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Notizie 16-31 ottobre 2024


Tentativi di accordo per il Libano. Ma c’è pessimismo

La diplomazia americana fa un tentativo in extremis prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

Amos Hochstein, l’inviato speciale americano, e Brett McGurk, l’inviato speciale del presidente Biden per il Medio Oriente, arriveranno oggi in Israele per discutere un cessate il fuoco e una soluzione politica in Libano. Funzionari politici a Gerusalemme stimano che non sia previsto alcun accordo prima delle elezioni presidenziali americane.
Le stesse fonti hanno inoltre affermato che, alla luce dei principi pubblicati oggi da Hezbollah sul quotidiano Al-Akhbar e della sua insistenza nel continuare a collegare la scena del Libano con quella della Striscia di Gaza, e della sua riluttanza a introdurre emendamenti alla risoluzione 1701, a Gerusalemme c’è pessimismo sulla possibilità di andare avanti e si aspetta di vedere se gli inviati americani porteranno con sé nuove idee.
Ieri sera, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto una discussione limitata sulla questione della fine della guerra in preparazione di una soluzione politica in Libano, alla luce dei risultati ottenuti da Israele nella guerra.
Questa mossa è promossa dall’amministrazione americana attraverso Hochstein, che conduce negoziati indiretti con Hezbollah attraverso la portavoce del parlamento libanese, Nabia Berri.
Secondo i funzionari politici, la soluzione politica in questione si baserà sull’attuazione della risoluzione ONU 1701, approvata dopo la seconda guerra del Libano nel 2006, ma i funzionari politici a Gerusalemme affermano che la condizione è che chi ne impone l’attuazione a livello nazionale sul terreno sarà l’esercito libanese, con Israele che supervisionerà e interverrà sul campo nelle operazioni militari se Hezbollah tenterà nuovamente di avvicinarsi al confine con Israele e di installarvi infrastrutture terroristiche per attaccare gli insediamenti del nord.

(Rights Reporter, 31 ottobre 2024)

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Meglio giusto che nuovo!

A un Medio Oriente nuovo deve seguire un Medio Oriente reale.

di Aviel Schneider

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Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yassir Arafat ricevono il premio Nobel per la pace per gli accordi di Oslo del 1994.
Si notino i volti: Arafat ghigna beffardo, Rabin soffre in silenzio, l'unico a sorridere è l'«ottimista» Shimon Peres.

GERUSALEMME - Qual è il Medio Oriente migliore per Israele? Quello reale come è ora, quello nuovo di cui parlava Shimon Peres, o quello giusto, dove l'esistenza di Israele può godere di maggiore sicurezza e tranquillità? Per come si presenta oggi, il Medio Oriente è un pericolo per molti popoli, non solo per Israele. Ed è proprio questo il tema di una conferenza a Gerusalemme.
Lex ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres coniò il termine “Nuovo Medio Oriente” durante il periodo ottimistico del processo di Oslo, che era anche il titolo del suo libro del 1993. Il risultato è stato nuovo, ma non come immaginato: c'è stato un grande spargimento di sangue. Secondo l'organizzazione israeliana di sinistra radicale per i diritti umani B'Tselem, durante la prima intifada (1987-1993) fino all'inizio dei negoziati di Oslo sono stati uccisi meno di cento israeliani e 1.593 palestinesi. Durante la seconda intifada (2000-2003), sono stati uccisi 1.011 israeliani e 4.944 palestinesi.  Durante gli “anni di pace” di Oslo, il numero delle vittime è aumentato continuamente.
Ironia della sorte, il politico cauto e scettico Benjamin Netanyahu, vituperato in tutto il mondo, potrebbe creare un nuovo Medio Oriente, forse addirittura un vero Medio Oriente. Dopo tutto, in Medio Oriente esiste un concetto di vita diverso, con dimensioni diverse rispetto all'Occidente. Ora che l'esercito israeliano ha mandato Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah a incontrare le 72 vergini, è arrivato il momento della guida suprema dell'Iran, Ali Khamenei, o dei suoi successori. Il New York Times ha recentemente riportato che Khamenei è affetto da una “grave malattia” e che è imminente una battaglia per la sua successione, poiché il figlio 55enne non è popolare.
Questa settimana è iniziata a Gerusalemme una conferenza intitolata “Il Medio Oriente giusto”, alla quale ha partecipato una vasta gamma di figure chiave: leader militari, politici, ministri, esperti di sicurezza, opinionisti e persino rappresentanti della società araba in patria e all'estero. Il momento clou della conferenza è stata la presentazione di una nuova visione politica da parte dell'ex ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman. Al centro di questa visione c'è l'assunto che la soluzione dei due Stati è fallita. Israele ha realizzato questo esperimento nella Striscia di Gaza e ha creato uno Stato terrorista che ha causato la più grande catastrofe per il popolo ebraico dopo l'Olocausto.
Inoltre, l'Autorità Palestinese (AP) sotto la guida di Fatah di Mahmoud Abbas non è migliore di Hamas. È corrotta, glorifica il terrorismo e premia i terroristi. Con la fondazione dell'Autorità palestinese non è successo nulla di nuovo e di positivo in Medio Oriente. Al contrario, con gli accordi di Oslo, tutto in Israele e nei dintorni è diventato ancora peggiore per Israele. Ecco perché i partecipanti alla Conferenza di Gerusalemme propongono una visione con piena sovranità ebraica nel cuore biblico della Giudea e della Samaria. Per le orecchie occidentali, una proposta del genere suona troppo ebraica e troppo malvagia, ma il 7 ottobre è caduta la monetina nel Paese: le cose non possono andare avanti così. Israele è ancora in guerra e questa guerra non è ancora stata vinta e non è ancora finita.
Per ottenere una vittoria completa, la guerra richiederà probabilmente un altro anno o poco più. Quando Donald Trump, se eletto, si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio 2025, Israele avrà ulteriormente ripulito il Libano e Gaza e posto le basi per una vera e grande svolta in Medio Oriente, tagliando la testa al serpente iraniano e forse unendosi agli Stati Uniti sotto Trump per attaccare le strutture nucleari iraniane. Questo potrebbe gettare le basi per la distruzione del regime dei mullah a Teheran, al fine di rafforzare l'opposizione iraniana e il popolo iraniano, la cui maggioranza detesta questo regime.
Verrà firmato un trattato di pace con l'Arabia Saudita e gli altri Stati sunniti del Medio Oriente e l'egemonia militare di Israele in Medio Oriente sarà chiara e inequivocabile. Perché nella nostra regione, per quanto triste, si capisce solo il potere. Dopo tutte le belle parole di Shimon Peres e l'impressionante disponibilità dei due Ehud, Barak e Olmert, a concedere quasi tutto ai palestinesi, alla fine ci siamo ritrovati con gli attentati agli autobus del 1996, la seconda intifada e - peggio ancora - il 7 ottobre.
Teoricamente e realisticamente, la sovranità ebraica ha sempre portato più sicurezza nei cosiddetti territori occupati - dove c'è sovranità ebraica, non c'è terrore e viceversa. “Anche dal punto di vista ebraico, questa è la soluzione giusta - l'intera terra ci è stata promessa da Dio, specialmente la Giudea e la Samaria, le scene della storia biblica. È anche la soluzione migliore per gli arabi. I cittadini arabi di Israele godono del più alto tenore di vita del Medio Oriente. Anche gli arabi in Giudea e Samaria dovrebbero avere una vita migliore di quella attuale”, afferma Friedman.

• PASSIAMO ORA AI FATTI
  Nei 15 anni precedenti agli accordi di Oslo (dal 1978 al 1993), 270 israeliani sono stati uccisi da organizzazioni terroristiche palestinesi; nei 15 anni successivi, 1.450 israeliani sono stati assassinati. Per quanto drammatico, questo dato non racconta l'intera storia. I 15 anni successivi agli accordi comprendono anche gli anni di preparazione, durante i quali il terrorismo palestinese ha sviluppato nuove capacità. Il vero impatto degli accordi di Oslo è diventato evidente negli anni 2000-2004, quando le organizzazioni terroristiche nei territori palestinesi hanno messo in campo i mezzi e le capacità acquisite durante gli anni dell'inganno.
Mentre nel decennio che va dal 1978 allo scoppio della prima intifada nel dicembre 1987, un totale di 114 israeliani sono stati uccisi in attacchi terroristici e nei sei anni della prima intifada un totale di 164 israeliani sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, nel solo 2002 ben 450 israeliani sono stati assassinati dal terrore palestinese.
Il 2002, l'anno dello spargimento di sangue, è stato l'anno in cui abbiamo visto cosa succede quando un partner si toglie la maschera e mostra i suoi veri colori. Invece di pietre, coltelli e poche armi automatiche, dopo gli accordi di Oslo ci siamo trovati di fronte a centinaia di laboratori di bombe, decine di migliaia di armi automatiche e centinaia di attentatori suicidi. A quei tempi, Shimon Peres vaneggiava di un Medio Oriente che semplicemente non esisteva. E così Israele fu definitivamente bloccato il 7 ottobre 2023.
La nuova visione della conferenza affronta anche la questione demografica e propone il modello di Porto Rico. Ai palestinesi verrebbero riconosciuti diritti umani e diritti di voto locali che consentirebbero loro di governare la maggior parte degli aspetti della loro vita, ma non potrebbero votare alle elezioni nazionali. In altre parole: Il loro status sarebbe quello di residenti permanenti. Ohad Tal, membro della Knesset e presidente della conferenza, ha dichiarato:
    “È tempo di un piano che traduca in azione il perseguimento di stabilità, sicurezza, prosperità economica e cooperazione regionale”. L'obiettivo della conferenza è quello di gettare le basi per il prossimo passo, di inserire il piano nell'agenda pubblica israeliana e di presentare il nuovo pensiero e le nuove idee al mondo. Un approccio che si basa sulle lezioni del passato ed è completamente diverso dai metodi (di pace) che hanno fallito negli ultimi decenni”.
La possibilità di realizzarlo nella nostra realtà e nel nostro tempo dipende dal fatto che ci crediamo e che vogliamo attuarlo con l'aiuto di Dio, come è stato discusso alla conferenza.

(Israel Heute, 31 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele renderà operativo il sistema d’intercettazione laser Iron Beam il prossimo anno

di Francesco Paolo La Bionda

Il sistema di intercettazione laser ad alta potenza che Israele sta sviluppando, denominato Iron Beam, dovrebbe diventare operativo l’anno prossimo, ha dichiarato lunedì 28 ottobre il ministero della Difesa israeliano alla firma del contratto da oltre mezzo miliardo di dollari con le aziende produttrici Rafael ed Elbit.
  Il sistema Iron Beam è costituito da due cannoni laser che insieme generano una potenza compresa tra 100 e 150 kW, consentendo di neutralizzare razzi e missili nemici. Non è destinato a sostituire l’Iron Dome o gli altri sistemi di difesa aerea israeliani, ma a integrarli e completarli, abbattendo i proiettili più piccoli e lasciando quelli più grandi per le batterie missilistiche più robuste.
  Il principale svantaggio di un sistema laser è che non funziona bene in condizioni di scarsa visibilità, compresa una forte copertura nuvolosa o altre condizioni atmosferiche avverse. Per questo motivo, il ministero intende montare il sistema anche sugli aerei, il che aiuterebbe ad aggirare questa limitazione ponendo il sistema al di sopra delle nuvole, anche se questo sviluppo è ancora lontano qualche anno, secondo le stime dei funzionari.

• UNA SIGNIFICATIVA RIDUZIONE DEI COSTI
  Dal pogrom del 7 ottobre, più di 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti. La maggior parte sono stati intercettati dal sistema Iron Dome o sono caduti in aree aperte, comportando però una spesa considerevole per le casse pubbliche israeliane: secondo l’Institute for National Security Studies, un think tank di Tel Aviv, ogni missile intercettore infatti costa dai 40.000 ai 50.000 dollari. Il sistema Iron Beam sarà invece in grado di intercettare i razzi a una frazione di tale costo.

• IL PRECEDENTE DI NAUTILUS
  Se tutta l’operazione dovesse andare in porto come previsto dal governo israeliano, l’IDF si lascerà alle spalle il fallimento precedente del sistema Nautilus, sviluppato tra il 1996 e il 2005 assieme agli Stati Uniti. Sebbene questo laser nei test si fosse rivelato in grado di intercettare razzi Katyusha e proiettili d’artiglieria, fu abbandonato perché ritenuto troppo grande e pesante per essere dispiegato efficacemente.

(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2024)

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La leggenda della boxe torna in Israele

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C’è ancora dibattito, tra gli addetti ai lavori, se sia stato il pugile più forte della sua generazione. Per molti la risposta è sì. Ma qualcuno tra i “puristi” ancora storce il naso: non tutte le cinquanta vittorie su cinquanta incontri disputati sono state ottenute con rivali degni del suo spessore. Dal suo canto il diretto interessato non sembra avere dubbi e più volte ha rivendicato: «Sono stato il migliore di sempre».
  Noto anche come Pretty Boy e Money Mayweather, il 47enne Floyd Mayweather Jr. appare ancora in perfetta forma. Di recente, per la gioia dei suoi fan, è tornato sul ring per un incontro di esibizione in Messico. Chissà che in futuro non possa ripetersi anche in Israele, paese che la leggenda Usa della boxe ha definito «la mia casa lontano da casa» e dove è in visita in questi giorni. La sua seconda dopo il 7 ottobre.
  Mayweather Jr. ha sempre esplicitato la sua vicinanza allo Stato ebraico nella lotta al terrorismo islamico, mettendosi anche a capo di alcuni progetti di solidarietà per le vittime degli attacchi e per gli sfollati. Nelle scorse ore si è recato al Kotel, il Muro Occidentale, ha sostato in una scuola religiosa ebraica (Yeshiva) e ha incontrato alcuni soldati israeliani feriti in guerra. «Le azioni parlano più delle parole e sono qui per dimostrarlo in ogni modo possibile», ha dichiarato al suo arrivo in Israele. Anche attraverso la campagna “Floyd for Israel” lanciata dopo il 7 ottobre, che gli è valsa il riconoscimento “Champion of Israel” conferitogli lo scorso dicembre dall’American Friends of Magen David Adom (AFMDA).

(moked, 31 ottobre 2024)

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La Knesset approva una legge che vieta l’apertura di nuovi consolati a Gerusalemme

di Luca Spizzichino

La Knesset ha approvato una legge che vieta l’apertura di nuovi consolati a Gerusalemme, con l’obiettivo dichiarato di consolidare la rivendicazione israeliana sulla città come capitale indivisibile. La legge è stata approvata con 29 voti a favore e 7 contrari ed è stata proposta dai parlamentari Ze’ev Elkin (Tikvà Hadashà) e Dan Illouz (Likud). Secondo il nuovo testo normativo, il governo israeliano sarà incentivato a promuovere la creazione di ambasciate straniere nella città. Tale norma, tuttavia, non influirà sullo status delle missioni diplomatiche già esistenti a Gerusalemme.
  La legge rappresenta “una misura storica che chiarisce una volta per tutte che Gerusalemme è nostra e non è in vendita”, ha dichiarato Illouz. Elkin ha aggiunto che “chi desidera stabilire una missione straniera a Gerusalemme dovrà rispettare questa legge, e la missione sarà obbligata a fornire servizi ai cittadini israeliani”. “Gerusalemme è la capitale eterna e indivisibile di Israele e nessun paese potrà mettere in discussione la nostra sovranità nella Gerusalemme unita”, ha aggiunto.
  La nuova legge è ampiamente interpretata come un tentativo di prevenire l’apertura di uffici consolari a Gerusalemme, soprattutto quelli destinati alla popolazione palestinese. Attualmente, la maggior parte dei Paesi non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e colloca le proprie ambasciate a Tel Aviv, spesso con piccoli consolati a Gerusalemme. Solo cinque nazioni — Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Kosovo e Papua Nuova Guinea — mantengono ambasciate nella capitale.
  Recentemente, alcuni paesi hanno valutato il trasferimento delle proprie ambasciate a Gerusalemme, tra cui il Paraguay, che ha annunciato di voler aprire la sua ambasciata nella città entro la fine del 2024, e i Paesi Bassi, dove il nuovo governo di centrodestra ha manifestato in maggio l’intenzione di valutare il trasferimento dell’ambasciata olandese, attualmente situata a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, come parte del patto di coalizione tra i partiti al governo.

(Shalom, 30 ottobre 2024)

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Gaza, l'ultima proposta sul tavolo: un mese di tregua per 11 ostaggi

La proposta di accordo di Israele, il ruolo di Usa e mediatori del Qatar, la reazione di Hamas

Un mese di tregua in cambio della liberazione di 11-14 ostaggi. E' quanto prevede l'ultima proposta di accordo posta sul tavolo dei negoziati per arrivare a un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio dei rapiti. Lo scrive il sito di Ynet spiegando che l'ultima proposta è stata presentata ai mediatori del Qatar dal capo del Mossad David Barnea, che lunedì è tornato da Doha in Israele. In particolare, l'accordo prevede il rilascio delle donne e degli anziani ancora trattenuti nella Striscia di Gaza oltre alla scarcerazione di detenuti palestinesi. Il nuovo round di colloqui si terrà questa settimana in Egitto, ha detto un funzionario israeliano al Times of Israel a condizione di anonimato. La delegazione israeliana, ha spiegato la fonte, sarà guidata dal capo del Mossad David Barnea.

• USA E QATAR IN CAMPO
  Si intravedono quindi nuovi spiragli per Gaza. Intanto, in missione a Doha, anche il direttore della Cia Bill Burns ha discusso una proposta di cessate il fuoco. Secondo Axios, però, si tratterebbe di uno stop di 28 giorni in cambio del rilascio di otto ostaggi israeliani tenuti da Hamas e di decine di prigionieri palestinesi. La proposta è stata discussa negli incontri che Burns ha avuto domenica con i colleghi di Israele e Qatar. Secondo il sito, nell'ambito dell'accordo, Hamas libererebbe "otto donne di tutte le età o uomini oltre i 50 anni". Intanto il Qatar lavorerà con l'Amministrazione Biden "fino all'ultimo minuto" con l'obiettivo di arrivare a un accordo, ha affermato il ministero degli Esteri di Doha a una settimana dalle elezioni presidenziali americane. "Non prevediamo alcun risultato negativo delle elezioni sul processo in sé - ha detto il portavoce, Majed al-Ansari, in dichiarazioni rilanciate da al-Jazeera - Crediamo di avere a che fare con le istituzioni e in un Paese come gli Stati Uniti le istituzioni sono impegnate nel trovare una soluzione a questa crisi". Lo stesso funzionario ha poi annunciato che l'inviato speciale degli Stati Uniti Amos Hochstein sarà in Israele la prossima settimana per portare avanti una fine negoziata degli scontri in Libano. Con questo obiettivo Hochstein incontrerà il premier israeliano Benjamin Netanyahu e altri alti funzionari israeliani.

• LA REAZIONE DI HAMAS
  Hamas si è intanto detta pronta a discutere "nuove proposte per un accordo di cessate il fuoco" e ha "risposto alla richiesta formulata dai mediatori'' in tal senso. Lo ha dichiarato un alto funzionario di Hamas, Sami Abu Zuhri, citato da al-Jazeera. Hamas, ha affermato, è quindi aperto a discutere un accordo che garantisca la fine della guerra a Gaza e il ritiro completo dell'esercito israeliano dall'enclave palestinese. "Il gruppo è aperto a qualsiasi proposta che possa porre fine all'aggressione alla Striscia di Gaza", ha aggiunto Abu Zuhri, aggiungendo la disponibilità "a qualsiasi accordo che ponga fine alle sofferenze del popolo palestinese e porti a un cessate il fuoco permanente". Il leader di Hamas ha quindi accusato "le forze israeliane di aver deliberatamente distrutto le infrastrutture mediche e le risorse della Protezione civile palestinese a Gaza". Allo stesso tempo "Hamas ha invitato i Paesi che hanno normalizzato le relazioni con Israele a interrompere immediatamente le loro relazioni bilaterali".

(Adnkronos, 30 ottobre 2024)

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Egitto: il figlio dell’ex Presidente Mohamed Hosni Mubarak, Alaa critica sul social X il movimento “Hamas” e l’operazione nota come Al-Aqsa Flood

di Chiara Cavalieri

Il CAIRO - Alaa Mubarak, figlio dell’ex Presidente egiziano Mohamed Hosni ha avviato un acceso dibattito con i suoi follower sul social media “X”, dopo aver condiviso un tweet in cui critico’ il movimento “Hamas” e l’operazione nota come Al-Aqsa Flood.

• LE DICHIARAZIONI DI ALAA MUBARAK
   Nel suo tweet, Mubarak ha affermato: “Non ci sono dubbi che la resistenza, in tutte le sue forme e fazioni, sia un diritto legittimo per un popolo i cui diritti e i cui territori sono stati usurpati. Tuttavia, le operazioni del 7 ottobre hanno davvero raggiunto i loro obiettivi? Possono giustificare le enormi perdite, tra cui migliaia di vittime e molti bambini innocenti uccisi brutalmente, insieme alla devastazione senza precedenti del settore?”.
  Inoltre, ha sottolineato che “la verità che alcune persone evitano è che le operazioni del 7 ottobre 2023 hanno generato risultati disastrosi a causa di scelte imprudenti di cui Hamas è l’unico responsabile. Questi eventi potrebbero perfino significare la fine del suo predominio nella Striscia di Gaza”.

• RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE
   Mubarak junior ha anche riconosciuto che l’operazione Al-Aqsa Flood ha messo in luce l’incapacità dei servizi d’intelligence israeliani di prevedere l’attacco.
  Tuttavia, ha avvertito che la questione palestinese è tornata prepotentemente sulla scena internazionale, ma a un costo inaccettabile, trasformando Gaza in un “cimitero a cielo aperto”.
  Ha descritto la condizione della popolazione di Gaza di fronte ai “massacri orribili” perpetrati da Israele, accusando la comunità internazionale di silenzio.

• LE REAZIONI AL TWEET
   Il tweet di Alaa Mubarak ha suscitato reazioni contrastanti.
  Un utente, Yasser Al-Harbi, ha commentato: “Questa è l’opinione di qualcuno che cerca di sfuggire alle proprie responsabilità, ipocritamente svincolato dalla sua coscienza morta da 70 anni. Gli arabi trattano la Palestina come un mercato, esattamente come tuo padre ha fatto negli anni ’90 con la Palestina e l’Iraq, senza badare realmente al popolo palestinese”
  Un altro utente, Mustafa Salama ha scritto:
“L’operazione Al-Aqsa Flood è stata un momento rivelatore per la Nazione araba e islamica, poiché ha  messo in luce le divisioni seminate dai nostri governanti sul settarismo tra sunniti e sciiti. La corretta dottrina degli sciiti ha dimostrato che sono loro che difendono la Palestina sunnita, mentre l’Egitto e altri tacciono o cercano i propri interessi”.
  La televisione israeliana Canale 7, ha sottolineato sia  l’attacco lanciato dal figlio dell’ex Presidente egiziano al  comportamento del movimento Hamas, sia la reazione di vendetta di Tel Aviv.
  Queste dichiarazioni evidenziano la complessità della situazione in Medio Oriente e il dibattito in corso riguardo alle responsabilità e alle conseguenze delle azioni militari.

(DiRE, 30 ottobre 2024)

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Ma’alot-Tarshiha sotto i razzi di Hezbollah

Ma’alot, bersagliata dai missili di Hezbollah, è una cittadina dell’Alta Galilea occidentale, fondata nel 1957 per sostituire due campi di accoglienza (ma’abara) per i nuovi immigrati ebrei in Israele. Sei anni dopo l’insediamento fu unita a un villaggio arabo vicino, Tarshiha. E da allora la città ha assunto due nomi: Ma’alot-Tarshiha. Qui due terzi della popolazione è ebraica e un terzo è araba. È uno dei molti centri del nord d’Israele in cui la convivenza è un elemento della quotidianità. Suo malgrado la cittadina divenne nota nel maggio 1974, quando un commando di terroristi palestinesi attaccò una scuola locale. 115 israeliani, soprattutto studenti, furono presi in ostaggio. Il tentativo delle forze di sicurezza di salvarli fu un fallimento e i terroristi assassinarono 25 ostaggi, tra cui 22 ragazzi. Una tragedia il cui segno è rimasto indelebile nella memoria nazionale, tornato 40 anni dopo di grande attualità con il massacro del 7 ottobre di Hamas e il destino ancora incerto di 101 ostaggi prigionieri a Gaza. Ma Ma’alot-Tarshiha è tornata di attualità anche in queste ore perché nuovamente colpita dai terroristi, questa volta libanesi. Tre dei cinquanta missili sparati da Hezbollah contro Israele questa mattina hanno colpito la cittadina, uccidendo una persona: Mohammed Naim, 24 anni. Il giovane, raccontano i familiari, ha portato in salvo i suoi due fratelli, ma non è riuscito ad entrare in tempo nel rifugio antimissile. «Mohammad era un ragazzo tranquillo, religioso, un lavoratore. Era una brava persona, non aveva problemi con nessuno, e tutta la famiglia gli voleva bene. Era davvero una persona speciale. Suo padre era un soldato, un ufficiale che ha servito (nella prima guerra) in Libano e si è congedato cinque anni fa», ha raccontato a ynet il cugino, Mohammad Yasser Naim. Altre tredici persone sono rimaste ferite nell’attacco.
  Otto soldati austriaci del contingente Unifil in Libano sono rimasti leggermente feriti in un attacco missilistico sul campo di Naqoura, vicino al confine con Israele. «Condanniamo questo attacco nei termini più forti possibili e chiediamo che venga immediatamente aperta un’indagine», ha affermato il ministero della Difesa austriaco in una nota, aggiungendo che «non è chiaro da dove provenga l’attacco».

(moked, 29 ottobre 2024)

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Hezbollah sceglie il suo nuovo segretario, è Naim Qassem, e potrebbe durare di più

Naim Qassem nominato nuovo leader di Hezbollah. In passato si era detto disponibile alle trattative con Israele e al cessate il fuoco, e soprattutto è vivo, e relativamente al sicuro in Iran, per cui può trattare.

di Guido da Landriano

Naim Qassem è stato recentemente nominato Segretario generale  di Hezbollah dopo la morte di Hassan Nasrallah, ucciso in un attacco aereo israeliano il 4 ottobre 2024 e quella di Hashem Sufi Ad-din che avrebbe dovuto succedergli, ma è stato ucciso in un attacco a Beirut sud.
  L’ascesa di Qassem a questa posizione di rilievo segna un momento significativo nel conflitto in corso tra Hezbollah e Israele, in quanto assume la leadership in un periodo di maggiori tensioni con un conflitto combattuto direttamente nel Libano nel Sud e un alternarsi di attacchi e contrattacchi a suon di missili e bombardamenti fra le due parti.
  Naim Qassem è nato in Libano nel 1953. Si è laureato in chimica e in studi religiosi e ha un background accademico, avendo insegnato chimica a livello universitario per molti anni. Quindi non è né una persona impreparata culturalmente, e neppure superficiale. Vedremo se queste caratteristiche lo aiuteranno a sopravvivere in questa durissima guerra.

• RUOLO IN HEZBOLLAH
  Qassem è un membro fondatore di Hezbollah, fondato nel 1982 come risposta all’invasione del Libano da parte di Israele. Dal 1991 ha ricoperto il ruolo di vice segretario generale, svolgendo un ruolo cruciale nella definizione della strategia e dell’ideologia dell’organizzazione.
  Nelle sue recenti dichiarazioni, Qassem ha sottolineato la necessità di un cessate il fuoco come soluzione al conflitto in corso con Israele, affermando che Hezbollah continuerà le sue operazioni a meno che non venga raggiunta una tregua.
  . Ha affermato che il gruppo conserva il diritto di difendersi dagli attacchi israeliani, indicando la disponibilità a intensificare le risposte militari, se necessario.
  Questo lo rende aperto ad un possibile negoziato, ma sappiamo che l’apertura di questa fase è resa difficile da un lato dal continuo lancio di missili contro il nord d’Israele, e dal desiderio del suo nemico di fare piazza pulita una volta per tutte. Comunque il fatto che l’attuale leader sia vivo e abbastanza al sicuro potrebbe permettere l’apertura di trattative.

• SVILUPPI RECENTI
  In seguito all’assassinio di Nasrallah, Qassem è fuggito dal Libano per l’Iran il 5 ottobre 2024, per timore di essere preso di mira dalle forze israeliane. La sua partenza sarebbe stata ordinata dalle autorità iraniane in seguito all’intensificarsi delle minacce contro la leadership di Hezbollah.
  Mentre si trovava in Iran, Qassem si è rivolto ai sostenitori da Teheran, rafforzando la resilienza e l’impegno di Hezbollah per la sua causa nonostante le pressioni esterne.
  La sua leadership giunge in un momento critico per Hezbollah, che deve affrontare non solo sfide militari, ma anche decisioni strategiche riguardanti la sua direzione futura. La morte di figure chiave all’interno dell’organizzazione ha lasciato Qassem come uno degli ultimi leader rimasti delle sue alte sfere.

(Scenari economici, 29 ottobre 2024)


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Naim Qassem, il nuovo capo di Hezbollah è già nel mirino di Israele

di Andrea Muratore 

Hezbollah ha nominato il suo nuovo leader nella figura di Naim Qassem, 70 anni, membro di lungo corso del gruppo guidato dal 1992 allo scorso settembre da Hassan Nasrallah, ucciso da Israele in un attacco a Beirut. La scelta della Shura di Hezbollah, l’organo di governo del Partito di Dio, segna l’ascesa alla leadership, dopo 33 anni da numero due, di Qassem, l’allievo dell’imam Musa al-Sadr, il predicatore della “rivoluzione” degli sciiti libanesi, assassinato nel 1978 in Libia durante una visita su ordine di Muammar Gheddafi. Hezbollah, a quarant’anni dalla nascita, affronta oggi in corso una delle ore più buie della sua storia, di fronte all’attacco di Israele contro i suoi leader e le sue roccaforti.
Qassem, una laurea in Chimica e una in Teologia a Beirut conseguite negli Anni Settanta, era stato il volto di Hezbollah dopo l’uccisione di Nasrallah e la successiva operazione con cui Tel Aviv aveva neutralizzato Hashem Safieddine, successore designato dello storico comandante.
Qassem per molti anni è stato un vero “ambasciatore” di Hezbollah fuori dal perimetro dell’asse sciita cui il Partito di Dio fa riferimento. Considerato, in giovane età, tra i pontieri tra le varie fazioni sciite libanesi che diedero vita a Hezbollah e tra gli strateghi delle guerriglie anti-Israeliane durante le guerre del 1982 e del 2006, Qassem ha più volte rilasciato interviste a media stranieri e nel 2006 ha anche scritto un libro in cui racconta la storia del gruppo e la sua ideologia. Negli anni ha provato a delineare una linea di comunicazione con i partiti libanesi e presentato la causa del Partito di Dio come quella di tutti i libanesi. Da vice di Nasrallah ha ad esempio costruito buoni rapporti con l’ex presidente cristiano Michel Aoun e con molti politici del campo sunnita.
Inoltre, Qassem è sempre stato un realista che ha avvertito del fatto che l’esposizione di Hezbollah sul campo regionale avrebbero potuto mettere la formazione nel mirino dei suoi avversari. “Nessun partito del calibro di Hezbollah, in termini di dimensioni e organizzazione, sarebbe in grado di restare forte contro il rischio di essere infiltrato”, ha detto nel 2015, prefigurando la recente infiltrazione israeliana. L’8 ottobre proprio Qassem ha parlato a nome di Hezbollah dopo la morte di Nasrallah, aprendo anche esplicitamente a una richiesta di cessate il fuoco. Il suo ruolo si appresta, però, ad essere critico. Valga per tutti il tweet del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha definito “temporanea” la nomina di Qassem.
Un riferimento al fatto che Israele si prepara a colpire anche Qassem? Dopo aver ucciso Nasrallah e i vertici di Hamas (da Ismail Haniyeh a Yahya Sinwar) Tel Aviv ha sicuramente nel mirino anche il nuovo capo del Partito di Dio. Il quale, non a caso, apre da tempo alla proposta di cessate il fuoco del presidente del parlamento Nabil Berri. Sarà possibile nel breve periodo? Ad oggi i venti sembrano portare tempesta per Hezbollah. E Qassem sale al potere in una fase in cui si deciderà, nella guerra con Tel Aviv, la prospettiva futura della formazione e con essa quella del Libano.

(Inside Over, 29 ottobre 2024)

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Gerusalemme e il “dilemma Qatar”

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il presidente israeliano Isaac Herzog stringe la mano all’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani a margine del vertice COP28 a Dubai, 1 dicembre 2023

Da poche ore Hezbollah ha dato l’annuncio: Naim Qassem è ufficialmente il nuovo capo del gruppo terroristico libanese. «Nomina temporanea», ha commentato sui social il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant. Un riferimento alle eliminazioni mirate che hanno decapitato in questi mesi Hezbollah, a partire dal leader Hassan Nasrallah. Qassem potrebbe essere il prossimo. «Il conto alla rovescia è iniziato», ha scritto Gallant.
  Ora che è al comando, Qassem dovrà decidere se continuare nell’aggressione a Israele, avviata l’8 ottobre per sostenere Hamas, o aprire a un negoziato con Gerusalemme. Su questa linea premono gli Stati Uniti, che hanno chiesto aiuto al Qatar, già coinvolto per una tregua a Gaza. E per Doha questa è una importante opportunità per aumentare la sua influenza in Medio Oriente, scrivono gli analisti israeliani Yoel Gozhansky e Orna Mizrahi. Altri paesi arabi in questi anni hanno fatto un passo indietro sul Libano, sempre più stretto sotto il controllo dell’Iran e del suo alleato locale, Hezbollah. In questo vuoto, spiegano Gozhansky e Mizrahi, Doha vede un’occasione.

• IL RUOLO DEL QATAR
  Nonostante sia un paese piccolo in termini di territorio e popolazione autoctona (circa 300.000 cittadini), il Qatar esercita una grande influenza internazionale. «È uno dei paesi più ricchi al mondo in termini di Pil pro capite e uno dei maggiori fornitori di gas naturale liquefatto. Negli ultimi decenni, ha sfruttato la sua ricchezza energetica per affermarsi nell’arena diplomatica ed è diventato un mediatore chiave nei conflitti internazionali». Si è poi presentato al mondo come una piccola potenza neutrale, anche se mantiene posizioni ambigue: da un lato stringe accordi con gli Stati Uniti, dall’altro dialoga con il regime iraniano.
  Per Israele il coinvolgimento del Qatar in Libano e a Gaza è «un vero dilemma», spiegano Gozhansky e Mizrahi sul sito dell’Institute for National Security Studies. In passato i fondi inviati da Doha inviati a Gaza – con il benestare del governo di Benjamin Netanyahu – hanno rafforzato militarmente Hamas, e donazioni alle università americane hanno alimentato un’agenda anti-israeliana. Tuttavia, data l’importanza della monarchia del Golfo per gli Stati Uniti e il suo attuale intervento in Libano su richiesta americana, «Israele potrebbe considerare un dialogo con Washington per gestire insieme l’influenza qatariota». Tale collaborazione dovrebbe garantire che gli aiuti di Doha siano destinati alla riabilitazione del Libano e non finiscano nelle mani di Hezbollah o dell’Iran, come accaduto invece con Hamas a Gaza.
  Nulla è stato ancora deciso, sottolineano Gozhansky e Mizrahi, soprattutto perché Gerusalemme e il mondo attendono di vedere chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Il premier Netanyahu non ha nascosto la sua vicinanza, nonostante alcuni attriti, al candidato repubblicano Donald Trump e l’opinione pubblica israeliana sembra dello stesso avviso. Secondo un sondaggio dell’emittente N12 il 66% degli intervistati parteggia per l’ex presidente, mentre solo il 17% preferirebbe la democratica Kamala Harris (un altro 17% non si esprime).

• IL CASO UNRWA
  Le elezioni a Washington influenzeranno anche il futuro dell’Unrwa. La Knesset nelle ultime 24 ore ha approvato una legge per vietare le attività in Israele dell’agenzia Onu per i palestinesi, considerata troppo influenzata da Hamas. «Israele è impegnato a rispettare il diritto internazionale e a fornire aiuti umanitari a Gaza, e continuerà ad agire su questo tema con le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali come il Programma Alimentare Mondiale, l’Unicef, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e una serie di altre organizzazioni, rispettando i suoi obblighi internazionali», ha affermato il ministero degli Esteri di Gerusalemme. Ma non c’è fiducia nell’Unrwa perché alcuni suoi dipendenti «sono stati coinvolti nell’orribile massacro del 7 ottobre». Per Israele «non si tratta solo di poche mele marce, come sta cercando di affermare il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. L’Unrwa a Gaza è un albero interamente marcio, infettato dai terroristi».

(moked, 30 ottobre 2024)

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Hezbollah-Israele: forse vicini ad accordo di cessate il fuoco

di Sarah G. Frankl

Alti funzionari israeliani hanno riferito a Ynet che sono in corso progressi su un accordo per porre fine ai combattimenti in Libano.
Secondo le fonti, l’accordo, in discussione con i mediatori internazionali, prevede un “periodo di adattamento” di 60 giorni durante il quale le parti cesseranno il fuoco e lavoreranno per l’attuazione della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, che ha posto fine alla Seconda guerra del Libano del 2006.
L’accordo prevede l’applicazione della risoluzione, impedendo a Hezbollah di essere presente vicino al confine.
Includerebbe anche un sistema di supervisione internazionale per controllare e affrontare le segnalazioni di violazioni. Israele si riserverebbe il diritto di intraprendere azioni militari se l’esercito libanese o le forze ONU non affrontano le violazioni.
Infine, secondo Ynet, l’accordo cercherebbe di prevenire il riarmo di Hezbollah, vietando l’ingresso di varie armi in Libano.
La notizia non è stata al momento confermata.

(Rights Reporter, 29 ottobre 2024)

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L'Iran è molto indebolito ma prepara l'atomica

di Amedeo Ardenza

Continua, in forma verbale, lo scontro tra Israele e Iran giorni dopo il bombardamento israeliano di alcuni obiettivi militari nel territorio della Repubblica islamica. «Abbiamo gravemente danneggiato i sistemi di difesa iraniani e la sua capacità di esportare missili», ha affermato il premier israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu durante il dibattito di apertura della sessione invernale della Knesset. Bibi ha poi assicurato che la strategia del suo governo è «smantellare l'asse del male, tagliare le sue armi nel sud e nel nord, esigere un prezzo pesante dall'Iran e dai suoi alleati, impedendo all'Iran di avere armi nucleari». Alla fine della guerra, «Hamas non governerà più su Gaza e Hezbollah non sarà più sul nostro confine settentrionale».
  Bibi ha quindi messo in guardia dalle intenzioni di Teheran che «sta lavorando a una scorta di bombe nucleari e sarà in grado di minacciare il mondo intero ogni volta che vorrà». Al premier, contestato da alcuni visitatori in galleria poi rimossi dai commessi, ha replicato il leader dell’opposizione Yair Lapid: «Se vuoi plausi per i tuoi successi, assumiti la responsabilità per i tuoi fallimenti; se vuoi lodi per l’uccisione di Hassan Nasrallah, assumiti la responsabilità della morte dell’ostaggio Carmel Gat». Lapid ha poi criticato i partiti ortodossi alleati del premier per la loro opposizione alla leva per gli studenti delle scuole religiose (yeshivot); quindi i nazionalisti del ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir: «Da quando sei diventato ministro ci sono stati più attacchi, più omicidi, più criminalità, più terrorismo. Cento in parole, zero in azioni». Poco dopo, un migliaio di persone ha manifestato davanti alla Knesset contro il progetto di legge all’approvazione dell’aula che consente un largo numero di esenzioni fra gli haredim (i “timorati”).
  Elaborato prima dello scoppio della guerra, il ddl appare inadeguato adesso che migliaia di riservisti combattono a tempo pieno a Gaza o nel sud del Libano. Anche il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato che «ora che abbiamo tanti caduti e feriti», la leva per tutti «non è una questione politica ma morale e di sicurezza».

• HAMAS FA MENO PAURA
  Sotto il profilo delle operazioni militari, la giornata è stata segnata da allarmi aerei senza sosta in tutto il nord tempestato dai missili di Hezbollah mentre le Israel Defense Forces (Idf) hanno preso di mira alcuni obiettivi della milizia sciita nei pressi di Tiro, nel Libano meridionale. Nel nord di Gaza, invece, le Idf hanno concluso un’operazione all’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, un sito che l'esercito ha identificato come un hub di Hamas, arrestando, secondo finti militari riprese da Ynet, 600 terroristi che sono stati trasferiti per essere interrogati in Israele; tra loro anche un membro del personale ospedaliero. Le Idf hanno anche riferito di difficoltà iniziali nell’evacuare i civili da Jabaliya, un ostacolo che si sarebbe allentato nell'ultima settimana poiché sempre più residenti si sentirebbero meno vincolati da Hamas. Sono ripresi intanto i colloqui a Doha e dall’Egitto è arrivata una proposta che prevede una tregua di due giorni nella Striscia in cambio della liberazione di quattro rapiti e di detenuti palestinesi.
  Da Teheran invece, è arrivato una risposta indiretta al discorso di Netanyahu: il ministero degli Esteri ha affermato che i suoi sistemi di difesa aerea erano preparati «e hanno respinto con successo l'attacco sionista». Il portavoce Ismail Bakaei ha poi dichiarato che la risposta iraniana «sarà decisiva», aggiungendo che «l'Iran mantiene il suo diritto di rispondere all'attacco sionista».

• KHAMENEI SENZA TWITTER
  Ieri, invece, la piattaforma X ha privato la Guida suprema della Repubblica islamica, Ali Khamenei, del diritto di minacciare Israele, almeno in ebraico, chiudendo il suo profilo in quella lingua. L’ayatollah resta invece libero di lanciare i suoi strali antisionisti in farsi, in arabo e in inglese. Sulla scena internazionale, infine, si è rifatto vivo il Sudafrica. Ieri il governo di Pretoria ha annunciato di aver presentato alla Corte internazionale di giustizia il suo fascicolo di «prove» del «genocidio» commesso da Israele a Gaza. «Il file contiene prove che dimostrano che il governo di Israele ha violato la Convenzione sul genocidio», ha scritto l’ufficio del presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
  A dicembre 2023, due mesi dopo il massacro di 1.250 israeliani e il rapimento di altri 250 da parte di Hamas, una delegazione del gruppo terrorista ha partecipato alla Quinta convenzione globale di solidarietà con la Palestina organizzata a Johannesburg. In quell’occasione la delegazione è stata ricevuta da esponenti dell’Anc, il partito di Ramaphosa. La comunità ebraica sudafricana si disse «disgustata».

Libero, 29 ottobre 2024)

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Pubblicati i libri sacri degli ebrei etiopi

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GERUSALEMME - La Biblioteca Nazionale di Israele ha reso disponibili sul suo sito web i libri sacri degli ebrei etiopi. Finora solo i privati o le sinagoghe avevano accesso ai manoscritti. Ora vengono scannerizzati con l'aiuto di un nuovo progetto di digitalizzazione per renderli accessibili al pubblico online. Questo è il risultato di un recente incontro tra i responsabili della Biblioteca nazionale e il gruppo etnico-religioso degli ebrei etiopi, i cosiddetti “Beta Israel”.
I manoscritti sono disponibili nell'antica lingua etiope “Ge'ez”. Comprendono l'Ottateuco - il cosiddetto “Orit” tra gli ebrei etiopi - cioè i primi otto libri dell'Antico Testamento della Septuaginta greca. Si tratta dei cinque libri di Mosè (Pentateuco) e dei libri di Giosuè, Giudici e Ruth. A questi si aggiungono i libri apocrifi ebraici di Giubilei ed Enoch e i libri di preghiera come il Libro dei Salmi. Altri libri sacri provengono dai discendenti dei leader religiosi degli ebrei etiopi, i cosiddetti “Kesim”.
“Da oltre 70 anni la biblioteca lavora per rendere accessibili le immagini dei manoscritti ebraici, sotto forma di fotografie, microfilm o tecnologia digitale”, ha spiegato Jizchak Gila, direttore della Biblioteca Nazionale. “Tutti sono disponibili online e siamo felici di aggiungere il patrimonio di 'Beta Israel' a questa collezione digitale”.

• COLLABORAZIONE PER LA FORNITURA
  La Biblioteca nazionale sta lavorando al progetto di digitalizzazione insieme al Centro etiope per il patrimonio ebraico e al programma Orit Guardians dell'Università di Tel Aviv. Finora sono stati scannerizzati 17 manoscritti che presto saranno resi disponibili online.
Secondo Naftali Avraham, direttore del Centro etiope per il patrimonio ebraico, documentare e preservare i libri sacri degli ebrei etiopi è uno degli obiettivi principali del centro. “Grazie alla collaborazione con il 'Kesim', negli ultimi anni siamo riusciti a documentare molti segreti della tradizione e del ricco patrimonio degli ebrei etiopi”, ha dichiarato. “Sono lieto che il centro abbia sensibilizzato anche il 'Kesim' sull'importanza di fornire libri per questo progetto e che abbiano aderito al progetto”.
La cooperazione con il Centro etiope per il patrimonio ebraico e la Biblioteca nazionale è “un valore aggiunto molto importante per la nostra ulteriore attività accademica”, ha affermato Dalit Rom-Schiloni, professore dell'Università di Tel Aviv. “Questi tesori culturali fanno indubbiamente parte del patrimonio della comunità. Meritano di essere presentati a un pubblico interessato mentre continuano a essere conservati dai loro proprietari nelle varie case di culto”.

(Israelnetz, 29 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Grande successo per il primo appuntamento sul Jazz ebraico americano in un coinvolgente evento

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Meno trattato del jazz afroamericano, il contributo ebraico ashkenazita a questo genere musicale è stato invece fondamentale e su questo argomento domenica 27 ottobre su Zoom si sono soffermati il musicologo e consulente artistico Gianni Morelenbaum Gualberto e il giornalista e conduttore Roberto Zadik.
L’evento organizzato da Kesher è stato introdotto oltre che dalla sua responsabile Paola Hazan Boccia anche dall’assessore alla Cultura della Comunità ebraica milanese, Sara Modena. Tutto è cominciato dalla prefazione di Zadik che ha subito sottolineato le peculiarità del Jazz ebraico americano e la sua continua fusione di elementi appartenenti alla tradizione musicale est europea, dai ritmi klezmer al retroterra classico, ai ritmi jazzistici afroamericani, da Miles Davis a John Coltrane in una vastissima serie di artisti che  “continua imperterrita dagli anni Venti ad oggi”.   Tre sono punte di diamante di questo genere: George Gerschwin, Benny Goodman e Stan Getz. Tratteggiando sinteticamente la figura del compositore di Rapsodia in Blu e Summertime, il cui vero cognome era Gerschowitz, Zadik ha sottolineato come egli abbia iniziato come prodigioso pianista  classico  per poi trasformarsi in “ricercatissimo compositore e indagatore nelle tradizioni e negli artisti più svariati, compreso il compositore del Bolero Maurice Ravel che divenne suo modello d’ispirazione, volgendosi sempre più ai temi sociali e al mondo afroamericano in un sodalizio che poi divenne sempre più forte, quello fra ebrei e afroamericani”.
Le altre due figure chiave del Jazz ebraico d’oltreoceano furono il  “grintoso clarinettista Benny Goodman anche lui sperimentatore e pioniere dello swing, genere più leggero e meno impegnato del jazz. In seguito alla prematura scomparsa di Gerschwin, Goodman furoreggiò in performance memorabili come il concerto alla Carnegie Hall nel 1938, proprio mentre l’Europa era insanguinata dalle atrocità del nazismo, interpretando brani immortali come uno dei suoi classici Sing Sing Sing“. Infine, il giornalista musicale si è soffermato sul  malinconico e riservato sassofonista  Stan Getz, all’anagrafe Stanley Gayetzky,  che ” si contraddistinse per il sound fortemente introspettivo fondendo fra loro il suo jazz contemplativo  con i ritmi brasiliani della Bossa Nova, cosa che prima di lui era totalmente inusuale diventando molto frequente in seguito”. Il jazz ebraico americano oscillò quindi  fra multiculturalismo e sperimentalismo, fra retroterra ebraico Est europeo e assimilazione; un esempio? il famoso film Il cantante di Jazz con l’attore Al Jolson (vero nome Yoelson) in cui il protagonista decide di abbandonare il canto sinagogale per “buttarsi nel mare del jazz e della società circostante”. “Ho scelto questi tre musicisti, accomunati da un forte retroterra ebraico russo e caratterizzati  da un misto di vitalità, virtuosismo, sperimentazione e sofferenza ” ha puntualizzato Zadik “essi si rivelano ancora oggi di assoluta attualità e modernità  grazie al loro multiculturalismo e al  messaggio antirazzista estremamente importante, soprattutto nei tempi velenosi che stiamo vivendo”.
Successivamente è stata la volta del magistrale approfondimento di  Gianni Morelenbaum Gualberto  che ha trattato una serie di tematiche, dall’identità nascosta di vari musicisti ebrei che spesso occultavano le loro origini, all’antisemitismo americano di quegli anni, al complesso rapporto con gli afroamericani, ricordando l’estrema vastità di questo argomento e proponendo al pubblico una serie di brani splendidi come Echoes of Spring del musicista Willie The Lion Smith. Partendo da questo artista che era sia afroamericano che ebreo e morì come cantore sinagogale a New York, egli ha ricordato “che il tema della musica ebraica attraversò l’intero spettro del Novecento americano incrociandosi con cinema, arte e letteratura anche se rimane sempre la domanda su cosa si intenda per influenza ebraica a livello musicale e nel jazz?”. Interrogandosi su questo primo argomento e se essa sia  maggiormente legata alla cantillazione sinagogale, al Klezmer o alla musica sefardita e se sia solo musica suonata da ebrei. il musicologo ha specificato come essendoci vari tipi di ebrei, dai più credenti ai più laici,  il tema della musica ebraica sia “molto spinoso perché  riguarda l’identità dei singoli e che non sempre il musicista ebreo compone necessariamente musica ebraica”. Nel suo discorso egli ha sottolineato il problema di cosa sia la musica ebraica anche nel jazz statunitense e di come “molti ebrei abbiano fatto musica ebraica inconsapevolmente dovendosi adattare a una società completamente nuova”.
A questo proposito egli ha ricordato come da parte di molti artisti ebrei “vi fosse la perenne ricerca di un’integrazione in cui l’elemento ebraico fosse meno presente possibile visto il terribile antisemitismo di quei tempi”. Risaltando il razzismo di quell’America in cui gli ebrei Est europei si trovarono a immigrare egli ha raccontato le varie difficoltà da loro sofferte trovando un “mondo molto particolare rappresentato dal jazz che era dominato dagli afroamericani che erano a loro volta figli di un’altra diaspora anche se molto più recente e accomunati al mondo ebraico da un bagaglio comune di sofferenza.”
Ma qual era il rapporto fra ebrei e afroamericani nella società oltre che nella scena jazz?  Legati  fra loro da vari punti in comune anche se c’erano non pochi casi di ostilità antiebraica, il musicologo si è soffermato sul rapporto profondamente “ondivago fra loro fino alle predicazioni apertamente antisemite di personaggi come Malcolm X” citando un libro scritto dal clarinettista ebreo Milton Mezzrow Really The Blues che spiega alcuni elementi interessanti riguardo alla relazione fra queste due realtà etniche e religiose.
Citando il testo ha poi  spiegato che ” gli ebrei ashkenaziti erano spesso assai intellettuali, dediti allo studio e spesso anche alla religione” e che per questo motivo “erano affascinati dalla fisicità, dalla musicalità estrosa e dalla disinibizione degli artisti jazz afroamericani che rimarcavano coraggiosamente la loro diversità laddove invece gli ebrei non volevano farsi notare troppo vista la ben più lunga storia di persecuzioni”. Proseguendo nel suo discorso egli ha sottolineato quanto viceversa gli afroamericani fossero affascinati dalle doti intellettuali dei primi prima che “l’antisemitismo prendesse piede e le comunità si dividessero con il pregiudizio sempre più radicato che gli ebrei invece si aiutassero fra loro”. Nella sua interessante analisi, egli ha evidenziato come nel jazz americano gli ebrei siano stati enormemente presenti nel mercato statunitense, non solo come artisti ma anche come manager e proprietari di case discografiche e che uno dei compositori più dichiaratamente ebraici fosse Irving Berlin. Prolifico, raffinato e  geniale compositore egli era talmente ispirato che a volte stando ai racconti di Morelenbaum  “scriveva canzoni anche in taxi” e nelle sue canzoni come Blue Skies Imperial Dance si intuiscono “vistose influenze Klezmer”.
Proponendo una serie di brani e riflessioni, il musicologo ha puntualizzato come il jazz ebraico americano comprendesse una serie di influenze, dalle già citate ritmiche Yiddish fino al filone latinoamericano anche se “nessuno dichiarava la propria appartenenza all’ebraismo almeno fino a Benny Goodman che aveva imparato a suonare il clarinetto in sinagoga  e che aveva un chiaro retaggio ebraico lanciando lo Yiddish swing come ben si sente nel brano  And the angel sing”.
“I musicisti ebrei jazz americani –  ha concluso – pur non esprimendo apertamente nessuna ebraicità spesso avevano nel Dna una loro identità nascosta anche se stranamente evidente in qualche modo fino agli anni Settanta quando nasce la Jewish Radical Music capitanata dal compositore John Zorn in cui è marcata la presenza di temi ebraici in un tipo di avanguardia che rivendicava la propria appartenenza”. Nella sua appassionante analisi il musicologo ha brevemente accennato a Stan Getz che “ha lasciato un imprinting enorme nei suoi toni melismatici che sono decisamente ebraici e nei toni ascensionali e dalle straordinarie capacità linguistiche senza mai rivendicare apertamente le sue radici ebraiche”. La sua ebraicità si espresse  apertamente solamente quando suonò negli anni Settanta in una delle sue tourné con una serie di musicisti israeliani in quello che per lui fu un “ritorno a casa”. Nel finale la postfazione di Roberto Zadik e la riflessione sulla malinconica Summertime di Gerschwin  che è stata “composta, secondo vari musicologi da una ninnananna ucraina assieme al fratello Ira e che, uscita come una delle sue ultime creazioni, prima della tragica fine, si è rivelato un successo travolgente cantata da tutti, perfino dalla ribelle icona hippie Janis Joplin”. Proponendo l’interpretazione del brano da parte di due leggende jazz come Louis Armstrong e Ella Fitzgerald, Zadik, ricordando la sua decennale amicizia con Gualberto nata col jazz ebraico nella rassegna Aperitivo in Concerto,  ha dedicato il suo approfondimento a John Zorn e al cantautore ebreo newyorchese Lou Reed, scomparso il 27 ottobre 2013 a 71 anni, che con lui realizzò una versione decisamente particolare del Cantico dei Cantici.
Nei saluti finali Paola Boccia ha invitato il pubblico al prossimo appuntamento con Zadik e Morelenbaum previsto per il 16 febbraio con il Klezmer e lo Yiddish swing  e la loro espansione negli Stati Uniti.

(Bet Magazine Mosaico, 29 ottobre 2024)

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Israele incrementa la produzione dell’Iron Beam, il sistema di difesa laser israeliano

di Luca Spizzichino

Il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato la firma di un accordo dal valore di circa due miliardi di shekel (circa 534 milioni di dollari) per incrementare significativamente la produzione dei sistemi di intercettazione laser “Iron Beam”, realizzati da Rafael Advanced Defense Systems e Elbit Systems. Le due aziende sono state selezionate per potenziare le capacità di difesa dell’IDF e ridurre la dipendenza da risorse esterne.
  “Dallo scoppio della guerra, il Ministero della Difesa ha siglato centinaia di ordini per un valore di decine di miliardi di shekel, con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia produttiva ‘blue and white’ e potenziare le capacità dell’IDF. Il nostro obiettivo primario è ridurre la dipendenza da fonti esterne e sostenere l’industria israeliana”, ha dichiarato il Direttore Generale del Ministero della Difesa, Eyal Zamir.
  Elbit Systems ha confermato il contratto in un comunicato stampa. “In qualità di Centro Laser d’Israele e leader globale nella tecnologia laser ad alta potenza, Elbit Systems celebra i significativi progressi del progetto Iron Beam ed è orgogliosa di contribuire al suo successo”, ha affermato Bezhalel Machlis, Presidente e CEO di Elbit Systems. “Le capacità sviluppate da Elbit rappresentano un salto in avanti nella difesa futura contro diverse minacce”. Il contratto include anche servizi di supporto continuativo per l’Iron Beam, a garanzia dell’efficienza del sistema nel lungo termine.
  Iron Beam è un sistema d’arma laser ad alta energia da 100 kW, progettato come il primo della sua classe a livello mondiale. Il sistema è in grado di intercettare minacce a distanze che variano da poche centinaia di metri fino a diversi chilometri. Questa tecnologia offre un’alternativa economica ai sistemi tradizionali come l’Iron Dome: come ricordato dall’ex primo ministro Naftali Bennett nel 2022, il costo per l’uso dell’Iron Beam è di circa due dollari per ogni attivazione.

(Shalom, 28 ottobre 2024)

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“Giornalisti/terroristi”: l’IDF identifica 6 giornalisti di Al Jazeera come membri di Hamas

di Pietro Baragiola

Mercoledì 23 ottobre l’IDF ha reso di pubblico dominio diversi documenti riservati, scoperti a Gaza, che identificherebbero sei giornalisti di Al Jazeera come membri dei gruppi terroristici di Hamas e della Jihad islamica.
I sei giornalisti identificati sono Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, Hossam Basel Abdul Karim Shabat, Ismail Farid Muhammad Abu Omar e Talal al-Arrouqi, Ashraf al-Saraj e Alaa Abdul Aziz Muhammad Salameh.
“La maggior parte dei giornalisti che abbiamo smascherato come operatori dell’ala militare terrorista dirigono la propaganda per Hamas ad Al Jazeera, specialmente nel nord di Gaza, mettendo dunque in discussione la credibilità e imparzialità della rete mediatica qatariota” ha affermato l’IDF sul proprio account X. “I documenti includono liste del personale, schede di formazione per terroristi, elenchi telefonici e file relativi al loro stipendio”.
Secondo queste documentazioni, i giornalisti incriminati avrebbero ricoperto diversi ruoli nelle organizzazioni terroriste, tra cui: cecchino, soldato di fanteria, combattente, coordinatore dell’allestimento e, persino, ‘addetto alla propaganda’.
Circa un terzo dei reporter uccisi durante la guerra a Gaza erano impiegati da media affiliati ad Hamas come Al-Aqsa Voice Radio, Al-Quds Al-Youm, Al-Aqsa Television e Quds News, secondo quanto riportato da Jewish Insider.
Il mese scorso, l’IDF ha condotto un raid negli uffici di Al Jazeera nella città di Ramallah, in Cisgiordania. Le forze militari israeliane hanno accusato il media qatariota di utilizzare la struttura “per incitare il terrore” e ne ha ordinato la chiusura per 45 giorni.
Al Jazeera ha dichiarato queste accuse ‘infondate’ e ha denunciato l’IDF per ‘presunta repressione della libertà di stampa’.

• I GIORNALISTI DI HAMAS
  “L’aggressione israeliana non fermerà gli sforzi giornalistici nella Striscia di Gaza” ha affermato il network Al Jazeera English dopo che uno dei suoi giornalisti, Abu Omar, ha perso una gamba durante un’operazione condotta dall’IDF lo scorso febbraio.
Tuttavia, nelle settimane seguenti sono emerse diverse testimonianze che hanno dimostrato che il reporter di Al Jazeera aveva contribuito a facilitare l’incursione di Hamas del 7 ottobre e aveva servito come vice comandante nel Battaglione orientale terrorista di Khan Yunis.
Ulteriori indagini hanno dimostrato che sempre più giornalisti di Al Jazeera sono entrati in combutta con l’organizzazione di Hamas, compresi i reporter Ismail al-Ghoul e Mohamed Washah.
Ciononostante, il network qatariota ha continuato a negare queste accuse, dichiarando di essere stato preso di mira dall’IDF per ragioni politiche.
“Consideriamo queste accuse inventate come un palese tentativo di mettere a tacere i pochi giornalisti rimasti nella regione, oscurando così al pubblico di tutto il mondo la dura realtà della guerra combattuta da Israele” ha affermato Al Jazeera in un comunicato.
Le nuove documentazioni però sembrerebbero dimostrare, senza ombra di dubbio, il legame tra alcuni giornalisti del network con l’organizzazione terrorista.

• I FILE SCOPERTI
  Secondo gli ufficiali dell’IDF, i documenti rinvenuti a Gaza, alcuni dei quali risalgono al 2022, contengono istruzioni dettagliate che Hamas avrebbe fornito ad Al Jazeera sulle seguenti tematiche: il divieto di criticare direttamente Hamas o di usare il termine ‘massacro’ nei servizi sul 7 ottobre; il consiglio di ridurre al minimo il numero di immagini trasmesse sugli omicidi condotti dall’organizzazione terrorista; le direttive su come instaurare, in caso di emergenza, una linea telefonica sicura tra Hamas e Al Jazeera per comunicazioni classificate.
“Consigliamo di contattare la leadership della Jihad islamica per conoscere in maniera approfondita le linee guida dell’organizzazione” avrebbe scritto Hamas in una comunicazione inviata ad Al Jazeera.
In queste direttive ci sarebbero anche istruzioni per il giornalista Tamer Almisshal riguardo alla copertura mediatica da lui data in occasione dell’operazione Breaking Dawn. Secondo quanto riportato nel file, Almisshal avrebbe dovuto ‘sostenere la resistenza a Gaza ed impedire qualsiasi critica riguardo alle capacità missilistiche della Jihad islamica, alla luce dell’elevato numero di lanci falliti’.
“I documenti rivelano come Hamas abbia pilotato la copertura mediatica di Al Jazeera al fine di servire i propri interessi, impedendo al pubblico di tutto il mondo di scoprire la verità sui suoi crimini contro i civili nella Striscia” ha dichiarato l’IDF nel suo comunicato di mercoledì.
“Sarà Al Jazeera ad agire qualora nelle affermazioni contro i suoi giornalisti ci sia del vero” ha risposto al pubblico il primo ministro degli Affari esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani.
Israele non è l’unico ad aver criticato la parzialità dei giornalisti di Al Jazeera.
In passato l’emittente qatariota è entrata nell’occhio del ciclone mediatico per aver mandato in onda diversi video del defunto capo di Al-Qaeda, Osama bin Laden, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti.

(Bet Magazine Mosaico, 28 ottobre 2024)

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Netanyahu: l’attacco all’Iran è stato preciso e potente. Raggiunti tutti gli obiettivi

Colpite duramente le capacità di difesa iraniane e la possibilità per Teheran di produrre missili e droni. Khamenei: "reagiremo”.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato domenica che l’attacco aereo di Israele contro l’Iran nel fine settimana è stato “preciso e potente” e ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, mentre la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha avvertito che i funzionari di Teheran avrebbero determinato il modo migliore per rispondere agli attacchi.
“Avevamo promesso che avremmo risposto all’attacco iraniano e sabato abbiamo colpito… L’attacco in Iran è stato preciso e potente, raggiungendo tutti i suoi obiettivi”, ha dichiarato Netanyahu durante una cerimonia che segna l’anniversario del calendario ebraico dell’attacco di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno.
Israele ha lanciato un’attesa rappresaglia contro l’Iran nella prima mattina di sabato, quasi quattro settimane dopo il massiccio lancio di missili balistici della Repubblica islamica sul Paese. L’aviazione israeliana ha dichiarato di aver colpito siti militari strategici, in particolare siti di produzione e lancio di droni e missili balistici, nonché batterie di difesa aerea.
L’Iran si stava preparando a una rappresaglia dopo il suo ultimo attacco diretto a Israele, in cui ha lanciato 200 missili balistici che hanno mandato la maggior parte della popolazione nei rifugi antiatomici il 1° ottobre, ucciso un uomo palestinese in Cisgiordania e causato danni in aree residenziali e nelle basi militari – anche se l’IDF ha detto che l’attacco non ha avuto alcun impatto operativo.
“L’Iran ha attaccato Israele con centinaia di missili balistici e questo attacco è fallito”, ha detto Netanyahu. “Abbiamo mantenuto la nostra promessa. L’aviazione ha attaccato l’Iran e ha colpito le capacità di difesa e la produzione di missili dell’Iran”.
Gli attacchi di sabato hanno fatto seguito a una campagna sistematica, durata mesi, per “tagliare i tentacoli della piovra iraniana, Hezbollah e Hamas”, ha detto Netanyahu. “Due giorni fa abbiamo colpito la testa della piovra, il regime iraniano”.
Rivolgendosi al popolo iraniano, ha detto: “La nostra lotta non è contro di voi, ma piuttosto contro il regime che vi opprime e minaccia la regione”.
Intervenendo alla cerimonia commemorativa del 7 ottobre, il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che l’attacco “preciso, letale e sorprendente” all’Iran ha inviato un chiaro messaggio: “Il lungo braccio di Israele raggiungerà chiunque cerchi di danneggiarci”.
“Non c’è posto troppo lontano per noi”, ha detto.

• KHAMENEI: NON DERIDERE O ESAGERARE L'ATTACCO ISRAELIANO
  Dopo gli attacchi di sabato, l’Iran ha confermato che Israele ha preso di mira siti militari intorno alla capitale e in altre province, ma è sembrato minimizzare l’impatto, affermando che i raid hanno causato “danni limitati” ma hanno ucciso quattro soldati.
Nei suoi primi commenti pubblici dopo gli attacchi di rappresaglia di Israele, la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha detto che i funzionari di Teheran dovrebbero determinare il modo migliore per rispondere.
“Israele ha commesso un errore [con il suo attacco]. Hanno esagerato, ovviamente”, ha detto Khamnei. “Esagerare su questo è un errore. Ma anche deridere questo [attacco] è un errore. Anche dire ‘non è successo niente, non era importante’ è un errore”.
Ha aggiunto: “La valutazione errata del regime sionista deve essere corretta. Hanno una valutazione errata dell’Iran”.
Secondo l’agenzia di stampa statale IRNA, Khamenei ha anche detto che Israele “dovrebbe comprendere la forza, la volontà e l’iniziativa della nazione iraniana”.
Ha aggiunto che la “risposta di Teheran sarà determinata da alti funzionari, in un modo che serva al meglio l’interesse del popolo e che tenga conto anche dello Stato”.
Gli attacchi aerei israeliani di sabato hanno paralizzato la capacità di Teheran di produrre missili balistici a lunga gittata, con un colpo che sarà difficile da recuperare in breve tempo, e hanno reso le strutture energetiche cruciali vulnerabili a futuri attacchi distruggendo le batterie di difesa aerea che le proteggevano, secondo quanto riferito da diversi rapporti che citano immagini satellitari analizzate da esperti.
L’operazione, che ha colpito obiettivi a circa 1.600 chilometri di distanza, è stata senza precedenti in termini di portata e durata e dell’immediato riconoscimento di responsabilità da parte di Israele.
Poco dopo gli attacchi di sabato mattina, l’esercito israeliano ha dichiarato che l’operazione ha dato all’IAF “una più ampia libertà di azione aerea in Iran” e che aveva un’ampia lista di obiettivi da colpire in futuro, se necessario.

(Rights Reporter, 28 ottobre 2024)

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Israele piange altre vittime

GERUSALEMME - Nonostante tutti i suoi successi militari, Israele continua a piangere grandi perdite tra le sue fila: Come ha annunciato l'esercito domenica, cinque soldati sono stati uccisi nei combattimenti contro Hezbollah sabato sera, mentre altri 14 sono stati feriti, cinque dei quali in modo grave. Finora, 34 soldati sono stati uccisi nell'offensiva di terra in Libano.
  Tra i caduti c'è Abraham Josef Goldberg. Era un rabbino popolare in una scuola e nell'esercito. Il 43enne lascia la moglie e otto figli.
  Ai funerali, svoltisi domenica sera nel cimitero militare di Herzlberg a Gerusalemme, la sua famiglia ha espresso critiche sulle esenzioni per gli studenti ultraortodossi della Torah. Il cognato di Goldberg ha detto che lo studio della Torah e il servizio militare possono essere combinati. “Chiunque voglia studiare la Torah dovrebbe studiarla”, ha detto, secondo quanto riportato dal sito Times of Israel. “Ma non aspettatevi che lo Stato di Israele e le famiglie come quella di mia sorella, con otto mezzi orfani, paghino per questo”.
  Israele sta anche subendo ulteriori perdite nei combattimenti nella Striscia di Gaza. Domenica mattina, un soldato è deceduto per le sue ferite. Solo nell'ultima settimana, 24 soldati sono stati uccisi in guerra.

• RAPPORTO: DISERTORI DI HEZBOLLAH
  L'obiettivo dell'offensiva di terra in Libano è quello di estromettere la milizia terroristica Hezbollah dal sud del Paese - un compito che in realtà dovrebbe essere svolto dalla missione ONU UNIFIL, alla quale partecipa anche la Bundeswehr. Al contrario, i “caschi blu” hanno lasciato a Hezbollah una tale libertà di azione da permettergli di costruire la sua infrastruttura terroristica.
  Dal punto di vista di Israele, la milizia terroristica sembra essere stata decisamente respinta. La settimana scorsa, l'esercito ha dichiarato che la struttura dirigenziale è stata distrutta. Inoltre, il sito web di notizie saudite “Elaph”, con sede a Londra, ha riferito che sempre più membri disertano.
  Nel rapporto, “Elaph” fa riferimento a “fonti informate” e parla di una “ondata” di diserzioni. Molti mercenari non si presentano ai loro posti o fuggono in Siria per paura di un confronto diretto con Israele. Questo sviluppo rappresenta una minaccia per Hezbollah, riassume il sito.
  Nel sud del Libano, l'esercito ha continuato a effettuare attacchi aerei contro obiettivi terroristici. Le immagini hanno mostrato esplosioni massicce che indicavano la presenza di nascondigli di armi.

• CONCLUSO IL RAID NELL'EX OSPEDALE
  Nel frattempo, l'esercito ha terminato il raid all'ospedale Kamal Adwan di Jabalia. Secondo l'esercito, l'ospedale nel nord della Striscia di Gaza fungeva da centro di comando dell'organizzazione terroristica Hamas. L'esercito ha confiscato armi, documenti e fondi. Ha catturato 60 terroristi, alcuni dei quali coinvolti nel massacro terroristico del 7 ottobre.
  L'esercito sta ora ritirando alcune truppe dal centro, ma vuole continuare a mantenere la posizione. Secondo l'esercito, ci sono ancora diverse centinaia di terroristi nel villaggio.

• ATTACCHI MISSILISTICI MORTALI
  Nel frattempo, continuano gli attacchi missilistici su Israele. Due arabi israeliani sono già stati uccisi venerdì. Un razzo di Hezbollah ha colpito vicino a un piccolo negozio. Ardschwan Manaa, 19 anni, che stava lavorando alla cassa, è morta per le ferite riportate, così come Hassan Suad, 21 anni, che stava facendo acquisti.
  Hezbollah ha continuato i suoi attacchi sabato e nei giorni successivi. La difesa aerea ha intercettato la maggior parte dei proiettili. Ma nel nord di Israele un colpo di missile ha fatto scoppiare un incendio nella riserva naturale di Hula.

(Israelnetz, 28 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I media arabi riferiscono di defezioni di Hezbollah

I media arabi riportano numerosi casi di defezioni dalle fila di Hezbollah, che portano ad un significativo indebolimento di questa organizzazione. Secondo il sito saudita Ilaaf, fonti libanesi riferiscono di un'ondata di fughe di membri del gruppo ai confini meridionali, dove sono in corso aspri combattimenti con l'esercito israeliano. Le perdite e le ritirate di Hezbollah stanno creando una spaccatura nella struttura dell'organizzazione, causando preoccupazione tra i suoi sostenitori e comandanti.
La situazione è aggravata dalle notizie di diserzione dei comandanti di Hezbollah, che sarebbero fuggiti con le loro famiglie in Siria e poi in Iraq, lasciando i loro subordinati al fronte. Sui social network arabi si è diffusa la registrazione di una conversazione telefonica di uno dei combattenti di Hezbollah, che ha condiviso con i suoi cari il suo disappunto per la decisione dei comandanti di lasciare le loro posizioni e di abbandonare di fatto la resistenza ai confini meridionali.
Le fonti sottolineano che una tale ondata di defezioni potrebbe estendersi ad altre regioni del Libano, minacciando potenzialmente la sostenibilità dell'intera struttura di Hezbollah. I combattimenti sul confine meridionale, dove l'IDF sta attaccando con successo le posizioni, stanno minando la fiducia del gruppo nella vittoria, soprattutto perché i tentativi di resistere nelle trincee spesso provocano elevate perdite.

(AVIA.PRO, 28 ottobre 2024)

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Scoperta a Gerusalemme Est un’altra rete di spie al soldo dell’Iran

di Francesco Paolo La Bionda

Una nuova rete di spie ingaggiata dal regime iraniano è stata scoperta in Israele, aumentando il livello di allerta nello Stato ebraico dopo l’annuncio, pochi giorni prima, dell’arresto di un primo gruppo di agenti, composto da cittadini ebrei.
  In questo caso, la rete di spie era composta da sei arabi israeliani e un residente palestinese di Gerusalemme Est, tutti tra i 19 e i 23 anni provenienti dal quartiere di Beit Safafa e senza precedenti penali o relativi alla sicurezza. Il leader del gruppo, un ventitreenne di nome Rami Alian, era stato contattato da un agente iraniano e aveva poi reclutato gli altri sei membri del gruppo.
  Inizialmente, gli incarichi assegnati erano stati semplici, come scrivere graffiti per chiedere il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza e fotografare alcuni luoghi d’interesse. Dopo un po’, le missioni si erano trasformate in azioni più serie, come dare fuoco a un veicolo o acquistare armi. Alian si era anche procurato una granata da lanciare contro dei soldati israeliani, sebbene poi non avesse portato a termine l’incarico. Al momento dell’arresto, i sette stavano programmando l’assassinio di uno scienziato nucleare israeliano e del sindaco di una grande città del centro d’Israele quando sono stati arrestati.
  Sebbene le spie fossero pagate per le loro prestazioni, al contrario della rete ebraica la motivazione economica era minoritaria rispetto a quella ideologica: lo stesso leader del gruppo ha dichiarato negli interrogatori di essere stato fiero che gli iraniani lo avessero ingaggiato e di voler attentare alla sicurezza di Israele in risposta alla guerra a Gaza.

• L’offensiva spionistica iraniana in Israele
  Le due reti di spie smantellate si inseriscono in più ampio tentativo dell’Iran di rafforzare la propria rete di agenti clandestini nello Stato ebraico. Negli scorsi mesi, si sono susseguiti gli arresti di diverse altri civili, tutti al soldo di Teheran: un uomo di Ashkelon con l’accusa di essere stato reclutato per assassinare un membro importante del governo israeliano, forse lo stesso primo ministro Netanyahu; una coppia di Ramat Gan per aver compiuto sabotaggi e atti di vandalismo; un altro uomo per aver progettato l’omicidio di uno scienziato israeliano.
  Lo Shin Bet ha inoltre smascherato diversi complotti dell’intelligence iraniana per adescare nuove reclute online: uno lo scorso dicembre, in cui gli agenti della Repubblica Islamica hanno contattato cittadini israeliani su diverse piattaforme social con vari pretesti, dalla mediazione immobiliare ai servizi di investigazione privata. A gennaio si era quindi scoperto un tentativo di spiare i funzionari della difesa israeliana e di raccogliere informazioni sui civili utilizzando false pagine di social media relative alla guerra in corso nella Striscia di Gaza. Ad agosto, infine, è stato svelato un nuovo piano di reclutamento sempre nella sfera digitale, con gli iraniani che utilizzavano account con nomi ebraici o israeliani.

(Bet Magazine Mosaico, 28 ottobre 2024)

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L’attacco di Israele lascia l’Iran più vulnerabile che mai.

Con le principali difese aeree disattivate e Hezbollah indebolito, l’Iran sa che la IAF potrebbe tornare a colpire ancora. Questo potrebbe spingerla ad accelerare per la bomba e Israele a cercare di fermarla.

Gli israeliani non parlano molto degli attacchi aerei in Iran nella prima mattinata di sabato, ma ciò non sminuisce l’importanza dell’operazione. Sembra che sia andata esattamente come previsto, senza perdite da parte israeliana. Questo è di per sé un risultato importante.
I rischi insiti nelle operazioni a 1.600 chilometri dallo spazio aereo israeliano sono scoraggianti. Una piccola complicazione può trasformarsi in una sfida di vita o di morte.
Gli attacchi sono stati pianificati con il presupposto che i caccia sarebbero stati in grado di rifornirsi vicino all’Iran. Ma se un piccolo componente del sistema di rifornimento non avesse funzionato, o se il motore di un aereo si fosse guastato, il pilota si sarebbe trovato ad affrontare un atterraggio pericoloso in probabile territorio nemico. Quasi tutte le capacità di supporto e di emergenza che l’aviazione israeliana può mettere in campo nelle operazioni su Gaza e sul Libano sarebbero irrilevanti così lontano dal confine del Paese.
Per quanto ne sappiamo, tuttavia, non si sono verificati malfunzionamenti significativi, a testimonianza non solo dell’abilità dei piloti israeliani ma anche della professionalità del personale di manutenzione e supporto dell’IAF. Al contrario, Israele è stato in grado di portare decine di aerei abbastanza vicini all’Iran per lanciare bombe di precisione contro obiettivi militari in diverse ondate.
L’Iran sapeva da settimane che un attacco era in arrivo e potrebbe anche aver ricevuto una soffiata indiretta da Israele sulla tempistica degli attacchi. Eppure non ha potuto fare nulla per impedire ai jet israeliani di portare a termine la loro operazione in modo deliberato e sistematico.
Ora l’Iran – e i suoi impianti di gas e nucleari – sono più vulnerabili che mai. I sistemi antiaerei più avanzati del regime sono stati distrutti e la loro sostituzione – se il loro fornitore, la Russia, è disposto o in grado di farlo – non avverrà immediatamente. Le sue difese aeree, che sabato sono inefficaci, ora sono ancora meno capaci, con batterie e radar distrutti. Oltre alla disattivazione delle sue difese aeree – sistemi in cui l’Iran ha investito molto – la Repubblica islamica ha perso anche il suo principale deterrente contro Israele. Dopo settimane di attacchi devastanti contro i suoi leader e le truppe di terra israeliane che operano in forze nel Libano meridionale, Hezbollah è in grado di lanciare un paio di centinaia di razzi al giorno contro Israele, ma niente di più. Ha perso la capacità di fare qualcosa per alterare il processo decisionale di Israele riguardo agli attacchi all’Iran. Il leader di lunga data di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è stato ucciso e i jet israeliani hanno colpito direttamente l’Iran, ma la normale vita quotidiana continua nella maggior parte di Israele.
L’attacco israeliano può essere stato in qualche modo limitato in termini di danni effettivi, ma ciò che conta è il messaggio lanciato alla fragile Guida Suprema Ali Khamenei e al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran: Israele può raggiungere siti strategici in Iran e può colpire ciò che vuole, e Teheran non può fermarlo.
Questa volta si trattava di siti militari, ma i leader iraniani devono chiedersi quanto ancora ci vorrà perché Israele si concentri su obiettivi di maggior valore strategico – impianti petroliferi, simboli del regime e, naturalmente, il programma nucleare.
E le cose potrebbero andare ancora peggio per Teheran. La Casa Bianca di Joe Biden/Kamala Harris ha lavorato duramente per limitare la rappresaglia di Israele contro i due attacchi missilistici dell’Iran di quest’anno, per paura di un’escalation in una guerra regionale che potrebbe risucchiare gli Stati Uniti. Inoltre, l’Iran non ha corso il rischio che Biden ordinasse un attacco statunitense sul suolo iraniano.
Con grande dispiacere dell’Iran, c’è la concreta possibilità che Donald Trump torni al potere entro gennaio. Il ritorno dell’imprevedibile presidente che ha ordinato l’eliminazione del noto capo della Forza Quds dell’IRGC, Qassem Soleimani, e che ha sostituito l’accordo nucleare del 2015 con una strategia di massima pressione, unito alla nuova posizione aggressiva di Israele contro l’asse iraniano, è uno scenario pericoloso per Teheran.
Questo non significa che l’Iran non risponderà all’attacco di sabato. È sensibile all’idea di apparire debole di fronte alla sua popolazione in rivolta e alla sua rete di proxy. L’arsenale di missili balistici iraniani è ampio e può causare danni a Israele anche se la maggior parte dei missili lanciati viene intercettata da Israele e dai suoi alleati. Gli israeliani non sono disposti a far sì che i massicci attacchi iraniani diventino qualcosa a cui abituarsi, anche se finora i danni sono stati relativamente modesti.
Resta poi la questione sempre più pressante del programma nucleare iraniano. Con l’aumento della pressione sul regime e un crescente senso di vulnerabilità, potrebbe essere questo lo scenario che spinge Khamenei a ordinare una spinta totale per costruire un’arma nucleare e presentare un nuovo potente deterrente contro Israele e gli Stati Uniti?
Questo è certamente possibile. Ma dopo l’attacco di ieri, è anche più probabile che Israele ritenga di avere la capacità – e l’imperativo – di causare danni significativi al programma con una nuova serie di attacchi.

(Israele 360, 27 ottobre 2024)

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Perché Israele è speciale per Dio?

di Tim M. Sigler

Diverse Scritture vengono subito alla mente quando si considera la scelta di Dio di Israele come destinatario delle benedizioni dell'alleanza:

  • Essere benedetti da Dio ed essere una benedizione per tutte le famiglie della terra (Genesi 12:3).
  • Essere gli eredi della terra della promessa (Genesi 28:13).
  • Avere il favore speciale di Dio di generazione in generazione (Deuteronomio 7:7-9),
  • Per avere una linea di re da cui sarebbe venuto un sovrano finale giusto (2 Samuele 7:11-16).

Molti credenti partono dal presupposto errato che, poiché queste promesse a Israele si trovano nell'Antico Testamento, devono in qualche modo far parte di un piano ormai concluso. Preferisco quindi iniziare con le Scritture che affrontano di petto queste idee sbagliate.
  In primo luogo, Paolo non avrebbe potuto essere più chiaro quando istruì i credenti romani sul fatto che i doni e la chiamata di Israele sono irrevocabili. In Romani 11:28-32, ha dichiarato:

    28 Per quanto concerne l'evangelo, essi sono nemici per causa vostra, ma quanto all'elezione sono amati per via dei loro padri, 29 perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento. 30 Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31 così anch'essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch'essi misericordia. 32 Poiché Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.

Paolo parlava delle promesse di Dio al popolo ebraico, i discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe. Egli osservava che, anche se la maggioranza del popolo ebraico si opponeva alla messianicità di Yeshua e poteva quindi essere considerata ideologicamente nemica del Vangelo, sarebbe comunque amata in virtù delle promesse di alleanza fatte da Dio ai padri, cioè ai patriarchi di Israele. Questa fedeltà al patto era anche una buona notizia per i gentili, in quanto rivelava il disegno di Dio di considerare la colpevolezza sia degli ebrei che dei gentili, in modo da estendere la sua misericordia divina nella salvezza a tutti coloro che lo invocano. I doni e la chiamata di Israele si estendono oltre la sua fedeltà alle alleanze, e i credenti gentili possono essere grati che la fedeltà di Dio al patto si estenda anche oltre la loro disobbedienza. Altrimenti, chi potrebbe essere salvato?
  In secondo luogo, Israele è stato scelto per ricevere benedizioni speciali, tra cui la venuta del Messia. In Romani 9:3-5, Paolo ha illustrato ai suoi lettori il suo profondo legame con il popolo ebraico:

    3 Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, 4 che sono Israeliti, ai quali appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il culto e le promesse, 5 ai quali appartengono i padri e dai quali è venuto, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!

Si notino i segni etnici che associano il popolo ebraico all'antico Israele e al piano di redenzione per tutta l'umanità. Dio ha dato al popolo ebraico in modo unico alcune benedizioni che sono elencate in questo passo. Nessun altro gruppo di persone può vantare queste eccezionali realtà storiche. Dio ha scelto/adottato il popolo ebraico affinché la sua gloria Shekinah dimorasse in mezzo a loro nel Tabernacolo e poi nel Tempio. Dio ha dato loro le sue istruzioni nella Torah e molte altre benedizioni che sono semplicemente riassunte come "le promesse", molte delle quali possono essere esaminate nelle Scritture attraverso uno studio delle alleanze bibliche. Ma alla fine, la benedizione veramente unica di Israele, che ha benedetto tutta la creazione, è stata la venuta del Messia attraverso il popolo ebraico.
  Più avanti, in Romani, Paolo scrive del rapporto ebraico-gentile con il Vangelo in termini di debito spirituale. Se i credenti apprezzassero giustamente il piano di Dio di portare la salvezza a tutte le famiglie della terra attraverso il popolo ebraico, non esisterebbe l'antisemitismo cristiano. Purtroppo, però, questo fenomeno è stato spesso presente nella storia della Chiesa.
  In terzo luogo, la storia di disobbedienza di Israele all'alleanza e la mancata osservanza della Torah non invalidano le promesse di Dio di benedire i discendenti di Abramo. La nazione è ancora amata da Dio e un giorno sarà destinataria delle sue benedizioni dell'alleanza. Paolo ha sottolineato questo punto in Galati 3:17-18:

    17 Ecco quello che voglio dire: un patto già in precedenza stabilito da Dio, la legge, che venne quattrocentotrent'anni dopo, non lo invalida in modo da annullare la promessa. 18 Perché, se l'eredità viene dalla legge, essa non viene più dalla promessa; ora Dio l'ha donata ad Abraamo per mezzo di una promessa.

Molti interpreti hanno cercato di dissociare l'antico Israele biblico dal popolo ebraico di oggi, ma questo non corrisponde all'insegnamento del Nuovo Testamento e non dovrebbe essere un elemento di confusione per la Chiesa di oggi. Realtà storiche, etniche, genetiche, linguistiche, culturali e religiose (l'elenco potrebbe continuare) collegano la nazione biblica di Israele al popolo ebraico e al moderno Stato di Israele oggi. Sebbene sia corretto osservare che le occorrenze bibliche della parola "Israele" non debbano essere lette come riferimenti diretti al moderno Stato di Israele (che ovviamente non esisteva all'epoca), esiste una connessione tra le due cose che non deve essere evitata: Il popolo ebraico di oggi è l'emanazione moderna dell'Israele biblico e la storia del popolo ebraico è il fulcro della storia e della profezia biblica.
  In quarto luogo, alla luce di questi riferimenti diretti del Nuovo Testamento, si potrebbe considerare una dichiarazione del profeta post-esilico Zaccaria. In Zaccaria 2:7-10, il profeta afferma:

    7 “Su, Sion, mettiti in salvo, tu che abiti con la figlia di Babilonia!”. 8 Poiché così parla l'Eterno degli eserciti: “È per rivendicare la sua gloria che egli mi ha mandato verso le nazioni che hanno fatto di voi la loro preda; perché chi tocca voi tocca la pupilla dell'occhio suo. 9 Infatti, ecco, io sto per agitare la mia mano contro di loro, ed esse diventeranno preda di quelli che erano loro assoggettati, e voi conoscerete che l'Eterno degli eserciti mi ha mandato. 10 Manda grida di gioia, rallegrati, o figlia di Sion! poiché ecco, io sto per venire e abiterò in mezzo a te”, dice l'Eterno.

In sintesi, Dio ama il popolo ebraico di un amore eterno. Israele è la pupilla dei suoi occhi e Dio ha scelto Gerusalemme come sua dimora.

(Ariel Magazine, Volume 1, Spring 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



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Il distintivo del Messia e Israele

La guerra a Gaza e nel nord di Israele in Libano ha avvicinato i soldati israeliani al Messia.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Negli ultimi mesi abbiamo ripetutamente riferito che i soldati israeliani vanno in guerra con preghiere, canti di lode e altre usanze tradizionali. Durante le festività, i soldati nella Striscia di Gaza hanno suonato il corno shofar come ai tempi della Bibbia. Sul nostro canale Telegram abbiamo mostrato foto e video dalla Striscia di Gaza e dal Libano meridionale di soldati che erigono capanne di foglie e celebrano il biblico Sukkot in zone di guerra. Questo e molto altro fa pensare a un'inversione di tendenza che fino ad ora non si era manifestata nell'esercito israeliano. Certo, nelle guerre precedenti non esistevano reti internet come quelle di oggi, che ci mostrano tutto in diretta. E anche questo non è un bene, perché i nostri occhi non hanno bisogno di vedere tutto. Inoltre, la censura viene spesso aggirata, il che è un problema perché i soldati spesso filmano tutto sul campo di battaglia e lo inviano in tutto il mondo con un mittente.
Qualche giorno fa, il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi ha visitato le truppe di combattimento della Brigata Golani nel sud del Libano. Ha incontrato un soldato che aveva appuntato un distintivo del Messia sulla sua uniforme durante la visita. Halevi si è avvicinato al soldato, ha tolto il distintivo e lo ha messo nel taschino della camicia. Ha spiegato che il soldato poteva tenere il distintivo nel taschino della camicia, più vicino al cuore, se era importante per lui, ma non poteva esporlo sulla sua uniforme ufficiale. “Solo le insegne militari sull'uniforme”, disse il Capo di Stato Maggiore. Questo naturalmente ha provocato un tumulto nei media israeliani. Alcuni si sono indignati per il Capo di Stato Maggiore, altri per le insegne religiose dell'esercito israeliano, sempre più visibili sulle uniformi. Anche i media arabi ne hanno parlato diffusamente, secondo quanto riportato dal New Arab: “L'esercito israeliano ha vietato ai soldati di indossare simboli non militari sulle loro uniformi dopo che alcuni soldati sono stati visti indossare insegne messianiche ultra-religiose”. Questo arriva mesi dopo l'indignazione internazionale per la tendenza di alcuni soldati a indossare le insegne del Grande Israele sulle loro uniformi.
Da un lato posso essere d'accordo con il Capo di Stato Maggiore che non vuole vedere simboli politicamente controversi sulle uniformi dei suoi soldati. Ma cosa succede se un soldato si presenta con una colomba della pace come distintivo? È consentito? Il Capo di Stato Maggiore toglierebbe un distintivo con la bandiera arcobaleno? Probabilmente no, e sarebbe una disparità di trattamento. Un altro punto. Nell'esercito ci sono anche drusi e beduini che non dovrebbero essere esclusi. O un arabo cristiano che vuole indossare un distintivo con una croce sulla sua uniforme. Ma l’IFD israeliana è l'esercito del popolo ebraico, e la parola Messia motiva i soldati e dà loro forza. Il fatto che anche i non ebrei servano nell'esercito israeliano non è una novità: è sempre stato così, anche nei tempi biblici. Tuttavia, questo esercito è l'esercito del popolo d'Israele.
Del resto, non potrebbe essere che il popolo d'Israele si trovi nella cosiddetta Primavera ebraica? Il 7 ottobre ha ricollegato molti israeliani alla loro identità ebraica, ed è anche interessante che sempre più arabi si identifichino come israeliani. Il motivo è che i terroristi non fanno distinzione tra i kibbutznik di sinistra del sud e i coloni ebrei. Per loro, tutti sono coloni, compresi gli arabi israeliani che sono stati uccisi e rapiti nello stesso modo un anno fa. Questo è molto sentito anche nell'esercito. Lo stato d'animo nei ranghi inferiori dell'esercito è caratterizzato dalla disponibilità a fare sacrifici e da un forte legame con l'ebraismo. Purtroppo, ciò si riflette anche nell'alta percentuale di soldati con radici religiose tra i caduti di questa guerra. La cosiddetta “primavera araba”, scoppiata 14 anni fa nei Paesi arabi vicini a noi, ha portato nuove speranze per i popoli che ci circondano, ma è successo il contrario. Può essere altrimenti nel caso di Israele, che il 7 ottobre rappresenti un punto di svolta per il popolo? Una vera primavera? Un ritorno alle radici, più vicino a Dio? Un avvicinamento al Messia? Non solo sulle maniche delle uniformi di Israele, ma anche nella mente dei nostri combattenti.
Dobbiamo riconoscere chiaramente che i nostri nemici vogliono ucciderci perché siamo ebrei, non perché siamo di destra o di sinistra. Il 7 ottobre, l'attivista pacifista ebrea Vivian Silver è stata uccisa da terroristi di Hamas nel Kibbutz Be'eri. Tutti i suoi sforzi per fare la pace con i vicini palestinesi non l'hanno aiutata.
Le forti critiche mondiali al “genocidio” di Israele nella Striscia di Gaza e il silenzio internazionale durante la guerra civile siriana (2011), in cui il leader siriano Bashar al-Assad ha dato il via a un vero e proprio genocidio nel suo Paese (500.000 morti), sono espressione di un vero e proprio odio verso gli ebrei, non di un odio verso Israele. Finché non capiremo questo, non impareremo a risolvere il problema. Ma Israele è forte e il popolo ebraico è forte. I nostri nemici riceveranno colpi che non dimenticheranno per decenni. Perché con il popolo ebraico non si scherza. Non dobbiamo vergognarci di essere ebrei, dobbiamo esserne orgogliosi.
Il Messia di tutti i popoli? Di tutte le insegne dell'esercito - non è chiaro perché il Capo di Stato Maggiore voglia rimuovere questa insegna religiosa”, ha scritto il quotidiano israeliano Israel Hayom. Per un anno intero, questi soldati, in servizio attivo e nelle riserve, hanno letteralmente sacrificato la loro vita in difesa dello Stato di Israele. Il 7 ottobre hanno lasciato le loro case e sono partiti verso l'ignoto, lasciandosi alle spalle famiglie, padri, madri e fratelli per proteggere il popolo ebraico. Come si sentono oggi queste persone quando il loro desiderio di un futuro migliore, di redenzione e del Messia, parte essenziale della loro fede, viene loro tolto? Non si tratta di una bandiera arcobaleno o di un distintivo con una faccina sorridente, ma di un simbolo della loro appartenenza a qualcosa di più grande.
Circa un mese fa, il capitano Harel Ettinger, un ufficiale dell'unità Egoz, è stato ucciso in azione nel sud del Libano. Al suo funerale, superiori e subordinati hanno tenuto commoventi necrologi e alla fine i presenti hanno cantato l'inno nazionale israeliano Hatikva. In seguito, la gente ha iniziato spontaneamente a cantare “Ani Ma'amin” (Credo), una professione di fede che proclama con ferma convinzione la venuta del Messia: “Credo con piena convinzione nella venuta del Messia”. Era proibito? No!

(Israel Heute, 26 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il leader di Hamas che guidò il massacro? Era un dipendente Unrwa

L’Idf mostra i documenti trovati nella Striscia di Gaza. Cosa dirà adesso l’Onu? Chi era il terrorista ucciso dai raid israeliani.

di Michael Sfaradi

Il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato l’uccisione di Muhammad Abu Attawi l’uomo di Hamas che ha guidato il massacro al rifugio vicino al Kibbutz Re’im. Durante questo attacco furono uccisi barbaramente 16 civili e 4 presi in ostaggio, tra cui Hersh Goldberg-Polin, ucciso il mese scorso da Hamas. Ma oltre a capo terrorista, qual era l’occupazione ufficiale di Muhammad Abu Attawi? Dipendente dell’Unrwa.
  Pertanto, l’attacco al rifugio vicino al Kibbutz Re’im è stato guidato da un dipendente dell’Onu, il famoso organismo internazionale nato per salvaguardare la pace nel mondo e che oltre a condannare Israele un giorno sì e l’altro pure ha anche terroristi assassini nel libro paga. A dirlo non sono io ma la stessa Unrwa che, davanti all’evidenza, ha confermato che il terrorista affiliato ad Hamas Muhammad Abu Attawi, ucciso mercoledì dall’Idf, era un suo dipendente.
  L’Idf e Shin Bet hanno comunicato che Attawi, comandante della Forza Nukhba di Hamas, era impiegato dall’Unrwa dal luglio 2022 anche se oltre a quella di terrorista assassino non si è mai capito quale fossero le sue mansioni, oltre a ritirare lo stipendio, in seno all’organizzazione delle Nazioni Unite. Secondo l’IDF Muhammad Abu Attawi era il comandante della Brigata al-Burij dei Campi Centrali e ora sono stati resi noti i documenti che lo dimostrano.
  L’Unrwa ha confermato che il nome di Attawi era anche incluso in una lettera che l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi ha ricevuto da Israele già a luglio del 2024, lettera che includeva un elenco di 100 membri del personale che facevano anche parte di gruppi armati, tra cui Hamas. Il portavoce dell’Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha aggiornato i media stranieri in merito alle malefatte dei dipendenti Unrwa affermando che Israele ha chiesto chiarimenti urgenti ai funzionari delle Nazioni Unite riguardo al coinvolgimento degli operatori dell’UNRWA nel massacro del 7 ottobre. Chiarimenti che stentano ad arrivare: forse Philippe Lazzarini, il Commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente, ancora non ha capito bene quale pezza usare questa volta per coprire ciò che l’organizzazione che dirige ha combinato nella Striscia di Gaza negli ultimi anni?
  Una cosa è certa, fra Unrwa nella Striscia di Gaza e Unifil nel sud del Libano probabilmente anche la stessa Onu dovrebbe dichiarare se non bancarotta almeno un fallimento su tutti i fronti.
  Ma questo non può comunque accadere perché il suo segretario, António Guterres, quello che ogni volta che sente la parola Israele ha un capogiro, è attualmente impegnato a prostrarsi davanti a Putin dimenticando, si fa per dire, che sul suo ospite di prestigio pende un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale, altro organo che dipende dall’organizzazione che di cui è segretario. Come diceva Ennio Flaiano la situazione è grave ma non è seria.

(Nicola Porro, 26 ottobre 2024)

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Israele elimina terrorista di Hamas e Guterres piange per la morte del “collega”

di Iuri Maria Prado

Sbaglierebbe chi pensasse che il segretario generale dell’Onu, António Guterres, sia ormai fuori controllo. È invece perfettamente in sé, e semplicemente esibisce ed esercita in modo sempre più tronfio l’impunità ormai assoluta di cui gode nel lasciarsi andare ai suoi spropositi. Ma il problema non è lui, un disinvolto procuratore di interessi torbidi, a cominciare dal proprio. Il problema è la platea che gli tiene bordone e continua a legittimarlo mentre abbraccia il dittatore Aljaksandr Lukašenka, o quando denuncia l’uccisione dell’ennesimo assassino dell’Unrwa deplorando l’ingiusta fine “di un altro collega”.

• IL “COLLEGA” AUTISTA UNRWA
La notizia che il “collega” fosse un certo Mohammad Abu Itiwi, il quale avrebbe partecipato ai massacri e ai rapimenti del 7 ottobre, compreso quello di Hersh Goldberg-Polin, non era abbastanza urgente affinché Guterres si astenesse dal rilasciare quella impudente dichiarazione. Né era abbastanza grave da fargliela correggere, quando gli è stato rinfacciato lo scandalo di un’organizzazione internazionale che non solo tiene nei propri ranghi un capo terrorista, ma addirittura ne fa l’elogio funebre che si riserva a uno di famiglia. Chiunque ritenesse eccessiva la decisione israeliana di passare per “persona non gradita” il segretario generale dell’Onu dovrebbe tuttavia concordare sul fatto che questo signore conduce – non da oggi – una inesausta campagna di contestazione e delegittimazione dello Stato Ebraico, a cominciare dall’oltraggio antisemita secondo cui i gli eccidi del 7 ottobre “non venivano dal nulla”.
  Ma praticamente nessuno lo ha tenuto responsabile di quell’oscenità, anzi essa è stata reiteratamente riproposta a destra e a manca nelle giudiziose occasioni contestualizzanti secondo cui, certo, quegli eccidi erano “inaccettabili”, ma non dimentichiamo i Territori Occupati, non dimentichiamo le violenze dei coloni, non dimentichiamo i ministri fondamentalisti, non dimentichiamo che i ragazzi del Nova Festival (è stato detto anche questo) “ballavano ai margini di un campo di concentramento”. Ma occorre poi considerare – e pare che nessuno lo consideri – che questa ormai innegabile attività di copertura che il segretario generale dell’Onu, sempre più sfacciatamente, dedica alle compromissioni delle proprie agenzie con le organizzazioni terroristiche ha un fine anche più bieco rispetto alla semplice autodifesa conventicolare.

• UN PO’ ONU, UN PO’ HAMAS
I proclami di giorni addietro sulla “indispensabilità” e “insostituibilità” dell’Unrwa, l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, venivano sulla scorta di notizie sempre più gravi circa le inefficienze (è un eufemismo) e a proposito della mancanza di controlli (è un’altra definizione soffice) di cui quel carrozzone si rende responsabile nell’assunzione di personale a mezzo servizio con Hamas, nella destinazione delle risorse a un sistema educativo che ha per pilastro l’indottrinamento al martirio dei bambini palestinesi, nell’acquiescenza davanti al comprovato uso, da parte dei terroristi, delle strutture delle Nazioni Unite a mo’ di bunker, depositi di armi e centri di comando.
  Dunque, sì. Il fiume di miliardi che si ingolfa nei possedimenti mediorientali dell’Onu e poi si perde negli intrichi di Gaza e della West Bank è certamente “indispensabile” e “insostituibile”: ma molto poco per i fini dichiarati e per la popolazione che dovrebbe avvantaggiarsene, e molto più per le dirigenze corrotte che ne fanno il mezzo di finanziamento delle proprie architetture sotterranee. Per questo António Guterres chiama “collega” il proprio dipendente accusato di essere un macellaio. Perché chiamarlo collega gli consente di rimpiangerne l’insostituibile lavoro.

(Il Riformista, 26 ottobre 2024)

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Israele vuole spezzare il legame tra Assad e l'Iran

L'insistenza di Israele nel colpire obiettivi dell'Iran in Siria e di interrompere, con raid aerei sui valichi di confine siro-libanesi, i rifornimenti di Hezbollah, lungo i corridoi tra la Bekaa e le regioni di Homs e Damasco, può avere, secondo analisti e diplomatici, un duplice obiettivo: prosciugare le risorse logistiche del Partito di Dio e spingere il presidente siriano Bashar al Assad a prendere le distanze dal suo storico alleato iraniano.
  Nel corso del primo anno di guerra, Assad non si è esposto troppo pubblicamente a sostegno dell'Asse della Resistenza, di cui il suo potere fa parte da decenni. Come ricorda Aymenn Tamimi, Assad non ha neppure mai impedito a Hezbollah di transitare sul suo territorio per collegare l'Altopiano iranico al Mediterraneo. Eppure dal lato siriano delle Alture del Golan contese con Israele, le fazioni armate filo-Hezbollah non hanno ancora aperto un nuovo fronte contro il nemico.
  Secondo Ibrahim Hamidi, analista siriano basato all'estero, quando il ministro degli esteri iraniano, Abbas Araghchi, si è recato di recente a Damasco, Assad ha insistito nel tenere fuori il Golan dall'escalation in corso. Per questo ci si interroga, come fa Hamidi, se il raìs siriano intenda smantellare l'alleanza di lunga data con l'Iran o se stia inviando segnali contrastanti «per testare le acque della diplomazia regionale».
  Fonti diplomatiche europee a Damasco, interpellate dall'ANSA, non hanno dubbi nel dire che «tutti gli attori dell'area si stanno preparando per un significativo cambiamento degli equilibri regionali». In questo senso, per Assad «potrebbe ora passare l'ultimo treno utile» per affrancarsi dall'abbraccio di Teheran.
  Secondo altre fonti diplomatiche occidentali a Beirut, la dirigenza siriana è da mesi corteggiata dagli Stati Uniti e dalle forze arabe del Golfo, vicine a Washington e a Israele, perché si allontani da Teheran. In cambio, affermano le fonti, Assad otterrebbe la tanto attesa riabilitazione da parte dell'Occidente, con la conseguente rimozione delle sanzioni americane ed europee.
  Il governo siriano però è stato già in parte riabilitato in seno alla Lega Araba. Inoltre, sei anni fa gli Emirati Arabi Uniti hanno riattivato le relazioni con Damasco, così come l'Arabia Saudita lo ha fatto negli anni scorsi.
  Questi segnali indicano - affermano le fonti diplomatiche in Siria - che Assad non debba necessariamente rinunciare all'Iran per tenere aperti canali di dialogo con l'occidente. Anche perché, ricorda Hamidi, gli iraniani non hanno mai esitato a mettere a tacere alleati che sfidano il loro potere. In questa dinamica la Russia svolge un ruolo chiave ed è indicata come la vera potenza dietro al potere di Assad: da dieci anni è presente militarmente nel paese con due basi militari chiave nel Mediterraneo, e gode di un'alleanza tattica sia con l'Iran che con Israele.
  Analisti e diplomatici concordano nel dire che Mosca potrebbe spingere per un allontanamento di Assad dall'Iran, ma in cambio la Russia chiederebbe una contropartita agli Stati Uniti da ottenere sugli altri teatri del confronto globale.

(Corriere del Ticino, 26 ottobre 2024)

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L’ultima lettera di Sinwar: “Proteggete gli ostaggi, sono merce di scambio”
Nelle tre pagine, scritte a mano di fretta, il capo di Hamas, morto in un raid israeliano, raccomanda di “prendersi cura dei prigionieri” e stila un elenco con nomi, età e sesso di 71 persone.
ROMA – A meno di dieci giorni dall’uccisione in un raid israeliano del capo di Hamas, Yahya Sinwar, emergono alcuni documenti segreti pubblicati dal quotidiano palestinese Al-Quds. Tra questi tre pagine scritte a mano, di fretta dal “macellaio di Gaza”, come era anche chiamato una delle menti del sanguinoso attacco del 7 ottobre.
Quei documenti segreti potrebbero essere gli ultimi ordini impartiti da Sinwar, prima di essere ucciso per caso in un raid dell’Idf su Gaza. O, perlomeno, gli ultimi ordini di cui si ha traccia scritta. Si tratta di istruzioni per la gestione dei prigionieri israeliani. Nei documenti alcune note sono state censurate, ma in quelle rimaste visibili si legge ad esempio l'ordine di "prendersi cura della vita dei prigionieri nemici e di proteggerli, poiché sono la merce di scambio nelle nostre mani".
In un altro punto Sinwar dice ai suoi miliziani che l'unico modo per liberare i prigionieri palestinesi è quello di sorvegliare "i prigionieri del nemico". Nelle tre pagine ci sono anche altri dettagli su 71 ostaggi, tra cui nomi, età e sesso, in particolare delle prigioniere più anziane. Il primo documento è scritto su un foglio di carta per appunti intestata ad Al-Arqam Commercial Printing Company, e comincia con il versetto 4 della Sura Muhammad: "e in seguito o liberateli come favore o in cambio di un riscatto".

(Quotidiano Nazionale, 25 ottobre 2024)

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Blinken cerca (ancora) in Qatar una sponda per un cessate il fuoco a Gaza

Blinken continua a insistere con il maggior finanziatore di Hamas che non ha nessun interesse alla liberazione degli ostaggi.

Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato che i negoziatori si incontreranno di nuovo a breve per cercare di garantire un accordo per il cessate il fuoco e sugli ostaggi, mentre chiede ancora una volta a Israele e Hamas di raggiungere un accordo dopo aver incontrato i funzionari del Qatar a Doha.
“Abbiamo parlato delle opzioni per capitalizzare questo momento e dei prossimi passi per portare avanti il processo, e prevedo che i nostri negoziatori si riuniranno nei prossimi giorni”, ha dichiarato Blinken ai giornalisti.
Secondo lui, Israele ha raggiunto gli obiettivi strategici che si era prefissato all’inizio della guerra, poco più di un anno fa: Assicurarsi che il brutale massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 non possa più ripetersi, smantellando di fatto l’organizzazione di Hamas e consegnare i suoi leader alla giustizia.
Alla domanda se i negoziatori stiano studiando nuove formule, Blinken risponde: “Una delle cose che stiamo facendo è valutare se ci siano diverse opzioni da perseguire per arrivare a una conclusione. Ne stiamo parlando con gli altri mediatori in Egitto e Qatar, e questo è un aspetto che i negoziatori [statunitensi e israeliani] discuteranno quando si riuniranno”.
“Non abbiamo ancora determinato se Hamas sia pronto a impegnarsi, ma il prossimo passo è riunire i negoziatori… sicuramente ne sapremo di più nei prossimi giorni”.
Ha inoltre annunciato altri 135 milioni di dollari in aiuti per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, portando il totale degli Stati Uniti a 1,2 miliardi di dollari da quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha scatenato la guerra.
Il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, il cui Paese è mediatore insieme agli Stati Uniti e all’Egitto, ha dichiarato durante la conferenza stampa che una delegazione americana incontrerà presto a Doha i negoziatori israeliani.
“Discuteremo i mezzi per raggiungere una svolta in questi negoziati”, ha dichiarato.
Il leader qatariota afferma inoltre che Doha ha recentemente “ripreso i contatti” con Hamas dopo che il suo leader, Yahya Sinwar, è stato ucciso da Israele a Gaza all’inizio del mese, e che la posizione del gruppo terroristico palestinese non è cambiata.
Non ha voluto rispondere se Doha sia d’accordo con gli Stati Uniti sul fatto che Sinwar sia stato il principale ostacolo a un accordo e ha dichiarato che la politica di Doha, in qualità di mediatore, è quella di non attribuire pubblicamente colpe a nessuna delle due parti.
Nel corso dei negoziati, tuttavia, Doha ha ripetutamente criticato Israele per la sua prosecuzione della guerra a Gaza.

(Rights Reporter, 25 ottobre 2024)

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Il mondo capovolto

di Niram Ferretti

L’apocalisse è prossima, ce lo dice Lucio Caracciolo, direttore di Limes, e se ce lo dice lui, possiamo evitare gli scongiuri, perché in genere le sue predizioni, spacciate per analisi, non diventano mai realtà, come quando, nel salottino di Lilli Gruber, all’inizio della guerra a Gaza, predisse per gli israeliani una sorta di Vietnam, sangue grondante a iosa versato da jihadisti pronti al martirio senza se e senza ma. Ma veniamo alla nuova predizione sciorinata su Repubblica. Il titolo dell’articolo già dice tutto, “La guerra suicida di Israele”.
  Israele si starebbe suicidando, e lo sta facendo perché, preda di un furore bellico assoluto, di una hybris guerrafondaia scomposta, ha allargato il fronte della guerra, vuole annientare il Nemico, l’Iran, e “sopravvive alla giornata”. Ma perché lo fa, cosa lo motiva? “una ragione indicibile”. Quale? “il terrore della guerra civile”. Per Caracciolo Israele è forse come la ex Jugoslavia, ulcerato e lacerato, pronto ad esplodere, e si sa, quando un paese è sull’orlo dell’abisso per cause endogene, avere delle cause esogene per distrarsi è solo un bene.
  Le manifestazioni di piazza che hanno caratterizzato i mesi prima del 7 ottobre, tutte contro la riforma della giustizia varata dal governo Netanyahu devono essere, per il direttore di Limes, il segno evidente di una guerra civile potenziale, e non il sintomo parossistico di una opposizione che lavora fin dall’insediamento del governo in carica per farlo cadere e liberarsene con aiuto americano.
  No, la guerra civile è prossima, e quella esterna serve quantomeno a rinviarla. Diversamente da Nostradamus,  Caracciolo non fissa una data per il suo accadere, si limita solo a predirla, il tempo gli darà ragione.
  A corollario c’è l’antisemitismo montante che è causato dalla guerra e che colpisce la Diaspora. In questo modo Israele rinnega se stesso, rinnega la sua ragione esistenziale, l’essersi costituito come Stato protettore degli ebrei, di tutti, non solo quelli che ci vivono. Che fare?, avrebbe detto Černyševskij. Caracciolo non lo dice, ma è sotteso. Non combattere, oppure chiudere in fretta il fronte bellico, a che prezzo? Non si sa. Si sa che però la guerra contro i terroristi, contro i delegati iraniani genera antisemitismo. Questo basti, basta, il resto è fuffa.
  L’Iran, che gli ingenui e gli sprovveduti pensano che Israele debba mettere nelle condizioni di non nuocere è invece un alleato, serve alla furia bellicista di Israele, le è consustanziale. Senza Nemico come si può fare la guerra, mobilitare la nazione? Netanyahu o chi per lui, ha letto Carl Schmitt e ne applica la lezione. Non è finita. Gli USA, l’alleato principale, l’unico che veramente conta serve solo a sostenere economicamente e militarmente, poi Israele, dopo avere arraffato, fa di testa sua, come nel ’56 per esempio, o nel ’67, o ancora nel 73, e poi con gli Accordi di Oslo del 1993-1995, quando, in tutti i casi, Israele dovette ottemperare ai desiderata americani, alle imposizioni, ma quando invece cerca, come in questo caso, di scrollarsele di dosso, allora viene fuori il tropo antisemita degli ebrei sfruttatori di risorse. Ne era fortemente convinto anche Hitler.
  C’è poi la deterrenza, non può funzionare con i terroristi agitati da “frenetica vocazione al martirio”. Dove, di grazia, sarebbero i “martiri”?, forse Sinwar in fuga? Haniyeh che viveva a Doha, Meshal? più probabile i miliziani di Hamas, quel che ne resta, come il giorno, ormai allo stremo a Gaza, o forse gli sciiti di Hezbollah. Chissà. Tuttavia non è necessario “sterminarli tutti” per avere la meglio, esito massimalista e volutamente iperbolico teso a sottointendere l’impraticabilità della vittoria, è sufficiente sterminarne il quantitativo necessario a depotenziarne cospicuamente la capacità offensiva, come è stato per Al Qaeda o per l’ISIS.
  Che dire? Basterebbe un po' di realismo o di logos assestato bene, il che permetterebbe di ribaltare per il verso giusto, cioè mettendolo con i piedi in terra e la testa in alto, il mondo capovolto di Caracciolo, allora si vedrebbe chiaramente, e non a testa in giù, che il Nemico esiste ed è Israele per tutti coloro che vogliono distruggerlo, in primis l’Iran e i suoi delegati regionali e poi tutti i suoi fiancheggiatori, di cui molti, troppi, occidentali. Si vedrebbe che per impedire che questo avvenga, Israele ha dovuto e deve, dal 7 ottobre scorso, combattere una guerra che si è divaricata su molteplici fronti, non perché come, afferma Caracciolo, Israele lo abbia scelto, ma perché così gli è stato imposto. Si vedrebbe altresì che l’antisemitismo, da che mondo e mondo, non sono gli ebrei a generarlo, tesi cara a tutti gli antisemiti, ma sono coloro che li odiano, e continuando a vedere dalla prospettiva giusta, con i piedi a terra e la testa in alto, apparirà chiaro come Israele non abbia bisogno di nemici esterni per scongiurare immaginarie guerre civili, perché se Caracciolo sapesse un po’, ma solo un po’, che cos’è Israele e come sono gli ebrei, saprebbe che le “guerre” interne nel mondo ebraico, sono state una costante dagli albori ad oggi, ma che, nonostante le lacerazioni, a volte anche tremende, si è sempre andati avanti, come si andrà avanti ancora, anche se questo dispiacerà a molti.

(L'informale, 25 ottobre 2024)
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L'antisemitismo, non sono gli ebrei a generarlo, ma coloro che li odiano, dice l'autore. Verissimo: l'antisemitismo è una malattia dei gentili, non degli ebrei. Dovrebbe essere evidente, ma l'odio acceca chi ha scelto di odiare. M.C.

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La comunità ultraortodossa in Israele e il servizio militare

di Ariel Winkler

Nel cartello: «Senza la Torah non c'è futuro ebraico»
HAIFA - Se proviamo a considerare il popolo ebraico - il popolo eletto da Dio - come un'unità, ci rendiamo subito conto che non è omogeneo. Fin dall'inizio, il popolo era diviso in tribù, famiglie e clan (Giosuè 7:1, 14). Queste tribù spesso non andavano d'accordo tra loro e addirittura combattevano tra loro (Giudici 12). Nel corso del tempo, il popolo ebraico è cambiato, ma il proverbio ebraico è rimasto vero: “Dove ci sono due ebrei, ci sono tre opinioni”.
   Il popolo ebraico è composto da diversi gruppi, che oggi possono essere differenziati teologicamente: Ebrei ortodossi, sionisti religiosi, tradizionalisti, laici e atei (cfr. Atti 23,6). È anche possibile classificare i diversi campi del popolo in base alle opinioni politiche: Sionisti e post-sionisti, di destra e di sinistra, capitalisti e socialisti, e altro ancora (cfr. Matteo 22,16).
   Queste differenze rappresentano una sfida in ogni società, soprattutto in Israele. Una delle questioni più scottanti che la società israeliana deve affrontare è la posizione della società ultraortodossa e la sua integrazione in Israele. La questione è stata esacerbata dalla guerra a Gaza e dalle tensioni al confine settentrionale. La pressione sulla comunità ultraortodossa affinché partecipi pienamente allo sforzo bellico sta crescendo alla luce dei sacrifici compiuti dalla popolazione generale. Allo stesso modo, cresce la necessità di condividere l'onere economico dei costi della guerra (già stimati in circa 250 miliardi di NIS nel giugno 2024).
   Per capire l'origine della sfida, bisogna comprendere le origini della comunità ultraortodossa e le sue origini. L'ebraismo ultra-ortodosso è emerso in Europa (soprattutto nell'Europa centrale e orientale) come reazione agli sviluppi sociali che hanno portato la modernizzazione, la rivoluzione industriale e l'emancipazione nella società europea a partire dal XVIII secolo - che non si sono fermati alla comunità ebraica. Invece di affrontare i cambiamenti sociali e tecnologici, gli ebrei ultraortodossi passarono al conservatorismo. Il motto cominciò a essere: “Il nuovo è proibito dalla Torah”. In questo modo è emerso il concetto che la Torah, insieme al Talmud e alle scritture ebraiche, proibisce il nuovo e conserva il vecchio. Questa reazione non è esclusiva dell'ebraismo, ma si riscontra anche in altri gruppi religiosi come gli Amish e altri ancora.
   Gli ultra-ortodossi hanno ripercorso in maniera ancora più forte i processi che l'ebraismo aveva già affrontato dopo la distruzione del Secondo Tempio. La prima e più importante posizione dello studioso, chiamata “Torato Umanuto” (“Torah come professione” - Umanuto si traduce come arte/professione/master) acquisì importanza. Il Beit Midrash (casa dell'apprendimento) e lo studio del Talmud e di altre tradizioni ebraiche presero il posto del precedente servizio al Tempio. Ecco perché i rabbini e gli studiosi di halacha (studiosi della Torah) occupano il vertice della piramide sociale. Sono loro che dettano ogni elemento della vita di un individuo nell'ebraismo ultraortodosso, adottando halachot (leggi) e aggiungendo ulteriori e rigide hatlachot volte a proteggere la società da influenze esterne e a mantenere il controllo sugli individui e sulla comunità.
   Allo stesso tempo, iniziò un processo di segregazione e isolamento. Si formarono tribunali di chassidim attorno a grandi studiosi di halacha. La comunità ultraortodossa ha adottato un abbigliamento uniforme nero con una kippah nera e ha stabilito molte altre regole per la vita quotidiana. La segregazione ha creato dei ghetti in cui si è concentrata la comunità ultraortodossa. Oggi, la maggior parte dei centri ultraortodossi in Israele si trova a Gerusalemme, Bnei Brak, El'ad, Beitar e altri ancora. All'estero, centri ultraortodossi si trovano negli Stati Uniti (ad esempio a Brooklyn), in Belgio, in Gran Bretagna e in Francia.
   Nel XIX secolo, la comunità ultraortodossa in Israele dipendeva completamente dal sostegno dei benefattori stranieri. Ogni comunità inviava un rappresentante nelle comunità ebraiche all'estero per raccogliere donazioni. Di conseguenza, la maggior parte degli ebrei ultraortodossi in Israele viveva in povertà.
   Oggi la popolazione ultraortodossa è divisa in due gruppi principali, che si differenziano per il loro rapporto con il mondo esterno. In Israele, la comunità ultraortodossa persegue un approccio che enfatizza l'autonomia del sistema educativo e la segregazione, facendo affidamento sull'assistenza statale e sui benefattori. All'estero la maggioranza della comunità si concentra sull'integrazione nel mercato del lavoro, mantenendo un sistema educativo indipendente e la segregazione.
   Quando è iniziata l'immigrazione ebraica in Israele a seguito del movimento sionista, sono sorte tensioni tra i residenti della vecchia comunità ultraortodossa e gli ebrei sionisti. Il motivo è da ricercare negli sforzi dei sionisti di integrare e secolarizzare gli ebrei in Israele e di creare un proprio Stato nazionale. Gli ultraortodossi, invece, vedevano la fondazione di uno Stato ebraico come parte dell'era messianica, che sarebbe iniziata solo con la venuta del Messia. Più il movimento sionista si sviluppava, più queste tensioni aumentavano e gli ultraortodossi diventavano sempre più rigidi nel sostenere che nessuno Stato ebraico avrebbe dovuto essere fondato fino alla venuta del Messia.
   Ciononostante, la comunità ultraortodossa cercò di affrontare questi cambiamenti. Alcuni cominciarono a vedere la creazione di uno Stato ebraico in Israele come un passo importante prima della venuta del Messia. Ne è un esempio Menachem Eichenstein, un ebreo ultraortodosso che partecipò al movimento clandestino ebraico Lehi (Combattenti per la libertà di Israele). I rappresentanti della comunità ultraortodossa raggiunsero un accordo con il movimento sionista, da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele, che regolava le relazioni tra lo Stato e gli ultraortodossi. Questo accordo è noto anche come “Documento sullo Status Quo”, formulato in una lettera presentata da David Ben-Gurion all'Agudat Israel (rappresentanti della comunità ultraortodossa in Israele) nel 1947. Questo documento faceva parte degli sforzi di Ben-Gurion per unire la società ebraica in Israele e presentare la visione di uno Stato nazionale ebraico alla Commissione di partizione delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947.
   A causa del desiderio di Ben-Gurion di dimostrare l'unità della società ebraica in Israele, egli era disposto a fare concessioni in diversi settori: dichiarò che lo Stato sarebbe stato vincolato dalla legge ebraica ultra-ortodossa. Nella lettera stessa, egli menzionò specificamente il sabato e la kashrut (leggi alimentari). Inoltre, alla comunità ultraortodossa fu concessa l'autonomia per un sistema educativo indipendente.
   Nel 1948, quando fu fondato lo Stato d'Israele e durante la mobilitazione generale della Guerra d'Indipendenza, i leader ultraortodossi chiesero addirittura che gli studenti ultraortodossi delle yeshiva fossero arruolati nell'esercito, ma il piano fu respinto. Nel 1951, Ben Gurion accettò di esonerare dal servizio militare gli studenti delle yeshiva - che erano circa 400.
   La popolazione ultraortodossa ha un tasso di natalità molto alto, per cui oggi rappresenta circa il 13,6% dei cittadini israeliani. Di questi, circa il 58% ha un'età inferiore ai 19 anni. Questo aumento ha un impatto su diversi aspetti. L'influenza politica dei partiti ultraortodossi è cresciuta, con circa il 15% dei membri della Knesset che ora rappresentano gli ultraortodossi. Anche i budget destinati alla popolazione ultraortodossa sono aumentati (per il sistema educativo, per le yeshivas, per l'assistenza sociale). Grazie a sussidi e donazioni, la percentuale di uomini ultraortodossi sul mercato del lavoro è molto bassa. Anche tra coloro che scelgono di lavorare, molti sono impiegati nella comunità o in professioni religiose come rabbini, supervisori della kashrut e altro. Per questo motivo l'onere economico per la popolazione generale che sostiene la società ultraortodossa è molto elevato.
   Israele ha vissuto guerre difficili che hanno portato la popolazione a chiedere la partecipazione della società ultraortodossa agli oneri economici e di sicurezza. Ciò è accaduto negli anni '70 dopo la guerra dello Yom Kippur, quando gli ultraortodossi costituivano il 2,4% delle reclute. Mentre la popolazione ultraortodossa cresceva, l'onere militare per Israele è aumentato negli anni '80 con la Prima guerra del Libano. La presenza dell'esercito israeliano nel sud del Libano e la morte di molti soldati che difendevano il nord di Israele negli anni '90 hanno aumentato la pressione sulla società ultraortodossa a partecipare. E man mano che la guerra di Gaza, una delle più lunghe di Israele, proseguiva, le richieste di mobilitare la società ultraortodossa per sostenere l'onere economico e militare diventavano sempre più forti.
   In passato, l'esenzione degli studenti della yeshiva dal servizio militare non era regolamentata ufficialmente. Funzionava sulla base dello status quo ed era regolata da norme emanate dal Ministro della Difesa. Nel 1998, il tribunale ha stabilito che questo regolamento, chiamato “Torato Umanuto”, era incostituzionale perché violava il principio di uguaglianza. Da allora, i rispettivi governi israeliani hanno fatto diversi tentativi di approvare leggi che regolassero la questione. Alcuni hanno cercato di imporre l'arruolamento degli ultraortodossi, altri hanno tentato di emanare un'esenzione generale per l'intera popolazione ultraortodossa. Entrambi gli approcci hanno incontrato resistenza: i partiti ultraortodossi hanno insistito per un'esenzione e hanno persino rovesciato dei governi per questa disputa. Al contrario, i partiti di centro e di sinistra hanno cercato di far passare la coscrizione universale, ma non sono riusciti ad approvare la legge sulla coscrizione. Anche quando la legge è stata approvata, è stata annullata dal tribunale non appena sono state presentate petizioni contro di essa.
   La guerra di Gaza ha intensificato in modo straordinario le richieste di arruolamento da parte della comunità ultraortodossa. A causa della durata della guerra, i riservisti hanno dovuto essere richiamati in servizio per un periodo di tempo prolungato. - Molti dei caduti in guerra sono riservisti. - Allo stesso tempo, i militari hanno chiesto al governo e al parlamento di estendere il servizio regolare dei soldati attivi per far fronte allo sforzo. La coscrizione degli ultraortodossi avrebbe potuto evitare la necessità di queste due misure, o almeno ridurne il peso.
   Nel 1948 erano circa 400 le persone che avevano sospeso il servizio in base al “Torato Umanuto”, e nel 2000 erano più di 50.000 quelle che avevano sospeso il servizio in base a tale disposizione. Il reclutamento di circa 1000 studenti di yeshiva potrebbe far risparmiare allo Stato di Israele oltre 1 miliardo di NIS, mentre i riservisti perderebbero migliaia di giorni di servizio. In altre parole, la coscrizione non solo sostiene l'onere militare, ma sostiene anche il Paese dal punto di vista finanziario.
   Dopo anni di tentativi di regolamentare un'esenzione da un lato e di far rispettare la coscrizione degli studenti delle yeshiva dall'altro, dopo numerose udienze in tribunale e molti ritardi, in estate il tribunale ha deciso di far valere il principio di uguaglianza e di applicare la legge sulla coscrizione a tutta la popolazione - soprattutto alla comunità ultraortodossa. E senza un regolamento che esenti gli studenti della yeshiva dal servizio militare, l'esercito può ora iniziare ad arruolare gli studenti della yeshiva. Infatti, i primi ordini di chiamata sono stati inviati alla comunità ultraortodossa a metà luglio 2024.
   Uno dei motivi per cui la comunità ultraortodossa si oppone con tanta veemenza al reclutamento è il desiderio di mantenere i giovani nella società. Il servizio militare è una sfida anche per i cristiani. La separazione dalla famiglia, dalla comunità e dal sostegno dei circoli sociali è una prova per la vita di fede dei giovani arruolati nell'esercito. Allo stesso modo, la comunità ultraortodossa teme di perdere i suoi giovani per il mondo durante il servizio militare. Questo è ancora più preoccupante per loro perché circa il 20% dei giovani lascia la comunità ultraortodossa anche senza il servizio militare.
   Possiamo trarre una lezione da questo problema. Come gli ultraortodossi, anche noi ci preoccupiamo dei nostri figli e vogliamo proteggerli dal mondo e dalle sue influenze. Ma a differenza degli ultraortodossi, la Parola di Dio non ci insegna a fuggire dal mondo; al contrario, ci dice di andare nel mondo e fare discepoli (Matteo 28:19-20). Invece di chiuderci in noi stessi e separarci dal mondo, dobbiamo formare il popolo di Dio per annunciare e insegnare il Vangelo (2 Timoteo 3:10-17). Dobbiamo indossare tutta l'armatura che Dio ci dà (Efesini 6,10-17) e preparare i nostri figli alle sfide per essere una luce nel mondo!

(Nachrichten aus Israel, ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Parashà di Bereshìt: “Tohu e Bohu”

di Donato Grosser

La Torà inizia con le parole: “In principio Dio creò cielo e terra. E la terra consisteva di tohu e bohu…” (Bereshìt, 1:1-2). Qual è il significato delle parole tohu e bohu?
    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (Bereshìt, p. 3) cita il Midràsh (Bereshìt Rabbà, 1:9) dove è detto che la materia amorfa primordiale era anch’essa parte della creazione. R. Soloveitchik aggiunge che la scienza non ha nulla da dire sull’origine della materia. Il concetto della creazione dal nulla non è scientifico ma metafisico. Platone non poté accettare la possibilità che la materia fisica fosse stata creata da un Essere spirituale. Nello stesso modo, Aristotele riteneva che la materia precedesse la creazione. Essi insistevano che Dio poteva essere solo uno “Yotzèr”, un modellatore di materia preesistente, ma non un “Borè”, un creatore della materia stessa.
    Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) nel suo commento alla parashà scrive: “Ora ascolta la spiegazione corretta e chiara del versetto nella sua semplicità. Il Santo Benedetto, creò tutte le cose dal nulla assoluto. Ora non abbiamo alcuna espressione nel linguaggio sacro per far emergere qualcosa dal nulla se non la parola “barà” (creare). Tutto ciò che esiste sotto il sole o sopra di esso non è stato creato fin dall’inizio dal nulla. Invece Egli creò dal nulla totale e assoluto una sostanza molto sottile priva di corporeità ma dotata di potenziale, adatta ad assumere forma e a procedere dalla potenzialità alla realtà. Questa era la materia primaria creata da Dio; è chiamata dai Greci hyly (materia, nella lingua sacra si chiama “tohu”). Dopo l’hyly, Egli non creò più nulla, ma formò e fece cose con essa, e da questa hyly portò ogni cosa all’esistenza e rivestì le forme e le mise in una condizione finita”.
    R. Raphael Pelcovitz (Canton-Ohio, 1921-2018, New York) che tradusse e commentò il commento di r. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) scrive che r. Sforno spiega i due termini tohu e bohu nel modo seguente: la materia era stata creata da Dio. La materia, come tale, era allo stato potenziale. Questa materia è chiamata tohu. Un idolo è chiamato tohu perché non ha sostanza. Bohu è la combinazione di due parole Bo e Hu, che significano “è in esso”. Bohu è la forma che contiene la materia primordiale. Il potenziale di Tohu divenne attuale tramite Bohu, la forma iniziale.
    R. Solovetchik afferma che accettare che la creazione è avvenuta dal nulla è di grande importanza perché indica che Dio è Onnipotente e che Egli è il Padrone dell’Universo che dirige secondo la Sua volontà. La Creazione assicura il fatto che Dio rimanga coinvolto con l’universo e, in particolare, con gli esseri umani la cui esistenza dipende da Suo continuo sostegno. Negare il concetto della Creazione dal nulla significa postulare un dualismo, ammettendo cioè l’esistenza eterna di qualcosa al di fuori di Dio.
    Nonostante che l’uomo non possa creare dal nulla, il messaggio spirituale del racconto della Creazione è che l’uomo dev’essere creativo. L’uomo deve sconfiggere le malattie, controllare i fiumi e alleviare la miseria. L’uomo deva anche educare. L’educazione è creatività per eccellenza. Un bambino, paragonato al tohu e bohu, viene trasformato in una personalità spirituale.
    Alla fine del primo capitolo, alle parole “E Dio completò nel settimo giorno l’opera che aveva fatto” (Bereshìt, 2:2), r. Soloveitchik commenta che Dio completò la Sua opera ma il mondo rimase incompleto. Quando Egli creò il mondo da tohu e bohu non rimpiazzò del tutto il caos. Permise che rimanesse qualcosa di questa entropia primordiale in modo che l’uomo, tramite i suoi sforzi, potesse eliminarlo. All’uomo fu dato questo grande compito di completare la Creazione.

(Bet Magazine Mosaico, 25 ottobre 2024)
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Parashà della settimana: Bereshit (In principio)

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L’ordine di Dio in contrasto con la confusione del nostro tempo

  Nella creazione del mondo, Dio mostra ordine. Crea la luce, il sole, la luna e le stelle. Crea l'acqua e la vita in essa. Crea la terra, le piante e gli animali su di essa. Infine, crea gli esseri umani, l'uomo e la donna. Quando Dio crea Adamo ed Eva, dà loro i mezzi necessari per vivere e governare il mondo:

    E Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Genesi 1:27).

E così riassume l'opera della creazione:

    E Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1,31).

Inoltre, Dio dà all'uomo il giusto ordine sociale:

    “Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne” (Genesi 2,24; cfr. Matteo 19,4-6).

La famiglia - con padre e madre - è il fondamento di ogni società umana. La storia dimostra che le società prosperano quando i valori della famiglia vengono privilegiati. Agli albori, la società romana era fiorente e caratterizzata dal successo. L'imperatore Augusto e sua moglie Livia lo capirono e promossero valori familiari immutabili. Il declino dell'Impero romano non iniziò a causa della pressione delle tribù germaniche sull'impero, ma quando i valori della famiglia vennero meno e aumentò il permissivismo sessuale. Questo processo fu accompagnato da edonismo e spreco di risorse.
  Il mondo occidentale di oggi ricorda Roma nel suo declino. Il permissivismo sessuale è diventato la norma con l'ascesa della comunità LGBTQ. I sistemi educativi del nostro mondo hanno abbracciato questa ideologia e stanno influenzando le menti dei giovani contro Dio. Il mondo è impegnato a convincere giovani e bambini che hanno bisogno di fare esperienze sessuali. Perverte l'amore di Cristo per i peccatori e invita alla tolleranza sostenendo che Gesù ha accettato i peccatori così come sono. Questo non è vero! Gesù ha chiamato i peccatori a pentirsi, non ha tollerato il peccato. Il mondo esige l'accettazione di ogni deviazione che nasce nei suoi pensieri contorti (Romani 1:18-32). Nel 1973 ha eliminato la definizione di omosessualità come devianza dalle definizioni di malattia mentale (DSM 1973). Stravolge il nostro linguaggio inventando i propri pronomi. Chiede l'abolizione della scienza e della biologia per imporre a tutti le sue deviazioni.
  Il mondo invoca tolleranza e accettazione, ma agisce con violenza e coercizione. Ne è un esempio la derisione del Messia alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi. Il paragone tra “L'ultima cena” di Leonardo da Vinci e un banchetto in onore del dio greco o romano Dioniso/Bacco, che rappresenta la promiscuità, la dissolutezza e l'ubriachezza, mostra il loro disprezzo e l'odio per Dio.
  Satana usa questa ideologia per attaccare Dio, chiedendo che vengano riconosciute altre “famiglie” come quella omosessuale, quella queer e una serie di altri stili di vita deviati. Le leggi costringono le istituzioni religiose ad accettare e benedire tale peccato come norma.
  Alcuni considerano i primi capitoli del libro della Genesi (Genesi 1-12) come  mito-fondante di Dio. Eppure, nei Vangeli, Gesù ha citato questi capitoli come un resoconto reale quando ha parlato del matrimonio e del divorzio. Il fondamento della società umana, come descritto da Dio nella creazione, è costituito dal padre e dalla madre. Noi credenti dobbiamo tener fede a questa verità, e non piegarci in nome di una distorsione della parola di Dio. Dobbiamo essere una luce nel mondo, non solo nella nostra vita, ma anche nella vita della nostra famiglia: come figli, padri, madri o nonni.

(Nachrichten aus Israel, ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La Festa dei Tabernacoli

A Sukkot, gli ebrei osservano il comandamento di riunirsi in capanne. Un rabbino ricorda la storia ebraica e spiega cosa si può imparare dal salice di ruscello

I visitatori ascoltano musica allegra nella sukkah
L'ultima sera della Festa dei Tabernacoli, un giorno prima della festa della gioia della Torah, Simchat Torah, un canto allegro e un colorato vociare si sprigiona da una sukkah. Ebrei di origine americana si riuniscono martedì sera nel romantico quartiere Nachlaot di Gerusalemme. Il rabbino Leibish Hundert crea una bella atmosfera con canzoni e una band.
  Canta canzoni tradizionali o le suona al sassofono. Tre uomini lo accompagnano alla chitarra, un altro suona la batteria. Decine di uomini e donne cantano con entusiasmo le melodie conosciute. Tra un brano e l'altro, altri musicisti entrano in scena e suonano a turno.
  Il rabbino Hundert parla ai presenti: “I nostri nemici stanno cercando di cancellare la nostra storia. Fanno finta che non esistiamo e che non abbiamo né storia né futuro. Ma noi abbiamo una storia, anche molto speciale. E oggi possiamo raccontarla qui a Sion”.

• L'INSEGNAMENTO DEL SALICE DI RUSCELLO
   Alla festa dei Tabernacoli, è consuetudine per gli ebrei devoti portare con sé gli “Arba Minim”, le quattro specie. Questo si rifà ai versetti biblici del Levitico 39-40: “Il quindicesimo giorno del settimo mese, quando porterete i frutti della terra, farete una festa al Signore per sette giorni. Il primo giorno è un giorno di riposo e l'ottavo giorno è un giorno di riposo.Il primo giorno prenderai frutti da alberi belli, fronde di palma e rami di alberi frondosi e salici, e ti rallegrerai davanti al Signore tuo Dio per sette giorni e farai una festa al Signore ogni anno per sette giorni”.
  Per le strade e durante le preghiere quotidiane nelle sinagoghe, rami di salice legati a rami di palma vengono sventolati nelle quattro direzioni insieme a un rametto di mirto e all'etrog, un cedro. Secondo la tradizione ebraica, le caratteristiche delle piante indicano i diversi gruppi di persone della nazione ebraica.
  Il rabbino di Beit Shemesh spiega: “Oggi è Hoshana Raba, il giorno dell'arava, il salice. Quest’albero apparteneva alle quattro specie e ci ha sempre accompagnato ovunque andassimo. Sia in Siberia che in America, ci ha accompagnato in ogni luogo. Il ramo non ha il sapore e l'odore dell'agrume etrog. Non ha il sapore del ramo di palma del Lulav, né il profumo del ramo di mirto. Quest’albero è semplicemente lì”.
  Hundert racconta felicemente nella sukkah: “Un interprete ebraico ha detto che anche l'etrog trae la sua forza solo dal ramo del salice di ruscello. Anche il più grande tzadik, il più giusto, a volte dimentica che non deve sempre fare tanto. Invece, può semplicemente essere. E chi è che ci ricorda che può semplicemente essere? Colui che non ha nulla da mostrare. Lo stesso avviene nel Tabernacolo. Qui ci è semplicemente permesso di essere. È come i genitori con i loro figli: I genitori amano guardare i loro figli mentre mangiano e dormono. Per il resto, i bambini sono semplicemente lasciati liberi di essere”.

• IL COMANDAMENTO DELL'OSPITALITÀ
   Invitando gli ospiti nella sukkah, i padroni di casa rispettano il comandamento dell'ushpisin, la parola aramaica che significa “ospiti”. Ogni sera viene commemorato uno diverso dei “sette pastori di Israele”: i tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, così come Giuseppe, Mosè, Aronne e il re Davide.
  I visitatori ascoltano attentamente le spiegazioni mentre mangiano stuzzichini o sorseggiano vino in bicchieri di plastica: “Come l'Arava, anche la Sukkah è una Mizva, un comandamento ad essere semplicemente. Questo è il messaggio del salice di ruscello per noi: non devi nemmeno avere un buon sapore o un buon odore, come le altre parti delle quattro specie. Vi è permesso di essere e non dovete fare nulla. Siamo qui - insieme agli amici”.

(Israelnetz, 24 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’Iran usa reti criminali europee per compiere attentati. E’ allarme

Gli iraniani stanno usando massivamente le reti criminali europee per compiere attentati. E' arrivato il momento di inserire l'IRGC nella lista delle organizzazioni terroristiche.

L’Iran utilizza i criminali, dai trafficanti internazionali di droga alla piccola criminalità, per compiere atti di terrorismo in Europa, con l’obiettivo di creare una disconnessione tra l’Iran stesso e i veri autori. Lo scrivono Matthew Levitt e Sarah Bushes del Washington Institute, un istituto di ricerca indipendente che si concentra sulla politica estera e sulle questioni di sicurezza relative al Medio Oriente al fine di fornire raccomandazioni ai responsabili politici statunitensi.
I due citano il direttore generale dell’MI5, l’agenzia di intelligence e sicurezza interna britannica, secondo cui dal gennaio 2022 le autorità britanniche hanno dovuto occuparsi di 20 complotti iraniani contro civili e residenti nel paese. “In questi complotti iraniani – ha osservato – gli attori statali fanno ampio uso di criminali come intermediari, dagli spacciatori internazionali ai giovani criminali. Questo fenomeno è in realtà in espansione e si osserva in tutta Europa.”
Le indagini condotte in Francia e Germania hanno rivelato una tendenza simile. Lo scopo dei criminali impiegati dagli agenti iraniani, scrivono i ricercatori, è quello di seguire gli ebrei e le imprese ebraiche a Parigi, Monaco e Berlino. Le reti criminali sono state utilizzate in passato anche dal regime iraniano per omicidi e rapimenti.
I ricercatori presentano una serie di dati raccolti riguardo alle azioni esterne dell’Iran, dai quali risulta che “dei 218 complotti avvenuti nel periodo dal 1979 ad oggi, 102 hanno avuto luogo in Europa”. Inoltre, “più della metà dei complotti (54 casi) hanno avuto luogo tra il 2021 e il 2024”. La maggior parte di essi si è concentrata sugli attacchi contro gli oppositori del regime iraniano (34 casi), compresi giornalisti che trasmettevano notizie in persiano che l’Iran non vorrebbe raggiungere il pubblico, nonché cittadini e diplomatici israeliani (10 casi) ed ebrei (7 casi).
Viene menzionato, ad esempio, il tentativo iraniano di eliminare due giornalisti del canale “Iran International” a Londra, per mezzo di un criminale ingaggiato per il ruolo di eliminazione. Come parte del piano sventato, soprannominato “il matrimonio” dall’intelligence iraniana, è stato assunto un trafficante di esseri umani soprannominato “Ismail”. “I giornalisti del canale Iran International sono stati contrassegnati come obiettivi dall’Unità 840 delle Guardie Rivoluzionarie nel novembre 2022. Ismail ha iniziato a lavorare con l’intelligence iraniana nel 2016 ed è stato reclutato perché era un criminale transfrontaliero con sede in Europa”.
Due organizzazioni criminali che l’Iran utilizza per compiere attentati sono “Foxtrot” e “The English of Hell”. Nel gennaio 2024, una granata inesplosa è stata trovata sul terreno dell’ambasciata israeliana a Stoccolma. I servizi segreti di Svezia e Israele hanno rivelato che il fallito attacco è stato organizzato da “Foxtrot” per volere dell’Iran. La polizia svedese ha anche indagato su una sparatoria davanti all’ambasciata israeliana a Stoccolma e ha arrestato un sospetto quattordicenne che apparteneva all’organizzazione criminale “Rumba”, guidata dal gangster Ismail Abdo. “Nel maggio 2024, un agente ‘Foxtrot’, agendo su istruzioni dell’Iran, lanciò due granate softair contro l’ambasciata israeliana a Bruxelles, in Belgio. In Germania, le Guardie rivoluzionarie assunsero Ramin Ikteferst, capo della banda ‘Hell’s Angels’, per organizzare attacchi contro le sinagoghe nel 2021”.
L’articolo sostiene che sono necessarie azioni concrete da parte dei paesi europei e della comunità internazionale per affrontare questa minaccia. Una delle principali raccomandazioni è quella di classificare il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) come un’organizzazione terroristica, una mossa che consentirà l’uso di strumenti più ampi di intelligence e antiterrorismo per affrontare il problema.

(Rights Reporter, 24 ottobre 2024)

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Heschel: Portare il confronto negli atenei per svelenire il clima

di Adam Smulevich

A metà settembre uno studente dell’Università del Michigan è stato picchiato da un gruppo di giovani. «Sei ebreo?», gli avevano chiesto. Alla risposta affermativa del ragazzo è scattato il pestaggio. Nessuna conseguenza grave, a quanto pare. Ma il campanello d’allarme è tornato a suonare.
  Sulla scia del 7 ottobre e della guerra contro il terrorismo combattuta da Israele su più fronti l’impressione diffusa è che sia in arrivo un altro anno di tensione nei campus Usa. Dall’ottobre del 2023 il clima si è rivelato d’altronde spesso tossico e ha anche innescato la cancellazione di alcuni rapporti consolidati tra atenei. Per la gioia di chi, in numerosi college, inneggia alla “Resistenza palestinese” e alla cancellazione di Israele “dal fiume al mare”.
  Un segnale in controtendenza arriva dal Dartmouth College, antica università del New Hampshire che fa parte della prestigiosa Ivy League insieme tra le altre a Harvard, Princeton, Yale e alla Columbia University, epicentri della protesta anti-israeliana. A Dartmouth insegna Susannah Heschel, a capo del programma di studi ebraici. È reduce da una settimana di incontri a Roma, dove ha presentato un progetto di interazione culturale e interreligiosa lanciato proprio sull’onda del 7 ottobre. «Dialogo civile», così lo chiama. In campo risorse del dipartimento di studi ebraici e di quello di studi mediorientali, con il coinvolgimento di voci della società israeliana e palestinese. Ciascuno ha la possibilità di esprimersi, in un contesto sereno e rispettoso.
  «Una collaborazione inusuale di questi tempi», spiega a Pagine Ebraiche la studiosa e “figlia d’arte”: suo padre Abraham Joshua Heschel (1907-1972), rabbino e filosofo, è stato uno dei più influenti pensatori ebrei del Novecento. L’illustre genitore «è stato un uomo dell’ascolto», racconta la figlia. “Ascolto” è una delle parole chiave del progetto, basato su buone pratiche di cooperazione. Ne ha parlato in questi mesi in conferenze nelle scuole, in testimonianze nelle università, nei teatri e in vari ambiti della società civile. L’idea di Heschel è di allargare il raggio d’azione anche fuori dai confini nazionali e da qui nasce la missione romana, dove Dartmouth ha una propria sede, con una serie di workshop che hanno portato al tavolo esperti di politica, studiosi di letteratura e religione, intellettuali e policy maker. Un obiettivo tra tanti: «Stabilire modelli collaborativi che ci permettano di ripensare gli studi sul Medio Oriente alla luce delle nuove realtà politiche». C’è intanto la necessità di «svelenire il clima, perché odio e tensioni sembrano essersi impadroniti dei campus» e più in generale del dibattito. E in molti casi «c’è dell’antisemitismo, senza troppo girarci attorno». Per la studiosa, che all’argomento ha dedicato vari scritti, l’antisemitismo può essere definito una forma di «sadismo culturale». Heschel in questo senso è la sostenitrice della necessità di «un’analisi erotostorica» del fenomeno, con l’attenzione rivolta a «emozioni, genere, sessualità». La persistenza dell’antisemitismo, pre e post 7 ottobre, può essere così spiegata anche con «l’incessante richiesta di crudeltà fisica e verbale» propria del sadismo.
  Vincitrice nel 1998 del National Jewish Book Award con Abraham Geiger and the Jewish Jesus (University of Chicago Press), Heschel è una voce influente anche sul tema dei diritti civili. Nel 2015, nell’occasione dell’uscita del film Selma, a cinquant’anni dalla marcia per i neri d’America condotta da Martin Luther King Jr., un suo intervento aprì un dibattito nazionale. Con rammarico la studiosa ravvisò infatti l’assenza di qualunque riferimento, nel film, al contributo ebraico dato a quelle spinte sociali. «Per mio padre e per molti partecipanti», avrebbe raccontato in un intervento sulla Jewish Telegraphic Agency (Jta), «fu al tempo stesso un atto di protesta politica e un momento profondamente religioso: un incontro straordinario di suore, preti, rabbini, neri e bianchi». Quel giorno, a Selma, «si formarono alleanze, si superarono differenze religiose e si articolarono visioni che intrecciarono obiettivi politici e religiosi: mio padre sentì che a Selma era tornata in vita la tradizione profetica dell’ebraismo».
  Nel suo libro sull’ebraicità di Gesù, Heschel riprende e analizza le reazioni a un dibattito acceso nell’Ottocento dal rabbino tedesco Abraham Geiger (1810-1874), uno dei padri dell’ebraismo riformato. Geiger collocava Gesù all’interno della tradizione farisaica e sosteneva che nei suoi insegnamenti non ci fosse nulla di particolarmente originale. Teologi protestanti reagirono infuriati alla sua tesi, con una controargomentazione basata su elementi “razziali”. Secondo Heschel, con le sue riflessioni sul tema Geiger avviò una rivolta intellettuale «dei colonizzati contro il colonizzatore, un tentativo non di assimilarsi al cristianesimo adottando Gesù come ebreo, ma di rovesciare l’egemonia intellettuale cristiana». In quest’ottica Geiger invitò a vedere il cristianesimo e tutta la civiltà occidentale come il «prodotto dell’ebraismo».

(moked, 24 ottobre 2024)

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“7 Ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo”, una memoria per il futuro

di Luca Spizzichino

“Questo libro è diverso perché conserva la memoria di quel tragico giorno”, ha affermato l’editorialista e già direttore de La Stampa e di Repubblica, Maurizio Molinari, durante la presentazione del libro di Sharon Nizza, 7 Ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo. L’evento si è tenuto ieri presso lo Spazio Mastai al Palazzo dell’Informazione di Adnkronos. Oltre all’autrice e l’editorialista di Repubblica, è intervenuto anche Yuval Bitton, il medico israeliano che salvò la vita a Yahya Sinwar. Moderata dal vicedirettore di Adnkronos, Giorgio Rutelli, la presentazione è stata arricchita dalla lettura di alcuni stralci del libro a cura della scrittrice e giornalista Cinzia Leone.
  Il libro di Sharon Nizza è un racconto minuto per minuto del massacro, basato sulle testimonianze dei sopravvissuti e degli ostaggi liberati lo scorso novembre. Uno dei dettagli più inquietanti di quel giorno è legato a quelle che Nizza chiama “ondate”. La prima ondata era parte di un piano attentamente orchestrato dai terroristi dell’unità Nukhba di Hamas. La seconda, invece, è stata caratterizzata dalla partecipazione di civili che, dopo l’appello alle armi lanciato da Mohammed Deif, hanno invaso le comunità del sud di Israele. “La seconda ondata ha assunto i contorni di un vero e proprio pogrom”, ha osservato l’autrice, sottolineando come le testimonianze, inizialmente disconnesse, si intrecciano e si compongono pagina dopo pagina.
  Yuval Bitton ha offerto un profilo di Yahya Sinwar, ricordando le lunghe conversazioni avute con lui durante il periodo in cui lo trattava come medico nella prigione dove era detenuto. Sinwar, ha raccontato Bitton, dichiarava ripetutamente che un giorno avrebbe attaccato Israele. “Per raggiungere i suoi scopi, Sinwar era disposto a sacrificare anche 100.000 civili. Con lui non era possibile fare compromessi”, ha spiegato il medico, delineando l’ideologia di Hamas, che non riconosce agli ebrei alcun diritto di vivere su quella terra. Bitton ha inoltre affermato che l’eliminazione di Sinwar potrebbe aprire nuove possibilità a Gaza e aumentare le probabilità di liberazione degli ostaggi.
  Maurizio Molinari ha riflettuto sulla morte di Sinwar, interrogandosi sul futuro di Gaza: “Cosa accadrà adesso? Non c’è dubbio che molti palestinesi soffrissero sotto il regime di Hamas”. Ha sollevato domande cruciali: “Vedremo emergere a Gaza una nuova identità palestinese, finora repressa? E l’Iran, continuerà il suo strangolamento militare di Israele?” Secondo Molinari, le risposte a queste domande determineranno il futuro della regione.
  La fase finale dell’incontro si è concentrata sull’analisi degli errori commessi da Israele, e della conceptzia—una mentalità che ha contribuito a rendere possibile uno dei giorni più oscuri nella storia dello Stato ebraico.

(Shalom, 24 ottobre 2024)

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Il campione del mondo di pugilato Floyd Mayweather dona 100.000 dollari alla United Hatzalah per sostenere i medici israeliani

di Pietro Baragiola

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La leggenda del pugilato americano Floyd Mayweather ha deciso di donare 100.000 dollari all’organizzazione United Hatzalah per acquistare 100 giubbotti antiproiettile ai volontari medici israeliani ancora oggi in prima linea nella guerra contro Hamas.
Questa notizia è stata annunciata sul palco dell’annuale concerto di Sukkot “United fo Life” che la United Hatzalah ha tenuto lunedì 21 ottobre nell’International Convention Center di Gerusalemme.
Durante il concerto, che ha visto l’esibizione dei cantanti israeliani Ishay Ribo, Gad Elbaz e Shmuel Star registrando il tutto esaurito, il presidente e fondatore di United Hatzalah, Eli Beer, ha proiettato su uno schermo il messaggio in cui Mayweather affermava di voler procedere con la donazione.
“Eli, adoro il lavoro che tu e Hatzallah continuate a svolgere ed è stato molto bello venirti a trovare in Israele. Tornerò presto” ha scritto il campione nel messaggio.
Mayweather è stato una delle prime celebrità internazionali a sostenere il popolo d’Israele dopo il massacro di Hamas, inviando risorse e rifornimenti allo Stato ebraico.
Promotore di boxe ed ex pugile professionista con una carriera ventennale (dal 1996 al 2017), Mayweather si è ritirato dalle competizioni imbattuto, dopo aver raggiunto un record di 50-0 e aver vinto 15 campionati mondiali in cinque diverse categorie di peso: dai superpiuma ai pesi medi leggeri.
Nelle settimane successive al 7 ottobre 2023, Mayweather ha inviato il suo jet privato in Israele per consegnare attrezzature mediche, cibo ed altri aiuti ai feriti.
“Dobbiamo sempre rimanere positivi e mostrarci proattivi in modo rispettoso, opponendoci all’odio in ogni sua forma” ha affermato il campione al sito Algemeiner, dichiarandosi indignato dal crescente clima di antisemitismo nel mondo.
Per rafforzare ulteriormente il proprio legame con Israele, Mayweather ha deciso di visitare il Paese agli inizi del 2024 e, in quell’occasione, ha donato una serie di biciclette mediche MDA alla banca del sangue Magen David Adom a Ramla.
“Siamo veramente grati per l’impegno e il sostegno di Floyd Mayweather in questo momento buio della nostra storia” ha dichiarato Catherine Reed, CEO di American Friends of Magen David Admo, durante la visita del campione. “Questa flotta di biciclette, che chiameremo ‘la flotta di Floyd’, salverà migliaia di vite in tempi record e tutto questo non sarebbe stato possibile senza di lui.”

• LA VISITA IN ISRAELE
  Mayweather è arrivato in Israele nel marzo 2024 e ha mostrato la sua solidarietà indossando per tutta la sua permanenza una grande collana con la Stella di Davide.
Durante la sua visita, il campione ha visitato il Dan Family Aish World Center, dove ha incontrato gli studenti ed ha potuto festeggiare con loro il mese ebraico di Adar. Nel corso di una particolare cerimonia sul tetto dell’ufficio, Mayweather ha, inoltre, ricevuto il premio Champion for Israel per il continuo sostegno dimostrato allo Stato ebraico e per la sua lotta contro l’odio e l’antisemitismo.
“Come figura rinomata nel mondo dello sport, la visita di Mayweather e il suo attivismo hanno un peso significativo per noi” ha affermato durante la cerimonia il rabbino Steven Burg, amministratore delegato di Aish. “È nostro compito celebrare tutti coloro che sostengono con forza Israele.”
Il giorno seguente, Mayweather ha visitato la sede di Gerusalemme dell’United Hatzalah dove ha incontrato Eli Beer e l’amministratore delegato Eli Pollak, restando visibilmente commosso dalle storie di coraggio e altruismo dei volontari dell’organizzazione.
“È stato un onore per noi ospitare l’incredibile Floyd Mayweather che è venuto in Israele appositamente per esprimere il proprio sostegno alla causa israeliana” ha affermato Beer al sito Algemeiner. “Apprezziamo davvero il tempo che Floyd ci ha dedicato nel venire a vedere il lavoro straordinario delle nostre migliaia di lavoratori”.
Nel corso della visita Dovie Maisel, vicepresidente delle operazioni di United Hatzalah, ha mostrato a Mayweather l’incredibile tecnologia salvavita che permette ai loro volontari di essere i primi a rispondere alle richieste d’aiuto. Tra questi nuovi servizi c’è l’’ambucycle’, una moto d’emergenza utilizzata dai soccorritori per tagliare il traffico durante le emergenze mediche.
Secondo quanto affermato sul sito dell’organizzazione, questi servizi medici sono disponibili in tutto Israele e forniscono soccorsi con un tempo medio di risposta di tre minuti e, spesso, in meno di 90 secondi.
“Spero che tutto il mondo adotti presto il modello di fornire cure mediche in meno di 90 secondi” ha affermato Mayweather, sbalordito da queste innovazioni. “90 secondi per salvare un altro essere umano in difficoltà sono quasi il tempo che mi serve per vincere sul ring.”
Prima della partenza di Mayweather, Beer ha assegnato al campione anche il prestigioso Lifesaving Award, invitandolo a tornare presto in Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 24 ottobre 2024)

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Israele, le spie al soldo di Teheran. Hezbollah minaccia Netanyahu

Blinken propone un cessate il fuoco a Gaza di 12 giorni e il potenziamento dei poteri dei caschi blu. Hezbollah rivendica l’attacco alla casa di Netanyahu, raggiunta da un drone: «Colpiremo ancora».

Quattordici persone arrestate in 48 ore. Sette ad Haifa, lunedì, e altre sette ieri a Gerusalemme Est. Un’ondata di fermi senza precedenti, che fa capire come il controspionaggio israeliano abbia alzato (e molto) il livello d’allerta.Lo Stato ebraico sa di non potere abbassare la guardia. La sfida con l’Iran è arrivata a un livello senza precedenti. Hezbollah ha rivendicato l’attacco che ha colpito la residenza di Benjamin Netanyahu a Cesarea. Israele ritiene Teheran responsabile del raid. E Muhammad Afif, responsabile dei media del Partito di Dio, ha lanciato una nuova minaccia: «Gli occhi dei combattenti della resistenza vedono e le loro orecchie sentono; quindi, se le nostre mani non ti hanno raggiunto questa volta, allora tra noi e te ci sono giorni, notti e il campo di battaglia».
  In questo duello, lo spionaggio è un campo di battaglia decisivo. Israele ha fatto capire di potere colpire ovunque. Da Teheran e Beirut, gli agenti del Mossad sono riusciti a compiere operazioni fino a poco tempo fa inimmaginabili. E ora nessuno si sente più al sicuro, né tra i Pasdaran né tra le milizie. L’Iran sa di giocare una partita impari. Lo si vede anche dall’ultima retata israeliana. Le spie prese lunedì ad Haifa erano stato comprate per ottenere foto di siti sensibili, utilizzavano attrezzature sofisticate, inviavano immagini tramite canali criptati, seguivano potenziali bersagli. Ma i sette arrestati a Gerusalemme Est sono poco più che maggiorenni, senza precedenti, palestinesi con cittadinanza israeliana arruolati per compiere azioni di poco conto, come imbrattare un muro o bruciare un’auto o scattare fotografie. Solo dopo qualche tempo gli obiettivi si erano fatti più difficili, fino al piano sventato dalla polizia per uccidere uno scienziato nucleare. Ma nulla di paragonabile alle operazioni del Mossad tra Libano e Iran.

• LA STRATEGIA
  Obiettivi di scarso valore, con piani anche rudimentali. Ma Israele sa che l’Iran ha ancora delle carte da giocare. Può contare sulle sue leve in Cisgiordania, sui contatti con la criminalità, con disertori o uomini assetati di soldi. Le foto dei siti sensibili sono servite effettivamente per i suoi lanci di missili, come avvenuto con quelle scattate dagli informatori di Haifa per l’attacco del primo ottobre. E avere una rete anche per incarichi di poco conto può essere utile per far vedere di essersi infiltrati nella popolazione e di potere arrivare fino ai luoghi più protetti dello Stato ebraico.
  Tutto è utile in questa fase. Specialmente in questa guerra di nervi che aspetta la vendetta di Israele per i missili degli ayatollah. La tensione è a livelli estremi. E non è un caso che Joe Biden abbia spedito nella regione sia l’inviato speciale Amos Hochstein sia il segretario di Stato, Antony Blinken. L’obiettivo di Washington è fare in modo che lo spiraglio aperto con l’uccisione di Yahya Sinwar possa portare a una tregua a Gaza. E nello stesso tempo, puntano al cessate il fuoco in Libano. Una sfida complicatissima, perché Benjamin Netanyahu in questo momento è in vantaggio e non vede grossi motivi per cessare la sua guerra senza che siano raggiunti tutti gli obiettivi.

• LA DIPLOMAZIA
  A Gerusalemme, Blinken, che si è detto scioccato per il tentativo di uccidere Netanyahu, ha ribadito i punti fermi della sua amministrazione: una tregua gli ostaggi, più aiuti nella Striscia di Gaza e un piano per il dopoguerra. Il premier ha confermato di avere discusso di una “cornice governativa” per quando sarà finito il conflitto e ha espresso l’augurio che la morte di Sinwar faciliti il negoziato per i rapiti. Ma la battaglia, specialmente a nord di Gaza, continua a essere pesante. Il fronte contro Hamas resta bollente, così come lo è quello del Libano. Hezbollah ha alzato il tiro, mirando non solo sulla casa del premier a Cesarea ma anche sulle basi israeliane vicino Tel Aviv e Haifa. Per Bibi non ci sono dubbi: in Libano deve esserci un cambiamento politico. E mentre l’Idf continua a colpire in tutto il Paese dei cedri, prendendo di mira di nuovo i sobborghi di Beirut e le infrastrutture finanziarie di Hezbollah, gli Usa lavorano per il cessate il fuoco. Hochstein ha presentato un piano che prevede il rafforzamento di Unifil, l’aumento dei caschi blu, l’ampliamento dei loro compiti e un allargamento dell’area delle operazioni, con l’esercito libanese come unica forza presente nel sud. L’obiettivo di Washington è evitare di passare per una nuova risoluzione Onu, evitando i veti incrociati di Cina e Russia. Il governo libanese e quello israeliano hanno preso nota. Ma le condizioni di Netanyahu sono ancora distanti da quelle offerte da Biden. E anche Beirut sembra al momento avere dato il suo stop al piano Usa.

(Il Messaggero, 23 ottobre 2024)

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L’American-Iran connection

Nel intricato scenario di informatori, potenziali killer, sabotatori, che sia Israele che l’Iran utilizzano per i reciproci interessi, non può, ovviamente, mancare l’American connection, ovvero la presenza di operatori americani che agiscono per promuovere l’agenda di Teheran, e che sono insediati ai livelli più alti dell’Amministrazione Biden.
Su Robert Malley, uno dei più solerti ed entusiasti promotori dell’accordo sul nucleare iraniano voluto da Barack Obama, abbiamo già scritto diverse volte. A luglio dello scorso anno Malley è stato costretto alle dimissioni sotto accusa di avere condiviso materiale classificato con una fonte non identificata, e attualmente risulta sotto indagine da parte dell’FBI. Quale sia questa fonte “non identificata” è facile immaginarlo. 
Lo scorso agosto, il senatore repubblicano Tom Cotton e la rappresentante repubblicana Elise M Stefanik, scrissero una lettera alla vicepresidente degli Stati Uniti e candidata democratica alla presidenza Kamala Harris “per esprimere preoccupazione” sui presunti legami del suo consigliere per la sicurezza nazionale, Philip Gordon, con le campagne di influenza iraniane.
Nella lettera facevano presente che Gordon era collegato al funzionario della difesa statunitense, Ariane Tabatabai, accusata di fare parte dell’Iran Experts Initiative (IEI), un progetto del ministero degli Esteri iraniano finalizzato  a promuovere gli interessi di Teheran in Occidente.
Naturalmente non accadde nulla, il Dipartimento della Difesa reputò che le credenziali di sicurezza della Tabatabai fossero perfettamente congrue con il  protocollo ed essa continuò indisturbata a svolgere il proprio ruolo, dopo avere  lavorato in precedenza anche alla Nato e alla Rand Corporation.
Adesso si scopre che, molto presumibilmente, sarebbe stata proprio lei ad avere passato a Teheran le informazioni relative all’annunciato attacco israeliano in Iran in risposta a quello missilistico iraniano su Israele avvenuto il primo ottobre.
Nella lettera si faceva presente come la Tabatabai e Gordon avessero collaborato a diversi articoli di opinione che, secondo Cotton e Stefanik “promuovevano palesemente la prospettiva e gli interessi del regime iraniano” e nei quali veniva espressa la loro contrarietà per le sanzioni contro Teheran. Sempre nella medesima lettera i due parlamentari repubblicani chiedevano alla Harris di rispondere a una serie di domande riguardanti le credenziali di sicurezza di Gordon e i suoi legami con la Tabatabai. “Come vicepresidente, quali azioni specifiche intende intraprendere per affrontare la questione dei simpatizzanti iraniani, oltre a lei, all’interno dell’amministrazione?” scrivevano, sottintendendo che Kamala Harris sia lei stessa una “simpatizzante iraniana”.
Non sappiamo dire se la candidata democratica alle presidenziali americane sia una “simpatizzante iraniana”, ma una cosa è certa, l’Amministrazione Biden-Harris non lesina posti di lavoro a chi lo è.

(L'informale, 23 ottobre 2024)

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Netanyahu non si fida degli americani. E fa bene

Blinken è volato nuovamente in Israele per avere rassicurazioni che Gerusalemme non supererà le " linee rosse" nell'imminente attacco all'Iran. Non le ha avute.

di Franco Londei

Premesso che, a scanso di equivoci, non metto in dubbio l’incrollabile volontà americana di difendere Israele. In questo ultimo anno l’Amministrazione Biden ha dato molte prove a riguardo checché ne dicano i critici. Parlo però di quella continua pressione, che sfiora il ricatto, da parte Washinton affinché le azioni israeliane non “irritino troppo” i sostenitori musulmani dei Democratici nonché la loro estrema sinistra.
Una pressione che, per di più, si è rivelata nella maggior parte dei casi tatticamente sbagliata, come per esempio quella molto pesante sull’attacco a Rafah e sulla strategia della pressione militare in quell’area che, con il senno di poi, ha dato ragione a Netanyahu al 100% e che se fosse stata attuata al momento giusto probabilmente avrebbe fatto risparmiare tempo e vite umane.
Ora quella indebita pressione (ricattatoria) si è trasferita sul fronte dell’attacco all’Iran e delle operazioni militari nel sud del Libano.
Ieri il segretario di Stato americano Anthony Blinken, in visita in Israele, ha chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di moderare ulteriormente l’attacco israeliano all’Iran e di impegnarsi per porre fine alle operazioni di terra israeliane nel sud del Libano.
Ora, secondo fonti molto ben accreditate presso l’ufficio del Primo Ministro israeliano, Netanyahu avrebbe risposto che «la gestione della campagna è nelle mani di Israele» e non avrebbe fornito grandi dettagli né rassicurazioni sull’imminente attacco all’Iran.
Attenti però, non si tratta di un “capriccio” del Primo Ministro israeliano. La gravissima fuga di notizie di qualche giorno fa, secondo alcuni pilotata proprio dall’Amministrazione Biden, ha fatto alzare tutte le antenne di allarme a Gerusalemme. E se questa volta Biden dovesse protestare per non essere al corrente degli obiettivi israeliani, beh, se ne dovrà fare una ragione.
Ad aggravare la situazione c’è stato il tentativo da parte di Hezbollah di uccidere Netanyahu. Israele ne ha incolpato l’Iran come mandante. Secondo alcuni osservatori Gerusalemme userebbe l’accaduto per alzare l’asticella degli obiettivi. È un’ipotesi molto verosimile.
Per questo l’Iran ha paura della risposta israeliana e si è preso la briga di chiarire nei giorni scorsi pubblicamente e attraverso Hezbollah che non è responsabile del lancio del drone che ha colpito la casa di Netanyahu a Cesarea. Ma a Gerusalemme non ha convinto nessuno.
Quando avverrà l’attacco? Fonti arabe valutano che Israele attaccherà subito dopo che il Segretario di Stato americano avrà lasciato la regione. Oggi Blinken è al Cairo per discutere con Al Sisi del dopoguerra a Gaza.
Ci sono però dei segnali abbastanza indicativi che questa volta l’attacco è veramente imminente. Fonti della intelligence israeliana hanno riferito che l’IDF ha aumentato la vigilanza sui suoi sistemi di difesa aerea. Infatti la valutazione in Israele è che l’Iran non aspetterà e risponderà immediatamente a qualsiasi attacco israeliano sul suo territorio. Gli iraniani hanno già preparato una serie di obiettivi in Israele da attaccare con missili balistici.
L’intelligence di Gerusalemme valuta poi che anche Hezbollah, contemporaneamente al contrattacco iraniano, attaccherà Israele con quello che gli è rimasto del suo arsenale di punta (poca roba). Se questo dovesse avvenire Israele sarà legittimato a colpire qualsiasi obiettivo in Iran. E forse è proprio quello che vuole. Anche Israele ha delle linee rosse e se l’Iran le oltrepassa, Gerusalemme si toglierà i guanti e colpirà obiettivi iraniani sensibili, roba da far crollare la già fragile economia iraniana.
Concludo questa mia riflessione con un appunto agli stitici commentatori italiani che continuano imperterriti a inquadrare Israele come unico responsabile della guerra. Bene, mi sono fatto l’idea che qualsiasi spiegazione venga data a questi personaggi, per quanto dettagliata e corroborata da prove possa essere, essi continueranno a vedere Gerusalemme come il “grande Satana”.
Li vedo già pronti a mettere nel mirino Israele dopo l’attacco all’Iran, anche se i caccia israeliani dovessero bombardare Teheran con la carta igienica. Li vedo già snocciolare il numero preciso delle vittime, in maggioranza donne e bambini, e lagnarsi per l’aumento del petrolio o perché i caccia israeliani hanno colpito qualche fabbrica di droni o di missili e così facendo hanno allungato la guerra in Ucraina. Vedrete, è troppo facile fare previsioni con questi cialtroni antisemiti.

(Rights Reporter, 23 ottobre 2024)

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Arrestati sette ebrei israeliani, presunte spie al soldo dell’Iran

Sembra che gli 007 degli Ayatollah siano andati oltre l’epidermide dello Stato ebraico agendo dal suo interno, in una clamorosa storia d’infiltrazione che scuote Am Israel. Gli occhi, le orecchie e le braccia dell’Iran in Israele sono anche di origine ebraica? Provenienti dall’Azerbaijan, sette ebrei israeliani sono stati arrestati, accusati di essere spie dell’Iran e di aver raccolto informazioni su basi militari dello Stato d’Israele prese di mira da Teheran e dalle milizie filoiraniane. I pubblici ministeri affermano che gli arrestati avrebbero svolto centinaia e centinaia di incarichi per la Repubblica Islamica. 
  I sospettati sono tutti residenti ebrei di Haifa e del nord di Israele. Tra loro c’è anche un soldato che ha disertato l’esercito e due minorenni. Gli indagati sono accusati di aver fotografato e raccolto informazioni sulle basi e sulle strutture delle IDF, tra cui il quartier generale della difesa di Kirya a Tel Aviv e le basi aeree di Nevatim e Ramat David, nonché i siti delle batterie Iron Dome, riporta Times of Israel. Entrambi gli attacchi frontali scatenati dall’Iran contro Israele hanno preso di mira proprio le basi di Nevatim, mentre Rabat David è stata un obiettivo di Hezbollah.
  Secondo le accuse, i sospettati avrebbero ricevuto mappe dai mandanti riguardo a siti strategici, tra cui la base Golani colpita da un drone mortale all’inizio di ottobre, oltre allo svolgimento di diversi compiti per le agenzie di intelligence iraniane e il contatto con agenti iraniani, secondo quanto affermano i procuratori in base alle scoperte della polizia e dello Shin Bet, riporta il Times.
  Non solo siti sensibili: nel mirino ci sono anche cittadini israeliani. Gli accusati sono sospettati di aver raccolto informazioni su diversi connazionali. Alcune delle presunte spie sono state arrestate dalla polizia mentre lavoravano per raccogliere informazioni su un israeliano che i funzionari della sicurezza del Paese hanno anticipato fosse un target dell’Iran, ha detto la polizia israeliana secondo The Jerusalem Post. 
  In cambio delle loro azioni, i sospettati hanno ricevuto centinaia di migliaia di shekel, alcuni dei quali in criptovaluta, affermano gli investigatori. Ci sono anche pagamenti instradati tramite intermediari russi che si sono recati in Israele, nonché mediatori turchi. Questa è la storia di una rete di spionaggio che coinvolge vari individui di diverse nazionalità uniti dall’amore per il “Dio denaro” e per la sovversione della sicurezza di Israele.
  Secondo l’accusa, alcuni degli indagati hanno svolto attività di spionaggio per l’Iran per due anni e tutti hanno svolto attività di spionaggio dall’inizio della guerra. I procuratori hanno affermato di voler presentare un atto di accusa per reati contro la sicurezza dello Stato, chiedendone la custodia fino alla conclusione del procedimento giudiziario. Infatti le azioni dei sospettati “hanno inflitto danni alla sicurezza dello Stato”, secondo le valutazioni israeliane, ha detto lunedì l’alta agenzia di sicurezza israeliana (ISA) che lavorava a questa operazione di controspionaggio insieme a Lahav 433 della polizia israeliana e al dipartimento di sicurezza delle informazioni nella direzione dell’intelligence militare.
  La “gravità e la portata” dell’incidente è “tra le più gravi conosciute da Israele”, ha detto la polizia israeliana secondo The Jerusalem Post, la quale ritiene che i sospettati abbiano agito per avidità di denaro, per danneggiare Israele e i suoi cittadini. Il procuratore di Stato ha sottolineato che questo caso si unisce a una serie di casi simili che sono stati rivelati nelle ultime settimane, alcuni dei quali hanno portato ad arresti e accuse, e altri che dovrebbero farlo nel prossimo futuro, come accaduto stamane ad altri sette israeliani – questa volta, però, arabi – arrestati a Gerusalemme con l’accusa di aver pianificato attacchi in Israele per conto dell’Iran. Secondo l’ufficio del Procuratore di Stato, il caso che riguarda i sette ebrei è una delle vicende d’indagine più gravi negli ultimi anni.

(Bet Magazine Mosaico, 22 ottobre 2024)

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Scoperto bunker di Nasrallah sotto l’ospedale Al-Sahel: nascosto oltre mezzo miliardo di dollari

di Luca Spizzichino

Un bunker appartenente all’ex Segretario Generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è stato individuato sotto l’ospedale Al-Sahel, nel quartiere Dahieh di Beirut. Lo ha rivelato il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), l’Ammiraglio Daniel Hagari, spiegando che il bunker nasconde oltre 500 milioni di dollari in contanti e oro, fondi destinati esclusivamente a finanziare le attività terroristiche di Hezbollah.
  “Questo bunker è stato intenzionalmente posizionato sotto l’ospedale, a dimostrazione della pratica di Hezbollah di utilizzare infrastrutture civili come scudi per proteggere le proprie risorse”, ha dichiarato Hagari durante una conferenza stampa. Sebbene l’IDF stia monitorando attentamente il complesso ospedaliero, ha assicurato che non intende colpire la struttura. “La nostra guerra non è contro i cittadini libanesi, ma contro un’organizzazione terroristica che continua ad armarsi e a sostenere gli interessi del regime iraniano”, ha aggiunto.
  Nonostante le smentite del direttore dell’ospedale Al-Sahel, Fadi Alameh, che ha definito infondate le accuse israeliane, fonti dell’IDF confermano che il bunker sotto l’ospedale fa parte di un sistema più ampio di depositi di denaro di Hezbollah. Il canale israeliano N12 ha riferito che si tratta del principale deposito di denaro dell’organizzazione, dove viene nascosta gran parte del denaro sottratto ai cittadini libanesi e destinato al finanziamento delle attività terroristiche.
  “Da anni, Hezbollah sfrutta la crisi economica in Libano, sottraendo denaro alla propria popolazione”, ha dichiarato Hagari. “Il loro vero sostegno finanziario proviene dall’Iran, che trasferisce denaro attraverso vari canali, compresi voli con carichi di contanti diretti all’ambasciata iraniana a Beirut”.
  Queste rivelazioni giungono in un contesto di intensificazione delle operazioni militari di Israele contro Hezbollah. Nella notte tra domenica e lunedì, l’aviazione israeliana ha lanciato una serie di attacchi contro le sedi di “Al-Qard al-Hasan”, una rete finanziaria legata a Hezbollah. “Abbiamo colpito oltre 30 obiettivi finanziari di Hezbollah”, ha affermato Hagari. “Continueremo a colpire le loro risorse finché non riusciremo a neutralizzare la loro capacità di finanziare operazioni terroristiche”.

(Shalom, 22 ottobre 2024)

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Castellano e la speranza di un Umanesimo possibile

di Angelica Edna Calò Livne

Ho ricevuto La società fra memoria e speranza. Hatikvah. Per un Umanesimo possibile, un libro prezioso di Clelia Castellano, nel mattino di Sukkot, la Festa della Gioia. Per me era però anche uno di quei momenti in cui non si ha voglia di ridere e di salutare nessuno, ma di chiudere piuttosto il computer per non continuare a leggere e sentire invettive contro Israele, contro l’ebraismo e contro l’umanità. Si preannunciava una festa tutt’altro che di gioia. Una festa di frustrazione, interrogativi, rabbia e dolore per altre vittime di questo interminabile 7 ottobre, per le testimonianze dei genitori orfani, di figli, di vedove e bimbi che non conosceranno mai il papà e di ragazze che non saranno mai madri.
  Dalle prime pagine del libro ho sentito trapelare dalle parole un calore che mi ha avvolta, mi ha accarezzata e ha aperto nuovi e sconosciuti pertugi dai quali è filtrata una luce che non ricordavo più. Leggevo e mi sembrava di respirare meglio, più profondamente. Aria pura e limpida. Leggevo e mi innamoravo di questa docente di sociologia, di questa educatrice umanistica, di questa mia compagna di viaggio senza volto con la quale condividevo ogni pensiero di memoria, di pace, di unione, senza averla mai conosciuta di persona. Stavamo diventando amiche attraverso parole che non ricordavo più, attraverso pensieri spariti che avevano lasciato spazio a menzogne, manipolazioni e mistificazioni dell’idea di Israele, della sua nascita, delle sue origini. Castellano cita Protagora, Capote, Elber, Foer, Della Pergola e altri insigni filosofi, scrittori e personaggi della cultura e del mondo e attraverso loro ricostruisce la Storia, la narrativa smembrata, lacerata e profanata da chi, senza ritegno, ha bruciato bandiere gridando From the river to the sea. Attraverso un percorso di amore vero, l’autrice sfoglia davanti al lettore un magico libro di altri miti e leggende e rivela la poesia, la cultura, il periodo aureo di altri popoli perseguitati come gli armeni, i curdi e sì, anche i palestinesi, quei palestinesi che forse un giorno potranno essere nostri alleati per combattere il terrorismo, lo sfruttamento spietato e la violenza.
  «Spero tanto che tu trovi il tempo per leggere il mio libro. Vorrei avesse tanta visibilità e diffusione fra gli ebrei per confortarli, e fra i non ebrei per far comprendere l’orrore dell’antisemitismo e la bellezza della memoria dei popoli», mi ha scritto. E proprio cosi è stato per me questo libro: un conforto, «la rivivificazione delle radici», in una «epoca di amnesia collettiva» in cui è il male è diventato mito e gli eroi sono coloro che stuprano, annientano e seminano terrore. Un libro scritto per studiosi, studenti e docenti umanisti, persecutori della giustizia e della collaborazione fra i popoli, ai quali sta a cuore il futuro di tutti noi esseri umani.

(moked, 23 ottobre 2024)
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Cara Angelica, mi rivolgo a te personalmente perché ci siamo conosciuti, abbiamo corrisposto e so che ogni tanto mi leggi (tralascio il fatto che siamo entrambi "romani de Roma"). In una cosa almeno mi sento in piena risonanza emotiva con te: nell'orrore per l'antisemitismo melmoso che esonda da un sottosuolo putrido ed emette un tanfo sempre più insopportabile. Ormai la varietà dei modi in cui si può riuscire a dire quanto malvagi sono gli ebrei e quanto nociva al mondo sia l'esistenza di Israele costituisce un genere letterario a sé stante. In una cosa invece mi sento diverso da te: non riuscirei mai a trovare sollievo da una realtà che tocca concretamente pelle e nervi in rappresentazioni luminose della realtà o in ricostruzioni favolistiche della storia. Mi ha sempre interessato la verità. "Ma che cos'è verità?", diranno molti, proprio come Pilato davanti a Gesù. Per Pilato la verità era che lì comanda lui, a nome di Roma, tutto il resto sono chiacchiere. Per altri forse è un bell'ideale, nobile, armonioso, non certo come quello orrendo degli hamassiti. Mi viene in mente una stringata osservazione di Shimon Peres. Era un convinto ottimista, e una volta ha detto: "Sia l'ottimista che il pessimista muoiono, ma l'ottimista vive meglio". Buon per lui, ma nel suo ottimismo si è fatto assegnare il premio Nobel per la pace insieme ad Arafat, per la stipulazione dei disastrosi Accordi di Oslo. Ed è da lì che si è arrivati fino al 7 ottobre. Nella mia testimonianza, che compare su questo sito, racconto che fin dalla mia gioventù cercavo la verità, fermamente deciso a non cedere ad alcuna forma di suadente illusione. L'ho trovata. Leggendo il Vangelo di Matteo. Ti propongo di fare altrettanto. Lì si parla di verità e giustizia. L'hai già letto? Rileggilo. Anch'io la prima volta che lo lessi non ci avevo capito niente, ma poi l'ho riletto e la luce si è accesa. E dopo quasi settant'anni non si è più spenta. Né mai si spegnerà. M.C.

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Israele colpisce le infrastrutture finanziarie di Hezbollah

Il caso dell’Associazione Al-Qard Al-Hasan

di Luca Spizzichino

Israele ha avviato una serie di attacchi mirati alle infrastrutture finanziarie di Hezbollah, con l’obiettivo di distruggere gli edifici utilizzati dall’organizzazione per gestire le sue operazioni economiche in Libano, che comprende attività di riciclaggio di denaro e operazioni commerciali che spaziano dai prestiti a enti di beneficenza, fino all’investimento in miniere d’oro.
  Uno dei principali obiettivi è stata l’Associazione Al-Qard Al-Hasan, descritta come il principale istituto finanziario di Hezbollah e che secondo Uzi Shaya, ex agente dello Shin Bet citato da Globes, si presenta come un’organizzazione bancaria islamica, che offre prestiti ai cittadini libanesi per soddisfare varie necessità, tra cui l’acquisto di beni di consumo, matrimoni, rette scolastiche e molto altro. Sebbene ufficialmente sia registrata come un ente benefico, l’associazione gestisce in realtà una vasta rete finanziaria che finanzia le operazioni militari e politiche di Hezbollah.
  Secondo il canale televisivo libanese Al Manar, controllato da Hezbollah, Al-Qard Al-Hasan sarebbe andata in bancarotta a seguito dei bombardamenti israeliani, con l’emittente che ha accusato Israele di voler colpire deliberatamente l’economia libanese e peggiorare la vita quotidiana del popolo.
  Il Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center ha descritto l’associazione come un ente che fornisce prestiti e gestisce fondi comunitari senza applicare interessi, in conformità alla legge islamica. Questo modello di finanziamento mira a consolidare la fedeltà della comunità sciita libanese alla causa di Hezbollah. Oltre a servire la comunità sciita, l’organizzazione estende i suoi servizi anche alla popolazione palestinese. Le garanzie per i prestiti vengono solitamente fornite sotto forma di beni preziosi, come oro e gioielli. Shaya ha inoltre affermato che l’ente non solo riceve il sostegno del governo libanese, ma anche dell’Iran, che fornisce un appoggio economico significativo. L’associazione ha sviluppato una capacità di autofinanziamento indipendente, alimentata da donazioni, associazioni caritatevoli, imprese e una rete di attività criminali. Gran parte dei trasferimenti di denaro avviene in contanti o criptovalute, con notevoli quantità di denaro che passano attraverso l’Aeroporto di Beirut, controllato direttamente da Hezbollah.
  Secondo l’analista Haim Koren, Al-Qard Al-Hasan è sostenuta da una rete internazionale di contrabbando attiva in America Latina e Africa, con agenti che movimentano milioni di dollari in contanti in tutto il mondo. Nonostante le sanzioni imposte dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti nel 2016, l’ente è continuato a crescere. Il volume dei prestiti gestiti dall’associazione è infatti aumentato successivamente alle sanzioni, dimostrando l’inefficacia delle misure internazionali contro simili organizzazioni finanziarie. Si stima inoltre gestisca fondi per miliardi di dollari attraverso oltre 400.000 conti, consolidando così il ruolo chiave dell’ente nelle operazioni economiche e militari di Hezbollah.

(Shalom, 22 ottobre 2024)

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L'UNIFIL è inutile, ammette un ex peacekeeper delle Nazioni Unite

Eravamo completamente alla mercé di Hezbollah”, afferma l'informatore, che conclude che l'ONU è ‘inutile’ come forza di pace.

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Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e l'UNIFIL coordinano le loro attività sul confine israelo-libanese

Se la missione della Forza interinale delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) è quella di prevenire le ostilità tra Israele e i combattenti armati che operano dal Libano meridionale, allora ha fallito completamente. Questo non è più un segreto. Tuttavia, molti si aggrappano all'idea che questo fallimento non sia colpa dell'UNIFIL, o che l'organizzazione abbia addirittura compiuto la sua missione.
Un ex peacekeeper delle Nazioni Unite che è stato dispiegato nel sud del Libano ha smentito questa tesi in un'intervista rilasciata questa settimana ai media danesi.
Eravamo completamente alla mercé di Hezbollah”, ha dichiarato il peacekeeper (che si fa chiamare solo ‘Michael’) al portale danese di notizie online B.T., parlando del periodo trascorso nel sud del Libano circa dieci anni fa.
Circa un anno fa, un lettore di Israel Heute ha sottolineato che non è compito dell'UNIFIL far rispettare le risoluzioni dell'ONU o usare la forza per prevenire le ostilità tra Hezbollah e il Libano.
Sebbene ciò possa essere tecnicamente vero, in realtà si sta spaccando il capello in quattro, poiché il mandato dell'UNIFIL afferma che il suo compito è quello di garantire che Hezbollah non esista più come forza armata nel Libano meridionale.
Nel suo mandato esteso, l'UNIFIL ha i seguenti compiti:

  • Monitorare la cessazione delle ostilità.
  • Assistere le Forze Armate Libanesi (LAF) nello stabilire un'area tra la Linea Blu e il fiume Litani libera da personale armato, materiale e armi, ad eccezione del personale del governo libanese e del personale UNIFIL di stanza nell'area.
  • Adottare tutte le misure necessarie per garantire che la loro area di operazioni non sia utilizzata per attività ostili di alcun tipo...
  • Resistere ai tentativi di usare mezzi violenti per impedire all'UNIFIL di svolgere i suoi compiti nell'ambito del mandato del Consiglio di Sicurezza.

Anche se si può sostenere che le forze dell'UNIFIL non dovrebbero impegnarsi in combattimenti per adempiere al loro mandato (anche se i punti precedenti suggeriscono che dovrebbero farlo), hanno fallito in modo altrettanto completo degli osservatori.
Michael, il “whistleblower”, ha detto che l'UNIFIL non sta solo chiudendo un occhio. Appartiene a Hezbollah.
“Avevamo chiaramente una libertà di movimento limitata. Per esempio, non abbiamo mai operato dopo il tramonto per paura di Hezbollah. Se Hezbollah non voleva che l'UNIFIL vedesse qualcosa, semplicemente bloccava la strada”. E le truppe dell'ONU hanno proseguito come da istruzioni.
Quando le forze ONU hanno segnalato violazioni, soprattutto della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, “non è mai successo nulla. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta dai nostri superiori e non è stato fatto nulla. È stato estremamente frustrante e ha solo confermato ciò che avevo sperimentato in altri Paesi in cui ero stato inviato: le Nazioni Unite sono incompetenti”.
Michael ha sottolineato che questo è accaduto 10 anni fa e può solo immaginare quanto Hezbollah sia ora più radicato e in controllo grazie al fallimento di UNIFIL.

(Israel Heute, 22 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La morte di Sinwar smaschera la Corte Penale Internazionale

L'equivalenza morale tra Hamas e la democrazia israeliana era offensiva, ma ora che tutti e tre i capi di Hamas sono stati uccisi, Israele ha tolto al signor Khan la sua foglia di fico. Sta perseguendo solo gli israeliani per la loro guerra difensiva per liberare gli ostaggi e sconfiggere gli squadroni della morte che vogliono ripetere l'attacco del 7 ottobre.

La morte del leader di Hamas Yahya Sinwar ha lasciato nel dolore molti cosiddetti moderati. Il comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidato dal presidente Mahmoud Abbas, ha offerto le condoglianze per il “martirio” di Sinwar, definendo la mente del massacro del 7 ottobre un “grande leader nazionale”. Qualcuno pensa che questo gruppo, che l’Amministrazione Biden voleva al governo nella Gaza postbellica, avrebbe contrastato il terrorismo?
Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha salutato Sinwar, mentre riceveva il ministro degli Esteri iraniano e i principali terroristi di Hamas per un incontro. Un altro giorno nella vita di un alleato della NATO.
Il più colpito dalla morte di Sinwar, tuttavia, dovrebbe essere Karim Ahmad Khan, il procuratore della Corte penale internazionale (CPI). Ricordiamo che il signor Khan aveva preteso di essere imparziale chiedendo mandati di arresto per un trio di leader di Hamas – Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif – insieme al Primo Ministro e al Ministro della Difesa di Israele.
L’equivalenza morale era offensiva, ma ora che tutti e tre i capi di Hamas sono stati uccisi, Israele ha tolto al signor Khan la sua foglia di fico. Sta perseguendo solo gli israeliani per la loro guerra difensiva per liberare gli ostaggi e sconfiggere gli squadroni della morte che vogliono ripetere l’attacco del 7 ottobre.
Non c’è mai stata alcuna possibilità che Sinwar venisse processato all’Aia o che venisse scoraggiato da questa prospettiva. Se un’incriminazione da parte della Corte penale internazionale significa qualcosa per una democrazia come Israele, non ha alcun significato per i terroristi che non hanno alcun rispetto per l’opinione pubblica internazionale e che già vivono in clandestinità per evitare di essere uccisi come combattenti nemici illegali secondo le tradizionali regole di guerra.
Il signor Khan sa tutto questo. Si è affrettato a chiedere mandati di arresto, prima di indagare seriamente o anche solo di parlare con gli israeliani, come aveva promesso ai senatori statunitensi, per gli effetti su Israele. Quando Khan ha lanciato la sua minaccia, l’obiettivo sembrava essere quello di dissuadere Israele dall’entrare nella roccaforte di Hamas a Rafah. Dopo che Israele è entrato, Khan ha fatto il suo annuncio per cercare di fermare i carri armati.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dimostrato che si sbagliava, evacuando in sicurezza i civili di Rafah. Poi Israele ha scoperto tunnel verso l’Egitto, ostaggi e ora Sinwar a Rafah. Il numero uno di Hamas sembra essere stato stanato dai suoi tunnel dalla pressione militare di Israele.
Il signor Khan si sbagliava su Rafah, così come il presidente Biden e la vicepresidente Kamala Harris, che ha detto di aver “studiato le mappe”. Hanno bloccato le armi a Israele per questo motivo. Ma la centralità di Rafah per la missione di Israele e per la possibilità di pace nella Gaza postbellica è ormai chiara.
Eppure la Casa Bianca continua a proteggere la CPI. Nonostante le obiezioni di Biden, all’inizio di giugno 42 democratici della Camera si sono uniti ai repubblicani per approvare una legge che sanziona la Corte penale internazionale. La misura potrebbe probabilmente passare al Senato, ma i senatori Chuck Schumer e Ben Cardin hanno deciso di non fare nulla. Chuck Schumer e Ben Cardin hanno eseguito gli ordini della Casa Bianca e sono rimasti in attesa, nonostante le pressioni del senatore Jim Risch e di altri repubblicani.
Schumer aveva promesso negoziati bipartisan su una legge sulle sanzioni della Corte penale internazionale. Non ha mai mantenuto la promessa, così gli Stati Uniti non fanno nulla mentre la Corte penale internazionale espande la sua giurisdizione e si appresta ad affrontare la lotta politica di Hamas contro Israele.

(Rights Reporter, 22 ottobre 2024)

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Turismo – Per la ripartenza Israele punta sui pellegrinaggi

Per il turismo israeliano non è un momento semplice. A parte la compagnia di bandiera, poche altre linee aree volano da e per il paese. E i vari fronti di guerra aperti complicano ulteriormente la situazione. «Ma l’anno prossimo sarà un anno di pace, me lo sento», sorride il direttore generale del ministero del Turismo Dani Shahar, incontrando alcuni giornalisti in un hotel di Roma. Al suo fianco Kalanit Goren Perry, delegata dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano. Shahar è in visita a Roma e in Vaticano per promuovere alcuni itinerari di visita collegati al Giubileo del 2025.
  «Siamo un paese ricco non solo di storia, ma anche di spiritualità», premette Shahar. «E il Giubileo sarà un’occasione straordinaria per ribadire il legame storico tra Italia e Israele: la nostra è un’amicizia solida e le collaborazioni si estendono in vari campi: economia, marketing, turismo, con una declinazione particolare legata proprio al pellegrinaggio; sono mesi difficili, ma guardiamo con ottimismo al futuro». Sono lontani al momento i numeri record del 2019, con cinque milioni di turisti annui in visita nello stato ebraico. Oggi, a parte il turismo “di solidarietà”, poco altro si muove. «Ma siamo fiduciosi che torneremo presto a quelle cifre», ribadisce Shahar. «Ripeto: confidiamo in una prossima ripresa e ci stiamo preparando al meglio per garantirla». Ad esempio, con un investimento di alcune centinaia di milioni di shekel nel potenziamento delle capacità ricettive, hotel ma non solo. È ottimista anche Yaron Sideman, il neo ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede: «Il Giubileo è dietro l’angolo e presto celebreremo anche i 60 anni dalla dichiarazione Nostra Aetate. Le opportunità per fare qualcosa insieme sono molteplici e il nostro orizzonte è il cielo». Israele, ha aggiunto il diplomatico, «è un paese in cui in tanti possono ritrovare le proprie radici e in cui si può godere di una prospettiva unica sul pluralismo culturale». Quella tra Italia e Israele «è una collaborazione naturale» in tanti ambiti, ha poi specificato il viceambasciatore israeliano a Roma Lior Keinan. «Numerosi progetti avviati insieme prima del 7 ottobre si sono interrotti. Ma si tratta soltanto di una pausa, perché presto ripartiremo». a.s.

(moked, 22 ottobre 2024)

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Israele presenta le sue condizioni agli Stati Uniti per porre fine al conflitto con Hezbollah in Libano

di Eliran Cohen

Secondo il sito americano Axios, Israele ha presentato agli Stati Uniti un documento contenente le sue condizioni per una soluzione diplomatica volta a porre fine alla guerra in Libano e a permettere ai civili sfollati su entrambi i lati del confine di tornare a casa.
Il sito statunitense riferisce che il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer ha inviato il documento all'inviato speciale e coordinatore degli Affari energetici internazionali degli Stati Uniti Amos Hochstein giovedì, in vista della sua visita a Beirut di oggi.
Nel documento, una delle richieste di Israele è che l'esercito israeliano sia autorizzato a impegnarsi in un “controllo attivo” per garantire che Hezbollah non riformi o ricostruisca le sue infrastrutture militari nelle aree del Libano meridionale vicine al confine.
Israele chiede anche che le sue forze aeree possano operare liberamente nello spazio aereo libanese.
Queste due richieste contraddicono la Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che stabilisce che le Forze Armate Libanesi (LAF) e la Forza Interinale delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL) devono far rispettare il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah.
Tuttavia, un funzionario israeliano ha dichiarato ad Axios che le richieste israeliane sono in realtà una “ applicazione rafforzata ” della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. “ Il nostro messaggio principale è che se l'esercito libanese e l'UNIFIL fanno di più, Tsahal farà di meno e viceversa”, aggiunge il funzionario ha aggiunto.
Tuttavia, un funzionario americano ha dichiarato ad Axios che è altamente improbabile che il Libano e la comunità internazionale accettino queste condizioni, che minerebbero seriamente la sovranità del Libano.
In una conferenza stampa tenutasi a Beirut questo pomeriggio, Amos Hochstein ha dichiarato di essere attualmente nella regione per tenere colloqui con funzionari israeliani e libanesi su un accordo di cessate il fuoco tra Tsahal e Hezbollah, basato sulla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha stabilito le condizioni per il cessate il fuoco che ha posto fine alla seconda guerra del Libano nel 2006.
Lo Stato di Israele è in stato di guerra dal barbaro e sanguinoso attacco noto come “Diluvio di Al Aqsa” orchestrato da Hamas il 7 ottobre 2023. Il gruppo terroristico palestinese, infiltratosi in località del sud di Israele, ha ucciso 1.400 civili e soldati israeliani, tra cui 375 giovani israeliani brutalmente uccisi durante un rave party nel Negev meridionale.
Più di 10.000 persone sono rimaste ferite. 101 civili israeliani e stranieri (vivi e morti), tra cui donne, bambini e anziani, sono tenuti in ostaggio da Hamas nella Striscia di Gaza.

(Israel Actualités, 22 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'IDF non ha ancora interiorizzato la minaccia dei tunnel, dicono gli esperti

L'esercito israeliano ha incontrato per la prima volta i tunnel nella Striscia di Gaza negli anni Ottanta. Da allora, l'uso dei tunnel da parte dei terroristi è aumentato.

di David Isaac

GERUSALEMME - I tunnel hanno dimostrato di essere una seria minaccia per lo Stato ebraico. Le Forze di Difesa israeliane non li hanno ignorati, ma hanno tardato a riconoscerne l'importanza strategica.
Alcuni sostengono che non l'abbiano ancora fatto.
“Non vedo ancora nella mentalità delle Forze di Difesa israeliane il necessario cambiamento che ci permetterebbe di affrontare meglio il fenomeno della guerra sotterranea”, ha dichiarato a JNS Yehuda Kfir, ingegnere civile e ricercatore nel campo della guerra sotterranea.
Il professor Joel Roskin, geomorfologo dell'Università Bar-Ilan di Ramat Gan, è giunto alla stessa conclusione.
Forse l'esempio migliore è che quando le Forze di Difesa israeliane hanno costruito il loro “muro intelligente” (completato nel 2021) tra Israele e Gaza, hanno permesso ad Hamas di costruire tutte le infrastrutture sotterranee, purché rimanessero sul loro lato della recinzione.
La città sotterranea di Gaza che ne è derivata, da cui Hamas ha potuto comandare e controllare le sue truppe, mandarle all'attacco e richiamarle per proteggerle, ha contribuito a prolungare la guerra e a impedire a Israele di salvare gli ostaggi rimasti.
È così che il leader di Hamas Yahya Sinwar è riuscito a sfuggire alle forze israeliane per più di un anno. Lo stesso Sinwar è stato rilasciato dalla custodia israeliana nel 2011 (insieme ad altre 1.026 persone) in cambio del soldato delle Forze di Difesa israeliane Gilad Shalit, che era stato rapito da terroristi emersi da un tunnel.
Kfir sostiene che il 7 ottobre non sarebbe accaduto senza il vasto sistema di tunnel di Hamas. “Sinwar non avrebbe osato invadere in quel modo se non ci fosse stato questo sistema sotterraneo dal quale avrebbe potuto sopravvivere e continuare a lavorare”, ha dichiarato a JNS.
Le conclusioni di Kfir e Roskin sono state espresse anche altrove.
Asher Katz, un riservista delle Forze di Difesa israeliane specializzato in tunnel, ha dichiarato, in un'intervista rilasciata  alla fine di settembre a David Harris del Jewish Broadcasting Service, che Israele si è reso conto solo nel 2021 che i tunnel erano più di una tattica di Hamas (cioè un modo per spostare i combattenti da un luogo all'altro). Erano piuttosto l'intera “filosofia strategica” di Hamas, un mezzo per combattere, nascondersi e sopravvivere.
Hamas pensa in modo strategico, Israele invece pensa in modo tattico, ha detto Asher, aggiungendo: “Gli israeliani sono molto bravi a risolvere i problemi. Dateci un problema e lo risolveremo. Non credo che siamo così bravi nella strategia”.
L'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, David Friedman, ha detto il 9 ottobre  all'intervistatore Dave Rubin che se aveva una critica da fare alla guerra di Israele a Gaza, era che ci stava mettendo troppo tempo, cosa che attribuiva al sistema di tunnel di Hamas.
“Loro [Hamas] hanno 350 miglia di tunnel del terrore”, ha detto, aggiungendo che gli israeliani non hanno capito a cosa andavano incontro. “Io dico che Hamas ha avuto il più grande vantaggio di campo nella storia della guerra di terra”.
Le forze israeliane hanno migliorato significativamente le loro operazioni di scavo dei tunnel nell'ultimo anno, ha ammesso Kfir, sottolineando la decisione dell'esercito di dispiegare le proprie forze sottoterra e di cooperare con le forze in superficie.
Nel filmato che segue, il generale di brigata delle Forze di Difesa israeliane Dan Goldfus descrive questi movimenti simultanei di truppe.

Israele usa i tunnel del nemico per avanzare. Ma Kfir ha detto che questo non è sufficiente, Israele lascia ancora l'iniziativa al nemico. Il campo di battaglia moderno è diventato multistrato, ma Israele sta trascurando un intero strato, ha detto. Ha paragonato la situazione a quella di una marina senza sottomarini che opera solo in superficie.
Kfir e Roskin, che ammettono di essere attualmente in minoranza sulla questione, sostengono che Israele deve costruire i propri tunnel di attacco. Il concetto può sembrare fantascientifico, ma essi immaginano un campo di battaglia sotterraneo in cui le forze israeliane scavano tunnel per condurre le proprie operazioni e contrastare quelle del nemico.
Roskin ha dichiarato: “Se non si scava di persona e non si sperimenta il processo di costruzione, la routine di vivere in un tunnel, non si capisce davvero di cosa si tratta”.
Kfir e Roskin hanno recentemente pubblicato un rapporto sul tunnelling offensivo, che hanno distribuito a varie persone delle Forze di Difesa israeliane, appartenenti a unità di ingegneria, intelligence, ricerca e sviluppo e altre. “Nessuno ci ha chiamato per parlarne”, ha detto Roskin.
Una delle ragioni è che la responsabilità per la costruzione di tunnel è diffusa. Non c'è un unico indirizzo per le gallerie nell'esercito. Kfir e Roskin sostengono che è necessario un cambiamento organizzativo: la creazione di un ramo delle Forze di Difesa Israeliane che si occupi esclusivamente di guerra sotterranea.
Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato a JNS che i tunnel sono supervisionati da Yahalom, un'unità speciale del Corpo di Ingegneria da Combattimento israeliano. Tuttavia, i compiti di Yahalom non comprendono solo i tunnel.
Alla domanda di JNS su uno speciale laboratorio di tunnel istituito nel 2018, il “Laboratorio tecnologico per l'individuazione e la localizzazione dei tunnel”, che si concentra specificamente sull'individuazione e la localizzazione dei tunnel, le Forze di difesa israeliane hanno detto che opera sotto la Divisione Gaza, separato da Yahalom.
“Dato l'uso multiplo dei tunnel da parte di Hamas e ora di Hezbollah, abbiamo chiesto una divisione separata o almeno una grande unità di ricerca all'interno dell'esercito”, ha detto Roskin.
Le forze israeliane stanno conoscendo solo ora l'estensione dei tunnel di Hezbollah nel sud del Libano. All'inizio della scorsa settimana, hanno scoperto un tunnel lungo 800 metri che doveva servire come piattaforma di lancio per un attacco al nord di Israele. Secondo quanto riferito, Hezbollah aveva pianificato un proprio massacro in stile 7 ottobre contro le comunità settentrionali di Israele (la cui portata sarebbe stata di gran lunga peggiore dell'attacco di Hamas).
Dopo aver visitato il tunnel, Noam Amir, reporter militare di Channel 14, ha detto che era più grande degli 800 metri stimati dalle Forze di Difesa israeliane, poiché c'erano diramazioni verso stanze, una delle quali ospitava un enorme generatore, un'altra era un gigantesco hangar e altre conducevano a dormitori, cucine e depositi di armi. “Ho camminato per 45 minuti per quelli che mi sono sembrati diversi chilometri”, ha detto.
“Loro [Hezbollah] hanno cibo per molti mesi. Poiché hanno una lunga durata di conservazione, si possono usare per anni. Non sono i datteri e le noci che venivano dati ai terroristi nei tunnel di Gaza. Ci sono anche dei motorini. E si vede una stanza per i terroristi con televisori al plasma... E ci si chiede cosa abbiano costruito sotto il nostro naso per più di due decenni”, ha detto Amir.
Uno dei motivi per cui Israele non si è impegnato a fondo contro i tunnel è che la sua attenzione e le sue risorse sono concentrate su altre minacce più pressanti. “I razzi volano a 15.000 miglia all'ora. I tunnel avanzano di uno o cinque metri al giorno”, afferma Roskin.
La guerra sotterranea non è solo un problema di Israele, ma un problema mondiale, ha detto Kfir. In parte perché i cattivi attori sono stati ispirati dalla capacità di Hamas di resistere così a lungo nonostante l'intero establishment militare e politico israeliano fosse mobilitato contro di loro.
Secondo Kfir, l'America è tranquillamente preoccupata di un'invasione cinese di Taiwan attraverso un tunnel, che è tecnicamente possibile scavare sotto lo Stretto di Taiwan. “I cinesi stanno per conquistare il mercato mondiale delle macchine per lo scavo di tunnel (TBM)”, ha detto. “Oggi non c'è quasi nessuna azienda in questo campo che non sia controllata da loro”.
I tunnel torneranno ad essere una minaccia per la Striscia di Gaza? Questo timore è già stato espresso da alcuni. Jonathan Conricus, tenente colonnello delle Forze di Difesa israeliane (in pensione), ha espresso la preoccupazione che le forze armate non stiano facendo abbastanza per contrastare una futura minaccia proveniente dai tunnel sotto il Corridoio di Filadelfia, lungo il confine tra Gaza ed Egitto.
La Forza di Difesa israeliana sta perseguendo ingressi specifici di tunnel in una “soluzione puntuale” piuttosto che una “soluzione sistemica” che affronti tutti i tunnel, ha dichiarato Conricus a JNS. “Ciò di cui abbiamo bisogno è un cambiamento permanente, o almeno che duri più a lungo”.
Conricus propone una barriera sotterranea, “una sorta di muro difensivo”, simile a quello costruito da Israele intorno a Gaza, che ha impedito ad Hamas di usare i tunnel nell'attacco del 7 ottobre. Si tratta di scavare una profonda trincea, profonda molti metri, e di riempirla di cemento, che sia  dotata di sensori e segni sostanzialmente il confine. Questo non rende impossibile scavare un tunnel, ma lo rende molto, molto difficile”, ha detto.
Sebbene il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia dichiarato che Israele manterrà le sue truppe nel Corridoio di Filadelfia, secondo Conricus non ci sono garanzie. Gli Stati Uniti e l'Egitto stanno esercitando pressioni per frenare l'idea. Un muro di separazione darebbe almeno a Israele una certa misura di controllo su ciò che accade sotto la Striscia di Gaza se fosse costretto ad andarsene, ha detto.
Il Corridoio di Filadelfia è il luogo in cui sono iniziati tutti i problemi, ha detto Kfir. Negli anni '80, Israele ha avuto il suo primo incontro con i tunnel sotto forma di contrabbando sotterraneo da parte dei terroristi. Le forze armate israeliane avevano difficoltà ad agire contro di loro. Il successo iniziale dei terroristi li ha portati a espandere l'uso dei tunnel e a piazzare esplosivi sotto i soldati israeliani. Il primo è stato fatto esplodere nel 2001.
Roskin ha detto che le truppe israeliane devono rimanere sul confine.
“Se Israele vuole il controllo di Gaza, deve controllare il corridoio di Philadelphia e deve controllarlo sul campo”, ha detto.
Anche gli ufficiali israeliani che nel 2005 erano favorevoli al ritiro da Gaza sostenevano allora che Israele doveva mantenere il corridoio di Filadelfia. “Erano piuttosto scioccati dal fatto che [l'allora primo ministro] Ariel Sharon volesse rinunciare a Philadelphi. Abbiamo visto il prezzo che abbiamo pagato per questo”, ha detto Roskin.

(Israel Heute, 21 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Quando?

di Niram Ferretti

Quando? È questa la domanda base in merito al futuro attacco di Israele sull’Iran a seguito di quello con duecento missili avvenuto il primo ottobre scorso da parte di Teheran.
Ieri, un drone proveniente dal Libano è stato lanciato sull’abitazione estiva di Benjamin Netanyahu a Cesarea, senza provocare conseguenze gravi, danneggiando solo alcuni vetri. Netanyahu era altrove, e altrove, in un luogo che si dice sicuro, si troverebbe la Guida Suprema dell’Iran, Alì Khamenei, ma è davvero sicuro il luogo in cui si trova?. Israele ha ampiamente dimostrato la porosità dell’Iran, quanto esso sia infiltrato dalla propria intelligence. Ismail Haniyah è stato ucciso a luglio dopo una meticolosa preparzione. Avere preso di mira l’abitazione di Netayahu è stato un azzardo, o peggio, un errore che verrà pagato caro, così ha dichiarato lo stesso Netanyahu.
Quando?
L’Amministrazione Biden ormai in dirittura finale non vuole che Israele colpisca i siti nucleari iraniani e i pozzi petroliferi, un attacco di questo tipo potrebbe seriamente mettere in mora il regime terrorista che l’Amministrazione Obama ha meticolosamente coccolato e che dopo la brusca interruzione delle coccole da parte dell’Amministrazione Trump, Joe Biden, con la sua amministrazione stipata da ex funzionari di Obama, soprattutto relativamente all’agenda iraniana, ha ripreso a coccolare.
Ieri, ancora, alcuni documenti segreti relativi al previsto attacco israeliano sull’Iran hanno visto la luce sui canali Telegram legati alle Guardie della Rivoluzione iraniania. Secondo fonti americane, il leak sarebbbe statto orchestrato da un funzionario dell’apparato militare americano. Al momento è in corso una indagine da parte del Dipartimento di Stato e dell’FBI. C’è un precedente, quando l’Amministrazioe Obama-Biden nel 2012 fece uscire un leak riguardo al piano israeliano di colpire i siti nucleari iraniani, di fatto facendo abortire l’attacco.
Una ulteriore domanda occorre farsela. I piani di Israele di cui gli americani sono attualmente al corrente sono quelli che esso conta di attuare, o sono in realtà una copertura, un depistamento, mentre l’attacco che avverrà realmente, già deciso, sarà diverso?
Netanyahu non può certo fidarsi di questa amministrazione, sa benissimo quale è il suo orientamento, conosce i precedenti, così come sa che in questo momento l’Iran si trova ad attraversare una fase di fragilità notevole dopo la decapitazione dei vertici di Hamas e di Hezboallh, culminata con la morte dei suoi leader carismatici, Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah, con Hamas ridotto a brandelli nella Striscia e Hezbollah fortemente depotenziato a seguito dell’offensiva israeliana. È il momento favorevole, il migliore, per colpirlo, per fare ciò che già doveva essere fatto nel 2012 e che non fu possibile fare, è il momento di andare fino in fondo, sì, ma di nuovo, quando?
Tra meno di tre settimane si saprà chi guiderà gli Stati Uniti per i prossimi quattro anni, non è molto tempo, si può ancora attendere. Israele colpirà lo stesso l’Iran, indipendentemente da chi vincerà le elezioni il 5 novembre, ma una eventuale vittoria di Donald Trump darebbe a Netanyahu la lena necessaria per colpire in profondità il proprio nemico principale e forse, in questo modo. modificare struturalmente lo scenario mediorientale per molti anni a venire.

(L'informale, 21 ottobre 2024)

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Le condizioni di Israele per il cessate il fuoco in Libano

Il messaggio principale dell'IDF è che se l'esercito libanese e l'UNIFIL fanno di più, l'IDF farà di meno e viceversa.

di Sarah G. Frankl

Secondo un rapporto che descrive le richieste che Israele ha presentato alla Casa Bianca, Israele vuole essere in grado di imporre attivamente il disarmo di Hezbollah nel sud del Libano e di mantenere un accesso illimitato allo spazio aereo libanese nell’ambito di qualsiasi accordo di cessate il fuoco che ponga fine alla guerra.

Le richieste sono state incluse in un documento redatto da Israele e consegnato all’inviato della Casa Bianca Amos Hochstein in vista del suo viaggio odierno nella regione con l’obiettivo di mediare la fine dei combattimenti, riferisce Axios, citando funzionari statunitensi e israeliani.

Secondo il sito d’informazione statunitense, Israele vuole essere in grado di “applicare attivamente” la Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che richiede che le Forze Armate Libanesi (LAF) siano l’unica forza armata nel Libano meridionale. Vuole anche avere la libertà di operare sullo spazio aereo libanese, di cui attualmente gode su base de facto.

Secondo Israele, la risoluzione è rimasta in gran parte inapplicata da quando è stata approvata nel 2006, consentendo a Hezbollah di costruire un formidabile arsenale di armi e capacità difensive, senza che né le forze di pace UNIFIL né le LAF siano disposte a sfidare il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran.

Israele ha ripetutamente dipinto la sua offensiva nel sud del Libano come un intervento che fa il lavoro dell’UNIFIL al posto suo.

“Stiamo parlando della 1701 con una maggiore applicazione. Il nostro messaggio principale è che se l’esercito libanese e l’UNIFIL fanno di più, l’IDF farà di meno e viceversa”, ha dichiarato un funzionario israeliano.

Il sito riporta che gli Stati Uniti sostengono il rafforzamento del mandato dell’UNIFIL e delle LAF per contrastare meglio Hezbollah.

(Rights Reporter, 21 ottobre 2024)

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Libico progettava “attacco con armi da fuoco” all'ambasciata israeliana di Berlino

Un sospetto sostenitore dell'IS è stato arrestato vicino a Berlino. Secondo gli inquirenti, voleva compiere un “attacco di alto profilo” all'ambasciata.

BERLINO - La Procura federale ha arrestato un libico che avrebbe pianificato un attacco con armi da fuoco all'ambasciata israeliana di Berlino. L'arresto è avvenuto sabato sera a Bernau, vicino a Berlino, come ha annunciato domenica a Karlsruhe la massima autorità giudiziaria tedesca. Omar A. è un sostenitore dell'ideologia dell'organizzazione terroristica “Stato Islamico” (IS).
“Al più tardi dall'ottobre 2024 intendeva compiere un attacco di alto profilo con armi da fuoco contro l'ambasciata israeliana a Berlino”, ha proseguito la procura federale. L'uomo aveva scambiato informazioni con un membro dell'IS in una chat di messaggistica per pianificare il piano.
Domenica A. sarà portato davanti a un giudice istruttore della Corte federale di giustizia, che deciderà sulla sua detenzione preventiva. La Procura federale ha dichiarato che l'uomo era fortemente sospettato di sostenere un'organizzazione terroristica all'estero.

• La soffiata proviene da un servizio di intelligence straniero
  Secondo “Tagesschau”, il 28enne libico è stato arrestato dall'unità antiterrorismo GSG9 dopo che le autorità di sicurezza tedesche avevano ricevuto una soffiata da un servizio di intelligence straniero il giorno prima. Un portavoce della Procura Generale Federale ha inizialmente rifiutato di confermarlo.
Il quotidiano “Bild” (online) ha scritto che l'uomo arrestato era un richiedente asilo respinto. La polizia ha perquisito l'appartamento dell'accusato a Bernau. Inoltre, è stata perquisita l'abitazione di un non sospettato nel distretto di Rhein-Sieg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, ha annunciato l'ufficio del procuratore federale.
Il Ministro degli Interni federale Nancy Faeser (SPD) ha spiegato che il raid delle autorità di sicurezza dimostra che la protezione delle istituzioni ebraiche e israeliane in Germania è vitale e della massima importanza. “Stiamo agendo con la massima vigilanza e attenzione in considerazione dell'alto livello di minaccia rappresentato dalla violenza islamista, antisemita e anti-israeliana”, ha sottolineato il ministro.

• Prosor ringrazia le autorità di sicurezza
  Il Ministro federale della Giustizia Marco Buschmann (FDP) ha ricordato che il Consolato generale di Israele a Monaco di Baviera è stato oggetto di un attacco islamista lo scorso settembre. “Le nostre forze di sicurezza continueranno a fare tutto ciò che è in loro potere per garantire che i pericolosi piani degli odiatori di Israele e degli antisemiti non si concretizzino”, ha scritto Buschmann su X.
L'ambasciatore israeliano Ron Prosor ha ringraziato le autorità di sicurezza tedesche. Ha spiegato su X: “L'antisemitismo musulmano non si limita alla retorica odiosa, ma promuove il terrorismo globale. I dipendenti dell'ambasciata israeliana sono particolarmente a rischio perché sono in prima linea nella diplomazia”.

• Richiesta: rafforzare i servizi di intelligence
  Konstantin von Notz, vice capogruppo dei Verdi, ha elogiato le autorità di sicurezza per aver sventato l'attacco. Tuttavia, è urgente rafforzarli: “Alla luce delle sfide attuali, dobbiamo parlare di un rafforzamento massiccio dei nostri servizi di intelligence in termini di fondi, personale e tecnologia”, ha dichiarato von Notz a Die Welt.
Anche il portavoce del gruppo parlamentare CDU/CSU per la politica interna, Alexander Throm, ha dichiarato: “I nostri servizi hanno bisogno di maggiori poteri nella sfera digitale per affrontare le sfide attuali in un periodo di guerre e minacce terroristiche”.
Il presidente della Società tedesco-israeliana, Volker Beck, ha parlato di un “campanello d'allarme”. “Dobbiamo finalmente prendere sul serio l'antisionismo islamista che minaccia lo Stato”, ha chiesto.

(Israelnetz, 21 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Individuati trenta soggetti legati a Hamas in sette paesi europei

di Nathan Greppi

Lo European Leadership Network (ELNET) ha pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio la portata dell’infiltrazione e dell’influenza di Hamas in Europa.
  “I risultati sono allarmanti”, si legge in una nota di ELNET in merito al rapporto, che ha rivelato i nomi di 30 individui e organizzazioni affiliate ad Hamas in sette paesi europei. I risultati del rapporto sono stati confermati dall’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti.

• IL REPORT
  Anche se Hamas è un’organizzazione terroristica e riconosciuta come tale dall’Unione Europea, le organizzazioni e le persone identificate nel rapporto raccolgono fondi, reclutano membri e diffondono liberamente disinformazione per essa. Riescono a bypassare i quadri giuridici mantenendo segreti i loro legami con Hamas o, quando vengono scoperti e smascherati, creando nuove organizzazioni di facciata per nascondere la loro identità.
  Oltre a singole organizzazioni, ELNET ha identificato reti di vari enti, tra cui la Palestinians in Europe Conference (EPC), che ospita eventi annuali con relatori affiliati ad Hamas, lo European Palestinian Council for Political Relations (EUPAC), creato da individui legati ad Hamas, il Palestinian Return Centre (RPC) nel Regno Unito, l’ABSPP in Italia e il VPNK in Germania.
  Emmanuel Navon, CEO di ELNET, ha dichiarato: “Alla luce di questi risultati, ELNET esorta i governi europei ad agire rapidamente, indagando a fondo e chiudendo queste organizzazioni affiliate ad Hamas, al fine di impedirle di destabilizzare ulteriormente sia il Medio Oriente che l’Europa”. Ha inoltre aggiunto: “Le banche e le istituzioni finanziarie devono monitorare attentamente le attività degli individui nominati nei report, e rivedere i loro legami finanziari per prevenire ulteriori sostegni alle attività terroristiche”.
  “ELNET invita inoltre gli istituti di ricerca e i think tank a contribuire ad esporre queste attività al pubblico e a garantire che le reti di raccolta fondi di Hamas in Europa vengano smantellate”, ha concluso Navon.

• LA SITUAZIONE IN ITALIA
  L’ABSPP (Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese), il cui presidente Mohammad Hannoun è stato recentemente sanzionato dagli Stati Uniti in quanto finanziatore di Hamas, in passato è già stata al centro di controversie: nell’aprile 2017, ha organizzato il Festival della Solidarietà Palestinese a Milano, Brescia e Verona. Tra i loro ospiti, figurava Mohammad Moussa Al Sharif, teologo islamico saudita che ha difeso i matrimoni con bambine sotto i 14 anni e accusato cristiani, atei e “fornicatori” di essere una minaccia ai diritti umani. Un altro ospite controverso era Riyad al-Bustanji, che in un’intervista del 2012 all’emittente televisiva Al-Aqsa raccontava di aver portato la figlia a Gaza perché imparasse ad educare i suoi bambini alla Jihad e al martirio.
  Un’altra organizzazione con sede in Italia ad essere finita nella lista di ELNET è l’agenzia di stampa Infopal, ritenuta talmente estrema che in passato ne ha preso le distanze persino Mariano Mingarelli, presidente di una onlus filopalestinese di Firenze, il quale in un’intervista al Corriere Fiorentino del 2010 ammetteva che ci fossero dei veri antisemiti nella redazione di Infopal.

(Bet Magazine Mosaico, 21 ottobre 2024)

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Il dopo-Sinwar: tregua o ultima spallata a Hamas?

L’eliminazione del capo di Hamas Yahya Sinwar, ucciso a Rafah il 16 ottobre, apre un interrogativo sul futuro della guerra a Gaza contro Hamas: quanto durerà ancora? Da una parte, in particolare i famigliari degli ostaggi chiedono al governo israeliano di sfruttare il momento di debolezza del gruppo terroristico per siglare un accordo e riportare a casa i 101 rapiti ancora prigionieri a Gaza. Dall’altra nell’esecutivo e nell’opinione pubblica c’è chi vuole continuare la missione per smantellare Hamas ora che ha perso il suo leader, l’architetto delle stragi del 7 ottobre. La sua uccisione rappresenta una vittoria contro il male, hanno sottolineato Gerusalemme e molti governi alleati, anche se in alcune piazze italiane manifestanti pro palestinesi hanno provato a definire il terrorista Sinwar un eroe.
  Per Washington la sua eliminazione è stata «un momento di giustizia e un’opportunità». L’amministrazione Biden sostiene l’opzione di una tregua immediata, esclusa per il momento da Israele. «Non ci sarà nessun progresso sostanziale nei colloqui per il cessate il fuoco finché non avremo finito con l’Iran», afferma una fonte governativa a ynet.
  Israele da settimane prepara la risposta al regime di Teheran per l’attacco del 1 ottobre. Una risposta che si prevede ancor più dura dopo quanto accaduto nelle ultime 24 ore: il tentativo di colpire direttamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. L’obiettivo era la sua casa privata a Cesarea, presa di mira da tre droni lanciati da Hezbollah dal Libano. Due sono stati intercettati, ma il terzo è esploso nella cittadina a nord di Tel Aviv. «Gli agenti dell’Iran che hanno cercato di assassinare me e mia moglie oggi hanno commesso un grave errore», ha commentato Netanyahu. Al momento dell’attacco la casa di Cesarea era vuota, ma rimane la gravità dell’episodio. «È essenzialmente un attacco contro lo stato d’Israele e i suoi simboli», ha commentato il ministro della Difesa Yoav Gallant. «Continueremo ad attaccare qualsiasi attore terroristico e colpire con forza qualsiasi nemico che tenti di danneggiarci», ha affermato Gallant. «Le nostre azioni in tutto il Medio Oriente», ha aggiunto, «lo hanno dimostrato finora e sarà così anche in futuro». Azioni concentrate nelle ultime settimane nel nord, dove la guerra con Hezbollah prosegue. I razzi dei terroristi libanesi rappresentano una minaccia costante: nelle ultime 24 ore quasi duecento sono stati sparati contro l’area di Haifa e della Galilea Occidentale. Un uomo, Alexei Popov, 51 anni, è morto ieri per le schegge di un razzo, mentre cercava riparo a bordo di una strada. Nell’esprimere il suo cordoglio, Gallant ha ribadito che l’operazione per mettere in sicurezza il nord d’Israele non si fermerà. I soldati di Tsahal stanno combattendo nel sud del Libano per smantellare le infrastrutture di Hezbollah, mentre l’aviazione militare continua nelle eliminazioni mirate dei leader del movimento.

(moked, 20 ottobre 2024)

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Sinwar: come è stato eliminato e cosa accade ora

di Ugo Volli

• LA FINE DI UN ASSASSINO
  Yahya Sinwar, il capo di Hamas, è stato eliminato mercoledì scorso a Tal El Sultan, un quartiere della città di Rafah, a poco più di un chilometro dal confine con l’Egitto. È un risultato importante sul piano della giustizia, perché Sinwar era stato l’organizzatore e il principale responsabile delle stragi del 7 ottobre, era un torturatore crudele e un assassino, aveva deciso personalmente l’orribile trattamento delle persone rapite, era soprannominato dai palestinesi “il macellaio di Kahn Yunis” non per il male che aveva fatto agli israeliani ma per quello che aveva inflitto agli abitanti arabi di quella città. Ma la sua morte è anche un fatto rilevante sul piano politico e militare, perché Sinwar, da molti anni leader di Hamas a Gaza, ne aveva preso in mano direttamente anche il comando militare dopo l’eliminazione il 30 luglio del precedente responsabile Mohammed Deif e inoltre era stato nominato presidente dell’ufficio politico di Hamas dopo che era stato ucciso all’inizio di luglio Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas. Era l’uomo di fiducia degli iraniani: cosa che non si può dire del suo probabile successore in quest’ultima carica di Khaled Meshal, che è piuttosto l’uomo dei turchi nella leadership di Hamas; ma ci sono altri candidati come Khalil al-Hayya e il fratello di Sinwar, comandante terrorista della zona sud di Gaza. Ma con la sua figura truce e sanguinosa e con la sua lunga clandestinità a Gaza, Yahya Sinwar era anche un’autorità indiscussa fra i terroristi sul campo e un punto di riferimento per tutti i sostenitori della distruzione di Israele. È stato compianto non solo dall’“asse della resistenza”, ma anche da Turchia, Autorità Palestinese e dai filoterroristi di mezzo mondo, inclusa l’Italia. Non c’è dubbio che questo sia il colpo più duro per l’asse anti-israeliano, anche più dell’eliminazione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.

• COME È STATO LIQUIDATO SINWAR
  L’operazione, secondo i resoconti israeliani, è stata un risultato inatteso del pattugliamento di Rafah ad opera dei carristi di leva della 828ᵃ brigata; non vi sono stati coinvolti né i servizi di informazione (quello militare Haman e quello interno Shanak, che hanno competenza su Gaza, dove non opera il Mossad), che hanno ancora difficoltà a penetrare la rete di Hamas. I soldati di pattuglia hanno notato mercoledì tre terroristi in fuga verso il confine, li hanno inseguiti ed eliminati senza sapere di chi si trattasse. Solo il giorno dopo, ispezionando la casa che avevano colpito si sono accorti che uno di loro era probabilmente Sinwar e un altro Mahmoud Hamdan, comandante della brigata di Hamas a Tal al Sultan – identificazioni poi confermate. Sono dettagli significativi perché danno ragione a Netanyahu e al governo israeliano che si è battuto contro tutti per occupare Rafah il corridoio “Filadelfi” al confine con l’Egitto e continuare a ispezionarle per eliminare tutti i terroristi. Avevano invece torto i molti (fra gli altri Biden, Harris, Macron, Guterres, Putin, l’Egitto, l’Unione Europea, tutta la sinistra del mondo inclusa quella italiana e in parte anche il nostro governo), che profetizzavano grandi disastri se Israele fosse entrato nell’ultima roccaforte di Hamas. Fra costoro c’è chi per Rafah ha minacciato e anche attuato un blocco dei rifornimenti militari all’esercito israeliano. Il disastro c’è stato, ma per Hamas. È una grande fortuna per Israele avere un primo ministro come Netanyahu che non si piega allo spirito di resa (la “sindrome dell’appeasement”) della leadership europea e americana.

• CHE SUCCEDE ORA
  Molti politici e commentatori, anche qualcuno non pregiudizialmente ostile all’autodifesa di Israele, hanno sostenuto che la morte di Sinwar aprisse una “finestra di opportunità” per la conclusione della guerra o almeno una tregua e la liberazione dei rapiti, purché Israele desse segnali di “moderazione”, per esempio rinunciando ad attaccare l’Iran in risposta ai bombardamenti recenti e considerasse di aver ottenuto il proprio obiettivo, liquidando il capo di Hamas. Non è così. Innanzitutto i segnali che vengono con numerose dichiarazioni dall’Iran e da Hamas (che grazie al lavoro di questi mesi non ha la forza di cercare di vendicarsi con nuovi missili), e da Hezbollah anche con nuovi bombardamenti di droni e missili incluso il tentativo di colpire la casa di Netanyahu, sono del tutto negativi.

• LA POSIZIONE ISRAELIANA
  Ma anche da parte israeliana, la guerra iniziata dopo il pogrom del 7 ottobre non è motivata da ragioni di giustizia e neppure può limitarsi alla liberazione degli ostaggi. Israele non vuole neppure conquistare nuovi territori. Cerca semplicemente di compiere il dovere fondamentale di ogni stato, garantire la sicurezza dei propri cittadini. Per questo scopo essenziale la guerra continua, come ha detto Netanyahu, anche in questo momento sul terreno, fin che ci saranno terroristi in libertà. Ma non basta aver distrutto largamente la forza militare di Hamas e in parte notevole anche quella di Hezbollah. Occorre completare il loro disarmo, sradicarli dai territori vicino a Israele dove sono ancora insediati, deradicalizzare la popolazione palestinese e sciita che come mostrano i sondaggi li appoggia largamente. E bisogna anche tagliare le unghie della testa della piovra terrorista, che è lo stato teocratico dell’Iran. Il problema è l’Iran Hezbollah e Hamas (e gli Houti, e la dittatura siriana e i terroristi iracheni, quelli sudanesi ecc.) non sarebbero pericolosi se non fossero finanziati e armati dall’Iran, con l’appoggio di Russia e Cina. Anche se sconfitti, potrebbero presto risorgere se l’Iran continuasse nella sua politica della “cintura di fuoco” intorno a Israele, ricominciando ad armarli, allenarli, finanziarli. L’Iran, sessanta volte più vasto di Israele e dieci volte più popolato, lavora da decenni per procurarsi la bomba atomica che lo renderebbe inattaccabile. È uno stato clericale e dittatoriale che opprime la sua popolazione; è guidato dal piano imperialista di dominare tutto il Medio Oriente, distruggere Israele e mettersi a capo dell’Islam nella conquista del mondo. Perfino l’amministrazione Biden che sulle tracce di Obama ha cercato a lungo di fare accordi con esso, concorda oggi che l’Iran non deve avere l’atomica. Ma ha esplicitamente proibito a Israele, che pure come paese aggredito ne ha il diritto, di cercare di eliminarne gli impianti nucleari. Ora è il momento in cui è possibile farlo, anche se al costo probabile di una rappresaglia pesante. Solo eliminando la minaccia atomica dell’Iran la guerra sarebbe davvero finita e con essa l’aggressione islamista all’Occidente. Si aprirebbe un quadro politico del tutto diverso, di pace e benessere per tutto il Medio Oriente. Il governo israeliano è di fronte a una scelta molto difficile, come fu difficile entrare a Rafah contro l’opposizione di tutti. Vedremo nelle prossime settimane, mentre si avvicina l’appuntamento decisivo delle elezioni americane, quali saranno le sue scelte.

(Shalom, 20 ottobre 2024)

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Gli ebrei come popolo e individui

di Marcello Cicchese

«Gli ebrei sono avari; gli ebrei hanno ucciso Gesù; gli ebrei non credono in Gesù». Sono frasi che sono state dette e forse si dicono ancora. Ma per valutarne il grado di aderenza alla realtà bisogna analizzarne anzitutto la portata semantica. Che cosa s’intende esattamente quando si dice “gli ebrei”? Tutti gli ebrei di tutti i tempi? Tutti gli ebrei di un certo periodo storico? Tutti gli ebrei oggi viventi? Se, come è probabile, si risponde “no”, a tutte le domande, si pone allora il problema di individuare il soggetto collettivo a cui si applicano certe frasi, anche perché di solito attribuiscono una responsabilità e invocano implicitamente un’adeguata reazione. Esiste un soggetto collettivo chiamato “popolo ebraico” che mantiene un’identità nel corso dei secoli e nella varietà dei contesti geografici e culturali? E in caso di risposta positiva, in che cosa consiste questa identità? Non è facile rispondere a simili domande, e infatti le risposte sono moltissime, anche da parte degli ebrei. Di fatto accade che molti scelgono una proprietà negativa che a loro sembra di aver osservato in alcuni ebrei, la elevano a caratteristica identitaria del popolo e fanno mostra di benevolenza  precisando che “però non tutti gli ebrei sono così”: qualcuno si salva. Le virtù sono individuali, i vizi sono collettivi.
  La Bibbia distingue tra popolo e individui. Israele è, e rimane sempre, il popolo eletto di Dio, ma per beneficiare delle benedizioni promesse al popolo i singoli membri devono conformarsi alle condizioni poste da Dio nel momento della storia in cui vivono. A questa distinzione accenna Gesù quando parla di Natanele come “un vero Israelita in cui non c’è frode“ (Giovanni 1:47) e anche l’apostolo Paolo quando scrive: “non tutti i discendenti d’Israele sono Israele” (Romani 9:6).
  La Bibbia però usa anche un altro termine collettivo: quello di generazione. Mentre il popolo è uno, nel tempo e nello spazio, le generazioni si susseguono:

    “Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre” (Ecclesiaste 1:4).
    “Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d’Israele: “Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi”. Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione.»” (Esodo 3:15).
    “Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Deuteronomio 5:9-10.

Dio non ha rigettato e non rigetterà mai il popolo che si è formato (Isaia 43:21), ma può far cadere il suo giudizio su una generazione che si rifiuta di ascoltare la sua Parola. Quando il popolo accampato nel deserto di Paran udì le relazioni dei dodici uomini mandati ad esplorare il paese di Canaan, dimenticò le promesse del Signore, si lasciò convincere dalle terrificanti descrizioni di dieci dei dodici esploratori e prese la decisione di tornare in Egitto. A questo punto Dio si adirò e manifestò l’intenzione di distruggere il popolo, ma per l’intercessione di Mosè cambiò il suo proposito e fece cadere il suo giudizio soltanto su quella generazione. Tutto il popolo però dovette subire le conseguenze di quella disubbidienza e fu costretto a camminare per quarant’anni nel deserto. Prima di entrare nella terra promessa Mosè ricordò al popolo queste cose:

    “Il Signore udì le vostre parole, si adirò gravemente e giurò dicendo: «Certo, nessuno degli uomini di questa malvagia generazione vedrà il buon paese che ho giurato di dare ai vostri padri, salvo Caleb, figlio di Gefunne. Egli lo vedrà. A lui e ai suoi figli darò la terra sulla quale egli ha camminato, perché ha pienamente seguito il Signore»” (Deuteronomio 1:34-36).

La generazione uscita dall’Egitto dunque fu condannata, ma il popolo fu risparmiato e continuò a sussistere grazie a un residuo di israeliti ubbidienti a cui Dio fece grazia.
  I fatti avvenuti nel deserto di Paran possono essere considerati un’anticipazione profetica di quello che avvenne in seguito alla venuta del Messia. Mosè infatti aveva parlato di “un profeta come me”, che Dio avrebbe mandato e a cui il popolo avrebbe dovuto dare ascolto:

    “Per te il Signore, il tuo Dio, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me; a lui darete ascolto! Avrai così quello che chiedesti al Signore tuo Dio, in Oreb, il giorno dell’assemblea, quando dicesti: «Che io non oda più la voce del Signore mio Dio, e non veda più questo gran fuoco, affinché io non muoia». Il Signore mi disse: «Quello che hanno detto, sta bene; io farò sorgere per loro un profeta come te in mezzo ai loro fratelli, e metterò le mie parole nella sua bocca ed egli dirà loro tutto quello che io gli comanderò. Avverrà che se qualcuno non darà ascolto alle mie parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto” (Deuteronomio 18:15-19).

A questo passo fece riferimento Stefano nel suo appassionato discorso davanti al Sinedrio d’Israele:

    “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: “Chi ti ha costituito capo e giudice?”, proprio lui Dio mandò loro come capo e liberatore con l’aiuto dell’angelo che gli era apparso nel pruno. Egli li fece uscire, compiendo prodigi e segni nel paese d’Egitto, nel mar Rosso e nel deserto per quarant’anni. Questi è il Mosè che disse ai figli d’Israele: “Dio vi susciterà, tra i vostri fratelli, un profeta come me”. Questi è colui che nell’assemblea del deserto fu con l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e con i nostri padri, e che ricevette parole di vita da trasmettere a noi. Ma i nostri padri non vollero dargli ascolto, lo respinsero, e si volsero in cuor loro verso l’Egitto” (Atti 7:35-39).

Gesù è “il profeta come me” di cui parlava Mosè, e infatti cominciò il suo ministero presentandosi al popolo come un profeta che annuncia l’imminente venuta del Regno di Dio e invita le persone al ravvedimento e alla fede.  Poi, con le sue parole e le sue opere, esibì chiari segni della sua messianità, ma dopo un’iniziale consenso popolare incontrò una reazione sempre più violenta da parte delle autorità religiose.
  Interessanti sono alcune analogie tra  i fatti di Paran e quelli descritti nei Vangeli. Davanti all’incredulità e ai mormorii del popolo, a un certo punto il Signore esclama:

    “Fino a quando sopporterò questa malvagia comunità che mormora contro di me?” (Numeri 14:27).

Una reazione simile ebbe anche Gesù davanti al popolo che metteva in dubbio le sue parole e continuava ad esigere segni della sua messianità:

    “Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò?»” (Matteo 17:17).

Giosuè e Caleb ricordarono al popolo le promesse di Dio e cercarono di indurlo a non ribellarsi a Lui, ma “tutta la comunità parlò di lapidarli”. In quel momento “la gloria del Signore apparve sulla tenda di convegno a tutti i figli d’Israele” (Numeri 14:10).
  Anche a  Stefano, nel momento in cui subiva la reazione furente alle sue parole di “tutti quelli che sedevano nel Sinedrio” (Atti 6:15), apparve la  gloria di Dio:

    “Essi, udendo queste cose, fremevano di rabbia in cuor loro e digrignavano i denti contro di lui. Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissati gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra, e disse: «Ecco, io vedo i cieli aperti, e il Figlio dell’uomo in piedi alla destra di Dio»” (Atti 7:54-56).

Dopo di che ci fu la reazione:

    “Ma essi, mandando alte grida, si turarono gli orecchi e tutti insieme si avventarono sopra di lui;f e, cacciatolo fuori dalla città, lo lapidarono. E i testimoni deposero le loro vesti ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. Così lapidarono Stefano, che invocava Gesù e diceva: «Signor Gesù, ricevi il mio spirito». Poi, postosi in ginocchio, gridò ad alta voce: «Signore, non imputare loro questo peccato». E, detto questo, si addormentò” (Atti:57-60).

Ma l’analogia più importante sta nel fatto che sia Mosè, sia Gesù hanno interceduto per il popolo peccatore:

    “Il Signore è lento all’ira e grande in bontà; egli perdona l’iniquità e il peccato, ma non lascia impunito il colpevole e punisce l’iniquità dei padri sui figli, fino alla terza e alla quarta generazione. Perdona, ti prego, l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui».” (Numeri 14:18, 19)
    “Gesù diceva: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Poi divisero le sue vesti, tirandole a sorte” (Luca 23:34).

La risposta data a Mosè fu:

    “Il Signore disse: «Io perdono, come tu hai chiesto” (Numeri 14:20).

Possiamo pensare che a suo Figlio il Padre possa aver detto una risposta diversa? Certamente no. Si può dire anzi che il perdono concesso al popolo nel deserto fu possibile proprio perché un giorno il Figlio di Dio avrebbe chiesto al Padre di perdonare i suoi nemici, offrendo Sé stesso come vittima espiatrice per i peccati del popolo.
  Al tempo di Mosè dunque il popolo in quanto tale fu perdonato, e questo si può riconoscere nel fatto che i bambini poterono entrare in seguito nella Terra promessa. Ma la generazione degli adulti fu condannata e non vi poté entrare, eccetto i pochi che erano rimasti fedeli alla Parola del Signore.
  Questo offre una corretta chiave di lettura di quello che accadde al tempo di Gesù. Dio ha permesso, anzi ha voluto, che il suo diletto Figlio morisse in croce perché proprio quello era il piano che aveva stabilito per riscattare il suo popolo e renderlo, attraverso la predicazione di Gesù che ne avrebbero fatto i suoi testimoni, strumento di salvezza per tutte le genti. Ma la generazione che aveva bestemmiato contro lo Spirito Santo (Matteo 12:31) attribuendo le opere di Gesù al potere di Satana e aveva consegnato il suo Messia nelle mani dei nemici di Israele, non poteva che essere giudicata e condannata.
  E’ chiaro che quando Dio castiga una generazione del suo popolo, le generazioni successive ne portano le conseguenze, ma non la colpa. L’antisemitismo cristiano si fonda per l’appunto sulla diabolica convinzione che l’intero popolo ebraico, in tutta la sua  estensione spaziale e temporale, porti la colpa dei fatti commessi dalla generazione del tempo di Gesù, con tutte le conseguenze. Le motivazioni “teologiche” portate da persone come Lutero e Bonhoeffer, lungi dall’attenuare la gravità dell’antisemitismo, ne rivelano la natura diabolica, perché attribuiscono a Dio una volontà  che appartiene invece al suo Avversario. Si rilegga  la frase di Bonhoeffer:

    «Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze.»

Vedere espressa, in una forma così garbata, al tempo di un Adolf Hitler, una visione teologica degli ebrei sostanzialmente simile a quella violenta di un Martin Lutero, può far capire come mai le chiese cristiane siano state così ottuse e inerti davanti ai fatti che portarono all’orrore dell’Olocausto.
  Riassumendo, per quanto riguarda popolo, generazione e singoli, con la morte e la risurrezione di Gesù è avvenuto questo: il popolo d’Israele è stato perdonato; la generazione di quel tempo è stata giudicata; i singoli, ebrei e gentili, hanno avuto ed hanno tuttora la possibilità di essere personalmente salvati e diventare figli di Dio se ricevono Gesù e credono nel suo nome (Giovanni 1:12), cioè se, riconoscendosi peccatori, lo accolgono per quello che Dio ha voluto e vuole che sia: l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Giovanni 1:29), il Messia d’Israele (Giovanni 1:41), il Salvatore del mondo (1 Giovanni 4:14), il Signore, alla gloria di Dio Padre (Filippesi 2:11).

(da "La superbia dei Gentili")



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Tre droni, l’intercettazione dell’elicottero israeliano e il significato simbolico

Cosa sappiamo dell’attacco di Hezbollah contro la villa di Netanyahu a Cesarea.

di Paolo Brera

TEL AVIV - Hezbollah ha spedito un drone per uccidere il premier israeliano Benjamin Netanyahu. È una risposta diretta e contraria all’attacco con cui gli israeliani hanno eliminato il loro leader, Nasrallah, colpendolo nel suo bunker a Beirut. Ma è una risposta simbolica, più che reale: certamente “mirava alla sua villa di Cesarea”, e quasi certamente l’ha centrata (non è confermato, ma neanche smentito). Bibi e la moglie però “non si trovavano lì”, e “non ci sono feriti”.

• L’ATTACCO CON TRE DRONI
  Ancora una volta Hezbollah ha usato la tattica del tre: ha inviato tre droni tentando di bucare contemporaneamente l’Iron Dome. E anche oggi - come già era successo nel raid contro la base militare Golani ad Haifa, in cui sono morti quattro giovani soldati israeliani colpiti nel refettorio – due dei tre droni sono stati abbattuti dal sistema difensivo aereo israeliano, ma uno lo ha bucato ed è riuscito a volare dritto sull’obiettivo. Non sappiamo quale fosse il target degli altri due.

• L’INTERCETTAZIONE CON L’ELICOTTERO
  L’attacco è stato subito identificato dai radar israeliani, e nel nord era scattato l’allarme aereo e l’invito a recarsi subito nei bunker. Un video ha catturato nitidamente il drone che avanza velocissimo a bassa quota, volando su terra ma parallelamente alla costa. Un elicottero, alzato in volo proprio come intercettore, è lentissimo al confronto: il drone gli sfila accanto, si sentono le sirene dell’allarme suonare, ma nulla ne contrasta l’avanzata. Attraverserà Haifa da nord verso sud, e poi proseguirà fino a Cesarea diretto al suo obiettivo.

• L’OBIETTIVO COLPITO
  Un alto funzionario del governo israeliano ha riferito alla tv Channel 12 che "l'Iran ha cercato di eliminare il primo ministro Benyamin Netanyahu". Inizialmente Tel Aviv non aveva chiarito neanche se l’obiettivo era stato centrato e con quali danni, ma si era limitata a far sapere che “non ci sono feriti”. I fotoreporter accorsi sono tenuti a distanza dalla villa del premier, che si trova nella zona in cui è avvenuta l’esplosione. Secondo i media arabi, che avevano per primi diffuso la notizia, sarebbe stato centrato il tetto della villa di Netanyahu.
  Israele dapprima si era limitato a confermare che il drone aveva colpito “una casa a Cesarea”. I residenti della zona raccontano di avere sentito un forte boato all’ora in cui stavano uscendo per andare in Sinagoga per le celebrazioni del sabato. Un boato che non sarebbe stato preceduto da nessun allarme: evidentemente le sirene erano suonate solo più a nord, fermandosi ad Haifa.

• LA VILLA DI NETANYAHU
  La villa dei coniugi Netanyahu a Cesarea è un grande edificio bianco con un ampio colonnato e una piscina, ed è circondata da un parco rigoglioso. Il premier è stato spesso contestato per le notevoli spese di manutenzione ordinaria e straordinaria della villa da 20 milioni di sicli, 5 milioni di euro, caricate sul bilancio dello Stato insieme a quelle per le altre residenze che possiede. Oltre alle spese annuali, nel 2020 l’ufficio del Primo Ministro ha approvato un investimento di 400mila euro proprio per ristrutturare la villa di Netanyahu a Cesarea, eliminando “gravi lacune nella sicurezza che richiedono un intervento immediato”.

• IL VERO OBIETTIVO DI HEZBOLLAH
  Dal 2009 però Netanyahu vive stabilmente nella residenza ufficiale di Gerusalemme, un attico da 10 milioni di sicli. Nella città santa ha a disposizione anche una terza residenza, la casa ereditata insieme al fratello. È probabile che Hezbollah abbia scelto di colpire proprio stamattina contando sulla possibilità che il premier avesse scelto di trascorrere lì la festività ebraica del sabato. Ma il vero obiettivo dell’azione è chiaramente simbolico. Colpire la persona, il leader, allo stesso modo in cui Israele sta eliminando uno a uno i leader delle forze con cui combatte: dal capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran; al leader sciita libanese Hassan Nasrallah, ucciso nel suo bunker a Beirut; fino al capo di Hamas che ha architettato e condotto il 7 ottobre, Yahya Sinwar, ucciso a Rafah.
  Il messaggio è chiaro: rispondere con la stessa moneta retorica, avvertendo i leader di Israele che neppure loro potranno dormire serenamente: sono personalmente e direttamente nel mirino.

(la Repubblica, 19 ottobre 2024)

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L’Iran teme una trappola israeliana. Nucleare nel mirino

di Yoni Ben Menachem

A quanto pare Israele non ha ancora deciso i tempi dell’attacco all’Iran, ma la leadership iraniana è sotto pressione. Capisce che è impossibile cancellare l’attacco e cerca di ridurne le dimensioni facendo trapelare ai media indiscrezioni, secondo cui, se l’attacco israeliano non sarà eccessivamente grande, potrebbe contenerlo e non reagire contro Israele.
Le stesse fonti sottolineano che l’Iran teme una trappola israeliana. Sospetta che tutte le pubblicazioni e le speculazioni sugli obiettivi dell’attacco israeliano in Iran siano inganno e frode, e che Israele stia pianificando di sfruttare l’opportunità storica in cui ha legittimità internazionale, dopo l’attacco missilistico iraniano contro di esso, per attaccare i suoi principali impianti nucleari.
I commentatori dei paesi arabi affermano che non si può escludere la possibilità che Israele stia ingannando anche Washington, e che il primo ministro Benjamin Netanyahu non ha dato al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nella sua ultima telefonata, alcun impegno esplicito affinché Israele si astenga dall’attaccare i siti nucleari iraniani. o impianti dell’industria petrolifera.
Il leader supremo dell’Iran, Ali Khamenei, ha inviato il suo ministro degli Esteri Abbas Arakji in un tour itinerante in diversi paesi arabi come Iraq, Oman ed Egitto nel tentativo di trovare una soluzione alla crisi.
Gli iraniani sono anche sotto pressione a causa delle sanzioni che gli Stati Uniti hanno imposto all’Iran in seguito all’attacco con missili balistici contro Israele del 1° ottobre. Le sanzioni sono progettate per danneggiare i settori petrolifero e petrolchimico iraniano e, secondo gli americani, sono studiate per impedire al regime iraniano di generare entrate significative che vengono utilizzate per finanziare programmi nucleari, missilistici e attività terroristiche.
Secondo fonti americane, l’Iran non ha ancora ricevuto alcuna garanzia che l’attacco israeliano non coinvolgerà i siti nucleari presenti sul suo territorio o gli impianti dell’industria petrolifera. Fonti di intelligence occidentali affermano che l’Iran teme che l’amministrazione Biden non riesca a convincere Netanyahu a non attaccare il suo programma nucleare, soprattutto alla luce del fatto che Hezbollah ha perso gran parte della sua potenza militare e non può più fungere da deterrente per Israele.
Gli Stati Uniti hanno chiarito a Israele che si oppongono all’attacco ai siti nucleari e agli impianti petroliferi iraniani, ma, come accennato, non hanno ricevuto alcuna promessa da Israele che si asterrà dal farlo.
Fonti della sicurezza affermano che l’attesa dell’attacco israeliano crea disagio e frustrazione nella leadership iraniana, e la piazza iraniana è preoccupata anche per la possibilità di un attacco agli impianti petroliferi, che danneggerebbe gravemente l’economia iraniana.
Preoccupazione circonda anche i Paesi del Golfo, dopo che l’Iran ha annunciato che se Israele attacca i suoi impianti petroliferi, risponderà con un attacco all’industria petrolifera dei Paesi del Golfo. Vogliono rimanere fuori dal conflitto tra Israele e Iran.
L’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno informato l’Iran e gli Stati Uniti che non permetteranno a Israele di utilizzare il loro spazio aereo per attaccare l’Iran. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno esortato l’Iran a non farlo per rispondere all’attacco israeliano. L’amministrazione Biden sta cominciando a fare i conti con il fatto che un attacco israeliano all’Iran è inevitabile e teme che ciò porterà a una guerra regionale.
Fonti dell’intelligence occidentale affermano che Khamenei è sotto pressione interna da parte dei comandanti delle “Guardie Rivoluzionarie” per cambiare la politica nucleare iraniana e per approvare pubblicamente la produzione della prima bomba nucleare iraniana. Chiedono che revochi ufficialmente la fatwa da lui emessa, che vieta la produzione di armi nucleari.
Gli alti funzionari della sicurezza in Israele temono che l’Iran approfitterà del periodo di transizione tra le elezioni presidenziali americane di novembre e gennaio, quando il presidente eletto entrerà alla Casa Bianca, per prendere una decisione sulla produzione di armi nucleari, cosa che renderà difficile per l’amministrazione americana formulare una risposta adeguata a tale decisione.
Le stesse fonti spiegano che il timore potrebbe realizzarsi soprattutto se Donald Trump verrà eletto presidente. Gli iraniani hanno una lunga relazione con Trump, che ha ordinato l’assassinio di Qasem Soleimani, ha  fatto uscire gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare e ha imposto pesanti sanzioni a Teheran.

(Rights Reporter, 19 ottobre 2024)

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Finire il lavoro

di Niram Ferretti

A marzo, Joe Biden dichiarava che un ingresso delle truppe israeliane a Rafah, avrebbe costituito una “linea rossa”, seguito a ruota dalla vicepresidente Kamala Harris, ora candidata alla presidenza degli Stati Uniti, la quale affermava che avendo “studiato le mappe”, una operazione militare a Rafah non era praticabile.
  Gli Stati Uniti facevano da mosca cocchiera per il coro unanime internazionale che profetava un disastro di proporzioni apocalittiche se Israele avesse fatto il suo ingresso nella cittadina a sud di Gaza. Nonostante gli avvisi, o meglio, le intimazioni, a maggio Israele iniziava a Rafah l’operazione militare avente l’obiettivo di smantellare uno dei battaglioni ancora intatti di Hamas che vi si trovava asserragliato. Secondo le informazioni in suo possesso, a Rafah si nascondeva anche il leader di Hamas, Yahya Sinwar, ed è infatti lì che ieri è stato ucciso dalle forze dell’IDF mettendo finalmente fine alla sua epopea criminale.
  Se Netanyahu avesse dato retta alle intimazioni americane, oggi, con ogni probabilità, Sinwar sarebbe ancora in vita. Nulla di quanto previsto dal coro degli avversatori dell’operazione ha preso corpo, ma adesso il coro ha cambiato musica e si elogia Israele per avere ucciso l’architetto del 7 ottobre.
  A posteriori, la strategia perseguita da Netanyahu e dai vertici militari al suo comando, si è rivelata vincente, lo rafforza politicamente e indebolisce il ruolo e il peso dell’Amministrazione Biden, che in questo anno trascorso dall’inizio della guerra ha tentato in tutti i modi di commissariarla e di avviarla lungo la propria traiettoria, che non era, non è quella di Israele.
  Netanyahu ha condotto il gioco con grande abilità, concedendo al suo principale alleato quello che poteva, anche al prezzo di rallentare la guerra e di avvantaggiare Hamas, permettendo l’ingresso nella Striscia delle derrate alimentari che, in buona parte, Hamas ha saccheggiato, e quindi aprendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi, che gli americani hanno voluto a tutti i costi, ma che il premier israeliano sapeva non avrebbero condotto da nessuna parte a causa dell’irricevibilità delle richieste dell’organizzazione jihadista.
  Nel discorso fatto ieri, dopo l’uccisione di Sinwar, Netanyahu si è rivolto quindi retoricamente a Hamas chiedendogli di deporre le armi e di liberare gli ostaggi, ben sapendo che ciò non avverrà e dando, anche in questo caso, un contentino al presidente americano uscente.
  Finora la ragione è dalla sua parte, la decapitazione progressiva dei vertici di Hamas e lo smantellamento della sua struttura operativa all’interno della Striscia, stanno proseguendo a ritmo serrato e non ci sono motivi perché proprio adesso, avendo conseguito un grande successo, si debbano fermare, soprattutto a solo venti giorni dalle elezioni americane che potrebbero consegnare nuovamente la Casa Bianca a Donald Trump.
  Pochi mesi fa, a proposito dell’operazione militare a Gaza, Trump ha esortato Israele a “finish the job”, a completare il lavoro. È quello che Netanyahu si sta accingendo a fare.

(L'informale, 19 ottobre 2024)

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Netanyahu: “Questa guerra può finire domani, se Hamas depone le armi e restituisce i nostri ostaggi”

Il video-messaggio del primo ministro israeliano dopo l’uccisione di Sinwar

Un anno fa Yahya Sinwar, il capo terrorista di Hamas, ha lanciato il massacro del 7 ottobre contro Israele.
È stato l’attacco più sanguinoso contro il popolo ebraico dalla Shoah. È stato il peggior attacco allo stato ebraico dalla fondazione di Israele.
I terroristi di Sinwar hanno assassinato a sangue freddo 1.200 persone: anziani, sopravvissuti alla Shoah, bambini. Hanno brutalmente violentato donne. Hanno decapitato uomini. Hanno bruciato vivi bambini.
E hanno preso in ostaggio 251 donne, uomini e bambini nelle segrete di Gaza.
Oggi, la mente dietro quel giorno di pura malvagità non c’è più.
Yahya Sinwar è morto. È stato ucciso a Rafah dai coraggiosi soldati delle Forze di Difesa israeliane.
Questa non è la fine della guerra a Gaza, ma è l’inizio della fine.
Per la gente di Gaza, ho un messaggio semplice: questa guerra può finire domani. Può finire se Hamas depone le armi e restituisce i nostri ostaggi.
Hamas tiene 101 ostaggi a Gaza, che sono cittadini di 23 paesi: cittadini israeliani, ma cittadini di molti altri paesi.
Israele è impegnato a fare tutto ciò che è in suo potere per riportarli tutti a casa.
E Israele garantirà la sicurezza di tutti coloro che restituiranno i nostri ostaggi.
Ma per coloro che volessero fare del male ai nostri ostaggi, ho un altro messaggio: Israele vi darà la caccia e vi consegnerà alla giustizia”.
Ho anche un messaggio di speranza per i popoli di questa regione: l’asse del terrore costruito dall’Iran sta crollando davanti ai nostri occhi.
Nasrallah [capo di Hezbollah] non c’è più. Il suo vice Mohsen non c’è più. Haniyeh non c’è più. Deif non c’è più. Sinwar non c’è più.
Il regno del terrore che il regime iraniano ha imposto al suo stesso popolo e ai popoli di Iraq, Siria, Libano e Yemen: anche questo giungerà alla fine.
Tutti coloro che perseguono un futuro di prosperità e pace in Medio Oriente dovrebbero unirsi per costruire un futuro migliore.
Insieme, possiamo respingere le forze dell’oscurità e creare un futuro di luce e speranza per tutti noi.

(israelnet.it, 18 ottobre 2024)

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Il topo è morto!

Era solo questione di tempo prima che Yahya Sinwar venisse ucciso.
 
 di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Mercoledì a mezzogiorno ho appreso da fonti fidate che Yahya Sinwar era stato ucciso dai soldati israeliani. Ho immediatamente controllato i media, ma non una parola nei media israeliani e stranieri, nemmeno nei numerosi canali Telegram a cui sono collegato. Dopo diverse telefonate con altre fonti nel Paese, ho deciso di diffondere la notizia della morte di Yahya Sinwar attraverso il canale Telegram di Israel Heute. Erano le 14.45 e stavo andando a una riunione di famiglia. Ho ricevuto le prime foto del suo corpo tra le macerie della Striscia di Gaza. All'inizio non ci era stato permesso di pubblicare la foto, ma dopo aver visto che alcuni canali mostravano il suo corpo in frantumi con il buco sulla fronte, abbiamo deciso di pubblicare la foto sul canale. Poco dopo, su richiesta della censura, l'abbiamo rimossa dal canale.
 Ci è voluta circa un'ora perché arrivassero le prime notizie sulla possibile uccisione dell'arci-terrorista Sinwar. Per tutto questo tempo sono stato in contatto con le fonti e, sebbene non ci fosse ancora una conferma ufficiale da parte del governo israeliano, era chiaro a me e a tutti noi che Sinwar si era unito ai suoi colleghi Ismail Haniya, Mohammed Deif, Hassan Nasrallah e a tutti gli altri nella famigerata lista dei leader terroristi. Solo alle 18 i media hanno annunciato ufficialmente che Sinwar era stato ucciso dai soldati israeliani.
 Non si è trattato di un'operazione pianificata, ma di una pura coincidenza. Un soldato della Brigata Bislach 828, nel sud della Striscia di Gaza, ha notato una persona sospetta in un edificio. Il soldato ha aperto il fuoco. I terroristi hanno risposto al fuoco, ferendo gravemente un soldato israeliano. Un drone ha individuato un totale di tre terroristi che cercavano di fuggire dall'edificio. I soldati hanno continuato a sparare contro i terroristi, che hanno cercato rifugio in due diversi edifici. Sinwar era solo in uno degli edifici e si nascondeva al secondo piano. L'edificio è stato colpito da un carro armato e da razzi.
 Un drone è stato poi inviato nell'edificio distrutto, dove ha scoperto una persona mascherata gravemente ferita. Il video del drone mostra la persona che cerca di abbattere il drone con un bastone. Questo è accaduto mercoledì sera.
 Durante la successiva ricerca nell'edificio, il corpo di Sinwar è stato infine scoperto tra le macerie. Lì hanno visto il “Joker Sinwar” con un grande buco in fronte. Proprio come nella storia biblica, quando Davide scaglia una pietra con la sua fionda e colpisce Golia in piena fronte. Golia cade a terra e Davide gli taglia la testa.
 L'arci-terrorista è stato trovato tra le macerie con un buco in fronte, e questo mi ricollega immediatamente alla misericordia dei medici israeliani nel 2004, quando Yahya Sinwar si trovava nella prigione israeliana. Sono stati i medici israeliani a salvare la vita di Sinwar in prigione 20 anni fa. “Il fatto di avergli salvato la vita è costato la vita a centinaia di bambini e anziani”, ha detto con le lacrime agli occhi il medico israeliano Yuval Biton, che all'epoca aveva in cura Sinwar. Che destino simbolico: Sinwar è morto a causa di una ferita alla testa, dove un ascesso cerebrale purulento era quasi scoppiato ed è stato operato dai medici israeliani.
 La domanda che sorge ora è: dove andremo a finire? L'attenzione si sta nuovamente concentrando sulla Striscia di Gaza e sulla possibilità di procedere con un accordo sugli ostaggi. Una mossa del genere potrebbe cambiare radicalmente la situazione. Non c'è nessuno che possa sostituire Yahya Sinwar in termini di intimidazione, leadership e potere. Pertanto, questa opportunità non deve essere persa. Dobbiamo usare tutti i mezzi militari e diplomatici per riportare a casa i 101 ostaggi. Come nel caso di Hezbollah, in Hamas c'è un vero e proprio vuoto che l'organizzazione non può colmare. Sinwar non ha avuto quasi nessun sostituto, i suoi più stretti collaboratori sono stati tutti uccisi. Anche figure di spicco all'estero, come Ismail Haniya, sono state eliminate. Sinwar era una figura molto dominante nella Striscia di Gaza e il vuoto che si lascia alle spalle è altrettanto grande.
 La situazione deve essere vista in un contesto più ampio, con i quattro fronti che l'Iran ha stabilito intorno a noi: Giudea e Samaria, Gaza, Libano, Huthi e Iraq. Le leadership di queste milizie terroristiche si stanno gradualmente disintegrando. Questo non significa che l'ideologia sia stata sconfitta o definitivamente distrutta, ma è un colpo morale e simbolico. Israele ha ancora dei fronti aperti, con la previsione di un attacco all'Iran e di operazioni in Libano e in altre aree non ancora finalizzate. Si tratta di una mossa tattica estremamente importante e resta da vedere se avrà anche implicazioni strategiche.
 L'uscita di Sinwar dal palcoscenico storico potrebbe essere uno sviluppo molto positivo. È una vera vittoria per Israele, soprattutto se il suo corpo è nelle nostre mani. Cosa hanno da dire i media palestinesi e Hamas in particolare? Abbiamo il suo corpo. È fantastico! Il miglior affare per un accordo sugli ostaggi. Hamas è sotto shock. È un evento davvero traumatico per loro e un'opportunità unica per Israele di ribaltare questo conflitto con saggezza, perché l'Iran sta perdendo una milizia terroristica dopo l'altra. I terroristi di Hamas che tengono i nostri ostaggi a Gaza devono ora decidere se deporre le armi, liberare gli ostaggi e vivere, o seguire Sinwar all'inferno. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso sentimenti simili ieri sera.
 Nel suo discorso, il capo del governo israeliano ha elogiato i soldati israeliani per i loro instancabili sforzi in guerra: “Ora tutti nel Paese e nel mondo si rendono conto del perché abbiamo insistito nel non porre fine alla guerra. Perché, nonostante tutte le pressioni, abbiamo insistito nel distruggere Rafah, la roccaforte di Hamas dove si nascondevano Sinwar e molti dei principali terroristi. Vorrei esprimere il mio profondo apprezzamento per il lavoro determinato e coraggioso dei soldati dell'IDF, dello Shin Bet e dei loro comandanti. Non c'è nessuno migliore di loro. Oggi abbiamo dimostrato ancora una volta cosa succede a chi vuole fare del male a Israele. Oggi abbiamo mostrato ancora una volta al mondo la vittoria del bene sul male”.
 In conclusione, Netanyahu ha detto: “La guerra, amici miei, non è finita. È dura e richiede grandi sacrifici da parte nostra. Vorrei esprimere le mie più sentite condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari. Voglio abbracciare le famiglie dei nostri eroi caduti. Il loro grande sacrificio, anche negli ultimi giorni, ci avvicina alla vittoria. Come dice il re Davide: “Ho inseguito i miei nemici, li ho superati e non mi sono voltato indietro finché non sono stati sconfitti” [2 Samuele 22:38, ndt]. Cittadini di Israele, siamo in una guerra di resurrezione. Ci attendono grandi sfide. Abbiamo bisogno di pazienza, unità, coraggio e fermezza. Insieme combatteremo e, con l'aiuto di Dio, insieme vinceremo”.
 A proposito: Israele sta combattendo il male da solo, eliminando un terrorista dopo l'altro. Non sarebbe bello se alcuni governi occidentali ringraziassero o almeno mostrassero il loro rispetto?

(Israel Heute, 18 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Cosa accade a Gaza dopo l’eliminazione di Yahia Sinwar

L'IDF elimina Sinwar, Comandante operativo di Hamas.

Israele dopo l’eliminazione di Sinwar non si può adagiare, come farebbe chiunque dopo un durissimo anno di guerra. 
Il primo motivo è duplice, il primo fondamentale da risolvere contro il tempo è trovare a qualsiasi condizione i 101 ostaggi Israeliani, catturati da Hamas e deportati a Gaza.
Il secondo è perché conosce esattamente l’origine del pensiero islamico di Hamas.
Se gli omicidi mirati fossero la soluzione risolutiva, la pseudo resistenza palestinese, sarebbe finita dopo l’assassinio di Ezz ad-Din Al-Ksam 90 anni fa.
Hamas come anche Hezbollah, agiscono secondo una mentalità e cultura che vede qualsiasi azione come volontà divina, almeno questo è ciò che predica ai propri appartenenti.
Si, esatto ogni miliziano è pronto alla morte per volontà divina.
La vita terrena, non ha valore per Hamas come per Hezbollah, questo spiega il motivo per cui la morte dei loro civili è vista come un passo necessario di un disegno supremo.
Ad un comandante morto, succedono altri comandanti, ad un miliziano morto, succedono altri 100 miliziani, tutti votati al martirio.
Queste le parole di un sermone di un comandante di Hamas:
“La resistenza continua. Un leader se ne va e un altro arriva, un’idea muore e un’altra nasce, il fuoco dei santi rimane costante e brilla verso il santo obiettivo di liberare la Palestina e alzare alta la bandiera di Allah, l’unico Dio. Questa è la nostra promessa e questa è il nostro patto eterno”.
Lo stato di Israele rispetto all’Occidente è stato più veloce nella cattura o eliminazione dei capi del terrorismo. In un anno si è sbarazzato di Nasrallah (Hezbollah) e Sinwar (Hamas), mentre al-Baghdadi del DAESH (ISIS) è vissuto quattro anni dopo i suoi crimini, e Bin Laden di al-Qaeda è vissuto addirittura 10 anni dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
C’è però una differenza, gli USA si sono sbarazzati di Bin Laden, senza mai mostrarlo o dicendo dove fosse sepolto. 
Mostrare Sinwar, in tenuta da combattimento lo rende un martire da emulare!
I Palestinesi e i sostenitori dell’asse finanziato dalla Repubblica Islamica dell’Iran,  vedono la morte di Sinwar in maniera diversa rispetto all’Occidente!
Per i Palestinesi Sinwar si è immolato per la causa, diventando martire, combattendo e non fuggendo, è percepito come un eroe che ha combattuto fino all’ultimo momento, anche se ferito.
Non è stato catturato, ma è morto sul campo.
I Palestinesi ripetono le parole di Sinwar, in cui dichiarava: "il dono più grande che Israele può farmi è morire per sua mano".

(Progetto Dreyfus, 18 ottobre 2024)

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Hezbollah annuncia un'escalation nel suo conflitto con Israele

Descrivendo le sue azioni come “resistenza islamica”, il partito promette che “sviluppi ed eventi saranno annunciati nei prossimi giorni”.

Giovedì sera Hezbollah ha dichiarato l'intenzione di intensificare le operazioni militari contro Israele. In una dichiarazione pubblicata su Telegram, l'organizzazione sciita libanese ha annunciato “una nuova fase di escalation nel confronto con il nemico israeliano”. Descrivendo le sue azioni come “resistenza islamica”, il partito ha promesso che “sviluppi ed eventi saranno annunciati nei prossimi giorni”. Questa decisione segue quelle che Hezbollah descrive come “direttive del comando della resistenza”.
  L'organizzazione terroristica sostiene di aver già inflitto “enormi perdite all'esercito israeliano in termini di equipaggiamento e personale, sulle linee di confronto dal fronte meridionale in Libano alle aree in cui ha una profonda presenza nella Palestina occupata”.
  Hezbollah riferisce di una consistente mobilitazione israeliana di fronte a questa minaccia: “Dall'inizio delle operazioni di terra, l'esercito israeliano ha mobilitato cinque brigate militari con più di 70.000 ufficiali e soldati, oltre a centinaia di carri armati e veicoli militari”. In risposta, il partito sciita ha affermato che “centinaia di combattenti della resistenza islamica sono pienamente preparati e pronti ad affrontare qualsiasi incursione di terra israeliana nei villaggi del Libano meridionale”.
  La dichiarazione fa anche riferimento a una recente intensificazione delle ostilità, menzionando che “l'inizio di questa settimana ha visto un'intensificazione degli eroici scontri condotti dai combattenti della resistenza islamica contro i soldati del nemico israeliano”. Hezbollah ha inoltre affermato di aver utilizzato “per la prima volta” missili a guida di precisione contro le forze israeliane.

(i24, 18 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele: «Abbiamo ucciso Mohammad Hussein Ramal, comandante di Hezbollah»

Sarebbe morto durante un attacco aereo diretto dalle truppe della 98esima Divisione.

TEL AVIV - L'Idf ha riferito di aver ucciso Mohammad Hussein Ramal, comandante di Hezbollah nell'area di Taybeh, in un attacco aereo nel Libano meridionale. Lo riporta il Times of Israel.
  Secondo l'esercito israeliano, Ramal era responsabile della pianificazione e dell'esecuzione di attività terroristiche contro Israele ed è stato ucciso nell'attacco aereo diretto dalle truppe della 98esima Divisione. Nello stesso momento, le truppe della 7a Brigata corazzata hanno localizzato e distrutto diversi lanciarazzi pronti per il lancio verso il nord di Israele, afferma l'esercito.
  Il portavoce dell'Idf, il contrammiraglio Daniel Hagari, aveva detto in precedenza che Israele stava attivamente cercando Muhammad Sinwar, fratello del leader di Hamas assassinato, e tutti i comandanti militari di Hamas.
  Durante la presentazione del video girato da un drone che riprende gli ultimi momenti di vita del leader di Hamas, Hagari aveva confermato che l'Idf "lo ha identificato come terrorista in un edificio" e che non sapeva che fosse Sinwar. "Abbiamo sparato all'edificio e siamo entrati per cercarlo. Lo abbiamo trovato con un giubbotto antiproiettile e una pistola e 40.000 NIS". Sinwar apparentemente si muoveva nei tunnel della zona da un po' di tempo, aveva detto Hagari. Probabilmente stava tentando di "scappare a nord, in zone più sicure" mentre l'Idf si avvicinava. "Stava scappando di casa in casa, lo abbiamo identificato come terrorista, ci siamo avvicinati e lo abbiamo eliminato".

(TIO, 18 ottobre 2024)

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Quelli che Sinwar ti amiamo, non lasceremo che tu muoia

“Hamas, ti amiamo”. Dalle piazze ai campus, il macellaio di Hamas era l’eroe delle folle antisemite occidentali.

di Giulio Meotti

ROMA - “Yahya Sinwar aveva trovato l’arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi nella lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri”. Così ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter, figlio di sopravvissuti alla Shoah, in un articolo per la Neue Zürcher Zeitung. Sinwar aveva trovato anche un modo per conquistare cuori e menti di un pezzo di occidente. Per loro non era il “macellaio di Khan Younis”, che uccise una dozzina di “collaborazionisti” d’Israele con la kefiah o seppellendoli vivi, ma una sorta di idolo inconfessabile, come Ismail Haniyeh, per i giornali italiani “il figlio di pescatori”. E’ la “primavera di Sinwar” di cui parla lo storico del nazismo Jeffrey Herf. Il volto di Sinwar non era una presenza soltanto a Sana’a o a Teheran. Ai primi di settembre, il volto di Sinwar adornava le bandiere di una grande manifestazione antisraeliana a New York, assieme a quello del capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Ahmad Saadat. Dietro la folla pro Sinwar non soltanto Samidoun, il movimento islamico, ma anche gruppi di studenti americani. Come quello che alla Columbia ha organizzato l’accampamento a primavera e che ha elogiato l’“Alluvione al Aqsa”, il nome scelto da Sinwar per il 7 ottobre. Alla Columbia, un ragazzo biondo stava in piedi con un cartello che recitava “Il prossimo obiettivo di Al Qassam” con una freccia che indicava il piccolo gruppo di studenti ebrei che stava tenendo una contro manifestazione alle sue spalle.
  Altro che macellaio, per i folli occidentali Sinwar era una specie di eroe inconfessabile.
  A Seattle, lo slogan pro Sinwar è stato: “I prigionieri di ieri sono i leader di domani” (Sinwar è stato diciotto anni nelle carceri israeliane). A Malmö, in Svezia, i manifestanti hanno marciato (con Greta Thunberg) gridando “Sinwar non ti lasceremo morire”. Ci mancava soltanto una felpa con la faccia di Sinwar in vendita su Amazon assieme a quella “Gays for Gaza”.
  Fra gli slogan gridati alla Columbia University ci sono: “Radere al suolo Tel Aviv” e “Hamas, ti amiamo”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni vuole “l’abolizione di Israele e la sua consegna Hamas”.
  I dimostranti all’Hunter College di New York hanno mostrato simboli di Hamas e Hezbollah e brandito un ritratto di Sinwar. Dal memoriale della Shoah di Parigi alla porta di casa della direttrice del Brooklyn Museum, Anne Pasternak, gli attivisti hanno adottato il triangolo rosso rovesciato, usato dalle brigate di Hamas per indicare gli obiettivi militari.
  Una specie di svastica politicamente corretta. E molti commentatori ed editorialisti occidentali hanno accostato il nome di Sinwar a quello di Benjamin Netanyahu, a insinuare che gli ostaggi erano ostaggi di entrambi, che pari sono.
  Se Israele non lo avesse eliminato e se Sinwar fosse uscito da Gaza con un accordo con Gerusalemme, il leader di Hamas sarebbe finito come Marwan Barghouti, l’architetto della Seconda Intifada scambiato per un Mandela dai giornali italiani, cinque ergastoli da scontare in Israele e che in Francia, in cittadine come Valenton, si è visto persino intitolare un “viale Marwan Barghouti”.“Deputato palestinese, resistente, arbitrariamente imprigionato in Israele”. Allora forse Sinwar avrebbe potuto uscire dai tunnel di Gaza, liberare gli ostaggi e andare a insegnare alla Columbia University. Titolo del corso: “Contestualizzare i pogrom”. Non sarebbe stato meno assurdo di “Decolonial-Queerness & Abolition” insegnato da uno degli accademici del campus di New York che aveva detto: “Io sto con Hamas”.

Il Foglio, 18 ottobre 2024)

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Quando Cossiga accusava l'Unifìl (e Prodi)

L'ex presidente della Repubblica accusò il governo Prodi e la missione Unifil di collusione con Hezbollah. In un'intervista a un giornale israeliano e in due interrogazioni del 2008 puntò il dito: «Si chiude un occhio sulle armi per evitare attentati».

di Claudio Antonelli

Romano Prodi e Arturo Parisi in Libano nel 2006
Francesco Cossiga picconava. Di solito con forza. Piaceva o non piaceva. Ma le cose le sapeva. E arrivava dritto al punto. Così, pure sulla questione mediorientale e nello specifico della nostra presenza militare in Libano dopo la ormai celebre risoluzione 1701 dell'Onu, quella che ha dato origine a Unifil. Era il 3 ottobre del 2008, mancavano quattro anni alla sua morte, e Cossiga decideva di rilasciare un'intervista a Menachem Gantz, l'allora corrispondente a Roma del celebre giornale Yediot Aharonot. Il titolo è secco: «Vi abbiamo venduti». Vi sta per «voi israeliani» e «voi ebrei». Il sottotitolo ancora più forte. Lo chiamavano «L'Accordo Moro» e la formula era semplice: l'Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani. «Tuttavia, ora si scopre che gli ebrei erano esclusi dall'equazione», aggiungeva l'ex presidente, spiegando come le autorità di Roma avrebbero collaborato con le organizzazioni terroristiche negli Anni Ottanta.
  Ma le picconate dell'intervista non finivano lì. Anzi, arrivavano a toccare un tema ora molto caldo. «Oggi (nel 2008, ndr) c'è un accordo analogo con Hezbollah in Libano», sparava Cossiga, entrando anche un po' nel dettaglio. «Le forze di Unifil sarebbero invitate a circolare liberamente nel Sud del Libano, senza temere per la propria incolumità, in cambio di un occhio chiuso e della possibilità di riarmarsi data a Hezbollah», sintetizzava l'ex presidente. «L'Accordo Moro non mi fu mai esposto in maniera chiara, ne ho solo ipotizzato l'esistenza. Nel caso di Hezbollah posso affermare con certezza che esiste un accordo tra le parti», chiudeva il discorso Cossiga, «Se verranno a interrogarmi, deporrò davanti ai giudici che trattasi di segreti dello Stato, e io non sono tenuto a rivelare le mie fonti».
Due interrogazioni del 2008 di Francesco Cossiga
Una sparata? In realtà quelle accuse sono state anche oggetto di ben due interrogazioni parlamentari messe nero su bianco dallo stesso Cossiga, in qualità di senatore. Una a maggio e l'altra a settembre del 2008, un mese prima dell'intervista rilasciata a Yediot. E pochi mesi dopo il passaggio di consegne tra il governo di Romano Prodi e quello di Silvio Berlusconi. «Al ministro della Difesa», iniziava come da rito la prima interrogazione, «Si chiede di sapere: se sia a conoscenza del fatto che le unità italiane Unifil in Libano, a motivo delle istruzioni impartitegli dal precedente governo ed eseguite con chiaro spirito antisraeliano, hanno agevolato il riarmo dei commandos terroristi Hezbollah da parte di Iran e Siria». Il governo precedente, lo ribadiamo, era quello di Prodi, caduto a gennaio del 2008.
  Non contento però l'ex presidente dopo l'estate torna sul tema. Il 2 settembre deposita la seconda interrogazione.
  Qui si fa riferimento al periodo di intensa guerra civile che ha portato alla caduta del governo Siniora sostituito dal cosiddetto esecutivo di unità nazionale che alla fine ha permesso a Hezbollah di circolare in Libano e riarmarsi senza freno. Cossiga punta il dito anche contro il comandante di Unifil dell'epoca, oltre che sul governo Prodi, sostenendo che la «missione Unifil e in particolare il contingente italiano» sarebbe stato «una forza determinante per il massiccio riarmo delle forze militari del movimento degli Hezbollah». Stesso concetto di maggio e dell'intervista al giornale israeliano. Concetto rimarcato da un interrogativo inquietante. Si chiede se le disposizioni verso Unifil siano «per caso l' espressione di un nuovo Lodo segreto ‘Tizio-Caio-Mevio-Sempronio, dopo il Lodo Moro recentemente svelato dal portavoce del riaffermatosi Fronte popolare per la liberazione della Palestina e confermato da un altissimo magistrato con dovizia di particolari, per tutelare la vita dei nostri militari in quel teatro e anche in altri, e per assicurare la "pax islamico-radicale" nei confronti della popolazione italiana mettendola al riparo da attacchi terroristici». Così termina l'interrogazione che, tanto quanto quella del maggio 2008, non ha mai ricevuto alcuna risposta.
  Se si accede agli atti del Senato, come ha fatto La Verità si vede chiaramente che lo stato dell'iter dell'interrogazione è verde con la dicitura «in corso». Perché la pratica non è mai stata chiusa. Eppure oggi sarebbe più che mai attuale. Andrebbero tirate fuori le due interrogazioni e messe innanzitutto sotto il naso di Prodi, quello che «d'estate andavamo nei kibbutz, ma questo non è più la nostra Israele», salvo poi condannare senza se e senza ma l'invasione del Libano da parte dell'Idf dopo aver sostanzialmente taciuto di fronte ai 16.000 razzi sparati da Hezbollah sul Nord di Israele. Sarebbe interessante avere qualche risposta. Forse aiuterebbe a capire perché i caschi blu non si sono mai accorti dei tunnel costruiti dalle milizie a due passi dalle basi Onu e non hanno mai minimamente pensato che la costruzioni di rampe di lancio, tutte dirette a Sud, potessero poi essere utilizzate contro i cittadini ebrei che vivono oltre confine. D'altronde una difficile previsione da fare e non espressamente richiesta dalla risoluzione 1701.

(La Verità, 18 ottobre 2024)

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Le guerre che Israele combatte anche per noi

Quando l’interesse per Israele è soltanto amore di sé. Quando Israele  è visto come il custode del “mondo libero”- Quando invece di porre questioni di verità e giustizia, invece pensare al bene di Israele come popolo e nazione, si pensa sopra ogni cosa al mantenimento della propria occidentale “libertà”. Un falso amore per Israele. Riportiamo questo editoriale del giornale "Il Foglio" con l'aggiunta di un risalto in colore. NsI

Una morte non si festeggia, neppure se questa riguarda un uomo che era un assassino, un terrorista e un criminale. Una morte non si festeggia, e non lo faremo neanche oggi, oggi che uno dei capi di Hamas è stato ucciso da Israele. Una morte non si festeggia ma ciò che si può dire dopo l’uccisione di Yahya Sinwar, il capo dei capi di Hamas, il terrorista che ha gestito le operazioni nella Striscia di Gaza, e che ieri è stato ucciso a Rafah, dove gli occhi del mondo si sono posati per settimane per descrivere la tragedia di Gaza e dove gli occhi del mondo dovrebbero posarsi anche oggi per descrivere il senso di liberazione che potrebbero provare i civili utilizzati per mesi come scudi umani dai terroristi, è che ancora una volta Israele fa per la sicurezza del mondo libero quello che il mondo libero spesso non ha il coraggio di fare per proteggere se stesso. Israele elimina terroristi che oltre a colpire Israele colpiscono anche gli alleati di Israele: Sinwar era stato nominato a luglio capo di Hamas al posto di Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran, e prima di Haniyeh sono stati uccisi anche gli altri capi di Hamas (Mohammed Deif, Marwan Issa, Saleh al Arouri) e altri capi di Hezbollah (Hassan Nasrallah, Fuad Shukr, Ali Karaki, Hashim Safi al Din e Ibrahim Aqil). Israele combatte contro i terroristi di Hezbollah il cui allontanamento dai confini di Israele dovrebbe essere una priorità non solo di Israele ma anche dei paesi che sostengono la missione Unifil (vedi la risoluzione 1701 del 2006). Israele indebolisce l’Iran, che oltre a colpire Israele colpisce con disinvoltura anche gli amici di Israele (a gennaio gli Stati Uniti hanno reso pubblici i nomi dei tre soldati americani uccisi in un attacco con droni in Giordania, che Washington ha attribuito alle forze sostenute dall’Iran). Israele combatte contro il fondamentalismo islamista (che oltre che colpire Israele colpisce tutti coloro che agli occhi degli integralisti al soldo dell’Iran rientrano nella categoria degli infedeli). Mesi fa, Gilles Kepel, gran politologo e arabista francese, ha offerto uno spunto di riflessione più attuale che mai per ragionare su quello che, nel disinteresse dell’opinione pubblica mondiale, Israele fa per proteggere il mondo libero. Ha ricordato che Israele si è assunto la responsabilità di fare il lavoro sporco al posto nostro. Ha ricordato che fare il lavoro sporco significa liberare dalla scena del medio oriente attori come Hamas e Hezbollah che tranne in qualche università americana, dove i terroristi islamisti vengono ancora salutati come partigiani per la libertà, nessuno rimpiangerà. Ha ricordato che anche i paesi arabi, anche quelli che denunciano ogni giorno il martirio di Gaza, guardano con favore alla distruzione dell’asse della resistenza, paesi come l’Arabia Saudita, paesi come gli Emirati, paesi come l’Egitto, perché da qui passa il ridimensionamento regionale dell’Iran e perché da qui passa una prospettiva di pace realistica. Di fronte alla morte di Sinwar non si può festeggiare. Ma si può fare qualcosa di più utile: ricordare semplicemente che chi ha a cuore la difesa della pace deve capire che la lotta di Israele contro i terroristi islamisti aiuta a rendere più sicuri non solo i confini di Israele ma anche quelli delle nostre democrazie.

Il Foglio, 18 ottobre 2024)
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”Sicurezza del mondo libero … integralisti al soldo dell’Iran … proteggere il mondo libero … Israele che fa  il lavoro sporco al posto nostro ... prospettiva di pace realistica ... la difesa della pace, " ma in un giornale che vuol essere intellettuale si può accettare che in momento come questo venga fuori un editoriale così piattamente ideologico e pieno di luoghi comuni? M.C.

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Sinwar è morto!

Yahya Sinwar era tra i terroristi uccisi nella Striscia di Gaza. Un test del DNA lo ha confermato.

GERUSALEMME - Israele ha finalmente catturato l'arci-terrorista Yaya Sinwar.
L'esercito israeliano ha recentemente pubblicato un messaggio drammatico. Secondo la notizia, tre terroristi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza durante un'operazione delle forze IDF. Si stava indagando se Yahya Sinwar, leader di Hamas, fosse tra gli uccisi.
L'identità di uno dei corpi è stata ora ricondotta al leader di Hamas Sinwar.
Nell'edificio in cui sono stati neutralizzati i terroristi non sono state trovate prove della presenza di rapiti. Le forze israeliane dell'IDF e dello Shin Bet continuano le loro operazioni nella regione con la massima cautela.
Israel Heute è stato il primo a darne notizia nei Paesi di lingua tedesca sul suo canale Telegram.
Maggiori informazioni non appena ci saranno ulteriori informazioni.

(Israel Heute, 17 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Netanyahu invitato al Kibbutz Nir Oz per la prima volta dal pogrom del 7 ottobre

Secondo il presidente della comunità, che ha perso un quarto dei suoi membri, la visita, prevista per il secondo giorno di lutto nazionale, potrebbe ripristinare la fiducia nei capi di Stato

Il Kibbutz Nir Oz ha invitato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu a visitare la comunità devastata per la prima volta da quando, il 7 ottobre, un quarto dei suoi residenti sono stati uccisi o rapiti dal gruppo terroristico palestinese Hamas, mentre le forze di sicurezza israeliane sono rimaste assenti per lunghe ore.
In una lettera datata martedì, la presidentessa del kibbutz, Osnat Peri, il cui marito Chaim Peri è stato preso in ostaggio nella Striscia di Gaza il 7 ottobre ed è morto per mano dei suoi rapitori, ha invitato il Primo Ministro a visitare Nir Oz nel secondo giorno di lutto nazionale stabilito dal governo per commemorare il massacro del 7 ottobre 2023.
“Per noi non esiste un giorno di lutto nazionale”, ha scritto Peri. Il giorno del pogrom, “quando nessuno è venuto in nostro aiuto, continua ancora oggi”, ha scritto, notando che 29 membri del kibbutz sono ancora tenuti in ostaggio a Gaza.
Se il governo manterrà comunque il giorno di lutto, Netanyahu è stato invitato a celebrarlo a Nir Oz, scrive Peri, aggiungendo che una tale visita aiuterebbe a ripristinare la fiducia dei kibbutzim nella classe dirigente nazionale.
Domenica, il gabinetto ha approvato un secondo giorno di lutto nazionale per il massacro del 7 ottobre, che si terrà il 26 e 27 ottobre, secondo il calendario ebraico. In rottura con l'usanza israeliana, il primo giorno di lutto si è tenuto nell'anniversario gregoriano del massacro.
Netanyahu è stato criticato per non aver visitato alcune delle comunità di confine più duramente colpite dal pogrom, compiuto da migliaia di terroristi guidati da Hamas nel sud di Israele, durante il quale uccisero più di 1.200 persone e presero 251 ostaggi, per lo più civili, in atti di rara brutalità e accompagnati da aggressioni sessuali.
Il 7 ottobre 2023, 117 dei 400 residenti di Nir Oz sono stati uccisi o rapiti. Le forze di sicurezza hanno raggiunto la città solo sette ore dopo l'inizio del massacro.
Con solo sette delle 220 case di Nir Oz intatte, la maggior parte delle famiglie del kibbutz non ha ancora potuto fare ritorno alle proprie abitazioni.

(Times of Israël, 17 ottobre 2024)

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Il disastro italiano in Libano e le accuse a Israele

di Giovanni Giacalone

I recenti incidenti che hanno coinvolto i complessi UNIFIL nel Libano meridionale hanno provocato una serie di proteste da parte delle Nazioni Unite e dei governi europei che hanno truppe di mantenimento della pace nella zona, in particolare Italia, Spagna e Francia.
L’UNIFIL ha affermato che l’esercito israeliano ha “deliberatamente” colpito diverse delle sue postazioni, tra cui il quartiere generale di Naqoura. Almeno cinque soldati UNIFIL sono rimasti leggermente feriti. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il rifiuto di evacuare i soldati UNIFIL li rende ostaggi di Hezbollah e li mette in pericolo”, aggiungendo che l’IDF sta facendo tutto il possibile per prevenire tali incidenti. Tuttavia, il modo più semplice e ovvio per garantire che ciò non avvenga è semplicemente di portarli fuori dalla zona di pericolo”. Netanyahu ha anche affermato che i leader europei dovrebbero criticare Hezbollah, non Israele, per avere utilizzato l’UNIFIL alla stregua di uno “scudo umano”.
L’Italia attualmente detiene in Libano 1.068 soldati a supporto della missione UNIFIL; la Spagna 676 soldati e la Francia 673, diventando così i tre paesi dell’UE con la più grande presenza militare nell’area, come riportato dal sito web UNIFIL.

• LE DICHIARAZIONI PROVENIENTI DALLA DIFESA ITALIANA
  Poco dopo il primo incidente, quando il 10 ottobre due caschi blu indonesiani furono leggermente feriti dal fuoco israeliano, il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, accusò immediatamente Israele dicendo che gli attacchi “potrebbero costituire crimini di guerra”, e chiese spiegazioni perché “non si è trattato di un errore”.
Crosetto ha descritto la “sparatoria” come “intollerabile”, presentando proteste alla sua controparte israeliana e all’ambasciatore di Israele in Italia. Ha anche aggiunto: “La mia intenzione è quella di fare prevalere spazi di pace, di non fare passare l’idea che possa esserci una guerra continua”. Inoltre, Crosetto ha affermato che “l’Italia non prende ordini da Israele”.
Tali dichiarazioni sono sembrate piuttosto irascibili e impulsive sia nei tempi che nei contenuti. La misura più appropriata sarebbe stata quella di chiedere chiarimenti al governo israeliano e analizzare l’episodio in dettaglio prima di formulare accuse.
In effetti, un ministro della Difesa ha il dovere di difendere le proprie truppe, ma con i modi, le procedure, i mezzi e i tempi appropriati. Inoltre, Israele non è un nemico dell’Italia. Il governo israeliano ha immediatamente aperto un’indagine sulla questione, e non avrebbe motivo di non fornire spiegazioni.
Infatti, poco dopo è arrivata la risposta dell’ambasciata israeliana a Roma:

    “Israele apprezza l’assistenza dei paesi donatori dell’UNIFIL, in particolare l’Italia, e li ringrazia per i loro sforzi per prevenire un’escalation nella nostra regione. Dall’8 ottobre, Hezbollah ha lanciato migliaia di razzi contro Israele e decine di migliaia di cittadini israeliani sono stati costretti a evacuare le loro case nel nord. Sfortunatamente, Hezbollah sta cercando di nascondersi vicino alle basi dell’UNIFIL e Israele ha già scoperto tunnel e depositi di armi in prossimità di quell’area. Israele ha ripetutamente raccomandato all’esercito italiano dell’UNIFIL di ritirare parte delle sue forze dall’area per motivi di sicurezza, ma sfortunatamente questa richiesta è stata respinta. Israele sta indagando sull’incidente molto attentamente e continuerà a fare ogni sforzo per non danneggiare le forze ONU e le persone non coinvolte nel conflitto in corso con Hezbollah”.

L’ambasciata israeliana ha poi rilasciato una seconda dichiarazione:

    “Purtroppo, l’organizzazione terroristica Hezbollah ha installato indisturbato le sue capacità militari vicino alle basi UNIFIL. Da qualche tempo, Hezbollah attacca Israele operando vicino a queste basi, sparando nel territorio israeliano e scavando tunnel vicino alle suddette basi per trascinare Israele in qualche provocazione. Israele è costretto a rispondere a questi attacchi, per proteggere le sue forze e la sicurezza dei suoi cittadini. Israele ribadisce di non essere interessato a un’escalation in Libano, ma è obbligato a proteggere i suoi cittadini in conformità con il diritto internazionale. Come promesso, Israele ha aperto un’indagine sugli ultimi casi e ne trasmetterà i risultati in modo trasparente alla sua controparte in Italia. A questo proposito, l’addetto militare israeliano incontrerà oggi i vertici dell’esercito italiano, per illustrare i dettagli dell’indagine. Israele agisce in modo trasparente e in stretta cooperazione con l’Italia e con le forze UNIFIL che operano sul terreno, e si rammarica di qualsiasi danno alle Nazioni Unite e alle forze non coinvolte. Israele apprezza gli sforzi dell’Italia per prevenire l’escalation nelle nostre aree e il suo contributo a UNIFIL. La comunità internazionale deve esigere il disarmo e il ritiro delle forze di Hezbollah in conformità con la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite”.

Il 13 ottobre, il comandante italiano dell’UNIFIL, generale Stefano Messina, commentando il fuoco israeliano sulle posizioni dell’UNIFIL, ha dichiarato:

    “Gli errori, se sono errori, sono chiaramente possibili ma dovrebbero essere evitati…”

Messina ha inoltre definito Hezbollah “una milizia e un partito politico” aggiungendo che “Israele sta cercando di ridurre la presenza di Hezbollah”.
Il Generale ha concluso dicendo: “Siamo gli occhi e le orecchie della comunità internazionale e saremo qui finché ci verrà chiesto di farlo, con orgoglio e determinazione”.
Il 17 ottobre, durante un’audizione al Senato in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre, il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni ha dichiarato che dopo l’inizio delle operazioni israeliane a Gaza, il governo italiano ha sospeso la spedizione di qualsiasi forma di armamento a Israele: tutti i contratti firmati dopo il 7 ottobre 2023 non sono stati applicati. Meloni ha aggiunto che tutti i contratti precedenti a quella data sono stati analizzati caso per caso dall’Uama (Unità per l’autorizzazione dei materiali di armamento), l’autorità competente presso il Ministero degli Affari Esteri. Il Primo Ministro italiano ha aggiunto: “Laddove ci sia il rischio che questo materiale possa essere utilizzato nell’attuale crisi, non procederemo… Questo è il modo in cui l’Italia sta procedendo, e credo che sia un modo molto serio di procedere”.
Riguardo all’offensiva israeliana contro la base ONU, Meloni ha affermato:

    “L’atteggiamento delle forze israeliane è del tutto ingiustificato e costituisce una chiara violazione della risoluzione 1701 dell’ONU. Dobbiamo lavorare per la piena attuazione della risoluzione, rafforzando la piena capacità di Unifil e delle Forze armate libanesi”.

• GLI INTERESSI ITALIANI IN LIBANO
  Il 17 ottobre, il Consigliere Strategico del Governo degli Stati Uniti, Edward Luttwak, che vanta una lunga esperienza e una conoscenza approfondita delle questioni politiche e istituzionali italiane, ha pubblicato su Twitter:

    “Mi dispiace che il Primo Ministro (italiano) difenda l’UNIFIL, che avrebbe dovuto tenere Hezbollah lontano dal confine israeliano e non ha mai fatto nulla mentre i comandanti successivi venivano promossi. Gli israeliani hanno trovato molti bunker d’assalto a pochi metri dalle posizioni dell’UNIFIL”.

Questo è davvero un tema centrale. È inutile che il premier Giorgia Meloni, il ministro della Difesa italiano Crosetto e il generale Messina parlino di “violazione della risoluzione 1701”, di “creazione di spazi di pace” e di “essere gli occhi e le orecchie della comunità internazionale”, quando Hezbollah ha fatto propaganda con le sue basi e i suoi depositi di armi in tutto il Libano meridionale, costruendo infrastrutture proprio accanto alle basi UNIFIL e persino sotto di esse.
Quegli “occhi e orecchie” devono essere stati ciechi e sordi. Dov’erano Meloni e Crosetto quando Hezbollah martellava i centri urbani israeliani nel nord con i suoi razzi? E i 60.000 israeliani sfollati che vogliono tornare a casa, ma non possono perché l’UNIFIL non ha fatto ciò per cui viene pagata?
Secondo fonti italiane, lo stipendio base per un soldato in missione all’estero è di circa 3.500 euro al mese. Più anni di servizio all’estero o gradi superiori, come ufficiali, ricevono fino a 7.800 euro al mese. Oltre allo stipendio, bisogna considerare la logistica, il consumo di carburante e munizioni, la manutenzione dei veicoli, il cibo e l’assistenza sanitaria per i soldati. Il costo complessivo è di circa 1.708 milioni di euro all’anno per il 2023.
Quanto all’affermazione di Crosetto secondo cui “l’Italia non prende ordini da Israele”, ha ragione. Tuttavia, qualche domanda può essere fatta, considerando quanto affermato dal Ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, nell’aprile 2024 durante la trasmissione televisiva “Stasera Italia” su Rete 4, in seguito al primo attacco missilistico dell’Iran contro Israele:

    “Gli iraniani ci hanno assicurato che i nostri soldati italiani nella zona saranno rispettati… Il contingente italiano in Libano è sotto l’egida dell’ONU, è in condizioni di essere protetto, non credo ci siano pericoli né per i soldati italiani né per i cittadini italiani in Israele e Iran”. Quanto agli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, il ministro ha spiegato come gli sia stato assicurato che “saranno attaccate solo le navi che portano armi in Israele”. (Agi, 14 apr 2024).

Non si può biasimare il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per aver chiesto alle truppe UNIFIL di andarsene, perché è evidente che non sono riuscite a fare ciò che avrebbero dovuto fare, ovvero mantenere la pace e tenere Hezbollah lontano dal confine tra Israele e Libano.

• ALCUNE GRAVI CONTROVERSIE ITALIANE SUL LIBANO E GLI EBREI
A proposito dell’attività italiana/UNIFIL in Libano, vale la pena ricordare quanto disse Francesco Cossiga (primo ministro della Repubblica dal 1979 al 1980 e presidente della Repubblica dal 1985 al 1992) in una lunga intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, come riportato dal sito Focus on Israel in un articolo del 2008 intitolato “Cossiga agli ebrei italiani: vi abbiamo tradito”:
“L’Italia, secondo lui, sta attuando oggi un accordo simile con Hezbollah. Le forze UNIFIL sarebbero invitate a muoversi liberamente nel Libano meridionale, senza timore per la loro sicurezza, in cambio di un occhio chiuso e della possibilità di riarmo data a Hezbollah. “L’accordo Moro non mi è mai stato spiegato chiaramente, ne ho solo ipotizzato l’esistenza. Nel caso di Hezbollah posso affermare con certezza che c’è un accordo tra le parti”, afferma con sicurezza Cossiga, “Se verranno a interrogarmi, testimonierò davanti ai giudici che si tratta di segreti di Stato, e non sono tenuto a rivelare le mie fonti”.

• PURTROPPO L’INTERVISTA DI COSSIGA NON TROVÒ MOLTO SPAZIO SUI MEDIA ITALIANI.
  E, poiché la discussione si è spostata al primo decennio del 2000, vale la pena ricordare anche quanto affermato dall’attuale ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, nel settembre 2005, quando ricopriva l’incarico di responsabile del credito per il partito Forza Italia di Berlusconi.
Crosetto aveva parlato di un piano ordito dalla “Massoneria ebraica e americana che era già alle porte” per mettere le mani sulle banche italiane dopo aver cacciato il governatore filocattolico della Banca d’Italia Antonio Fazio. La dichiarazione aveva suscitato una dura condanna da parte dell’allora presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzato, che aveva citato una rinascita dei “fantasmi degli anni Trenta fascisti”, come riportato all’epoca dal quotidiano italiano Corriere della Sera.
In conclusione, gli incidenti UNIFIL hanno portato alla luce una serie di situazioni che fino a oggi erano passate inosservate o forse tollerate, non denunciate. Le dinamiche sul campo sono però radicalmente cambiate e, nonostante paesi come Italia, Spagna e Francia insistano sulla retorica del “rispettare la missione UNIFIL”, è ormai chiaro che si è trattato di un fallimento totale. Non si tratta solo di non essere riusciti a salvaguardare la pace, ma anche di aver permesso a Hezbollah di diffondersi nell’area costruendo postazioni annesse alle basi UNIFIL. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Cosa facevano i soldati tutto il giorno?
Quanto emerso finora è probabilmente solo la punta dell’iceberg e, con l’avanzata delle IDF in Libano, molto di più rischia di venire alla luce.
L’Italia deve anche decidere se Hezbollah è una “milizia” e un partito politico, o un’organizzazione terroristica e un proxy iraniano che sta destabilizzando il Libano. La linea politica del “correre con la lepre e cacciare con il segugio” non sarà più un’opzione.

(L'informale, 17 ottobre 2024)

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«Sono fuggiti tutti»

di Micol Flammini

Israele avrebbe deciso cosa colpire per rispondere all’attacco della Repubblica islamica dell’Iran, ora è questione di tempo e anche il giorno sarebbe stato stabilito. Teheran ha fatto sapere che è pronto a rispondere. In una telefonata con il segretario generale dell’Onu, António Guterres, il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha avvertito: “Pur compiendo tutti gli sforzi possibili per proteggere la pace e la sicurezza della regione, l’Iran è pienamente pronto a una risposta decisa a qualsiasi avventura” da parte di Israele. I progetti iraniani nella regione sono ormai noti e hanno poco a che fare con la pace, come dimostra la situazione in Libano, dove la guerra tra Israele e Hezbollah va avanti con le bombe, l’altra notte è stata colpita di nuovo Beirut, e con la caccia fino all’ultimo tunnel, da dove i soldati stanno tirando fuori alcuni membri delle forze Radwan. L’esercito israeliano ha rivelato di aver catturato tre combattenti e di uno ha mostrato gli spezzoni di un interrogatorio. Il miliziano si chiama Wadah Kamal Yunis, è stato catturato dall’Unità 504, anche conosciuta come “il Mossad di Tsahal”, si tratta di un’unità speciale di intelligence che opera dentro all’esercito israeliano. Gli uomini portati in Israele per l’interrogatorio, incluso Yunis, hanno raccontato lo stato di dispersione di Hezbollah e la fuga di molti funzionari dopo l’uccisione di Hassan Nasrallah. Yunis racconta che i suoi comandanti sono scomparsi, ha poi attaccato le forze Radwan definendo i suoi membri: “Persone con scarsi princìpi religiosi, che si sono arruolate per farsi pagare e sono fuggite per paura delle forze israeliane”. Questo punto è importante, perché Yunis ritrae le forze Radwan non come uomini fedeli all’ideologia, fieri ingranaggi dell’“asse della resistenza” che l’Iran ha imbastito per attaccare Israele, ma come disoccupati pronti a combattere per soldi. Yunis ha raccontato che Hezbollah era arrivato a controllare la maggior parte dei villaggi del sud, tranne quelli cristiani, e fa il ritratto di un gruppo allo sbando, i cui vertici sono fuggiti e i sottoposti rimangono nascosti nei tunnel. Si tratta di un interrogatorio con una telecamera, sono state mostrate le dichiarazioni che fanno comodo per la battaglia dell’informazione.
  Le dichiarazioni di Yunis vanno calate nel contesto di un combattente catturato dall’esercito nemico, ma raccontano una situazione opposta rispetto a quella prospettata da Naim Qassem, il reggente di Hezbollah che non vuole diventare leader, ma che ogni settimana, da ormai tre settimane, lancia messaggi a Israele e al mondo. Qassem ha parlato martedì, ha detto che Hezbollah non lascia la battaglia, non è disorganizzato e un leader verrà scelto al momento giusto. Ha contraddetto il messaggio che aveva lanciato la scorsa settimana, quando aveva ammesso di essere pronto ad accettare un cessate il fuoco separato dalla situazione a Gaza e riaffermato la sua solidarietà a Hamas. Qassem non dà un’immagine di forza, non è carismatico, parla da una stanza buia, è confuso sulla strategia. Ieri Israele ha colpito Nabatieh, una città nel sud del Libano, durante l’attacco è stato colpito il municipio, dove si trovava il sindaco con altri funzionari. Tsahal aveva lanciato un ordine di evacuazione, ma il sindaco aveva detto alla stampa che sarebbe rimasto, nonostante Nabatieh sia considerata una delle roccaforti di Hezbollah. Il numero delle vittime in Libano, secondo le autorità libanesi, è di oltre duemila persone, secondo Israele più di novecentosessanta sono membri di Hezbollah. Lo stato ebraico ha detto di essere intenzionato a combattere fino a quando il gruppo armato non si sarà ritirato al di là del fiume Leonte, come stabilito dalla risoluzione 1701 dell’Onu. Ieri la Forze di interposizione Unifil, sul posto per sorvegliare il rispetto della risoluzione, hanno riferito che nella postazione di Kafer Kela un carro armato israeliano ha colpito una torre di guardia. Per il momento non ci sono immagini, né dichiarazioni da parte di Tsahal.

Il Foglio, 17 ottobre 2024)

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Nazioni Unite al terrorismo

Il sostegno materiale: avrebbero dato 1,3 miliardi di dollari in contanti ad Hamas, presumibilmente per le armi. La corruzione e il pregiudizio hanno ridotto l’Onu ad essere irrilevante.

di Con Coughlin 

Le accuse secondo cui le Nazioni Unite avrebbero finanziato l’infrastruttura terroristica di Hamas trasferendo all’organizzazione 1,3 miliardi di dollari, parte dei quali sono stati impiegati per finanziare l’acquisto di armi utilizzate negli attacchi del 7 ottobre dello scorso anno, non faranno che rafforzare l’opinione secondo cui l’Onu non è più adatta a svolgere il ruolo per il quale era stata originariamente concepita.
Una causa intentata presso la Corte federale degli Stati Uniti dalle vittime degli attacchi di Hamas del 7 ottobre muove pesanti accuse all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati palestinesi (Unrwa), accusandola di essere coinvolta nell’organizzazione di un’operazione di riciclaggio di denaro su larga scala da cui ha tratto vantaggio l’organizzazione terroristica.
La tesi è che ingenti quantità di aiuti umanitari destinati agli abitanti di Gaza sarebbero stati dirottati verso Hamas.
Secondo Gavriel Mairone, l’avvocato che rappresenta i querelanti, queste sconcertanti accuse dimostrano che, per più di un decennio, la rete di distribuzione degli aiuti dell’Unrwa è stata coinvolta in frodi e corruzione diffuse. L’azione legale sostiene che questo schema non solo ha arricchito Hamas, ma ha anche finanziato il terrorismo, svolgendo un ruolo fondamentale negli attacchi del 7 ottobre.
Intervenendo a un evento organizzato dal Jerusalem Press Club all’inizio di quest'anno, Mairone ha spiegato come speciali furgoni blindati abbiano trasportato milioni di dollari in contanti a Gaza.
Alcuni dei pagamenti in contanti effettuati ai trafficanti di armi risalgono a prima del 2018. Dopo questa data, il Qatar ha iniziato a trasferire 10 milioni di dollari al mese in contanti e l’Unrwa ha aggiunto altri 20 milioni di dollari, costituendo due terzi del flusso di denaro.
Un elemento chiave della causa patrocinata da Gavriel Mairone è che, mentre l’Autorità Palestinese paga i suoi dipendenti di Gaza tramite bonifici bancari, i pagamenti ad Hamas sono stati effettuati in contanti, il che solleva interrogativi sul perché fossero necessari sistemi di pagamento diversi.
“Dunque, la domanda è perché in questa sede si utilizza il denaro contante (dollari, ndr) e in tutte le altre sedi si usa la valuta locale?”, ha chiesto Mairone.
La causa intentata dalle vittime degli attacchi del 7 ottobre aumenterà ulteriormente la pressione a cui è sottoposta l’Onu in merito alla sua risposta agli attacchi e alle accuse di pregiudizio anti-israeliano.
Come minimo, le accuse mosse nei confronti dell’Unrwa evidenziano l’urgente necessità di una vigilanza e di meccanismi efficaci per prevenire l’uso improprio dei fondi umanitari, salvaguardando così l’integrità delle operazioni di aiuto e il benessere delle popolazioni vulnerabili.
La posizione dell’Onu come arbitro indipendente negli affari mondiali ha già raggiunto il minimo storico a causa della sua associazione con Hamas e della palese politica anti-israeliana adottata dopo gli attacchi del 7 ottobre dello scorso anno, quando i terroristi di Hamas uccisero 1.200 persone, prendendole in ostaggio altre 251.
La prima prova schiacciante della complicità delle Nazioni Unite nella peggiore atrocità terroristica commessa nella storia di Israele è emersa dopo che l’esercito israeliano aveva segnalato che 450 dipendenti dell’Unrwa erano “agenti militari di Hamas e di altri gruppi armati” e aveva condiviso queste informazioni con l’Onu.
“Più di 450 dipendenti dell’Unrwa sono agenti militari di gruppi terroristici a Gaza. Questa non è una mera coincidenza. È sistematico. Non si può affermare che ‘non lo sapevamo’”, ha dichiarato il portavoce dell’Idf Daniel Hagari.
La rivelazione del coinvolgimento di dipendenti delle Nazioni Unite nella pianificazione del barbaro assalto ha spinto molti governi occidentali, tra cui Stati Uniti e Regno Unito, a congelare le loro donazioni, sebbene alcune di queste restrizioni siano state successivamente allentate da alcuni leader occidentali in seguito alle pressioni degli attivisti di estrema Sinistra filo-palestinesi.
Il clamore suscitato dalla richiesta di riattivare l’erogazione di aiuti all’Unrwa ha spinto la Casa Bianca a confermare il mese scorso il suo sostegno alla ripresa dei finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite, a condizione che vengano attuate misure di responsabilità adeguate.
Questo in seguito all’introduzione di una nuova legislazione da parte dei progressisti della Camera per riavviare le forniture di denaro all’Unrwa. Lo scorso anno, il Congresso Usa ha approvato una legge che impedisce all’agenzia di ricevere finanziamenti fino a marzo 2025.
Il consigliere per le comunicazioni sulla sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha confermato che gli Stati Uniti, in linea di principio, continuano a sostenere il ripristino dei fondi.
“Alla luce del fatto che la crisi a Gaza è ancora in corso e del ruolo essenziale che l’Unrwa svolge nella distribuzione di assistenza salvavita, continuiamo a sostenere il finanziamento dell’Unrwa, con le opportune salvaguardie, con misure di trasparenza e di responsabilità”, ha dichiarato Kirby.
Più di recente, la capacità di gruppi terroristici dichiarati fuorilegge come Hamas e Hezbollah di infiltrarsi nei ranghi dell’Onu è stata messa a nudo quando si è scoperto che un alto comandante di Hamas, ucciso in un attacco aereo israeliano in Libano il mese scorso, lavorava come insegnante delle Nazioni Unite.
Sono stati sollevati ulteriori dubbi sulla credibilità dell’Onu nel suo ruolo di entità indipendente in seguito agli attacchi del 7 ottobre, a causa del palese pregiudizio anti-israeliano dimostrato dall’ampia storia di ingiusta denigrazione di Israele da parte delle Nazioni Unite, nonché dai precedenti del segretario generale dell’Onu António Guterres.
Il dossier di “crimini delle Nazioni Unite contro l’umanità” e di demonizzazione di Israele è piuttosto corposo, ma si può dare un’occhiata quiquiqui, qui, quiqui. Le persistenti critiche rivolte a Israele da Guterres, ex primo ministro socialista del Portogallo, hanno spinto lo Stato ebraico a prendere la decisione senza precedenti di vietare al capo delle Nazioni Unite di visitare il Paese.
Nell’annunciare il divieto, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha dichiarato Guterres persona non grata, definendolo “un segretario generale anti-Israele che sostiene i terroristi” per aver apparentemente giustificato il terrorismo quando ha affermato che l’attacco immotivato sferrato contro Israele il 7 ottobre 2023 “non è avvenuto nel vuoto”.
L’azione israeliana è senz’altro molto imbarazzante per un’organizzazione come l’Onu, che non è estranea alle polemiche.
Nel 2002, le Nazioni Unite furono coinvolte nello scandalo “sesso in cambio di cibo”. Un rapporto di 84 pagine ha confermato che l’Onu sapeva da 16 anni che gli operatori di oltre 40 organizzazioni in Africa consegnavano cibo ai bambini in cambio di sesso.
Un anno dopo, nel 2003, in seguito alla guerra in Iraq, Kofi Annan, allora Segretario generale delle Nazioni Unite, venne duramente criticato per il ruolo da lui svolto nel consentire al dittatore iracheno Saddam Hussein di gestire un’operazione di contrabbando di petrolio altamente redditizia per sostenere il suo regime al potere.
In seguito allo sconvolgente rapporto delle Nazioni Unite sullo scandalo della corruzione in Iraq, l’agenzia ha dichiarato che avrebbe avviato una riforma radicale per assicurarsi di essere immune da pratiche corrotte.
Il crescente scandalo sul coinvolgimento dell’organismo con Hamas, insieme al suo pregiudizio anti-israeliano, indica che non è stata avviata alcuna riforma e che l’intera organizzazione non è più adatta allo scopo.
L’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti John Bolton fece notizia all’epoca dello scandalo iracheno affermando che, se fossero stati rimossi i primi dieci piani della sede centrale dell’organizzazione a New York, nessuno avrebbe notato la differenza.
Un’idea migliore, visti i recenti risultati pessimi ottenuti dall’organismo nella gestione del Medio Oriente, sarebbe quella di demolire l’intera infrastruttura di questo organismo corrotto e istituzionalmente fazioso.

(Gatestone Institute, 17 ottobre 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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Quegli ebrei ormai soli al Ghetto nel giorno più tragico di Roma

L'anniversario della deportazione di oltre mille ebrei romani cade in un clima di tensione mista a imbarazzante silenzio. Le celebrazioni di ricordo sono tutte interne alla Comunità ebraica romana. Tutte blindate. E tutte a partecipazione ridotta, altroché scolaresche e solidarietà diffusa. Quello è ormai solo un ricordo. Il 16 ottobre del 1943 è stato il sette ottobre degli ebrei romani. Era uno shabbat, una giornata di festa anche allora, come fu il sette ottobre in Israele. A Roma vennero i nazisti, in Israele era Hamas. All'alba di quel 16 ottobre 1943 le SS naziste, con la collaborazione dei fascisti, entrano nel ghetto ebraico di Roma arrestando e deportando oltre mille persone tra uomini, donne e bambini. L'anniversario non è esattamente privo di polemiche, né di timori. Perché, se gli anni scorsi le manifestazioni per il ricordo di quella ignominia – i cortei sul lungotevere, le fiaccolate in piazza, le assemblee nelle scuole – erano numerose e partecipate, a un anno dall'incalzare della più imponente campagna antisemita dopo la Shoah, la situazione è sensibilmente diversa.    
 Sono trascorsi venti giorni dalla manifestazione con cui i Propal hanno esposto sui cartelli, accusandoli di essere «agenti sionisti», i volti di Riccardo Pacifici, ex presidente degli ebrei romani, e della senatrice a vita Liliana Segre. E solo dieci giorni fa un'altra manifestazione filopalestinese non organizzata ha portato al ferimento di ventiquattro agenti di polizia, a Porta San Paolo. In questo clima, le celebrazioni si fanno ristrette. Ieri, una piccola cerimonia alla stazione Tiburtina. Non erano presenti autorità. Davanti alla Sinagoga il Rabbino capo, Riccardo Di Segni, il presidente della Comunità Ebraica romana, Victor Fadlun, il sindaco Roberto Gualtieri e per la Regione Lazio l'assessore all'inclusione sociale Maselli. Oggi, a concludere, tre deposizioni di corone: a largo 16 ottobre, a Palazzo Salviati e una al cimitero del Verano. Tutto a carico della Comunità ebraica romana. La politica è la grande assente. Le università non si mobilitano. Il mondo della cultura è distratto, gli intellettuali afoni. Certo, Rai Cultura metterà in onda su Rai Storia un documentario con Paolo Mieli, ma non proprio nelle ore di punta: alle 9 del mattino e alle 14,15. Insomma, qualcosa si fa, perché si deve. Ma il minimo sindacale, e par di capire, controvoglia.    
 «Questo di oggi è un 16 ottobre terribilmente amaro per gli ebrei romani e italiani», dice Fiamma Nirenstein. «Il sette ottobre in Israele è stato il 16 ottobre per Roma. Hamas voleva dare la caccia agli ebrei. Farne pulizia etnica. L'incontro micidiale che c'è stato tra l'ideologia woke e la grande presenza islamica che c'è in Italia e in Europa crea un cocktail esplosivo e mortale». Anche il presidente della Comunità ebraica romana, Victor Fadlun, avverte: «Quel 16 ottobre non arrivò all'improvviso. Era stato preceduto da anni di martellante campagna antiebraica». Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni: «Quello che è successo in quegli anni - ha detto - è un ammonimento per tanti aspetti in particolare anche pensando a una nazione pacifica e piena di umanità come l'Italia», come una nazione possa «trasformarsi in una macchina di odio e di morte».

(EVENTI, 16 ottobre 2024)

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16 ottobre – Fadlun: Popolo ebraico di nuovo costretto a difendersi

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Iniziò all’alba del 16 ottobre 1943 il rastrellamento nazifascista degli ebrei romani. Come ogni anno, nell’anniversario, lo shofar ha dato anche stamane il via a commemorazioni e testimonianze. Alle cinque del mattino, l’ora in cui le SS iniziarono a muoversi tra le strade del Portico d’Ottavia, una piccola folla si è raccolta davanti all’ingresso della scuola ebraica per sentire il corno rituale suonato da rav Alberto Funaro e ascoltare alcune riflessioni del rabbino Ariel Di Porto.
  Nel corso della mattinata è avvenuta la deposizione delle corone in ricordo delle vittime della razzia, alla presenza tra gli altri del rabbino capo Riccardo Di Segni, del presidente della Comunità ebraica Victor Fadlun, dell’ambasciatore israeliano designato Jonathan Peled, del sindaco Roberto Gualtieri e del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca.
  Centinaia di persone hanno preso parte la sera prima alla tradizionale iniziativa congiunta per il 16 ottobre organizzata da Comunità di Sant’Egidio e Comunità ebraica. Sul palco, accanto a istituzioni comunitarie e pubbliche, sono saliti anche il fondatore dell’organizzazione cattolica Andrea Riccardi e monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino. «Difendere gli ebrei vivi significa anche riconoscere e combattere ogni ambiguità» ha affermato Gualtieri nel denunciare il «rigurgito orribile di odio antiebraico» in corso nella società italiana e collegato alla crisi in Medio Oriente. Nulla, ha aggiunto, «potrà mai giustificare l’antisemitismo, la messa in discussione del diritto di Israele a esistere».
  In precedenza Fadlun aveva sottolineato come il popolo ebraico, a 80 anni dalla Shoah, sia oggi di nuovo costretto «a difendersi da intenti genocidi e di sterminio». Mentre il rabbino Di Segni aveva espresso «stupore» di fronte al riemergere «di sentimenti di ostilità antiebraica» nell’opinione pubblica. Il rav ha lanciato comunque un messaggio di speranza, con l’obiettivo di «ricostruire fratture» e per un futuro «di serenità e pace». a.s.

(moked, 16 ottobre 2024)

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Hezbollah nascondeva armi strategiche in mezzo ai civili a Beirut

L'IDF ha colpito un importante deposito di armi strategiche nascosto in mezzo alle abitazioni civili a Beirut

A conferma che Hezbollah usa i civili come scudi umani a difesa dei suoi centri operativi e dei suoi depositi di armi anche nella capitale libanese, l’IDF ha emesso un comunicato nel quale si spiega che l’attacco aereo che questa mattina ha preso di mira il sobborgo di Dahiyeh, nel sud di Beirut, aveva come obiettivo un grosso deposito sotterraneo di armi strategiche di Hezbollah.
L’attacco è stato guidato da agenti segreti presenti sul posto ed è stato anticipato da un ordine di sgombero emesso dall’IDF con l’intento di limitare le vittime civili. L’uso di armi di precisione ha completato le misure prese dall’IDF per non colpire civili innocenti.
Ieri l’IDF ha eliminato decine di terroristi di Hezbollah in combattimenti ravvicinati nel sud del Libano. Attacchi aerei hanno preso di mira depositi di armi sotterranei mentre l’esercito ha mostrato nuovamente l’enorme numero di armi presenti in bunker sotterranei costruiti in prossimità del confine con Israele.

(Rights Reporter, 16 ottobre 2024)

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