. Ma gli Hezbollah sotto la sigla della «resistenza», minacciano la guerra civile.

(il Giornale, 27 ottobre 2019)


Il socialismo israeliano dal volto capitalista. I paradossi del kibbutz

Ran Abrarnitzky, docente di Economia a Stanford racconta in un saggio la sopravvivenza delle fattorie collettive. Grazie ai profitti.

di Davide Fratiini

BE'ERI (lsraele) - Ai tempi di David Ben Gurion i vegani non avrebbero potuto trovare ogni giorno i piatti preparati per loro. Ma il resto del menu non è cambiato molto, i turni e l'impegno comune restano gli stessi di 73 anni fa, quando questo kibbutz al confine con la Striscia di Gaza è stato fondato: a rotazione tutti devono lavorare alla mensa, quasi tutti ci mangiano perché - dicono - è più accogliente e divertente che restare a casa.
   Be'eri è uno degli ultimi villaggi israeliani rimasti fedeli al sogno dei pionieri, quell'ideale che dieci uomini e due donne incisero sulla pietra il 28 ottobre 1910, dall'altra parte del Paese, sulle rive del lago di Tiberiade: «Abbiamo costituito un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune». Così era nato Degania, il progenitore di tutti i kibbutz, e così non ha resistito: nel 2007 i 320 abitanti hanno votato per abolire l'organizzazione collettiva, da compagni a soci, con gli stipendi differenziati e le case vendute a prezzi di mercato.
   La crisi economica e la recessione ideologica hanno spinto la maggior parte delle comunità alla stessa necessità di privatizzarsi e all'abbandono delle regole socialiste: come Be'eri ne restano solo una sessantina su 279. «Eppure la loro sopravvivenza dimostra che è possibile costruire una società egualitaria», commenta Ran Abramitzky. Docente di Economia all'Università di Stanford, in California, si è portato da Israele i ricordi delle visite alla nonna vissuta - e seppellita - in un kibbutz.

Ai villaggi collettivi e a quello che possono ancora insegnarci ha dedicato il saggio The Mystery of the Kibbutz: «Stanno resistendo da oltre un secolo e rappresentano un importante esperimento sulla condivisione. Permettono di capire i costi di questi sistemi, i loro limiti se tentiamo di riprodurli. Hanno funzionato perché sono formati da gruppi di piccole dimensioni. Quando cerchiamo di imporre il socialismo a livello di un'intera nazione, il più delle volte otteniamo uno Stato come l'Unione Sovietica con gravi limitazioni ai diritti umani. L'adesione alle regole del kibbutz è volontaria e questa è una grande differenza».
   Si può anche decidere di andarsene. Come la madre che ci è cresciuta per poi scegliere la vita di fuori, insofferente verso la mancanza di privacy. «Ancora oggi quando le chiediamo "dove stai andando?", replica: "Ho smesso di rispondere a questa domanda 45 anni fa dopo avere lasciato il kibbutz"». La nonna di Ran, al contrario, è rimasta fino all'ultimo a Negba, nel Sud di Israele: «La sua salute è peggiorata all'improvviso e anche se ha lavorato tutta la vita come sarta ha potuto ricevere aiuto ventiquattro ore su ventiquattro e con una compassione che i soldi non possono comprare. Considero questa assistenza uno dei vantaggi principali della condivisione egualitaria. Può essere riprodotta con un'assicurazione dalla copertura molto estesa (e molto cara) o grazie all'intervento della comunità allargata che si prende cura degli anziani. La prima è la soluzione adottata dalle società più ricche, la seconda è praticata nelle nazioni in via di sviluppo».
   La ricchezza conta anche per i kibbutz. Gli stessi abitanti di Be'eri riconoscono il paradosso: hanno potuto preservare lo spirito socialista grazie ai profitti garantiti dal capitalismo globale. Fin dagli anni Cinquanta hanno sviluppato una fabbrica all'avanguardia per la stampa della plastica, che adesso - tra l'altro - produce le patenti di guida elettroniche portate in tasca da tutti gli israeliani. L'anno scorso le varie attività, anche quelle agricole, hanno generato 150 milioni di shekel (38 milioni di euro) in dividendi e ogni membro ha ricevuto quasi 65 mila euro. «Finché i kibbutz sono ricchi possono sostenere la parità di reddito, anche se si trasformano in società più complesse e industrializzate, in cui i componenti hanno occupazioni molto diverse, non solo lavorare nei campi. Più in generale direi che questa uguaglianza economica è realizzabile, se una nazione è ricca e/ o omogenea. Altrimenti emergono problemi come la fuga dei cervelli e il salario uguale per tutti diventa difficile da sostenere».

I fondatori dei primi kibbutz erano «omogenei»: giovani ebrei immigrati in Medio Oriente dalle stesse zone dell'Europa, motivati dagli stessi ideali e spronati dagli stessi sogni. «L'uguaglianza è più raggiungibile in una società che sia meno differenziata etnicamente e religiosamente, dove gli individui condividono le preferenze per il modello di redistribuzione. In questo senso è più semplice implementare l'equità redistributiva e un generoso Welfare State in Svezia o Norvegia che negli Stati Uniti».
   La Norvegia è uno degli esempi più citati nel saggio. «Non è un kibbutz perché è gestita attraverso l'economia di mercato, ma è una nazione dove le differenze salariali tra i manager e i lavoratori sono basse, dove lo Stato è in grado di offrire lunghi congedi parentali e l'assistenza sanitaria è gratuita. Questo sistema è garantito dalle risorse naturali (il gas) che hanno reso la Norvegia uno dei Paesi più ricchi del mondo. Finché è in grado di sostenere questa agiatezza, è improbabile che i più dotati scelgano di emigrare: possono ottenere stipendi più alti all'estero, non lo stesso livello di qualità della vita. Con una crisi economica tutto cambierebbe e sarebbe difficile trattenere i migliori: per evitare la fuga dei cervelli la Norvegia dovrebbe offrire incentivi a restare e ridurre il livello di uguaglianza».
   È quello che ha prosciugato i kibbutz agli inizi degli anni Novanta, quando sono stati colpiti dalla crisi finanziaria, mentre il resto di Israele si allontanava dall'austerità sui cui è stato fondato: l'attrazione del mondo dall'altra parte della recinzione è diventata forte e le comunità hanno progressivamente perso compagni. Adesso questa tendenza si sta ribaltando e sono i giovani a tornare: forse con aspirazioni borghesi (le scuole buone, la piccola comunità tranquilla, i vialetti verdi e senza traffico) di sicuro in fuga dall'ingiustizia sociale: meglio mangiare insieme alla mensa comune che restare fuori dai ristoranti troppo cari.

(Corriere della Sera, 27 ottobre 2019)


Il più romano degli ebrei di Brooklin

Prima parte dell'introduzione di Emanuele Trevi a un'antologia di Bernard Malamud. È qui, nei «racconti italiani», che l'infallibile spirito analitico di Henry James viene sottoposto a sottili parodie e lampi surrealisti.

Letteratura
I suoi incipit sono memorabili, come quello di «Lamento funebre»: «Kessler, ex selezionatore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale»
Società
Incostanza, noia e inquietudine sono le condizioni dell'uomo secondo Pascal. Il narratore americano arriva per altre strade a conclusioni altrettanto fulminee e sconfortate

di Emanuele Trevi

Incostanza, noia, inquietudine. Questa, in un famoso frammento di Pascal, è la formula esatta, o se si preferisce la ricetta, della «condizione dell'uomo», ovvero dell'umana infelicità. «Inconstance, ennui, inquiétude». Bernard Malamud, ebreo di Brooklyn, percorrendo ovviamente strade del tutto diverse dal grande mistico francese, arriva a certe conclusioni altrettanto fulminee e sconfortate sulla nostra natura. In effetti noi viviamo nella confusione, nell'ignoranza, nella mancanza. Annaspiamo nell'opinabile, e i nostri errori ci appesantiscono il cuore. Per Leo Finkle, il protagonista del Barile magico, allievo rabbino del Bronx in cerca di moglie, c'è addirittura una paradossale «consolazione» nella consapevolezza di essere ebreo, perché «un ebreo soffre», non potrebbe comunque fare altro. L'ebreo è sempre Giobbe, in un modo o nell'altro.
   Ma chi è davvero un ebreo, quando riduciamo la questione all'osso? Come recita il famoso finale di un altro racconto, L'angelo Levine, «ci sono ebrei dappertutto». Perché l'ebreo è l'uomo, ogni uomo nel momento in cui viene soppesato sulla bilancia della sua «condizione». Lo stesso esercizio della coscienza ci sprona allo sconforto. E ogni storia, antica o moderna, possiede lo straordinario privilegio morale di rivelarci per quello che siamo. Tutto ciò che forma l'ossatura di un racconto: le peripezie, gli accidenti, i desideri, rivelano l'impronta della fatalità e della necessità là dove, senza il racconto, noi vedremmo solo l'opera del caso. Ma questa lucidità è una prerogativa della storia, non di chi la vive, senza comprenderne nulla. Abbindolati dalle apparenze, procediamo nell'inganno. E se un angelo bussa alla porta, o meglio si fa trovare direttamente seduto in cucina, non siamo in grado di approfittarne, prigionieri come siamo nel delirio delle abitudini.
   Come se non bastassero gli accidenti che ci riserva la sorte, poi, non smettiamo di preoccuparci invano: Malamud è magistrale nel tema, variato innumerevoli volte, della preoccupazione inutile, del rovello ozioso, del pensiero che gira a vuoto tornando dolorosamente su sé stesso. «Le sue ansie erano sempre maggiori di ciò che le causava». È la sintesi perfetta del carattere dello sventurato Freeman, il protagonista della Dama del lago, uno dei più bei racconti del Barile magico. Freeman perde la sua grande occasione restando attaccato a una bugia insulsa, di cui nemmeno lui conosce più il senso. Si ostina (il suo vero nome è Levin) a negare di essere ebreo - proprio quando la verità gli aprirebbe le porte della felicità. Così come esistono gli scherzi dei sensi, anche gli scherzi dell'ansia ci ingannano, ci irretiscono in un groviglio di illusioni.
   È con questa materia fragile e intrinsecamente caotica che Malamud costruisce la sua commedia umana, frase dopo frase - ogni frase come la pietra perfettamente levigata di un edificio perfetto. Nei racconti, questa suprema facoltà di comprensione e rappresentazione trova la sua misura ideale. A volte, intravisto il finale, può sembrare che Malamud lo raggiunga troppo rapidamente. Ma la misura breve esalta tutte le sue qualità di esploratore della fragilità umana, tutte le risorse più efficaci del suo senso del comico che utilizza come nessuno aveva mai saputo fare la lezione dei film di Chaplin, di Stanlio e Ollio, di Buster Keaton adorati quando era un ragazzino.
   Il Barile magico, la prima raccolta uscita nel 1958 da Farrar, Straus & Co., è un libro di strabiliante bellezza. «È più bravo di me», ammette Flannery O'Connor: ed è un riconoscimento che vale mille Premi Pulitzer, perché più bravi di Flannery, a scrivere racconti, se esistono sono davvero in pochi. Eppure eccola lì, l'umanità di Malamud: una delle più grandi creazioni della letteratura del
suo secolo, degna di stare accanto a Kafka e Beckett per l'oltranza visionaria, la radicalità del pessimismo, l'inclinazione fondamentalmente tragicomica.
   Nel Barile magico, come negli altri libri, si tratta di poveri diavoli ebrei di Brooklyn o dell'East Side attaccati alle loro bottegucce sull'orlo del fallimento, ma anche di qualche eroe dalle possibilità più ampie, come quel Freeman che, grazie a una piccola eredità, villeggia sul Lago di Garda. Non importa: a ciascuno le sue pene e i suoi rimorsi, le sue ambizioni e i suoi amari risvegli.
   Certi incipit sono straordinari. Malamud non anticipa nulla, ma rende visibili i suoi eroi, li investe del peso della storia che inizia. «Kessler, ex selezionatore di uova, viveva in solitudine con la pensione della previdenza sociale» (Lamento funebre). «Per quanto cercasse di non pensarci, a ventinove anni la vita di Tommy Castelli era di una noia esasperante» (La prigione). A volte preferisce iniziare da un certo ambiente: e ce lo fa vedere con gli stessi rapidi e infallibili tocchi. «Benché in una zona vicina al fiume, la strada era angusta e senza sbocco, una fila sbilenca di vecchie case popolari di mattoni» (Il conto).
   Un altro polo della geografia narrativa di Malamud è già presente nella prima raccolta di racconti: ben tre infatti sono ambientati in Italia, dove Malamud vive con la moglie e i figli ancora piccoli tra il 1956 e il 1957. La dama del lago si svolge sul Lago di Garda, tra Stresa e le Isole Borromee; gli altri due a Roma: lo spassoso Ecco la chiave, dove appare l'indimenticabile figura di Vasco Bevilacqua (l'onomastica italiana di Malamud è sempre geniale), procacciatore abusivo di appartamenti in affitto che sarebbe stato degno dell'interpretazione di Totò, e infine L'ultimo moicano, prima avventura italiana di Arthur Fidelman, «pittore fallito», destinato a occupare un posto speciale nel mondo narrativo di Malamud.
   In questo genere del «racconto italiano» e in particolare «romano», che ha così illustri archetipi nella letteratura americana moderna, a metà del Novecento brillano sulle migliori riviste letterarie i due astri complementari di Malamud e John Cheever, anche lui sbarcato a Roma con moglie e prole nel 1956. In entrambi, è ben visibile la lezione di Henry James: basti pensare alla frequente sensazione di impaludamento nella Città Eterna, tanto prodiga di delusioni di ogni sorta, provata dai protagonisti di tanti racconti, e confrontarla allo stato d'animo di Isabel Archer nel finale di Ritratto di signora. Nonostante il senso così acuto - sia in Cheever che in Malamud - dell'osservazione e del suo potenziale comico, c'è dunque uno schermo letterario di enorme ingombro nel loro modo di rappresentare la Roma «stupenda e misera», per dirla con Pasolini, del dopoguerra. Ma i due giovani scrittori si giocano la partita senza accusare nessuna angoscia dell'influenza, anzi sottoponendo l'infallibile spirito analitico del Maestro a sottilissime parodie e lampi di sapore surrealista. E se dal confronto emerge abbastanza chiaramente un maggior grado di empatia di Malamud, non è difficile capire perché.
   In una memorabile scena ambientata nel vecchio Ghetto di Roma, Fidelman scopre l'esistenza di quella strana razza di ebrei che ai suoi occhi sono i sefarditi. Ma c'è di più. Anche i racconti ambientati a New York pullulano di italiani, degni comprimari degli ebrei. In quelli ambientati in Italia, il trattamento della materia umana si fa ancora più sottile e perspicace, diventando un elemento fondamentale del malinconico affresco antropologico di Malamud. Con una certa sordità, non giustificata dai risultati eccellenti, alcuni critici ( come il brillante Anatole Broyard e lo stesso Roth) rimproverano allo scrittore ogni sconfinamento dal mondo ebraico newyorkese. Eppure, abitando a Roma a metà degli anni Cinquanta, in un'anonima palazzina non lontana da piazza Bologna, in quello che era un quartiere decisamente popolare e di infima borghesia, ben lontano dai percorsi turistici, Malamud visse un'esperienza incomparabilmente più intensa e piena di conseguenze artistiche di quella di Cheever. Possiamo dire che imparò a dosare alla perfezione due forze in apparenza contrarie, ovvero l'estraneità e la familiarità che gli ispirava quella gente inguaiata e ingegnosa, permalosa e priva di vergogna, palpitante e inaffidabile. Non c'erano solo i sefarditi a Roma, non era una questione di sefarditi. A conferma della legge che «ci sono ebrei dappertutto», non saranno gli italiani di Malamud a incarnare una specie di essenza paradossale - tanto più piena di un'arcana realtà quanto più comica nelle sue manifestazioni - dell'essere ebrei?

(Corriere della Sera, 27 ottobre 2019)



Trasformati nella mente

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.

Dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Romani, cap. 12

 


Israele nel pantano, verso il voto per la terza volta

Israele: due elezioni in un anno non hanno dato una maggioranza. Netanyahu ha esaurito il suo mandato esplorativo e ha passato il testimone al centrista Gantz. Ma è possibile che si torni al voto per la terza volta. Giustizialismo contro Netanyahu e partiti arabi che forse appoggiano Gantz: due novità assolute nel panorama israeliano.

Israele è nel pantano post-elettorale: Benjamin Netanyahu, leader del Likud uscito dalla consultazione del 17 settembre secondo, con 31 deputati, ma forte dei 55 della coalizione di centro-destra, non è riuscito a formare un governo sostenuto dalla maggioranza parlamentare (61 seggi). Ha così gettato la spugna due giorni prima dei 28 giorni di tempo che si accompagnavano al conferimento dell'incarico ricevuto dal capo dello Stato Reuven Rivlin. Il mandato è passato ora al suo rivale Benny Gantz, leader del partito centrista "Bianco e Blu" premiato dagli elettori per numero di seggi (32, uno in più del partito rivale) ma con una più debole coalizione di sostegno, di 44 deputati. Potrà farcela?
  A riprova della serietà dell'interrogativo, è emersa di nuovo ad aleggiare l'eventualità di una terza chiamata dell'elettorato alle urne nel corso dell'anno. Ne parlano apertamente i giornali, naturalmente con una serie di informazioni e riflessioni per nulla incoraggianti: innanzi tutto sull'irrigidimento delle principali forze politiche nella difesa di loro preclusioni, sulle quali si sono infrante le speranze di Rivlin di far nascere un governo di unità nazionale. Necessario dinanzi alla realtà conflittuale della regione, più inquietante "del solito" (a causa di grandi e piccole potenze).
  Preclusioni di carattere personale incentrate prevalentemente su Netanyahu, da dieci anni alla guida del Paese, che non ha inteso mollarla quando, all'inizio dell'anno, il partito "Israel Beitenu" del russofono Avigdor Lieberman, si è ritirato dalla coalizione. Era insofferente del condizionamento dei partiti religiosi nel mantenimento di diversi privilegi per il loro elettorato (in particolare l'esenzione del servizio militare agli studenti delle scuole rabbiniche) e della mancata reazione bellica alle continue provocazioni - incendi e attacchi armati ai soldati - di decine di migliaia di palestinesi fondamentalisti alla frontiera di Gaza che tanti danni hanno arrecato all'agricoltura e alla popolazione anche di località lontane dal confine.
  Netanyahu ha reagito indicendo elezioni politiche anticipate per il 9 aprile: sperava in un rafforzamento della sua coalizione, ma così non è stato. Trovatosi di nuovo nella impossibilità di contare su una maggioranza parlamentare, ha sollecitato l'elettorato a recarsi di nuovo alle urne. E neanche il 17 settembre, nel mantenimento del sistema proporzionale puro, si è modificato l'assetto delle formazioni politiche e degli schieramenti, salvo lievi variazioni numeriche come il rafforzamento del partito di Lieberman (segno di una significativa approvazione in una porzione dell'elettorato laico delle sue istanze) e la ricomposta coalizione dei partiti rappresentativi della minoranza araba (nella precedente tornata elettorale si erano presentati divisi e ne erano stati penalizzati).
  E proprio poggiando sulla disponibilità di questa coalizione, dichiaratasi pronta a dargli un sostegno esterno, che Benny Gantz potrà cercare di costruire una maggioranza di 61 deputati. Ma si presterà a questa operazione sensazionale? Sarebbe infatti la prima volta che la minoranza di cittadini arabi condizionerebbe la politica dello stato ebraico! Ecco perché gli analisti della politica israeliana, evocando la prudenza finora dimostrata dall'ex capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, ipotizzano una strada diversa.
  È la via della "scomparsa" forzata di Netanyahu dalla scena politica ad opera della Magistratura. Un'operazione per nulla certa; ma neanche desiderabile in un paese che fino ad oggi si è detto orgoglioso di fondarsi su valori e principi democratici. (Israele è indiscutibilmente la sola democrazia del Vicino e Medio Oriente). Su Netanyahu pende l'accusa di corruzione, ma solo ipotizzata per dei contatti che si vorrebbero non chiari con chi gli avrebbe promesso appoggio giornalistico: potrà mai incriminarlo il procuratore generale Avichai Mandelbit? Appaiono risibili altre due presunte accuse, una di suo abuso di potere, l'altra di illecito profitto di cui si sarebbe resa responsabile la moglie.
  Ma è quel che spera il partito "Bianco e Blu", attendendo una decisione di questo procuratore per metà novembre, durante il periodo di tempo di 28 giorni legati al mandato esplorativo che Reuven Rivlin ha affidato a Benny Gantz. Ora se si è certi del basso livello dei contrasti e delle polemiche della lotta politica, si è pure scoraggiati dal fatto che ha portato al fallimento della insistente richiesta del capo dello Stato di far nascere un governo di coalizione fra Likud e "Bianco e Blu", nell'alternanza del premierato tra i due leader.
  Si dice che Gantz abbia così mantenuto la promessa elettorale di non entrare in un governo con Netanyahu "sotto incriminazione". Ma ha agito dando a intendere che voglia soltanto tenerlo lontano. Da parte sua Netanyahu ha profittato del tempo del suo (inconcludente) mandato, rafforzando la sua coalizione, "tagliando l'erba" sotto i piedi di Gantz che spera invece di sfaldarla. Ecco perché l'ipotesi di nuove elezioni, le terze nell'anno, non appare un semplice esercizio mediatico.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 26 ottobre 2019)



In Medio Oriente sono tutti contro tutti ma alleati di Putin. Quanto durerà?

Uno dei fattori che ha incentivato la scelta di Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria è la possibilità di minare le fragilissime basi su cui da qualche tempo si regge l'inedita intesa tra Turchia, Iran e Russia. L'analisi di Gabriele Natalizia

di Francesco De Palo

 
Ci sono almeno quattro ragioni principali che possono aver quanto meno contribuito a far maturare la scelta, all'interno della Casa Bianca, del tramonto dell'interventismo umanitario e dell'operazione "Primavera di Pace".
  La prima è che il ritiro dal Rojava non solo si trova in linea di continuità con la promessa trumpiana dell'America first, da rispettare sempre più rigorosamente nell'anno che precede le presidenziali 2020, ma lo è ancor di più con la politica del retrenchment avviata da Barack Obama e poi proseguita dal suo - sgradito, ma in questo caso fedele - successore. Entrambi i presidenti, d'altronde, non hanno attribuito al Medio Oriente un ruolo strategicamente vitale per il mantenimento del primato internazionale degli Stati Uniti, a causa delle conseguenze negative sul prestigio americano delle politiche nell'area dell'Amministrazione Bush, per la diminuita importanza delle sue risorse energetiche per la domanda interna del Paese e, soprattutto, per la necessità di riorientare gli sforzi verso il contenimento della crescente minaccia cinese. La stessa Amministrazione Obama, d'altronde, aveva ritirato i soldati dall'Iraq nel 2011 e aveva preferito non reagire all'utilizzo delle armi chimiche da parte del governo siriano nel 2013 nonostante fosse stata presentata come una red line dalla Casa Bianca poco meno di un anno prima.
  La seconda ragione è strettamente legata alla prima. L'Amministrazione Trump vuole rilanciare l'idea obamiana del leading from behind. La necessità di attuare il taglio della spesa per evitare la "sovra-estensione imperiale", infatti, impone agli Stati Uniti di responsabilizzare gli alleati rispetto ai problemi di sicurezza che affliggono la loro regione (in Medio Oriente, così come in Europa), riducendo così i costi gravanti sul bilancio americano. In tal senso, gli Stati Uniti sostengono una politica più attiva dell'alleanza sunnita guidata dall'Arabia Saudita e che si riunisce nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, con l'appoggio esterno - e quanto più possibile invisibile - di Israele, per ottenere l'obiettivo comune del contenimento della minaccia iraniana.
  Il terzo fattore che ha incentivato la scelta di Trump è la possibilità di minare le fragilissime basi su cui da qualche tempo si regge l'inedita intesa tra Turchia, Iran e Russia. L'assenza degli americani dalla Siria permetterà alle loro truppe regolari o ai loro proxy di entrare direttamente in contatto, facendo diventare realtà il rischio di uno scontro tra attori che hanno obiettivi che si escludono mutuamente. La Russia è alla ricerca di uno Stato-vassallo che ne garantisca l'accesso ai mari caldi, in cambio della sua protezione e, quindi, dell'integrità territoriale. L'Iran vuole una Siria da utilizzare come base logistica nel cuore del Medio Oriente per colpire i suoi nemici, da Israele all'Arabia Saudita, passando ai partiti anti-sciiti in Libano e Iraq. La Turchia, dal canto suo, vuole uno Stato debole nel suo confine meridionale, all'interno del quale essere libera di realizzare azioni di polizia internazionale contro partiti e organizzazioni armate curde e dove re-insediare masse di ex-profughi fidelizzati da mobilitare quando necessario contro Damasco.
  Infine, la quarta ragione è legata ai rapporti bilaterali tra Washington e Ankara. Il progressivo avvicinamento turco alla Russia, culminato con l'acquisto dei missili S-400, alla lunga non poteva essere lasciato impunito. Il ritiro delle truppe americane del Rojava, in questa prospettiva, potrebbe essere stato sfruttato alla stregua di un'esca, per indurre la Turchia a compiere un'azione che le ha attirato strali in tutto il mondo e ne ha delegittimato l'immagine. Se Ankara non procederà a un veloce riallineamento con Washington, la pistola fumante che si trova ora in mano potrebbe essere utilizzata per giustificare sanzioni o misure ancor più gravi nei suoi confronti nei principali consessi internazionali a cui partecipa.

(formiche, 26 ottobre 2019)


"Chiudete il festival antisemita": l'appello degli ebrei belgi all'UNESCO

di Nathan Greppi

Dopo le polemiche di marzo, gli organizzatori del carnevale nella città belga di Aalst fanno nuovamente parlare di sé per aver pubblicato un manifesto che se la prende con gli ebrei e l'UNESCO in vista dell'edizione 2020.
A marzo, il festival era stato al centro di numerose polemiche poiché tra i vari carri ne è sfilato uno che rappresentava due ebrei ortodossi come avidi e perfidi, il che gli è valso la denuncia di numerose organizzazioni ebraiche e dell'UNESCO. In questi giorni, come riporta l'EJ Press, il festival è nuovamente al centro dell'attenzione per aver distribuito dei nastri con immagini caricaturali degli ebrei che controllano l'UNESCO.
Hans Knoop, portavoce del Forum delle Organizzazioni Ebraiche (FJO in inglese) in Belgio, ha definito i nastri "pura provocazione", e che "queste vignette hanno un approccio assolutamente antisemita." Mentre Rav Menachem Margolin, rabbino capo della European Jewish Association, "è chiaro che l'UNESCO, che deciderà a dicembre se continuare a tenere questo carnevale nella lista del patrimoni dell'umanità, deve recidere ogni legame o sponsorizzazione con esso." Ha aggiunto che scriverà una lettera all'UNESCO affinché questa ponga fine al patrocinio del festival.

(Bet Magazine Mosaico, 26 ottobre 2019)



Weekend a Tel Aviv nei quartieri più belli - Classifica di Time

Tel Aviv entra due volte nella classifica di Time Out sui 50 quartieri più belli al mondo

Il quartiere yemenita (Kerem Hateimanim) e il Carmel Market sono i due quartieri di Tel Aviv entrati ufficialmente a far parte della classifica "50 Coolest Neighborhoods in the World" stilata ogni anno dalla redazione di Time Out con la collaborazione di oltre 27.000 lettori in tutto il mondo.
Questa particolare classifica, che può ora contare su due new-entry israeliane, aiuta i lettori del magazine a scoprire i luoghi più caratteristici e autentici delle città, offrendo valide alternative alle solite attrazioni turistiche.
I due quartieri di Tel Aviv sono stati scelti non solo per la loro offerta culinaria, artistica e culturale, ma soprattutto per la loro capacità di attirare i residenti e regalare tanto divertimento "made in Tel Aviv". Kerem Hatemanim è stato descritto come un perfetto ritrovo foodie, immerso in un'atmosfera che ha saputo mantenersi autentica nonostante la vocazione residenziale del quartiere. Anche Carmel Market deve ai foodies gran parte della sua fama, poiché è all'interno di questo mercato che si trovano le migliori prelibatezze di Tel Aviv.
Entrambi i luoghi sono due punti di ritrovo per i locali e rappresentano il modo migliore per immedesimarsi tra i residenti, svestendo i panni del turista e assaporando l'autentico clima israeliano.
Tra le attrazioni da non perdere, Time Out ha menzionato i ristoranti HaBasta e Ha Minzar e il mercato degli artisti di Nachalat Binyamin, dove artigianato ed esibizioni di artisti la fanno da padrone.
Ecco quindi due suggerimenti in più per andare alla scoperta di una città che, oltre a questi due splendidi posti, ha anche molto altro da offrire!
La classifica integrale di Time Out è visibile al link: www.timeout.com

 Nuovi siti web per Tel Aviv
  La Municipalità di Tel Aviv-Yafo ha recentemente aperto un nuovo sito web in lingua inglese con ancora più contenuti dedicati ai turisti. Al link visit.tel-aviv.gov.il sarà possibile trovare informazioni di ogni tipo sulla città: dal programma degli eventi fino agli elenchi di musei, ristoranti, spiagge, trasporti e tanto altro. Contestualmente, è stato lanciato anche un secondo indirizzo web dedicato alla stampa, ricco di spunti per articoli, fotografie e comunicazioni ufficiali della Municipalità: press.tel-aviv.gov.il.

 Inverno a Eilat
  Eilat è una delle mete preferite dai turisti europei in fuga dai primi freddi dell'inverno, non solo per il clima caldo e lo splendido mare, ma anche grazie a una lunga lista di attrazioni e intrattenimenti. Per questa stagione è già stato pubblicato un ricco calendario di eventi, con numerose occasioni per ritrovarsi tra sportivi, amanti della musica e del buon cibo. Non mancano poi le tradizionali escursioni nel Red Canyon e a Timna Park. Altro che inverno!

 Birdwatching nella Valle di Hula
  Si avvicina la stagione più attesa per gli appassionati di birdwatching che potranno ammirare un'incredibile varietà di uccelli in alcuni dei luoghi più suggestivi e meno conosciuti di Israele, come la Valle di Hula, nell'alta Galilea. Il mese di novembre è infatti il migliore per le osservazioni, in concomitanza con la migrazione d'autunno.
Milioni di uccelli attraversano Israele diretti verso l'Africa e oltre 100 specie rimangono qui per l'inverno. Si possono così ammirare migliaia di gru, pellicani, rapaci e passeracei che arrivano nelle valli settentrionali di Israele. Uno spettacolo incredibile!

(Donne Cultura, 26 ottobre 2019)


Striscia di Gaza. «Arrivano i dollari», il Qatar paga i sussidi alla gente e gli stipendi ad Hamas

Giunto da Doha Mohammed al-Emadi, l'inviato con i finanziamenti per la popolazione palestinese. Il programma di aiuti per Gaza e Cisgiordania ammonta complessivamente a 300.000 dollari

Mohammed al-Emadi, inviato dell'emiro del Qatar presso l'Amministrazione nazionale palestinese, sarebbe giunto in missione nella Striscia di Gaza nella notte tra giovedì e venerdì per recapitare i finanziamenti destinati alla popolazione locale erogati della ricca monarchia del Golfo Persico.
Il denaro verrà consegnato in contanti nelle mani dei capifamiglia che ne hanno fatto richiesta per il tramite delle strutture amministrative locali, cioè da Hamas.
   Saranno 100.000 le famiglie palestinesi beneficiarie dei cento dollari mensili ottenuti grazie all'assistenza qatarina. Si tratta dell'ultima tranche di una serie di aiuti finalizzati alla copertura dei costi del carburante impiegato per la generazione dell'elettricità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e l'assistenza alle famiglie più bisognose.
   Lo scorso anno l'Emirato del Qatar ha stanziato 330 milioni di dollari per il programma di assistenza alla popolazione palestinese. Il 6 maggio scorso le autorità di Doha hanno annunciato l'invio di 480 milioni di dollari sia alla Cisgiordania che alla Striscia di Gaza per «aiutare il popolo fratello palestinese a soddisfare i suoi bisogni primari», specificando che la parte maggiore di essi - appunto i 300 milioni di dollari portati da al-Emadi - verranno erogati principalmente nelle forme di prestiti a Gaza, mentre i rimanenti 180 all'Anp di Ramallah, attualmente governata da Fatah.
   Una forma di assistenza umanitaria che Israele tacitamente consente al fine di sostenere gli sforzi tesi alla stabilizzazione della Striscia di Gaza, risultato al quale lo Stato ebraico è molto interessato poiché negli ultimi mesi pressato alle sue frontiere dal pericoloso ribollire della resistenza palestinese, concretizzatasi nell'incontrollato lancio di razzi sul suo territorio e dalle manifestazioni di massa alla frontiera.
   Si tratta di una tregua non ufficiale negoziata con Hamas da Israele, che a fronte di una riduzione dei lanci di missili dalla Striscia e del contestuale ridimensionamento delle proteste settimanali lungo il confine, ha permesso al Qatar di far pervenire i finanziamenti in contanti ad Hamas, che ora potrà corrispondere gli stipendi ai propri funzionari, permettendo inoltre all'Onu di incrementare le sue attività di assistenza.

(Insidertrend, 26 ottobre 2019)


Attacco alla sinagoga di Pittsburgh: una campagna per ricordare le vittime e i superstiti

 
La sinagoga di Pittsburgh
NEW YORK - Seconda edizione per #ShowUpForShabbat, la campagna lanciata dall'American Jewish Commitee (AJC) per onorare le 11 vittime e i superstiti dell'assalto alla sinagoga, l'Albero della vita, di Pittsburgh.
   L'iniziativa si apre oggi e si concluderà il 27 ottobre, giorno in cui nel 2018, Robert Gregory Bowers, armato di un fucile d'assalto entrò nel luogo di culto durante il servizio mattutino, trucidando undici persone, alcune delle quali erano sopravvissute all'Olocausto. La campagna, anche quest'anno, ha riunito non solo le sinagoghe di tutto il mondo ma anche milioni di persone di tutte le fedi che, in presenza o attraverso i social media, stanno esprimendo la loro solidarietà non solo alla comunità ebraica americana ma a tutte le vittime dell'odio e del bigottismo. "Questi giorni hanno lo scopo di offrire alle persone uno spazio per esprimere dolore per il massacro e mostrare solidarietà alle vittime. Darà una prova di unità contro le atrocità, mostrando che l'odio non potrà prevalere", ha affermato David Harris, Ceo di AJC.
   Alla campagna hanno aderito i rappresentanti politici di entrambi gli schieramenti statunitensi, da Nancy Pelosi, portavoce democratica della Camera dei deputati al suo predecessore repubblicano, Paul Ryan; esponenti della comunità musulmana, giornalisti e personaggi dello spettacolo. I leader ebrei, in tutto il Paese hanno dichiarato che non chiuderanno le comunità per paura, anzi stanno aprendo le porte per invitare chiunque lo desidera alla cena di Shabatt del venerdì o ai servizi, alle preghiere e alle azioni di solidarietà in memoria delle vittime: la stato di allerta resta comunque alto dopo manifestazioni antisemite registrate in vari stati del Paese. A Pittsburgh l'esterno la sinagoga, teatro dell'assalto, si è trasformato in un immenso giardino, dove le persone con spontaneità depositano fiori e candele in memoria delle vittime.

(SIR, 26 ottobre 2019)


25 anni dalla pace tra Israele e Giordania

I grossi interessi reciproci che fanno di necessità virtù

di Leonardo Coen

Con toni insoliti, domenica 20 ottobre re Abdallah II di Giordania, da vent'anni sul trono hashemita, ha annunciato che il suo Paese intende recuperare due zone "prestate" a Israele per un periodo di 25 anni in virtù dello storico accordo di pace firmato il 26 ottobre del 1994: "Sono terre giordane e resteranno giordane!", ha tuonato. Ma si sa, in Medio Oriente la comunicazione politica è sempre infervorata, teatrale e millenaristica.
  L'agenzia d'informazione nazionale Petra ha accompagnato la notizia con il commento del deputato Saleh-al-Armuti, il quale si è subito felicitato per la decisione del sovrano, compiacendosi di questo "passo positivo che ridà dignità al cittadino giordano e rinsalda la sovranità sulle sue terre". Le quali sono piccola cosa: la prima, Baqura-Naharayim, di 6 chilometri quadrati, si trova nella provincia a nord di Irbid; la seconda, Al-Ghamr-Zofar, sta a sud, nella provincia di Aqaba, ed è di 4 kmq.
  Da Gerusalemme, al re improvvisamente burbanzoso, ha risposto un distratto Benjamin Netanyahu, poche ore prima che rimettesse nelle mani del presidente Reuven Rivlin il suo mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo (ora la patata bollente è passata al rivale Benny Gantz, di Blu Bianco, ma sono assai scarse le chances di formare una coalizione): "Israele vuole riaprire i negoziati per rinnovare la situazione attuale". Una replica sommessa.
  Le priorità sono ben altre, visto il drammatico contesto regionale delle ultime settimane, con lo sconquasso provocato da Donald Trump e il conseguente patto Putin-Erdogan sul Nord della Siria che rende il capo del Cremlino unico arbitro del Medio Oriente e rinvigora l'eterno duello tra turchi e siriani (Erdogan aveva appoggiato nel 2011 i ribelli sunniti per detronizzare Bashar Assad).
  Non solo: le relazioni tra Israele e l'Autorità palestinese sono particolarmente tese. Per dirla a sommi capi, gli interessi inevitabilmente divergenti di Russia, Turchia, Iran stanno mettendo in moto dinamiche assai pericolose, e in questo grande gioco il ruolo israeliano è delicato, perché Washington vorrebbe favorire la creazione di una sorta di Nato del Golfo, in funzione anti Iran, e in questo gioco rientrerebbe pure la Giordania che già di suo si trova in una situazione geopolitica complessa, con l'ipoteca d'essere "patria alternativa" dei Palestinesi, e di avere milioni di rifugiati.
  Ben diverso era il clima in cui venne siglato a Washington l'accordo fra Gerusalemme ed Amman, con la benedizione di Bill Clinton. Il 25 luglio 1994 fu il giorno dell'annuncio e delle foto a "futura memoria". Il 26 ottobre dello stesso anno l'accordo fu ratificato, dopo mesi di complicate trattative. Il Muro di Berlino era crollato cinque anni prima. La riunificazione tedesca era avvenuta in tempi rapidi.
  L'apartheid era finito in Sudafrica e Nelson Mandela dava la sensazione che la riconciliazione fosse possibile ovunque. L'Urss si era dissolta. La Cina cominciava a diventare una megapotenza economica. E in Medio Oriente si era battezzato - addirittura con i Premi Nobel per la pace assegnati a Yizhak Rabin e Yasser Arafat - un processo di pace che sino allora tutti dicevano fosse impossibile. Col senno di poi, possiamo dire che fu un'utopia. Un'illusione pericolosa. Le due parti erano in disaccordo su tutto. Ma con altrettanta forza, erano convinti che bisognasse proclamare la pace.
  Purtroppo Rabin venne assassinato da un estremista della destra israeliana nel 1995. Era l'unico in grado di convincere gli israeliani a fidarsi della pace proclamata con tanta enfasi e passione, ma osteggiata dalle destre, dagli estremisti, dai radicalizzati. L'unico che predicava la lotta bipartisan contro la violenza e il terrorismo, contro i sabotatori della pace, da un lato e dall'altro. Dopo la sua morte, il sogno è svanito. Il ministro degli Esteri, Shimon Peres, allora non era autorevole e amato come Rabin, sarebbe diventato "padre della patria" solo una ventina d'anni dopo. E Arafat non accettava nuovi compromessi. Non si fidava (nemmeno dei suoi).
  Resta il dato storico. Un trattato è morto, l'altro continua a sopravvivere. Gli accordi di Oslo del 1993 - sinonimo di reciproco riconoscimento tra Israele e l'istituzione dell'Autorità Palestinese, dopo 45 anni di conflitti - sono stati seppelliti dal potere nazionalista e religioso e da un Netanyahu in alcun modo disposto a patti coi Palestinesi. Il Trattato con la Giordania del 1994, invece, è ancora in piedi. Pronto a essere aggiornato, nonostante la rivendicazione territoriale di re Abdallah.
  Perché dietro ci sono grossi interessi reciproci, a cominciare da quelli della sicurezza (lotta al terrorismo) e dei rapporti economici, in particolare, la grossa questione del controllo delle acque, strumento in cui le incidenze geopolitiche sono vitali. La "geopolitica dell'irrigazione". La Giordana è infatti tra i paesi più aridi del mondo. Ogni abitante dispone di appena 150 metri cubi d'acqua all'anno.
  Inoltre, deve confrontarsi con una crescita demografica impressionante: +2,5%. Una fattore di pressione aggravato dal fenomeno delle transizioni demografiche, collegati agli sviluppi degli avvenimenti regionali. Il controllo delle acque, in un contesto altamente instabile, è una priorità. Inoltre, Amman paga la perdita, dopo la sconfitta nella guerra del 1967, della sponda destra del Giordano - la grande risorsa idrica nazionale, insieme allo Yarmouk. Spartizioni dei flussi controversi e dirimenti. Più volte Amman ha denunciato all'Onu le "violenze idrauliche" subite sia da parte israeliana che da parte siriana.
  Ebbene, nell'accordo del 26 ottobre 1994 il tema è centrale ed è regolato nei dettagli, con compensazioni dei prelievi d'acqua, bacini, canalizzazioni, irrigazioni: la sicurezza alimentare non è meno importante di quella antiterroristica. E allora, perché mai re Abdallah II ha rivendicato la sovranità su quei territori "prestati" ad Israele, come una questione vitale? Per ragioni simboliche. Per chetare l'opposizione più radicale dei Fratelli Musulmani (che sono rappresentati dal loro braccio politico giordano, il Fronte d'azione islamico). Ad essi il trattato del 1994 è stato indigesto.
  Lo hanno ritenuto troppo favorevole agli interessi israeliani, fonte comunque di corruzione (volano mazzette come nella Beirut dei bei tempi). In tutti questi anni ci sono stati parecchie frizioni tra i due paesi, ma sempre ha prevalso la ragion di stato, mascherata talvolta da emergenza. Nel marzo del 2014, per esempio, un giudice giordano venne ucciso dai militari israeliani al posto di frontiera del ponte di re Hussein, suscitando un'ondata di indignazione e provocando una forte reazione del Parlamento che chiese la liberazione di 26 cittadini giordani detenuti in Israele. Ma il parlamento giordano non ha grandi poteri, come dimostra la firma di un accordo di 10 miliardi di dollari per l'importazione di gas israeliano in Giordania, nell'autunno del 2016.
  Dal 2011, infatti, re Abdallah ha rafforzato i suoi poteri esecutivi, in contemporanea con una stretta sul fronte delle libertà d'espressione e della stampa. La mobilitazione popolare contro la normalizzazione con Israele non è riuscita a fare annullare l'accordo del gas e a ripristinare quello con l'Egitto. La rivendicazione quindi delle terre "prestate" a Israele è, in questo senso, una concessione più a uso interno che esterno. In fondo, di che si tratta? Di due territori dallo scarso valore strategico. Prova ne è la contenuta reazione israeliana.
  È comunque un messaggio unilaterale. Diretto a Netanyahu, l'interlocutore degli ultimi anni. Un personaggio tuttavia in bilico, che rischia di non essere più premier. Resta, tuttavia, colui che ha bloccato definitivamente il processo di pace coi palestinesi - che in Giordania sono la minoranza politica più influente - e che ha chiuso ogni porta, con l'appoggio di Trump, alla soluzione dei due Stati, opzione popolare tra i giordani: ma lo è per re Abdallah? Il messaggio non avrà risposta. Troppo stretti, infatti, sono diventati i legami fra i due paesi. A prescindere dalla sicurezza, ci sono quelli legati all'economia.
  Israele, carente di manodopera, ha bisogno dei frontalieri giordani e palestinesi (e questo è gradito da Amman). Quanto alla sicurezza, in questo quarto di secolo, si è stabilita un'alleanza strategica: il regime giordano dipende largamente da Gerusalemme per le informazioni sulla sicurezza mentre Israele beneficia del controllo che il regime di re Abdallah esercita sulla sua popolazione (oltre 10 milioni di abitanti) e, in qualche modo, sulla popolazione palestinese. Un matrimonio d'interesse che giova profondamente nella lotta contro il terrorismo. Ed è utile per decifrare i complicati eventi siriani. Insomma, un'alleanza complicata ma efficace. Che sta per accogliere un nuovo, più ingombrante, partner: i sauditi.
  L'ambizioso principe ereditario Mohamed bin Salman da tempo sta sdoganando Israele, all'insegna della realpolitik: lo stato ebraico non viene più percepito come nemico dell'Arabia Saudita ma come potenziale socio nel quadro del confronto contro la minaccia strategica portata avanti dall'Iran nel Golfo Persico. Uno schema strategico in cui si posizionano su un lato Iran, Turchia e Russia; sull'altro, Arabia, Israele e Stati Uniti.
  C'è però un intoppo. Che non è determinato dalla titubanza eventuale della Giordania. O dalla diffidenza di Israele. Ma dal caso Khashoggi, Jamal Lhash oggi, il giornalista assassinato e smembrato nel consolato saudita di Istanbul.
  Questo caso infame indebolisce l'alleanza strategica di Riad con Washington, e Gerusalemme patisce di conseguenza questa fragilità. Vittima collaterale dei rischi disinvolti di bin Salman (vedi la guerra nello Yemen). Un puzzle in cui il ruolo della Giordania è quello di chi si barcamena tra i predoni del Medio Oriente: l'alleanza storica con gli Stati Uniti e i Paesi del Golfo (i principali erogatori di prestiti e fondi), la Russia che vuole dirigere l'orchestra, l'Iran che non accetta sudditanze e ricatti petroliferi, i Palestinesi recalcitranti.
  Con Israele di necessità si fa virtù. E con l'Arabia Saudita, ne segue a malincuore certe scelte che mettono Amman in imbarazzo. Quando Riad ha rotto nel giugno del 2017 le relazioni diplomatiche con il Qatar, la Giordania si è trovata a dover accondiscendere l'Arabia. Però poco poco: limitando i rapporti diplomatici. Ma non gli altri.

(il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2019)


«The spy» rende giustizia a un vero eroe di Israele

La serie di Netflix racconta bene vita e morte di Eli Cohen, l'agente che mise in scacco la Siria

di Fiamma Nirenstein

Eli Cohen
La storia di Eli Cohen è meravigliosa, l'interpretazione di Sacha Baron Cohen stupefacente, ma le sei puntate di The spy (Netflix) sulla famosa spia troppo dolorose, forse, troppo vere, per potere essere digerite nel comune pasto delle serie televisive. Tant'è vero che con desiderio di delegittimazione, travestito da passione per l'action, svariate recensioni, e soprattutto quella del giornale Haaretz - che non si stanca mai di riportare tutto alla politica che gli interessa - aggredisce la serie dicendo senza veli: «finalmente eccone una che può piacere a Netanyahu». Che vergogna! Vero, questa serie, per la memoria, per il senso (finalmente! dopo tanti film in cui Israele chiede scusa e perdono di doversi difendere) di straordinarietà e di eroismo che comunica restando sostanzialmente aderente al testo storico, fa capire parecchio, di Israele, del suo spirito, dell'incredibile funambolismo della sua sopravvivenza. E Baron Cohen, che fino a ora aveva fatto ridere e sogghignare con i personaggi di Borat e di Bruno, riporta alla vita con un'interpretazione molto appropriata "la spia" e riesce a trasformarsi del tutto, con la semplicità che hanno solo i grandi attori. Rilegge la biografia di Cohen ( tanto più che hanno lo stesso nome, il più simbolico del mondo ebraico) senza togliere e senza mettere, riproducendo il testo di una grande storia che ha un solo difetto: finisce male. Sin dalla prima scena, in cui Eli è già stato torturato, e in cella, scrive il messaggio di congedo alla moglie lontana, lo spettatore sa dove siamo diretti: al patibolo. Sacha Baron Choen riesce a comunicare, con la sua stessa fisionomia di ebreo egiziano, anche nei momenti in cui si vedono le sue feste, i suoi equilibrismi, i suoi successi a Damasco, una melanconia mediorientale, il senso di un destino segnato, quello di consacrare la propria giovinezza. Stessa linea recitativa anche per il personaggio del suo responsabile nel Mossad, Dan (interpretato da Noah Emmerich, lo stesso di The americans ): lo vediamo eccitato dai successi incredibili del suo inviato e nello stesso tempo sempre angosciato per il rischio continuo. Così è sempre nella storia e nella vita quotidiana di Israele, non sai mai se sei più fiero di riuscire a preservare nonostante tutto, o più preoccupato per la sorte dei tuoi cari.
   Eli Cohen nacque nel 1924 ad Alessandria d'Egitto e i suoi genitori subirono la grande espulsione di 600mila ebrei dal mondo arabo alla nascita dello Stato di Israele. Eli restò in Egitto per concludere i suoi studi di elettronica. Partecipò a attività sioniste, ma fu arrestato, e prese parte a una missione segreta per Israele fino a essere a sua volta espulso nel '56. Giovane semplice ma ambizioso, cercò di entrare nel Mossad, ma ancora non era considerato pronto. Così il suo training, nel momento in cui si scoprirono i suoi talenti, fu frenetico, intensivo, perché la Siria diventava pericolosa ogni giorno di più, mentre avanzava il potere baathista.
   Intanto nella sua vita arrivò il grande amore, Nadia Majald, una bella ragazza di origine irachena, con cui nella serie si sorride e si piange, mentre lei da sola, negli anni a partire dal 1960, quando Eli parte per l'Argentina, cresce in totale solitudine i suoi due bambini. Oggi Nadia commentando la serie ha detto che non è del tutto soddisfatta, che ci sono cose inesatte: ma la sua critica è stata piuttosto blanda, quella di chiunque abbia vissuto una vicenda unica, irripetibile, che non può essere riprodotta o rappresentata; ha detto anche che comunque è positivo che se ne parli perché così c'è la speranza che il corpo di Eli possa essere un giorno restituito. I siriani ancora non lo hanno fatto: brucia troppo quello che Cohen è riuscito a realizzare durante la sua fantasmagorica operazione.
   Eli fu rapidamente addestrato a parlare arabo con accento siriano benché provenisse dall'Egitto, e prese il nome di Kamel Amin Thaabet. In Argentina, la sua prima tappa, si guadagnò un gran nome di patriota siriano, di benefattore e anche di organizzatore di feste che divertivano i militari, i diplomatici, l'élite siriana, fino conquistare l'amicizia di Amin al Hafez, che sarebbe poi diventato presidente della Siria. Kamel finalmente si trasferì in Siria e non solo riuscì a scoprire segreti che mandava in patria con l'alfabeto morse -che nella serie digita ogni sera su una radio che tiene in un armadio, e che alla fine lo farà scoprire-, ma creò, influenzando i circoli sempre più importanti di cui entrava a far parte, situazioni utili a Israele. Per esempio, sarà lui, con un pretestuoso gesto di munificenza, a far piantare gli alberi per proteggere le postazioni militari siriane, ma anche a far disegnare e rilevare la cartina delle loro posizioni, cosa che risultò essenziale per bombardarle nella Guerra dei Sei Giorni... Baron Cohen ha momenti di eccellenza quando, persino a casa sua, con la madre e con la moglie in Israele, e poi sulla soglia dell'esecuzione, mostra la confusione mentale, dopo tanta sicurezza nell'azione, di una persona costretta a trasformare la sua personalità fino a rinunciare alla propria vita. Eli a volte diventa Kamel, e ne soffre. Le sue feste lussuriose, il corteggiamento femminile cui deve sottoporsi essendo un marito fedele, il trattamento di favore dell'esercito che lo conduce nelle postazioni più delicate proponendogli persino di sparare personalmente sugli israeliani che si vedono in lontananza nei campi ( un momento molto drammatico) sono tutte parte di un lavoro che Eli compie con professionale insistenza. Fare la spia cambiando personalità è un lavoro di cesello, di lunga durata, i successi non ti devono eccitare, la paura non deve esistere, persino la proposta di al Hafez di diventare vicemininistro della difesa sono parte di un gioco che riguarda lo Stato, non te personalmente. Un "understatment" che si estende alla descrizione di una Siria che sappiamo molto fanatica: i siriani, i politici viziosi, i militari fanatici panarabisti, sono trattati nella serie con discrezione, senza esagerare. Al Hafez è persino carino.
   Nel 1964 Eli durante una visita a casa disse che avrebbe voluto tornare: un ufficiale del controspionaggio cominciava a sorvergliarlo da vicino. Presto, fu scoperto. E qui viene trattata brevemente la tortura, la condanna senza processo e senza difesa, la ricerca da parte della moglie di un inutile aiuto internazionale. La Siria era furiosa e umiliata: la pazzesca bravata lasciò senza parole l'intera elite siriana che andava regolarmente a cena da lui. Come era stato possibile?
   Questa domanda riguarda tutte le impossibili operazioni che Israele ha compiuto, per esempio la liberazione degli ostaggi di Entebbe, il rapimento di Eichmann, il furto dell'intero archivio nucleare iraniano ... Sono tutti risultati di un popolo che ha duemila anni e che ha subito ogni possibile persecuzione. La sua stessa sopravvivenza è un miracolo.
   Eli Cohen ha dato il suo importante contributo.

(il Giornale, 26 ottobre 2019)


Nirenstein-Lattes, lettere dalla cortina di ferro

Depositate le carte alla Fondazione Turati. a Firenze Con la corrispondenza dei primi anni `50 99. La figlia Susanna: Quando dopo la guerra il babbo tornò in Polonia fu bloccato fino alla morte di Stalin.

di Lorella Romagnoli

FIRENZE - Le carte dello scrittore e storico polacco Alberto Nirenstein e della giornalista del Corriere della Sera e del Corriere Fiorentino Wanda Lattes sono state depositate alla Fondazione di Studi Storici Filippo Turati di Firenze dalle figlie Susanna, Fiamma e Simona. Presto saranno catalogate e in futuro verranno messe a disposizione degli studiosi. «Del babbo — racconta Susanna — ci sono alcuni inediti, studi in polacco e in ebraico e articoli sulla Shoah, della mamma articoli giornalistici sui beni culturali e le carte delle sue ricerche». A ciò si aggiunge la corrispondenza tra loro negli anni tra il '50 e il '53. Alberto Nirenstein, che durante la Seconda Guerra Mondiale si era arruolato come ufficiale nelle Brigate Ebraiche della VIII armata britannica, tornò in Polonia chiamato per una consultazione — lavorava all'ambasciata polacca — ma lì fu trattenuto fino alla morte di Stalin e fu lì che iniziò la ricerca delle testimonianze sull'Olocausto del popolo ebraico rintracciando alcuni diari in cui erano scandite le varie fasi del supplizio e della Resistenza del ghetto di Varsavia. Impossibile rientrare in Italia, dove nel 1945 aveva sposato Wanda Lattes, che negli anni della guerra, giovanissima, era stata staffetta partigiana a Firenze per Giustizia e Libertà. Nel dopoguerra Wanda Lattes aveva iniziato, tra le prime donne in Italia a scegliere questa professione, il suo lavoro da giornalista, e fu proprio allora che visse il trauma della separazione dal suo amato Alberto. «Quegli anni e quelle lettere mia mamma li ha rievocati nel racconto Storia di Alberto — continua Susanna — in cui lei ricorda il loro incontro, il loro amore e poi la disperazione per questo distacco. Nessuno li aiutava e nessuno aiutava il babbo a venir via dalla cortina di ferro». «Quando telefonava dalla Polonia nella casa dei miei nonni a Firenze, dove vivevamo la mamma, la Susanna ed io, ci assemblavamo intorno al telefono nero appoggiato su un tavolino antico, trattenendo col fiato corto e l'ansia di scambiare almeno una parola la sensazione tragica di una lontananza infinita — ha scritto Fiamma Nirenstein in un articolo in memoria del babbo — Sapevamo che a lui mancavano il cibo, gli abiti, le scarpe, la libertà; gli mancava di nuovo, dopo la perdita della sua famiglia di Baranov nella Shoah e dopo gli anni duri della fondazione di Israele, un nido dove posare il capo. Però, eravamo forti: questo era il messaggio. Dovevamo essere forti, perdurare nonostante le privazioni».

(Corriere fiorentino, 26 ottobre 2019)


Concerto per celebrare il 30o dell'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna

Domenica, 27 ottobre, alle 18 nella Sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna si terrà un concerto di musica classica Ebraica per celebrare i 30 anni di attività dell'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna.
L'evento, ad ingresso libero, è realizzato grazie al patrocinio del Comune di Ravenna, all'opera dell'Assessorato alla Cultura e al contributo personale degli artisti che si esibiranno : Il Bel Canto Italiano Duo composto dal soprano Astrea Amaduzzi e dal pianista solista ed accompagnatore Mattia Peli.
Gli artisti dal marzo 2011 hanno tenuto concerti in questa formazione in numerose città italiane spaziando dalla musica sacra e operistica italiana a repertori rari quali i canti ebraici scritti da compositori colti di musica classica ebraica da fine ottocento all'opera moderna.
Il concerto sarà un'occasione per conoscere ed apprezzare questo raro repertorio di musica ebraica classica. In particolare saranno eseguite musiche di compositori ebrei e non che hanno unito melodie popolari ebraiche alla musica classica : Alkan, Wolpe, Rodrigo, Castelnuovo-Tedesco, Milhaud, Tansman, Ben - Haim.
Astrea Amaduzzi, soprano concertista, ha conseguito il diploma di canto lirico presso il Conservatorio di Pescara e la laurea in Discipline Musicali in musica da camera e barocca e dal 2001 ha intrapreso la propria carriera come cantante e strumentista e successivamente dal 2012 anche come insegnante di tecnica vocale e interpretazione e dal 2018 è docente presso l'Accademia del bel canto Italiano di Alessandria.
Mattia Peli, direttore d'orchestra, Pianista e compositore, si è formato presso il Conservatorio di Parma diplomandosi in violino, composizione, pianoforte e direzione d'orchestra. Dal 2000 tiene concerti come direttore d'orchestra, e pianista solista e in formazione vocale e dal 2018 è docente presso l'Accademia del bel canto Italiano di Alessandria.
L'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana sorge a Firenze nel 1950 per iniziativa di Giorgio La Pira per promuove la conoscenza, il rispetto e l'amicizia fra cristiani ed ebrei eliminando reciproci pregiudizi e combattendo ogni forma, palese o velata, di antigiudaismo e antisemitismo e collaborando nella difesa dei valori ideali e morali comuni.
L'Associazione Amicizia Ebraico Cristiana della Romagna, nasce nel 1989 e da allora promuove ed organizza corsi di lingua ebraica, conferenze, lezioni, incontri, dibattiti dedicati alla cultura e alla religiosità ebraica e cristiana e la sua presidente, Maria Angela Baroncelli, dal 1992, grazie alla presentazione del Rav. Luciano Meir Caro, tiene corsi di ebraico biblico presso l'Università Bosi Maramotti di formazione permanente degli adulti di Ravenna.

(Ravennanotizie.it, 26 ottobre 2019)


Perché non si parla delle proteste in Libano e in Iraq?

I media coprono praticamente ogni protesta in ogni angolo del mondo, tranne quelle anti-iraniane. Come mai?

di Maurizia De Groot Vos

In Iraq i manifestanti hanno trovato il coraggio di bruciare le bandiere iraniane, mentre in Libano finalmente i giovani manifestanti sono andati direttamente alla fonte di tutti i problemi, Hezbollah.
Ieri a Beirut quando le proteste contro il gruppo terrorista che tiene in ostaggio il Libano si sono fatte più "ardite" gli Hezbollah hanno fatto partire le loro squadre di picchiatori in motocicletta, qualcosa di molto simile ai Basij iraniani. Solo che ai ragazzi non ci sono arrivati perché l'esercito libanese si è messo in mezzo e ha difeso i manifestanti.
   Si dice che le proteste siano iniziate a seguito della decisione del Governo libanese di mettere una tassa su WhatsApp (da qui il termine "WhatsApp intifada"), in realtà quella tassa, quell'ennesimo balzello è stato solo il motivo scatenante.
   I ragazzi libanesi protestano perché non vedono per loro un futuro con il Paese che è governato da persone corrotte e legate a potenze straniere e ai loro interessi (Iran e Arabia Saudita), con uno Stato nello Stato (Hezbollah) che rischia di trascinare il Libano in una guerra con Israele che sarebbe devastante, con una disoccupazione al 36% e un debito pubblico altissimo.
   Fino a pochi giorni fa i manifestanti in Libano hanno cercato di non prendere di mira un singolo partito mettendo tutti sullo stesso piano, ma negli ultimi giorni le proteste sono diventate sempre più mirate ad Hezbollah e questo non è piaciuto al loro capo, Hassan Nasrallah.
   È da questo che ieri è scaturita la decisione di scatenare i picchiatori in motocicletta, i Basij libanesi, che però in maniera davvero sorprendente (e inattesa) si sono trovati i militari libanesi a fare da scudo ai ragazzi e sono stati costretti a fare marcia indietro.
   Ieri in Libano è stato superato un confine che difficilmente potrà essere ignorato, quello della accusa diretta al gruppo terrorista sciita legato all'Iran che tiene in ostaggio un intero popolo, una intera nazione.
   Anche in Iraq proseguono le proteste. Ieri sono state bruciate per la prima volta bandiere iraniane mentre i media di Teheran mostravano una storia completamente diversa con alcuni miliziani che bruciavano quelle americane e israeliane.
   Gli iracheni, sciiti o sunniti che siano, non vogliono dipendere dalla politica iraniana e dagli interessi degli Ayatollah. Esattamente come i giovani libanesi vogliono uno Stato meno corrotto e meno legato agli interessi stranieri.
   Ma in Iraq, se possibile, la situazione è più complessa rispetto al Libano. L'Iran con la scusa della protezione dei pellegrini sciiti ha inviato in Iraq migliaia di "poliziotti", in realtà milizie sciite legate ai Guardiani della Rivoluzione Islamica che si sono unite a quelle già presenti in abbondanza in territorio iracheno.
   L'Iran di fatto controlla militarmente buona parte del Paese e non si sa fino a che punto permetterà ancora nuove proteste e nuovi attacchi al regime iraniano.
   Esattamente come il Libano anche l'Iraq rischia di essere trascinato in una guerra finalizzata a difendere gli interessi e le ambizioni iraniane. E così uno dei Paesi potenzialmente più ricchi del mondo vive nella miseria più assoluta solo per favorire gli interessi di Teheran.
   Sarebbe bello che i media occidentali coprissero con più rigore e attenzione le proteste in Libano e in Iraq, ma sembra che quando ci sono di messo gli Ayatollah iraniani tutto venga minimizzato.
   E così ci si inventa la "WhatsApp intifada" o i manifestanti iracheni che bruciano bandiere americane e israeliane quando invece bruciano quelle iraniane. C'è una strana sudditanza verso gli Ayatollah e verso il loro piano criminale per il Medio Oriente.
   Non vorremmo che essendo gli iraniani i maggiori nemici di Israele qualcuno pensi di "oscurare" la corsa verso il baratro in cui Teheran sta trascinando tutto il Medio Oriente.

(Rights Reporters, 26 ottobre 2019)


Germania - Al via il processo dell'ex SS di 93 anni

Bruno D. era di stanza al lager nazista di Sutthof presso Danzica dal 9 agosto 1944 al 26 aprile 1945: «Quelle immagini e quelle voci sono una persecuzione, ml dispiace molto».

«Li vedevo portare nelle camere da gas, vedevo sbarrare la porta e dopo sentivo urla e rumori sordi». E il momento più drammatico della deposizione di un ex guardiano delle SS del campo di concentramento di Stutthof, oggi 93enne, imputato in un processo in corso ad Amburgo.
   Rispondendo alle domande della giudice Anne Meier-Goring, l'uomo ha aggiunto: «Non sapevo che i deportati venivano gasati». Era di stanza al lager nazista presso Danzica dal 9 agosto 1944 e il 26 aprile 1945. Dato che all'epoca aveva tra i 17 e i 18 anni, Bruno D. - questo il suo nome - viene adesso processato dalla sezione minorile del tribunale amburghese. L'accusa lo ritiene complice di omicidio in 5230 casi: in sostanza, nel suo ruolo, avrebbe «sostenuto la perfida e crudele uccisione dei deportati, in particolare degli ebrei». Tra i suoi compiti principali, quelli di «impedire la fuga, la rivolta e la liberazione» dei deportati, afferma ancora la Procura. In particolare, l'anziano alla sbarra ricorda di aver visto «20 o 30 prigionieri» mentre venivano trasferiti nella camera da gas. «Non sono in grado di dire se quelle persone erano uomini o donne, perché a tutti i prigionieri i capelli erano stati rapati a zero», ha raccontato ancora l'ex guardiano delle SS. «Ma so dire cos'è successo dopo, perché non ho visto uscire nessuno». Alla sua prima apparizione in aula, lunedì scorso, Bruno D. aveva dichiarato «quanto gli dispiace» quello che è accaduto alle persone nel lager di Sutthof, presso Danzica. «Non ero andato volontario a prestare servizio militare, e non potevo aiutare i prigionieri. Ero stato costretto. Me le immagini di quel campo mi hanno perseguitato per tutta la vita».
   L'ex guardiano delle SS afferma di non esser stato mandato a combattere al fronte a causa di un piccolo difetto cardiaco.

(Il Dubbio, 26 ottobre 2019)


Israele, strategie. Varato il piano «Tenufa»

Tsahal si potenzia ulteriormente in funzione anti-Hezbollah. Il principio-guida che ispira i vertici militari è «agire preventivamente, rapidamente e letalmente». Il generale Aviv Kohavi, capo di stato maggiore israeliano, ne ha illustrato gli aspetti salienti.

 
Il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF), generale Aviv Kohavi, il 23 ottobre scorso ha reso noto il piano pluriennale elaborato al fine di rendere le Forze di difesa israeliane maggiormente efficaci, veloci, meglio addestrate allo scopo di contrastare le attuali minacce poste allo Stato ebraico dai suoi nemici.
   Gli stanziamenti in bilancio dovrebbero venire utilizzati nella dotazione alle unità di Tsahal di migliori sistemi d'arma ed equipaggiamenti e, al contempo, migliorare il sistema di difesa aerea e anti-missile.
   Una decisione - secondo i vertici militari di Gerusalemme - resa improcrastinabile dalla situazione nei settori settentrionale e meridionale, divenuta oltremodo tesa e precaria, al punto di rischiare di degenerare in un conflitto.
   Alla luce di tale contesto strategico, attraverso l'applicazione del cosiddetto piano «Tenufa» verranno stanziati ingenti finanziamenti per lo sviluppo di nuovi sistemi d'arma, in particolare di UAV/UCAV (velivoli senza pilota per la raccolta di informazioni o da combattimento), l'acquisizione di un gran numero di missili di precisione dagli Usa e lo schieramento in linea di ulteriori batterie di difesa aerea e anti-missile.
   Per quanto concernerà le forze terrestri, il focus verrà concentrato anche sulle attività di combattimento in aree urbanizzate, poiché si ritiene che gli impieghi dell'esercito in futuro saranno prevalenti in contesti del genere piuttosto che in scontri di grandi unità in campo aperto. A tale fine sono ormai da tempo in programma specifiche esercitazioni.
   Nel nuovo quadro strategico è stato identificato un nemico principale regionale. In realtà non si tratta di una novità, poiché è l'Hezbollah libanese, potente e organizzata milizia sostenuta dall'Iran, la potenza regionale avversaria di Israele.
   Hezbollah, reduce da un conflitto combattuto "su procura" di Teheran e Damasco contro gli jihadisti dell'Isis in Siria, nella sua patria (il Paese dei cedri) manterrebbe attivo un proprio arsenale comprendente 130.000 tra razzi e missili, tutte armi in grado di essere utilizzare per attaccare i siti strategici e centri urbani israeliani.
   Gli analisti strategici di Tsahal ritengono dunque vitale un'azione di rapida debellatio della milizia sciita libanese onde evitare che essa possa trovarsi nelle condizioni di attaccare il territorio israeliano.
   Queste capacità non potranno però prescindere dal miglioramento della capacità dell'Intelligence militare (Aman) di individuare gli obiettivi in territorio nemico, sfruttando nuovi asset dedicati ed elementi tratti dai vari corpi e reparti di tutte le forze armate, concentrando poi il training sulle specifiche missioni di combattimento di volta in volta necessarie.
   La competenza su tali attività di intelligence sarà devoluta a una task force composta da Aman, dall'aeronautica e dalle strutture dei tre comandi regionali dell'IDF.
   Secondo le indiscrezioni rese note dal giornalista Judah Ari Gross mediante il suo articolo pubblicato oggi dal quotidiano Online "Time of Israel", lo stato maggiore sarebbe intenzionato all'acquisto di altri velivoli a pilotaggio remoto Hermes-450, UAV di medie dimensioni impiegabile sia nella raccolta di informazioni che nelle azioni di attacco con missili di precisione.
   Tuttavia, se sul piano strettamente strategico il piano pluriennale «Tenufa» risponde alle esigenze difensive israeliane emerse dalle esperienze maturate in questi ultimi anni, va però rilevato che esisterebbero delle incertezze riguardo alle modalità del suo finanziamento, soprattutto alla luce della mancata approvazione da parte del ministero delle finanze del necessario aumento dello stanziamento alla voce "difesa" nel bilancio dello Stato ebraico.
   Le misure previste dallo stato maggiore, che interesseranno lo strumento difensivo israeliano nei prossimi cinque anni, troveranno applicazione - almeno formalmente - nel gennaio 2020, seppure le IDF si siano riproposte di porre in atto alcune di esse già prima di allora.

(insidertrend, 25 ottobre 2019)


Relazione capo IDF: Israele pronto ad affrontare qualsiasi sfida

L'IDF è preparato ad affrontare qualsiasi sfida provenga dai nemici di Israele, ma il fronte caldo rimane quello a nord

Il confine nord di Israele e in particolare le attività iraniane e quelle di Hezbollah rappresentano la principale minaccia per la sicurezza di Israele. È quanto emerge dal rapporto del capo delle IDF, il Generale Aviv Kochavi, presentato ieri alla stampa.
Se la minaccia proveniente dal fronte settentrionale non è certo una novità, lo sono però alcune considerazioni fatte dal capo delle IDF nello spiegare il tipo di minacce che Israele dovrà affrontare nei prossimi mesi.
«La sfida strategica centrale per Israele sta sul fronte settentrionale», ha detto Kochavi ai giornalisti in una conferenza stampa organizzata per spiegare il nuovo piano pluriennale dell'esercito israeliano.
«Al centro della minaccia vi sono il radicamento delle forze iraniane e di altre forze armate in Siria e il progetto missilistico di precisione. In entrambe le situazioni, si tratta di uno sforzo guidato dall'Iran, che utilizza il territorio di paesi con governi estremamente deboli» ha continuato il Generale Kochavi.

 Gli Hezbollah
  Parlando di Hezbollah, il principale proxy iraniano, il Generale Kochavi ha detto che «per molti anni, Hezbollah ha tenuto prigioniero lo stato libanese, ha creato il proprio esercito ed è quello che in realtà determina la politica di sicurezza del paese».
In sostanza, in Libano lo Stato non conta niente, almeno a livello militare. È Hezbollah a determinare le politiche militari non il governo di Beirut e questa non è una buona notizia, né per lo stesso Libano né per Israele.

 Il fronte sud
  Oltre a prepararsi per il più che probabile scontro sul fronte nord, l'IDF si prepara anche ad affrontare la possibile riacutizzazione delle tensioni sul fronte sud (quello di Gaza n.d.r.) anche se il Generale Aviv Kochavi individua nella Jihad Islamica (altro proxi iraniano) più che in Hamas il vero pericolo.
«L'IDF vede nella Jihad Islamica, più che in Hamas, l'organizzazione che trascinerà la Striscia di Gaza in un conflitto con Israele» afferma il capo dell'IDF.
«Non dobbiamo farci ingannare dalla momentanea calma sul fronte sud, la possibilità di una escalation è sempre molto concreta e potrebbe non dipendere dalle decisioni di Hamas» ha aggiunto Kochavi. «La situazione è comunque estremamente fragile» ha poi concluso.

 Iraniani galvanizzati dalla "non risposta" americana
  Parlando dei preparativi che i Guardiani della Rivoluzione Islamica e in particolare della pericolosissima Forza Quds stanno facendo in Siria, in Iraq e in Libano, il Generale Kochavi evidenzia come gli iraniani appaiano "galvanizzati" dalla "non risposta" americana a seguito dei recenti attacchi iraniani contro obiettivi sauditi.
«Riteniamo che le reazioni di basso profilo degli Stati Uniti dopo gli attacchi iraniani contro obiettivi nel Golfo Persico non abbiano fatto altro che rafforzare il senso di fiducia delle forze iraniane e che questo abbia rafforzato la loro intenzione di portare un attacco contro Israele» afferma Kochavi.
In ogni caso, garantisce il capo dell'IDF, Israele è pronto per affrontare qualsiasi sfida, sia con il supporto americano che senza.

(Rights Reporters, 25 ottobre 2019)


Assalto alla sinagoga

Dopo Halle, la marcia nera contro un centro ebraico arriva a Budapest.

Nel centro della capitale ungherese, cinquanta neonazisti in uniforme nera e stivali da campo hanno marciato verso il centro culturale Aurora della comunità ebraica. Le scene che si sono viste a Budapest sono orrende, specie perché arrivano ad appena due settimane dall'attacco alla sinagoga di Halle, in Germania, dove un neonazista ha ucciso due persone per strada dopo aver tentato di sfondare le porte del centro ebraico durante lo Yom Kippur. Sarebbe stato un massacro.
   A Budapest, i corvi neri hanno gridato slogan antisemiti, bruciato bandiere israeliane e tentato di incendiare il centro. Intanto, una sagoma con macchie di sangue e l'immagine di Igor Kolomoisky, presidente della comunità ebraica ucraina, è stata lasciata accanto alla storica sinagoga Brodsky nel centro della capitale, Kiev. Non passa settimana senza che in Europa non si registrino simili attacchi e aggressioni. Islamiste spesso, come in Francia e in Belgio; e nazionalistiche, come nell'Europa centro-orientale. Due correnti d'odio cui si salda il terzo ramo dell'albero avvelenato dell'antisemitismo - che di certo però non fa breccia nell'Ungheria degli estremismi di destra - quello dell'estrema sinistra impegnata a delegittimare Israele e il popolo ebraico (in Inghilterra il Labour corbyniano è diventato tossico per gli ebrei). Gli ebrei in tutta Europa non superano il milione, su una popolazione complessiva di cinquecento milioni. Eppure, gli ebrei sono anche le vittime di gran parte dei crimini d'odio a sfondo etnico e religioso. E' la vecchia storia degli ebrei paragonati ai cavalli che provano a scappare dalle stalle quando avvertono il terremoto, sempre prima degli altri, come se avessero una particolare predisposizione al pericolo. L'antisemitismo è questo: la manifestazione purulenta di un virus che sta ammorbando il sistema immunitario europeo, fino a renderlo incapace di rispondere.

(Il Foglio, 25 ottobre 2019)


Chi vive di cultura non può che sentirsi un po’ ebreo senza esserlo

Il senso storico è oggi minacciato nella mentalità diffusa

di Alfonso Berardinelli

Un mio giovane amico, un ebreo ventenne, un ragazzo straordinario la cui intelligenza, sensibilità e cultura sono una consolazione in un mondo che naviga verso le varie, epidemiche forme nuove di stupidità, ignoranza o conformismo acculturato, un paio di giorni fa mi ha fatto una domanda inaspettata: "Che cosa ti viene subito in mente, anche senza pensarci, quando vieni a sapere che qualcuno è un ebreo?".
   La risposta che il mio giovane amico voleva non era una riflessione, ma la focalizzazione immediata di un istinto, la prima, irriflessa associazione di idee. La mia risposta è stata più o meno questa: "Quando so che qualcuno è un ebreo sento anzitutto due cose: la prima è che ho davanti un problema che mi riguarda e riguarda tutti, dato che l'antisemitismo esiste; la seconda è che in quella persona c'è una terza dimensione, qualcosa di ulteriore, una profondità prospettica, un passato, una storia che gli altri italiani non hanno". Ormai ho quasi sempre l'impressione di avere a che fare solo con individui bidimensionali, nei quali c'è solo il presente; individui in cui la memoria non c'è o non conta; nei quali anche l'eventuale religiosità è piatta, senza radici e senza passato e che quindi non hanno in sé una bussola culturale e morale che li orienti. Anche i loro problemi, cioè, per quanto in sé dolorosi, possono essere gravi, ma sono anche culturalmente banali.
   La conversazione naturalmente è continuata e potrà continuare in futuro. Con questo giovane ebreo le conversazioni sono sempre insolitamente lunghe, fantasiose, profonde e umoristiche, nel corso delle quali compaiono verità essenziali e magari ansiogene, che di solito accogliamo scoppiando insieme a ridere. E tutto nasce dalle domande che il mio amico, un po' allievo e un po' maieuta, mi fa spesso. Le sue molte domande, giovanilmente socratiche, molto serie e molto discrete, mi costringono a partorire pensieri nuovi e memorie dimenticate. Anche in questo caso siamo andati avanti per più di mezzora. E quindi non potevo che dirgli la solita cosa. Che per me l'ebraismo non è mai stato un problema perché culturalmente (non politicamente) ci sono cresciuto dentro. La mia cultura nasce nell'adolescenza come cultura del Novecento, della modernità; e intorno ai grandi russi del secolo precedente, Dostoevskij, Tolstoj, Puskin, Cechov, per me come per altri sono comparsi subito i molti maestri ebrei del ventesimo secolo: Freud, Kraus, Chaplin e Kafka, Svevo e Saba, Lukacs e Auerbach, Benjamin e Adorno, Loewith e Arendt, Steinel' e Bloom, Singer e Kubrick, nonché i miei maestri italiani di gioventù, l'ebreo Giacomo Debenedetti e gli ebrei a metà Franco Fortini e Elsa Morante. Come la maggior parte di coloro che vivono di cultura, anche io vivo nella condizione, abbastanza comoda, di sentirmi piuttosto ebreo senza esserlo. E' appena uscito da Donzelli un libro dello storico Sergio Luzzatto intitolato Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l'eccezione, la storia. L'autore apre la sua Premessa citando lo scrittore israeliano Amos Oz: "Non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D'altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori". E Luzzatto aggiunge: "Da quando pochi anni fa ho letto queste parole nel saggio Gli ebrei e le parole, scritto da Amos Oz insieme con una storica di professione (sua figlia Fania), ho capito meglio perché prema anche a me di tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non mi preme da ebreo osservante, e neppure da ebreo tout court. Non mi preme da antisemita, evidentemente. Ma nemmeno mi preme (in fondo) da storico, che pure è il mio mestiere. Mi preme da lettore".
   Avere il senso del passato, avere quel senso storico che oggi è così minacciato nella mentalità diffusa e spesso anche nei professionisti della cultura e negli studiosi, non richiede di essere degli storici di mestiere. Richiede di essere lettori soprattutto di letteratura, il cui linguaggio non è specializzato e riservato a una comunità ristretta come quello delle varie, cosiddette "discipline", sociologia, psicologia, storia e perfino filosofia. Il senso del passato che tiene insieme vivi e morti, presenti e assenti, ha bisogno della letteratura come storiografia e di lettori capaci di leggerla, E' come critico, come interprete di testi, come saggista e autore di commenti "sapienziali" alla letteratura che sono per metà ebreo. Il giovane amico che mi fa tante domande si chiama Giacomo Pontremoli e Goffredo Fofi profetizza di lui che sarà il Giacomo Debenedetti del futuro, qualunque cosa questa profezia significhi.

(Il Foglio, 25 ottobre 2019)


Ma chi sono questi curdi?

Quando si muore per esistere: storia del popolo curdo tra persecuzioni e desiderio di riscatto

di Simona Gautieri

 
Del popolo curdo si ha una percezione vaga. Non si conosce la sua storia millenaria né tanto meno dove sia esattamente stanziato. Compare in isolati momenti storici, come ora in Siria, per poi tornare nell'ombra di una esistenza caratterizzata da una eterna lotta per vedersi riconosciuto il diritto ad una propria nazione.
Eppure quello curdo costituisce il quarto gruppo etnico più numeroso del Medio Oriente, dopo arabi, persiani e turchi, con una popolazione stimata in circa 40 milioni di persone che vivono divisi tra Turchia, l'Iran e l'Iraq, la Siria e l'Armenia. Sono altresì presenti in Europa, in seguito ai flussi migratori, in special modo in Germania e penisola scandinava.

 Kurdistan? Dov'è?
  I curdi sono un popolo indoeuropeo di antichissime origini la cui regione storica, il Kurdistan, è un area montuosa situata nell'Asia minore che comprende la Turchia sud orientale, l'Iran nordoccidentale, la Siria settentrionale, l'Armenia e l'Azerbaigian. Il Kurdistan, sentita dai curdi come la propria nazione, non esiste però a livello internazionale. In tale regione, prima della conquista araba, erano presenti comunità ebraiche e cristiane e si praticava la religione zoroastriana. Attualmente la maggioranza dei curdi è di religione musulmana sunnita ma si pratica anche la religione musulmana sciita nel sud-est della regione, mentre il 5% della popolazione è di religione cristiana caldea.

 Un'oppressione che arriva da lontano
  Finiti sotto il dominio degli Arabi prima e dell'Impero Ottomano poi, i curdi sono stati da sempre un popolo oppresso pronto ad essere sacrificato agli interessi dei più forti stati conquistatori. La pacifica convivenza di popoli diversi, dal punto di vista etnico e religioso, venne spazzata via dall'accordo Sykes-Picot del 1916, ideato dalla Francia e dalla Gran Bretagna per attuare i propri interessi strategici in Medio Oriente. Per fare ciò venne sostituito il modello governativo coloniale con la creazione di stati nazionali che facessero capo ad un gruppo etnico maggioritario. I popoli minori, come i curdi, gli armeni e i ceceni, divennero vittime di sanguinose persecuzioni al fine di sottometterli ad un nuovo concetto di nazionalismo.

 L'indipendenza negata per colpa del petrolio
  Alla fine della Prima Guerra mondiale il trattato di Sevres, firmato il 10 agosto del 1920, avrebbe dovuto riconoscere il Kurdistan quale stato autonomo ed indipendente. Il trattato però non venne mai applicato. Una volta scoperti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio del Kurdistan iracheno, il trattato di Sevres venne sostituito con quello di Losanna del 24 luglio 1923. Con questo trattato il Kurdistan venne smembrato tra quattro grandi paesi, Iran, Iraq, Siria e Turchia, e l'idea di uno stato curdo indipendente venne definitivamente accantonata. Da allora, in tutte le aree del Kurdistan, ebbero luogo rivolte e battagli portate avanti dei partiti curdi al fine di veder affermata la propria autonomia.

 Gli undici mesi della Repubblica
  Nel 1946 venne fondata in Iran la Repubblica di Mahabad, con presidente Qazi Muamed. Questa Repubblica doveva essere un primo nucleo del futuro Kurdistan indipendente ma non venne riconosciuta da nessuna delle potenze alleate e durò solo undici mesi. In seguito ad una concessione per lo sfruttamento del petrolio, l'Armata Rossa revocò il proprio appoggio alla neo Repubblica e l'esercito iraniano poté così gradualmente riprendere il controllo del territorio. La bandiera della Repubblica di Mahabad, composta da tre fasce orizzontali verde, bianca e rossa e da un sole centrale con 32 raggi, è tutt'oggi riconosciuta quale propria bandiera dal popolo curdo. Negli anni successivi, lo scià Reza Pahlavi dovette confrontarsi a lungo con la guerriglia condotta dai curdi guidata dallo sceicco Mustafa Barzani.

 Torture e stupri
  Nel 1974, venne siglata la pace tra Iran ed Iraq e il Governo di Bagdad decise di ritirar il sostegno fino ad allora dato ai guerriglieri curdi. Il governo di Teheran ha esercitato, in questi decenni, una dura repressione contro il popolo curdo sottoposto a torture ed esecuzioni sommarie. Contro le donne curde sono state invece portate avanti sistematici atti di violenza e stupri. Anche in Iraq la storia del popolo curdo è scritta con il sangue delle tante vittime falcidiate dai massacri voluti dal Governo di Bagdad. Ai tempi della firma del Trattato di Losanna, Schek Mahumud Hafid, re dei curdi rifiutò di far parte dell'Iraq ed elesse il suo regno a Sulaymaniyya. Riuscì a sconfiggere per ben due volte l'esercito britannico fino a che, nel 1924, dovette capitolare ed arrendersi all'esercito britannico-iracheno dopo aver combattuto una sanguinosa battaglia per la propria indipendenza. Il sentimento nazionalista curdo si andò rafforzando con l'intensificarsi delle persecuzioni e i Peshmerga, che significa 'coloro che vanno incontro alla morte', si rifugiarono nelle zone montuose da dove ripresero la lotta contro gli iracheni e gli inglesi.


DEPORTAZIONI DI MASSA E DEVASTAZIONI

Negli anni '60, allo scoppio della guerra tra Iraq ed Iran, le autorità irachene ordinarono la deportazione di massa in Iran di migliaia di curdi, in special modo donne, vecchi e bambini, mentre gli uomini venivano incarcerati, se non giustiziati, senza alcuna accusa. Negli anni successivi al conflitto in Medio Oriente, furono migliaia i curdi fatti sparire dai servizi segreti iracheni. Durante il regime del partito Baath di Saddam Hussein furono rasi al suolo più di 5 mila villaggi e seminate, in territorio curdo, oltre 20 mila mine antiuomo.

 Tremila ragazzi torturati
  Nel 1985 tremila ragazzi curdi furono arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene ed usati come ostaggi per obbligare i propri parenti a consegnarsi alle autorità. Fra il 1987 ed il 1988, con l'operazione militare denominata 'Anfal', furono seppelliti vivi in fosse comuni più di 182 mila curdi iracheni.

 Il gas nervino
  Nel marzo del 1988, nella città di Halabja fu dato ordine dal dittatore iracheno di usare il gas nervino contro la popolazione civile causando la morte di oltre 550 persone in un solo giorno. Anche
coloro che riuscirono a sopravvivere manifestarono, negli anni successivi, gravi patologie mediche e furono numerosi i neonati venuti al mondo con gravi malattie congenite. A seguito delle persecuzioni subite, milioni di curdi abbandonarono le proprie case per cercare rifugio in Iran ed in Turchia: nel 1988 le autorità turche confermarono di aver dato asilo ad oltre 57 mila curdi iracheni.

 L'ONU e l'indipendenza
  Nel 1991, dopo la Seconda Guerra del Golfo, il popolo curdo ricevette un importante riconoscimento: la risoluzione n. 688 dell'Onu stabilì che l'esercito iracheno non potesse superare il 36o parallelo del nord dell'Iraq. Ciò permise una sorta di riconoscimento, se non formale, almeno sostanziale della autonomia ed indipendenza del Kurdistan iracheno. Dal 2003 tale regione gode dello status
federale all'interno dell'Iraq e pur non avendo ottenuto il riconoscimento di Stato, tuttavia dispone di una certa autonomia organizzativa.


L'INVASIONE TURCA

Dei curdi si è tornato a parlare in questi giorni a seguito dell'attacco militare sferrato dalla Turchia di Erdogan nel nord della Siria. Da sempre le vicende di questo popolo martoriato si sono intrecciate con le vicende politiche dei due Paesi in questione. Durante gli anni'30 e '40 del XX secolo, il Governo di Ankara definiva i curdi "i turchi delle montagne" nel tentativo, anche linguistico, di non riconoscere l'esistenza di questo popolo che ad oggi rappresenta oltre il 20% della popolazione turca.

 Una guerra civile con migliaia di morti
  Negli anni'80, come reazione al tentativo di cancellare l'identità del popolo curdo da parte del Governo di Ankara, nacque nel 1978 il gruppo di ispirazione marxista PKK, il Partito dei lavoratori curdi, guidato ad Abdullah 'Apo' Ocalàn che dal 1984 al 2013 ha condotto una insurrezione contro il governo turco. In quella che da molti esperti viene definita una vera guerra civile, più che una semplice insurrezione popolare, morirono migliaia di persone in entrambi i fronti. A seguito della creazione del Pkk, il Governo turco incrementò le azioni persecutorie a danno della popolazione curda vietando l'uso di termini quali 'curdi' e 'Kurdistan' oltre che l'uso della lingua curda stessa. Il 15 agosto del 1984 il Pkk dichiarò l'inizio della rivolta curda condotta anche con atti terroristici a cui seguirono le cruente azioni di repressione di Ankara che portarono alla distruzione di interi villaggi, esecuzioni civili sommarie e torture oltre alla sparizione di giornalisti ed attivisti della causa curda. Dopo aver dichiarato il cessate il fuoco nel 1999 e nel 2004, il Pkk ha ripreso le sue ostilità su vasta scala fino al marzo 2013 quando Ocalàn dichiarò "la fine della lotta armata" ed un cessate il fuoco con dei colloqui di pace. Nel 2015 invece il conflitto è ripreso a seguito dei bombardamenti turchi alle postazioni presidiate dal Pkk nel nord dell'Iraq durante la guerra condotta dai curdi contro lo Stato islamico del Daesh. Durante la lotta armata condotta in questi decenni, entrambe le parti si sono macchiate di numerose violazioni dei diritti umani. Il Pkk è stato accusato di atti di terrorismo contro civili, ospedali, scuole ed istituzioni accusate di essere filo-turche. Migliaia di persone sono state uccise per aver servito il governo o per essersi rifiutate di sostenere l'organizzazione. Centinaia di scuole sono state bruciate e quasi trecento insegnanti uccisi con l'accusa di essere "emblemi dell'imperialismo turco appartenenti al sistema di assimilazione coloniale". Gli attacchi contro la popolazione civile è stata tanto sanguinaria da aver portato ad una spaccatura all'interno dello stesso Pkk con alcuni membri dell'organizzazione che ne invocavano la cessazione.

 Il massacro di Derince
  Il 21 ottobre 1993 l'organizzazione curda commise il massacro di Derince dove vennero uccisi 22 membri di una stessa famiglia, uomini, donne e bambini, con l'accusa di essere cooperanti del governo. La stessa fine toccò a dei panettieri che rifornivano le basi militari turche. Di contro anche l'esercito turco si è reso responsabile di crimini di guerra per aver massacrato interi villaggi curdi con armi pesanti. L'organizzazione non governativa 'Human Right Watch' ha condannato le forze governative turche per gravi violazioni dei diritti umani internazionali , quali torture, uccisioni extragiudiziali e fuoco indiscriminato durante il conflitto con il Pkk.

 Armi chimiche
  Inoltre, secondo alcuni testimoni oculari, il Governo di Ankara avrebbe autorizzato l'utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile. Accuse supportate anche da un rapporto forense rilasciato dall'ospedale militare universitario di Amburgo.


L'ORIGINE DELL'ATTUALE CRISI

E' in questo clima di altissima tensione che trova origine la crisi internazionale esplosa il 9 ottobre di quest'anno a seguito delle operazioni turche nel nord della Siria per "liberarla dai terroristi curdi". La Turchia considera di estrema importanza per la propria sicurezza nazionale impedire la formazione, ed il riconoscimento, di uno Stato autonomo curdo in Siria.

 L'accordo USA-Turchia
  Lo scorso 7 agosto gli Stati Uniti e la Turchia hanno trovato una intesa per la creazione di una sorta di 'zona cuscinetto' al confine sud della Turchia, nella zona confinante con i territori occupati dalle milizie curde. L'accordo prevedeva il ritiro dei curdi dal confine con il supporto delle truppe americane al fine di permettere al Governo di Ankara di trasferire nella 'safe zone', un milione di profughi siriani scappati in Turchia a seguito della guerra civile. Il governo turco ha infatti già presentato i progetti riguardanti i villaggi, moschee ed ospedali da costruirsi per il ritorno in patria dei rifugiati.

 27 milioni di dollari
  Un progetto da 27 miliardi di dollari per il quale il presidente Erdogan ha chiesto un contributo anche dall'Unione Europea. Prima però bisogna liberare i territori di confine dagli odiati nemici curdi. A questo punto diventa più chiaro come nelle priorità del presidente Erdogan non vi siano solo la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo ma anche un affare da miliardi di dollari. All'atavico odio per la popolazione curda, si aggiungono anche motivazioni di politica interna: nelle recenti elezioni Erdogan ha subito una pesante sconfitta ed ha perso la maggioranza parlamentare a causa dell'ampio consenso ottenuto dal partito curdo HDP. Inoltre, il partito nazionalista turco MHP accusa il Presidente di non aver combattuto abbastanza l'estremismo islamico e di non aver ostacolato l'operato dei curdi in Siria.

 Operazione Primavera di pace
  Si è giunti così al 9 ottobre scorso, giorno in cui la Turchia ha dato inizio all'operazione "Primavera di Pace" attaccando il nord-est della Siria. Una guerra, quella siriana, che si considerava ormai sopita dopo che, dal suo inizio a marzo 2011, ha prodotto più di 500 mila morti, 160 mila profughi nei soli Paesi confinanti e 6 milioni di sfollati interni di cui 2,5 milioni di bambini. Grande eco ha avuto anche l'uccisione dell'attivista per i diritti delle donne e politica curda Hevrin Khalaf per mano di terroristi. Lo scontro tra le milizie curde e l'esercito turco è impari se si considera che le forze armate turche sono le seconde più numerose all'interno delle forze Nato per numero di uomini. I curdi, ancora una volta si trovano ad essere vittime di logiche geopolitiche delle grandi potenze in Medio Oriente. L'accordo raggiunto tra Trump ed Erdogan viene vissuto dai curdi come un tradimento verso coloro che dal 2012 hanno dato la vita contro i fanatici dell'lsis che imperversavano nelle città di Kobane o Tal Abyad, lungo il confine turco-siriano. Sono stati proprio i combattenti del Ypg e del Ypj, l'Unità di protezione delle donne curde, oltre a numerosi volontari provenienti da tutto il mondo, a sconfiggere lo Stato del Daesh. Il conflitto, esploso da poche settimane, ha già visto l'uccisione di centinaia di persone oltre che la fuga di oltre 60 mila civili dalle zone di guerra. Alla condanna da parte dell'Unione Europea, Erdogan risposto dicendo che "se l'Europa ci accuserà di occupazione militare in Siria, apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati e li manderemo da voi". E mentre la Turchia si appresta a sferrare una offensiva a Kobane e Manbij, le truppe del presidente siriano Assad marciano verso nord per dare sostegno alle milizie curde con il beneplacito della Russia. E mentre le grandi potenze affilano le armi, il nome del popolo curdo, come da secoli, è già nella lista delle vittime sacrificali dell'ennesima guerra di potere in Medio Oriente.

(Ticinonline, 25 ottobre 2019)



Se volete vedere Gerusalemme dovete salire in terrazza

di Francesca Caferri

 
Notre Dame Center a Gerusalemme
A Gerusalemme il caos delle viuzze della città vecchia e la frenesia delle strade di quella moderna possono travolgere: in una città tanto divisa e tanto controversa è difficile trovare un luogo dove prendere le distanze da tutto e, semplicemente, ammirare la magia. Un buon luogo per farlo è la terrazza del Notre Dame Center, un hotel pensato per accogliere i pellegrini (e non solo) che si trova appena fuori dal New Gate della città vecchia, nel cuore del quartiere cristiano. La terrazza ospita un ristorante ed è quindi accessibile anche a chi non risiede nella struttura: basta varcare la sbarra all'ingresso, entrare nell'hotel e seguire le indicazioni per il roof top per trovarsi di fronte a uno dei più completi e spettacolari panorami di tutta Gerusalemme, lontani dalla folla che toglie il fiato in tanti angoli della città nuova. A destra, oltre le torri della facciata della struttura si staglia la Cupola della roccia, con il sottostante Muro del Pianto. Poco più in alto, il Monte degli ulivi: poi, leggermente a sinistra, la porta di Damasco e il dedalo di stradine di Gerusalemme Est, la parte musulmana della città, che Israele controlla dal 1967 senza il riconoscimento delle Nazioni Unite. E infine, sulla sinistra, le mura che circondano Pisgat Ze'ev, insediamento israeliano ai margini della città: prova tangibile della lotta politica che da quasi 70 anni si combatte in questo luogo. Prendete un calice di vino, un'insalata e un piatto di formaggi francesi: e fermatevi a pensare a quanta storia è passata nelle strade e sulle colline che guardate. Poi, qualunque sia la vostra idea politica, prima di andar via trovate un momento per un pensiero o una preghiera: perché in questo luogo così magico a trionfare sia la pace.

(Venerdì di Repubblica, 25 ottobre 2019)


Bambini cardiopatici curdi curati in un ospedale israeliano

Grazie a una ong cristiana sionista di Gerusalemme gli sforzi per garantire cure salvavita continuano, nonostante l'escalation delle violenze.

Dopo aver subìto ad Afrin, l'anno scorso, i bombardamenti e gli attacchi sia dell'esercito turco sia delle milizie siriane alleate dei turchi, Aram (nome di fantasia, per motivi di sicurezza) e la sua famiglia, curdi nativi della Siria settentrionale, sono stati costretti a fuggire nel Kurdistan iracheno, così come altre centinaia di migliaia di siriani recentemente trasformati in profughi a causa dell'offensiva militare di Ankara. Quando Aram è arrivata nel Kurdistan iracheno, si è scoperto che suo figlio Ajwan di 3 anni e mezzo aveva bisogno di sottoporsi a un intervento a cuore aperto che non era effettuabile in quel paese. E' stato allora che un medico americano che lavorava in Kurdistan le ha detto che Ajwan avrebbe potuto essere curato in Israele.
"Non avevo paura di venire in Israele - dice Aram al Jerusalem Post - anche se ero stata avvertita che avrei potuto perdere il mio passaporto siriano". In tutta fretta Ajwan è stato messo in collegamento con la ong cristiana sionista con sede a Gerusalemme Shevet Achim, che ha procurato i visti per lui per sua madre e si è occupata di organizzare l'intervento di cardiochirurgia per il piccolo presso lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer....

(israele.net, 25 ottobre 2019)


Germania, allarme antisemitismo: un tedesco su quattro ha "pensieri" contro gli ebrei

Il 41% degli interpellati ritiene che gli ebrei parlino troppo di olocausto, condivisione che viene espressa anche per frasi come "gli ebrei hanno troppo potere" oppure "sono responsabili della maggior parte delle guerre".

di Giovanna Pavesi

I numeri parlano chiaro: un tedesco su quattro ha "pensieri" di natura antisemita, che vanno da chi ritiene che gli ebrei parlino troppo di persecuzioni, che siano troppo influenti e che siano alla base di molti conflitti nel mondo.
Il dato è emerso da uno studio realizzato per conto del Congresso mondiale ebraico, secondo il quale il 41% dei tedeschi ritiene che gli ebrei "parlino troppo" dell'olocausto. Condivisione che viene espressa anche per frasi come "gli ebrei hanno troppo potere" oppure "sono responsabili della maggior parte delle guerre".

 Chi sono i nuovi antisemiti
  Per il rilevamento demoscopico sono state interpellate 1.300 persone per circa due mesi e mezzo, quindi da prima dell'attentato di Halle, nella Sassonia-Anhalt, quando un estremista di destra ha tentato un assalto contro la sinagoga locale, ha lanciato bombe in un cimitero ebraico e ha ucciso due persone. In base a quanto riportato nel sondaggio, l'antisemitismo è diffuso anche tra chi vanta redditi alti e chi occupa posizioni di rilievo e di guida a livello sociale. In questa fascia, in particolare, il 28% ritiene che gli ebrei abbiano un potere troppo forte nel mondo degli affari e della finanza e la metà pensa che siano più leali a Israele che alla Germania.

 L'analisi dei numeri
  Il 65% dei tedeschi ritiene che le convinzioni neonaziste stiano crescendo anche grazie al successo dei partiti di estrema destra e circa il 50% pensa che gli ebrei siano più esposti di altri al rischio di violenze e di attacchi (anche verbali). Il dato più inquietante è quello legato all'olocausto, perché un quarto degli interpellati non esclude che possa tornare a verificarsi una persecuzione simile a quella degli anni Quaranta, mentre si ferma al 28% il numero di coloro che ritengono che il governo tedesco non faccia abbastanza per difendere le comunità ebraiche in Germania.

 Le reazioni
  La pubblicazione di questi numeri ha causato allarme e preoccupazione. Il presidente del Congresso ebraico mondiale, Ronald Lauder, al Sueddeutsche Zeitung, ha infatti dichiarato: "È giunta l'ora che tutta la società tedesca prenda posizione e lotti in modo aperto e frontale contro l'antisemitismo". Secondo il vice capogruppo dei Verdi al Bundestag, Kostantin von Notz, i risultati di questo sondaggio sono "scioccanti, ma non sorprendenti", dato che "l'antisemitismo in Germania non è mai scomparso e purtroppo arriva fino al centro della società". Simile il commento di Stefan Ruppert, esponente della Fpd, il partito liberale, che definisce "allarmante" che una mentalità antisemita trovi tali consensi.

(il Giornale, 24 ottobre 2019)


Anche gli Emirati ora trattano con l'Iran. Scongelati 700 milioni di Teheran

«Né i paesi occidentali, né l'Arabia Saudita possono fornirci sicurezza» e scongelano 700 milioni di dollari di Teheran

di Sarah G. Frankl

Il terrore corre nel Golfo, terrore dell'Iran dopo che gli Ayatollah hanno potuto impunemente attaccare petroliere, abbattere un drone americano e infine bombardare pesantemente l'Arabia Saudita, senza che nessuno muovesse un dito.
E così gli Emirati Arabi Uniti corrono ai ripari e prima scongelano un fondo di 700 milioni di dollari degli Ayatollah che gli USA avevano chiesto di bloccare, poi trattano con Teheran per riaprire prima possibile gli uffici di cambio e le attività commerciali con l'Iran.
«Ci siamo resi conto che né i paesi occidentali né l'Arabia Saudita ci possono fornire sicurezza» ha detto un funzionario emiratino al giornale arabo Al-Araby Al-Jadeed.
Gli Emirati Arabi Uniti si erano schierati con il fronte anti-iraniano guidato da Stati Uniti e Arabia Saudita e avevano accettato di imporre sanzioni a Teheran tra le quali appunto il blocco di 700 milioni di dollari, il fermo di ogni operazione di cambio tra banche emiratine e iraniane e la conseguente chiusura di ogni ufficio di scambio sia a Teheran che a Dubai, oltre a tutta una serie di sanzioni contro l'Iran.
Ma dopo gli attacchi iraniani alle petroliere saudite, l'abbattimento da parte dei Pasdaran di un drone americano e soprattutto dopo il pesante bombardamento delle più importanti infrastrutture petrolifere saudite dello scorso 14 settembre senza che nessuno muovesse un dito, hanno realizzato che forse per loro sarebbe stato più conveniente e sicuro riallacciare i rapporti con l'Iran.
A sollevare ulteriori dubbi sul fatto che gli Emirati Arabi Uniti potessero essere protetti dalla politica espansionista iraniana ci si è messo anche l'abbandono americano degli alleati curdi che di certo non è stata una dimostrazione di affidabilità da parte degli USA.
Così, zitti zitti, gli Emirati Arabi Uniti nelle ultime settimane si sono defilati dall'asse anti-iraniano, hanno revocato le sanzioni verso Teheran e hanno progressivamente riallacciato i rapporti con gli Ayatollah.
Gli Emirati Arabi Uniti sono i primi a defilarsi ufficialmente dall'asse anti-iraniano e molto probabilmente saranno seguiti a breve anche da altri Paesi visto che anche l'Arabia Saudita, una volta capito che gli USA non l'avrebbero difesa, stanno segretamente trattando con l'Iran.
Non c'è che dire, un capolavoro diplomatico quello di Donald Trump.

(Rights Reporters, 24 ottobre 2019)


Siti palestinesi chiusi: «Attacco alla libertà»

di Michele Giorgio.

 
Issa Amro
«Due anni fa fui arrestato dalla polizia palestinese e chiuso in cella per sette giorni. Mi accusarono di aver violato la Cyber Crimes Law, di aver commesso dei crimini attraverso internet criticando sui social il presidente (Abu Mazen), il premier e ministri dell'Autorità nazionale palestinese».
   Issa Amro racconta al manifesto una delle pagine più buie della sua vicenda di attivista per i diritti dei palestinesi. «Ero abituato all'oppressione da parte delle forze israeliane — prosegue Amro, noto per le sue battaglie a difesa dei palestinesi di Hebron —, avevo messo in conto che la mia denuncia dell'occupazione militare israeliana mi sarebbe costata più volte l'arresto e la detenzione. Ma mai avrei immaginato che, per le mie opinioni, mi avrebbero messo le manette anche gli agenti della polizia palestinese». Il caso di Amro tornerà nell'aula del tribunale di Hebron il 27 novembre. Se sarà giudicato colpevole per lui potrebbero aprirsi di nuovo le porte del carcere. E per gli stessi reati presto altre persone rischieranno la prigione.
   Nei giorni scorsi la Corte distrettuale di Ramallah, su richiesta della Procura, ha ordinato la chiusura di 49 tra siti e account di social — che avrebbero pubblicato materiale «pericoloso» per la sicurezza nazionale — nel rispetto della Cyber Crimes Law, la legge contro i cosiddetti crimini cibernetici approvata nel 2017 tra le proteste di giornalisti, blogger e altri operatori dell'informazione. Molti dei siti e delle pagine social sono critici della linea del rais Abu Mazen e dell'Anp. Alcuni invece sono collegati al movimento islamico Hamas o all'ex alto dirigente del partito Fatah, ora in esilio, Mohammed Dahlan, che da otto anni fa la guerra al presidente.
   «Siamo al massacro della libertà di parola di espressione», avverte la Federazione nazionale della stampa palestinese che ha mandato in strada, davanti alla sede dell'Alto Consiglio giudiziario a Ramallah, dozzine di giornalisti a reclamare la revoca dell'ordine. Oggi i giudici riesamineranno la decisione. «Mi auguro che il provvedimento sia annullato, perché viola la libertà di espressione e di opinione. Per noi giornalisti sono corde delicate. Le autorità dovrebbero premiare la stampa invece di bloccarla e reprimerla», protesta Nasser Abu Bakr, il presidente della Federazione.
   La procura respinge le accuse. Afferma che la decisione di chiudere i 49 siti e pagine Facebook è stata presa dopo che il suo ufficio aveva ricevuto denunce contro questi siti gestiti in modo anonimo e con fonti di finanziamento sconosciute. Ma la giustificazione non ha convinto nessuno e persino il governo dell'Anp ha criticato la mossa della magistratura affermando che la libertà di stampa e di opinione va rispettata. Una presa di posizione importante ma che non cancella gli abusi subiti in passato da giornalisti e blogger da parte dei servizi di sicurezza Anp. Come fanno sorridere le critiche di Hamas alla magistratura a Ramallah: a Gaza la polizia del movimento islamico è accusata di tenere il fiato sul collo della stampa locale e nei giorni scorsi ha arrestato il reporter Hani al-Agha, colpevole di aver criticato le autorità sui social. Sorte simile è toccata in Cisgiordania al giornalista Radwan Qatanani di Nablus. La mobilitazione contro la Cyber crime law va avanti, con la partecipazione di docenti universitari, organizzazioni per i diritti umani, partiti politici, con in testa il Fronte popolare (sinistra), e tante persone comuni. Ed è stata lanciata anche una campagna online con l'hashtag #BlockingisACrime.

(il manifesto, 24 ottobre 2019)


Più socialista che nazionalista. Ecco il "compagno" Hitler...

Nel libro di Brendan Simms le idee del Führer appaiono molto diverse (a volte opposte) da quelle date per scontate.

di Marco Gervasoni

Niente di più facile oggi che sentirsi apostrofare «fascista»: basta uscire dal seminato mainstream. E persino «nazista», tanto ormai la differenza tra l'uno e l'altro sembra sparita agli occhi dei più.
Ecco, questa novella reductio ad Hitlerum, come la chiamava negli anni Cinquanta il grande filosofo conservatore Leo Strauss, è segnata, più che le passate, dall'ignoranza degli eventi storici: che non sono più ricordati, perché i contemporanei di quella stagione tendono a passare a miglior vita, ma non sono neppure studiati. Tutt'al più si è rimasti a qualche vecchio testo di storia, elaborato in altre stagioni e superato, mentre dei nuovi sono a conoscenza solo gli specialisti.
   Proprio sul nazismo, anzi nazional-socialismo, circolano infatti una serie di leggende che la storiografia più aggiornata ha lasciato da un canto. Si sente per esempio spesso dire che Hitler era «nazionalista». E che il nazional-socialismo era un movimento politico di «destra». E infine che il progetto europeista sarebbe tutto l'opposto di quello nazional-socialista. Queste leggende sono sfatate da molti studi e buona ultima spicca la biografia di Hitler dello storico Brendan Simms (Hitler: Only the World Was Enough, Allen Lane editore). Egli non è solo un illustre cattedratico di Cambridge. Nel dibattito che ha diviso gli uomini di cultura tra remainers e leavers, Simms, per quanto irlandese, è stato uno dei più rilevanti nel secondo campo, tanto da scrivere una rigorosa storia del rapporto dell'Inghilterra con l'Europa che fa comprendere come l'isola non avrebbe mai potuto fare parte della Ue. La biografia di Hitler è probabilmente destinata a provocare altrettanto rumore, dato il suo forte impatto revisionistico e la sua intenzione di rimettere in discussione i luoghi comuni sulla figura del Führer.
   Il primo luogo comune è quello dell'ossessione di Hitler per gli ebrei e gli slavi. Certo, Simms non può negare la costanza dell'antisemitismo hitleriano ma, a mio avviso correttamente, lo colloca nella prospettiva giusta: quella dell'antisemitismo come anticapitalismo. L'Hitler di Simms era un sostenitore dell'antisemitismo biologico in quanto sociale; come attori del capitalismo, Hitler odia gli ebrei. Perché in realtà, ecco il secondo luogo comune sfatato, Hitler detesta i capitalisti e il capitale, si definisce e si sente «socialista», certo un socialista tedesco che combatte contro quello ebraico e internazionalista dei bolscevichi. Anche qui, l'ideologia anticapitalista di Hitler è più pragmatica rispetto a quella degli esponenti della «sinistra» nazional-socialista, che egli stroncò senza pietà. Ma solo perché, con un cinismo e un realismo non molto diverso da quello di Lenin e di Stalin, Hitler aveva capito che privandosi dell'alleanza con i capitalisti non sarebbe mai andato al potere.
   Assieme agli ebrei e al capitalismo, Hitler odia anche il mondo anglosassone, l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Si tratta in questo caso di un odio misto a fascinazione. Hitler è disgustato dalla civiltà mercantile inglese e da quella consumistica americana, ma al tempo stesso ne è attratto: perché, come il fascismo italiano, anche il nazional-socialismo tedesco possedeva una doppia anima, nostalgica nei confronti dell'ordine pre-borghese e al tempo stesso modernista e modernizzatrice, affascinata dal macchinismo e dalla tecnica. Il progetto geopolitico di Hitler consisteva non nel controllo del mondo, ma nel voler diventare padrone dell'Europa come spazio vitale esteso fino alla Russia. Questo gigante economico e geografico avrebbe dovuto competere con l'egemonia anglo-americana nel mondo, alleandosi con il player asiatico, cioè il Giappone. Saremo maliziosi, ma Simms continua a costellare le sue pagine, soprattutto quelle dedicate alla guerra, di citazioni in cui Hitler sembra chiedere più Europa: del resto, sono noti i progetti nazional-socialisti di creare una moneta unica, un Euro-Marco, e di eliminare ogni tipo di barriera doganale e persino di frontiera tra i vari Stati che avrebbero costituito il nuovo Impero, il quarto Reich. Ecco perché è sbagliato definire Hitler un nazionalista: egli non ragionava infatti per partizioni statuali costituite da una o più etnie, ma si muoveva su uno spazio imperiale, un nuovo impero definito dal dominio etnico della razza ariana, con centro Berlino, e una precisa gerarchia di razze e di sotto-razze.
   Ed ecco infine perché non è giusto definire Hitler di «destra» e ancor meno conservatore. Certo, i conservatori e la destra tedesca lo appoggiarono nella sua ascesa al potere, ma poi cercarono senza successo di frenarne l'influenza, fino al tentativo di assassinarlo, visto che il complotto della Rosa bianca scaturì da ambienti del militarismo e del nazionalismo tedesco. Facciano attenzione perciò gli odiatori di sinistra a spandere in lungo e in largo l'accusa di essere nazisti: leggendo l'Hitler di Brendan Simms, potrebbero trovarlo molto somigliante a loro stessi.

(il Giornale, 24 ottobre 2019)





Il nazional-socialismo di ieri e il global-socialismo di oggi

Spunti per una riflessione
    «Ecco perché è sbagliato definire Hitler un nazionalista: egli non ragionava infatti per partizioni statuali costituite da una o più etnie, ma si muoveva su uno spazio imperiale, un nuovo impero definito dal dominio etnico della razza ariana, con centro Berlino, e una precisa gerarchia di razze e di sotto-razze».
Così riassume l’articolista del Giornale un aspetto del pensiero di Brendan Simms. A supporto di questa tesi si può citare un passaggio della monumentale opera Hitler del grande studioso della seconda guerra mondiale Ian Kersaw:
     
    «Nelle tre ore del suo discorso [di Hitler] al Reichstag per l'anniversario della sua ascesa al potere, il 30 gennaio 1937, nel dare conto dei suoi primi quattro anni di governo, egli vantava di aver ristabilito l'onore tedesco attraverso il ripristino della coscrizione obbligatoria, la creazione della Luftwaffe, la ricostruzione della flotta navale e la rioccupazione della Renania, e annunciava la revoca solenne dell'ammissione di colpevolezza della Germania nel trattato di Versailles, «estorta al debole governo di allora». Il 1o maggio tesseva l'elogio della Germania come società priva di classi, dove individui di qualsiasi condizione avevano la possibilità di raggiungere la vetta grazie ai soli conseguimenti personali, nella misura in cui questi fossero nell'interesse collettivo della nazione, e solo nella disponibilità a quella assoluta subordinazione di cui egli stesso aveva dato prova nei quasi sei anni trascorsi sotto le armi. Senza guardare minimamente alla dimensione pratica e quotidiana dell'attività politica, si lanciava in un epico affresco della grandezza e potenza e dominio della Germania incarnati nella sua arte e architettura straordinarie, millenario monumento dei traguardi conseguiti dalla cultura teutonica. «Edificazione di un tempio» per «una vera ed eterna arte germanica» egli definiva la Casa degli artisti tedeschi, il giorno della sua inaugurazione, a luglio. Quanto all'obiettivo di far di Berlino la capitale del mondo, col nome di Germania, esso veniva prospettato a novembre come l'atto di regalare «a un popolo millenario dal millenario passato storico e culturale» una «città millenaria» degna di lui. Al congresso del partito a Norimberga, i primi di settembre, al tema dei grandi conseguimenti nazionali e sociali degli anni precedenti si abbinava il proponimento di una grande rivoluzione razziale da cui sarebbe sorta «l'umanità (Menschen) nuova».
    (Ian Kershaw, Hitler, Bompiani 2001, Vol. II, pag. 48)
Si adatta bene alla situazione di oggi un motto di C.S. Lewis, l’autore di “Le lettere di Berlicche”, in cui si descrivono in modo deliziosamente ironico le astuzie di Satana nella sua battaglia contro i mortali: “Il diavolo ha la magistrale capacità di far correre gli uomini con gli estintori dove c’è un allagamento, e con le idrovore dove c’è un incendio.” Si direbbe che oggi il Nemico stia usando con successo questa tecnica di guerra con l’Europa di oggi, che corre a soffocare ogni minimo accenno del riattizzarsi dell’incendio nazionalista, bollato come “suprematismo”, e non pone mente al dilagare dell’alluvione globalista che mira, come lo strumentale nazionalismo di Hitler, a diventare l’ultima forma di dominio imperiale del mondo. Come si addice ad ogni valida tecnica di guerra, il diabolico stratega fa apparire che il vero pericolo è da una parte, mentre in realtà si trova esattamente dall’altra. Lo spauracchio del nazional-populismo spinge ad andare verso il global-populismo. Sostituendo al nuovo termine “populismo” quello collaudato di “socialismo”, si ottiene che al nazional-socialismo di ieri si sta avviando a subentrare il global-socialismo di oggi. A pensarci bene, anche l’attuale struttura bipolare del nostro governo ha qualcosa che si muove in questa direzione: globale e sociale uniti insieme. M.C.

(Notizie su Israele, 24 ottobre 2019)


Memoriale della Shoah di Milano

di Riccardo Bianchini

Il Memoriale della Shoah di Milano è un luogo della memoria dedicato alle persone, in grande maggioranza ebrei, che, dalla città lombarda, furono deportate nei campi di sterminio nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dal 1943 al 1945 furono migliaia i prigionieri che dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano furono caricati su convogli formati da carri bestiame e trasportati al campo di Auschwitz-Birkenau e ad altri campi di concentramento e di sterminio.
Di quelli che vennero mandati ad Auschwitz nel dicembre 1943 e nel gennaio 1944 conosciamo 774 nomi; di loro, solo 27 sopravvissero.
Per compiere le operazioni di deportazione con raggelante efficienza, le autorità di occupazione naziste e il governo collaborazionista fascista realizzarono una vera e propria 'macchina della deportazione' nelle viscere della Stazione Centrale. Qui, in un'area nascosta destinata al carico dei treni postali, le persone venivano stipate a decine in angusti vagoni di legno.
Attraverso un montacarichi, i vagoni venivano poi sollevati fino al piano dei binari dove i convogli venivano assemblati e avviati verso i campi.
Progettato dallo studio Morpurgo de Curtis e aperto nel 2013, il Memoriale della Shoah di Milano è il risultato del progetto di riconversione e di allestimento di quello spazio di oltre 7000 metri quadrati situato al piano terra della Stazione Centrale. Ad oggi, il progetto allestitivo è stato completato, mentre la biblioteca, lo spazio incontri, le sale di studio e l'auditorium sono in realizzazione.

L'interno del Memoriale della Shoah di Milano visto dall'ingresso La facciata del memoriale su Piazza Edmond J. Safra Il setto in calcestruzzo con la scritta "INDIFFERENZA" collocato all'ingresso del memoriale La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La galleria di ritratti e le "Stanze delle testimonianze" dove vengono proiettate le video interviste ad alcuni dei sopravvissuti
La ricostruzione con vagoni originali di uno dei "treni della morte"
La ricostruzione con vagoni originali di uno dei "treni della morte"
Esterno e interno del "Luogo di Riflessione"
Esterno e interno del "Luogo di Riflessione"
L'ultimo binario del memoriale con il "Muro dei Nomi" che riporta i nomi di 774 ebrei deportati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau tra il dicembre del 1943  e gennaio 1944, e il vano montavagoni con il cartello "Vietato Trasporto Persone" L'ultimo binario del memoriale con il "Muro dei Nomi" che riporta i nomi di 774 ebrei deportati al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau tra il dicembre del 1943  e gennaio 1944, e il vano montavagoni con il cartello "Vietato Trasporto Persone"   lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m
 La visita
  La visita al memoriale si apre, ancor prima di arrivare alla biglietteria, con un lungo setto in calcestruzzo su cui è incisa a caratteri cubitali la scritta "INDIFFERENZA". Il senso di questa installazione è spiegato dalla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione dal binario 21, in uno dei contributi video presenti nel Memoriale.
Segre racconta, con straziante lucidità come, durante il tragitto sui camion che portava lei e gli altri deportati dal carcere di San Vittore alla Stazione Centrale, i suoi occhi di bambina non scorsero segni di vicinanza da parte dei cittadini milanesi, che parevano ignorare i disperati che vedevano passare sotto le loro finestre. Gli unici gesti di solidarietà - una mela, una parola di conforto - vennero piuttosto dagli stessi detenuti del carcere, testimoni della loro partenza. Fu proprio questa indifferenza che rese possibile, o quantomeno contribuì a rendere possibile, l'Olocausto.
Quella di Liliana Segre è una delle tante testimonianze che formano l'area centrale del Memoriale; qui, i grandi ritratti fotografici in bianco e nero dei sopravvissuti e le loro biografie sono associati a contributi video proiettati a ciclo continuo in piccole "stanze" delimitate da pareti in acciaio nero. Una serie di pannelli a parete racconta poi la storia del luogo, e le vicende della deportazione di ebrei, "popoli inferiori" e prigionieri politici dall'Italia ai campi nazisti d'oltralpe. Camminando attraverso il memoriale, lo spiazzamento e l'inquietudine sono amplificati da un rumore sordo che mette in vibrazione pavimento e pareti. Non si tratta di un contributo audio multimediale ma dello scuotimento delle strutture prodotto dai treni che partono sopra le nostre teste, e che ci rammentano che siamo, oggi come negli anni Quaranta, nelle viscere di una delle principali stazioni ferroviarie d'Europa.
Nella parte più interna dell'esposizione si trovano due dei ventiquattro binari un tempo presenti, che formano anche la testimonianza più diretta degli eventi che si svolsero in questo luogo.
Il primo binario accoglie la ricostruzione di uno dei convogli usati per la deportazione; il convoglio è formato dai vagoni merci originali usati per i prigionieri e sta, muto, ad ammonirci che dimenticare non è possibile.
Ad un capo del binario, Morpurgo de Curtis hanno inserito un "luogo di riflessione", una struttura circolare a cui si accede attraverso una rampa in discesa, il cui interno in penombra è semplicemente allestito con una panca curva e un oculo nel soffitto da cui si proietta una luce.
Il secondo binario è nudo. Una grande proiezione a parete, potente nella sua essenzialità, rimanda i nomi dei 774 ebrei deportati al campo di Auschwitz-Birkenau, da cui emergono ciclicamente quelli dei ventisette sopravvissuti che dai campi di sterminio sono riusciti a tornare. Una serie di lapidi a pavimento riporta le date e le destinazioni dei venti convogli partiti dal binario 21.
Al termine del binario rimane il vuoto del vano montacarichi, attraverso cui i vagoni postali venivano issati sino al piano di manovra, dove spicca con tragica crudezza un vecchio cartello con la scritta "Vietato Trasporto Persone".
L'allestimento del memoriale milanese non ha la pretesa di raccontare esaustivamente la Shoah da un punto di vista storico ma è pensato piuttosto per testimoniare le vicende che qui e qui vicino si svolsero, insieme alle storie di quelli che da questo luogo furono forzati a passare durante gli anni della persecuzione nazifascista, senza però rinunciare a proiettarne le valenze e le implicazioni sul tempo presente.

(Inexibit, 24 ottobre 2019)


Popolazione di Gerusalemme - la città vecchia

Al 24 maggio 2006, la popolazione di Gerusalemme era 724.000 (circa il 10% della popolazione totale di Israele), di cui il 65,0% era ebreo (circa il 40% vive a Gerusalemme est), 32,0 % erano musulmani (quasi tutti vivi). a Gerusalemme est) e il 2% dei cristiani. Il 35% della popolazione della città era composta da bambini di età inferiore ai 15 anni. Nel 2005, la città aveva 18.600 neonati.
Queste statistiche ufficiali israeliane si riferiscono al più ampio comune israeliano di Gerusalemme. Ciò include non solo l'area dei comuni israeliani e giordani prima del 1967, ma anche i villaggi e i quartieri palestinesi periferici ad est della città, che non facevano parte di Gerusalemme est prima del 1967. I dati demografici per Dal 1967 al 2012 ha mostrato una crescita continua della popolazione araba, in numero relativo e assoluto, e il declino della popolazione ebraica nella popolazione totale della città. Nel 1967, gli ebrei rappresentavano il 73,4% della popolazione della città, mentre nel 2010 la popolazione ebraica era scesa al 64%. Nello stesso periodo, la popolazione araba è aumentata dal 26,5% nel 1967 al 36% nel 2010. Nel 1999, il tasso di fertilità ebraica totale era di 3,8 bambini per donna, mentre il tasso palestinese era 4.4.
Tra il 1999 e il 2010, le tendenze demografiche si sono invertite: il tasso di fertilità ebraica è aumentato e il tasso arabo è diminuito. Inoltre, il numero di immigrati ebrei dall'estero che hanno scelto di stabilirsi a Gerusalemme è costantemente aumentato. Nel 2010, c'era un tasso di crescita ebraica superiore a quello arabo. Quell'anno, il tasso di natalità della città era di 4,2 bambini per madri ebree, rispetto a 3,9 per madri arabe. Inoltre, 2.250 immigrati ebrei dall'estero si stabilirono a Gerusalemme. Il tasso di fertilità ebraica è ancora in aumento, mentre il tasso di fertilità arabo è ancora in calo.

(voyagesphotosmanu.com, 24 ottobre 2019))


"Ricordiamo insieme VII edizione 2019" all'ex collegio militare di Roma

di Miriam Spizzichino

Si è tenuta ieri, 23 ottobre 2019, la VII edizione di "Ricordiamo insieme", cerimonia di commemorazione del 76o anniversario della deportazione dei cittadini romani ebrei, presso il Centro Alti Studi per la Difesa in Palazzo Salviati a Roma.
La manifestazione è iniziata con "Quanta memoria ancora?", un toccante video dove venivano ricordati tutti i deportati del 16 ottobre 1943. A seguire numerosi interventi come quello di Massimo Finzi, assessore alla memoria della CER (Comunità Ebraica di Roma) che ha ricordato "il frutto avvelenato di un clima fatto di calunnie, di accuse false, ad iniziare da quella del deicidio, che hanno generato nell'arco di circa due millenni un clima generale ostile all'ebraismo".
Ad accompagnare ogni intervento è stato presente il coro della Diocesi di Roma diretto dal Maestro Mons. Marco Frisina e il coro degli alunni delle Scuole della Comunità Ebraica di Roma dirette dal Maestro Josef Anticoli.
Il Generale S.A. Fernando Giancotti, nel suo discorso, ha affermato che l'ex collegio romano dove adesso ha sede il CASD appartiene a tutti in quanto lì risiede la memoria collettiva di ciò che è stato per molti ebrei romani.
Sami Modiano è stato presente alla cerimonia e ha raccontato la sua testimonianza a Birkenau, rispondendo alle molte domande dei ragazzi venuti in rappresentanza dei loro rispettivi istituti scolastici.
L'evento è stato organizzato dall'associazione "Ricordiamo Insieme" composta da Sara, Rivka e Grazia Spizzichino e Tobias e Federica Wallbrecher. Proprio Tobias, nei saluti iniziali, ha voluto porgere omaggio ai parenti delle molte persone che tra il 16 e il 18 ottobre 1943 hanno stazionato all'interno di Palazzo Salviati in attesa di essere brutalmente deportati nei Campi di Sterminio.

(Shalom, 24 ottobre 2019)


Israele: allarme per un possibile attacco con missili da crociera

Riunione del gabinetto di sicurezza. La minaccia giudicata "reale e imminente"

Israele si sta preparando a un probabile attacco iraniano con missili da crociera e droni in risposta agli attacchi israeliani su obiettivi iraniani in Siria (e Iraq).
A rivelarlo sono fonti della difesa israeliana le quali riferiscono anche che ieri si sarebbe riunito il gabinetto di sicurezza in quanto la minaccia sarebbe "reale e incombente".
Un rapporto riservato diffuso nella serata di ieri parla di un «probabile attacco iraniano con l'uso di missili da crociera e droni» il che li renderebbe difficilmente intercettabili a causa del fatto che volano a bassissima quota.
Questo preoccupa molto i vertici israeliani tanto che per la seconda volta in una settimana è stato deciso di riunire il gabinetto di sicurezza.
Lo scorso 14 settembre l'Iran ha portato un attacco simile contro l'Arabia Saudita con risultati definiti "devastanti".
L'attacco iraniano del 14 settembre contro le infrastrutture saudite ha dimostrato la capacità iraniana di effettuare azioni di questo tipo.

(Rights Reporters, 23 ottobre 2019)


In Israele ora è il turno di Gantz. Le alternative e uno spettro: il terzo voto

di Micol Flammini

ROMA - Mentre in video annunciava che avrebbe rinunciato al tentativo di formare un governo, l'immagine di Benjamin Netanyahu sembrava sbiadirsi. Per la prima volta in dieci anni, il premier israeliano ha detto che non c'erano i numeri, e nemmeno le possibilità, di costruire una coalizione, ha detto "non riesco", e ha pronunciato la sua prima rinuncia nel giorno del suo settantesimo compleanno. Dopo le elezioni del 17 settembre, il presidente Reuven Rivlin aveva affidato a Netanyahu l'incarico di formare un esecutivo di unità nazionale e il negoziato con Blu e bianco di Benny Gantz, che ha ottenuto più seggi (33) alle ultime elezioni, è fallito dopo poco. Il premier non si fidava del generale e il generale non voleva governare con il premier. Netanyahu ha continuato a cercare alleanze per arrivare al numero magico, i 61 seggi necessari per la maggioranza nella Knesset, ma su di lui pesano gli anni al potere, il suo logoramento e soprattutto le accuse, tante e ingombranti, in attesa di giudizio. Rivlin, dopo la rinuncia di Netanyahu, si è rivolto a Benny Gantz, l'ex generale delle Forze di difesa israeliane, che ha un mese di tempo per presentare delle opzioni. Questi giorni per la politica israeliana sono un tumulto di prime volte: la prima rinuncia, il primo mandato in dieci anni dato a un politico che non è Netanyahu, il primo pensiero di un Likud senza Bibi. Israele, come notava ieri il giornalista Anshel Pfeffer, sta entrando in acque inesplorate, tutto sembra improbabile ma tutto sta diventando possibile.
   Gantz ha detto di essere ottimista e pronto a formare un governo "di unità liberale" più che nazionale, si guarda intorno, ma difficilmente riuscirà a raggiungere la soglia dei 61 seggi. Il suo primo obiettivo è quello di trovare un pertugio nel Likud di Netanyahu, cercare di convincere il partito ad abbandonare il suo leader e proporre la formazione di un governo a rotazione, in cui dovrebbe essere lui ad assumere per primo la premiership. Ma nel Likud, per quanto l'idea di indire delle primarie non risulti più così bizzarra come appariva soltanto qualche settimana fa, nessuno è pronto a tradire il proprio leader, neanche Gideon Sa'ar che pure poco tempo fa su Twitter ha gridato "sono pronto" a sfidare Bibi. Gli ambiziosi nel partito sono tanti - il presidente della Knesset Yuli Edelstein, il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan, il ministro degli Esteri Israel Katz e l'ex sindaco di Gerusalemme Nir Barkat - tutti disposti a sfidare (un giorno) ma non a tradire (adesso) e per ora le decisioni dentro al partito le prende soltanto Netanyahu.
   Blu e bianco cercherà comunque un'alleanza con il Likud e tenterà di estenderla a sinistra, per includere Labour-Gesher e l'Unione democratica, e a destra per includere Yisrael Beytenu di Avigdor Liberman e Nuova destra. Questa formula, che rappresenta la prima opzione di Gantz, varia dal progetto di unità nazionale che aveva in mente Netanyahu che invece nella coalizione non ha mai pensato di rinunciare ai partiti religiosi Yamina, Utj e Shas. Blu e bianco intende proporre delle modifiche strutturali in materia di religione e stato conformi alle idee di Liberman ma lontane da quelle dei partiti religiosi.
   Questi piani, che assicurerebbero un'ampia maggioranza nella Knesset, sono pieni di se, per due ragioni: il Likud continua a dire che non esistono altri leader al suo interno e, anche qualora Netanyahu dovesse accettare di far parte di un governo con Gantz, dovrebbe allontanare per la prima volta i religiosi, che sono sempre stati parte della sua coalizione e che finora hanno promesso di non abbandonarlo. Con il rifiuto del Likud, le possibilità di Blu e bianco rimangono poche, lo stesso Liberman ha detto che nel suo interesse c'è partecipare a un governo di unità nazionale con Likud e Blu e bianco assieme, altre possibilità non le prende in considerazione.
   Ci sarebbe un'altra variabile, un'altra prima volta. La Lista comune, che al suo interno è formata da partiti che rappresentano gli arabi israeliani, durante le consultazioni con il presidente Rivlin a settembre ha detto che sarebbe disposta a dare l'appoggio esterno a un governo Gantz con Labour-Gesher e Unione democratica, ma questa ipotesi va maneggiata con molta cautela. Nella storia della nazione ebraica nessuno finora aveva mai aperto alla possibilità di governare con gli arabi e se Blu e bianco, durante le trattative, dovesse accettare questa opzione, alla prossima elezione - la terza, che sembra sempre più scontata, circola già la data: il 10 marzo del 2020 - potrebbe pagarne le conseguenze e perdere voti.
   Benny Gantz rimane per molti israeliani un personaggio difficile da afferrare, ma si è affermato come il principale rivale di Netanyahu. "Il generale con la faccia da generale", come lo aveva descritto anni fa il giornalista Avihai Beeker, non riesce a prendersi la vittoria, è un ex capo di stato maggiore, ma nemmeno la sua carica è in grado di dare a Israele quel senso di sicurezza che il leader del Likud ha garantito in questi dieci anni. Soprattutto ora, con un medio oriente impazzito, la Siria di nuovo in crisi, un conflitto con l'Iran che sembra sempre più plausibile e l'alleato di sempre, gli Stati Uniti, distaccato e inaffidabile, la nazione sente più che mai il bisogno di sicurezza: vuole un governo, non un'altra elezione.

(Il Foglio, 23 ottobre 2019)

*


Gantz, il nuovo Sisifo di un Israele spaccato a metà

All'ex militare la fatica improba di creare una maggioranza. Con gli arabi o con Lieberman

di Fiamma Nirenstein

E' con un gesto di perplessità e di un certo sconforto che la gente di Israele, anche quella che crede in lui, commenta il fatto che Benny Gantz, il capo di Blu e Bianco, il maggiore partito anti Netanyahu, si avvia a cercare di formare il governo dopo la rinuncia di Bibi. L'aitante ex capo di Stato maggiore adesso sarà in pista per i prossimi 28 giorni, ma il fatto è che se Netanyahu con 55 membri del parlamento su 120 a suo favore non ce l'ha fatta, è difficile che Gantz ce la possa fare con 44. I due partiti maggiori sono Blu e Bianco (32 seggi) e il Likud (31). Si ipotizza senza molto crederci, che Gantz intenda avviarsi a un governo di minoranza con l'appoggio esterno del Partito Unito arabo, di cui parecchi membri sono istituzionalmente contrari all'esistenza stessa dello Stato ebraico, o al contrario con l'appoggio Avigdor Lieberman, che è di destra: idee audaci e poco realistiche. Come mai Gantz per un mese abbia rifiutato la profferta di unità nazionale di Netanyahu, anche adesso sembra l'unica possibilità per Israele di tornare ad avere un governo e un primo ministro, sia pure, in questo caso, a rotazione è perché ha la speranza di veder sparire Netanyahu dall'orizzonte politico.
   Bibi, nelle sue insistite ricerche, ha cercato ripetutamente di agganciarsi all'idea del presidente Rivlin di un governo di unità nazionale collegato all'attuale stato di cose, ovvero alla possibilità di un'incriminazione del primo ministro: un anno per Bibi, due per Gantz mentre si conclude il lavorio processuale, un altro per Netanyahu. Ma non è andata. Forse, come ha scritto Amnon Lord, un celebre commentatore, Gantz sperava in una rivolta del Likud o nella decisione dell'incriminazione di Netanyahu. Ma se ora non ce la farà in 28 giorni, qualsiasi parlamentare può formare il governo se ha 61 firme. Difficile. E allora? Di nuovo elezioni? È la soluzione che tutta Israele teme. Le terze in un anno? E poi? Le due forze che si fronteggiano sembrano stabilmente pari. Se Netanyahu scegliesse di uscire dalla scena, un governo di coalizione sarebbe facile. Ma perché dovrebbe farlo? Raccoglie la metà dei consensi del Paese e le voci sul dibattito in corso presso l' Avvocatura dello Stato parlano di una insistita inconsistenza dell'accusa di corruzione, quella per cui Bibi è accusato di aver cercato di convincere un sito di notizie ad avere un atteggiamento positivo su di lui. Gantz domani comincia una fatica sisifica, si vedrà.

(il Giornale, 23 ottobre 2019)


Via Elio Toaff, festa per tutta Roma

Si svolgerà il 30 ottobre la cerimonia per l'intitolazione di una via di Roma al rabbino Elio Toaff.

Elio Toaff
Una via, un pezzo di Roma, intitolato a un grande protagonista del Novecento italiano. Dopo un primo annuncio durante la precedente amministrazione, pochi giorni dopo la scomparsa avvenuta alla soglia del compimento dei 100 anni di vita nell'aprile del 2015, il progetto di includere il nome del rav Elio Toaff nella toponomastica cittadina ha finalmente preso quota, trovando di recente uno sbocco concreto e definitivo. Ancora una settimana e Roma renderà un significativo omaggio a uno dei suoi più illustri cittadini (anche se di adozione).
Il Maestro livornese che ha saputo risollevare la Comunità ebraica dalle macerie della Shoah, guidarla per mezzo secolo, lasciare un segno profondissimo attraverso la pratica quotidiana ma anche attraverso gesti simbolici e memorabili come la storica visita di papa Wojtyla al Tempio Maggiore, il 13 aprile del 1986. L'uomo del sorriso e del Dialogo, ma anche un leader determinato, amato, rispettato da tutti.
Per l'omaggio al rav Toaff è stata scelta una porzione della strada in cui visse, via Catalana
Via Catalana
, davanti all'ingresso del Tempio Maggiore.
Si annuncia una giornata indimenticabile, per gli ebrei della Capitale ma anche per tutti i cittadini romani.

(moked, 23 ottobre 2019)


Boicottaggio degli israeliani, Iran sospeso Tokyo a rischio

La federazione internazionale di judo ha confermato ieri la sospensione dell'Iran dalle manifestazioni internazionali dopo che un suo atleta, Saeid Mollaei, aveva rivelato di aver ricevuto pressioni durante i Mondiali di Tokyo dell'agosto scorso affinché non giungesse in finale, in modo da evitare il confronto con un atleta israeliano. Campione del mondo uscente negli 81 kg, Mollaei era uscito in semifinale e poi aveva perduto anche una delle due sfide per il terzo posto, classificandosi quinto. Il 27enne aveva poi spiegato di aver ricevuto pressioni dalle autorità iraniane: avrebbe dovuto perdere per non affrontare l'israeliano Sagi Muki, poi medaglia d'oro. Secondo la federazione internazionale, le pressioni su Mollaei costituiscono «una violazione del rispetto dello spirito olimpico, del principio di neutralità politica e di universalismo», oltre che una manipolazione dei risultati di una competizione. La disciplinare ha quindi sancito la sospensione dell'Iran, fino a quando il Paese non darà delle forti garanzie sul rispetto dello status della federazione internazionale, accettando che tutti i suoi atleti possano combattere contro degli israeliani. La decisione, che può essere impugnata al Tas entro 21 giorni, è un colpo duro alle speranze del Paese islamico verso Tokyo 2020.

(La Gazzetta dello Sport, 23 ottobre 2019)


Turchi sterminatori di minoranze, Israele paladino di curdi e armeni

Laicità, diritti civili, lotta all'islamismo radicale sono patrimonio comune

di Tiziana Della Rocca

Adesso che la Turchia ha dato l'ultimatum ai curdi, e non si sa come andrà finire, è bene ricordare la durissima condanna di Israele dell'invasione turca del Kurdistan siriano, il suo continuo mettere in guardia il mondo su una possibile pulizia etnica dei curdi da parte di Erdogan. Israele si è da sempre schierato con il popolo curdo, perché è l'unico a maggioranza musulmana nella regione che non opprime né stermina altri popoli e quindi è degno della sua indipendenza politica.
   Il popolo curdo è antico ma emancipato, anzi è tra i più progressisti e i più occidentali del Medio Oriente. Altra cosa, che rende affini israeliani e curdi, è che entrambi combattono per sopravvivere in un'aerea ostile, e fanno affidamento per difendersi, in primis, su loro stessi. E anche se in modo diverso, tutti e due, devono fare i conti con l'incubo dello sterminio e necessitano di protezione; sono obbligati a intrattenere rapporti di potere al loro esterno, e crearsi così degli alleati che li sostengano in caso di pericolo.
   Il tema della laicità e la lotta all'islamismo radicale è un'altra cosa che li accomuna. Tra i curdi vige la parità tra uomo e donna, esattamente come in Israele, dove le donne sono presenti in tutte le istituzioni, esercito compreso. L'impegno armato delle donne curde contro gli islamisti, è noto: hanno preso e prendono tuttora le armi per difendere la civiltà che faticosamente hanno costruito nelle loro città e famiglie.
   Ma prima dell'affinità di oggi tra curdi e israeliani, ci fu quella tra ebrei e armeni, un altro popolo odiato dalla Turchia. Il genocidio perpetrato contro di loro per opera dei Giovani Turchi avvenne nel 1915, ben prima della nascita dello Stato d'Israele. Guarda caso, la Germania era alleata della Turchia ed era a conoscenza dei piani di sterminio contro gli armeni; non fece nulla per impedirli e in seguito lì imitò per sterminare gli ebrei, aggiungendoci del suo.
   E così questi due popoli furono legati tra loro dalla solidarietà, dalla vicinanza e da qualcosa di ben più forte, da un coinvolgimento emotivo che lì investì in pieno, come se gli ebrei avessero visto nel massacro armeno un segno premonitore di quanto sarebbe accaduto a loro in futuro. Le persecuzioni che il popolo armeno ha subìto durante i secoli, se le attraversiamo una a una, sembrano ricordare quelle subite dal popolo ebraico. Le loro funebri marce nel deserto sembrano un Esodo rovesciato: quel deserto che agli ebrei donò la libertà dal giogo egizio, per gli armeni si era tramutato in un luogo di morte.
   Ma perché i turchi oggi odiano i curdi? Per comprendere le ragioni di tanto odio dovremo prima interrogarci su quello dei turchi contro gli armeni, che condusse al loro massacro. L'impero turco ha sempre brutalmente sottomesso, nei secoli, raffinati popoli come i greci, gli arabi, gli armeni, sfruttandone l'intelligenza e il lavoro; mentre da parte sua l'impero non produsse ne inventò granché, né diede un vero contributo alla civiltà, non ne sentivano il bisogno forse, preferendo usurpare ed espropriare. E così, quando l'impero stava per implodere, come potevano i turchi sopportare l'idea che una popolazione evoluta e fiorente, come quella armena, sfuggisse dalle loro grinfie per emanciparsi? Ecco allora che gli armeni furono accusati di allearsi con i russi per complottare contro l'impero, per cui bisognava eliminarli prima che ciò accadesse.
   Altro orrendo destino degli armeni in comune con l'ebraismo: subire l'orrore della negazione. La Turchia ancora oggi nega il genocidio armeno, un minaccioso Erdogan, mette a tacere tutti sull'argomento. Negare il genocidio è uno dei tanti subdoli modi di continuarlo. Il negazionismo non è un'opinione ma un crimine; Erdogan nega la storia passata per non rispondere dei suoi crimini presenti. Se i curdi nei secoli sono stati sempre usati e sfruttati dall'impero, dominati dalla sua forza bruta, come può oggi Erdogan, ambendo a un nuovo impero, tollerare, che siano così emancipati da desiderare la libertà e fondare un loro Stato? Per di più democratico, innalzandosi a faro di civiltà?

(il Quotidiano del Sud, 23 ottobre 2019)


A Berlino catena umana di solidarietà attorno alla sinagoga

In reazione all'attentato del 9 ottobre ad Halle

Domenica 20 ottobre Dozzine di persone hanno formato una catena umana davanti alla Nuova Sinagoga di Berlino al termine della celebrazione ebraica del Sukkot per offrire un gesto altamente simbolico in risposta all'attacco del 9 ottobre contro una sinagoga di Halle nella Germania orientale, e per consentire a chi si trovava all'interno dell'edificio di pregare in tranquillità.
   Il Sukkot, anche conosciuto come la Festa delle capanne, è la ricorrenza con cui il popolo ebraico ricorda i quarant'anni trascorsi nel deserto, in cerca della Terra promessa. Insieme alla Pasqua ebraica e alla festa degli Azzimi, fa parte dei uno dei tre antichi pellegrinaggi, obbligatori per gli ebrei secondo la tradizione biblica. Conosciuta anche con il nome di "Festa dei tabernacoli", è una delle feste ebraiche più importanti. Un ricordo che simboleggia la vita durante la peregrinazione nel deserto, dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana.
   La catena umana, alla quale hanno partecipato circa 200 persone, ha risposto a una chiamata dell'"Associazione per una Berlino aperta e tollerante". «Abbiamo formato una catena umana per testimoniare che stiamo fermamente con i nostri fratelli ebrei», ha detto il sacerdote Christian Stäblein, della Chiesa evangelica luterana di Berlino-Brandeburgo-Alta Lusazia, in relazione all'attacco. «Dobbiamo prenderci cura delle loro sinagoghe come della luce dei nostri occhi», ha aggiunto l'autorità ecclesiastica.
   Il 9 ottobre, un uomo pesantemente armato ha cercato di irrompere in una sinagoga di Halle, in cui mezzo centinaio di persone celebravano lo Yom Kippur (il giorno dell'espiazione). Dopo aver fallito nel suo tentativo, il tedesco di 27 anni ha abbattuto una donna di 40 anni che passava di lì e poi un lavoratore di 20 anni in un negozio di alimentari turco. In volo ha anche ferito gravemente una coppia.
   È stato poi arrestato dalla polizia ed ha confessato di essere stato l'autore dell'incidente e di aver agito motivato da idee antisemite di estrema destra. «Nella sua visione del mondo, incolpa gli altri per la propria miseria ed è ciò che alla fine ha scatenato la sua azione», ha detto il suo avvocato. Il giovane è ora in detenzione preventiva, ed affronta un'accusa di duplice omicidio e tentato omicidio.

(Riforma.it, 23 ottobre 2019)


Netanyahu getta la spugna. Tocca a Gantz

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Ha aspettato quasi fino all'ultimo. Benjamin Netanyahu avrebbe avuto altre 48 ore per tentare di formare il governo, era evidente che non ce l'avrebbe fatta già da una settimana. O forse Fin da quando ha ricevuto il mandato 26 giorni fa dal presidente Reuven Rivlin. E la seconda volta (dopo il voto di aprile e quello in settembre) che il Mago dei negoziati — come lo esaltano i sostenitori — non tira fuori il successo dal cappello. Adesso tocca a Benny Gantz, l'ex capo di Stato maggiore entrato in politica per mandare a casa il primo ministro accusato di corruzione. Anche per lui le possibilità di raccogliere i 61 deputati necessari sono basse. Potrebbe decidere di presentare in parlamento un governo di minoranza: riuscirebbe a sopravvivere grazie all'appoggio esterno dei partiti arabi e all'astensione dell'ultranazionalista Avigdor Lieberman. Numeri e personaggi difficili da tenere insieme. E più probabile che l'ex generale cerchi di spingere il Likud a spodestare l'uomo che ha permesso alla destra di restare al potere senza interruzioni dal 2009. Il calendario politico si sovrappone a quello giudiziario: il procuratore generale dello Stato ha annunciato di voler incriminare Netanyahu e in questo caso il Likud potrebbe decidere di sostituire il leader. Gantz ha già dichiarato di essere disponibile a formare un governo di unità nazionale senza «Bibi». L'intesa permetterebbe di evitare nuove elezioni anticipate.

(Corriere della Sera, 22 ottobre 2019)


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Netanyahu getta la spugna. Tocca a Gantz formare il governo

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu rinuncia a formare un nuovo governo e passa la palla al grande rivale Benny Gantz. Ma la situazione politica israeliana è talmente bloccata che il rischio di un terzo voto anticipato in un anno è sempre più concreto.
Il premier ha annunciato ieri pomeriggio che non era in grado di trovare una maggioranza di almeno 61 seggi alla Knesset e che rimetteva il mandato nella mani del presidente Reuven Rivlin. Ora, per la prima volta in un decennio, qualcun altro proverà a guidare un esecutivo. Rivlin ha 72 ore per decidere e affidare l'incarico all'ex generale, che guida il partito centrista Kahol Lavan, cioè Blu e Bianco, i colori della bandiera israeliana.

 Unità nazionale
  Netanyahu ha poi spiegato su Facebook le ragioni della sua decisione. «Da quando ho ricevuto il mandato — ha scritto — ho lavorato senza sosta per un governo di unità nazionale, il più ampio possibile, perché è quello che il popolo vuole». Il suo tentativo si è però scontrato con il veto dello stesso Gantz, che non era disposto ad appoggiare un esecutivo guidato dal rivale, neanche con una «staffetta» fra i due, come ha proposto a un certo punto il presidente Rivlin.
Il tempo a disposizione di Netanyahu scadeva fra due giorni, ma era ormai chiaro che non c'erano chance per lui. Rivlin ha già fatto intendere che darà l'incarico a Gantz e l'obiettivo resta lo stesso, una grande coalizione che tiri fuori il Paese dall'impasse. A quel punto l'ex generale avrà 28 giorni per trovare una maggioranza alla Knesset. Resta da vedere se il Likud lo appoggerà, anche se la fronda interna al Likud punta a spingere Netanyahu a lasciare la leadership, per spianare la strada al nuovo governo.
Se anche Gantz fallisse, ci sarebbe la possibilità per un terzo premier incaricato, e altri 21 giorni di tempo. Dopodiché resterebbe soltanto il voto anticipato. Gantz ha reagito all'annuncio con un messaggio su Twitter: «È arrivato il momento di Blu e Bianco», il suo partito. Il cofondatore Yair Lapid è stato più esplicito: «Netanyahu ha fallito per l'ennesima volta. Ora Blu e Bianco è determinato a formare un governo liberale e unitario». Resta il problema delle alleanze. Il centrosinistra, anche con la Lista araba unita, arriva a soli 54 seggi. L'ipotesi di un governo di minoranza necessita dell'appoggio esterno sia degli arabi che di Avigdor Lieberman, l'ex alleato di Netanyahu ora più che mai decisivo.

(La Stampa, 22 ottobre 2019)


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Bibi rinuncia a fare il governo. Ora il mandato passa a Gantz

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rinuncia all'incarico affidatogli dal presidente Reuven Rivlin per la formazione di un governo. Lo ha annunciato lo stesso leader del partito Likud in un video postato ieri pomeriggio su Facebook. Dopo aver ricevuto il mandato, ho lavorato senza sosta per formare un governo di unità nazionale. «È quello che voleva la gente», ha affermato Netanyahu. Tuttavia, il premier uscente ha sottolineato come tutti i suoi tentativi di portare al tavolo dei negoziati il rivale Benny Gantz, leader della coalizione Kahol Lavan (Blu e Bianco), siano falliti. Gantz, ha insistito Netanyahu, «ha rifiutato ogni volta». Il presidente Rivlin ha già fatto sapere in un comunicato che intende ora affidare l'incarico allo stesso Gantz. La decisione dovrebbe essere annunciata formalmente entro 72 ore a partire da questa sera. Yair Lapìd, numero due di Kahol Lavan, ha accusato Netanyahu di aver «fallito ancora una volta: sta diventando un'abitudine». «Ora è il tempo dell'azione. Kahol Lavan è determinata a formare un governo liberale di unità nazionale guidato da Benny Gantz, per il quale gli elettori hanno votato il mese scorso», ha scritto Lapid in un comunicato. A seguito delle elezioni dello scorso 17 settembre, Kahol Lavan ha ottenuto 33 seggi su 120 nella nuova Knesset, seguito a stretto giro di posta dal Likud con 32 seggi.
   Netanyahu, tuttavia, si era assicurato un numero lievemente maggiori di alleati, insufficiente a garantirsi una maggioranza di governo ma sufficiente a vedersi affidare per primo l'incarico dal presidente Rivlin. Il tempo a disposizione del premier uscente per la formazione di un nuovo governo sarebbe scaduto mercoledì 23 ottobre. Ora Benny Gantz, avrà 28 giorni per tentare di formare una coalizione.
   Gantz e Avigdor Liberman, hanno poi risposto a Netanyahu che in un video li accusava di aver cercato di formare un governo di minoranza con l'aiuto di partiti arabi. Domenica Netanyahu ha pubblicato un video sui social media dal titolo. «Lo schema segreto di Gantz, Lapid e Lieberman». Il testo del video, con musica inquietante, ribadisce le accuse secondo cui i tre leader intendono formare un governo di minoranza con il sostegno esterno di un'alleanza di partiti a maggioranza araba. Gantz ha twittato: «Non sei riuscito a formare un governo, quindi invece di perdere tempo con i video, restituisci il mandato».

(il Giornale, 22 ottobre 2019)


I curdi siriani considerano un tradimento il ritiro delle truppe americane

Donald Trump ha dichiarato che una parte dell'esercito resterà nella Siria del nordest per difendere i pozzi di petrolio.

di Francesco Viaro (articolo) e Massimo Fenris (video)

Traditi, ingannati e presi in giro. Si sentono così i siriani che stanno assistendo al ritiro delle truppe americane. Il convoglio statunitense è stato bersagliato dal lancio di frutta e verdura, accompagnato da insulti da parte della popolazione locale. I mezzi blindati e gli autocarri che stanno abbandonando Qamishli - città al nordest del paese e centro di collaborazione tra forze statunitensi e curde nella lotta all'Isis - si stanno dirigendo verso il confine iracheno insieme a colonne di automobili di civili che stanno cercando di scappare, andando incontro ad una sorte incerta.
Del resto, il presidente Trump ha chiarito che le truppe che rimarranno nella Siria orientale saranno a presidio e a difesa dei pozzi petroliferi, non della popolazione. Altri militari, invece, saranno dislocati in diverse aree del territorio, come comunicato dal leader della Casa Bianca: "L'altra zona in cui Israele e Giordania ci hanno chiesto di lasciare un piccolo numero di truppe è una sezione completamente diversa della Siria, vicino ai confini con Giordania e Israele.
Abbiamo un piccolo gruppo (di soldati nel nordest, ndr) e abbiamo messo in sicurezza il petrolio - ha sottolineato - Non riteniamo ci siano altri motivi". Infine ha lasciato intendere che in futuro la gestione dei giacimenti potrebbe finire nelle mani di una società statunitense.
Per quanto riguarda i curdi, Trump ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno mai dichiarato apertamente che li avrebbero protetti.
Mark Esper, segretario della Difesa americano, ha confermato le parole del presidente, rimarcando che una parte dell'esercito è rimasto nel nordest della Siria affiancato dalle forze siriane democratiche a guida curda per impedire l'accesso ai pozzi di petrolio ai miliziani dell'Isis.

 Il ritiro delle forze statunitensi fa temere un'avanzata dell'Iran
  Le conseguenze del ritiro delle truppe americane - una "capitolazione" secondo quanto dichiarato a The Guardian da un diplomatico statunitense che ha preferito rimanere anonimo - rischia di ampliare il raggio d'azione dell'Iran nella regione.
Il governo di Teheran è uno storico alleato del presidente siriano Bashar al-Assad che si è speso fin dall'inizio nella lotta contro gli estremisti dell'Isis.
Questo scenario entrerebbe in contrasto con la Politica aggressiva di Trump nei confronti dell'Iran, poiché il presidente statunitense ha manifestato più volte la sua ostilità nei confronti della Repubblica islamica, spingendo fino al limite le sue pressioni economiche e diplomatiche.
Al contempo, il nuovo e probabile ruolo di Teheran starebbe preoccupando il vicino Stato ebraico di Israele. Il Primo ministro Netanyahu - che vede in Trump un alleato di ferro - si guarda bene dal criticarlo, ma ha condannato l'attacco turco nelle regioni curde in Siria. Inoltre ha messo in guardia dal pericolo di eventuali pulizie etniche che potrebbero essere perpetrate da Ankara e dai suoi mercenari.

(Blasting News Italia, 22 ottobre 2019)


Tel Aviv: arte e design in mostra in residenza Ambasciatore

 
La Residenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele apre le porte al pubblico per una serie di visite guidate della collezione di opere d'arte, oggetti e arredi di design esposti nella casa nell'ambito della Giornata del Contemporaneo.
   L'iniziativa, voluta dall'Ambasciatore Gianluigi Benedetti, permetterà di visitare la collezione della Residenza che include opere di artisti e designer italiani e israeliani che espongono nei più prestigiosi musei internazionali. Le opere saranno illustrate dal curatore della mostra, Ermanno Tedeschi, esperto e critico di arte contemporanea, alla presenza dell'artista Lello Esposito, autore di alcune delle opere più iconiche della collezione, che da circa trenta anni lavora sulla città di Napoli e sui suoi simboli. In questa occasione, Lello Esposito ha realizzato su una parete dell'ingresso della Residenza un'opera dedicata a Napoli. Oltre alla collezione d'arte e design, saranno in mostra gioielli realizzati da alcuni artisti italiani, vere e proprie opere d'arte da indossare, prestati dalla Babs Art Gallery di Milano.
   La Residenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele è, dagli anni ottanta, una delle ville storiche del famoso quartiere di Tel Biniamin a Ramat Gan, la cui nascita ed evoluzione sono indissolubilmente legate alla storia di Tel Aviv, con case progettate da importanti architetti europei del Novecento.

(BonVivre, 22 ottobre 2019)


In aumento i crimini contro gli ebrei in Inghilterra e Galles

di Erika Becchi

Raddoppiati i crimini contro gli ebrei in Inghilterra e in Galles. La notizia è confermata dai dati presentati dalla polizia britannica nei giorni scorsi. Nel 2018/2019 la polizia dell'Inghilterra e del Galles ha registrato ben 103.379 crimini di odio, il 10% in più rispetto allo scorso anno e il doppio rispetto ai dati relativi al 2012/2013. I crimini di odio sono perlopiù di carattere religioso. La maggior parte delle vittime sono di religione musulmana (47%, con 3530 attacchi verbali e fisici registrati nel 2018/2019) ma a destare preoccupazione è la situazione della minoranza ebraica, che nell'ultimo anno ha ricevuto il doppio di attacchi e minacce rispetto allo scorso anno. La polizia ha registrato 1326 reati contro gli ebrei in confronto ai 672 dello scorso anno. Sono dati importanti, soprattutto per un Paese come il Regno Unito, da sempre meta di persone provenienti da tutto il mondo.

 Reati aumentati dopo la Brexit
  Il numero di reati in Inghilterra e nel Galles è aumentato anche nei confronti di persone omosessuali (25%) e dei transessuali (37%). I reati nei confronti delle persone disabili, invece, sono aumentati del 14%. L'aumento del numero di reati in Inghilterra e Galles può essere legato, seppur in minima parte, al modo in cui i crimini vengono registrati, ma è palese che ci siano stati dei picchi di reati dopo eventi come il referendum per la Brexit e gli attacchi terroristici del 2017. Secondo il gruppo Citizens UK, che ha realizzato un proprio sondaggio, il numero di reati nell'ultimo anno potrebbe essere addirittura anche più alto di quello ufficiale.

 Cala la fiducia nelle istituzioni e si richiede più sicurezza
  Quello che emerge dai sondaggi condotti da Citizens UK è una forte erosione sociale e una crescente crisi di fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini britannici. Il direttore esecutivo del gruppo cittadino, Matthew Bolton, ha detto: "Le comunità di tutto il Regno Unito sono preoccupati del fatto che non si faccia abbastanza per proteggere i cittadini dai crimini di odio". Secondo Bolton, "la politica, i media e le istituzioni devono pensare ad un piano di azione per fermare le brutte storie che circolano sui social media e il contesto politico divisivo, che aumenta il clima di odio".
Dal governo britannico arriva una dura reazione a questi numeri sulla violenza. "Ogni episodio di crimini di odio è completamente inaccettabile" dice un portavoce, "Nessuno dovrebbe essere preso di mira perché una minoranza piena di odio non può tollerare le differenze che hanno fatto grande il nostro Paese". La speranza del governo britannico è che si eviti l'omertà: "Ci auguriamo che le persone continuino a denunciare eventuali crimini di odio e la polizia continuerà a migliorare la propria responsabilità nei confronti delle vittime". Il contesto sociale può essere cambiato solo con l'impegno di tutti i soggetti, a partire dai cittadini, dalle istituzioni e dai media. Il governo, intanto, si è impegnato nella lotta al crimine razziale nei confronti di minoranze religiose e di omosessuali, confidando nella collaborazione del sistema di giustizia e della comunità.

(Periodico Daily, 22 ottobre 2019)


Tregua in Siria appesa all'incontro Erdogan-Putin di domani

 
I civili curdo-siriani lanciano patate e frutta marcia contro uno alcuni dei convogli militari statunitensi in ritirata verso l'Iraq.
Nelle stesse ore, un convoglio di 50 mezzi con a bordo i miliziani dell'Esercito libero siriano, alleato della Turchia, raggiungeva la città di Ras al Ayn, dopo il ritiro, concordato nell'ambito della tregua, da parte delle milizie curde. Il cessate il fuoco scade martedì alle 22:00.

 Primo step safe zone 120 km
  Ankara prevede, al termine di questa prima fase, di prendere il controllo di un'area di 120 km. In un secondo momento Ankara estenderà il proprio controllo su un'area estesa complessivamente per 444 km. Tale dovrebbe essere la definitiva lunghezza dell'area, per una profondità di 32 km.

 Erdogan da Putin
  Il destino della tregua dipende dall'incontro in programma, sempre questo martedì, tra il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, e quello russo Vladimir Putin che discuteranno di 'linee rosse', della cooperazione con le forze di Assad e con la polizia militare russa presenti sul campo.
Erdogan avverte i curdi che se il ritiro dall'area di confine non avverrà entro martedì pomeriggio, comincerà dove si è fermato, mentre il Presidente russo dovrà vestire i panni del mediatore nel tentativo di trovare un compromesso tra Turchia, Stati Uniti, Bashr al-Assad e curdi.

 L'obiettivo del Cremlino
  Per il Cremlino, "è importante che tutti i territori ora sotto controllo turco nel Nord passino, nel medio-lungo termine, nelle mani di Damasco; soprattutto l'autostrada M4, che corre circa 30 chilometri a Sud del confine con la Turchia". Si tratta di una via di collegamento cruciale tra il Nord-Est siriano e il resto del Paese, che dal confine con l'Iraq passa per la citta' di Manbij fino ad arrivare a Latakia, dove sorge una delle due basi militari russe.

 Teheran avverte, inaccettabili basi militari turche
  Al tavolo si siede anche l'Iran che considera come "inaccettabile" qualsiasi azione della Turchia per stabilire basi militari in Siria. "I turchi possono avere le basi che vogliono e fare quello che vogliono sul proprio territorio e all'interno dei loro confini, ma se si parla di stabilire basi turche in Siria, questo è inaccettabile", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Abbas Moussavi.

(euronews, 21 ottobre 2019)


Israele preoccupato dal ritiro americano

Donald Trump, i curdi, il medio oriente che cambia

Scrive Haaretz (15/10)

La famosa conversazione telefonica tra Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan sta dando risultati catastrofici" scrive Amos Harel. "Il via libera che il presidente degli Stati Uniti ha dato alla sua controparte turca lo scorso 6 ottobre (anche se Trump in seguito ha goffamente cercato di ridimensionarne il significato) ha prodotto scosse che hanno completamente cambiato la situazione nel nord della Siria, e stanno già influenzando il quadro strategico in tutto il medio oriente.
   Ecco un rapido bilancio degli ultimi giorni. Gli Stati Uniti hanno tradito i curdi, i loro principali alleati nella sconfitta dello Stato islamico (Isis), e hanno evacuato le loro truppe dalle aree curde in Siria, come Trump aveva promesso a Erdogan. La Turchia è penetrata in Siria per 30 chilometri, costringendo alla fuga decine di migliaia di civili. Centinaia di curdi sono stati uccisi da incursioni aeree turche, e non sono mancati casi di crimini di guerra a opera dei soldati turchi e dei loro alleati della milizia siriana (come l'assassinio di una politica curda e l'esecuzione di prigionieri davanti alla telecamera). Nel frattempo, centinaia se non migliaia di prigionieri dell'Isis sono fuggiti dai campi controllati dai curdi. In preda alla disperazione, i leader curdi hanno fatto appello a Bashar Assad chiedendo al regime siriano di assumere il controllo di alcune aree curde nella convinzione che il sanguinario regime di Damasco sia comunque meno peggio di ciò che li aspetterebbe sotto gli stivali dei turchi.
   Dal punto di vista di Israele, le immediate implicazioni pratiche dell'abbandono americano dei curdi non sono critiche. La questione cruciale, per Gerusalemme, è la presenza continua di truppe americane nella base di Al-Tanf, che esercita un impatto sul corridoio terrestre che collega l'Iran e l'Iraq alla Siria e al Libano. Finora le notizie dicono che le truppe sono rimaste. L'eventuale sgombero di quella base preoccuperebbe molto Israele.
   A più lungo termine, ciò che è preoccupante è il modo chiaramente caotico in cui il presidente degli Stati Uniti conduce la sua politica. Sembra impegnato solo verso se stesso. In questo contesto, è quasi divertente notare il crescente numero di sostenitori di Trump, in Israele, che devono arrampicarsi un po' sugli specchi per giustificare le azioni del supposto difensore di Israele che attualmente siede alla Casa Bianca. Mentre Trump sta a guardare i danni che ha creato, Putin sta organizzando un'insolita visita amichevole negli stati del Golfo: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Non dovrebbero sussistere più illusioni riguardo a Mosca: quello non è un luogo dove si coltivi comprensione per le vitali preoccupazioni d'Israele e le circostanze eccezionali in cui Israele si trova a operare".

(Il Foglio, 21 ottobre 2019)


Gerusalemme, scoperta strada fatta costruire da Ponzio Pilato

Archeologi israeliani hanno individuato un'antica strada forse commissionata 2000 anni fa dal governatore romano per portare i pellegrini al Tempio ebraico. Ma non mancano controversie sulla datazione e sui metodi utilizzati per realizzare lo scavo

di Andrew Lawler

 
Per riportare alla luce l'antica strada a gradini gli archeologi e ingegneri israeliani stanno realizzando quello che sembra un tunnel della metropolitana sotto un quartiere di Gerusalemme.
Ponzio Pilato è un personaggio storico "odiato" da Ebrei e Cristiani. Per quest'ultimi il governatore romano della Giudea ricoprì un ruolo centrale nell'esecuzione di Gesù intorno al 30 d.C., mentre per i primi fu un amministratore insensibile che pose le basi per la ribellione che avrebbe portato alla distruzione di Gerusalemme quattro decenni più tardi.
   Tuttavia, una nuova scoperta potrebbe indicare che Pilato spese molto tempo e denaro per abbellire la città che attirava pellegrini e visitatori da tutto l'Impero Romano. Infatti, gli archeologi che stanno scavando sotto un quartiere palestinese appena a sud delle mura di Gerusalemme hanno individuato una strada monumentale a gradini che portava ai piedi del Monte del Tempio, l'altura che ospitava il santuario ebraico e che oggi è sede di alcuni dei più sacri siti dell'Islam.
   Per realizzare l'imponente l'asse viario, lungo 600 metri e largo 8, ci vollero circa 10.000 tonnellate di lastre di calcare. "Pensiamo che sia il frutto di un singolo progetto realizzato in un unico momento" afferma Joe Uziel, archeologo dell' Autorità Israeliana per le Antichità che dirige la missione e che, insieme ai suoi colleghi, ha recentemente pubblicato i risultati della ricerca su "Tel Aviv: Journal of the Institute of Archaeology".
   Gli storici hanno sempre ipotizzato che re Erode il Grande, morto intorno al 4 a.C., fosse il responsabile della maggior parte della politica edilizia che trasformò l'antica Gerusalemme in un importante centro di pellegrinaggio e turismo. Ma l'analisi di oltre 100 monete trovate sotto le lastre della strada, pone l'inizio e la fine della sua costruzione sotto Ponzio Pilato, che governò la prefettura di Giudea per circa un decennio a partire dal 26/27 d.C.
   Le monete più recenti del gruppo, infatti, risalgono al 31 d.C. circa, quando le più comuni per la Gerusalemme del I secolo furono coniate dopo il 40. "Non averle sotto la strada vuol dire che questa fu realizzata prima della loro produzione", afferma Donald Ariel, numismatico dell'Autorità Israeliana per le Antichità.
   Pilato prestò servizio sotto l'imperatore Tiberio e, secondo gli scrittori contemporanei, provocò diversi incidenti e la rabbia del popolo ignorando il tabù locale sulle immagini scolpite e rubando i fondi del Tempio per costruire un nuovo acquedotto.
   I Vangeli, inoltre, accusano il prefetto di aver ordinato la crocifissione di Cristo. Successivamente, secondo lo storico ebreo romano Giuseppe Flavio, Pilato fu rimosso dal suo incarico per aver voluto un attacco ai Samaritani nel nord della Giudea e fu costretto dall'imperatore a tornare, in disgrazia, a Roma.
   Nahshon Szanton, archeologo dell'Università di Tel Aviv e primo autore della pubblicazione dello studio, ipotizza che la costruzione della strada sia stata pensata da Pilato proprio "per placare gli animi dei cittadini di Gerusalemme", nonché "per accrescere il suo nome attraverso importanti progetti edili". La strada fu poi sepolta sotto macerie nel 70 d.C., quando la città fu distrutta da Tito per sedare una rivolta interna, e molte delle sue lastre furono riutilizzate per nuovi edifici.
   D'accordo con la teoria è anche Matthew Adams, direttore dell'Istituto di Ricerca Archeologica W.F. Albright di Gerusalemme, che, nonostante non sia coinvolto nella ricerca, afferma che i risultati danno importanti informazioni sul periodo in cui Roma esercitava un controllo diretto sulla Giudea. Adams aggiunge che "forniscono anche alcune prove della cooperazione tra le autorità romane e quelle religiose ebraiche", quando invece le fonti storiche sottolineano solo tensione tra le due parti.
   Di parere completamente opposto è Jodi Magness, archeologo dell'Università della Carolina del Nord a Chapel Hill, che afferma: "Il materiale che stanno trovando proviene da riempimenti che potrebbero essere stati portati con carriole da qualsiasi luogo, quindi sono scettico riguardo alla datazione. Non è impossibile che Pilato sia stato il responsabile della costruzione, ma non è né l'unica né la più probabile ipotesi".
   Magness è critico anche nei confronti del metodo utilizzato. Invece di scavare dalla superficie verso il basso, gli archeologi stanno realizzando un tunnel delle dimensioni di una metropolitana per esporre la strada. "Non hai il contesto: non puoi vedere cosa c'è sopra o di lato. È inaccettabile".
   Uziel si giustifica sostenendo che quella adottata fosse l'unica soluzione possibile a causa della presenza del sovrastante quartiere densamente popolato e che, in ogni caso, il team è in grado comunque di raccogliere informazioni stratigrafiche accurate.
   Il lavoro, finanziato in gran parte da un'organizzazione ebraica chiamata City of David Foundation, ha suscitato critiche internazionali per la sua posizione e per i suoi metodi. I palestinesi che vivono e lavorano in questa zona di Gerusalemme Est si lamentano dei danni alle loro case e attività commerciali a causa degli scavi, mentre altri sono stati infastiditi dall'eccessiva attenzione focalizzata su un famoso periodo della storia ebraica. L'Autorità Palestinese, in particolare, ritiene il tunnel sia parte di un piano per "giudaizzare" Gerusalemme Est, territorio che molti Paesi considerano occupato.

(National Geographic Italia, 21 ottobre 2019)


Roberta di Camerino, signora della moda e maestra di Versace e Ferrè

di Alberto Toso Fei

Fu una delle prime e maggiori esponenti del "made in Italy" nel campo della moda prima ancora che questa espressione acquistasse un senso. Gianni Versace e Gianfranco Ferrè diventarono stilisti dopo aver lavorato con lei; anche le sorelle Fendi inventarono il loro marchio dopo aver gestito uno dei suoi negozi, conosciuti in tutto il mondo grazie a quella "R" declinata in più maniere che stava per "Roberta". Roberta di Camerino. Lei in realtà, stilista della prima ora, imprenditrice di successo e rivoluzionaria nel campo della moda, non si chiamava Roberta. Aveva dato alla sua azienda - che negli anni Ottanta arrivò a contare 250 punti vendita in 35 Paesi - il nome della sua bambola preferita di quand'era bambina, che avrebbe poi dato anche alla figlia.
  Il suo era Giuliana Coen Camerino; era nata a Venezia l'8 dicembre 1920. Nascere ebrea in Italia negli anni Venti non fu un grande affare: vittima delle leggi razziali ed espulsa dal liceo, non si diede per vinta e diede la maturità da privatista, subito prima di sposare, giovanissima, Guido Camerino. Volitiva e libera, ebbe ragione: fu un vero matrimonio d'amore che in breve tempo vide nascere Ugo, il primogenito. Ma la guerra incalzava e alla fine del 1943 fu caccia all'uomo. Nascosti e poi ricoverati a Mogliano grazie ad Anacleto Ligabue, padre dell'esploratore Giancarlo, scapparono dalla clinica vestiti da suore con la complicità del primario Emo Prosdocimo e poi delle autorità di polizia veneziane, che chiusero tutti e due gli occhi mentre i tedeschi rastrellavano le case. Duecentoquarantotto ebrei veneziani partirono verso i campi di concentramento. Solo otto di loro ritornarono. I Camerino ce la fecero.
  Fuggiti rocambolescamente in Svizzera trovarono ospitalità a Lugano. Fu lì che, dopo aver venduto per necessità una borsa a secchiello di cuoio, Giuliana Coen decise di rifarsene una e poi realizzarne altre, scoprendosi così un talento inaspettato. Il 26 aprile 1945 ripassarono il confine in gran segreto, senza nemmeno attendere che tutto il Nord Italia fosse liberato. Tornarono a Venezia dove la loro casa era stata saccheggiata. Ma erano vivi, e poterono ricominciare. Giuliana iniziò a creare: inventò delle borse che si "vestivano" e "svestivano" per un utilizzo diurno e serale, finalmente slegate dall'idea di abbinamento con le scarpe; oggetti colorati e particolari da esibire per quello che erano: creazioni di moda. Fu un successo. Inizialmente le vendette a un negozio del centro, per poi aprire il suo primo negozio. Il tocco della "R" fu irresistibile: la borsa "bagonghi" (dal nome del celebre clown) composta di velluti di diversi colori, diventò un must per attrici, principesse, giornaliste di moda. Il velluto in luogo della pelletteria fu una sua intuizione: arrivò a farsi fabbricare i tessuti con fibbie, cinghie e passanti che facevano parte dell'ordito e della trama. Erano finti, ma si vedevano. Il "trompe l'oeil" applicato alla moda, un'altra rivoluzione, consacrata dall'oscar della moda (il Neiman Marcus Award) assegnatole nel 1956. "Roberta di Camerino" iniziò a produrre vestiti e accessori, presentati di anno in anno in sfilate che il giorno del Redentore diventavano veri spettacoli: col corpo di ballo della Fenice, col teatro delle marionette, gli sbandieratori di Asti, l'intero circo Orfei... Giuliana Coen inventò anche le sfilate-spettacolo. In tutto ciò era nel frattempo nata anche la figlia Roberta, e ogni cosa conobbe una continua ascesa fino al 1965 quando Guido, che aveva lasciato il lavoro in banca per seguirla in azienda ma che soprattutto aveva condiviso con lei ogni cosa - gioia, sofferenza, paura, gloria - morì. Per Giuliana fu un colpo durissimo; lasciò Venezia e si trasferì a Milano, e poi nel Principato di Monaco e a Lugano, in quella Svizzera dove anni prima aveva trovato la salvezza. Giuliana Coen Camerino morì a quasi novant'anni l'11 maggio 2010, dopo essere stata colpita da un malore mentre si trovava in Istria sulla sua barca "Giada", sull'Adriatico che amava e che aveva percorso in lungo e in largo. Oggi riposa al cimitero ebraico del Lido di Venezia.

(Il Gazzettino, 21 ottobre 2019)


Pittsburgh, un anno dopo la strage: un simbolo contro l'odio

L'obiettivo, ora, è quello di riaprire la sinagoga con un memoriale per le vittime, di trasformarla in qualcosa che vada oltre il luogo di preghiera

 
Un anno. Tanto è trascorso dalla strage che ha causato la morte di undici persone ed il ferimento di sei. Forward.com dedica un articolo a quel tragico sabato quando Robert D. Bowers, il 46enne incriminato con 63 capi di accusa, iniziò a sparare al grido di: "Tutti gli ebrei devono morire". Il Dipartimento di Giustizia intende chiedere la pena di morte per l'autore di questo crimine, il più grave atto antisemita della storia americana.
   Forward racconta di un anno trascorso nel dolore, nel tentativo di aiutare dal punto di vista psicologico e finanziario i parenti delle vittime (sono stati raccolti in tutto oltre sei milioni di dollari) ma anche i sopravvissuti, traumatizzati ricordi ed immagini che non se ne andranno mai dalla loro memoria. Come il volto di una donna rimasta impietrita dopo aver scoperto che suo marito era tra le vittime.
   In quanto scena del crimine, la sinagoga è rimasta chiusa per molto tempo. Tutto intorno una recinzione tappezzata di disegni e dipinti di bambini. Alla sinagoga facevano riferimento tre congregazioni: Tree of Life or L'Simcha, New Light e Dor Hadash.
   "Ho guardato la mia sinagoga; sembrava una pietra tombale", ha raccontato a Forward Judah Samet, internato da bambino nel campo di concentramento tedesco di Bergen-Belsen, arrivato alla sinagoga lo scorso 27 ottobre un attimo dopo la strage: "Siamo di nuovo gli ebrei erranti in America, Non abbiamo una casa. Questa è l'unica cosa che mi preoccupa davvero. "
   L'obiettivo, ora, è quello di riaprire la sinagoga con un memoriale per le vittime, di renderla qualcosa che vada oltre il luogo di preghiera, di trasformarla in un messaggio potente e chiaro contro ogni forma di odio. Spiega Sam Schachner, presidente di Tree of Life: "Trasformeremo la tragedia in trionfo, i lutti e le perdite in vita e amore".

(JoiMag, 21 ottobre 2019)


Da Israele una innovativa terapia per la vaginosi batterica cronica

Ricercatori israeliani hanno scoperto una terapia innovativa per la vaginosi batterica cronica (BV) utilizzando liquido vaginale trapiantato da un donatore sano.
Pubblicato il 7 ottobre sulla rivista Nature Medicine, lo studio è il primo che dimostra l'efficacia del trapianto di microbioma vaginale (VMT) nel trattamento della vaginosi batterica.
Lo studio su cinque donne di età compresa tra i 27 e i 47 anni è stato condotto dalla dottoressa Ahinoam Lev-Sagie, ostetrica-ginecologa ed un'esperta in disturbi vulvovaginali presso l'Hadassah Medical Center di Gerusalemme, in collaborazione con il Prof. Eran Elinav, esperto di microbiomi del Weizmann Institute of Science di Rehovot.
Quattro delle cinque donne hanno avuto una remissione completa a lungo termine dopo una o tre procedure del trapianto di microbioma vaginale, che hanno reso necessario un cambio di donatore in una paziente, senza effetti collaterali. La quinta donna ha mostrato un miglioramento parziale.
La dott.ssa Lev-Sagie a ISRAEL21c ha dichiarato:
"I risultati sono stati immediati e il cambiamento visto nel microbioma è impressionante. La vaginosi batterica colpisce da un terzo a metà di tutte le donne nel mondo, con un sottogruppo di almeno il 4,4% di tutte le donne che soffrono di una forma grave ed intrattabile di questa malattia".
Il trapianto di microbioma vaginale è stato ideato da uno dei principali autori dello studio, il ricercatore di biologia molecolare Debra Goldman-Wohl dell'Hadassah, il centro medico affiliato all'Università Ebraica.

 Il microbioma batterico vaginale
  Debra Goldman-Wohl ha teorizzato che se i trapianti fecali possono normalizzare un microbioma intestinale sbilanciato (batteri che risiedono nell'intestino), i trapianti di liquido vaginale potrebbero normalizzare un microbioma vaginale sbilanciato.
Il conseguente cambiamento nel microbioma batterico vaginale porta a sintomi spiacevoli e un rischio di problemi di fertilità, complicanze legate alla gravidanza, parto prematuro e altre complicazioni ostetriche e ginecologiche.
Sono previsti ulteriori studi clinici randomizzati, controllati con placebo, per determinare ulteriormente l'efficacia terapeutica del trapianto di microbioma vaginale nelle donne con vaginosi batterica cronica.

(SiliconWadi, 21 ottobre 2019)


Cosa hanno fatto mai gli ebrei?

di Valerio Gardoni

"Cosa hanno mai fatto gli ebrei? Perché tanta gente ha creduto a quello che dicevano Hitler e i nazisti? Puoi aiutarmi a capire per quale motivo in tanti li odiassero a tal punto da permettere che fossero perseguitati?"

GATTATICO (RE) - Questa la domanda che Sofia pone a suo nonno, Roberto Finzi, grande studioso e autore di libri e articoli, in Italia e all'estero. Un dialogo fittissimo tra nonno e nipote, un viaggio appassionante, mano nella mano, attraverso la Storia. Alla ricerca dell'origine e del significato dell'antisemitismo, un odio irrazionale e antico, mai del tutto sopito.
   Il libro Cosa hanno fatto mai gli ebrei? sarà presentato al Museo Cervi mercoledì 23 ottobre alle ore 17, nel contesto della Biblioteca per ragazzi il MappaMondo, in occasione della settimana BiblioDays 2019 organizzata dalla provincia di Reggio Emilia. Rivolto a docenti, studenti e a tutto il pubblico interessato.
   Nel nostro tempo, assieme alla rapidità dello sviluppo tecnologico e di nuove abitudini, restano negli individui e nelle società miti e pregiudizi nati nella notte dei tempi recepiti e ripetuti di generazione in generazione. L'odio nei confronti degli ebrei ne è un esempio. È così consolidato che nemmeno la storia terribile della Shoah è riuscita a sradicarlo. Allora molti si chiedono: cosa hanno mai fatto gli ebrei perché in tanti li odino?
   È questa la domanda da cui parte il dialogo tra Sofia, tredicenne, e il nonno in cui si ripercorre quanto gli ebrei hanno subito nel tempo a partire dalla risposta a questo interrogativo. È un quesito, dice il nonno, mal posto. Così si attribuisce a loro la causa delle persecuzioni. Il punto, ci dice la storia, è invece capire cosa viene attribuito agli ebrei da chi ha già dentro di sé un pregiudizio nei loro confronti.

(popolis, 21 ottobre 2019)


Dalla Siria un domino di conflitti

Russia, Turchia e Iran hanno interessi divergenti l'escalation regionale pone seri rischi all'UE.

di Maurizio Molinari

La scelta della Casa Bianca di ritirarsi dalla Siria innesca in Medio Oriente il timore di un più generale disimpegno americano dalla regione destinato ad accrescere la possibilità di conflitti fra le maggiori potenze.
   La decisione del presidente Donald Trump di consentire alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan di invadere il Rojava curdo è solo un tassello di un processo che appare più vasto: gli Stati Uniti non hanno soltanto ritirato le unità speciali dal confine turco-siriano ma tutto il contingente - mille uomini - dall'intero Nord della Siria e ciò è avvenuto ad appena venti giorni dall'attacco missilistico iraniano agli impianti petroliferi di Aramco in Arabia Saudita a cui Washington non ha risposto venendo meno al patto non scritto con Riad sullo scambio fra stabilità nella produzione del greggio e protezione dei pozzi.
   Se a ciò aggiungiamo i piani del Pentagono per riportare in Nord America parte delle sofisticate strutture di comando e controllo delle truppe in Medio Oriente - attualmente posizionate in Qatar e Arabia Saudita - si spiega perché nelle capitali della regione si stia diffondendo la convinzione che Trump voglia davvero mantenere la promessa elettorale di "porre fine al coinvolgimento in guerre interminabili che non ci appartengono". È una scelta strategica che segue quelle compiute dal predecessore Barack Obama nel 2011 e nel 2013 - quando decise rispettivamente di ritirare tutte le truppe dall'Iraq e di non intervenire in Siria contro l'uso dei gas sui civili da parte di Assad - e pone il Medio Oriente in una situazione di pericoloso bilico. Il motivo è che in politica estera il vuoto non esiste e dunque l'interrogativo è chi riempirà lo spazio lasciato dagli americani.
   L'intenzione di Washington è di favorire la formazione di un'alleanza politico-militare simile alla Nato fra Paesi del Golfo e Israele in funzione anti-Iran - come spiega anche l'invio in questi giorni di due nuovi squadroni di F-16 in Arabia - ma è un processo ancora in divenire. Da qui lo scenario di possibili collisioni fra le potenze regionali impegnate a perseguire interessi divergenti, in evidente competizione nel tentativo di riempire il vuoto creato dal ritiro degli americani.
   È proprio la Siria a evidenziare tale rischio perché la Turchia vuole controllare stabilmente una fascia di territorio lungo i propri confini profonda 20-30 chilometri in funzione anti-curda mentre la Russia spinge il regime di Bashar Assad a tornare in possesso dell'intera nazione e l'Iran non gradisce l'ipoteca di Ankara su un Paese che considera sotto la propria sfera di influenza. Senza contare la variabile dei jihadisti di Isis e Al Qaeda che riconquistano spazio e risorse.
   Sulla carta Erdogan, Vladimir Putin e Hassan Rohani sono partner se non alleati - più volte si sono incontrati in veri e propri summit - ma il ritiro americano è un regalo avvelenato che ne esalta gli attriti e può portarli a confliggere. Perché hanno in Siria disegni rivali: Erdogan persegue il progetto neo-ottomano di aree vassalle attorno ai propri confini, Putin vuole ricostruire il Paese degli Assad come un suo protettorato e l'Iran ne vuole fare una piattaforma per minacciare frontalmente Israele. Il ritiro Usa dal confine Siria-Iraq consente infatti a Teheran di avere mano libera nel trasferimento di uomini, armi e mezzi fra l'Iran e il Libano attraverso una "Mezzaluna sciita" - come l'ha definita il re Giordano Abdallah - che modifica gli equilibri regionali.
   Ovvero, si è messo in moto in Medio Oriente un domino di eventi che può portare a conflitti regionali. Resta da vedere come la Russia si porrà davanti a tale rischio: ha sul terreno una significativa presenza strategica, vanta rapporti diretti e stretti con tutti gli attori e non ha interesse a crisi armate destinate a proiettare instabilità lungo i propri confini meridionali. Ma il Cremlino è ancora privo di una strategia di alleanze capace di generare sicurezza collettiva nel lungo termine.
   Con tali premesse non è difficile arrivare alla conclusione che lo scenario più verosimile nel breve periodo sia un aumento delle fibrillazioni fra i grandi rivali dell'Islam - sciiti iraniani e sunniti sauditi - a cui basta una scintilla o un incidente per degenerare in guerra aperta. L'interesse dell'Europa è di evitare tale escalation perché pagherebbe un prezzo altissimo - in termini di sicurezza, migrazioni e commerci - ma i suoi leader appaiono divisi, distratti e miopi davanti alla necessità di considerare il Mediterraneo come il confine più urgente da presidiare.

(La Stampa, 20 ottobre 2019)


Ambigui curdi, turchi e jihadisti mascherati da ribelli: chi sta combattendo in Siria?

di Franco Gottardi

ROMA - La guerra in Siria sembra non avere fine. Con la recente invasione da parte delle truppe turche nel Nord-est si sono riaccesi i riflettori mediatici su un conflitto che va avanti da ormai quasi 9 anni. Sicuramente è capitato almeno una volta di chiedersi "Cosa vuol dire Fsa? I curdi sono dalla parte di Assad? Chi sono invece i fantomatici jihadisti e chi i ribelli cosiddetti moderati?"
Per rispondere a queste domande è necessario riassumere brevemente le motivazioni che hanno portato alla guerra civile. Le prime proteste pacifiche contro il governo hanno avuto inizio il 15 marzo del 2011, ma ben presto si sono trasformate in guerriglia da strada. Approfittando della debolezza del governo centrale, i curdi presenti nei territori del nord hanno dichiarato la regione del Royava indipendente e i jihadisti salafiti hanno proclamato la nascita dello Stato islamico.

 I ribelli sono veramente "moderati"?
  Fra le milizie che tuttora combattono contro il legittimo governo di Assad troviamo i cosiddetti "ribelli moderati", termine giornalistico per descrivere i combattenti del Free Syrian Army (Fsa). Questa forza armata ha mantenuto il completo controllo per vari anni della maggior parte della Siria, compresa la città di Aleppo, ma oggigiorno la sua influenza è drasticamente calata ed è relegata alla provincia di Idlib a nord (dove riceve aiuti dalla Turchia) e alla base militare americana (ma controllata dai ribelli) di Al-Tanf, al confine sud con l'Iraq.
Elogiati dai media occidentali come rivoluzionari democratici, diverse brigate del Fsa hanno cooperato con altre forze jihadiste radicali come Al-Nusra, Al-Qaeda e perfino lo stesso Isis in varie zone della Siria. Attualmente sono supportati militarmente e finanziariamente dal governo turco di Erdogan, ma nel corso degli anni hanno ricevuto il sostegno di Stati Uniti, Israele, Francia e Inghilterra.
La bandiera utilizzata dall'esercito siriano libero è composta dal tricolore verde bianco nero con tre stelle rosse nella fascia centrale.

 L'estremismo islamico in Siria
  Esistono poi una miriade di forze di ispirazione jihadista salafita disseminate su tutto il territorio nazionale che si oppongono al governo di Assad. Quella forse più nota è ovviamente lo Stato Islamico (Isis), guidato dal Califfo Al-Baghdadi e presente con gruppi affiliati in diverse zone del mondo (Nigeria, Somalia, Filippine, Russia e Libia principalmente). Fino al 2017 l'Isis controllava militarmente un vasto territorio, ma oggigiorno la sua presenza è praticamente nulla e le attività principali consistono in attentati dinamitardi nei territorio ad est vicino a Deir-el-Zor.
Sempre di orientamento islamista radicale troviamo Al-Nusra, branca siriana di Al-Qaeda fino alla metà del 2016. È stata per un primissimo periodo alleata dello Stato Islamico, ma ben presto a causa di divergenze interne alcune truppe di Al Nusra si sono rese protagoniste di schermaglie con i tagliagole. Dal gennaio 2017 il gruppo si è unito ad altre quattro milizie di minor importanza e ha cambiato nome in Tahrir al-Sham. Nel governatorato di Idlib costituisce una delle due forze di opposizione più importanti numericamente insieme al Free Syrian Army.

 L'ambiguità dei curdi
  Per quanto riguarda invece le Forze democratiche siriane (Sdf, i curdi), è necessario sottolineare come il loro ruolo sia tutto sommato ambiguo nei confronti dell'esercito governativo. Tradizionalmente non favorevoli ad un governo nazionale guidato da Bashar Assad, lottano per una Siria federale e democratica. Più volte le forze governative e i curdi hanno combattuto fianco a fianco contro l'Isis o altri gruppi salafiti, ma sono state anche molteplici le occasioni di conflitto a fuoco con perdite da entrambe le parti.
Negli ultimissimi giorni, a seguito dell'invasione da parte delle truppe turche nel nord della Siria, è stato siglato un accordo secondo il quale le principali roccaforti curde torneranno sotto il controllo delle forze siriane in cambio di protezione dagli attacchi di Erdogan.

 Una certezza: l'esercito regolare
  Bashar Assad può contare invece sul sostegno delle Forze Armate siriane (Syrian Arab Army Forces, Saa), di cui è comandante in capo, e di numerosi gruppi paramilitari tra cui le Forze Nazionali di Difesa e i militanti del Partito Nazionalista Sociale Siriano (quest'ultimo fondamentale nella riconquista di Palmira). Il principale alleato è senza ombra di dubbio la Russia, seguita a ruota da Iran, Iraq e Hezbollah. È da segnalare anche il supporto, seppur limitato a 200 uomini, delle forze speciali cinesi impegnate nella lotta al terrorismo islamista.
Attualmente le forze governative sono riuscite a riconquistare la quasi totalità del territorio siriano, fatta eccezione per la provincia di Idlib nel nord ovest e per i territori sotto il comando curdo a est. Resta comunque un grande risultato se si paragona il territorio attuale a quello del 2014, quando le truppe di Assad occupavano non più del 10% dell'intero Paese.

(Il Primato Nazionale, 20 ottobre 2019)


Due tra i tanti misteri del ghetto di Roma

Una fontana cambia più volte il posto e un nobile palazzo ricco di tanti tesori sposta altrove il proprio portone.

di Fabio Isman

 
La fontana delle Tartarughe a Roma
Una fontana vagabonda, che muta collocazione almeno quattro volte, e un nobile palazzo, che sposta il suo ingresso per non essere inglobato nel ghetto, sono tra i "segreti" di quell'area ristretta vicino al Tevere, dove gli israeliti sono stati costretti a vivere per oltre tre secoli, dal 1555 fino al 1870: Il secondo "serraglio" del genere dopo quello di Venezia, precedente di 40 anni, e prima di tanti altri che. da allora, hanno purtroppo affollato la nostra penisola. La fontana ha la firma di un grande artista nel genere: Giacomo della Porta, autore anche di quella, non lontana, "delle Tartarughe". e di parecchio d'altro: da quelle davanti al Pantheon e del Moro a Piazza Navona, alla facciata della chiesa del Gesù. Oggi, quel bacile si trova in Piazza delle Cinque Scole, Ma non è sempre stato così.

 Arriva l'acqua
  Appena nel 1591 l'acqua corrente raggiunge l'area in cui erano stati rinchiusi i "giudei", ormai da quasi 40 anni: prima, c'era soltanto quella del vicino Tevere. Allora, una conduttura dell'Acqua Felice, impianto voluto da Sisto V, Felice Peretti, approda in quella che si chiamava. Piazza Giudia. E nasce la fontana, elegante e quadrilobata. due vasche sovrapposte. Inizia a funzionare due anni dopo, a un passo da dove s'impiccavano gli ebrei condannati per i reati più gravi. Della Porta la costruisce con marmi dello smantellato Tempio di Serapide, forse il più grande dell'Urbe, di cui si vedono ancora i relitti sotto il Quirinale; il catino superiore è retto da quattro gorgoni, e dalle loro bocche sgorga il liquido; la decorano gli stemmi dei magistrati nella città d'allora.

 Spostamenti
  Ne] 1880, quando il ghetto è smantellato e restaurato con profonde modificazioni, la fontana finisce in magazzino, e ci resta per ben 44 anni, catino e fusto si trasferiscono poi sul Gianicolo, davanti alla chiesa di Sant'Onofrio; finché, nel 1930, la fonte non è riassemblata dove ora si trova. Al suo posto originario, per terra, se ne vede oggi la sagoma: ma chi non sa il perché di quella losanga bianca sul terreno, non capisce troppo.

 Il palazzo sbarrato
  Non lontana, anzi vicinissima, è via della Reginella: uno dei "cuori" del ghetto. Qui, si apriva il portone di un palazzo assai nobile: quello della famiglia Costaguti; se ne leggono ancora le lesene laterali, i capitelli, un arco a tutto sesto; ma, l'ingresso è ormai chiuso da un muro. con una finestrella. L'edificio nasce a metà Cinquecento, per monsignor Costanzo Patrizi, tesoriere di Paolo III Farnese, sulla demolita chiesa di San Leonardo de Albis. Nel 1578, morto il prelato, diventa di Ascanio e Prospero Costaguti, banchieri di origine ligure, che lo ristrutturano. L'ingresso era, appunto, a via della Reginella: però, per non essere inglobati nel ghetto soffrendone le limitazioni, i proprietari lo spostano nella vicina e omonima piazza. Appartiene ancora agli eredi, Afan de Rivera Costaguti.

 Tanti tesori
  Le facciate (una è su piazza Mattei) recano l'impronta di bei nomi dell'architettura romana di allora: Carlo Lombardi, Ascanio De Rossi, Antonio De Battisti. Al piano nobile, si giunge con una bella scala elicoidale; e si ammirano (anche se visitare il luogo non è facile) importanti dipinti, -di artisti famosi, tra cui "Il centauro Nesso rapisce Deìanìra" di Francesco Albani, "Dike, Eirene e Eunomia" di Giovanni Lanfranco, "Armida rapisce Rinaldo" di Guercino, "Enea armato" del Cavalier d'Arpino, "Il carro del Sole" e "Il Tempo che scopre la Verità" di Domenichino. Interi e vasti saloni hanno fregi dipinti, sotto i soffitti a cassettoni, anche da Taddeo e Federico Zuccari. Per Giorgio Vasari, era tra i cinque palazzi più ricchi della città. Sulle facciate, resta traccia delle decorazioni a grisaglia. Ma quel portone spostato rimane tra i segreti del Ghetto, che ancora ne conserva parecchi.

(Il Messaggero, 20 ottobre 2019)


Le navi da guerra russe hanno lanciato razzi vicino ai confini israeliani

Secondo l'agenzia di stampa israeliana 9tv, le navi da guerra russe hanno lanciato missili ai confini israeliani, in particolare i missili da crociera Calibre. "
"L'ammiraglio Makarov, una fregata della Marina russa, ha condotto l'addestramento sparando nella parte orientale del Mar Mediterraneo, usando missili da crociera Calibre,"
informa la pubblicazione delle informazioni.
Fino a che distanza dai confini israeliani si trovava la fregata russa, l'ammiraglio Makarov non è stato segnalato, tuttavia, gli esperti affermano che ciò è accaduto ovviamente vicino alle acque territoriali di Siria e Libano e, pertanto, le affermazioni alla Marina russa sono infondate.
Va notato che, nonostante le difficoltà derivanti dall'attacco di militanti e terroristi nella provincia siriana di Idlib, le navi da guerra russe non usano missili da crociera Calibre, il che solleva una serie di gravi domande per gli esperti.
"Le navi da guerra russe potrebbero benissimo attaccare i terroristi e non solo lanciare missili contro un nemico condizionato. D'altra parte, ciò può essere dovuto ai rischi esistenti per la popolazione locale,"
i voti degli esperti.

 Popolo ucraino di caccia sparatutto Su-27.
  Come parte dello spettacolo aereo in Belgio, il pilota dell'Ucraina Su-27 ha ricordato due volte al personale che essere di fronte a un getto che fuoriesce dai motori è estremamente pericoloso.
Secondo i dati della community di Military Observer di Telegram, l'incidente si è verificato nel settembre di quest'anno, mentre non è noto quanto le persone gravemente ferite siano state letteralmente fatte saltare in aria da un flusso di jet, sebbene quest'ultimo fosse a pochi metri da un aereo da combattimento ucraino Air Force
"Il caccia Su-27 dell'aeronautica ucraina ha fatto esplodere la gente durante un discorso al Sanicole Airshow in Belgio a settembre 2019"
ha detto nel messaggio.
È interessante notare che un incidente simile si è verificato due volte, come dimostrato dalle riprese video, effettuate direttamente sulla passerella.
"In questo non c'è da ridire sul pilota, tuttavia, come puoi vedere, l'incidente potrebbe essere accaduto con gli spettatori ordinari e, con una tale brama, il numero di vittime sarebbe potuto arrivare a decine. E’ sorprendente che gli organizzatori dello show aereo non si siano preoccupati della sicurezza del loro staff e del pubblico",
ha concluso lo specialista.

(Avia.Pro, 20 ottobre 2019)


"Hoshanah Rabbah, festa della vita"

Sette giri attorno alla Torah, nel settimo giorno di Sukkot. Hoshana Rabbah è tradizionalmente una delle feste più partecipate e sentite del calendario ebraico. Da Israele alla Diaspora, sinagoghe gremite in questa giornata dai messaggi e valori profondi affinché il nuovo anno, da poco iniziato, sia nel segno della vita, del suggello divino. "La sicurezza non è sempre qualcosa che possiamo ottenere fisicamente ma è qualcosa che possiamo acquisire mentalmente, psicologicamente, spiritualmente. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio e la volontà di sederci all'ombra delle ali riparatrici di Dio" sottolinea il rav Jonathan Sacks, in una riflessione dedicata a Sukkot.
Partecipata da migliaia di persone la cerimonia che si è oggi svolta davanti al Muro Occidentale a Gerusalemme. Particolare emozione questa mattina anche nella sinagoga di Firenze, dove ad oltre 60 anni dall'ultima volta si è tenuta, durante l'officiatura, la cerimonia di circoncisione del piccolo David Aaron. Ai genitori Rachel Camerini e Andrea Gianneschi un grande mazal tov!

(moked, 20 ottobre 2019)


«Rispondo di politica solo in Israele»

Eshkol Nevo a Torino per il suo ultimo libro: «Quando riconosciamo limiti e difficoltà attraverso la scrittura, siamo meno soli».

di Alessandro Martini e Maurizio Francesconi

Eshkol Nevo, nato a Gerusalemme nel 1971, è uno dei grandi nomi della letteratura contemporanea, erede (cosciente, ammirato e sufficientemente autonomo) di mostri sacri come Amos Oz, David Grossman e Abraham Yeoshua. È il nipote di Levi Eshkol (da cui il suo nome di battesimo), tra i padri fondatori dello Stato di Israele e suo terzo primo ministro tra il 1963 e il 1969. Dopo il grande successo dei precedenti romanzi (da «Nostalgia» a «La simmetria dei desideri» a «Neuland», dal 2010 tutti pubblicati in Italia da Neri Pozza), Nevo presenta la sua ultima fatica, «L'ultima intervista». Il protagonista, uno scrittore vittima di «distimia» e alle prese con dolorose vicende personali, risponde a una raffica di domande inviate dai lettori di un blog. Sono quesiti spesso scomodi, capaci di suscitare riflessioni intime e amare, ma che soprattutto solleticano l'arte affabulatoria dello scrittore chiamato a rispondere. Ma chi è l'io narrante? E lo stesso Nevo? Quanto c'è di autobiografico in «L'ultima intervista»? La prima risposta ci arriva direttamente dalle pagine del libro: «Le vicende narrate e i personaggi sono tutti presi dalla vita dell'autore; ogni riferimento a fatti realmente accaduti e a persone vive o morte non è in alcun modo casuale. Ciò detto, si tenga presente che l'autore è un cantastorie seriale, e che qualunque dichiarazione rilasciata a suo nome, inclusa la presente, dev'essere valutata con la dovuta cautela». Il resto dell'intervista a Eshkol Nevo, appena sbarcato in Italia, si svolge sul filo costante della sua ironia. Tanto le risposte di «L'ultima intervista» sono lunghe, articolate, sempre in forma narrativa, tanto Nevo è sintetico, talvolta sferzante nel gioco costante tra realtà e finzione letteraria.

- Nel libro l'amico Ari porta il dono della risata: «Uno dei regali più belli che io abbia mai ricevuto». Quanto conta saper leggere il lato comico della vita?
  «Giusto per chiarire: Ari è il migliore amico del protagonista del libro, non il mio. Ma è certo altrettanto vero che i miei veri amici mi hanno insegnato molto sull'umorismo. E molto probabilmente mi avrebbero preso in giro per le mie risposte serie, a questa e a ogni altra vostra domanda a seguire».

- Perché l'amicizia ha un ruolo così centrale nei suoi romanzi?
  «Credo che diano la misura della gioia, pura e assoluta, di stare con persone che ci conoscono da anni. E soprattutto che ci accettano, e quindi accettano anche me con le
mie qualità e i miei difetti».

- In «L'ultima intervista» il protagonista è daltonico, soffre di distimia, vive una profonda crisi di coppia e familiare. Perché?
  «Il parlare di difficoltà, incapacità, limiti, addirittura malattie è un modo per far luce su questioni oscure nella vita umana. Quando le riconosciamo attraverso la scrittura, siamo meno soli».

- Quanto è importante nei suoi romanzi l'ambientazione, in zone di Israele più vicine a Tel Aviv che a Gerusalemme?
  «In effetti, io non vivo esattamente a Tel Aviv, e difficilmente scrivo della città e della sua vita. Noi abitiamo nelle sue periferie. Là dove non succede mai nulla. È per questo che sono costretto a inventare delle storie!»

- Scrive: «Non capisco perché gli scrittori debbano essere interrogati sulle loro opinioni politiche. Che dire, non siamo tutti Amos Oz. Non abbiamo tutti sempre pronta una risposta articolata a ogni domanda». È scettico sulla figura di scrittore impegnato?
  «Io mi ritengo uno scrittore altamente politico, e scrivo anche saggi politici. Esprimo le mie opinioni nelle presentazioni e mi esprimo in manifestazioni pubbliche. Ma preferisco farlo in Israele. Rispondere a domande politiche nel mio Paese è forse più pericoloso ma anche molto più significativo».

- È curioso di sapere che cosa significherà la trasposizione in un'ambientazione italiana del suo romanzo «Tre piani»?
  «Nanni Moretti ha dovuto trasferire il film in Italia. D'altra parte, gli italiani sono passionali tanto quanto gli israeliani, e ugualmente legati alle proprie dinamiche familiari. Almeno in questo il film rispetterà il cuore intimo del mio libro».

- Se uno scrittore, come ha scritto, è uno «story hunter», che cosa porterà con sé da questa esperienza in Italia?
  «Al momento mi trovo nella coda più lunga della mia vita per il controllo passaporti. In attesa, sto svolgendo una mia personale indagine su come persone di nazionalità diverse esprimono la propria irrequietezza ... ».

(Corriere Torino, 20 ottobre 2019)



Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei

Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota, dove lo crocifissero, assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di là, e Gesù nel mezzo.
Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: "Il re dei Giudei"; ma che egli ha detto: "Io sono il re dei Giudei"». Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto».

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 19


 


Hamas, sostiene lo svolgimento delle elezioni generali palestinesi

GERUSALEMME - Le ultime elezioni presidenziali si sono svolte nel 2005, quando Abbas è stato eletto per un mandato di quattro anni. Un anno dopo, i palestinesi hanno tenuto le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese che ha visto la vittoria di Hamas. Oltre al movimento legato ai Fratelli Musulmani anche altre fazioni palestinesi hanno accolto con favore l'iniziativa di Abbas di tenere nuove elezioni. Tuttavia, insistono sul fatto che il voto per la presidenza dell'Autorità nazionale palestinese e del Plc debbano avvenire contemporaneamente. I funzionari dell'Anp hanno dichiarato la scorsa settimana che stanno pianificando di tenere le elezioni parlamentari, aggiungendo che la Commissione elettorale centrale palestinese è stata incaricata da Abbas di iniziare i preparativi per il voto. Le elezioni della presidenza, hanno aggiunto i funzionari, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post", si terranno in una fase successiva. Nessuna data è stata fissata per nessuno degli appuntamenti elettorali. Nei prossimi giorni alcuni alti funzionari della commissione visiteranno la Striscia di Gaza per colloqui con i leader di Hamas e altre fazioni palestinesi sulle elezioni.

(Agenzia Nova, 19 ottobre 2019)


AVVISO
Stanno arrivando da diversi giorni numerose richieste di iscrizione alla nostra newsletter prive di nome e cognome, spesso con indirizzi email inconsueti. Avvertiamo che non prendiamo in considerazione richieste di iscrizione prive di nome e cognome. Se queste continuerano ad arrivare invariate dopo questo avviso, sarà confermato che si tratta soltanto di molestia. NsI

Il testo della "tregua" negoziata da Trump è musica per la Turchia

Analisi di una resa. Più una capitolazione che un accordo fra Trump e Erdogan. Tutto ai turchi, in attesa di Putin.

di Daniele Raineri

ROMA - L'accordo di tredici punti fra Turchia e America per una tregua nel nord della Siria è più una capitolazione che un "accordo". Dal punto di vista pratico, il presidente turco Erdogan voleva prendere una fascia di territorio siriano profonda trenta chilometri e l'accordo stabilisce che l'avrà: le unità combattenti dei curdi devono ritirarsi dalla fascia (definita "safe zone", zona di sicurezza) entro cinque giorni. In cambio i turchi sospendono l'offensiva e i bombardamenti e la Casa Bianca annulla le sanzioni che aveva minacciato di imporre lunedì 14 ottobre. Traduzione: i turchi accettano di non combattere se i curdi consegnano esattamente quello per cui i turchi stanno combattendo e devono farlo nell'arco di centoventi ore. Difficile definirlo un accordo.
   Per ottenere questo risultato giovedì si sono mossi il numero due dell'Amministrazione Trump, il vicepresidente Mike Pence, e il numero tre, il segretario di stato Mike Pompeo, che sono volati ad Ankara per trattare in modo diretto con Erdogan - che in questi giorni non ha mai dato alcun segno di tentennamento, sia dopo la lettera personale mandata da Trump il nove ottobre sia dopo la minaccia delle sanzioni.
   Trump ha celebrato l'accordo: "Sono lieto di annunciarvi un successo tremendo per quel che riguarda la Turchia - ha detto ai giornalisti - è un risultato incredibile. Questo è un risultato che, a dispetto di come la stampa tenterà di sminuirlo, abbiamo cercato di raggiungere per dieci anni".
   I curdi hanno aderito alla tregua - sono la parte perdente, ogni sospensione dei combattimenti è la benvenuta. Ma il comandante Mazloum Abdi ha detto che le sue forze si ritireranno soltanto dal segmento di confine tra le città frontaliere di Ras al Ayan e Tal Abyad, quindi dai cento chilometri tra i due punti d'ingresso da cui le truppe turche sono entrate nella Siria del nord. Degli altri trecento e più chilometri di confine ancora in mano ai curdi a est e a ovest di quel tratto non dice nulla, forse perché a questo punto non è più titolato a parlare come se prendesse decisioni autonome. Ora si coordina con il regime di Damasco, che vuol dire coordinarsi con la Russia di Vladimir Putin, E guarda caso il lasso di tempo concesso dai turchi finirà proprio il giorno in cui Erdogan andrà a incontrare Putin. In breve: la Turchia ha sospeso la guerra per cinque giorni, ha allontanato il rischio di sanzioni americane e adesso si aspetta il faccia a faccia fra il presidente turco e quello russo per definire le questioni che sono ancora in sospeso. Erdogan ha già fatto sapere che se il regime siriano ripulisse le cittadine importanti della zona, come Kobane, Manbij e Qamishlo, dalla presenza dei combattenti curdi per lui andrebbe bene. Alla fine il risultato sarebbe lo stesso: la Turchia avrebbe creato una zona-cuscinetto in cui riversare molti profughi siriani che oggi vivacchiano in territorio turco e lungo il resto del confine ci sarebbe l'esercito di Assad a spezzare la continuità fra curdi della Turchia e curdi della Siria. Se anche fosse vero come dice Trump che l'America inseguiva questo accordo da dieci anni - ma non è vero - è chiaro che le decisioni finali, quelle che contano, non saranno prese a Washington.
   Se i curdi accettassero di abbandonare la safe zone indicata dalla Turchia perderebbero il territorio in cui sono maggioranza e diventerebbero di fatto dei rifugiati a pochi chilometri dai posti che chiamavano casa. Più a sud, vicino Deir Ezzor, c'è un altro problema: gli arabi che in questi anni avevano vissuto sotto il controllo delle Forze siriane democratiche dopo aver vissuto per un periodo sotto lo Stato islamico adesso non vogliono tornare sotto il regime e protestano. Il trauma politico-militare cominciato con la rivoluzione nel 2011 crea aree di malcontento che potrebbero trascinarsi avanti per decenni.
   Il sito della rivista americana Atlantic ieri aveva una domanda interessante: se gli sfidanti democratici in questi giorni dicono che Trump ha tradito i curdi, allora come definirebbero il ritiro americano dall'Afghanistan (che è quasi in arrivo, non manca molto) - che li vede tutti d'accordo? Non è anche quello un voler consegnare gli alleati locali di molti anni nella campagna antiterrorismo a un nemico spietato come i talebani? Non ci sono risposte ufficiali per ora. E ieri lo Stato islamico ha fatto un attentato da sessanta morti in una moschea afghana.

(Il Foglio, 19 ottobre 2019)


Siria. «Trump salva la faccia, il grande vincitore è Putin. Erdogan lo sconfitto»

«L'accordo sul cessate il fuoco è merito della Russia. Erdogan sognava di diventare il nuovo sultano del Medio Oriente e resta con una zona cuscinetto. Assad presto prenderà Idlib e controllerà il suo paese come nel 2011, ma dopo 400 mila morti». Intervista a Gian Micalessin

di Leone Grotti

 
Turchia e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco in Siria, «ma il vero vincitore di questa partita è solo uno: Vladimir Putin». Giovedì sera, dopo una visita del vicepresidente americano Mike Pence ad Ankara, è stata annunciata una tregua di 120 ore, durante le quali le forze curde dovranno ritirarsi dal Nord-est della Siria per permettere alle truppe di Recep Tayyip Erdogan di creare una zona cuscinetto di 30 chilometri. Come spiega a tempi.it l'inviato del Giornale ed esperto di Siria Gian Micalessin, «Erdogan vince una piccola battaglia, ma ha perso la guerra. Donald Trump salva in extremis l'immagine degli Stati Uniti, comunque indebolita dal tradimento dell'alleato curdo. Tutti si piegano all'iniziativa di Putin, con la Siria che sta per riguadagnare la sua integrità territoriale e tornare al punto di partenza dopo una inutile guerra durata otto anni al prezzo di 400 mila morti».

- Il cessate il fuoco è uno sviluppo positivo dopo l'inizio dell'offensiva turca "Fonte di pace"?
  È un accordo di seconda mano: gli americani hanno lucrato sull'intesa già sostanzialmente raggiunta da Putin con Erdogan. Gli americani ne hanno approfittato salvando in parte l'immagine degli Usa.

- Come si è mossa la Russia?
  Inviando l'esercito siriano al confine e facendo retrocedere i curdi nelle seconde linee, aveva già di fatto costretto Erdogan a bloccare l'invasione.

- Trump si è mosso in modo avventato in queste settimane?
  Il presidente americano ha agito in base alla sua politica interna, senza pensare a quella estera. Aveva promesso nel 2016 il ritiro delle truppe americane da guerre che il suo elettorato considera inutili e in un momento in cui è sotto tiro per la richiesta di impeachment ha voluto mostrare ai suoi elettori che sa mantenere gli impegni. Trump ritiene infatti che i conflitti si devono risolvere non con le armi, ma con l'economia attraverso ostruzionismo e sanzioni. Certo, dal punto di vista della politica internazionale non ha migliorato l'immagine degli Usa.

- Che era già compromessa da anni.
  Assolutamente, è dalla guerra in Iraq del 2003 che gli Stati Uniti godono di una pessima immagine. Ora però, dopo il tradimento dell'alleato curdo, ne esce ancora più indebolita.

- Erdogan ha ottenuto quello che voleva.
  Lo scrivono in tanti, ma non è così. Prima di tutto ha subito l'iniziativa di Putin. In secondo luogo la vera guerra di Erdogan era cominciata nel 2011, quando si era illuso di poter imporre un neo ottomanesimo diventando il nuovo sultano mediorientale. Dopo aver fomentato la guerra in Siria, la Turchia si ritrova a otto anni di distanza con 3,6 milioni di profughi sul suo territorio. L'Occidente l'aveva convinto a prenderli assicurandogli che il regime siriano di Bashar al-Assad sarebbe caduto, ma così non è stato. Ora riceve il contentino della zona cuscinetto, che lo aiuta a salvare la faccia davanti ai suoi elettori in quanto impedisce la nascita di uno Stato autonomo curdo al confine, ma il suo progetto originario è fallito.

- Perché Putin è il grande vincitore?
  Perché è riuscito a impedire la caduta di Assad e ora, forse già nell'incontro che avrà a fine ottobre con Erdogan, obbligherà la Turchia a ritirare il suo sostegno ai ribelli e jihadisti di Idlib, l'ultima provincia rimasta fuori dal controllo di Assad. In cambio, acconsentirà al rientro dei profughi in Siria. Con la conquista di Idlib, Assad riguadagnerà l'integrità territoriale del paese.

- Che cosa significa quest'ultimo accordo per il futuro della Siria?
  Significa moltissimo. Assad si riprende quei territori che dal 2014 sono finiti prima nelle mani dell'Isis e poi dei curdi. Resta solo da riconquistare Idlib, ancora controllata dai terroristi, ma si tratta ormai di un dettaglio. Quando sarà ripresa, il conflitto del 2011 si potrà dire concluso.

- A che cosa è servita questa guerra interminabile?
  A niente, perché la Siria tornerà al punto di partenza. Come nel 2011, i curdi godranno di sostanziale autonomia nel Nord-est. L'unica differenza è che nel frattempo sono morte 400 mila persone per colpa di chi ha voluto innescare questa guerra nella speranza di abbattere il dittatore Assad, che rimane ancora l'unico in grado di garantire l'unità del paese.

- I siriani sembrano contenti della partenza degli Stati Uniti.
  Nessuna popolazione vuole sul proprio territorio una potenza straniera. Per i siriani sarebbe ancora meglio se se ne andassero anche russi, turchi e iraniani, ma la presenza americana era vista come la più illegittima. Solo i curdi li volevano, ma perché garantivano loro protezione.

(Tempi, 19 ottobre 2019)


Pompeo in Israele: insieme contro l'Iran

Dopo l'incontro con Erdogan in Turchia, nuova tappa del viaggio di Mike Pompeo ieri in Israele. «Con Netanyahu abbiamo avuto un incontro produttivo sugli sforzi per contrastare la maligna influenza del regime iraniano così come sugli sviluppi regionali ed altri temi legati alla sicurezza di Israele» ha scritto su Twitter il segretario di stato Usa al termine della riunione a Gerusalemme con il premier israeliano. In una breve dichiarazione ai giornalisti, Pompeo, prima di partire per Bruxelles dove ha incontrato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, ha esaltato le relazioni tra Usa e Israele che sono «le più forti di sempre». Alla riunione hanno partecipato il capo del Mossad Yossi Cohen, quello della sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat.

(Il Messaggero, 19 ottobre 2019)


La richiesta di Israele al Pentagono

di Davide Bartoccini

La base di Al Tanf
Israele si è appellato agli Stati Uniti affinché il Pentagono decida di mantenere una base militare nel sud-est della Siria. Le ragioni per le quali Tel-Aviv ha chiesto all'alleato di mantenere un avamposto nel Paese al centro di una nuova crisi internazionale sono di carattere strategico e geopolitico, e tirano in ballo l'Iran. Attualmente gli Stati Uniti, in seguito alla decisione del commander in chief Donald Trump, hanno abbandonato tutte le posizioni in territorio siriano, ripiegando in Iraq e Giordania. Ma c'è una base che potrebbe essere l'ultimo avamposto americano nel Paese dopo l'abbandono della basi di Manbij e il passaggio di consegne ai russi.
   La base in cui l'intelligence israeliana vorrebbe continuare a vedere sventolare la bandiera a stelle e strisce è quella di Al Tanf, avamposto militare stabilito nel 2016 e da allora controllato dalle forze armate statunitensi. Ultimo avamposto almeno fino allo scoppio del nuovo "conflitto siriano", quello che vede scontrarsi da una parte la Turchia e l'Esercito siriano libero, e dall'altra le forze curde delle Unità di Protezione Popolare (Ypg) supportate (o monitorate) dall'esercito siriano fedele al governo di Bashar al Assad.
   La base di Al Tanf si trova al centro di un'area di grande importanza strategica dove si intersecano i confini di Siria, Giordania e Iraq. Proprio per questo motivo, i media arabi hanno iniziato a riferirsi alla zona di "docnfliction" sotto il controllo della base come "Area 55 km". Al Tanf è di fatto la base che accoglie e ha sempre accolto forze speciali Usa e un gruppo noto come "Commando Rivoluzionario" dell'Esercito siriano: una formazione militare anti-Assad che è stata addestrata dalla Cia in Giordania per combattere l'Isis.
   Secondo i vertici militari di Israele, la presenza militare americana stabile ad Al Tanf è di fondamentale importanza a causa della sua posizione strategica al confine tra Siria e Iraq; posizione che la rende un ostacolo alla "creazione di un corridoio terrestre da parte dell'Iran". Tale corridoio, secondo l'intelligence israeliana, è un grave pericolo per lo Stato ebraico e per gli asset strategici della regione, poiché potrebbe permettere all'Iran di trasportare armi, combattenti e rifornimenti da consegnare alle milizie sciite che Teheran finanzia e controlla in Iraq, Siria e Libano. Con il Paese dei cedri che, trovandosi lì il direttorio di Hezbollah,fungerebbe da quartiere generale per il collegamento per tutte le diverse fazioni nemiche di Israele quanto degli Stati Uniti attive in Medio Oriente.
   Secondo quanto riportato dal canale televisivo Kan, nonostante la decisione presa dagli Stati Uniti di ritirare le loro truppe dalla Siria, la Casa Bianca avrebbe promesso a Israele che gli interessi dello Stato ebraico non sarebbero stati "trascurati". Di conseguenza gli Stati Uniti potrebbero aver tenuto in seria considerazione l'opzione di mantenere la propria presenza nella base di Al Tanf. Garantendo così la chiusura del "corridoio" sciita che Israele teme possa portare armi e uomini ai suoi confini. Secondo le ultime informazioni in possesso sulla base, sarebbero stati 200 i militari americani dislocati nell'area sui mille rimasti in Siria. Fonti del New York Times citate nel contesto del più vasto ritiro delle truppe americane dal nord della Siria, avevano riferito che il Pentagono stesse pianificando di "lasciare 150 unità delle forze speciali in una base" nel sud-est della Siria. Una base chiamata appunto Al Tanf.

(il Giornale, 19 ottobre 2019)


Perché Israele ha interrotto i raid contro le basi iraniane in Siria?

Per mesi gli israeliani non hanno dato tregua agli iraniani e ad Hezbollah. Poi improvvisamente più nulla. Lo zampino di Putin.

di Sarah G. Frankl

Non possiamo più esimerci dal constatare che siamo di fronte a un profondo cambiamento degli assetti mediorientali con i quali, volenti o nolenti, tutti dovranno fare i conti.
  Parlare di "nuovo Medio Oriente di Putin" non è esagerato dopo che gli americani, prima con Obama e ora con Trump, hanno lasciato campo libero ai russi.
    È indicativo come le basi in Siria lasciate libere dagli americani siano state prontamente occupate dai russi è che Mosca è praticamente impegnata a mediare in ogni diatriba esistente in Medio Oriente mentre gli americani lasciano volentieri a Mosca questo ingrato e difficile compito.
Putin non è alleato di tutti, ma va d'accordo praticamente con tutte le potenze regionali, anche quelle apertamente nemiche tra di loro. Questo lo rende il negoziatore perfetto e allo stesso tempo l'ago della bilancia.
Il problema è capire fino a che punto l'ago della bilancia di Putin sia equo.

 Un problema in più per Israele
  La riacquistata leadership regionale di Mosca non è proprio una buona notizia per Israele, anche se ieri il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in visita in Israele ha cercato di rassicurare (con poca convinzione) Gerusalemme sul fatto che gli USA non abbandoneranno lo Stato Ebraico come hanno fatto con i curdi.

 Niente raid da settimane
  La repentina interruzione degli attacchi israeliani su obiettivi iraniani in Siria e in Iraq può voler dire che Putin ha messo un fermo alle azioni israeliane, anzi, quasi certamente è così.
  Se questo fosse vero, Israele si troverebbe di fronte ad un scelta non proprio semplice da fare: sfidare apertamente i russi, oppure permettere agli iraniani di posizionarsi strategicamente in Siria (e in Iraq) da dove potranno minacciare lo Stato Ebraico.
  Fino ad oggi questa scelta non si è potuta fare, prima di tutto perché la situazione politica in Israele non è ancora stata chiarita e queste scelte hanno bisogno di un Governo nel pieno dei suoi poteri.
  In secondo luogo, il quasi certo stop russo ai raid israeliani è stato fortemente rafforzato dalle scelte di Washington. Israele non può colpire obiettivi in Siria (e in Iraq) contro il volere russo se alle spalle non ha il pieno sostegno politico e militare degli Stati Uniti. E in questo momento non sembra avercelo.
Ksenia Svetlova, membro senior del IPS Institute, l'Istituto israeliano per le politiche estere regionali, in una intervista con il Times of Israel si è detta molto preoccupata.
  Anche lei si è detta convinta che lo stop ai raid israeliani (dopo decine e decine di azioni quasi settimanali) sia dovuto ad un out-out arrivato da Mosca.
  «I russi coprono le coste libanesi e siriane con gli S-300 il che vuol dire che nel momento in cui pensassero che non sarebbe intelligente per loro permettere i raid aerei israeliani li bloccherebbero immediatamente» ha affermato Ksenia Svetlova. «E probabilmente è quello che è successo» ribadisce.
  Come detto, Putin è bravo nell'essere amico di tutti in Medio Oriente, ma le alleanze sono altra cosa. Gli alleati di Putin nella regione sono Siria e Iran. Non ci si faccia quindi ingannare dalle "buone relazioni".
  E se c'è una cosa che la Russia non fa, a differenza degli USA, è che non abbandona mai gli alleati.

(Rights Reporters, 19 ottobre 2019)


Siria, ovvero il disastro della politica estera Usa. Parla il gen. John Allen


Colloquio di Formiche.net con il generale John R. Allen, presidente di Brookings, già comandante della missione Nato Isaf e inviato degli Stati Uniti per la Coalizione globale contro l'Isis. Trump ha abdicato al ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Oggi in Siria vince l'Iran e soprattutto la Russia di Putin, che conquista il favore del mondo arabo. Erdogan? La Nato deve valutare l'espulsione della Turchia

di Emanuele Rossi

 
Il generale John Allen
"Migliaia di combattenti dell'Isis sono rimasti infiltrati in mezzo alla popolazione, ci sono attacchi suicidi ogni giorno". Assiste inerme al caos in cui è caduta di nuovo la Siria il generale John Allen, e non riesce a trattenere rabbia e delusione. Sono trascorsi cinque anni da quando l'allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama gli ha affidato una missione senza precedenti: sconfiggere l'Isis. Inviato del governo americano per la Coalizione globale contro lo Stato islamico, Allen ne ha presto preso le redini e l'ha allargata a 65 Stati.
  Un risultato che deve molto alla sua immagine e credibilità personale. Quarant'anni di servizio nei Marines, generale a quattro stelle, comandante del Commando centrale degli Stati Uniti, poi della missione Nato Isaf (International Security Assistance Force) e dei suoi 150mila uomini in Afghanistan, pochi militari in America possono vantare il suo curriculum. Oggi è presidente della Brookings Institution e tiene a precisare di essere un "generale in ritiro". Non riesce però a guardare con distacco il nuovo bagno di sangue che lambisce i confini di un Paese già martoriato da sei interminabili anni di guerra civile. Né sa e vuole giustificare il ritiro dell'esercito imposto dal giorno alla notte dal presidente Donald Trump che ha dato il via all'invasione turca e al nuovo, ennesimo patibolo del popolo curdo, fino a ieri fedele alleato degli americani.
  "Questo gesto rappresenta un'abdicazione della responsabilità americana nella regione" confida in un colloquio con Formiche.net. "Il tradimento dei curdi mi riporta alla memoria la fine della guerra in Vietnam, quando sconfitti abbandonammo i nostri alleati sud-vietnamiti nelle mani dei comunisti del Nord". Allora Allen si preparava a laurearsi all'Accademia navale degli Stati Uniti prima di entrare nei Marines. "Fu un'umiliazione, una macchia che ancora segna gli americani di quella generazione. L'abbandono dei curdi ci riporta agli stessi sentimenti che ci perseguitavano allora". Il generale sa di cosa parla. Ha conosciuto dal vivo i curdi, ha coordinato con loro la guerra ai tagliagole dell'Isis, racconta. "Quando ho iniziato la mia missione nel 2014, non avevamo opzioni nel Nord della Siria. L'Isis aveva conquistato tutto il confine, dal Governo regionale del Kurdistan a tutta la frontiera turca fino ad Afrin".
  Il primo incontro ravvicinato si consumò a Kobane, roccaforte curda al confine Nord. "L'Isis voleva sconfiggere e soggiogare la popolazione della città. Gli Stati Uniti e le forze della Coalizione con la loro potenza di fuoco hanno coperto le spalle ai difensori di Kobane e inflitto all'Isis la sua prima grande sconfitta in Siria. Da quella battaglia, dove le forze speciali americane hanno combattuto fianco a fianco ai curdi, abbiamo imparato che questo popolo è davvero un degno alleato". Fu l'inizio di un lungo sodalizio, dice Allen. Perché da allora i curdi siriani dello Ypd e il loro braccio militare, lo Ypg, assunsero la guida di una grande coalizione composta da arabi, siriaci, assiri, turkmeni: le Sirian Democratic Forces (Sdf). "Le nostre forze speciali hanno lavorato molto da vicino con questa compagine e la sconfitta dell'Isis ne è il risultato. In questa battaglia circa 11mila fra i curdi e i loro alleati siriani sono stati uccisi e 12mila combattenti dell'Isis catturati. I curdi erano nostri alleati, abbiamo sanguinato al loro fianco liberando le loro terre".
  Anche oggi i curdi sanguinano, ma lo fanno soli. "Un fallimento totale per Trump" chiosa cupo il generale. Il bilancio è impietoso, soprattutto per gli effetti di medio-lungo periodo che il diktat della Casa Bianca avrà sulla politica estera americana e gli equilibri mediorientali. "La decisione di portare via le truppe statunitensi dalla Siria e al tempo stesso di sanzionare leader e aziende legate al governo di Ankara ha spinto i turchi nelle braccia dei russi, ha definitivamente consolidato il controllo di Damasco sul Paese e avallato il passaggio alla fase finale della guerra civile di Assad".
  Chiediamo al generale chi esce vincitore dal dramma consumato nel Nord della Siria. Ci fa subito due nomi: Iran e Russia. "La mossa di Trump ha aperto le porte della Siria agli iraniani creando un importante corridoio di supporto per Hezbollah in Libano. Così facendo ha peraltro vanificato l'opposizione americana alle forze iraniane presenti al confine siriano con Israele". Quanto a Mosca, non si fatica a capire perché si appresti a incassare un'enorme vittoria diplomatica. Dice Allen: "Il risultato finale è che le nazioni mediorientali saranno molto più ben disposte nei confronti di Putin che di Trump. Questa settimana, mentre gli Stati Uniti impiegavano forze per difendere l'Arabia Saudita, Putin veniva accolto dal re e dal principe. Il giorno dopo era negli Emirati Arabi a incontrare la loro leadership. Tutti gli Stati arabi della regione stanno osservando con grande preoccupazione l'ascesa della Russia dal momento che Mosca è stata un alleato dichiarato dell'Iran in Siria". Perfino Pechino brinda al ritiro americano, spiega il numero uno di Brookings. "I cinesi stanno approfittando del momento per aumentare la loro presenza politica ed economica nella regione".
  Al conto salatissimo che la Siria è pronta a consegnare a Washington si aggiunge una mancia non trascurabile. L'invasione turca e l'aggressione dei curdi hanno inevitabilmente alleggerito la pressione su ciò che resta dei guerriglieri di Daesh. E hanno iniziato a spezzare le catene che li tengono rinchiusi a migliaia nelle carceri curde. Ain Issa, Hasakah, Navkur, Qamishlo, di giorno in giorno si allunga la lista dei campi di prigionia da cui i miliziani e i loro familiari riescono a fuggire per darsi alla macchia. Per Allen è un mesto spettacolo. "Le Sdf e le forze della Coalizione hanno sconfitto alcune fra le più importanti unità tattiche dell'Isis nel Nord Est della Siria - dice. Checché ne dica Trump, l'Isis "non è morto". "Con la capacità di combattimento delle Sdf depotenziata o neutralizzata dai turchi è probabile che assisteremo presto a un suo parziale ritorno".
  Una rinascita che porta la firma di Recepp Tayyip Erdogan e del governo turco. Che ora dovranno rispondere delle loro azioni, tuona Allen. Il veterano dei Marines ha dedicato un'intera carriera militare al suo Paese, ma è anche stato uno dei più rispettati generali della Nato negli ultimi dieci anni. Sa che l'aggressione siriana non può lasciare indifferente l'Alleanza, di cui la Turchia è parte integrante. La marcia armata sulle terre dei curdi è solo l'ultima di una lunga serie di provocazioni che impongono agli alleati una riflessione urgente.
  "La Turchia acquista sistemi altamente sofisticati da russi e cinesi, ha consiglieri di entrambi i Paesi fra le sue forze armate, la Nato dovrebbe seriamente preoccuparsi della sicurezza delle sue informazioni e della sua interoperabilità". Non si può chinare il capo di fronte ad Erdogan, sentenzia Allen. "La sola minaccia di trasportare 3,6 milioni di rifugiati in Europa è una ragione sufficiente ad avviare a Bruxelles un dialogo sull'espulsione della Turchia. Se continuerà a comportarsi come uno Stato ostile la Nato dovrà decidere se sia il caso di tenerla con sé".

(formiche, 19 ottobre 2019)



Sionismo cristiano

 
                        L'ufficiale britannico Orde Wingate
«Considero un privilegio sostenerti nella tua battaglia. A questo scopo voglio consacrare la mia vita. Credo che la stessa esistenza dell'umanità sia giustificata soltanto quando si basa sul fondamento morale della Bibbia. Si dovrà combattere contro chiunque oserà alzare la mano contro di te e contro la tua impresa.»
(da una sua lettera scritta a un amico ebreo)
La teologia del sionismo cristiano, che ha le sue radici nel protestantesimo pietista del sedicesimo secolo e nel movimento puritano inglese del diciassettesimo secolo, è potentemente cresciuta negli ultimi decenni. Oggi molte migliaia di cristiani, provenienti da diverse aree ecclesiastiche e denominazioni, sono pronti a dichiarare e mostrare il loro amore e il loro sostegno al popolo ebreo.

 Cristiani e sionismo
  L'avventura del ritorno degli Ebrei dall'esilio nella loro vecchia patria Eretz Israel è una delle più avvincenti storie del secolo scorso. La lotta e la vittoria del movimento sionista fondato cento anni fa da Theodor Herzl, non ha uguali nella storia dell'umanità: circa duemila anni di peregrinazioni e sofferenze degli Ebrei hanno condotto alla rinascita di Israele.
  Una delle chiavi principali che permettono l'accesso al pensiero di Herzl e ne spiegano il successo è l'influenza dei suoi amici cristiani. Nel periodo in cui Herzl discuteva su dove si potesse trovare  un luogo di rifugio per gli Ebrei che fuggivano  dai pogrom che avvenivano in Russia e nell'Europa dell'Est, il pastore William E. Blackstone gli mandò un'edizione dell'Antico Testamento in cui erano segnati tutti i passi profetici che riguardano il ritorno degli Ebrei nella terra d'Israele. E  William Hechler, cappellano e precettore della casa regnante tedesca, favorì l'incontro di Herzl con il Kaiser Guglielmo II, facendo sì che la questione del sionismo diventasse uno dei principali temi della discussione geopolitica europea.
  L'influenza di queste figure cristiane è la riprova di un fatto innegabile: le origini del movimento sionista sono molto più antiche di Herzl: sono radicate nella Bibbia e nella milleniale speranza del ritorno degli Ebrei nella terra d'Israele, così come hanno promesso i profeti biblici. E in effetti molto spesso sono stati proprio dei cristiani che, credendo fermamente nelle promesse profetiche, si sono rivelati come i più forti sostenitori del ritorno degli Ebrei in Sion.
  A seguito della Riforma e della sua accentuazione dell'autorità della  Scrittura, diversi movimenti protestanti che fuggivano davanti alle persecuzioni religiose, si identificarono con le sofferenze del popolo ebreo ed edificarono le loro comunità sul modello del patto di Dio con gli Ebrei. Furono soprattutto i Puritani che, quando lessero le promesse dei profeti biblici sulla riunificazione del disperso Israele, mostrarono grande interesse al pensiero di riportare gli Ebrei nella loro terra.

 I movimenti di risveglio hanno annunciato la ricostituzione di Israele
  Durante i potenti risvegli che percorsero l'Inghilterra e l'America nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo, i predicatori cristiani annunciavano che la riunione degli Ebrei in Israele sarebbe stato un segno anticipatore degli ultimi giorni e dell'imminente ritorno del Messia.
 Eminenti personalità ecclesiastiche e politiche come Lord Palmerston e Lord Shaftesbury dichiararono che soprattutto l'Inghilterra era stata prescelta da Dio per favorire l'insediamento degli Ebrei in Medio Oriente. Nel 1891, sei anni prima del primo Congresso Sionista, Blackstone presentò una petizione al Presidente americano Benjamin Harrison in cui si chiedeva di riportare gli Ebrei in Israele. Tra i firmatari c'erano il cardinal Gibbons, John Rockefeller, J.P. Morgan e più di 400 preminenti americani.

 La Dichiarazione di Balfour del 1917
 Questi sforzi portarono i frutti al momento opportuno. I "fautori del ritorno" influenzarono la politica e le decisioni della Gran Bretagna quando il governo di David Lloyd George emise la Dichiarazione di Balfour, in cui si auspicava la fondazione di un "focolare nazionale per il popolo ebreo in Palestina". Dopo che per decenni dei cristiani avevano caldeggiato il ritorno degli Ebrei in Terra Santa, il pensiero prevalente tra i partecipanti occidentali alla Conferenza di pace di Versailles, era quello di favorire senz'altro i diritti nazionali degli Ebrei e il loro collegamento con la terra dei loro padri, affidando alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina.

 Cristiani in lotta a fianco degli Ebrei
  Anche nella stessa terra di Israele ci furono cristiani decisi a sostenere la questione del sionismo. Il colonnello Henry Patterson comandò dapprima il corpo dei "muli di Sion" e poi la legione ebraica che nel 1917 combatté con l'esercito britannico per cacciare i Turchi dalla Palestina. Così facendo contribuì al raggiungimento di un obbiettivo caro a molti sionisti (tra cui il giovane Ze'ev Jabotinsky, che militò sotto Patterson): la formazione di una forza militare ebraica e la rinascita dell'antico spirito combattivo. Il generale di divisione Orde Wingate, un ufficiale britannico del servizio segreto operante nel territorio mandatario della Palestina, rischiò la sua carriera militare addestrando in segreto degli speciali "squadroni della notte" (il Palmach) per compiere incursioni contro gli squadroni d'assalto arabi e impedire così di fare attacchi contro lo Yishuv (comunità ebraica). Ispirandosi a figure bibliche come Davide e Gedeone, Wingate contribuì a formare il nucleo delle dottrine militari israeliane: intimidazione e autonoma iniziativa.
   La storia del ritorno degli ebrei nella terra d'Israele è piena di esempi di cristiani che, avvertendo il significato profetico del ritorno degli esuli ebrei e della rinascita d'Israele, giocarono un ruolo significativo nella crescita del sogno sionistico. Persuadendo persone politiche che occupavano posizioni chiave, esercitarono influsso su avvenimenti politici di importanza storica, salvarono Ebrei dallo sterminio e favorirono la sicurezza e la prosperità del moderno Stato d'Israele.
 
(da "International Christian Embassy Jerusalem", 2002 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


 


Erdogan cede agli Usa: è tregua

Intesa con Pence e Pompeo: 5 giorni di "cessate il fuoco". I curdi andranno a 20 chilometri dal confine

di Paolo Mastrolilli

WASHINGTON - Una tregua di 120 ore, per consentire alle milizie curde dell'Ypg di ritirarsi venti chilometri a sud del confine tra la Turchia e la Siria. Se questa operazione verrà completata, e quindi Ankara potrà costituire il cuscinetto di protezione a cui puntava, il cessate il fuoco diventerà permanente. È il risultato ottenuto dal vice presidente americano Pence, con la missione condotta ieri insieme al segretario di Stato Pompeo per negoziare con il presidente Erdogan.
Solo mercoledì, durante la conferenza stampa tenuta con il collega italiano Mattarella, Trump aveva quasi scaricato i curdi, dicendo che un'organizzazione come il Pkk è come o peggio dell'Isis: «Lasciamo che Turchia e Siria combattano la loro guerra, io voglio riportare a casa i soldati americani». Le reazioni negative arrivate dal Congresso, dove anche i repubblicani hanno votato a favore di una mozione critica presentata alla Camera, lo hanno però spinto ad un atteggiamento più attivo per risolvere la crisi. All'inizio della settimana aveva imposto sanzioni alla Turchia, e poi aveva spedito una lettera ad Erdogan in cui lo esortava a «non fare il duro, non fare il matto». Quindi ieri ha inviato ad Ankara una delegazione guidata da Pence e Pompeo. All'inizio il leader turco aveva avvertito che si sarebbe rifiutato di incontrarli, perché intendeva proseguire l'offensiva contro le milizie curde che avevano aiutato Washington a sconfiggere l'Isis, accusate di essere un gruppo terroristico. Poi però Erdogan ha cambiato idea, e ha accettato la mediazione americana.
   In base all'accordo raggiunto, Ankara fermerà per 120 ore la sua offensiva, e quindi il massacro dei curdi, per consentire ai militanti dell'Ypg di ritirarsi venti chilometri a sud. In cambio, Trump toglierà le sanzioni annunciate all'inizio della settimana, e rinuncerà ad imporne altre. Se i curdi completeranno davvero il ripiegamento, consentendo così alla Turchia di creare il cuscinetto di sicurezza in territorio siriano, la tregua diventerà permanente, nonostante le presumibili obiezioni di Damasco.
   Il capo della Casa Bianca è stato costretto ad agire per due motivi. Primo, il rischio di lasciar scoppiare una guerra regionale che avrebbe favorito Russia e Iran, costringendo gli Usa ad intervenire. Secondo, la dure critiche dei parlamentari repubblicani, e di alcuni leader religiosi evangelici, che hanno la chiave dei voti necessari a Trump per la rielezione. La defezione dei repubblicani era minacciosa soprattutto per l'inchiesta sull'impeachment, che ieri ha accelerato.
   Il capo di gabinetto della Casa Bianca, Mulvaney, ha infatti ammesso che gli aiuti militari all'Ucraina erano stati congelati anche per spingere Kiev a indagare sulla presunta presenza nel suo territorio del server usato da Hillary per le mail private. Sempre ieri l'ambasciatore Usa presso la Ue, Sondland, ha voltato le spalle al presidente, accusandolo di aver delegato al suo avvocato Giuliani la politica verso l'ex repubblica sovietica. In queste condizioni Trump ha bisogno dei senatori del Gop per proteggersi dall'impeachment, e quindi deve placarli sulla Turchia e i curdi.
   
(La Stampa, 18 ottobre 2019)


Siria: l'accordo tra USA e Turchia? L'ennesima fregatura per i curdi

Ma di quale accordo si sta parlando? Trump si fa bello con i creduloni mondiali, evita di applicare sanzioni alla Turchia e vende definitivamente i curdi al califfo Erdogan.

di Haamid B. al-Mu'tasim

L'accordo di cessate il fuoco tra USA e Turchia raggiunto ieri dal vice-Presidente americano, Mike Pence, e il dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, è l'ennesima fregatura per i curdi.
Annunciato dal Presidente Trump come «un grande giorno per la civiltà» in realtà è un cedimento a 360 gradi alla prepotenza turca.
L'accordo prevede cinque giorni di tregua dai combattimenti, per altro già violato questa mattina dalle milizie islamiche al soldo di Erdogan.
In questi cinque giorni i curdi dovrebbe ritirarsi dalle loro posizioni lasciando campo libero ai turchi (più precisamente alle milizie islamiche) che così raggiungerebbero il loro obiettivo di costituire una "fascia di sicurezza" di 30 Km all'interno dei confini siriani.
In pratica non è un accordo, è una resa bella e buona alle prepotenze del sultano turco. Trump, come Ponzio Pilato, vuole lavarsene le mani definitivamente e dopo aver tradito i curdi per una prima volta li tradisce di nuovo con questo "capolavoro" diplomatico.

 Cosa prevede realmente l'accordo?
  In sostanza l'accordo raggiunto da Pence ed Erdogan prevede che i curdi si ritirino da quella che è stata definita una zona sicura che entra per circa 32 chilometri in Siria e si estende per circa 125 chilometri (78 miglia) dalla parte centrale del confine tra i due paesi.
In cambio Trump non applicherà le sanzioni contro la Turchia annunciate appena ieri.
È la più grossa fregatura di tutti i tempi. Ma di quale accordo si sta parlando? Trump si fa bello con i creduloni mondiali, evita di applicare sanzioni alla Turchia e vende definitivamente i curdi al califfo Erdogan. Ma come si fa a parlare di "accordo"?
«I combattenti curdi saranno costretti a rinunciare alle loro armi pesanti e le loro posizioni saranno distrutte», ha detto il Ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, che almeno ha l'onestà morale di non chiamare questo schifo "un accordo".
E adesso, quando naturalmente i curdi non si ritireranno dalle loro posizioni, sia Erdogan che Trump potranno dire che sono stati proprio i combattenti curdi a non rispettare il "cessate il fuoco".
Infine c'è un altro punto che riguarda le milizie islamiche usate da Erdogan nell'offensiva. Di fatto non riconoscono questo "accordo" e già questa mattina hanno attaccato diversi avamposti curdi.
Ha proprio ragione Trump, è un grande giorno per la civiltà.

(Rights Reporters, 18 ottobre 2019)


Le (pessime) scelte di Trump rendono ancora più necessaria la deterrenza israeliana

Nella spietata realtà mediorientale, gli attacchi aerei israeliani su obiettivi militari in Siria e Iraq contribuiscono a prevenire una guerra aperta e devastante.

Le recenti decisioni sul Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump mettono sotto una nuova luce gli attacchi aerei compiuti dagli israeliani in Siria e (verosimilmente) in Iraq. In precedenza, questi attacchi aerei sembravano esclusivamente mirati a impedire all'Iran di creare nei due paesi infrastrutture militari tali da poter minacciare Israele. Ora si capisce che servivano anche a mandare un importante messaggio dissuasivo a Teheran: se l'Iran attaccherà Israele, Israele non esiterà a contrattaccare.
L'idea più diffusa era che quegli attacchi aerei, benché necessari per la difesa di Israele, rappresentassero tuttavia un rischio concreto di escalation. E questa, ovviamente, rimane una possibilità. Ma alla luce delle ultime mosse di Trump, potrebbero in realtà rendere la guerra meno probabile dal momento che fanno sapere a Teheran che Gerusalemme - a differenza, tanto del dire, dell'Arabia Saudita - non resterebbe con le mani in mano se subisse un significativo attacco iraniano come quello sferrato il mese scorso sulle strutture petrolifere saudite. La consapevolezza che Israele ha sia la capacità che la determinazione per reagire duramente potrebbe dissuadere l'Iran dal lanciare un tale attacco, malgrado ora sappia che non rischierebbe una risposta americana....

(israele.net, 18 ottobre 2019)


Israele, il ritiro Usa e la lezione dei curdi. "Possiamo contare solo su noi stessi"

di Daniel Reichel

Dopo aver raggiunto l'intesa con il presidente turco Recep Erdogan per una tregua di cinque giorni nel nord della Siria, il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo si è recato a Gerusalemme per un incontro con il Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Israele, come raccontano diversi analisti, guarda con preoccupazione agli scenari aperti dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di ritirare le truppe americane dal paese governato dal dittatore Assad. Il primo effetto immediato di questa scelta è stata l'invasione turca del nord della Siria ai danni dei curdi. Un'azione condannata fermamente da Netanyahu così come da diverse voci ebraiche internazionali (dalle manifestazioni in Israele all'appello all'Italia della Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni) che hanno espresso solidarietà al popolo curdo. A Israele si è rivolto un politico curdo di Kamishlié - città a nord della Siria, al confine con la Turchia - per chiedere aiuto: intervistato dalla radio dell'esercito Galei Zahal, l'uomo ha chiesto l'aiuto dello Stato ebraico affinché agisca nell'arena diplomatica per salvare il popolo curdo". Mentre Israele può fornire assistenza umanitaria ai curdi e anche esercitare pressioni diplomatiche, afferma Yossi Kuperwasser, ex ufficiale dell'intelligence dell'esercito, l'intervento militare è fuori questione. "Se i problemi non saranno risolti, l'intero Medio Oriente ne risentirà negativamente - le parole invece del politico curdo - Come risultato dell'offensiva turca, i terroristi [dello Stato islamico] sono fuggiti dalle prigioni. Se raggiungono i paesi della regione, si trasformeranno in bombe a orologeria". Dal punto di vista israeliano non è l'Isis a preoccupare ma il venir meno dell'effetto deterrente della presenza americana in Siria per gli appetiti dei nemici d'Israele. "Trump abbandona gli alleati senza batter ciglio e Israele rischia di essere il prossimo", il titolo di un articolo di Yedioth Ahronoth di questa settimana (e citato dal Wall Street Journal per criticare Trump). "In questa storia bisogna fare un distinguo: Israele è in una situazione totalmente diversa dai curdi. Noi siamo in grado di difenderci da soli e garantire la nostra sicurezza, non abbiamo bisogno dell'aiuto di nessuno - spiega a Pagine Ebraiche Yoram Schweitzer, esperto israeliano di terrorismo internazionale e già consulente dell'ufficio del Primo ministro d'Israele in materia di sicurezza - In più il fatto che Trump abbia deciso di lasciare la Siria non dovrebbe sorprendere. Ha annunciato da tempo le sue intenzioni e l'effetto principale del ritiro americano, tra l'altro sconsigliato a Trump dai suoi stessi consulenti, è la perdita di influenza a livello globale degli Stati Uniti; la loro capacità di deterrenza si sta riducendo e paesi come Russia, Cina, Arabia Saudita ne approfittano". Il problema, aggiunge Schweitzer, che in Siria ne hanno approfittato anche i nemici diretti di Israele: "anche se gli americani avevano pochi soldati sul terreno nella Siria settentrionale, averli fatti partire è un brutto segno per noi. Permette infatti all'Iran di continuare nel suo piano di costruirsi un corridoio di influenza che passa dall'Iraq e arriva al Mediterraneo". Il ritiro americano per il momento non ha toccato tutta la Siria, afferma l'analista militare di Haaretz Amos Harel che spiega: "Israele non ha né il desiderio né la capacità di intervenire a favore dei curdi, nonostante le manifestazioni di solidarietà a Gerusalemme. Dal punto di vista di Israele, le implicazioni pratiche dell'abbandono da parte degli Stati Uniti dei curdi sono trascurabili. La questione critica per Gerusalemme è la continua presenza di truppe americane nella base di Al-Tanf (confine tra siro-iracheno), che ha un certo impatto sul corridoio via terra che collega l'Iran e l'Iraq alla Siria e al Libano. Finora, i rapporti indicano che le truppe rimarranno. L'evacuazione di quella base preoccuperebbe molto Israele".
  Nel paese intanto si sta registrando un certo cambiamento di giudizio rispetto a Trump, la cui imprevedibilità in politica estera comincia ad incrinare il grande apprezzamento dimostrato nei suoi confronti in passato dalla maggioranza degli israeliani. Se è vero che già sotto il presidente Barack Obama la Casa Bianca aveva diminuito la sua presenza in Medio Oriente, "speravamo di vedere un cambiamento con Trump. - ha dichiarato un ufficiale israeliano al giornalista Ben Caspit - È molto sconcertante perché gli americani hanno deciso che non vogliono più sorvegliare il mondo prima che il mondo stesso decidesse che può fare a meno di una forza di polizia internazionale". Per Schweitzer le mosse di Trump sono un ulteriore dimostrazione che Israele deve contare in primo luogo su se stessa. "Il nostro è un paese che anche quando dorme tiene un occhio aperto. Siamo sempre sull'attenti e per questo siamo in grado di difenderci", afferma l'esperto, secondo cui le azioni americane non hanno comunque accelerato un possibile conflitto con i nemici iraniani e i loro alleati Hezbollah, che rimane un pericolo attuale. "Continueremo a colpire come abbiamo fatto in passato i terroristi di Hezbollah per minimizzare le loro capacità balistiche", aggiunge l'esperto, che auspica che Israele nel frattempo si dia un governo. "Mi pare che la soluzione del governo di unità nazionale tanto discussa sia l'unica soluzione e sarebbe importante anche per garantire maggiore sicurezza ai confini". Ai politici e diplomatici israeliani si rivolge anche l'opinionista Uri Heitner dalle pagine di Yedioth Ahronoth chiedendo a Gerusalemme di aiutare i curdi e sollevare la questione dell'invasione turca "alle Nazioni Unite e a tutte le altre istituzioni internazionali - e procedere verso sanzioni contro la Turchia. Gli ambasciatori israeliani in tutto il mondo dovrebbero inviare un messaggio ai paesi ospitanti invitandoli a condannare la Turchia. Israele dovrebbe chiedere un'azione diretta, come la rottura dei legami diplomatici con la Turchia. Inoltre, Israele è più che in grado, come paese umanitario, di fornire tutto l'aiuto possibile ai curdi". Per Heitner, così come per Schweitzer, inoltre "la lezione che Israele dovrebbe trarre dalla situazione dei curdi è che non può fidarsi di nessuno se non di se stessa e non dovrebbe assolutamente scendere a compromessi su nessuna questione legata alla sua sicurezza".

(moked, 18 ottobre 2019)


"Gioirete davanti al Signore sette giorni"

di Rav Umberto Piperno

 
Il popolo ebraico nel percorso del primo mese dell'anno attraversa tre momenti fondamentali di incontro: a Capodanno celebriamo la Creazione divina dell'universo. Nel giorno del Kippur, dell'Espiazione, o meglio della cancellazione delle colpe, l'ebreo recupera la dimensione interiore della coscienza riconciliandosi con se stesso, con la comunità e con il mondo.
A Succot, la festa delle Capanne, fissata dal Levitico cinque giorni dopo il Kippur, si esce dalla propria casa, o meglio, dal proprio ego, per gioire all'ombra della divina presenza in una fragile capanna.
Se a Capodanno ascoltiamo il suono dello Shofar con la nostra coscienza e la nostra mente, se a Kippur digiuniamo per elevare al Signore i nostri sentimenti di riconciliazione, arriviamo a Succot pronti a gioire ed eseguire il precetto della capanna con tutto il nostro corpo, consumando quattordici pasti all'ombra della protezione divina.
Appena finito il digiuno passiamo da un precetto all'altro per costruire la capanna, legando così la gioia del Perdono a quella della libertà dal bisogno.
Nel ciclo agricolo l'autunno è la festa del raccolto, motivo della gioia del nostro risultato, ma anche pericolosa occasione per insuperbirsi e rinchiudersi nel proprio ambito dimenticando la collettività.
Vediamo insieme i particolari di una capanna che rappresenta nei suoi dettagli l'Arca santa, per trasmettere all'uomo la sensazione che possiamo servirci della Natura solo per stabilire un equilibrio tra Sole ed ombra. Il tetto deve essere costruito esclusivamente con vegetali staccati dal terreno per dimostrare la sua temporaneità.
Inoltre il tetto deve essere abbastanza folto da realizzare un'ombra maggiore della parte assolata, ma nello stesso tempo occorre che lasci vedere le stelle.
L'uomo spesso rischia una sovraesposizione mediatica che gli fa dimenticare la capacità di cercare se stesso: l'ombra invece rappresenta un momento di ripiegamento, di riflessione, dal quale poi ripartire per alzare gli occhi al Cielo, cercare le stelle che indicano in alto la strada da seguire.
"Abiterete nelle capanne sette giorni perché ho fatto abitare nelle capanne i figli di Israele quando gli ho fatti uscire dalla terra d'Egitto".
I Maestri affermano che la festa delle Capanne e' stata fissata in autunno e non in primavera in prossimità della Pasqua per ricordarci che non costruiamo la capanna per godere l'ombra delle sue frasche per il nostro piacere, ma al contrario delle abitudini degli altri popoli, la costruiamo in autunno dimostrando la volontà di eseguire un precetto divino.
La capanna è un simbolo di sicurezza nella protezione divina, paradossalmente proprio attraverso la sua fragilità.
Il libro biblico dell'Ecclesiaste accompagna la festa di Sukkot per ricordare come ogni elemento della natura umana sia temporaneo e destinato a lasciar posto ad altri con il volgere dei tempi.
Nello stesso modo l'Ecclesiaste conclude positivamente la riflessione pessimistica offrendo una via di uscita nell'adesione al precetto
L'ospitalità è un sentimento ed un valore talmente radicato nel popolo ebraico da immaginare di avere ospiti fissi, uno per ciascuno giorno di festa da Abramo a David. Il ruolo di queste sette guide fedeli corrisponde ciascuno a qualità umane e sfere mistiche alle quali ispirare il comportamento individuale e collettivo .
A Succot non solo il passato è il protagonista della festa, ma il simbolismo della capanna deve sollecitare l'uomo, e non solo l'ebreo, a volgere il pensiero, anzi ad identificarsi completamente per sette giorni con chi vive tutto l'anno senza la stabilita' di una casa o di un lavoro.
In questi giorni difficili per l'Europa, offrire una riflessione, anzi una testimonianza di sapersi confrontare sul tema dell'accoglienza e dell'ospitalità costituisce un prezioso spunto di confronto e di dialogo. La dimensione universale viene evidenziata dal numero delle offerte corrispondente ai settanta popoli della terra per chiedere l'abbondanza derivata dalle piogge.
I temi recenti dell'Expo con molteplici proposte per nutrire il pianeta sembrano essere riassunte nella liturgia ebraica che benedice il Signore che fa soffiare il vento e fa scendere la pioggia come segno della Sua speciale benedizione per il genere umano e per la Terra di Israele.
Un altro precetto specifico di Succot è quello del Lulav: "prenderete per voi rami di palma, un frutto di bell'aspetto, rami di mirto e di salice".
Leggendo l'Hallel, i Salmi di lode, con in mano questo mazzo di vegetali, chiediamo al Signore di ascoltare le nostre suppliche ed inviare le giuste piogge per far crescere piante e frutta.
Ancora il ciclo della natura con il numero sette come i sette elementi del Lulav necessita di un intervento dell'uomo per elevarlo al sovrannaturale.
Ogni punto cardinale viene benedetto dal movimento dell'uomo che intende abbracciare la realtà attraverso il precetto, sacralizzando lo spazio con un gesto umano per volgere a sé la volontà divina.
Con la festa di Succot incontriamo nello stesso tempo Natura e collettività per proiettarci con l'unità del genere umano verso i giorni nei quali sapremo convivere in unica capanna nella quale sviluppare il benessere materiale nella gioia di un anno pieno di benedizioni.

(UGEI, 18 ottobre 2019)


Vademecum per fare una Aliah facile e veloce

A colloquio con Esti Cohen, nuova responsabile in Italia dell'Agenzia Ebraica.

di Giorgia Calò

Andare a vivere in Israele è una decisione comune tra gli ebrei di tutto il mondo, soprattutto per i giovani che decidono di frequentare lì l'università o cercare lavoro, e per le famiglie che vedono in quella terra un'opportunità di vita migliore. La procedura per l'Alyah, sebbene sia molto dettagliata e precisa, richiede poco tempo e si focalizza sull'offrire ogni forma di aiuto e confort alle persone che vogliono intraprendere questo percorso. Ad occuparsi delle richieste e delle pratiche delle Alyot è l'Agenzia Ebraica; la sua responsabile in Italia, Esti Cohen racconta per Shalom il suo lavoro con le persone che vogliono trasferirsi in Israele: "La Prima cosa che si deve fare quando qualcuno decide di fare l'Aliyah è aprire la pratica online", ci spiega. Come funziona? "Si deve chiamare il numero verde del Global Center, il centro telefonico dell'Agenzia Ebraica israeliana a Gerusalemme. Agli Olim (persone che intraprendono il percorso dell'Aliah) viene poi chiesto di compilare il modulo online e di spedirlo via email; si tratta di una sorta di questionario che riguarda i dati personali, il livello dell'ebraismo, lo stato di salute e eventuali precedenti penali. Successivamente si devono mandare via email al Global Center i documenti necessari per l'Aliyah". Quali sono ? "Certificato di nascita; Certificato di matrimonio per chi è sposato; Certificato di appartenenza alla religione ebraica firmato dal Rabbino Capo della Comunità Ebraica di cui si fa parte. Quando l'Ole manda tutti questi documenti, ricevo il suo file dal Global Center e lo chiamo per fissare un appuntamento all'ufficio dell'agenzia Ebraica, per fare una intervista relativa alla sua Aliyah. Solitamente l'intervista dura un'ora; i candidati devono portare tutti i documenti originali che hanno mandato al Global Center, e anche pagare per l'apertura della pratica.
  Durante il colloquio con la persona che ha presentato la domanda per l'Aliah, quali sono le domande più frequenti: "Generalmente si chiede della composizione della famiglia, delle ragioni e dei motivi per cui si vuole andare a vivere in Israele, del luogo dove di pensa di voler andare ad abitare, se ha già una casa, ecc". E per i giovani esistono progetti specifici? "Certamente. Esistono programmi come Ha Klita (Ministero dell'Immigrazione e l'Aliyah) che dura 5 mesi e include l'Ulpan (corso della lingua ebraica) l'alloggio e i pasti Kosher. Consiglio sempre ai giovani che fanno l'aliyah senza la famiglia di entrare con uno di questi programmi, perché è un modo più semplice per iniziare la nuova vita con altri Olim che stanno nella loro stessa situazione, così possono aiutarsi con il lavoro, trovare un appartamento in comune, affrontare insieme le inevitabili difficoltà.
  E dopo l'intervista che succede? "Mando la richiesta in Israele e aspetto la conferma dal governo. Solitamente la pratica è molto veloce. Se hanno tutti i documenti necessari bastano tre giorni: gli Olim devono capire che il tempo dell'Aliyah dipende da loro, perché se hanno tutti i documenti, se sanno già la data prevista per la partenza (ci sono tanti che non sono sicuri della data), se hanno anche un posto in cui andare appena arrivati, l'autorizzazione a partire arriva in pochissimo tempo. Una volta ricevuta la conferma della loro richiesta dal Governo, prepariamo loro il visto B2 che è valido per 6 mesi, per dargli il tempo di fare la carta d'identità al Ministero dell'Interno in Israele. Quando gli Olim ricevono il visto, devono mandarmene una fotocopia e io procedo alla prenotazione del biglietto aereo per Israele, anche il biglietto è gratis per gli Olim, così come il visto. È solo a questo punto che il mio lavoro con gli Olim finisce, perché dal momento in cui arrivano all'aeroporto in Israele passano sotto la responsabilità del Ministero dell'Immigrazione (Misrad Ha Klita), che provvede ad inserirli nei corsi di Ulpan e fornisce loro denaro per i primi sei mesi in Israele dopo l'Aliah."

(Shalom, 18 ottobre 2019)


Gli ostacoli al sogno imperialista del Sultano. I mugugni dell'Iran sciita, il ritorno degli Usa

Teheran non ama l'invasione sunnita, Trump è pronto a riaprire il dossier.

di Fiamma Nirenstein

Dire curdi è diventato improvvisamente per la stampa occidentale un grido in favore dei diritti umani e della autodeterminazione, ed è giusto che sia così: l'assalto che stanno subendo è micidiale e può diventare genocida, e tanto più spaventoso è che sia perpetrato dai turchi, che si sono già macchiati del genocidio degli armeni, e che essi siano guidati da un leader che si ritiene un onnipotente sultano. E fa davvero specie che l'Europa scopra solo ora chi è veramente. Ma davvero non si sapeva che Erdogan - da sedici anni al potere - è dominato da un vizioso sogno integralista islamico e imperialista, che più volte ha dato prova di prepotenza inaudita? Il suo odio per i curdi, il suo identificarli tutti col Pkk è uno dei segni della pericolosa indole dell'uomo che non ha esitato, e di nuovo non esiterà, a minacciare l'Europa ad aprire verso di lei i suoi confini e invaderla di profughi a milioni.
   I curdi sono una popolazione divisa, disillusa e a volte persino in lotta interna, ma sono anche una popolazione perseguitata, coraggiosa, speciale rispetto alla capacità di ambire all'eguaglianza fra i sessi e di praticarla per quel che possono; sono a favore della democrazia, di un rapporto positivo con l'Occidente e con Israele, che in questi giorni in contrasto con Trump manifesta nelle piazze in loro favore. Anche Netanyahu ha detto parole di sostegno.
   Quello che sta accadendo sui media assegna a Erdogan un'onnipotenza che non ha, e una lungimiranza che gli manca. Erdogan ha imboccato una strada piena di imprevisti. I media in larghissimo coro sostengono che il ritiro di Trump segna un radicale cambiamento strategico della struttura del potere e dell'influenza americana nella zona, che chi ne guadagna sono innanzitutto la Russia, Assad e l'Iran. Ma bisogna ricordare che il potere alawita si è sempre appoggiato alla Russia per dominare il Paese, questo duo non è niente di nuovo. E che i turchi con Assad abbiano un rapporto di continuo scontro-riavvicinamento è altrettanto noto: per ora invece il fatto che Assad abbia stretto un rapporto coi curdi significa che i russi tendono allo status quo, senza smarginamenti turchi. Quanto all'Iran, si fa vivo per segnalare che non gli piace l'eccesso di presenza sunnita nel nordest della Siria, e questo contrasta con la foto diffusa del summit Erdogan, Rouhani, Putin a metà settembre ad Ankara. Il trio non funziona più in questo momento, e la Russia farà l' equilibrista fra il maggiore potere sunnita e quello sciita che parevano momentaneamente acquietati.
   Inoltre gli Usa da sempre, e non con Trump, (vedi Obama con la Libia, con l'Irak, l'Afghanistan, col famoso tradimento della «linea rossa» di Assad) se ne sono andati dal Medio Oriente un sacco di volte. Ma poi ci sono tornati: Carter con gli ostaggi nell'ambasciata iraniana, Reagan con l'esplosione delle baracche e la strage di militari per mano degli Hezbollah a Beirut, Bush dopo l'11 settembre. Adesso i bravi corrispondenti dal campo scrivono che una massa di milizie arabe armate dai turchi si occupa delle atrocità sulla popolazione curda al grido di Allah u akhbar, contro i kafir, gli infedeli. Questo scatenamento di integralismo islamico può avere grandi ripercussioni che certamente non lascerebbero nessuno indifferente, nemmeno Trump. E anche se Israele non può permettersi di muovere truppe armate, il fatto che stia dalla parte dei curdi significherà certo qualcosa. Non è il fatto che gli Usa non vogliano più stare su quel confine che ha cambiato le cose, è l'urlo di guerra dell'integralismo islamico che agita il Medio Oriente. Forse Erdogan con orgoglio sunnita e regale manca di una visione completa di quello che ha scatenato. L'Iran certo non ama questa invasione sunnita. E neppure gli alawiti. La Russia è in mezzo. L'America è lontana, ma vigile. E l'Europa, solito assente.

(il Giornale, 17 ottobre 2019)


Possiamo dire che Netanyahu ha sbagliato qualcosa?

I veri amici sono quelli che quando sbagli te lo dicono. Israele ? bloccato. E domani arriva Pompeo per "rassicurare" Netanyahu.

di Maurizia De Groot Vos

Sono stata da sempre una fervente sostenitrice di Benjamin Netanyahu, non per ragioni meramente ideologiche o politiche, ma perché convinta che la sua politica, salvo rari casi, fosse la migliore per Israele.
Oggi purtroppo mi trovo a criticare Netanyahu e lo faccio veramente con il cuore in mano, consapevole delle sua buona fede e del fatto che se errori ci sono stati nella sua politica, potrebbero non dipendere da lui quanto piuttosto dal repentino cambiamento della geopolitica mediorientale.

 Cosa si contesta a Netanyahu?
  La prima cosa che mi viene in mente, il primo errore, è senza dubbio la troppa fiducia riposta nel presidente americano, Donald Trump, una fiducia che nasce da quel primo atto con il quale "The Donald" trasferì l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
  In quel caso Trump mantenne una promessa fatta durante le elezioni andando veramente contro tutto il mondo. Quell'atto, quella sfida verso tutti e tutto, proiettò il Presidente americano in cima alle simpatie di quasi tutti gli israeliani. Come non dare fiducia ad un uomo che mantiene le proprie promesse?
  Peccato che a quell'atto così "rivoluzionario" non seguì una vera politica pro-israeliana, intesa come "volta a garantire la sicurezza di Israele sui molti fronti dove lo Stato Ebraico è impegnato o minacciato".
  Intendiamoci, gli Stati Uniti non hanno mai fatto mancare il loro supporto a Israele in tutti i contesti internazionali dove lo Stato Ebraico si è trovato sotto attacco, come all'ONU o al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Hanno condotto una politica fortemente anti-palestinese il che ha ridotto tutta l'annosa questione del conflitto arabo-israeliano ai minimi termini.
  Tuttavia in altri contesti ben più importanti (e pericolosi) come quello iraniano e siriano, sono stati decisamente poco lungimiranti, almeno per quanto riguarda gli interessi israeliani.
  Non che gli Stati Uniti debbano fare per forza gli interessi di Israele, ma vista l'importanza della posta in gioco, era auspicabile che Washington si muovesse in tutt'altro modo rispetto a come si è mossa.
  Di fatto hanno lasciato il controllo del Medio Oriente ai russi, prima non reagendo agli attacchi iraniani contro l'altro alleato di ferro degli USA in Medio Oriente, l'Arabia Saudita, poi ritirandosi dalla Siria abbandonando così un altro forte alleato, quei curdi siriani che avevano sconfitto ISIS.
  Così facendo hanno lasciato a Mosca il ruolo di potenza regionale, di ago della bilancia su qualsiasi controversia regionale.
  Questo atteggiamento ha avuto e avrà notevoli conseguenze sulla politica israeliana, in primo luogo perché la Russia di Putin, per quanto non ostile a Israele, è comunque il miglior alleato dell'Iran.
  Se oggi gli iraniani sono a pochi Km dal confine israeliano è perché Mosca glielo ha permesso a dispetto delle promesse fatte da Putin a Netanyahu.
  Se l'Iran ha potuto costruire il famigerato "corridoio sciita", insinuarsi pesantemente negli interessi iracheni, siriani e libanesi, lo ha potuto fare solo perché Mosca glielo ha permesso e gli americani si sono praticamente ritirati da quei teatri.
  Netanyahu, che aveva puntato tutto sull'alleanza con gli Stati Uniti e sui "buoni rapporti" con Putin si è accorto all'improvviso che nulla di questo è servito a fermare il posizionamento iraniano intorno a Israele.
  Non è un caso che i raid preventivi israeliani contro obiettivi iraniani in Siria, in Libano e in Iraq si siano fermati all'improvviso. Putin ha tirato il freno (perché alleato dell'Iran) e gli americani sono praticamente fuori dalla regione.
  E non depongono certamente a favore della scelta di Netanyahu di fidarsi completamente di Trump le recenti discutibili decisione della Casa Bianca di rimanere immobile di fronte all'attacco iraniano contro le infrastrutture petrolifere saudite e l'abbandono dei curdi siriani. Un alleato serio sarebbe intervenuto nel caso saudita e non avrebbe abbandonato i curdi.
  All'improvviso Israele si trova da solo, o almeno si sente solo, di fronte alla gravissima minaccia iraniana. Questo, lo dobbiamo purtroppo ammettere, è dovuto unicamente alla scelta di Netanyahu di fidarsi ciecamente dell'uomo di Washington.
  Voglio sperare che in caso di attacco iraniano a Israele, anche se per mezzo di proxy regionali, gli Stati Uniti non rimarranno con le mani in mano. Ma visti i recenti sviluppi, ho poca fiducia che ciò avvenga. E temo che anche Netanyahu lo pensi, che abbia questo timore.
  Di sicuro i suoi avversari politici gli stanno rinfacciando di "aver perso la scommessa", di aver sbagliato i conti affidandosi completamente agli Stati Uniti e ai buoni rapporti con la Russia. E non hanno tutti i torti, anche se in tutta onestà nessuno poteva prevedere gli ultimi sviluppi dovuti alle incomprensibili decisioni del Presidente americano.
  Domani arriva in Israele il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che incontrerà il Premier Benjamin Netanyahu per discutere sui recenti sviluppi in Siria e per "rassicurare" l'alleato israeliano.
  Non sappiamo quali rassicurazioni darà Pompeo a Netanyahu. Quello che sappiamo è che Israele è bloccato, che i raid preventivi sono fermi e che nel mentre gli iraniani continuano la loro manovra a tenaglia contro lo Stato Ebraico. Questa è la dura realtà ed è la conseguenza di un grave errore di valutazione di Netanyahu. Piange il cuore dirlo, ma gli amici veri sono quelli che quando sbagli hanno il coraggio di criticarti, non quelli che ti danno sempre ragione a prescindere.

(Rights Reporters, 17 ottobre 2019)


Bologna - Sinagoga, più sicurezza. E telecamere in via Finzi

Il progetto della Comunità ebraica prevede anche un posto di guardia Traffico limitato ai soli residenti. Il Comune: «Pronti a fare la nostra parte».

di Luca Orsi

 
La sinagoga di Bologna
Un progetto per migliorare e rendere più efficace la sicurezza della sinagoga. Lo ha proposto - al comitato per l'ordine pubblico che si è tenuto ieri in Prefettura - Daniele De Paz, architetto e presidente della Comunità ebraica.
   Il piano, di cui si discute già dall'anno scorso, diventa ancora più urgente alla luce del recente assalto alla sinagoga tedesca di Halle durante lo Yom Kippur, la ricorrenza religiosa che celebra il giorno dell'espiazione. Fatto che ha già causato, anche sotto le Due Torri, un giro di vite sulla sorveglianza di tutti gli obiettivi sensibili.
   Il progetto, spiega De Paz, «ha l'obiettivo di rendere più efficace il servizio di vigilanza e di razionalizzare le risorse impiegate». Oggi, sulla sinagoga e la sede della Comunità ebraica vegliano quattro militari, con due camionette: una in via de' Gombruti, l'altra nella parallela via Finzi. L'idea, afferma De Paz, è «realizzare due postazioni fisse, collegate fra loro anche con un passaggio interno ai nostri edifici».
   Una specie di piccolo corpo di guardia blindato, agli ingressi di via Finzi e via de' Gombruti, dove prenderà posto un solo militare. In questo modo, precisa il presidente della Comunità ebraica, «si dimezzano le forze in servizio e si eliminano le camionette». Altri interventi riguardano via Finzi. L'ipotesi sul tavolo - presto al vaglio degli uffici comunali preposti - è una sorta di semipedonalizzazione di una strada già oggi, di fatto, utilizzata soltanto da chi ci abita.
   L'accesso alla via potrebbe essere presto limitato ai residenti (più o meno come accade nella zona U, zona universitaria) installando una telecamera con controllo degli accessi. Di fronte alla sinagoga verrebbe poi realizzato un intervento sulla pavimentazione: grande dosso per costringere i veicoli a rallentare in prossimità dell'ingresso del tempio.
   Il progetto, che ora dovrà essere vagliato dalla Soprintendenza, «vuole essere realizzato in piena sintonia con le istituzioni che da tempo vigilano, con grande attenzione e scrupolo, sulla sicurezza della nostra comunità», commenta De Paz.
   Per quanto riguarda gli interventi su area pubblica, una volta avuto il nulla osta della Soprintendenza, «il Comune sarà pronto a fare la propria parte», assicura Alberto Aitini, assessore alla sicurezza di Palazzo d'Accursio.
   «Non sta a noi - afferma Aitini - decidere quali misure di sicurezza adottare da parte delle forze dell'ordine e dell'esercito. Chiediamo però che il livello di attenzione resti altissimo. E che alla sinagoga e alla sede della Comunità ebraica continui a essere garantito il massimo grado di sicurezza».

(il Resto del Carlino, 17 ottobre 2019)


Odio e pedopornografia nella chat dei ragazzini

Video inneggianti a Hitler o all'Isis e di bambini abusati. La base a Rivoli.

di Lodovico Poletto

TORINO - «Gli accendini e gli ebrei dove sono?» si domanda il primo ragazzino. E gli altri della chat ridono. Mandano meme. Bestemmie: «Gli ebrei sono combustibile». Uno skroll di schermate. C'è un video con due ragazzine che avranno sì e no dodici anni, che fanno sesso con un coetaneo. «E poi dicono che i preti non devono stuprare i bambini ... ». Risate.
   La chat dell'orrore era il regno degli adolescenti, con iscritti da tutta Italia: da Napoli a Torino. Aveva svastiche come icone. E un nome che fa rabbrividire: «The Shoah party». Ci entravi se ti presentavano e ti invitavano con un link: «Clicca qui». Oppure passavi attraverso Instagram. E il regno dell'orrore spalancava la bocca. Stupri. Violenze. Una bestemmia ogni riga. Ogni due. Una risata. Un meme. Un commento assurdo, anzi molto peggio: «Io la mia prof la stuprerei. .. »,
   L'inchiesta della Procura della Repubblica di Siena ha spalancato un orrido che non ti aspetti. Un inferno di degrado umano senza fondo. Di violenza. Di inni a tutto ciò che è violenza, sangue e orrore. La Shoah è soltanto una delle tante cose malate che puoi trovare qui. I carabinieri del comando provinciale di Siena hanno messo le mani dentro questo pozzo di marciume il giorno in cui una mamma ha deciso di parlare. «Ho scoperto la chat per caso» racconta adesso. Ne ha discusso con altre mamme, sconvolta. L'hanno liquidata con un'alzata di spalle. Banalità. Lei è andata avanti ed è approdata dai carabinieri: «Mi creda è orribile». L'hanno sentita e poi hanno iniziato a indagare.
   Ingegneria sociale, si chiama il modo di hackerare senza violare il sistema, fingersi un altro per ottenere informazioni, accessi a siti, dati. Negli uffici del comando provinciale i ragazzi del comandante del reparto operativo si sono dati da fare. E il loro capo, il colonnello Michele Tamponi, gli ha dato carta bianca. Hanno letto tutto per tre mesi almeno. Hanno annotato numeri. Indagato sulle persone. Trecento utenti si stima siano entrati e usciti da «Shoah party». Quasi tutti ragazzini. Di Torino, per dire, erano 8. Tra loro c'è anche uno studente del Politecnico: ha 19 anni, è arrivato dalla Puglia per andare all'università. C'era anche un uomo di 44, ma era finito lì dentro per caso. La scheda sim da cui suo figlio chattava era intestata a lui. Lo hanno indagato. E lui adesso dice: «Forse avrei dovuto controllare meglio il telefono di mio figlio». Ma forse la chat era nascosta. WhatsApp ha segreti che se non conosci non puoi scoprire.
   I carabinieri sì, ci sono riusciti. Hanno trovato i video pedopornografici che fanno accapponare la pelle soltanto a dire che cosa mostravano. «Mi sento pedo oggi» scriveva qualcuno. E giù risate. Pollici alzati. Come se chi scriveva non avesse chiaro quali sono i limiti. Dove lo scherzo diventa reato. Dove il buongusto vien ucciso. E più ancora dai valori negati.
   C'era tutto lì dentro. L'Isis che taglia le teste. Le torri gemelle. «Vorrei ammazzare tutti». I bambini malati: «tutti quelli con il cancro». La leucemia come oggetto di scherno. Senza vergogna. O meglio ancora senza un barlume, seppur minimo, di umanità. C'è un bambino africano inginocchiato accanto a una pozzanghera colma di acqua fangosa da cui beve. Commento: «Minkia, il Nesquick».
   Ecco, quando i carabinieri hanno avuto chiaro tutto questo sono andati a bussare all'uscio dal comandante provinciale, Stefano Di Pace, con i faldoni di carte spessi così. E lui è andato dal procuratore Antonio Sangermano, alla procura dei minori. Ne hanno indagati 25: tutti gli altri che sono entrati lì dentro e, dopo aver visto, hanno abbandonato la chat - «Che cos'è questo schifo?» «Me ne vado». «Addio»-non li hanno tirati in ballo.
   Quel che è rimasto è il peggio. Gente che commentava. O condivideva. Che non denunciava. «Shoah party» - che ricorda casi molto simili in Inghilterra e Francia - è stato chiuso. Ora iniziano gli interrogatori. Negare sarà inutile: carabinieri e Procura sanno chi ha fatto cosa. E quando.

(La Stampa, 17 ottobre 2019)



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Il seme dell'odio germoglia nelle chat neonaziste

di Sofia Ventura

Proprio il 16 ottobre esce sul sito della Stampa di Torino una notizia sconvolgente. «Proprio il 16 ottobre» perché, anche se spesso dimenticata, quella è la data del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma, avvenuta nel 1943. 1024 persone, tra donne, bambini, uomini, strappate alle loro vite, condotte ad Auschwitz attraverso un viaggio terribile e lì per la maggior parte subito inviate alla morte. Solo 16 tornarono. Un evento della nostra storia che dovrebbe puntellare con forza la nostra memoria, ma troppo spesso ci accorgiamo che quella memoria, e soprattutto la consapevolezza di quel passato, sembrano perdersi in un tempo presente dove ogni follia trova spazio. Anche tra i giovani. Tra quei ragazzi - questo è il fatto al quale facevamo cenno nelle prime righe-, ad esempio, che da una chat raccapricciante, gestita da due quindicenni di Rivoli, presso Torino, intitolata «The Shoah Party» (sic!), diffondevano foto di estrema violenza e brutalità, si scambiavano video hot e frasi inneggianti all'Isis, a Hitler e Mussolini e commenti violenti contro ebrei e migranti.
   Una marmellata malefica, che ci dice degli abissi che può aprire l'ignoranza e la fragilità degli adolescenti e degli spazi che le nuove tecnologie possono offrire a tutto questo. A questo proposito non si tratta di demonizzare la tecnologia e le possibilità che essa offre. Ma è un fatto che la facilità di raccogliere qualunque materiale sul web e di scambiarselo, di costruirsi reti virtuali (spesso bolle virtuali), di attingere alle fonti più radicali ed estremiste è un fenomeno ben noto non solo agli studiosi, ma anche a chi lavora per prevenire atti violenti e terroristici, radicalizzazioni. Razzismo, antisemitismo di estrema destra, antisemitismo islamista, propaganda neonazista e propaganda a favore del terrorismo islamico, propaganda populista, spesso si incontrano in quelle bolle. Interagiscono perché il loro discorso si fonda su meccanismi retorici simili: le élite nemiche, il «diverso» nemico, gli stereotipi dell'immigrato e dell'ebreo come strumenti di diffusione dell'odio sempre efficaci, Israele come l'incarnazione del male, il complottismo, spesso tanto più creduto quanto più incredibile. Anche una distorta concezione dell'idea dell'eroismo, dove si perde completamente la capacità di distinguere il bene dal male.
   Psicologi e sociologi ci potrebbero spiegare come sia possibile che quei ragazzi, probabilmente ragazzi «normali», ora indagati in una inchiesta che sta coinvolgendo diverse regioni, abbiano potuto creare o lasciarsi coinvolgere in una situazione di così grave degenerazione. Tuttavia, dovremmo anche interrogarci su quanto la nostra società sia in grado di creare anticorpi per fenomeni del genere. Quanto vi sia sempre e prontamente una reazione ad espressioni pubbliche di stigmatizzazione del diverso, di razzismo e di antisemitismo. Da qualunque parte provengano, comunque siano espresse o «mascherate». Ma anche quanto come società, attraverso la scuola, le famiglie, i media, sappiamo insegnare la distinzione tra il bene e il male, la storia e il suo significato, la cronaca e il suo significato, perché anche la cronaca ci restituisce di continuo troppi orrori. Forse quei ragazzi hanno appreso della Shoah attraverso un videogioco. Nessuno gli ha mai regalato un libro di Primo Levi o di Elie Wiesel. O gli ha consigliato anche un banale Shindler's List da guardarsi nel suo pc. Quella terribile chat forse dice molto non solo di un mondo di adolescenti che sfugge agli adulti, ma anche di una società che non sa più raccontare e riconoscere il male.

(La Stampa, 17 ottobre 2019)


Nasrallah ha 'invaso' Tel Aviv

Gli israeliani ironizzano sulle minacce del leader di Hezbollah

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha 'invaso' la città di Tel Aviv. Non è per fortuna la cronaca di un attacco delle milizie filo iraniane di Hezbollah, ma è nuova accattivante e satirica campagna di riciclaggio che ha utilizzato il volto del nemico numero 1 di Israele. Un gigantesco poster con il faccione del leader militante libanese è apparso poche settimane fa sull'autostrada Ayalon di Tel Aviv, invitando gli israeliani a riciclare le bottiglie di plastica. Sopra la testa di Nasrallah si legge la didascalia: "Non riciclo le bottiglie". Sotto di lui, il poster dice: "Nasrallah è rimasto bloccato in un bunker per 12 anni. Qual è la tua scusa?".
Nel breve ed incisivo messaggio pubblicitario è infatti racchiusa la storia di questo controverso personaggio. Nasrallah è stato visto raramente in pubblico dopo la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele, vive nascosto per la paura di essere diventato un obiettivo dell'intelligence e dell'esercito israeliano. I suoi messaggi di odio e di fanatismo rarissimamente sono in diretta e il più delle volte sono trasmessi registrati dalla televisione di Hezbollah Al-Manar. [G. K.]

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Sayyed Hassan Nasrallah: da fruttivendolo a leader di Hezbollah

Una carriera costruita sull'odio per Israele e con le mani macchiate di sangue.

di Nicola Zecchini

“Ogni nuova guerra porterà Israele sull'orlo dell'estinzione" queste le parole rilasciate in una recente intervista televisiva dal Segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, al canale televisivo Al-Manar, affilato alla sua organizzazione. Nasrallah ha anche avvertito che il suo gruppo armato è in grado di attaccare tutta la superficie di Israele, fino ad Eilat, e ha poi concluso con la consueta apocalittica dichiarazione: "siamo in grado di far ritornare Israele all'età della pietra distruggendola, è alla portata dei nostri missili". Dichiarazioni non certo nuove da parte di Nasrallah i cui proclami promettono periodicamente di far scomparire Israele dalla faccia della Terra. Ma chi è l'uomo che siede al comando dei miliziani sciiti libanesi sin dal 1992?
   Hezbollah significa Partito di Dio e rappresenta il braccio armato di un movimento politico riconosciuto come terrorista da Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Paesi Bassi, Israele ma non ancora dall'Unione Europea. L'organizzazione nasce tra la rivoluzione sciita in Iran del 1979 e la guerra del Libano del 1982, quando un gruppo di sciiti forma il Partito di Dio con lo scopo di combattere Israele e di stabilire poi uno stato islamico. Si tratta di un vero e proprio gruppo armato, finanziato e coordinato dall'Iran - con l'aiuto della Siria - che offre supporto logistico durante la guerra. Lungo tutti gli anni 80 Hezbollah conduce numerosi attacchi ai danni di Israele e continua a combattere durante la guerra civile che scuote il Libano dal 1975 al 1990. In questo periodo, il Partito di Dio si macchia anche di numerosi attacchi terroristici, compresi rapimenti e autobombe ai danni delle forze di pace occidentali, inviate sotto l'egida dell'Onu, per cercare di riportare l'ordine nella regione.
   La storia di Nasrallah si perde e si intreccia con quella del Partito di Dio. Nato in uno sperduto villaggio del Sud del Libano, cinquantanove anni fa, figlio di un fruttivendolo di fede sciita, il giovane Nasrallah si arruola nel 1982 nelle milizie sciite accusate dei primi attentati kamikaze contro l'ambasciata statunitense, contro i marines e contro le truppe francesi che fanno parte del contingente di pace a Beirut. Diventato comandante sul campo di un reparto della guerriglia contro l'esercito di Israele, Nasrallah inizia la sua ascesa all'interno del movimento con l'incarico di ufficiale di collegamento di Hezbollah a Teheran. Ma il punto di svolta della carriera nell'organizzazione armata arriva nel 1992 dopo un blitz dei corpi speciali israeliani che con un missile teleguidato lanciato da un elicottero inceneriscono la macchina blindata sulla quale viaggia Sheik Abbas al Musawi, il predecessore e mentore di Nasrallah. È allora che viene designato alla guida del Partito riuscendo negli anni ad ottenere sempre più fondi dall'Iran e puntando sulla preparazione dei miliziani e il rafforzamento della loro dotazione. Dall'altra parte però Nasrallah diversifica la strategia e si concentra sull'aspetto politico della sua organizzazione: lo scopo è quello di legarsi maggiormente al tessuto sociale libanese guardando anche alle urne. Nascono ospedali, scuole e supermercati con beni di prima necessità a prezzo politico. Da Beirut al Libano meridionale si trova a ogni angolo di strada la foto di Nasrallah e la bandiera gialla con un pugno stilizzato che stringe il kalashnikov, simbolo del partito. Ovunque si trovano piccoli presidi dove giovani volontari raccolgono offerte per i martiri della guerra contro Israele o per le masse dei diseredati sciiti. "Siamo pronti per invadere la Galilea [. .. ] e stiamo studiando diversi scenari" ha detto Narsrallah nella stessa intervista di poche settimane fa alla sua rete televisiva. Azioni imminenti, dice, che saranno più sofisticate di quelle del 2006, in una guerra che non si è ancora chiusa.
   Nasrallah, scimmiottando il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha mostrato una mappa dello Stato ebraico con indicati alcuni obiettivi importanti che sarebbero già tra i target del gruppo. Rispondendo al capo dei miliziani sciiti libanesi il premier Netanyahu ha commentato non senza un filo d'ironia le sue parole "A differenza di Nasrallah - ha detto - non intendo dare dettagli sui nostri piani. Basti menzionare che per anni Nasrallah ha scavato tunnel che noi abbiamo distrutto in pochi giorni. Come si dice: non vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso".

(Shalom, No 9/10 set - ott 2019)


Da Sirte a Idlib

di Daniele Raineri

ROMA - A vedere l'appoggio trasversale per i curdi siriani, l'orrore generale provocato dall'offensiva turca, il titolo di ieri di Repubblica "Europa vergognati" contro le nazioni europee colpevoli di non essere abbastanza reattive contro la Turchia, viene da pensare che la salvezza viene dalla narrazione chiara. I curdi siriani si sono fatti capire. Hanno creato una connessione con il resto del mondo. E a volte per creare questa connessione basta una foto che è diventata un luogo comune, ma non fastidioso, come quella della donna curda in mimetica che imbraccia un fucile Kalashnikov. E per la prima volta da anni succede una cosa a cui siamo disabituati, ci sono manifestazioni per un tema di politica estera - un conflitto fra turchi e curdi che si combatte a migliaia di chilometri di distanza. Da quanto non succedeva?
   Viene da pensare a tutti quelli che non sono stati capaci di creare questa connessione. Le milizie della città di Misurata in Libia nel 2016 hanno sradicato lo Stato islamico da Sirte, in tandem con i soliti bombardieri americani. E' sufficiente dare un'occhiata alla cartina per vedere che la questione ci riguarda molto più da vicino. Hanno perso seicento uomini e c'è un numero triplo di feriti - e non sono sulla lista dei gruppi terroristici di nessun paese. In questo momento sono sotto attacco da parte del generale Khalifa Haftar e la guerra ha già fatto mille morti e rischia di creare un'ondata di problemi che arriverà dritta fino alla costa italiana, ma è come se non esistessero. Si sono persi in una narrazione troppo complicata da fare. Due governi libici, le milizie, il terrorismo. Finisce tutto in una storia complicata di arabi.
   Hanno combattuto lo Stato islamico, ma le loro donne non le vedi fiere e in divisa. Se chiedi in giro la narrazione si è per sempre fissata su: si stava meglio (noi) quando c'era Gheddafi.
   La salvezza sta nella narrazione semplice, così semplice che diventa irresistibile. I ribelli siriani hanno commesso molti errori stupidi, ma il più stupido di tutti è stato non capire questa cosa: se complichi troppo la situazione, sarai abbandonato. Da fuori non ti capiscono e non si interessano. Il termine dispregiativo Daesh per indicare lo Stato islamico l'hanno inventato loro nel 2013, quando presero le armi e cacciarono Daesh, appunto, da un territorio ampio centinaia di chilometri nel nord della Siria (un capitolo della guerra in Siria che nessuno ricorda, ma è successo). A parte questo è stato un disastro. Per anni si sono scissi e separati in formazioni sempre più irrilevanti, con annunci di cambi di nome che interessavano soltanto a loro, e di fatto hanno lasciato il dominio dei territori in cui vivono ad altri gruppi, diversi dallo Stato islamico ma islamisti e in alcuni casi altrettanto fanatici. Da una parte i curdi si sono dati il nome di Forze siriane democratiche e concedevano permessi ai giornalisti internazionali di visitare le loro zone. Dall'altra i ribelli siriani avevano nomi esotici in arabo e non riuscivano a garantire ai giornalisti protezione contro i rapimenti (e oggi in gran numero sono finiti a fare i "sepoy" della Turchia). Quando nel 2013 l'esercito siriano bombardò i civili alla periferia di Damasco con un agente nervino e uccise più di mille persone, Repubblica per i lettori italiani pubblicò un pezzo di Barbara Spinelli che asseriva che la strage non fosse un vero attacco chimico, ma una montatura (non lo era). Immaginarsi se oggi la Turchia usasse armi chimiche su una città curda: quanti controlli si farebbero nei media prima di scrivere che è una montatura dei curdi? Molti di più, senza dubbio.
   Il fatto è che pure i curdi, che ci stanno simpatici per istinto con le loro foto fiere e la loro narrazione chiara - ci siamo difesi da fanatici che ci volevano spazzare via e vi abbiamo fatto un grande favore perché poi gli stessi fanatici sarebbero venuti da voi, perché ci tradite così presto? - alla fine sono stati abbandonati. Non sarà un embargo debole sulle armi a interrompere il piano turco e infatti le Forze siriane democratiche hanno subito fatto un patto con i russi e con il regime siriano, che da molto tempo rifiutavano di firmare perché era troppo svantaggioso. Ma ormai sono stati lasciati da soli, non hanno più potere negoziale. Ecco, se pure i curdi finiscono gettati via così, figurarsi cosa succede a tutti gli altri, quelli che non hanno mai avuto speranza di ottenere l'apertura dei telegiornali e gli album a fumetti.

(Il Foglio, 16 ottobre 2019)


Il dentista curdo che vive a Bologna e l'invasione turca: «Presto andrò lì»

Issamadden, rifugiato politico da anni in città: «Per fortuna l'Italia ha sempre avuto grande interesse per la questione curda, al contrario dei governi»

di Andreina Baccaro

David Issamadden
Da quasi cinquant'anni vive in Italia, a Bologna si è laureato e in Bolognina ha uno studio di dentista. È stato direttore sanitario del Bologna calcio ed è presidente della comunità curda in Italia. A 67 anni David Issamadden, anche se giura di «sentirsi più italiano che curdo», non vede l'ora di tornare lì, nel Kurdistan ancora martoriato da un'invasione. «Appena sarà possibile cercherò di tornare laggiù, come ho sempre fatto nella mia vita, per portare aiuti umanitari e aiuto negli ospedali».

- Dottor Issamadden, da quanto tempo è andato via dal Kurdistan?
  «Sono originario di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno. Sono uscito legalmente nel 1972 e sono venuto in Italia per studiare Medicina. Ma poco dopo iniziò la persecuzione dei curdi da parte del governo di Baghdad, il regime di Saddam non ha mai rispettato i patti internazionali che riconoscevano la rivoluzione curda. Io avevo iniziato a fare politica qui a Bologna, le Nazioni Unite mi hanno riconosciuto lo status di rifugiato politico».

- Cos'è successo in quegli anni alla sua famiglia rimasta in Iraq?
  «Mio fratello è stato torturato perché io ero ricercato dal regime come dissidente e ogni volta che andavano a casa e trovavano lui lo imprigionavano, lo torturavano, ha avuto menomazioni gravissime, non è più riuscito a camminare bene, a lavorare, finché non è morto sette anni fa. Io spedivo lettere a casa scrivendo di non cercarmi, che non dovevano più considerarmi loro figlio, in modo che il regime li lasciasse in pace, ma non serviva. Sono tornato a Kirkuk negli anni '90, dopo vent'anni, ma nel frattempo i miei genitori erano morti».

- Oggi il suo popolo, in Siria, è di nuovo sotto attacco…
  «Siamo amareggiati, avviliti, abbiamo perso la fiducia nell'Europa. Quello che succede al popolo curdo non interessa da sempre a nessuno, ci usano quando serviamo. Siamo stati perseguitati da quattro Stati: dall'Iran, dalla Turchia, dalla Siria e dall'Iraq e la comunità internazionale non ci ha mai rispettato. Ho sentito le parole di Federica Mogherini (Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e la sicurezza, ndr), ha fatto riferimento a "quello che succede in Siria del Nord", non l'ha chiamata "invasione turca". L'unica preoccupazione dell'Europa sono i prigionieri di Isis, ma la sorte di migliaia di profughi curdi costretti a scappare dopo aver resistito allo Stato islamico non interessa a nessuno».

- In questi anni invece, che accoglienza ha ricevuto in Italia e a Bologna?
  «Per fortuna l'Italia ha sempre avuto grande interesse per la questione curda, al contrario dei governi. Ci sono stati anche politici singolarmente, come Massimo D'Alema. A Bologna da anni grazie all'associazione Bologna Kurdistan raccogliamo fondi per gli orfani della regione di Garmian, nel Kurdistan iracheno, dove negli anni '80 il regime di Saddam deportò e fece scomparire 182mila uomini, lasciando donne e orfani».

(Corriere di Bologna, 16 ottobre 2019)


Perché dovremmo veramente avere paura di Erdogan

Erdogan non è un pazzo. Ha un piano e un obiettivo ben preciso che persegue con meticolosa perseveranza.

di Franco Londei

In questi giorni in cui Erdogan ha dato seguito alle sue minacce di attaccare il Kurdistan siriano, si leggono tante cose sull'uomo che ha trasformato la Turchia da Stato laico a regime islamico.
  In molti lo giudicano un "pazzo islamico", altri "il nuovo Hitler", altri ancora un "criminale di guerra" e un "opportunista che ricatta l'Europa" con milioni di profughi.
  In realtà Erdogan è tutto fuorché un pazzoide nazi-islamico schizzato. Erdogan è molto più pericoloso di quanto si pensi perché ha un piano, ha un obiettivo ben preciso ed è fermamente intenzionato a perseguirlo.

 Capo della Fratellanza Musulmana
  Prima di tutto Erdogan è (per auto-proclamazione) il capo della Fratellanza Musulmana. Ma cosa è la Fratellanza Musulmana? Per dirla in due parole, la Fratellanza Musulmana è una organizzazione islamica sunnita che ha come obbiettivo principale l'instaurazione del califfato globale.
  Dalla ideologia della Fratellanza Musulmana sono nate Al Qaeda, Hamas, lo Stato Islamico e una infinità di gruppi terroristi islamici.
  Il loro motto è: "Allah è il nostro Obiettivo. Il Profeta è il nostro Leader. Il Corano è la nostra Legge. La Jihad è la nostra Via. Morire sulla via di Allah è la nostra più alta Speranza".
  La loro strategia, detta "strategia della gradualità", si basa su due punti fondamentali:
  1. graduale sviluppo della comunità islamica in occidente
  2. progressiva diffusione dell'Islam nella sfera politica occidentale
Vista così sembra innocua, quasi una linea di proselitismo pacifico, un po' come quella che proprio Erdogan sta facendo nei Balcani e in Africa.
Peccato che a quei due "innocui" punti di programma se aggiungano altri, dette fasi, che di pacifico non hanno nulla.
  • Fase 1: Da'wa (letteralmente significa chiamata all'Islam). Questa prima fase è caratterizzata dalla formazione dei musulmani. I Fratelli Musulmani locali cercano di creare gruppi di studio tra tutti i musulmani insegnando loro i principi dell'Islam e la presentazione di una immagine pacifica e positiva dell'Islam da trasmettere all'esterno. Questo primo stadio non è violento e si concentra sulla costruzione di moschee o luoghi di preghiera e di comunità.
  • Fase 2: Da'wa parte seconda. Attivo proselitismo con mezzi pacifici dei non musulmani. Questa fase è volta a convertire quanti più settori della società occidentale attraverso la diffusione di letteratura islamica, conferenze e attiva collaborazione con la "comunità ospitante". In questa fase è possibile usare anche una tattica offensiva e ingannevole denominata taqiyya che permette di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l'adesione a un gruppo religioso e di non praticare i riti obbligatori previsti dalla religione islamica per ingannare l'infedele.
  • Fase 3: Jihad. Uso della violenza, ove necessaria, per diffondere l'Islam. Questa fase esplicitamente l'uso della violenza che all'inizio deve essere solo di carattere difensivo, cioè volta a liberare territori musulmani dagli infedeli. In seguito può diventare offensiva, cioè volta a conquistare i territori degli infedeli. La Jihad può essere lanciata contro i non musulmani o contro Governi musulmani che sono considerati "takfir", cioè non rappresentativi del "vero Islam".
  • Fase 4: Khalipha, il Califfato. Questa ultima fase è la ri-creazione di un califfato islamico e la diffusione dell'Islam in tutto il mondo. Il califfato è governato da un Califfo, un sovrano che governa in conformità con la Sharia.
 La sottovalutazione di questi obiettivi
  Ora, in occidente si tende facilmente a sottovalutare gli obiettivi su cui si basa la Fratellanza Musulmana e, soprattutto, la volontà dei Fratelli Musulmani nel perseguire quegli obiettivi. Troppo spesso si tende a ritenere tali obiettivi "esagerati" quando non "fantasiosi". Chi mette in guardia su questi obiettivi molto spesso viene giudicato "allarmista" quando non "islamofobo".
  È un errore fatale. È lo stesso errore di sottovalutazione che si fece con lo Stato Islamico quando dichiarò di voler costituire un Califfato. Anche allora chi metteva in guardia sul pericolo venne giudicato "esagerato", quasi deriso.

 Erdogan
  Torniamo allora a Erdogan. Il 12 dicembre 2017 durante un vertice straordinario della Organizzazione per Cooperazione Islamica (OIC) organizzato dopo la decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, Erdogan propose la costituzione di un "esercito dell'Islam" che "ripulisse il Medio Oriente dalla presenza non islamica".
  In quella occasione, secondo il quotidiano turco Yeni Safak, vicinissimo al regime, Erdogan disse: «la Turchia sta attivamente perseguendo e rinnovando alleanze con i paesi musulmani in Medio Oriente e in Africa. Quelli che oggi credono di essere i proprietari di Gerusalemme (Israele n.d.r.) domani non troveranno nemmeno un albero dietro cui nascondersi».
  Ora occorre fare attenzione perché non è la dichiarazione di un venditore di Kebab di Istanbul, è la dichiarazione del Presidente della Turchia, capo del secondo più potente esercito della NATO e, soprattutto, capo della Fratellanza Musulmana.
  E dopo il Medio Oriente sarà la volta dell'Europa, perché il piano è quello. Oltre tutto Erdogan non fa nemmeno mistero di quello che vuol fare e del disprezzo che nutre verso gli europei. Occupa militarmente la metà di Cipro, un paese europeo di cui troppo spesso ci dimentichiamo. La sua marina militare impedisce alle società europee di fare prospezioni sui giacimenti di gas nel Mediterraneo. Minaccia l'Europa con milioni di profughi siriani se solo qualcuno si azzarda ad alzare la voce sulle sue malefatte interne ed esterne (vedi la recente invasione della Siria nord orientale).
  In Europa qualcuno pensa che la furia islamista di Erdogan si esaurirà una volta finito di massacrare i curdi. Sbagliato. È solo l'inizio di una operazione, di un piano più vasto e ragionato al quale il nuovo Califfo lavora da tempo, spesso finanziato proprio con i nostri soldi.
  Nei giorni scorsi sui social in molti sostenevano che applicare sanzioni alla Turchia avrebbe comportato solo problemi per la popolazione turca che già vive una situazione difficile a causa del regime. Sbagliato di nuovo. I turchi votano liberamente Erdogan almeno dal 2003 e non solo lo votano, nel 2007 gli hanno dato pieni poteri con un referendum costituzionale che in sostanza lo trasforma da presidente a "uomo con pieni poteri" su tutto e su tutti. I turchi sono con Erdogan e ne condividono appieno le idee.

 Il nuovo leader del mondo musulmano (non solo sunnita)
  Lo scopo finale non è quindi solo quello di essere riconosciuto come capo della Fratellanza Musulmana, una cosa ormai acclarata, lo scopo finale è quello di essere riconosciuto come nuovo leader del mondo musulmano, come Califfo del grande Califfato globale. Un leader che non ha paura di sfidare armi in pugno le grandi potenze, un leader che non si fa scrupolo di eliminare i nemici dell'Islam e di "epurare" il Medio Oriente dalla presenza non islamica.
  Allora toglietevi dalla testa che Erdogan sia "solo" un pazzo fanatico. Il Califfo turco ha un piano ben preciso che, da buon Fratello Musulmano, porta avanti con "gradualità" e "puntigliosa perseveranza". Non capire questo, non considerarlo, significa fare lo stesso errore fatto con Abu Bakr al-Baghdadi. E tutti abbiamo visto come è andata a finire.

(Rights Reporters, 16 ottobre 2019)


Allarme in Israele: «Degli Usa non ci si può fidare»

Prima il mancato confronto con l'Iran, ora il disimpegno nel Rojava

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il «Mettiamola così, il presidente Trump è come un mezzofondista che corre forte per quasi tutta la gara ma poi si ferma all'improvviso sulla pista e non taglia il traguardo». Il professor Eytan Gilboa, del Centro di studi strategici BeSa di Tel Aviv, vicino al governo Netanyahu, ci propone questo paragone con l'atletica per spiegare ciò che pensa del disimpegno degli Stati uniti dalla Siria, culminato poco più di una settimana fa nell'abbandono degli alleati curdi alla mercé dell'offensiva militare di Ankara. Il traguardo al quale si riferisce Gilboa è il pugno di ferro con Siria, Iran e i suoi alleati. Trump però non ha alcuna voglia di raggiungerlo e in casa israeliana è scattato l'allarme. «Netanyahu -prosegue Gilboa - ha apprezzato la decisione di Washington di sanzionare di nuovo Tehran e minacciare la guerra. Da qualche mese però l'incantesimo è svanito di fronte alla linea rinunciataria di Trump».
  Il premier di destra Netanyahu ha espresso solidarietà ai curdi e promesso aiuti umanitari. I riservisti dell'esercito israeliano hanno invocato l'assistenza militare diretta ai combattenti delle Fds. Ma non è tanto la sorte dei curdi, con cui Tel Aviv ha legami da tempo - in Iraq, non nel Rojava -, a tenere in apprensione il governo Netanyahu. Per Israele il voltafaccia di Trump verso le Fds è solo l'ultimo episodio tra i tanti che indicano l'inaffidabilità della Casa bianca.
  «Trump era l'alleato di ferro su cui Netanyahu contava ciecamente - spiega Gilboa - Nelle ultime due campagne elettorali (9 aprile e 17 settembre) il premier aveva fatto costante riferimento all'amicizia con il presidente Usa che ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, ha preso a schiaffoni i palestinesi ed è uscito dall'accordo internazionale sul nucleare iraniano. Ora Netanyahu non capisce più un alleato che cambia con eccezionale rapidità le sue decisioni e altrettanto velocemente mette alla porta i suoi consiglieri e ministri». «Le recenti aperture all'Iran hanno fatto venire meno le certezze - aggiunge- e a ciò si è aggiunta la mancata risposta degli Usa al recente attacco con i droni ai giacimenti petroliferi sauditi per il quale era stato accusato l'Iran.Un segno di debolezza da cui trarrà vantaggio Tehran»,
  Gli alleati degli Stati Uniti in Medio oriente non possono più fidarsi degli Usa, dicono gli israeliani. E questo sta spingendo l'Arabia saudita -che come Tel Aviv punta sullo scontro duro con Tehran -a ridefinire le sue strategie, al punto da rivolgersi alla Russia che sta occupando lo spazio vuoto lasciato nella regione dal disimpegno di Trump. Lo confermano anche il viaggio storico di Vladimir Putin a Riyadh e negli Emirati e il ruolo svolto da Mosca nel favorire l'accordo tra curdi e governo di Damasco.
  Netanyahu è preoccupato anche dai riflessi che l'immagine di presidente debole e incerto in politica estera che Trump si sta cucendo addosso finisca per danneggiarlo agli occhi dell'opinione pubblica mentre Israele non ha ancora un governo. Sono ben visibili in giro i manifesti elettorali con i due leader che si stringono la mano, con la scritta «Grazie, presidente Trump». Foto diventate imbarazzanti.
  Netanyahu non ha criticato pubblicamente Trump dopo il ritiro Usa dal nord della Siria ma sta prendendo le distanze in attesa di tempi migliori. E in occasione dell'anniversario della guerra dello Yom Kippur del 1973, ha dichiarato che Israele apprezza il sostegno degli Stati uniti ma applicherà la sua regola di base: agirà da solo contro ogni minaccia.

(il manifesto, 16 ottobre 2019)



Dal ghetto ad Auschwitz, l'olocausto degli ebrei romani

Rav Funaro suona lo Shofar
in ricordo del 16 ottobre 1943
Un luogo simbolo per ricordare il rastrellamento nazista del ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943. È lì, in via del Portonaccio, 194/196, che sarà deposta una corona in memoria delle vittime.
   Il luogo è quello dell'abitazione della famiglia Efrati, 15 persone, madre, padre e 13 figli. I coniugi Efrati, Abramo Umberto, la moglie incinta Maria Di Segni e otto figli, Enrica, Angelo, Cesare, Fortunata, Grazia, Giuditta, Dora e Marco vennero arrestati e poi deportati ad Auschwitz. Solo Angelo, liberato a Ravensbrueck il 2 maggio del 1945 e il fratello Cesare Efrati, liberato a Flossenburg il 22 maggio del 1945, faranno ritorno.
   Alla commemorazione della pagina più nera della capitale che riguardò oltre 1200 cittadini ebrei di Roma, parteciperanno tra gli altri il vicesindaco Luca Bergamo e Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah.
   Della famiglia Efrati, gli altri figli sfuggiti al rastrellamento perché non vivevano insieme con i genitori, Lazzaro sarà arrestato successivamente e morirà ad Ebensee nel 1945, Rosa Samuele ed Anselmo sopravvivranno al periodo dell'occupazione nazista così come Emilia, l'unica ancora in vita.
   «Gli arresti e le deportazioni del 16 ottobre - ricorda la Fondazione Museo della Shoah - avvennero in tutta la città ed è per questo importante rendere partecipi i cittadini di una storia spesso ai più sconosciuta, affinché ciò che è stato, non venga dimenticato».
   Il rastrellamento coinvolse 1259 persone, 689 donne, 363 uomini e 207 bambini. Le truppe della Gestapo e delle Ss agli ordini di Herbert Kappler, fecero irruzione all'alba in via del Portico d'Ottavia di quel sabato e le operazioni condotte in simultanea anche in altre zone della città, durarono fino all'ora di pranzo.
   Al termine, 236 vennero rilasciati e lasciarono il collegio militare di palazzo Salviati di via della Lungara dove erano stati radunati. Gli altri 1.023 cittadini furono spediti al campo di sterminio di Auschwitz per il "trattamento speciale" raccomandato da Kappler al capo del campo.
   Il convoglio di diciotto vagoni piombati partì due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, dalla stazione Tiburtina alla volta della Polonia dove arrivò il 22 di quel mese. Soltanto 16 sopravvissero (15 uomini e una donna). L'unica donna era Settimia Spizzichino, deportata insieme con la madre, due sorelle e una nipote e morta il 3 luglio 2000. Settimia Spizzichino è stata una delle principali testimoni della memoria di quell'orrore. A lei è dedicato il ponte che collega la circonvallazione Ostiense all'omonima via.

(la Repubblica - Roma, 16 ottobre 2019)


Minacce a Pacifici: condanne a Militia

Un anno e due mesi per Boccacci e Schiavulli

di Adelaide Pierucci

ROMA - «Ci vediamo presto. Lo vedrai». Ed ancora: «Morirò a breve, ma vedrò il modo di farmi precedere dal presidente della Comunità Ebraica». Maurizio Boccacci e Stefano Schiavulli, leader dell'ultradestra, non avevano fatto mistero il 5 marzo del 2014 di volersi vendicare di Riccardo Pacifici, allora presidente della Comunità ebraica della capitale, quel giorno sentito come testimone in un processo a carico dell'organizzazione negazionista Militia.

 In aula
  Ieri per quelle minacce, rivolte a Pacifici in aula e poi per telefono a una cronista del Messaggero, i due imputati sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi di reclusione per minacce aggravate dalla discriminazione razziale, etnica e religiosa, ma anche a risarcire la vittima con 9.000 euro, 4.500 ciascuno. La prima minaccia era stata rivolta di fronte al tribunale. Schiavulli aveva avvertito Pacifici: «Ci vediamo presto» e, alla richiesta di quest'ultimo se si trattasse di una minaccia, aveva ripetuto l'intimidazione: «Lo vedrai, ci vediamo presto, lo vedrai». Poco prima il presidente della Comunità ebraica aveva raccontato alla Corte «di aver ricevuto presso la sua abitazione un pacco con una testa di maiale», oltre ad altre, scritte comprese, destinate alla Sinagoga, a una mostra sulla Memoria e all'ambasciata israeliana. Nella stessa giornata si era aggiunta la minaccia telefonica di Boccacci. Il fondatore di Militia voleva far recapitare a Pacifici e non solo un avvertimento chiaro. Ossia l'intenzione «di voler attentare alla vita di Pacifici». Nella stessa telefonata il "camerata" aveva precisato di essere un malato terminale: «Mi resta un mese, ma troverò il modo di farmi precedere dal Presidente della Comunità Ebraica». A chiedere la condanna il pm Erminio Amelio: «Le minacce, gravi e giunte separatamente, erano cariche di odio razziale e religioso».

(Il Messaggero, 16 ottobre 2019)


Censimento del patrimonio librario, l'UCEI lancia due bandi

L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha lanciato nelle scorse ore due bandi in occasione dell'avvio della seconda fase del progetto Censimento short title del patrimonio librario con testo ebraico, avviato in collaborazione con la National Library of Israel (NLI), la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR) e il supporto della Rothschild Foundation - Hanadiv Europe.
Uno si rivolge a catalogatori di libri in ebraico antichi e moderni, mentre l'altro a fotografi.
I volumi, si annuncia, saranno fotografati, nelle pagine essenziali, da fotografi all'uopo addestrati che lavoreranno direttamente presso le Biblioteche. Invieranno ai catalogatori, attraverso il sistema informatico GOOBI (sistema offerto dalla Rothschild Foundation per la gestione operativa del progetto) il materiale digitale con gli identificativi dei volumi su cui avranno lavorato. I catalogatori a loro volta identificheranno i volumi che saranno censiti e catalogati grazie al supporto e alle informazioni del Catalogo della National Library of Israel, questi stessi dati saranno poi traslitterati grazie alle informazioni di catalogazione presenti nella Library of Congress. Il risultato della catalogazione, in ebraico e in lettere latine sarà, con apposita procedura, inviato alla Teca Digitale della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
Obiettivo del progetto è il censimento, la catalogazione e la visibilità del patrimonio librario ebraico in Italia presso la BNCR e la NLI.

Clicca qui per il bando rivolto ai fotografi.
Clicca qui per il bando rivolto ai catalogatori di libri in ebraico antichi e moderni.

(moked, 16 ottobre 2019)


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