Perché il Mossad avrebbe portato in Israele il vaccino cinese?
Come dimostrato dall'intesa raggiunta con Germania e Italia sul vaccino Oxford-AstraZeneca-Irbm, la diplomazia ufficiale di Israele è impegnata nella corsa contro il coronavirus. Parallelamente, però, si muovono anche i servizi segreti dello Stato ebraico. In particolare il Mossad, l'agenzia di intelligence per l'estero il cui direttore Yossi Cohen (figura su cui molti scommettono per il post Benjamin Netanyahu) tra febbraio e maggio, cioè nei primi difficili mesi della pandemia, ha guidato la centrale acquisti per mascherine, test, respiratori e altre attrezzature mediche.
La competenza è passata, con grandi ringraziamenti pubblici di Netanyahu a Cohen, al ministero della Salute. Ma il lavoro del Mossad non sembra essersi fermato. Nei giorni scorsi, l'israeliano Channel 12 ha rivelato che l'agenzia di intelligence avrebbe portato in Israele il vaccino cinese per studiarlo. I media israeliani forniscono conferme indirette di fonti governative: in pratica, nessuno nega. Il giornale della propaganda cinese Global Times riporta le dichiarazioni dell'ambasciata israeliana a Pechino: nessuna conferma ma neppure una smentita, anche in questo caso.
Forse perché, come scrivono i media israeliani, i ministeri degli Esteri e della Salute non sono coinvolti. Alle richieste di informazioni rispondono trincerandosi dietro un "no comment" o invitando a rivolgersi all'ufficio del primo ministro (che non ha risposto).
È proprio da questo ufficio che passano gli sforzi israeliani per il vaccino. Recentemente, l'Istituto di Biologia di Ness Ziona, istituto sotto la giurisdizione dell'ufficio del premier (e che ha firmato da poco un memorandum of understanding tra l'Istituto di Biologia con il Careggi Medical Center di Firenze), ha annunciato che a breve inizierà i primi test sull'uomo del suo vaccino, Brilife, approvato dal ministero della salute e dal Comitato di Helsinki. Ma la politica estera di un premier come Netanyahu che viaggia molto poco è spesso affidata al Mossad: basti pensare ai pubblici ringraziamenti del primo ministro al direttore Cohen per gli sforzi compiuti verso la firma degli accordi di Abramo, con normalizzazione dei rapporti con Bahrein e Emirati Arabi Uniti.
Ed è proprio dagli Emirati Arabi Uniti, ma anche da altri Paesi della regione, che Cohen, nei quattro mesi alla guida del centro per gli acquisti anti coronavirus, ha comprato forniture mediche e dispositivi di protezione in maniera massiccia e "aggressiva", scrive il Jerusalem Post sottolineando la grande competizione di allora tra gli Stati. Era prima della normalizzazione dei rapporti e dunque soltanto il Mossad poteva condurre con discrezione gli affari con gli Emirati Arabi Uniti e altri Paesi con cui Israele non ha rapporti diplomatici.
Così arriviamo al tema del vaccino cinese. Israele ha buoni rapporti con la Cina. Perché allora tutta questa discrezione? Ci sono almeno due ragioni. La prima riguarda i dubbi occidentali sull'affidabilità del vaccino cinese. La seconda tocca la contesa tra Stati Uniti e Cina esacerbata dalla pandemia di coronavirus e le preoccupazioni di Washington per le mire di Pechino verso i porti israeliani. Ma tra i molti interrogativi che contornano questa vicenda a uno in particolare è difficile dare una risposta: chi ha passato la notizia ai media israeliani?
(Rassegna Stampa, 31 ottobre 2020)
Ce la siamo cercata?
Se crediamo sia colpa delle vignette, allora la libertà d'espressione l'abbiamo già persa
di Michael Sfaradi
Ho sempre invidiato tutti coloro che sanno disegnare, quando il buon Dio ha distribuito questo talento avevo probabilmente gli orecchioni. Se fossi riuscito a tenere una matita in mano anziché scrivere lunghi articoli avrei fatto il vignettista, quelli per i quali provo molta invidia, quelli che con un disegno esprimono più argomenti di quelli che io riesco a mettere in luce con cinquemila battute, c'est la vie, così va il mondo.
Certo, per essere vignettista oltre a saper disegnare bisogna avere lo spirito del libero pensatore, bisogna essere liberi di ridicolizzare e mettere alla berlina i potenti di turno, coloro che vorrebbero costringere la gente a vivere come vogliono loro, secondo regole sempre più restrittive incensandole di sacralità religiosa, di amor di patria o di qualsiasi cosa sia utile per mettere il popolo bue dentro al recinto e farne carne da macello. Ma si sa, lo disse anche 'Pasquino' la statua parlante, che quando ci si scontra con il popolo si sbatte sempre il grugno.
E chi c'è dietro al malcontento popolare? Quasi sempre i vignettisti, gli eredi dei giullari di corte, gli unici autorizzati a prendere in giro il sovrano sapendo che se la sarebbero cavata per via di quella regola non scritta che donava loro impunità a prescindere da ciò che dicevano e il Re, proprio lui, doveva ridere anche se era preso per il sedere.
Dopo quella di Samuel Paty, il professore che voleva spiegare la libertà di espressione a chi la libertà non sa neanche cosa sia, questa mattina in Francia, dentro alla Cattedrale di Nizza, di teste ne sono saltate altre due, mentre una terza persona è morta dissanguata per le tante ferite da taglio che aveva su tutto il corpo. E cosa leggo nei commenti? Che la colpa è dei vignettisti di Charlie Hedbo che hanno preso in giro Sua Maestà Recep Tayyip Erdogan, colui che dopo il colpo di stato manovrato è diventato il nuovo Imperatore dell'Impero Ottomano work in progress.
La cosa che lascia basiti è che secondo alcuni la colpa di queste morti è dei vignettisti che non si sono regolati, cioè limitati, cioè non hanno limitato la loro libertà di espressione e, lesa maestà, hanno preso per il culo il potente di turno. Potente che poi ha accusato tutta l'Europa e ha lanciato, le parole da lui usate non lasciano dubbi, una campagna di odio contro l'Occidente.
A questo siamo arrivati, in nome del politicamente corretto, del siamo tutti fratelli, del "volemose bene", del Black Lives Matter e chi più ne ha più ne metta, la colpa degli attentati è nostra, degli occidentali, che non sappiamo trattenerci dall'uso della libertà che ci appartiene culturalmente, della libertà di mandare a cagare chi ci pare quando ci pare, perché questa libertà fa parte del nostro Dna di uomini liberi. Se poi mandiamo al diavolo la persona sbagliata e tagliano la testa a qualcuno, il nostro mea culpa diventa il minimo sindacale.
Fortunatamente sono nato ebreo in una famiglia ebraica e come tale sono stato educato, perché se avessi staccato una testa per ogni volta che sono stato insultato perché ebreo, avrei riempito tre cimiteri e collezionato abbastanza 'palle' per aprire un bowling. Il punto è che girano in Europa troppe persone pronte a farsi giustizia con le proprie mani, girano in Europa troppe persone che anziché rispondere alle leggi dello Stato, o degli Stati, che li ospitano, hanno importato nel vecchio continente la legge della giungla.
Per queste persone è troppo difficile capire che se c'è una cosa che offende si agisce per vie legali, portando in tribunale il disegnatore, il suo direttore e se serve anche l'editore. Poi, riconosciuta l'offesa, si levano ai suddetti tanti soldini che fanno sempre comodo. No, preferiscono staccare le teste sia ai responsabili delle 'offese' che a chi si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e alla fine la colpa, non dimenticatelo, è sempre nostra che li abbiamo offesi.
Parlare con i tagliatori di teste non è possibile, ma possiamo provare con chi, occidentale, dà loro ragione apertamente o in maniera subliminale, spiegandogli che la vignetta con Erdogan che scopre due chiappe è figlia della decapitazione di Samuel Paty che spiegava ai suoi allievi il significato di libertà, è figlia dell'attentato al Bataclan e della strage sul lungomare di Nizza, è figlia delle uccisioni nella redazione dello stesso Charlie Hedbo.
È così difficile capire che difendere questi assassini, facendoli sistematicamente passare per matti, neanche che la follia islamica riesca a diffondersi più velocemente del Covid-19, è il segno di quanto siamo deboli e decadenti? Mi ripeto: le persone per bene avrebbero citato in giudizio la redazione, il direttore e l'editore per qualche milione di euro, e non si sarebbero messe a staccare teste come al mattatoio.
E allora mi chiedo: la colpa di ciò che accade in Francia, ma che presto potrebbe estendersi in tutta Europa, è delle vignette o della mentalità medievale di certe comunità? Quando Charlie Hebdo pubblicò la vignetta con la sodomizzazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo, si sono visti cristiani incazzati andare in giro per le strade ad accoltellare la gente? Cosa accadrebbe a questo nostro povero mondo se anche i cristiani e gli ebrei cominciassero a decapitare gente ogni volta che si prende in giro il cristianesimo e l'ebraismo? Fra battute e barzellette non ne resterebbe uno vivo. Come Highlander ne resterà uno solo.
E poi l'offesa dov'è? Nelle chiappe in mostra? Un bel lato B dalle mie parti non ha mai fatto male a nessuno, le spiagge di Tel Aviv, fortunatamente, sono piene di lati B perizomati e, credetemi, combatteremo fino all'ultimo uomo per averli sempre in mostra e ben perizomati. Anche un perizoma in mezzo a due belle chiappe è un simbolo di libertà.
L'ultima vignetta, comunque, ridicolizzava Erdogan non l'islam. A meno che Erdogan non sia diventato un profeta, non vedo insulti alla religione, ma una pesante presa per i fondelli a un uomo politico, cosa che rientra nella libertà di espressione. In ogni caso tre persone decapitate a distanza di pochi giorni una dall'altra dovrebbe far pensare a qualcosa di più grave che non a una semplice vignetta che, tra l'altro, è molto meno incisiva di altre pubblicate dalla stessa rivista, dove Dio, la religione cristiana e quella ebraica sono state prese sistematicamente di mira. Se prendere per il culo Erdogan significa far uscir fuori la natura di molti musulmani, ho detto molti non tutti, e della mentalità medioevale che li caratterizza, ben vengano le vignette.
(Atlantico Quotidiano, 30 ottobre 2020)
Tessuti antivirus, Adler sigla un'alleanza in Israele
Partnership con Sonovia per sviluppare prodotti innovativi per il trasporto
di Paolo Scudieri
OTTAVIANO (Napoli) - Produrre tessuti antivirus per auto e altri mezzi di trasporto. È la missione della neonata partnership italo israeliana siglata da Adler e Sonovia. Una soluzione che potrebbe migliorare la fruibilità dei trasporti in tempi di forte diffusione dell'epidemia da Covid-19.
Il Gruppo Adler, tra i leader nel mondo nella componentistica per auto, ha siglato un'intesa con l'israeliana Sonovia, azienda specializzata nella produzione di tessuti antibatterici e antivirali high tech. Adler in questo modo ha ottenuto la possibilità di un utilizzo esclusivo della tecnologia antibatterica su tappeti e tessuti per interni per il settore della mobilità: dall'automotive, all'aerospazio, treni, pullman, autobus.
La firma è avvenuta l'altro ieri a Tel Aviv, in occasione della visita ufficiale del ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio, alla presenza anche del ministro israeliano degli Affari Esteri, Gabi Ashkenazi, e degli ambasciatori Gianluigi Benedetti e Dror Eydar.
Adler è presente in Israele da un anno e mezzo circa, dove ha istituito l'Osservatorio Tecnologico Adlerinlight di Tel Aviv (fondato assieme a Roberta Anati, Ceo e fondatrice di Inlight). «Siamo sbarcati a Tel Aviv racconta il ceo Paolo Scudieri - con lo scopo di fare scouting di tecnologie e innovazioni per i settori in cui operiamo, quelli dell'automotive e dell'aerospazio. Pensiamo infatti che sia molto importante avvicinare le imprese italiane alle innovazioni sviluppate in Israele. Il nostro Osservatorio di Tel Aviv in realtà non lavora esclusivamente per il gruppo, ma è aperto anche ad altri imprenditori interessati a confronti tecnologici. A Tel Aviv abbiamo trovato un terreno molto fertile e grande interesse a collaborare con gli imprenditori italiani».
Adler ha acquisito l'utilizzo esclusivo della tecnologia che resta di proprietà dell'azienda israeliana: ne è nata così una partnership paritetica. Dopo i primi e positivi test, Adler sta continuando le sperimentazioni. In pratica gli interiors che Adler produce saranno trattati secondo la nuova tecnologia che renderà moquettes, sedili, tappezzerie antibatterici e antivirali, con garanzia di durata a lungo termine. La produzione dovrebbe partire, secondo i programmi, da marzo 2021, negli stabilimenti di Airola (Benevento) e di Torino. «Saremo i primi - sottolinea Scudieri - ad avviare una produzione di questo tipo, molto richiesta dai nostri clienti che sono per lo più le grandi Case automobilistiche. i produttori di aerei, aeroplani e treni».
Scudieri aggiunge: «Credo che questo sia il momento di fare shopping tecnologico a livello internazionale. Israele è senza dubbio un acceleratore e l'Italia può essere il suo braccio manifatturiero».
AdlerPlastic è la holding di controllo di Adler Group che detiene a sua volta il 100% di Adler Pelzer, produttore di componenti e sistemi per interni, esterni, baule e motori, per il comfort termico e acustico dei veicoli, che equipaggia almeno il 40% del mercato mondiale. Il gruppo ha un fatturato consolidato di 1,5 miliardi di euro, 63 stabilimenti produttivi e più di 15.000 dipendenti nel mondo.
Fondata nel 1956 a Ottaviano (Napoli) da Achille Scudieri, oggi Adler Plastic è guidata dal figlio Paolo, presidente e azionista di controllo del Gruppo.
(Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2020)
Cultura ebraica italiana, una storia da conoscere
Intervista a rav Joseph Levi, fondatore della scuola di studi ebraici Shemah
di Micol De Pas
La cultura ebraica italiana è patrimonio nazionale. Si intreccia con la storia del Paese in un reciproco gioco di influenze e ispirazioni, utili a capire chi siamo. Chi sono, meglio, gli ebrei italiani e chi sono i non ebrei italiani. Sembra questo il punto di partenza che anima i corsi della scuola Shemah di Firenze, nata con l'idea di fornire un servizio di insegnamento autorevole sull'ebraismo, la sua cultura e la sua storia. A volerla fortemente è stato rav Joseph Levi, che ha realizzato una sua vecchia idea, nata quando arrivò a Firenze a ricoprire la funzione di rabbino capo. "All'epoca", racconta, "avevamo dato vita al bet midrash che funziona tuttora e si occupa degli aspetti religiosi, rivolto all'interno della comunità. Quando ho lasciato l'incarico ero sempre più convinto della necessità di fornire un servizio culturale anche fuori, aperto a tutti: si parla tanto di ebraismo ma nessuno lo conosce!".
La scuola esiste da due anni e ora ha trasferito la didattica online, rendendo il progetto da locale a nazionale. Anzi addirittura internazionale: un corso di ebraico, un'ulpan vera e propria messa a punto con l'Università israeliana di Bar Ilan ha appena iniziato il suo secondo anno e prevede una specializzazione universitaria. Ma chi frequenta i corsi della scuole Shemà? "L'utenza è molto mista, sia per età sia per provenienza, ci sono studenti universitari e pensionati ebrei e non, si sta creando una comunità di curiosi molto interessante. Mi piacerebbe coinvolgere maggiormente le comunità ebraiche e la conferenza di apertura del nuovo anno accademico tenuta da Alberto Cavaglion è stata molto seguita da vari iscritti". Le ambizione di rav Levi in qualità di intellettuale sono quelle di creare un luogo di crescita e di creatività attraverso la conoscenza del mondo ebraico, inteso appunto come stimolo al sapere. "Ce ne occupiamo dal punto di vista accademico, con professori universitari che offrono le proprie competenze, dalla letteratura ebraica moderna israeliana (con Fabrizio Lelli) alla musica (con Enrico Fink), passando per studi storici sul Rinascimento e la modernità. Quest'anno abbiamo attivato due nuovi corsi sulla storia dell'ebraismo italiano con Gadi Luzzatto Voghera (Cdec) e sulla presenza ebraica in Italia meridionale con Giancarlo Lacerenza dell'Università L'Orientale di Napoli. Mi interessa stimolare una crescita culturale, presentando diverse chiavi di lettura della storia ebraica che ci aiuterebbe a coltivare una visione aperta ed inclusiva del procedimento storico dell'ebraismo ed i suoi legami con le culture nelle quale ha vissuto, dall'Italia alla Polonia o dalla Germania al Marocco, la babilonia del periodo del tardo impero persiano e alle correnti dei mistici o aristotelici, iconoclasti o poetici del mondo islamico. In ogni paese le sintesi create con le culture locali influivano non solo sulla cultura ebraica in generale, sulle sue forme artistiche o letterarie, ma anche su quelle halachiche. Per questo è importante conoscere la storia e le modalità delle culture ebraiche locali ". La scuola propone anche un corso sul Talmud, grazie anche all'ottima edizione pubblicata da Giuntina. Ha avuto successo, come anche quello fatto in precedenza sulla mistica ebraica. "Ma sa quali sono le mie speranze?", riprende rav Levi, "Vorrei trovare un sostenitore in modo da trasformare Shemah in un istituto di ricerca: la cultura ebraica italiana ha bisogno di una bella spolverata! E lo dico in senso largo, ma anche più strettamente religioso: ci vorrebbe una spolverata anche alle notizie sull'Halakhah ebraico-italiana. Abbiamo avuto rabbini illuminati che hanno lasciato commenti e responsi di alto livello, almeno dal Medioevo all'età Moderna".
Una visione che ha a che fare con l'ebraismo ortodosso contemporaneo? "Certamente. E lo sa perché? Glielo dico io: gli ebrei italiani hanno potuto confrontarsi con la modernità prima del resto del mondo, grazie al Rinascimento. Ma questa è un'altra storia .". Di storie ce ne sono tantissime, tutte pronte ad essere affrontate nel centro studi Shemah, luogo di ricerca, divulgazione, apertura e inclusione, verso tutti coloro che amano il sapere.
(JoiMag, 31 ottobre 2020)
Göring li costrinse a vendere il "loro" tesoro guelfo
Famiglia ebraica cita la Germania negli USA. Gli eredi di alcuni mercanti d'arte ebrei chiedono che la Germania gli restituisca il 'loro' Tesoro Guelfo
di Pedro Lucas
Gli eredi di una famiglia di mercanti d'arte di Francoforte di origine ebraica, residenti negli Stati Uniti si sono rivolti alla Corte Suprema americana per riavere indietro dalla Germania preziosi manufatti storici appartenuti ai loro avi, una richiesta che avevano già avanzato nel 2014. Si tratta del Welfenschatz, il Tesoro Guelfo, oggi conservato al Kunstgewerbemuseum di Berlino. La prima udienza in cui verranno ascoltati gli eredi è stata fissata per il 7 dicembre 2020. I mercanti d'arte avevano comprato il Tesoro nel 1929, ma, nel 1935, erano stati costretti a venderlo per 4,25 milioni di Reichsmark (cifra equivalente a 20 milioni di dollari odierni) al Governo prussiano. Un prezzo sensibilmente inferiore al reale valore della collezione che si aggira intorno ai 200 milioni di dollari. Dietro alla transazione incriminata vi era uno degli uomini più potenti del Terzo Reich, Hermann Göring, all'epoca Presidente dello Stato Libero di Prussia.
La reazione della Germania alla richiesta di restituzione
Secondo la Stiftung Preußischer Kulturbesitz (SBK), la fondazione che cura il patrimonio culturale tedesco (e quindi anche il Tesoro Guelfo), la richiesta degli eredi non può essere accolta. La fondazione ha infatti dichiarato che il prezzo pagato per il Tesoro Guelfo era giusto e non vi era stata nessuna coercizione. La cifra così bassa pagata per i manufatti storici è giustificata dal fatto che essi siano stati rivenduti nel 1935, quando la grande crisi economica scoppiata nel 1929 ancora si faceva sentire. A questo proposito, una speciale Commissione di esperti, chiamata a valutare il caso in Germania, aveva dichiarato, nel 2014, che «non vi è alcuna indicazione nel caso in esame che indichi che i mercanti d'arte e i loro partner commerciali siano stati messi sotto pressione durante i negoziati, ad esempio da Göring. Inoltre, gli effetti della crisi economica mondiale si facevano ancora sentire nel 1934/1935. Alla fine, entrambe le parti concordarono un prezzo di acquisto che era inferiore al prezzo di acquisto del 1929, ma che rifletteva la situazione del mercato dell'arte dopo la crisi economica mondiale».
La storia del Tesoro Guelfo
Il Tesoro Guelfo è una delle più importanti collezioni di arte devozionale della storia dell'arte tedesca di epoca medievale. Originariamente il Tesoro era composto da 82 manufatti ma, al Kunstgewerbemuseum di Berlino, se ne possono ammirare 42. Si tratta, principalmente, di opere di oreficeria risalenti a un periodo compreso tra l'XI e il XV secolo ed era originariamente ospitato nella cattedrale di Brunswick a Braunschweig , in Germania . La maggior parte degli oggetti furono rimossi dalla cattedrale nel XVII secolo, passarono nelle mani del Duca di Brunswick-Lüneburg nel 1671, e rimasero nella Cappella di Corte ad Hannover fino al 1803. Nel 1929 Ernest Augustus, erede del Duca di Brunswick, vendette gli 82 manufatti ai mercanti d'arte di Francoforte Saemy Rosenberg, Isaak Rosenbaum, Julius Falk Goldschmidt e Zacharias Hackenbroch. Gli oggetti del Tesoro furono esposti nel 1930 negli Stati Uniti al Cleveland Museum of Art che acquistò dai mercanti nove pezzi mentre altri furono venduti ad altri musei e collezionisti privati. Nel 1935 i restanti 42 pezzi della collezione furono venduti allo Stato Libero di Prussia con la controversa transazione che gli eredi dei mercanti hanno denunciato.
(Berlino Magazine, 31 ottobre 2020)
Formentini (Lega) spiega come rafforzare i rapporti Italia-Israele
Lunedì ho incontrato (online) il mio omologo presidente della parte israeliana del gruppo di collaborazione tra Knesset e Camera dei deputati, Gideon Saar. Un incontro di straordinario interesse: si è ribadito con forza che la necessità di rafforzare sempre più la partnership strategica tra Italia e Israele.
Quindi è sicuramente positiva la visita in questi giorni in Israele del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Speriamo però che sia sincera e convinta la posizione del Movimento 5 stelle visto che nel non lontano 2016 (ma anche fino a pochi mesi fa) la loro posizione era totalmente filopalestinese e, di fatto, contro Israele.
Bene anche gli accordi siglati da Snam. Ma si deve e si può fare sicuramente molto di più. Siamo convinti come Lega, infatti, che la complementarietà tra Israele start-up nation e l'Italia grande manifattura d'Europa debba essere incrementata sempre più, portando più Israele in Italia e più Italia in Israele. Dal gas del Mediterraneo orientale all'intelligenza artificiale e all'innovazione tecnologica in generale tanti sono gli ambiti nei quali potenziare, con reciproca soddisfazione, una collaborazione. Quando le condizioni economiche lo permetteranno sarebbe strategico, per diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, veder realizzato il gasdotto Eastmed (avversato dal Movimento 5 stelle), che collegherebbe Israele all'Italia, unendole ancor più.
La Lega, sola nel panorama politico italiano, sostiene con forza il riconoscimento di Gerusalemme capitale d'Israele e il conseguente spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv. Ma dal nostro governo rossogiallo invece solo silenzio desolante. Eppure la visita del ministro degli Esteri avrebbe potuto essere proprio l'occasione per esprimersi su questo tema.
Di fronte a una svolta epocale, l'alba di un nuovo Medio Oriente quale gli Accordi di Abramo ci saremmo aspettati più entusiasmo da parte del ministro Di Maio, un appoggio più convinto e un appello alla dirigenza palestinese affinché colga la palla al balzo e ponga fine ai lanci di razzi (che hanno 'celebrato' la sigla degli Accordi) e lavori a un nuovo Medio Oriente di pace.
Ci saremmo aspettati anche parole più chiare sulla richiesta, da parte israeliana, di riconoscimento di Hezbollah come organizzazione terroristica, richiesta sulla quale, secondo la Lega, va avviata una profonda è necessaria riflessione.
Antisemitismo e campagna Bds vanno a braccetto, ma anche su questo tema silenzio: nulla s'ode, da parte della maggioranza di governo, su quell'odiosa forma di antisemitismo che è l'odio per Israele!
Ministro Di Maio, un ultimo appello: basta ambiguità! Scegliamo l'Occidente con orgoglio e rivendichiamo con determinazione davanti alla barbarie dell'estremismo islamista le nostre radici giudaico-cristiane e il nostro collocamento internazionale al fianco degli Stati Uniti d'America patria di libertà e democrazia. Non si può più essere contemporaneamente alleati degli Stati Uniti e d'Israele e dichiarare che Cina e Iran sono nostri nuovi partner.
(Rassegna Stampa, 30 ottobre 2020)
Erdogan sogna il nuovo impero ottomano
È il mandante morale degli attentati. Ma adesso c'è un islam che lo avversa
IL RICATTO ALL'EUROPA
Le sue mosse: pugno duro in patria, guerre ovunque e coperture ai terroristi
OCCHIO ALLE SPALLE
Per la prima volta però ha oppositori nel suo campo. E teme il piano Abraham
di Fiamma Nirenstein
E' una questione di forza: noi in Occidente siamo abituati a considerare i rapporti politici determinati da motivi di morale e di opportunità, e dalla prudenza quando è coinvolto il tema della violenza e il linguaggio dell'incitamento porta alla strage di innocenti. Ma per il mondo islamico estremo non è così, e per la Turchia di Erdogan è una grande opportunità storica usarne le armi ideologiche più oscure e micidiali per diventare il principe della rinascita dell'impero Ottomano. Il presidente Erdogan si pregia di entrare nei libri di testo come l'uomo che ha rovesciato la magnifica funzione storica inventata da Kemal Ataturk per la Turchia: essere il ponte fra il vasto mondo islamico, un miliardo e ottocentomila persone, e quello ebraico-cristiano occidentale per un mondo migliore.
L'uso come di un'ascia bipenne dell'ideologia più estrema, incarnata dalla sua organizzazione l'Alleanza Musulmana di cui è il capo, fa parte della dottrina che muove Erdogan e lo porta a essere, di fatto, il migliore punto di riferimento del mondo terrorista. La nuova strage di Nizza è una strage ideologico-religiosa, e un polo certo ne è l'incitamento di cui Erdogan ha bombardato la Francia e Macron, che non è casuale, ma strategico, anche se certo non possiamo accusarlo di terrorismo in modo diretto.
Tre spazi definiscono l'azione di Erdogan: quello interno, per cui la Turchia, in grave sofferenza economica e strutturale, soffre restrizioni dittatoriali sulla stampa, le idee, le donne, la libertà di religione (i cristiani sono scappati quasi tutti); quello internazionale, per cui Erdogan ormai fa una nuova guerra armata al mese in zone diverse, trasportando la sua furia egemonica sul terreno della Ummah, ovvero dei luoghi fisici che nella sua mente e in quella dell'Islam estremo, compreso l'Isis e anche gli ayatollah sciiti, devono alla fine essere di dominio islamico assoluto, con l'istituzione universale della Shariah; e infine quello del gioco più infido, quello del gioco che coinvolge i gruppi terroristi, dal Al Qaeda, all'Isis a Hamas agli Hezbollah, con incontri, spostamenti, finanziamenti, armi.
É difficile ignorare che Erdogan abbia minacciato direttamente e ripetutamente la Francia e Macron in questi mesi della molteplicità di attacchi terroristici, mentre le sue guerre con l'esercito sul territorio si allargavano in Siria, Armenia, Libia, Grecia, Cipro, con attacchi e promesse di punizione anche a Israele e ai Paesi moderati. La minaccia, anche quando non espressa in maniera tanto scomposta come quando il presidente turco si è avventato su quello francese perché ha difeso la libertà di opinione prima e dopo la mostruosa decapitazione, è un'arma preferita, e con quella che Erdogan fronteggia l'Europa: se non fate come dico io, apro i confini ai profughi siriani assiepati qui da me, e sapete bene che posso portare molti nuovi problemi. Lo può ben dire, avendo regolamentato con cinismo il passaggio di larghi gruppi di terroristi diretti in Siria a incrementare le fila della guerra dell'Isis. Erdogan accanto al suo disegno di egemonia islamica che sul versante sunnita affianca quello sciita dell'Iran, usa l'arma dell'incitamento: le parole sono più che pietre, sono coltelli, sono mitra. Il 13 settembre una manifestazione a Istanbul avvertiva Macron e i francesi che avrebbero «pagato un caro prezzo» per la difesa di Charlie Hebdo. E con questo bagaglio di paura che Erdogan, che ha dimenticato la storia disumana e anche schiavista dell'Impero Ottomano, seguita a giocare le sue carte, mentre però si disegna un fronte islamico col piano Abraham che indica già nel nome la volontà di accordo religioso, la pace degli Emirati, del Bahrain e del Sudan con Israele.
Contro questo rischio di pace Erdogan spara e muove l'odio nelle coscienze. Ma oggi ha molteplici oppositori anche nel suo campo, cosa che nel passato non accadeva. Dato che l'Europa ha paura, vediamo se l'Islam moderato ne avrà di meno.
(il Giornale, 30 ottobre 2020)
Israele. 12.000 volontari a pulire le spiagge
di Giacomo Kahn
Pulire in contemporanea tutte le spiagge d'Israele, da Rosh Hanikra a Eilat, incluse le spiagge del lago di Tiberiade, grazie all'aiuto di tutti i cittadini che hanno a cuore il rispetto e la tutela dell' ambiente.
È questo l'ambizioso obiettivo, promosso dall'organizzazione Israelanti Plastic, guidato dalla Italo-israeliana Letizia Fargion, che ha visto oggi la partecipazione di circa 12.000 volontari. Alunni, studenti, scout, pensionati, famiglie e singoli hanno lavorato insieme in 150 spiagge lungo tutto il litorale, da nord a sud. Oltre alla pulizia, l'obiettivo era - attraverso la raccolta differenziata - prendere coscienza dell'enorme consumo di plastica, cercare di ridurlo e trovare soluzioni a favore della tutela ambientale.
È la prima volta in assoluto che una tale iniziativa ambientalista viene realizzata in contemporanea su tutto il territorio nazionale e ciò grazie anche all'adesione di ben 18 differenti organizzazioni ambientaliste.
Divisi per gruppi ed associazioni, gli italkim (gli italiani residenti in Israele) si sono incontrati ad Hof Frishman, uno dei tratti più famosi e frequenti del lungomare di Tel Aviv. L'evento si è svolto nel rispetto delle disposizioni del Ministero della Sanità.
(Shalom, 30 ottobre 2020)
Dai vaccini all'energia accordi tra Italia e Israele. Snam guarda al mercato
Nel vertice tra Di Maio e l'omologo Ashkenazi affrontato il tema del gasdotto East-Med
di Sharon Nizza
«Sono molto contento che le imprese italiane possano fare un altro passo verso quella che era la Startup Nation e diventa sempre di più una Scale up Nation». Così Luigi Di Maio, alla sua prima visita in veste di ministro degli Esteri in Israele, ha commentato la firma, avvenuta ieri insieme all'omologo Gabi Ashkenazi,- di un nuovo protocollo di cooperazione in ambito culturale e scientifico, in vigore per i prossimi tre anni.
Nel corso della due giorni con agenda fittissima, Di Maio ha avuto un faccia a faccia anche con il premier Benjamin Netanyahu. La cooperazione scientifica, economica e soprattutto energetica ha avuto ampio spazio negli incontri.
Una sinergia che, secondo il ministro, diventa essenziale anche nel contesto della pandemia globale. Netanyahu, nella conferenza stampa di aggiornamento sulle graduali aperture avviate dopo cinque settimane di nuovo lockdown, ha citato l'incontro con Di Maio e la telefonata con il premier Conte, evidenziando la cooperazione in corso nel contrasto al Covid. Quest'estate, l'Istituto biologico israeliano - che proprio in questi giorni ha avviato la fase di sperimentazione umana del vaccino "Made in Israel" - ha firmato un'intesa con l'Ospedale Careggi di Firenze e l'Ente Toscana Life Science per lo sviluppo e la clonazione di anticorpi che potrebbero fornire una cura al virus.
Di grande rilevanza il dossier energetico: nel contesto della visita del ministro, Snam ha siglato tre accordi con aziende israeliane nel settore della mobilità sostenibile.
L'intesa con la start up H2PRO riguarda lo sviluppo di nuove tecnologie per accrescere l'immissione di idrogeno verde nei gasdotti. Con Dan, una delle maggiori compagnie di trasporto pubblico del Paese, e Delek, il principale gruppo israeliano nel settore degli idrocarburi, l'accordo riguarda la conversione in corso della flotta autobus da diesel a metano liquido. «Si tratta di partnership che ci permettono di affacciarci in un nuovo mercato - ha commentato l'amministratore delegato di Snam Marco Alverà - e di accrescere il nostro know-how in uno dei contesti più innovativi al mondo».
Nei colloqui istituzionali, un focus particolare è stato dedicato al progetto israelo-greco-cipriota del gasdotto East-Med, in cui si cerca il coinvolgimento italiano. Il ministro ha detto di aver ribadito che si tratta di «un progetto a cui guardare, nell'ambito della strategia della differenziazione dell'offerta energetica». Ha sottolineato anche l'importanza del neonato Forum del gas del Mediterraneo orientale, di cui Italia e Israele sono co-fondatori, nello sviluppo del mercato del gas naturale liquefatto. Dal 2002, anno di entrata in vigore dell'accordo bilaterale scientifico-tecnologico tra i due Paesi, sono nati quindici laboratori congiunti e sono stati avviati oltre duecento progetti di ricerca scientifica e industriale.
(la Repubblica, 30 ottobre 2020)
Snam accelera in Israele sulla mobilità sostenibile
II mercato dell'energia. Gas naturale, biometano e idrogeno verde: le strade per difendere il pianeta.
Marco Alverà, amministratore delegato di Snam
MILANO - Nuove collaborazioni nella transizione energetica, in particolare nella mobilità sostenibile a gas naturale, biometano e idrogeno e nelle nuove tecnologie di produzione dell'idrogeno verde. Questo l'obiettivo dell'ingresso nel mercato israeliano di Snam: il colosso mondiale di infrastrutture energetiche, nonché una delle maggiori aziende italiane per capitalizzazione, ha firmato tre accordi di cooperazione con aziende locali.
Le tre partnership riguardano Delek Drilling e Dan nella mobilità a gas naturale liquefatto per il trasporto pubblico, Dan nello sviluppo di progetti di green mobility e la start-up H2Pro nella ricerca sull'idrogeno.
«Con questi accordi - commenta l'amministratore delegato di Snam Marco Alverà - sviluppiamo ulteriormente la presenza internazionale di Snam per rafforzare il nostro contributo alla transizione energetica e al raggiungimento degli obiettivi climatici globali. Le partnership con Delek Drilling, Dan e H2Pro, avviate nel quadro della crescente collaborazione italo-israeliana, ci permettono di affacciarci in un nuovo mercato con progetti in settori di nostro interesse come la mobilità sostenibile e l'idrogeno e, contestualmente, di accrescere il nostro know-how in uno dei contesti più innovativi al mondo».
(Il Giorno, 30 ottobre 2020)
Israele: Di Maio convertito sulla via di Gerusalemme
Il ministro degli Esteri elogia gli accordi di Abramo
di Umberto De Giovannangeli
Quando era all'opposizione, indossava, metaforicamente, la kefiah, perorava la nascita di uno Stato palestinese e tuonava contro la colonizzazione ebraica dei Territori. Ora che è ministro degli Esteri, vola a Gerusalemme, indossa, sempre metaforicamente scrivendo, la kippah. La conversione di Luigi Di Maio.
"Voglio esprimere il profondo cordoglio per il barbaro attentato di poco fa a Nizza. Siamo vicini alle famiglie delle vittime. L'Italia ripudia ogni estremismo e resta al fianco dei suoi amici francesi nella lotta contro il terrorismo e ogni radicalismo violento". Il titolare della Farnesina, atterrato questa mattina in Israele per la sua prima visita nella veste di ministro degli Esteri, ha aperto così il suo intervento nella conferenza stampa congiunta al termine dell'incontro con l'omologo israeliano Gabi Ashkenazi.
A fianco d'Israele, ma...
"Quello con Israele è un rapporto profondo che si fonda sulla condivisione di valori comuni, e si alimenta anche del continuo forte impegno italiano nella lotta contro ogni forma di antisemitismo", ha proseguito Di Maio. In una intervista pubblicata oggi sul quotidiano Israel Hayom, giornale legato alla destra israeliana, in vista della missione, Di Maio ha condannato "gli inaccettabili attacchi personali del presidente Erdogan contro il presidente Macron e contro la Germania, che peraltro fanno un uso inaccettabile della Shoah, un uso che condanno fermamente".
Gli accordi di Abramo - firmati a Washington e incentrati sulla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Emirati Arabi Uniti - costituiscono, per usare le parole del ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi, "un momento storico, l'inizio di una nuova era per trasformare il Medio Oriente in una zona di collaborazione e prosperità".
Si tratta di convincere anche i palestinesi, secondo cui non sarà possibile alcuna pace nella regione finché gli Stati Uniti e Israele non riconosceranno i diritti del popolo palestinese di stabilire il proprio Stato entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale e - come ha ricordato recentemente il presidente palestinese Abu Mazen - "risolvendo la questione dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite".
La risposta di Di Maio è stata molto diplomatica: "La ripresa delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi - ha detto - deve costituire una nuova spinta verso il processo di pace e il riavvio dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, con la prospettiva di una soluzione a due Stati che sia giusta, sostenibile e praticabile", anche se sempre meno persone, in Medio Oriente, la considerano tale. All'Italia, Israele ha chiesto anche di riconoscere Hezbollah come gruppo terroristico vicino all'Iran, che stando alle parole delle autorità israeliane resta la principale minaccia alla stabilità dell'intera regione: "E' interesse di tutti - ha detto ancora Ashkenazi - impedire che l'Iran abbia armi nucleari che permettano di cambiare lo status quo in Medio Oriente, ed è necessario appoggiare le sanzioni Usa per evitare che l'Iran diffonda odio e terrorismo nel mondo". Ma su questo, Di Maio ha preferito sorvolare, visti gli affari economici che legano Roma a Teheran e sia perché agire fuori da una condivisione europea, francese in particolare, potrebbe essere un autogol politico-diplomatico per l'Italia, già messa fuori dalla "partita libica".
Il ministro, durante una breve visita al Memoriale e Museo della Shoah Yad Vashem, ha deposto una corona di fiori in ricordo delle vittime e ha lasciato un messaggio nel libro d'onore: "Qui si ricorda l'abisso della Shoah, la memoria non può essere soltanto la recitazione di un passato d'orrore, ma deve esprimere un monito per la coscienza di ognuno di noi".
In poco più di 24 ore, Di Maio affronterà un'agenda fittissima. Spicca tra tutti il faccia a faccia con il premier Benjamin Netanyahu, indice del riguardo che viene riservato da Gerusalemme alla visita del ministro, forse anche a seguito della sintonia tra Di Maio e Pompeo durante la recente missione a Roma del Segretario di Stato americano.
Venerdì a Gerusalemme vedrà il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, e il nunzio apostolico, monsignor Leopoldo Girelli. Seguirà poi l'incontro con Nickolay Mladenov, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente. Infine a Ramallah incontrerà il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e il suo omologo Riad Malki.
Ricordi Luigi...
Al ministro degli Esteri vorremmo ricordare quanto segue: "Quello che diciamo facciamo: se il M5S arriverà al governo, riconosceremo lo Stato di Palestina". Ad affermarlo è lui stesso, in un incontro con i giornalisti italiani ad Hebron nella sede del Tiph (Temporary international presence in Hebron) di cui fa parte un contingente italiano di carabinieri. "È un indirizzo politico - ha spiegato Di Maio che si trovava in visita in Israele e Palestina a capo di una delegazione pentastellata - che avevamo all'opposizione e che quindi avremo anche in maggioranza". Era il 9 luglio 2016.
"Un riconoscimento che ovviamente - ha aggiunto il capogruppo in commissione affari esteri alla Camera Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri - si deve basare sui confini del '67 e che deve comportare anche il ritiro dal Golan. È quello che diremo agli israeliani". Il tema, raccontano le cronache di quei giorni, è stato affrontato anche nell'incontro con il sindaco di Betlemme Vera Bahboun. Secondo Di Maio, il riconoscimento avrebbe un effetto trascinamento sulle altre nazioni europee. "Perché è la Ue - ha aggiunto - che deve avere un peso fondamentale nella questione, visto anche che gli attori abituali si sono usurati". Ed ancora: ""Come già ricordato tante volte, le colonie israeliane in territorio palestinese sono illegali secondo tutta la comunità internazionale e dunque ostacolo alla pace. Ce lo ha ricordato l'Onu con numerose risoluzioni. Questo è un elemento fondamentale se si vuole la pace in questa terra martoriata". Non basta? "Abbiamo avuto modo di far visita ai nostri carabinieri della missione Tiph a Hebron - continuava l'allora vicepresidente della Camera - . Qui abbiamo ascoltato le parole del responsabile della missione e dei vertici del contingente italiano. Ci hanno spiegato come circa l'80% dei conflitti nella zona siano dovuti ai comportamenti dei coloni israeliani".
Allora come oggi alla guida d'Israele c'è Benjamin Netanyahu, deciso assertore dell'annessione, stoppata dall'emergenza Covid ma tutt'altro che dismessa, di parti della Cisgiordania. "L'Italia rivendica una soluzione sostenibile, realistica, giusta e direttamente negoziata tra le due Parti, nel quadro di una prospettiva a due Stati che tenga nella dovuta considerazione le legittime aspirazioni e necessità di entrambe. Gli ultimi sviluppi sul Processo di Pace ci preoccupano, in particolare l'ipotesi di annessioni israeliane di parti della Cisgiordania a partire dal primo luglio". Così si esprimeva il titolare della Farnesina a Montecitorio il 20 giugno scorso. "L'Italia - ha aggiunto quel giorno - - sostiene con convinzione la posizione europea già espressa dall'Alto Rappresentante Borrell, il quale ha invitato Israele ad astenersi da azioni unilaterali che rischierebbero di costituire una chiara violazione del diritto internazionale e di pregiudicare il dialogo con la parte palestinese".
Di questo imbarazzante argomento, Di Maio non ha fatto cenno nei suoi incontri israeliani. Meglio sorvolare per non irritare "Bibi".
(globalist, 30 ottobre 2020)
Le perplessità sulla figura dellattuale Ministro degli Esteri italiano, e sulla sua posizione oggi apparentemente filoisraeliana, sono ben presenti anche in chi, al contrario dellautore dellarticolo, si colloca apertamente dalla parte di Israele. M.C.
La sospensione di Jeremy Corbyn è l'inizio di un'èra nuova per il Labour
Il rapporto sull'antisemitismo e la decisione di Starmer
di Gregorio Sorgi
LONDRA - Meno di un anno fa Jeremy Corbyn era il candidato del Labour per diventare primo ministro. Ieri l'ex leader è stato sospeso dal suo partito per avere ignorato il problema dell'antisemitismo durante la sua gestione. Queste accuse hanno segnato la leadership di Corbyn, che si è sempre rifiutato di assumersi le sue responsabilità e chiedere scusa alla comunità ebraica britannica. In mattinata un duro rapporto dell'Equality and Human Rights Commission (Ehrc), un ente indipendente a difesa dei diritti umani, ha accusato i vertici del Labour di Corbyn di avere violato la legge. L'accusa più grave è quella di avere insabbiato le denunce di antisemitismo per ragioni politiche. L'Ehrc ha scritto che "lo staff del capo dell'opposizione ha influenzato l'esito delle denunce e in particolare delle sospensioni" in 23 occasioni. Il caso più eclatante riguarda proprio Corbyn. Nell'aprile 2018 i funzionari del Labour hanno chiesto alla sezione legale di archiviare la denuncia contro il leader accusato di avere difeso un murale antisemita nel quartiere londinese di Tower Hamlets. L'Ehrc ha anche condannato due esponenti laburisti - l'ex sindaco di Londra, Ken Livingstone, e la consigliere comunale, Pam Bromley - per avere pronunciato delle affermazione offensive contro la comunità ebraica. Il rapporto sostiene che il Labour ha agito in modo molto efficiente contro i presunti casi di sessismo nel partito ma ha chiuso un occhio quando si trattava di affrontare l'antisemitismo.
In una conferenza stampa in mattinata Keir Starmer, leader del Labour da aprile, si è scusato con i membri del partito e ha usato delle parole molto dure a riguardo. "E' stato difficile leggere il rapporto, questo è il giorno della vergogna per il Labour", ha detto il leader che però inizialmente ha escluso delle azioni disciplinari contro il suo predecessore. E' stata la reazione di Jeremy Corbyn a determinare la sua sospensione dal partito finché non verranno terminate le indagini. L'ex leader si è rifiutato di prendere atto dei contenuti del rapporto e ha rivendicato le azioni prese durante la sua gestione. "Le dimensioni del problema sono state drammaticamente esagerate per ragioni politiche dai nostri avversari dentro e fuori dal partito", ha scritto Corbyn in un post su Facebook. Queste parole non hanno lasciato scelta a Keir Starmer, che poco prima aveva detto che "chiunque nega il problema è parte del problema". Successivamente Corbyn ha contestato la decisione del leader e ha assicurato che "la questione verrà risolta amichevolmente". Ma Starmer difficilmente tornerà sui suoi passi.
La sospensione di Corbyn è stata una scelta simbolica, che segna la frattura definitiva tra Starmer e il suo predecessore. Il capo dell'opposizione aveva promesso di "estirpare il veleno antisemita" dopo la vittoria alle primarie laburiste, e aveva incontrato alcuni esponenti della comunità ebraica pochi giorni dopo. Starmer ha usato la linea dura sull'antisemitismo per prendere le distanze dal suo predecessore e dai suoi alleati interni. A giugno il licenziamento dal governo ombra di Rebecca Long-Bailey, l'erede designata di Corbyn colpevole di avere condiviso un articolo dai sottotoni antisemiti su Twitter, era stato il primo gesto di rottura con l'ala radicale del partito, che negli ultimi tempi è diventata sempre più polemica con la nuova gestione. Dopo la scelta di ieri, sarà ancora più difficile ricucire i rapporti con gli uomini vicini all'ex leader. L'ex cancelliere ombra e braccio destro di Corbyn, John McDonnell, ha criticato la sospensione e chiesto al leader di tornare sui suoi passi. Ma ormai il dado è tratto. L'ex deputata ebrea Luciana Berger, che aveva lasciato il Labour nel 2019 dopo essere stata vittima di un'orrenda campagna antisemita, non ha escluso un suo possibile ritorno nel partito. Il presidente dell'associazione Labour Friends of Israel, Steve McCabe, ha detto che "questo deve essere il momento in cui il Labour volta pagina dopo uno dei capitoli più bui della sua storia".
(Il Foglio, 30 ottobre 2020)
Via libera a «Israele» sul passaporto per americani nati a Gerusalemme
I cittadini americani nati a Gerusalemme potranno d'ora in poi indicare sul passaporto «Israele» come luogo di nascita. Lo ha deciso l'amministrazione Usa, dopo la svolta di Trump.
(La Verità, 30 ottobre 2020) Ed ecco come riporta la notizia un sito notoriamente anti-israeliano
La mossa di Trump per rimuovere gli americani nati a Quds occupata
NEW YORK -- Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in prosecuzione delle azioni anti-palestinesi del suo governo e con l'obiettivo di sostenere il regime sionista, cambia i passaporti degli americani nati a Quds (Gerusalemme occupata).
Secondo Politico, i funzionari statunitensi hanno rivelato che il presidente Trump annuncerà presto che gli americani nati a Gerusalemme riceveranno il nome "Israele" come luogo di nascita nei loro passaporti statunitensi. Il cambiamento di politica è l'ultima mossa nella lunga lista dell'amministrazione Trump per compiacere gli elettori ebrei e rafforzare i suoi sostenitori sionisti-cristiani in vista del giorno delle elezioni del 3 novembre. Il Dipartimento di Stato non ha ancora risposto a una richiesta di commento. Da quando è entrato alla Casa Bianca, Trump ha intrapreso una serie di azioni contro i palestinesi a sostegno della lobby sionista e a sostegno dei crimini del regime sionista nei territori occupati.
(Pars Today Italian, 30 ottobre 2020)
Gli Usa estendono la cooperazione scientifica al territorio israeliano oltre linea verde
Israele e Stati Uniti hanno firmato ieri un accordo che rimuove ogni ostacolo alla cooperazione scientifica, permettendo di coinvolgere anche i territori al di là della cosiddetta Linea verde, come nel caso di Gerusalemme est e le alture del Golan. L'intesa, siglata oggi dal premier israeliano Benyamin Netanyahu e l'ambasciatore americano David Friedman, viene salutata da alcuni osservatori come un primo passo verso il riconoscimento americano della sovranità d'Israele sugli insediamenti, scrive Times of Israel. Altri lo considerano invece una sorta di "premio di consolazione" dopo che il piano di pace di Trump, con l'annessione degli insediamenti, è stato per ora accantonato. "Questa è un'importante vittoria contro quanti cercano di delegittimare tutto quello che è israeliano oltre le linee del 1967", ha dichiarato Netanyahu. Il protocollo firmato emenda l'accordo scientifico del 1970 che escludeva "le aree geografiche passate sotto l'amministrazione dello stato d'Israele dopo il 5 giugno 1967". L'amministrazione Trump ha già riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan e spostato l'ambasciata americana a Gerusalemme.
(Shalom, 29 ottobre 2020)
Lettera aperta a Sua Eccellenza il Presidente della Repubblica di Turchia
Lettera scritta prima dell'attentato di oggi a Nizza.
Signor Presidente,
mi chiamo Andrea Gaspardo, sono un analista geopolitico basato in Italia e, assieme alla Redazione di Difesa Online, con cui collaboro da due anni, mi permetto di scriverLe direttamente alla luce delle Sue ultime azioni e dichiarazioni perché Le confesso che da diversi anni la Sua persona mi inquieta, e non poco.
Voglio essere chiaro da subito sia con Lei che con i lettori che avranno occasione di scorrere le seguenti righe; io non credo assolutamente che Lei sia "pazzo" o "lunatico" come afferma molta gente superficiale, anche negli entourage di molte cancellerie occidentali e non solo. Io so per certo che Lei è un individuo razionale e che prende le proprie decisioni in base ad un coerente piano che dovrebbe portare Lei ed il Suo paese a dominare il mondo. Del resto è proprio quanto Lei va dicendo costantemente, giorno dopo giorno ormai da anni, in tutte le occasioni pubbliche possibili ai suoi compatrioti, i quali sono ben lieti di seguirLa nei suoi propositi, come ha tristemente dimostrato la realtà della Turchia negli ultimi 20 anni. Sfortunatamente, non molte persone all'estero, soprattutto in Europa, conoscono la lingua turca perciò fino ad oggi non c'è ancora stata quella presa di coscienza collettiva a livello globale rispetto alla pericolosità del Suo operato che invece si creò abbastanza rapidamente nell'Europa degli anni '30, quando Adolf Hitler divenne il Führer del Terzo Reich.
Interessante notare che nel corso di una riunione in presenza della stampa internazionale, nel 2016, Lei abbia proprio citato il Terzo Reich di Hitler come esempio di "presidenzialismo" al quale ispirarsi. Signor Presidente, si trattò veramente di un malinteso come il Suo staff si affrettò successivamente a rimarcare, oppure si era già immedesimato nella parte? Ad ogni modo, essendo io un cittadino ed un patriota italiano, e sapendo per certo che i Suoi disegni espansionistici non sono in alcun modo compatibili con gli interessi nazionali del mio paese, la Repubblica Italiana, vorrei confrontarmi con Lei in maniera franca e schietta, come si fa con un "Onesto Nemico". Voglio anche sgombrare il campo da qualsiasi retro pensiero sul fatto che questa sia una guerra tra Islam, Ebraismo, Cristianesimo o qualsiasi altra religione, come molti irresponsabili nostrani dicono, dando acqua al mulino di un teorema che Lei tenta artatamente di alimentare attraverso la miriade di messaggi contrastanti che lancia regolarmente all'indirizzo dei leader e dei popoli degli altri paesi. Sì, Signor Presidente, questa è una guerra, ma non una guerra di religione e Lei non è il campione ed il capo politico dell'Islam, anche se, ai suoi fini espansionistici, tale ruolo non le dispiacerebbe affatto. Lei, Eccellenza, è solamente un imbroglione che, grazie ad una congiuntura storica molto particolare, è riuscito a sedurre un'intera nazione tanto nazionalista da rasentare il gingoismo ma nel profondo assai frustrata dagli ultimi 100 anni della propria Storia e che ha visto in Lei un "Führer" che potesse portarla a nuovi orizzonti di gloria, vendicando in tal modo le percepite umiliazioni subite nel coso del tempo.
In estrema sintesi, oh Reis (è così che La chiamano i suoi seguaci, e tale parola significa "il Leader", giusto?), in questa contesa la religione non c'entra proprio nulla, così come non c'entra nulla la democrazia, dato che la Turchia non è una democrazia e non sta a noi il compito di "democratizzarla". Noi combattiamo per impedire a Lei e ai Suoi "sudditi" (a questo si sono ridotti i Turchi moderni) di fare i Vostri comodi in un'area del mondo che non Vi appartiene in maniera esclusiva e nella quale dovete smetterla di fare i bulli e andare ad intimidire, quando non ad aggredire militarmente, tutti "altri" che non accettano i vostri diktat. Questo è un pensiero dedicato in particolar modo anche ai molti lettori male informati che sono letteralmente ossessionati dall'Islam: il nostro nemico NON è l'Islam ma il Nazionalismo Turco, che oggi dopo un secolare processo di "evoluzione", è finalmente degenerato nella sua "apoteosi" finale di Fascismo Turco.
Venendo alle Sue dichiarazioni, Presidente, nei giorni successivi alla barbara decapitazione del professore francese Samuel Paty, ad opera di un giovane criminale ceceno di nome Abdoullakh Abouyedovich Anzorov, Lei non ha manifestato alcun tipo di solidarietà nei confronti della famiglia della vittima, e del popolo francese in generale, al contrario di quanto fatto da molti leader persino nello stesso mondo islamico, ma ha anzi pensato bene di cercare di surriscaldare ulteriormente gli animi diffondendo una serie di comunicati nei quali afferma, leggo testualmente, che: "In Europa contro i musulmani si sta compiendo una campagna di linciaggio simile a quella contro gli Ebrei prima della Seconda Guerra Mondiale" continuando poi nell'affermare che "l'islamofobia è la peste dei Paesi Europei" ed infine, rivolto questa volta alla cancelliera Angela Merkel: "Faccio appello alla cancelliera Merkel. Se voi avete libertà di religione, com'è che ci sono stati quasi 100 attacchi contro moschee? Voi siete i veri fascisti, siete gli eredi dei nazisti".
Premetto che l'islamofobia non piace neppure a me, e l'aumento degli attacchi contro luoghi di culto, sia islamici che non, è effettivamente la spia di un profondo malessere interiore delle società europee, ma ci vuole veramente coraggio per affermare che la condizione dei musulmani qui in Europa oggi sia paragonabile a quella degli Ebrei all'epoca della Shoah! Per Sua informazione, nel continente europeo vivono circa 44 milioni di musulmani, pari a circa il 6/7% della popolazione totale dello stesso. Circa 19 milioni di essi vivono all'interno dei confini dell'Unione Europea e del Regno Unito, mentre i restanti si trovano nei vari paesi della penisola balcanica e negli stati ex-sovietici (soprattutto in Russia) che non fanno parte della UE. Quindi, numericamente parlando, le comunità musulmane non hanno mai goduto di una salute migliore, senza contare inoltre il fatto che gran parte dei musulmani che vivono nel continente europeo non sono immigrati di recente arrivo ma appartengono a comunità indigene o che si sono stanziate nel nostro continente secoli addietro, come gli Albanesi, i Bosniaci Musulmani, i Pomacchi, i Turchi Balcanici e Ciprioti, le varie popolazioni musulmane del Caucaso e i Tatari delle origini più disparate (Tatari del Volga, Tatari di Crimea, Tatari di Lipka, ecc...). E, se è vero che gli atti di razzismo non fanno onore alle nostre società, non di meno sfido chiunque, incluso Lei, ad affermare che i governi dei paesi europei stiano preparando dei campi di sterminio per i musulmani di questo continente o che abbiano anche solo preparato un programma di schedatura di massa delle proprio minoranze etno-religiose come invece fa il Suo paese da decenni nei confronti dei suoi "sudditi" appartenenti alle superstiti comunità armene, ebraiche e greche, un tempo numerose e vitali ed oggi piccole e sparute, dopo oltre un secolo di genocidi, deportazioni, espulsioni ed assimilazioni forzate.
A titolo esemplificativo, Signor Presidente, nel novembre del 2019, TRT World, il canale TV in lingua inglese che il Suo governo utilizza come piattaforma di propaganda a livello globale, se ne usciva con un mini documentario dal titolo "Are Turks living in Bulgaria still oppressed?" (traducibile con: "I Turchi che vivono in Bulgaria sono ancora oppressi?"). Ebbene, secondo i dati dell'ultimo censimento disponibile, nel 2011 i Turchi di Bulgaria erano 588.318 pari a circa l'8,8% dei 7.364.570 abitanti della Bulgaria. Non sono per altro gli unici, dato che, oltre ai Turchi, la costituzione della Bulgaria riconosce l'esistenza di almeno altre 12 minoranze.
Ma se l'esempio bulgaro non le piace, possiamo parlare invece del paese che rappresenta storicamente per la Turchia il suo nemico per antonomasia: la Grecia. Qui ancora oggi vivono 135.500 Turchi divisi tra Tracia Occidentale (130.000), isola di Rodi (3.500) ed isola di Coo (2.000) nonostante ancora oggi la già citata TRT World lavori alacremente per dipingere la Grecia come una sorta di inferno vivente per i Turchi. Di grazia, Presidente, non pensa che, nonostante gli innegabili problemi, se in Grecia esiste ancora una comunità turca così numericamente robusta ciò sta a significare che forse la loro vita laggiù non sia poi così proibitiva e i loro diritti, tutto sommato, garantiti? Se permette, andiamo ora ad analizzare che cosa avviene a casa Sua. Nonostante almeno il 30% della popolazione della Turchia appartenga ad una delle varie minoranze etniche o religiose diverse dai "Turchi Sunniti" e persino nei discorsi della gente dei bazar il Suo paese sia noto come "la terra dei 35 gruppi etnici", la costituzione turca afferma che nella Repubblica di Turchia esiste un solo popolo e una sola nazione, quella turca.
Le uniche "minoranze" che voi Turchi riconoscete sono solo alcune comunità religiose (Armeni, Ebrei e Greci) che il Trattato di Losanna vi ha obbligato a riconoscere e che voi avete sempre trattato con fastidio assai malcelato. Al giorno d'oggi vivono in Turchia solamente 70.000 Armeni, 18.000 Ebrei e 5.000 Greci, ultimi superstiti di comunità antiche di migliaia di anni e che, all'epoca del loro massimo splendore, contavano centinaia di migliaia (Ebrei) o milioni (Armeni e Greci) di individui e che oggi sono state quasi completamente spazzate via anche e soprattutto a causa delle politiche discriminatorie, quando non di vero e proprio genocidio che tutti i governi turchi, dal regime dei "Giovani Turchi" del 1908-1918 fino al Suo hanno portato avanti.
Mi dica, Sua Eccellenza, che paura le fanno delle piccole comunità che nel complesso assommano a meno dello 0,2% della popolazione totale della Turchia (un gigante da almeno 83 milioni di abitanti), da meritarsi di venire costantemente attaccate e vilipese dalla stampa di regime, intimidite dalla bande fasciste dei Suoi sodali "Lupi Grigi" e costrette ad emigrare dal paese nel quale hanno sempre vissuto e che deve gran parte del suo sviluppo culturale, economico e sociale proprio a loro?
Che senso ha il fatto che, ancora nel 2010, Lei abbia minacciato di "deportare tutti gli Armeni viventi in Turchia" se altri paesi dovessero riconoscere il Genocidio Armeno?
E che senso ha la pervicacia con la quale Lei, il Suo governo e la Sua intera nazione negate ancora oggi che siano avvenuti il Genocidio Armeno, il Genocidio Greco ed il Genocidio Assiro che, tra il 1913 ed il 1924 causarono la morte di 2.000.000 di Armeni, 1.300.000 Greci e 750.000 Assiri?
Si rende conto che, alla luce di tutto quello che è stato esposto qui sopra, le Sue accuse dirette a noi Europei oggi sono assolutamente ridicole e le Sue pretese di farci la morale, strampalate?
Al di là delle sparate propagandistiche, è necessario notare che, nel campo geopolitico e militare, Lei continui ad essere operoso. Nonostante il fatto che l'economia turca stia affondando ed il cappio degli assegni post-datati si stia inesorabilmente stringendo attorno al Suo collo, come già ampiamente descritto in una delle mie analisi precedenti, Lei non demorde, ed anziché affrontare seriamente il problema di riforma del sistema economico sta puntando tutto sull'avventurismo geopolitico e militare a 360 gradi pensando così di sviare le problematiche interne mediante l'arma del nazionalismo. Non si rende conto che questa è esattamente la strada che innumerevoli dittatori prima di Lei hanno già percorso andando a schiantare loro stessi ed i loro paesi?
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e con l'Italia già virtualmente annichilita nella sua capacità economica dalle sanzioni internazionali seguite allo scoppio della Guerra d'Etiopia e del coinvolgimento nella Guerra Civile Spagnola, durante un comizio, il dittatore Benito Mussolini affermò: "Nel dilemma tra burro e cannoni, scegliamo i cannoni!". Ora, con una crescita economica prevista per il 2020 pari ad almeno il -4%,un rating che tutte le agenzie internazionali descrivono come "spazzatura", un 13,9% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, un 9,3% che vive con meno di 5,5 dollari al giorno ed un ulteriore 39,8% a rischio di povertà ed esclusione sociale, Lei sta essenzialmente dicendo ai Suoi "sudditi": "Nel dilemma tra burro e droni, scegliamo i droni!". Quegli stessi droni che Lei ha venduto e sta vendendo in gran numero in ogni dove, specialmente al Suo sodale di Baku, e che nei Vostri piani comuni dovrebbero servirvi per portare definitivamente a compimento quel genocidio contro il popolo armeno che i Giovani Turchi prima e Mustafa Kemal Atatürk dopo non sono riusciti a portare a compimento del tutto. Ed ora, dopo aver coinvolto il suo paese in guerre tanto costose quanto inutili in Siria, Iraq, Yemen, Somalia, Libia e Caucaso Meridionale, dopo aver tentato finanche di sottrarre l'Ucraina, il Caucaso e l'Asia Centrale all'influenza russa, Lei sta ora preparando il "Grande Colpo" nel Mediterraneo Orientale, nell'Egeo e nella Penisola Balcanica Meridionale, che nei piani Suoi e di quella classe politica di fascisti zeloti di tutti i partiti, anche dell'opposizione, che Le stanno intorno, dovrebbe portare sotto il controllo della Turchia la Tracia Occidentale, la Penisola Calcidica, Salonicco, una buona metà delle isole greche dell'Egeo e l'intera isola di Cipro in modo da permettere al Suo paese di dispiegare nuovamente quella potenza navale che proprio noi Italiani abbiamo annichilito nel corso della Guerra Italo-Turca del 1911-1912 e che da allora voi Turchi non avete mai più riguadagnato.
Lei Signor Presidente sta giocando con il fuoco e, benché la propaganda del Suo regime non perda l'occasione di associare la Sua figura a quella del sultano e califfo ottomano Abdülhamid II, la verità è che, ogni giorno che passa, Lei rischia invece di fare la fine di un altro leader ottomano: Ismail Enver Pascià, la cui memoria è ancora maledetta da milioni di persone, anche nel Suo stesso paese.
In realtà Le confesso che non nutro alcuna seria speranza sul fatto che Lei possa fare ammenda dei propri peccati e redimersi, ma devo concedere alla Storia il beneficio del dubbio. E se Lei è invece intenzionato a seguire fino in fondo la strada dell'imperialismo e della guerra, come ogni "Onesto Dittatore", allora non mi resta che ricordarle che, come recita un proverbio popolare della zona d'Italia dalla quale provengo: "Nessun banchetto, sotto questo cielo, dura per sempre".
Andrea Gaspardo
(Difesa, 29 ottobre 2020)
Di Maio in Israele: incontrerà Netanyahu e Rivlin
Nell'agenda del ministro degli Esteri anche la firma di accordi bilaterali su tecnologia e energia.
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - Diversi dossier di rilievo sul tavolo, poco più di 24 ore nel pieno dell'emergenza sanitaria e un'agenda fittissima per Luigi Di Maio che questa mattina è atterrato in Israele, per la prima visita istituzionale nella veste di Ministro degli Esteri. Spicca tra tutti il faccia a faccia con il premier Benjamin Netanyahu, indice del riguardo che viene riservato da Gerusalemme alla visita del Ministro, forse anche a seguito della sintonia tra Di Maio e Mike Pompeo durante la recente missione a Roma del Segretario di Stato americano. Netanyahu ieri ha avuto anche un colloquio telefonico con il premier Giuseppe Conte ("il mio amico Conte" come è solito chiamarlo Bibi).
In apertura della due giorni in Israele e nei Territori Palestinesi, Di Maio incontrerà il suo omologo, Gabi Ashkenazi, con il quale siglerà una serie di accordi bilaterali per la cooperazione scientifica, culturale ed economica. In una giornata contrassegnata da numerose celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell'assassinio di Itzhak Rabin, Di Maio incontrerà poi il capo dello Stato Reuven Rivlin, il ministro della Difesa, nonché primo ministro "alternato" Benny Gantz e il capo dell'opposizione Yair Lapid.
Venerdì a Gerusalemme vedrà il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, e il nunzio apostolico, monsignor Leopoldo Girelli. Seguirà poi l'incontro con Nickolay Mladenov, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente. Infine a Ramallah incontrerà il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh e il suo omologo Riad Malki.
Mentre in Italia si fanno i conti con la minaccia di restrizioni sempre più serie di fronte all'aumento dei casi di Covid, Di Maio arriva in una Israele che sta muovendo i primi passi in uscita da un secondo, impopolare lockdown che ha effettivamente ridotto la curva del contagio: da oltre 5000 casi giornalieri agli 861 di ieri, in cinque settimane. La cooperazione scientifica tra Italia e Israele, al centro di uno dei protocolli che verranno siglati oggi, ha visto di recente anche una convergenza nella ricerca di una cura al Covid, con l'Istituto Biologico israeliano, l'Ospedale Carreggi di Firenze e l'Ente Toscana Life Science che hanno firmato un'intesa per la clonazione di anticorpi monoclonali. Proprio in questi giorni, lo stesso Istituto Biologico ha avviato la fase di sperimentazione umana del vaccino made in Israel.
Altro argomento che avrà grande peso nel corso della visita è il dossier energia: alla presenza dei rispettivi ministri degli Esteri, verranno siglati anche tre accordi tra Snam e imprese israeliane nel settore degli idrocarburi e dell'idrogeno, incentrati sulla progressiva conversione ad energia pulita di mezzi di trasporto pubblico. Si parlerà anche del progetto israelo-greco-cipriota del gasdotto East-Med, in cui si cerca il coinvolgimento italiano. In un'intervista rilasciata al quotidiano Israel Hayom oggi in vista dell'arrivo, Di Maio parla della rilevanza del progetto per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, ma solleva anche dubbi: "E' un progetto a medio termine, che dipende dalla quantità di risorse che le trivellazioni esistenti individueranno. In altre parole, è una delle tante opzioni". Il Ministro parla invece dell'importanza del Forum del gas del Mediterraneo orientale, di cui Italia e Israele sono co-fondatori, "per sviluppare il mercato del gas naturale liquefatto".
Quanto alle dinamiche regionali, come anticipato nell'intervista al Ministro degli Esteri Ashkenazi oggi su Repubblica, Israele avanzerà la richiesta all'Italia di inserire Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, seguendo l'esempio tedesco di pochi mesi fa. E, in vista dell'incontro con le autorità palestinesi domani, l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, ha auspicato che il Ministro "possa inviare il messaggio che è necessario il ritorno al tavolo dei negoziati". Di Maio, nell'intervista a Israel Hayom, ribadisce il sostegno italiano agli Accordi di Abramo che stanno ridefinendo la mappa mediorientale - nell'arco di due mesi, tre Paesi arabi, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan, hanno dichiarato la fine delle ostilità con lo Stato ebraico e l'avvio di relazioni diplomatiche. "La normalizzazione contribuirà alla creazione di condizioni di stabilità, dialogo e sviluppo per tutte le parti, che potrebbero portare all'avvio di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi verso una soluzione a due Stati giusta, sostenibile e realizzabile". E ribadisce che "la questione palestinese fa parte dell'equazione per la pace in Medio Oriente. La risoluzione del conflitto israelo-palestinese è stata ed è tuttora una delle condizioni che garantiranno stabilità e prosperità alla regione".
Non è la prima visita ufficiale di Di Maio in Israele. Nel 2016, allora vicepresidente della Camera, partecipò a un "Tour per la pace" di alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle in Israele e Palestina, in cui si raggiunse però una sorta di incidente diplomatico, quando la delegazione non riuscì ad accedere alla Striscia di Gaza.
(la Repubblica, 29 ottobre 2020)
Ashkenazi: "L'Europa partner strategico nel nuovo Medio Oriente"
Alla vigilia della visita di Di Maio, l'ex Capo di Stato maggiore parla delle nuove sfide per la regione dopo gli Accordi di Abramo con Emirati e Bahrein
Le nuove relazioni tra i Paesi porteranno stabilità. Ora speriamo che i leader palestinesi scelgano la pace.
Con l'Ue valori condivisi. Bruxelles è accanto a noi nell'impedire all'Iran di acquisire capacità nucleari militari
di Gianni Vernetti
Gabi Ashkenazi, 66 anni, è stato Capo di Stato Maggiore dell'Esercito di Israele e dopo una lunga carriera militare ha lasciato l'esercito per dedicarsi a tempo pieno all'impegno politico. Nell'aprile del 2019 è stato eletto alla Knesset (il Parlamento di Israele) nella coalizione "Bianco e Blu" guidata da Benny Gantz e dal maggio di quest'anno è Ministro degli Affari Esteri del governo Netanyahu. Italia e Israele hanno festeggiato da poco 70 anni di relazioni bilaterali e la cooperazione politica, scientifica, economica e industriale è molto ampia. Ai settori tradizionali, si è aggiunta oggi la cooperazione scientifica sul contrasto al Covid, sulla sicurezza del cyberspazio, su energia e ambiente. In questa intervista esclusiva per La Repubblica alla vigilia della visita del suo omologo italiano Luigi Di Maio, Gabi Ashkenazi ci parla delle nuove sfide che Israele sta affrontando in un Medio Oriente in rapido mutamento dopo gli storici Accordi di Abramo, con uno sguardo all'Italia ed all'Europa.
- Gli storici Accordi di Abramo fra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Israele stanno già cambiando il panorama politico dell'intero Medio Oriente. Quale sarà l'Impatto sul lungo periodo di tali accordi?
«Gli Accordi di Abramo sono senza dubbio un evento storico che sta già cambiando il Medio Oriente. Gli accordi offrono l'opportunità di trasformare l'intera regione, per troppo tempo connotata da violenze e conflitti, in una grande area di prosperità e stabilità. Le nuove relazioni fra i nostri Paesi contribuiranno in modo determinante all'incremento della cooperazione economica, commerciale e scientifica a beneficio dei cittadini di tutta la regione».
- La storia sembra essere nuovamente in movimento in Medio Oriente: quali saranno i nuovi Paesi che sceglieranno la via della piena normalizzazione dei rapporti con Israele?
«Pochi giorni fa il Sudan si è unito agli Accordi di Abramo. È un fatto estremamente importante se consideriamo il fatto che il Sudan per molti anni è stato il principale alleato dell'Iran e punto di transito di molte organizzazioni terroristiche. Sono sicuro che altri Paesi si uniranno al processo di pace in corso in Medio Oriente e vorrei invitare la leadership palestinese a cogliere questa opportunità».
- Crede che sia possibile una nuova architettura di sicurezza per Il Medio Oriente capace dl garantire sicurezza e stabilità per l'intera regione?
«Gli Accordi di Abramo pongono le basi per un nuova realtà fatta di relazioni economiche, cooperazione, voli e turismo, nuovi accordi scientifici e tecnologici. Grazie a queste nuove basi di partnership affronteremo insieme le sfide più urgenti per contrastare chi minaccia la sicurezza. Dobbiamo riconoscere in tal senso il grande sforzo promosso dal Presidente Donald Trump per avere contribuito al nuovo processo di pace in Medio Oriente».
- Considera l'Iran ancora una minaccia per Israele?
«La più grande minaccia alla pace e alla stabilità in Medio Oriente è rappresentata dall'Iran e dalla sua politica aggressiva di esportazione della rivoluzione islamica. L'Iran sostiene diverse organizzazioni terroristiche in tutto il Medio Oriente (Hezbollah e Hamas) e promuove violenza e instabilità in numerosi paesi, fra cui Libano, Siria, Iraq e Yemen. Hezbollah, poi, usa la popolazione civile in Libano come scudo umano. Deve continuare lo sforzo della comunità internazionale per impedire che l'organizzazione si doti di missili e armamenti avanzati e contemporaneamente è fondamentale che ancora più paesi includano Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche. La vera stabilità in Medio Oriente sarà raggiunta soltanto quando sarà impedito in modo definitivo all'Iran di diventare una potenza nucleare».
- La nuova assertività della Turchia nel Mare Egeo rappresenta un sfida per Grecia, Cipro, Israele e per tutta l'Europa. Qual è la sua opinione?
«Le azioni unilaterali intraprese dalla Turchia possono produrre una pericolosa escalation e rappresentano una minaccia alla stabilità del Mediterraneo orientale. Israele conferma il suo forte sostegno alla Grecia e si oppone ai tentativi di minaccia dei propri diritti marittimi internazionalmente riconosciuti».
- Ci può dire qualcosa sui rapporti fra Israele, Italia e l'Unione Europa. Che cosa si dovrebbe fare per migliorare ulteriormente le relazioni?
«Attribuisco grande importanza al rafforzamento delle relazione fra Israele e tutta l'Unione Europea. Israele e la Ue condividono forti valori comuni: rispetto della vita, stato di diritto, democrazia ed una comune tradizione giudaico-cristiana. Le fondamenta sui cui poggiano Israele e l'Unione Europea sono molto simili. L'insieme condiviso di valori, la storia comune (sia quella buona, che quella cattiva), il livello di sviluppo, fanno dell'Europa íl punto di riferimento più importante a cui guardano i cittadini israeliani. Le nostre relazioni con la Ue sono solide e di lunga data. Ho già incontrato dieci ministri degli Esteri di diversi Paesi europei e il mio primo principale obiettivo è quello di rafforzare le relazioni bilaterali in tutti i settori, nell'interesse di Israele e dell'Europa. In più Israele considera l'Europa come il partner più importante nello sforzo per impedire all'Iran di acquisire capacità nucleari militari».
- Tornando da dove abbiamo iniziato: gli Accordi di Abramo. Ebrei, cristiani e musulmani considerano Avraham/ Abramo/ Ibrahim il patriarca del monoteismo. La forza evocativa di questa scelta non può lasciare Indifferenti né l'Occidente né il mondo arabo. Crede che un negoziato con i palestinesi possa essere riaperto?
«Non c'è nessuno al mondo più interessato di Israele alla pace con i palestinesi. Spero vivamente che la leadership palestinese colga l'opportunità del cambiamento storico in atto in Medio Oriente e scelga la via della pace, tornando prima possibile a negoziati diretti con Israele, senza precondizioni. L'unica soluzione possibile per Israele e Palestina è la pace»
(la Repubblica, 29 ottobre 2020)
Museo Ebraico di Venezia si fa più grande e funzionale
Da domenica è aperta la nuova sede temporanea del Museo Ebraico di Venezia, in capo di Ghetto Novo a fianco al monumento alla Shoah. Questo per permettere i lavori di restauro alla vecchia sede del museo, il primo stralcio durerà sei mesi
La comunità ha aspettato a lungo per restaurare il Museo Ebraico di Venezia. Aperto negli anni 50, ora grazie a molti finanziamenti, anche da parte di donatori stranieri, è possibile provvedere ad un grande restauro ristrutturale.
Museo Ebraico di Venezia
Il Museo Ebraico comprende un ineguagliabile complesso di sinagoghe rinascimentali. Anche per esse è previsto un'importante progetto di restyling.
I lavori da effettuare vanno dalla statica degli edifici all'installazione dell'area condizionata, fino all'abbattimento delle barriere architettoniche. Saranno spostate caffetteria e biblioteca, il tutto a prova di acqua alta, fino a 220 cm.
I finanziamenti
Un progetto da oltre 9 milioni di euro, al quale danno il loro contributo la famiglia Rothschild, nei suoi rami inglese, francese e svizzero, Ronald Lauder, Venice in Paril, Save Venice e altri donatori stranieri.
Con questo progetto la comunità ebraica intende rilanciare l'intera area del Ghetto. La chiusura temporanea del museo e delle sinagoghe così come fino ad ora conosciuti darà modo di scoprire altri luoghi all'interno del Ghetto.
Le attività didattiche
Nel totale rispetto delle orme anti-covid 19, è possibile prenotare visite guidate e visite didattiche, non solo negli itinerari del Ghetto, ma anche l'antico cimitero del Lido o l'antico Giardino Segreto della Scuola Spagnola.
(TeleVenezia, 29 ottobre 2020)
GB: antisemitismo, la commissione britannica condanna il Labour
La commissione britannica sui diritti umani ha riconosciuto oggi il Labour, al termine di un'inchiesta durata mesi, colpevole di "atti illegali di discriminazione e molestia" d'impronta antisemita commessi al suo interno negli ultimi anni.
Particolarmente criticate le pratiche sotto la leadership di Jeremy Corbyn (2015-2020), esponente della sinistra radicale e sostenitore storico della causa palestinese.
Il verdetto, contestato da Corbyn e dai suoi sostenitori, riconosce almeno in parte le ragioni di militanti e funzionari di origine ebraica e da organizzazioni della comunità ebraica del Regno che avevano presentato denuncia di fronte all'organismo indipendente sullo sfondo delle polemiche esplose in seno allo stesso partito laburista.
Nel rapporto di 130 pagine della commissione si accusa il Labour corbyniano di non aver reagito in modo coerente, deciso e trasparente a varie denunce "almeno fino al 2018", ossia fino agli ultimi due anni della leadership del "compagno Jeremy", dimessosi poi dopo la sconfitta elettorale del dicembre 2019 e rimpiazzato dal più moderato Keir Starmer che s'è impegnato ora a combattere come priorità assoluta ogni traccia di antisemitismo e a "recuperare la fiducia" della comunità ebraica britannica. Mentre Caroline Waters, presidente ad interim dell'autorità, definisce "inescusabili" i fallimenti imputati su questo fronte.
"Alcune denunce non sono state ingiustificatamente investigate", sostiene ancora il rapporto, che evoca inoltre "indizi d'interferenza politica nella gestione" di certi procedimenti disciplinari avviati per presunti casi di antisemitismo negli anni scorsi. "Lacune significative", rincara la commissione, puntando il dito su "specifici esempi di molestia e discriminazione" e sulla "mancanza di leadership" imputata a Corbyn malgrado il suo richiamo insistito alla "tolleranza zero". Di qui l'intimazione all'attuale vertice del maggiore partito d'opposizione del Regno Unito "a onorare gli impegni presi e a riconoscere l'impatto che molteplici investigazioni e anni di fallimenti nel contrasto dell'antisemitismo hanno avuto sugli ebrei".
(swissinfo.ch, 29 ottobre 2020)
La Difesa indiana conferma il contratto per due aerei AWACS A-50 Phalcon
Progetto per l'acquisizione di un lotto aggiuntivo di due velivoli AWACS A-50EI dotati del radar israeliano EL/M-2075 Phalcon. L'integrazione dei sistemi sarà effettuata in Israele.
di Maurizio Sparacino
Il Ministero della Difesa indiano ha nuovamente approvato e presentato al Comitato per la sicurezza del gabinetto dei ministri un progetto per l'acquisizione di un lotto aggiuntivo di due velivoli AWACS A-50EI dotati del radar israeliano EL/M-2075 Phalcon e basati sull'aereo da trasporto militare russo Ilyushin Il-76 (Codice NATO "Candid").
L'integrazione dei sistemi - riferisce l'Hindustan Times - sarà effettuata in Israele mentre la consegna della prima delle due piattaforme richiederà dai due ai tre anni con un costo totale del progetto stimato circa 2 miliardi di dollari.
Nel marzo del 2004 fu firmato un primo contratto del valore di 1,1 miliardi di dollari per l'acquisto di tre radar EL/M-2075 Phalcon con la loro installazione a bordo degli aerei di fabbricazione russa Il-76 del Ministero della Difesa indiano e con un'opzione per ulteriori due esemplari.
Il primo AWACS fu poi consegnato all'Aeronautica indiana (IAF) il 25 maggio 2009, il secondo esemplare giunse in India il 25 marzo 2010 mentre il terzo nel dicembre dello stesso anno.
I negoziati per esercitare l'opzione di cui sopra e procedere così all'acquisto di un lotto aggiuntivo di due velivoli iniziarono quasi immediatamente dopo la consegna dei primi tre AWACS, tanto che lo stesso Comitato guidato dal Primo Ministro Narendra Modi approvò il 1° marzo 2016 il progetto sulla base di un accordo trilaterale con Israele e Russia, così come trattato a suo tempo da Analisi Difesa; tuttavia, alla fine il contratto si arenò a causa degli alti costi necessari alla finalizzazione del progetto.
Allora le fonti locali riportarono che gli Il-76 sarebbero stati acquistati dall'uzbeka Tashkent Mechanical Plant (ex TAPO "V.P. Chkalov") e successivamente modificati in primis dalla società russa Beriev sita a Taganrog, azienda da sempre incaricata della realizzazione degli aerei AWACS Il-78 e infine dalla israeliana IAI Elta che avrebbe proceduto ad installare il sistema radar Phalcon.
Secondo i militari indiani questi due nuovi AWACS dotati degli ultimi aggiornamenti saranno estremamente più potenti delle precedenti tre piattaforme già in servizio con la IAF.
(Analisi Difesa, 29 ottobre 2020)
USA: progetto di legge sulla vendita di bombe anti-bunker a Israele
di Chiara Gentili
Due legislatori bipartisan americani presenteranno una legge al Congresso degli Stati Uniti per chiedere al Dipartimento della Difesa (DoD) di prendere in considerazione la vendita a Israele di bombe anti-bunker in grado di penetrare in strutture sotterranee pesantemente fortificate. È quanto ha annunciato, mercoledì 28 ottobre, uno degli sponsor del disegno di legge sottolineando che il suo obiettivo è quello di rafforzare il vantaggio militare di Israele e fornirgli protezione contro la percepita ostilità iraniana. L'iniziativa arriva dopo che Israele e Stati Uniti hanno firmato una serie di accordi volti a garantire il vantaggio militare qualitativo (QME) di Tel Aviv nella regione.
"Dobbiamo garantire che il nostro alleato Israele sia equipaggiato e preparato per affrontare una gamma completa di minacce, inclusa la minaccia di un Iran dotato di armi nucleari", ha dichiarato con un comunicato stampa il membro del Congresso Josh Gottheimer, del Partito democratico. "Ecco perché sono orgoglioso di presentare questo nuovo disegno di legge bipartisan per difendere Israele dall'Iran e da Hezbollah e per rafforzare il vantaggio militare qualitativo del nostro storico alleato nella regione con bombe anti-bunker", ha aggiunto, specificando: "L'Iran e i suoi delegati terroristici non devono essere in grado di minacciare gli Stati Uniti o Israele con un'arma nucleare".
Insieme al legislatore Brian Mast, un repubblicano che co-sponsorizza il disegno di legge, Gottheimer presenterà il progetto al Congresso venerdì 30 ottobre. La legislazione consentirebbe potenzialmente agli Stati Uniti di vendere la Massive Ordnance Penetrator (MOP) bunker-buster, una bomba a guida di precisione GPS, a Israele. Secondo quanto riferito dal quotidiano al-Jazeera, le MOP, le più grandi bombe non nucleari nell'arsenale degli Stati Uniti, sono in grado di penetrare attraverso 60 metri di terra e 18 metri di cemento, rendendole una minaccia diretta per qualsiasi struttura sotterranea nei Paesi vicini.
In base al principio di preservare il "vantaggio militare qualitativo" di Israele, gli Stati Uniti si consultano regolarmente con Tel Aviv sulla proposta di vendita di armi avanzate ad altri Paesi della regione. Un disegno di legge approvato nel 2008 stabilisce che la vendita di armi degli Stati Uniti a qualsiasi Stato del Medio Oriente diverso da Israele debba garantire che non avrà effetti negativi sul vantaggio militare di Tel Aviv.
Mentre Israele ha potuto acquisire i jet F-35 dagli Stati Uniti, le vendite di questi caccia ad altri Stati arabi, inclusi gli Emirati Arabi Uniti, sono state negate. Tel Aviv ha più volte ribadito la necessità di mantenere la sua superiorità militare da quando ha forgiato legami ufficiali con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, un altro stato arabo del Golfo, in base agli accordi mediati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 15 settembre. Ciononostante, Washington avrebbe accettato di considerare la possibilità di consentire ad Abu Dhabi di acquistare jet stealth F-35 in un accordo collaterale all'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati.
Il 15 settembre, Washington è stata testimone della cerimonia per la firma degli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein Il primo patto, nominato "accordo Abraham", è stato annunciato dal capo della Casa Bianca, Donald Trump, il 13 agosto, ed ha di fatto normalizzato le relazioni tra Israele e UAE. In particolare, Israele si è impegnato a sospendere l'annessione dei territori palestinesi della Cisgiordania, così come annunciato in precedenza, sebbene il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia specificato di aver semplicemente deciso di "ritardare" l'annessione come parte dell'accordo con Abu Dhabi. Proprio Netanyahu si è più volte detto pronto a firmare un accordo storico, prevedendo che presto anche altri Paesi seguiranno l'esempio emiratino.
Gli accordi hanno reso gli Emirati e il Bahrein il terzo e il quarto Stato arabo che riconoscono la sovranità dello Stato d'Israele. Il primo era stato l'Egitto, nel 1979, e poi la Giordania, nel 1994. Gli UAE hanno affermato che la decisione di normalizzare le relazioni con Israele ha "infranto la barriera psicologica" e rappresenta "la via da seguire" per portare pace nella regione mediorientale.
(Sicurezza Internazionale, 29 ottobre 2020)
Gantz: «Dal Libano voci positive»
Incontrando i militari impegnati un un'esercitazione nel nord di Israele, vicino al confine con il Libano, Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano e futuro premier del governo a rotazione, ha detto di aver sentito «voci positive», che parlano di «pace» e di «relazioni» con il Paese dei Cedri, con cui sono in corso valutazioni congiunte sul confine marittimo. «La popolazione libanese deve sapere che è Hezbollah il suo problema, non Israele», ha sottolineato il leader centrista.
(Avvenire, 28 ottobre 2020)
Gilad Erdan rimprovera lOnu per il suo silenzio sulla normalizzazione con i paesi arabi
Gilad Erdan, ambasciatore di Israele all'Onu
Durante una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla situazione in Medio Oriente, l'ambasciatore israeliano Gilad Erdan ha rimproverato l'Onu per la sua "muta reazione" ai recenti accordi di normalizzazione fra lo stato ebraico e i paesi arabi Emirati, Bahrein e Sudan e per la sua "evidente sottovalutazione di fattori che mettono a rischio la stabilita' e la sicurezza della regione". "Vediamo una stridente dissonanza tra cio' su cui questo Consiglio decide di concentrarsi e cio' che sta realmente accadendo in Medio Oriente" ha detto Erdan, esortando il Consiglio di Sicurezza a "sbarazzarsi dei vecchi paradigmi e affrontare la nuova realta' della regione". Dal canto suo, il coordinatore speciale Onu per il Medio Oriente Nickolay Mladenov ha fatto appello alla dirigenza palestinese "affinche' riprenda il coordinamento con Israele" e accetti le entrate fiscali che Israele e' pronto a trasferirle: "denaro del popolo palestinese che non puo' essere sostituito dai finanziamenti dei donatori".
"La vitalita' dell'Autorita' Palestinese - ha detto Mladenov - e' gravemente minata da una crisi economica e fiscale che e' esacerbata dalla decisione palestinese di porre fine al coordinamento civile e di sicurezza con Israele".
(Shalom, 28 ottobre 2020)
Finalmente in Israele arriveranno le bombe anti-bunker?
La consegna delle nuove bombe anti-bunker sarebbe la condizione posta da Netanyahu per acconsentire alla vendita di F-35 agli Emirati Arabi Uniti
di Franco Londei
Bombe anti-bunker in Israele per spazzare via i siti nucleari iraniani costruiti in profondità sotto terra? Finalmente sembra la volta buona.
Questa settimana il Congresso americano prenderà in considerazione una proposta bipartisan che permetterà agli Stati Uniti di vendere a Israele le tanto agognate bombe anti-bunker.
Sono anni che Gerusalemme chiede che Washington le venda le enormi bombe anti-bunker e sembra che questa volta non ci saranno ostacoli.
Il tutto rientrerebbe nelle condizioni poste da Netanyahu per la vendita di caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti e in qualche modo ristabilirebbe o addirittura potenzierebbe il QME (Qualitative Military Edge), ovvero la superiorità militare israeliana nella regione.
Secondo i promotori della legge bipartisan, la vendita di ordigni MOP (Massive Ordnance Penetrator) a Israele rafforzerà la sicurezza di tutti e due i paesi in quanto impedirebbe all'Iran di dotarsi di armi nucleari.
Già in passato Israele chiese di ottenere ordigni MOP ma l'allora Presidente, Barack Obama, si rifiutò di consegnare tali ordigni a Gerusalemme per il timore di un attacco all'Iran.
Per inciso, l'operazione non sarà affatto facile. La legge americana vieta la vendita di tali ordigni, divieto che verrebbe rimosso dalla nuova legge che però, nonostante sia bipartisan, potrebbe incontrare la resistenza di diversi rappresentanti democratici.
Per di più gli Stati Uniti dovrebbero vendere a Israele un aereo in grado di trasportare l'enorme ordigno, cosa resa impossibile dal trattato New Start firmato con la Russia nel 2010 che scade però il prossimo gennaio.
In realtà Israele sarebbe già in possesso di un tipo di ordigno anti-bunker più leggero, il GBU-28, venduto segretamente nel 2009, ma si ritiene che tale ordigno non sia in grado di penetrare la corazza di cemento armato che protegge l'impianto di Fordo.
Le nuove bombe sarebbero invece micidiali. Il sistema prevede un "lavoro di coppia" con un primo ordigno che penetra in profondità qualsiasi bunker e un secondo ordigno che lo segue e che distrugge tutto con un potenza mai vista prima in un ordigno non nucleare.
(Rights Reporter, 28 ottobre 2020)
CoVid-19: Israele ha il vaccino cinese grazie al Mossad
La Tv israeliana ha riportato che il Mossad (l'agenzia d'intelligence esterna), avrebbe assicurato al Paese un vaccino contro il CoVid-19 prodotto in Cina. La notizia è giunta a seguito dell'annuncio del governo di questo fine settimana che stava intensificando gli sforzi diplomatici per acquisire il miglior vaccino contro il coronavirus.
Secondo il quotidiano The Jerusalem Post, un alto funzionario del ministero della Salute israeliana "che è a conoscenza della problematica" ha detto che il Paese sta finalizzando accordi con sviluppatori di diversi paesi per l'acquisto di vaccini contro il coronavirus. Lunedì la televisione israeliana Channel 12 ha detto che "più fonti" hanno confermato che il Mossad si era assicurato il vaccino cinese e che "lo aveva portato in Israele" per farlo studiare dagli scienziati.
Non è chiaro il motivo per cui il Mossad, la principale agenzia di intelligence esterna di Israele, sia stata coinvolta nell'acquisizione del vaccino contro il coronavirus. Il rapporto portato alla luce da parte dei media rivela che il Ministero degli Affari Esteri israeliano, così come il Ministero della Salute, non sono stati mai coinvolti nello sforzo di acquisire il vaccino di fabbricazione cinese. Non è la prima volta che il Mossad si sia occupato dell'emergenza CoViD-19. Come riportato da intelNews, il direttore del Mossad Yossi Cohen è stato anche a capo di un comitato nazionale per il CoVid-19, per garantire al Paese la fornitura di medicinali e forniture protettive.
La notizia comunque è stata tenuta riservata il più possibile secondo una precisa strategia: il Mossad avrebbe acquistato il vaccino dalla Cina in segreto, perché Israele non voleva offendere gli Stati Uniti in un momento in cui le tensioni tra Washington e Pechino stanno subendo un'escalation.
Il Ministero degli Affari Esteri israeliano e il Ministero della Salute hanno chiesto chiarimenti all'ufficio del Primo Ministro sul ruolo del Mossad nell'acquisizione di un vaccino contro il COVID-19. Il portavoce ha rifiutato di commentare la vicenda.
(PRP Channel, 28 ottobre 2020)
I convertiti, i costretti, i marrani: una mostra sugli ebrei in fuga dalla Spagna
La mostra al museo di via Valdonica a Bologna
La lunga storia degli ebrei nella Penisola Iberica (Sefarad), dai primi anni dell'Impero romano, passando per il Medioevo e la fiorente Età d'Oro che vide un notevole sviluppo della cultura ebraica in Spagna. Fino al dramma dell'espulsione, delle fughe e delle conversioni forzate. A raccontarla una mostra, «Hidden Identities. Identità nascoste. Sulle orme dei cripto giudei», che si inaugura oggi alle 18 al Museo Ebraico di via Valdonica 1/5 con anche diretta streaming su museoebraicobo.it. Oltre ad alcuni focus sulla presenza della cultura sefardita in Emilia-Romagna, sono esposti manoscritti e testi ebraici sefarditi, provenienti dalla Biblioteca Universitaria di Bologna e dalla Biblioteca di Imola. In particolare, la preziosa Bibbia ebraica miniata di Imola prodotta a Toledo nel 1480, portata in Italia da un profugo sefardita, e la Bibla en lengua Española nell'edizione del 1553 di Duarte Pinel, converso portoghese che si rifugiò a Ferrara. Il percorso espositivo getta luce sull'affascinante e complessa vicenda dei cripto-giudei, dei conversos (i convertiti), degli anusim (i costretti), dei nuovi cristiani e dei marrani. In pubblico cristiani ma segretamente, nell'intimità delle loro case, praticanti il giudaismo.
(Corriere di Bologna, 28 ottobre 2020)
Rinviato il Convegno per il centenario della "Dichiarazione di Sanremo"
Comunicato Stampa congiunto EDIPI e Gruppo Sionistico Piemontese.
Esattamente fra un mese, per l'appunto il 28 (a cura di EDIPI) e 29 novembre (a cura di EDIPI e del Gruppo Sionistico Piemontese), si sarebbe dovuto tenere a Torino il convegno, inizialmente previsto per il 24 e 25 aprile, per ricordare il centenario della "Dichiarazione di Sanremo".
Purtroppo anche la decisione di spostare l'incontro a novembre, in una data pur sempre significativa per lo Stato di Israele (la risoluzione ONU del 29 novembre 1947), si è dimostrata inutile a casa del nuovo aggravamento della situazione sanitaria. Per questa ragione gli organizzatori Emanuel Segre Amar e Ivan Basana hanno deciso di sospendere l'edizione 2020 in occasione del centenario, prospettando la riorganizzazione per la primavera 2021.
Un ringraziamento particolare va a tutti i relatori che avevano aderito con entusiasmo sottoscrivendo la loro partecipazione. Li indichiamo nell'ordine di intervento previsto nelle due giornate:
Prof. Marcello Cicchese, sen. Lucio Malan, dr.Federico Steinhaus, dr. Mark Surey, past. Bruno Ciccarelli, prof. Ugo Volli, proff.essa Nicla Costantino, dr. Alex Kern, prof. Enrico Fubini, past. Corrado Maggia, prof. Claudio Vercelli, dr. David Elber, avv. Vincenzo Napoli e Rav Alberto Shomek.
(EDIPI e Gruppo Sionistico Piemontese, 28 ottobre 2020)
Luci accese contro il buio nella notte del 9 novembre, anniversario della Notte dei Cristalli
di Ilaria Ester Ramazzotti
Una campagna internazionale per lanciare messaggi di unità e speranza in occasione dell'82° anniversario della Notte dei cristalli. Con questo intento March of the Living, organizzazione educativa che si occupa di portare studenti a visitare i luoghi dei lager nazisti, promuove per il prossimo 9 novembre la campagna Let There Be Light. L'invito, rivolto a cittadini, enti e luoghi di culto, è di tenere le luci accese durante la notte per commemorare la Kristallnacht del 9 novembre 1938, quando i nazisti attaccarono e incendiarono sinagoghe, proprietà e luoghi ebraici Germania, Austria e Cecoslovacchia. "Insieme uniremo il mondo contro antisemitismo, razzismo, intolleranza e odio facendo brillare la luce sull'oscurità dell'odio", si legge sul sito web della campagna, dove all'indirizzo web https://kristallnacht.motl.org/ si potrà anche scrivere messaggi di condivisione.
Alcuni dei messaggi di riflessione, preghiera o commemorazione verranno proiettati sui muri della Città Vecchia di Gerusalemme. Il progetto viene realizzato in collaborazione con il Miller Center for Community Protection & Resilience della Rutgers University e la Comunità Ebraica di Francoforte. Anche la sinagoga principale della città sul Meno, una delle poche che non furono distrutte durante la Notte dei Cristalli, verrà illuminata.
I presidenti di March of the Living Phyllis Greenberg Heideman e Shmuel Rosenman hanno a proposito dichiarato: "Dobbiamo usare le nostre voci per dire al mondo che gli attacchi contro ebrei e non ebrei, sia sulla base della razza religiosa, il colore o il credo sono imperdonabili. Nei giorni in cui sinagoghe e luoghi santi di varie religioni vengono attaccati regolarmente in tutto il mondo, è nostro dovere parlare ad alta voce e chiaramente".
Salomon Korn, a capo della Comunità Ebraica di Francoforte, come riporta il Jerusalem Post, ha affermato: "L'antisemitismo e il razzismo minacciano la nostra società nel suo insieme e mettono in pericolo i nostri valori e la nostra democrazia. Insieme vogliamo inviare un segnale contro l'aumento dell'antisemitismo e dell'incitamento all'odio in tutto il mondo. Vogliamo sensibilizzare contro la crescente discriminazione e intolleranza e portare la luce dell'umanità in questi tempi difficili".
John Farmer, Direttore dell'Eagleton Institute of Politics, al Miller Center, ha spiegato: "La Notte dei Cristalli segnò una svolta fondamentale nel movimento storico dall'antisemitismo basato sulla cultura del genocidio approvato dallo Stato. Il 9 novembre 1938 la propaganda antisemita a cui era stata sottoposta per anni la popolazione ebraica si trasformò in aperta violenza, sanzionata dallo Stato. Commemorare quel giorno oscuro della storia umana è particolarmente significativo oggi, poiché l'odio che è aumentato sui social media ha iniziato a sfociare in violenza contro gli ebrei e le altre fedi. È imperativo che tale oscurità sia confutata dalla luce: la luce che brillerà sui luoghi di culto di tutto il mondo, la luce della verità che svergogna tutte le forme di odio".
La Kristallnacht e i pogrom del 1938
Nei pogrom del novembre 1938, per mano di ufficiali del Partito Nazista, delle SA (Sturmabteilungen), della Gioventù hitleriana, di nazisti, furono distrutte più di mille e 400 sinagoghe oltre a migliaia di negozi e di case private, cimiteri e i luoghi di aggregazione delle comunità ebraiche. Il numero degli ebrei uccisi, secondo valutazioni storiche varia fra i 1.300 e i 1.500 calcolando anche i 400 che morirono in episodi di violenza nei giorni successivi. Circa 700 furono invece gli arrestati e deportati. Per le violenze e le distruzioni che vi furono perpetrate, la Notte dei cristalli è una tappa fondamentale, un punto di non ritorno nello svolgersi degli eventi che nel giro di pochi anni porteranno allo sterminio della popolazione ebraica nei territori del Terzo Reich nel corso della Shoah.
(Bet Magazine Mosaico, 27 ottobre 2020)
Gas, geopolitica, difesa: il menù del trilaterale Grecia-Israele-Cipro
Una nuova e rinnovata alleanza, stabile e duratura, per affrontare i tre temi strategici dell'area euromediterranea, gas, geopolitica e difesa. Così Grecia, Israele e Cipro marciano unite (anche contro le provocazioni turche).
di Giorgio Fthia
Il vertice trilaterale tra i tre paesi in programma oggi, prosegue nella scia avviata in occasione del progetto Eastmed, il gasdotto che corre da Israele conducendo il gas sino al Salento. Ieri sera il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias ha incontrato privatamente il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi, con l'attenzione dedicata agli sviluppi nel Mediterraneo orientale, nel Medio Oriente e nelle relazioni UE-Israele. Oggi il vertice ha previsto l'incontro di Dendias con il cipriota Christodoulidis e l'israeliano Ashkenazi, per discutere di economia, energia e geopolitica.
Spazio anche (ma soprattutto) alle provocazioni turche nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale, dove le nuove accuse di Erdogan contro l'Europa e Macron hanno trovato una risposta corposa da parte degli stati membri. Forse anche per questo lo Stato maggiore turco ha comunicato che le esercitazioni militari nell'Egeo annunciate da Ankara il 27 e 28 ottobre sono state cancellate.
(Mondo Greco, 27 ottobre 2020)
L'innovazione di Israele e i droni per il Mediterraneo
Le operazioni di controllo avverranno con dei droni nel Mediterraneo, dopo i primi test positivi effettuati sull'isola greca di Creta.
L'innovazione tecnologica israeliana torna a riscuotere attenzione internazionale. Israele è riuscita ad ottenere un importante finanziamento per potenziare azioni di monitoraggio, controllo e sicurezza nel Mediterraneo, garantendo ulteriore sicurezza ai confini dell'Europa. Le operazioni di controllo avverranno attraverso dei droni che circoleranno nel Mediterraneo dal prossimo anno, dopo i primi test positivi effettuati sull'isola greca di Creta. Tale prospettiva nasce dalla collaborazione di Airbus, l'organizzazione aerospaziale comune della difesa europea, con l'Israel Aerospace Industries (IAI) per gestire i sistemi aerei a pilotaggio remoto, a media altitudine e a lunga durata (RPAS), ben noti al grande pubblico come droni, per "i servizi di sorveglianza marittima aerea".
Airbus e due compagnie israeliane legate all'IAI riceveranno 100 milioni di euro per far avviare droni senza pilota e per avvistare rifugiati e migranti che tentano di attraversare il Mar Mediterraneo verso il continente europeo, così come stabilito dai contratti con l'UE. I droni saranno ubicati in Grecia, Italia e Malta. Le società forniranno l'attrezzatura e gli operatori umani per il controllo da remoto dei droni, tramite collegamenti radio e satellitari.
Inoltre, per contrastare le inutili polemiche da parte di alcuni paesi dagli interessi politici demagogici che guardano ad Israele come ad un problema perenne, si pensi alle infondate accuse armene nel conflitto del Nagorno, lo IAI ha dichiarato che il drone progettato, denominato Heron, può volare per oltre 24 ore senza sosta e può raggiungere fino a 1.000 miglia dalla sua base ad un'altitudine di oltre 35.000 piedi, ma non può essere utilizzato per trasportare o contenere armi. Tale drone è già stato utilizzato dalle forze armate israeliane e tedesche ma Airbus ha ribadito che codesto modello non è in grado di trasportare armamenti e sarà riconoscibilissimo in quanto dipinto di bianco e con l'etichetta recante la scritta "Frontex". Airbus e IAI hanno dichiarato di sperare che tale tipologia di contratto apra la porta all'uso dei droni in contesti civili fondamentali.
Notizie importanti anche per l'Italia. D'altronde ricordiamo che l'ENEL, la multinazionale italiana dell'energia, utilizzerà droni di produzione israeliana dual use per sorvegliare le proprie linee elettriche. I manager dell'holding hanno sottoscritto un contratto con la società Gadfin Ltd. di Rehovot, una città che dista una ventina di chilometri da Tel Aviv, per lo "sviluppo di soluzioni innovative" attraverso l'utilizzo di velivoli a pilotaggio remoto VTOL (Vertical Take-Off and Landing), a decollo ed atterraggio verticale. Il programma di collaborazione tra ENEL e l'azienda israeliana verrà realizzato all'interno di InfraLab, il laboratorio innovativo costituito nel luglio 2018 ad Haifa, nel nord di Israele, dalla stessa multinazionale dell'energia e da Shikun & Binui, il colosso israeliano delle costruzioni d'infrastrutture civili e militari. Proprio quest'ultima società si è aggiudicata qualche mese fa il contratto dal valore di 250 milioni di euro per la realizzazione della nuova Accademia Militare dell'Esercito israeliano a Be'er Sheva, la città capoluogo del Negev, nel sud del paese. L'infrastruttura verrà costruita su un'area di 250 ettari e ospiterà circa 12.000 soldati, di cui circa 5.000 permanenti a partire dal 2026, data prevista per la conclusione dei lavori. Inoltre, il laboratorio di ricerca e sviluppo in ambito fintech e cybersecurity dei pagamenti realizzato in joint venture da Enel X, la linea di business dedicata alle soluzioni energetiche avanzate del Gruppo italiano, e la multinazionale dei servizi finanziari Mastercard, è stato cofinanziato dall'Autorità per l'innovazione israeliana (IIA) nell'ambito dell'Innovation Labs Program, in coordinamento con il Ministero delle Finanze e il National Cyber Directorate israeliani.
Elementi della contemporaneità che pongono nuovamente Israele al centro dell'attenzione internazionale per quanto riguarda la crescita delle capacità della tecnologia, lo sviluppo dell'innovazione, la ricerca civile sull'utilizzo droni e la cyber security.
(Imprese nel sud, 27 ottobre 2020)
Domani nuovo round di negoziati tra Israele e Libano
Colloqui a Capo Naqura mediati dallambasciatore Usa
BEIRUT - Riprendono domani i negoziati tra Israele e Libano mediati dagli Stati Uniti per la definizione delle frontiere marittime tra i due Paesi. Una questione che è legata allo sfruttamento delle risorse energetiche presenti a largo delle coste meridionali del Libano a ridosso della Linea Blu di demarcazione con lo Stato ebraico.
Fonti politiche libanesi hanno confermato all'ANSA che si prevede che i colloqui si svolgano domani e dopodomani nella base militare del contingente Onu in Libano (Unifil) a Capo Naqura, a poche centinaia di metri dal valico frontaliero tra Israele e Libano.
Il 14 ottobre scorso il primo round di colloqui era stato mediato dal vice segretario di Stato Usa per il Vicino Oriente, David Schenker, accompagnato tra gli altri dall'ambasciatore americano in Algeria, John Desrocher. Quest'ultimo guiderà i colloqui domani e dopodomani a Capo Naqura.
Questi sono condotti sotto l'auspicio dell'ufficio dell'inviato speciale dell'Onu per il Libano, Jan Kubis. E organizzati grazie al comando generale di Unifil, guidato dal generale italiano Stefano Del Col.
(ANSAmed, 27 ottobre 2020)
«Guerra santa a Macron». Erdogan guida l'islam, ma ora l'Europa fa muro
Il Sultano paragona i musulmani agli ebrei perseguitati: «La Francia è da boicottare». Merkel: "Dal leader turco parole inaccettabili».
di Gian Micalessin
A giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. La Francia lo sta capendo con almeno 10 anni di ritardo. E non per la lungimiranza di Emmanuelle Macron, ma per la sua paura di regalar altri voti ad una Marine Le Pen pronta a far tesoro dell'ondata d'indignazione sollevata dalla decapitazione dell'insegnante Samuel Paty. Comunque a differenza dei predecessori Nicolas Sarkozy e Francois Hollande, sempre pronti a flirtare con Qatar e Fratelli Musulmani, il presidente francese ha il merito di guardare in faccia la realtà e denunciare la pericolosità di quello che ha apertamente definito «islam separatista», Un'Islam che dopo aver regalato oltre mille militanti allo Stato Islamico e aver seminato sangue e morte da Parigi a Nizza sta divorando città e periferie sottraendole alle leggi dello Stato.
Ma la pericolosità di quell'Islam e delle nazioni musulmane pronte a farsene bandiera mostra il suo vero volto anche sul fronte internazionale. Il più esplicito, ma anche il più arrogante ed aggressivo, è quello esibito dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Ieri dopo aver nuovamente invitato il presidente francese a controllare la sua «stabilità mentale» il «sultano piromane» - come lo definisce Le Monde - ha proposto un boicottaggio di tutti i prodotti d'Oltralpe. Poi, non pago, si è lanciato in una serie di durissimi attacchi alla Germania di Angela Merkel e all'Unione Europea. Dopo aver denunciato l'islamofobia definendola «la peste dei paesi europei» Erdogan ha accusato l'Ue di fomentare una campagna di linciaggio anti islamico «simile a quella contro gli ebrei prima della Seconda Guerra Mondiale». Parole singolari visto che a pronunciarle è un presidente nemico d'Israele e alleato d'Hamas.
Ma l'attacco più duro è quello riservato ad una Germania che - anche per la presenza sul proprio territorio di quasi 5 milioni di turchi - si è sempre dimostrata assai tollerante verso le intemperanze di Ankara. «Parlate di libertà di religione, ma siete i veri fascisti, gli eredi dei nazisti» ha detto Erdogan rivolgendosi a Berlino. Subito dopo ha nuovamente sparato a zero su Bruxelles sostenendo che «in certi Paesi europei, l'odio verso l'Islam e i musulmani è diventata una pratica promossa persino dai presidenti».
Ma dietro gli affondi di Erdogan - definiti inaccettabili da Angela Merkel - si profila uno schieramento di paesi islamici pronti ad allinearsi con la Turchia e a sostenere lo scontro con la Francia e con l'Europa. Certo in molti casi l'ipocrisia è assolutamente macroscopica. Il Qatar, già grande alleato di Sarkozy nella guerra a Gheddafi e agli interessi italiani in Libia, è - oggi - uno dei primi ad attaccare le posizioni secolariste e anti-fondamentaliste del presidente francese.
E farebbe quasi ridere - se non fosse tragica - l'ipocrisia di Imran Khan il premier pakistano pronto ad accusare d'islamofobia l'Eliseo mentre a casa sua resta in vigore l'ignobile legge sulla blasfemia. Una legge, utilizzata soprattutto per perseguitare i cristiani, la cui vittima più famosa è stata quell'Asia Bibi condannata alla forca e tenuta in galera per dieci anni dopo esser stata ingiustamente accusata d'aver ingiuriato il Corano e il profeta Maometto. Eppure nonostante quei trascorsi il Pakistan s'è permesso ieri di convocare l'ambasciatore francese. Una convocazione durante la quale è stata espressa «la più energica protesta» per la «pubblicazione di disegni blasfemi» e per le dichiarazioni del presidente Macron in difesa delle vignette su Maometto riproposte da Charlie Hebdo. Secondo il ministro degli Esteri di Islamabad Shah Mahmood Qureshi «le parole irresponsabili di Macron gettano nuova benzina sul fuoco». «Nessuno - ha aggiunto Qureshi - ha il diritto di ferire i sentimenti di milioni di musulmani con il pretesto della libertà d'espressione».
(il Giornale, 27 ottobre 2020)
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Vive la France
di Michele Serra
La sortita di Erdogan contro la Francia, accusata di «trattare i musulmani come gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale», è talmente scomposta, assurda, allucinata, da non concedergli scampo: ebbene sì, il presidente della Turchia è un fanatico religioso, poco importa se lo sia per calcolo demagogico o per sincera vocazione, e disponendo di uno degli eserciti più potenti del mondo, è un fanatico da temere fortemente. La Francia è Paese martire della laicità. Ha subito dal jihadismo islamico, lungo gli ultimi anni, le più turpi violenze ai danni di inermi, uccisi, loro sì, «come gli ebrei», in quanto impuri, dunque indegni di vivere, come il professor Samuel Paty, reo di avere chiesto ai suoi alunni di riflettere sui tabù religiosi e sulla libertà di parola. Qualunque musulmano di buona volontà non può che disperarsene e interrogarsi sul fiume di sangue versato nel nome di una religione adoperata dai suoi bigotti come una mannaia.
Questo signore, invece, discetta delle libertà in campo altrui, ma non risulta abbia speso mezza parola a proposito delle evidenti mancanze di tolleranza e di rispetto dei diritti nel proprio pezzo di mondo, nel quale i curdi sono trattati da "terroristi", gli armeni da secolare impiccio, gli oppositori turchi da nemici interni, e la stessa rivoluzione laica della Turchia moderna è rinnegata, malgrado (e per fortuna) sia ancora vigorosa nelle grandi città di Istanbul e Ankara Va detto che l'odio di Erdogan per l'Europa e la democrazia aiuta molto a rivalutarne l'importanza: dell'Europa, della democrazia e della Francia, che ne è la prima autrice grazie alla sua profonda, irriducibile laicità.
(la Repubblica, 27 ottobre 2020)
Collaborazione Italia-Israele, incontro tra le rappresentanze parlamentari.
Si è svolto oggi, in videoconferenza, l'incontro tra il presidente della parte italiana del Gruppo di collaborazione parlamentare con la Knesset, Paolo Formentini, e il presidente della parte israeliana, Gideon Sa'ar. Il reciproco riconoscimento dell'amicizia tra i due Paesi e la volontà di rafforzarla ulteriormente, anche attraverso la diplomazia parlamentare, è stato l'incipit di un incontro estremamente proficuo, che ha toccato molti aspetti sia di politica internazionale sia relativi ai rapporti bilaterali.
In particolare, al centro dei colloqui, gli Accordi di Abramo e gli ultimi sviluppi, con il Bahrein ed il Sudan; lo scenario libico, rispetto al quale il presidente Formentini ha ribadito l'interesse italiano alla stabilizzazione del Paese. Sul piano energetico è stato affrontato il tema del gasdotto Eastmed, che potrebbe avere un alto potenziale per entrambi i Paesi. È stato, altresì, espresso dalle due parti un forte interesse a creare una partnership strategica tra Israele, quale start up Nation, e l'Italia, grande Paese manifatturiero.
"Vorrei più Israele in Italia e più Italia in Israele", ha chiosato Formentini. Infine, i due presidenti hanno convenuto sulla necessità di non abbassare la guardia rispetto al contrasto all'antisemitismo in tutte le sue forme, ivi compresa le manifestazioni di odio contro Israele.
(Sardegnagol, 27 ottobre 2020)
Gli spaghetti nella pita: capolavoro culinario o disastro gastronomico?
di David Zebuloni
Ci siamo illusi di aver abituato il nostro palato a qualunque tipo di sapore, di aver assaggiato ormai tutte le pietanze esistenti, di non poterci più stupire di fronte ad un piatto, ma ignoravamo del tutto l'esistenza dell'ultimo trend culinario che ha conquistato i cuori e gli stomaci degli israeliani: gli spaghetti alla bolognese dentro la pita, il pane tipico della cucina arabo-israeliana.
L'idea di farcire la pita mediorientale con gli spaghetti italiani è stata di Eyal Shani, uno dei più affermati Chef israeliani nel mondo. Già proprietario di una catena di ristoranti in Israele, New York, Parigi, Vienna e Melbourne, Shani ha acquisito grande notorietà negli ultimi anni grazie alla sua partecipazione in MasterChef Israel nel ruolo di giudice. Shani è inoltre considerato un pioniere della cucina italiana in Israele, ovvero colui che ha inserito all'interno della cultura gastronomica israeliana il concetto di pasta, di focaccia e di altre pietanze tipiche della penisola italiana.
L'ultima trovata è stata presentata al grande pubblico dallo stesso Chef, sul suo profilo Instagram. "Vi regalo un po' di felicità dentro una pita", ha comunicato Eyal Shani ai suoi follower, facendo così storcere il naso ad alcuni ed entusiasmando invece altri. Persino Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha commentato il frutto dell'ultima fatica dello Chef, ironizzando sul fatto che una pita con un po' di pasta al suo interno possano costare 50 shekel, se portano la firma di Eyal Shani. Quasi come fossero una rara opera d'arte.
Strane rivisitazioni del cibo italiano
Gli spaghetti nella pita tuttavia non sono l'unico riadattamento della tradizione italiana nelle cucine degli israeliani. Negli anni ne abbiamo visti di scivoloni. Prima fra tutte la pizza shakshuka, ovvero la pizza condita col sugo di pomodori e peperoni piccanti e guarnita con un uovo all'occhio di bue. Scopriamo invece che la pasta viene perennemente e inspiegabilmente condita dagli israeliani con panna e patate dolci. Anche il gelato artigianale italiano viene riadattato e riproposto con dei prodotti tipici locali come la halva, il dolce a base di sesamo, o con i piccoli pretzel salati.
Un celebre proverbio israeliano, mutuato dal latino de gustibus non est disputandum (che per i romani Giuseppe Gioachino Belli traduce su li gusti nun ce se sputa, nsi), insegna che esiste una cosa sola sulla quale non è permesso discutere, e quella è il gusto. Ecco, secondo il proverbio israeliano il gusto è sempre soggettivo e mai oggettivo. Il gusto come il mondo è bello perché è vario. Che sia forse vero? Possibile che gli spaghetti nella pita di Eyal Shani siano davvero un'opera d'arte culinaria non giudicabile e non criticabile? Il dubbio rimane, così come rimane la curiosità di esplorare nuovi odori e nuovi sapori. Per quanto strambi e dissacranti essi siano.
(Bet Magazine Mosaico, 26 ottobre 2020)
Israele entra nell'ultima fase sperimentale del vaccino anti-Covid
di David Zebuloni
Nonostante tutti gli occhi fossero puntati sull'Istituto Weizmann per la Scienza, un altro istituto israeliano è riuscito a catturare l'attenzione dei media internazionali per la ricerca al vaccino anti-Covid: l'Istituto Biologico di Ness Ziona. Un istituto meno rinomato del precedente, ma sempre all'avanguardia per le sue capacità di ricerca nel campo della virologia.
La notizia viene divulgata dal telegiornale nazionale israeliano N12: "l'Istituto Biologico di Ness Ziona sta ultimando il vaccino anti-Covid, Israele potrebbe essere tra i primi paesi al mondo a possederne uno". Dopo aver superato tutti gli stadi sperimentali iniziali infatti, dopo aver testato il vaccino sui maiali (gli animali fisiologicamente più simili all'uomo secondo gli esperti) con successo, gli scienziati israeliani sono pronti ad entrare nell'ultima fase della sperimentazione. Quella decisiva, che decreterà l'efficacia del vaccino.
Ottanta volontari sani, di età compresa tra i 18 e 55 anni, si sono prestati alla sperimentazione. Nei prossimi mesi il numero di volontari verrà ampliato a 1000. Se gli effetti del vaccino risulteranno positivi, come previsto dagli esperti, nel mese di aprile verranno vaccinati altri 30.000 israeliani, di tutte le età, compresi bambini ed anziani. Nel mese di giugno invece il vaccino sarà disponibile a tutti. Secondo le previsioni, l'Istituto Biologico di Ness Ziona dovrebbe riuscire a produrre 15 milioni di vaccini entro il mese di luglio, in modo tale da garantire il vaccino a tutti i 9 milioni di cittadini israeliani ed esportare i restanti all'estero.
A differenza degli altri vaccini in sperimentazione nei vari istituti scientifici sparsi per gli Stati Uniti e nel resto del mondo, il vaccino Made in Israel si distingue per la sua capacità di agire dopo una sola iniezione, senza bisogno di ulteriori richiami. Gli scienziati coinvolti non festeggiano ancora la riuscita del loro prodotto, consci delle varie problematiche potrebbero sorgere nei prossimi mesi, ma si mostrano comunque ottimisti e soddisfatti dei risultati ottenuti. "Credo molto nel nostri vaccino", ha dichiarato il presidente dell'Istituto Biologico di Ness Ziona alle telecamere di N12. "Sono certo che riusciremo a garantire ai cittadini israeliani una soluzione definitiva e sicura alla pandemia in corso". Non ci resta che sperare e aspettare.
(Bet Magazine Mosaico, 26 ottobre 2020)
Più vicina l'apertura dell'ambasciata kosovara a Gerusalemme
Il governo del Kosovo accelera l'iter per l'avvio delle relazioni diplomatiche con Israele e per l'apertura della propria ambasciata a Gerusalemme, come previsto dall'accordo firmato a Washington il 4 settembre tra il primo ministro Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vučić
di Marco Siragusa
Il presidente serbo Vučić, lo statunitense Trump e il premier kosovaro Hoti, lo scorso 4 settembre a Washington
ROMA - La scorsa settimana il governo del Kosovo ha adottato un piano in sedici punti per dar seguito a quanto stabilito dall'accordo di Washington sulla normalizzazione delle relazioni economiche con la Serbia. Il documento ripercorre tutte le questioni affrontate alla Casa Bianca e, per ogni punto dell'accordo, identifica i passi da compiere per giungere alla loro effettiva applicazione e le istituzioni preposte a tale scopo.
Dal punto di vista economico i punti più significativi riguardano l'attuazione dei progetti autostradali e ferroviari che dovrebbero collegare Pristina con Belgrado, Niš e la città di frontiera di Merdare. Lo sviluppo di questi progetti vedrà la collaborazione e la partecipazione attiva della U.S. International Development Finance Corporation (DFC), dell'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e della Export-Import Bank (EXIM).
Il quinto punto conferma la volontà del primo ministro kosovaro Advullah Hoti di aderire alla cosiddetta "mini-Schengen" istituita nel 2019 da Serbia, Albania e Macedonia del Nord. Il passo ufficiale potrebbe giungere già alla prossima riunione tra i leader dei paesi coinvolti.
Di particolare rilievo anche la parte riguardante la gestione del lago Ujmani/Gazivoda. Da sempre al centro di una dura battaglia con la Serbia, l'accordo di Washington prevedeva lo sfruttamento congiunto delle sue acque. Lo studio di fattibilità verrà portato avanti dalle autorità dei due paesi sotto la supervisione del Dipartimento dell'Energia del governo degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l'approvvigionamento energetico, l'accordo spingeva per una maggiore diversificazione delle fonti. L'obiettivo è quello di limitare l'egemonia russa nella regione riducendo la dipendenza dal gas fornito da Gazprom. L'ottavo punto del piano prevede infatti il completamento dello studio di fattibilità dei vettori di gas tra il Kosovo e la Macedonia del Nord sostenuto dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD) e più in generale un piano di ammodernamento dei sistemi di riscaldamento delle città kosovare. Questo dovrebbe avvenire grazie al sostegno del programma USAID e con il coinvolgimento e la compartecipazione di investitori privati locali e americani.
Oltre alle questioni economiche il documento prevede il riconoscimento reciproco tra Serbia e Kosovo dei certificati professionali e dei diplomi, la promozione della libertà religiosa, la tutela dei siti religiosi compresi quelli della Chiesa Ortodossa Serba e la depenalizzazione dell'omosessualità. Particolarmente significativo il punto che riguarda lo sforzo di entrambe le parti a cercare e identificare le vittime della guerra del 1998-99 e l'implementazione di soluzioni stabili per i rifugiati.
Sul piano prettamente politico il governo kosovaro accetta la moratoria sulle richieste di adesione alle organizzazioni internazionali non appena la Serbia fermerà la sua campagna contro il riconoscimento del Kosovo.
Al punto 14, il governo conferma l'intenzione di dichiarare Hezbollah organizzazione terroristica, seguendo una prima decisione adottata nel mese di giugno cui si aggiunge la limitazione delle operazioni finanziarie dell'organizzazione nel paese. L'ultimo punto, infine, riguarda il reciproco riconoscimento con Israele e, senza citare la possibile apertura di un'ambasciata a Gerusalemme, di stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.
Proprio su questo aspetto, il governo kosovaro ha già adottato le prime misure operative. Lo scorso 20 ottobre, il primo ministro Hoti e il ministro degli Affari Esteri e della Diaspora Meliza Haradinaj-Stublla hanno concordato l'invio di una richiesta ufficiale all'ufficio del presidente della Repubblica Hashim Thaci per l'istituzione di una missione diplomatica in Israele.
A questo passo ha fatto seguito un incontro, a distanza, tra il ministro Haradinaj-Stublla e membri del ministero degli Affari Esteri dello Stato di Israele. Secondo quanto riportato dal sito del ministero kosovaro, durante l'incontro sono stati trattati i dettagli per l'apertura dell'ambasciata del Kosovo a Gerusalemme e gli aspetti tecnico-logistici per la futura visita di una delegazione kosovara in Israele prevista per il prossimo mese.
La decisione era stata già presa lo scorso 1° ottobre durante una telefonata tra il ministro degli Esteri kosovaro e quello israeliano Gabi Ashkenazi. La visita rappresenterà probabilmente l'avvio ufficiale delle relazioni tra i due paesi.
(Nena News Agency, 26 ottobre 2020)
F-35 anche ai sauditi e al Qatar. In Israele scoppia il caso
Anche in mezzo alla pandemia in Israele continua a tener banco la questione della vendita degli F-35 agli Emirati. E ora indiscrezioni credibili parlano della vendita dei caccia invisibili anche ad Arabia Saudita e Qatar.
di Franco Londei
Anche nel mezzo della pandemia da Coronavirus per Israele la voce "difesa" rimane al primo posto delle priorità.
E sebbene i giornali israeliani sembrano interessarsi poco al tema della vendita da parte americana dei caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti, il tema rimane di forte attualità nel campo politico specie dopo due fatti davvero straordinari: il primo è l'intervista del ministro della Giustizia Avi Nissenkorn rilasciata ieri alla radio dell'esercito nella quale vengono mosse gravi accuse a Netanyahu mentre la seconda è la notizia, non smentita né da parte americana né da parte israeliana, che gli Stati Uniti sarebbero pronti a vendere aerei F-35 all'Arabia Saudita e al Qatar in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele.
Per correttezza di informazione va detto tuttavia che giovedì scorso il Ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha firmato un accordo con Washington che impegna in maniera ancora più incisiva gli Stati Uniti a garantire la supremazia militare a Israele, il che potrebbe voler dire che i caccia F-35 venduti agli Emirati ed eventualmente all'Arabia e al Qatar non sono come quelli venduti a Israele o che gli israeliani vengano dotati dei mezzi necessari per poterli individuare in volo rendendoli così inefficaci se usati contro lo Stato Ebraico (ma non contro chiunque altro).
A rilanciare la notizia della possibilità che gli americani possano vendere gli F-35 ai sauditi e al Qatar in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele è stata una intervista rilasciata dal ministro dell'Energia Yuval Steinitz a Ynet.
Ad alimentare ulteriormente le polemiche ci ha pensato l'ex generale Amos Gilad che sempre su Yedioth Ahronoth accusa Netanyahu di aver approvato la vendita degli F-35 agli emirati senza avvisare nessuno.
«A parti invertite se Netanyahu fosse stato all'opposizione e il primo ministro avesse fatto quello che ha fatto lui lo avrebbe fatto a pezzi» ha detto l'ex generale.
(Rights Reporter, 26 ottobre 2020)
Washington si impegna a mantenere "superiorità militare" di Israele
di Giacomo Kahn
Gli Stati Uniti si sono impegnati per iscritto a mantenere la "superiorità militare" di Israele sugli altri paesi della regione; una mossa che arriva per placare i timori dello stato ebraico di una possibile vendita agli Emirati Arabi Uniti dei caccia americani F-35. Il ministro della Difesa statunitense Mark Esper e il suo omologo israeliano Benny Gantz hanno firmato la scorsa settimana un documento congiunto dopo colloqui a Washington. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è rimasto molto discreto sul contenuto di questo documento, ma Gantz ha affermato in un tweet che questa dichiarazione congiunta "conferma l'impegno strategico degli Stati Uniti per la superiorità militare qualitativa dello stato ebraico per gli anni a venire", senza fornire ulteriori dettagli. Secondo i media israeliani, l'impegno americano dura quattro anni, fino al termine di un ipotetico secondo mandato del presidente Donald Trump. "Era importante per me riaffermare ancora una volta il rapporto speciale tra i nostri due paesi - ha detto Esper - siamo determinati a mantenere la superiorità militare qualitativa di Israele nella vendita di armi e riaffermare il nostro impegno per la sicurezza di lunga data, garantita e incrollabile di Israele".
Storicamente, Israele si è sempre opposto alla vendita di F-35 ad altri paesi del Medio Oriente, tra cui Giordania ed Egitto (paesi con cui ha firmato accordi di pace), perché vuole mantenere la sua superiorità tecnologica. Ma il presidente americano Donald Trump ha assicurato che non avrebbe "nessun problema" a vendere i caccia F-35 di ultima generazione agli Emirati Arabi Uniti, dopo la firma lo scorso mese degli accordi di normalizzazione tra Israele da un lato, e gli Emirati e il Bahrein dall'altro. Temendo che anche se il democratico Joe Biden vincesse le elezioni presidenziali, Trump siglasse un accordo con gli Emirati prima della fine del suo mandato alla fine di gennaio, due senatori democratici hanno presentato un disegno di legge che regola la vendita degli F-35 all'estero. Il testo prevede che il presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, potrà vendere questi caccia stealth high-tech solo se potrà "certificare al Congresso che la tecnologia dell'aviazione degli Stati Uniti e la sicurezza di Israele sono completamente protette".
(Shalom, 26 ottobre 2020)
Netanyahu destina cinque milioni di dollari di grano al Sudan
Israele fornira' grano per un valore di cinque milioni di dollari (circa 4,2 milioni di euro) al Sudan. Lo ha annunciato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, due giorni dopo che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un accordo di normalizzazione tra i due Paesi. In un tweet Netanyahu ha scritto che il suo Paese inviera' "immediatamente grano per un valore di cinque milioni di dollari ai nostri nuovi amici in Sudan". Il Sudan, che conta piu' di 40 milioni di abitanti, dipende fortemente dalle sue importazioni di grano con un consumo di due milioni di tonnellate all'anno. Netanyahu ha assicurato inoltre che Israele "cooperera' con gli Stati Uniti per aiutare il Sudan nella sua transizione". Il Paese arabo-africano e' governato da un esecutivo di transizione formato dopo la caduta, nell'aprile 2019, dell'autocrate Omar al-Bashir dopo trent'anni al potere, sotto la pressione di un movimento di protesta emerso dopo la decisione delle autorita' di triplicare il prezzo del pane. Guidato da Abdallah Hamdok, il governo deve traghettare il Paese verso il governo civile, ma si trova ad affrontare una grave crisi economica. Secondo le Nazioni unite, quest'estate un quarto della popolazione ha dovuto affrontare una "grave carestia".
(Shalom, 26 ottobre 2020)
La nuova potenza energetica di Israele
di Antonello Assogna
La recente intesa tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, oltre a rappresentare un'importante passo verso la ricerca di stabilizzazione dell'Area MENA (Middle East and North Africa), ha previsto una serie di protocolli integrativi bilaterali sui temi della sicurezza, dell'innovazione tecnologica, del commercio internazionale e marittimo, delle telecomunicazioni, ma anche nei settori dell'agricoltura, della difesa e dei servizi di intelligence, della sanità, del turismo e dell'energia.
Pontile del petrolio in Eilat
Soffermandoci proprio sul comparto dell'energia, Israele è ormai nelle condizioni di confrontarsi autorevolmente anche con i Paesi che tradizionalmente leader nella produzione degli idrocarburi (petrolio e gas naturale). Infatti, dopo decenni di dipendenza, da qualche anno Israele sta decisamente incrementando l'autonomia energetica, essendo uno dei settori in progressiva espansione.
Partiamo analizzando i principali dati energetici del Paese nel 2019 (Fonte CIA World Factbook): produzione elettrica 63.09 mld di Kwh, dei quali 5,2 mld esportati e con un consumo di 55 mld di Kwh; una produzione di petrolio comunque significativa ed in potenziale sviluppo; una crescita esponenziale della produzione e consumo di gas naturale (produzione dai 1,55 mld di m3 annui del 2010 ai 7,9 mld di m3 del 2019; un consumo di 3,68 mld di m3 del 2010 ai circa 10 mld di m3 del 2019). In particolare, i dati di crescita delle produzioni e dei consumi di gas naturale sono l'effetto dell'individuazione, sviluppo e messa in produzione degli impianti offshore operativi nelle acque territoriali israeliani. All'interno di questo spazio marino di riferimento i giacimenti individuati sono diversi: a partire dal più importante, il Leviathan (da poco messo in attività, con grandi potenzialità di sviluppo e controllato dalla Spa USA Noble Energy e dalle israeliane Delek Drilling e Ratio Oil), e poi a seguire gli altri Tamar, Tanin, Karish, Dolphin, Dalit, Noa e Mari B. Un nuovo "forziere" da 212 miliardi di m3 di produzione annua, come lo definisce Francesco De Palo, in un articolo su formiche.net. A questo potenziale diretto si aggiungerebbe quanto definito lo scorso gennaio tra ANP e Israele sulla gestione del giacimento offshore Marine Gaza (potenzialità di 32 mld di m3 di gas), situato a 22 miglia marine a largo delle coste della Striscia. Dopo una lunga disputa sulla titolarità delle acque territoriali tra palestinesi ed israeliani e la rinuncia allo sfruttamento di diverse Oil Company Internazionali, il Palestine Investment Fund (una sorta di Cassa Depositi e Prestiti), incaricato alla trattativa da ANP, ha raggiunto con la controparte un accordo sul gas estratto, che sarebbe commercializzato da compagnie israeliane. Collegato a questa intesa, dovrebbe riprendere consistenza un progetto del 2015, che vede la costruzione di un gasdotto verso la Striscia di Gaza, che garantirebbe il trasporto di un miliardo di metri cubi l'anno dal Negev. Questo progetto dovrebbe essere sostenuto da finanziamenti europei a garanzia dell'accordo di cessate il fuoco a lungo termine tra Hamas e lo Stato ebraico.
Oltre a questo protagonismo nel settore del gas naturale, Israele sta acquisendo un'interessante posizione strategica anche nell'intero comparto petrolifero:
Nel ciclo della logistica già consolidato con gli oleodotti Eilat-Askelon (Trans-Israel Pipeline, concorrenziale con l'oleodotto egiziano Sumed e quindi alternativo al passaggio del Canale di Suez; Askelon-Haifa; Askelon-Ashdod, che trasportano petrolio dal Mar Rosso al Mediterraneo e alle raffinerie israeliane, gestiti da EAPC (Euro Asia Pipeline Co.) società controllata dal governo israeliano, che sino al 1979 (anno della rivoluzione sciita in Iran) presentava a capitale misto israelo-iraniano. Per alcuni anni Israele ha ancora concesso alle compagnie iraniane di trasportare il petrolio tramite la rete di oleodotti di EAPC; ad oggi non è dato conoscere se ancora queste concessioni siano in atto; il sistema di sicurezza israeliano considera riservate tali informazioni.
Nella produzione petrolifera, avendo attivato nuove produzioni on shore sulle Alture del Golan affidate alla Afek Oil, gruppo privato misto israelo-statunitense e potenziato le esplorazioni e le produzioni nel sito Meged a cavallo tra il territorio di Israele e la Cisgiordania in concessione alla società privata israeliana Givot Olam Oil Exploration e con riserve stimate di petrolio di scisto nel Deserto del Negev per diversi miliardi di barili (produzioni non convenzionali ad oggi non autorizzate dal Parlamento di Gerusalemme).
A queste nuove risorse provenienti da gas naturale e petrolio, Israele aggiunge una consolidata esperienza nel settore delle fonti di energia rinnovabile. La decisione di uscita dal carbone entro il 2025 ha accelerato gli investimenti per la ricerca nel settore e l'infrastrutturazione di nuovi impianti, considerando che nel 2019 il 16,4% dell'energia elettrica consumata proviene da produzioni sostenibili. Nel 2018 è stata inaugurata nel deserto del Negev, ad Ashalim, la più alta torre al mondo per la produzione di energia solare (250 metri e 50 mila eliostati). Infine nel 2020 il Governo ha annunciato un investimento di 250 mln di shekel (62,5 mln di €) per un parco eolico sulle Alture del Golan. Altri interventi sono programmati anche nel settore idroelettrico e di competenza della società a controllo statale Israel Elettric Corporation, particolarmente impegnata in questi settori di innovazione e sviluppo delle fonti rinnovabili.
Questa sintesi dimostra che si sta aprendo un nuovo orizzonte per Israele, che ha l'ambizione di imporsi anche come leader energetico in grado di esportare energia verso i Paesi limitrofi (già sono stati siglati accordi con Egitto e Giordania) e soprattutto con la firma nel gennaio scorso, dell'accordo con Cipro e Grecia per la realizzazione dell'importante infrastruttura di trasporto del gas naturale, il gasdotto Eastmed, che collegherà con un percorso di 1.900 Km, i citati e ricchi giacimenti israeliani con l'Europa. Dopo un breve periodo di ripensamento della strategia su tale progetto, dovuto alle incertezze economico-finanziarie determinatesi con l'avvento della pandemia da Covid 19, il governo israeliano lo scorso luglio, ha definitivamente approvato un piano di investimento per 6,9 miliardi di dollari per dare seguito all'accordo di gennaio precedentemente citato per la realizzazione del gasdotto.
Questo possibile scenario, unito al consolidamento degli approvvigionamenti idrici (altro valore aggiunto per Israele), rafforzerebbe ulteriormente il ruolo e la presenza dello Stato ebraico nel Medio Oriente, nell'area mediterranea ed in generale nella dimensione internazionale.
(Geopolitica.info, 26 ottobre 2020)
Il principe saudita premiato da "FoZ" per l'avvicinamento a Israele
Il museo "The Friends of Zion Museum" nella città di al-Quds (Gerusalemme), ha annunciato che assegnerà il suo premio al principe saudita Muhammad Bin Salman, al re del Bahrain Hamad bin Issa e al re del Marocco Muhammad VI.
L'annuncio è stato dato domenica in una conferenza online e dal settimo canale, mentre il primo ministro israeliano e l'ambasciatore statunitense erano in televisione.
Il premio sarà assegnato anche al primo ministro degli Emirati e ai presidenti di Serbia e Romania.
I media israeliani esaltano le gesta di MbS, perché ha compiuto notevoli sforzi per aprire la strada a un accordo di normalizzazione tra l'Arabia Saudita e Israele.
(DailyMuslim.it, 26 ottobre 2020)
Se una ebrea interpreta Cleopatra
Le polemiche sull'attrice Gal Gadot e l'antisemitismo
Scrive il Jerusalem Post (13/10)
Gal Gadot Elizabeth Taylor
Scrive Seth J. Frantzman sul Jerusalem Post: "La notizia che l'attrice Gal Gadot, che è ebrea, avrebbe interpretato la regina egizia Cleopatra è stata accolta da furenti proteste secondo cui al suo posto avrebbe dovuto essere scelta una donna 'araba' o un'attrice 'europea'. Dunque agli ebrei non è permesso essere scritturati nella maggior parte dei ruoli pena essere accusati di spodestare ruoli che spettano ad altri. Nel secolo scorso, gli antisemiti dicevano agli ebrei che erano stranieri sradicati, originari del medio oriente. Ora agli ebrei viene detto che non devono interpretare ruoli mediorientali, indipendentemente da dove provengano".
La polemica, continua Frantzman, è iniziata domenica quando è giunta la notizia che Gadot, celebre per il suo ruolo di Wonder Woman, avrebbe interpretato il ruolo di Cleopatra. I commenti più normali si chiedevano perché non fosse stata scelta un'egiziana. Abdul el-Sayed, un commentatore della Cnn stando alla sua nota biografica su Twitter, si è domandato perché non fosse stata scelta una donna egiziana per interpretare la regina egizia. La giornalista Sameera Khan ha scritto: "Quale idiota di Hollywood ha pensato che fosse una buona idea scegliere un'attrice israeliana come Cleopatra (un'attrice dall'aspetto molto scialbo) invece di una splendida attrice araba come Nadine Njeim? E tu, Gal Gadot, vergognati: il tuo paese ruba la terra agli arabi e tu rubi i loro ruoli cinematografici". Molti di coloro che hanno risposto hanno fatto notare che Cleopatra era in realtà di origine greca. Randa Jarrar, che si descrive come una "queer egiziana palestinese musulmana", ha scritto: "Sì, Cleopatra era greca. Capisco. Ma scegliere nel 2020 come regina d'Egitto una sionista la cui famiglia è polacco-austriaco-ceca?". Il messaggio è chiaro: agli ebrei non è permesso interpretare il ruolo di una regina d'Egitto, greca e pagana, di duemila anni fa. Poco importa che ebrei abbiano vissuto in Egitto per migliaia di anni. Poco importa che ebrei vivessero in Grecia. Non potranno mai interpretare Cleopatra. E non importa nemmeno da dove provenga la famiglia di Gadot (per inciso, i suoi nonni materni sono sopravvissuti alla Shoah, ma suo padre è nativo della Terra d'Israele da sei generazioni, ndr). Quand'anche fosse di Gerusalemme da tremila anni, il messaggio è che essere ebrea o "sionista" significa che non si può interpretare nessun ruolo che abbia a che fare con il medio oriente e neanche con l'Europa mediterranea.
"Il desiderio che attrici tunisine o libanesi abbiano ruoli di più alto profilo a Hollywood è del tutto legittimo" conclude Frantzman. "Ma non a spese degli ebrei (...) Secondo il nuovo controllo etnocentrico dei ruoli, gli ebrei non possono interpretare ruoli della regione da cui provengono, il medio oriente. Li si accusa di "rubare" il ruolo agli arabi. Ma non ha alcun senso escludere gli ebrei dal recitare ruoli del medio oriente quando gli ebrei sono primariamente un popolo del medio oriente, con radici lontane o recenti".
(Il Foglio, 26 ottobre 2020)
Israele invia aiuti umanitari all'Azerbaigian e si offre di inviarli anche all'Armenia
Secondo il quotidiano Yedioth Ahronot, in seguito alla richiesta di assistenza umanitaria e medica di Baku, Israele ha inviato in Azerbaigian la scorsa settimana attrezzature mediche, nonché beni di prima necessità come kit di pronto soccorso, vestiti, coperte e stufe per i senzatetto.
All'inizio di ottobre, Israele ha anche offerto assistenza all'Armenia, ma Yerevan finora non ha risposto, afferma la pubblicazione.
Il ministero degli Esteri israeliano non ha ancora commentato queste informazioni.
All'inizio di ottobre, la portavoce del ministero degli Esteri armeno Anna Naghdalyan ha detto che Yerevan stava richiamando il suo ambasciatore in Israele per consultazioni sulla fornitura di armi da parte di questo paese all'Azerbaigian.
Negoziati di Mosca e tregua
I capi delle diplomazie di Baku e Yerevan durante i negoziati a Mosca conclusi venerdì 9 ottobre hanno concordato il cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh a partire da mezzogiorno di sabato 10 ottobre. I ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian erano arrivati a Mosca su invito del presidente russo Vladimir Putin. I negoziati sono durati oltre dieci ore.
Escalation nel Nagorno-Karabakh
I combattimenti sulla linea di contatto nel Nagorno-Karabakh sono iniziati il 27 settembre. Armenia e Azerbaigian si accusano a vicenda di aver riacceso il conflitto, il governo indipendentista filo-armeno della repubblica non riconosciuta denuncia bombardamenti di artiglieria delle forze azere su centri abitati, compresa la capitale Stepanakert. L'Armenia ha dichiarato la legge marziale e - per la prima volta - la mobilitazione generale, sostenendo che Ankara sostiene attivamente Baku. In Azerbaigian è stata invece introdotta una mobilitazione parziale.
I leader di Russia, Stati Uniti e Francia hanno invitato le parti opposte a porre fine agli scontri e ad impegnarsi ad avviare negoziati senza precondizioni. La Turchia ha dichiarato che fornirà all'Azerbaigian qualsiasi sostegno richiesto sullo sfondo di un altro aggravamento della situazione nel Nagorno-Karabakh.
(Sputnik Italia, 25 ottobre 2020)
Israele-Sudan, l'ultimo lampo di politica estera in aiuto di Trump
L'accordo segue quanto annunciato: Trump rimuoverà il Paese nordafricano dalla lista degli sponsor del terrorismo, dopo un risarcimento alle vittime americane
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato venerdì 23 ottobre che il Sudan riconoscerà Israele, dopo che lunedì la sua amministrazione aveva dichiarato che avrebbe tolto il paese nordafricano dalla lista degli Stati Uniti sponsor del terrorismo.
Il Sudan è diventato il terzo grande paese a maggioranza musulmana a riconoscere Israele, dopo gli storici Accordi di Abramo tra Emirati Arabi Uniti e Bahrain con Israele. "Un futuro in cui arabi e israeliani, musulmani, ebrei e cristiani possano vivere insieme, pregare insieme e sognare insieme, fianco a fianco, in armonia, comunità e pace" si legge sul comunicato della Casa Bianca.
Trump ha dato la notizia durante una telefonata in vivavoce davanti ai giornalisti nello Studio Ovale, con i leader del Sudan, il primo ministro Abdalla Hamdok e il generale Abdel Fattah al Burhan, capo del Concilio militare, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu: "Lo stato di Israele e la Repubblica del Sudan hanno deciso di fare la pace"."Questo è uno dei grandi giorni nella storia del Sudan". La mossa di Trump di eliminare il Sudan dalla lista degli sponsor del terrorismo sarebbe arrivata non appena il Sudan avesse depositato i 335 milioni di dollari, promessi come risarcimento alle vittime degli attentati fatti da al-Qaeda alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
"OTTIME notizie! Il nuovo governo del Sudan, che sta facendo grandi progressi, ha accettato di pagare $ 335 MILIONI alle vittime e alle famiglie del terrorismo statunitense", ha twittato lunedì Trump. "Una volta depositato, solleverò il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo. Finalmente, GIUSTIZIA per il popolo americano e GRANDE passo per il Sudan!"
L'eliminazione da questa lista aiuterà il Sudan a porre fine all'isolamento finanziario e a sostenere la sua transizione dalla dittatura alla democrazia. Il paese è uscito l'anno scorso dalla dittatura di Omar al Bashir e il governo è ancora sotto la tutela di un Consiglio di militari legati al vecchio regime.
Il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, ha detto che togliere il Sudan dalla lista del terrore eliminerebbe "l'eredità più pesante" del vecchio regime sudanese.
"È un nuovo mondo", ha detto Netanyahu al telefono. "Stiamo collaborando con tutti. Costruire un futuro migliore per tutti noi". La priorità di Netanyahu è quella di stringere legami con paesi precedentemente ostili in Africa e nel mondo arabo in assenza di progressi con i palestinesi durante i suoi oltre dieci anni in carica. Ma l'accordo mirerebbe anche a creare un asse contro l'Iran.
Venerdì pomeriggio, l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha parlato al telefono con il suo omonimo sudanese, l'ambasciatore Omer Mohamed Ahmed Siddig. Durante la conversazione, gli ambasciatori si sono congratulati tra loro per l'annuncio dello storico accordo di pace tra i paesi e nei prossimi giorni si incontreranno per discutere della cooperazione nei settori della tecnologia, dell'agricoltura, del commercio e del turismo.
L'ambasciatore israeliano Gilad Erdan ha affermato: "Un terzo accordo di pace in poco più di un mese, e con un paese che ha combattuto Israele e ha simboleggiato il rifiuto arabo di riconoscere la nostra esistenza, è un risultato straordinario che dimostra in modo definitivo che stiamo vivendo in un periodo storico che cambierà il Medio Oriente per sempre. Mi congratulo con il Primo Ministro Netanyahu e il Presidente Trump per questo incredibile risultato. Agirò immediatamente per tradurre questi accordi in cooperazione qui all'ONU. Mostrerò agli Stati membri dell'organizzazione che è meglio stare dalla parte di Israele, e non dalla parte che condanna la pace e agisce contro di noi".
Per l'amministrazione di Trump l'avvio delle relazioni diplomatiche del Bahrein e Emirati Arabi Uniti con Israele è uno dei suoi maggiori successi in politica estera, e prima delle elezioni del 3 novembre il presidente vuole ottenere altri risultati in suo favore.
Preso atto dell'accordo, il Segretario Generale dell'ONU, Antonio Guterres, spera che l'accordo favorisca la cooperazione, migliorerà le relazioni economiche e commerciali e creerà nuove opportunità per promuovere la pace e la prosperità economica nel più ampio Corno d'Africa e nelle regioni del Medio Oriente. Le Nazioni Unite rimangono, dunque, pienamente impegnate a sostenere gli sforzi della Repubblica del Sudan.
(La Voce di New York, 25 ottobre 2020)
La moralità di Israele: cura per senso etico un suo acerrimo nemico
di Ugo Volli
Israele ha accettato di curare il più importante dirigente palestinista contagiato finora dal Covid, quel Saeb Erekat che è stato a lungo il "capo negoziatore" dell'Autorità Palestinese (che come è noto non negozia niente) e da qualche anno è diventato anche segretario generale del comitato esecutivo dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina (l'organizzazione madre dell'Autorità Palestinese) e insomma il numero due della nomenklatura palestinista di Ramallah, subito dopo il dittatore Abu Mazen. Anche se non se ne conoscono coinvolgimenti diretti in azioni terroristiche, Erekat è noto per la sua spudorata propaganda anti-israeliana, spesso ai limiti del grottesco. Ha scritto per esempio: "Sono figlio dei Natufiani, che costruirono la mia città natale Gerico 2.000 anni fa. Sono il figlio dei Kenuniti arabi, che erano lì 6000 anni prima." Cioè, secondo lui ""5.500 anni prima che Joshua Bin-Nun arrivasse e bruciasse la mia città natale Gerico." I conti non tornano, ma comunque è una bufala insensata: Erekat non è nato a Gerico ma ad Abu Dis, un villaggio dietro il Monte degli Ulivi. La sua tribù sono gli Howeitat, beduini che vivono fra la Giordania Orientale e l'Arabia Saudita centrale e ha superato il Giordano solo verso la fine dell'Ottocento.
A parte questa propaganda Erekat ha anche un cugino terrorista, ucciso di recente mentre cercava di investire i soldati di un posto di blocco. Ma ha anche affermato che il Covid in "Palestina" è colpa degli israeliani che hanno fatto gli untori per odio ai palestinesi. Però quando un paio d'anni fa ha dovuto fare un trapianto di polmone, è andato negli Usa, non in un ospedale "palestinese", arabo o comunque musulmano. E l'aveva prenotato in Israele, dove ora è andato a farsi curare per un Covid gravissimo. Evidentemente dei dottori ebrei si fida sul piano tecnico come su quello etico, non ha paura che qualcuno stacchi la spina della macchina che respira per lui. Ma perché lo stato ebraico sta curando un nemico pericoloso coi migliori mezzi della sua medicina? Non certo perché pensi di dover "perdonare i nemici", così in astratto. Piuttosto perché la medicina israeliana da sempre tutela la vita umana di tutti, come si è visto spesso con malati che vengono da Gaza e dalla Siria. Il che è giusto e anche esemplare sul piano politico. Perché chi guarda a questo paradossale ricovero di un nemico mortale, non può non capire da che parte - Israele o "Palestina"- sta non solo la scienza e la tecnologia, ma anche la moralità.
(Shalom, 25 ottobre 2020)
Miriam Jaskierowicz Arman da Israele a Reggio Calabria: per portare arte, talenti e bel canto
L'artista cosmopolita si è stabilita nella città dello Stretto da qualche anno. Insegna il segreto del vero Bel Canto, che affonda le radici nel cantico dei Leviti del tempio in Gerusalemme
di Gabriella Lax
Miriam Arman Jaskierowicz
«La voce, il "bel canto", è l'inizio e la fine. Parte tutto dalla voce». Un traguardo dell'anima che s'incarna nella musica, nei versi o nelle opere artistiche.
Così Miriam Arman Jaskierowicz cerca di dare un colore ai suoi talenti. Scrivere che questa donna sia una professoressa della ricostruzione della voce, una pedagoga vocale di fama mondiale, ideatrice di una tecnica unica per ricostruire le voci che hanno perso il loro lustro, è riduttivo. Unica a portare avanti «il segreto del vero Bel Canto, che affonda le radici nel cantico dei Leviti del tempio in Gerusalemme».
Così come per la poesia. Ha scritto versi e diversi libri in questi anni ed è stata candidata al premio Pulitzer per le sue poesie.
Ha scritto dodici libri. Otto che riguardano la voce (due libri in italiano, sei in inglese) e il resto su poesia e argomenti di spiritualità. Per quanto riguarda la sua arte, i quadri. ha una tecnica artistica particolare. Le sue emozioni passano dal vetro fuso sulla tela, diventano piani tridimensionali in cui le opere assumono un realismo incredibile e crudo che può essere colto solo ad occhio nudo.
Ogni sfaccettatura del mondo dell'artista è un piccolo universo, magnetico, capace di risucchiare vorace. A partire dalla sua voce. La incontriamo in casa sua, con l'odore ed il sapore indimenticabile del caffè turco. Sono più di quattrocento i quadri in casa, il bagaglio portato in riva allo Stretto coi container: alcuni canonicamente appesi sui muri, altri nascosti nel ripostiglio o adagiati nell'archivio. Ma è un carico muto perché le opere non escono da tanto tempo. Da tanto non mostra la sua arte Miriam.
È nata in Germania dopo la guerra, da genitori ebrei che si sono sposati in un campo di concentramento. Il dolore e la sofferenza passano nelle immagini dei luoghi di morte che tornano nelle sue opere. Non immaginatele però come ombrosi ricordi scuri. Su tutti i quadri la luce e la catarsi arrivano dalla raffigurazione delle immagini delle farfalle: anime complici e salvifiche, onnipresenti.
Miriam conosce sette lingue, ha vissuto e viaggiato per il mondo: Israele, Messico, Stati Uniti, Ungheria, Ucraina, Italia, Svizzera e tanti altri posti.
Dopo tanto peregrinare da qualche anno vive e fa l'insegnante di canto a Reggio Calabria. E la prima cosa che viene da chiedersi è: cosa porta una donna cosmopolita come lei nella piccola città in punta allo stivale? Qui è arrivata con i suoi container da Israele, ha spostato qui, con coraggio, tutta la sua vita. Ma, in fondo, mi confessa: Reggio per molti versi sembra come Israele. Le persone hanno gli stessi visi, lo stesso calore. Anche la luce sembra simile, e i paesaggi: questo repentino passare dalle montagne al mare.
Per la sua storia, lunga ed intricata, ma molto affascinate ci vorrebbe un libro. Proviamo a sintetizzare: galeotti furono Bova ed i resti archeologici della sua sinagoga E ancora la conferenza a cui fu invitata nella chiesa di San Luca a Reggio Calabria, a pochi passi dalla sua attuale abitazione. A volte capita che non ci sia un motivo apparentemente perché una cosa accada. Miriam sente che in questa parte della Terra, proprio a Reggio Calabria, va piantato il suo seme artistico.
Seme fecondo che, già qualche mese fa, aveva iniziato ad attecchire nel liceo artistico "Preti Frangipane". Un anno fa nasceva un sodalizio, un'"Accademia internazionale per lo sviluppo della voce a Reggio Calabria". Tra l'altro l'istituzione scolastica avrebbe dovuto ospitare un master della voce e, soprattutto, accogliere una mostra dei quadri di Miriam. Quelle stesse opere ammirate e osannare nei musei di luoghi lontani, talmente profonde e scardinanti dell'anima che in America sono state utilizzate dagli psichiatri come fossero delle tavole di Rorschach. E l'artista ha donato al liceo un magnifico pianoforte Steinberg, arrivato in container, ma ancora non utilizzato per i progetti pensati. L'emergenza covid, dopo gennaio 2020, ha bloccato ogni attività.
«Perché la voce è un grido dell'anima ed è la storia di un popolo, come eredità». Una voce che chiede in tutti i modi di essere raccontata
(Il Reggino, 25 ottobre 2020)
L'ultima teoria dei No Vax sul coronavirus: "Complotto ebraico per dominare il mondo"
Un'analisi condotta nel Regno Unito mostra che post antisemiti sono presenti nel 79% dei gruppi social di antivaxxers
Molti No Vax starebbero facendo proprie teorie antisemite di stampo nazista per diffondere fake news sul coronavirus che viene spesso raccontato come un "complotto ebraico per conquistare il mondo. Lo afferma un report di un ente di consulenza indipendente, del governo britannico, che si occupa di antisemitismo.
Come racconta il Telegraph l'analisi ha studiato 28 dei forum antivaxxer più popolari sui social media, incluso uno gestito dal fratello di Jeremy Corbyn, Piers, e ha scoperto che tutti avevano condiviso post antisemiti. Nel complesso, il rapporto ha rilevato che l'antisemitismo è presente nel 79% delle reti No Vax. "I cospirazionisti del Covid-19 hanno attribuito la 'bufala' ad una 'élite globale' di cui farebbero parte i Rothschild, i Rockefeller, George Soros, i sionisti, così come Bill Gates", afferma il rapporto secondo cui molti utenti di Facebook e Twitter hanno usato argomenti antisemiti di vecchia data. "Molti di questi post suggeriscono che gli ebrei abbiano creato il coronavirus e che gli ebrei stiano tramando dietro le quinte per destabilizzare banche e paesi attraverso la diffusione del virus".
Un rapporto del Community Security Trust (CST) dal titolo "Coronavirus and the plague of antisemitism", pubblicato ad aprile, ha identificato cinque tropi antisemiti emersi durante la pandemia, tra cui il riferimento alla malattia come "l'influenza ebraica" e la teoria della necessità della sua diffusione agli ebrei per creare un "Holocough", gioco di parole tra Holocaust e cough, olocausto e tosse.
L'ultima analisi del governo arriva dopo che uno studio del Center for Countering Digital Hate ha rilevato che 147 dei più grandi account di social media No Vax hanno guadagnato almeno 7,8 milioni di follower dal 2019, un aumento del 19% nonostante Facebook abbia annunciato nuove politiche per contrastare disinformazione sui vaccini sui social network.
(Europa Today, 25 ottobre 2020)
Il padre era un nazista ad Auschwitz, lui sceglie di diventare ebreo
Il padre era un nazista che mandava a morte gli ebrei ad Auschwitz e lui ha scelto di diventare ebreo: è la storia di Bernd Wollschlaeger
di Caterina Galloni
Bernd Wollschlaeger
"Mio padre era un nazista che mandava le persone a morire ad Auschwitz e ho scelto di diventare ebreo". E' l'incredibile storia di Bernd Wollschlaeger che si è convertito e ha prestato servizio nell'esercito israeliano dopo aver scoperto gli orrori commessi da padre Arthur, comandante nazista decorato da Adolf Hitler con la Croce di Ferro.
A Bernd Wollschlaeger, cresciuto a Bamberg, in Baviera, era stato insegnato che l'Olocausto era una bugia e che suo padre, Arthur Wollschlaeger, era un eroe di guerra.
Arthur era stato decorato personalmente da Hitler per le sue azioni sul fronte orientale, dove era comandante dei carri armati sotto il generale Heinz Guderian.
Ma non ottenne la gloriosa morte in battaglia che si aspettava: fu catturato nel 1945 e il suo unico figlio, Bernd, nacque nel 1958.
"Quello che mi raccontava era una storia da cavaliere con un'armatura splendente", ha detto Bernd, 62 anni.
"E i suoi compagni di guerra, che venivano a casa nostra almeno una volta all'anno per ricordare i "bei vecchi tempi" dicevano che mio padre era un eroe e che dovevo rispettarlo come tale. Per cui da bambino lo ammiravo.
"Ma nella mia mente c'erano dei punti interrogativi".
Il primo riguardava la casa.
I dubbi di Bernd Wollschlaeger sul padre nazista
Per una bizzarra coincidenza, i Wollschlaegers vivevano in una casa di proprietà della vedova di Claus von Stauffenberg, l'uomo che tentò di assassinare Adolf Hitler.
La vedova viveva al piano di sopra e Bernd, che giocava con i suoi nipoti, viveva al piano di sotto con la sua famiglia.
Bernd ha ricordato: "Mio padre si riferiva a Claus come a un "traditore".
"Ma la moglie, i nipoti e le foto che ho visto nella casa al piano di sopra indicavano completamente il contrario: era un uomo amorevole e premuroso.
Bernd iniziò a pensare "Perché mio padre dice che è un traditore?".
Ma per il giovane, il "punto di svolta" arrivò quando i palestinesi uccisero 11 membri della squadra olimpica israeliana - sei allenatori e cinque atleti - ai Giochi estivi del 1972 a Monaco.
"Mi chiedevo perché - non sapevo ancora dell'Olocausto - mio padre non ne parla? Perché è così arrabbiato?
"Aveva solo fatto riferimento al massacro degli atleti israeliani, dicendo:"Guarda cosa ci fanno di nuovo! Gli ebrei stanno minando la nostra reputazione per farci sembrare cattivi".
E il massacro aveva sollevato un'altra domanda: se gli ebrei erano stati di nuovo uccisi in Germania, quando era già accaduto?
A dire la verità furono i suoi insegnanti. Bernd rimase scioccato e al contempo perplesso perché se il padre era un eroe di guerra doveva sapere qualcosa.
Le domande senza risposta
Aveva posto delle domande ad Arthur e lui rispose che era tutta una bugia, gli insegnanti erano comunisti e l'Olocausto non era mai accaduto.
"Sospettavo ci fosse una grande lacuna, un buco nero su cui mio padre non voleva far luce, e più leggevo, più imparavo", ha detto Bernd.
"Più studiavo, più arrivavo alla conclusione che mio padre era un bugiardo."
Solo quando era ubriaco il padre smetteva di mentire ma "non si è mai scusato per quello che è successo agli ebrei".
"Una volta mi ha detto che il mondo avrebbe dovuto celebrare quello che hanno fatto i tedeschi, perché ci siamo sbarazzati dei parassiti".
In seguito aveva scoperto che in Russia l'unità del padre spargeva terrore nei villaggi ebraici, massacrava la gente del posto e strappava le pagine dalla Torah nelle sinagoghe per isolare i serbatoi.
Non ultimo, aveva scoperto che il padre aveva mandato delle persone a morire ad Auschwitz.
"Sapeva esattamente cosa fosse Auschwitz. Ha partecipato allo sterminio degli ebrei".
Determinato a saperne di più sulle persone che il padre aveva perseguitato, il giovane tedesco chiese al suo insegnante, un ex prete gesuita, di aiutarlo.
Il sacerdote aveva portato Bernd a un vertice interreligioso annuale organizzato dalla chiesa, progettato per riunire ebrei e arabi di Israele.
Bernd ha ricordato: "Ho stretto un legame con una ragazza israeliana e lei ha detto: "Se vuoi vedermi di nuovo, devi venire in Israele", cosa che feci tre mesi dopo".
L'arrivo in Israele
Ha preso un treno per l'Italia e un traghetto attraverso il Mediterraneo, e i genitori della ragazza lo hanno accolto nel loro minuscolo appartamento.
Un'esperienza che lo aveva trasformato.
"Mi hanno ospitato come un fratello perduto da tempo", ha detto Bernd.
"Ho chiesto al padre come aveva imparato il tedesco e mi ha mostrato il numero tatuato sull'avambraccio. Sono rimasto scioccato".
'Non mi ha incolpato per questo, era un uomo molto, molto gentile. Era stato ad Auschwitz.
"Mi aveva detto: "Non odio i tedeschi, ma voglio sapere se ti insegnano quanto è accaduto". Ho risposto: "probabilmente non abbastanza".
"Mi ha portato allo Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto a Gerusalemme, e lì ho capito l'entità dello sterminio e sono crollato emotivamente. Ho pianto".
Il ritorno in Germania
Al ritorno a Bamberg, Bernd si offrì di aiutare la sua comunità ebraica locale come uno Shabbat goy, un gentile che svolge determinate attività proibite agli ebrei durante il sabato.
"Più mi avvicinavo a questa famiglia di elezione - e conoscevo la liturgia, la lingua, le abitudini - più mi sentivo distante dalla mia famiglia di origine e arrivai alla rottura".
Il momento decisivo fu quando gli chiesero di dire il kaddish - una preghiera ebraica - sulla tomba di un amico anziano che era morto senza avere accanto la famiglia.
Durante l'Olocausto l'uomo era stato un Sonderkommando - un ebreo costretto, pena la morte, ad assistere all'assassinio della sua stessa gente - e se ne vergognava profondamente.
"Quando l'ho fatto, sapevo di aver varcato la soglia. Non ero più tedesco", ha spiegato Bernd.
La conversione: Bernd diventa ebreo
Chiese a Itzhak Rosenberg, allora capo della piccola comunità ebraica della città, di aiutarlo a convertirsi.
La domanda di conversione fu rifiutata per due anni, ma alla fine Bernd nel 1986 cambiò religione.
A quel punto si era laureato in medicina e decise di andare in Israele, dove avrebbe prestato servizio nell'esercito come ufficiale medico.
Ha visto suo padre un'ultima volta, la notte prima di partire.
"Sono andato a salutarlo ma non voleva vedermi. Era ubriaco come sempre e mi ha definito "traditore". Per lui è stato il tradimento finale", ha aggiunto.
Arthur Wollschlaeger morì nel giugno 1987.
Le ultime parole all'unico figlio erano contenute in una serie di lettere inviate in Israele.
"Le ho lette 20 anni dopo ed erano parole sprezzanti e strazianti. Era combattuto tra il volermi bene come figlio e poi perdermi come figlio".
Nel testamento aveva dichiarato esplicitamente che mi era proibito partecipare al suo funerale, ma comunque Bernd non era presente.
"Mi è stato proibito di portare il suo cognome, di avvicinarmi alla sua tomba e sono stato definito traditore".
Bernd ha lasciato Israele nel 1991, seguì la moglie, un'israeliana-americana, negli Stati Uniti da cui divorziò nel 1995.
Oggi è un medico di famiglia a Miami, in Florida, e ha tre figli. Tal, 31, Jade, 26 e Natalia, 23, tutti di religione ebraica.
Sebbene il padre non abbia mai disconosciuto il nazismo, Bernd - che racconta il suo viaggio spirituale nel libro di memorie "A German Life" - è riuscito a perdonarlo.
(Blitz quotidiano, 25 ottobre 2020)
Lenigma Gesù
Dalla Sacra Scrittura
MARCO 15
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
un aereo israeliano è atterrato all'aeroporto di Khartoum verso la fine di maggio, un volo che avrebbe dovuto rimanere segreto come i negoziati che Najwa Gadaheldam stava portando avanti. La diplomatica sudanese cercava la pace tra i due Paesi nemici, non ha potuto assistere alla sua vittoria, è morta in pochi giorni colpita dal Covid-19, i medici erano partiti da Tel Aviv per cercare di salvarla.
Da allora le trattative sono andate avanti con i consiglieri di Trump a fare da mediatori, a mettere sul tavolo quella che per il Sudan è l'offerta più vantaggiosa: Washington promette di toglierlo dalla lista delle nazioni che sostengono il terrorismo e di cancellare le sanzioni. In cambio Israele continua ad allargare dopo Emirati Arabi e Bahrein la nuova alleanza con il mondo arabo e islamico. I contatti vanno avanti dalla caduta di Omar al Bashir un anno e mezzo fa, deposto dopo le proteste popolari: il consiglio militare che ha preso il potere e il primo ministro Abdallah Amdok hanno capito che la mossa diplomatica li avrebbe aiutati a uscire dalla crisi.
Il passo verso Israele chiude per il Sudan il cerchio delle ostilità ratificato proprio a Khartoum nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni. Una riunione della Lega Araba convenuta nella capitale aveva approvato la risoluzione conosciuta come quella dei tre «no»: «No alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati». Cinquantatré anni dopo la situazione nella regione spinge a cercare intese diverse. Trump ha accelerato perché i primi sì di Emirati, Bahrein e Sudan potessero venire annunciati prima delle elezioni del 3 novembre. Ripete che se fosse rieletto anche gli iraniani lo chiamerebbero il giorno dopo per negoziare un accordo.
Ieri è arrivata la conferma il premier Benjamin Netanyahu era rimasto ambiguo sul punto che gli Emirati in cambio del patto hanno ottenuto dagli Stati Uniti la fornitura degli F-35. Fino ad ora i governi israeliani si erano sempre opposti alla perdita del vantaggio strategico in Medio Oriente garantito dagli armamenti americani.
(Corriere della Sera, 24 ottobre 2020)
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Israele, la nuova svolta. È pace con il Sudan Gli Usa: "Ora i sauditi"
di Sharon Nizza
L'ex nemico storico di Gerusalemme
Il Sudan aveva partecipato alle guerre del '48,'67 e fornito armamenti all'Egitto durante la guerra del Kippur. Fu proprio nella capitale sudanese che la Lega Araba pronunciò i famosi "Tre no" che chiudevano a qualsiasi dialogo con Israele.
GERUSALEMME - «Oggi Khartum dice sì alla pace, al riconoscimento di Israele e alla normalizzazione». Così Netanyahu ha comunicato ieri agli israeliani che anche il Sudan ha deciso di imbarcarsi nel processo di normalizzazione con lo Stato ebraico, diventando il terzo Stato musulmano a procedere in tal senso in due mesi, dopo Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Il Sudan aveva attivamente partecipato alle guerre del '48, '67 e fornito armamenti all'Egitto durante la guerra del Kippur. Fu proprio nella capitale sudanese che la Lega Araba pronunciò i famosi "Tre no" che chiudevano a qualsiasi dialogo con Israele - quelli che Netanyahu nella sua dichiarazione ha ribaltato in positivo. Israele ha preso di mira in passato convogli iraniani transitati in Sudan per l'armamento di Hamas.
In serata si è svolto un primo colloquio telefonico ufficiale tra Trump, Netanyahu e i leader sudanesi Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Militare di Transizione e il premier Abdalla Hamdok. La divisione tra l'anima militare e quella civile del governo, con la seconda più esitante rispetto alla mossa, è emersa fino all'ultimo. Decisivo l'impegno di Trump, formalizzato ieri, di rimuovere il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo. In cambio gli Usa hanno ottenuto anche 355 milioni di dollari dal Sudan come risarcimento per le vittime americane di attentati terroristici che hanno visto il coinvolgimento del Paese africano. Somma che probabilmente verrà azzerata dagli ingenti aiuti che gli Usa hanno promesso di inviare ora a Khartum per ridurne l'immenso debito pubblico. Una fonte Usa ha annunciato anche che il Sudan inserirà Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche.
«Si è parlato molto in questi mesi dell'apertura a Israele. Mentre c'era esitazione da parte dei leader, l'opinione pubblica è felice di questa opportunità, gli oppositori sono marginali. Il popolo sudanese vuole vedere il proprio Paese avanzare. Le relazioni con Israele avranno effetti positivi«, dice a Repubblica Mudawi Ibrahim Adam, storico attivista sudanese per i diritti umani che ha partecipato anche alla rivoluzione che l'anno scorso ha messo fine alla dittatura trentennale di Omar al-Bashir.
L'amministrazione Trump ha lavorato intensamente («Pompeo chiama Khartoum a giorni alterni« aveva detto Ibrahim già il mese scorso) per incassare questo nuovo risultato in politica estera, nella speranza che possa avere un impatto sulla corsa presidenziale. Corsa che ha trovato spazio nella telefonata tra i leader, con Trump che ha chiesto a Netanyahu: «Bibi, pensi che Sleepy Joe avrebbe potuto fare questi accordi? Non credo " (Netanyahu ha risposto con un diplomatico «Apprezziamo l'aiuto per raggiungere la pace da parte di chiunque negli Usa»).
Trump ha parlato di altri cinque Stati arabi, tra cui l'Arabia Saudita (Oman e Marocco pare siano in cima alla lista), che l'amministrazione prevede apriranno a breve a Israele. E si è spinto oltre: «Vorrei vedere anche l'Iran aggregarsi». Netanyahu non esclude: "Ero contrario all'accordo precedente (quello sul nucleare, ndr ), ma un nuovo accordo con l'Iran sarebbe benedetto".
(la Repubblica, 24 ottobre 2020)
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Dall'Olp a Netanyahu, il Sudan normalizza i rapporti con Israele
Ancora una volta un nemico di Israele riesce a descrivere bene, per rammaricarsene, i successi di Israele. NsI
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - «Oggi annunciamo un'altra svolta sensazionale verso la pace. Un altro paese arabo entra nel cerchio della pace: questa volta si tratta della normalizzazione fra Israele e Sudan».
Netanyahu ha commentato così l'annuncio di Trump dell'accordo che mette fine allo stato di belligeranza tra Khartum e Tel Aviv e darà inizio alla normalizzazione tra i due paesi. Poco prima il premier israeliano aveva avuto un colloquio telefonico con i leader sudanesi - il premier Hamdok e il capo del consiglio di transizione al Burhan - e il presidente americano. Tutto era pronto da mercoledì: una delegazione israeliana di alto profilo si è recata a Khartum. Ieri mattina Trump ha annunciato la rimozione del Sudan dalla lista dei paesi che gli Usa accusano di «sponsorizzare il terrorismo». A quel punto si è capito che l'annuncio della terza normalizzazione dopo quelle tra Israele con Emirati arabi e Bahrain era una questione di ore.
Il Sudan aderisce all'Accordo di Abramo, firmato il 15 settembre alla Casa Bianca. Quanto i nuovi leader che hanno rimosso al Bashir siano andati a braccia aperte verso i loro interlocutori israeliani è difficile valutarlo. Lo scenario è mutato, e non poco, rispetto a 18 anni fa quando il mondo arabo si diceva unito nel sostenere il principio «della pace per la terra» e che la normalizzazione con Israele si sarebbe realizzata solo in cambio del ritiro dai territori arabi e palestinesi occupati dallo Stato ebraico nel 1967. Ma l'impressione è che il Sudan, con una popolazione alla fame, sia stato spinto all'accordo dal diktat di Trump: niente rimozione dalla black list e aiuti internazionali senza la normalizzazione con Tel Aviv.
Il meno celebrato dei tre accordi in realtà è il più significativo. Khartum è stata una delle capitali più schierate a favore dei diritti dei palestinesi e in passato ha accolto migliaia di combattenti dell'Olp. «Il Sudan che normalizza i rapporti con l'occupazione israeliana è una nuova pugnalata alla schiena ma non piegherà i palestinesi che proseguiranno la lotta per i loro diritti», ha commentato Wasel Abu Yusef, del Comitato esecutivo dell'Olp.
Netanyahu esagera ma fino a un certo punto quando parla di svolta sensazionale. Il Sudan di fatto è stato impegnato in una guerra a distanza con Israele. Ha sostenuto il movimento islamico Hamas e mantenuto un'alleanza militare e politica con l'Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah. Tra il 2008 e il 2014 l'aviazione israeliana ha colpito più volte nel paese africano. E il premier israeliano ieri ha ricordato che a Khartum, nel 1967, furono enunciati i «tre No» della Lega araba: «No alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no a trattative con Israele».
Cinque decenni dopo Israele arriva ufficialmente a Khartum e Porto Sudan con i suoi apparati di sicurezza e intelligence.
(il manifesto, 24 ottobre 2020)
Michele Giorgio legge gli accordi di pace come mezzo per Israele per allargare le basi dei propri apparati di sicurezza e di intelligence. Ma una qualsiasi attenta valutazione dello svolgimento delle trattative non può non vedere ben altro che un semplice aiuto all'intelligence israeliana che, nei decenni, ha dimostrato di non aver bisogno di simili accordi di pace; basti pensare come esempio illuminante ed eclatante alle tonnellate di documentazione davvero esplosiva fatte uscire dall'Iran.
Inoltre è grave l'omissione della feroce dittatura che ha governato il Sudan per anni, un paese che venne colpito sì da attacchi mirati israeliani, ma che sempre, fin dall'epoca di Nasser partecipò attivamente alle guerre ed agli attacchi contro Israele con forniture di uomini ed armi, oltre che agì come autostrada per i convogli di armi saltuariamente colpiti da Israele. Emanuel Segre Amar
La scrittrice israeliana che profetizzò la pandemia
Negli anni Novanta Hamutal Shabtai pubblicò il romanzo "2020"
di Meir Ouziel
Hamutal Shabtai
Nel 1997, la scrittrice israeliana Hamutal Shabtai ha pubblicato un libro dal titolo 2020, che tratta di una pandemia che sconvolge il mondo nei 2020. Un libro profetico che solleva questioni che oggi ognuno di noi conosce in prima persona: il distanziamento fisico di fronte alla paura del contagio, le famiglie separate, la contrapposizione tra gli Stati, il controllo delle nostre vite in nome della salute. L'autrice è psichiatra di professione, figlia del noto scrittore Yaakov Shabtai, i cui libri sono tradotti anche in italiano. È davvero un romanzo visionario per la sua capacità di descrivere con tanta precisione quanto il mondo sta vivendo in questo 2020.
Iniziò a scrivere il romanzo negli anni '80, quando il mondo era terrorizzato dalla sfida dell'Aids. In quanto medico, Shabtai era estremamente preoccupata dalle implicazioni che quella nuova malattia avrebbe potuto avere sulle relazioni interpersonali. Così, al centro del suo mondo letterario, c'è un disegno per sviluppare una nuova razza umana caratterizzata dal ripudio dei rapporti intimi.
Tra i romanzi distopici che immaginano un mondo minacciato da una pandemia, nessuno ha azzeccato l'anno come Shabtai. Questo genere di letteratura tende a concentrarsi su trame dicotomiche in cui il "cattivo" diffonde il virus consapevolmente, mentre 2020 si concentra su un aspetto più interessante: i risvolti che la pandemia ha sull'animo umano, fino a che punto è in grado di mutare i nostri istinti primordiali, portando, piuttosto che a unirci, ad allontanarci.
«È un libro su un virus che colpisce l'amore» ho detto a Hamutal durante un recente festival di letteratura distopica cui abbiamo partecipato (ovviamente su zoom). Lei ha concordato. Il virus che nel suo libro dipinge con la forza dell'immaginazione, nel 2020 ha effettivamente intaccato l'amore fisico tra gli esseri umani. Shabtai descrive un mondo controllato da una dittatura sanitaria, ai cui vertici vi è l'Organizzazione mondiale per la sanità. Sì, incredibile, lo stesso potente ente che oggi è diventato così predominante nelle nostre vite.
La dittatura impone leggi d'emergenza che separano i soggetti sani dai malati. Ogni giorno, i sani devono superare il controllo di un sistema automatico. Le stazioni di controllo si trovano ovunque, nei centri commerciali, nelle scuole, nelle università. E ogni giorno viene aggiornata la situazione medica di ogni soggetto: sano, malato o a rischio. Le persone malate o a rischio sono trasferite in "centri di cura", da cui non vi è ritorno. I sani continuano a essere monitorati dall'Autorità per il controllo igienico, un ente con milioni di controllori che hanno la facoltà di arrestare chiunque, seguirlo, intercettarne le conversazioni.
«Ho scritto il libro nel 1986, quindi non ci sono cellulari o internet», dice Shabtai. E infatti quello che rende incredibilmente interessante il romanzo non è tanto l'innovazione tecnologica o scientifica che in genere si tende a cercare nei libri di fantascienza, ma piuttosto la descrizione di una situazione - che effettivamente viviamo oggi sulla nostra pelle - in cui una pandemia è in grado di cambiare l'umanità nel profondo della sua psicologia.
Shabtai stessa è rimasta colpita da quanto la sua descrizione si sia dimostrata realistica: come la paura abbia preso il sopravvento: come non solo gli uomini, ma anche gli Stati abbiano iniziato a relazionarsi attraverso la lente della paranoia. «Avevo visto giusto allora. Ma solo ora ho avuto la prova che avevo ragione!».
Nel romanzo è descritta una realtà inquietante in cui ogni contatto, vicinanza, forma di erotismo tra esseri umani è accompagnato dal sospetto. E si, anche li la gente ha paura a stringersi le mani. L'omosessualità è un crimine, così come le relazioni extraconiugali. Sono banditi tutti i luoghi in cui uomini e donne potrebbero incontrarsi e interagire. Per i rapporti sessuali, esistono dei funzionali robot.
«Vorrei tanto abbracciarti nonno», ha detto la nostra nipotina dodicenne a me e mia moglie quando finalmente ci siamo incontrati dopo mesi di isolamento. Ma abbracciarsi oggi è vietato.
Un mondo senza erotismo e senza amore tra gli esseri umani equivale alla morte del mondo. Il bacio è l'unico mezzo che l'uomo ha per far fronte, per un istante, alla sua nullità rispetto all'eternità. L'amore è l'elemento più importante delle nostre vite. Tutti moriremo prima o poi, con o senza virus. Ma se continueremo a vivere senza l'amore, senza la possibilità di baciarci, il Covid avrà davvero sopraffatto l'umanità.
(la Repubblica, 24 ottobre 2020 - trad. Sharon Nizza)
Identità nascoste. Sulle tracce dei cripto-giudei
Inaugurazione mostra mercoledì 28 ottobre 2020, h 18 alla presenza di:
Guido Ottolenghi Presidente Fondazione Museo Ebraico di Bologna
Dan Tadmor, CEO Museum of the Jewish People at Beit Hatfutsot
Amedeo Spagnoletto, Direttore MEIS
La mostra esplora la lunga storia degli ebrei nella Penisola Iberica (Sefarad), dai primi anni dell'Impero romano, attraverso il medioevo e la fiorente Età d'Oro che vide un notevole sviluppo della cultura e dell'economia ebraica in Spagna, fino al dramma dell'espulsione, delle fughe e delle conversioni forzate da cui origina la storia dei cripto-giudei. Il percorso espositivo - sviluppato in collaborazione con il Museo del Popolo Ebraico | Beit Hatfusoth di Tel Aviv e con The Jewish Heritage Alliance - getta luce sull'affascinante e complessa vicenda dei cripto-giudei, dei conversos ("convertiti"), degli anusim (i "costretti"), dei nuovi cristiani, dei marrani, tutte definizioni che si riferiscono a uomini e donne che dalla fine del XV secolo vissero una drammatica doppia identità: in pubblico come cristiani, ma segretamente, nell'intimità delle loro case, continuarono a osservare il giudaismo. La storia dei conversos dalla penisola iberica è una storia di identità segrete, nascoste e mutevoli. Le loro tradizioni uniche e particolari durarono per generazioni, dimostrando la forza e la resilienza di una intera comunità.
La mostra illustra inoltre il grande contributo culturale che la tradizione sefardita di questa nuova diaspora esportò ben oltre i confini della Penisola Iberica. Dall'Europa occidentale, all'Impero ottomano, fino alle colonie del Nuovo Mondo. Sono esposti alcuni importanti manoscritti e testi ebraici sefarditi, provenienti dalla Biblioteca Universitaria di Bologna e dalla Biblioteca Comunale di Imola: in particolare, la preziosa Bibbia ebraica miniata di Imola prodotta a Toledo nel 1480 ca., e la Bibla en lengua Española nell'edizione del 1553 di Duarte Pinel, converso portoghese che si rifugiò a Ferrara.
in collaborazione con il Museo del Popolo Ebraico | Beit Hatfusoth di Tel Aviv e con The Jewish Heritage Alliance.
(Bologna Agenda Cultura, 24 ottobre 2020)
16 ottobre 1943, il liceo "Enriques" di Ostia commemora il rastrellamento degli Ebrei di Roma
Lello Dell'Ariccia
OSTIA - Nel giorno della Commemorazione del rastrellamento degli Ebrei di Roma, avvenuto il 16 ottobre del 1943, è stata organizzata una conferenza presso l'aula magna della succursale del liceo ad Acilia, relatore Lello Dell'Ariccia, prezioso testimone della deportazione degli Ebrei di Roma e oggi Presidente dell'associazione "Progetto Memoria" che si occupa, assieme al Centro di Cultura Ebraica di Roma, di fare opera di sensibilizzazione sociale e culturale. "Una bella sfida quella che in tempi di pandemia è stata intrapresa al liceo Enriques", commenta la prof. ssa Gaetana Allegretti, referente del Progetto Memoria del Liceo scientifico e linguistico F. Enriques.
La mattina del 16 di ottobre, in aula magna ad Acilia, erano presenti (opportunamente distanziati) gli allievi di quattro classi della succursale, mentre da remoto erano collegati quelli del liceo scientifico e linguistico "Enriques" di Ostia e di Acilia. Prodigi della tecnologia che, seppur con qualche difficoltà iniziale, ha permesso di raggiungere talmente tanti alunni che l'aula magna non avrebbe mai potuto contenere.
Il Dirigente scolastico Antonio Palcich ha presentato l'eccezionale testimone che alla veneranda età di ottantatré anni ha voluto essere presente, sfidando qualsiasi paura di contrarre il Covid, pur di portare in questa ricorrenza la sua testimonianza su un evento così tragico non solo per la comunità ebraica, ma per tutti i romani e l'Italia intera. Dopo un dettagliato excursus storico, Dell'Ariccia ha proseguito più dettagliatamente a partire dall'Unità d'Italia con l'abolizione dei ghetti fino all'esame del documento sulle Leggi razziali del '38 (proiettato sullo schermo), soffermandosi sui nomi di intellettuali, politici e giornalisti che lo sottoscrissero e che hanno continuato ad avere grande importanza nel dopoguerra.
Da subito Dell'Ariccia stupisce per la sua voce cristallina, la sua energia nel conferire, la lucidità nel ricordare episodi storici in modo dettagliato e al tempo stesso connotandoli con aneddoti relativi al suo vissuto. Ma la parte più toccante è quando parla della sua infanzia, della comunità ebraica di Roma che nel '43 stentava a credere alle tragiche notizie che arrivavano d'oltralpe, sentendosi rassicurata dalla presenza del papa e maggiormente dal tentativo del generale Kappler di evitare il rastrellamento degli ebrei di Roma in cambio di cinquanta chili d'oro.
Talora il racconto di Dell'Ariccia si colorisce di aneddoti di grande potenza emotiva, di racconti che sottolineano la grande umanità di alcuni personaggi ed al contempo la ferocia di altri. Toccante l'episodio di una venditrice di caldarroste, non ebrea: alla vista della triste questua destinata al generale Kappler, si tolse dal collo la sottile collanina d'oro e la donò in segno di solidarietà.
Dell'Ariccia racconta che nella sua famiglia solo i suoi genitori avevano dato credito alle parole di uno zio, molto informato su ciò che stava avvenendo agli ebrei nell'Est europeo, infatti si trasferirono in un'altra casa e fu questa la loro salvezza.
La mattina del 16 ottobre del '43, da via del Casaletto, dove allora vivevano, la sua mamma decise che sarebbero andati a portare alla nonna delle uova e un po' d'olio. Giunti dopo ore di cammino a destinazione, una donna afferrò per il braccio la mamma e le disse che i tedeschi avevano già portato via la nonna con una nipotina di sei anni e lo zio che viveva con loro. A questo punto sullo schermo appare l'immagine di un foglietto: era stato scritto dallo zio, lasciato cadere per strada e ritrovato da alcuni passanti, in cui lo zio rassicurava che stava bene. Questo foglietto è stata l'ultima testimonianza diretta dallo zio alla famiglia, prima di essere caricato sui vagoni merci alla stazione Tiburtina e trasportato al campo di concentramento di Auschwitz. Quindi Dell'Ariccia continua a riferire del suo peregrinare per Roma in clandestinità, spesso accolto in conventi di suore. Una famiglia amica, non ebrea, gli aveva fornito dei documenti falsi e qui la voce del testimone si spezza, gli occhi si velano di lacrime e, dopo una pausa, spiega commosso come quella amicizia ancora oggi continua.
Concluso il discorso, si accavallano gli interventi degli studenti sia presenti che distanti. Uno chiede quanto la fede nella religione sia stata di sostegno nei momenti più bui, e dell'Ariccia inaspettatamente rivela di non essere affatto credente, di sentirsi cittadino del mondo e di non credere alla distinzione tra le razze. Una ragazza gli ha chiesto cosa possano fare i giovani nel loro piccolo. Dell'Ariccia risponde con Gramsci: "Studiare!"; poi ha aggiunto "Siate cittadini attivi, andate a votare e, se non vi piace alcun partito, fondatelo!" Così si è conclusa questa commovente conferenza tenuta da un testimone che ha vissuto in prima persona i momenti tragici finali del Secondo Conflitto Mondiale. "Sono state le parole giuste che i ragazzi si aspettavano in un momento difficile come questo; - commenta una professoressa di Acilia - è stata data loro una bella opportunità di crescita personale e culturale".
Molto soddisfatte anche le referenti del "Progetto Memoria" del Liceo "Enriques", le professoresse Gaetana Allegretti e Stefania Nardone, che hanno svolto il lavoro di organizzazione dell'evento. "Non è stato affatto semplice, - affermano le professoresse - perché in tempi di Covid ci si è dovuti attrezzare opportunamente, fare i conti con la rete, usufruire di piattaforme fino ad ora ai più sconosciute; ma a volte questa tecnologia, tanto vilipesa da alcuni perché effettivamente priva la scuola di quella dimensione così importante di socialità, riesce a fare prodigi come nella conferenza del 16 ottobre scorso in cui ha unito centinaia di alunni che, nonostante la distanza, hanno potuto partecipare ed assistere ad una straordinaria testimonianza.
(Il Faro, 24 ottobre 2020)
Israele, avvio della sperimentazione clinica per il vaccino contro il Covid
L'Istituto israeliano per la ricerca biologica a Ness Ziona
Superata con successo la prima fase di test pre-clinici, l'Istituto israeliano per la ricerca biologica di Ness Ziona, nel centro del paese, dal primo novembre procederà a testare il vaccino contro il Coronavirus su un gruppo composto da 100 israeliani adulti, tra i 18 e i 50 anni.
La notizia che l'Istituto e' sulla buona strada era gia' trapelata lo scorso marzo, dopo che i ricercatori del Ness Ziona, il mese precedente, avevano ricevuto da alcuni istituti di ricerca omologhi all'estero, Italia inclusa, dei campioni contenenti il virus. Il centro, fondato negli anni '50 per difendere il neo-costituito paese da eventuali attacchi chimici e biologici, e' oggi specializzato in ricerca avanzata, applicata allo sviluppo multidisciplinare nei settori della biologia, della chimica, delle scienze ambientali e dell'atmosfera.
I test pre-clinici fin qui condotti hanno fornito positivi riscontri sulla rapida e potente induzione di anticorpi neutralizzanti contro la SARS-Cov-2, il virus che causa il COVID-19 e sulla possibilità di trasferire sull'uomo una prima fase di sperimentazione. Che se avrà successo, consentirà un allargamento dei test clinici fino a 30.000 soggetti.
(Tribuna Economica, 23 ottobre 2020)
Israele ha una base segreta in Bahrein da undici anni
di Emanuel Pietrobon
A poco più di un mese dalla firma degli accordi, avvenuta il 15 settembre presso la Casa Bianca, Israele ed Emirati Arabi Uniti stanno procedendo all'avvio di forme di cooperazione e partenariato in numerosi settori, dal turismo al commercio, e proseguono attivamente anche i lavori con il Bahrein.
Dopo aver annunciato la prossima apertura di una rotta marittima collegante i porti israeliani e bahreiniti e firmato l'accordo per l'inaugurazione ufficiale e formale di relazioni bilaterali, il 21 ottobre le opinioni pubbliche dei due Paesi sono state messe a conoscenza di un evento protetto dal massimo riserbo per oltre un decennio: la presenza di una missione israeliana segreta a Manama dal 2009.
La notizia è divenuta di pubblico dominio il 21 ottobre, preceduta da una settimana di indiscrezioni; segno che l'era della segretezza e dell'ambiguità tra Israele e gli attori statuali del mondo arabo è ufficialmente terminata con la firma degli accordi di Abramo. Oggi è il Bahrein, ma domani potrebbero essere rivelati dettagli inerenti i rapporti a lungo nascosti, ad esempio, tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, o tra Israele e l'Arabia Saudita.
Il portale d'informazione Axios ha ricostruito l'intera vicenda nei dettagli grazie all'aiuto di alcuni ufficiali bahreiniti. Fra il 2007 e il 2008 ebbe luogo un ciclo di incontri segreti tra l'allora ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, e l'omologo bahreinita, Khaled Bin Ahmad al-Khalifa, avente l'obiettivo di spianare la strada all'apertura di una "missione israeliana segreta a Manama".
Le due diplomazie raggiunsero un accordo, favorito dall'aumento della rivalità tra Israele e Qatar, che il 13 luglio 2009 condusse alla registrazione del Centro per lo Sviluppo Internazionale nell'albo delle imprese operanti in Bahrein. Quell'ente, in realtà, non era una semplice compagnia privata ma uno scudo dietro al quale proteggere le attività ultra-riservate della diplomazia israeliana.
La compagnia, che dal 2013 ha cambiato nome, è ufficialmente coinvolta in attività di commercializzazione e servizi d'investimento e consulenza per imprese occidentali interessate a fare affari nella penisola arabica al di fuori del campo petrolifero, come ad esempio nella tecnologia medica, nelle rinnovabili e nella sicurezza alimentare. In realtà, oltre a servire tali scopi, la missione ha anche funto da "canale per le comunicazioni segrete per il governo israeliano".
Come è stato mantenuto il segreto
Gli impiegati sono stati scelti con estrema discrezione da Tel Aviv onde evitare che il giornalismo d'inchiesta e/o attività di spionaggio potessero portare alla scoperta della missione. Il requisito fondamentale per poter lavorare negli uffici della compagnia fittizia era, ed è, il possesso della doppia cittadinanza. In questo modo la diplomazia israeliana ha potuto inviare in loco degli agenti ufficialmente provenienti dal Sud Africa, dal Belgio, dagli Stati Uniti e dal Regno Uniti, ma in realtà al servizio di Israele.
Ad ogni impiegato, inoltre, era stato fatto un profilo su LinkedIn, il più importante sito web al mondo per lo sviluppo di contatti professionali, per aumentare la credibilità e ridurre al minimo ogni sospetto.
Infine, per via della sempre presente possibilità che qualche ufficiale bahreinita su posizioni anti-israeliane potesse svelare l'accaduto, l'esistenza della missione segreta era stata comunicata soltanto ad un gruppo molto ristretto di persone composto dai lealisti più fidati del re. Da quando sono stati firmati gli accordi di Abramo, però, la necessità di nascondere un simile segreto è venuta meno: le opinioni pubbliche sono state adeguatamente preparate al processo di normalizzazione e il mondo arabo è entrato in una nuova era.
(Inside Over, 23 ottobre 2020)
Vicino l'accordo Israele-Sudan, il ruolo del misterioso dellagente 'Maoz'
di Aldo Baquis
Dopo gli accordi con gli Emirati arabi uniti ed il Bahrein, Israele si ritiene prossimo alla normalizzazione delle relazioni anche col Sudan. Questione di giorni, anticipano i media locali. Intessuti dall'amministrazione di Donald Trump, gli 'Accordi di Abramo - ha scritto su Facebook il premier Benyamin Netanyahu - "compiono già passi da gigante".
Accordi di cooperazione sono stati firmati questa settimana con ministri degli Emirati giunti a Tel Aviv. Presto ci saranno decine di voli settimanali da Tel Aviv verso Abu Dhabi e Manama, con scambi di turisti esenti da visti di ingresso, e con libertà di volo su Giordania e Arabia Saudita. "Israele diventa uno snodo regionale" ha esclamato il premier. Adesso anche l'Africa orientale è a portata di mano.
Giovedì scorso un aereo privato è decollato da Tel Aviv diretto a Khartum. A bordo c'erano funzionari statunitensi ed israeliani. Fra questi - ha rivelato la radio militare - un uomo circondato dal mistero che nell'ufficio del premier si fa chiamare 'Maoz', 'fortezza', in ebraico. Indicato come il braccio destro del consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabat, 'Maoz' - secondo l' emittente - ha operato a lungo dietro le quinte in vari Paesi arabi fra cui Emirati e Bahrein, e probabilmente altrove. A Khartum ha in apparenza lavorato alla definizione degli ultimi dettagli di un accordo bilaterale che, secondo i media locali, sarà annunciato a giorni da Trump.
L'avvicinamento fra Israele e Sudan era venuto alla luce lo scorso febbraio con un incontro a sorpresa in Uganda di Netanyahu col dirigente sudanese Abdel Fattah al-Burhan. Era stato organizzato, si è appreso poi, dagli Emirati. In parallelo il premier lavorava anche ad un "ritorno" di Israele in Africa, incontrando dirigenti del Ciad e del Mali. Le intese col Sudan significano fra l'altro un accorciamento delle rotte degli aerei israeliani diretti verso il Sudamerica.
Il contributo degli Stati Uniti è stato determinante. Pochi giorni fa il Segretario di Stato Mike Pompeo ha assicurato il Sudan che sarà rimosso dalla lista degli Stati che fomentano terrorismo. Una condizione necessaria per garantirgli l'afflusso di aiuti economici. "Quello è stato un puro ricatto" ha detto al Jerusalem Post una fonte dell'Autorità nazionale palestinese.
'"Il Sudan rischia di diventare il terzo Paese arabo a pugnalarci alla schiena, in violazione del consenso e delle risoluzioni arabe". Ahmed al-Mudalal, un dirigente della Jihad islamica, ha rincarato: 'Perdere il Sudan sarebbe per i palestinesi un disastro". Intanto il Mufti di Gerusalemme sceicco Muhammad Hussein ha avvertito che cittadini di Paesi arabi che arrivassero in Israele in virtù di accordi separati con Israele non sarebbero benvenuti nella Moschea al-Aqsa. Sarebbero visti piuttosto "alla stregua di soldati e di coloni israeliani".
(Focus on Africa, 23 ottobre 2020)
"Per decenni abbiamo sognato che Israele venisse accettato nella regione
"A Israele non è mai stata data una giusta opportunità in questa regione perché è sempre stato isolato dai suoi vicini con una forma di discriminazione etnica e religiosa".
Scrive Eldad Beck: È sconcertante vedere come la maggior parte della grande stampa, persino in Israele, si stia occupando della rapida attuazione degli "accordi di Abramo" tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Dalla ratifica del trattato da parte della Knesset e del governo di Abu Dhabi, alla visita in Bahrain della delegazione israeliana per la normalizzazione, all'avvio dei primi voli commerciali diretti tra gli Emirati e Israele: tutto viene sottovalutato e minimizzato. Come se questi sviluppi non fossero altro che un fastidioso rumore di fondo che distoglie l'attenzione dalla "storia principale": le proteste contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu....
(israele.net, 23 ottobre 2020)
Netanyahu non sa cosa fare con gli ultra-ortodossi
di Futura D'Aprile
Dopo più di un mese, Israele sta uscendo lentamente dal secondo lockdown imposto l'11 settembre dalle autorità per cercare di limitare la seconda ondata di coronavirus. Nonostante l'allentamento delle restrizioni, la vita non è ancora tornata alla normalità: le scuole sono chiuse, i ristoranti possono vendere solo tramite asporto e le visite nei luoghi sacri sono ancora a numero ridotto. Secondo quanto previsto dal piano delineato dal ministero della Salute, un vero ritorno alla normalità sarà forse possibile per febbraio del 2021, ma è ancora presto per sapere cosa succederà nei mesi a venire.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu intanto ha festeggiato la fine del secondo lockdown e lodato l'operato dei suoi colleghi, presentando la decisione di imporre nuove misure restrittive come la mossa migliore per evitare ulteriori morti.
Nel Paese però non tutti sono d'accordo con l'operato del premier. Molti ritengono infatti che il Governo abbia deciso di riaprire determinate attività e di avviare un graduale ritorno alla normalità non per motivi economici o sanitari, ma per non perdere consensi tra gli ultra-ortodossi.
I religiosi sono stati al centro del dibattito pubblico fin dall'inizio della pandemia. Questa parte della popolazione ha rispettato ben poco le direttive del Governo e le misure imposte per contenere il virus, contribuendo invece ad aumentare il numero dei contagi. Già a luglio i dati del Corona National Information and Knowledge Center avevano mostrato come il numero maggiore di positivi al Covid-19 fosse concentrato nei quartieri a maggioranza ultra-ortodossa e la situazione non è migliorata con il passare del tempo. Anche in occasione del secondo lockdown la comunità haredi si è rifiutata di rispettare le nuove restrizioni, denunciando il comportamento del Governo e inasprendo i rapporti già tesi con il resto della popolazione.
La mancanza di rispetto delle regole mostrata dagli haredi ha infatti riaperto una ferita mai sanata con la componente laica e moderata di Israele e ha messo in difficoltà il premier Netanyahu. Per il leader del Likud l'appoggio degli ultra-ortodossi è fondamentale per la propria stabilità politica, come hanno dimostrato le ultime elezioni e le trattative per la formazione del Governo. Per questo motivo Bibi non ha potuto usare il pugno duro contro di loro come invece richiesto dalla maggioranza della popolazione israeliana, preoccupata dal comportamento degli haredi. Il premier ha cercato di convincere i rappresentati degli ultra-ortodossi del Parlamento ad intervenire, ma ogni sforzo è risultato inutile.
La situazione si è poi aggravata negli ultimi giorni, quando il rabbino Chaim Kanievsky ha ordinato la riapertura delle scuole haredi, in violazione delle norme anti-Covid imposte dal Governo. La mossa ha inasprito ulteriormente gli animi e aumentato le pressioni nei confronti del premier, che continua però a non agire con la dovuta risolutezza e a perdere terreno a vantaggio degli avversari politici.
Gli ultra-ortodossi sono infatti insoddisfatti dell'operato del premier e hanno più volte accusato il Governo di aver assunto un comportamento discriminatorio nei loro confronti, allontanandosi così dal Likud. Allo stesso tempo l'incapacità di Netanyahu di affrontare il problema rappresentato dagli haredi ha ridotto ulteriormente l'elettorato del Likud, mettendo in pericolo il futuro politico dell'attuale premier.
Secondo l'ultimo sondaggio realizzato da Channel 13, il partito di Netanyahu in caso di nuove elezioni otterrebbe solo 24 seggi, ossia ben 12 in meno rispetto a quelli che attualmente detiene nella Knesset. Il secondo partito sarebbe invece La casa ebraica dell'ex ministro della Difesa, Naftali Bennett, che fin dallo scoppio della pandemia ha visto crescere costantemente il proprio gradimento all'interno dell'elettorato deluso, in un modo o nell'altro, dal comportamento di Netanyahu.
Il premier si trova in una situazione da cui difficilmente potrà uscire indenne. Il rapporto politico con gli haredi ha costretto Bibi ad agire con cautela nei loro confronti, ma non è stato abbastanza per conservarne il sostegno elettorale. Allo stesso tempo, il favoritismo del premier ha allontanato anche l'elettorato moderato, indebolendo ulteriormente la sempre più fragile base del Likud. Che dovrà prima o poi scegliere se vale la pena continuare a farsi rappresentare da Netanyahu o se è tempo di cambiare leader.
(Inside Over, 23 ottobre 2020)
Gerusalemme capitale
di Gadi Luzzatto Voghera
"Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito". Un detto popolare che si addice alla paradossale vicenda con risvolti giudiziari che ha visto coinvolta la Rai, due associazioni di solidarietà con i palestinesi, la nuova associazione delle amicizie Italia Israele e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
La storia è semplice e presto detta: durante la trasmissione "L'eredità" viene formulata una domanda a un concorrente che prevede come risposta corretta l'indicazione di Gerusalemme come capitale dello stato d'Israele. Il concorrente indica come capitale Tel Aviv, risposta che il conduttore ritiene, giustamente, sbagliata (ci si consenta il gioco delle parole). Davanti alle rimostranze del concorrente la Rai annulla in seguito la domanda e il conduttore annuncia in una trasmissione successiva che la Rai ha così deciso essendo la questione della capitale d'Israele controversa dato che si tratta di materia giuridicamente dibattuta a livello di diritto internazionale.
Due associazioni palestinesi, insoddisfatte, citano allora la Rai in giudizio davanti al Tribunale di Roma pretendendo una dichiarazione pubblica dall'emittente nazionale nella quale si dichiari "che il diritto internazionale non riconosce Gerusalemme come la capitale di Israele". Non certo una rettifica della rettifica ma una vera e propria dichiarazione politica. Nella vicenda intervengono quindi la nuova Udai e l'UCEI, e il tutto sfocia in un ulteriore ricorso dopo che il Tribunale in prima battuta dà ragione alle associazioni palestinesi.
La fine della storia si legge tutta nella sentenza definitiva del Tribunale ordinario di Roma che sostanzialmente manda tutti a casa: UCEI e Udai perché non titolate a intervenire nel procedimento e associazioni palestinesi perché pretendono una rettifica ingiustificata. Ha ragione la Rai, ci dice il Tribunale, perché anche se la materia è discussa in sede di diritto internazionale, "non possono tacersi proprio le prassi e le consuetudini internazionali riguardanti le vicende relative alla città di Gerusalemme divulgate anche ad un pubblico di 'non addetti ai lavori', secondo le quali non è inusuale assistere alle visite in Israele da parte dei Capi di Stato e di Governo degli altri Paesi presso la città di Gerusalemme e non è mai messa in discussione la 'centralità' della Città Santa rispetto alle altre città di Israele, ivi compresa Tel Aviv".
In questo caso la luna di cui scrivevo all'inizio è Gerusalemme, che da millenni è centrale punto di riferimento della civiltà ebraica e oggi è sede del parlamento, del governo e dei ministeri dello Stato d'Israele. Non riconoscere questo fatto storico, che è vero e difficilmente opinabile, aiuta oggettivamente poco ad attivare quei percorsi di dialogo e comprensione reciproca che dovrebbero condurre - speriamo il più presto possibile - a un futuro di pace nella regione.
(moked, 23 ottobre 2020)
L'ambasciata segreta
Israele e Bahrein lavorano al riavvicinamento da anni. Ora per la sede diplomatica "basta cambiare l'insegna".
di Micol Flammini
ROMA - Ieri i media israeliani davano la notizia di un nuovo accordo formale firmato tra Israele e Bahrein, che questa volta riguarda i voli regolari tra i due paesi: ognuna delle due nazioni potrà effettuare fino a quattordici voli settimanali tra l'aeroporto Ben Gurion e l'aeroporto internazionale del Bahrein, i voli tra Manama ed Eilat saranno invece illimitati. E' un passo avanti ulteriore rispetto alla normalizzazione delle relazioni tra i due stati, annunciata il mese scorso dal presidente americano Donald Trump. Questo cambiamento degli equilibri tra paesi arabi e Israele - i primi a decidere di normalizzare i propri rapporti con Gerusalemme sono stati gli Emirati Arabi Uniti ed era agosto - è frutto di un lungo lavoro, non soltanto da parte delle amministrazioni americane ma soprattutto tra le due nazioni. Lo sforzo andava avanti da diverso tempo: questo guardarsi, studiarsi, aspettare è rimasto segreto per almeno undici anni, come racconta la storia della "ambasciata segreta di Israele in Bahrein".
Barak Ravid è un giornalista del sito americano Axios e ha da poco lanciato la sua newsletter dedicata a Israele in cui dentro si leggono storie, indiscrezioni e notizie. Ravid racconta che i negoziati, rimasti segreti per volere dei governi, su una potenziale missione diplomatica tra i due paesi sono iniziati tra il 2007 e il 2008, a portarli avanti erano l'allora ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Li vni, e il suo omologo del Bahrein, Khaled Bin Ahmad al Khalifa. Dice il giornalista, che ha ricostruito tutta la vicenda parlando con fonti israeliane e bahreinite, che in quel periodo il Qatar, rivale regionale del Bahrein, aveva disposto la chiusura della missione diplomatica israeliana a Doha, e questo aveva spinto il Bahrein ad approvare l'avvio di una missione segreta a Manama. Il giornalista fa una ricostruzione molto precisa: era il 13 luglio del 2009, quando veniva registrata in Bahrein una società chiamata "The Center for lntemational Development".
La società offriva servizi di marketing, pubblicità, consulenze, rivolti soprattutto alle aziende occidentali interessate a investimenti su tecnologie mediche, energie rinnovabili, sicurezza alimentare e informatica nella zona. Così appariva nei registri pubblici e sul sito della società, che poi nel 2013 ha cambiato nome. Il nome non può essere rivelato, ma si trattava di una copertura per la missione diplomatica israeliana che, racconta Ravid, assumeva "un tipo di dipendente molto specifico: diplomatici israeliani con doppia nazionalità". Tra gli azionisti e il consiglio di amministrazione della compagnia c'erano attuali consoli e membri del governo, i diplomatici avevano tutti delle storie di copertura ("supportate da profili Linkedin poco convincenti", scrive Ravid), e un piccolo gruppo di funzionari del Bahrein sapeva tutto. Per gli altri, il "Center for International Development" era una società regolarmente registrata.
La missione diplomatica segreta è servita in questi anni a promuovere gli affari delle società israeliane, ma è stata usata anche come canale di comunicazione per il governo di Gerusalemme, era un lavorio continuo che ha contribuito alla firma dell'accordo annunciato da Trump.
Domenica scorsa al ministro degli Esteri del Bahrein, lo stesso Khaled Bin Ahmad al Khalifa che seguiva i primi incontri riservati, è arrivata la richiesta di aprire una vera ambasciata di Israele a Manama. Non servirebbero grandi spostamenti, l'infrastruttura esiste già, funziona da anni, serve soltanto farla uscire dalla segretezza. "Tutto quello che dobbiamo fare è cambiare l'insegna sulla porta", ha detto un funzionario israeliano a Ravid, la parte più difficile è già stata fatta.
Senza darlo troppo a vedere, Israele e i paesi arabi si stavano avvicinando da tempo, gli accordi detti di Abramo tra Emirati Arabi e Bahrein sono un successo di Trump, ma oltre a cambiare in modo radicale la visione del medio oriente, indicano che la normalizzazione dei rapporti con Gerusalemme, un tempo respinta per principio, non è più un tabù. Gli accordi hanno innescato un effetto domino che ha subito interessato il Sudan. Alcuni paesi stanno aspettando l'esito delle elezioni americane per muoversi, ma anche l'Arabia Saudita ha dato sostegno politico alla decisione dei suoi vicini e ha consentito agli aerei di linea israeliani di usare il suo spazio aereo. Il Marocco attende di vedere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. L'Oman ha relazioni non ufficiali con Gerusalemme di lunga data, il Qatar ha già contatti frequenti, ma il suo rapporto con emiratini, sauditi e bahreiniti rende la decisione molto complicata per Israele stessa.
(Il Foglio, 23 ottobre 2020)
Israele: il secondo lockdown, gli errori commessi e la lezione che possiamo imparare
A metà settembre il governo di guidato da Benjamin Netanyahu ha approvato un nuovo lockdown nel tentativo di contrastare l'aumento dei contagi in Israele che stava registrando in quei giorni tassi di infezione e mortalità tra i più alti al mondo rispetto alle dimensioni della popolazione. Si viaggiava a oltre 5mila nuovi casi al giorno, quasi 600 ogni milione di abitanti.
Le misure introdotte dal governo prevedevano la limitazione degli assembramenti fino a un massimo di 20 persone, il distanziamento di due metri gli uni gli altri e il divieto di allontanarsi dalle proprie abitazioni non più di 500 metri (poi diventato 1 km).
La crescita dei contagi e il nuovo lockdown non hanno impedito a decine di migliaia di cittadini di scendere per strada e manifestare contro il governo e chiedere le dimissioni del primo ministro Netanyahu, imputato in un processo per corruzione, frode e abuso di potere e criticato da una parte dell'opinione pubblica per la gestione, ritenuta fallimentare, della pandemia. Ci sono stati duri scontri con la polizia, accusata di violenze e di essere stata usata per scopi politici.
Tuttavia, dopo poco più di un mese, il lockdown ha iniziato a dare i suoi frutti e il governo ha deciso di allentare le misure restrittive di fronte al calo significativo dei nuovi casi giornalieri di positività al coronavirus, scesi dal picco di quasi 12mila a fine settembre ai 1695 del 17 ottobre, al di sotto della soglia di 2.000 contagi fissata dal Ministero della Salute come condizione per uscire dalla prima fase. Dall'inizio della pandemia Israele ha registrato 306.503 casi e 2.278 decessi.
Il 18 ottobre il Ministero della Salute ha approvato un nuovo regolamento che permette ai cittadini di potersi spostare anche a più di 1 km dalle loro abitazioni per motivi non essenziali; la riapertura degli asili nido e delle scuole dell'infanzia per i bambini da 0 a 6 anni; la riapertura di spiagge, vivai, riserve naturali e parchi nazionali; la vendita di cibo da asporto ai ristoranti.
Il provvedimento resterà in vigore fino al 31 ottobre e sarà rivisto a seconda dell'andamento dei contagi. «La strada da percorrere è ancora lunga. L'allentamento del lockdown potrebbe portare a un aumento dei contagi e in quel caso il governo potrebbe essere costretto a ripristinare le restrizioni», ha dichiarato il ministro della Salute Yuli Edelstein.
Anche Netanyahu ha detto che l'uscita dal lockdown sarà «graduale, responsabile, attenta e controllata» per evitare di dover tornare indietro nel giro di appena due o tre settimane. «Tuttavia - ha aggiunto - non
Prof. Eran Segal, biologo computazionale al Weizmann Institute of Science
c'è dubbio che finora è stato un successo di cui si parla in molti paesi europei che si trovano a prendere decisioni simili a quelle prese da noi per primi: sì al lockdown, sì ad abbassare rapidamente i contagi».
In effetti - nota in un thread su Twitter Eran Segal, biologo computazionale al Weizmann Institute of Science - il nuovo lockdown è stato efficace e "sorprendentemente ha funzionato più del primo, nonostante fosse meno restrittivo. L'unica attenzione in più richiesta è stata l'utilizzo delle mascherine che forse sono risultate decisive".
I casi sono scesi più velocemente, dopo 10 giorni con il secondo lockdown, mentre la prima volta era stato necessario attendere 20 giorni prima di vedere il calo dei contagi. E anche il valore R0 - vale a dire il parametro che misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva, cioè il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto - è sceso a livelli inferiori a quelli registrati durante il primo lockdown, passando a 0,65 (un calo del 50% dei casi ogni settimana), ben al di sotto della soglia di 0,80. Anche il tasso di positività delle persone testate rispetto ai tamponi effettuati è stato il più basso mai registrato da metà luglio, attestandosi al 4,5%.
Tutte le curve sono state appiattite: quella dei contagi, dei malati lievi, dei ricoveri ordinari, dei casi critici e delle terapie intensive. Il calo dei ricoveri gravi ha seguito di circa una settimana il decremento del numero giornaliero dei contagi, mentre i decessi hanno iniziato a diminuire circa tre settimane dopo il lockdown.
Quindi, osserva Segal, "almeno in Israele i lockdown funzionano e le nuove chiusure ancora di più". Ma le lezioni da apprendere sono altre e sono relative alla gestione generale della pandemia: "il lockdown è il segnale che qualcosa è andato storto prima. Israele vi ha dovuto fare ricorso perché non aveva altra scelta una volta che i ricoveri avevano saturato le capacità del sistema sanitario". E gli errori, secondo il biologo computazionale israeliano, sono stati diversi.
Innanzitutto, le scuole sono state aperte troppo presto, quando il numero dei casi giornalieri era elevato e in costante crescita e i tassi di infezione elevati (R0 di poco superiore al valore 1). Prima si sono infettati i ragazzi delle scuole ortodosse, dove il tasso di positività è salito dal 5% al 25% a 7 - 10 giorni dalla loro apertura.
A quel punto, due settimane dopo, l'epidemia si è trasmessa a macchia d'olio tra gli ortodossi più anziani ed è diventata meno controllabile. Ai primi di ottobre, il professor Ronni Gamzu, Commissario nazionale per la lotta al coronavirus, aveva dichiarato che il 40% di coloro risultati positivi proveniva dalla comunità ultraortodossa, e la polizia aveva chiuso 11 sinagoghe nella città di Bnei Brak perché operavano contro le leggi anti-covid.
Infine, non sono state adottate strategie differenziate territorio per territorio, a seconda delle situazioni nelle diverse città, e questo ha favorito un'ulteriore espansione dei contagi a causa della mobilità dei cittadini da una parte all'altra di Israele. I focolai localizzati non sono stati circoscritti e hanno finito col diffondersi incontrollati.
Questa epidemia ci sta insegnando tre cose, conclude Segal: bisogna agire velocemente prima che la diffusione dei contagi sia incontrollabile, vanno attuate strategie differenti territorio per territorio, e occorre essere flessibili in base all'andamento del tasso di riproduzione del virus, allentando se questo parametro si abbassa, tornando sui propri passi se torna alto.
Intanto, secondo i media israeliani, nei prossimi giorni il governo discuterà se revocare le restrizioni più rigide in vigore nelle zone "rosse" - per lo più ultraortodosse - e nelle città con i più alti tassi di morbilità. Dopo l'allentamento del lockdown, le comunità ortodosse hanno protestato per la mancata riapertura e si sono radunate per le festività ebraiche, nonostante le restrizioni ancora vigenti, contribuendo a un aumento dei contagi in quelle aree.
(Valigia Blu, 22 ottobre 2020)
Israele, via i fondi statali alle scuole che violano il lockdown
Tensione tra Governo e comunità ultraortodosse per la riapertura non autorizzata di alcune scuole
Il Ministero della Giustizia israeliano ha elaborato un piano per eliminare i finanziamenti dalle scuole che riaprono in violazione delle norme sul coronavirus d'emergenza. Lo scrive il quotidiano Haaretz a partire da un fatto di cronaca: domenica scorsa, le scuole elementari ultra-ortodosse per decine di migliaia di studenti hanno riaperto, violando le norme di blocco, che permettevano l'apertura solo agli asili.
La risposta è giunta con un comunicato da parte di Roni Numa, coordinatore delle attività del Ministero della Salute: "Le istituzioni e le organizzazioni che violano le regole e infrangono la legge rischiano procedimenti amministrativi o penali, la cancellazione delle loro licenze e l'annullamento dei loro finanziamenti nei casi appropriati".
Non sono ancora chiare le modalità legali, ma una precisazione da parte del Ministero della Salute sottolinea che il piano di sanzioni si applicherà anche alle scuole elementari ultra-ortodosse che infrangono le regole.
Decine di migliaia di bambini dai cinque ai tredici anni studiano presso le scuole ultra-ortodosse che sono parzialmente esenti dalla supervisione del Ministero dell'Istruzione e hanno circa 50.000 bambini iscritti. Altri 10.000 frequentano le scuole Hasidiche appartenenti alla rete Maayan Chinuch Torani.
(JoiMag, 22 ottobre 2020)
Scoperto tunnel di Hamas sotto Israele
di Nathan Greppi
Martedì 20 ottobre, l'esercito israeliano ha annunciato di aver distrutto un tunnel di Hamas che, partendo dalla Striscia di Gaza, attraversava il sottosuolo d'Israele per dozzine di metri.
Secondo il Times of Israel, i militari si sono accorti del tunnel durante l'installazione di un sistema difensivo lungo la barriera difensiva al confine, che serve proprio a localizzarli. Esso partiva dalla cittadina di Khan Younis, nella zona sud della Striscia, e secondo l'esercito è stato scavato da Hamas. Tuttavia, allo stato attuale non era in grado di minacciare i villaggi israeliani vicini al confine.
Il tunnel è stato individuato tramite un sistema di sensori che fanno parte della nuova barriera difensiva che Israele sta costruendo da circa 4 anni. La preoccupazione per i tunnel di Hamas è emersa soprattutto dopo l'Operazione Margine Protettivo del 2014, quando l'esercito distrusse 30 tunnel analoghi al confine tra i due territori.
Il Ministro della Difesa, Benny Gantz, ha dichiarato che "anche in un periodo in cui il sud sembra tranquillo, sotto la superficie le organizzazioni terroriste portano avanti il loro impegno per minacciare i cittadini israeliani e la nostra sovranità. [ ] Posso assicurare ai residenti nella zona che stiamo facendo di tutto per assicurarvi una vita tranquilla e sicura. Dormite serenamente, i soldati dell'IDF e le forze di sicurezza continueranno con le loro operazioni per proteggervi."
In una probabile risposta all'accaduto, alcune ore dopo è stato sparato un razzo da Gaza verso il territorio israeliano.
(Bet Magazine Mosaico, 22 ottobre 2020)
Firenze. Alla Comunità ebraica di Firenze un defibrillatore al servizio della città
Con "Datti una mossa, dagli una scossa" MDA Italia onlus consegna domenica 25 ottobre un apparecchio salvavita nel Quartiere 1
Un defibrillatore DAE (Defibrillatore Automatizzato Esterno) verrà consegnato nei prossimi giorni alla Comunità Ebraica di Firenze, fa parte degli strumenti previsti nel progetto "Datti una mossa dagli una scossa" l'iniziativa con cui Magen David Adom Italia ONLUS intende installare nei principali luoghi dell'ebraismo italiano questi indispensabili dispositivi salvavita. Un'iniziativa realizzata grazie anche al contributo a valere sui fondi 8 per mille 2020 dell'UCEI.
Magen David Adom Italia Onlus, ovvero gli amici italiani dell'organizzazione nazionale di emergenza pre-ospedaliera israeliana, hanno avviato la campagna nel 2018 con l'installazione di defibrillatori presso 8 Betei Ha-Knesset di Milano. Nel 2020 l'iniziativa si è ampliata ad altre 5 comunità ebraiche nel centro-nord della Penisola. In questa fase Firenze è la seconda città coinvolta dopo l'installazione del defibrillatore al Ghetto di Venezia il 18 ottobre.
MDA Italia Onlus si occupa anche di reperire i fondi per l'installazione di altri defibrillatori il cui costo si aggira intorno ai 1.500 euro. Poco se pensiamo a cosa potrebbe servire: in Italia i decessi per arresto cardiaco improvviso sono 60.000 all'anno e il 30% di questi potrebbe essere evitato con un defibrillatore a portata di mano.
A Firenze il defibrillatore verrà installato all'ingresso della Comunità ebraica dove è situata la Sinagoga e il museo ebraico è adiacente, in via Carlo Farini 4, nel Quartiere 1. La sua presenza è una buona notizia per tutti, non solo per chi frequenta abitualmente la Comunità e i turisti che la visitano. Avere a disposizione un defibrillatore significa, infatti, aumentare in modo significativo le possibilità di salvare una vita umana nel quartiere dove è collocato. Ogni defibrillatore viene segnalato al 118 per essere sempre disponibile per i soccorritori in caso di emergenza.
A causa dell'aggravarsi dell'emergenza sanitaria purtroppo verrà rimandata sia l'inaugurazione del DAE, che avrebbe dovuto coinvolgere domenica 25 ottobre le autorità locali, i responsabili di MDA Italia e della Comunità ebraica, sia il corso BLSD programmato in collaborazione con Croce Rossa Italiana.
(Met, 22 ottobre 2020)
Petrolio, accordo di collaborazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti
Il memorandum sul petrolio arriva dopo il raggiungimento di un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati, promosso dagli Stati Uniti.
di Marco Dell'Aguzzo
Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto un accordo sul trasporto di petrolio attraverso una rete di infrastrutture tra il mar Rosso e il mar Mediterraneo.
Martedì scorso l'Europe Asia Pipeline Company (EAPC), compagnia controllata dal governo israeliano che gestisce condotte e terminal nel paese, ha annunciato la firma di un memorandum d'intesa con MED-RED Land Bridge Ltd., un consorzio di aziende israeliane ed emiratine con base negli Emirati.
Il memorandum prevede la reciproca collaborazione sullo stoccaggio e il trasporto di greggio e prodotti petroliferi tra il golfo Persico e i mercati occidentali, e tra il Mediterraneo e l'Asia. Non è stato però rivelato il valore economico dell'intesa e nemmeno i volumi e l'origine del petrolio che sarà trasportato.
Il memorandum arriva dopo il raggiungimento di un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e Abu Dhabi, che ha già portato all'avvio di voli diretti tra i due paesi. Il progetto di cooperazione petrolifera riceverà probabilmente l'appoggio degli Stati Uniti, che sono stati principali promotori dell'avvicinamento diplomatico tra Israele ed Emirati, in funzione anti-iraniana.
Cosa fa Europe Asia Pipeline Company
Europe Asia Pipeline Company gestisce l'omonimo oleodotto (noto anche come Trans-Israel Pipeline), che collega le città israeliane di Eilat e di Ashkelon: la prima si trova sul mar Rosso, mentre la seconda si affaccia sul Mediterraneo. Ha una capacità di 600mila barili al giorno.
Costruito negli anni Sessanta, era gestito congiuntamente da Israele e dall'Iran finché le due nazioni non sono diventate nemiche dopo la rivoluzione islamica iraniana del 1979. Per qualche tempo Tel Aviv ha continuato a permettere a Teheran di spedire il suo petrolio tramite l'oleodotto; al momento non si hanno informazioni certe sui flussi che passano per la condotta, dato che i funzionari israeliane le classificano come riservate.
L'Europe Asia Pipeline si propone come un'alternativa al canale di Suez, che non può accogliere navi sopra una certa dimensione, e all'oleodotto egiziano SUMED, che muove petrolio in un'unica direzione (dal mar Rosso al Mediterraneo). Nonostante le limitazioni, sono le due opzioni più utilizzate per il trasporto del petrolio dalla regione del golfo all'Europa.
Alcuni dati sugli Emirati Arabi Uniti
Gli Emirati Arabi Uniti sono il terzo maggiore produttore di petrolio tra i membri dell'OPEC, con una capacità di 4 milioni di barili al giorno.
Abu Dhabi esporta il suo greggio principalmente in Asia; in Europa, invece, vende soprattutto prodotti raffinati, trasportati su petroliere che attraversano il mar Rosso.
(Energia Oltre, 22 ottobre 2020)
Media: presto un annuncio sulla normalizzazione dei rapporti tra Israele e Sudan
Ci sarebbe l'accordo tra Israele e Sudan per la normalizzazione dei rapporti. La notizia è arrivata nelle ultime ore da Israel Hayom, che cita fonti politiche coinvolte nei colloqui a più di un mese dalla firma alla Casa Bianca degli Accordi di Abramo, dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e dall'intesa con il Bahrein. Secondo le fonti, la svolta tra Israele e Sudan verrà formalizzata "molto presto". Intanto la radio militare israeliana ha confermato che una delegazione israeliana di alto livello è stata in Sudan, una notizia arrivata dopo che - come ha scritto il Jerusalem Post - ieri un jet privato sarebbe partito da Tel Aviv diretto a Khartoum. "Ho basi ragionevoli per credere che l'annuncio arriverà prima del 3 novembre", del voto negli Usa per le elezioni presidenziali, ha affermato ieri il ministro israeliano per la Cooperazione regionale, Ofir Akunis. A Channel 13 il titolare dell'Intelligence, Eli Cohen, ha detto di ritenere che Israele sia "molto vicino alla normalizzazione dei rapporti col Sudan". Parole 'fiduciose' sono arrivate sempre ieri anche dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.
(Adnkronos, 22 ottobre 2020)
Smart working. La rivoluzione senza nostalgie del lavoro agile
Tre libri guidano al quando e come muoversi nell'inevitabile passaggio ad una nuova era in cui stanno cambiando consumi, modelli produttivi, gerarchie di valori e senso del tempo.
di Rita Guidi
Quando Henry Ford decise di puntare tutto sulla produzione di automobili, i tanti oppositori lo accusarono di non capire cosa voleva la gente, ma lui rispose imperturbabile che «è la gente che non sa quello che vuole». In nove parole un esempio di lungimiranza, di innovazione e fiuto per il mercato. Come siano andate le cose lo sappiamo: una rivoluzione, con buona pace di chi continuava a costruire carrozze ...
Oggi, proprio sotto i nostri occhi, di rivoluzioni ne stiamo vivendo un'altra, ma la gente comincia a sapere quello che vuole e non occorre il fiuto di Ford per intuirne la portata: stanno cambiando i consumi, i modelli produttivi, le gerarchie di valori e il senso del tempo. Dunque: sta cambiando il lavoro. Che deve liberarsi dalla ruggine d'Ottocento e diventare (rapidamente, inesorabilmente) agile, «smart». A chiederlo e chiarirlo non è solo il tam tam mediatico crescente di manager, imprenditori, sociologi, economisti, ambientalisti (e chi più ne ha più ne metta ... ), ma anche numerose pubblicazioni che guardano e guidano puntualmente al quando e come muoversi nell'inevitabile passaggio. Come se il coronavirus - insieme alla durezza dei suoi effetti anche economici, non solo nelle fasi di lockdown - avesse ammalato anche tutto un sistema, chiamando alla necessità di guarirne e liberarcene.
Qualche esempio? Marco Bentivogli, allora, che firma questo «Indipendenti». Vero e proprio manuale che infatti sottotitola opportunamente «guida allo smart working». Attraverso la forza dei numeri e degli esempi, Bentivogli - già segretario del sindacato metalmeccanici Cisl e oggi protagonista di un comitato scientifico per rinnovare il Paese - percorre passo passo caratteri e modi di questa nuova modernità.. Sottolinea come lo smart working sia stato una sorta di prova generale resa necessaria dall'emergenza, per dimostrarne le straordinarie potenzialità e gli indiscussi vantaggi, a partire da una ritrovata qualità dell'aria che si respira. Non è un caso che oggi (nel senso proprio di adesso) moltissime aziende mantengano viva questa modalità di lavoro: un risparmio in termini economici (abbattimento delle spese legate a spazi inutili o sottoutilizzati) e di produttività (numeri, non parole). E soprattutto che siano gli stessi lavoratori a chiederlo: un rapido giro al centro delle capitali del mondo chiarisce come a Londra o a New York, a Parigi o a Milano si preferisca quel lavoro agile che permette di darsi un traguardo, un obiettivo, e di raggiungerlo nei tempi e negli spazi che si preferisce: dopo la passeggiata col cane o dopo aver messo a nanna i bambini, collegandosi dal parco sotto casa o dal pub che garantisce quattro chiacchiere e una buona connessione.
Nessuno ha nostalgia di ore spese in auto o in metropolitana, inquinando se stessi di fretta e di stress e l'aria di polveri sottili, si legge nei tanti reportage dalle metropoli. Eppure ... chi produce carrozze di certo non apprezza. E dunque eccolo, lo sguardo sulle criticità. Bentivogli le enumera con attenzione, insistendo sulla necessità di un sostegno alla transizione, di un progetto che guidi il cambiamento. Qualcosa che si lega anche a processi mentali - consuetudini nelle quali ci si è adagiati come in un immobile brodo primordiale - e che quindi anche dal fronte culturale deve muovere. Prezioso, allora, questo «Il verde e il blu» di Luciano Floridi; peraltro puntualmente citato dallo stesso Bentivogli ... «Siamo l'ultima generazione a distinguere l'online dall'offline. E saremo sempre di più onlife», si legge nelle pagine del filosofo (e docente a Oxford). Un'altra voce che insiste sul carattere di «soglia» della nostra realtà, accentuata - certo - dalla pandemia, ma del cui destino Floridi era già certo anche prima. Le strade? Verde e blu, appunto: una green economy che sappia risanare i polmoni malati dell'ambiente e ossigenare nuove forme di occupazione, e poi un potenziamento delle risorse offerte dalle nuove tecnologie per restituirci un diverso spazio-tempo (di nuovo), nel lavoro come nelle relazioni, nella ricerca, nella società. Un approccio profondamente etico, nel quale la filosofia si mette (illuministicamente) al servizio delle scelte politiche, per far si che un'economia green e blu, digitale e dell'informazione, prevalga sulla produzione di «cose». Mettendo la persona al centro, proprio come nello smart-working proposto da Bentivogli.
Teorie? Tutt'altro. Oltre agli esempi concreti citati nei due saggi, «Get in the game» di Alberto Calcagno ci offre lo sguardo di un protagonista. Giovane e celebre Amministratore Delegato di Fastweb, Calcagno ci spiega proprio come sia stato e come sia e debba essere possibile «mettersi in gioco» (o nel game, per dirla con Baricco). Una storia di crescita, personale e professionale, che ha significato fare i conti col cambiamento e dunque con la capacità di trasformare modelli di relazione e di lavoro. La formula di un successo dove il dirigente/dipendente non è ossessionato dalle gerarchie o dal controllo, ma che consente di sentirsi partecipi, protagonisti attivi, fianco a fianco per raggiungere il traguardo che ci si è dati, non importa a quale piano (virtuale) si trovi la propria scrivania. Il risultato è una «contaminazione positiva» - come ha affermato in una recente intervista. Qualcosa che, finalmente, porta a una guarigione. Oppure? Oppure bisognerà continuare a guardare il mondo dal finestrino ... di una carrozza a cavalli ...
«Dopo un po' di tempo di permanenza in rete i partecipanti di questa nuova società potranno arrivare a convincersi che nelle nuvole del virtuale si vive meglio che nella terra del reale. Si hanno meno problemi, si fatica di meno e si ottiene di più. Perché tornare indietro? Perché rimpiangere le angustie della corporeità? Il corporeo è pesante e lento; il virtuale è leggero e veloce. Irreale? No, super-reale. Immersione nell'irrealtà? No, ascensione ad uno stato più ampio di realtà, elevazione del mondo intero ad un livello autogestito e unificante di società universale.»
Dice infatti il filosofo: «Siamo l'ultima generazione a distinguere l'online dall'offline. E saremo sempre di più onlife». La vera vita dunque dora in poi sarà vita on. E sarà «qualcosa che, finalmente, porta guarigione», conclude lautrice dellarticolo. Dunque il virus, che con inaspettata violenza ha attaccato i corpi e con la sua inspiegabile inafferrabilità sembrava far prevedere il crollo di tutte le impalcature del sociale, di fatto sta aprendo la speranza ad una nuova forma di salvezza: il trasloco in rete dellintera società umana. Allincontrollabile e imprevedibile forza della biologia si oppone oggi la controllabile e prevedibile capacità organizzante del digitale. Il virus biologico è apparso improvvisamente e di lui non si sa dire ancora con precisione che cosè, comè venuto, come si può combattere e come se ne andrà. Supponiamo allora, come pura ipotesi orwelliana, che appaia un giorno un virus informatico che abbia caratteristiche simili: cioè che sia talmente nuovo da non sapere che cosa sia e da che parte arrivi; e che sia talmente contagioso da far sì che basti un sms per passarselo dalluno allaltro; e che se lha preso un dispositivo anche tutti gli altri e i server ad esso collegati ne siano infetti; e che in questo modo attacchi i sistemi digitali su cui è costruita lintera società virtuale della rete facendola lentamente impazzire come adesso sta avvenendo nella società corporea. Quale sarà allora il rimedio? Ipotesi orwelliana, certo, ma cè qualcuno che possa garantire che questo non accadrà mai? E, soprattutto, che possa far sì che gli altri ci credano soltanto perché lha detto lui? Andrà tutto bene si diceva qualche mese fa. Poi non si è sentito più. Pessimismo, dirà qualcuno. Sì, ma pessimismo antropologico, a cui lunico ottimismo che si può opporre è quello teologico. E questo si ricava soltanto dalla Bibbia. M.C.
Squilla forse la tromba in una città,
senza che il popolo tremi?
Piomba forse una sciagura sopra una città,
senza che l'Eterno ne sia l'autore?
Amos 3:6
*
Ho udito e le mie viscere fremono,
le mie labbra tremano a quel suono;
un tarlo mi entra nelle ossa,
io tremo a ogni passo;
aspetto in silenzio il giorno dell'angoscia,
quando il nemico marcerà contro il popolo per assalirlo.
Poiché il fico non fiorirà,
non ci sarà più frutto nelle vigne;
il prodotto dell'ulivo verrà meno,
i campi non daranno più cibo,
le greggi verranno a mancare negli ovili,
e non ci saranno più buoi nelle stalle;
ma io mi rallegrerò nell'Eterno,
esulterò nel Dio della mia salvezza.
L'Eterno, il Signore, è la mia forza;
egli renderà i miei piedi come quelli delle cerve
e mi farà camminare sulle alture.
Abacuc, 3:16-19
"Parlare con Israele". La figlia del presidente sfida gli ayatollah
Faezeh Hashemi Rafsanjani potrebbe candidarsi. Il padre guidò l'Iran fino al '97
di Gabriella Colaruaso
L'ultimo tabù Faezeh Hashemi Rafsanjani l'ha infranto mentre i ministri degli Esteri di Israele, del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti firmavano gli accordi di Abramo con la mediazione americana. È venuto il tempo per l'Iran di «riconsiderare» la sua politica verso Israele, ha detto l'ex parlamentare riformista in un'intervista al quotidiano Arman-e Melli. Gli accordi hanno aperto una nuova fase nei rapporti tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo: Teheran deve essere in grado di capire cambiamenti «e prendere decisioni commisurate ai suoi interessi». L'intervista ha acceso una miccia tra i conservatori iraniani anche perché Faezeh Hashemi non è solo una ex politica. È la primogenita di uno dei padri fondatori della Repubblica islamica l'ex presidente riformista Hashemi Rafsanjani che negli anni è diventata una delle voci più apertamente critiche del regime, attivista risoluta nella difesa dei diritti delle donne.
Alla fine degli anni Novanta, Hashemi mise in piedi la prima rivista iraniana dedicata ai temi femminili, Zan, chiusa dal regime dopo solo dodici mesi di vita, ed è stata la prima donna dell'establishment a guidare una bicicletta in pubblico, sfidando uno dei numerosi divieti che limitano la vita delle ragazze in Iran.
Cinquantasette anni, contraria all'obbligo del velo che regolarmente indossa, nel 2009 scese in strada con il movimento dell'Onda verde contro l'elezione di Ahmadinejad, accusato di brogli: le foto la raccontano in piedi su una panchina al centro di una piazza di Teheran nel suo chador nero, il braccio destro alzato con le dita a Vin segno di vittoria, mentre arringa un gruppetto di manifestanti a sostegno dei candidati riformisti, Moussavi e Karroubi, che da allora sono agli arresti domiciliari. Lei stessa è stata arrestata due volte per propaganda contro lo Stato.
Nel 2016 la sua visita a Fariba Kamalabadi, una leader della religione Bahai che aveva conosciuto in carcere nel 2013, finì sui giornali e scatenò un putiferio: il tè condiviso con una donna considerata "eretica" era una denuncia sferzante della persecuzione a cui è sottoposta la minoranza religiosa in Iran.
I suoi detrattori l'accusano di beneficiare di una sorta di impunità grazie ai legami della sua famiglia con l'apparato di potere, e di non aver mai messo in discussione la Repubblica islamica. Lei se ne dà poca cura. «L'establishment al potere in Iran oggi non è né rivoluzionario né religioso», ha detto di recente durante una videoconferenza con il Center for Iranian Studies dell'Università di Stanford. «Oltre agli ostacoli creati dai fondamentalisti, la delusione del popolo per i cosiddetti riformisti ha contribuito alla riluttanza del regime a qualsiasi cambiamento». Quando nello scorso novembre i Pasdaràn hanno represso nel sangue le proteste scoppiate dopo l'aumento del prezzo della benzina, si è schierata con i manifestanti. Alle prossime elezioni potrebbe decidere di farsi avanti, ma appare difficile che la Repubblica islamica autorizzi la candidatura a presidente di una figlia riluttante.
(la Repubblica, 21 ottobre 2020)
Disgelo aereo: storico volo da Abu Dhabi a Israele
di Chiara Clausi
Beirut L'aereo dell'Etihad Airways con a bordo funzionari del governo emiratini e dignitari statunitensi è arrivato in perfetto orario all'aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv dopo tre ore di volo da Abu Dhabi. Israele ed Emirati non sono mai stati così vicini e fra poche settimane 28 collegamenti settimanali uniranno le loro città. Ma quello di ieri era un volo storico, i due Paesi hanno firmato accordi, compresa una reciproca esenzione dal visto per entrare nei rispettivi Stati, un altro passo nella normalizzazione dei legami tra Tel Aviv e Abu Dhabi. Il rappresentato speciale degli Stati Uniti Avi Berkowitz ha twittato una fotografia del suo biglietto aereo per Israele dagli Emirati Arabi Uniti. In un altro video il capitano del volo Naeem Alameri commentava: «Questo è un momento storico per gli Emirati Arabi Uniti e Israele, e non vediamo l'ora della Salaam (pace) in futuro».
Era la prima volta che una delegazione ufficiale degli Emirati giungeva in Israele dopo la firma degli Accordi di Abramo a Washington lo scorso 15 settembre. Gli Emirati e il Bahrain sono i primi Stati arabi in un quarto di secolo a stabilire legami formali con lo Stato ebraico. Un'intesa nata in gran parte dalle paure condivise nei confronti dell'Iran, e sotto l'impellente pressione del presidente Usa Donald Trump che vuole usare questa carta nella sfida del 3 novembre con Joe Biden.
«Stiamo facendo la storia in un modo che durerà per generazioni», ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dando il benvenuto al ministro dell'Economia degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Touq al-Mari e al ministro di Stato per gli affari finanziari Obaid Humaid al-Tayer, accompagnati dal segretario al Tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin. La visita è stata limitata all'aeroporto a causa del Covid-19. Sono stati firmati quattro accordi: promozione e protezione degli investimenti, cooperazione nella scienza e innovazione, aviazione civile e l'esenzione dal visto per i proprio cittadini. Egitto e Giordania, che pure hanno firmato trattati di pace nel 1979 e nel 1994, non l'hanno mai ottenuta.
Israele, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti hanno annunciato anche l'istituzione di un fondo di investimento, l'«Abraham Fund», da tre miliardi di dollari che avrà l'obiettivo di rafforzare l'economia del Medio Oriente e avrà sede a Gerusalemme. Si parla anche di aprire sedi diplomatiche. Netanyahu ha promesso accordi «con altre nazioni», forse a partire dal Sudan.
(il Giornale, 21 ottobre 2020)
L'artefice degli accordi di Abramo è l'ambasciatore Yousef Al Otaiba
Chi è il rappresentante degli Emirati a Washington che per la prima volta ha rotto il tabù del riconoscimento arabo di Israele. E il cuoco Roberto...
di Giovanni Castellaneta
Yousef Al Otaiba
Molto spesso, i più importanti accordi internazionali non vengono raggiunti grazie all'abilità e alla lungimiranza dei leader politici o, almeno, non solo per questo. Tali accordi sono infatti il risultato finale di intense e prolungate attività negoziali che vengono portate avanti da diplomatici di grandissima esperienza, in grado di conseguire l'obiettivo del decisore politico attraverso il raggiungimento di compromessi considerati accettabili da entrambe le parti in causa. Inoltre, quanto più è delicata una trattativa, tanto più elementi quali la segretezza e la fiducia reciproca sono imprescindibili per la riuscita di un negoziato.
Un perfetto identikit dell'agente diplomatico descritto sopra sembra coincidere con il profilo di Yousef Al Otaiba, ambasciatore emiratino a Washington. Al Otaiba è infatti considerato il vero artefice degli Accordi di Abramo, che dopo essere stati siglati a settembre alla Casa Bianca, sono finalmente diventati operativi da un paio di giorni, con la conferma dell'intesa tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain siglata proprio nella capitale di quest'ultimo Stato. Con gli Accordi di Abramo, frutto di oltre un anno di negoziati segreti, è stato "sbloccato" un principio che per molti Stati arabi era considerato un "tabù", ovvero che lo stato di Israele potesse essere ufficialmente riconosciuto. La normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra questi tre Paesi potrebbe infatti essere un punto di partenza per un crescente dialogo con Israele e cercare di trovare finalmente una composizione alla questione palestinese.
Non si è parlato molto di Al Otaiba, ma non c'è da stupirsi: i bravi diplomatici devono restare nelle retrovie, e devono essere in grado di fare pesare il loro prestigio con discrezione e professionalità. L'ambasciatore emiratino è in carica a Washington dal 2008: durante il mio periodo di capo della missione diplomatica negli Stati Uniti ebbi la fortuna di conoscerlo abbastanza bene, arrivando anche a condividere il nostro bravo cuoco Roberto, famoso per i suoi tortelli di zucca mantovani.
Al Otaiba è colui che si può definire un "predestinato": nato nel 1974 da una ricchissima famiglia di Abu Dhabi già introdotta nel sistema politico e istituzionale locale (il padre era Ministro del Petrolio), dopo gli studi in relazioni internazionali a Georgetown bruciò tutte le tappe, diventando senior advisor dell'erede al trono emiratino a soli 26 anni. Nel corso della sua carriera, il suo ruolo strategico è sempre stato quello di fare da "ponte" con gli Stati Uniti agendo su diversi scenari, dall'Iraq all'Iran, fino ovviamente a Israele.
La figura di Yousef Al Otaiba è stata dunque essenziale per pervenire agli Accordi di Abramo. La sua permanenza di Ambasciatore in Usa da ormai più di dieci anni gli ha consentito di costruire e rafforzare una rete di relazioni con il sistema istituzionale e diplomatico americano, basata sulla correttezza e sulla fiducia, senza la quale non sarebbe stato possibile concludere una trattativa così delicata. La strategia perseguita da Washington è chiaramente quella di indebolire e isolare ulteriormente l'Iran, rafforzando il fronte dei Paesi sunniti e portandoli dalla parte di Israele.
Non è chiaro ancora se tale direzione verrà seguita anche se ci sarà un cambiamento alla Casa Bianca dopo le presidenziali; quello su cui possiamo contare è che figure come quella di Al Otaiba continueranno a distinguersi per la loro abilità diplomatica, traducendo al meglio gli indirizzi politici del proprio governo in strategie negoziali coerenti ed incisive.
(The Italian Times, 21 ottobre 2020)
Capo palestinese: «Gli ebrei bevono sangue di bambini»
di Daniel Mosseri
«Gli ebrei celebrano la Pasqua mangiando azzime prodotte mescolando la farina a sangue di bambini innocenti, rigorosamente non ebrei». Vecchio di almeno mille anni e già centrale nel processo per la beatificazione di Simonino da Trento (in piena Controriforma), questo tòpos antisemita ha ritrovato linfa e vigore in tempi recenti grazie a Nasser al-Yafawi. E stato infatti al-Yafawi, che di lavoro fa il ministro per l'Istruzione dell'Autorità palestinese (Ap) guidata da Mahmoud Abbas a scrivere alcuni articoli sul tema per il portale news egiziano Essahra e per i siti palestinesi Mashreq News e Al Bousla. Lo denuncia il sito israeliano israel365news riportando le parole scritte dal ministro:
«Nelle loro feste sacre mangiano pane croccante, e il crimine è che questo pane non si mangia se non è impastato con il sangue di un non-ebreo fra le nazioni».
Al-Yafawi non è nuovo a uscite antisemite. Il sito Memri riproduce un suo discorso di gennaio in cui si oppone al piano di pace di Donald Trump per il Medio Oriente invocando «attacchi contro gli interessi dei sionisti in tutto il mondo». La cosa più grave è che al-Yafawi si occupi di educazione dei giovani e che il suo lavoro sia reso possibile dai finanziamenti che la comunità internazionale versa nelle casse dell'Autorità palestinese.
(Libero, 21 ottobre 2020)
Burro o cannoni? Purtroppo i palestinesi hanno fatto la loro scelta
Quante vite arabe si potrebbero salvare se i soldi fossero investiti in medici e medicine anziché in armi per fare guerra e terrorismo contro gli israeliani?
Certo, è paradossale che un dirigente palestinese che ha accusato Israele di diffondere deliberatamente il coronavirus si sia fatto ricoverare in un ospedale israeliano ora che ne è ammalato. Ma le implicazioni di questo episodio sono molto più significative dell'ennesima, amara ironia sull'ipocrisia palestinese.
La doppia faccia di questa settimana è quella Saeb Erekat, il segretario generale del Comitato esecutivo dell'Olp che ha rappresentante l'Olp in vari negoziati ed è stato portavoce di Yasser Arafat presso i mass-media stranieri. Tra le tante calunnie che Erekat ha diffuso contro Israele è rimasta particolarmente famosa quella del 2002 quando proclamò a gran voce che Israele aveva "massacrato" più di 500 civili arabi palestinesi a Jenin. In realtà i morti erano 53, ed erano terroristi uccisi in una battaglia in cui caddero anche 23 soldati israeliani....
(israele.net, 21 ottobre 2020)
Israele normalizza i rapporti con il Sudan
Per Trump non è più uno Stato "sponsor del terrorismo"
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - La corsa contro il tempo verso le elezioni presidenziali americane ha portato oggi a due nuovi eventi significativi per le sorti del Medioriente: Trump ha dichiarato che rimuoverà il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, mentre in mattinata è atterrata in Israele la prima delegazione ministeriale degli Emirati Arabi Uniti.
Si tratta di due tasselli dello stesso puzzle su cui l'amministrazione Trump sta investendo ingenti sforzi, anche nella speranza che i risultati in politica estera possano portare frutti nella corsa presidenziale. Se il Sudan avvierà lo stesso percorso di normalizzazione dei rapporti con Israele seguito di recente da Emirati Arabi Uniti e Bahrein, si tratterà di un momento altamente simbolico, considerato che proprio a Khartoum la Lega Araba nel giugno 1967 pronunciò i famosi "Tre No": no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no a negoziati.
Gli Stati Uniti e il Sudan conducono trattative sull'eliminazione di Khartum dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo già dal 2018, mentre sull'altro piatto della bilancia pesa la questione degli indennizzi economici richiesti al Sudan per il coinvolgimento in attentati terroristici in cui vi sono state vittime americane, tra cui quelli alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998. Durante l'ultimo anno - in particolare dopo la rivelazione a gennaio del Piano di Trump per il conflitto israelo-palestinese - quando stava per diventare chiaro che alcuni Stati arabi avrebbero annunciato la volontà di istituire relazioni diplomatiche con Israele, il riconoscimento di Israele anche da parte del Sudan è diventata una variabile nelle trattative Washington-Khartum.
A febbraio Benjamin Netanyahu aveva tenuto in Uganda un incontro - con grande risalto mediatico - con il Generale Abdel Fattah al-Burhan, Presidente del Consiglio Militare di Transizione e de facto capo di Stato del Sudan. Da allora, le trattative sono state incentrate sull'ammontare dei risarcimenti da parte del Sudan, ma anche su aiuti economici ingenti che il Sudan ha chiesto come conditio per inserire il dossier Israele. La dichiarazione di stanotte di Trump - rilasciata come sempre a un tweet - non menziona Israele e indica che il compromesso raggiunto sia quello a cui i sudanesi ambivano: in primis l'eliminazione dalla lista dei Paesi sponsor e definizione del relativo risarcimento, fissato a 355 milioni di dollari che verranno ora depositati in un fondo in attesa che il Congresso passi una legge che renda immune il Sudan da ulteriori cause per attentati passati. Solo successivamente, apertura a Israele.
Il quotidiano Sudan Tribune riporta oggi che a breve vi sarà una telefonata multilaterale tra i leader sudanesi, Trump e Netanyahu. È esattamente lo stesso modello cui abbiamo assistito anche il 13 agosto e l'11 settembre, ovvero quando Trump ha annunciato l'avvio del processo di normalizzazione dei rapporti con Israele da parte, rispettivamente, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, che poi sono culminati nella firma degli Accordi di Abramo alla Casa Bianca il 15 settembre.
Il primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, ha espresso su twitter gratitudine verso il presidente americano "per la sua volontà di cancellare il Sudan dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo, una designazione che ci ha causato danni ingenti". In aggiunta, riporta il Sudan Tribune, Khartoum ha ottenuto dagli USA un pacchetto di aiuti umanitari per far fronte all'emergenza Covid e 750 milioni di dollari in aiuti economici in contanti da parte di Stati del Golfo.
Quanto alla prima delegazione ufficiale emiratina atterrata questa mattina in Israele per una visita lampo, è guidata dal ministro delle Finanze Obaid Humaid Al Tayer e vede la presenza anche del segretario americano al Tesoro, Steven Mnuchin. In una cerimonia ufficiale all'Aeroporto Ben Gurion, il premier Netanyahu ha annunciato che le parti firmeranno quattro accordi di natura economica e amministrativa: promozione e protezione degli investimenti finanziari bilaterali e accordi in materia di doppia tassazione; aviazione civile (sono previsti 28 voli di linea settimanali tra Israele ed Emirati, oltre a 10 voli per la tratta verso l'aeroporto Ramon nei pressi di Eilat); promozione della partnership in tecnologia e innovazione; esenzione reciproca dai visti per i cittadini. Quest'ultimo punto è particolarmente significativo in quanto a oggi gli Emirati concedono esenzione dal visto solo agli altri Paesi del Gcc (il Consiglio di cooperazione degli Stati del Golfo).
Durante la cerimonia è stato annunciata anche l'istituzione del "Fondo di Abramo" con sede a Gerusalemme: con un investimento iniziale trilaterale (Usa, Eau e Israele) di 3 miliardi di dollari, si pone l'obiettivo di "promuovere la prosperità per cristiani, ebrei, musulmani nella regione", come ha detto Adam Boehler, il Direttore del Fondo finanziario per lo sviluppo internazionale degli USA. Secondo Boehler, il fondo ha già avviato due progetti: il Med-Red, ovvero l'utilizzo del condotto Eilat-Ashkelon per ridurre la tratta di trasporto di energia tra Medioriente ed Europa; e un progetto di modernizzazione di tutti i check point palestinesi di passaggio in Israele e in Giordania.
(la Repubblica, 20 ottobre 2020)
Walter Bingham sfuggì alla Shoah. A 97 anni è il giornalista più anziano del mondo
E fa anche paracadutismo
di David Zebuloni
Walter Bingham
La storia di Walter Bingham è una storia poco conosciuta che ha dell'incredibile. La storia di un uomo che ha superato ogni ostacolo e vinto ogni battaglia. Una storia simile ad una fiaba Disney o a una leggenda popolare, in quanto prevede quel lieto fine che tanto manca nelle storie contemporanee.
La sua storia comincia nel 1924, quando nasce in una famiglia ebraica nella Repubblica di Weimar. Bingham sopravvisse all'olocausto grazie a un trasporto diretto in Gran Bretagna nel 1939, dove visse poi per la maggior parte della sua vita. Egli fu testimone oculare dei roghi di libri realizzati dai nazisti e visse in prima persona la famigerata Notte dei Cristalli. Nel '44, Bingham prese parte alla Seconda Guerra Mondiale come soldato britannico, partecipando personalmente allo sbarco in Normandia.
A caratterizzare la seconda parte della vita di Walter Bingham, quella dopo la guerra, è stata la sua professione di giornalista radiofonico e attore. Tra le sue interpretazioni cinematografiche più importanti troviamo senza dubbio l'apparizione nei primi due film di Harry Potter: La pietra filosofale e La camera dei segreti, per gli intenditori.
Nel 2004 Bingham decide di coronare il suo sogno sionista. Un sogno nato nella lontana Germania degli anni Trenta e maturato durante tutti gli anni trascorsi in Gran Bretagna. All'età di ottant'anni decide dunque di trasferirsi, ma nei suoi progetti non vi è traccia della pensione. Arrivato in Israele Walter Bingham comincia infatti a trasmettere un programma radiofonico settimanale dal nome Walter's World ("Il mondo di Walter", in italiano) sulla stazione radiofonica Israel National News.
Il traguardo giornalistico più notevole tuttavia risulta essere il titolo concessogli dal Guinness World Record nel 2017, come giornalista più anziano del mondo. Un titolo ottenuto dopo aver combattuto e vinto un'ulteriore battaglia, quella contro l'organizzazione mondiale di primati, che non riconosceva nella sua professione attuale un'attività del tutto giornalistica.
Oggi, all'età di 97 anni, Walter Bingham continua a trasmettere il suo programma radiofonico con una frequenza settimanale. Abita a Gerusalemme e prende i mezzi di trasporto ogni mattina. Se lo incontraste sull'autobus, vi mostrerebbe sicuramente una copia dell'attestato del Guinness World Record che porta sempre in tasca e vi racconterebbe la sua storia con grande passione e trasporto.
Da due anni a questa parte, Bingham si dedica anche ad una nuova grande passione: il paracadutismo. "Mi sono buttato per la prima volta all'età di 95 anni e ho provato uno straordinario senso di euforia e libertà", ha raccontato il giornalista in un'intervista concessa al Times of Israel. "La prossima volta che lo farò, sarà per festeggiare il mio centesimo compleanno."
(Bet Magazine Mosaico, 20 ottobre 2020)
La missione degli Emirati in Israele
"Un glorioso giorno di pace"
una nuova storica prima volta nei rapporti tra Israele e paesi arabi: nelle scorse ore è infatti arrivata all'aeroporto Ben Gurion una delegazione dagli Emirati Arabi Uniti per firmare alcuni trattati legati all'Accordo di Abramo siglato a Washington nel settembre scorso. "Un glorioso giorno di pace", lo ha definito il Premier Benjamin Netanyahu accogliendo la delegazione emiratina guidata del ministro delle Finanze Obaid Humaid Al Tayer e dal ministro dell'Economia Abdullah bin Touq al-Mari, accompagnati dal segretario del Tesoro Usa Steven Mnuchin. Oltre a Netanyahu, per parte israeliana erano presenti il capo della diplomazia Gabi Ashkenazi e il ministro delle Finanze Israel Katz. "Stiamo facendo la storia", ha dichiarato Netanyahu aggiungendo che "la visita di una delegazione di così alto livello degli Emirati Arabi Uniti mostrerà ai nostri popoli, alla regione e al mondo intero il beneficio di avere scambi amichevoli, pacifici e normali". Benefici che si sono tradotti ad esempio nella firma di quattro accordi di cooperazione in materia di aviazione, esenzione dei visti per la visita dei rispettivi paesi, protezione degli investimenti, scienza e tecnologia. "Gli israeliani che visiteranno gli Emirati non avranno bisogno di un visto. Gli emiratini che visiteranno Israele non avranno bisogno di un visto. Israele non ha un accordo simile con nessun altro paese arabo", spiega il giornalista Barak Ravid, evidenziando questo passaggio dell'intesa.
All'interno dell'accordo inoltre, l'amministratore delegato della US International Development Finance Corporation, Adam Boehler, ha annunciato il nuovo progetto trilaterale chiamato Abraham Fund, una fondazione con a disposizione 3 miliardi di dollari per finanziare progetti in tutto il Medio Oriente e Nord Africa. L'ambizione, ha spiegato Boehler, è quella di "promuovere pace e prosperità in tutta l'area" e la sua resilienza economica. Il fondo, che avrà sede a Gerusalemme, è un esempio della politica applicata dall'amministrazione americana in questi anni di presidenza Trump in Medio Oriente: investimenti economici come incentivo a costruire rapporti pacifici. "Con una maggiore prosperità economica si ottiene una maggiore sicurezza. Insieme agli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti condividono una prospettiva simile per quanto riguarda le minacce e le opportunità nella regione", le parole del segretario del Tesoro Usa Mnuchin, arrivato al Ben Gurion assieme alla delegazione degli Emirati con il primo storico volo commerciale da Abu Dhabi a Tel Aviv. "Una visita informativa e produttiva per approfondire la comprensione bilaterale e capitalizzare la leadership di entrambi i Paesi e le grandi opportunità che ci attendono", la definizione data alla missione in Israele dal ministro Al Tayer.
In un'intervista al sito di informazione economica Globes il suo collega al Marri aveva spiegato che l'innovazione sarà uno dei punti centrali al centro della cooperazione tra i due paesi. "Prendiamo ad esempio l'agricoltura. Israele è conosciuto come un pioniere globale in quest'area, soprattutto in condizioni climatiche desertiche come le nostre. Il mondo intero impara dalle tecnologie israeliane e loro imparano dal mondo, e ora possiamo allargare il cerchio e farne parte. L'industria dell'acqua è ovviamente connessa a questo: l'irrigazione, la desalinizzazione, il riciclaggio e l'uso corretto di questa preziosa risorsa naturale".
Altro campo importante, la salute. "Non è un caso che i primi accordi di collaborazione siano stati firmati in questo settore, in relazione alla lotta contro il coronavirus, ma non solo. Da parte nostra c'è un grande sviluppo su questo fronte, nella ricerca applicata. Il coronavirus rappresenta una sfida per l'umanità che richiede l'unione delle forze per combatterlo, come stanno facendo ora le aziende dei nostri due Paesi. Lo stesso vale per l'energia solare, che è particolarmente importante nella nostra regione. Crediamo che l'accordo porterà a un numero molto elevato di accordi commerciali, vendite e investimenti tra i due Paesi, e tra uomini d'affari e aziende". "L'unica pecca di questo accordo - il commento del ministro - è che non è stato fatto prima".
(moked, 20 ottobre 2020)
Arabia Saudita: "La normalizzazione con Israele alla fine ci sarà"
"La normalizzazione" dei rapporti tra lo stato ebraico e il regno saudita "alla fine" ci sarà. Così il ministro degli esteri saudita, principe Faisal Bin Farhan al Saud in una "conversazione" in videoconferenza organizzata dal Washington Insitute per la politica in Medio Oriente. "Noi siamo impegnati nella pace che è una necessità strategica per la regione, e la normalizzazione con Israele alla fine dei conti è parte di questo. Ed è ciò che ha suggerito il piano di pace arabo ed è contenuto anche nella proposta del regno (saudita) del 1981", ha detto il principe nel suo intervento trasmesso sul sito dell'istituto americano. "Per questo - ha aggiunto - noi immaginiamo che la normalizzazione avverrà ma dobbiamo anche ottenere uno stato palestinese ed un piano di pace israelo-palestinese". Per il capo della diplomazia del ricco Paese del Golfo, "l'attenzione ora deve essere dedicata per riportare alla fine sul tavolo dei negoziati israeliani e palestinesi". Le dichiarazioni del principe al Farhan arrivano un mese dopo la firma di due accordi di normalizzazione da parte di Israele con Paesi arabi: il primo con gli Emirati Arabi Uniti ed il secondo con il Bahrain.
(askanews, 20 ottobre 2020)
Israele ha un piano in otto fasi per uscire dal secondo lochdown
di Beatrice Guarrera
GERUSALEMME - Dopo un mese di chiusura totale del paese, Israele prova a ripartire con una nuova strategia per emergere dal secondo lockdown. Secondo quanto deciso dal ministero della Salute, sarà un allentamento delle restrizioni graduale in otto fasi quello che restituirà agli israeliani, per quanto possibile, la vita di sempre.
Dal 18 settembre era vietato allontanarsi più di un chilometro dalle proprie abitazioni, se non per una ragione di comprovata necessità e, nonostante l'occorrenza delle feste ebraiche, tempo di riunioni familiari, era proibito visitare parenti e amici. A distanza di un mese, il governo ha dato l'autorizzazione di sospendere queste misure, oltre che di permettere la riapertura delle scuole materne, delle attività commerciali che non prevedono un contatto con il pubblico, di spiagge e parchi. Ai ristoranti è permesso il servizio d'asporto e sono state sospese le limitazioni alle manifestazioni di protesta. Non sarà cosi, però, in alcune zone rosse, ad alto tasso di contagio, abitate da un gran numero di ebrei ultraortodossi. restii ad accettare le restrizioni e colpiti dalla pandemia in modo consistente. Secondo il Prof. Hezi Levi, Direttore Generale del ministero della Salute, infatti, il 34 per cento dei casi di coronavirus in Israele viene dalla comunità Haredim.
"Il lockdown è stato un grande successo", ha dichiarato venerdì il primo ministro Benjamin Netanyahu. I numeri ufficiali, che avevano toccato picchi di oltre undici mila nuovi casi solo il 23 settembre, dicono che i casi sono scesi a soli 339 nuovi infetti il 18 ottobre. Israele è stato il primo paese al mondo ad aver adottato la drastica misura di un secondo lockdown per contenere la crisi sanitaria, eppure i due momenti di chiusura non sembrano paragonabili. In questo secondo lockdown la percezione comune è stata quella di una maggiore indulgenza nei controlli per il rispetto delle restrizioni. Le immagini scattate per le strade della città, nonostante la desolazione dei negozi chiusi, mostrano infatti, strade non propriamente vuote, anche per la possibilità di effettuare attività sportiva di qualsiasi tipo senza il vincolo di un chilometro dalla propria abitazione. Durante tutto il lockdown la maggioranza dei checkpoint che dividono Israele dalla Cisgiordania sono rimasti aperti, permettendo di fatto ai palestinesi o agli internazionali di passare da una parte all'altra del muro di separazione. In Israele si era in pieno lockdown, in Cisgiordania nel pieno della ripresa delle attività commerciali, con negozi e bar aperti e affollati.
La seconda fase di uscita dal lockdown dovrebbe incominciare il primo novembre con la riapertura delle scuole primarie e delle sinagoghe, mentre nella terza fase a metà novembre potranno riaprire negozi che hanno contatto con il pubblico, centri commerciali e mercati. A fine novembre (quarta fase) verranno ammessi clienti in ristoranti e caffè e a metà dicembre torneranno a funzionare piscine, palestre e alberghi. Nella sesta tappa, a fine dicembre, si prevede di riaprire ai visitatori musei e luoghi di intrattenimento. Ai primi di gennaio, invece, gli studenti di tutti i gradi potranno tornare a scuola e nella fase forale, a fine gennaio, saranno autorizzati eventi sportivi con il pubblico e la riapertura di club e bar. Quello messo in campo da Israele è un piano per tappe molto fragile. Le scuole ultraortodosse hanno infatti annunciato la riapertura, nonostante le restrizioni. "Sembra che saremo costretti a passare da un lockdown all'altro per molti mesi", ha affermato domenica un alto funzionario della Sanità, commentando il rifiuto di rispettare la chiusura.
Dopo il secondo lockdown in Israele c'è stato un altro picco di disoccupazione. Secondo un rapporto pubblicato dal Servizio per l'Impiego israeliano domenica, quasi un milione di persone sono senza lavoro, di cui la metà hanno meno di 34 anni. Un dato incoraggiante arriva invece dalle aziende: le chiusure di attività sono diminuite di un terzo nei primi otto mesi dell'anno, rispetto allo stesso periodo del 2019. Che i piccoli imprenditori rimangano aperti per la possibilità di ricevere gli aiuti del governo - che a settembre ammontavano a 36 miliardi di shekel (10,6 miliardi di dollari) - o nella speranza reale di ripartire, non è ancora dato saperlo.
(Il Foglio, 20 ottobre 2020)
La Gorizia ebraica svela la sua storia
Dalla Sinagoga al teatrino di Lele Luzzati, dalla storia di Esther a via Rastello: un vero proprio tour alla scoperta dell'anima della città.
Il teatrino di Lele Luzzati
Il 24 e 25 ottobre, fra le vie della città, nel cuore di Gorizia andrà in scena "Gorizia nascosta. Le voci del silenzio". Estemporanea proposta del CTA - Centro Teatro Animazione e Figure che ha pensato di riprendere e approfondire il tema legato alla comunità ebraica goriziana.
I partecipanti, dotati di cuffie, percorreranno le strade della città immersi in un'atmosfera ovattata, dove spazio e tempo s'intrecciano e permettono di scoprire storie lontane dalle nostre vite, ma molto vicine al sentire umano. Una voce narrante, che si muove tra presente e passato, suggerisce un percorso ricco di evocazioni, suggestioni, canti, video e interventi dal vivo.
Attraverso la parola di chi ha avuto un legame con alcune strade o palazzi della città, sarà possibile ascoltare la memoria dei luoghi, gli odori e i suoni. Si potrà così conoscere l'ex quartiere ebraico di Gorizia e la Sinagoga, il teatrino di Lele Luzzati e la storia di Esther; Graziadio Isaia Ascoli e la sua Casa; la via Rastello, che è la più antica via di Gorizia, e le vicende del giovane Carlo Michelstaedter. Fino a "sconfinare" in Slovenia per arrivare al cimitero ebraico, in un finale di poesia e canto. Sarà un vero e proprio tour di circa due ore, con approfondimenti storico-teatrali in città.
Appuntamento, quindi, sabato 24 ottobre alle ore 15 e domenica 25 ottobre alle 10 e alle 15 con ritrovo al Giardino Farber, in via Ascoli 19, venti minuti prima dell'orario di partenza, al fine di facilitare la procedura di registrazione. La prenotazione è obbligatoria e il biglietto unico ha un costo di 10 euro. Sarà importante avere con sé un documento d'identità. Inoltre, come previsto dalla normativa anti-Covid vigente, sarà obbligatorio indossare la mascherina per tutta la durata del percorso e mantenere la distanza fisica di un metro.
(imagazine, 20 ottobre 2020)
Covid a New York. "Diecimila invitati". Bloccate le nozze di ebrei ortodossi
I funzionari sanitari dello Stato di New York hanno intrapreso misure straordinarie per bloccare un matrimonio di ebrei ultra-ortodossi programmato per ieri, che avrebbe potuto portare fino a diecimila ospiti a Brooklyn,vicino a unodei nuovi focolai del Coronavirus della Grande Mela. Lo riporta il New York Times. II commissario statale per la sanità è intervenuto personalmente venerdì per far consegnare dagli agenti l'ordine alla sinagoga chassidica, avvertendo che avrebbe dovuto seguire il protocollo inclusa la norma che vieta riunioni con oltre 50 persone. La sinagoga - Congregation Yetev Lev D'Satmar - ha accusato i funzionari statali di "attacchi ingiustificati" contro il matrimonio, dove si dovrebbe sposare un nipote del rabbino Zalman Leib Teitelbaum.
(il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2020)
Cina-Israele: si rafforza l'asse economico
Il gigante dell'e-commerce Alibaba e la società di trasporti marittimi ZIM siglano un accordo di cooperazione strategica. E agli Stati Uniti non piace
di Matteo Meloni
Si intrecciano sempre più gli interessi politici e commerciali tra Cina e Israele. Nonostante Israele abbia ancora uno stretto legame con gli Stati Uniti, che negli ultimi anni hanno pressato il Governo di Benjamin Netanyahu affinché non concedesse ad aziende cinesi la gestione di strutture strategiche per il Paese, la Repubblica Popolare accresce la sua presenza in Israele, stavolta attraverso la sottoscrizione di un accordo tra aziende private.
Alibaba e ZIM, accordo strategico
ZIM, società di trasporti cargo, ha siglato un deal con Alibaba, la più grande piattaforma di commercio online al mondo per il mercato B2B, per la quale si impegnerà al diretto acquisto delle merci per le consegne via mare, aumentando così i servizi logistici per i venditori dell'e-commerce cinese. Le due realtà avevano già avviato una collaborazione ad inizio anno, che oggi diventa strategica.
ZIM spiega che la cooperazione con Alibaba ha permesso di migliorare il processo di visualizzazione delle piattaforme logistiche del gigante del commercio guidato dal General Manager Kuo Zhang. "La forza dell'estensione della rete della società di trasporti israeliana ha garantito sia stabilità nelle consegne che supporto rispetto ai prodotti trasportati", si legge in una nota.
Tra blockchain e nuovi standard
L'obiettivo dell'accordo tra ZIM e Alibaba ha alte aspirazioni, legate sia alle nuove tecnologie che alla creazione di un nuovo standard legato alle consegne. Ad esempio, l'azienda cinese si è accordata con l'International Port Community Systems Association nello sviluppo del progetto Blockchain Bill of Lading, iniziativa che punta all'utilizzo di un sistema di sicurezza che possa implementare garanzie per trasportatori e consumatori in ambito marittimo. A guidare il gruppo di lavoro dell'Ipcsa sul blockchain l'israeliano Gadi Benmoshe, CIO dell'Israel Ports Company.
Come dichiarato da Zhang, con questo nuovo step di relazione tra Alibaba e ZIM si punta "a ridisegnare gli standard dell'industria logistica globale". Per Eli Glickman, Presidente e Amministratore delegato di ZIM, l'accordo "espanderà i servizi digitali per i clienti dell'e-commerce, beneficiando alle piccole e medie imprese".
Le paure statunitensi
Da tempo gli Stati Uniti guardano di cattivo occhio la presenza cinese in Israele. Dopo l'assegnazione della gestione del Porto di Haifa dove transita la Sesta Flotta della Marina Usa alla società Shanghai International Port Group, è grande l'attenzione di Washington nel limitare gli investimenti di Pechino nel Paese. Recentemente un viaggio last minute di Mike Pompeo ha evitato che il Governo israeliano concedesse alla Hutchinson Water azienda di una holding con sede a Hong Kong la concessione per l'impianto di desalinizzazione Soreq B, vicino alla base aerea dell'aviazione israeliana di Palmachin e al centro di ricerca nucleare di Soreq.
(eastwest-eu, 20 ottobre 2020)
Pandemia in regressione in Israele
Al secondo giorno di uscita graduale dal lockdown, il ministero della sanità israeliano ha reso noto che nelle ultime 24 ore si sono avuti 892 casi positivi su circa 27 mila tamponi, con una percentuale di contagio del 3,5 per cento. Ancora due settimane fa era l'11,3 per cento. Il ministero ha tuttavia avvertito che ieri in alcune zone (fra cui località con una forte percentuale di contagi ed ospizi) il numero dei test è rimasto basso. La pandemia è in fase di regressione ma, secondo il ministero, l'estensione dei contagi resta elevata. Altri dati sono comunque giudicati incoraggianti dal ministero della sanità. I malati gravi, che erano 800 una settimana fa, sono scesi a 600. I malati attivi, nello stesso periodo, sono calati da 50 mila a 30 mila. Con centinaia di casi la mortalità, ad agosto, è risultata superiore alla media registrata negli anni passati nello stesso mese. Oggi il totale dei decessi è di 2.209, 17 più di ieri. Anche questa cifra rappresenta un rallentamento in quanto nelle settimane passate si erano invece avuti in Israele fino a 40-50 decessi quotidiani.
(La Stampa, 19 ottobre 2020)
Israele e Bahrein formalizzano l'accordo di normalizzazione
Il Bahrein e Israele hanno firmato un comunicato "storico" congiunto, con cui è stato formalizzato l'accordo di normalizzazione siglato a Washington il 15 settembre. Inoltre, sono stati firmati anche sette memorandum di intesa.
Ciò è avvenuto nel corso di una cerimonia svoltasi nella capitale Manama, il 18 ottobre, che ha visto la partecipazione di alti funzionari e delegati israeliani e bahreiniti, oltre che del Segretario al tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, i quali hanno ufficializzato quanto già siglato in precedenza. L'accordo, annunciato l'11 settembre, ha reso il Bahrein il quarto Stato arabo a normalizzare le relazioni con Israele dopo Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Già negli ultimi anni, il Paese aveva mostrato una maggiore apertura verso Israele, per via del comune sentimento di ostilità nei confronti dell'Iran. Nel dicembre 2019, un rabbino di Gerusalemme Shlomo Amar, si era recato in Bahrein nella cornice di una visita definita "rara", dove ha incontrato diversi leader religiosi del Medio Oriente. Inoltre, in occasione della conferenza di Manama, tenutasi tra il 25 e il 26 giugno 2019, il ministro degli Esteri, Khalid bin Ahmed al-Khalifa, dichiarò al Times oh Israel: "Israele è un Paese della regione ed è lì per restare, ovviamente."
Per Washington una tale intesa mira a istituire un baluardo contro la minaccia iraniana, oltre a creare nuove opportunità economiche. Dal canto suo, sin dalla firma degli accordi di normalizzazione con Israele, il Bahrein ha evidenziato che il raggiungimento di una simile alleanza con Israele non significa abbandonare la causa palestinese, ma unire gli sforzi per far fronte alla minaccia iraniana. In particolare, per Manama si è trattato di un risultato diplomatico che rafforzerà la pace in Medio Oriente ed aprirà la strada verso nuove opportunità, in un quadro che vede Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, l'altro Paese del Golfo che ha normalizzato le relazioni con Israele, affrontare diverse sfide comuni.
Nel corso della cerimonia del 18 ottobre, Israele e Bahrein hanno ribadito che stabilire relazioni dirette tra i due Paesi contribuirà a realizzare un futuro più sicuro e prospero per i popoli della regione. "È stata davvero una visita storica, volta ad intraprendere relazioni tra i due Paesi", ha affermato il ministro degli Affari Esteri del Bahrein, Abdullatif al-Zayani, dopo la cerimonia, descrivendo l'accordo "un inizio promettente", il quale consentirà una "pace concreta e durevole", oltre che la salvaguardia dei diritti delle popolazioni mediorientali. Anche Mnuchin ha definito l'alleanza un passo importante per la stabilità regionale, ed è stato ribadito che rappresenta solo l'inizio di un percorso. Lo stesso segretario statunitense ha evidenziato come l'accordo vada oltre semplici investimenti, in quanto si tratta di creare maggiori opportunità nel campo della tecnologia così come degli affari.
Con la formalizzazione del 18 ottobre, poi, Manama e Tel Aviv potranno "scambiarsi ambasciatori ed ambasciate". Nella medesima giornata, inoltre, il Bahrein e Israele hanno siglato sette memorandum di intesa, relativi a diversi settori, tra cui il commercio, il traffico aereo, le telecomunicazioni, la finanza, le banche e l'agricoltura. Inoltre, Houda Nounoo, un diplomatico del Bahrein, ha riferito che lo Stato del Golfo ha pianificato di riaprire formalmente la vecchia sinagoga di Manama, città che ospita una comunità ebraica di 34 persone, per il festival di Purim, il 25 febbraio.
Sebbene il Bahrein abbia normalizzato le proprie relazioni con Israele, il Regno ha più volte ribadito il proprio sostegno alla causa palestinese e al raggiungimento di una soluzione a due Stati. La difesa dei diritti dei palestinesi è stata una delle cause che ha unito i musulmani sunniti e sciiti in Bahrain per decenni, ma l'accordo raggiunto con Israele ha posto alcuni in una posizione critica, oltre a suscitare forme di dissenso nell'opinione pubblica. Fondata nel 2002 e con sede nella capitale Manama, la Bahraini Society Against Normalization with the Sionist Enemy ha dichiarato, all'indomani della firma dell'accordo di normalizzazione, di essere stata colta alla sprovvista. "Alcuni influencer dei social media hanno iniziato ad accusarci di intolleranza e hanno chiesto al governo di sciogliere la nostra organizzazione", ha detto un membro fondatore.
(Sicurezza Internazionale, 19 ottobre 2020)
Arrivato in Israele il primo volo di linea dagli Emirati dopo gli accordi di Abramo
E' arrivato stamani in Israele il primo volo di linea partito dagli Emirati Arabi Uniti da quando i due Paesi hanno firmato il 15 settembre alla Casa Bianca gli Accordi di Abramo. Il volo Etihad con 58 passeggeri a bordo è stato accolto con una cerimonia all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. In giornata, riporta il sito israeliano di notizie Ynet, il volo rientrerà ad Abu Dhabi con a bordo imprenditori israeliani, dirigenti del settore del turismo e giornalisti. Domani Israele ed Emirati hanno in programma la firma di un accordo per 28 collegamenti aerei a settimana tra l'aeroporto di Ben Gurion e Dubai e Abu Dhabi. (Rak/AKI)
(Shalom, 19 ottobre 2020)
Covid: il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat è in coma a Gerusalemme
Il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat si trova in coma nell'ospedale di Gerusalemme dopo una crisi respiratoria. Oltre al Covid ha un'infezione batterica
Saeb Erekat
Covid: colpito il segretario generale dell'Olp
Il covid ha colpito anche il segretario generale dell'Olp, Saeb Erekat, di anni 65. "L'ospedale Hadassah di Gerusalemme, dove è ricoverato da ieri, ha reso noto che "è in coma". Un comunicato dell'ospedale riferisce: "Ha trascorso una notte tranquilla, ma stamane le sue condizioni sono peggiorate. In seguito ad una crisi respiratoria, è adesso in coma ed è sottoposto a ventilazione".
Covid: il segretario soffre anche di un'infezione batterica
L'ospedale Hadassah ha precisato che il trattamento medico di Erekat ''rappresenta una sfida significativa'' avendo egli avuto alcuni anni fa un trapianto dei polmoni con gravi conseguenze sul suo sistema immunitario. In questo momento, Erekat ''soffre di una infezione batterica, oltre al coronavirus''. Erekat è stato trasferito ieri dalla sua residenza di Gerico (Cisgiordania) all'ospedale Hadassah Ein Karem di Gerusalemme. Con lui si trova la figlia. Esponenti dell'Olp e di al-Fatah si sono recati la scorsa notte in ospedale per essergli vicini.
(Affaritaliani.it, 19 ottobre 2020)
L'Eredita di quel coraggio
di Edoardo Segantini
In tanti, guardando la televisione, siamo rimasti colpiti, commossi e turbati ascoltando la storia di Emanuele Di Porto, ebreo romano di 89 anni, che scampò al rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943 ad opera della Gestapo. Una storia che vale la pena di ricordare, anche per riflettere sul presente. Emanuele Di Porto, nell'autunno di quell'anno orribile, ha tredici anni e abita in via della Reginella, traversa del Portico d'Ottavia, con i genitori, i fratelli, i cugini e le zie. La casa è una, la stessa in cui abita da solo e oggi gli appare immensa, ma «nella lunga notte del '43», sotto quel tetto, vivono tre famiglie: ogni famiglia dispone di una stanza e in quella dei Di Porto campano i genitori con sei figli. La fortuna di suo padre è che si alza alle tre del mattino perché lavora alla stazione Termini, dove vende souvenir ai soldati delle tradotte tedesche che arrivano col treno.
Quando scatta il rastrellamento, agevolato da una macchina della delazione che si è messa prontamente in moto, lui è già al lavoro. Mamma al contrario è meno fortunata: è in casa, sente i rumori per strada, si affaccia alla finestra, vede i tedeschi radunare la gente. Però, convinta che stiano portando via soltanto gli uomini, si precipita di sotto, per correre a Termini e avvertire il marito di non tornare al Ghetto. Al figlio intima di restare a casa. Ma il ragazzo è un ragazzo, disobbedisce e si precipita in strada poco dopo di lei.
Quando Emanuele arriva giù, i tedeschi l'hanno già caricata su un camion. Lui la vede e la chiama, lei gli urla di scappare. Ma un soldato se ne accorge, afferra il ragazzo e, come un pacco, lo lancia dentro l'autocarro. Il camion parte. Ma, qualche strada dopo, lei butta giù il figlio dal convoglio. Emanuele si rialza, corre via come un pazzo e si rifugia su un tram fermo. Quando arriva il conducente, si guarda intorno e lo nasconde in cabina. Finito il suo turno, arriva un collega e anche lui lo nasconde. Poi un altro. Grazie a sua madre, grazie a quegli uomini, conducenti e bigliettai, Emanuele si salva e, giorni dopo, si riunisce al padre, a sua volta nascosto da un cugino a Borgo Pio.
Quella di Emanuele, come altre dello stesso periodo, è una storia formidabile d'amore materno, solidarietà umana e fortuna quasi ultraterrena. Emanuele è stato salvato dall'amore della madre, dalla solidarietà dei tranvieri e dalla sorte, ieri come oggi arbitra delle nostre vicende. E' dunque un episodio straordinario in sé, nel contesto storico in cui si svolse. Ma ci aiuta anche a ricollocare l'angoscia e l'incertezza di oggi nelle loro giuste proporzioni. Quegli uomini e quelle donne vissero un dramma che non è neppure confrontabile con l'odierna pandemia. Allo stesso modo la tragedia di allora - come il contagio di oggi (con i morti e gli effetti dirompenti sulle nostre vite) - misero e mettono in luce il meglio e il peggio dell'essere umano. E ci costringono a interrogarci. Ascoltando il racconto di Emanuele Di Porto ci chiediamo: avrei avuto anch'io la prontezza audace di quella madre, il coraggio odi quei tranvieri? Avrei oggi - il coraggio dei medici e degli infermieri che si adoperano negli ospedali? E non sempre sappiamo rispondere.
(Corriere della Sera - Roma, 19 ottobre 2020)
Consegnato nel Ghetto di Venezia un defibrillatore con Magen David Adom Italia
Garantire un nuovo strumento di sicurezza per la salute sia ai residenti che ai tanti turisti che ogni anno frequentano il Ghetto ebraico di Venezia.
Consegna del defibrillatore nei locali della Comunità ebraica del centro storico
VENEZIA - È stato installato ieri mattina, domenica 18 ottobre, un nuovo defibrillatore nei locali della Comunità ebraica del centro storico, in prossimità del Museo e delle sinagoghe. Il dispositivo è stato consegnato da Magen David Adom Italia onlus (Mda), organizzazione nazionale di emergenza pre-ospedaliera israeliana, grazie a una donazione dell'Ucei, Unione delle comunità ebraiche italiane. Per l'Amministrazione comunale presente l'assessore alle Politiche sociali Simone Venturini, insieme al presidente della Municipalità di Venezia Murano Burano Marco Borghi, ai rappresentanti della Comunità ebraica e con Silvia Voghera, coordinator manager di Mda Italia.
"Grazie dell'invito a tutta la Comunità ebraica veneziana e un ringraziamento a Magen David Adom, non solo per il gesto fatto con questa donazione, ma anche per voler rafforzare ancora più l'amicizia che lega voi con noi e lo Stato d'Israele con Venezia", ha dichiarato l'assessore Venturini. "L'efficienza che Israele possiede in questi settori, maturata con l'esperienza di anni difficili, ci consente di beneficiare della vostra opera per le attività di formazione che sono già in corso. Approfitto - ha proseguito - per portare il saluto e la stima del Comune di Venezia a tutti i soccorritori impegnati, anche in Israele, nella lotta al Covid, sperando di poter organizzare presto, anche in presenza, nuove importanti iniziative. Grazie di cuore per aver dotato la nostra comunità di un importante presidio di sicurezza".
"Un defibrillatore è un bene comune - ha sottolineato Borghi - che speriamo di usare poco, ma che comunque impreziosisce un territorio. Sono molto contento di questa donazione perché da oggi questa zona sarà più sicura".
"Siamo lusingati di poter installare nel Ghetto un presidio medico così importante grazie a Magen David Adom - ha sottolineato Paolo Navarro Dina, rappresentante della Comunità ebraica di Venezia - che resta a disposizione di tutta la città e di quest'area molto visitata durante tutto l'anno. Una donazione che ci consente di avere maggiore sicurezza e capacità di affrontare una eventuale emergenza in qualsiasi momento".
L'iniziativa rientra nella campagna di Mda Italia "Datti una mossa, dagli una scossa" cominciata nel 2018 e che punta a coprire entro il 2020 altre comunità nel centro-nord Italia. Venezia è la prima ad essere coinvolta in questa fase. Grazie alla collaborazione con Croce Rossa Italiana, inoltre, Mda formerà due referenti per l'utilizzo del defibrillatore e organizzerà un corso di Blsd per imparare le tecniche fondamentali di primo soccorso.
"Siamo felici che sia Venezia la prima città a ospitare questo nuovo step del nostro progetto", ha fatto sapere Sami Sisa, presidente di Magen David Adom Italia Onlus. "È uno dei luoghi più significativi dell'ebraismo italiano e siamo sicuri che questo sarà sicuramente un incentivo per raggiungere il nostro obiettivo: dotare di defibrillatore tutte le 21 comunità ebraiche, le sinagoghe e i siti che raccontano la nostra storia in Italia. La presenza del DAE verrà segnalata agli operatori che rispondono al 118 e rappresenta una risorsa per l'intero quartiere".
(Il Nuovo Terraglio, 19 ottobre 2020)
Sono osservante, ma il comportamento di alcuni charedim crea problemi
di Samy Legziel*
Premettendo che sono un ebreo osservante vorrei fare delle considerazioni inerenti alla lettera della Signora Cohenca su 'Kolot'. Riguardo la polemica sui haredim non penso che possiamo limitarci al fatto di chi metta la mascherina sull'aereo e chi no. In questo momento in Israele questo problema sta creando una divisione nella popolazione per dei motivi concreti e non per dei preconcetti. Da quando è iniziata la pandemia molti haredim sono andati contro le disposizioni dello Stato creando 'uno stato nello Stato'.
Diversi Rabbanim di Bnei Brak (tra cui Rav Kanievsky) e di Gerusalemme hanno detto agli appartenenti alle loro sette di non fare i tamponi e di non chiudere le Sinagoghe e le Yeshivot e hanno creato così grandi focolai di contagio. Sono stati, nonostante la proibizione, celebrati matrimoni con centinaia di partecipanti e funerali con migliaia di persone accalcate. Anche in America hanno creato problemi e hanno contestato le Autorità rischiando di incoraggiare l'antisemitismo.
I Haredim Israeliani hanno fatto venire dall'America circa 20.000 ragazzi dalle Yeshivot alcuni dei quali positivi al covid appesantendo notevolmente la situazione sanitaria in Israele. Tre importanti Rabbanim di Bnei Brak hanno scritto una lettera dicendo che per Simchat Torà si doveva festeggiare all'interno delle Sinagoghe come gli scorsi anni e non prendere le dovute precauzioni relative alla pandemia. Questo atteggiamento di disobbedienza alle direttive dello Stato in cui vivono sono contrari a quanto stabilito dalla Torà ed hanno causato danni e morti.
Bisogna dire che anche i laici hanno creato problemi manifestando da oltre due mesi contro Netanyahu organizzando raduni con migliaia di persone facilitando così i contagi ma questa non deve essere considerata una giustificazione.
Quello che mi ha colpito è che durante questo lungo periodo i Rabbanim non abbiano preso posizione criticando questi comportamenti non conformi all'etica dell'ebraismo ed inoltre non hanno disposto un digiuno o delle preghiere o letture di Tehilim a livello nazionale o internazionale.
*Ex-consigliere della Comunità ebraica di MIlano, ora in Israele
(Kolòt, 19 ottobre 2020)
Coronavirus, Israele: da oggi uscita graduale dal lockdown
Israele dopo un mese di lockdown si appresta a salutare i giorni delle restrizioni. I nuovi casi da coronavirus sono scesi sotto i 400 giornalieri.
Lo scorso 24 settembre il governo israeliano aveva deciso di portare in lockdown l'intero Paese. Misure dure che hanno visto chiudere tutti gli uffici e le società che non erano ritenute essenziali. A restare aperti solo supermercati e farmacie.
In Israele era vietato, inoltre, allontanarsi oltre un chilometro dall'abitazione neanche per partecipare a manifestazioni religiose. Il governo aveva chiuso le sinagoghe subito dopo Yom Kippur, il giorno più importante del calendario ebraico che prevede ventiquattro ore di digiuno e di espiazione.
Il lockdown iniziato il 24 settembre va verso lo stop. In Israele da oggi inizia un'uscita graduale dal lockdown. Le misure drastiche hanno portato i frutti desiderati e la percentuale dei contagi di coronavirus registrata nelle ultime 24 ore è stata del 2,8%.
Su 14mila tamponi sono risultati positivi al coronavirus 395 persone. Questo dato è stato reso noto dal ministero della sanità secondo cui questa cifra va presa si con entusiasmo ma anche con prudenza.
Anche se i numeri dicono che l'ultimo dato è il più basso in assoluto delle ultime settimane, il tutto va esaminato con prudenza perché nella giornata di sabato il numero di tamponi effettuati è stato molto basso.
In base a queste preoccupazioni, il premier Benyamin Netanyahu ieri è intervenuto per ricordare alla popolazione di evitare ancora assembramenti di qualsiasi tipo. Ad oggi i malati gravi in Israele sono 673, e di questi 237 sono in rianimazione, mentre i decessi sono saliti a 2190. I positivi al coronavirus attivi sono oltre 33 mila.
inews24, 18 ottobre 2020)
Razzi o dollari in valigia nel confronto Gaza-Israele
Hamas minaccia, il Qatar sostiene i palestinesi
di Davide Frattini
Due anni fa l'ambasciatore del Qatar a Gaza ha passato qualche settimana negli Usa: controlli medici. In ospedale con lui sono rimasti bloccati i 15 milioni di dollari che avrebbe dovuto portare (in contanti dentro le valigie, consegna mensile) nella Striscia. II ritardo ha causato 72 ore di scontri, i più gravi dai 34 giorni di guerra tra Hamas ed esercito israeliano nei 2014. Ai capi dell'organizzazione fondamentalista servono quei soldi da distribuire, devono dimostrare che in quasi 13 anni di controllo sul corridoio di sabbia tra Israele, l'Egitto e il Mediterraneo sono riusciti a combinare qualcosa: di fatto spingere il governo di Benjamin Netanyahu (sotto la minaccia dei lanci di razzi) a permettere il generoso intervento dell'emirato.
Anche adesso l'ennesima tregua (che nessuno sa se e quanto potrà durare) è condizionata a ioo milioni di dollari che il Qatar promette di elargire nel giro di sei mesi, tanti quanti la durata del cessate il fuoco. Che gli strateghi israeliani definiscono con la formula «alla quiete risponderemo con la quiete». Perché lungo la barriera che circonda i 365 chilometri quadrati (ci vivono quasi 2 milioni di palestinesi) la calma non dura mai a lungo. Così quest'ultima intesa non convince Mon Davidi il sindaco di Sderot, tra le città più bersagliate dai razzi di Hamas che da destra vorrebbe una reazione di destra: «II governo israeliano deve colpire come sa fare, eliminare i terroristi e i loro capi».
Il patto temporaneo non rassicura neppure a sinistra Gadi Yarkoni, che guida il coordinamento di queste aree a sud e vive in un kibbutz a qualche centinaio di metri dalla Striscia (dall'altra parte ci sono le strade affollate di miseria di Khan Younis, dov'è cresciuto Yahiya Sinwar, attuale boss di Hamas). Yarkoni ha perso le gambe nel 2014, centrato da un colpo di mortaio, un'ora prima che il cessate il fuoco fermasse il conflitto. Dice: «I soldi del Qatar sono un'aspirina, non la soluzione. Serve in accordo strategico a lungo termine che attraverso gli scambi economici cambi la realtà della Striscia». Netanyahu ha preferito in questi anni lasciare le cose come stanno, il dominio di Hamas su Gaza garantisce che le fazioni palestinesi non ritrovino l'unità e non costituiscano un fronte comune per le richieste agli israeliani. II premier ha imposto un embargo sul passaggio di beni e persone, da quando i fondamentalisti hanno tolto con un golpe il controllo della Striscia ai rivali di Fatah. Intrappolata è sempre la gente di Gaza. All'inizio della pandemia gli israeliani hanno permesso l'ingresso di medicinali e di aiuti per tenere i contagi sotto controllo. In luglio, spiega l'Onu, la cooperazione è saltata anche per l'interferenza del presidente palestinese Abu Mazen che ha tagliato i rapporti con gli israeliani (dopo la presentazione del piano di pace Usa) e continua la strategia di ostacolare il consolidamento al potere di Hamas.
(Corriere della Sera, 18 ottobre 2020)
La Francia ostaggio dell'islam radicale tra ricercatori dell'Isis ed ebrei in fuga
La decapitazione dell'insegnante è solo la punta di un iceberg. Nell'istruzione ormai vige la paura. E la laicità è solo un ricordo.
IL PARADOSSO
A Marsiglia un terrorista premiato con un posto di prestigio all'Università
L'APPELLO
La rivista del Califfato: Basta con l'educazione dei miscredenti»
di Fausto Biloslavo
Studenti che sfilano gridando «Allah o Akbar», compagni di classe vessati perché ebrei, docenti impauriti che non denunciano le minacce islamiche, jihadisti con le mani insanguinate che ottengono posti di ricercatore e l'Isis che attacca il sistema scolastico francese. La decapitazione dell'insegnante vicino a Parigi è solo la punta di un iceberg.
Quattro giorni prima l'orribile omicidio jihadista, Pierre Obin, ex ispettore nazionale dell'Istruzione, denunciava che il suo allarme sulla minaccia islamica nel scuole lanciato nel 2004 «è rimasto seppellito sotto un tappeto per 20 anni».
Il risultato è desolante: due insegnanti su cinque hanno registrato nel proprio istituto «incidenti legati alla contestazione del principio di laicità» da parte di studenti islamici. E secondo un sondaggio il 40% dei docenti ammette di «auto censurarsi» o di chiudere un occhio sull'intolleranza per evitare problemi. I programmi scolastici vengono apertamente contestati e sui temi d'attualità come l'11 settembre scattano le teorie complottiste che accusano gli Usa di essersi attaccati da soli. Sull'Olocausto nelle scuole ad alta concentrazione islamica vige il negazionismo fra gli studenti.
E capita anche di peggio: in un istituto di Lione gli studenti ebrei sono stati vittime per mesi di violenze da parte dei compagni musulmani. II risultato è che negli ultimi anni due terzi dei 100mila studenti ebrei hanno abbandonato l'istruzione pubblica per quella privata.
Nella scuola di un quartiere «arabo» di Marsiglia una studentessa è stata molestata e pestata dai compagni per i suoi «cattivi costumi» compreso il vestire troppo alla moda. In un liceo di Val-de Marne, sobborgo a sud est di Parigi tutte le ragazze musulmane denunciano «allergie al cloro» per evitare le lezioni di nuoto e il costume da bagno normale. Nel nord della Francia un gruppo di studenti ha organizzato «una dimostrazione marciando in cortile al grido di Allah o Akbar(Dio è grande)». Nel dipartimento della Drome c'è stato un caso di bagni con «rubinetti riservati ai musulmani e altri ai non musulmani». I salafiti chiedono per i loro figli spogliatoi separati fra musulmani e infedeli per le attività sportive della scuola.
A Marsiglia, il 29 gennaio, è stato arrestato Majdi Mustapha Nameh con l'accusa di crimini di guerra in Siria come pezzo grosso del gruppo armato jihadista Jaysh al-Islam. Nome di battaglia Islam Alloush aveva ottenuto un posto di ricercatore presso l'Istituto di studi sul mondo arabo e musulmano dell'università di Provenza Aix-Marseille. Non a caso l'istituto era stato diretto per lungo tempo da François Burgat, il più giustificazionista fra gli studiosi francesi dell'Islam politico.
Bruno Riondel, insegnante di storia da oltre 30 anni, ha denunciato che esiste «un tabù sull'Islam ed i suoi eccessi». I programmi di storia sono stati purgati per presentare «un Islam medievale rivisto, tollerante e difensore della conoscenza, mentre stigmatizzano l'Occidente cristiano, come mondo oscuro segnato dalle Crociate, dall'Inquisizione o dalla conquista religiosa sulle società». Non solo: «Cristianesimo e Illuminismo sono opzionali, ma viene rafforzato l'insegnamento obbligatorio della storia dell'Islam».
Per i fanatici dell'Isis non basta: l'edizione in francese della rivista del Califfato ha ripetutamente attaccato la laicità della scuola d'Oltralpe bollandola come «un mezzo di propaganda che vuole imporre il pensiero corrotto giudaico-massonico». E invitato i bravi musulmani ad «abbandonare l'educazione dei miscredenti».
(il Giornale, 18 ottobre 2020)
Sono più di ventanni che lantisemitismo islamico si fa sentire in modo aggressivo in Francia, in modo particolare proprio nelle scuole. Ma i vari governi francesi hanno sempre avuto altri problemi come primi punti allordine del giorno. Oggi cominciano a vedersi le conseguenze. Proponiamo la rivisitazione di una pagina del nostro sito interamente dedicata a questo argomento. Febbraio 2014: Piccoli antisemiti musulmani . E nel frattempo quei piccoli antisemiti sono diventati grandi.
Porte aperte agli evangelici, alleati di Trump e Netanyahu
Come già sottolineato in altre occasioni, in qualche caso il giornale di supersinistra "il Manifesto", anche se in un'ottica sfegatatamente anti-israeliana, è l'unico a dare notizia di certi fatti interessanti che avvengono Israele. Gliene siamo grati. NsI
di Michele Giorgio
Per gli stranieri entrare in Israele è un'impresa, anche se sono ebrei. Il divieto al loro ingresso, contenuto dalle norme anti Covid-19, è in vigore ormai da sette mesi e prevede poche eccezioni: coniugi e figli di cittadini israeliani; i «soldati soli» (stranieri ebrei che scelgono di fare il servizio militare in Israele lontano dalle loro famiglie); quelli in possesso di permessi di soggiorno e pochi altri. Queste restrizioni invece sono state facilmente superate da gruppo di stranieri che vantano importanti appoggi politici. Nelle scorse settimane 70 volontari di Hayovel, un'organizzazione cristiana evangelica con sede nel Missouri, hanno ottenuto il permesso per entrare in Israele pur non avendone formalmente diritto. Atterrati a Tel Aviv, hanno rapidamente raggiunto gli insediamenti ebraici di Har Bracha (Nablus) e Psagot (Ramallah) nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione, dove hanno preso parte alla vendemmia assieme ai coloni israeliani.
Il «privilegio» di cui hanno goduto i volontari di Hayovel deriva dall'alleanza tra le organizzazioni cristiane sioniste e Israele, in modo particolare i partiti di destra (al governo) e i coloni. Legami che si sono fatti più stretti nei quattro anni di Amministrazione Trump che ora punta sui voti anche dei cristiani evangelici pro-Israele, per ottenere un secondo mandato. Riferimento dei cristiani sionisti americani è, anche più di Trump, il vice presidente Mike Pence che in più occasioni ha citato il racconto biblico per spiegare il sostegno statunitense alla sovranità israeliana su tutta la Palestina storica e negare i diritti dei palestinesi. Perciò aprire le porte di Israele ai volontari evangelici è parte del contributo che il governo Netanyahu e i nazionalisti religiosi israeliani (coloni in testa) offrono alla campagna di Donald Trump, il presidente che, scardinando il diritto internazionale e le Nazioni unite, ha concesso molto a Israele, dalla proclamazione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico alla «legalizzazione» delle colonie nei territori palestinesi occupati. Fino al riconoscimento del Golan siriano come parte di Israele.
Hayovel, ha portato sino ad oggi circa 3.000 volontari cristiani negli insediamenti coloniali israeliani, quasi tutti statunitensi. Ospitati in un campus appositamente costruito accanto a Har Bracha, questi volontari pagano l'alloggio, il biglietto aereo e altre spese senza battere ciglio. Lo fanno perché si ritengono in missione per conto di Dio. Contribuendo alla «redenzione» di tutta la biblica Terra di Israele, ritengono di favorire la realizzazione delle profezie. Ad indirizzarli c'è anche la cosiddetta Ambasciata cristiana a Gerusalemme, aperta negli anni '80 da varie organizzazioni cristiane sioniste. Hayovel, riferisce il quotidiano Haaretz, ha ottenuto piccole sovvenzioni israeliane per il suo contributo alla difesa all'estero dell'immagine delle colonie. Il giornale aggiunge che i gruppi di evangelici sionisti hanno investito nelle colonie israeliane 65 milioni di dollari negli ultimi dieci anni. L'associazione statunitense Heart of Israel, ad esempio, raccoglie ogni anno centinaia di migliaia di dollari per finanziare progetti negli insediamenti. E secondo i dati raccolti da Ynetnews, nel solo 2017 delle circa 28mila persone che hanno compiuto l'aliyah, l'immigrazione in Israele, almeno 8.500 avevano ricevuto aiuti da organizzazioni cristiane partner dell'Agenzia ebraica. L'International Fellowship of Christian and Jews (Ifcj) dal 2014 al 2017 ha raccolto 20 milioni di dollari per l'aliyah e 188 milioni di dollari dalla fine degli anni Novanta al 2005. Ed esponenti cristiani di primo piano promuovono attivamente la normalizzazione tra gli Stati arabi e Israele.
I milioni di evangelici statunitensi sono un serbatoio di voti di eccezionale importanza per le speranze di riconferma alla Casa Bianca di Donald Trump che ritengono l'uomo mandato dal Signore per sostenere Israele ad ogni livello. A tanta devozione dei cristiani sionisti per Trump si contrappone il sostegno della maggioranza degli americani ebrei al candidato democratico Joe Biden. A differenza degli israeliani che - secondo i risultati di due sondaggi, uno svolto in Israele a inizio ottobre e l'altro negli Usa a fine settembre - per il 63% desiderano la vittoria di Trump, il 70% degli ebrei negli Stati uniti voterà per Biden.
Le presidenziali del 3 novembre stanno evidenziando una frattura sempre più larga tra israeliani e americani ebrei. Per il 51% degli israeliani l'elezione di Biden potrebbe danneggiare le relazioni tra i due paesi e il 48% pensa che il sostegno degli ebrei statunitensi ai democratici sia «sbagliato». Più di tutto il 47% degli israeliani parla di «frattura» netta con gli ebrei negli Usa.
(il manifesto, 18 ottobre 2020)
Il Covid e il nostro ebraismo
di Rav Alberto Moshe Somekh
Il Talmud (Sukkah 27b) riporta un'interessante controversia a proposito della festa di Sukkot appena trascorsa. È lecito durante la ricorrenza trasferirsi da una Sukkah all'altra? In altri termini, sono autorizzato ad accogliere l'invito di un parente o di un amico e recarmi a pranzo nella sua Sukkah, sebbene così facendo trascuri la mia? R. Eli'ezer proibisce, mentre la maggioranza dei Maestri lo permette. Secondo una lettura la discussione verte su due interpretazioni contrapposte dello stesso versetto: "Farai la festa di Sukkot per sette giorni" (Devarim 16,13). R. Eli'ezer legge il versetto in relazione alla Sukkah e ne deduce che la stessa Sukkah deve essere adoperata per l'intera settimana, mentre i Chakhamim lo intendono diversamente (cfr. 'Arokh ha-Shulchan O.Ch. 637,1). È possibile che la discussione non sia solo esegetica, ma anche concettuale: per R. Eli'ezer conterebbe nella Sukkah il valore della continuità (prospettiva diacronica), mentre per i Maestri sarebbe invece più importante il fattore della condivisione (prospettiva sincronica). In ogni caso la Halakhah è stabilita secondo l'opinione della maggioranza: abbiamo cioè il permesso di passare da una Sukkah all'altra.
Quest'anno in Israele è stato dichiarato un nuovo lockdown in occasione dei Mo'adim. Il governo ha disposto fra l'altro una multa pesante proprio per chi avesse accolto un invito a pranzo fuori dalla propria Sukkah. Lo scopo era ovviamente limitare al massimo le relazioni sociali per arginare l'epidemia che proprio in Israele ha raggiunto dimensioni allarmanti. Leggendo il fatto di cronaca in una dimensione halakhica emerge un paradosso. Lo Stato invita per così dire a una linea di comportamento conforme all'opinione minoritaria e fortemente restrittiva di R. Eli'ezer anziché quella maggioritaria e conciliante dei Chakhamim! Il paradosso è ancora più evidente se si considera che una delle ragioni per cui l'opinione del primo non è in genere accolta come normativa (a parte alcuni casi: cfr. Niddah 7) è che R. Eli'ezer era stato discepolo della scuola di Shammay (Shammutì)! Viviamo in un mondo letteralmente stravolto, altro che travolto, dalla pandemia. Anzitutto basti pensare ai capovolgimenti linguistici: oggi chi è negativo è positivo e viceversa chi è positivo dà un segnale di negatività. Persino la Halakhah viene paradossalmente (torno a dire: la mia è un'osservazione sarcastica e non reale) percepita nei termini di una inversione di tendenza: Shammay sembra quasi prevalere su Hillel!
Finora in Italia siamo stati dei grandi privilegiati. A Torino, per esempio, le Tefillot delle feste si sono sempre svolte con sostanziale regolarità nel rispetto delle disposizioni vigenti, in un clima di serenità e fiducia, senza allontanare nessuno, né ingenerare sospetti. Dobbiamo di ciò essere grati ai nostri dirigenti comunitari che con grande tatto e lungimiranza hanno saputo affrontare una situazione potenzialmente insidiosa su due fronti contrapposti: il rischio sicurezza da un lato, il rischio disaffezione dall'altro. Il peggio è stato evitato anche grazie alla comprensione da parte della base che ha interiorizzato il senso dei provvedimenti adottati adattandosi ai piccoli disagi che la situazione avrebbe potuto comportare. Anche i privati cittadini, gli "iscritti" come li chiama la nostra burocrazia, meritano pertanto gratitudine per il sentimento civico non comune dimostrato.
Non voglio tuttavia limitarmi alle nostre Comunità. Sforzandomi di trarre un bilancio e una prospettiva dalle difficoltà del presente, mi sia consentito uno sguardo più ampio, considerando il panorama dei grandi centri dell'ebraismo a livello mondiale. La pandemia ha messo in luce anche qui delle criticità non da poco, prodromi, sperabilmente, di una visione necessariamente nuova delle cose.
Non sono charedì, ma ho spesso nutrito una certa ammirazione, aldilà di tanti spigoli, per coloro che scelgono di vivere un ebraismo senza compromessi nei limiti del possibile, e come me credo anche altri ebrei più o meno osservanti. Tuttavia oggi proprio quel modello deve affrontare una crisi profonda, forse irreversibile. I charedim che nelle vie di Benè Beraq e di Brooklyn calpestano e bruciano le proprie mascherine, manifestando contro un ordine statale cui attribuiscono la responsabilità del pandemonio che tutti stiamo vivendo, protestano in realtà solo contro se stessi. I charedim, infatti, nella tenacia di mantenere vive le strutture associative dell'ebraismo tradizionale, muoiono come gli altri e forse più e prima degli altri. Ma questa volta sarà arduo sostenere nel loro caso la tesi del martirio 'al qiddush ha-Shem. La minaccia attuale non viene infatti né dal modernismo assimilazionista, né da un regime persecutore che deporta gli inermi verso campi di sterminio. Oggi l'attacco viene non dall'uomo ma, ki-v-yakhol, per così dire, da D. stesso che "colpisce e guarisce" (Hoshea' 6,1) senza più distinguere, come cantava Ribò, fra Israele, Esaù e Ismaele. E nei confronti di D. non ha senso far leva sui nostri sani e solidi principi. Ci tocca interiorizzare che la Mitzwah di salvaguardare la salute non è certo inferiore ad altre. Il modello charedì manifesta una palese inadeguatezza a gestire una emergenza vitale. Questa è a mio avviso la principale sfida del coronavirus all'ebraismo contemporaneo e forse anche una rivoluzione. La pandemia pone a tutti nuove domande a livello esistenziale. Chissà che il metabolismo del tempo non ci aiuti a trovare nuove risposte anche a questi interrogativi. La società ebraica, parallelamente a quella generale, è in attesa di queste risposte. Che non sia giunta l'occasione per mettersi seriamente al lavoro?
(moked, 13 ottobre 2020)
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Basta parlare di charedìm facendo di tutta l'erba un fascio
Un chiarimento doveroso sul "modello charedì" nei confronti della pandemia
di Deborah Cohenca
Vorrei approfittare delle pagine di Kolòt, sul quale è apparso recentemente un articolo di Rav Somekh, per fare un po' di luce sul mondo ebraico ortodosso e sulla posizione degli ebrei definiti "charedìm" riguardo alla pandemia da Covid-19.Anzitutto, la definizione di ebreo "charedì" (o ortodosso, oppure ultra-ortodosso a seconda dei punti di vista), dipende, appunto, dal punto di vista. Per qualcuno, una donna sposata che si copre il capo quando va al Tempio è una manifestazione di ultra-ortodossia; per altri, una forma di rispetto o di adesione minima ai principi normativi ebraici del codice Shulchàn Arùkh, per altri, ancora meno. E la stessa cosa vale per l'aderenza ad altre norme sull'abbigliamento e sull'osservanza di molti precetti. Io sono osservante per scelta, considerata più o meno ortodossa a seconda di chi mi guarda.
Non ho la minima idea se io sia charedìt o no, e la cosa mi interessa poco. Però negli ultimi anni mi sono trovata a frequentare di più l'ambiente definito "charedì", e ci terrei a sfatare alcuni stereotipi e pregiudizi. Potrei dire in tono scherzoso che gli ebrei "charedìm" sono persone assolutamente normali, alcuni anche particolarmente gentili e affabili, non hanno la coda, e nemmeno mordono! In tono più serio, devo precisare che, dalla mia esperienza personale, mi risulta che l'aderenza alle norme civili non dipende affatto dal livello di religiosità. Riguardo alla pandemia da Covid-19, da quello che vedo personalmente, che leggo e che sento, il mondo ebraico "ortodosso" si comporta esattamente come tutto il resto del mondo. C'è chi rispetta scrupolosamente le regole sulle mascherine e sul distanziamento sociale, altri che ci litigano di più; ma la cosa accade in tutti i Paesi, in tutti gli ambiti sociali.
In questi ultimi mesi ho viaggiato in aereo; in alcuni casi ero l'unica ebrea, in altri ero in buona compagnia, di ebrei che potrebbero essere definiti "charedìm". C'erano (pochi) passeggeri che con la mascherina ci litigavano parecchio e che sono stati più volte ripresi dal personale di bordo, ma non erano quelli riconoscibili come ebrei ultra-ortodossi; con tutta probabilità non erano manco ebrei. C'erano (pochi) passeggeri parecchio restii a compilare l'auto-certificazione sullo stato di salute, ma non eravamo "noi". Durante i voli sono state distribuite le salviette disinfettanti al posto di cibi e bevande; "noi" le abbiamo usate, gettando poi salvietta e bustina negli appositi contenitori portati dal personale di bordo; alcuni "altri" non le hanno usate, o peggio, le hanno usate e poi lasciate sui sedili dell'aereo. "Noi" abbiamo rispettato l'ordine di imbarco e sbarco per numero di fila di posti, alcuni "altri" no.
Potrei continuare con un elenco piuttosto noioso, ma il punto a cui voglio arrivare è questo. A prescindere dal gruppo ebraico al quale si ritiene che gli altri appartengano, nel caso della pandemia, come in tutti gli altri casi non si può generalizzare; è pericoloso e fuorviante. È stato più volte accertato che la percentuale di aderenza alle restrizioni in vigore nelle città israeliane più ortodosse come Benè Berak è esattamente la stessa del resto del mondo. Chi brucia le mascherine sono una minoranza, che non va generalizzata. Vivendo il mondo ortodosso dal suo interno, non mi sembra affatto che la pandemia lo stia "spaccando", non più di quanto stia "spaccando" il resto della collettività. Tutto il mondo è "spaccato" sulla pandemia causata da un virus di cui ancora non si sa tutto. La comunità scientifica è spaccata sulle misure da adottare, le autorità governative ancora di più.
Nell'articolo su Kolòt è stato omesso il fatto che le principali autorità rabbiniche ortodosse (e anche "ultra-ortodosse") riconosciute continuano a esortare al rispetto delle norme vigenti e delle indicazioni delle autorità sanitarie locali, anche con messaggi ufficiali di condanna e critica agli episodi come quello di chi brucia le mascherine. La differenza è che le immagini di chi brucia le mascherine finiscono sui media, i messaggi che insistono sulla necessità di proteggersi adeguatamente dai contagi, no. Mi rincresce trovarmi in disaccordo con Rav Somekh, per il quale nutro stima e rispetto, ma quello che Rav Somekh definisce "il modello charedì" sulla pandemia non è affatto il "modello charedì". La posizione ufficiale e largamente maggioritaria del mondo ebraico ortodosso è quella dettata dalle norme in vigore, dal buon senso e dalla necessità di proteggere la salute propria e altrui.
La posizione ebraica "religiosa" sul Coronavirus è chiara e non dà spazio a equivoci. Se ci sono singoli a cui non piace, rientrano nella percentuale degli individui "disobbedienti" di tutto il mondo. Posso capire le generalizzazioni dei media non-ebraici, che per definizione rincorrono il sensazionalismo, devono "fare notizia", identificano un singolo con la categoria a cui credono appartenga, cercano e individuano comodi capri espiatori. Al nostro interno però sarebbe auspicabile che fossimo più oggettivi, corretti. E soprattutto, più uniti, più reciprocamente comprensivi. Abbiamo assistito a un rigurgito di antisemitismo sui social media che, era quasi scontato, incolpa gli ebrei dello scoppio della pandemia, identifica gli ebrei come appestati, untori eccetera. Io credo che la prima arma contro l'antisemitismo, contro la pandemia e contro diversi altri mali del mondo sia l'unità. Il Covid-19, appunto, non guarda in faccia nessuno; non fa distinzioni di sorta, etniche o religiose che siano. Siamo tutti nella stessa situazione. Non è colpa degli ebrei, non è colpa degli ebrei ortodossi, non è colpa degli ebrei ultra-ortodossi.
Come facciamo a difenderci all'esterno (o dall'esterno) quando non ci capiamo al nostro interno, quando siamo noi stessi ad alimentare pregiudizi e stereotipi? Perché dare voce a notizie esterne parziali e in alcuni casi faziose? E questo mondo ebraico "ortodosso", che si ritrova a difendersi più di quanto effettivamente attacchi, perché non provare a conoscerlo di più al suo interno? Se non impariamo a conoscerci e a capirci noi, fra di noi, non possiamo pretendere che ci conoscano, che ci capiscano e che ci rispettino gli "altri".
(Kolòt, 18 ottobre 2020)
L'uomo postmoderno e l'immersione nell'irrealtà
Al progressivo allontanamento dal reale ha fatto seguito una sempre più veloce immersione nellirreale.
«Negli ultimi secoli l'uomo moderno è riuscito ad arginare e dominare la realtà con la costruzione di un robustissimo traliccio artificiale, che però è diventato ormai così importante e sofisticato da non lasciare al singolo altra scelta che quella di diventare un nodo del traliccio stesso. Ad una fase eroica di "aggressione" della realtà da modificare con sistemi artificiali, sta dunque lentamente subentrando una fase burocratica di "integrazione" in una realtà che fin dall'inizio si presenta artificialmente modificata».
Chiedo scusa per questa autocitazione, ma le parole riportate sono una buona premessa per quanto si sta per dire e possono servire inoltre a verificare in quale misura oggi sono state confermate o superate.
Il traliccio artificiale a cui ci stiamo da tempo aggrappando e in cui ogni uomo tende a diventare soltanto uno dei nodi, si è evoluto in un traliccio virtuale costituito da una cosmica rete avvolgente il globo intero. Lo spazio fisico ormai è considerato immerso in un virtuale cyberspazio che per i suoi intrinseci caratteri "spirituali" e per l'evolversi di fatti esterni tende sempre più a crescere di importanza, fino a che diventerà talmente indispensabile da arrivare a chiederci se non sarà proprio lì, in quell'aereo cyberspazio, che d'ora in poi dovrà essere vissuta la parte più importante della nostra vita sociale.
Ma la risposta è già arrivata: la cosa si sta svolgendo sotto i nostri occhi, anzi con la nostra diretta partecipazione. E' ormai in atto un progressivo e apparentemente inarrestabile trasloco in rete. Il passaggio dal reale al virtuale, svoltosi inizialmente in modo lento e graduale, e solo in certi settori della vita produttiva, nei giorni della pandemia ha ricevuto un tale impulso e raggiunto una tale estensione, almeno nei programmi, da renderlo ormai irreversibile.
Traliccio virtuale La rete è ormai il traliccio virtuale, con sede nelle nuvole del cyberspazio, che sostiene tutto il mondo materiale che si muove sulla terra. Nelle nuvole c'è il virtuale, sulla terra c'è il reale. Come dei fiori sintetici si dice che sono così ben fatti da sembrare veri, lo stesso può si può dire degli oggetti virtuali: sono così ben fatti che assomigliano tantissimo a quelli veri. Ma non sono veri. La finzione cresce di qualità e tende ad assomigliare sempre di più alla realtà, mirando all'obiettivo di superarla in qualità mescolandosi ad essa in misura calcolata. La costruita socialità virtuale, supportata da ben dosati collegamenti con alcuni elementi di realtà corporea (da qualche parte delle persone in carne ed ossa ci devono pur essere, si assicura), appare sempre di più non come una diminuzione, un arrangiamento, ma come un'estensione e un potenziamento nobilitante della semplice, limitata socialità corporea. Dopo un po' di tempo di permanenza in rete i partecipanti di questa nuova società potranno arrivare a convincersi che nelle nuvole del virtuale si vive meglio che nella terra del reale. Si hanno meno problemi, si fatica di meno e si ottiene di più. Perché tornare indietro? Perché rimpiangere le angustie della corporeità? Il corporeo è pesante e lento; il virtuale è leggero e veloce. Irreale? No, super-reale. Immersione nell'irrealtà? No, ascensione ad uno stato più ampio di realtà, elevazione del mondo intero ad un livello autogestito e unificante di società universale. C'è qualcosa che ricorda la Torre di Babele, ma di sicuro si dirà che questo non c'entra niente.
Eternità virtuale Una caratteristica della realtà virtuale in cui si immergono coloro che si danno convegno in rete sta nel fatto che tutto, assolutamente tutto, viene registrato. E resta lì "in eterno". Non si tratta soltanto di qualche fotografia o qualche video per il ricordo di un fatto reale avvenuto un giorno sulla terra, ma della registrazione di un fatto virtuale avvenuto soltanto nelle nuvole e che non ha altra consistenza che la virtualità. La rivisitazione di quella registrazione non sarà il ricordo di un fatto, ma l'integrale ripetizione di quel fatto in data diversa. E potrà essere ripetuto un numero illimitato di volte.
Creatività virtuale Il fatto virtuale però non solo può essere ripetuto così com'è, ma può anche essere ampliato, accorciato, rimaneggiato e rimesso in circolazione come un nuovo oggetto virtuale avente pari dignità e valore dell'oggetto sottoposto a modifica. L'ontologia del virtuale è questa: non ha senso fare distinzioni. Chi si trova tra le mani uno di questi oggetti può valutarne l'utilità che ne ricava, ma non ha senso chiedersi se sia vero o falso: è un oggetto costruito, punto e basta. Tra le nuvole il problema della verità non si pone come sulla terra.
Produttività virtuale I partecipanti ad un incontro virtuale contribuiscono alla creazione di un oggetto che sfugge per sempre dalle loro mani. Forniscono a mani ignote del materiale per la costruzione di altri oggetti virtuali, simili o no a quello costruito dai partecipanti, e per usi incontrollabili. Chi costruisce con materiale informatico trovato in rete non sarà costretto a rendere conto di quello che fa a chi ha prodotto il materiale.
Come fanno i creatori di oggetti virtuali a procurarsi materiale informatico dagli umani che si muovono sulla terra? Risponde Jaron Lanier *, un supertecnico del cyberspazio:
«Ogni secondo, gli algoritmi si abbuffano dei tuoi dati. Su che tipo di link fai click? Quali video guardi fino alla fine? Con che velocità passi da una cosa all'altra? Dove sei quando fai queste cose? Con chi ti stai connettendo online e di persona? Che espressioni del viso fai? Come cambia il colorito della tua pelle a seconda delle situazioni? Che cosa stavi facendo poco prima che decidessi di comprare qualcosa o non comprarla? Di votare o non votare? Tutte queste misurazioni, insieme a molte altre, sono state incrociate con dati paragonabili presi da una miriade di persone attraverso una massiccia opera di spionaggio. [...]
E per ogni persona raccolgono dati su tutto: le comunicazioni, gli interessi, i movimenti, i contatti con gli altri, le reazioni emotive a diverse circostanze, le espressioni del viso, gli acquisti, i segni vitali: una varietà di dati illimitata e in continua crescita. [...]
Gli algoritmi correlano i dati del singolo con le altre persone. Queste correlazioni sono in pratica delle teorie sulla natura di una persona, e queste teorie vengono costantemente controllate e valutate per capire quanto ci azzeccano. Come tutte le teorie ben gestite, migliorano nel tempo grazie al feedback adattivo.»
Alla presenza di tutto il mondo e oltre Gli incontri virtuali avvengono dunque potenzialmente alla presenza di tutto il mondo. Naturalmente si dirà che esiste la crittografia, e che ci sono tanti modi per proteggersi dalle incursioni, e che anche la legge cerca di proteggere la privacy degli utenti in rete, ma sono rassicurazioni di poco conto. E gli esperti lo sanno.
La società tuttavia può accettare di correre dei rischi, considerandoli inevitabili, pur di trarre da certi strumenti tecnici dei vantaggi che altrimenti non si potrebbero ottenere. Si sa bene, per esempio, che le banche possono essere svaligiate, ma non per questo si rinuncia ad usarle per le transazioni commerciali. Quindi se un gruppo di persone è d'accordo nel decidere di incontrarsi nelle nuvole sapendo quello che fa e accettandone rischi, vantaggi e svantaggi, nessuno può avere niente da dire.
Le cose diventano più complesse quando si tratta di incontri religiosi. In questo caso infatti si suppone che i presenti credano che tra di loro si trovi anche un partecipante particolare: Dio. Si potrà discutere sulla forma di questa presenza, ma se si usa il nome di Dio facendo riferimenti alle sue parole e alle sue opere, se a Lui si elevano inni di lode e da Lui si aspettano risposte ai propri bisogni, potranno i partecipanti negare che stanno considerando Dio presente in mezzo a loro? e non soltanto come ospite ma, per così dire, come il Presidente dell'incontro? I cristiani evangelici sanno dalla Bibbia che quando si radunano nel nome di Gesù, lo fanno per adorare un Dio che è presente in mezzo a loro (Matteo 18:20, 1 Corinzi 14:25). Sorge allora una domanda: che idea avrà Dio di queste strane riunioni in cui Egli è considerato presente? I partecipanti umani potranno anche essere tutti d'accordo nel ritrovarsi in quel modo, ma il Partecipante divino è stato interpellato? C'è stata una sua risposta, o quanto meno un'interpretazione concorde e responsabile della sua volontà? O si pensa tacitamente che se va bene a noi deve andare bene anche a Lui? Gli ebrei ortodossi, quando si trovano davanti un cibo nuovo e strano si chiedono se è kosher; forse anche noi evangelici dovremmo fare qualcosa del genere: chiederci se certe nuove e strane forme di culto sono kosher, cioè biblicamente approvabili.
Abbiamo detto che le riunioni nelle nuvole avvengono alla presenza potenziale di tutto il mondo. Ottimo - penserà qualcuno - così potenzialmente tutto il mondo può venire a conoscenza del Vangelo. In questo campo però le cose non si svolgono secondo gli usuali paradigmi commerciali del mondo, dove il target è l'obiettivo primario da raggiungere. La metafora adatta a rappresentare la forma in cui avviene la diffusione del messaggio evangelico non è il commercio, ma la guerra. Contro questo salvifico messaggio si mobilitano schiere di nemici spirituali che per essere solitamente invisibili non sono meno reali. Tutt'altro. Si può essere certi che là dove si usa il nome di Gesù, là si radunano anche le suddette schiere nemiche. Occhi umani e non umani osservano in rete quello che avviene e memorizzano tutto quello che si fa e si dice. Il materiale raccolto con occhi digitali resta poi a disposizione illimitata per usi che i produttori del materiale non potranno mai verificare. E' possibile allora che con la quantità di dati inviati nel cyberspazio da un numero sempre maggiore di incontri religiosi nelle nuvole, un giorno gli algoritmi saranno in grado di produrre in rete un perfetto culto religioso di pura fattura virtuale, provvisto di tutti gli elementi che un incontro di questo tipo richiede, ma privo di ogni riferimento con una realtà corporea presente sulla terra. Un prodigio della tecnica.
Che i demoni si raccolgano là dove viene fatto il nome di Gesù è sempre avvenuto, cominciando proprio dal tempo in cui Gesù stesso era presente come uomo sulla terra, ma bisogna chiedersi se per i radunamenti "spirituali" di questo nuovo tipo si possono trovare promesse di protezione nella Parola di Dio. Perché l'uomo, per tentare di risolvere a modo suo i problemi sollevati dalla pandemia, ha preso la decisione di uscire dalla sfera del reale per immergersi in una sfera di irreale penombra piena di tante immagini costruite talmente bene da rendere confusa la distinzione tra finzione e realtà, tra menzogna e verità. Ma è proprio in zone come queste che Satana, "il padre della menzogna" (Giovanni 8:44), si muove perfettamente a suo agio nelle sue battaglie. L'esito finale della guerra certamente non lo vedrà come vincitore, ma se si vuole combattere come buoni soldati di Cristo Gesù e partecipare degnamente alla Sua vittoria, bisogna "lottare secondo le regole" (2 Timoteo 2:3,5), regole che devono essere attentamente prese in considerazione. E per farlo non si può che andare nell'unico posto dove le risposte possono essere trovate: la Bibbia. Né si può dire che sul tema dei radunamenti biblici si è già riflettuto abbastanza nel passato, perché le riunioni a distanza - come si dice e si ripete da diverse parti - sono di natura essenzialmente diversa da quelle in presenza: sono strani oggetti mai incontrati prima. La loro natura richiede dunque di essere seriamente esaminata sul piano teologico, e non solo su quello pragmatico.
* Jaron Lanier, "Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social", 2018).
Il confinamento ha però avuto un impatto economico non indifferente
TEL AVIV - Contagi in picchiata, tasso di infezione anche: Israele torna a vedere la luce.
Primo Paese al mondo a richiudersi - per di più nel pieno delle feste ebraiche più importanti dell'anno - dalla mezzanotte di domenica sera 18 ottobre uscirà gradualmente da un lockdown durato quasi un mese.
Un blocco che ha suscitato infinite polemiche politiche e divisioni sociali ed ha avuto un costo economico non indifferente (quasi 200 mila disoccupati).
Per un certo periodo Israele ha contato due record negativi: il più alto rapporto tra contagi giornalieri e numero di abitanti (circa 8 milioni di abitanti) ed il sorpasso degli Usa nella comparazione tra numero di morti e popolazione: 3.5 vittime per milione di abitanti, contro il 2.2 degli Stati Uniti.
Ora la situazione si è rovesciata: i contagi sono scesi dal picco di 9mila al giorno agli attuali 1'608. Il tasso di morbilità è passato dal 15%, al 4,5%, il più basso dal luglio scorso. Diminuiscono anche i malati gravi che sono ad oggi 713, sotto la soglia degli 800 (più volte superata nelle settimane passate) considerata la linea rossa per gli ospedali.
Da domenica prossima Israele riaprirà gradualmente: dalle scuole primarie (anche nelle 'zone rosse'), alle piccole aziende senza contatti con il pubblico, alle spiagge, ai trasporti (aerei inclusi), all'abolizione del limite di 1 chilometro per gli spostamenti da casa (via libera quindi alle manifestazioni politiche centralizzate), alle visite ad amici e parenti, al permesso per i ristoranti di servire cibo da asporto.
(tio.ch, 17 ottobre 2020)
La Shoah e quelle pietre d'inciampo che riguardano tutti noi
di Aldo Grasso
Nate dall'iniziativa dell'artista tedesco Gunter Demnig, le pietre d'inciampo (Stolpersteine) sono «sanpietrini» in ottone che segnano le abitazioni o i luoghi di lavoro di persone che sono state vittime della persecuzione nazifascista: ebrei, oppositori politici, militari, rom e sinti, omosessuali deportati nei campi di sterminio o giustiziati. Con la consueta sensibilità, Annalena Benini ha ripercorso la vita di Angelo Anticoli, orafo di Roma scampato al terribile rastrellamento del 16 ottobre del i943 con la sua famiglia: la moglie e le figlie si nascondono nel Convento delle Suore di Santa Francesca Romana, mentre lui e il figlio Graziano trovano rifugio in una comunità di frati a Via dei Serpenti (Rai Storia, giovedì). Sono i mesi del ricatto di Kappler, che obbligo la comunità ebraica a raccogliere e consegnare 5o chili d'oro in cambio di una presunta libertà, sono gli anni delle spiate e dei tradimenti e Angelo finisce ad Auschwitz senza più fare ritorno.
«Pietra d'inciampo» è espressione biblica (la si trova in più punti), una metafora del nostro camminare, una parola «dura» che fa inciampare chi vuole e sa cogliere il significato profondo delle cose. Annalena Benini racconterà, oltre alle vicende della famiglia dell'orafo Anticoli, altre cinque storie di vittime della Shoah e della persecuzione nazifascista in Italia, a cui sono state dedicate altrettante pietre. E lo farà con curiosità e finezza, ma soprattutto nello spirito delle pietre di inciampo, secondo l'etimologia del termine greco skàndalon. Inciampare significa soffermarsi, ricordare, tramandare. Quella pieta d'ottone è stata messa apposta per far «inciampare» la nostra quotidianità, per farci «cadere» su episodi che non conoscevamo, per ricordarci che lì, in quella casa davanti alla quale passiamo ogni giorno con indifferenza, si è consumata una tragedia che riguarda anche noi.
(Corriere della Sera, 17 ottobre 2020)
Ghetto, il ricordo della città di Roma. Ma gli urtisti protestano contro Raggi
La manifestazione degli urtisti
Anniversario amaro quest'anno. Ieri alcune decine di urtisti, gli ambulanti storici di origine ebraica che vendono souvenir, hanno protestato contro la sindaca Virginia Raggi proprio durante la commemorazione del 77° anniversario del rastrellamento del ghetto ebraico a Roma. Il 16 ottobre 1943 più di mille ebrei romani tra cui 200 bambini furono catturati casa per casa con un blitz delle truppe Gestapo arrivate apposta da Berlino per la soluzione finale: fare piazza pulita degli ebrei a Roma.
Ieri mattina, la protesta, che è stata bollata come irrispettosa dal presidente della Commissione Commercio Andrea Coia. «Assassini, infami, vi siete venduti il sangue di sei milioni di ebrei». Parole forti. Così gli urtisti (si chiamavano così e hanno mantenuto questo appellativo perché "urtavano" i turisti con la mercanzia appesa al collo), hanno manifestato all'esterno del Tempio Maggiore di Roma dove era in corso la commemorazione. Perché la protesta contro il Campidoglio? Perché la giunta Raggi ha delocalizzato le loro postazioni. Nei cartelli, frasi come «Commemorate i nostri morti ma affamate i vivi», «Le licenze che ci state togliendo sono dei morti che state commemorando», «Giù le mani dalle nostre licenze».
Le licenze, va detto, grazie al nuovo Testo Unico del Commercio approvato dalla Regione non si azzerano ma possono anche essere riconvertite. Il tavolo del decoro capitolino ha spostato i banchi che ostruivano la vista dei monumenti, come Fontana di Trevi. «Abbiamo dato la possibilità ad alcuni di loro di esercitare nei pressi del monumento in Via delle Muratte o Via del Lavatore», spiega Coia.
Il sopravvissuto
Sami Modiano, 90 anni, uno degli ultimi sopravvissuti ad Auschwitz, ha provato, invano, a convincere gli urtisti a desistere dalla protesta, considerata la delicatezza della ricorrenza. È quanto si vede in un video pubblicato su Facebook da Coia. Nel video si vede Modiano avvicinarsi alla transenna mormorando: «Oggi onoriamo almeno i nostri defunti. Non era il momento giusto». Poi si rivolge a loro: «Ho letto le vostre ragioni, senz'altro. Ma oggi dobbiamo onorare i nostri defunti». «Noi sì, loro no - rispondono gridando gli urtisti, riferendosi evidentemente all'amministrazione capitolina - Sei milioni di ebrei... le licenze degli urtisti sono ebree e questa ce sta a levà er pane», aggiungendo insulti per la sindaca. Anniversario amaro. Ste.P.
(Il Messaggero, 17 ottobre 2020)
ENEL utilizzerà droni di produzione israeliana
di Antonio Mazzeo
ENEL, la multinazionale italiana dell'energia, utilizzerà droni di produzione israeliana dual use - civile/militare - per sorvegliare le proprie linee elettriche. Nei giorni scorsi i manager dell'holding hanno sottoscritto un contratto con la società Gadfin Ltd. di Rehovot (città che dista a una ventina di km. da Tel Aviv) per lo "sviluppo di soluzioni innovative" attraverso l'uso di velivoli a pilotaggio remoto VTOL (Vertical Take-Off and Landing), a decollo ed atterraggio verticale.
"I droni consentiranno al gruppo italiano l'ispezione delle linee elettriche che si estendono per circa 800 km., con costi più bassi rispetto al passato", affermano i dirigenti di Gadfin. "Il velivolo a pilotaggio remoto potrà volare per lunghe distanze in modo rapido, efficiente e sicuro. Grazie ai sofisticati sensori con cui è equipaggiato, l'ENEL potrà potenziare i suoi servizi ed intervenire per riparare gli eventuali guasti in aree remote o difficilmente accessibili, continuando a fornire senza interruzioni energia elettrica ai suoi clienti".
L'azienda israeliana è stata selezionata tra 35 imprese che hanno presentato un progetto; il valore del contratto si aggirerebbe intorno ai 12 milioni di dollari l'anno. Il velivolo VTOL selezionato è denominato Spirit One ed è stato presentato ufficialmente a fine settembre da Gadfin Ltd. quale "drone con super performance che può essere utilizzato per missioni civili, di sicurezza nazionale e militari".
Lo Spirit One ha un peso di 25 kg. ed è in grado di volare in quasi tutte le condizioni meteorologiche su distanze di oltre 250 km. Il drone è fornito di otto motori elettrici e può trasportare carichi sino a 5 kg., anche se sono previste versioni in grado di sostenere carichi più pesanti. "La partnership tra ENEL e Gadfin, due società con interessi e affari differenti, rappresenta uno scenario fondamentale per sviluppare le future tecnologie e infrastrutture per la mobilità aerea e le relative applicazioni logistiche", hanno dichiarato i manager dell'azienda israeliana. "Gli sforzi per implementare l'uso in larga scala di velivoli elettrici a decollo e atterraggio verticale continuano, anche in vista di una maggiore domanda di droni per la rete di trasporto aereo in Italia ed Israele".
Gadfin Ltd. è stata fondata appena due anni da Eyal Regev, già dirigente di IAI - Israel Aerospace Industries (il maggiore gruppo industriale aerospaziale israeliano) e progettista di numerosi sistemi aerei a pilotaggio remoto, civili e militari. Co-fondatori Ran Kleiner (anch'egli ex manager di IAI e fondatore dell'Israel Drone Academy) ed Ilan Yuval, esperto di logistica. Tra i tecnici in forza a Gadfin Ltd. compare Tuvia Barak, una lunga esperienza nel settore strategico militare-industriale aerospaziale ed elettronico, israeliano e statunitense.
Nel 2020 l'azienda di Rehovot è stata la prima a conseguire le autorizzazioni da parte dell'Autorità di Aviazione civile d'Israele per operare nel campo delle consegne aerospaziali in ambito urbano ed extraurbano. "Ciò ci consentirà di effettuare trasporti con droni tra ospedali, laboratori medici e altre istituzioni ed organizzazioni, da Dan nel nord d'Israele sino ad Eilat, a sud", ha spiegato l'amministratore delegato Eyal Regev. "Le performance ottenute con la nuova versione del velivolo VTOL a pilotaggio remoto consentono però di diversificare l'uso per altri potenziali mercati. Gadfin è attualmente impegnata nello sviluppo di droni di dimensioni maggiori in grado di trasportare carichi sino a 100 kg., su distanze ancora più lontane e tempi di percorrenza e costi minori".
Il programma di collaborazione tra ENEL e l'azienda israeliana verrà realizzato all'interno di InfraLab, il laboratorio innovativo costituito nel luglio 2018 ad Haifa, nel nord di Israele, dalla stessa multinazionale dell'energia e da Shikun & Binui, il colosso israeliano delle costruzioni d'infrastrutture civili e militari. Proprio quest'ultima società si è aggiudicata tre mesi fa il contratto del valore di 250 milioni di euro per la realizzazione della nuova Accademia Militare dell'Esercito israeliano a Be'er Sheva, la città capoluogo del Negev, nel sud del paese. L'infrastruttura verrà costruita su un'area di 250 ettari e ospiterà circa 12.000 soldati, di cui circa 5.000 permanenti a partire dal 2026, data prevista per la conclusione dei lavori. Shikun & Binui opererà come general contractor e concorrerà al finanziamento e alla gestione della base militare per un periodo di 26 anni.
"La scelta di Be'er Sheva non è casuale e risponde all'esigenza israeliana di conquistare spazio al deserto", spiega l'ICE, l'Agenzia per la promozione all'estero delle imprese italiane del Ministero dello Sviluppo Economico. "Qui sorge una delle migliori università israeliane - l'Università Ben Gurion - ed intorno ad essa una moltitudine di multinazionali, startup e strutture militari e governative. Già capitale della cybersicurezza, è stata recentemente scelta da Enel X e Mastercard per lanciare un laboratorio che si concentrerà sulla sicurezza digitale nei pagamenti e nel campo energetico a livello globale. La realizzazione dell'Accademia Militare, pertanto, porterà nuovo sviluppo e nuova gioventù alla città, oltre alle migliori menti dell'IDF (Israel Defense Forces), rafforzando l'area metropolitana di Be'er Sheva come nuovo centro tecnologico in Israele".
Il progetto di "ricollocamento" a Be'er Sheva delle truppe d'élite israeliane e di realizzazione della nuova base strategica prevede una spesa complessiva di 6,4 miliardi di dollari. Il centro ospiterà pure il Comando generale delle forze Sud a cui è affidata la pianificazione e direzione delle operazioni di guerra nella Striscia di Gaza, nonché un centro per il personale d'intelligence e della difesa cyber (C4I - Command, control, communications, computers and intelligence).
Il laboratorio di ricerca e sviluppo in ambito fintech e cybersecurity dei pagamenti realizzato in joint venture da Enel X (la linea di business dedicata alle soluzioni energetiche avanzate del Gruppo italiano) e la multinazionale dei servizi finanziari Mastercard, è stato cofinanziato dall'Autorità per l'innovazione israeliana (IIA) nell'ambito dell'Innovation Labs Program, in coordinamento con il Ministero delle Finanze e il National Cyber Directorate israeliani. "Oltre alla licenza triennale per istituire il laboratorio, la nuova società riceverà dalla IIA circa 3,7 milioni di dollari statunitensi a copertura delle spese per la costituzione dell'infrastruttura tecnologica, l'attività operativa e la certificazione della prova di fattibilità relativa allo sviluppo di idee innovative con startup locali per sviluppare e a introdurre sul mercato le migliori soluzioni nei settori della tecnologia finanziaria e della sicurezza informatica", riporta in una nota l'ENEL.
(Stampalibera.it, 17 ottobre 2020)
Ciclo-Mercato 2021, Sep Vanmarcke vicino alla Israel Start-Up Nation
di Davide Filippi
Sep Vanmarcke
Potrebbe aver trovato squadra per il prossimo anno Sep Vanmarcke. Il corridore della EF Pro Cycling, in scadenza di contratto con la squadra statunitense, secondo quanto riportato da Het Nieuwsblad sarebbe vicino a firmare per la Israel Start-Up Nation. Il 32enne fiammingo, che milita nella formazione WorldTour dal 2017, quando ancora si chiamava Cannondale-Drapac, negli scorsi mesi non aveva escluso la possibilità di rinnovare l'accordo con la EF, anche se c'erano diverse squadre interessate a lui. Tra esse, la Bahrain-McLaren, l'Arkea-Samsic e la B&B Hotels-Vital Concept, ma sembra ora imminente il trasferimento al team israeliano, dove diventerebbe un punto di riferimento per le classiche del Nord.
(SpazioCiclismo, 17 ottobre 2020)
Consigliere degli Emirati: lavorare insieme a Israele per combattere il terrorismo
GERUSALEMME - Israele ed Emirati Arabi Uniti devono unire le forze per combattere il terrorismo. Lo ha dichiarato il responsabile del Centro di eccellenza internazionale per la lotta contro l'estremismo violento (Hedayah) e consigliere antiterrorismo del governo emiratino, Ali al Nuaimi, in un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Commentando gli "accordi di Abramo" firmati lo scorso 15 settembre a Washington da Israele, Bahrein ed Emirati, Al Nuaimi ha sottolineato che l'intesa rappresenta "una vittoria" nella lotta contro l'estremismo in Medio Oriente. "Dobbiamo mettere insieme tutte le risorse per lavorare insieme, per contrastare il terrorismo. Loro (i terroristi) non hanno confini, sono ovunque. È nostra responsabilità come musulmani riavere la nostra religione e mostrarla ai nostri figli come una religione di pace", ha dichiarato il consigliere del governo emiratino. Al Nuaimi ha ricordato che dall'11 settembre 2001, gli Emirati Arabi Uniti hanno sviluppato una strategia globale per prendere di mira il terrorismo nella regione, simboleggiata dall'invio di truppe in Afghanistan insieme agli Stati Uniti. "Il terrorismo non ha una religione. I terroristi sono una minaccia per tutti noi, per il mondo, e nessuna singola nazione, da sola, sarà in grado di contrastare il terrorismo", ha dichiarato.
(Agenzia Nova, 16 ottobre 2020)
Iran - Gruppo opposizione in esilio rivela esistenza di un sito militare nucleare segreto
NEW YORK - Il Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Ncri), gruppo di opposizione iraniano in esilio, ha annunciato oggi in una conferenza stampa di aver identificato un nuovo sito militare segreto vicino a Teheran, che potrebbe ospitare un centro di prova per lo sviluppo del programma nucleare militare della Repubblica islamica, ufficialmente limitato alle attività civili a seguito del Piano globale d'azione congiunto (accordo sul nucleare iraniano) del 2015. "Un nuovo centro è stato costruito per continuare ad armare il programma nucleare del regime iraniano", ha annunciato in una conferenza stampa trasmessa da Washington il Consiglio nazionale della resistenza iraniana.
Il gruppo, bandito in Iran, è la vetrina politica del movimento Mojahedin del popolo (Mek), formazione armata dell'opposizione considerata come un'organizzazione terroristica da Teheran. Mostrando foto satellitari, l'Ncri assicura che un edificio sia stato costruito tra il 2012 e il 2017 in una zona militare a ovest di Teheran, nella regione di Sorkheh-Hessar. Si dice che il sito sia gestito dall'Spnd, un ramo del ministero della Difesa iraniano. "Essendo situati in una zona militare, hanno trovato una copertura adeguata per mantenere segreti i movimenti e le identità delle persone", ha detto Alireza Jafarzadeh, vicedirettore dell'Ncri a Washington. L'Spnd è, secondo lui, il movimento di opposizione, noto per condurre test in vista della produzione di armi nucleari. In particolare, avevano fatto esperienze simili nel 2000.
"Le nostre rivelazioni dimostrano che l'accordo di Vienna non impedisce le attività dei mullah per ottenere armi nucleari", ha dichiarato. Le rivelazione fatte dal gruppo di opposizione iraniano giungono a pochi giorni dalla scadenza dell'embargo sulle armi contro l'Iran, prevista per il 18 ottobre, come da Piano d'azione globale congiunto (il cosiddetto accordo nucleare) del 2015.
(Agenzia Nova, 17 ottobre 2020)
Frenano i contagi in Israele, il tasso più basso da luglio
Frenano ancora i nuovi contagi in Israele: nelle ultime 24 ore sono stati 1.608 su 37.487 tamponi con un tasso di morbilità del 4.5%, il più basso da metà luglio.
I casi attivi della malattia sono ad oggi 38.355 e di questi 713 - in discesa - i casi gravi di cui 247 in ventilazione. I morti, da inizio pandemia, sono 2.127. Da mezzanotte di domenica prossima scatta il primo allentamento delle restrizioni dell'attuale fase di lockdown con il riavvio di alcune attività economiche e sociali. Il governo sta anche pensando di rimuovere le misure di chiusura nelle cittadine considerate "rosse".
(Giornale Rimini Mobile, 16 ottobre 2020)
"Intese segrete a colpi distrette di mano, così abbiamo raggiunto gli Accordi di Abramo"
Intervista allambasciatore degli Emirati in Usa, architetto della svolta con Israele
Il fattore decisivo? La fiducia. Ognuno ha preso impegni che ha mantenuto. Quasi mai abbiamo usato bozze scritte
È un patto di pace e sviluppo in cambio della rinuncia all'annessione nella West Bank. I palestinesi ne hanno un beneficio
Il nazionalismo arabo non è più popolare come lo era una volta. Gli arabi oggi vogliono opportunità: lavoro e speranza di un futuro migliore
di Maurizio Molinari
Maurizio Molinari Yousef Al Otaiba
Gli Accordi di Abramo sono il frutto di oltre un anno di negoziati segreti, sono stati condotti senza bozze scritte ma con patti suggellati «con strette di mano» e nascono-dalla volontà degli Emirati Arabi Uniti di «aprire la strada alla modernità nel mondo - dell'Islam»: ad alzare il velo sui retroscena della normalizzazione dei rapporti fra EAU ed Israele è l'architetto di questa intesa, Yousef Al Otaiba, ambasciatore emiratino a Washington. Nato nel 1974 ad Abu Dhabi in una famiglia di commercianti, figlio di uno dei più stretti collaboratori del fondatore degli Emirati, Zayed bin SultanAl Nahyan, cresciuto al Cairo ed educato alla Georgetown University di Washington,Al Otaiba è divenuto ambasciatore negli Stati Uniti dopo oltre venti anni al fianco di Sheikh Mohammed bio Zayed bin Sultan Al Nahyan, principe ereditario diAbu Dhabi e vice comandante supremo delle forze armate emiratine, meglio noto più semplicemente come "Mbz" da tutti coloro che, dentro e fuori in Medio Oriente,lo considerano il leader più potente, autorevole e visionario del mondo arabo. Nella prima intervista concessa ad un giornale europeo dopo le intese di pace - realizzata parlando via Zoom dal suo ufficio di Washington . Al Otaiba ci accompagna sul sentiero di Sheikh Mohammed per comprenderne la scelte.
- Come nasce l'idea della pace con Israele?
«Abbiamo discusso a lungo fra noi negli Emirati quando e come normalizzare i rapporti con Israele. I segnali c'erano già da tempo: atleti israeliani venivano per eventi sportivi, il padiglione israeliano all'Expo 2020 e rappresentanti israeliani invitati in più eventi pubblici. Se l'accordo è avvenuto ora è per il dibattito in Israele sull'annessione di aree palestinesi nella West Bank. Ci siamo resi conto che l'annessione sarebbe stato un problema per la maggior parte degli Stati arabi, in particolare per la Giordania ma anche per Israele, che si sarebbe trovata isolata, e per l'America che avrebbe dovuto difendere la decisione. Abbiamo dunque pensato di scambiare la normalizzazione per la rinuncia all'annessione. Per questo le reazioni in Usa, Europa e mondo arabo sono state positive».
- Come sono iniziate le trattative?
«Occasionalmente, quando parlai con qualcuno del team di Jared Kushner alla Casa Bianca su come prevenire l'annessione. La prima offerta degli israeliani fu un accordo di non belligeranza. Gli Usa ci fecero avere una bozza. Eravamo assieme a Oman, Bahrein e Marocco. Non eravamo contro ma poco dopo aver ricevuto la proposta Israele ha avuto ben tre elezioni in un anno, dunque non è avvenuto nulla».
- E quando finalmente Israele ha avuto un nuovo governo quale è stata la vostra mossa?
«Gli abbiamo proposto un accordo di non belligeranza in cambio della rinuncia all'annessione ma gli Usa ci dissero: non funzionerà, vogliono la totale normalizzazione. Ed è stato allora che, all'inizio di luglio, il vero negoziato è iniziato. Attorno ad uno scambio: normalizzazione per rinuncia ad annessione».
- E' stato un negoziato duro?
«Dovevamo decidere le regole e le garanzie. Era l'inizio di agosto quando la discussione è incominciata. Nelle cinque settimane seguenti ho parlato più spesso con Jared Kushner, l'inviato Avi Berkowitz e il generale americano Miguel Correa, responsabile del Golfo nel Consiglio per la sicurezza nazionale, che con nessun altro in tutta la mia vita. Abbiamo sistemato tutto, ogni dettaglio».
- Quale è stato il fattore decisivo?
«La fiducia. ognuno ha preso impegni che ha mantenuto. Fino quasi alla fine non abbiamo mai messo praticamente niente sulla carta. Gli accordi li abbiamo fatti stringendoci la mano e solo davvero all'ultimo abbiamo scritto il testo. Ma il 90 per cento delle conversazioni si sono basate sulla fiducia reciproca».
- Eppure Mohammed Abbas, presidente palestinese, vi accusa di aver tradito Il suo popolo. Che cosa ne pensa?
«Penso che la soluzione dei due Stati è ancora viva grazie a noi, senza la nostra decisione oggi il dibattito sarebbe sull'opzione di un solo Stato. I palestinesi criticano gli accordi ma non c'è alcun progresso che loro possono vantare di aver compiuto in questi anni. I palestinesi in realtà hanno avuto beneficio dalla nostra decisione di sospendere l'annessione. Non vedo la logica dei palestinesi. Credo che la loro percezione della regione del Medio Oriente sia superata. Un recente sondaggio sui giovani arabi lo testimonia: l'89 per cento dei giovani degli Emirati, fra 18 e 24 anni, è a favore degli Accordi di Abramo».
- Non ci sono state resistenze interne negli Emirati contro l'accordo?
«Negli Emirati c'era, certo, chi diceva che bisognava aspettare la risoluzione della questione palestinese prima di qualsiasi accordo con Israele ma l'Iniziativa di pace araba risale al 2002 e in 18 anni non ha portato ad alcun progresso. Dunque abbiamo scelto un'altra strada».
- Quanto ha pesato il timore nel confronti dell'Iran?
"Come ha detto il mio ministro degli Esteri, la politica e le azioni dell'Iran ci hanno reso sospettosi nei suoi confronti ed il comportamento dell'Iran ha facilitato gli Accordi di Abramo. L'Iran ha creato le condizioni per gli accordi con Israele ma noi non li abbiamo firmati con l'Iran in cima ai nostri pensieri».
- E' dunque la fine della stagione del nazionalismo arabo che, da Nasser agli Assad fino a Saddam Hussein, ha perseguito la distruzione dello Stato ebraico?
«Non è più popolare come era una volta, così come non lo sono più il socialismo, il comunismo, l'arabismo e l'islamismo. Gli arabi oggi vogliono opportunità: lavoro, la speranza di un futuro migliore, sono stanchi di corruzione ed ideologia. I giovani ci chiedono: cosa ci hanno dato arabismo e socialismo? Ora serve la modernità. Il futuro. È per questo che dedichiamo così tanto tempo e risorse alla tecnologie, mandiamo nostri astronauti nello spazio e abbiamo un ministero dell'Intelligenza artificiale. Andiamo avanti, non indietro».
- Da dove nasce il sostegno del giovani emiratini per la pace con Israele?
"La maggior parte dei giovani negli Emirati non hanno mai combattuto contro Israele né sono mai stati in guerra contro Israele: Non hanno un confine con Israele come Giordania ed Egitto. lo sono cresciuto in Egitto, ogni giorno che andavo a scuola, per otto anni, dovevo passare davanti all'ambasciata israeliana, gli egiziani sono stati cresciuti nell'odio per Israele. Non noi».
- Nel 2019 avete accolto Papa Francesco, meno di due anni dopo la pace con Israele: la coesistenza fra fedi è possibile In Medio Oriente?
«Accogliere il Papa e firmare gli Accordi di Abramo è l'altra faccia dello sguardo al futuro: coesistenza fra identità e nuove tecnologie sono i due volti della voglia di guardare avanti. In poco tempo abbiamo dimostrato che gli Emirati possono fare entrambe le cose».
- Che idea di Islam c'è dietro questa apertura al mondo non musulmano?
«Venti anni fa gli Emirati Arabi Uniti erano tolleranti quanto lo sono oggi, con abitanti di 200 nazionalità diverse e più luoghi di culto di differenti religioni. Se oggi siamo più determinati a farlo sapere è perché sentiamo che dobbiamo difendere la mia fede, l'Islam».
- Da chi dovete difenderla?
«Dobbiamo difendere l'Islam da chi va in giro a uccidere, compiere attentati e dirottare aerei in suo nome. Nel mondo ci sono 1,7 miliardi di musulmani, in gran parte pacifici, moderati. Ma i pochi che sono estremisti monopolizzano l'immagine dell'Islam. Nelle moschee europee ci sono troppe persone estremiste, malate, che non rappresentano la maggioranza dei musulmani. lo sono cresciuto in una famiglia musulmana, pregavamo e digiunavamo durante il Ramadan, ma nessuno ci obbligava a farlo».
- Questa idea di modernità da dove viene?
«Non so chi l'ha coniata ma noi negli Emirati ci crediamo e l'abbiamo appresa da Sheik Zayad. È lui che ha fondato gli Emirati nel 1971, ha sempre predicato la coesistenza, la tolleranza. Credeva che tutti devono vivere assieme in pace ed armonia a prescindere da nazionalità e fede, colore della pelle. Abbiamo creato una società dove a prevalere è sempre la legge».
- Sono idee diffuse anche in altri Paesi arabi?
«Sì, in Medio Oriente le persone protestano perché vogliono migliorare la vita nei rispettivi Paesi. In Libano, Iraq o Algeria: le persone chiedono gli stessi cambiamenti. I giovani arabi chiedono ovunque di avere le stesse opportunità. E sulla questione di genere è vero alla stessa maniera: le giovani donne vogliono le stesse opportunità degli uomini».
- Prevede che altri Paesi arabi aderiranno agli Accordi di Abramo?
«Prevedere è pericoloso, ho imparato a non farlo. Ogni nazione è chiamata a decidere sulla base delle proprie esigenze. Noi avevamo il sostegno dell'opinione pubblica».
- Come si svilupperanno i rapporti fra Emirati e Israele?
«La maggiore attenzione è sulle opportunità economiche: il settore aereo e marittimo, gli accodi commerciali, il turismo. Ma ciò che conterà di più sarà il "people to people". Ci conosceremo meglio e questa sarà la svolta Sconfiggeremo gli stereotipi».
- In Cisgiordania c'è chi ritiene che se Mohammed Dahlan fosse presidente al posto di Abbas la pace con Israele sarebbe a portata di mano. Dahlan vive negli Emirati. Lei che cosa ne pensa?
«Sta a Dahlan decidere che cosa fare. Sta ai palestinesi decidere il loro futuro. Non a noi. L'unica cosa che dico è che il Medio Oriente cambia e chi se ne accorge deve adattarsi ai cambiamenti, senza rimanere imprigionato nel passato».
- Il Qatar aiuta Israele a gestire i rapporti con Hamas a Gaza. Lo considerate un rivale?
«Non credo che il Qatar aiuterà la pace perché la regione del Medio Oriente è divisa in due campi: da un lato chi promuove odio e Islam politico, come i Fratelli musulmani, sostenuto da Turchia e Iran e dall'altra c'è la modernità ovvero Egitto, Giordania, Oman, Kuwait, Bahrein, Emirati e Arabia Saudita. Iran e Turchia rifiutano ogni elemento di laicità. Sono un ostacolo per la regione, ma per molte decadi anche la Europa ha convissuto con nazismo e comunismo sovietico».
- Se Joe Biden diventerà presidente americano che ne sarà degli Accordi di Abramo?
«Li rispetterà. Subito dopo gli Accordi ho parlato con 21 senatori, democratici e repubblicani, tutti molto favorevoli. Sono stati ricevuti bene da entrambi perché l'importanza del riconoscimento di Israele in America è un valore bipartisan. Sull'Iran invece il team di Biden non ha ancora preso posizione ma non considerano l'Iran una non-minaccia»,
- Come può l'Europa aiutare gli Accordi di Abramo?
«È importante che Europa e Usa siano allineati perché li rende più forti. Dagli Accordi di Abramo possiamo arrivare all'accordo sui due Stati: è un fronte sul quale l'Europa può aiutare molto».
- "Mbz" è uno dei leader più temuti e rispettati del mondo arabo. Pochi lo conoscono come lei. Ci dica qualcosa su di lui che ignoriamo.
«Sono di parte perché lavoro con Sheik Mohammed da 20 anni. È diretto, non è un politico, ha una visione per il suo Paese e sa con esattezza dove vuole indirizzalo. Tratta tutti con eguale rispetto: il povero ed il ricco».
(la Repubblica, 16 ottobre 2020)
L'Arabia Saudita non esclude l'ipotesi di normalizzazione con Israele
Il principe Faisal bin Farhan al-Saud, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita
Il ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Saud, ha affermato che non è da escludersi l'ipotesi di un accordo di normalizzazione con Israele, ma che la priorità attuale sta nel favorire il dialogo tra israeliani e palestinesi.
Come riportato anche dal quotidiano al-Araby al-Jadeed, alla domanda sul sostegno saudita verso un'estensione degli accordi di normalizzazione con Israele a livello arabo, il ministro al-Saud ha risposto che ciascuno stato potrà agire nel modo che ritiene più opportuno. Le parole del principe saudita sono giunte il 15 ottobre, nel corso di una videoconferenza organizzata con la Washington Foundation for Near East Policy, in cui è stato affermato che il Regno saudita è "impegnato nel processo di pace", considerato una necessità per la regione. A detta di al-Saud, è giunto il momento di portare israeliani e palestinesi a sedersi al tavolo dei negoziati, in quanto solo un accordo tra loro potrà portare ad una pace stabile e duratura nella regione mediorientale, altrimenti "la ferita rimarrà aperta".
Tale pace, ha affermato il ministro saudita, rappresenta una necessità "strategica" per il Medio Oriente e, in fin dei conti, gli accordi di normalizzazione di Israele sono da inserirsi nel quadro degli sforzi profusi per il raggiungimento di quest'obiettivo. In particolare, si tratta di un suggerimento già avanzato in precedenza da Riad ed incluso nel Piano delineato nel 1981, in cui era stato chiesto a Israele di abbandonare i territori occupati nel 1967 e l'istituzione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. "La normalizzazione avrà luogo, ma dobbiamo anche ottenere uno Stato palestinese e un piano di pace israelo-palestinese", ha dichiarato al-Saud.
Con l'espressione "accordi di normalizzazione" si fa riferimento a quelli siglati da Israele, Emirati arabi Uniti (UAE) e Bahrein il 15 settembre, a Washington, sotto l'egida degli Stati Uniti. I patti hanno reso i due Paesi il terzo e il quarto Stato arabo che riconoscono la sovranità dello Stato d'Israele. Il primo era stato l'Egitto, nel 1979, e poi la Giordania, nel 1994. Dal canto suo, Israele si è impegnato a sospendere l'annessione dei territori palestinesi della Cisgiordania, così come annunciato in precedenza, sebbene il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, abbia specificato di aver semplicemente deciso di "ritardare" l'annessione come parte dell'accordo con Abu Dhabi.
In tale quadro, il 14 ottobre, il segretario di Stato degli USA, Mike Pompeo, ha esortato l'Arabia Saudita a considerare la possibilità di normalizzare la relazioni con Israele, durante l'incontro con il ministro degli Esteri del Paese del Golfo, affermando anche che Washington sosterrebbe l'iniziativa con un "robusto programma di vendita di armi". "Speriamo che anche l'Arabia Saudita prenda in considerazione questa ipotesi e vogliamo ringraziarli per l'assistenza che ci hanno fornito finora per garantire il successo degli Accordi di Abraham", ha affermato Pompeo.
L'Arabia Saudita si è più volte detta a favore di tutti gli sforzi volti a raggiungere una soluzione giusta e inclusiva della questione palestinese. In particolare, Riad aveva affermato di apprezzare gli sforzi profusi dall'amministrazione statunitense, ed il piano di pace annunciato dal presidente USA, Donald Trump, che potrebbe portare a intraprendere colloqui tra la parte palestinese e quella israeliana, sotto l'egida di Washington.
Israele e Arabia Saudita considerano entrambi l'Iran come la principale minaccia in Medio Oriente, e sono state le tensioni tra Riad e Teheran ad aver spinto la monarchia saudita e Israele a rafforzare la loro cooperazione per affrontare il nemico comune. Anche il 14 ottobre, il ministro al-Saud ha affermato che "l'Iran continua a destabilizzare la regione sostenendo milizie e terroristi", con riferimento anche ai ribelli sciiti Houthi in Yemen. Inoltre, un altro fattore di destabilizzazione è rappresentato dai programmi nucleari e missilistici iraniani, i quali rappresentano, secondo Riad, una grande minaccia per la regione.
Non da ultimo, nel 2019, un ex membro del Parlamento israeliano, Ayoob Kara, aveva rivelato che l'Arabia Saudita aveva discusso con Israele della possibilità di acquistare gas naturale da tale Paese, costruendo un gasdotto che collega il Regno con Eliat, città israeliana situata nel Sud del Paese e che si affaccia sul Mar Rosso, nel Golfo di Aqaba.
Circa 10 anni fa, diverse compagnie israeliane hanno trovato grandi quantità di gas nelle acque del proprio Paese ma non hanno mai messo completamente a frutto tale potenziale. Nonostante gli accordi firmati precedentemente con altre parti, pari a circa 25 miliardi di dollari, attualmente l'80% delle riserve non ha alcun acquirente. Pertanto, Riad potrebbe colmare tale vuoto, investendo sei volte in più rispetto agli investimenti dell'ultimo decennio, e rispondendo alla crescente domanda di elettricità a basso costo.
(Sicurezza Internazionale, 16 ottobre 2020)
Israele nel nuovo Medio Oriente
Per la prima volta nella sua storia un paese, all'inizio pieno di nemici e alla ricerca di sostenitori, è ora appoggiato e garantito da una infinità di amici potenti e non ha più nessuno in grado di minacciarlo.
di Alberto Benzoni
Churchill artefice e guida della vittoria dell'Inghilterra nella seconda guerra mondiale fu sonoramente sconfitto dai laburisti nelle elezioni del 1945. Alla base del loro successo la convinzione che, con la fine del conflitto, diventasse prioritario l'obbiettivo di cambiare il sistema con la costruzione del welfare e con il ruolo centrale dello stato. Nessuna ingratitudine, dunque. Ma un radicale mutamento dell'orizzonte.
Ora, Netanyahu non è certo un Churchill; ma i successi che ha raggiunto sul piano internazionale, sono stati molto maggiori e addirittura clamorosi. Sino ad apparire, qui e oggi, definitivi.
Nel 1947 Israele si salvò, grazie alla sua forza propria e alle armi cecoslovacche, dall'attacco dei paesi arabi, in modo tale da rendere caduco un piano di spartizione che assegnava agli arabi buona parte della Galilea e stabiliva lo status speciale di Gerusalemme.
Da allora in poi tante altre guerre, tutte vinte ma senza diminuire il numero e la minaccia dei nemici (cui si sarebbe aggiunto, dalla guerra dei sei giorni in poi, quella terroristica e quella dell'Iran).
Sul piano internazionale poi, l'appoggio allo stato; ma , spesso, non alla sua politica. E una proposta di soluzione del problema, incardinata da oltre 50 anni nella risoluzione del Consiglio di sicurezza cui si è poi aggiunta la formula dei "due popoli due stati". Con l'aggiunta, non marginale, dell'irrompere della Causa palestinese e della rafforzamento del fronte del rifiuto di cui Sadat subirà prima la scomunica e poi l'assassinio.
Dopo, però, l'evoluzione favorevole dei rapporti di forza coinciderà, paradossalmente, con una maggiore percezione della minaccia. Non foss'altro perché i palestinesi dopo i disastri del 2000 e del 2001 vengono considerati incapaci di fare la pace perché esistenzialmente nemici. Ed è sulla narrazione di un nemico ad un tempo minaccioso e irrilevante che la destra israeliana costruisce, nel corso del nuovo secolo, tutte le sue fortune.
Ora, dopo l'accordo con gli Emirati, si è creato uno scenario totalmente nuovo. O, meglio, è stata resa evidente a tutti una situazione che esisteva anche prima ma che molti, per ragioni del tutto strumentali, facevamo finta di non vedere.
Il primo dato è quello della moltiplicazione degli amici. Israele è forse l'unico stato al mondo a godere dell'appoggio totale degli Stati Uniti coltivando, nel contempo, ottimi rapporti politici con la Russia ed economici con la Cina. Cui si aggiungono ora quelli con i paesi arabi a prescindere dalla loro adesione formale all'intesa.
Il secondo è che la pressione esterna sullo stato ebraico a sostegno del progetto due popoli/ due stati è completamente cessata. E con essa l'omaggio, sempre più ipocrita, alla Causa palestinese. Anche qui, se vogliamo, si prende atto di un dato già pienamente esistente: è da tempo che il progetto è considerato sostanzialmente irrealizzabile, fino a non godere più nei sondaggi il consenso delle parti. Ma anche qui, il riconoscimento pubblico del dato sposta i termini del problema. Così i palestinesi sfumata la prospettiva di uno stato indipendente - e scartata l'ipotesi dell'emigrazione o di nuove Intifade - dovranno muoversi fatalmente nella prospettiva del riconoscimento pieno dei loro diritti individuali e collettivi all'interno di uno stato che non appartenga solo agli ebrei ma a tutti. Così, di riflesso, gli ebrei dovranno fatalmente misurarsi sul che fare con gli otto milioni di abitanti che vivono nello spazio tra il Giordano e il mare ( e tra l'Egitto e Israele). Ci vorrà del tempo ma l'unica strada percorribile è quella.
Ancora più significativa la prospettiva che si apre in base alle reazioni dei nemici dell'accordo. Anche qui, come accade spesso in quell'area del mondo, le parole dicono una cosa e gli atti un'altra.
Così l'Iran denuncia l'accordo; ma nel contempo apre i suoi siti alle ispezioni dell'Aiea certificando così di avere fermato il processo che dovrebbe portare alla sua entrata nel club nucleare. E' un segnale per Israele di cui i massimi responsabili della sicurezza hanno pubblicamente preso atto , declassando quindi gli ayatollah da nemici minacciosi in nemici semplici. E anche per gli Stati uniti: se dovesse vincere Biden, la riapertura del dossier iraniano potrebbe tranquillamente prescindere dalla sua dimensione nucleare per concentrarsi, da subito, sul "do ut des" del suo pieno reinserimento nell'ordine internazionale al prezzo della sua rinuncia a retoriche rivoluzionarie ed ambizioni egemoniche.
Da Hamas ed Hezbollah la stessa reazione: le parole al minimo sindacale; i fatti nella direzione opposta. Veniamo così a sapere che l'Anp, sotto l'egida di Erdogan ( tra l'altro del tutto opposto all'idea di aprire un nuovo terreno di scontro con lo stato ebraico, al prezzo di perdere come difensore del Libano quella copertura americana di cui ha sinora goduto) ha raggiunto un'intesa con Hamas, in vista, tra l'altro, di nuove elezioni. Formalmente, il consolidamento, del fronte del rifiuto; nella sostanza, l'offerta di una tregua a tempo indeterminato, a Gaza e altrove. Dal canto suo Hezbollah ha bloccato sì la formazione del governo libanese; ma solo per tenersi stretta la sua roba in attesa delle elezioni americane. Nei fatti il via libera, anzi il consenso esplicito al negoziato con Israele per garantire al Libano una redistribuzione delle acque territoriali e la conseguente possibilità di accedere a nuove fonti energetiche. Negoziato che avrà sin d'ora l'effetto collaterale di fare uscire il Libano dalla lista dei cattivi e di porre fine allo status speciale di cui gode Nasrallah come baluardo militare del paese.
Da parte dei palestinesi nessuna reazione nei fatti. Segno dell'impotenza e del discredito dell'Anp. Certo: ma anche segno della dolorosa maturazione del popolo, con la crescente consapevolezza della necessità di nuove vie per migliorare la propria esistenza e vedere riconosciuti i suoi diritti.
E qui queste riflessioni si concludono là da dove erano partite. In Israele. Per la prima volta nella sua storia un paese, all'inizio pieno di nemici e alla ricerca di sostenitori , è ora appoggiato e garantito da una infinità di amici potenti e non ha più nessuno in grado di minacciarlo. Le condizione ideale per concentrarsi su sé stesso, costruendo nuovi equilibri all'interno del suo popolo e aprendo una fase nuova nei confronti con la comunità araba, all'interno e fuori dai suoi confini.
Ci vorrà molto tempo. Si dovranno superare mille difficoltà. Ma la via è aperta.
(Avanti!, 16 ottobre 2020)
16 ottobre 1943, giorno della razzia nazista dell'ex ghetto ebraico di Roma
di David Spagnoletto
Se il dolore potesse essere identificato con una data, quella per gli ebrei romani sarebbe il 16 ottobre 1943. Una data che da allora è rimasta nella memoria collettiva di una Comunità che non vuole o non può dimenticare il dolore di quella mattina, quando più di mille persone dell'ex ghetto vennero rastrellate dai nazisti, dando inizio a un calvario che poi diventerà l'inferno.
Era l'alba di sabato, poche ore dopo la cena del venerdì che vede(va) riunita ogni famiglia ebraica per continuare tradizioni e liturgie che cementano da secoli il popolo d'Israele. Non un giorno qualsiasi, ma quello più sacro per gli ebrei: lo Shabbat.
I comandanti delle SS avevano dato ordine ai loro aguzzini di non sbagliare, la razzia non poteva essere sommaria e tutto si sarebbe dovuto svolgere in breve tempo. La scientificità dell'operazione mischiata alla barbara ferocia avevano fatto scattare tutto proprio quel giorno, per strappare dalle proprie case più gente possibile.
Senza distinzioni: uomini, donne, bambini, anziani. Non è una litania per scadenzare il dolore, ma un modo per ricordare legami spezzati, affetti non più manifestabili per famiglie ebraiche intere, che vennero individuate grazie agli elenchi stilati cinque anni prima dalle leggi razziali. Gli elenchi per il popolo ebraico sono come fantasmi, prima o poi ritornano. E quando lo fanno, la loro potenza è dirompente.
Era il 16 ottobre 1943: giorno della deportazione degli ebrei romani. Un mese prima l'Italia aveva firmato l'armistizio e pochi giorno dopo la Germania nazista aveva occupato Roma, tenuta sotto il comando del tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, a cui Heinrich Himmler, teorico della "soluzione finale" aveva fatto recapitare questo messaggio:
"I recenti avvenimenti italiani impongono una immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich".
Passarono pochi giorni e la personificazione del male fece pervenire un telegramma segreto e strettamente riservato al colonnello Kappler in cui vennero spazzate via le possibili ambiguità del messaggio precedente:
"Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell'impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa".
La sorte per gli ebrei romani era segnata. Non c'era più scampo, anche se i nazisti avevano fatto credere il contrario con il baratto: la salvezza in cambio di 50 kg d'oro. I 50 kg d'oro vennero racimolati dalla Comunità ebraica e consegnati alle SS per trovare la salvezza promessa e mai divenuta realtà.
Era il 28 settembre 1943: 18 giorni prima della deportazione degli ebrei romani. La disumanità nazista aveva già deciso la deportazione degli ebrei romani. Come se non bastasse, venne dato loro l'illusione dell'incolumità che iniziò a vacillare quando Kappler diede l'ordine di saccheggiare le due biblioteche della Comunità ebraica e del Collegio rabbinico, strappando materiale di inestimabile valore culturale ai legittimi proprietari per caricarli su due vagoni ferroviari diretti in Germania. Era il 14 ottobre 1943: 2 giorni prima della deportazione degli ebrei romani.
Allo scoccare delle 5,30 iniziò il rastrellamento dell'ex ghetto ebraico di Roma. 1024 persone vennero strappate dalle proprie case e messe nei camion militari coperti da teloni e trasportati provvisoriamente presso il Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara. Era il 16 ottobre 1943: il giorno della deportazione degli ebrei romani.
La prima tappa dell'Inferno. In seguito i deportati furono trasferiti alla stazione ferroviaria Tiburtina e caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame. Era la seconda tappa dell'Inferno.
Il 16 ottobre 1943 non è solamente una data per gli ebrei romani; è quell'insieme di sentimenti, di amore, di angoscia, di paura, di dolore, entrato a far parte del DNA della Comunità ebraica di Roma.
È una data che da allora viene tramandata alle nuove generazioni come simbolo di un antisemitismo cieco e feroce.
(Progetto Dreyfus, 16 ottobre 2020)
Vent'anni fa l'intifada cambiò tutto
Ma per tanti osservatori stranieri è storia antica e da dimenticare
Il mondo dell'autunno 2000 sembra assai più remoto di 20 anni fa: era prima del covid-19, prima che ci fosse l'idea di un presidente Donald Trump o Barack Obama, prima di Facebook e Twitter, prima di una grande recessione, prima dell'11 settembre e delle guerre in Afghanistan e Iraq, in Siria e Libia. I primi due movimentati decenni del XXI secolo sono stati pieni di eventi che sembrano aver cambiato tutto.
Uno tra i più significativi, almeno per quanto riguarda il Medio Oriente e la diplomazia internazionale, è la "seconda intifada", scoppiata negli ultimi giorni del mese di settembre 2000 e continuata fino agli inizi del 2005. Eppure, benché "l'intifada delle stragi suicide" abbia trasformato radicalmente il modo in cui la stragrande maggioranza degli israeliani guarda al processo di pace, le sue conseguenze non sembra che abbiano mai fatto una grande impressione sulla maggior parte degli osservatori stranieri, tra cui anche molti ebrei americani, né sull'establishment della politica estera americana e occidentale, né sul grosso della stampa internazionale: tutti ancora in gran parte aggrappati alla mentalità pre-intifada, tutti ambienti che hanno largamente dimenticato cosa accadde in quegli anni e il suo significato, ammesso e non concesso che l'abbiano mai effettivamente visto e capito....
(israele.net, 16 ottobre 2020)
Gli ebrei di Rodi una comunità dissolta dalla guerra
Nel nuovo romanzo di Marco Di Porto
di Maria Pia Scaltrito
E' una scrittura leggera. Pare uscita dalle scene di un sogno avvolto di stupore e incantamento. L'ultimo libro di Marco Di Porto, Una voce sottile (Giuntina, pagg. 180, euro 15,00) rapisce. L'autore, giornalista presso l'Ucei e redattore della rubrica di cultura ebraica di Rai 2 Sorgente di Vita, ha già pubblicato la raccolta di racconti Kaddish 95 e altre storie (Pequod, 2,007)e il romanzo Nessuna notte è infinita (Lantana, 2012). Potrebbero essere pagine di un nuovo romanzo. Ma c'è dell'altro. E il lettore lo scopre piano, dopo aver viaggiato dal Mediterraneo all'Europa, da Parigi a Buenos Aires passando per Roma, prima di planare a distanza di vari decenni sulla spiaggia di Tel Aviv. A volte, un dialogo pare scaturito da Spinoza, un passaggio dalla Arendt o dalle pagine dei grandi pensatori e storici del Novecento. A volte ti prende l'angoscia e la rabbia, ma poi una sorta di dolcezza amara ti spinge ad andare avanti.
Colpa forse di quello strano momento, fin nell'incipit, che pare voler accompagnare il lettore in storie che sostano nel sogno. Quando l'autore, ragazzino di otto anni, vede le cose cominciare a farsi luminose e lui sciogliersi e far parte di quella luce appagante. Una carezza divina, un soffio di luce venuto dal fondo dell'universo e lì subito rientrata. E dopo eccoti approdare sull'isola di Rodi, l'isola del sole, con quell'antico nome, rodhon, che vuol dire rosa. Vedi un quartiere ebraico addossato al porto, fatto di vicoli e casette basse, di sinagoghe e angoli fioriti, di una lingua antica, lo judeo-espanol, condito di imprecazioni.
Il racconto si srotola. Il lettore si trova immerso nell'onda calda del mare, nella dolcezza del vento e per giunta in una città antica. Celebre dall'antichità, con quel Colosso a indicare il porto sicuro ai marinai, dove i turchi musulmani, i greci cristiani e gli ebrei convivevano da secoli. Fin da quando questi ultimi avevano lasciato la Spagna matrigna a fine Quattrocento. Poi ecco sorgere tra le pagine quiete il personaggio principale delle pagine, Solly, il nonno dell'autore. Lo vediamo giovane ventenne entrare nella libreria dove lavora, tuffarsi sui libri, correre a casa attraversando minareti e palazzi monumentali, il mercato grande e colorato del bazar, fra gli odori di spezie e il vocio del carchi viejo. Che vita tranquilla, magari felice, perché no, che si annuncia per Solly. I suoi occhi indugiano sui seni floridi di una donna matura. Tremano guardando gli occhi colore della terra fertile di Rachel, la prima ragazza che lo avvolge.
Peccato che sia il 1938. E Rodi non appartiene più alla Turchia. Dagli anni Venti è una provincia italiana. Solly si accorge in fretta che l'Italia non ha esportato solo strade, scuole, alberghi. Sull'isola sono arrivati pure quei fascisti che hanno il culto della sopraffazione e sono dei grandi ignoranti. Da qualche mese anche a Rodi si andava leggendo che gli italiani sono di razza ariana da millenni e che gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Nelle pagine si affollano i personaggi. Giorgio Cutrera ha il culto di Mussolini: brutta gente, pensava, quegli ebrei di Rodi. Doveva smascherarli per quelli che erano, serpi in seno all'Italia di Mussolini. Però ancora qualcosa non gli tornava. Gli ebrei italiani avevano nomi italiani, erano ben integrati. Ma quel giornalista amico del Duce, Giovanni Preziosi, scriveva che volevano dominare il mondo erano disonesti, rapaci, pericolosi. Avevano inventato il comunismo, ma erano pure i principali animatori del capitalismo. Quando Giorgio Cutrera arriverà in guerra, quando la sua mano e il suo occhio gli saranno strappati dalla guerra del Duce in Africa, allora comincerà a vedere. E Judith proprio quella mattina aveva portato a scuola i dolcetti al miele per la sua maestra. Non sapeva ancora che la Signora maestra si era data per malata per non dover annunciare ai suoi alunni che per cinque di essi sarebbe stato l'ultimo giorno di scuola. Ma come si può prendersela con dei bambini, pensa la direttrice, imprecando contro il regime.
Entrano nuovi personaggi. Il racconto è dialogico, pulito, tagliato a cristallo. La drammaturgia cresce. Le pagine si tingono di storia. Di una guerra che corrompe anche questa isola buttata nell'Egeo ad un passo dalla Turchia. Con quei 60.000 italiani traditi in un solo giorno da 8.000 tedeschi. Ma quale onore: era solo nella testa del comandante italiano quando nel 1943 giunge il proclama Badoglio. La guerra non conosce gentiluomini. Figuriamoci i tedeschi che eseguono gli ordini e basta. Calma. Sono solo gli ordini. Se eseguite gli ordini non vi succederà niente. Ecco: il tranquillo svolgimento delle operazioni fa parte della strategia. L'altra parte della strategia ha una parola: l'inganno. L'inganno come tecnica omicida. L'inganno freddamente calcolato. Anche ad un passo dallo schianto del regime nazista. Che ne sarà di Solly? E quali sono i frutti di quella ferocia dopo le passage des barbares? Se questo piccolo libro ti lascia il piacere di dirne e pagine che saranno lette da altri, forse sono le vite felici di quegli antichi abitanti di Rodi ad aver vinto la battaglia.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 ottobre 2020)
La prima sukkah di Meirav in Israele
Storia di vita ispiratrice, di cui Shavei Israel è orgoglioso di far parte.
Meirav è messicana. Nata in una famiglia tradizionale, entrambi i genitori erano insegnanti, e aveva una vita confortevole. Una vita di "telenovela", come dice con tono giocoso.
Nel 2001, all'età di 21 anni, era una studentessa universitaria, ha girato l'Europa con un amico e ha finito per visitare un Kibbutz in Israele, dove ha incontrato e si è innamorata di un giovane kibbutznik non religioso di origine argentina. A quel tempo Meirav non lo sapeva, ma questo fu l'inizio di una grande avventura, un grande viaggio verso la scoperta della spiritualità.
Nel corso del tempo (sì, questo soggiorno in Israele è finito per durare dieci mesi invece dei tre inizialmente previsti), il rapporto tra Meirav e il giovane ragazzo è diventato serio, fino a quando Meirav è stata introdotta a tutta la famiglia, con la quale ha sviluppato una grande amicizia che dura fino ad oggi. Poiché provenivano tutti da impostazioni non religiose, nessuno temeva che Meirav non sarebbe stata ebrea.
Ma Meirav cominciò ad avvicinarsi sempre di più all'ebraismo, e si sentiva sempre più che era il suo modo....