Notizie 1-15 ottobre 2024
“Ai giornalisti non interessa sapere che cosa succede per davvero in Medio Oriente”
La voce forte di Angelica Calò dopo le vicende Unifil
«Qui a nessuno importa della verità, delle prove. A nessuno interessa sapere che cosa succede per davvero in Medio Oriente». A dirlo in un video è Angelica Edna Calò una delle italiane che più si spende per fare controinformazione sulla situazione israeliana. In merito ai recenti avvenimenti, lei che da anni vive in Israele al confine con il Libano, presso il kibbutz Sasa, ha detto: «I titoli dei giornali sono indirizzati affinché tutte le persone, che leggono i quotidiani, che guardano la televisione, credano che il vero mostro, che il vero responsabile di tutto è Israele».
• L'UNIFIL NON PUÒ NON ESSERE A CONOSCENZA DEI TUNNEL SCAVATI IN LIBANO In particolare, nell’ultimo video ha voluto fare chiarezza sull’episodio, riportato da numerosi quotidiani e siti d’informazione, dove hanno accusato Israele di attaccare l’Unifil – United Nations Peacekeeping. Quello che è stato omesso infatti è che a pochi metri non di una, ma di diverse basi Unifil in Libano, sono stati trovati dei tunnel profondi 20 metri. «Scavare un tunnel in Libano non è facile, perché il terreno è fatto, come in Galilea, di roccia. Quindi, come io ho sentito da casa mia il tremolio di questi scavi, di sicuro anche i soldati dell’Unifil devono averlo sentito».
Un altro punto messo in risalto da Calò è riguardo al ruolo che dovrebbe essere svolto proprio dai soldati dell’Unifil, ovvero quello di essere un cuscinetto di pace tra il Libano, gli Hezbollah e Israele. Inoltre, Israele ha chiesto a tutti di allontanarsi per distruggere, per far esplodere questi tunnel, le cui dimensioni sono così grandi da fare passare dei camion di grandi dimensioni. «Questo è il motivo. Israele non ha bombardato le torrette o i capisaldi dell’Unifil».
• STAVANO PREPARANO UN ALTRO 7 OTTOBRE, MA MOLTO PIÙ GRANDE I camion come ormai sappiamo sono utilizzati per trasportare i missili, ma questi tunnel servono anche ad altro. L’abbiamo già potuto constatare del terribile pogrom del 7 ottobre. «L’idea era di utilizzare tutti questi tunnel, che sbucano ad appena un chilometro da casa mia, ma anche di altre abitazioni e località qui vicine, per entrare direttamente nel centro delle nostre case». Quindi di entrare in Israele illegalmente dal Libano con scopi terroristici. Com’è possibile che l’Unifil non si sia accorta di nulla?
«Ora Israele deve far saltare questi tunnel, perché il loro scopo è di entrare in Galilea e fare esattamente quello che è stato fatto il 7 ottobre da Gaza, dove sono state decapitate bambine, bruciate persone, stuprate, dove la gente è morta mentre dormiva nella propria casa». Infatti, l’IDF ha scoperto in Libano un centro di comando sotterraneo dove i terroristi di Hezbollah pianificavano di conquistare il Nord di Israele. Come si legge da un post su Instagram di Maurizio Molinari, in un bunker sono state trovate armi e motociclette per pianificare un’invasione terroristica dal Libano in Israele, ancora più ampia di quella pianificata durante il 7 ottobre da Gaza: “Una delle più grandi strutture di comando sinora scoperte dall’Idf, a cui si accede attraverso il soggiorno di una casa privata in un villaggio sciita”.
• ARRIVERANNO ANCHE IN EUROPA, NELL'OCCIDENTE Angelica Calò parla di prove concrete e di fatti realmente accaduti e documentati. Rivolgendosi alla grande maggioranza dei media, tranne pochi esclusi, aggiunge: «Ai giornalisti le prove non importano. Fanno quello che gli viene detto o probabilmente sono minacciati per non dire le verità, magari alcuni vengono pagati per non dirla». Ricorda poi l’indifferenza verso il drone recentemente entrato in un palazzo che trasportava 300 chili di esplosivo, che ha ucciso 4 persone e ferito 70.
«Questo non viene detto. Come mai? Perché sono ebrei, perché sono israeliani. Cari amici, arrivati a questo punto, noi che abbiamo sempre voluto la pace, vi ripetiamo un’altra volta che con i terroristi la pace non si fa, che con chi è subdolo e manda in giro menzogne la pace non si può fare. Conviene che cominciate a prepararvi anche voi, perché se non lo capite, questo è un nulla che avanza e vi fagociterà».
(Bet Magazine Mosaico, 15 ottobre 2024)
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Dio sta risvegliando il suo popolo! Il 7 ottobre è stato sufficiente?
Nel corso dell'anno abbiamo osservato che gli israeliani credono sempre più in Dio, anche se non si rivolgono ancora a Lui e lo invocano. Dall'impiegato laico all'anziano signore del parco che ha già visto tutto, qualcosa è cambiato per loro.
di Ryan Jones
Ma non è ancora così per tutti. Alcuni continuano a rivolgersi ad altri metodi e poteri che Dio ha definito abominevoli (Deuteronomio 18:9-14). Penso a un conoscente che ha consultato una veggente per sapere quando l'Iran avrebbe attaccato. Il 7 ottobre 2023 ha dimostrato che abbiamo bisogno di Dio. Ma cosa ci vuole ancora per riportare a Lui non solo le menti ma anche i cuori dell'intera nazione? Non ci siamo ancora, come dimostra il rapido ritorno alla divisione interna degli ultimi mesi. • IL PIANO DI DIO Dio ha un piano per questo Paese. Se questo piano andrà a buon fine e quanto durerà dipende in gran parte dal popolo d'Israele. Come deciderà di affrontare la volontà di Dio? Da quando Giosuè guidò i figli di Israele attraverso il Giordano e sulle colline di Ebal e Gerizim li pose davanti a una scelta, la questione non è cambiata. Se avessero seguito la strada indicata nella Parola di Dio, avrebbero vissuto in pace e prosperità. Se avessero deviato da questo percorso, avrebbero affrontato difficoltà e alla fine sarebbero andati in esilio. Indipendentemente da come Israele vorrà vivere, la Parola di Dio si compirà. E si compirà attraverso questo popolo. E questo significa che Israele, a un certo punto, sarà scosso. Deve allontanarsi dalla sua apostasia. Questo è già successo diverse volte nel corso della sua storia. E sembra che stia accadendo di nuovo oggi. Nel periodo frenetico successivo alla Guerra dei Sei Giorni, Israele era sicuro della potenza delle sue forze armate. La tragedia della Guerra dello Yom Kippur ha imposto una correzione. Negli ultimi decenni, Israele si è compiaciuto della sua forza e della sua prosperità. Peggio ancora, le persone hanno iniziato a rivoltarsi l'una contro l'altra e la guerra civile era quasi nell'aria. La disunione tra il popolo ha portato più di una volta alla rovina dell'Israele nazionale. Il piano di Dio prevede che il popolo si riunisca in unità. Perciò sarà scosso. Lo scuotimento è ormai completo, o abbiamo sperimentato solo le prime scosse? • IL TERZO TEMPIO Personalmente credo che le Scritture dicano chiaramente che Israele non cadrà di nuovo e non andrà in esilio. Il “Terzo Tempio” - un termine che gli israeliani usano già in riferimento alla terza esistenza sovrana di Israele come Stato nazionale - è l'ultimo tempio. I profeti accennano anche al fatto che il Signore intende riportare il suo popolo a sé stesso in modo più delicato che in passato. Ma la delicatezza del pungolo dipende dalla testardaggine del bambino. E Israele può essere piuttosto testardo, il che fa temere che ci aspettino giorni più intensi. Tuttavia, non bisogna commettere errori: Israele è sulla soglia del suo futuro glorioso profetizzato, un futuro che è veramente di glorificazione di Lui. E le Scritture chiariscono abbondantemente una cosa: le nazioni che oggi scherniscono, deridono, condannano e minacciano Israele, allora si pentiranno di averlo fatto. Nel frattempo, preghiamo con fervore affinché il popolo d'Israele rinsavisca, metta da parte le lotte fratricide e si rivolga a Dio per ottenere la liberazione. Non la troveranno da nessun'altra parte e prima se ne renderanno conto, meno dolore dovranno sopportare. Non è forse questo il messaggio dell'esodo prolungato dall'Egitto? Il piano originale di Dio era di condurli direttamente alla Terra Promessa. Ma a causa di litigi e dubbi sulla capacità del Signore, il popolo d'Israele dovette vagare nel deserto per 40 anni, sopportare incredibili privazioni e caricare i propri figli di una campagna di guerra contro i Cananei. Da allora non è cambiato molto. Speriamo e preghiamo che le cose cambino presto.
(Israel Heute, 16 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’autore è interessato a Dio e alle Scritture, ma non fa alcun riferimento al Messia, indipendentemente dal fatto se sia giù venuto o debba ancora venire. Quanto alle profezie, è certamente vero che le nazioni nemiche si pentiranno di quello che hanno detto è fatto contro Israele (Isaia 60:12-14), ma è proprio vero che “I profeti accennano al fatto che il Signore intende riportare il suo popolo a sé stesso in modo più delicato che in passato”? Più delicato? Nel profetico “giorno dell’Eterno”, quando i popoli “cingeranno d’assedio Gerusalemme”, sta scritto che il Signore distruggerà quelle nazioni, ma quanto agli abitanti della città avverrà che i due terzi saranno sterminati, periranno, e l’altro terzo sarà messo nel fuoco per essere “affinato come si affina l’argento” e “provato come si prova l’oro”. Ne uscirà purificato, ma il processo di purificazione non sarà proprio “delicato”. Il finale comunque è glorioso. Di Israele l’Eterno dirà: “E’ il mio popolo”; e Israele dirà: “L’Eterno è il mio Dio” (Zaccaria 12-13). M.C.
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Spettatori e giocatori italiani applaudono l'inno israeliano durante la partita Italia-Israele
Prima della partita è stata organizzata una manifestazione anti-israeliana a Udine, dove si svolgeva l'incontro, ma non ha avuto l'impatto desiderato.
Un inaspettato momento di solidarietà si è verificato durante la partita tra Israele e Italia di lunedì sera. Mentre veniva suonato l'inno nazionale israeliano, l'“Hatikvah”, gran parte del pubblico italiano si è alzato in piedi e ha applaudito, in risposta ai fischi provenienti dagli spalti. Il gesto più significativo è stato quello di tre giocatori della squadra italiana: Federico Dimarco, Giacomo Raspadori e Matteo Retegui, che sono stati ripresi mentre applaudivano durante l'inno israeliano. La scena è stata ripresa e ampiamente condivisa sui social network.
“Israele sta attraversando un anno molto difficile, ottenendo di tanto in tanto un toccante sostegno da tutto il mondo, e stasera (lunedì) è stato uno di quei momenti”, ha commentato un giornalista sportivo locale. Gli applausi del pubblico e dei giocatori italiani sono arrivati in risposta ai fischi di disapprovazione che si sono sentiti in alcuni settori dello stadio.
Prima dell'incontro era stata organizzata una manifestazione anti-israeliana a Udine, dove si svolgeva la partita, ma non ha raggiunto le dimensioni previste. Nonostante l'annunciato coinvolgimento di 43 organizzazioni, in Piazza Repubblica si sono radunate solo circa 400 persone, tra cui 250 manifestanti attivi.
La manifestazione, composta principalmente da comunisti italiani e da una minoranza di musulmani, non ha suscitato l'entusiasmo sperato. Un osservatore ha osservato: “Il pubblico non era molto entusiasta quando qualcuno trasmetteva canzoni indipendentiste palestinesi con gli altoparlanti”.
(i24, 15 ottobre 2024)
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In attesa dello scontro con l’Iran, la montatura propagandistica intorno a Unifil
di Ugo Volli
• UNA NUOVA FASE La guerra multifronte che Israele è costretto ad affrontare da più di un anno per la propria sopravvivenza sta entrando in una quarta fase e questo rende la situazione molto complessa, dando talvolta anche l’impressione di una difficoltà militare e di decisione. Bisogna ricapitolare i fatti, per capire meglio. In un primo momento dopo il 7 ottobre, le forze armate israeliane dovettero eliminare gli invasori che avevano fatto strage e riorganizzarsi per la conquista terrestre di Gaza, un’ipotesi strategica che non era stata prevista dai piani dello Stato Maggiore.
• LA CONQUISTA DI GAZA Dopo tre settimane, il 28 ottobre, inizia la seconda fase dell’operazione di terra, che procede da nord a sud piuttosto lentamente, sia per la difficoltà dei combattimenti in un terreno fittamente urbanizzato dove i terroristi sono annidati in fortificazioni sotterranee, spesso collocate sotto ospedali, moschee, scuole, edifici dell’UNRWA, sia per la resistenza americana che blocca per esempio per un paio di mesi la fase finale e decisiva della conquista di Rafah e del corridoio “Filadelfia” al confine dell’Egitto. La campagna non si propone di occupare tutto il territorio, ma di distruggere le forze organizzate del nemico. Questo scopo è conseguito circa un mese e mezzo fa: anche se i terroristi detengono ancora un centinaio di israeliani rapiti e il loro capo Yahya Sinwar è ancora libero e in vita, la guerra a Gaza non deve contrastare più forze organizzate, ma piccole unità di guerriglia e non richiede più l’impiego permanente di grandi reparti israeliani.
• LA GUERRA CON HEZBOLLAH Si può aprire così la terza fase della guerra, quella che riguarda Hezbollah, il quale era entrato in combattimento con Israele già l’8 ottobre, bombardando le città e le basi del nord di Israele. A partire da un mese fa, le forze armate israeliane avevano raggruppato e allenato unità sufficienti per fare i conti con questa minaccia, molto più grave di Hamas per il numero delle sue truppe, l’armamento missilistico sofisticato e anche per la natura del terreno montagnoso del Libano meridionale. Israele l’ha fatto con una serie di colpi audaci e imprevisti: la decimazione dei quadri con i cercapersone esplosivi, i bombardamenti che sono riusciti ad eliminare il loro leader Nasrallah e buona parte della dirigenza militare oltre a molti depositi di armi e missili, l’ingresso di forze dei terra nella zona controllata da Hezbollah oltreconfine, eseguito non nella forma di un’invasione tradizionale che mira alla capitale, com’era accaduto nelle due precedenti guerre del Libano, ma di operazioni aereo-terrestri mirate di antiguerriglia e di distruzione delle istallazioni. Il successo è stato grande e inaspettato, probabilmente distruggendo due terzi del potenziale militare dell’organizzazione terroristica. Ma non bisogna farsi illusioni, quel che resta è grande abbastanza per creare gravi danni; la distruzione dei comandi e delle capacità di comunicazione interna dei reparti militari è stata in qualche modo rimediata, grazie anche all’intervento del grande burattinaio del terrorismo contro Israele, l’Iran. Così è accaduto che siano ripresi con energia i bombardamenti contro il nord di Israele e che vi sia stato anche un grave danno, quando un drone ha colpito l’altro ieri il refettorio di una base militare israeliana, provocando quattro morti e circa sessanta feriti.
• LA QUARTA FASE: LO SCONTRO DIRETTO CON L’IRAN Nel frattempo, l’Iran è di nuovo intervenuto direttamente in guerra, due settimane fa, con un bombardamento massiccio di Israele, il secondo dopo quello di aprile. Questo però, a differenza del primo, ha provocato danni diffusi ed è convinzione generale che Israele non darà una risposta quasi solo simbolica come avvenne l’altra volta, ma potrà attaccare luoghi molto sensibili: le istallazioni nucleari, quelle petrolifere o in generale quelle militari. Sugli obiettivi dell’attacco c’è stato un dibattito interno al governo israeliano ma soprattutto una trattativa con l’amministrazione Biden, che come sempre ha cercato di frenare l’azione israeliana. Israele però non può prescinderne, sia per ragioni politiche e diplomatiche generali, sia per il bisogno di rifornimenti di armi e munizioni, sia perché nella fase offensiva e poi nella difesa dall’inevitabile controreazione iraniana combattere senza gli Usa sarebbe molto difficile. Un accordo ormai sembra raggiunto e si aspetta solo il momento in cui avverrà lo scontro diretto e probabilmente molto pesante e continuo con l’Iran: la fase decisiva della guerra.
• UNIFIL È in questo momento di sospensione che è emerso, non a caso per opera di nemici europei di Israele come Spagna e Irlanda, la questione Unifil: un’operazione di disturbo e propaganda analoga a quella che nella seconda fase era stato il finto scandalo dell’ospedale Al-Ahli al-Arabi che i sostenitori di Hamas avevano preteso Israele avesse bombardato il 18 ottobre 2023 – e invece era stato un loro missile caduto prematuramente. In realtà la questione è semplice. Unifil ha basi sparse nel territorio dei combattimenti fra Israele e Hezbollah nel Libano meridionale. È una forza internazionale messa lì per accertarsi che fosse rispettata la risoluzione Onu con cui si era conclusa la seconda guerra del Libano, in particolare il ritiro di tutte le forze armate che non fossero l’esercito libanese (in sostanza Hezbollah) a nord del fiume Litani, una dozzina di chilometri al nord della frontiera. Non l’ha mai fatto. C’è chi dice che la colpa è delle regole di ingaggio che le impediscono di intervenire direttamente; il suo compito sarebbe osservare e riferire. Ma neanche questo ha mai fatto: Israele ha documentato abbondantemente che le istallazioni terroristiche (tunnel di attacco, lanciamissili, depositi di armi, fortificazioni) sorgono proprio accanto alle basi Unifil e probabilmente si scoprirà che sono anche al loro interno o nei loro sotterranei. Ma Unifil non ha neppure mai denunciato e documentato dettagliatamente queste violazioni. Si è fatta anche vessare, rapinare e sparare addosso da Hezbollah senza reagire né protestare. È servita come istanza di trattative per risolvere piccoli incidenti fra Israele e Libano, ma non si capisce perché ci sia bisogno di 10.000 soldati per questo compito.
• GLI INCIDENTI Dopo che è scoppiata la guerra, Israele ha chiesto che i militari Onu si ritirassero per non colpirli. Non l’hanno fatto, proteggendo di fatto i terroristi annidati vicino e hanno anche rifiutato di spegnere alcuni impianti di osservazione televisiva e di illuminazione che erano sfruttati da Hezbollah. Vi è stato qualche incidente minore, quando i bombardamenti israeliani hanno colpito questi impianti o schegge di proiettili indirizzati ai terroristi hanno ferito un paio di soldati Unifil. Ma si tratta di episodi militarmente di poca portata, non certo di “aggressioni” israeliane dirette, che avrebbero avuto ben altro costo di vite. Tutta la questione Unifil è una montatura propagandistica contro Israele. In attesa della quarta fase della guerra, quella decisiva con l’Iran, che si aprirà fra qualche giorno, o fra qualche ora.
(Shalom, 15 ottobre 2024)
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Guterres è più disarmante della risoluzione 1701 e delle azioni di Unifil su Hezbollah
di Giulio Meotti
Quando dalle zone in teoria sotto controllo di Unifil domenica sera Hezbollah ha lanciato un drone suicida contro una base militare israeliana a Binyamina, vicino Haifa, uccidendo quattro soldati israeliani, Guterres non ha fiatato.
L’attacco missilistico iraniano su Israele non ha lasciato indifferente Guterres. Ha espresso preoccupazione per l’escalation e chiesto un cessate il fuoco, ma ha “dimenticato” di dire che l’Iran è l’aggressore e Israele l’aggredito.
Una persona che si informasse tramite le dichiarazioni di Guterres si convincerebbe che gli ebrei sono l’origine della guerra, che Israele è l’asse del male e l’Iran è una nazione amante della pace che sostiene la legittima lotta dei palestinesi. “Israele sta conducendo una crudele campagna militare”, ha detto Guterres sul Libano. Non si è preoccupato di citare l’organizzazione terroristica che da un anno lancia missili su Israele dalle vicinanze delle basi Onu.
A proposito delle esplosioni dei cercapersone di Hezbollah, Guterres aveva chiesto di “non trasformare gli oggetti civili in armi”. Di Hezbollah che trasforma i Caschi blu in scudi umani, non una parola. Il segretario dell’Onu non è riuscito a dire “Hezbollah” neanche quando a luglio lanciarono un missile sul campo da calcio di Majdal Shams, nel Golan israeliano, uccidendo dodici bambini.
Le dichiarazioni rilasciate dal segretario sono ormai più prevedibili degli attacchi di Hezbollah. Guterres ha detto di essere “profondamente preoccupato per l’aumento degli scambi di fuoco attraverso la Blue Line. Queste azioni minacciano la stabilità regionale”. Il segretario ha chiesto “un’immediata deescalation e di attuare la risoluzione 1701”.
La dichiarazione è stata più disarmante delle azioni dell’Onu contro Hezbollah. La risoluzione 1701, raggiunta alla fine della Seconda guerra del Libano, imponeva che l’area a sud del fiume Litani (vicino al confine con Israele) fosse “libera da personale armato diverso da quelli del governo del Libano”.
Il segretario ha un vecchio debole per la Repubblica islamica, piangendone con bandiere a mezz’asta il defunto presidente Raisi, dandole un posto nel Consiglio per i diritti umani e consentendole di essere eletta nel Comitato Onu per il disarmo e la sicurezza. Il profilo Twitter/X di Guterres è in silenzio radio sulla raffica di missili di Hezbollah da un anno.
Ma Guterres ha affermato che i missili iraniani sono stati lanciati verso “Israele e i territori palestinesi occupati”, togliendo persino a Israele il diritto di essere una vittima. I missili iraniani erano diretti verso gli israeliani e se alcuni sono caduti a Gerico, uccidendo un palestinese, non erano i palestinesi a essere attaccati. Guterres, che è stato candidato al premio Nobel per la Pace, ha cercato di sembrare l’adulto responsabile: “Questi attacchi, paradossalmente, non fanno nulla per sostenere la lotta del popolo palestinese o alleviare le sue sofferenze”. Ecco una delle strane logiche di Guterres, l’ultima persona al mondo che sembra credere ancora che i palestinesi interessino agli iraniani: la violenza contro Israele non aiuta i palestinesi. Come se la guerra contro Israele fosse buona se aiuta i palestinesi.
E’ un miracolo che Guterres non sia stato scoperto come nuovo segretario di Hezbollah. Nel frattempo, da una settimana è persona non grata in Israele, primo segretario generale a non potervi mettere piede. E forse con un certo orgoglio.
Il Foglio, 15 ottobre 2024)
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Impasse Unifil: regole da rifare? L'Onu non è in grado di riscriverle
Per rivedere gìì obiettivi del contingente affinché possa fronteggiare Hezbollah servirebbe l'ok (impossibile) del Consiglio di sicurezza. L'alternativa resta il ritiro. Ue: «Grave preoccupazione». Borrell: «Troppo lenti»
di Stefano Piazza
Nel giorno della diffusione di una serie di video che mostrano un tunnel sotterraneo di Hezbollah a circa 150 metri dalle torrette dalla base Unifil - oggetto degli scontri degli scorsi giorni- è sempre più evidente che la missione dell'Onu non è stata in grado di ottemperare alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, adottata l'n agosto 2006. Questo tunnel è uno dei tre che le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno mostrato ad alcuni giornalisti negli scorsi giorni. «Così si costruisce un avamposto d'attacco operativo. Ed è quello che abbiamo trovato qui, a soli 300 metri dalla postazione delle Nazioni unite», ha detto un comandante israeliano che accompagnava i giornalisti. Poi l'ufficiale delle Idfha affermato: «Sono tunnel militari che Hezbollah ha costruito qualche anno fa e dove ha portato molte armi come missili anticarro, fucili, equipaggiamento da combattimento personale e infrastrutture militari per attaccare Israele e attraversare il confine. Un'altra cosa che voglio sottolineare è che siamo molto vicini alla base Onu, è a meno di 200 metri da noi». La risoluzione 1701 è stata elaborata con l'obiettivo di prevenire un nuovo conflitto e di tenere Hezbollah lontano dal confine tra Israele e Libano. Il testo della risoluzione richiede la cessazione totale delle ostilità, il rilascio immediato dei soldati israeliani rapiti (mai avvenuto), e il dispiegamento di 15.000 uomini delle truppe internazionali delle Nazioni unite, incaricate di monitorare il confine tra Libano e Israele insieme all'esercito libanese. Al 20 giugno 2023 le forze Unifil presenti nel Libano meridionale ammontavano a 9.516 unità. Abbiamo chiesto al generale Antonio Li Gobbi che nella sua lunga carriera ha partecipato a missioni dell'Onu in Siria e in Israele e della Nato, in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, solo per citarne alcune, un'opinione sulla missione dell'Onu in Libano e sui recenti avvenimenti: «Credo che questa situazione fosse ampiamente prevedibile, forse si sono chiusi gli occhi finora e ora ci si stupisce di qualcosa di cui forse non ci si dovrebbe stupire. Il problema riguardo alla missione Unifil è che, come altre missioni Onu, può funzionare solo a patto che operi tra entità statuali che siano consenzienti e che siano in grado di esercitare un controllo effettivo su tutte parti in causa (e né Libano né Israele controllano gli Hezbollah eterodiretti da Teheran). Ogni volta che si è pensato di poter ampliare il ruolo militare dell'Onu, come ad esempio in Congo nel 1964, si è assistito a un fallimento, perché in campo c'erano anche milizie non statuali, come ora c'è Hezbollah in Libano. C'è un'incapacità strutturale dell'Onu nel gestire operazioni militari, come avvenuto anche in Somalia, dove anche noi italiani abbiamo pagato un tributo di sangue, e ancora peggio in Bosnia, dove non si può dimenticare la vergogna di Srebrenica, e dove poi è dovuta subentrare la Nato con ben diverso mandato, diverse regole d'ingaggio e soprattutto diversa credibilità politica».
Per tornare alla risoluzione 1701, la missione Unifil - nonostante le ripetute promesse di mantenere la stabilità lungo il confine tra Israele e Libano - non ha mai impedito a Hezbollah di rafforzare la sua presenza nell'area, dispiegando forze, tra cui l'unità d'élite Radwan che ha aumentato la pressione sull'Unifil, ostacolandone di continuo le operazioni. Il gruppo libanese ha installato migliaia di razzi e dispiegato miliziani addestrati all'uso che si sono serviti di organizzazioni civili come copertura per le loro attività nel sud del Libano. Tra le violazioni più gravi c'è la costruzione di un tunnel sotto il confine per facilitare l'infiltrazione di militanti in Israele e ha lanciato operazioni terroristiche e provocazioni dal mese di ottobre 2022. Durante il recente conflitto a Gaza, gli attacchi di Hezbollah si sono intensificati, con centinaia di razzi e missili anticarro diretti contro il territorio israeliano. Secondo le stime delle Idf, nel corso dell'ultimo mese circa 25 razzi e missili sono stati lanciati contro le comunità israeliane e le forze di difesa da postazioni terroristiche di Hezbollah, situate nei pressi delle basi
Unifil nel sud del Libano, sfruttando la loro vicinanza alle truppe delle Nazioni Unite. Uno di questi attacchi ha causato la morte di due soldati israeliani. Evidente che si tratti di un gigantesco problema politico così come è chiaro che nessuno vuole dar ragione a Benjamin Netanyahu (da tempo ha chiesto all'Onu «di ritirare i peacekeeper dalle zone dei combattimenti») e uno tra tutti è certamente il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha affermato: «L'Italia e l'Onu non prendono ordini da Israele». Detto questo, il problema resta sul tavolo: e allora come se ne esce? Il ministro degli Esteri Antonio Tajani che ieri era a Berlino, ad una domanda alla stampa italiana sulla modifica delle regole di ingaggio del contingente Unifil in Libano nel caso in cui lo scopo fosse il disarmo dei terroristi ha risposto: «E’ ovvio che, se l'obiettivo è quello da parte delle Nazioni unite, le attuali regole di ingaggio non vanno bene perché non hanno neanche l'armamento adatto per imporre delle decisioni di questo tipo. Sono le Nazioni unite che devono scegliere». Anche l'Unione europea ha espresso «grave preoccupazione per la recente escalation lungo la Linea Blu» e condannato «tutti gli attacchi contro le missioni Onu», esprimendo «particolare preoccupazione per gli attacchi delle forze di difesa israeliane contro le forze Unifil, che hanno causato il ferimento di diversi peace-keeper». Il tutto dopo 4 giorni, suscitando le ire dell'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, che ha affermato: «Ci è voluto troppo tempo per dire qualcosa più che evidente, ossia che è inaccettabile attaccare l'Unifil: avrei voluto che gli Stati membri raggiungessero un'intesa più velocemente». Ma queste dichiarazioni non cambiano il fatto che per cambiare le regole d'ingaggio debba intervenire il Consiglio di sicurezza. Ma questo è praticamente impossibile, dato che si tratta di organismo pachidermico, perennemente ostaggio dei veti incrociati (qui ci sarebbero Russia e Cina). Il cambio delle regole di ingaggio semplicemente non avverrà mai.
(La Verità, 15 ottobre 2024)
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Unifil non ha impedito il riarmo di Hezbollah
Ecco perchè ha fallito
di Stefano Parisi
L’UNIFIL ha fallito la sua missione. L’ONU ha fallito. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la risoluzione 1701 del 2006, istituiva un’area al sud del Libano “priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze UNIFIL”, tra la Linea Blu e il fiume Litani. La stessa risoluzione imponeva un embargo alla vendita di armi in Libano, che non fossero autorizzate dall’esercito regolare libanese. Il Consiglio di Sicurezza ordinava, con quella risoluzione, il disarmo di Hezbollah. Per questo impegnava il Governo del Libano e UNIFIL. Per effetto della risoluzione 1701 Israele si ritirò da quell’area.
Hezbollah, invece, da allora ha moltiplicato esponenzialmente la propria forza militare rivolta contro Israele e ha perseverato nel lancio dei missili. Ha collocato le sue postazioni vicino alle basi operative dei contingenti UNIFIL. Ha costruito basi di lancio, ha potenziato capacità offensiva ricevendo aiuti economici e militari dall’Iran. Hezbollah è un’organizzazione terroristica e criminale. Finanzia la sua attività, oltre che con i soldi della Repubblica Islamica dell’Iran, con il traffico di droga e con il riciclaggio di denaro. In questi 18 anni ha preso in mano il governo del Libano. Ne ha causato il fallimento economico e sociale. Dall’8 di ottobre lancia missili su Israele in sostegno all’azione di Hamas. Più di 9000 missili lanciati che hanno costretto 65.000 israeliani a evacuare abbandonando le proprie case.
L’Iran arma Hezbollah, fornisce alla Russia i droni nella guerra contro l’Ucraina, fa esercitazioni nel Golfo di Oman con Cina e Russia, ha sostenuto, con Hezbollah, i delitti di Bashar al-Assad in Siria, e presiede dal 2023 la Commissione Disarmo e Sicurezza Internazionale dell’ONU. L’Iran sottomette le donne e le condanna a morte se non si adeguano alla sharia, perseguita gli omosessuali e all’ONU presiede il Forum sociale della Commissione per i Diritti Umani. L’ONU ha lasciato che Hezbollah si riarmasse, è stata in silenzio davanti alle aggressioni a Israele, non ha mosso un dito per fermarle. Ha lasciato i contingenti UNIFIL privi di una reale forza di interposizione, in un’area ad altissimo rischio.
Israele, dopo 10 mesi di attacchi missilistici e di minacce avanzate da una organizzazione terroristica che ha come obiettivo la distruzione di Israele e la creazione al suo posto di uno Stato Islamico, deve proteggere la popolazione e distruggere la capacità offensiva di Hezbollah. Lo deve fare per garantire la sicurezza dei propri cittadini e la sua sopravvivenza. Lo deve fare per garantire la nostra libertà. Qualunque leadership democratica occidentale reagirebbe con analoga determinazione a un simile attacco.
Oggi il Governo italiano non può ritirare unilateralmente il proprio contingente dal Libano, ma può porre con forza, in Europa e al Palazzo di Vetro, la questione del fallimento di UNIFIL, il suo ruolo, il suo mandato e la sua collocazione. Lo deve fare per non legittimare Hezbollah e, soprattutto, per quando questa crisi finirà e il Libano dovrà essere ricostruito, finalmente libero da Hezbollah.
(Setteottobre, 15 ottobre 2024)
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Volli: “A Torino il rettore sta con i pro Pal e nega il diritto allo studio”
ROMA - “I corsi universitari sono valutati in crediti formativi rispetto alle ore. E i calendari delle lezioni già di per sé sono stretti, serrati. E’ chiaro che se un anno accademico comincia con un’occupazione è molto probabile che saltino lezioni e quindi i corrispondenti crediti. Ma così gli occupanti non sacrificano solo il loro diritto allo studio, bensì quello di tutti gli studenti”. Il filosofo e semiologo Ugo Volli ha insegnato per decenni all’Università di Torino. Ora che è in pensione non nasconde tutto il suo sconforto per lo stato in cui si trova l’ateneo che per anni è stato casa sua. Dal 7 ottobre i collettivi pro Pal sono tornati a occupare alcuni spazi di Palazzo nuovo, dopo l’occupazione protrattasi per settimane la scorsa primavera. Tanto che una quarantina di docenti ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al rettore Stefano Geuna per chiedere di ripristinare quanto prima la didattica: “Vogliamo fare lezione”, recitava il loro messaggio. “Ho la sensazione che il rettore e il Senato accademico, un po’ per ideologia generale e un po’ per aderenza ai temi anti-israeliani, non vogliano intervenire in maniera fattiva. Anzi, finiscono per appoggiare questi che sono veri e propri atti di prepotenza da parte degli occupanti, che rappresentano una minoranza degli studenti e delle sigle universitarie”, spiega Volli al Foglio. Eppure non sempre l’atteggiamento dell’università di Torino è stato coerente. “Ci sono stati precedenti in cui agli studenti per esempio è stato impedito di manifestare per l’Armenia, dopo la guerra dello scorso anno. C’è quasi la sensazione che la maggioranza che governa attualmente il paese non debba trovare spazio all’interno delle università”, ragiona ancora il filosofo. “E’ in questo cosa c’è di democratico? Assolutamente nulla. Anzi, è una forma di fascismo, con una forma di complicità da parte dei vertici delle università”.
Secondo Volli, a più di un anno dal 7 ottobre i segnali che giungono dai campus, con le nuove ondate di odio antisemita, sono preoccupanti. “Mentre all’inizio una qualche forma di solidarietà la si era registrata, questa vicinanza con l’andare avanti è scomparsa. Pensavo sinceramente di non poter capire quel che è successo ai miei genitori, quando vennero allontanati dalle scuole e dalle università all’epoca delle leggi razziali. E invece quello a cui stiamo assistendo oggi è un consolidarsi dell’indifferenza di massa alla distruzione di uno stato democratico e nell’attribuzione di tutto il peggio a chi condivide una qualche appartenenza etnico-religiosa, come il popolo ebraico”. Il filosofo del linguaggio la violenza verbale l’ha provata sulla sua pelle: “A me è successo che mettessero un manifesto con nome e cognome sulla mia porta, come forma di intimidazione. Ecco perché a un anno dal 7 ottobre il segnale più preoccupante non sono nemmeno queste derive pro Pal, che sono appannaggio solo di alcuni studenti, non certo la maggioranza. E nemmeno le liste di proscrizione come quella dei ‘sionisti d’Italia’ stilata dai nuovi comunisti in cui sono finito anch’io. Il vero problema è l’indifferenza generale”.
Il Foglio, 15 ottobre 2024)
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Israele: cosa sappiamo dell’attacco di droni che ha ucciso quattro soldati
Domenica sera quattro soldati dell’IDF sono stati uccisi e altri 58 sono stati feriti da un attacco di droni di Hezbollah contro una base militare vicino a Binyamina, nel centro-nord di Israele. L’attacco è stato rivendicato da Hezbollah, che ha dichiarato di aver preso di mira una base di addestramento appartenente alla Brigata Golani dell’IDF con uno “sciame di droni”. Il gruppo terroristico libanese ha rivendicato l’attacco mortale come prova della sua capacità di colpire Israele, anche se l’esercito continua a portare avanti le operazioni di terra contro Hezbollah nel sud del Libano. L’impatto del drone è avvenuto poco prima delle 19:00, ha dichiarato l’IDF. I media ebraici hanno riferito che ha colpito una sala da pranzo all’interno della base. I nomi dei quattro soldati uccisi nell’attacco non sono stati immediatamente autorizzati per la pubblicazione. Altri sette soldati sono stati gravemente feriti, secondo l’IDF, e altri 14 hanno riportato ferite moderate. In una dichiarazione rilasciata poco dopo la mezzanotte, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha affermato che le circostanze dell’incidente sono in corso di esame, poiché il drone non ha fatto scattare alcuna sirena di allarme in Israele. “L’IDF ha il pieno controllo operativo sull’incidente”, ha detto Hagari, invitando il pubblico ad astenersi dal diffondere voci sull’attacco mentre i fatti sono ancora in corso di accertamento. “Indagheremo su come un UAV possa fare breccia senza preavviso e colpire una base”, ha detto. Ha aggiunto che Israele ha affrontato la minaccia rappresentata dagli UAV “fin dall’inizio della guerra”. “Siamo tenuti a fornire una protezione migliore”, ha detto. “Indagheremo su questo incidente, impareremo da esso e miglioreremo”. Una prima indagine sull’attacco ha indicato che due droni lanciati da Hezbollah sono entrati nello spazio aereo israeliano dal mare. Entrambi erano droni “Mirsad”, conosciuti in Iran come Ababil-T. Il modello è il principale drone suicida di Hezbollah. Secondo l’Alma Center, un istituto di ricerca israeliano che si occupa delle sfide della sicurezza nel nord del Paese, il drone ha “un raggio d’azione di 120 chilometri, una velocità massima di 370 chilometri all’ora, la capacità di trasportare fino a 40 chilogrammi di esplosivo e la capacità di volare ad altitudini fino a 3.000 metri”. Entrambi sono stati tracciati dai radar israeliani e uno è stato abbattuto al largo della costa a nord di Haifa. Le sirene hanno suonato nella zona occidentale della Galilea. Aerei ed elicotteri dell’IAF hanno inseguito il secondo drone, ma è uscito dai radar e le forze israeliane ne hanno perso le tracce, probabilmente perché volava molto vicino al suolo. Non è suonata alcuna sirena perché si è ipotizzato che si fosse schiantato o fosse stato intercettato una volta scomparso. Il servizio di ambulanze Magen David Adom ha dichiarato di essersi coordinato con le squadre mediche dell’IDF per fornire ai feriti le cure sul luogo dell’attacco prima di trasferirli negli ospedali del Paese. La maggior parte delle ferite sono state causate da schegge, anche se il servizio di ambulanze ha detto di aver trattato anche nove persone per ansia acuta. Le riprese della scena hanno mostrato una fila di ambulanze e un elicottero che arrivavano per evacuare i feriti. La maggior parte dei feriti è stata portata al Centro medico Hillel Yaffe di Hadera per essere curata, mentre altri sono stati evacuati all’ospedale Sheba di Ramat Gan, all’ospedale Ramban di Haifa e al Centro medico Rabin di Petah Tikva. L’attacco di domenica ha fatto seguito all’incidente di venerdì sera, quando un drone proveniente dal Libano ha colpito una casa di riposo nella città centrale di Herzliya. In quell’attacco non ci sono stati feriti. In totale, l’esercito ha dichiarato che domenica più di 115 proiettili sono stati sparati da Hezbollah in territorio israeliano, oltre ai droni, attivando periodicamente le sirene nell’area di Haifa e in tutta la Galilea. Non sono stati riportati feriti in nessuno di questi attacchi. Dopo l’attacco dei droni di domenica sera, Hezbollah ha minacciato Israele di compiere altri attacchi se la sua offensiva in Libano fosse continuata. Hezbollah “promette al nemico che ciò di cui è stato testimone oggi nel sud di Haifa non è nulla in confronto a ciò che lo attende se deciderà di continuare la sua aggressione contro il nostro… popolo”, ha dichiarato. Ha affermato di aver condotto un’operazione “complessa” lanciando decine di missili verso Nahariya e San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, “con l’obiettivo di tenere impegnati i sistemi di difesa israeliani”. I lanci di missili hanno permesso ai droni di “superare i radar di difesa israeliani senza essere rilevati”, ha affermato il gruppo terroristico, aggiungendo che un drone è poi “esploso nella stanza dove erano presenti decine di ufficiali e soldati del nemico israeliano”. Nonostante l’attacco del drone, il Comando del fronte interno ha annunciato domenica sera di aver allentato le sue istruzioni per alcune parti del nord di Israele. Il Golan meridionale è passato da un “livello di attività limitato” a un “livello di attività parziale”. Più a sud, l’area di Afula, il Monte Tabor, la catena montuosa di Gilboa, la Valle di Beit Shean, Megiddo e Yokneam sono passate a un “livello di attività completo con una limitazione di raduni e servizi fino a 2.000 persone”, ha dichiarato l’esercito. Anche la regione di Wadi Ara, dove è stato colpito il drone di Hezbollah, ha ricevuto l’autorizzazione a tornare al livello di piena attività. Non è chiaro come l’attacco del drone possa influire sulle nuove linee guida.
• GALLANT PROMETTE CHE IL CONFINE SETTENTRIONALE RIMARRÀ LIBERO DA HEZBOLLAH Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha promesso domenica che Israele non permetterà mai a Hezbollah di ristabilire la sua presenza lungo il confine con il Libano, mentre visitava l’area domenica. “Si tratta di obiettivi militari che contengono tunnel sotterranei e depositi di armi”, ha detto dei villaggi libanesi vicini. “Le nostre truppe hanno trovato centinaia di RPG, munizioni e missili anticarro. L’IDF sta attualmente distruggendo queste armi sopra e sotto il terreno”. Ha detto di aver “istruito l’IDF a tutti i livelli per assicurare la distruzione di [infrastrutture di attacco] e per assicurare che i terroristi non possano tornare in questi luoghi”. “Questo è essenziale per garantire la sicurezza delle comunità settentrionali di Israele”, ha detto, secondo il suo ufficio, aggiungendo che le operazioni continueranno fino a quando gli obiettivi di Israele non saranno raggiunti.
(Rights Reporter, 14 ottobre 2024)
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Il piano di Netanyahu per il “giorno dopo”
La determinazione dell'amministrazione Biden a far sopravvivere Hamas e quindi a vincere la guerra è alimentata dal desiderio dei suoi alti funzionari di trovare un “equilibrio tra Israele e Iran”.
di Caroline Glick
Quasi subito dopo l'invasione palestinese di Israele guidata da Hamas, il 7 ottobre dello scorso anno, l'amministrazione Biden-Harris ha chiesto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di presentare il suo piano per il “giorno dopo” a Gaza. Netanyahu ha insistito sul fatto che il “day after” avrebbe dovuto attendere la vittoria della guerra. Ma con il passare del tempo, Netanyahu ha iniziato a spiegare i contorni dei suoi piani per il dopoguerra. Questi includevano la de-Hamasificazione di Gaza e il controllo militare israeliano permanente sulla Striscia di Gaza. Poiché l'odio genocida per gli ebrei e l'obiettivo dell'annientamento di Israele sono condivisi da Hamas e dall'Autorità palestinese sostenuta dagli Stati Uniti, Netanyahu ha insistito sul fatto che l'Autorità palestinese non può succedere ad Hamas nell'amministrazione della Striscia di Gaza. Il governo Biden-Harris non era d'accordo con i piani di Netanyahu. Ma dato che per la stragrande maggioranza degli israeliani erano sensati, e dato che l'80% degli americani ha ripetutamente dichiarato ai sondaggisti di sostenere una vittoria israeliana, piuttosto che opporsi a Netanyahu, l'amministrazione ha mantenuto una posizione esteriore di sostegno a Israele. Allo stesso tempo, ha usato la formidabile influenza degli Stati Uniti su Israele per impedire o bloccare la realizzazione di operazioni che avrebbero alterato in modo permanente e fondamentale la realtà strategica sul terreno e consentito l'attuazione dei piani di Netanyahu del “giorno dopo”. La richiesta del governo di un piano “del giorno dopo” non era una richiesta di un piano vero e proprio. L'amministrazione ha chiesto un impegno israeliano a non usare la guerra per alterare in modo sostanziale le condizioni strategiche sul terreno il 6 ottobre 2023. Gli Stati Uniti volevano che queste condizioni, che hanno permesso ad Hamas di costruire il suo esercito genocida, rimanessero in vigore anche dopo la fine della guerra. E volevano che Netanyahu accettasse questa condizione che, se accettata, avrebbe bloccato ogni prospettiva di vittoria israeliana. Dal punto di vista del governo [americano, ndt], l'unico piano accettabile per il “giorno dopo” sarebbe stato quello che riporta l'equilibrio strategico al punto in cui era il 6 ottobre. Gaza sarebbe stato uno Stato palestinese quasi indipendente. Gli Stati Uniti avrebbero sfruttato lo slancio della pressione internazionale e l'umiliazione israeliana per costringere Israele ad accettare la creazione di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea, Samaria e Gerusalemme, in linea con gli obiettivi che sia il vicepresidente Kamala Harris che il presidente Joe Biden e i loro consiglieri hanno ripetutamente delineato. Per questo motivo, gli Stati Uniti si sono opposti all'operazione di terra di Israele a Gaza, hanno sostenuto l'Egitto nell'impedire alla popolazione di Gaza di fuggire da Gaza e cercare rifugio in Egitto o in Paesi terzi, si sono opposti alla presa di controllo di Rafah e del confine con Gaza da parte di Israele, ha ritardato la consegna di armi offensive, tra cui fucili d'assalto, proiettili per carri armati e artiglieria e bombe per l'aviazione, per costringere Israele ad assumere una posizione difensiva, e ha ripetutamente cercato di costringere Israele ad accettare accordi con Hamas per il rilascio di ostaggi che avrebbero accelerato la sua sconfitta strategica nella guerra. Per questo motivo, il governo statunitense ha iniziato a sanzionare i cittadini israeliani che ritiene stiano ostacolando il suo obiettivo di creare uno Stato palestinese a Gaza, Giudea e Samaria. Allo stesso modo, l'amministrazione statunitense ha facilitato la sopravvivenza di Hamas al potere attraverso le sue costanti e incessanti pressioni su Israele affinché permettesse l'ingresso di grandi quantità di merci a Gaza con il pretesto degli “aiuti umanitari”. La prospettiva di uno schiacciamento israeliano di Hamas e di una presa di controllo permanente di Gaza renderebbe Israele “troppo forte”, secondo le parole del Segretario di Stato di Barack Obama, John Kerry. E un Israele “troppo forte” sarebbe un Israele non disposto a “fare la pace”. La determinazione dell'amministrazione statunitense a far sopravvivere Hamas e quindi a vincere la guerra non si basa solo sul sostegno dei suoi alti funzionari alla statualità palestinese. È anche guidata dal suo obiettivo generale di creare un “equilibrio tra Israele” e l'Iran. Questo obiettivo, anch'esso lasciato in eredità alla squadra Biden-Harris da Obama e dal suo team, vede gli sforzi dell'Iran per costruire un arsenale nucleare come giustificati alla luce delle presunte capacità nucleari di Israele. Allo stesso modo, l'ascesa dell'Iran come potenza regionale attraverso i suoi eserciti del terrore che circondano Israele e gli Stati arabi sunniti è auspicabile perché crea un “equilibrio di potere”. Poiché Hamas è un membro dell'asse del terrore iraniano, il rifiuto dell'amministrazione statunitense dell'obiettivo di Israele di sconfiggere Hamas e di cambiare radicalmente il funzionamento di Gaza è coerente con il suo obiettivo strategico generale di preservare l'equilibrio strategico iraniano che esisteva il 6 ottobre nella regione. Già nei primi giorni di mandato, Obama e i suoi colleghi hanno dovuto affrontare una sfida complicata. L'opinione pubblica americana era contraria al loro obiettivo strategico, così come gli alleati dell'America. Per superare questo ostacolo, il team di Obama ha sviluppato una politica su più fronti, basata sul fare una cosa e fingere il contrario. Ad esempio, il governo statunitense ha permesso all'Iran di sviluppare armi nucleari negoziando un accordo che ha etichettato come Trattato di non proliferazione nucleare. Israele, invece, è stato dipinto come un guerrafondaio. Poiché Netanyahu era il più feroce oppositore dei regali nucleari di Obama all'Iran, il team di Obama ha sviluppato una strategia completa per minare gli sforzi di Netanyahu di bloccare le ambizioni nucleari dell'Iran. Gli Stati Uniti hanno di fatto messo le forze armate israeliane in una scatola, rifornendole di sistemi di difesa e costringendole a firmare un accordo di aiuti militari che ha paralizzato l'industria bellica israeliana per toglierle l'indipendenza strategica. Se Israele acquistava tutte le sue bombe dagli Stati Uniti, ogni operazione offensiva doveva essere autorizzata dagli Stati Uniti. Lo stesso valeva per le piattaforme aeree, le munizioni per carri armati e artiglieria e i fucili d'assalto. Il governo statunitense ha minato completamente il potere di Netanyahu coltivando gli ex e gli attuali capi della sicurezza affinché considerassero loro - e non Netanyahu - come “gli adulti al comando” e li informassero di tutti i piani di Netanyahu per intraprendere azioni offensive contro l'Iran. A tal fine, nel 2012, il capo del Mossad Meir Dagan ha informato la sua controparte della CIA del piano di Netanyahu di attaccare le strutture nucleari iraniane, e il governo statunitense ha rapidamente bloccato tali piani. Biden e Harris hanno proseguito le politiche di Obama sia nei confronti dei palestinesi e dell'Iran, sia per quanto riguarda l'indebolimento politico e strategico di Netanyahu e di Israele subito dopo il suo insediamento. Questo ci riporta alla questione del “giorno dopo”. Per quanto riguarda il Libano, lungi dal sostenere gli sforzi di Israele per distruggere Hezbollah, il più grande e letale esercito terroristico iraniano, l'amministrazione ha passato l'ultimo anno a impedire a Israele di passare all'offensiva contro Hezbollah. Sebbene Biden abbia pubblicamente appoggiato la decapitazione da parte di Israele dei vertici di Hezbollah, tra cui Hassan Nasrallah, l'amministrazione si è detta incredula per il fatto che Israele abbia ucciso Nasrallah. Il 10 ottobre, Harris ha ribadito che l'amministrazione statunitense cercava un cessate il fuoco immediato e una de-escalation sia in Libano che a Gaza. Questo significa a sua volta che Harris e Biden vogliono salvare Hezbollah - come Hamas - dalla sconfitta, perché vogliono tornare all'equilibrio strategico del 6 ottobre 2023, che vedeva l'Iran come egemone regionale emergente a pochi passi da un arsenale nucleare. Per quanto riguarda l'Iran stesso, dall'attacco missilistico del regime di Teheran contro Israele il 1° ottobre 2024, il governo statunitense ha lavorato febbrilmente per impedire a Israele di colpire obiettivi strategici in un contrattacco contro l'Iran. Funzionari del governo statunitense hanno ripetutamente lasciato intendere che Israele sta cercando di attirare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente. La scorsa settimana, il direttore della CIA William Burns e altri alti funzionari del governo statunitense hanno sottolineato in una serie di dichiarazioni che non c'è alcuna prova che l'Iran stia cercando di dotarsi di un arsenale nucleare. Uno sguardo alle prime pagine iraniane e ai dibattiti parlamentari, inondati di appelli alla costruzione di armi nucleari, smaschera queste affermazioni come fraudolente e manipolative. Nonostante l'ampia strategia di camera d'eco dell'amministrazione statunitense, che inonda i media di insinuazioni anti-Netanyahu, messaggi demoralizzanti sulla debolezza israeliana e afferma che Israele sta cercando di trascinare gli Stati Uniti in una guerra non necessaria, il messaggio dell'amministrazione statunitense sta raggiungendo i suoi limiti. Lo straordinario successo di Israele nel distruggere la leadership di Hezbollah e gran parte del suo massiccio arsenale di armi ha aumentato il sostegno americano alla vittoria israeliana. Mentre solo pochi mesi fa gli “esperti” deridevano la promessa di Netanyahu che Israele avrebbe ottenuto una “vittoria assoluta” in questa guerra, ora esperti come Richard Dearlove, ex capo dell'agenzia di intelligence britannica MI6, affermano che Israele è sulla buona strada per ottenere proprio questo risultato. E così arriviamo al piano di Netanyahu per il giorno dopo. Respinto da Biden-Harris, Netanyahu ha aspettato fino a dopo la svolta israeliana nella guerra per presentare all'amministrazione statunitense la sua effettiva visione strategica per un Medio Oriente postbellico. L'ha delineata in due messaggi video in lingua inglese, prima al popolo iraniano e poi a quello libanese. In entrambi i video ha descritto come l'Iran e gli Hezbollah abbiano distrutto rispettivamente l'Iran e il Libano. Israele, ha detto ai libanesi, ha indebolito gli Hezbollah al punto che il popolo libanese ha potuto sollevarsi contro di loro. Abbiamo indebolito le capacità di Hezbollah; abbiamo eliminato migliaia di terroristi, tra cui lo stesso Nasrallah, il suo successore e il successore del suo successore”, ha detto. Oggi Hezbollah è più debole di quanto non sia stato per molti, molti anni. “Ora voi, popolo libanese, siete a un bivio importante. Avete una scelta. Potete riprendervi il vostro Paese”. Agli iraniani ha detto: “Una cosa è certa: ai tiranni iraniani non interessa il vostro futuro. Ma a voi sì”. Ha detto al popolo iraniano che l'Iran sarà liberato dal regime “molto prima di quanto si pensi” e ha presentato loro una visione di pace dopo la sua caduta. “I nostri due Paesi, Israele e Iran, vivranno in pace. Quando arriverà quel giorno, la rete del terrore che il regime ha costruito nei cinque continenti sarà fallita e smantellata. L'Iran prospererà come mai prima d'ora”. La visione di Netanyahu è l'opposto di quella di Obama-Biden-Harris. E l'opinione pubblica americana la sostiene. Questo fatto limita la capacità dell'amministrazione statunitense di bloccare i piani di Israele riguardo alla tanto decantata rappresaglia dopo l'attacco missilistico iraniano del 1° ottobre. Gli sforzi del team Biden-Harris per impedire a Israele di attaccare le installazioni nucleari o petrolifere iraniane comportano il noto mix di messaggi contraddittori e di sovversione politica e strategica che abbiamo visto da parte delle amministrazioni democratiche statunitensi dal 2009. Da un lato, gli Stati Uniti sostengono Israele. Dall'altro, il governo statunitense ha inondato i media con le sue affermazioni secondo cui Israele è troppo debole per intraprendere un'azione efficace, che i suoi sforzi mirano a trascinare gli Stati Uniti in guerra e che l'Iran non rappresenta una minaccia per nessuno. In questo contesto, il direttore della CIA Burns e altri alti funzionari hanno affermato la scorsa settimana che l'Iran non vuole nemmeno le armi nucleari. I titoli dei giornali e i dibattiti parlamentari iraniani, che invitano tutti il regime a costruire armi nucleari, smascherano immediatamente l'assurdità delle affermazioni dell'amministrazione statunitense. Tuttavia, gli inaspettati e demoralizzanti ritardi di Israele nell'effettuare il suo attacco di rappresaglia contro l'Iran fanno temere che l'amministrazione statunitense stia riuscendo a impedire a Israele di intraprendere un'azione strategicamente significativa contro il regime. Se così fosse, lo slancio guadagnato da Israele grazie alle sue impressionanti operazioni di intelligence e agli attacchi aerei contro Hezbollah verrebbe annullato. Riemergerà la convinzione che Israele non ha le carte in regola per vincere la guerra. La prospettiva che Netanyahu si dimetta ora è preoccupante, ma poco probabile. Lo slancio di Israele è troppo forte. Gli iraniani e i libanesi, forti del successo di Israele, si stanno già allineando al suo messaggio. I continui appelli dell'amministrazione statunitense a un cessate il fuoco immediato e alla moderazione strategica di Israele sembrano irrazionali e fuori dal contatto con l'americano medio e con gli alleati statunitensi. Anche se non è ancora chiaro come andranno le cose, è evidente che l'Iran non è stata l'unica parte i cui obiettivi strategici sono stati minati dal fatto che Israele ha preso il sopravvento in questa guerra. Anche la visione dell'establishment della politica estera di Obama, Biden e Harris, incentrata sull'Iran, è andata in frantumi.
(Israel Heute, 14 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Questa è la Guerra del 7 ottobre
Vi spiego perché non può avere nessun altro nome
di Nissim Louk*
Negli ultimi giorni è tornato alla ribalta il tema di come chiamare la guerra in corso. Molti, tra cui parecchi parenti degli ostaggi, si arrabbiano all’idea che ci si occupi di una questione apparentemente così marginale mentre più di cento uomini, donne e bambini stanno lentamente marcendo nelle prigioni di morte di Hamas. Hanno ragione, ovviamente. Ci sono questioni ben più urgenti che dovrebbero essere gli unici argomenti di discussione, in primo luogo il salvataggio degli ostaggi e la sconfitta del nemico, e certamente non questioni apparentemente esoteriche come il nome da dare a questa guerra lunga e straziante. Eppure, le parole hanno grande importanza e le narrazioni plasmano la realtà. Il nome della guerra inquadra la storia che c’è dietro, la spiega, innanzitutto a noi stessi e, non meno importante, al resto del mondo. La prima tappa è smettere di chiamare questa guerra – forse la peggiore che abbiamo mai conosciuto e il cui esito deciderà il nostro futuro in questo luogo – col nome ufficiale di “Spade di Ferro”: questo nome non significa nulla per nessuno (lunedì scorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha proposto di chiamarla “guerra della rinascita” ndr). Questa guerra può avere un solo nome. E dobbiamo batterci, sì, batterci per farla chiamare con quel nome, in tutto il mondo, e non solo da noi. Ma prima di tutto da noi. Questa guerra è la guerra del 7 ottobre. Non può avere nessun altro nome. Come mai? Perché il 7 ottobre, una data che sarà per sempre incisa nella storia del popolo ebraico e del sionismo, è ciò che ha causato questa guerra. La guerra è scoppiata a causa di ciò che ci hanno fatto in quello Shabbat di devastazione. E la nostra legittimazione per avviare una guerra di annientamento contro Hamas deriva da ciò che Hamas ha fatto il 7 ottobre. In nessuna parte del mondo la chiamano la guerra delle Spade di Ferro. La chiamano la Guerra di Gaza. E da molto tempo la sua storia non è più ciò che è accaduto il 7 ottobre, ma ciò che è accaduto dopo. La storia che è accaduta dopo, come tutti sappiamo, è una conseguenza, una storia parziale che – come minimo – non ci rende giustizia. I nomi delle guerre sono importanti. Nell’ottobre 1973 siamo riusciti a sconfiggere i paesi arabi non solo sui campi di battaglia, ma nella battaglia per la percezione di quel conflitto. Ancora oggi gli arabi la chiamano la Guerra di Ottobre, ma ovunque nel resto del mondo, specie in Occidente, tutti la chiamano la Guerra dello Yom Kippur. E queste poche parole riescono a raccontare la vera storia: un attacco a sorpresa, combinato e pianificato per essere lanciato contro Israele nel giorno più sacro dell’anno del calendario ebraico, un giorno di digiuno, quando lo stato di allerta è al minimo. Anche il 7 ottobre ci ha preso di sorpresa. Ma la sorpresa dell’ottobre 2023 è di gran lunga peggiore della sorpresa dell’ottobre 1973. Il 7 ottobre ci hanno massacrati, violentati, bruciati insieme alle nostre mogli e ai nostri figli. Il 7 ottobre ci ha aperto le porte dell’inferno e da allora stiamo lottando per la nostra sopravvivenza in questa parte del mondo. Non lo dimenticheremo mai. Ma devo darvi una notizia: è passato un anno e il mondo ha già dimenticato. Questa è la Guerra del 7 ottobre. Non può e non deve avere nessun altro nome.
- * Padre di Shani Louk, rapita e assassinata il 7 ottobre (da Haaretz, 13.10.24)
(israelnet.it, 14 ottobre 2024)
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La camminata silenziosa raccontata per immagini
Servizio di Daniele Toscano e Luca Spizzichino
In centinaia, come ogni anno, si sono riuniti per un momento profondamente simbolico: la camminata silenziosa per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre 1943 degli ebrei di Roma. A leggere i nomi dei deportati nelle strade del quartiere ebraico sono stati i giovani, che hanno guidato il corteo, organizzato come ogni anno da Elvira Di Cave, Daniel Di Porto, Elio Limentani in occasione della data simbolo della Shoah per gli ebrei di Roma. Un momento intimo di ricordo e riflessione per la comunità.
(Shalom, 13 ottobre 2024)
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Israele e Corea del Sud, una relazione tra alti e bassi
di Nathan Greppi
Quando si ragiona sul conflitto in corso tra Israele da una parte e l’Iran e i suoi proxy dall’altra, spesso ci si dimentica che esso va inquadrato in un contesto più ampio su scala globale, i cui attori spesso sono lontani dal Medio Oriente. Un esempio importante in tal senso riguarda le due Coree: infatti, così come Israele deve da sempre difendersi da vicini ostili, così anche la Corea del Sud si ritrova costantemente minacciata dalla Corea del Nord. Se il regime comunista di Pyongyang sta intensificando la sua cooperazione militare con l’Iran dopo aver già fornito armi a Hamas, allo stesso modo le relazioni tra Seoul e Gerusalemme si sono intensificate sempre di più a partire dal 1962, quando i due paesi hanno instaurato per la prima volta relazioni diplomatiche ufficiali, arrivando a firmare nel 2022 un trattato di libero scambio. Mentre nel giugno di quest’anno, il governo sudcoreano ha stipulato un accordo con la piattaforma d’investimenti israeliana OurCrowd, per investire 80 milioni di dollari nel settore high-tech. Per capire qual è lo stato attuale dei rapporti tra Israele e la Corea del Sud, abbiamo intervistato Myung Hyung-ju, presidente e fondatrice di KRM News, agenzia di stampa con sede a Gerusalemme che riporta notizie e approfondimenti su Israele in lingua coreana. Recentemente è venuta a Roma per una sfilata di abiti tradizionali coreani, gli Hanbok, che celebra i 140 anni delle relazioni diplomatiche italo-coreane.
- Quali erano i rapporti tra le due nazioni prima del 7 ottobre? Da un lato c’era molta cooperazione e ammirazione reciproca, soprattutto nel settore high-tech dove entrambi i paesi sono tra i più all’avanguardia a livello mondiale. Tuttavia, dall’altro lato il Ministero degli Esteri sudcoreano vuole mantenere buoni rapporti anche con i paesi arabi, e per questo la Corea del Sud non si sbilancia mai a favore d’Israele all’ONU.
- Che cosa è cambiato invece dopo i massacri e i rapimenti di Hamas? Subito dopo le atrocità del 7 ottobre, il paese ha mostrato una forte solidarietà nei confronti d’Israele. Ma tutto questo ha iniziato a cambiare tra novembre e dicembre 2023; da quel momento in poi, la propaganda dell’ONU e di altri enti internazionali in cui Israele viene accusato di genocidio ha iniziato ad esercitare una forte influenza anche in Corea. Questo è il motivo per cui, siccome le notizie che come agenzia di stampa inviavamo alle principali emittenti coreane non bastavano, ho creato anche un mio canale YouTube per raccontare quello che succede davvero in Israele.
- Come sono schierati i politici e l’opinione pubblica sudcoreana in merito al conflitto? La nostra impressione è che in questo momento, in Corea circa il 60% della popolazione provi maggiori simpatie per i palestinesi. Per quanto riguarda i media, quelli mainstream riportano le notizie esattamente come la CNN e la BBC. Lascio immaginare che cosa significhi ciò.
- Intervistata nel 2018 dall’agenzia di stampa “The Media Line”, lei ha spiegato che la minoranza cristiana in Corea del Sud è più vicina a Israele rispetto alla media della popolazione. È così. In Corea del Sud, tra il 20% e il 30% circa della popolazione è composta da protestanti e cattolici, contro un 60% circa che non pratica alcuna religione e il resto che è prevalentemente buddista; e i cristiani sono quelli che si sentono più vicini a Israele. Mentre più in generale, la maggior parte dei coreani sentono parlare di Israele principalmente per l’innovazione e l’high-tech, che fanno un’impressione positiva. Il Soon Lee, artista e co-curatrice della sfilata di Hanbok che si tiene a Roma, è un membro della Chiesa Evangelica in Corea, e sta esponendo le sue opere in varie località anche per portare la propria solidarietà al popolo ebraico. I cristiani in Corea viaggiano molto per turismo in Israele, che per loro è la Terra Santa.
- La Corea del Nord è da sempre alleata dei palestinesi e dell’Iran. Quanto incide questo fattore sulle relazioni tra Israele e la Corea del Sud? In generale, tutti coloro che in Corea lavorano nei settori della difesa e dell’innovazione sanno quanto è importante la collaborazione con Israele. Il Ministero della Difesa, in particolare, ha sempre visto grandi opportunità nella cooperazione militare con Israele, a prescindere dalle minacce rappresentate dalla Corea del Nord, dalla Cina o dalla Russia. Purtroppo, questa cooperazione è sempre più minacciata a causa dei mutamenti nell’opinione pubblica.
- A giugno, l’Università Nazionale di Seoul ha inaugurato un centro studi dedicato a Israele, nonostante le proteste filopalestinesi contro questa decisione. In generale, quanto sono diffusi i boicottaggi antisraeliani negli atenei sudcoreani? Per il momento la situazione non è preoccupante come negli Stati Uniti. Coloro che in Corea del Sud portano avanti il BDS e le manifestazioni filopalestinesi fanno parte di un gruppo di estrema sinistra, che ha anche chiesto al governo di non vendere più armi a Israele. Si tratta di una frangia assai minoritaria, che non rappresenta la maggioranza del paese, ma riesce a fare molto rumore anche grazie alla copertura che gli offrono i media. Per questo, temiamo che nel lungo periodo potrebbero esercitare un’influenza negativa sull’opinione pubblica. Anche per questo motivo, la comunità cristiana si sta facendo sentire molto più che in passato. Essendo molto filoisraeliani, i cristiani in Corea da silenziosi che erano hanno alzato la voce sempre di più dopo il 7 ottobre, organizzando conferenze su Israele e il sionismo e manifestazioni per chiedere la liberazione degli ostaggi.
- Qualora dovesse scoppiare una crisi tra le due Coree, come dovrebbe reagire Israele? Sarebbe terribile se ciò dovesse accadere. In ogni caso, se già la Corea del Sud ha stipulato un accordo comune sulla difesa con gli Stati Uniti e il Giappone, credo che anche Israele saprebbe fornirgli un considerevole aiuto, soprattutto negli ambiti dell’intelligence, dell’esercito e dell’aviazione.
(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2024)
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«Un profeta come me»
di Marcello Cicchese
Quando si comincia a parlare di previsioni di fatti futuri qualcuno sorride, e in parte è comprensibile perché di “profeti” strampalati se ne incontrano dappertutto e in continuazione. Ma ci sono anche casi che dovrebbero far riflettere. Nel 1938 il regime nazista era all’apice del suo successo. Nel novembre di quell’anno ci fu la notte dei cristalli. Un cristiano evangelico che fino a quel momento era stato un moderato, ma convinto sostenitore del nazismo, cambiò radicalmente opinione. Da quel momento fu sicuro che il suo paese sarebbe andato incontro alla rovina. Non era un esperto di politica internazionale, ma un semplice credente che conosceva la Bibbia. Si ricordò di una frase del profeta Zaccaria:
“... così parla l’Eterno degli eserciti: «E’ per rivendicare la sua gloria che egli mi ha mandato verso le nazioni che hanno fatto di voi la loro preda; perché chi tocca voi, tocca la pupilla dell’occhio suo»” (Zaccaria 2:8).
Il suo paese andò incontro alla rovina, come aveva previsto sulla base della Scrittura
Si può dare un altro esempio, ricevuto di persona attraverso una testimonianza. Durante l’ultima guerra un’anziana signora tedesca, convinta cristiana evangelica, sentì che davanti a casa sua un gruppo di ragazzi stava gridando: “Morte agli ebrei” e altre frasi simili. Uscì fuori e disse: «Smettetela, perché tanto noi tedeschi perderemo la guerra e gli ebrei avranno il loro Stato». Quanti uomini politici avrebbero osato fare una simile previsione del futuro? Non ci furono conseguenze probabilmente perché nessuno sporse denuncia in considerazione dell’avanzata età della donna.
L’elemento primario della questione ebraica non è l’ebreo come individuo e neppure il popolo come aggregato multiforme di singoli, ma il concetto di nazione ebraica. L’atto giuridico costitutivo di questa nazione si trova nella promessa fatta da Dio ad Abramo: “Io farò di te una grande nazione” (Genesi 12:2), che più volte è stata ripetuta ed espressa nella forma giuridica di un patto:
“Quando Abramo fu d’età di novantanove anni, l’Eterno gli apparve e gli disse: «Io sono l’Iddio onnipotente; cammina alla mia presenza, e sii integro; e io fermerò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò enormemente»” (Genesi 17:1-2).
Quando si fa riferimento a quello che fonda l’unità politica di una nazione e ne stabilisce le regole di comportamento si parla di “patto sociale”. Questo semplice fatto evidenzia che per fissare i fondamenti di una comunità umana vivibile è necessario l’uso adeguato della parola, perché il semplice riferimento allo stato di natura non garantisce niente. O meglio, garantisce soltanto l’anarchia e il dominio del più forte. Non a caso si parla di legge della giungla.
L’elemento unitario della nazione ebraica si trova dunque nella parola rivolta da Dio ad Abramo, comprendente anche le promesse per la sua discendenza. Ogni volta che il popolo trascura questo elemento unitario proveniente dall’Alto, la sua unità scompare e gli ebrei si disperdono in tutte le direzioni. Proprio questa è la situazione che osserva Leon Pinsker (1821-1891) nel suo libro Autoemancipazione quando esclama:
“Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga”.
E’ interessante osservare che un intellettuale laico come Pinsker ricorre, per descrivere lo stato del suo popolo, a una pregnante immagine biblica. Il profeta Isaia, guardando da un punto di vista profetico posto nel futuro, descrive una scena simile come se appartenesse al passato:
“Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via” (Isaia 53:6).
Non è forse questa, ancora oggi e nonostante l’esistenza del nucleo unitario dello Stato d’Israele, la situazione degli ebrei nel mondo? Ciascuno segue la sua propria via. Questo semplice fatto dovrebbe far capire quanto sia irrealistica l’idea di immaginare un “complotto giudaico” per arrivare a dominare il mondo. Quando mai gli ebrei riuscirebbero a mettersi tutti d’accordo!
Le parole di Pinsker sopra riportate esprimono il bisogno di protezione che ha il gregge. Ma se il gregge è “disperso su tutta la faccia della terra”, come potrà essere protetto? E inoltre, perché si continua a chiamarlo gregge se da secoli non esiste più perché le pecore si sono disperse in tutte le nazioni del mondo? Come mai le pecore non sono ancora riuscite a trovare una soluzione ai loro problemi esistenziali nei diversi paesi in cui hanno vissuto? Ancora una volta è Pinsker che risponde:
“La pace sarà tanto più difficile da ottenere in quanto, a quel che sembra, non siamo capaci di fonderci con le altre nazioni se non in misura limitatissima.”
Le pecore disperse non sono riuscite ad amalgamarsi con quelle di altri greggi, hanno continuato a sentirsi e ad essere considerate diverse. Sono quindi esposte al pericolo: hanno bisogno di protezione. Ma per essere protetti ci vuole unità; e per ottenere unità ci vuole una persona. Pinsker avverte la necessità di qualcuno come Mosè:
“Uniti, in file serrate, compimmo una volta un esodo ordinato dall'Egitto, per sottrarci alla vergognosa schiavitù e per conquistare una patria! Ora erriamo fuggiaschi ed esuli, sotto il giogo nemico, con la morte nel cuore, senza un Mosè che ci guidi, senza una Terra Promessa che dobbiamo conquistare col nostro valore.”
“Ci manca una guida geniale quale fu Mosè. La storia non elargisce di continuo al popolo condottieri simili. Ma la limpida coscienza di ciò che più ci abbisogna, cioè la coscienza della necessità assoluta di una patria, farà sorgere fra noi alcuni amici del popolo, energici, fervidi, nobili, che assumeranno insieme la direzione del loro popolo e riusciranno forse, non meno di quell'unico e singolo genio, a redimerci dalla miseria e dalla persecuzione.”
Anche in questo si può dire che Pinsker sia stato profetico. Dalla distruzione del Tempio in poi non è più sorto un “unico e singolo genio” come Mosè, ma con l’apparizione sulla scena del sionismo sono sorti “alcuni amici del popolo, energici, fervidi, nobili” che hanno reso possibile la ricostituzione di una certa unità nazionale.
L’auspicio della venuta di una guida come Mosè assume una sembianza biblica se si considera che Mosè stesso nella Torà ha preannunciato la venuta di uno come lui. Nel suo discorso al popolo, prima che questi passasse il Giordano per entrare nella Terra promessa, Mosè aveva detto:
“L'Eterno, il tuo Dio, susciterà per te un profeta come me, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli; a lui darete ascolto” (Deuteronomio 18:15).
Sta scritto dunque nella Bibbia che un giorno arriverà un profeta come Mosè, ma sta scritto anche che Dio si aspetta che il popolo lo ascolti.
Anche il desiderio di trovare qualcuno che raccolga il gregge ha risonanze bibliche. Fin dall’inizio Dio aveva pensato a una persona che avrebbe svolto questo compito, ben sapendo che il suo popolo sarebbe stato temporaneamente disperso. Quella persona è il “Servo dell’Eterno” di cui parla il profeta Isaia:
“Ed ora parla l'Eterno che m'ha formato fin dal seno materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, e per raccogliere intorno a lui Israele” (Isaia 49:5).
Ma anche qui, affinché il programma di Dio vada avanti, occorre che Israele sia disposto a collaborare.
• LA PIETRA DI SCANDALO
Il profeta come Mosè del libro del Deuteronomio e il Servo dell’Eterno del profeta Isaia 53 sono due figure bibliche che corrispondono ad un’unica persona: il Messia. Ma chi è il Messia? E’ una persona, un sistema politico, una metafora linguistica? E’ già venuto? Deve ancora venire? Sulle risposte a queste domande le strade si dividono. E’ chiaro - ma non è inutile sottolinearlo con decisione - che dirsi cristiani significa confessare che il Messia è già venuto in Israele una prima volta nella persona di Gesù, come attestato negli scritti del Nuovo Testamento.
Si sa bene che per molti questo è uno scandalo e una pietra d’inciampo. Certo, sarebbe auspicabile che a causa di questo argomento non volino pietre in direzione di chi ci crede, né si accendano roghi destinati a chi non ci crede, ma non è bene che per ragioni di buona educazione ecumenica ci si accordi nel non parlarne affatto. Il problema esiste, resta scottante, è centrale: non deve dunque essere evitato.
In forma molto schematica si può dire che:
- la soluzione dei problemi del mondo è collegata alla soluzione della questione ebraica;
- il nocciolo della questione ebraica sta nel concetto di nazione ebraica;
- la nazione ebraica ha il suo centro unificante nella persona del Messia.
Non ha senso quindi sperare di risolvere alla radice i problemi del mondo trascurando la persona del Messia, e, viceversa, non si può riflettere in modo approfondito sulla persona del Messia senza essere indotti a prendere seriamente in considerazione i problemi del mondo.
E’ vero che esiste un cristianesimo spiritualizzante ed edonistico che sembra interessarsi di Gesù soltanto per la possibilità che offre di strappare anime dalle fiamme dell’inferno e mandarle a godere in paradiso, ma è un Gesù ritagliato artificiosamente dai testi biblici per fa emergere soltanto alcuni aspetti prediletti della sua figura, a scapito di tanti altri che restano colpevolmente trascurati, soprattutto quelli che hanno a che fare con Israele. Tenendo conto che la parola “eresia” proviene da un termine greco che significa “scelta”, si può dire che anche in questo caso si tratta di una vera e propria eresia.
Si considerino allora i quattro Vangeli. Molti, anche tra gli atei, li trovano interessanti; i moralisti vi ricavano storielle istruttive, i credenti esempi edificanti, i teologi dottrine complicate. Ma leggendoli attentamente ci si accorge che i quattro Vangeli hanno un unico oggetto di interesse: la persona di Gesù. Sono stati scritti per rispondere a una precisa domanda: “Chi è Gesù?” E al lettore pongono a loro volta una precisa domanda: “E tu, chi dici che sia Gesù?” Dalla risposta a queste due domande dipendono tutte le dottrine e tutti gli insegnamenti pratici che se ne possono trarre. Non ha senso tirar fuori, qua e là, dai racconti evangelici, spunti di attualizzazione pratica senza prima prendere posizione sulla persona di Gesù. E non è possibile comprendere pienamente la persona di Gesù se non la si colloca nel suo contesto ebraico. Non è lecito, per esempio, fare del sermone sul monte (Matteo, capp. 5-7) un modello universale di condotta morale senza tener conto della persona che l’ha pronunciato e dell’ambiente storico e religioso in cui i fatti sono avvenuti.
Gesù stesso ha espresso la necessità di una precisa presa di posizione a suo riguardo in un serio e grave colloquio avuto con i suoi discepoli verso la fine del suo ministero:
“Poi Gesù, giunto nei dintorni di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?» Essi risposero: «Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti».” (Matteo 16:13-14)
Le risposte, come si vede, sono tutte positive, ma nessuna di queste è quella giusta. Gesù allora interpella direttamente i discepoli:
“Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?»” (Matteo 16:15).
Chiede dunque una precisa presa di posizione.
“Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».” (Matteo 16:16).
Questa, e solo questa, è la risposta giusta. Tutte le altre sono sbagliate, anche se le intenzioni di chi le ha date erano buone. Gesù è il Cristo, cioè il Messia, il Figlio di Dio di cui si parla nelle Scritture. Pietro riceve conferma dell’esattezza della sua risposta:
“Gesù, replicando, disse: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli.” (Matteo 16:17).
Gesù non dice: «Bravo, Pietro! Risposta esatta!» E tanto meno promette un premio, come nei quiz televisivi. Quella confessione non è opera umana: a Pietro Gesù dice «Beato», cioè benedetto, toccato dalla grazia della rivelazione di Dio.
Sulla base di quella confessione Gesù promette che fonderà la sua chiesa. L’istituzione politico-religiosa che è sorta in seguito sfruttando illegittimamente le parole di Gesù è stata, e sostanzialmente è ancora, antigiudaica. E’ inevitabile, perché pretende di occupare un posto che Dio ha riservato soltanto a Israele. Pietro, il preteso primo papa, non solo era ebreo, ma la confessione su cui Gesù ha promesso di fondare la sua chiesa poteva essere fatta soltanto da un ebreo. Un pagano, potente o colto che fosse stato, non avrebbe mai potuto dire a Gesù “Tu sei il Messia” per il semplice fatto che non sapeva neppure che cosa fosse il Messia.
(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")
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L’inutilità dell’Unifil
di David Elber
Per prima cosa va puntualizzato che Israele, da diversi giorni, ha chiesto l’allontanamento dell’inutile contingente ONU per evitare che i suoi membri potessero rimanere coinvolti negli scontri a fuoco. Inoltre, prima dell’azione militare ha chiesto ai militari vicini alle postazioni di osservazione di mettersi in sicurezza visto che si rifiutavano per mere ragioni politiche di allontanarsi dagli obiettivi dell’azione militare. È evidente che queste precauzioni hanno salvaguardato l’incolumità dei soldati dell’UNIFIL che non erano in nessun modo l’obiettivo dell’azione medesima.
Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.
(L'informale, 12 ottobre 2024)
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L’ayatollah d’Occidente
Non è un pazzo irrazionale. Khamenei ci legge, studia e sa parlare la lingua che seduce le democrazie. Ha dichiarato una “guerra cognitiva” per reclutare adepti nel nuovo anti imperialismo degli imbecilli.
di Giulio Meotti
Lo scorso weekend, Ali Khamenei ha tenuto un sermone di quaranta minuti fuori da una moschea a Teheran giustificando il pogrom del 7 ottobre. Per quaranta lunghissimi minuti, Khamenei si è visto trasmettere in diretta dalla Bbc, la tv pubblica inglese, mentre aveva con sé un fucile. “Si potrebbe, a fatica, capire la Bbc che intervista Khamenei”, ha scritto Bernard-Henri Lévy. “Ma trasmettere un discorso di 45 minuti che elogia il 7 ottobre e sostiene la distruzione di Israele non è niente di meno che glorificare il terrorismo. Avreste, nel 1939, trasmesso servilmente le parole di Hitler?”. Khamenei non è Hitler, ma il più o meno inconfessabile beniamino di un pezzo d’occidente che vede in Iran, Cina, Russia, Hezbollah, Hamas e Venezuela un nuovo asse del bene contro quello del male, composto da occidente, America e Israele. “La questione non è solo politica, ma metafisica” scrive su Le Point Franz-Olivier Giesbert, a lungo direttore della redazione dell’Obs, del Figaro e di altri giornali francesi. “Per quale aberrazione mentale il loro odio di sé o la loro pulsione di morte li porta a proclamare un’intifada in pieno centro a Parigi o a travestirsi da fedayn, coperti di kefiah, di veli, per sostenere la ‘resistenza’ guidata dal ‘grande leader iraniano’, come dice seriamente Dominique de Villepin? Da qui la demonizzazione quasi paranoica di Israele per riportare alla luce, sulle sue macerie, una grande Palestina, ‘dal mare al Giordano’. Questo è l’obiettivo dichiarato dei mullah e dei loro mercenari. Sulla stessa linea, i cavalieri dell’Apocalisse della nostra ‘quinta colonna’ non muovono mai la minima critica contro l’Iran, il loro migliore alleato”. I sondaggi mostrano un consenso in occidente per il progetto di Khamenei più ampio che in Iran. “I giovani britannici sono sempre più a favore di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre”, secondo un nuovo sondaggio di YouGov uscito questa settimana. Il 16 per cento ritiene che il massacro sia “giustificato”, come ha detto Khamenei sulla Bbc. Oltre un quarto, il 28 per cento, dei britannici “molto di sinistra”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni ha affermato di sostenere “l’abolizione di Israele e la sua consegna ad Hamas”. Khamenei è l’ayatollah d’occidente a capo dell’“anti imperialismo degli imbecilli”. Quando la moschea sciita di Roma tiene una serata di preghiera per Hassan Nasrallah, l’ordine arriva da Khamenei. Quando la Svezia è inondata da centinaia di migliaia di messaggi sui social contro l’“islamofobia” e il rogo del Corano, l’ordine arriva sempre da Khamenei. Quando la McGill University, in Canada, è travolta da un’ondata di manifestanti pro Gaza e sui social è un putiferio di proteste, l’ordine arriva da Khamenei. Intanto a Roma sventolano le bandiere di Hezbollah e dell’Iran e i ragazzi romani portano cartelli dove si legge: “7 ottobre non è terrorismo, ma resistenza”. E i gruppi filopalestinesi della Columbia University ora esprimono solidarietà con l’attacco missilistico dell’Iran allo stato ebraico, definendolo una “mossa coraggiosa”. La prima pagina del numero del 2 maggio 2024 del settimanale Khat-e-Hizbullah, portavoce di Khamenei, presentava una foto delle proteste nei campus americani con il titolo: “Una fiamma nel cuore dell’oscurità: rivolta degli studenti americani contro il genocidio del popolo di Gaza”. Khamenei afferma che la guerra è ora una guerra cognitiva: “L’influenza della stampa è più potente di un missile, un drone, un aereo da guerra e le armi in generale. I media influenzano la mente e i cuori, e chi controlla i media riesce a raggiungere i suoi obiettivi”. Khamenei continua intanto a usare i social per dire al mondo che “i sionisti sono come i nazisti”, un refrain ormai entrato di petto nella cultura occidentale. Khamenei manipola anche il termine “razzismo”, il passepartout della coscienza occidentale. Come ha detto lui stesso, “il regime sionista è un esempio di razzismo”. Quando Teheran minacciò di distruggere Israele “tumore canceroso”, il Premio Nobel per la letteratura, il tedesco Günter Grass, prese carta e penna per difendere gli ayatollah iraniani, dicendo che era Gerusalemme che minacciava Teheran, non il contrario. Poi, distribuita su X (Twitter), arriva la lettera di Khamenei agli studenti americani, in cui il leader compiace la sinistra usando il gergo woke e la da’wa, la sensibilizzazione islamica. Khamenei ha condannato l’“islamofobia” nella sua prima lettera ai giovani occidentali dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi. “L’élite sionista globale… possiede la maggior parte delle corporazioni mediatiche statunitensi ed europee o le influenza attraverso finanziamenti e corruzione”, scrive Khamenei. Musica per le orecchie degli antisemiti. “Il leader iraniano sta facendo ciò che faceva l’Unione sovietica”, scrive Michael Totten sul World Affairs Journal. “Entrambi hanno usato il linguaggio occidentale dei diritti umani come armi contro l’occidente. Ehi, forse il leader iraniano è uno di noi! Forse tutto ciò che dice il nostro governo è una bugia!”. Khamenei ha attaccato la “brutalità della polizia americana”, dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020. Ha twittato: “Se hai la pelle scura e cammini negli Stati Uniti, non puoi essere sicuro di restare vivo nei prossimi minuti”. Non male per un regime che sfregia con il rasoio le ragazze che rifiutano il velo. In un tweet sempre rivolto alla sinistra americana, Khamenei ha processato il passato degli Stati Uniti. La schiavitù, ha detto Khamenei, “è uno degli eventi tragici della storia. Un tempo salpavano le navi nell’Oceano Atlantico e gettavano l’ancora sulle coste dell’Africa occidentale, in Gambia e altri paesi del continente”. Intanto la sua autobiografia, “Cella numero 14”, riferimento alla prigione in cui la Guida suprema ha trascorso tre anni al tempo dello Shah, è stata tradotta in inglese, spagnolo, portoghese, cinese, urdu e altre lingue, nonché è presentata nelle capitali della “resistenza antioccidentale”, a cominciare da Caracas, dove il chavismo è diventato la Mecca degli antagonisti occidentali (va da sé che Chávez era un habitué a Teheran). Khamenei, oltre al Papa vicario di Cristo, è l’unica figura mondiale che reclama un legame con Dio (ayatollah significa “segno di Allah”). Nato a Mashhad nel 1939, il padre studioso religioso, Khamenei studiò a Qom dal 1958 al 1964 e, mentre era lì, si unì al movimento di Khomeini, di cui è diventato erede nel 1989. L’anno in cui i popoli dietro la cortina di ferro insorgevano contro il dominio sovietico e il Muro di Berlino cadeva, dall’Iran l’ayatollah decideva di mettersi alla testa della grande resistenza contro l’occidente. Oggi il filosofo iraniano Daryush Shayegan dice che la caduta della Repubblica islamica assesterà un colpo fatale all’islam politico, rimasto bloccato al 1989. Non importa che l’Iran di Khamenei detenga il record mondiale di condanne a morte, che impicchi in piazza i dissidenti e gli omosessuali, che faccia strame delle donne libere, che censuri la cultura, che spenda un miliardo di dollari all’anno per finanziare gruppi terroristici e che svetti in altri record poco liberal. Khamenei attacca la democrazia liberale, il capitalismo e l’occidente coinvolti “in un inevitabile declino a lungo termine”. Vede l’occidente come “islamofobo”. E’ un fanatico, ma non è irrazionale. Nessun altro marja (ayatollah anziano) o faqih (giurista islamico) ha un passato così cosmopolita. Khamenei conosce le corde che deve pizzicare per suonare lo spartito occidentale. Come quando attacca il “soft power” coniato da Joseph Nye. Il sedici per cento e la metà dei giovani inglesi e americani ritiene che il massacro del 7 ottobre sia “giustificato” L’ayatollah iraniano ha scritto: “La stampa ha un’influenza più potente di un missile, i media influenzano menti e cuori” Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, secondo lui “obsoleta” La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei, che risale agli anni Sessanta, sta facendo breccia in tanti occidentali. Khamenei parla spesso dei romanzi occidentali. Ha elogiato il russo Mikhail Sholokhov e gli piacciono Honoré de Balzac e Victor Hugo. Come disse ad alcuni funzionari della rete televisiva statale iraniana nel 2004, “secondo me, ‘I miserabili’ di Victor Hugo è il miglior romanzo mai stato scritto nella storia. Ho letto ‘La Divina Commedia’. Ma Hugo è un miracolo nel mondo della scrittura… Un libro di sociologia, un libro di storia, un libro di critica, un libro divino, un libro di amore e sentimento”. Khamenei ha detto che i romanzi gli hanno dato una visione delle realtà più profonda della vita in occidente. “Leggete i romanzi di alcuni autori di sinistra, come Howard Fast”, ha consigliato a un pubblico di scrittori e artisti nel 1996. Fast è lo scrittore americano comunista vincitore del Premio Stalin. “Leggete il famoso libro ‘Furore’, scritto da John Steinbeck… e vedete cosa dice sulla situazione della sinistra”, continua Khamenei. E’ anche un fan della “Capanna dello zio Tom”, che raccomandò nel marzo 2002 ad alti dirigenti statali: “Non è questo il governo che ha massacrato gli abitanti nativi originari della terra d’America? Non è stato questo sistema e i suoi agenti che hanno sequestrato milioni di africani dalle loro case e li hanno portati via come schiavi e hanno rapito i loro giovani figli e figlie per farli diventare schiavi e hanno inflitto loro per lunghi anni le tragedie più gravi? Oggi, una delle opere d’arte più tragiche è ‘La capanna dello zio Tom’. Questo libro è ancora vivo dopo quasi duecento anni”. L’ayatollah sa usare il registro woke quando serve. Conosce l’occidente, anche se vi ha messo piede soltanto una volta nel 1987, quando Khamenei fece il suo unico viaggio fino a oggi negli Stati Uniti, per partecipare come presidente dell’Iran a una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel suo discorso disse agli americani: “Siete colpevoli di sostegno alla dittatura Pahlavi, con tutti i crimini che ha commesso contro il nostro popolo”. Khamenei ha diversi famigliari in Gran Bretagna e Francia, tra cui suo nipote, Mahmoud Moradkhani, mentre una sorella di Khamenei, Badri, lo ha accusato di aver costruito un “califfato dispotico”. L’ayatollah ha descritto la cultura occidentale come “una combinazione di cose belle e brutte”, dicendo ai giovani iraniani: “Nessuno può dire che la cultura occidentale sia completamente brutta”. Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, Fanon e altri intellettuali della sinistra europea. Se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, diventata “obsoleta”. Come Khomeini nell’esilio parigino, Khamenei ha coltivato rapporti con intellettuali occidentali rinnegati, come il comunista prima cattolico e poi islamico Roger Garaudy, negazionista, oltre a ospitare sul sito khamenei.ir interviste a leader della sinistra radicale come George Galloway. Basta leggere “Dossier Iran” (Neri Pozza), che raccoglie gli scritti da Teheran di Michel Foucault, per capire la fascinazione di tanti intellettuali europei per le Guide supreme iraniane. E dell’appeasement occidentale, Khamenei si fa beffe. Un anno fa il presidente svizzero Alain Berset, in occasione della festa nazionale iraniana, che si celebra l’11 febbraio e commemora la cacciata dello Shah e l’instaurazione della Repubblica islamica, ha inviato “un telegramma di congratulazioni.” “Il presidente federale augura all’Iran e ai suoi cittadini un futuro felice e di successo”, recita il testo di Berset. La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei fa breccia in tanti occidentali. Le radici del suo antisemitismo si trovano nella biografia della sua città natale, Mashhad. Nei salotti islamici che Khamenei frequentava al tempo, le correnti marxiste ritraevano Israele come strumento dell’imperialismo occidentale; contemporaneamente, Khomeini attaccava l’“influenza ebraica” nella corte reale Pahlevi. Nel maggio del 1963 il giovane Khamenei ricevette una lettera di Khomeini, da consegnare alle autorità religiose a Mashhad. Il messaggio diceva: “Preparatevi per la lotta contro il sionismo”. Khamenei attacca “l’opposizione degli ebrei al Profeta”, “l’avidità degli ebrei” e “la magia nera dei rabbini”. Il 5 agosto 1980, Khamenei tiene uno dei suoi più famosi sermoni. “La nazione iraniana è l’avanguardia della lotta per la liberazione della Palestina… La rivoluzione iraniana ha raggiunto la vittoria entro i confini, ma fino a quando una piaga contagiosa, un tumore sporco chiamato stato di Israele, usurpa le terre islamiche, non possiamo sentire la vittoria”. Khamenei aggiunge che “se ogni membro della grande comunità islamica di un miliardo di fedeli getta un secchio d’acqua contro Israele, Israele sarà annegato dal diluvio e sarà sepolto”. E così l’ayatollah che pensa di essere il rappresentante di Allah sulla terra ha finito per essere venerato non solo a Teheran, ma anche a Sciences Po, alla Columbia e nelle scuole di giornalismo. Spinto dall’odio per l’entità sionista, il capitalismo liberale e l’occidente, Khamenei lancia missili progressisti e “decolonialisti”, più simbolici che altro e che hanno ucciso relativamente poche persone, mentre Benjamin Netanyahu è un ebreo pericoloso con un ego sproporzionato, “mascolinità tossica” al suo peggio. Il genio diplomatico di Khamenei gli ha permesso di costituire un “asse del bene” capace di resistere all’“asse del male” guidato dagli americani. L’ayatollah ovviamente ha il suo lato oscuro (nessuno è perfetto), come sulla questione del gender. Tuttavia, guardiamo avanti. Anche se Khamenei cadrà, il figlio Mojtaba ne prenderà il posto e la luce dell’islam non si spegnerà. Inshallah!
Il Foglio, 12 ottobre 2024)
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Adesso Israele deve infuriarsi davvero con l’Iran
Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne in cui l'asse del male che semina distruzione, terrore e devastazione viene visto come giusto, e Israele come il problema.
di Ben-Dror Yemini
È passato un anno dal feroce massacro. È passato un anno dallo stupro del nostro popolo. Un anno di razzi. Un anno di missili. Un anno di sofferenze. Un anno di sfollati nel nostro paese. Un anno di cortei anti-israeliani. Un anno di retorica antisemita. Un anno in cui la vera guerra è in realtà contro l’Iran. Un anno in cui la maggior parte del mondo libero dimostra, giorno dopo giorno, di non essere libero. L’asse del male iraniano ha attaccato Israele da Gaza, dal Libano, dallo Yemen, dall’Iraq, dall’Iran e dalla Siria, e una parte significativa del mondo si è allineata con le forze oscurantiste e assassine. Un anno in cui persino leader di paesi che dovrebbero guidare il mondo libero, che dovrebbero opporsi all’asse del male, stanno imponendo embarghi sulle armi per Israele. Il mondo libero è impazzito. È intrappolato da un’industria di menzogne in cui l’asse del male, che impone distruzione, terrore e devastazione, viene visto come giusto, e Israele come il problema. Non più. Stiamo raggiungendo il momento della decisione, perché nessun contrattacco su Hamas o Hezbollah potrà servire senza colpire l’Iran, la testa del serpente. Ora tocca a Israele infuriarsi. Deve infuriarsi non solo per il proprio bene, ma per il bene del mondo libero. Perché se l’asse del male uscirà indenne da questo terribile scontro, Israele non sarà l’unico a pagarne il prezzo. Decine di milioni di persone in Medio Oriente continueranno a soffrire. E i paesi del mondo libero pagheranno un prezzo altissimo. Sta già accadendo. Le strade di Londra, Parigi, New York e Madrid traboccano di manifestanti che sostengono l’asse del male. Innumerevoli docenti, la maggior parte dei docenti, stanno dalla parte dell’asse del male. Giustificano il massacro. Accusano Israele di colonialismo. Accusano Israele di genocidio. Mentono senza sosta. Sanno, certamente dovrebbero sapere, che i capi di Hamas e Hezbollah dichiarano apertamente che il loro obiettivo è l’annientamento degli ebrei e la conquista di tutto il mondo libero per instituire un califfato islamico. Ma si rifiutano di ascoltare. Per anni hanno fatto il lavaggio del cervello ai loro studenti. Ora quegli studenti si identificano con l’ideologia di Bin Laden e Nasrallah, l’ideologia assassina di Yahya Sinwar e Ali Khamenei. Hanno trasformato i campus in avamposti dell’asse del male. Questa follia deve finire. Perché decine di milioni, tra cui sei milioni di ebrei, hanno già pagato a caro prezzo la follia del male assoluto. Non più. Questa volta, la situazione è persino peggiore. La follia non viene solo dall’asse del male. La follia è favorita dal mondo che dovrebbe essere libero. Questa follia non avrà fine se Israele continuerà a giocare secondo le regole che gli sono imposte, né se soccomberà alle pressioni del mondo libero che è più preoccupato per il prezzo del petrolio che per le minacce alla sopravvivenza dello stato ebraico. Perché secondo le regole del gioco, il presidente del regime iraniano può recarsi all’Onu ed essere ricevuto con tutti gli onori, mentre incombe un mandato di arresto sul primo ministro e sul ministro della difesa di Israele. Questa assurdità non può continuare. Israele deve infuriarsi. Si può discutere se l’accordo nucleare del 2015 con l’Iran fosse la mossa giusta e se sia stato un errore la sua cancellazione nel 2017 da parte di Trump. Solo una cosa è chiara. Con o senza un accordo, l’Iran non ha cambiato nemmeno di un millimetro la sua ideologia assassina. Ha finanziato il terrorismo di Hezbollah, Hamas e Houthi prima dell’accordo, ha continuato a farlo dopo l’accordo e non ha smesso di farlo dopo la cancellazione dell’accordo. Israele si è trattenuto mentre Hezbollah e Hamas ricevevano sempre più razzi e missili. Israele si è trattenuto per un anno mentre Hezbollah, senza alcuna provocazione da parte israeliana, lanciava ogni mese un migliaio di razzi, missili e droni. Ci sono stati morti e feriti. Migliaia di case sono state distrutte. Migliaia di ettari di terreni agricoli, foreste e riserve naturali sono stati bruciati. Decine di migliaia di israeliani sono diventati profughi. Nessun paese al mondo si sarebbe trattenuto. Ma Israele si è trattenuto. Non può continuare. Israele deve infuriarsi. I cortei a sostegno dell’asse del male hanno esibito costantemente lo slogan “con ogni mezzo necessario” per giustificare il massacro di Hamas. E allora, che diventi lo slogan anche di Israele. Israele deve distruggere le strutture militari e nucleari dell’Iran. Con ogni mezzo necessario, con o senza gli Stati Uniti. Perché abbiamo a che fare con un regime folle. Un regime del genere non deve mai possedere armi di distruzione di massa. Perché se questo regime non viene eliminato, se acquisisce quelle armi, se ottiene le armi nucleari, distruggerà Israele. Commetterà un genocidio su milioni di persone. I prezzi del petrolio saliranno? Che salgano. Le nostre vite sono più importanti. Il Medio Oriente ha bisogno di pace e riabilitazione. Ma non arriveranno finché gli ayatollah comanderanno in Iran. Decine di milioni di iraniani, libanesi, iracheni, yemeniti e palestinesi sono le prime vittime del regime iraniano, che porta ovunque distruzione, fame, devastazione e spargimenti di sangue. Non è chiaro se gli Stati Uniti possono permettersi di abbandonarli al loro destino. È chiaro che Israele non può abbandonare se stesso. Un’azione di Israele, da solo, potrebbe comportare un prezzo elevato. Ma qualsiasi prezzo, oggi, sarà inferiore al prezzo che Israele pagherebbe in futuro. Anche se è solo, Israele deve agire. Con ogni mezzo necessario.
(Da: YnetNews, 8.10.24)
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"Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne". Questa è la realtà. E' vano sperare che l'odio antiebraico in forma di ferocia possa essere contrastato dall'odio antiebraico forma di menzogna. Le due forme di odio tenderanno a trasformarsi in un unico odio diabolico contro Dio, che ha scelto Israele. E la menzogna, a lungo termine, è più efficace della ferocia. M.C.
(israele.net, 11 ottobre 2024)
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Riconciliazione dopo il 7 ottobre
Yom Kippur: dopo la tragedia del 7 ottobre, il Giorno dell'Espiazione è segnato dalla responsabilità, dall'esame di coscienza e dalla ricerca di unità nazionale.
di Aviel Schneider
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Persone che pregano per il perdono (Selichot) al Muro Occidentale, la mattina presto del 10 ottobre 2024, prima del Giorno dell'Espiazione
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GERUSALEMME - Il biblico Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur, assumerà quest'anno un significato ulteriore dopo la tragedia del 7 ottobre. Oltre alle consuete preghiere di questo giorno, dobbiamo porci altre domande. Dove abbiamo fallito? Chi abbiamo deluso? Quanto siamo stati arroganti? Chi abbiamo abbandonato e dimenticato? Abbiamo gridato abbastanza, dove ci siamo interrogati troppo poco? Cosa e chi abbiamo trascurato? Perché non siamo rimasti uniti? L'anno passato è stato il peggiore nei 76 anni di storia dello Stato di Israele. Il mio desiderio per quest'anno è una riconciliazione come quella tra Esaù e Giacobbe. “Esaù gli corse incontro, abbracciò Giacobbe, gli cadde sul collo e lo baciò, e piansero”.Solo uniti in questo modo possiamo sconfiggere i nostri nemici in battaglia con l'aiuto e la grazia di Dio. L'assunzione di responsabilità per le nostre cattive intenzioni o per la nostra indifferenza è uno degli elementi più importanti del Giorno dell'Espiazione biblico. "Perché in questo giorno si farà per voi l'espiazione per purificarvi; da tutti i vostri peccati sarete purificati davanti al Signore ” (Deuteronomio 16:30). È un giorno in cui non dobbiamo puntare il dito verso l'esterno. È un giorno in cui riconoscere che ognuno di noi ha partecipato alla catastrofe di un anno fa, compresi i nostri leader tra il popolo. Ognuno deve accettare con umiltà e coraggio la propria responsabilità per consentire la guarigione e la riconciliazione tra il popolo. Dal 1973, lo Yom Kippur si è radicato nella coscienza israeliana non solo come giorno di introspezione personale, come è stato per secoli, ma anche come giorno di responsabilità nazionale. Nel corso della storia, è stato un giorno in cui il popolo di Israele ha digiunato, pregato e si è chiesto: “Come abbiamo peccato, imbrogliato, rubato, parlato male e dato consigli sbagliati?”. Tutti noi ci poniamo questa domanda ogni anno. Cosa vogliamo migliorare l'anno prossimo? La guerra dello Yom Kippur ha aggiunto un ulteriore livello a questa riflessione.
E ora, nello Yom Kippur dopo il 7 ottobre, portiamo una nuova, dolorosa confessione di responsabilità per una catastrofe che è stata peggiore della guerra di Yom Kippur. Quest'anno dobbiamo porci ulteriori domande:
- Dove e perché abbiamo fallito come società?
- Perché ci siamo meritati questo come società?
- Come è potuto accadere che il 7 ottobre siamo stati così terribilmente sorpresi?
- Arroganza?
- Fallimento totale?
- Tradimento o cosa?
- La responsabilità è solo del governo e dell'apparato di sicurezza o dell'intera società del Paese?
- Cosa ci siamo persi quella mattina di Shabbat?
Non conosco nessuno nel Paese che possa dare una risposta chiara. Assumersi la responsabilità delle nostre cattive intenzioni o della nostra indifferenza è una delle regole fondamentali della riconciliazione reciproca, ma anche con Dio. L'autoesame, sia a livello individuale che sociale, porta con sé accuse, ma indica anche la via dell'espiazione e di un nuovo inizio. Yom Kippur non è il giorno in cui la colpa deve essere scaricata sugli altri. È il giorno in cui tutti riconosciamo che ognuno di noi ha un ruolo nella catastrofe. Siamo tutti delusi dai nostri leader, chi più chi meno. Alcuni incolpano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu da solo per il fallimento, altri incolpano l'intero apparato di sicurezza, che per decenni si è impantanato in concetti sbagliati. Ma la leadership israeliana è un riflesso della società.
E un'altra cosa: è importante non solo battersi il petto, ma anche darsi una pacca sulla spalla e ricordare quanto di buono abbiamo fatto quest'anno, quanto abbiamo amato, quanto abbiamo scelto la vita, quanto siamo stati pronti a qualsiasi compito, quanto abbiamo pianto, quanto ci siamo impegnati. Abbiamo pensato a tutti, abbiamo abbracciato i nostri cari, abbiamo purificato i nostri cuori, abbiamo distinto tra il bene e il male, abbiamo sofferto, ci siamo assunti le nostre responsabilità, abbiamo compiuto i nostri doveri, siamo stati disperati e ci siamo rialzati, abbiamo perdonato con coraggio, abbiamo liberato alcuni ostaggi, abbiamo gridato per coloro che sono ancora nel bisogno e in prigionia, abbiamo mantenuto la speranza nonostante tutto, abbiamo considerato i nostri simili, abbiamo continuato a servire e non ci siamo arresi. Soffriamo e combattiamo perché amiamo e viviamo la vita. Ma dobbiamo farlo insieme, nell'amore, come scrive il salmista (133): “Ecco, quanto è bello e quanto è piacevole quando i fratelli sono insieme nell'unità!”. Perché lì il Signore ha promesso la benedizione, la vita per sempre”.
(Israel Heute, 11 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Proprio in questi giorni mi è venuto fatto di pensare a Esaù e Giacobbe in riferimento alla situazione interna di Israele. Più precisamente, ho visto Esaù come immagine degli ebrei laici e Giacobbe degli ebrei ortodossi. Esaù era un uomo di mondo, pragmatico, buona forchetta, intraprendente cacciatore che si procurava il cibo con le proprie mani, capace di dimenticare il contrasto col pio fratello perché in fondo si trattava “soltanto” di questioni religiose. Umanamente Esaù è una persona simpatica, agli occhi di coloro che si disinteressano di Dio. Alle stesse persone può invece risultare meno simpatica la figura di Giacobbe, che nell’analogia rappresenta gli ebrei ortodossi, così poco simpatici nei loro strani e fastidiosi riferimenti a Dio. Nel caso dei due fratelli però l’Eterno si è espresso in modo molto netto: “Esaù non era forse fratello di Giacobbe?” dice l'Eterno; “eppure io ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù” (Malachia 1:1-2). Punto. Attenzione dunque, nel caso attuale, a non ricercare una umana riconciliazione fatta “alle spalle di Dio”. M.C.
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Crisi sanitaria, l’iniziativa per portare medici israeliani a Borgosesia
di David Fiorentini
“Abbiamo bisogno di curarci. Ci sono 60 mila persone, in questo territorio, che ne hanno il sacrosanto diritto”. Così ha esordito Fabrizio Bonaccio, sindaco del piccolo comune piemontese di Borgosesia, lanciando un appello a nome di tutta la valle, per sottolineare l’urgenza di garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai suoi cittadini.
Dopo numerosi concorsi andati deserti, l’ospedale locale di Santi Pietro e Paolo si trova oggi a fronteggiare una grave carenza di personale sanitario. La risposta a questa crisi potrebbe arrivare da una direzione inaspettata: Israele.
Tramite l’associazione “Baita” (ente del terzo settore, senza scopo di lucro), l’amministrazione ha proposto di portare in Italia 65 medici e infermieri israeliani, disposti a cambiare il proprio stile di vita e abbracciare la campagna piemontese.
Il progetto, che sembrava inizialmente solo un’idea, ha già riscosso parole di sostegno da parte della direttrice generale dell’ASL di Vercelli Eva Colombo: “Si tratta di una soluzione perseguibile e apprezzata. Ho chiesto all’associazione di formare il personale sulla lingua italiana, che è imprescindibile. Credo che ci sia uno spiraglio per attuare questa proposta nel 2025”. La lingua, infatti, rappresenta uno degli ostacoli principali, ma non insormontabili, per l’integrazione dei nuovi medici e infermieri.
Nel frattempo, 39 professionisti sanitari sono già stati segnalati e l’iter per la loro assunzione è in fase avanzata. Come spiega il presidente dell’associazione Baita Ugo Luzzati, esiste un bando regionale che permette di assumere medici stranieri per un anno, durante cui potranno lavorare e avviare il processo di riconoscimento delle loro qualifiche e specializzazioni.
“Stiamo raccogliendo i documenti che consegneremo all’ambasciata italiana in Israele. Saranno necessarie lettere da parte delle istituzioni per confermare il progetto e snellire le pratiche”, ha affermato fiducioso Luzzati.
Nel frattempo, in attesa di un riscontro formale dell’ASL, la collaborazione tra Borgosesia e l’associazione Baita oltre a risolvere l’emergenza sanitaria locale, potrebbe anche rappresentare un modello di integrazione innovativa in ambito sanitario. Di fronte alla carenza diffusa di personale medico in tutta Italia, questa iniziativa potrebbe aprire la strada a nuove forme di cooperazione internazionale per garantire cure di qualità ai cittadini.
(Shalom, 11 ottobre 2024)
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Il giorno dell'espiazione
LEVITICO 23
- L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
- «Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione. Ci sarà per voi una santa convocazione; umilierete le anime vostre e offrirete all'Eterno un sacrificio fatto col fuoco.
- In questo giorno non farete alcun lavoro, perché è il giorno dell'espiazione, per fare espiazione per voi davanti all'Eterno, il vostro Dio.
- Poiché ogni persona che in questo giorno non si umilia, sarà sterminata di mezzo al suo popolo.
- E ogni persona che in questo giorno farà un qualsiasi lavoro, io, questa persona, la distruggerò di mezzo al suo popolo.
- Non farete alcun lavoro. È una legge perpetua per tutte le vostre generazioni, in tutti i luoghi dove abiterete.
- Sarà per voi un sabato di riposo, in cui umilierete le anime vostre; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato».
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Kippur – Rav Roberto Della Rocca: Un popolo, un digiuno, un destino
di Rav Roberto Della Rocca
È noto che il giorno di Kippùr, assieme al Seder di Pesach, resta la tradizione più sentita presso il popolo ebraico. Il paradosso è che anche quella grande percentuale di ebrei che si dichiarano “laici” vive un particolare rapporto con il Kippùr, che costituisce, invece, la festa più “religiosa” e meno storicizzabile del calendario ebraico. C’è chi legge in questo fenomeno una sorta di scorciatoia che gli ebrei intravedono nel digiuno di Kippùr dove in un unico giorno si vorrebbe assolvere ai propri doveri ebraici; quell’una tantum, del tutto fuori dall’ordinario, con cui i cosiddetti Kippùr Juden, “gli ebrei del Kippùr”, cercherebbero di compensare un impegno che dovrebbe essere continuo e quotidiano. C’è comunque chi privilegia l’aspetto materiale, direi folkloristico del Kippùr. Si digiuna pensando al cibo che ci attende la sera, ma pur sempre si digiuna. C’è poi chi vive nell’osservanza del Kippùr una dimensione familiare, sociale, comunitaria, anche nel profondo: giorno di confessione collettiva, di presa di coscienza, di riconciliazione.
Credo però che nell’essenza di questo giorno straordinario ci sia invece una paradossale verità e cioè che gli ebrei siano nella loro essenza molto più intrisi di Torà di quanto vogliano ammettere. C’è una frase dello Zohar, il testo base della Qabalà, che è sconvolgente per chi l’accetta nel suo pieno significato esistenziale: «Israel, kudshà berich hu, vehorayità, had hu», «il popolo di Israele, il Santo Benedetto Egli Sia e la Torà sono un’unica e identica cosa». Nel giorno di Kippùr gli ebrei si riuniscono nei batè hakeneset per rinnovare questo patto affinché ogni singolo ebreo accetti su di se la missione che il destino ci ha affidato.
In questo Kippùr 5785, caratterizzato dall’angoscia e dalla trepidazione per le sorti dello Stato d’Israele e del popolo ebraico tutto, siamo chiamati ancora di più di altre volte alle nostre responsabilità. Una guerra per la sopravvivenza, per Israele, non è mai una guerra che riguarda solo i soldati, perché da sempre si tratta di difendere l’incolumità fisica e spirituale del nostro popolo, consapevoli di essere testimoni di una storia unica e di un destino unico. E questa difesa è uno dei precetti della Torà che riguarda, con le debite differenze, i soldati come ogni singolo ebreo.
(moked, 11 ottobre 2024)
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Kol nidrè: il mistero di “voti e giuramenti” annullati a Kippur
Un viaggio nel testo più intrigante della liturgia ebraica
di Massimo Giuliani
La solenne proclamazione di scioglimento e annullamento di voti e giuramenti, nota come Kol nidrè [“Tutti i voti”], che apre i riti serotini del giorno austero e solenne di Yom Kippur – quando digiuno e preghiere concludono i dieci yamìm noraìm, “i giorni terribili”, iniziati a capodanno – è forse il testo più misterioso di tutta la liturgia ebraica. Cantato con struggente melodia in aramaico da ashkenaziti e sefarditi e in ebraico dagli ebrei italiani [Kol nedarim], questo testo, per ragioni all’apparenza soltanto legal-halakhiche (ma c’è ben altro, come spiegherò), intende dichiarare sciolto e annullato per tutta l’assemblea di Israele ogni tipo di giuramento o di voto autoimposti. Esso è introdotto con parole estremamente solenni e impegnative: “Con il consenso del Cielo e con il consenso di quest’assemblea, davanti al tribunale di lassù e davanti al tribunale di quaggiù, ci è dato il permesso di pregare insieme ai trasgressori…”. Si noti dunque che l’assemblea non è composta solo da santi e giusti, ma anche da peccatori: Israele è uno e uno solo dinanzi al Cielo. Poi, per tre volte consecutive e affiancato da uno o più rotoli della Torà estratti dall’aron, il chazan canta/proclama via via con voce sempre più forte il Kol nidrè: “Tutti i voti, le proibizioni, i giuramenti, le consacrazioni, le restrizioni, le interdizioni e ogni equivalente espressione di voto – da questo Kippur al prossimo Kippur – siano sciolti, assolti, rimossi, cancellati, annullati, resi vuoti e non effettivi né validi…” e per tre volte la formula si chiude cantando i due versetti del perdono, richiesto e ottenuto, presi dalla Torà: Bemidbar/Nm 14,19-20. Solo dopo può cominciare la preghiera vera e propria del giorno dell’espiazione. Da dove viene questo testo e tale prassi, diffusisi in tutto il mondo ebraico? Cosa significano e che storia hanno queste solenni parole che inaugurano il giorno più intenso della religiosità ebraica (nell’unico rito in cui è prescritta una keri‘à totale ossia una prostrazione al suolo)? Anzitutto, esso è attestato già in epoca tardo-talmudica, ossia nei responsa dei gheomim babilonesi, e con tutta probabilità l’origine storico-geografica è quella. In età moderna venne riletto come fosse una formula segreta usata dai marrani iberici per confermare la loro lealtà ebraica… ma in quel caso i voti e i giuramenti non erano certamente auto-imposti ma forzati, estorti con una minaccia di morte e/o di esilio. La formula, in realtà, è assai più antica e il suo significato ben più esteso. Vi è anzitutto il senso spirituale custodito dalla formulazione halakhica: il Kol nidrè ripulisce mente, cuore e mano da vincoli auto-imposti – dunque non da contratti o impegni sanciti verso terzi – magari per ripicche o puntigli d’orgoglio personale, permettendo così un processo completo di teshuvà. Aiuta, in altre parole, il cammino di catarsi ed elevazione spirituale che è lo scopo della mortificazione (digiuno e astinenza sessuale) del giorno di Kippur. Del resto, Torà e halakhà rabbinica sono sempre stati contrari alla prassi di fare voti: si pensi alle norme sul nazireato (cfr. Bemidbar/Nm 6). Chi fa voti non solo li deve mantenere ma, impegnando il Cielo, deve pure espiare per averli fatti (quando v’era il Tempio, doveva recarvisi per offrire un sacrificio e donare la sua chioma). Nel Novecento vi è stato un filosofo-teologo ebreo che ha avanzato un daver acher, un’altra spiegazione molto suggestiva. Si tratta di Jacob Taubes (Vienna 1923-Berlino 1987), secondo il quale il Kol nidrè allude a, e intende includere (nel kol), fatti e parole narrati in Shemot/Es 32-34 e Bemidbar/Nm 14-15, dove leggiamo che HaQadosh Barukh Hu fece voto di distruggere il suo popolo e propose a Mosè di cercarsi un nuovo Israele. Come è noto dalla Torà, Mosè rifiutò; anzi, chiedendo perdono, come abbiamo ricordato sopra, fu causa dell’annullamento del voto divino teso ad annientare Israele. L’annullamento di quel voto fu la causa della salvezza del popolo ebraico che pure aveva trasgredito la fiducia divina compiendo un grave atto di idolatria (il vitello d’oro). Proprio ciò che si celebra a Kippur: la teshuvà e il perdono divino, il ritrarsi della Sua ira e il prevalere della Sua misericordia, l’essere – ancora – iscritti nel libro della vita come popolo di Israele. Dunque il primo voto da sciogliere, secondo Taubes, è quello divino contro Israele, perché Israele continui a vivere. Il pathos, la serietà e la solennità di Kippur (rimarcato dall’uso ashkenazita di indossare nel giorno di Kippur una tunica bianca, il qittel, sotto il tallit, il manto della preghiera) sono del tutto giustificati. Cosa dicono gli storici a riguardo del Kol nidrè? Verso la metà del XIX secolo fu fatta, nelle aree urbane dell’antico regno babilonese, una curiosa scoperta archeologica: nei pavimenti delle case fu rinvenuto del vasellame capovolto verso il basso e sul quale vi erano delle iscrizioni, anche in più alfabeti (tra cui l’aramaico), di formule di scongiuri ed esorcismi, con valore apotropaico, con la funzione cioè di tener lontani gli spiriti maligni e le forze del male dalla casa. Si riteneva infatti che tali forze e spiriti salissero dal basso e le iscrizioni sulle terracotte rovesciate e interrate dovevano magicamente bloccarli. Ora, gli ebrei di Babilonia condividevano, almeno in parte, queste credenze e il Kol nidrè potrebbe appartenere a questo genere di formulari giuridico-religiosi tesi a preservarsi dalle forze maligne. Così la pensava il famoso orientalista e semitista americano Cyrus Herzl Gordon (Philadelphia 1908-2001): “Il nucleo del Kol Nidrè è radicato nel Talmud babilonese e il suo scopo è dare alla comunità un nuovo inizio, annullando le forze del male attirate da parole [voti e giuramenti] di natura distruttiva (anche se pronunciate senza premeditazione). Non v’è ragione di imbarazzo se questa è l’origine storica, né servono interpretazioni artificiali…”. Forse anche l’interpretazione di Jacob Taubes suonerà artificiale, ma resta il fatto che da secoli la liturgia ebraica di Kippur invoca il perdono divino e lo ottiene nella consapevolezza che nessuno può vincolare o forzare la volontà divina, ma solo impetrarla (Yehi ratzon milfanekha, lo abbiamo ripetuto più volte a Rosh hashanà) e intercedere, come fece Mosè dopo gli eventi tragici del vitello d’oro. Il Kol nidrè ricorda, alla fin fine, che le trasgressioni individuali contaminano la comunità/la società, sempre un misto di giusti e ingiusti, così come, di contro, i meriti individuali la elevano. Non è solo una verità religiosa; è anche una verità laica, etica e politica, la cui cogenza non abbisogna di dimostrazioni. La proclamazione, all’inizio di Kippur, dell’annullamento di parole fuori controllo, di improvvidi giuramenti (a se stessi) e di impegni (autoimposti) che impediscono la fiducia, significa davvero lasciarsi alle spalle il passato “con le sue maledizioni” e aprirsi al futuro “con le sue benedizioni”. Chatimà tovà a chi legge.
(JoiMag, 15 settembre 2021)
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Israele sul caso UNIFIL: “Avevamo chiesto loro di spostarsi, sono vicini a basi Hezbollah”
di Luca Spizzichino
Israele ha avviato un’indagine sull’incidente che ha coinvolto il contingente UNIFIL nel sud del Libano, confermando il proprio impegno a fare tutto il possibile per evitare di colpire le forze ONU e i civili non coinvolti nel conflitto. Lo ha affermato con un comunicato l’Ambasciata d’Israele in Italia, che ha espresso apprezzamento per il contributo delle forze di pace UNIFIL, in particolare per il contingente italiano, riconoscendo il loro impegno nel prevenire un’escalation nella regione.
L’Ambasciata ha inoltre sottolineato che Hezbollah sta cercando di nascondersi vicino alle basi UNIFIL, e che Israele ha già scoperto tunnel e depositi di armi nelle vicinanze di queste aree. La nota afferma che le forze israeliane, nel corso delle operazioni, hanno ripetutamente chiesto all’UNIFIL di spostarsi più a nord per evitare di essere coinvolte nei combattimenti, ma queste richieste non sono state accolte.
L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, durante una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha ribadito l’impegno di Israele nel “distruggere l’infrastruttura di Hezbollah” nei pressi della Linea Blu. Ha inoltre esortato nuovamente l’UNIFIL a ritirarsi di almeno 5 chilometri a nord per evitare ulteriori rischi. “La nostra raccomandazione è che l’UNIFIL si sposti per evitare di essere coinvolta nei combattimenti, in una situazione resa estremamente volatile dalle continue aggressioni di Hezbollah”, ha dichiarato Danon.
Ieri un carro armato Merkava delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha colpito una torre di osservazione presso il quartier generale UNIFIL a Naqura, ferendo lievemente due peacekeeper indonesiani. Sono state inoltre colpite le basi 1-31 e 1-32A, dove sono presenti truppe italiane, costrette a rifugiarsi in bunker. Tuttavia, fonti israeliane hanno chiarito che non si trattava di un attacco diretto alle forze UNIFIL, ma di un’azione mirata contro una torretta di osservazione equipaggiata con telecamere, situata vicino a un’area sotto il controllo di Hezbollah.
Secondo il portavoce dell’IDF, l’area è una “zona di guerra aperta”, dove Hezbollah ha costruito bunker sotterranei e altre infrastrutture militari. L’esercito israeliano ha ribadito di aver chiesto più volte il ritiro del contingente UNIFIL da determinate zone strategiche, per facilitare le operazioni contro Hezbollah. Tuttavia, l’UNIFIL ha scelto di rimanere nelle proprie postazioni. Andrea Tenenti, portavoce dell’UNIFIL, ha infatti dichiarato: “Siamo qui perché ce lo ha chiesto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e continueremo a fare il nostro lavoro finché le condizioni lo permetteranno”.
(Shalom, 11 ottobre 2024)
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Il «chiarimento» dell'ldf: «Avevamo avvertito di rimanere in spazi protetti»
di Stefano Piazza
«Non esiste la giustificazione di dire che le forze armate israeliane avevano avvisato l'Unifil che alcune delle basi dovevano essere lasciate. Ho detto all'ambasciatore di riferire al governo israeliano che le Nazioni Unite e l'Italia non possono prendere ordini dal governo israeliano».
Le durissime frasi del ministro della Difesa Guido Crosetto, ritenute «spropositate» dalle gerarchie militari israeliane, sono una delle possibili chiavi delle ragioni dell'episodio di ieri.
L' ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco su diverse posizioni Onu ferendo due caschi blu, ha ribadito la richiesta già esplicitata lo scorso 5 ottobre:
«Israele è concentrato sulla lotta contro Hezbollah e raccomanda che la forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite (Unifil) nel Libano meridionale si sposti verso Nord. La nostra raccomandazione è che l'Unifil si sposti di 5 km a Nord per evitare pericoli mentre i combattimenti si intensifìcano e mentre la situazione lungo la Linea Blu rimane instabile a causa dell'aggressione di Hezbollah. Israele non ha alcun desiderio di stare in Libano, ma farà ciò che è necessario per costringere Hezbollah ad allontanarsi dal suo confine settentrionale in modo che 70.000 residenti possano tornare alle loro case nel nord di Israele». A questo, secondo quanto risulta alla Verità, fa riferimento il ministro della Difesa italiano quando parla di «ordini» irricevibili.
In serata, l'Idf ha spiegato sui social: «Stamattina (ieri, ndr), le truppe dell'Idf hanno operato nell'area di Naqura, accanto a una base Unifil. Di conseguenza, l'Idf ha ordinato alle forze Onu nell'area di rimanere in spazi protetti, dopodiché ha aperto il fuoco nell'area». Le forze israeliane aggiungono che «Hezbollah opera all'interno e in prossimità di aree civili nel Libano meridionale, comprese le aree vicine alle postazioni Unifil»,
Quanto avvenuto al quartier generale dell'Unifil in Libano arriva nelle ore che potrebbero precedere l'attacco israeliano all'Iran. Mentre scriviamo, il Gabinetto di guerra sta per riunirsi e dovrebbe autorizzare il premier israeliano e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, a prendere una decisione sulla risposta
di Israele all'attacco missilistico di Teheran della settimana scorsa. In sostanza, Netanyahu e il ministro avranno l'autorità di decidere dove, come e, soprattutto, quando ci sarà l'attacco.
Il capo delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, Jean Pierre Lacroix, citato da Ap, ha affermato che le forze di peacekeeping resteranno nelle loro posizioni, nonostante la già citata richiesta di Israele: «La forza Onu è l'unico canale di comunicazione tra le parti e sta anche lavorando con i partner per fare il possibile per proteggere la popolazione».
Che i rapporti tra Israele e tutto ciò che inizi con «Un» (Nazioni Unite) siano disastrosi lo abbiamo visto in questo ultimo anno, ma da mesi tra le Idf e l'Unifil regna la sfiducia, eccezion fatta per i soldati italiani, ritenuti «seri e affidabili», al contrario di altri, ad esempio quelli irlandesi, con i quali non sono mancate tensioni. Ci conferma il nostro interlocutore: «Il loro lavoro era di smilitarizzare Hezbollah e impedire che fosse presente nel Libano del Sud, come da risoluzioni Onu. Invece hanno permesso a Hezbollah di bombardare Israele per un anno, costruire tunnel e basi di lancio. Inutili come tutto ciò che è marchiato "Un"».
Nelle scorse settimane, le Idf avevano rilevato che alcuni militanti di Hezbollah, per sfuggire ai combattimenti, si sarebbero addirittura nascosti nei pressi della base Unifil, il che non ha fatto che aumentare la tensione. La zona dove si trova la base dell'Unifil è stata scenario di violenti scontri tra l'Idf e Hezbollah: secondo quanto riportato dall'Irish Times, alcuni di questi conflitti si sono verificati a meno di 2 chilometri dall'avamposto irlandese, e forse tutto ciò accaduto potrebbe non essere stato del tutto casuale.
(La Verità, 11 ottobre 2024)
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Crosetto: «Non ci facciamo dare ordini da Israele». Ma da Hezbollah sì
Ci sembra di capire che l'Italia e UNIFIL non prendano ordini da Israele ma solo da Teheran
di Franco Londei
Premetto che qualsiasi sia stato il motivo della provocazione dell’IDF verso UNIFIL (provocazione, non attacco che è altra cosa), a mio modesto parere è stata una decisione sbagliata a livello diplomatico anche se a livello militare avrà avuto le sue ragioni. Ciò premesso, ieri abbiamo sentito tutti tuonare il Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, contro la provocazione israeliana nei confronti di UNIFIL. Il “gigante”, nel ricostruire tutta la storia in cui si inserisce la richiesta israeliana rivolta a UNIFIL di spostarsi di qualche Km a nord per la loro sicurezza, ha detto che «l’Italia non si fa dare ordini da Israele». Bene, mi sembra giusto, come mi sembra giusto che il Ministro della difesa italiano si faccia valere a livello internazionale. Ma mi sorge un dubbio. Come mai questo atteggiamento così “marziale” non è mai stato tenuto nei confronti di Hezbollah? Eppure UNIFIL sono decenni che si sottomette agli ordini del gruppo terrorista libanese legato all’Iran. Il compiti di UNIFIL dettati dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ben esposto sul sito del Ministero della Difesa Italiano erano (e sarebbero), tra le altre cose:
- accompagnare e sostenere le Lebanese Armed Forces (LAF) nel loro rischieramento nel Sud del paese, comprendendo la Blue Line (fallito)
- assistere le LAF nel progredire verso la stabilizzazione delle aree (fallito):
- pieno rispetto della Blue Line (fallito);
- prevenire la ripresa delle ostilità, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani una area cuscinetto libera da personale armato, assetti ed armamenti che non siano quelli del Governo libanese e di UNIFIL (fallito);
- mettere in atto i rilevanti provvedimenti degli accordi di TAIF, e della Risoluzione 1559 (2004) e 1680 (2006), che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano;
- nessuna arma o autorità che non sia dello Stato libanese (fallito);
- nessuna forza straniera in Libano senza il consenso del Governo (fallito);
- nessun commercio o rifornimento di armi e connessi materiali al Libano tranne quelli autorizzati dal Governo (fallito);
Bene, tutte queste cose UNIFIL non le ha mai fatte, non perché non le volesse fare, ma perché Hezbollah gli ha impedito di farle ordinando a UNIFIL di stare alla larga dagli affari di Hezbollah e di Teheran. Quindi UNIFIL e di conseguenza l’Italia, prende ordini da Hezbollah e da Teheran quando si tratta di trasformare il sud del Libano in una santabarbara puntata su Israele, ma non prende ordini da Israele quando si tratta di salvaguardare la sicurezza dei militari UNIFIL? È questo che ci sta dicendo il Ministro Crosetto? Concludo con alcuni dati usciti proprio ieri. Dana Polk, ricercatrice presso l’Alma Center, ha calcolato che da quando Hezbollah ha iniziato a combattere contro Israele al confine settentrionale l’8 ottobre 2023 fino al primo ottobre 2024, inizio della manovra di terra in Libano, sono stati effettuati 3.235 attacchi contro Israele. Dov’era UNIFIL? Eppure avrebbe dovuto impedire che tutto questo avvenisse. Su oltre tremila attacchi non è successo nemmeno una volta perché Teheran e i suoi scagnozzi avevano ordinato a UNIFIL di stare alla larga. Quindi, Ministro Crosetto, le chiedo: non crede che se l’Italia non debba prendere ordini da Israele altrettanto non lo debba fare da Teheran? Perché Hezbollah è Teheran.
(Rights Reporter, 11 ottobre 2024)
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Le 4 telecamere e la torretta: perché Israele ha sparato sull’Unifil
di Michael Sfaradi
Siddhartha Gautama, Buddha, disse: “Tre cose non possono essere nascoste a lungo: il sole, la luna e la verità”. Purtroppo però, e questo lo aggiungo io, quest’ultima, soprattutto quando riguarda Israele e gli ebrei in generale, non viene quasi mai ascoltata.
Questo però non significa che non vada detta, anzi, al contrario, deve essere ben specificata in modo che rimanga qualche documento per memoria storica. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono alla vulgata, alla propaganda e alle mezze verità, che sono mezze bugie, di diventare sacre e inviolabili. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono lavaggi del cervello dalla politica e dall’informazione malata, di esempi ce ne sono così tanti che elencarli tutti è oggettivamente impossibile.
La speranza, in fondo si vive di speranza, è che chi siede in posti importanti, mi riferisco soprattutto ai politici, conosca le regole basilari della diplomazia, ragioni con il cervello e non con la pancia e anteponga la verità all’ideologia. Perché, comunque la si pensi, la verità è sacra, mentre l’ideologia ha sempre molti punti d’ombra, troppi. La notizia rimbalzata su tutti i giornali e telegiornali è stata che un carro armato israeliano ha sparato contro le truppe dell’UNIFIL in Libano e che due caschi blu sono rimasti leggermente feriti. Calma, mettiamo ordine, altrimenti all’interno di questo tam-tam non ci si capisce nulla, il che è proprio quello che in molti vogliono. Sono tanti i particolari da mettere in luce per cui è meglio essere quanto più sintetici possibile.
L’UNIFIL è formata da militari provenienti da vari paesi che rispondono alle Nazioni Unite, per farla più semplice, sono militari che alcuni eserciti prestano all’ONU al fine di far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in zone difficili del mondo. Pertanto l’UNIFIL risponde alle direttive ONU ed è sotto la responsabilità del palazzo di vetro a prescindere dalla nazionalità dei militari impegnati. Inoltre, è necessario sottolinearlo, attualmente il comando è della Spagna e i due militari leggermente feriti sono indonesiani. Pertanto, almeno per quello che si sa al momento, non ci sono italiani feriti.
Non appena sono state battute queste poche parole è subito sembrato, Massimo Decimo Meridio docet, che si fosse scatenato l’inferno con il ministro Guido Crosetto che, come l’Orlando Furioso, convocava l’ambasciatore israeliano per consultazioni, rispondeva ai giornalisti e in televisione lanciava accuse di crimini contro l’umanità. Il ministro della Difesa Crosetto dovrebbe sapere che esistono delle regole in diplomazia che vanno rispettate anche nei momenti più difficili, soprattutto nei momenti più difficili, e queste regole prevedono che per cortesia diplomatica un ambasciatore viene convocato dal ministro degli Esteri, solo in casi davvero eccezionali dalla Presidenza del Consiglio. Questo secondo caso è estremamente raro.
Secondo errore è che attualmente la carica di ambasciatore dello Stato di Israele in Italia è vacante, il vecchio ambasciatore non è più accreditato e quello nuovo deve ancora presentare le credenziali al Presidente della Repubblica. Pertanto la convocazione sarebbe dovuta arrivare al Console Generale attualmente facente funzioni. Se Crosetto fosse stato il ministro degli Esteri sarebbe stato al corrente di questo particolare non di poco conto.
Veniamo al fatto e come si è svolto. A essere colpita non è stata direttamente una base UNIFIL presidiata da soldati italiani, ma una torretta, un punto di avvistamento sulla quale erano state montate quattro telecamere basculanti. È necessario sottolineare che fino a quando il comando era in mano agli italiani i contatti fra l’IDF e l’UNIFIL erano continui, ma da quando c’è stato il passaggio di consegne a favore degli spagnoli tutto questo si è ridotto al minimo sindacale, anzi, sotto il minimo sindacale. In quella che è una zona di guerra aperta, il comando dell’esercito israeliano aveva contattato nelle ultime dodici ore, e per quattro volte, le linee di comando UNIFIL chiedendo la rimozione di quelle telecamere perché la zona a ridosso interno dell’area è presidiata dai terroristi di Hezbollah e non sussistevano garanzie sufficienti a escludere possibili connessioni alle immagini riprese dalla torretta.
Hackerare delle telecamere è relativamente semplice e quelle montate sulla torretta dell’UNIFIL avrebbero potuto dare, e sicuramente l’hanno dato altrimenti non ci sarebbe stata la reazione israeliana, informazioni ai terroristi di Hezbollah sui movimenti delle truppe IDF che avanzano in Libano alla ricerca di armi e dei lanciatori di missili che da più di un anno tormentano le città del nord Israele. Per quattro volte la richiesta è caduta nel vuoto. Un portavoce dell’UNIFIL ha dichiarato alla stampa che la forza multinazionale ha respinto la richiesta israeliana di evacuare le postazioni lungo il confine tra Israele e Libano.
“Siamo lì perché il Consiglio di sicurezza ci ha chiesto di esserci. Quindi resteremo finché la situazione non diventerà impossibile per noi operare”, ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL Andrea Tenenti. Bisogna ricordare che l‘UNIFIL è stata creata per supervisionare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale dopo la fine del conflitto del 1978 e che L’ONU ha ampliato questa missione con la risoluzione 1701 che è seguita alla guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah. Questo ha consentito ai peacekeeper di dispiegarsi lungo il confine israeliano per aiutare l’esercito libanese a estendere la sua autorità nel sud del paese per la prima volta in decenni. La risoluzione 1701 chiede che il Libano meridionale sia libero da gruppi armati diversi dalle Forze armate libanesi.
Pertanto ciò che ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL è vero solo in linea di principio, perché di fatto l’UNIFIL, cioè l’ONU, non ha fatto nulla in venti anni per impedire la presenza armata di terroristi, di conseguenza non ha rispettato il suo mandato e le migliaia di missili di fabbricazione iraniana lanciati da Hetzbollah verso Israele sono la prova palese dell’inutilità della loro presenza in loco, inutilità che in più casi ha rasentato il danneggiamento lo sputtanamento internazionale. Negli ultimi 20 anni l’UNIFIL non ha visto i terroristi girare armati in zone dove non dovevano essere e non ha fatto nulla per allontanarli, l’UNIFIL non ha visto l’arrivo dall’Iran di migliaia di missili finiti nelle mani di Hezbollah e si è finta sorpresa quando quegli stessi missili hanno incominciato a volare verso il nord di Israele.
Ora, francamente, UNIFIL non ha mai fatto il suo lavoro, non ha mai fatto rispettare il mandato, per 20 anni è stata le tre scimmie in una, non ha visto, non ha sentito e, soprattutto non ha mai parlato delle situazioni che si svolgevano davanti agli occhi chiusi degli osservatori internazionali e poi, magicamente, ritrova la vista e proprio mentre c’è una guerra in corso monta delle telecamere per vedere bene, allora gli occhi li hanno, sul lato israeliano. Si rifiuta di toglierle e quando vengono levate con la forza, dopo quattro avvertimenti in dodici ore, ritrova anche la parola per protestare contro Israele quando per Hezbollah in venti anni ha regnato il silenzio assoluto.
Insomma, Israele è riuscita a far ritrovare la vista e la parola ai ciechi e ai muti, è proprio vero che viviamo nella terra dei miracoli.
(nicolaporro, 11 ottobre 2024)
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Sinwar avrebbe comunicato di nuovo e chiesto l'immunità
Il leader di Hamas ha chiesto ai mediatori in Qatar l'immunità come parte di un accordo per liberare gli ostaggi rimasti.
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Yahya Sinwar incontra il Maggiore Generale Abbas Kamel, capo dell'intelligence egiziana (secondo da sin.) a Gaza City, maggio 2021
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Il leader di Hamas Yahya Sinwar avrebbe rinnovato questa settimana i contatti con i mediatori del Qatar per esplorare le possibilità di ottenere l'immunità come parte di un accordo di cessate il fuoco in cambio della liberazione degli ostaggi, ha riferito martedì il canale d'informazione israeliano Channel 12. La risposta dei mediatori qatarioti è stata di non ottenere l'immunità. La risposta dei mediatori del Qatar a Sinwar è stata di non concentrarsi su se stesso ma sugli ostaggi, che sono la questione più urgente. Israele non ha ancora risposto alla richiesta di Sinwar, ha riferito il sito di notizie. Analogamente, Ynet ha riferito in agosto che Sinwar voleva essere protetto da un possibile attentato israeliano. “Sinwar insiste per avere garanzie sulla sua sicurezza e sulla sua vita”, ha dichiarato un alto funzionario egiziano. Secondo Channel 12, due minacce del Qatar hanno indotto Sinwar a porre fine al suo lungo silenzio. In primo luogo, lo Stato del Golfo ricco di petrolio ha avvertito che non avrebbe finanziato la ricostruzione della Striscia di Gaza dopo la guerra. In secondo luogo, ha minacciato di sequestrare o congelare i conti bancari dei principali membri di Hamas in Qatar. Venerdì, il New York Times ha riferito che Sinwar sta cercando una guerra regionale più ampia e non è interessato a un cessate il fuoco con Gerusalemme. La mente del massacro del 7 ottobre, che si ritiene si nasconda nei tunnel della Striscia di Gaza, non crede di sopravvivere alla guerra e nelle ultime settimane ha indurito la sua posizione. “Nelle ultime settimane Hamas non ha mostrato alcun interesse per i colloqui, riferiscono i funzionari statunitensi. Sospettano che Sinwar stia diventando sempre più rassegnato mentre le forze israeliane lo inseguono e dicono che si stanno avvicinando”, ha riportato il Times. Israele aveva messo in dubbio che Sinwar fosse ancora vivo e i funzionari statunitensi e israeliani avevano riconosciuto che non c'era traccia di lui da mesi. Nel corso della guerra, iniziata il 7 ottobre 2023, ci sono stati altri periodi in cui Sinwar non è stato raggiungibile. Hamas detiene ancora 101 ostaggi, tra cui 97 dei 251 sequestrati durante l'assalto al Negev nord-occidentale di poco più di un anno fa, che ha ucciso 1.200 persone e ne ha ferite migliaia. I rappresentanti del Qatar coinvolti nei negoziati tra Israele e Hamas hanno riferito ai parenti degli ostaggi che Sinwar si sta circondando di prigionieri. Il generale di brigata dell'IDF (in pensione) Gal Hirsch, commissario del governo israeliano per i cittadini scomparsi e rapiti, ha dichiarato lunedì che Gerusalemme “non lascerà nulla di intentato” per liberare gli ostaggi rimasti. “Gli sforzi di negoziazione e i passi relativi ai negoziati sono costantemente in corso”, ha dichiarato in occasione del World Counterterrorism Summit presso l'Università Reichman di Herzliya. “Il problema è il tempo che ci vuole. In ogni valutazione della situazione e in ogni discussione nel gabinetto, sottolineiamo la situazione degli ostaggi e il ticchettio del tempo”, ha continuato Hirsch.(JNS)
(Israel Heute, 10 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Roma - Il ricordo del 9 ottobre. Fadlun: Filo rosso con il presente
All’esterno del Tempio Maggiore di Roma una lapide ricorda che il 9 ottobre del 1982, al termine della preghiera, proprio qui «mani assassine per odio antisemita» uccisero il piccolo Stefano Gaj Taché, di due anni appena, e ferirono altre 40 persone (alcune di loro per giorni in bilico tra la vita e la morte). «Mani assassine» di terroristi palestinesi, in un filo rosso che unisce il 9 ottobre di 42 anni fa al 7 di ottobre dello scorso anno. In entrambi i casi era Shemini Atzeret: festa gioiosa e solenne, profanata dalla medesima volontà annientatrice.
L’ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun, soffermandosi con i giornalisti al termine della breve commemorazione che si è tenuta come ogni anno davanti alla lapide nel giorno dell’anniversario. Due le corone deposte: una a nome della Comunità insieme all’Ucei, l’altra del Comune. Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha letto un salmo. E poi la cerimonia si è sciolta, senza interventi, in un commosso silenzio. In raccoglimento hanno sostato tra gli altri la presidente Ucei Noemi Di Segni; l’assessore comunale alla Cultura, Miguel Gotor; Daniela Gaj e Joseph Taché, i genitori di Stefano; Gadiel, il fratello, tra i feriti più gravi, già intervenuto domenica sera in una partecipata veglia in sinagoga.
«Il 9 ottobre del 1982», ha detto Fadlun ai giornalisti, «fu compiuto un attacco inaspettato, la cui violenza e il cui orrore hanno segnato la nostra comunità». Al dolore per la ferita ancora aperta, anche perché «giustizia non è stata fatta», si è aggiunto il trauma del 7 ottobre. C’è un legame, ha affermato, «ed è il profondo e vergognoso antisemitismo: si sono colpite delle persone perché ebree; questa non è politica, ma barbarie».
L’anniversario è stato commentato anche dalla presidente Ucei Noemi Di Segni in una nota. «Il clima di profonda tensione, minacce e distorsione mediatica diffusa» c’era allora e c’è oggi, denuncia Di Segni. «Pensare di poterli tenere a bada e che siano marginali è solo un’illusione».
(moked, 10 ottobre 2024)
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Il filo rosso dell’antisemitismo
Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.
(L'informale, 9 ottobre 2024)
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Come osi, Greta Thunberg. Bollata come 'incline alla violenza' per le marce su Gaza
Non più attivista climatica bensì odiatrice di Israele, Greta Thunberg ha cambiato pelle passando nel giro di pochissimo da adolescente portata in palmo di mano dai potenti della Terra a propagatrice della narrativa di Hamas in giro per l'Europa: in Germania la polizia l'ha definita "antisemita" e "incline alla violenza".
di Giulio Meotti
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Greta Thunberg con la kefia al collo
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A sedici anni, Greta Thunberg è diventata l’adolescente più famosa del mondo, ha incontrato capi di stato e di governo ed è stata nominata “Persona dell’anno” dalla rivista Time. Politici e celebrità la vedevano come l’autorità morale di “How dare you?”. La polizia tedesca ora ha classificato Thunberg come “incline alla violenza” in seguito al suo coinvolgimento in diverse manifestazioni pro Palestina. Lo ha deciso la polizia di Dortmund. Alexander Throm, portavoce della Cdu, sulla Bild si spinge a dire che sarebbe “non solo appropriato, ma persino necessario che il ministro dell’Interno emetta un divieto di ingresso per questa antisemita in futuro”. Oggi non c’è più il clima nella sua agenda: Greta si agita quasi esclusivamente contro Israele e sfila persino con gli islamisti a Neukölln, il quartiere berlinese dove una pasticceria ha distribuito dolci arabi per festeggiare il 7 ottobre e alla Rathaus, il municipio in Karl Marx Strasse, per tre settimane hanno issato la bandiera di Israele, ma di sera la toglievano per evitare che la dessero alle fiamme.
Una foto scattata a Berlino mostra quanto Greta si sia radicalizzata. Nell’anniversario del massacro del 7 ottobre, Greta ha posato per i selfie con gli odiatori degli ebrei. Si era recata a Berlino per prendere parte a una delle più grandi manifestazioni anti israeliane in Europa. I partecipanti alla marcia hanno attaccato gli agenti di polizia e gridato slogan vietati. Ora circola una foto in particolare in cui Greta posa con “Abdallahxbln”, come si fa chiamare su Instagram, e ripreso con il dito alzato degli islamisti. L’appello alla marcia dell’odio a cui ha partecipato Greta glorifica il terrorismo palestinese come “resistenza” e chiede la liberazione “totale”, ovvero la fine di Israele. La foto di Greta è stata condivisa dall’attivista anti israeliano Salah Said, che nel tempo libero si mobilita contro lo stato ebraico online e per le strade. E diffonde canali che flirtano con Hamas.
Sono finiti i giorni in cui Greta aveva il mondo ai suoi piedi. Politici e artisti, giornalisti e rappresentanti della chiesa pendevano dalle labbra della figlia minorenne di una buona famiglia di Stoccolma. E la sua trasformazione in predicatrice itinerante contro Israele dovrebbe far riflettere la sua vecchia claque. Jean-Claude Juncker la accolse a Bruxelles con un baciamano. Ovviamente, Thunberg ha ancora schiere di fan. Ma la cerchia dei sostenitori è cambiata. Ora incita al boicottaggio, si mostra sui social con il simbolo antisemita della piovra (l’ha poi cancellato), a Rotterdam condivide il palco con una odiatrice di Israele, manifesta insieme agli odiatori di Israele a Lipsia e a Malmö si mescola alla folla che urla “Sinwar (capo di Hamas) non ti lasceremo morire”.
In Olanda, Greta ha invitato a parlare una ragazza filo Hamas. Un uomo allora è saltato sul palco e, afferrando il microfono, ha detto con una certa rettitudine: “Sono venuto per una manifestazione sul clima, non per una visione politica”. Thunberg ha ripreso il microfono e iniziato a cantare: “Nessuna giustizia climatica nei territori occupati”. Non ci voleva uno scienziato per capire che questi slogan non hanno assolutamente senso.
Eppure, Franz Jung, vescovo cattolico di Würzburg, l’ha paragonata a David, eroe e re d’Israele, mentre a Heiner Koch, vescovo cattolico di Berlino, Thunberg ha ricordato “l’ingresso di Gesù a Gerusalemme”. Oggi Fridays for Future disconosce Greta.
Un declino autoimposto, quello di Thunberg. Qualche settimana fa, Greta era davanti all’Università di Copenaghen per chiedere la fine dei rapporti accademici con Israele e di un laboratorio danese-israeliano che si occupa di tecnologie green per l’ambiente. Non soltanto è Israele che fa arrivare l’acqua a Gaza. Non soltanto Israele è leader mondiale dell’utilizzo delle acque reflue. Non soltanto entro il 2030 un terzo di tutta l’energia israeliana arriverà da fonti rinnovabili. Israele è l’unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa. Ma tutto questo non sembra importare molto ai verdi “dal fiume al mare”.
(Il Foglio, 10 ottobre 2024)
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"Voglio andare in paradiso, all’inferno ci sono già stata"
Addio a Lily Ebert, superstite della Shoah diventata influencer a cento anni
di David Zebuloni
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Lily Ebert con il pronipote Dov Forman
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Lily Ebert, una delle figure di maggior spicco dell’ebraismo britannico, è venuta a mancare la mattina del 9 di ottobre all’età di 100 anni, circondata dalla sua numerosa famiglia: tre figli, dieci nipoti e trentotto pronipoti. Lily è nata in Ungheria nel dicembre del 1923 e nel mese di luglio del 1944, quando aveva 20 anni, è stata deportata con la sua famiglia nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Sua madre Nina, suo fratello minore Bela e sua sorella minore Berta sono stati immediatamente mandati nelle camere a gas, mentre lei e le sue sorelle Rena e Piri sono state scelte per il lavoro forzato. Così, sopravvissero all’inferno. Dopo la liberazione dai campi, Ebert si è trasferita in Svizzera per ricostruire la sua vita. All’inizio degli anni Cinquanta ha deciso di lasciare tutto e partire di nuovo, questa volta per migrare nel neo Stato ebraico. In Israele Lily ha trovato l’amore, si è sposata e ha dato alla luce tre figli. Nel 1967 lei e la sua famiglia si sono trasferiti definitivamente a Londra, dove abitano ancora oggi. In questa terza fase della sua vita, dopo essere diventata mamma e nonna, Lily ha iniziato la sua missione di sopravvissuta. È stata membro fondatore del Centro per i sopravvissuti alla Shoah in Gran Bretagna e ha portato la sua testimonianza in decine e decine di scuole in tutto il paese. Ebert ha deciso di condividere la sua storia soprattutto con i più giovani, convinta che solo loro potessero garantirle un futuro di pace. Lily è dunque diventata una figura conosciuta e molto amata all’interno dalla Comunità ebraica locale, ma solo nel 2021, nel pieno del Covid, alla veneranda età di 97 anni, il suo nome è diventato noto a tutti i giovani del mondo. È accaduto quando il suo giovane e intraprendente pronipote Dov Forman ha deciso di condividere la sua storia in rete. Nel pieno del lockdown, i due hanno cominciato a caricare dei filmati commoventi nei quali la bisnonna, seduta sulla sua soffice poltrona in salotto, raccontava la sua storia di sopravvissuta. Così è successo. Contro ogni previsione. Senza alcun preavviso. È successo e basta. Lily Ebert è diventata un vero e proprio fenomeno social. C’è chi direbbe: un’influencer. Con milioni di follower sparsi in tutto il mondo, Lily è diventata una vera celebrità. Ma non solo. Per molti è diventata una fonte di ispirazione. Un modello da cui attingere forza, coraggio, speranza. Fede. “Questo digiuno mi è familiare, perché ho digiunato durante tutto il periodo della mia prigionia nei campi”, ha spiegato la sopravvissuta in un filmato che ha condiviso lo scorso Yom Kippur. “Ricordo di aver detto a Dio che anche nel luogo più buio del mondo, non avrei mai rinunciato alla sua luce”. E non è tutto: il successo su Instagram e Tiktok ha presto varcato lo schermo del cellulare ed è diventato un libro biografico scritto proprio dal giovane Forman. Mi chiamo Lily Ebert e sono sopravvissuta ad Auschwitz (edito in Italia da Newton Compton Editori), è presto stato tradotto in molte lingue ed è diventato un bestseller in tutto il mondo. Il libro è stato anche promosso da Re Carlo, che ne ha scritto la prefazione. Lo stesso Re Carlo che un anno fa ha assegnato a Lily l’importante decorazione civile dell’Ordine dell’Impero Britannico, in una toccante cerimonia tenutasi al Castello di Windsor. “Ho il cuore infranto”, ha scritto Dov Forman quando ha annunciato la scomparsa della sua amata bisnonna. “La storia di Lily ha toccato milioni di persone in tutto mondo, insegnandoci cosa sia la resilienza e la fede. Lily non si è mai chiesta ‘Perché è proprio a me?’. Al contrario, ha investito tutte le sue forze per ricostruire la sua vita, sempre con il sorriso. Nonna Lily era la regina della nostra famiglia, ed era il mio eroe”. Dal 2021 a oggi, la sopravvissuta ad Auschwitz ha condiviso sul web centinaia di filmati indimenticabili. Filmati commoventi ed esilaranti nei quali parlava, pregava, cantava e ballava. Uno in particolare mi ha sempre toccato. “Quando compirò 120 anni e lascerò questo mondo, incontrerò Dio, gli mostrerò il numero che i nazisti mi hanno tatuato e gli chiederò di lasciarmi entrare in paradiso, perché all’inferno ci sono già stata”, ha detto Lily mostrando il marchio sbiadito sul braccio. Parole che oggi assumono un significato profondo, terribile, dolce e struggente. Possa il ricordo di Lily Ebert esserci di benedizione. E possa la sua anima in paradiso continuare a illuminare questo mondo sempre più incline al buio.
(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)
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Cinquant’anni senza Oskar Schindler. Daniel Vogelmann: Sono nato grazie a lui
di Adam Smulevich
Quando il 9 ottobre del 1974 si concluse la sua vita, il nome di Oskar Schindler non era ancora noto alla masse. Sarebbero trascorsi poco meno di vent’anni perché ciò accadesse, grazie al film-capolavoro di Steven Spielberg (Schindler’s List) che rese omaggio alla traiettoria del cinico imprenditore filo-nazista trasformatosi in salvatore di ebrei a Shoah in corso. Tra gli oltre mille prigionieri delle SS che beneficiarono della sua “lista” e soprattutto del suo coraggio c’era anche il tipografo Schulim Vogelmann, nato in Galizia nel 1903, residente a Firenze dal 1922, anche lui morto nel 1974.
«L’unico italiano tra gli ebrei di Schindler», sottolinea il figlio Daniel, poeta e fondatore della casa editrice Giuntina, nato a Firenze nel 1948. A cinquant’anni esatti dalla morte di Schindler «si accavallano oggi sensazioni profonde», racconta Vogelmann. «Se sono nato è stato grazie a lui e in tanti altri nel mondo si trovano nella mia condizione. Ce ne fossero state di più di persone come lui, a quel tempo, forse la Shoah non avrebbe avuto l’impatto che conosciamo».
Proclamato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, Schindler è sepolto in un cimitero cattolico di Gerusalemme, sul Monte Sion, appena fuori dalle mura della Città Vecchia. «Non credo ci siano altri ex nazisti nella sua condizione», afferma Vogelmann. Inevitabile un pensiero alla scena conclusiva di Schindler’s List, quando alcuni ebrei salvati dall’industriale, affiancati dagli attori, depositano un sasso sulla sua tomba come è uso nella tradizione ebraica. Oltre a quello, sono tanti altri i momenti della pellicola di Spielberg impressi nella memoria (e nel cuore) del figlio del tipografo italo-galiziano, «salvatosi anche per la padronanza di tante lingue, che come noto era decisiva in campo di sterminio». In particolare il discorso che l’industriale rivolge ai “suoi” ebrei, nel momento in cui prende congedo da loro con i liberatori alle porte. «È una scena potente e mi fa impressione pensare che mio padre fosse lì, quel giorno, ad ascoltarlo», dice Vogelmann. «Con quali sensazioni posso solo immaginarlo». Non c’era solo la gioia della liberazione. Al loro arrivo al campo di sterminio, i nazisti avevano trucidato la moglie Annetta Disegni e la loro figlioletta Sissel, di otto anni. Vogelmann si sarebbe poi sposato in seconde nozze con Albana Mondolfi e dalla loro unione, sarebbe nato Daniel.
Ad illuminare la vita dell’imprenditore “Giusto” è arrivato da poco anche un libro: Oskar Schindler. Vita del nazista che salvò gli ebrei di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pubblicato da Edizioni Terra Santa. Il libro ha tra gli altri un pregio, osserva Vogelmann: «Far risaltare il ruolo di Emilie Schindler, la moglie di Oskar, che fu accanto al marito nell’opera di salvataggio».
(moked, 9 ottobre 2024)
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Netanyahu minaccia il Libano di devastazioni come nella Striscia di Gaza
L’8 ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato la popolazione libanese di devastazioni paragonabili a quelle della Striscia di Gaza se non si libererà di Hezbollah, mentre Israele ha intensificato la sua offensiva di terra nel sud del Libano.
Il giorno precedente, nel primo anniversario dell’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre 2023, Netanyahu aveva promesso di continuare a combattere fino alla completa distruzione di Hamas e Hezbollah, gruppi sostenuti dall’Iran.
“Liberate il vostro paese da Hezbollah”, ha dichiarato l’8 ottobre in un videomessaggio rivolto alla popolazione libanese, minacciando in caso contrario “distruzione e sofferenza come a Gaza”, dove l’esercito israeliano sta portando avanti da un anno un’offensiva militare.
(ANSA, 9 ottobre 2024)
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A un anno dal conflitto cresce il dissenso tra i palestinesi di Gaza
«Abbiamo perso tutto, per cosa»? È il grido pieno di rabbia tra i residenti di Gaza, sempre più frustrati nei confronti di Hamas mentre il conflitto sembra non avere tregua. Dopo mesi di devastazione e isolamento, molti palestinesi iniziano a sentirsi abbandonati dai propri leader. Per troppi mesi la paura ha impedito a molti di loro di esprimere apertamente le proprie opinioni, ma ora, la consapevolezza della dura realtà sta emergendo. Le scelte fatte da Hamas e Fatah, senza il coinvolgimento della popolazione, hanno avuto conseguenze sconvolgenti, aggravando la situazione e peggiorando la vita quotidiana rispetto al passato, lasciando Gaza in una situazione sempre più critica. In un articolo di Reuters, si narra la storia di Samira, una madre di due figli che sospira ricordando con nostalgia la vita che aveva come insegnante di arabo, con una casa confortevole e una routine quotidiana. Ora, dopo l’attacco di Hamas a Israele avvenuto un anno fa, Gaza è caduta in un incubo di sofferenza e caos. «Nonostante tutte le difficoltà la nostra vita andava bene. Avevamo un lavoro, una casa e una comunità», confida Samira, che ha preferito non rivelare il suo cognome per paura di ritorsioni. La voce della donna si unisce così a un numero crescente di residenti che si chiedono se il prezzo pagato per l’assalto di Hamas del 7 ottobre sia stato eccessivo e molti si chiedono il senso di quanto accaduto rimpiangendo il passato. L’offensiva dell’IDF che ha fatto seguito all’attentato ha raso al suolo Gaza, uccidendo decine di migliaia di persone e costringendo più di un milione di palestinesi a fuggire dalle proprie abitazioni lasciando averi. Samira descrive Israele come «il nostro principale nemico, la fonte di tutti i nostri mali», ma non risparmia critiche al leader di Hamas, Yahya Sinwar, accusato di aver fatto un grave errore di calcolo. Sinwar, alla guida del movimento dal 2017, è ora il bersaglio di una caccia all’uomo. Fonti vicine a lui lo descrivono come un leader determinato, ma cauto, capace di comprendere le difficoltà quotidiane della popolazione. Tuttavia, un articolo pubblicato da Israele.net suggerisce che Sinwar potrebbe essere più interessato a rafforzare la potenza militare di Hamas che a preoccuparsi del benessere degli abitanti di Gaza. Un documento, visionato dal quotidiano tedesco Bild, trovato nel suo computer, indica tattiche per manipolare l’opinione pubblica mondiale, incolpare Israele e utilizzare la tortura psicologica sulle famiglie degli ostaggi. «Cosa stava pensando? Non si aspettava che Israele avrebbe distrutto Gaza?», si chiede ancora Samira. In conversazioni con numerosi residenti di Gaza, emerge una situazione complessa: alcuni considerano Hamas un eroe per l’attacco del 7 ottobre, quando i militanti palestinesi hanno organizzato un raid senza precedenti in Israele, ma altri avvertono che le conseguenze delle azioni del gruppo hanno portato a una devastazione inaccettabile. Sinwar, 62 anni, non è stato visto in pubblico dal raid, in cui sono morte circa 1.200 persone e altre 251 sono state rapite. Vive per lo più nell’ombra, nascosto nella rete di tunnel sotto Gaza, persuaso che la lotta armata e la violenza sia l’unico modo per ottenere uno Stato palestinese. Hamas sostiene che l’attacco del 7 ottobre, il più mortale nella storia di Israele, rappresenti una svolta nella lotta per la nazionalità palestinese, che negli ultimi anni è stata trascurata. Tuttavia, i dati sono devastanti. Un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) a Ramallah e finanziato da donatori occidentali, ha mostrato per la prima volta che la maggioranza degli abitanti di Gaza si era opposta alla decisione di Hamas di attaccare. Il 57% delle persone intervistate ha dichiarato che l’offensiva era errata, in netto calo rispetto al 39% di coloro che la consideravano giusta lo scorso giugno. Nonostante le repressioni di dissenso che Hamas ha spesso attuato, si sono verificate alcune rare manifestazioni pubbliche di malcontento. Ahmed Youssef Saleh, ex funzionario di Hamas, ha sollevato interrogativi su Facebook, chiedendo se qualcuno avesse considerato le conseguenze prima di lanciare un attacco che avrebbe portato a un’invasione israeliana. Dall’agosto scorso, i segnali di dissenso sono di fatto aumentati. Ameen Abed, un attivista che ha criticato l’attacco del 7 ottobre, è stato picchiato da uomini mascherati e ha dovuto essere ricoverato. Suo padre ha usato un megafono per accusare Hamas dell’attacco nel campo profughi di Jabalia. In risposta, Sami Abu Zuhri, un alto funzionario di Hamas, ha minimizzato tali critiche, definendole «osservazioni limitate» che derivano dal dolore della popolazione. «Non avevamo altra scelta che lanciare questa grande battaglia, a prescindere dal costo, perché la causa palestinese stava per finire a causa della crescente aggressione e dei crimini israeliani contro il nostro popolo e i nostri luoghi sacri», ha affermato. Il dissenso emerge come un elemento cruciale per Hamas, che cerca di mantenere la sua influenza a Gaza anche dopo la guerra, nonostante le affermazioni di Israele e degli Stati Uniti che il gruppo non potrà avere alcun ruolo nel governo della Striscia. Ashraf Abouelhoul, caporedattore del quotidiano egiziano Al-Ahram, osserva che la situazione interna di Gaza cambierà se la popolazione si renderà conto che la vita è diventata insostenibile. Tuttavia, l’Iran potrebbe voler mantenere un ruolo per Hamas nel contesto di un conflitto regionale più ampio. I palestinesi attribuiscono a Israele la loro miseria economica e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, vedendo l’attacco del 7 ottobre come una risposta all’occupazione di lunga data, piuttosto che a specifiche azioni israeliane. Mahmoud, un giovane sfollato di Gaza City, critica le Nazioni Unite e le potenze occidentali per non aver sostenuto le aspirazioni palestinesi a uno Stato. Le prospettive per una soluzione a due Stati appaiono sempre più distanti. Un recente sondaggio ha mostrato comunque un calo nel supporto per Hamas, con più abitanti di Gaza che preferiscono l’Autorità Nazionale Palestinese al governo di Hamas dopo la guerra. Khalil Shikaki, direttore del PSR, afferma che «per la prima volta, più abitanti di Gaza desiderano che l’Autorità Nazionale Palestinese, e non Hamas, governi la Striscia dopo la guerra». Anche in Cisgiordania, il consenso per l’attacco è diminuito, nonostante quasi due terzi degli intervistati credano ancora nella sua giustezza. Tuttavia, la vera misura del supporto per Hamas a Gaza non potrà essere valutata fino alla fine del conflitto.
(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)
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Genocidio palestinese e altri miti fantastici
A quelli che manifestano e gridano al «genocidio palestinese» basterebbero poche ore di studio per vedere quanta falsità e ipocrisia, quanta ignoranza e quanto vero antisemitismo si nascondono dietro a quella frase
di Franco Londei
Oggi parliamo di genocidio palestinese perché ho sentito alcuni manifestanti pro-pal che hanno partecipato alle varie manifestazioni di questi giorni parlare di «genocidio palestinese da parte di Israele che dura da 70 anni» e mi sono allarmato come si allarmerebbe qualsiasi buon cittadino. Così mi sono informato. Partendo dal presupposto che per «palestinese» ho preso in considerazione la popolazione araba per lo più di origine giordana ed egiziana migrata nella regione geografica situata tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, che comprende anche il Mar Morto e parti del deserto del Negev, mi sono andato a guardare l’evoluzione numerica dei palestinesi dalla nascita di Israele ad oggi in questa area geografica. Allora, alla nascita di Israele i palestinesi presenti in quel territorio erano 1,2 milioni. Oggi nel territorio che comprende la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Israele e Gerusalemme est i palestinesi sono attorno ai 5,5 milioni. A questi vanno aggiunti 438.000 palestinesi che abitano in Siria, 422.000 che abitano in Libano e circa 13.000 che abitano in Iraq. Circa due milioni sono i palestinesi in Giordania, tornati alle origini e quindi in parte naturalizzati. Facendo due conti ad oggi la popolazione palestinese è di 8.373.000 contro il 1,2 milioni che erano nel 1948. Anche togliendo i due milioni che sono tornati in Giordania, si parla sempre di 6.373.000 palestinesi. Giusto per essere chiari, secondo il vocabolario Treccani per genocidio si intende la «sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa». È la prima volta nella storia che c’è un genocidio alla rovescia, cioè che una popolazione invece di essere distrutta cresce e si moltiplica. Dato che c’ero mi sono andato a vedere anche un po’ di storia di quei palestinesi che vivono ai margini del territorio che ho preso in considerazione. Così scopro che in Siria prima della guerra civile ne vivevano 560.000 e che quindi ne mancano all’appello 122.000. Approfondisco e scopro che buona parte di questi sono stati eliminati dai russi in complicità con Hezbollah in quanto ritenevano i palestinesi complici di Al Nusra. Però non mi pare di aver sentito niente dai pro-pal, tanto meno ho sentito parlare di «genocidio palestinese» in Siria. E che dire dei palestinesi che vivono in Libano? Ho scoperto che sono sottoposti a diverse restrizioni. Per esempio sono esclusi da molte professioni regolamentate, come medicina, ingegneria e legge. Possono lavorare solo in settori specifici e spesso in condizioni precarie. Non hanno accesso ai servizi sociali. Non hanno gli stessi diritti civili dei cittadini libanesi e sono spesso soggetti a discriminazioni. Eppure non ho mai sentito parlare di apartheid in Libano ai danni dei palestinesi. Nondimeno mi appare evidente. Persino nella patria d’origine, la Giordania, quelli non naturalizzati vivono ai margini della società e non godono di molti servizi civili, non possono andare a scuola o lavorare ovunque. Se poi provengono dalla Striscia di Gaza gli è impossibile ottenere la cittadinanza giordana. E anche qui non ho mai sentito parlare di apartheid giordana nei confronti dei palestinesi. Dunque, mi è bastata qualche ora di tempo per raccogliere queste informazioni, facilmente fruibili sul web. Non capisco quindi come mai questi cosiddetti «pro-pal» urlano al genocidio palestinese da parte di Israele. Non capisco come fanno a urlare «Palestina libera dal fiume al mare». Mi viene il dubbio che non sappiano né quale sia il fiume, né quale sia il mare. Ma soprattutto mi viene il dubbio che non sappiano proprio niente dei palestinesi. Infatti non ho visto manifestazioni per i palestinesi massacrati in Siria (e in Iraq), per i diritti di quelli in Libano o in Giordania. Non ho visto nemmeno manifestazioni contro Assad o Hezbollah che pure ne hanno massacrati oltre 100.000. E allora, non è che il problema è Israele? Non è che tutte queste manifestazioni contro il cosiddetto «genocidio palestinese» altro non sono che manifestazioni finalizzate a prendere di mira Israele e gli ebrei? Che mirano a istigare odio? I numeri sono questi. Implacabili.
(Rights Reporter, 9 ottobre 2024)
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Gli Stati Uniti bloccano i beni di Mohammad Hannoun, accusato di essere il principale finanziatore di Hamas in Europa
di Luca Spizzichino
Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha recentemente inserito Mohammad Hannoun nella lista delle Specially Designated Nationals (SDN), bloccando i suoi beni e impedendogli di effettuare transazioni finanziarie con individui o entità americane. Hannoun, considerato uno dei principali leader in Europa della rete di finanziamento occulto di Hamas, si è spesso presentato come un attivista umanitario impegnato nella raccolta di fondi per Gaza. Tuttavia, le indagini rivelano che dietro queste attività si celano operazioni volte a sostenere il braccio militare del gruppo terroristico palestinese.
Non è la prima volta che l’architetto palestinese si trova al centro di inchieste per sospetto finanziamento al terrorismo. Nel luglio 2023, le autorità italiane si sono mosse dopo segnalazioni ricevute dai servizi di intelligence israeliani dello Shin Bet, in merito a circa un milione di euro distribuiti tra Italia, Germania e Stati Uniti.
Secondo quanto denunciato dal giornalista Massimiliano Coccia su Linkiesta lo scorso dicembre, Hannoun utilizza associazioni di copertura come l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (Abspp), attraverso le quali vengono raccolti fondi destinati al finanziamento di operazioni terroristiche. Con l’arresto nei Paesi Bassi di Abu Rashid per finanziamento illecito al terrorismo, Hannoun ha guadagnato ulteriore rilievo nel network di associazioni europee che forniscono risorse a Hamas.
L’inserimento di Hannoun nella lista SDN segue la chiusura di conti bancari a lui collegati da parte di istituti come Unicredit e Poste Italiane, sospettati di essere utilizzati per transazioni legate al finanziamento del terrorismo. Al momento, l’unico conto ancora aperto a nome dell’associazione è quello presso Crédit Agricole, ma, secondo Coccia, è solo questione di giorni prima che la banca francese prenda provvedimenti in linea con gli altri istituti di credito.
“La decisione di sanzionare e congelare i beni di Mohammad Hannoun e delle associazioni pro-Hamas legate alla sua rete è una notizia significativa per chi, come me, ha scritto e raccontato fin dal 2020 la rete associativa criminale di finanziamento di Hamas in Europa e in Italia”, ha dichiarato Coccia a Shalom. Il giornalista de Linkiesta ha però sottolineato che ora spetta alla magistratura italiana verificare le attività criminali di queste organizzazioni. “Il problema di avere strutture para-terroristiche sul nostro territorio, mascherate da associazioni benefiche, non riguarda solo Israele e gli ebrei in Italia e nel mondo, ma rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale e la tenuta democratica dello Stato”, ha aggiunto.
Hannoun, oltre a essere un nodo centrale della rete di finanziamento, resta anche una figura organizzativa di rilievo nei cortei pro-palestinesi a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni, sollevando ulteriori preoccupazioni sull’ordine pubblico e la sicurezza nel Paese.
(Shalom, 9 ottobre 2024)
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Cacciato dall'Italia l'imam filo-Hamas
di Pietro Senaldi
L'imam Zulfiqar Khan, pakistano, predicava a Bologna l'odio islamico contro Israele. Espulso dall'Italia dopo le segnalazioni di due deputati di FdI: Sara Kelany e Marco Lisei. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo il 7 Ottobre. «Coloro che si schierano con Israele e gli Stati Uniti faranno una brutta fine». E poi: «Perpetrate la jihad contro gli ebrei, questi bugiardi e assassini». E ancora: «Il re di Giordania è un infedele perché ha difeso gli impuri sionisti di Israele». E di più: «Stiamo aspettando il castigo per gli infedeli, viene da parte di Allah con le mani di Hamas e Hezbollah, perché Hamas non è un’organizzazione terrorista ma difende il proprio territorio». Infine la confessione: «Se qualcuno mi dice che sono un estremista islamico io rispondo di sì, perché estremismo significa seguire i fondamenti della religione. È tempo di risvegliare le menti delle genti». Queste erano le parole dei sermoni dell’imam Zulfiqar Khan, pakistano istigatore di odio in servizio delirante presso il centro islamico Iqraa, in quel di Bologna.
• RETE DI ESPULSIONI Odio, guerra, distruzione, antisemitismo: ecco l’insegnamento del sacerdote del terrore, espulso ieri dopo le segnalazioni degli onorevoli Sara Kelany e Marco Lisei, entrambi di Fratelli d’Italia, che con un’interrogazione parlamentare hanno svelato questo profeta di sventura e spacciatore di lutti. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo la mattanza da parte di Hamas del 7 ottobre 2023 di quasi mille e duecento cittadini israeliani, prelevati nelle loro case o al rave party Supernova, immensa festa musicale di ragazzi nel deserto. Tanto che il Viminale, riferendosi a lui, parla di «crescente fanatismo ideologico» ed «esaltazione del martirio».
L’iman, che era solito esortare i propri fedeli a «non pagare le tasse perché le risorse devono restare nella comunità islamica», ne aveva per tutti, anche per gli omosessuali, definiti «persone che Allah castigherà con una punizione molto forte».
Si tratta della novantaquattresima espulsione per terrorismo dal 7 ottobre 2023 a oggi.
«Dopo lo scoppio della guerra, l’allerta è stata alzata di molto - rivelano fonti del ministero dell’Interno, - ma l’Italia è in una situazione di relativa sicurezza». In particolare, quella di Zulfikar Khan segue di appena due giorni la segnalazione al nostro Paese da parte dei servizi segreti americani di Mohammed Hannoun e della sua associazione nella lista di quanti organizzano qui da noi attività umanitarie, che altro non sono se non una copertura per raccogliere fondi da inviare ad Hamas a Gaza.
Dal 22 ottobre 2022, data di insediamento del governo, sono invece 164 i soggetti espulsi dallo Stato per ragioni di sicurezza, tutti segnalati per terrorismo, radicalizzazione, rischio di attentati. Il problema principale, in termini di minaccia islamica, è dato dalle moschee abusive, dove si predica in arabo per nascondere gli inviti alla guerra santa e il sentimento anti-semita e anti-occidentale.
• RISCHIO MODERATO Gli esperti però rivelano che la presenza in Italia di fanatici islamici pronti a tutto è molto calata negli ultimi dieci anni.
Merito anche delle intese firmate dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, con le comunità musulmane per avere prediche in italiano e per delle scuole di formazione degli imam, altrimenti improvvisati. La svolta dell’accordo fu riuscire a convincere anche l’Ucoii, la siglia meno moderata della comunità islamica.
Ma l’abbassamento dei livelli di rischio rispetto a una decina d’anni fa è legata anche al fatto che il marchio Hamas, fuori dalla Palestina, emoziona più l’estrema (e anche quella un po’ moderata) sinistra nostrana che non i musulmani.
La sigla infatti, a differenza dell’Isis, che era stato capace di rappresentare un simbolo per tutto l’islam in armi contro l’Occidente, viene per lo più interpretata come legata a una problematica politica locale, non a una questione religiosa e identitaria. Segno che la popolazione palestinese è vissuta da chi dice di volerla difendere come uno strumento di guerra contro Israele piuttosto che come un fine. Ne è riprova il fatto che la comunità palestinese si è sfilata dal corteo pro-Pal di sabato scorso a Roma, dove i manifestanti che dicevano di scendere in piazza per la pace hanno ferito trenta agenti delle forze dell’ordine.
• ANTISEMITISMO Malgrado Hamas in Italia possa contare su tanti estimatori ma poche truppe effettive, le autorità ricordano che è invece in aumento vertiginoso l’antisemitismo in Italia, e questo a causa della copertura politica che un’ampia parte del campo largo dà alle manifestazioni di facinorosi anti-israeliani. Nel solo ultimo anno, dall’eccidio del 7 ottobre 2023 a oggi, c’è stato un incremento del 400% delle azioni antisemite nel nostro Paese, che ormai sono una novantina al mese.
È un allarme che è destinato a crescere e a durare nel tempo, perché l’odio razziale verso il popolo ebraico dilaga nelle giovani generazioni, presso le quali il credito della Shoah si è esaurito. Purtroppo, la difesa della causa di Israele ha subito in Italia ormai una divaricazione politica: il centrodestra schierato con Gerusalemme, il centrosinistra invece freddo, con una partecipazione non sentita, stanca, di prammatica, doveristica, al ricordo nelle sinagoghe del pogrom subito un anno fa dagli ebrei in casa loro.
Libero, 9 ottobre 2024)
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Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano
Si tratta di un'opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare.
L’ex primo ministro Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano che, a suo dire, “getta un’ombra oscura sul nostro futuro”, in mezzo a indiscrezioni che obiettivi militari o di intelligence iraniani, ma non le centrali atomiche, potrebbero essere colpiti in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran della scorsa settimana. “Per la prima volta, abbiamo la possibilità di agire contro l’Iran senza temere una reazione terribile e intollerabile”, ha dichiarato Bennett in una dichiarazione video, riferendosi alla debolezza dei proxy di Teheran, i gruppi terroristici Hezbollah e Hamas. “Il regime iraniano terrorista e omicida è esposto e vulnerabile per la prima volta”, ha dichiarato. “Questa è una finestra di opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare”, afferma Bennett. Proprio questa mattina, il New York Times ha riportato che Israele non aveva un vero e proprio piano per attaccare il programma nucleare iraniano fino a quando Bennett non è diventato primo ministro nel 2021, essendosi invece concentrato su Hezbollah. Bennett ha rapidamente “ordinato nuove esercitazioni per simulare i voli a lunga distanza verso l’Iran e ha investito nuove risorse nei preparativi”, secondo il quotidiano.
(Rights Reporter, 8 ottobre 2024)
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7 ottobre 2023-7 ottobre 2024. Il fratello di due prigionieri: “La liberazione degli ostaggi porterà il
cessate il fuoco”
di Nathan Greppi
“Sono figlio di Doron e Talia, che si sono salvati dal massacro di Kfar Aza. Io sono fratello maggiore di Idan, e anche lui si è salvato. Sono fratello di Ziv e Gali, che il 7 di ottobre sono stati presi in ostaggio dai terroristi di Hamas e portati a Gaza”. È cominciata così la testimonianza di Liran Berman, i cui fratelli, i gemelli Ziv e Gali, sono stati rapiti il 7 ottobre nel Kibbutz Kfar Aza e sono tuttora nelle mani di Hamas.
“Ziv e Gali sono i miei fratelli minori, e sono la luce della nostra casa”, ha spiegato Liran Berman. “E non è casuale che lavorino proprio nel mondo delle illuminazioni musicali. Da quando sono nati, Ziv e Gali sono sempre stati amici del cuore: tifosi della stessa squadra di calcio, amanti della stessa musica, sono i migliori nipoti per i propri nonni. Sono i figli migliori dei nostri genitori. Sono i miei fratelli migliori, e gli zii migliori per i miei figli”.
“Il 7 ottobre, in tutta Israele ci siamo svegliati alle 6:29 con le sirene che suonavano in tutto il paese. Pensavamo che fosse il solito attacco missilistico, a cui abbiamo fatto l’abitudine. Man mano che passavano le ore, dalla mattina presto, abbiamo cominciato a capire che era molto più grande di quello che pensavamo. Abbiamo capito che i terroristi si sono infiltrati in molte città al confine con Gaza”.
“L’ultimo contatto che abbiamo avuto con i miei fratelli”, ha raccontato, “è stato alle 10 del mattino. Più tardi, poi, abbiamo scoperto che questa è stata l’ora in cui sono stati portati a Gaza. I miei genitori sono stati portati in salvo, intorno a mezzanotte dello stesso sabato, e mio fratello Idan, invece, è stato messo in salvo solo l’indomani. E da quando ho capito che sono stati presi in ostaggio, la mia missione è quella di riportare a casa tutti gli ostaggi”.
Ha infine dichiarato: “Gli ostaggi vivi devono tornare a casa, e anche quelli che non sono più vivi e che sono tenuti in ostaggio devono tornare a casa per ricevere una degna sepoltura”. Ha concluso dicendo: “Non sono io qui l’eroe, il protagonista, ma sono i miei fratelli minori, e insieme a loro gli altri ostaggi che da più di un anno vengono tenuti nei tunnel di Hamas. Sono loro i veri eroi di questa storia, e loro vanno riportati a casa. A voi voglio dire che non ci fermeremo finché tutti gli ostaggi non torneranno a casa, fino a quando mia madre non potrà riabbracciare e baciare Gali e Ziv, fino a quando i miei figli non potranno di nuovo giocare con loro, e finché io non potrò riabbracciarli nuovamente. E a voi tutti, chiedo di cambiare terminologia: la liberazione degli ostaggi porterà il cessate il fuoco”.
• Spizzichino (Ugei): “Preoccupa la normalizzazione dell’antisemitismo mascherato da antisionismo nelle università” “L’anno passato è stato segnato da eventi che hanno profondamente scosso la nostra comunità in modi che non avremmo mai potuto immaginare”, ha dichiarato sul palco Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia). “Il 7 ottobre ha ferito profondamente l’intero popolo ebraico. La brutalità di quel giorno ha scosso ciascuno di noi e ha risvegliato un odio antico, che ha trovato terreno fertile ed è tornato a manifestarsi con forza e pericolosità, persino nelle università italiane”.
Ha continuato spiegando che “quello che oggi ci preoccupa di più non è solo la violenza fisica, ma la normalizzazione di questo odio, che si infiltra nei luoghi di formazione e cultura, nelle aule che dovrebbero essere spazi di tolleranza e libertà. È proprio qui che affrontiamo la forma più insidiosa di antisemitismo, che si mimetizza tra le aule e le discussioni. L’antisemitismo, oggi, si presenta con un volto più subdolo, quello dell’antisionismo, che ci rende bersagli, che ci isola”.
“In questi mesi, ci siamo sentiti esposti, vulnerabili, persino soli. Ma non ci siamo arresi, e non lo faremo ora. Siamo consapevoli delle minacce, come quella di una nuova ‘intifada universitaria’, ma non ci lasceremo intimidire. Non permetteremo che l’odio prevalga nei luoghi dove dovremmo sentirci liberi di studiare e crescere. Abbiamo fatto, stiamo facendo, e continueremo a fare tutto il necessario affinché ogni studente ebreo si senta protetto e al sicuro”.
Spizzichino ha spiegato che “fortunatamente non siamo soli. Negli ultimi mesi, abbiamo trovato preziosi alleati lungo il cammino. Il dialogo ha aperto nuove porte, e ci ha permesso di costruire ponti. Il sostegno che abbiamo ricevuto, specialmente grazie all’adesione di tante associazioni studentesche al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio, è stato cruciale. Questo manifesto non è solo una dichiarazione, ma un impegno concreto per garantire che ogni studente, indipendentemente dalle proprie origini, possa studiare in un ambiente sicuro e libero da discriminazioni. Ora è il momento di farlo applicare”.
Ha concluso dicendo che “in questo senso, noi giovani ebrei italiani abbiamo la responsabilità di essere protagonisti del nostro futuro. Continueremo a far sentire la nostra voce, a rivendicare il rispetto dei nostri diritti, sia nelle università che nella società in generale. Siamo consapevoli che le sfide saranno difficili, ma non perderemo mai la speranza. Con il coraggio che ci ha sempre contraddistinto, continueremo a lottare per un futuro fondato sul rispetto, la libertà e la sicurezza. L’Unione Giovani Ebrei d’Italia è qui e abbiamo bisogno di tutti vuoi per costruire un futuro migliore”.
• Il coro finale La serata si è poi conclusa con il coro Kol haShomrim insieme ai ragazzi dei movimenti giovanili Hashomer Hatzair e Benè Akiva, che hanno intonato la canzone israeliana HaBaita, e gli inni italiano e israeliano.
(Bet Magazine Mosaico, 8 ottobre 2024)
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Commemorazioni del 7 ottobre – Roma
Sabato 6 Ottobre – Partecipazione alla lettura dei nomi degli ostaggi nella piazzetta al fianco della Sinagoga La serata di sabato si è svolta con la lettura dei nomi degli ostaggi da parte di noi 5 (Bonnie Rose, Stefania Perciballi, Edda Fogarollo, Claudia Condemi ) e due giovani. Presenti in piazzetta al fianco della Sinagoga, un buon numero di ebrei che stavano uscendo, dopo la Commemorazione, dal Tempio, e che incuriositi si sono fermati a vedere e a partecipare a quello che stavamo facendo. È stato un momento emozionante, dopo la lettura dei nomi, liberare i 101 palloncini gialli al cielo in segno di partecipazione alla sofferenza degli ostaggi. Ho avuto anche il piacere di incontrare il giornalista Monteleone,oltre a complimentarmi con lui ho condiviso quello che stiamo facendo per Israele. Persona molto educata, simpatica e disponibile a cui ho regalato il nostro libro “Questa terra è la mia terra” La serata si è conclusa con i ringraziamenti da parte della Comunità Ebraica di Roma per la partecipazione degli evangelici. Grazie anche alla sorella Bonnie Rose che si è resa disponibile all’organizzazione…....
(EDIPI, 8 ottobre 2024)
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Gli errori e le responsabilità del 7 ottobre
di Ugo Volli
Dopo ogni guerra, Israele ha sempre istituito delle commissioni di inchiesta per individuare gli errori commessi, i loro responsabili e imparare da ciò che era accaduto; lo farà certamente anche questa volta: un’inchiesta è ancor più necessaria, perché un anno fa Israele si è fatto prendere di sorpresa e impreparato dall’assalto terrorista, pagando un costo altissimo per questo. Lo stesso primo ministro Bibi Netanyahu, in un’intervista al TIME, ha riconosciuto la responsabilità, scusandosi, dicendo di essere profondamente dispiaciuto per quanto avvenuto.
Senza anticipare i risultati dell’inchiesta e le reazioni dell’elettorato israeliano, bisogna prendere atto che ci sono stati errori e responsabilità. Parlarne non vuol dire naturalmente ignorare il fatto fondamentale di questa guerra: che Israele l’ha subita e non certo voluta, che la responsabilità morale e politica di tutte le morti e le distruzioni anche di quelle degli arabi di Gaza, ricade su chi ha deciso un anno fa di invadere Israele, sterminare, violentare e rapire i suoi cittadini inermi, di bombardare per mesi le città israeliane: Hamas, gli altri gruppi terroristici, gli arabi non inquadrati (“civili innocenti”) che hanno invaso le comunità di confine; e poi Hezbollah, gli Houti e innanzitutto l’Iran.
Ma il fatto che la colpa sia dei terroristi aggressori non cancella la responsabilità di chi in Israele aveva il compito di prevenirle. Senza parlare della conduzione vera e propria della guerra, ma ragionando schematicamente all’indietro dal 7 ottobre, si devono distinguere diversi livelli di responsabilità. Il più vicino ai fatti è la disorganizzazione tattica che impedì una reazione efficace all’attacco terrorista: in seguito a un allarme nella notte fra il 6 e il 7, in una veloce riunione telematica prima dell’alba, cui partecipò anche il capo di stato maggiore Herzi Halevi si decise che non c’era urgenza, si poteva attendere il giorno dopo, senza avvertire i politici e mettere in allarme i militari al confine. Questi erano pochi, in parte non armati (il personale di osservazione elettronica), non in posizione di combattimento. Furono facilmente sopraffatti dalle migliaia di terroristi. Non c’erano riserve pronte e, a parte l’azione eroica di qualche singolo, la reazione israeliana venne solo dopo molte ore e in maniera piuttosto confusa.
Facendo un passo indietro, questa impreparazione è conseguenza di un’erronea valutazione della “deterrenza” che, lo Stato Maggiore riteneva, Israele aveva ottenuto nei confronti di Hamas con le operazioni precedenti. Molte segnalazioni provenienti dai militari che seguivano le attività dei terroristi, furono ignorate o addirittura represse dai dirigenti del servizio di informazione militare (Haman) e da quello civile (Shin Bet). La barriera di sicurezza intorno a Gaza era progettata per dare l’allarme su incursioni di piccoli gruppi e non per resistere a un’offensiva organizzata di massa giudicata impossibile. Anche i numerosi preparativi mascherati da manifestazioni di massa non suscitarono il giusto allarme per la pretesa deterrenza, che suggerì anche di tagliare le forze di fanteria e dei carristi a favore dell’aviazione (la cosiddetta “riforma Gantz”). Vi sono poi due livelli contestuali. Uno è quello delle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, con i numerosi casi di rifiuto del servizio, soprattutto nell’aeronautica e nei servizi elettronici, che certamente diedero ai terroristi il senso di affrontare uno stato diviso e indebolito. Ancora più indietro vi è la politica, adottata da tutti i governi fino dal colpo di stato del 2007 di non cercare di eliminare Hamas da Gaza, sia perché si temeva che il vuoto di potere sarebbe stato più pericoloso, sia per dividere il fronte palestinista.
Per tutti questi livelli e per la conduzione successiva della guerra la commissione di inchiesta dovrà assegnare responsabilità precise e personali, al di là delle dimissioni che sono state già preannunciate o presentate. È probabile che quando arriverà la pace vi sia un ricambio profondo. nei vertici politici e militari di Israele.
(Shalom, 8 ottobre 2024)
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Popolazione israeliana vicina ai 10 milioni
GERUSALEMME - Nelle prossime settimane la popolazione israeliana dovrebbe superare il traguardo dei 10 milioni di abitanti. Lo ha annunciato un portavoce dell'Ufficio centrale di statistica al quotidiano online “Times of Israel”. Il motivo della pubblicazione delle statistiche è stato il capodanno ebraico, Rosh HaShanah.
Secondo le statistiche, in Israele attualmente vivono 9.999.000 persone. Di queste, 7,6 milioni sono ebrei e 2 milioni sono arabi musulmani. Ci sono anche cristiani non arabi e altre minoranze etniche. Gli ebrei rappresentano circa il 79% della popolazione totale, gli arabi circa il 21%.
Negli ultimi dodici mesi, la popolazione è aumentata di 118.000 persone. Sono nati 183.000 bambini, mentre sono morte 55.000 persone. Nonostante l'aumento, la tendenza della popolazione nel 2024 è cambiata: Il tasso di crescita è sceso dall'1,6% all'1,2%. Mentre nel 2023 sono immigrate in Israele 46.000 persone, quest'anno la cifra è stata di 33.000 persone.
• La guerra ha un impatto limitato sulla migrazione
Negli anni precedenti, ogni anno emigravano da Israele in media 16.000 persone. Sebbene per la prima volta l'Ufficio centrale abbia contato più emigranti che immigrati, ciò è dovuto principalmente a un nuovo metodo di conteggio, ha dichiarato il portavoce. Mentre negli anni precedenti venivano contate come emigranti le persone che lasciavano il Paese per più di un anno, il nuovo metodo include anche le persone che hanno lasciato Israele solo per pochi mesi. Il risultato è un numero molto più elevato di emigranti.
Complessivamente, la guerra di Gaza non ha avuto un grande impatto sui dati migratori, ha spiegato il portavoce. Il calo del numero di immigrati negli ultimi dodici mesi potrebbe avere anche altre cause oltre alla guerra. È anche difficile determinare le ragioni esatte dell'emigrazione. Il leggero aumento dei decessi, invece, può essere attribuito alla guerra: Solo nel primo attacco terroristico di Hamas sono morte circa 1.200 persone.
(Israelnetz, 8 ottobre 2024)
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Il leader dei palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, nella blacklist degli USA: “è di Hamas”
di Giovanni Giacalone
Il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, e l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), di cui è a capo, sono state inserite nella “blacklist” del Dipartimento del Tesoro statunitense e dunque sottoposti a sanzioni. Secondo quanto reso noto da Washington in data 7 ottobre 2024, Hannoun è indicato come membro di Hamas in Italia e accusato di aver inviato più di 4 milioni di dollari nell’arco di dieci anni all’ala militare dell’organizzazione terrorista palestinese utilizzando proprio l’ABSPP. Nel comunicato del Dipartimento del Tesoro si legge:
“Mohammad Hannoun (Hannoun) è un membro di Hamas con sede in Italia che ha fondato la Charity Association of Solidarity with the Palestinian People, o Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), un ente di beneficenza fittizio situato in Italia che apparentemente raccoglie fondi per scopi umanitari, ma in realtà aiuta a finanziare l’ala militare di Hamas. Come dirigente dell’ABSPP, Hannoun ha inviato denaro a organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018. Ha sollecitato finanziamenti per Hamas con alti funzionari di Hamas e ha inviato almeno 4 milioni di dollari ad Hamas in un periodo di 10 anni”.
E ancora:
“Hannoun e ABSPP sono stati designati per aver materialmente assistito, sponsorizzato o fornito supporto finanziario, materiale o tecnologico, oppure beni o servizi a sostegno di Hamas”.
Il soggetto in questione è stato più volte indicato dai media come uno degli uomini di Hamas in Europa e ci sono foto che lo ritraggono assieme a Khaled Meeshal e al defunto Ismail Haniyeh, l’ex leader di Hamas, eliminato a Teheran lo scorso luglio. L’ABSPP aveva già riscontrato diversi problemi, come già illustrato a suo tempo dal Sussidiario: nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’associazione per una serie di anomalie; dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane chiudeva unilateralmente il proprio rapporto. Subito dopo erano PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate a Hannoun e alla sua associazione. Le autorità israeliane avevano anche chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie dei kamikaze. In seguito alla chiusura dei conti bancari, Hannoun aveva richiesto ai suoi sostenitori di consegnare direttamente denaro contante presso le rispettive sedi della sua associazione tant’è che una troupe dell’Inkiesta si era recata presso la sede romana a Centocelle per testare il nuovo “metodo Hannoun” e aveva lasciato un’offerta senza ricevuta, senza controllo. Evidentemente però tramite contanti non è stato possibile raccogliere grosse somme e allora ecco arrivare la nuova iniziativa di Hannoun presentata presso la parrocchia romana di San Lorenzo di Lucina e con un nuovo IBAN, quello di Modestino Preziosi, indicato dal palestinese su Facebook come “testimonial ed il garante del Convoglio Umanitario della Pace per Gaza”. Il Giornale e OFCS Report avevano anche esposto i rapporti di Hannoun con politici italiani come Manlio Di Stefano, Matteo Orfini, Alessandro Di Battista e Laura Boldrini. Hannoun era anche stato invitato a parlare in Parlamento. Per quanto riguarda l’eccidio del 7 ottobre, è bene rammentare che, soltanto tre giorni dopo, il 10 ottobre, Hannoun aveva dichiarato ai microfoni di Rai3 che l’attacco di Hamas era “legittima difesa” e a gennaio 2024 aveva anche glorificato su Facebook Yahya Ayyash e Saleh al-Arouri, due terroristi di Hamas morti. Ecco la traduzione del post:
“In questo giorno è avvenuto il vigliacco assassinio; Misericordia ai martiri; Il leggendario ingegnere martire, che segnò una svolta nella storia della resistenza palestinese; Yahya Ayyash Abu Al-Baraa. La Palestina oggi ha un disperato bisogno del vostro spirito patriottico e della vendetta per lo spirito del martire Sheikh Saleh Abu Muhammad. I martiri non muoiono”.
Nel marzo del 2024, durante una manifestazione in stazione Centrale a Milano, aveva affermato:
“Concludo, con un applauso al popolo giordano, ai ribelli in Giordania che hanno obbligato il sistema di chiudere l’ambasciata israeliana. Invitiamo tutti i popoli arabi di fare lo stesso per cacciare via tutte le ambasciate israeliane, di chiudere e di trasformarle in centri per la resistenza. Un applauso alla resistenza dello Yemen, un applauso alla resistenza del Libano, dell’Iraq…”.
L’esternazione era stata ripresa anche in un filmato pubblicato su Facebook da Epal Media Center e sul profilo dello stesso Hannoun. In quell’occasione Hannoun aveva attaccato anche la senatrice Liliana Segre: “…abbiamo parlato qualche settimana fa della senatrice Segre che dubita, non si può chiamare genocidio perché c’è un’esclusiva riservata alla lobby, ai criminali che sono solo loro hanno subito un genocidio…” Il 13 ottobre 2023, Hannoun aveva utilizzato il pulpito del Centro Islamico di Genova per attaccare i paesi che sostengono Israele: “Abbiamo visto l’atteggiamento dei nostri governi italiano, europeo, americano e di alcuni paesi arabi che si sono schierati a favore di Israele, che hanno cominciato a piangere per le vittime, che hanno raccontato anche la menzogna per incoraggiare, a paragonare Hamas alla pari con l’Isis” … Tutto questo, per attaccare la “resistenza palestinese”. Il video è poi scomparso dalla pagina Facebook del Centro Islamico di Genova e dall’account di Hannoun pochi giorni dopo, ma oggigiorno è possibile salvare tutto ciò che viene pubblicato sul web. A questo punto non si può far altro che domandarsi come mai Hannoun possa operare indisturbato in territorio italiano nonostante tutto ciò che sta emergendo.
(L'informale, 8 ottobre 2024)
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Sette Ottobre
Israele,
un gioiello incastonato nel mondo
che il nemico brama per se’!
Demoni l’hanno violato,
vituperato, denigrato…
Quanto odio dall’intera umanità’!!!
Con il cuore straziato e lacerato,gli occhi
piangono lacrime di dolore costantemente
da troppo tempo ormai.
La vita scorre con l’ansia,
il sole sorge e tramonta
ma la mente è sempre avvolta nel buio.
Tunnel e morte, violenza e odio,
piazze e grida urlate:
“dal fiume al mare!”
La gioia di Gerusalemme, però’,
non si esaurisce col livore antisemita,
il popolo di ISRAELE vive,
soffre e gioisce, cade e si rialza, mille e
mille volte ancora… sempre!!!
“Ma quelli che sperano nell’Eterno
acquistano nuove forze,
s’innalzano con ali come aquile,
corrono e non si stancano,
camminano e non si affaticano!”
ISAIA 40:31
Carmela Palma
(Notizie su Israele, 7 ottobre 2024)
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7 ottobre
di Niram Ferretti
Un anno fa oggi, Hamas entrava in Israele perpetrando il maggiore eccidio di ebrei post Shoah. Coglieva Israele di sorpresa, provocando un trauma che ancora oggi è vivo e mettendo in luce, nel giro di pochissimo tempo, una realtà nota da tempo, ma mai così evidente; che agli ebrei, a cui si è perdonato attraverso una lunga e travagliata storia di essere ebrei, non è mai stato perdonato il Paese che hanno creato.
Il 7 ottobre ha messo a nudo, rapidamente, la cattiva coscienza dell’Occidente, la sua stucchevole ipocrisia, ha fatto cadere con un tonfo tutta la insopportabile retorica delle giornate della Memoria, riassunte nella formula stantia “Mai più!”. E’ stato il colpo di grazia dato all’idea che il genocidio perpetrato dai nazisti ottanta anni fa fosse da archiviare come un orrore irripetibile, irriproducibile, quando tremila jihadisti di Hamas, nel giro di poche ore hanno massacrato milleduecento ebrei (e tra loro anche pochi non ebrei), che sarebbero diventati idealmente tutti gli ebrei israeliani se non fossero stati fermati.
“Genocidio”, parola ben precisa, coniata da Raphael Lemkin giurista polacco ebreo per descrivere lo sterminio programmatico del suo popolo da parte dei nazisti, e ritorto oggi contro gli stessi ebrei vittime designate da altri potenziali perpetratori di genocidi, per trasformarli nei colpevoli, una volta che hanno reagito iniziando a bombardare Gaza. E qui, qui, si manifesta uno dei più consolidati tropi antisemiti, quello per il quale se gli ebrei vengono uccisi è colpa loro e se reagiscono contro chi ha cercato di ucciderli, sono colpevoli due volte.
La colpevolezza ebraica, ontologica per Hitler, è soprattutto oggi, dopo il 7 ottobre, la colpevolezza di Israele, ontologica anch’essa, che per essere dissociata dall’antisemitismo diventa antisionismo, ovvero l’antisemitismo à la page, quello sdoganabile, così come “sionista”, da parola designante tutti quegli ebrei che volevano autodeterminare il loro futuro sottraendolo all’arbitrio degli altri, è diventato, nelle menti deragliate degli odiatori una sorta di marchio di Caino, emblema di sopraffazione e usurpazione.
Tuttavia il 7 ottobre è anche qualcos’altro, è l’incudine su cui battere il martello del proprio riconoscersi a fianco di Israele, delle sue ragioni, della sua volontà di resistere e combattere l’oscurantismo feroce del radicalismo islamico. È stato ed è la prova del nove che permette di riconoscere coloro i quali lo giustificano, lo appoggiano, o lo obliano, chinandosi affranti sulle vittime civili di Gaza come se non ce ne fossero mai state altre, e molto più copiose, e molto molto meno piante, accusando Israele di stragismo e di barbarie, di uccidere preferibilmente donne e bambini.
Siamo qui, dopo un anno, con Israele costretto a combattere una guerra su più fronti, che non ha cercato, non ha voluto, come tutte le altre guerre precedenti di cui è stato vittima, mentre a Gaza, in condizioni disumane sono detenuti, non si sa quanti di loro ancora vivi, più di cento ostaggi, ad assistere al più virulento rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad ascoltare chi, Francia in testa, la Francia che già tradì Israele nel 1967, bloccando la fornitura di armi che gli aveva destinato, chiedere che non gli vengano più mandate armi.
“La solitudine di Israele”, così si intitola l’ultimo libro di Bernard-Henri Lévy, ovvero il suo isolamento, il recinto, o ghetto di appestato, di paria, che gli è stato in buona parte costruito intorno, la solitudine che ottanta anni fa costò la vita a sei milioni di ebrei, ma che oggi, nonostante il prezzo alto da pagare, non farà piegare a Israele la testa, non permetterà a chi ne vuole la scomparsa, che questa avvenga.
Il 7 ottobre è stato ed è per Israele, che oggi lo commemora, giorno atroce e di orrore puro, giorno di disfatta, ma, come sempre nella storia ebraica anche pungolo a rialzarsi, ad afferrare di nuovo il proprio destino, a non delegarlo ad altri, a combattere per affermarlo, per mantenerlo saldo.
(L'informale, 7 ottobre 2024)
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7 ottobre: tutti i numeri di un anno di guerra
17.000 terroristi sono stati uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; trovati 4.700 tunnel nella Striscia; colpite 11.000 postazioni di Hezbollah
di Sarah G. Frankl
Nel giorno in cui cade il primo anniversario del massacro del 7 ottobre, le forze di difesa israeliane (IDF) diffondono i numeri ufficiali di un anno di guerra che comprendono le operazioni dell’esercito e dell’aeronautica nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Secondo i dati diffusi questa mattina circa 17.000 terroristi di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra. In base alle informazioni diffuse l’esercito ha ucciso otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnia di Hamas e operativi con un grado simile. Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno individuato circa 4.700 tunnel. Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza. I combattimenti si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare, il mese scorso, in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano. In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 terroristi operativi, per lo più membri di Hezbollah, sostenuti dall’Iran. Il numero comprendeva 90 comandanti di Hezbollah. Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito. Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti. I numeri includono 13.200 missili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre. L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra. Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati in Libano. L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio. Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza. L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che stavano compiendo attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania. L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.
(Rights Reporter, 7 ottobre 2024)
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7/10/24 – Un anno di guerra: I dati dell’IDF
Un anno di guerra: I dati dell’IDF mostrano 728 soldati uccisi, e oltre 26.000 razzi lanciati contro Israele
Secondo l’esercito, sono 17.000 terroristi uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; 4.700 tunnel trovati nella Striscia; 11.000 postazioni Hezbollah colpite
Mentre il Paese segna un anno dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, l’ IDF ha pubblicato i nuovi dati sulle operazioni nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano, dal numero di razzi lanciati contro Israele al numero di siti colpiti dall’aviazione israeliana.
Secondo i dati, circa 17.000 agenti di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra, oltre a circa 1.000 terroristi all’interno di Israele il 7 ottobre, quando uomini armati si sono scatenati nelle comunità del sud massacrando circa 1.200 persone, per lo più civili, e rapendone 251 a Gaza.
Israele ha risposto con una campagna militare per rovesciare il regime di Hamas nella Striscia di Gaza, distruggere il gruppo terroristico e liberare gli ostaggi.
Il ministero della Sanità gestito da Hamas ha dichiarato che oltre 41.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, anche se la cifra non può essere verificata in modo indipendente e si ritiene che includa sia i civili che i membri di Hamas uccisi a Gaza.
I dati dell’IDF dicono che l’esercito ha eliminato otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Secondo i dati, sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnie di Hamas e operatori di grado equivalente. Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno localizzato circa 4.700 tunnel, ha dichiarato l’IDF.
Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza. Gli scontri si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare il mese scorso in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano.
In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 agenti terroristici, per lo più membri degli Hezbollah sostenuti dall’Iran. Il numero comprende 90 comandanti di Hezbollah, secondo l’IDF. Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito.
Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti.
I numeri includono 13.200 proiettili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre. L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra.
Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero almeno centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati brevemente in Libano. L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio.
Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre – l’ultima domenica. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza.
L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che hanno compiuto attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania, ha dichiarato l’IDF.
L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.
(Israele360, 7 ottobre 2024)
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ROMA – 7 ottobre, 9 ottobre: il ricordo che unisce
di Adam Smulevich
Il cittadino italiano Victor Green, 33 anni, è la settima vittima dell’attentato terroristico di Jaffa. «Il legame tra Italia e Israele passa purtroppo anche da questo», ha dichiarato Jonathan Peled, il neoambasciatore dello Stato ebraico a Roma, intervenendo in un Tempio Maggiore gremito per il ricordo di due tragici eventi: il pogrom del 7 ottobre, a un anno dalla carneficina; l’attentato palestinese alla sinagoga del 9 ottobre 1982. C’è un legame, ricordava la Comunità ebraica nel dare appuntamento alla commemorazione. E non soltanto perché in entrambi casi era Shemini Atzeret, festa gioiosa trasformatasi in tragedia. Ma perché permane la stessa, esistenziale, minaccia del terrorismo. «Israele non voleva questa guerra», ha detto l’ambasciatore, al suo primo intervento pubblico dall’insediamento. «Ma non possiamo permetterci di perderla, e per questo la vinceremo. Faremo di tutto per riportare a casa i nostri fratelli e sorelle a Gaza, continueremo a lottare contro l’estremismo, la minaccia dell’Iran, l’antisemitismo in Italia e nel mondo. Ce la faremo, tutti insieme». Unità: un concetto evocato in apertura anche da Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano vittima a due anni del terrorismo palestinese, gravemente ferito a sua volta nell’attacco al Tempio.
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Palloncini gialli, all’esterno del Tempio, per chiedere la liberazione degli ostaggi
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«Avevamo bisogno di stare tra di noi, di compattarci», il messaggio con cui ha aperto il suo intervento. Per poi aggiungere: «Oggi è caduta ogni maschera dei cosiddetti “pacifinti”; la formula “due popoli, due stati” è sempre stata una barzelletta, non perché non la vogliamo noi, ma perché non è mai stata voluta dai palestinesi». Parafrasando Primo Levi, il rabbino capo Riccardo Di Segni ha mosso un’accusa verso chi, «al sicuro nelle proprie tiepide case, pensa di insegnare la morale a chi rischia la vita». È chiaro l’intento di tanti manifestanti anti-Israele, ha proseguito il rav con amaro sarcasmo: «Vogliono distruggere Israele: non sono antisemiti, però vogliono uccidere altri sei milioni di ebrei». Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica, si è domandato «come facciano ragazzi di scuole e università a essere così sciocchi», non capendo «il mondo omofobico e illiberale» per il quale scendono in piazza. «Pasolini li detestava questi ragazzi». Israele, in ogni caso, «vincerà, perché non è isolato». Per Fadlun lo si è visto «con tanti arabi sunniti in festa dopo l’uccisione di Nasrallah» e con le parole di vicinanza all’alleato della Casa Bianca. Ha concluso la serata, condotta dal giornalista David Parenzo e con interventi dei gruppi giovanili e testimonianze registrate da Israele, una riflessione di Eitan Della Rocca: «Si è concluso un anno di dure prove. Dobbiamo essere consapevoli che Hashem è con noi, che continua a instradarci verso una speranza».
(moked, 7 ottobre 2024)
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Lunedì 7 ottobre, a un anno dal Pogrom, un evento aperto alla cittadinanza alla Sinagoga Centrale di Milano
La Comunità ebraica di Milano, insieme alle Istituzioni ebraiche milanesi, vi aspetta lunedì 7 ottobre ore 18.30, Sinagoga Centrale di via Guastalla. Un anno dal Pogrom il dramma dei Rapiti e la nuova ondata di antisemitismo.
Presentazione a cura di Giuliano Ferrara
Ne parliamo con Ilaria Borletti Buitoni, Daniele Capezzone, Klaus Davi, Mattia Feltri, Luciano Fontana, Giulio Meotti, Iuri Maria Prado, Alessandro Sallusti, Pietro Senaldi e Rayhane Tabrizi. Modera Paolo Salom
Saluti Istituzionali rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, Presidente Comunità ebraica di Milano Milo Hasbani,Vice Presidente Unione Comunità ebraiche Italiane Onorevole Lorenzo Guerini, presidente Copasir Ignazio La Russa, presidente del Senato
Con la partecipazione di (attivista iraniana) Con la testimonianza di Liran Berman, fratello dei gemelli Ziv e Gali, rapiti dai terroristi di Hamas e ancora nelle loro mani e i familiari di Shila Ayalon, uccisa al Nova Festival Con la partecipazione del coro Kol haShomrim e dei movimenti giovanili Bnei Akiva e Hashomer Hatzair
(Shalom, 7 ottobre 2024)
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Israele uccide il palestinese che nel 2000 aveva linciato soldati israeliani
Aziz Salha, uno degli assassini dei riservisti israeliani Vadim Norzhic e Yosef Avrahami, è stato rilasciato nell'ambito dello scambio Gilad Shalit nel 2011.
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Aziz Salha alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità Palestinese di al-Bireh
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Aziz Salha, uno dei partecipanti all'assassinio di due riservisti delle Forze di Difesa israeliane a Ramallah nel 2000, alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità Palestinese di al-Bireh. Foto: Palestinian Media Watch. Aziz Salha, che ha raggiunto la notorietà mondiale per un video in cui mostra di aver linciato 12 ottobre 2000 due soldati israeliani nella città gemella di Ramallah, al-Bireh, il , è stato ucciso in un attacco delle forze israeliane nella Striscia di Gaza giovedì. Le immagini di Salha in piedi alla finestra della stazione di polizia dell'Autorità Palestinese a el-Bireh nei primi giorni della Seconda Intifada, agitando le mani insanguinate di fronte a una folla palestinese, sono impresse nella coscienza collettiva israeliana e per molti rimangono una conseguenza diretta degli accordi di Oslo. Vadim Norzhic, 33 anni, autista di camion di Or Akiva, immigrato in Israele da Irkutsk dieci anni prima, e il sergente maggiore (ris.) Yosef Avrahami, 38 anni, venditore di giocattoli di Petach Tikvah, sono stati trascinati dal loro veicolo e picchiati e pugnalati a morte, per poi essere mutilati, dopo essere entrati accidentalmente nella città di Ramallah, controllata dall'Autorità Palestinese, sulle colline della Giudea, a circa 10 km a nord di Gerusalemme. Sasha, 43 anni, è stato arrestato un anno dopo, ma era tra i 1.027 terroristi palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane nell'ambito dell'accordo del 2011 per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit dalla prigionia di Hamas a Gaza. Salha è stato preso di mira in un attacco aereo a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, ha detto l'esercito. "Negli ultimi anni è stato coinvolto nella direzione di attività terroristiche in Giudea e Samaria e ha continuato a svolgere attività terroristiche negli ultimi giorni", hanno dichiarato le Forze di difesa israeliane.
(Israel Heute, 6 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Mossad spiava Hezbollah con i walkie-talkie esplosivi dal 2015
I cercapersone costruiti in Israele mentre i walkie-talkie con all'interno l'esplosivo sono stati fatti avere a Hezbollah addirittura nel 2015 consentendo agli israeliani di intercettare per anni tutte le comunicazioni dei terroristi
di Sarah G. Frankl
Il Washington Post approfondisce dettagli inediti sulla presunta operazione israeliana che il mese scorso ha fatto esplodere cercapersone e walkie-talkie usati dal gruppo terroristico libanese Hezbollah, ferendo migliaia di persone e dando il via a una operazione che ha inflitto a Hezbollah colpi immensi, tra cui l’uccisione del suo leader Hassan Nasrallah. Il rapporto – che cita funzionari della sicurezza israeliani, arabi e americani, politici e diplomatici, nonché fonti vicine a Hezbollah – afferma che i cercapersone sono stati prodotti in Israele e concepiti dall’agenzia di spionaggio Mossad, compresa una caratteristica che ha fatto sì che molti agenti di Hezbollah usassero i dispositivi con entrambe le mani quando esplodevano, rendendoli incapaci di combattere. Dopo che il 12 settembre i funzionari del Mossad hanno rivelato la funzionalità ai funzionari eletti e l’operazione è stata infine approvata dal gabinetto del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, migliaia di agenti di Hezbollah hanno ricevuto un messaggio che li informava di aver ricevuto un messaggio criptato che richiedeva la pressione di due pulsanti, costringendoli in pratica a usare entrambe le mani e a rimanere feriti a entrambe le mani quando le esplosioni avvenivano mentre premevano i pulsanti. Il rapporto rivela anche che i walkie-talkie con trappola esplosiva – che sono stati fatti esplodere un giorno dopo – erano stati usati da Hezbollah dal 2015, fornendo a Israele un accesso continuo in tempo reale alle comunicazioni del gruppo terroristico per molti anni, prima che i dispositivi fossero armati in modo più letterale. I minuscoli esplosivi nei cercapersone e nei walkie-talkie erano nascosti in modo tale che smontando il dispositivo – o anche passandolo ai raggi X – non si potesse rivelare il pericolo agli inconsapevoli membri di Hezbollah, che hanno prontamente abbracciato i gadget progettati e prodotti da Israele, riporta il Post. Aggiunge che la proposta di vendita che ha convinto Hezbollah ad acquistare i cercapersone AR924 a batteria grande all’inizio di quest’anno è stata fatta da una donna non identificata che lavorava con una ditta di Taiwan e che non era a conoscenza del complotto israeliano.
(Rights Reporter, 6 ottobre 2024)
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La stella e la lancia: Israele e il Sudafrica, un rapporto travagliato
di Nathan Greppi
Quando era un avvocato, Nelson Mandela aveva forti legami con la comunità ebraica in Sudafrica: uno studio legale gestito da ebrei gli offrì degli incarichi quando nessun altro l’avrebbe fatto, e una fetta consistente degli attivisti bianchi contro l’apartheid erano ebrei. Inoltre, pur avendo avuto stretti rapporti con l’OLP di Yasser Arafat, una volta Mandela disse che “come movimento, riconosciamo la legittimità del nazionalismo palestinese così come riconosciamo la legittimità del sionismo come nazionalismo ebraico. Insistiamo sul diritto dello Stato d’Israele ad esistere entro confini sicuri, ma con uguale vigore sosteniamo il diritto palestinese all’autodeterminazione nazionale”. Decenni dopo l’ANC (African National Congress), che fu il partito di Mandela, sembra aver rinunciato a questo pragmatismo. In seguito al 7 ottobre, dopo aver fatto chiudere l’Ambasciata israeliana in Sudafrica, il governo guidato da Cyril Ramaphosa ha cercato di far condannare per genocidio Israele presso la Corte Penale Internazionale. Tuttavia, a causa dei problemi socioeconomici che dilaniano nel paese, le elezioni sudafricane tenutesi a giugno hanno visto l’ANC perdere la maggioranza assoluta dei seggi per la prima volta dalla fine dell’apartheid, costringendo Ramaphosa a formare un governo di coalizione con altri partiti. Alcuni di questi, come il partito di centro Alleanza Democratica e quello di destra Freedom Front Plus, hanno espresso posizioni filoisraeliane. Per capire se ciò porterà a dei cambiamenti anche nei rapporti tra Pretoria e Gerusalemme, e come sta vivendo la situazione dopo il 7 ottobre la comunità ebraica sudafricana, abbiamo parlato con Howard Feldman: imprenditore, editorialista e scrittore, collabora con il settimanale South African Jewish Report, il sito di notizie News24 e l’emittente radiofonica Chai FM 101.9. Suoi articoli sono apparsi anche sul Jerusalem Post e il Times of Israel.
- Come ci può descrivere la reazione del Sudafrica ai fatti del 7 ottobre? Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra l’ANC e il popolo sudafricano. Tra il 7 e l’8 ottobre 2023, la reazione dell’African National Congress è stata orribile; si sono mostrati fin da subito vicini alla causa palestinese, senza mai mostrare alcuna empatia nei confronti della comunità ebraica né chiedere agli ebrei sudafricani come si sentivano in quel momento. Questo atteggiamento è proseguito anche in seguito, fino alla campagna elettorale. Durante l’ultima manifestazione dell’ANC in vista delle elezioni, tenutasi al Soccer City Stadium di Soweto, sventolavano più bandiere palestinesi che bandiere sudafricane. Avresti potuto scambiarla per una manifestazione palestinese. Hanno voluto rimarcare fin da subito il loro allineamento non solo con i palestinesi, ma anche con Hamas. Prima ancora che Israele iniziasse la sua risposta militare al 7 ottobre, è venuto fuori che l’allora Ministro degli Esteri sudafricano, Naledi Pandor, aveva fatto una telefonata ai vertici di Hamas. In un primo momento il suo staff ha cercato di negare, ma quando è risultato evidente, si è giustificata dicendo che voleva solo offrire loro sostegno umanitario. Peccato che l’avesse fatto quando l’operazione militare israeliana non era ancora iniziata, e non ha mai pensato di offrire aiuto agli israeliani sfollati dai villaggi al confine con Gaza.
- Come viene vissuta questa situazione all’interno della comunità ebraica? A causa di questo tradimento a sangue freddo da parte del governo, i rapporti tra il presidente Cyril Ramaphosa e la comunità ebraica sudafricana sono andati distrutti, e non credo che si potranno mai riparare. Non potrà mai essere perdonato il modo in cui si è comportato. Anziché essere equidistanti ed equilibrati, quelli del governo hanno cercato di cavalcare quello che ritenevano essere un ampio sostegno popolare in quella direzione, che invece li ha penalizzati nelle urne. E questo mi porta alla distinzione tra il governo e il popolo del Sudafrica; questi ha molto a cuore concetti come libertà di espressione, libertà di culto, antirazzismo e uguaglianza di genere. Ciò è probabilmente dovuto al nostro triste passato legato al regime dell’apartheid, che ha fatto capire ai sudafricani che cos’è l’oppressione. Per questo, da parte della popolazione non si vedono quelle manifestazioni d’odio contro Israele che vediamo altrove. Ci sono state delle manifestazioni pubbliche, ma non ci sono la violenza e l’antisemitismo che vediamo in altre parti del mondo. Non si vedono attacchi contro sinagoghe e scuole ebraiche.
- Che cosa ha spinto l’ANC, dopo il 7 ottobre, a mettere in atto una politica tanto ostile nei confronti d’Israele? Bisogna capire che l’ANC si è sempre identificato con la causa palestinese. Tuttavia, in passato questa posizione era molto più ponderata; lo stesso Nelson Mandela riconosceva che Israele aveva bisogno di sicurezza, e allo stesso tempo che dovesse essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Un atteggiamento condiviso anche da molti ebrei sudafricani, convinti che due Stati debbano convivere fianco a fianco. Purtroppo, vuoi per i suoi stretti rapporti con l’Iran e Hamas o per altri motivi, il governo si è spostato su posizioni molto più sbilanciate. Oggi non hanno più credibilità, il che è un peccato; potendo telefonare a quelli di Hamas, l’ANC avrebbe potuto giocare un ruolo positivo come mediatore, anche contribuendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi.
- Come opinionista che si occupa di ebraismo e Israele, che riscontro riceve in Sudafrica? Personalmente, io mi esprimo molto pubblicamente a favore d’Israele, e per questo ricevo diversi attacchi online. Ma fortunatamente, ciò non si è mai tradotto in minacce fisiche. Più in generale, gli ebrei non rischiano particolarmente di essere attaccati per le strade del Sudafrica. Al contrario, camminando nella periferia di Johannesburg, si possono vedere poster e nastri gialli appesi sugli alberi per chiedere la liberazione degli ostaggi israeliani. Quando dei visitatori stranieri vengono in Sudafrica, dicono che nei loro paesi questi verrebbero rimossi. Ma a Johannesburg, ciò non avviene.
- Dopo le elezioni di giugno, sono stati inclusi nel nuovo governo sudafricano anche partiti con posizioni filoisraeliane. È cambiato qualcosa da allora? Direi di sì. Oggi l’ANC deve mostrarsi più cauto, anche se non può fare marcia indietro su tutto ciò che ha fatto in passato. Il messaggio ricevuto alle elezioni è che ha molte sfide da affrontare in casa, e che il governo deve pensare più a risolvere i problemi interni che a un conflitto lontano migliaia di chilometri. Come organizzazione, l’ANC è un fallimento, e molti sudafricani sentono che li ha abbandonati. Durante il suo discorso inaugurale per il nuovo governo, Ramaphosa ha dichiarato di aver recepito questo messaggio, e che si concentreranno sul risolvere i problemi interni del Sudafrica. Se ci riusciranno o meno, questo non lo so, anche perché alla fine quelli dell’ANC rimangono sempre gli stessi.
- Il Sudafrica è un paese multietnico, dove convivono culture diverse. Tra queste, ci sono delle differenze per quanto riguarda la diffusione dell’antisemitismo e dell’antisionismo? In generale, l’antisemitismo è poco presente in tutti i gruppi. Piuttosto, a Città del Capo è molto forte la comunità musulmana, e anche se la maggior parte dei musulmani sudafricani non sono antisemiti, alcuni di loro si sono radicalizzati. Oggi, buona parte dell’antisemitismo in Sudafrica proviene da gruppi di estrema sinistra.
- Quando devono tutelare la propria sicurezza, le comunità ebraiche ricevono qualche aiuto da parte delle autorità? Lo Stato non fornisce alcuna protezione ufficiale ai luoghi ebraici. Se si presentano rischi evidenti, la comunità ebraica ne discute con l’intelligence, ma per il resto, deve badare a sé stessa con il proprio servizio di sicurezza.
- Alla luce della situazione nel paese, come vede il futuro dell’ebraismo sudafricano? Il futuro dell’ebraismo sudafricano è intrinsecamente legato al futuro del Sudafrica. Credo che gli ebrei sudafricani decideranno di restare solo se il paese tornerà a prosperare. In altre parole, più che l’aspetto religioso contano l’accesso ad un buon sistema sanitario, le prospettive di carriera lavorativa, l’istruzione e la sicurezza; cose che preoccupano tutti i sudafricani, non solo gli ebrei.
(Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2024)
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Guerriglia al corteo propal di Roma
Feriti, bandiere di Hezbollah e slogan che inneggiano al 7 ottobre
di Elisabetta Fiorito
È finita come purtroppo era prevedibile la manifestazione propalestinese e filo Hamas non autorizzata. Appena cinquemila i partecipanti ma la guerriglia si scatena comunque a corteo finito, verso le 17.30, in piazzale Ostiense. Alcuni incappucciati iniziano a tirare sassi, bottiglie, bombe carta e persino un palo stradale divelto dall’asfalto contro le camionette della polizia. Le forze dell’ordine reagiscono spruzzando gli idranti sulla folla. Almeno tre ragazzi vengono feriti durante gli scontri, tra loro anche una ragazza. Un fotografo viene colpito alla testa dopo essere stato bastonato da alcuni manifestanti incappucciati. Un altro è stato ferito a una mano, colpita da un sasso.
È l’epilogo di un pomeriggio che ha visto ancora una volta come protagonista l’antisemitismo mascherato da antisionismo tra urla e bandiere. “L’Italia fermi la vendita e l’invio di armi a Israele”, “Finisca immediatamente il genocidio a Gaza”, “Il 7 ottobre è iniziata la rivoluzione”, “Resistenza fino alla vittoria”, “Palestina immortale, Israele criminale”, “Free Palestine” con l’immagine che include tutto il territorio israeliano sono alcuni degli slogan. Inquietanti quelli dei Giovani palestinesi con “Viva il 7 ottobre” e che per i prossimi giorni annunciano “L’intifada studentesca” nelle scuole e nelle università di tutta Italia al grido di: “Se non cambierà intifada pure qua”. Una vera e propria minaccia per la nostra democrazia e per chi non ricorda che, a parte il terrorismo interno, i palestinesi sono gli unici ad aver fatto vittime sul nostro territorio come il piccolo Stefano Gai Taché nell’attentato alla Sinagoga del 1982.
Ma la ciliegina sulla torta è la presenza della bandiera di Hezbollah, il vessillo giallo spunta nello spezzone dei militanti libanesi, e riporta un versetto del corano: “E colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il partito di Dio, Hezbollah, che avrà la vittoria”con raffigurata la mano che stringe un fucile d’assalto stilizzato.
Nel corso della giornata, in una Piramide blindata, sono state controllate 1.600 persone e 19 portate in Questura. “Ci fermano per garantire la guerra”, dal megafono, uno dei rappresentati, dell’Unione democratica arabo palestinese. E alcune persone sono state fermate dopo gli scontri. Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha manifestato apprezzamento per “l’operato delle forze di polizia che, come sempre, hanno dimostrato grande professionalità ed equilibrio garantendo l’ordine pubblico in una giornata complessa, in cui non sono mancate gravi intemperanze da parte di chi è sceso in piazza anche utilizzando armi improprie e bombe-carta per aggredire gli agenti e causare danneggiamenti”.
È una manifestazione “esplicitamente pro- Hamas non pro-Palestina – dice il giornalista Pierluigi Battista – nel senso che il 7 ottobre 2023 viene considerato un atto di resistenza. Non è pro Stato palestinese è contro l’esistenza dello Stato d’Israele”. “Una vergogna le bandiere Hezbollah”, dichiara Maurizio Gasparri di Forza Italia, mentre per Daniela Santanché di Fratelli d’Italia “a preoccupare è l’antisemitismo”.
Resta l’amarezza per un rituale stanco che continua a minacciare la nostra democrazia. Una manifestazione vietata che si tiene comunque, che vuole soltanto la cancellazione d’Israele inneggiando ad Hamas e Hezbollah, due organizzazioni che non soltanto negano la libera manifestazione del pensiero ma ogni forma di dissenso e che sotto le loro dittature non sarebbe finita con qualche fermo, ma con la condanna a morte dei partecipanti al corteo.
(Shalom, 5 ottobre 2024)
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Chi ha ucciso Gesù?
di Marcello Cicchese
La risposta a questa domanda è di fondamentale importanza. Per secoli agli ebrei è stato imputato il tremendo crimine del “deicidio”, con tutte le conseguenze che ne sono seguite. Cerchiamo allora di capire il senso dei testi biblici che parlano dell’uccisione di Gesù.
La domanda: “Chi ha ucciso Gesù?” non è così chiara come sembra. Si potrebbe rispondere che Gesù è stato materialmente ucciso dai soldati romani che lo hanno inchiodato sulla croce. Questo è vero, ma non risponde al senso della domanda. Si sa bene che quando avviene un omicidio non basta scoprire chi l’ha commesso materialmente, perché può essere ancora più importante scoprire chi l’ha voluto e commissionato.
Rispondere alla domanda “Chi ha ucciso Gesù?” significa allora arrivare a stabilire chi ne porta la responsabilità ultima e quindi anche, se si tratta di crimine, la colpa.
Risaliamo allora la trafila delle responsabilità, cominciando dal basso.
E’ certo che chi ha legato Gesù alla croce e l’ha inchiodato al legno provocandone la morte fisica sono stati dei soldati romani. E’ un’osservazione che può sembrare ovvia e banale, ma ha la sua importanza. Gesù non è stato pugnalato nell’ombra da un sicario giudeo, non è stato linciato da folle ebraiche inferocite; le mani che l’hanno colpito appartenevano a pagani. I soldati romani certamente eseguivano degli ordini, e tuttavia teoricamente avrebbero potuto opporre obiezione di coscienza, se fossero stati convinti che l’azione era ingiusta. Questo avrebbe potuto scagionarli sul piano morale personale, ma certamente non avrebbe impedito l’esecuzione. Sarebbero stati passati per le armi e Gesù sarebbe stato ugualmente inchiodato sulla croce.
Risalendo la scala gerarchica si arriva a Pilato, che in quel momento rappresentava l’autorità imperiale romana. «Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?» (Giovanni 19:10), dice Pilato a Gesù, sorpreso dal suo silenzio. E aveva ragione: sul piano politico a lui spettava il compito di decidere la sorte di Gesù, e quindi lui ne porta la responsabilità davanti agli uomini. Certamente non poteva sapere che Gesù è il Figlio di Dio e tanto meno poteva capire la sua pretesa di essere, secondo l’accusa dei suoi nemici, il re dei giudei. E quando gli chiede: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù risponde: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Giovanni 18:37). «Che cos’è verità?» replica lo scettico governatore romano. Pilato, nella sua ignoranza di gentile, ovviamente non poteva capire il senso profondo delle parole di Gesù, ma certamente poteva capire, e di fatto l’aveva capito, che le accuse contro Gesù non erano vere. «Io non trovo colpa in lui» (Giovanni 18:38), ammette infatti pubblicamente. Per motivi di giustizia dunque avrebbe dovuto liberarlo, cosa che invece non ha fatto, e in questo modo «ha soffocato la verità con l’ingiustizia» (Romani 1:18).
E’ chiaro allora che sul piano strettamente politico umano, la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù ricade sul rappresentante dell’Impero romano a Gerusalemme. Chi non vuol far intervenire Dio in questi fatti, non può che arrivare a questa conclusione.
Chi invece fa intervenire Dio deve prendere in considerazione quello che dice la Scrittura, senza lasciarsi fuorviare da preferenze personali. L’apostolo Pietro nella sua prima predicazione a Gerusalemme dopo l’ascensione al cielo di Gesù pronuncia parole pesanti:
"Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso" (Atti 2:36).
E’ chiaro allora, dirà qualcuno: a uccidere Gesù sono stati gli ebrei, che ne portano la colpa e ne devono subire le conseguenze.
Due cose però si devono osservare: l’ebreo Pietro non dice: “I romani hanno crocifisso Gesù”, e neppure: “Noi ebrei abbiamo ucciso Gesù”. Dice: “Voi l’avete crocifisso”. Chi sono questi voi? Nel primo discorso Pietro si rivolge agli “uomini di Giudea” (Atti 2:14) e agli “uomini d’Israele” (Atti 2:22), e nel suo secondo discorso si rivolge ai “capi del popolo e anziani” dicendo:
"... sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele che questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti..." (Atti 4:8)
Quando Pietro si rivolge a tutta la casa d’Israele o a tutto il popolo d’Israele, lo fa per annunciare che quel Gesù che è stato crocifisso è il Signore e il Messia d’Israele (Atti 2:36), e che soltanto nel suo nome è possibile essere salvati (Atti 4:12). A tutto il popolo viene annunciato il perdono dei peccati e la salvezza proprio attraverso quel Gesù che i capi del popolo, con il consenso di molti, avevano consegnato nelle mani dei gentili:
"Uomini d’Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest’uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto” (Atti 2:22-24).
Pietro si comporta dunque come un profeta che dall’interno di Israele annuncia il peccato che i capi e una parte del popolo hanno commesso rifiutando il Messia mandato da Dio. Ma, esattamente come hanno sempre fatto tutti i profeti, annuncia anche che nonostante e anzi attraverso la disubbidienza di gran parte del popolo, Dio continuerà a compiere la sua opera a favore d’Israele.
Pietro dice ai suoi fratelli israeliti: “... voi, per mano d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste”. I romani indirettamente vengono coinvolti e indicati come iniqui, ma è indubbio che Pietro attribuisce ai suoi capi una maggiore responsabilità. E questo è vero, se si esce dal semplice piano politico umano e si fa intervenire Dio, con la sua volontà, le sue rivelazioni e le sue promesse. Pietro presenta Gesù come Messia: è chiaro allora che soltanto gli ebrei potevano rifiutare il Messia, non certo i romani, che non sapevano nemmeno che cosa fosse il Messia. Dal momento che soltanto Israele è a conoscenza dei piani di Dio, è naturale dire che se Gesù è il Messia, come Pietro pubblicamente annuncia, soltanto gli ebrei possono essere ritenuti responsabili di aver consegnato nelle mani dei gentili quel Messia che aspettavano come liberatore dalla schiavitù dei gentili. Pilato ha colpa nell’esecuzione di Gesù, anzi l’unica colpa se ci si arresta al piano politico, ma se si accetta il fatto che Gesù è il Messia, è chiaro che sul popolo di Dio di quel tempo grava una maggiore responsabilità. Questo è attestato dalle parole esplicite di Gesù, che davanti a Pilato afferma: “... chi mi ha dato nelle tue mani ha maggior colpa” (Giovanni 19:11).
Ma esaminiamo il contesto in cui viene pronunciata questa frase. Quando Gesù si trova davanti a Pilato è già stato condannato a morte dal Sinedrio. Al governatore romano arriva tra le mani una grana che avrebbe volentieri evitato. Ha capito benissimo che i capi dei sacerdoti glielo hanno consegnato per invidia (Marco 15:10), e in cuor suo spera di poter avere dall’ebreo che gli sta di fronte qualche valido argomento che gli consenta di respingere come manifestamente infondate le accuse avanzate. Ma tra queste ce n’è una per lui molto strana: Gesù è accusato dai suoi connazionali di essersi fatto Figlio di Dio. Pilato allora interroga su questo punto quello strano ebreo. Ma questi non gli risponde. Il governatore romano si sente snobbato, come se non valesse nemmeno la pena di rispondergli. E infatti è così: che cosa può capire un funzionario romano su un argomento come “il Figlio di Dio”. In che modo avrebbe potuto venirgli in aiuto? Poteva forse essere lui a confermare l’autodichiarazione di Gesù? Pilato allora ricorda all’imputato che chi comanda è lui, non quel Sinedrio ebraico che lo ha condannato e che lui certamente disprezza. Se vuol essere aiutato, Gesù deve rinnegare quell’autorità religiosa e appellarsi alla vera autorità mondiale di quel tempo: Roma, che in quel momento lui rappresenta. Gesù allora informa il governatore romano che l’autorità ultima non ce l’ha lui, ma Dio, che ha scelto Israele, con il quale un giorno regnerà sul mondo intero. Il Sinedrio che lo ha consegnato nelle sue mani ha maggior colpa (Giovanni 19:11) perché ha maggiore autorità. Gesù rifiuta dunque di lasciarsi difendere dai gentili contro i suoi connazionali ebrei. Dal momento che il Sinedrio lo ha rifiutato come Figlio di Dio, Pilato non può fare assolutamente nulla, perché nel piano di Dio lui è un’autorità inferiore. Pilato quindi è colpevole, davanti agli uomini e davanti a Dio, dell’uccisione di Gesù, ma non ne porta la responsabilità ultima, perché in ogni caso non avrebbe potuto fare niente per evitarla, per il semplice fatto che è un peccatore, rappresentante storico di tutti i gentili che soffocano la verità con l’ingiustizia (Romani 1:18).
Per trovare la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù bisogna allora salire ancora più in alto nella scala delle autorità. Superato Pilato, rappresentante del potere di Roma, si arriva al Sinedrio ebraico, la più alta autorità del popolo d’Israele. E’ lui che ha ucciso Gesù? La risposta sarebbe affermativa, se si potesse dimostrare che una sua decisione diversa avrebbe potuto evitare quella morte. Ma non è così. Il popolo d’Israele, rappresentato dai suoi capi di quel momento, ha certamente respinto il suo Messia e lo ha consegnato nelle mani dei gentili, e così facendo si è comportato come tante altre volte nel passato: ha disubbidito, ribellandosi al suo Dio. Ma era inevitabile che, in conseguenza di questo fatto, Gesù dovesse morire? Davanti ad una ribellione così grave del suo popolo, Dio avrebbe potuto prendere la palla al balzo e fare quello che tanti dicono che poi abbia fatto: rigettare definitivamente Israele, additarlo al disprezzo universale e passare ad altri le benedizioni promesse. Gesù avrebbe potuto manifestare pubblicamente la sua autorità, chiedere al Padre una legione di angeli, distruggere i suoi nemici ebrei e mettersi a capo di un’altra entità politica fatta di gentili ragionevoli e disponibili che lo avessero accolto. Ma tutto questo Gesù non l’ha fatto perché sapeva che la sua morte avrebbe dovuto servire ad espiare i peccati della nazione e portare salvezza a Israele e a tutto il mondo.
Chi dunque ha voluto la morte di Gesù? Chi ne porta la responsabilità ultima davanti a Dio? Non sono i soldati perché sopra di loro c’era Pilato; non è Pilato perché sopra di lui c’era il Sinedrio; non è il Sinedrio perché sopra di lui c’era Dio stesso, nella persona del Figlio che volenterosamente si sottomette al Padre.
"Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio»" (Giovanni 10:17-18).
La generazione degli israeliti di quel tempo porta indubbiamente la responsabilità di avere respinto il Messia, ma l’uccisione di Gesù non ne è una necessaria conseguenza, perché non era nelle possibilità di nessun uomo di togliere la vita al Principe della vita. Dio avrebbe potuto fulminare all’istante tutti quelli che minacciavano il suo prediletto Figlio. Se non l’ha fatto, se ha preso un’altra decisione, la responsabilità ultima è sua. E Dio se la prende, perché proprio questa era la sua volontà d’amore, decisa prima ancora della fondazione del mondo: offrire al popolo d’Israele anzitutto, e poi a tutte le genti, la possibilità di essere perdonati dei propri peccati e riconciliati con Lui. A nessuno, assolutamente a nessuno, Dio rimprovererà mai di avergli ucciso il Figlio. La morte di Gesù è stata fermamente voluta dal Padre, il quale ama il Figlio, riconoscendo in Lui la disponibilità a ubbidire alla sua volontà. Il Figlio ama il Padre, e manifesta il suo amore nella disponibilità a deporre liberamente la sua vita senza esservi costretto da nessun uomo. L’amore tra Padre e Figlio, espresso dolorosamente sulla croce, si espande in seguito, e si compie pienamente, in un amore redentivo per tutti gli uomini. Nell’intimo colloquio che precede la sua morte in croce, Gesù si rivolge al Padre con queste parole:
"Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l’amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro»" (Giovanni 17:25-26).
(da "La superbia dei Gentili")
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La rifondazione di Israele
A un anno dal 7 ottobre, gli israeliani guardano in faccia il trauma e ritrovano l’unità. Il sionismo, l’esercito, l’estrema destra, la convivenza con i palestinesi. Ritratto di un paese che non vuole più sbagliare.
di Micol Flammini
TEL AVIV - Il giallo non è più un colore, è un richiamo. Ottobre non è più un mese, è un lamento. Israele si volta indietro, vede che si avvicina un nuovo 7 ottobre, si guarda allo specchio e non si riconosce più. Tutto il giallo che c’è per le strade confonde e ricorda, è il colore degli ostaggi. Non c’è iniziativa che non si sia tinta di giallo: qualsiasi cosa faccia questo paese, lo fa ricordando che ci sono degli israeliani dall’altra parte del confine, a sud, in un tunnel di Hamas, forse morti, probabilmente moribondi, sicuramente irriconoscibili. Allora sono gialle le spille che le persone portano al bavero e mettono anche soltanto per andare a fare la spesa; sono gialli i menù dei ristoranti, perché la vita sociale è tornata, ma bisogna ricordare; sono gialli i nastri legati agli specchietti delle macchine, gialli i volantini di protesta, gialli i cartelloni delle rassegne cinematografiche. Giallo è il colore dell’incompletezza. Poi è tornato ottobre, il mese delle guerre, il mese del pentimento, il mese del danno. Ottobre ricorda che è trascorso un anno, che in tanti hanno percepito come infinito e porta a una domanda necessaria: quanto è cambiato Israele? Tanto, troppo, non abbastanza. Al Kikar Hatufim, la piazza degli ostaggi, chi si lascia rivolgere la domanda è comunque d’accordo su un punto: il paese non è più uguale a se stesso. Il Capodanno ebraico che ha ammantato la città di un’aria di festa e di sonno è finito, ma per tutti la preghiera di Rosh Hashanà che comincia con la frase “Finisca l’anno con le sue maledizioni. Cominci l’anno con le sue benedizioni” in questo ottobre, che torna e porta in dote un anniversario luttuoso, ha avuto un significato completamente diverso, inaspettato. “Ci ho pensato tutta la notte – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato e attivista – se devo comparare lo scorso Capodanno con questo, lo scorso Rosh Hashanà con questo, beh, preferisco essere qui adesso, in questo momento, con tutte le trasformazioni”. Israele è nuovo, doloroso, ma diverso: “Non siamo più ciechi – riprende Elbashan – ora vediamo con chiarezza chi siamo, vediamo gli amici e i nemici, i torti e le ragioni”. Non sono parole semplici per lo scrittore, impegnato per una vita nel processo di pace; ferreo sostenitore della convivenza con i palestinesi.
“Ho dimenticato quello che mia nonna non aveva mai dimenticato, le davo della razzista, credevo che fosse troppo traumatizzata dall’Olocausto e dalla guerra di Indipendenza per capire cosa fosse giusto. Io andavo a Ramallah per cercare una soluzione, ero impegnato in quella che oggi chiamo l’industria della pace e avevo dimenticato che se il mio impegno, da sionista, era quello di essere disposto a rinunciare a parte del territorio dello stato di Israele, l’altra parte invece non vuole l’esistenza dello stato di Israele”. Lo scorso anno, prima del 7 ottobre, Elbashan era fermo nella sua convinzione di un processo di pace che portasse alla collaborazione tra i due popoli, credeva che fosse giusto, da israeliano, impegnarsi per i diritti della parte palestinese e oggi, con la voce seria, monocorde, si guarda indietro e dice: “Aveva ragione mia nonna: non c’è convivenza”. Lo scrittore è ancora convinto che la soluzione sia due stati per due popoli, ma quei due popoli non saranno mai amici, saranno territori separati, divisi, impenetrabili: “Sono ancora dell’idea che è necessario cedere parte del territorio ai palestinesi, ma non ci saranno lavoratori che si spostano da Ramallah per andare a lavorare a Tel Aviv, non ci sarà un confine poroso, non si andrà da una parte all’altra, saranno due mondi chiusi, incomunicabili”. L’idea della convivenza è sempre meno presente, anche chi per anni, come Yuval, aveva pensato che fosse l’unica strada giusta da percorrere, adesso è sempre più convinto che la soluzione sia smettere di condividere qualsiasi cosa e questo ha anche un effetto politico. Michael Milshtein, esperto di gruppi terroristi e di sicurezza, ne fa una riflessione logica: “Gli elementi più estremisti del governo attuale, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, sostengono la creazione di un Grande Israele, dal fiume al mare, Eretz Yisrael Hashlema. La pancia di un paese traumatizzato può mostrarsi interessata ai loro discorsi, ma la verità è che gli israeliani non hanno intenzione di vivere in un unico stato con i palestinesi, quindi non approvano il loro progetto. Anzi quello che chiedono ora è: come possiamo separarci?”. Gli israeliani sono diventati ossessionati dal progettare, dal domani, chiedono risposte, racconta Milshtein. Non sono un popolo impaurito, sono un popolo che sa di poter contare sulla propria resilienza, su un senso intimo e spontaneo di comunità che in questo anno è venuto su con naturalezza, che si rende conto di quanto l’esercito, dopo il più grande dei fallimenti, abbia ottenuto risultati importanti: “La domanda adesso è: dove andiamo? – dice Milshtein – Israele sta vivendo la sua guerra più difficile, l’esercito è diventato più grande, ha cambiato il modo di ragionare: un tempo era cauto, evitava lo scontro, adesso si è fatto più aggressivo, ma mancano le priorità. Dal mio punto di vista la priorità è l’Iran, dobbiamo concentrarci su quello. Tsahal ha dimostrato di poter reggere su più fronti, ma manca una strategia”. E il problema, secondo Milshtein, è ancora una volta politico: “A guidarci c’è la stessa classe dirigente che ha commesso gli errori che hanno portato al 7 ottobre. Non c’è stata una commissione di inchiesta per stabilire non soltanto le responsabilità, ma anche per studiare nel dettaglio cosa è stato sbagliato. Queste sono le premesse per tornare a sbagliare di nuovo”. Anche Elbashan ne fa un discorso politico, è un avvocato e nella sua carriera ha insegnato anche a Ben-Gvir, dice di non capire quale sia il segreto del suo successo, ma confessa: “L’ho conosciuto che era un giovane radicale di destra, ero convinto sarebbe cambiato, invece no. Anche io ero un giovane radicale di sinistra, poi sono cambiato. Rimanere agli estremi è da immaturi”. Immaturo e deludente, secondo Elbashan, è anche l’atteggiamento di tutti coloro che non hanno chiesto scusa agli israeliani: “Il premier Netanyahu, l’esercito, i politici, gli ex premier”. Gli israeliani, invece, si sono ritrovati più uniti e consapevoli, “c’è una minoranza estremista che urla molto, l’abbiamo lasciata urlare, non lo permetteremo più. Siamo noi la maggioranza e ci faremo sentire”, dice lo scrittore. La politica è percepita come un impedimento, la società si è ritrovata ferita, ma più vicina: “Crediamo in noi stessi”, conclude Milshtein.
Elbashan ha sempre pensato che la sua israelianità fosse definita dal numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito da ragazzo. Ha trascorso una vita a sentirsi più israeliano che ebreo, dal 7 ottobre, ha capito di essere ebreo: “Non sono religioso, non vado in sinagoga, non indosso la kippah. Ho spesso ascoltato gli ultraortodossi andare in giro per strada a predicare la fratellanza fra tutti noi e non mi sono mai sentito loro fratello. Ora sì, sento un legame, come in ogni famiglia vedi le differenze, ma il senso di intimità rimane”. Molti israeliani hanno un timore che non provavano da tempo, hanno paura per la fine di Israele, uno stato che non è soltanto una casa, un progetto, un sogno, “rappresenta tutto quello che sei – spiega Elbashan – diversamente dagli ebrei della diaspora, sono cresciuto con l’idea che l’unico modo di essere, sia essere sionista. Così ho cresciuto i miei figli. Non so come essere ebreo senza essere sionista. Non so essere, senza essere sionista”. Yuval lo mette in parole, ma questo è un senso diffuso, un nuovo “essere o non essere” che gli israeliani si sono ripetuti per un anno. Il sionismo si è rafforzato, “lo vedi – conclude Yuval – calcolando le tante morti dei soldati a Gaza o in Libano – hanno tutti una vita, una famiglia, un lavoro. Vanno a combattere perché non possono esistere senza essere qui”. Elbashan spiega: “Un anno fa rifiutavo, come molti israeliani, l’idea di dover vivere con la spada. Ora so, come molti israeliani, che è meglio vivere con la spada che intrappolato in un’illusione”.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Come è dilagato l’antisemitismo dall’eccidio del 7 ottobre
di Giovanni Giacalone
Il 7 ottobre 2023 Hamas perpetrava il più grande eccidio nei confronti degli ebrei dai tempi della Shoah; un massacro pianificato e attuato contro uomini, donne, bambini, anziani e persino neonati. Stupri, decapitazioni, mutilazioni, omicidi a sangue freddo, sequestri. Scene di un’atrocità tale da impressionare persino militari di lunga esperienza giunti in soccorso della popolazione nel sud di Israele. Nonostante ciò, molti si sono rallegrati e hanno festeggiato l’eccidio, definendolo “resistenza”, oppure lo hanno giustificato come azione difensiva; un esempio, il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, soltanto tre giorni dopo il massacro, durante una manifestazione palestinese in centro a Milano, definiva l’eccidio “legittima difesa”; dichiarazione fatta ai microfoni dell’emittente televisiva italiana Rai 3. L’esternazione di Hannoun non è altro che una delle tante espressioni di odio nei confronti di Israele che si sono moltiplicate in tutto l’Occidente immediatamente dopo l’eccidio e ben prima che l’IDF iniziasse le operazioni di terra a Gaza. Per costoro, Israele non doveva nemmeno reagire; Israele non dovrebbe nemmeno esistere, come del resto evidenzia uno degli slogan più in voga alle manifestazioni “pro-pal”, ovvero “From the river to the sea, Palestine will be free” (Dal fiume al mare la Palestina sarà libera), incitamento alla distruzione dello Stato ebraico. Ci si nasconde dietro l’antisionismo, ma questa maschera non regge più. Come illustrato dal World Jewish Congress, l’antisionismo non è altro che una forma di antisemitismo in quanto negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nella sua patria ancestrale; è la negazione degli storici legami del popolo ebraico con la terra di Israele, ignorandone le prove storiche e archeologiche. Chiunque sostenga l’autodeterminazione ebraica e l’esistenza dello Stato di Israele è automaticamente un “sionista”, quindi “un nemico”, preparando di conseguenza il terreno per azioni violente contro gli ebrei in Israele e nella diaspora. Quel miscuglio di antisemitismo e antisionismo è emerso un po’ ovunque nelle manifestazioni pro-pal in Occidente, dal Canada all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa. I campus universitari sono diventati roccaforti dell’odio contro Israele mentre nelle piazze non si sono soltanto sentiti slogan, ma in alcuni casi si è anche passati alla violenza nei confronti degli ebrei. Alla University of Pittsburgh, due studenti ebrei venivano riconosciuti per via delle kippot che avevano in testa e aggrediti da teppisti filopalestinesi. In Gran Bretagna, appena dopo un mese dall’eccidio del 7 ottobre, il presidente dell’Unione degli Studenti ebrei, Edward Isaacs, denunciava un picco senza precedenti di aggressioni nei confronti di studenti ebrei. Il Community Security Trust (CST) ha infatti registrato 67 incidenti antisemiti dal 7 ottobre al 3 novembre 2023 in ben 29 campus, rispetto ai 12 registrati nello stesso periodo del 2022, come riportato dalla BBC, emittente certamente non filoisraeliana. La stessa CST ha registrato 5.583 casi di antisemitismo dal 7 ottobre 2023 al 30 settembre 2024, con un incremento del 204% rispetto ai 1.830 segnalati l’anno precedente. Si tratta tra l’altro dei dati più alti da quando il centro ha iniziato la propria attività nel 1984. In Francia, i dati del Ministero dell’Interno e dell’organismo di controllo del Servizio di protezione della comunità ebraica hanno mostrato che nel 2023 sono stati segnalati 1.676 atti antisemiti, rispetto ai 436 dell’anno precedente. Nel vicino Belgio, un ente pubblico indipendente che combatte la discriminazione ha dichiarato di avere ricevuto 91 segnalazioni tra il 7 ottobre e il 7 dicembre dello scorso anno, rispetto alle 57 segnalazioni dell’intero 2022. In Italia, i dati raccolti da OSCAD (Osservatorio sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) registrati dal 7 ottobre 2023 al 30 giugno 2024 indicano 406 casi di antisemitismo”. Dato successivamente aumentato a 456 in seguito a nuovi episodi. Queste sono solo le cifre ufficiali, ma possiamo tranquillamente supporre che non tutti gli episodi di denigrazione, sputi, intimidazione e insulti vengano registrati o segnalati. Nel Vecchio Continente si sono visti imam glorificare Hamas e diffondere propaganda antisemita, manifestanti con le bandiere nere, con quelle di Hezbollah, invocazioni alla distruzione di Israele, ma si è anche incorso in situazioni assurde, come a Londra, dove i manifestanti pro-Israele venivano confinati in un’area recintata mentre poco più avanti sfilava un corteo di islamisti, estremisti di sinistra e odiatori dello Stato ebraico. Per quale motivo ai primi veniva vietato il corteo? Che dire poi dell’episodio capitato a Gideon Falter, attivista del “Campaign Against Antisemitism”, minacciato di arresto da un agente della Met Police nei pressi di una manifestazione filopalestinese perché accusato di “apparenza apertamente ebraica” in quanto con la kippah in testa. All’aeroporto di Heathrow, alcuni passeggeri provenienti da Israele su un volo El Al venivano invece importunati dalle guardie doganali. In Italia, a Milano, nella giornata del 27 gennaio, Giorno della Memoria, lo studente italiano Mihael Melnic esponeva dalla finestra del proprio appartamento un cartello con scritto “Free Gaza from Hamas” mentre in strada era in corso l’ennesima manifestazione propalestinese, stavolta non autorizzata. Oltre agli insulti e alle minacce ricevute dai manifestanti, il ragazzo riceveva poco dopo la visita di due agenti di polizia che dopo essersi introdotti all’interno dell’appartamento, lo identificavano con modalità intimidatorie e cercavano, senza successo, di sequestrargli il cartello. Melnic successivamente rilasciava un’intervista al Times of Israel per raccontare l’accaduto. A Padova, la studentessa israeliana Jasmine Kolodro veniva invece convocata in questura per un avvertimento dopo aver esposto in strada la bandiera israeliana nei pressi di una manifestazione filopalestinese. Episodi inquietanti se si considera anche la dichiarazione del 1° ottobre 2024 del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, secondo cui l’antisemitismo è presente sia nel giornalismo che negli apparati di sicurezza. Una situazione che è degenerata anche in Spagna, dove la comunità ebraica si è detta molto preoccupata e gli studenti universitari ebrei hanno paura di andare a lezione. In realtà, il dilagare dell’antisemitismo dal 7 ottobre 2023 in poi non è altro che l’evoluzione di un “seme” malato, già ampiamente presente e diffuso in tutto l’Occidente e che aspettava soltanto un input per manifestarsi in tutta la sua “potenza”. Gli attentati ai musei e alle scuole ebraiche in Belgio e Francia durante la cosiddetta fase dell’ISIS ne erano un chiaro segnale. Oppure l’assalto a una sinagoga parigina nel 2014, con tanto di commento “è finita la pacchia” espresso dal coordinatore del CAIM e convertito all’Islam, Davide Piccardo, attualmente direttore editoriale del sito islamista in lingua italiana “La Luce News”. In Francia, imam come Mohamed Tataiat, Hassan Iquioussen, Mahjoub Mahjoubi sono finiti più volte nell’occhio del ciclone per la diffusione di narrativa antisemita e sono poi stati espulsi. In Italia la situazione risulta drammatica; la linea del “lasciare sfogare” messa in atto dal governo Meloni ha portato a liste di proscrizione, all’incitamento a segnare le case di “ebrei e sionisti”, alle parate con cartelli raffiguranti “agenti sionisti”, all’imbrattamento di una scuola elementare ebraica, alle prediche filo-Hamas e antisemite nelle moschee, alla pubblicazione di vignette antisemite, come illustrato dall’Osservatorio Antisemitismo. Come se non bastasse, il centro islamico sciita “Imam Mahdi” di Roma ha annunciato per il 3 ottobre la commemorazione di Hassan Nasrallah. La situazione è purtroppo in costante sviluppo ed un aggravamento della faccenda è più che plausibile, senza un intervento, seppure tardivo, delle autorità. Finché si continuerà a differenziare tra “antisemitismo” e “antisionismo” invece di riconoscere quest’ultimo come espressione del primo. Finchè si continuerà a volere vedere la situazione in corso come una guerra tra parti equivalenti invece che per ciò che realmente è, ovvero una lotta tra uno Stato sovrano, Israele, e un regime terrorista con base a Teheran che utilizza i propri proxy per colpire indiscriminatamente lo Stato ebraico e i suoi cittadini, non si potrà affrontare la questione con la necessaria onestà intellettuale. E’ bene inoltre ricordare che il regime iraniano opprime e perseguita la propria popolazione ma anche quella libanese, utilizzando quel corpo estraneo noto come Hezbollah che, fino a poco tempo fa, disponeva di un esercito più potente di quello libanese. Tutto ciò nel silenzio internazionale, perché le voci si levano soltanto quando Israele si difende. Ebbene sì, anche tutto questo può essere inteso come antisemitismo.
(L'informale, 5 ottobre 2024)
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L’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre
Lettera al Foglio dell'ex direttore dell'ANPI. Risalto aggiunto.
di Roberto Cenati
Fra pochi giorni ricorre l’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre, data in cui si è registrato contro Israele, da parte di Hamas, l’attacco più grave nella sua storia dopo la Shoah. I terroristi di Hamas si sono resi responsabili dell’uccisione a sangue freddo di 1.200 cittadini inermi, di violenze di ogni tipo, del rapimento di 250 cittadini israeliani tenuti in ostaggio e del più terribile stupro di massa dei nostri tempi, a danno delle ragazze israeliane. La guerra nella Striscia di Gaza sembra aver fatto dimenticare le responsabilità di Hamas, che non si è mai preoccupata del benessere della popolazione palestinese. Basti vedere come i finanziamenti arrivati in tutti questi anni a Gaza sono serviti a Hamas per costruire i suoi quartieri generali e chilometri di gallerie sotto alle infrastrutture civili, sotto ospedali, moschee, scuole, facendosi scudo dei civili palestinesi, durante i bombardamenti israeliani. Il governo israeliano si prefigge l’annientamento di Hamas che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l’eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio, termine ideato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin che sfuggì ai nazisti rifugiandosi prima in Svezia e poi negli Stati Uniti. Sdoganare un termine del genere fa sì che il passaggio successivo sia equiparare la tragedia della Shoah, che costituisce l’orribile paradigma della categoria di genocidio, a quello che sta facendo Israele. Ma sono situazioni incomparabili. E’ inaccettabile usare la logica della “vittima che diventa carnefice”, perché non fa altro che alimentare la deriva antisemita che, anche in Italia, sta crescendo in misura molto preoccupante. Così come è sbagliato pronunciare lo slogan “dal fiume al mare, Palestina libera”, slogan che viene scandito nelle manifestazioni palestinesi che percorrono da mesi, ogni sabato, le vie di Milano, perché dà per scontata la non esistenza di Israele, negando l’obiettivo di due popoli in due stati, per il quale la diplomazia internazionale sta lavorando. Ci eravamo illusi che dopo la Shoah tutto fosse superato. Ma non è stato così. Immediatamente dopo il 7 ottobre, prima ancora della reazione israeliana, abbiamo registrato un aumento esponenziale dell’antisemitismo. Oggi più che mai assistiamo a un ritorno di elementi antichi. E nonostante abbia cambiato nome nel tempo – da antigiudaismo come odio di stampo religioso ad antisemitismo come ostilità antiebraica di stampo razzista a cui si accompagna la negazione o la relativizzazione della Shoah, l’odio antiebraico presenta aspetti mai sopiti. Altro dato evidente è rappresentato dal fatto che tutte le persecuzioni e i massacri a cui sono stati assoggettati gli ebrei non hanno mai suscitato empatia, simpatia o reazioni nelle persone a loro vicine. L’indifferenza, di cui parla sempre Liliana Segre parlando delle leggi antiebraiche del 1938 e della Shoah, è in realtà una storia antichissima. Siamo di fronte a un clamoroso fallimento educativo, nonostante le numerose iniziative che ogni anno si svolgono nella ricorrenza del Giorno della memoria. Occorre rilanciare lo studio, la riflessione sotto il profilo culturale e storico soprattutto verso le giovani generazioni. E’ per me particolarmente doloroso constatare la disinformazione e la violenza degli attacchi rivolti a Israele. Manca una riflessione approfondita, sul piano storico e culturale, sul ruolo e l’importanza di uno stato democratico come Israele nell’area mediorientale. Israele costituisce per tutti noi un fondamentale presidio di libertà e democrazia. Spero sempre che i cittadini israeliani rapiti il 7 ottobre e ancora in ostaggio nelle mani dei terroristi di Hamas possano tornare nelle loro case.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Tre Nobel perfetti
Guterres, Unrwa e l’Aia candidati al blasone della pace nell’anniversario del 7/10
di Giulio Meotti
ROMA - Il segretario generale delle Nazioni Unite, l’agenzia Unrwa e la Corte dell’Aia si contendono il Nobel per la Pace. António Guterres, sotto il cui mandato è scoppiata la guerra in Ucraina e in medio oriente, è stato nominato insieme a un’organizzazione i cui dipendenti sono stati coinvolti nel 7 ottobre. Anche la Corte dell’Aia, dove pende il caso per “genocidio” contro Israele, è tra i candidati per il blasone.
Secondo Reuters, esperti vicini al processo di scelta del Nobel le due organizzazioni e il diplomatico sono i favoriti nella corsa al premio.
Da quando Guterres ha assunto l’incarico, la Russia ha invaso l’Ucraina e il medio oriente è entrato in uno stato di conflitto senza precedenti. In Israele, Guterres da questa settimana è “persona non grata”, in seguito al suo rifiuto di condannare l’aggressione iraniana a Israele e di nominare Hamas anche quando ha ucciso a sangue freddo sei ostaggi israeliani nei tunnel sotto Rafah.
Tuttavia, la nomina dell’Unrwa è ancora più problematica di quella del segretario generale. Durante l’ultimo anno di combattimenti a Gaza, la portata dell’infiltrazione di Hamas nell’agenzia delle Nazioni Unite è ripetutamente venuta alla luce. L’organizzazione stessa ha ammesso che alcuni dei suoi dipendenti, tra cui figure di alto livello, hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre e al rapimento di civili israeliani, licenziandoli ad agosto. Le scuole e i sistemi di approvvigionamento dell’organizzazione sono stati requisiti da Hamas e il gruppo ha persino creato una base di computer e server sotto la sede centrale dell’Unrwa a Gaza City. Nei giorni scorsi è emerso che anche il capo di Hamas in Libano era un dipendente di Unrwa. Ma per Henrik Urdal, direttore del Peace Research Institute Oslo, “l’Unrwa sta svolgendo un lavoro estremamente importante per i civili palestinesi”.
Il settimanale Le Point ha chiesto un commento a Noëlle Lenoir, ex ministro francese degli Affari europei: “Guterres è un antisionista dichiarato, si è schierato con la causa palestinese e non esita nella situazione attuale a presentarsi con regimi tra i più lesivi dei diritti umani. Ha ricevuto in pompa magna il ministro degli Esteri della Repubblica islamica dell’Iran. E’ stato lui che, personalmente, ha accettato che i talebani tornassero al tavolo degli stati membri, e senza donne. E’ ormai dimostrato che gli uomini dell’Unrwa sono stati complici, se non autori, di atti di terrorismo di Hamas. Per me, lungi dal meritare un Nobel per la Pace, è chiaro che Unrwa potrebbe essere considerata complice, o almeno coinvolta, nelle attività terroristiche a Gaza. E queste sono le stesse persone che sarebbero le favorite per un Nobel per la Pace? Perché non il leader supremo iraniano Khamenei!”.
Forse per festeggiare la “pace” nell’anniversario del 7 ottobre, tutti e tre meriterebbero di salire ex aequo su quel palco a Oslo e condividere il blasone. Ma perché non in quattro?
Ci sarebbe infatti anche UN Women, l’organismo delle Nazioni Unite per le donne. Ci ha messo soltanto sei mesi a nominare gli stupri di Hamas di donne fatte a pieces, altro che peace.
Il Foglio, 5 ottobre 2024)
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Israele bombarda il bunker di Hashem Safieddine, successore di Nasrallah
Continua la caccia alla leadership di Hezbollah. Preso di mira il bunker dove i leader superstiti, compreso il successore di Nasrallah, tenevano una riunione. Non si sa niente di chi c'è sotto l'immensa voragine
Israele ha bombardato una riunione dei vertici di Hezbollah intorno alla mezzanotte di giovedì, una riunione alla quale partecipava Hashem Safieddine, il presunto successore di Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah eliminato in un attacco aereo in Libano la scorsa settimana. Secondo fonti di intelligence israeliana, Israele ha colpito un bunker sotterraneo appartenente a Hezbollah vicino a Beirut, la capitale libanese. L’attacco è un chiaro segno che Israele non ha abbandonato la sua campagna per eliminare la leadership del gruppo sostenuto dall’Iran, quasi una settimana dopo l’uccisione di Nasrallah. Safieddine, cugino di Nasrallah, ha 50 anni, è stato a lungo uno dei principali esponenti di Hezbollah ed è stato considerato un candidato a diventare il nuovo segretario generale del gruppo. Funzionari israeliani avevano precedentemente dichiarato che Safieddine era uno dei pochi alti dirigenti di Hezbollah non presenti sul luogo del pesante bombardamento israeliano di venerdì scorso vicino a Beirut che ha ucciso Nasrallah. Non è stato immediatamente chiaro se Safieddine fosse presente nel bunker colpito venerdì notte. L’esercito israeliano non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento sull’attacco, ma ha emesso un ordine di evacuazione per il quartiere di Burj al-Barajneh, nel sud di Beirut, nella tarda serata di giovedì. Poco dopo, intorno a mezzanotte, una serie di enormi esplosioni ha scosso i Dahiya, i quartieri densamente popolati a sud di Beirut dove Nasrallah è stato ucciso e dove Hezbollah detiene il potere. Le onde d’urto hanno attraversato la capitale libanese, facendo tremare gli edifici; sono state avvertite ad almeno 15 miglia di distanza. Secondo l’agenzia di stampa statale libanese, si è trattato di uno dei più pesanti bombardamenti nell’area dall’inizio della guerra, lo scorso ottobre.
• CHI È HASHEM SAFIEDDINE? Nato all’inizio degli anni ’60 nel sud del Libano, Safieddine è stato uno dei primi membri di Hezbollah dopo la formazione del gruppo musulmano sciita negli anni ’80, sotto la guida iraniana, durante la lunga guerra civile libanese. Ha scalato rapidamente i ranghi del gruppo al fianco di Nasrallah, ricoprendo molti ruoli e servendo come leader politico, spirituale e culturale, oltre a guidare le attività militari del gruppo. Safieddine ha forti legami con Teheran, formatisi durante i suoi studi religiosi nella città iraniana di Qom. Come Nasrallah, ha studiato in Iran prima di tornare in Libano per lavorare per Hezbollah. Chierico, Safieddine è stato designato terrorista dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita nel maggio 2017 per il suo ruolo di leadership in Hezbollah. All’epoca, il Dipartimento di Stato lo definì “un alto dirigente” del Consiglio esecutivo di Hezbollah, che supervisiona le attività politiche, organizzative, sociali ed educative del gruppo.
• QUALI ALTRI LEADER DI HEZBOLLAH HA PRESO DI MIRA ISRAELE? L’attacco contro Safieddine è stato l’ultimo di una serie di attacchi israeliani in Libano volti a uccidere i leader di Hezbollah. Giovedì, un attacco israeliano ha preso di mira il comandante di Hezbollah Rashid Shafti, il funzionario del gruppo responsabile delle telecomunicazioni e della divisione informatica a Beirut, secondo due funzionari israeliani. Shafti aveva perso le dita nell’ondata di attacchi con esplosioni elettroniche compiuti da Israele questo mese, hanno aggiunto. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato giovedì di aver ucciso anche Mahmoud Yusef Anisi, un funzionario di Hezbollah coinvolto nella catena di produzione di missili di precisione del gruppo in Libano. Nell’attacco che ha ucciso Nasrallah la settimana scorsa, sono stati uccisi anche diversi leader del gruppo, tra cui Ali Karaki, comandante supremo di Hezbollah nel sud del Libano. Ibrahim Aqeel, che supervisionava le operazioni militari di Hezbollah e aveva fondato l’unità d’élite del gruppo, è stato ucciso il 20 settembre.
(Rights Reporter, 4 ottobre 2024)
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Come la partecipazione di Hezbollah alla guerra in Siria ha aiutato il Mossad
Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah.
Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è sopravvissuto a tre tentativi di assassinio durante la guerra libanese del 2006. Tuttavia, non è sopravvissuto al violento attacco al quartier generale di Hezbollah nel quartiere meridionale di Beirut, dove è stato ucciso insieme a diversi leader di Hezbollah, tra cui il comandante della regione meridionale, Ali Karaki. Cosa è cambiato in questa guerra rispetto alla precedente?
Secondo il Financial Times, Israele ha intensificato le sue attività di intelligence dopo la guerra del 2006, modificando il suo metodo di monitoraggio delle attività di Hezbollah.Leader attuali e passati hanno dichiarato al giornale che l'attuale forza di Israele deriva dalla profondità e dalla qualità dell'intelligence su cui il Paese fa affidamento.Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah. Un ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana ha spiegato che ciò ha richiesto un cambiamento fondamentale nella percezione di Hezbollah.
Il ritiro israeliano dalla zona di sicurezza nel 2000, considerato una vittoria da Hezbollah, è stato accompagnato anche da una significativa perdita di capacità di raccolta di informazioni. In compenso, l'intelligence militare "Aman" ha ampliato la sua concezione di Hezbollah al di là del singolo ramo militare, enfatizzando le sue ambizioni politiche e le sue crescenti relazioni con l'Iran e il regime di Bachar al-Assad in Siria.
Il coinvolgimento di Hezbollah nella guerra civile siriana a partire dal 2012 ha offerto a Israele nuove opportunità. I servizi segreti israeliani hanno pubblicato un "tableau de renseignement" che descrive nel dettaglio l'organizzazione e i suoi membri.
La guerra in Siria ha anche creato una miniera di dati, molti dei quali accessibili al pubblico, a beneficio dei servizi di intelligence israeliani e dei loro algoritmi. Le "foto dei martiri" dei combattenti Hezbollah uccisi in Siria, erano piene di piccoli dettagli.
Un ex politico libanese di alto livello di Beirut ha dichiarato che l'infiltrazione di Hezbollah da parte dei servizi segreti israeliani e americani è stata "il prezzo del loro sostegno ad Assad". E ha aggiunto: "Hanno dovuto nascondersi in Siria", dove il gruppo segreto ha dovuto mantenere contatti e scambiare informazioni con i corrotti servizi segreti siriani o con i servizi segreti russi, che erano sotto la costante sorveglianza degli americani.
(i24, 4 ottobre 2024)
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Il segreto della storica e misconosciuta popolarità di Netanyahu
La percezione internazionale del primo ministro è fortemente influenzata dalla copertura mediatica in Israele. Ma il pubblico israeliano non gli crede.
di Caroline Glick
È stato strano sentire Martha MacCallum di Fox News parlare di "impopolarità" del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Israele. MacCallum è una giornalista che non usa mezzi termini. Come fa a non sapere che Netanyahu è il primo ministro più popolare che Israele abbia avuto da molto tempo a questa parte?
"Direct Polls" è l'organizzazione di sondaggi più accurata in Israele. È stato l'unico a prevedere correttamente le elezioni della Knesset del 2022 che hanno riportato Netanyahu e il suo blocco religioso di destra al potere. L'anno scorso, Direct Polls ha raggiunto un risultato che prima era considerato impossibile: ha condotto sondaggi costantemente accurati su elezioni locali molto più piccole.
La popolarità di Netanyahu è scesa immediatamente dopo l'invasione di Hamas del 7 ottobre e l'uccisione di 1.200 israeliani. Tuttavia, è risalita alla fine di novembre. Dopo che il presidente del partito Resistenza per Israele, Benny Gantz, ha lasciato il governo Netanyahu a giugno, la popolarità di Netanyahu è aumentata costantemente nei sondaggi diretti ed era in vantaggio a due cifre su Gantz e sul presidente del partito di opposizione Yesh Atid, Yair Lapid. Negli ultimi mesi, il divario tra Netanyahu e il suo rivale è cresciuto costantemente.
Domenica, due giorni dopo che Israele aveva tolto di mezzo il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, Direct Polls ha pubblicato i risultati del suo ultimo sondaggio per Channel 14, mostrando che i partiti che compongono la coalizione di governo di Netanyahu detengono la maggioranza assoluta dei seggi alla Knesset per la prima volta dal 7 ottobre. Se le elezioni si tenessero oggi, il governo verrebbe rieletto.
La popolarità di Netanyahu ha raggiunto proporzioni epiche nella polarizzata giungla politica israeliana, superando la popolarità combinata dei suoi due principali rivali. In un confronto diretto, è in vantaggio su Gantz con il 52% a 25% e su Lapid con il 54% a 24%.
Ogni volta che Netanyahu scende in strada o che il suo convoglio passa davanti ai pedoni, questi gridano il loro sostegno e si accalcano per farsi un selfie con lui. Come ha notato il sociologo israeliano Avishai Ben Haim, Netanyahu è l'unico primo ministro dai tempi di Menachem Begin i cui sostenitori pregano attivamente per lui.
Nonostante la popolarità schiacciante di Netanyahu, la copertura mediatica in Israele e nel resto del mondo è rimasta al punto in cui si trovava subito dopo il 7 ottobre. Il mantra standard è quello che MacCallum ha ripetuto martedì sera. Il messaggio di fondo è che Netanyahu sta prolungando la guerra per evitare le elezioni.
A parte il fatto che questa affermazione è completamente falsa, essa oscura il significato di ciò che Netanyahu sta facendo. Se riduciamo la guerra a una questione politica, possiamo ignorare la sua importanza strategica. E se ignoriamo l'importanza strategica della guerra, possiamo anche eludere la questione dei sondaggi che mostrano come l'opinione pubblica si stia radunando dietro Netanyahu in un modo che nessun leader israeliano ha mai avuto nella memoria recente. E se ignoriamo i sondaggi, possiamo anche ignorare le ragioni della storica popolarità di Netanyahu.
Ma capire la sua popolarità è fondamentale per comprendere non solo le realtà politiche di Israele, ma anche le forze trainanti dietro gli eventi.
• LE RAGIONI DELLA POPOLARITÀ DI NETANYAHU La popolarità di Netanyahu ha due radici. La prima è il riconoscimento pubblico che Israele sta lottando per la propria sopravvivenza. La seconda è l'ostilità dell'amministrazione Biden-Harris.
Il 7 ottobre è stato un evento terribile. Non si è trattato solo di un massiccio attacco terroristico. Per gli israeliani è stato uno sguardo al futuro se Israele non vincerà la guerra. Ha mostrato agli israeliani che siamo in un gioco a somma zero con l'Iran e i suoi proxy terroristici. Non c'è accordo con Hamas, Hezbollah o il regime iraniano. O vincono loro e Israele viene distrutto, oppure Israele vince e loro vengono distrutti come entità militari e politiche. Non c'è una via di mezzo, non c'è una situazione vantaggiosa per tutti.
Sebbene l'amministrazione Biden-Harris abbia espresso solidarietà con Israele dal 7 ottobre, il giorno delle atrocità di Hamas non ha cambiato gli obiettivi politici dell'amministrazione. Sia prima che dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris aveva due obiettivi in Medio Oriente: raggiungere un accordo nucleare con l'Iran attraverso un'acquiescenza strategica e creare uno Stato palestinese a Gerusalemme, Giudea, Samaria e Gaza.
Entrambi gli obiettivi sono rifiutati dalla stragrande maggioranza degli israeliani, che vedono sia uno Stato palestinese sia un Iran dotato di armi nucleari come una minaccia esistenziale per il Paese. Dato il sostegno emotivo che gli israeliani hanno ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e dai suoi consiglieri dopo il 7 ottobre, gli israeliani si aspettavano giustamente che abbandonassero la loro politica anti-israeliana.
Ma il governo non ha fatto nulla del genere. Invece, pochi giorni dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris ha sbloccato 6 miliardi di dollari in conti iraniani e ha trasferito il denaro a Teheran. Nonostante le numerose prove, l'amministrazione ha negato che l'Iran fosse coinvolto nella pianificazione e nell'autorizzazione dell'invasione terroristica di Hamas. E ha ignorato il fatto che più del 75% dei palestinesi ha appoggiato il massacro di quel giorno e che nessun funzionario dell'Autorità Palestinese ha condannato le atrocità.
Lungi dallo schierarsi al fianco di Israele, il governo ha iniziato a smentire Israele già l'8 ottobre, insinuando che fosse sul punto di commettere crimini di guerra, insistendo sul fatto che Israele deve combattere in conformità con le "leggi di guerra", come se ci fosse qualche ragione per credere che ciò non fosse evidente.
Appena un mese dopo l'inizio dell'offensiva di terra di Israele a Gaza, il governo ha iniziato ad autorizzare con riluttanza armi offensive che andavano da fucili d'assalto e munizioni a carri armati, proiettili d'artiglieria e bombe per gli aerei da combattimento. Le uniche armi fornite in modo continuativo erano i missili Iron Dome.
Dal punto di vista del governo, Israele aveva il diritto all'autodifesa, ma non alla vittoria. A tal fine, il governo ha cercato di controllare le operazioni militari di Israele e di minimizzare la loro importanza strategica. Gli israeliani si resero conto che un pareggio equivaleva a una sconfitta.
Gantz, Lapid e il ministro della Difesa Yoav Galant erano pronti ad accettare la posizione del governo. Era in linea con decenni di pratica militare. Inoltre, il governo li ha elogiati per aver accettato i suoi dettami. I media che odiano Netanyahu hanno usato i loro flirt con la Casa Bianca e il Pentagono per dipingerli come statisti e Netanyahu come un egocentrico isolato che continuava a lottare solo per evitare nuove elezioni.
Ma l'opinione pubblica non ci ha creduto. Lungi dal considerare Netanyahu un egocentrico, lo vedeva come l'unica speranza di evitare la distruzione nazionale. Anche nella prima fase della guerra, Netanyahu si è distinto come l'unico leader che il pubblico vedeva: Israele ha di fronte nemici che vogliono uccidere ogni ebreo che incontrano, e se non li sconfiggiamo noi, loro lo faranno.
Netanyahu è stato l'unico a promettere pubblicamente e ripetutamente che non avrebbe permesso che i soldati caduti in Israele cadessero invano e che non avrebbe abbandonato i suoi sforzi bellici. Quando le pressioni degli Stati Uniti sono diventate più forti e aggressive, è stato anche l'unico a non vacillare.
Al rifiuto di Netanyahu di accontentarsi di qualcosa di meno della vittoria, il governo ha risposto interferendo apertamente nella politica israeliana, con il chiaro obiettivo di neutralizzarlo all'interno del suo governo o di estrometterlo dal potere. Per raggiungere il primo obiettivo, Biden, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e i loro subordinati hanno sfruttato l'appello dell'opinione pubblica all'unità nazionale per costringere Netanyahu a concedere a Gantz un effettivo potere di veto sulle operazioni militari, inserendolo nel gabinetto di guerra. Da questa posizione, Gantz è stato in grado di indebolire sistematicamente le operazioni militari israeliane in accordo con le richieste degli Stati Uniti. Il governo ha giocato un ruolo importante anche nella decisione di Gantz di lasciare il governo a giugno. L'idea era che, dopo le dimissioni di Gantz, Gallant avrebbe convinto quattro membri del Likud della Knesset a lasciare il governo con lui e a formare una coalizione alternativa con la sinistra. Alla fine, però, Gallant non è riuscito a realizzare questo piano. In assenza di Gantz, Netanyahu si è rapidamente impegnato ad aumentare l'aggressività e l'efficacia dello sforzo bellico di Israele a Gaza. L'opinione pubblica ha sostenuto fortemente le mosse di Netanyahu. La possibilità che i deputati del Likud si unissero all'opposizione era svanita.La relazione simbiotica che il governo Biden-Harris ha mantenuto con la sinistra israeliana non ha indebolito Netanyahu dal punto di vista politico, come i media e i suoi alleati politici di sinistra avevano ipotizzato. È stato invece il contrario. Poiché l'opinione pubblica era d'accordo con Netanyahu sul fatto che si trattava di una guerra per la sopravvivenza nazionale, il sostegno a Netanyahu è cresciuto man mano che l'opinione pubblica apprendeva dell'opposizione del governo a una vittoria israeliana. Anche politici come Galant, Lapid e Gantz, che si dice abbiano buoni rapporti con l'amministrazione Biden, sono stati visti con sospetto.
A risollevare gli indici di popolarità di Netanyahu da un impressionante 40 a uno stratosferico 50+ (per gli standard israeliani) è stato il suo viaggio a Washington alla fine di luglio. Gli israeliani considerano l'alleanza tra Stati Uniti e Israele una necessità strategica. Se da un lato approvano il rifiuto di Netanyahu di piegarsi alle pressioni americane, dall'altro temono che i media abbiano ragione ad accusarlo di distruggere le relazioni tra Stati Uniti e Israele.
La risposta entusiasta che Netanyahu ha ricevuto dai membri di entrambi i partiti quando ha tenuto il suo discorso alle due Camere del Congresso e i suoi incontri di successo con Biden, il vicepresidente Kamala Harris e l'ex presidente Donald Trump hanno dimostrato al pubblico israeliano che la ricerca della vittoria da parte di Netanyahu non ha in alcun modo diminuito il sostegno degli Stati Uniti a Israele. È stato dopo questa visita che Netanyahu ha ricevuto il maggior incoraggiamento.
• LO SCOPO DEL MITO DELL'IMPOPOLARITÀ DI NETANYAHU Questo ci riporta al persistente mito mediatico dell'impopolarità di Netanyahu. La copertura internazionale di Netanyahu è fortemente influenzata da quella dei media israeliani. Con la notevole eccezione di Channel 14, la stampa e i media elettronici israeliani sono stati protagonisti degli sforzi di lunga data della sinistra per demonizzare il primo ministro al fine di estrometterlo dal potere. A tal fine, la copertura è stata disfattista e demoralizzante fin dall'inizio della guerra. Ad esempio, i corrispondenti e i commentatori di Channel 12 hanno reagito all'annuncio dell'IDF del 27 settembre che Nasrallah era stato ucciso con facce tristi e una delusione appena celata. Al contrario, il pubblico era eccitato e motivato dalla notizia.
Insistendo sul fatto che Netanyahu è impopolare e che la sua impopolarità rafforza la sua determinazione a vincere la guerra, i media diffondono una narrazione che ignora le implicazioni strategiche della fine della guerra senza sconfiggere Hamas, Hezbollah o l'Iran.
Ma il pubblico non ci crede. Netanyahu è sostenuto perché insiste nel combattere per la vittoria a tutti i costi e poi si attiene ostinatamente alla sua promessa. In questo modo, Netanyahu ha riconquistato la fiducia del pubblico. E ora che la sua determinazione porta a vittorie giorno dopo giorno, l'inflessibile determinazione di Netanyahu aumenta la sua popolarità e fa apparire il governo, l'opposizione e i media sempre più ridicoli e irrilevanti agli occhi dell'opinione pubblica israeliana.
(Israel Heute, 4 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’esempio di Begin e il carpe diem di Netanyahu
di Niram Ferretti
Quando, nel 1981, Menachem Begin diede via all’Operazione Opera, il cui obiettivo fu la distruzione del reattore nucleare che Saddam Hussen stava ultimando a Osirak in Iraq, le reazioni degli Stati Uniti e non solo furono oltraggiate, si parlò di abuso, di terrorismo di Stato, di violazione della legge internazionale, esattamente quello che è accaduto recentemente dopo le azioni preventive contro Hezbollah. Con l’Operazione Opera si inaugurò la cosiddetta “dottrina Begin”, riassumibile semplicemente con, “Noi vi colpiamo prima che ci colpiate voi”.
Sono passati 43 anni, e Israele si trova ancora nella necessità di colpire prima che il nemico possa avere la forza di colpirlo. Dopo il traumatico fallimento dell’intelligence che ha causato il 7 ottobre, si è deciso di intervenire al sud del Libano per evitare un altro 7 ottobre, colpendo pesantemente Hezbollah, decapitandone i vertici, e ora, a seguito del secondo attacco missilistico dell’Iran su Israele, Israele è pronto a rispondere contro il principale agente di destabilizzazione regionale, il suo nemico principale.
Per più di un decennio, Benjamin Netanyahu ha messo in guardia il mondo sul pericolo iraniano, massimamente potenziato dalla sua capacità di dotarsi di armamenti nucleari, possibilità che, con il passare del tempo, è diventata una realtà sempre più concreta e una minaccia per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico.
Nel 2015 Netanyahu volò a Washington, dove, al Congresso, tenne un memorabile discorso intervallato da numerose standing ovation, durante il quale mise in guarda dal rischio che comportava l’accordo che l’Amministrazione Obama si apprestava a siglare con Teheran allo scopo di frenare il programma nucleare iraniano. Netanyahu sapeva che quell’accordo era fallato, che l’Iran avrebbe trovato il modo di aggirarne le clausole, che di fatto gli si lasciava la possibilità di raggiungere il suo scopo, non subito, ma a gradi. Obama stava solo “buying time”, acquistando tempo, ma Israele non aveva bisogno di un accordo che spostasse più avanti la minaccia, se accordo doveva esserci, ce ne voleva uno molto più rigoroso e coartante.
Dopo quasi dieci anni, l’Iran non ha mai smesso di lavorare al nucleare da impiegare a scopo militare, è stato solo frenato da operazioni di sabotaggio israeliane, uccisioni mirate di addetti al suo programma, attacchi cyber, ma si tratta di azioni non risolutive, non come fu l’Operazione Opera.
Colpire e distruggere i siti nucleari iraniani, incavati nella roccia in profondità rappresenta una sfida molto più complessa di quella che dovette affrontare Begin nel 1981, distruggendo un solo reattore ben visibile nel deserto, ma non ci sono strade alternative per debellare la minaccia. Adesso, dopo il 7 ottobre, dopo due attacchi missilistici dell’Iran, è arrivata l’ora, l’onda è alta, ed è necessario cavalcarla prima che si abbassi e forse non si ripresenti più.
Ci si chiede se Israele possa agire senza il supporto logistico statunitense, i pareri sono contrastanti, ma una cosa è certa, l’Amministrazione Biden, dove sono incardinati nei posti chiave gli uomini di Obama, e retta da un presidente che è ormai nelle condizioni di essere solo un passacarte, non vuole che i siti nucleari vengano colpiti, non vuole che l’Iran, con cui ha continuato imperterrita la politica di pacificazione voluta da Obama, venga messo in grave difficoltà.
Fin dall’inizio della guerra scoppiata a Gaza, a seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, l’Amministrazione Biden ha cercato costantemente di commissariarla, di indirizzare Israele lungo i binari della propria agenda politica che non solo non è quella dello Stato ebraico, ma è in evidente contrasto con la sua.
Netanyahu è stato abilissimo nel gestire la situazione, concedendo e ritirando, aprendo e chiudendo, facendo in modo che gli americani ottenessero in buona parte quello che chiedevano, ma, allo stesso tempo, continuando sulla linea che si era dato, smantellare Hamas a Gaza, linea che sta proseguendo infaticabilmente.
Il problema urgente, tuttavia, non è Hamas, ormai ridotto alla residualità dopo un anno di combattimenti, ma è l’Iran, il suo puparo. Netanyahu è giunto ora, alla vigilia dell'anniversario del 7 ottobre, al punto cruciale della sua carriera, a uno snodo che potrebbe farlo passare alla storia come colui che ha messo Israele in sicurezza dopo il grande fallimento precedente, di cui non si può negare anche la sua responsabilità.
Quarantatre anni fa Menachem Begin fece prevalere la sicurezza di Israele sopra ogni altra considerazione, annichilendo le velleità atomiche dell’Iraq, oggi è il testimone è passato a Netanyahu. Saprà seguirne l’esempio fino in fondo?
(L'informale, 3 ottobre 2024)
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Parashà di Haazìnu: Dove si accenna a Moses Mendelssohn nella Torà?
di Donato Grosser
In varie fonti si racconta che Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) aveva un talmìd (discepolo) di nome Abner, che abbandonò l’osservanza della mizvòt e abbracciò la religione locale credendo così di poter migliorare il suo standard di vita. Successivamente, quando il Nachmanide lo incontrò, Abner gli chiese se era vero che nella cantica di Haazìnu vi sono accenni sui nomi e sulle vicende delle persone in questo mondo.
Il Nachmanide rispose che confermava quanto aveva detto. Infatti, in questa parashà il Nachmanide insegna che la cantica di Haazìnu contiene una promessa esplicita della futura redenzione del popolo d’Israele contro le affermazioni dei miscredenti. Egli cita il Midràsh Sifrì nel quale i Maestri affermano che la cantica di Haazìnu contiene il presente, il passato e il futuro.
Abner gli chiese quindi di dirgli dove vi era un accenno al suo nome nella cantica di Haazìnu. Il Nachmanide rispose che si trova nel versetto dove è scritto: “… li disperderò, farò cessare il loro ricordo dall’umanità”(Devarìm, 32:26). Il Nachmanide mostrò ad Abner che in ognuna di queste quattro parole le terze lettere del testo ebraico (זכרם מאנוש אשביתה אפאיהם) Alef, Bet, Nun e Resh, componevano il nome Abner. Questo fu sufficiente per scioccare Abner che si pentì di quello che aveva fatto.
R. Aharon Shurin (Lituania,1913-2012, Brooklyn) in Keshet Aharon su questa parashà, scrive che una storia simile, viene raccontata nell’opera Mekòr Barùkh di r. Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941). In quest’opera egli offre un ritratto della sua famiglia e delle personalità di spicco della generazione precedente. Tra gli altri egli descrive i difetti fatali di Moses Mendelssohn nella sua negazione dell’identità nazionale ebraica nella diaspora. Per Mendelssohn gli ebrei erano una religione, ma la loro nazionalità era quella del paese in cui vivevano. Questa opinione era distruttiva al punto che nessuno dei suoi discendenti rimase ebreo. Fino ad oggi Mendelssohn è considerato un facilitatore dell’assimilazione degli ebrei in Germania.
Nell’introduzione alla sua traduzione e al commento della Torà in tedesco, Mendelssohn si lamentò del fatto che un suo assistente, r. Shlomo Dubna, fosse improvvisamente sparito, senza dare notizia di se o un motivo per la sua sparizione. R. Epstein scrive che il motivo per la sparizione di r. Dubna, fu il suo incontro ad Amburgo con r. Raphael Hakohen Susskind (Lituania, 1722-1803, Altona) rabbino capo delle comunità ebraiche di Altona, Amburgo e Waldsbeck. R. Susskind cercò in ogni modo, ma senza successo, di bloccare il progetto della traduzione della Torà in tedesco di Mendelssohn.
R. Epstein racconta che quando r. Dubna arrivò ad Amburgo per promuovere l’opera del Mendelssohn, venne a visitare r. Susskind. R. Dubna si lamentò con r. Susskind del fatto che tanti rabbini erano contrari al progetto del Mendelssohn. R. Susskind rispose citando la frase dei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 3:13) dove è scritto: “Chi ha la benevolenza degli uomini, ha certo anche quella dell’Onnipresente; mentre chi non è amato dagli uomini, non è amato nemmeno dall’Onnipresente” (traduzione di Joseph Colombo).
I due continuarono nella loro conversazione nel corso della quale vennero a parlare del Nachmanide che scrisse che nella Torà vi è un accenno di ogni israelita e di ogni grande evento in Israele. R. Susskind disse a r. Dubna che quello che aveva scritto il Nachmanide era pura verità. R. Dubna chiese quindi a r. Susskind dov’era l’accenno nella Torà a Mendelssohn e alla sua opera. R. Susskind rispose che il versetto della Torà era nella parashà di Emòr (Vaykrà, 22:25) dove è scritto: “Sono guasti e difettosi”. R. Susskind fece notare a r. Dubna che le iniziali di queste parole sono uguali a quelle del nome con cui veniva chiamato Mendelssohn, Moshè Ben Menachem Berlin: בם מום בהם משחתם – Mem, Bet, Mem, Bet. E fu così che r. Dubna non tornò a Berlino e non si fece più vivo con Mendelssohn.
(Shalom, 2 ottobre 2024)
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Parashà della settimana: Haazinu (Porgete orecchio)
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Israele all’ONU: “è finito il tempo della de-escalation”
Scontro al Consiglio di Sicurezza dell'ONU
di Sarah G. Frankl
L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha detto che “il tempo dei vuoti appelli alla de-escalation è finito”. Partecipando alla riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha aggiunto che “il vero volto dell’Iran è quello del terrore, della morte e del caos”. “Non è più una questione di parole”, ha detto. “L’Iran è un pericolo reale e presente per il mondo e, se non verrà fermato, la prossima ondata di missili non sarà diretta solo contro Israele”. Danon ha definito la raffica di missili iraniani che martedì l’Iran ha lanciato contro Israele “un attacco a sangue freddo contro 10 milioni di civili” e “un atto di aggressione senza precedenti”. Egli sottolinea che Israele non si fermerà finché tutti gli ostaggi presi da Hamas e da altri terroristi non saranno tornati in Israele. “Che il mondo capisca: Israele si difenderà e lo farà con giustizia e forza”, ha dichiarato. Parlando prima di Danon, l’ambasciatore iraniano ha affermato che l’Iran ha dovuto lanciare una raffica di missili contro Israele per “ristabilire l’equilibrio” dopo una recente serie di importanti attacchi israeliani contro i suoi proxy regionali. Amir Saeid Iravani descrive l’attacco missilistico come “una risposta necessaria e proporzionata ai continui atti terroristici aggressivi di Israele negli ultimi due mesi”. Sostiene che l’Iran ha “costantemente perseguito la pace e la stabilità” e che Israele vede la moderazione iraniana “non come un gesto di buona volontà ma come una debolezza da sfruttare”. “Ogni atto di moderazione da parte dell’Iran ha solo incoraggiato Israele a commettere maggiori crimini e più atti di aggressione”, afferma Iravani. “Di conseguenza, la risposta dell’Iran era necessaria per ripristinare l’equilibrio e la deterrenza”. L’ambasciatore libanese alle Nazioni Unite ha dichiarato che il suo governo rifiuta i combattimenti tra Israele e Hezbollah. Hadi Hachem afferma che il governo libanese vuole l’applicazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto porre fine all’ultima guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006. Essa chiedeva il disarmo di tutti i gruppi armati, compresi gli Hezbollah, e il dispiegamento delle forze libanesi al confine meridionale con Israele. Nulla di tutto ciò è avvenuto. L’ambasciatore libanese afferma che la piena attuazione della risoluzione è l’unica soluzione alla guerra in corso e alla “barbara aggressione” di Israele. Egli afferma che il Libano sta aprendo l’arruolamento di 1.500 nuovi soldati per rafforzare la presenza dell’esercito nazionale nel sud. “Il Libano oggi è bloccato tra la macchina di distruzione israeliana e le ambizioni di altri nella regione”, afferma Hachem, alludendo al sostegno dell’Iran a Hezbollah.
(Rights Reporter, 3 ottobre 2024)
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Colpiamo subito l'Iran
di Naftali Bennett
Israele ha ora la sua più grande opportunità in 50 anni di cambiare il volto del Medio Oriente. La leadership iraniana, fino a ieri famosa per la sua bravura nel giocare sulla scacchiera politica internazionale, stavolta ha commesso un terribile errore.
Dobbiamo agire ORA per distruggere il programma nucleare dell'Iran, le sue centrali energetiche e per paralizzare mortalmente questo regime terroristico. Agire ora per colpire la testa della piovra del terrore, che nella sua codardia ha mandato avanti i suoi tentacoli (Hamas, Hezbollah, gli Houthi, ecc.) per assassinarci, mentre gli Ayatollah sedevano al sicuro nei loro palazzi a Teheran. I tentacoli della piovra sono temporaneamente paralizzati, ora tocca alla testa. Dobbiamo rimuovere questa terribile minaccia sul futuro dei nostri figli.
Possiamo concedere al popolo iraniano l'opportunità di sollevarsi e scrollarsi di dosso il regime che tiranneggia le sue donne e le sue figlie. Abbiamo un buon motivo. Abbiamo gli strumenti. Ora che Hezbollah e Hamas sono paralizzati, l'Iran si ritrova allo scoperto.
In quest'ultimo anno terribile, i tentacoli iraniani hanno assassinato le nostre famiglie.
Hanno violentato le nostre figlie. Rapito i nostri piccoli. Saccheggiato le nostre città. Bruciato i nostri campi. Sparato contro le nostre navi. Terrorizzato i bambini a Kiryat Shmona, Kfar Aza e Sderot. Hanno svuotato intere regioni della nostra terra. Ci hanno umiliati.
Ma ora è il momento. Una nazione di leoni ha ritrovato la sua unità e ha dimostrato la sua forza nell'ultimo anno. Ha desiderato un cambiamento, un'azione, per così tanto tempo. Ci sono momenti in cui la storia bussa alla nostra porta e quella porta dobbiamo aprirla.
Questa opportunità non deve essere persa.
Libero, 3 ottobre 2024)
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Iran – L’attivista anti-regime: ayatollah fragili, Khamenei solleva fumo
di Adam Smulevich
«Se reagite sarà la fine», ha tuonato la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei rivolgendosi a Israele al termine dell’attacco missilistico delle scorse ore. Parole che non impressionano Rayhane Tabrizi, attivista iraniana tra le più esposte in Italia nella denuncia dei crimini del regime degli ayatollah e più volte in piazza anche al fianco dello Stato ebraico, per difendere il suo diritto a esistere. «Il regime ha bisogno di sollevare un po’ di fumo, di fare del circo. Ma non è in alcun modo in grado di entrare in una guerra “vera” contro Israele, ne verrebbe sconfitto», sostiene l’attivista, che vive a Milano ed è parte del movimento internazionale Donna, vita, libertà. Interpellata da Pagine Ebraiche, Tabrizi sostiene che la teocrazia iraniana sia in un momento di particolare debolezza, evidente sotto vari aspetti, perché è «senza l’appoggio di gran parte del popolo e con forti scissioni anche all’interno della sua struttura di potere». Secondo vari osservatori lo si è visto anche in quest’ultima circostanza, con il presidente Masoud Pezeshkian apparentemente informato dell’attacco soltanto pochi istanti prima del via. Così almeno riferisce il New York Times, citando fonti israeliane.
Negli scorsi giorni il primo ministro di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, ha diffuso un video in cui afferma che «quando l’Iran sarà finalmente libero, tutto sarà diverso», precisando che «quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi». Il pensiero di Tabrizi è che «l’Iran debba liberarsi da solo: non è Netanyahu che viene a salvare noi, siamo noi che dobbiamo salvare noi stessi». In ogni caso, gli avvenimenti di questo turbolento periodo «possono essere usati come una leva per procedere in quella direzione, la fine del regime». Forse i tempi non sono ancora maturi. Ma, a detta di Tabrizi, potrebbero essere ora più vicini. L’attivista è coinvolta in queste settimane in molte iniziative pubbliche. È in definizione ad esempio una tre giorni di sit-in davanti alla sede del Parlamento europeo a Milano, per protestare contro le condanne a morte ed esecuzioni inflitte dal regime. Anche sotto il “moderato” Pezeshkian, il boia resta sempre a pieno servizio.
(moked, 3 ottobre 2024)
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La pacificazione ad ogni costo, la più grande minaccia per la pace
di Davide Cavaliere
Adesso, dopo aver adottato questa politica scellerata, il team di Biden si rivela sempre più preoccupato dalla possibilità che l’Iran decida di approfittare del periodo di circa 90 giorni tra le elezioni del 4 novembre e l’insediamento del prossimo presidente americano, il 20 gennaio 2025, per violare le restrizioni internazionali e accelerare la costruzione di un’arma nucleare con cui colpire Israele.
Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell’Iran.
La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di
Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o di abdicazione forzata.
Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.
(L'informale, 3 ottobre 2024)
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Aperto un centro traumatologico per i sopravvissuti al massacro
In Thailandia è stato aperto un nuovo centro traumatologico. Il suo scopo è quello di sostenere le persone che soffrono di problemi psicologici dopo gli eventi del 7 ottobre.
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Il centro si trova sull'isola thailandese di Ka Pha Ngan
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BANGKOK - Un'organizzazione israeliana no-profit ha aperto un centro traumatologico in Thailandia per i sopravvissuti agli attacchi terroristici di Hamas che desiderano lasciare Israele. Lo riferisce il sito di notizie "Algemeiner".
Gli amici di una vittima della strage del 7 ottobre, David Newman, hanno fondato l'organizzazione chiamata "Let’s Do Something“. Insieme volevano contribuire a raccogliere attrezzature e aiuti umanitari per le persone colpite dagli attacchi terroristici. Finora l'organizzazione ha investito e fornito l'equivalente di circa 360.000 euro in aiuti militari e umanitari.
L'ultima iniziativa di "Let’s Do Something" è un centro traumatologico chiamato "David's Circle" per le persone che hanno sofferto di problemi psicologici come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo gli eventi del 7 ottobre. È stato creato in collaborazione con la terapeuta e specialista israeliana di traumi Jael Schoschani-Rom e l'assistente sociale Segev Ben-Schalom. Hanno scelto come location l'isola tailandese di Ko Pha Ngan.
• L’ultima iniziativa in Thailandia
La Thailandia è una delle destinazioni preferite dai turisti israeliani. Secondo le statistiche, più di 100.000 israeliani vi si sono recati dal 7 ottobre. Il centro traumatologico ha lo scopo di aiutare queste persone.
"Dopo il 7 ottobre, mi sono dedicato a lavorare con i sopravvissuti di Nova", ha detto Shoshani-Rom, riferendosi al festival musicale di Re'im. "È diventato chiaro che per molti, compresi i sopravvissuti delle comunità del sud e i soldati, ogni giorno sembra ancora il 7 ottobre 2023. In Israele non si può sfuggire al ricordo di quel giorno. Molte persone sono costrette ad andarsene, in India, in Europa o in Thailandia. Ma il trauma li segue e sono a rischio di gravi crisi psicologiche". Per questo motivo è stato fondato il "Circolo di David".
"Israele è un piccolo Paese in cui quasi tutti conoscono qualcuno che è stato colpito dagli eventi del 7 ottobre, sia che si trovasse alla Nova, che sia stato colpito dall'attacco, che sia stato in contatto con le famiglie degli ostaggi, che abbia combattuto a Gaza o che abbia perso una persona cara", ha spiegato Baruch Apisdorf, il direttore principale di Let's Do Something. "Oltre 17.000 israeliani si recano in Thailandia ogni mese. Molti di loro portano il peso di un grave trauma e stanno affrontando una crisi di salute mentale. 'David's Circle' è qui per fornire la pace e il sostegno di cui hanno disperatamente bisogno".
"Let's Do Something." comprende otto fondatori. Erano tutti amici intimi di Newman. Oggi gestiscono l'organizzazione a tempo pieno.
L'obiettivo della nuova iniziativa è di assistere in futuro circa 150 persone al mese nel nuovo centro traumatologico, ha dichiarato David Gani, cofondatore di "Let's Do Something". Il "Circolo di David" ha tenuto la sua prima riunione il 18 settembre; una seconda riunione è prevista per il 7 ottobre.
(Israelnetz, 3 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Due consigli per essere iscritti nel libro della vita
Riportiamo senza commenti un articolo che compare oggi su “Shalom” nella rubrica “Idee - Pensiero ebraico”. NsI
di Roberto Colombo 28-09-2022
Dichiarò Rabbì Keruspedài: disse Rabbì Yochanàn che vi sono tre libri aperti a Rosh Hashanà: uno per i veri malvagi, uno per i veri giusti e uno per coloro che si trovano in una fase intermedia. I veri giusti sono subito iscritti nel libro della vita, i veri malvagi in quello della morte e per coloro che si trovano in una fase intermedia si attende per la trascrizione da Rosh Hashanà a yom Kippùr… (T.B. Rosh Hashana 16b)
Molti Maestri si sono soffermati su questa Mishnà. La vita o la morte decisa per l’uomo in base al suo comportamento non è sempre da intendere come esistenza terrena. Vi sono malvagi che vivono per molto tempo e persone rette e oneste che muoiono in giovane età. Per i Tosafòt, i dotti commentatori del Talmùd, si tratta qui della vita oltre la morte, della serenità o dell’inquietudine decisa per l’anima nel mondo dell’aldilà. Per altri Maestri la Mishnà tratta della resurrezione che sarà permessa solo ai meritevoli dopo l’arrivo del Mashìach. Rosh ha shanà e Yom Kippùr, in cui si deciderà il nostro futuro, sono alle porte e il tempo che ci è rimasto per modificare in bene il nostro avvenire è ormai limitato. Nella Tefillà chiediamo a Dio ogni sera dopo la lettura dello Shemà Israèl di darci dei consigli per poter cambiare il nostro futuro. Questi suggerimenti ci vengono dati dai nostri Maestri. Qui ne riporteremo soltanto due, scritti cinquant’anni fa dal grande Maestro Rabbì Chaiìm Shemuèlevic’ (1902 – 1979) nel suo fondamentale libro Sichòt Mussàr. Facciamone tesoro.
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• TalmùRosh Hashanà 17A: attenti allo specchio Disse Rabbà: a chiunque sa passare oltre ai propri diritti il cielo perdona tutti i peccati commessi perché è detto: Egli sopporta il peccato, perdona la trasgressione (Michà 7, 18). Sopporta il peccato e perdona la trasgressione sembra un’inutile ripetizione perciò si deve intendere: Di quale persona il Signore sopporta il peccato? Di colui che sa perdonare le trasgressioni che altri hanno commesso verso di lui. Spesso, o sempre, giudichiamo gli altri per mancanze commesse verso i nostri confronti e attendiamo una giusta rivalsa ai diritti personali violati ingiustamente. Non è facile perdonare, cancellare un torto e guardare oltre, cercando di ricostruire rapporti personali ormai guastati. Perché, dunque, Dio non dovrebbe giudicare anche noi con lo stesso metro? Perché scusare, dimenticare e assolvere dalle offese chi a sua volta non sa discolpare, obliare o passare oltre ad un torto ricevuto provando a ricostruire legami ormai lesi? Il termine “Cielo” si traduce in ebraico Shamàim, che a sua volta è composto dalle due parole Sham-Màim – lì vi è acqua. L’acqua è uno specchio dove si riflette l’immagine, un volto che sempre nasconde anche il nostro carattere. Ciò che si decide in alto e dall’alto viene mandato è sempre anche il riflesso del nostro comportamento e dei nostri rapporti verso gli altri e verso noi stessi. La traccia lasciata in noi dalla maldicenza subita, dall’ingiustizia e dalle offese non può mai essere cancellata con facilità. L’unico modo è quello di ritrovare una forma di umiltà, la forza di guardarci dentro e di scoprire quante volte anche noi stessi abbiamo ingiuriato e diffamato gli altri e il Creatore. Ecco il primo consiglio: si impari a perdonare se si vuol essere perdonati da Dio e iscritti nel libro della vita.
• Talmùd Sanhedrìn 92a: non è sempre un bene aprire una finestra
Disse Rabbì Zeirà: Si insegna che se una casa è buia non si devono aprire le finestre per vedere i difetti nascosti nelle mura.
Un Cohèn, un Sacerdote giunto a valutare se le pareti di una casa colpite da strane chiazze mandate dal Signore dovevano essere demolite (Lev. 34), non poteva aprire le finestre per far entrare la luce e valutare l’entità del danno. I Maestri così imparano che il buio, la discrezione e la riservatezza nascondono i difetti e salvano dalla distruzione. Amiamo spesso farci notare per le nostre belle azioni e per le belle frasi spesso pronunciate solo per circostanza. Ma apparire non è un bene perché ciò illumina spesso anche le nostre mancanze. Racconta il Talmùd: Accadde che un giorno Rabbàn Yoḥanàn ben Zakkài… vide una povera donna che stava raccogliendo orzo tra lo sterco degli animali. Quando lo guardò, la donna si avvolse tra i capelli, poiché non aveva nient’altro con cui coprirsi, e si fermò davanti a lui. Lei gli disse: “Mio Maestro, dammi del sostentamento”. Le rispose: “Figlia mia, chi sei?” Gli disse: “Sono la figlia di Nakdimòn ben Guryòn”. Il Maestro replicò: “Figlia mia, i molti soldi di tuo padre, dove son finiti?”. Gli disse: “… Mio padre non faceva Tzedakà e per questo non mantenne intatti i suoi averi e perse tutto ciò che aveva”. Si chiede la Ghemarà: Nakdimòn ben Guryòn non dava denaro in elemosina?! Non è forse insegnato: Dissero di Nakdimòn ben Guryòn che quando usciva di casa indossava dei lunghi manti di seta nei quali nascondeva del denaro che i poveri venivano a prendere da dietro e faceva ciò per poter dare del denaro senza causare loro vergogna? Sì, ma egli agiva così solo affinché si parlasse di lui in modo onorevole. (T.B. Ketubàt 66b, 67a) Non vi è onore più grande della modestia, dell’agire in bene senza farsi notare ed apparire. È il buio della riservatezza e della semplicità che mantiene veramente intatta la nostra casa. L’agire per farsi notare produce solo macerie. Ecco il secondo consiglio per avere una vera vita ebraica. Si faccia del bene di nascosto per aprire una finestra verso il futuro. Possa tutto Israele avere il merito di essere iscritto nel libro della vita. Amèn.
(Shalom, 3 ottobre 2024)
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Il fallimento dell’attacco iraniano e le sue conseguenze
di Ugo Volli
• MISSILI FUORI BERSAGLIO
L’attacco con cui l’Iran si riprometteva di raddrizzare la situazione pericolante del suo ”Asse della resistenza” e di “punire” lo smantellamento di Hezbollah e l’eliminazione del suo leader Nasrallah, è miseramente fallito. I 180 missili balistici, sparati in due ondate sul centro di Israele, e gli sciami di droni usati per coprirne la traiettoria, sono stati quasi tutti abbattuti dalla contraerea israeliana, con l’aiuto, questa volta abbastanza secondario, degli americani. Vi sono stati dei danni ad alcune case, ma i loro abitanti si erano protetti nei rifugi come raccomandato dai comandi militari. Diversi proiettili sono finiti in mare, su campi disabitati e nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, dove c’è stata la sola uccisione: un palestinese colpito a Gerico, per l’ironia della sorte proveniente da Gaza. Le uniche vittime israeliane di ieri sera sono state provocate purtroppo da un attacco terroristico vecchio stile, effettuato a Giaffa, l’antica città portuale vicino a Tel Aviv, da una coppia di terroristi palestinesi con armi automatiche.
• LE RAGIONI DEL FALLIMENTO
Il risultato insomma non è diverso da quello ottenuto dagli ayatollah l’aprile scorso, per vendicare il colpo israeliano su una riunione terrorista in un edificio accanto alla loro ambasciata di Damasco, dove era rimasto ucciso Mohammad Reza Zahedi, il capo della milizia dei pasdaran per il Medio Oriente. Anche allora la sola persona colpita era stata una bambina beduina nel Negev e l’attacco aveva fatto solo molto fracasso e pochissimi danni veri. È difficile dire se questo fallimento derivi dall’incapacità delle forze missilistiche iraniane, da una sottovalutazione della capacità di autodifesa israeliana o da una scelta di fare un attacco solo dimostrativo, come alcuni sostengono, per segnalare che l’Iran non vuole una guerra vera. In ogni caso si tratta di una certificazione di impotenza che non resterà senza conseguenze in un ambiente che non perdona la debolezza, come il Medio Oriente. Dopo aver visto distrutta la forza militare di Hamas a Gaza e fortemente indebolita quella di Hezbollah, mentre le forze di terra israeliane avanzano in Libano e quelle aeree continuano a smantellarvi i depositi di armi e missili, non solo la reazione di Hezbollah è stata finora molto più debole di quel che si temeva, ma anche l’attacco iraniano non ha funzionato. Non bisogna farsi troppe illusioni, perché l’Iran è un grande Paese con una popolazione dieci volte più grande di quella di Israele e un’industria militare che oggi è la principale fonte di armamenti per la Russia. Ma sembra chiaro che non solo questa battaglia, ma l’intera strategia di logorare e distruggere Israele per mezzo dei gruppi terroristi, sia fallimentare.
• ISRAELE PUÒ RISPONDERE
“L’Iran ha fatto un grave errore e ne pagherà le conseguenze”, ha dichiarato il primo ministro Netanyahu alla fine del gabinetto di guerra convocato per valutare la situazione alla fine dell’attacco. L’errore sta non solo nel fallimento dell’attacco, ma nell’attacco stesso. Israele a questo punto ha l’occasione perfettamente giustificata sul piano politico e legale di colpire non i tentacoli, ma la testa stessa della piovra terrorista, il centro di comando di tutti i fronti aperti contro lo Stato ebraico. Ad aprile la risposta di Israele all’attacco dell’Iran fu solo un segnale: il bombardamento delle installazioni antiaeree di un impianto nucleare ben dentro il territorio dell’Iran significava che Israele poteva penetrare fino ai siti militari meglio difesi e che per il momento si asteneva dal colpirli, anche per le pressioni americane. Ora queste pressioni perché Israele non reagisca probabilmente si stanno ripetendo con la stessa intensità, ma la situazione politica negli Usa e anche quella strategica in Medio Oriente sono assai diverse. Israele ha sconfitto Hamas, anche se restano notevoli focolai terroristi; ha ridimensionato la maggiore fonte di deterrenza dell’Iran, cioè l’armamento di Hezbollah, così vicino allo stato ebraico e così abbondante da creare serie preoccupazioni; ha anche dimostrato di poter bloccare gli attacchi missilistici dallo Yemen e dall’Iran. In America le elezioni si avvicinano, l’amministrazione Biden e la candidata Harris si sentono più vincolati al giudizio di un elettorato che continua a essere notevolmente pro-Israele e dunque non possono seguire le spinte anti-israeliane che pure sono potenti nel partito democratico.
• I POSSIBILI OBIETTIVI
Che succederà ora? Se Israele si sentirà libero di rispondere all’aggressione degli ayatollah, senza doversi limitare di nuovo ad atti simbolici, cercherà però anche di non mettersi contro il popolo persiano, che considera amico e insofferente della dittatura clericale. Dovrà dunque escludere rappresaglie sulle città e sulle installazioni civili. Ci sono quattro gruppi di obiettivi possibili. Il primo e il più importante sono le installazioni del programma nucleare. L’Iran è vicinissimo alla bomba atomica e se riuscisse a realizzarla questo cambierebbe drasticamente in peggio tutta la situazione strategica del Medio Oriente e forse del mondo. Anche qualche giorno fa all’Onu Netanyahu ha ribadito l’impegno di impedirlo. Il secondo obiettivo sono invece gli impianti portuali da cui l’Iran deve far passare il proprio petrolio, che è la principale fonte di finanziamento per il regime. Sono istallazioni ben note e fragili: oleodotti, depositi di carburante, raffinerie, pozzi. Il terzo obiettivo potrebbero essere gli impianti militari e in particolare quelli missilistici. E il quarto i luoghi del potere e le residenze dei principali dirigenti, che Israele potrebbe colpire come ha fatto a Beirut e Damasco. Naturalmente non possiamo sapere quando e dove Israele colpirà. Ma è chiaro che questa è la partita decisiva di questa guerra, che potrebbe cambiare in meglio tutto il Medio Oriente, eliminando la minaccia terroristica, favorendo finalmente un cambio di regime in Iran e una pace fra Israele e il mondo arabo.
(Shalom, 2 ottobre 2024)
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Tensione alle stelle in Medio Oriente: il cuore di Israele sotto attacco
Il Medio Oriente è di nuovo sull’orlo del baratro. La tensione è alle stelle, catalizzando l’attenzione mondiale in un drammatico crescendo di violenza. Nelle ultime ore, l’incubo è diventato realtà: missili balistici lanciati dall’Iran, razzi dal Libano e dalla Siria hanno squarciato il cielo di Israele, colpendo duramente il centro del Paese.
Le esplosioni hanno causato la morte di un uomo a Jerico, un palestinese profugo da Gaza, e il ferimento di almeno due persone, e l’impatto psicologico è devastante: migliaia di cittadini terrorizzati sono stati costretti a fuggire nei rifugi antiaerei, mentre l’allarme risuona senza tregua.
Tel Aviv, cuore pulsante della nazione, è ora teatro di sparatorie in vari punti della città. Il suono dei colpi riecheggia ovunque, gettando la popolazione nel panico. Il terrore corre sottile, nessuno può prevedere cosa accadrà nelle prossime ore.
L’intera regione è in bilico, mentre il mondo osserva impotente una crisi che rischia di sfuggire definitivamente al controllo. Ai residenti è stato chiesto di non allontanarsi dalle aree sicure, mentre l’IDF ha chiarito che le misure restrittive resteranno in vigore per fronteggiare l’attacco coordinato da Hezbollah e Iran.
• COLPITA L’AUTOSTRADA FUORI TEL AVIV Uno degli episodi più preoccupanti, come riferisce il Times of Israel, è stato il lancio di un razzo che, martedì, ha centrato un’importante autostrada appena fuori Tel Aviv. Due persone sono rimaste ferite e subito sono state imposte nuove misure di sicurezza. L’esercito, nel frattempo, si prepara per un’ulteriore intensificazione degli scontri con Hezbollah, soprattutto dopo un’incursione terrestre nel sud del Libano avvenuta durante la notte.
• ISRAELE LANCIA AVVERTIMENTI AI CIVILI Le sirene d’allarme hanno risuonato in tutta Israele, dalla Galilea settentrionale fino a Gerusalemme e Tel Aviv. L’esercito ha invitato i civili libanesi a evacuare l’area a sud del fiume Litani, mentre si preparano nuovi schieramenti di truppe lungo il confine. Questa mossa, probabilmente, segna l’ingresso in una nuova fase del conflitto, già segnato da settimane di pesanti attacchi contro le postazioni di Hezbollah in Libano. Il lancio di razzi, avvenuto a metà mattinata di martedì, rappresenta la prima ondata di attacchi diretti al centro di Israele da quando è stata annunciata l’operazione di terra. Mentre il nord di Israele è stato bersagliato da numerosi missili, si è registrato anche un tentativo fallito di attacco con droni su Tel Aviv, rivendicato dai ribelli Houthi dello Yemen, alleati di Hezbollah e dell’Iran.
• CHIUSI SCUOLE, SPIAGGE E LUOGHI PUBBLICI
In risposta agli attacchi, l’IDF ha annunciato una serie di nuove restrizioni: chiuse scuole e luoghi di lavoro senza accesso ai rifugi, interdette le spiagge e limitati gli assembramenti. Non più di 30 persone possono radunarsi all’aperto, mentre al chiuso il limite è stato fissato a 300. Le misure interessano tutto il nord e il centro del Paese, inclusa Tel Aviv, Gerusalemme, la regione costiera di Sharon, l’area del Carmelo vicino a Haifa, Wadi Ara e la Cisgiordania settentrionale.
• RAZZI SU TEL AVIV, FERITO UN CONDUCENTE DI AUTOBUS Uno dei razzi, lanciato dal Libano, ha colpito la trafficata Route 6, vicino alla città di Kafr Qassem. L’esplosione ha lasciato un cratere sulla strada e frammenti del razzo hanno perforato un autobus di passaggio. Il conducente, un uomo di 54 anni, è stato ferito alla testa ed è stato trasportato in ospedale in condizioni moderate, come riportato dal servizio di soccorso Magen David Adom. Altri passeggeri sono stati trattati per lo shock, mentre un secondo automobilista è stato ferito in modo lieve.
Hezbollah ha rivendicato il lancio dei missili, affermando di aver colpito la base militare di Glilot, vicino a Herzliya, sede di importanti strutture dell’Intelligence israeliana.
• IL FUTURO INCERTO Mohammed Afifi, portavoce di Hezbollah, ha definito gli attacchi contro Tel Aviv «solo l’inizio». Le difese israeliane hanno respinto molti dei razzi, ma la tensione resta palpabile. Le sirene di allarme continuano a suonare e il Paese è in stato di massima allerta.
Mentre Israele si prepara a fronteggiare ulteriori attacchi, l’ombra di un conflitto ancora più ampio sembra avvicinarsi, portando con sé una sensazione di incertezza per il futuro della regione.
(Bet Magazine Mosaico, 2 ottobre 2024)
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Gerusalemme, festa di matrimonio in un rifugio: anche la Città Santa si scopre vulnerabile
di Michele Gravino
GERUSALEMME — Una cerimonia così Kristirae e Shawn Gibson, arrivati dal Colorado per sposarsi nel cuore di Gerusalemme, proprio non se la aspettavano. Cattolici praticanti, profondamente attratti dalle radici della loro religione e per questo da anni appassionati di ebraismo, avevano scelto di sposarsi nella Città Santa per consacrare la passione comune, oltre al loro amore. Ma di dover scendere nel rifugio dell’hotel dove si teneva la cerimonia insieme a tutti gli invitati non lo avevano messo in conto. «Volevamo venire qui già un anno fa, poi c’è stato il 7 ottobre», raccontano nei loro abiti da cerimonia mentre sulle teste si sentono i rumori dell’Iron dome che intercetta i missili su Gerusalemme. «Si vede proprio che doveva essere indimenticabile», dicono.
Come gli sposi americani Kristirae e Shawn, nove milioni di israeliani sono stati colti di sorpresa dall’intensità dell’attacco iraniano su Israele ieri sera. Moltissimi, come loro, sono corsi nei rifugi. Altri hanno scelto di non farlo: e di restare alle finestre a guardare la pioggia di missili e le scie lasciate in cielo dai proiettili che li intercettavano. Per quanto Israele fosse stato avvisato, la paura è arrivata improvvisa. Ad aprile, durate il primo attacco iraniano, i missili iraniani ci avevano messo nove ore ad arrivare: questa volta ne sono passate meno di due dalle prime avvisaglie di attacco alle esplosioni.
La sorpresa è stata forte soprattutto a Gerusalemme che, avendo una popolazione per il 30 per cento araba, di solito non è nel mirino di attacchi missilistici. Che qualcosa ci fosse da aspettarsi si era capito quando l’ambasciata Usa aveva mandato a casa i suoi impiegati invitandoli a non uscire, ma a prevalere era stato lo scetticismo. «Da quella parte. Ma vedrà che non serve» era stata la risposta del portiere dell’hotel quando, all’arrivo delle prime notizie, avevamo chiesto dove si trovasse il rifugio. E’ servito invece, a Kristirae e Shawn, ai loro invitati e a dozzine di altre persone che erano nella stessa struttura. Lacrime e tensione, soprattutto fra chi era arrivato dall’estero, sono durate meno di un’ora: il tempo delle intercettazioni. La danza improvvisata degli sposi ha migliorato l’atmosfera: ma i sorrisi sono tornati solo quando l’allarme è cessato e la sposa ha invitato tutte le compagne di avventura a unirsi al tradizionale momento del lancio del bouquet.
A Tel Aviv l’allarme è scattato prima ancora che a Gerusalemme: che la città fosse a rischio era stato detto da giorni e ieri i residenti erano stati avvisati di non uscire e stare vicino ai rifugi. Così ha fatto Sarah, che abita in centro, in un palazzo di una zona che era popolare ma ora è diventata di moda: che, proprio perché vecchio e costruito senza grandi mezzi, non ha un rifugio. «Avevamo già le scarpe ai piedi e siamo corsi nell’hotel di fronte con i bambini: come facciamo da un anno a questa parte ogni volta che suonano le sirene». Spesso, spessissimo, nell’ottobre del 2023, quando l’avevamo conosciuta fra una corsa e all’altra nel sotterraneo: molto meno negli ultimi tempi, con l’eccezione di aprile. «Questa notte dormiamo vestiti», ci dice al telefono.
A Tel Aviv la tensione è alta: il comitato che riunisce le famiglie degli ostaggi portati a Gaza il 7 ottobre sin da ieri mattina, prima ancora che arrivassero le istruzioni dell’esercito che proibivano i raduni, aveva annullato le manifestazioni previste nel fine settimana per ricordare la strage di un anno fa. Al momento sono in dubbio anche quelle previste nei kibbutz del Sud.
Diversa atmosfera a Ramallah e nei Territori occupati, dove pure sono atterrati dozzine di missili: più che la paura qui ha prevalso la gioia. «Allah U Akbar», è stato il grido che è risuonato a Ramallah quando si sono sentite le sirene suonare negli insediamenti che circondano la città. La gente non è scappata nei rifugi, perché nei Territori palestinesi di rifugi non ce ne sono, se non negli insediamenti.
A Gerico un palestinese è rimasto ucciso dalle schegge di un missile. Ma le immagini sui social mostrano la festa attorno ai pezzi degli ordigni iraniani. Lo stesso giubilo c’è stato a Gaza: i video condivisi sui Social media mostrano i bambini inneggiare di fronte alle sirene che suonavano oltre il confine e alla pioggia di missili che teneva impegnata l’Iron Dome.
(la Repubblica, 2 ottobre 2024)
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La base di Khamenei potrebbe abbandonarlo
di Shay Khatiri
Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell'Iran. La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o di abdicazione forzata.
Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.
(L'informale, 2 ottobre 2024 - trad. Niram Ferretti)
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Bernard-Henri Lévy: «Criminale manifestare a favore di Hamas»
Il filosofo francese parla del suo nuovo saggio «La solitudine di Israele»
di Francesco Mannoni
Bernard-Henri Lévy, filosofo, giornalista, attivista e regista francese che abbiamo incontrato a Pordenonelegge è duro, preciso e inflessibile nel difendere Israele: «Israele, contro Hamas sta combattendo una guerra che riguarda il mondo intero. Una guerra che va contro ogni forma di totalitarismo, di islamismo e terrorismo, come quando ha lottato contro l’Isis e Al Qaeda. Ma questa volta Israele ha il diritto di difendersi. L’esserci fatti sorprendere da Hamas, è la nostra colpa morale. Israele ha l’obbligo di vincere questa guerra che significa riportare a casa gli ostaggi e distruggere le infrastrutture militari di Hamas».
Questi concetti li espone anche nel suo ultimo libro, «Solitudine di Israele» (La Nave di Teseo, pag. 174, euro 17), nel ribadire che Israele ha subito un attacco terroristico almeno altrettanto impressionante di quello degli Stati Uniti l’11 settembre 2001 o degli attentati francesi al Bataclan, nella sede di «Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher. E aggiunge: «Non solo Israele deve difendersi, ma è necessario che vinca. Se non vince, Hamas resterebbe al potere a Gaza e i palestinesi sotto il tacco di Hamas che diventerebbe il campione del mondo arabo e del mondo musulmano: avrebbe una sorta di aureola del vincitore, e Israele andrebbe incontro ad altri 7 ottobre. Prima o poi potrebbero esserci problemi all’interno di Israele, ma per il momento è fondamentale vincere la guerra e portare a casa gli ostaggi».
- Israele con questa guerra di cui lei auspica la vittoria sta perdendo il consenso mondiale, perché da perseguitato starebbe diventando persecutore. Non sarebbe stato meglio dare una patria alla Palestina? «Ci sono due elementi in questa domanda che bisogna spiegare bene. Innanzi tutto Israele, gli ebrei, sono sempre stati perseguitati. Quando si è vittima di un attacco dell’ampiezza e della crudeltà del 7 ottobre, e quando i terroristi dicono: “il nostro obiettivo è ricominciare”; oppure quando affermano: “lo scopo finale è avere la Palestina libera dal mare al fiume, e la scomparsa totale di Israele”, non credo ci siano molte possibilità di dialogo. E se le persone che dicono queste cose hanno alleati potenti, come Hezbollah, l’Iran e la Russia, un Paese piccolo come Israele - un milionesimo del pianeta -, di fronte alla volontà distruttiva di tutte queste forze, forse è difficile affermare che è un persecutore. Ma la patria dei palestinesi è il nodo più difficile da sbrogliare. Auspico uno stato palestinese da cinquant’anni e ho militato per questo scopo per tutta la mia vita. Ho fatto parte del gruppo che ha partecipato all’elaborazione del Piano di Ginevra -credo sia uno dei migliori – perciò non dica a me che ci vuole una patria per i palestinesi: ne sono persuaso. Però ora è il momento peggiore per dichiarare questo Stato: sarebbe un errore enorme».
- Perché? «Hamas sarà al potere, finché gli abitanti della Cisgiordania penseranno che i suoi uomini sono degli abili e valorosi combattenti, e per questo la questione dello Stato Palestinese, non può essere posta ora. Se domani l’Italia, la Francia e la Norvegia dicessero finora abbiamo commesso un errore, avremmo dovuto ascoltare i militanti dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli, ecco qua lo Stato palestinese, sa quale sarebbe la conclusione in tutto il mondo? Tutti penserebbero: quando si chiedono le cose con metodi pacifici non funziona; quando si negozia e si dialoga non funziona; invece quando si prendono degli ostaggi e si trucidano migliaia di persone innocenti o quando si prende un intero popolo in ostaggio, allora così funziona. È questo il messaggio che vogliamo inviare? Vogliamo dire questo ai terroristi del mondo intero? Vedrebbe come cambierebbe la situazione del pianeta dopo. Una patria per i palestinesi è da molto tempo che avremmo dovuto dargliela, e quando Hamas sarà eliminato con tutti quelli che gli somigliano e lo sostengono si potrà parlare di uno Stato palestinese, ma non ora. Oggi, questa possibilità non si dovrebbe nemmeno nominare».
- Ma che diciamo agli studenti che protestano pro Palestina? «Bisogna fare una distinzione. Ci sono gli studenti che manifestano contro il governo israeliano, e ci sono gli studenti che manifestano a favore di Hamas: sono due cose completamente diverse. La prima è perfettamente legittima, la seconda, manifestare pro Hamas, è criminale. È stata dichiarata una guerra contro Israele minacciata di distruzione, e si tratta di una guerra totale. Al momento c’è una sola possibilità accettabile per Israele e per i Palestinesi: la capitolazione di Hamas come si è fatto con Al Qaeda e con Isis».
- Il blocco di Gaza che impedisce di rifornire di viveri oltre un milione e mezzo di sfollati che vivono in condizioni drammatiche ritenute dal sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’Onu un «flagello per la nostra coscienza collettiva», non è un po’ inumano? «Sono andato di persona a Gaza due o tre volte e posso dire che venivano bloccate solo le merci che servivano per la fabbricazione di armi. In secondo luogo il mercato è sempre stato chiaro: basta coi razzi, basta col blocco; niente razzi, niente blocco. Il giorno in cui Hamas smetterà di inviare razzi su Israele, allora non ci sarà più nessun blocco. La fonte di quello che è successo il 7 ottobre, non è l’humus, non è il contesto: è una ideologia. Siamo vicini ad una forma di nazismo che si chiama islamismo radicale che non risale al momento del blocco. Hamas (che è un ramo della fratellanza musulmana, un movimento nato un secolo fa in Egitto, e si colloca ideologicamente all’interno del fondamentalismo islamico), ha sempre detto fin dalle origini che loro non hanno mai accettato lo Stato di Israele. È proprio un fattore ideologico. Può esserci o non esserci un blocco, Gaza può essere liberata o occupata dagli israeliani, e non cambierebbe niente. L’ideologia di Hamas e della fratellanza musulmana resta un elemento essenziale: Israele non deve esistere».
- Perché Netanyahu non viene fermato visto che non tutti in Israele vogliono la guerra? «Israele è una democrazia. Ci sono milioni di persone che vogliono che Netanyahu vada via perché vuole salvare solo se stesso: sono speculazioni, un’idea di complotto. Il dibattito in Israele riguarda la politica nazionale domestica portata avanti da Netanyahu e in particolare sui suoi progetti prima della guerra, e non c’è alcun dibattito sulla necessità di distruggere Hamas. Ho avuto l’immenso onore di essere scelto dalle famiglie degli ostaggi, per il discorso settimanale che viene tenuto ogni sabato nella piazza degli ostaggi. Ho visto i famigliari degli ostaggi, li ho ascoltati, alcuni di loro sono amici: però per quanto riguarda la distruzione di Hamas e di hezbollah, in Israele non c’è alcun dissenso. In realtà c’è un dibattito strategico: dobbiamo recuperare gli ostaggi prima e distruggere Hamas dopo o dobbiamo agire contemporaneamente. Questo è il dibattito in corso in Israele. Personalmente sono per la liberazione degli ostaggi. Mi piacerebbe che si potesse fare prima una cosa prima e dopo l’altra, ma non credo sia possibile. Ritengo che gli uomini di Hamas siano dei mostri ma non totalmente stupidi. Non li vedo liberare gli ostaggi ed essere battuti».
- Nell’eventuale post-Hamas, come pensa reagirebbe il popolo palestinese? «Credo che il popolo palestinese si risveglierebbe e capirebbe di essere stato condotto in un vicolo cieco. Sarebbe un po’ come i tedeschi dopo il 1945. Un intero popolo che era stato stregato, si risveglia e finalmente capisce che non c’è alcuna altra soluzione se non quella del dialogo, dell’accettazione dell’altro e della condivisione della terra. Quel giorno, tutto sarà possibile».
- Il nuovo presidente americano saprà porre fine alla guerre in Israele e in Ucraina? «I due candidati non dicono la stessa cosa. Uno non è pro Ucraina, ed è Trump. Sono reduce da una visita negli Stati Uniti, dove ho fatto un giro di presentazioni. Ho ascoltato e ho capito che fra i due candidati ci sono differenze immense, tuttavia non credo che potrà esserci un’intesa amichevole apprezzabile in Medio Oriente. In Ucraina penso possa andare diversamente: è un fronte in cui si gioca la pace mondiale».
(Gazzetta di Parma, 2 ottobre 2024)
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La svolta della guerra: è iniziata l’operazione di terra in Libano
di Ugo Volli
• L’ATTACCO DI TERRA
La notte scorsa è partita la tanto attesa operazione di terra delle forze armate israeliane in Libano, partendo dal “dito” di Kiryat Shmona e Metula, alle pendici occidentali del Monte Hermon. Con un forte appoggio di artiglieria e la copertura dell’aviazione, le truppe della divisione 98 hanno attaccato finora 21 villaggi, roccaforti di Hezbollah e già abbandonati dalla popolazione civile. Come ha dichiarato un comunicato dello stato maggiore, “in conformità con la decisione dei vertici politici, le forze armate di Israele hanno avviato poche ore fa un’operazione di terra mirata e delimitata nel sud del Libano contro obiettivi terroristici e infrastrutture dell’organizzazione terroristica di Hezbollah, in una serie di villaggi vicino al confine, che rappresentano un pericolo immediato e una vera minaccia per i villaggi israeliani al confine settentrionale. I reparti operano secondo un piano elaborato dallo Stato Maggiore Generale e dal Comando Nord, per il quale si sono addestrati e preparati negli ultimi mesi. Le forze di terra sono accompagnate nell’attacco dall’aviazione e dall’artiglieria, che attaccano obiettivi militari nella zona in coordinamento con i combattenti delle forze di terra. L’operazione Frecce del Nord continua contemporaneamente ai combattimenti a Gaza e in altri fronti.”
• LA REAZIONE AMERICANA
Il punto chiave e politicamente delicato in questo comunicato è la qualificazione dell’attacco come “mirato e delimitato”. A queste condizioni Israele ha ottenuto l’appoggio degli Stati Uniti, fondamentale per prevenire una reazione iraniana. C’è stato infatti un comunicato importante dalla Casa Bianca, in cui si dice che le azioni mirate di Israele in Libano fanno parte del suo diritto a difendersi: “Comprendiamo che gli israeliani effettueranno azioni limitate per distruggere le infrastrutture di Hezbollah che potrebbero minacciare i cittadini israeliani. Ciò rientra nel diritto di Israele di proteggere i suoi cittadini e di consentire loro di tornare sani e salvi alle loro case. Sosteniamo il diritto di Israele di difendersi contro Hezbollah e altri affiliati iraniani.”
• LE RAGIONI DELL’OPERAZIONE
Ci si può chiedere se l’attacco alle postazioni terroristiche del Libano meridionale fosse necessario dopo la distruzione del vertice di Hezbollah realizzata negli ultimi dieci giorni. La risposta è sì, che a Hezbollah rimangono decine di migliaia di truppe e molte armi avanzate, in particolare missili di precisione. Anche se Israele ha bloccato i rifornimenti all’organizzazione terroristica che potevano arrivare per via aerea dall’Iran e per via di terra dalla Siria, la capacità potenziale del gruppo terroristico di attaccare Israele è ancora alta. Era importante approfittare del suo stato di shock e di disorganizzazione, conseguente ai colpi subiti in questi giorni, per distruggere le istallazioni e i depositi militari ancora esistenti e non raggiungibili dall’aviazione perché nascosti in tunnel sotterranei e anche per eliminare le truppe accumulate da Hamas al confine israeliano. L’operazione mira, insomma, a smantellare la potenza militare di Hezbollah e a garantire la possibilità del ritorno a casa per le decina di migliaia di israeliani fatti sfollare in questi mesi dai bombardamenti di Hezbollah.
• GLI ALTRI TEATRI DI GUERRA
Contemporaneamente all’operazione di terra, la notte scorsa vi sono stati anche intensi bombardamenti nella periferia meridionale di Beirut contro depositi di armi sotto edifici residenziali, bombardamenti anche a Tiro e Sidone sulla costa meridionale del Libano, e diversi attacchi aerei a Damasco contro capi di Hezbollah, delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran e di altre organizzazioni terroristiche. Durante il giorno sono anche continuate le azioni a Gaza, dove c’è stato un attentato di Hamas che ha ferito gravemente un soldato israeliano, ma è stata catturata l’ennesima scuola trasformata in deposito d’armi e centro d’attacco. Finora le reazioni da parte dell’asse terrorista sono state scarse. Dopo la decina di missili abbattuti ieri nell’area di Haifa, i mezzi israeliani hanno abbattuto un drone, forse sparato dagli Houti, che puntava nella zona di Tel Aviv.
• CORAGGIO
Non c’è dubbio che questa operazione, insieme ai colpi decisivi inferti a Hezbollah nelle scorse due settimane, possa costituire la svolta della guerra. Israele è tornato all’offensiva anche al nord, non si limita più a ricambiare i colpi, ma opera strategicamente per la vittoria. C’è voluto molto coraggio per superare i timori e i freni che venivano dall’amministrazione americana, per non parlare dell’ostilità del resto del mondo: ancora ieri notte Josep Borrell, ministro degli Esteri dell’Unione Europea per fortuna in scadenza, ha dichiarato che l’UE vuole rafforzare l’esercito libanese come elemento di stabilità della regione. Peccato che l’esercito libanese, al primo annuncio dell’operazione israeliana, si sia immediatamente ritirato, dopo non aver fatto nulla contro Hezbollah da decenni. E c’è voluto molto coraggio per intraprendere questa operazione, perché già nel 2006, durante la seconda guerra del Libano, l’esercito israeliano ha avuto molte difficoltà nelle strette valli di montagna del Libano meridionale e ora esse sono ancora più difficili, densamente fortificate da Hezbollah. Proprio per questo l’operazione, che i terroristi aspettavano e sfidavano da tempo, è stata attuata solo dopo lo smantellamento della catena di comando e di comunicazione.
• IL FUTURO
Israele non ha ambizioni sul Libano. Se tutto andrà bene, ci vorranno alcune settimane per ripulire a fondo la zona di confine, che era già interdetta a Hezbollah dalla risoluzione 1701 dell’Onu. È possibile che le forze israeliane debbano andare oltre i villaggi di confine, fino al fiume Litani, per stabilire una zona libera dal terrorismo. Difficile però che arrivino a Beirut, come è difficile che si fermino a presidiare la zona liberata. Più facilmente si riserveranno il diritto di entrare a smantellare ogni nuovo insediamento terrorista. La situazione potrebbe complicarsi se l’Iran cercasse di intervenire direttamente per salvare qualcosa del suo strumento militare imperialista più importante, com’era Hezbollah. Ma non sembra probabile. Israele ha dichiarato e mostrato coi fatti di essere in grado di raggiungere le istallazioni atomiche e i terminali petroliferi da cui gli ayatollah traggono buona parte dei loro fondi. E non è detto che nelle circostanze opportune non possa farlo autonomamente. Netanyahu si è rivolto ieri, con un messaggio poco prima dell’operazione, al popolo iraniano, dicendo che non vi è odio fra Israele e gente della Persia e che, se gli iraniani si libereranno dalla cricca di fanatici che li governa, potrà sorgere un tempo di amicizia e di prosperità. Anche questo è un coraggioso programma d’azione.
(Shalom, 1 ottobre 2024)
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Dopo 24 anni Israele onora la sua promessa
24 anni dopo il ritiro dal Libano, Israele sta tornando. Con un'offensiva di terra contro le posizioni di Hezbollah nel sud del Libano, l'IDF vuole ripristinare la sicurezza nel nord.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Quando 24 anni fa, nel giugno 2000, Israele lasciò la zona di sicurezza del Libano meridionale, molti politici di spicco, tra cui l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak, promisero di invadere nuovamente il Libano o di "raderlo al suolo" al primo attacco missilistico proveniente dal Libano. Gli attacchi contro Israele cominciarono nelle prime settimane successive e non accadde nulla. Come promemoria, 950 soldati israeliani sono morti in Libano dall'invasione del giugno 1982, di cui oltre 600 nella guerra del Libano. Quello è stato il mio tempo e la mia guerra come giovane soldato in Libano. Ora Israele e i nostri figli devono tornare e probabilmente riprendere la zona cuscinetto fino al fiume Litani. Se il governo e l'esercito libanese non sono in grado di onorare la loro promessa e di assicurare la calma nel sud, come avevano promesso a Israele, anche sei anni dopo la seconda guerra del Libano con la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, allora nessuno dovrebbe sorprendersi che Israele sia tornato in Libano oggi. Meglio tardi che mai. Ma Israele deve stare molto attento a non sprecare questo slancio militare. Il Libano è più pericoloso della Striscia di Gaza. L'operazione di terra contro gli obiettivi terroristici di Hezbollah nel sud del Libano è iniziata ufficialmente nelle prime ore di questa mattina. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha autorizzato l'operazione ieri sera e diverse unità speciali hanno iniziato a operare nel sud del Libano durante la notte. Le forze di terra dell'IDF, supportate dall'aviazione e dall'artiglieria, stanno attaccando obiettivi militari nella regione in un'operazione coordinata con le forze di terra. Prima dell'inizio dell'operazione, l'esercito ha invitato gli abitanti dei villaggi libanesi vicini al confine con Israele ad evacuare. Chiunque si trovi nell'area è considerato un terrorista di Hezbollah. Già ieri l'esercito libanese si era ritirato da alcune posizioni lungo il confine meridionale, a circa cinque chilometri dal confine libanese-israeliano, su richiesta delle truppe UNIFIL. Fonti della sicurezza israeliana spiegano che la tempistica dell'operazione mira a capitalizzare lo slancio dei successi ottenuti contro Hezbollah in Libano nelle ultime due settimane per distruggere le strutture operative di Hezbollah lungo la barriera di confine con Israele. Queste includono tunnel e postazioni d'attacco che facevano parte del piano di Hezbollah per infiltrarsi in alcune aree della Galilea e catturare le comunità israeliane e le basi dell'IDF - in modo simile all'attacco di Hamas alle comunità israeliane di confine intorno a Gaza il 7 ottobre dello scorso anno. Questa è la minaccia immediata per le comunità del nord che deve essere eliminata in modo che le decine di migliaia di israeliani evacuati possano tornare in sicurezza alle loro case. Un'altra minaccia per le comunità al confine è il lancio di missili anticarro da parte di Hezbollah verso le case delle città israeliane dal confine, per il quale l'IDF deve trovare una soluzione in tempi brevi. Secondo le stime dell'esercito, l'operazione durerà diverse settimane e, a seconda dell'evoluzione della situazione, potrebbe essere estesa all'area del fiume Litani per eliminare ulteriori infrastrutture terroristiche e combattenti nascosti di Hezbollah. Negli ambienti politici si vocifera che Israele attualmente preferisca un'operazione limitata e temporanea a causa delle pressioni internazionali, senza rimanere in modo permanente nel Libano meridionale. Parallelamente alle attività militari, si stanno intensificando gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo politico nel Libano meridionale, che dovrebbe consentire il ritiro delle truppe dell'IDF al termine della loro missione. Gli ambienti della sicurezza ipotizzano anche che l'esercito alla fine dovrà cambiare i suoi piani e preparare l'istituzione di una zona di sicurezza permanente nel sud del Libano per impedire il ritorno dei terroristi di Hezbollah al confine. L'esercito israeliano era già stato presente nella zona di sicurezza del Libano meridionale per 18 anni, fino al suo ritiro nel 2000, quando tutti i principali politici del Paese assicurarono che le truppe israeliane sarebbero rientrate non appena il primo razzo fosse stato sparato di nuovo contro Israele. Ciò avvenne nei primi mesi successivi e non accadde nulla. Oggi, 24 anni dopo, Israele sta onorando la sua promessa.Il governo statunitense respinge l'invasione del Libano meridionale da parte dell'IDF e chiede a Israele di ritirarsi e di raggiungere un cessate il fuoco in Libano e nella Striscia di Gaza per consentire lo scambio di ostaggi. La pressione internazionale su Israele aumenterà nei prossimi giorni. I libanesi stanno già segnalando la loro disponibilità a raggiungere un accordo politico. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri, vicino a Hezbollah, ha dichiarato questa mattina al quotidiano Asharq Al-Awsat che il Libano è impegnato a rispettare gli accordi raggiunti dal mediatore statunitense Amos Hochstein su un processo politico che porti a un cessate il fuoco con Israele e all'attuazione della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. I negoziati sono importanti, ma solo durante i combattimenti e non durante il cessate il fuoco. Oggi, dopo quasi 25 anni in cui le milizie terroristiche sciite hanno tenuto in ostaggio l'intero Libano dal punto di vista politico e sociale, questo è un sollievo per gli altri gruppi etnici del Libano, come i cristiani, i sunniti e i drusi. Se il Libano vuole davvero iniziare una nuova era e liberarsi delle milizie terroristiche sciite, deve lavorare dietro le quinte con Israele per creare una nuova speranza per entrambi i Paesi.
(Israel Heute, 1 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il messaggio di Herzog: Siamo un popolo forte
Si avvicina l’anniversario del 7 ottobre e la terra in Israele «trema ancora». «Le nostre ferite non possono ancora guarire completamente perché sono ancora aperte. Perché gli ostaggi vengono ancora torturati, giustiziati e muoiono in prigionia. Perché decine di migliaia di famiglie non possono ancora tornare a casa. In molti sensi, tutti noi stiamo ancora vivendo le conseguenze del 7 ottobre», afferma il presidente d’Israele Isaac Herzog in un messaggio inviato alla vigilia del nuovo anno ebraico alle comunità ebraiche della Diaspora per ricordare l’anniversario delle stragi di Hamas.
La minaccia di Hamas, di Hezbollah e del loro principale finanziatore, l’Iran, assieme all’ondata di antisemitismo nel mondo fanno ancora parte del presente, sottolinea Herzog.
In questo momento di fragilità, di dolore e lutto, «dobbiamo ricordarci chi siamo: Un popolo con la forza di continuare a resistere sempre e comunque contro l’odio». Quest’anno «ci ha costretti a tornare alle verità fondamentali del nostro essere popolo. Ci ha costretti a riconnetterci gli uni con gli altri e a riprendere il cammino di responsabilità collettiva e di giustizia sociale che sono la nostra eredità spirituale».
Per affrontare gli effetti del 7 ottobre sono nate migliaia di iniziative di solidarietà in Israele e nella Diaspora, ricorda Herzog. «Inoltre non abbiamo abbandonato il nostro profondo desiderio e la nostra aspirazione alla pace con i nostri vicini. E continuiamo a mantenere questo obiettivo, anche se insistiamo sul fatto che noi ebrei meritiamo di sentirci al sicuro e di essere al sicuro, indipendentemente dal luogo in cui viviamo». Per il presidente israeliano ad essere d’ispirazione devono essere «il coraggio e la bellezza di tutti coloro che abbiamo perso» in questo anno difficile. In loro memoria «non smetteremo di credere che un mondo migliore sia possibile».
A chiusura del suo messaggio, Herzog recita una preghiera in ebraico: «Adonai Oz Lamo Yiten. Adonai Yivarech Et Amo, BaShalom». «Che Dio dia forza a tutto il Suo popolo. Che Dio benedica il Suo popolo con la pace».
(moked, 1 ottobre 2024)
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