Notizie 16-30 settembre 2015
Archeologia e agricoltura, simposio Italia-Israele
Il 7 e 8 ottobre a Milano
ROMA - Italia e Israele detengono un patrimonio archeologico di inestimabile valore storico, culturale e sociale, sul quale poggiano le basi della civilta' occidentale. Il tema dell'Esposizione Universale Expo 2015 e' l'alimentazione e i suoi corollari, cioe' le piu' moderne tecnologie legate allo sviluppo dell'agricoltura e dell'irrigazione. Cercare nei panorami culturali italiani e israeliani le tracce piu' antiche di queste tecnologie e' l'argomento di un simposio che coinvolge Italia ed Israele e in programma il 7 e 8 ottobre a Milano, simposio che lega l'archeologia alla modernita' e trova in Expo la cornice ideale per essere ospitato.
I lavori si svolgeranno infatti nel Padiglione Israele. Il simposio e' realizzato dall'ambasciata di Israele a Roma e dal Ministero dei Beni e delle Attivita' Culturali e del Turismo - Direzione Generale Archeologia, in collaborazione con la IIA, Israel Antiquities Authority, l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, il Politecnico di Milano - polo di Mantova, lo Shenkar College di Tel Aviv, la Soprintendenza Archeologia della Lombardia.
La conferenza stampa di inaugurazione si terra' mercoledi' 7 ottobre alle 12 presso la sede della Soprintendenza archeologica di Milano - Sala delle Colonne. Due gli appuntamenti previsti nel simposio.
Si parte il pomeriggio del 7, alle 14,45, per illustrare la cooperazione tra il Politecnico di Milano e l'Istituto Shenkar di Tel Aviv al fine di musealizzare l'antica citta' di San Giovanni d'Acri (Akko), inserita nel Patrimonio mondiale dell'umanita'. Gli esperti italiani e israeliani racconteranno in che modo l'agricoltura ha influenzato la formazione di questa magica cittadella templare e di tanti altri panorami culturali in Italia e in Israele.
La giornata dell'8 ottobre sara' invece dedicata all'acqua, bene indispensabile per qualunque sviluppo agricolo e particolarmente prezioso in una terra arida e desertica come Israele, i cui paesaggi sono impreziositi dalle vestigia degli acquedotti romani diffusi in tutta l'area mediterranea fin dall'epoca di Augusto, da costruzioni, ritrovamenti e reperti presenti in gran quantita' ovunque. Tutte queste opere sono sorte per soddisfare l'esigenza dello sfruttamento delle acque a fini agricoli e trovano una naturale evoluzione nelle modernissime tecnologie di irrigazione goccia a goccia.
Questa eccellenza israeliana, che ha trasformato i suoi deserti in un territorio fertile e vitale, costituisce oggi un modello per tutti i popoli che vivono la grande emergenza della siccita'.
Prima parte del convegno "Dagli acquedotti romani all'irrigazione a goccia" dalle 10 alle 13 e la seconda, titolo "Dagli acquedotti romani all'irrigazione a goccia", dalle 14,30 alle 18,30. Il simposio - riferisce una nota dell'Ufficio nazionale del turismo israeliano - "vuole essere un importante momento di confronto per far conoscere alle nuove generazioni l'immenso patrimonio culturale archeologico di Italia e di Israele, unite dal Mare Mediterraneo, culla comune delle nostre civilta'".
E per Eldad Golan, addetto culturale dell'ambasciata israeliana a Roma, promotrice del convegno in collaborazione con la Direzione Generale Archeologia del Mibact, "la conoscenza di tale patrimonio e' parte integrante dell'identita' culturale dei nostri popoli ed e' indispensabile per creare tra di essi dei legami inscindibili". Gli aspetti e gli esempi da portare sarebbero numerosissimi, ed e' impossibile dare conto di tutte le ricerche in atto. Per questo la Direzione Generale Archeologia "ha scelto di presentare solo alcuni casi di recente approfondimento, anche connessi a iniziative collaterali a EXPO, senza poter prescindere da una breve rassegna su quanto e' oggetto di studio a Roma stessa".
(AGI, 30 settembre 2015)
Esperti israeliani a convegno sul pomodoro nel Ragusano
Si parlerà di futuro dell'economia agricola siciliana l'8 e il 9 ottobre a Vittoria dove è in programma il primo "International Symposium on Tomato Genetics for Mediterranean Region": convegno internazionale rivolto alle aziende del settore che metterà a confronto aziende, professionisti e ricercatori italiani e stranieri. Al centro dell'appuntamento, gli argomenti riguardanti il miglioramento varietale, la tracciabilità delle produzioni, la lotta a funghi e virosi del pomodoro.
Al convegno è prevista la partecipazione di numerose aziende sementiere italiane ed europee e di specialisti di fama internazionale nel campo della ricerca varietale e della lotta contro patologie fungine e virosi. Fra gli altri: Haim Rabinowitch (Università di Gerulasemme), Moshe Lapidot (Istituto israeliano di ricerca Volcani), Luciano Trentini (Foodis) vicepresidente del gruppo di esperti "Qualità e Promozione" della Commissione europea.
(Corriere quotidiano, 30 settembre 2015)
C'è del marcio in Norvegia, dove élite e giornali chiamano Israele "assassino" e "nazista"
La rivista simbolo dei socialdemocratici è accusata di antisemitismo per alcune vignette.
di Giulio Meotti
ROMA - Il Dagbladet è una vecchia gloria del giornalismo norvegese. Fondato nel 1869, il tabloid è un simbolo della Oslo socialdemocratica, pacifista e multiculturale che commina il Nobel per la Pace. Da giorni è accusato di antisemitismo. Dagbladet ha pubblicato una striscia di vignette che mostra una donna in un supermercato. "Che succede se il cibo è prodotto in maniera non etica?". La donna tiene in mano delle arance. "Queste vengono da Israele. Se le compri sostieni degli assassini". Poi si passa allo scaffale della pasta. "Questi maccheroni vengono dalla Corea del Nord". Nell'ultima striscia c'é una confezione di pizza surgelata con una svastica e la scritta "Made in Nazi Germany". Israele ha denunciato il Dagbladet, sostenendo che "incita alla violenza".
Non è la prima volta che il quotidiano simbolo dell'intellighenzia norvegese eccede in odio per lo stato ebraico. Dagbladet ha pubblicato una vignetta in cui si vedono terroristi palestinesi, liberati in cambio di Gilad Shalit, uscire da una prigione che reca l'insegna di Buchenwald: "Jedem das Seine" (a ciascuno il suo). E' lo stesso Dagbladet che ha pubblicato una vignetta che "avrebbe fatto urlare di gioia Hitler", come ha denunciato il Centro Wiesenthal. Si vede un bambino in attesa di essere circonciso e in un bagno di sangue. La didascalia dice: "Maltrattamenti? No è una parte importante della nostra fede". Quello che dovrebbe essere il padre del bambino, intanto, lo trafigge con un forcone a tre punte, mentre un altro gli taglia le dita dei piedi con delle cesoie e tiene una Torah grondante sangue. C'è del marcio in Norvegia, avrebbe detto il Marcello dell'Amleto di Shakespeare. Giorni fa una immagine è stata impressa come sfondo a una carta di credito emessa dalla Dnb Bank, il più grande istituto finanziario del paese. Si vede un ebreo con il naso adunco, la kippah in testa, lo scialle da preghiera e una cascata di monete d'oro. Un mese fa gli organizzatori di un festival del cinema a Oslo hanno rifiutato un documentario israeliano, "The other dreamers", sui bambini disabili perché sostenitori del boicottaggio. Il fondo sovrano della Norvegia, che amministra i proventi del petrolio, ha disinvestito dalla società israeliana Elbit, colpevole di aver costruito la barriera che ha fermato gli attentatori suicidi. Il sindacato El & It, che rappresenta i lavoratori dell'industria energetica, ha adottato il boicottaggio del sindacato israeliano Histadrut.
Anche la comunità culturale e scientifica è imbevuta di odio. Ingrid Harbitz della Scuola di veterinaria di Oslo si è rifiutata di spedire un campione di sangue al Goldyne Savad Institute di Gerusalemme con questa motivazione: "Non vogliamo consegnare materiale a un'università israeliana". Johan Galtung, il sociologo norvegese noto come "il padre degli studi per la pace", insignito di numerosi premi, all'Università di Oslo ha affermato che esiste un legame fra il terrorista responsabile del massacro di Utoya e il Mossad, il servizio segreto israeliano. L'autore del best seller "Il mondo di Sofia", Jostein Gaarder, in un articolo per i quotidiani norvegesi si è apertamente augurato la distruzione d'Israele: "Che Israele non abbia pace fino a che non depone le armi". E ancora: "Date un rifugio ai profughi israeliani", immaginando il giorno in cui di Israele non resterà traccia. Nessun antisemita dopo la Shoah si era mai avventurato su questo terreno. Comprese le vignette dei quisling socialdemocratici.
(Il Foglio, 30 settembre 2015)
Spartizione della Siria e negoziati: così Putin costruisce la sua agenda
Dopo l'incontro con il leader Usa i russi lavorano al dialogo Iran-sauditi e alla definizione del Gruppo di contatto. Verso un vertice fra i capi dei ribelli.
di Maurizio Molinari
Rafforzata dal successo, politico e personale, di Vladimir Putin all'Onu, la diplomazia russa lavora a pieno regime per far debuttare in ottobre il nuovo Gruppo di Contatto sulla Siria. Ciò significa dover sciogliere in tempi stretti nodi assai difficili.
Le prossime tappe
Putin è convinto che la soluzione della guerra passa attraverso un accordo fra Teheran e Riad, i grandi rivali strategici del Golfo, rispettivi leader del fronte sciita e sunnita. Poiché Teheran condivide con Putin la difesa di Assad, il Cremlino deve creare un rapporto di fiducia con Riad. «Costruire un ponte fra Iran e Arabia Saudita è il compito più difficile - spiega Alexei Malashenko, esperto di Medioriente al Carnegie Center di Mosca - e Putin vuole riuscire facendo presente il caos che scaturirebbe dalla cattura di Damasco da parte di Isis». Consapevole che è la sorte di Assad a dividere iraniani e sauditi, Putin punta sul comune timore per l'espansione del Califfato. Fra le carte da giocare, ha il rapporto di fiducia con Muhammed Bin Nayef, principe ereditario ed ex ministro della Difesa, su cui scommette per coinvolgere re Salman. Sono fonti diplomatiche vicine a Mikhail Bogdanov, il viceministro degli Esteri russo che guida l'iniziativa sul Gruppo di Contatto, a suggerire che per avvicinare Teheran e Riad potrebbe spuntare una «spartizione della Siria» facendo sopravvivere il regime di Assad solo sulla costa alawita, dove ci sono le basi russe, per consentire l'intesa sulla transizione a Damasco.
L'agenda degli europei
L'accelerazione russa solleva perplessità a Bruxelles in quanto non include al momento Paesi europei e perché i ministri Ue hanno ipotizzato che a gestire la Siria sia un Gruppo di Contatto con formato «5+1» ovvero composto da Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più la Germania come avvenuto sull'Iran. Il ministro russo Sergei Lavrov ha incontrato ieri a New York Federica Mogherini, «ministro degli Esteri» Ue, e si è discusso di questo. I dubbi Ue sull'iniziativa russa riguardano inoltre la necessità che avvenga sotto l'egida dell'Onu.
Chi parla con i ribelli?
C'è poi la questione dei ribelli. Alla Conferenza «Ginevra II» sulla Siria, nel gennaio 2014, la delegazione dell'opposizione era guidata da esponenti filo-occidentali che ora, sul terreno, contano assai meno dell'«Esercito della Conquista» islamico, sostenuto da Riad ed Ankara. Senza contare che i gruppi armati sono almeno 5000. Da qui il nodo su quali gruppi invitare, anche perché l'«Esercito della Conquista» in alcune aree opera assieme ad Al Nusra, emanazione di Al Qaeda. Avere attorno al tavolo i gruppi islamici non-Isis è d'altra parte incompatibile con esponenti del regime di Assad. Ce n'è abbastanza per mettere a dura prova gli sforzi del Cremlino che vogliono non solo riuscire a definire i dettagli tecnici del Gruppo di Contatto - chi ne farà parte e con quale compito - ma ipotizzano anche una «riunione fra leader ribelli» a Mosca entro fine anno. Le difficoltà russe consentono al presidente americano, Barack Obama, di giocare di rimessa. Incontrando i Paesi della coalizione anti-Isis alla Conferenza contro il terrorismo, tenutasi a New York, ha parlato di «risultati importanti contro il nemico comune» ribadendo che «Assad non è la persona che può realizzare la transizione». Il presidente ha quindi detto che ormai i terroristi «sono circondati, li sconfiggeremo».
(La Stampa, 30 settembre 2015)
Resa di Obama: Putin zar del Medio Oriente
Mosca scippa a Washington il ruolo guida: non solo Assad si rivolge al Cremlino, ma pure Israele e l'intero mondo arabo.
di Fausto Carioti
Non è un pareggio, quello tra Barack Obama e Vladimir Putin. I media occidentali (italiani inclusi) adorano il primo e hanno una pessima considerazione del secondo, e si sforzano di dipingere la partita in Medio Oriente come se fosse in equilibrio, con i due leader uniti contro l'Isis e divisi sul ruolo del «tiranno» siriano Bashar al-Assad. Ma la sfida si gioca sul terreno della realpolitik e non su quello della simpatia, e la squadra di Mosca è in vantaggio di molte lunghezze su quella di Washington.
Ufficialmente la detronizzazione di Assad resta uno dei punti fermi della Casa Bianca, ma i toni usati da Obama davanti all'assemblea generale dell'Onu sono stati meno ultimativi che in passato. Il presidente statunitense ha ammesso che «il realismo obbliga a trovare un compromesso che ponga fine ai combattimenti e consenta di cacciare l'Isis», pur aggiungendo che occorre «una transizione guidata da Assad a un nuovo leader». Era il minimo che potesse fare, dopo avere insistito per anni sulla rimozione di Assad.
Quello che Obama non ha potuto dire è che è morta l'illusione che avevano inizialmente gli Stati Uniti: quella di fare emergere un'alternativa più o meno "democratica" all'attuale presidente siriano. A conferma di questo, nei giorni scorsi a Washington si è diffusa la notizia che il Pentagono avrebbe dichiarato fallito il programma di addestramento e armamento dei gruppi militari anti-Assad, dopo che questi si erano arresi per consegnare armi e veicoli agli islamisti. Di certo alla Casa Bianca hanno realizzato che l'unica opposizione ad Assad oggi è l'Isis, che preoccupa molto più del dittatore. E questo è solo il primo punto in favore di Putin, grande difensore di Assad.
Un credito importante al capo del Cremlino lo ha riconosciuto nientemeno che Philip Breedlove, il generale americano che comanda la Nato in Europa. Come riportato dalla rivista Breaking Defence, Breedlove ha avvertito che la Russia sta dislocando le proprie forze in Siria non per combattere l'Isis, ma per creare quella che in gergo militare si chiama «A2/ AD», ovvero «anti access/area denial»: una "bolla" militare, basata innanzitutto sulla contraerea, posta a difesa di Assad e degli interessi russi in Siria, resi così impenetrabili alle forze occidentali. Sarebbe la terza creata dai russi, dopo quella messa a tutela della enclave di Kaliningrad, tra Polonia e Lituania, e quella realizzata in Crimea. Solo dopo aver realizzato questo obiettivo, ha aggiunto Breedlove, la Russia «farà un po' di lavoro anti-Isis, per legittimare il proprio intervento». Così, dopo la Crimea, anche la Siria pare entrata stabilmente nell'area di controllo politico e militare di Mosca.
Questo mentre l'influenza americana nella regione subisce un ulteriore colpo in Iraq: il governo sciita di Baghdad ha aperto le porte alla collaborazione strategica con Mosca, avviando uno scambio di informazioni d'intelligence con Russia, Iran e Siria in funzione anti-Isis. Un gruppo dal quale gli Usa sono tagliati fuori. Quando il premier iracheno Haidar al Abadi si insediò, nell'agosto del 2014, chiese subito aerei da guerra da usare contro i miliziani sunniti: i Sukhoi Su-25 russi arrivarono immediatamente, assieme agli istruttori, mentre gli F-16 americani ci hanno messo un anno per giungere a Baghdad. Grazie alla propria spregiudicatezza e alle incertezze degli Stati Uniti, Putin è diventato così l'interlocutore principale (militare, e dunque anche politico) dell'intero mondo sciita.
Tutto questo senza compromettere i rapporti con l'altra metà dell'Islam, anzi: i leader sunniti di Arabia Saudita, Egitto, Marocco, Giordania, Qatar ed Emirati Arabi Uniti si recheranno a Mosca quest'anno. Quell'universo arabo che per decenni ha avuto come referente principale il presidente degli Stati Uniti, chiunque egli fosse, oggi guarda a Putin come all'unico leader internazionale in grado di stabilizzare l'area minacciata dal Daesh, lo Stato islamico.
Persino a Gerusalemme il vento è cambiato. Umiliato dall'accordo che l'amministrazione Obama ha siglato con l'Iran, Benjamin Netanyahu ha deciso di aprire un canale diretto con Putin, che del regime iraniano è il principale sponsor. I due si sono incontrati a Mosca nei giorni scorsi: le divergenze tra Israele e Russia sono tante, soprattutto riguardo al solito Assad, ma ci sono anche importanti interessi in comune, e lo conferma il fatto che nel 2015 la Russia ha acquistato dieci droni per lo spionaggio militare prodotti dal gruppo Iai, le industrie aerospaziali israeliane. Velivoli che l'esercito russo ha subito usato al confine con l'Ucraina.
Accanto a Netanyahu si sono presentati da Putin il capo dell'esercito israeliano, Gadi Eizenkot, e il capo dell'intelligence militare, Herzl Halevi: una delegazione ai massimi livelli. Il vero problema di Israele non è rappresentato da Assad, ma dall'Iran, alleato di Putin e di Assad, e dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah, che ricevono armi da Damasco e da Teheran per usarle contro Israele. Netanyahu e i suoi hanno voluto capire fino a che punto Putin intenda difendere i loro nemici, e secondo il sito Debka, che attinge a fonti dello spionaggio israeliano, sono preoccupati dalla presenza in Siria del generale Saeed Azadi, capo delle Guardie della Rivoluzione, l'unità di élite dell' esercito iraniano.
Il leader russo ha dato parziali rassicurazioni, spiegando che in questo momento i suoi alleati sono impegnati contro l'Isis e non intendono aprire un fronte con Israele. Ha anche chiesto agli israeliani di non attaccare più le forze siriane, come accaduto giorni fa nel Golan, e Netanyahu gli avrebbe risposto che Israele intende difendersi da movimenti di truppe che considera pericolosi. È stato comunque deciso che vertici militari dei due Paesi si consultino per evitare scontri in Siria tra i rispettivi eserciti. Il premier israeliano resta insomma diffidente, ma avere buoni rapporti col Cremlino è necessario anche per lui.
(Libero, 30 settembre 2015)
Le aziende israeliane che stanno combattendo la fame nel mondo
La crescente crisi alimentare globale significa che presumibilmente aumentare le rese non sarà più sufficiente per soddisfare la domanda. Entro il 2050, si stima che il mondo avrà bisogno di produrre almeno il 50% in più di cibo per nutrire i 9 miliardi di persone. Tuttavia, a causa del riscaldamento globale, i raccolti potrebbero scendere del 25%.
Di fronte a questo problema, alcune società israeliane stanno lavorando per porre fine alla fame nel mondo. Dal 1950, gli israeliani hanno trovato metodi innovativi per nutrire il mondo e far crescere le piante nel deserto.
Ecco 5 grandi aziende che potrebbero contribuire a fermare la fame nel mondo.
1. Tal-Ya
Mentre la scarsità d'acqua affligge da anni i paesi aridi, ad oggi questo non è più un problema per Israele grazie a tecnologie con la Tal-Ya Agricolture Solutions. La società ha sviluppato un sistema per produrre più cibo con meno acqua.
Tra le tecnologie si annoverano: vassoi in plastica riutilizzabili che catturano la rugiada dall'aria, riducendo l'acqua necessaria del 50%. I vassoi, posti intorno alla pianta, durante la notte convogliano l'acqua verso le piante.
Fin dalla nascita nel 2005, Tal-Ya (che significa "rugiada di D-o" in ebraico) ha aiutato agricoltori in Israele, Stati Uniti, Cina, Cile, Georgia, Sri Lanka e Australia.
2. GrainPro
Nei paesi poveri dove le risorse agricole sono scarse, muffe e insetti possono facilmente distruggere i raccolti. GrainPro Cocoon, creato dal Prof. Shlomo Navarro dell'Università Ebraica di Gerusalemme, risolve questo problema. Il Cocoon è una custodia gigante che salvaguarda le colture dagli affamati insetti. Il materiale utilizzato per proteggere le colture è appositamente progettato per il deserto e per le condizioni atmosferiche avverse, come accade per l'Africa e Sud America, dove vi è una carenza di impianti di stoccaggio per proteggere i raccolti.
3. NRGene
Riuscite ad immaginare la crescita di una quantità illimitata di grano in mezzo a condizioni climatiche estreme come siccità o calore? L'azienda israeliana NRGene, con sede a Ness Ziona, ha mappato il genoma del grano per un mese. Dopo un attento studio hanno rivelato di essere in grado di ottenere rendimenti più elevati, una migliore qualità del grano con un più alto valore nutrizionale.
4. Bio Bee
L'azienda, istituita nel 1984, è specializzata nell'allevamento di insetti utili per la crescita agricola in pieno campo. Grazie al Bio Fly l'azienda vende bombi per l'impollinazione al fine di aiutare il controllo dei parassiti. L'idea alla base del sistema è quello di raggiungere un equilibrio tra i parassiti ed i loro nemici naturali. Se viene raggiunto questo equilibrio, l'irrorazione dei pesticidi potrà essere ridotta al minimo.
5. Akol
L'Agricoltural Knowledge On-Line (Akol), fondata nel 1978, è specializzata nell'aiutare i agricoltori di frutta e verdura e allevatori ad aumentare le proprie produzioni. Il forum online di Akol consiglia agli agricoltori in quale periodo dell'anno sia meglio raccogliere o piantare, come affrontare la siccità, e come monitorare la crescita del bestiame. Nel 2011 l'azienda ha firmato un importante accordo di sviluppo con il gigante dei computer IBM per essere ospitato sul suo "cloud". Più di recente Akol ha annunciato di voler lanciare una cloud agricolo in Cina, dopo aver firmato un accordo con il suo governo all'inizio di questo anno.
(SiliconWadi, 30 settembre 2015)
Gli inguaribili pregiudizi delle Nazioni Unite
Il Consiglio di Sicurezza ha abbracciato la teologia della sostituzione e della totale negazione.
Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha giurato che impedirà agli ebrei di "profanare la moschea di al-Aqsa con i loro piedi sozzi". Forse che c'è stata una qualche condanna di rilievo da parte delle Nazioni Unite di questa evidente istigazione all'odio? Nemmeno un accenno.
Le Nazioni Unite non smettono mai di stupirci, anche se lo spudorato pregiudizio di quell'organizzazione non dovrebbe ormai sorprendere nessun israeliano ragionevole. Eppure in qualche modo noi continuiamo compulsivamente a presumere che prove abbondanti e incontrovertibili sotto gli occhi di tutti possano finalmente riequilibrare la distorta bilancia internazionale. Ma invariabilmente ci viene dimostrato che nessuna assurdità è troppo assurda per le Nazioni Unite....
(israele.net, 30 settembre 2015)
Giancarlo De Palo: "Il Lodo Moro è ancora in vigore"
Le sconvolgenti rivelazioni sul traffico d'armi tra Italia e Palestina.
di Monica Mistretta
"Il Lodo Moro è ancora in vigore" a dirlo è Giancarlo De Palo, fratello di Graziella, la giornalista uccisa in Libano nel 1980 mentre indagava, insieme al collega Italo Toni, sul traffico d'armi tra Italia e Palestina.
Certo, di Giancarlo è stato detto tutto, anche che sia pazzo. Perfino da alcune persone che dovrebbero essergli vicino. In realtà, anche se provato e invalido, è lucido e preciso nei ragionamenti. Collabora con Liberoreporter. Eppure, come nelle migliori "spy story", quello che più di ogni altro ha seguito il caso dei giornalisti scomparsi in Libano e mai più ritrovati, l'uomo che sa più cose di tutti sul Lodo Moro e sui patti con i palestinesi, non deve essere nelle condizioni di parlare.
Ma Giancarlo non ci sta e a volte qualche intervista, lucidissima, la concede. Quando gli diciamo che la sorella dopo essere stata rapita dagli uomini dell'Olp potrebbe essere stata consegnata ai siriani, ribatte puntualizzando: "no, non abbiamo le prove documentali, pertanto non possiamo affermarlo. Atteniamoci ai fatti".
E sul fatto che il Lodo Moro sia ancora in vigore, Giancarlo non ha dubbi.
Quando è stato tolto il segreto di Stato sul caso della scomparsa dei due giornalisti italiani, Graziella De Palo e Italo Toni, i documenti relativi ai rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi sono rimasti secretati.
Le altre carte sono state consegnate piene di omissis.
"Il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi nel settembre del 2014 ha detto a noi familiari che la possibilità di rendere nota la questione di tali rapporti fa tremare anche il governo Renzi. Il segreto deve rimanere. Nessuno deve sapere quali furono gli accordi tra italiani e palestinesi. Anche se, ormai, i contenuti del Lodo Moro si conoscono: i palestinesi potevano far transitare le loro armi sul nostro territorio, a patto che non le utilizzassero contro bersagli italiani".
E oggi?
E oggi il patto continua: questa volta non più con l'Olp, ma con ogni probabilità con Hamas.
"Ogni volta che l'Italia ha cercato di uscire da questo accordo, l'ha pagata molto cara - spiega Giancarlo. Quando ha arrestato Abu Saleh, il rappresentante del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) in Italia per la questione dei missili d'Ortona, è saltata per aria la stazione di Bologna. Ed è singolare che mia sorella Graziella sia scomparsa esattamente un mese dopo la strage di Bologna: il 2 settembre 1980. Ed è altrettanto singolare che Graziella indagasse da due anni sui traffici di armi che coinvolgevano i palestinesi e gli italiani nella figura del capocentro dei nostri servizi a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone. Ci fu un'altra occasione in cui il patto sembrò saltare: quando Berlusconi scelse la linea filoamericana in Iraq, gli arabi ci punirono con la strage di Nassiriya".
"Quando nel 1981 arrivai a Beirut, in Libano, per cercare mia sorella - ricorda Giancarlo, restai colpito da una cartina appesa al muro di una stazione locale della polizia libanese: era la mappa dell'Italia con tutti porti marcati da un segno. Sembrava che i libanesi trattassero quei porti come cosa loro. Questa era la sensazione che si aveva guardando quelle cartine appese alla parete. E all'epoca, fino al 1982, i capi della polizia e dei servizi segreti libanesi rispondevano direttamente ad Abu Ayad, braccio destro di Arafat e capo dei servizi segreti di Fatah".
Se è vero che il Lodo Moro non è mai stato messo in discussione, se non a nostro rischio e pericolo, è anche vero che le armi palestinesi circolano ancora nel nostro paese.
Potrebbero esserne una prova i tanti sequestri di armi avvenuti in questi ultimi anni nei porti italiani. Armi che dovevano finire nelle mani di Hamas, l'organizzazione palestinese che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza.
Alcuni di questi sequestri sono stati clamorosi.
Nell'estate del 2010 al Porto di Gioia Tauro vengono sequestrate sette tonnellate di esplosivo T4 provenienti dall'Iran e dirette al porto di Latakia in Siria e quindi destinate a Hizbullah in Libano e ad Hamas a Gaza.
L'allora ministro degli Esteri Franco Frattini, in seguito al sequestro, si precipita dal segretario di Stato americano Hillary Clinton, alla quale spiega, confermando la collaborazione dell'intelligence di altri paesi: "è un ritrovamento di grandissima importanza che rimette la lotta al terrorismo al centro della collaborazione transatlantica tra Ue e Usa".
Ma il 9 dicembre del 2012, nel porto commerciale di Napoli si fa un altro ritrovamento: cinque container carichi di lanciamissili e bazooka diretti al porto di Alessandria d'Egitto e destinati ai palestinesi.
A quando il prossimo ritrovamento?
(ArticoloTre, 30 settembre 2015)
I carabinieri italiani addestrano le forze palestinesi
Il 29 settembre presso il Center Training Institute (CTI) di Jericho, si è tenuta la cerimonia di apertura terza edizione della missione MIADIT in Palestina: a prima edizione della missione si è svolta nel periodo aprile - giugno 2014 e la seconda da febbraio ad aprile 2015.
L'attività nasce da un accordo bilaterale tra il Ministero della Difesa italiano e il Ministero dell'Interno palestinese, in base al quale un team di Carabinieri specializzati in vari rami professionali, dall'ordine pubblico alla polizia giudiziaria, dalla tutela del patrimonio culturale alle investigazioni scientifiche, svolge delle sessioni di addestramento in favore delle Forze di Sicurezza palestinesi, quali la Presidential Guard, la National Security Force, la Palestinian Civil Police, la General Military Training Commission e la Touristic Police.
La missione prevede un corso specialistico di dodici settimane, che vedrà impegnati 30 istruttori dell'Arma dei Carabinieri, selezionati dal 1o Reggimento Carabinieri Paracadutisti "Tuscania", dal 7o Reggimento "Trentino Alto Adige", dal 13o Reggimento "Friuli Venezia Giulia", dai Reparti Investigativi dell'Arma Territoriale e dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Le attività si svolgeranno presso il CTI di Jericho, un'accademia interforze, e saranno incentrate sulla formazione avanzata nelle tecniche di polizia, investigative e di protezione dei siti di interesse archeologico-culturale: un delicato impegno che si propone di contribuire in modo significativo, nel contesto degli sforzi internazionali, ad accrescere le capacità tecniche ed operative delle forze di sicurezza locali.
Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti il Console Generale d'Italia in Gerusalemme Davide La Cecilia, il Gen.D. Ioussef Al-Halo, Comandante del GMTC (General Military Training Commission), il Governatore della città di Jericho e i rappresentanti delle missioni USSC (US Security Coordinator on the Israelian and Palestinian Authorities e EUPOL COPPS (European Coordinating Office for Palestinian Police Support). Presenti anche 150 corsisti e 25 assistenti istruttori, qualificati dai Carabinieri nelle precedenti edizioni.
La missione addestrativa in Palestina, svolta dall'Arma dei Carabinieri sotto l'ombrello USSC, che ha menzionato l'attività dell'Arma anche in occasione del 15o World Summit on Counter-Terrorism in Tel Aviv, si va ad aggiungere alle numerose operazioni attualmente in corso di "capacity building" condotte dalle Forze Armate italiane in diversi teatri operativi esteri.
(AD Analisi Difesa, 29 settembre 2015)
Il potere dei social network applicato agli eventi
Un nuovo modo di vivere le proprie passioni. Ecco come si potrebbe definire brevemente FanZone, la nuova piattaforma made in Israel che riunisce gli appassionati di musica e sport. Si tratta infatti di un social network riservato agli appassionati di sport e artisti musicali. Numerose le rubriche proposte, al fine di aumentare ad esempio la condivisione di notizie legate ad un artista o ad un calendario di eventi. Usando FanZone, sarà possibile accedere ad alcune offerte speciali o promozioni su determinati concerti o partite.
Ori Shilo, Amministratore Delegato della giovane startup, afferma:
Il mercato dei grandi eventi dello sport e della musica è enorme. La nostra visione è quella di creare una piattaforma che comprenda un ampio ventaglio di servizi attorno all'evento stesso e che permettano di ridurre i costi complessivi.
|
|
FanZone è stata fondata nel 2014 da Shilo, ex direttore generale della Federazione israeliana di calcio, e da Tomer Kazaz portiere delle giovanili del Maccabi Netanya. Il calcio è stato il primo terreno di gioco della
piattaforma tra i cui partner si annovera il campionato di calcio israeliano come anche la Champion inglese
o quella tedesca. Si può diventare fan e seguire le news di numerosi club come il Maccabi Tel Aviv, Sheffield Wednesday o Schalke 04.
FanZone collabora anche con altre agenzie e organismi come la polizia o i trasporti pubblici al fine di migliorare la qualità dei servizi offerti tra i quali quello del car sharing ovvero condividere l'auto per raggiungere l'evento.
Dall'esordio, FanZone ha ricevuto circa 5 milioni di dollari con l'aiuto della Olive Tree Capital Ventures e 1,2 milioni dall'inizio del 2015. Inoltre, gli ideatori sono riusciti ad integrare la piattaforma con Microsoft Ventures Tel Aviv che offre supporto e sostegno finanziario, oltre che legale, alle startup che vi si uniscono. Pertanto, questa piccola azienda sta cercando di espandersi verso nuove aree. Ad esempio verso alcuni artisti che si sono esibiti in Israele come Robbie Williams o i Backstreet Boys. Per l'artista britannico, circa 7,000 spettatori hanno utilizzato l'applicazione.
Per ora, FanZone opera principalmente in Israele, Regno Unito, Grecia e Germania. Ma con il recente successo del fundraising, la piattaforma punta anche al mercato di Stati Uniti, Francia e Spagna. Come affermato da Shilo su Geektime:
È una piattaforma diversa da Moovit, Waze o altro, i quali sono specializzati in un unico servizio. Con FanZone l'evento è al centro della propria offerta ma vi sono anche numerosi servizi costruiti attorno.
|
|
(SiliconWadi, 29 settembre 2015)
Italia-Israele: confronto sulla cyber sicurezza
di Flavia Giacobbe
Sviluppo economico e difesa nazionale sono le due ragioni che hanno reso Israele la nazione candidata a diventare leader nel mondo cyber.
La Silicon Wadi grazie a ricerca e innovazione ha posto il Paese in prima fila contro attacchi cibernetici. Quella degli hacker è una minaccia che, se bene strutturata, può avere gli effetti di un attacco militare ed è per questo che nel cyber gioca un ruolo centrale l'intelligence. Per crescere nel settore, Israele ha dato vita a Beer Sheva, nel deserto del Negev, a quello che è destinato a diventare il più importante cyber center dell'occidente, ospitando università, centri di ricerca, grandi player privati, organizzazioni istituzionali, della difesa nazionale e startup che lavorano fianco a fianco per prevenire le minacce in Rete.
Il nostro Paese sta intensificando le collaborazioni con Tel Aviv sulla difesa cibernetica sia sul versante istituzionale sia industriale. Per un confronto proficuo tra i due Paesi, le riviste Airpress e Formiche, insieme con la Delegazione italiana all'Assemblea parlamentare della Nato, hanno in programma per oggi alle 16 presso la Camera dei deputati una conferenza alla quale prenderanno parte il capo del Cyber Research Center dell'Università di Tel Aviv e presidente dell'Agenzia spaziale israeliana, Isaac Ben-Israel; l'autorità delegata alla Sicurezza della Repubblica, Marco Minniti e l'amministratore delegato di Finmeccanica, Mauro Moretti.
Tra l'altro la società italiana, attraverso Selex ES, si è da poco aggiudicata un contratto del valore di 19 milioni di euro per l'estensione del programma che garantisce la sicurezza delle informazioni dalle minacce di attacchi cyber in 52 siti Nato di 29 Paesi. In base al nuovo accordo, il servizio verrà esteso nei prossimi due anni a una serie di altri siti e sedi del l'Alleanza.
(Il Tempo, 29 settembre 2015)
Dall'Iran ai timori di Israele. I nodi delle trattative anti-jihad
L'intesa su una strategia comune contro il Califfato è complicata dai veti reciproci. Gli Usa frenano sul ruolo di Teheran, Mosca punta a distogliere l'attenzione dall'Ucraina.
di Marco Ventura
ROMA - Occidente in ordine sparso in Siria con l'obiettivo di contenere la minaccia terroristica e l'espansionismo dello Stato Islamico, ma anche di gestire la transizione del Paese dal regime di Bashar al Assad a un nuovo assetto che difficilmente corrisponderà a una sola Siria. Alessandro Orsini, direttore del Centro Studio sul Terrorismo dell'Università di Roma Tor Vergata, coglie un punto di svolta nell'intesa recente tra Angela Merkel e il leader turco Erdogan sul fatto che Assad, ostile alla Turchia, potrebbe continuare a svolgere un ruolo nel passaggio verso una nuova Siria. «Una notizia che vale più di mille bombardamenti», secondo Orsini. Non a caso, qualche giorno dopo ecco il raid francese sul campo d'addestramento dell'Isis a Deir ez Zour, Nord Est del Paese. Colpire il Califfato significa alleggerire la posizione militare dell'esercito di Assad.
Il territorio
Dentro e attorno alla Siria le diverse potenze dispongono le loro pedine, in difesa dei rispettivi interessi. Il ruolo maggiore lo esercitano Iran, Iraq, Israele, Giordania e poi Russia, Turchia, Arabia Saudita e Paesi del Golfo, Stati Uniti e Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia. La mossa più abile non l'ha fatta la Francia con i raid ma la Russia, sul terreno con uomini e mezzi semplicemente per blindare il regime di Assad a Damasco che pur controllando solo una parte della Siria, rappresenta l'ultimo pilastro di stabilità statuale contro l'assalto delle bande nere.
Gli intrecci
L'offensiva diplomatico-militare in Siria di Vladimir Putin, che inoltre per la prima volta in dieci anni interviene all'Onu, risponde alla necessità di spostare l'attenzione dalla vicenda ucraina al Medio Oriente, riconquistare un ruolo regionale, posizionarsi per il dopoguerra, riallacciare un rapporto con l'Iran a favore di Bashar el Assad, e preservare l'unica base russa nel Mediterraneo a Tartus. Politica estera spregiudicata ma efficace quella di Putin, che mira anche a instaurare un legame con l'Iran e quindi mettere in imbarazzo gli Usa.
Obama, titolare di una politica estera autonoma rispetto alle sinergie con l'Europa, mantiene la sua scelta di non mettere gli stivali nella sabbia ma di guerra a bassa intensità e ricamo diplomatico per contenere tutti i protagonisti del risiko siriano. L'accordo sul nucleare con l'Iran è stato possibile anche grazie a rassicurazioni americane ai Paesi del Golfo che escludono un ulteriore potenziamento di Teheran. E mentre la Russia promuove il proprio matrimonio d'interesse con gli ayatollah, l'America di Obama non vuole il coinvolgimento pieno dell'Iran nella soluzione del puzzle siriano. Quanto alla Turchia, l'ambiguità verso l'Isis, dimostrata dal flusso per mesi e mesi di foreign fighters e armi attraverso la frontiera verso i territori siriani controllati dal Califfo, si spiega con quello che è l'unico vero tarlo di Erdogan: impedire la creazione di uno Stato curdo alle porte della Turchia. Va bene quindi arginare l'Isis ma senza affondarlo. E attaccare invece le posizioni curde con la scusa di intervenire contro i jihadisti.
I dubbi
L'altra potenza regionale, Israele, considera l'Iran un nemico più temibile dell'Isis, realtà trascurabile al confronto, e facilmente liquidabile con un decisivo intervento militare. Inspiegabile, anche agli occhi degli altri europei e degli americani, l'ordine di attaccare di Hollande. Inspiegabile perché non coordinato con gli "alleati", inserito in una rivendicazione sciovinista di un ruolo perduto e nella presunta difesa della sicurezza nazionale. Ragione che si possono "leggere" in una analisi del responsabile Difesa e sicurezza del Financial Times, Sam Jones, ieri: «Lo Stato islamico del Levante e dell'Iraq (Isis) guarda all'estero per rafforzare il Califfato».
I segnali
Come organizzazione settaria sunnita che ha per bersaglio anzitutto i "fratelli coltelli" sciiti, l'Isis non costituiva ancora una minaccia epocale per l'Occidente. Ma adesso si moltiplicano i segnali di un graduale passaggio dalla strategia dei "lupi solitari", autori di atti di terrorismo isolati, a una sorta di espansionismo terrorista, per usare le parole di Nigel Inkster già vice-capo del britannico MI6: «Loro adesso hanno un dipartimento di pianificazione di attacchi all'estero». Il vecchio franchising di Al Qaeda cede il passo a progetti diretti e campagne globali. E' questo, oggi, l'incubo degli 007 occidentali.
(Il Messaggero, 29 settembre 2015)
Paura del futuro
Ci sono mille motivi per avere paura del futuro.
Cè un solo motivo per non avere paura del futuro: Gesù!
Theo Lehmann
|
Israele ha il diritto di difendersi
Lettera al direttore di La Stampa
Egregio Direttore, ho letto la lettera inviata dal signor Norberto Julini. Fermo restando che ognuno è libero di avere le sue idee/opinioni su tutte le cose del mondo, bisognerebbe però verificare la genesi di alcune faccende storiche.
È vero che l'Europa ha creato Israele? Non credo, territori vastissimi in Palestina furono acquistati da ebrei europei e americani dall'allora Impero Ottomano, o da chi lo rappresentava. All'epoca quei territori erano il nulla assoluto e le poche popolazioni presenti erano sudditi ottomani. Dopo la Seconda guerra mondiale, e superando la scellerata politica inglese, moltissimi ebrei scampati ai lager nazisti cercarono, e trovarono, rifugio in Palestina, perché all'epoca i palestinesi erano gli ebrei!
Vorrei ricordare che subito dopo la creazione di Israele, nella zona geografica chiamata Palestina, voluta dall'Onu, tutti, dico tutti, i regimi arabi confinanti, nati dal nulla dell'Impero ottomano, mossero guerra a Israele che si difese e vinse. I profughi arabi che, su suggerimento dei governanti arabi, fuggirono, non erano molti di più di mezzo milione, guarda caso più o meno il numero degli ebrei che riuscirono a fuggire, o furono cacciati, dai vari Paesi arabi. Quelli, di profughi, non hanno mai fatto attentati e non sono mai stati lasciati in campi. Per quanto riguarda la faccenda militare, forse ci si dovrebbe convincere che uno Stato sovrano deve difendere i suoi cittadini contro tutto e tutti, non è colpa di Israele se gli arabi hanno continuato ad utilizzare i profughi, che nel frattempo hanno raggiunto una numerosità esplosiva, come carne da cannone per veicolare tutti i mali del mondo arabo verso Israele.
Gli israeliani votano, e lo scontro politico è vivace e a volte aspro. Vorrei che anche negli altri Paesi della zona fosse cosi. Israele si è ritirato da Gaza, che non è più sotto «occupazione», il risultato? Tre guerre. Chi è che non vuole la pace?
Alberto Terracina (ebreo) L'aggiunta alla firma è dell'autore della lettera
(La Stampa, 29 settembre 2015)
Palestinesi bruciano una chiesa cristiana a Betlemme, ma è vietato parlarne
Sabato scorso estremisti palestinesi hanno bruciato la chiesa di St. Charbal a Betlemme ma sul gravissimo episodio è scesa una pesantissima cappa di silenzio, sia da parte della ANP che ha parlato di "corto circuito" come causa dell'incendio, che della Chiesa Cattolica che non ha ritenuto necessario protestare contro la ANP che ha il controllo su quel luogo sacro per i cristiani.
A rompere la cappa di silenzio è però Padre Gabriel Naddaf che senza mezzi termini denuncia che la chiesa è stata bruciata da estremisti palestinesi...
(Right Reporters, 29 settembre 2015)
John Bolton: "Barack sbaglia strategia in Siria. E il Cremlino ne approfitterà"
L'ex ambasciatore all'Onu di Bush: "Un errore l'accordo con l'Iran".
di Arturo Zampaglione
NEW YORK - "Nella migliore delle ipotesi dal vertice Obama-Putin non uscirà nulla di concreto ", scuote la testa John Bolton, che è soprattutto preoccupato del "vero pericolo" del summit all'ombra del Palazzo di vetro. Quale? "Che il presidente russo imponga gli interessi del Cremlino approfittando dell'assenza di una strategia di politica estera della Casa Bianca e del vuoto pneumatico lasciato dagli Stati Uniti in Medio Oriente".
Ex-ambasciatore di George W. Bush all'Onu e uomo di punta dei conservatori sui temi di politica internazionale, Bolton, 66 anni (e celebre per i suoi baffoni bianchi), è sempre stato tentato di candidarsi alla Casa Bianca: anche se finora non l'ha mai fatto, forse perché i papabili sono già troppi. In compenso non perde occasione per attaccare Barack Obama e per denunciare quella che, a suo avviso, è stata una gestione disastrosa e dilettantesca della politica estera, a cominciare dall'accordo sul nucleare con l'Iran. Le posizioni di Bolton possono sembrare molto estreme, ma servono anche a capire gli ostacoli di politica interna che Obama ha di fronte.
- Bolton, come interpreta le ultime mosse di Vladimir Putin in Siria e in tutto lo scacchiere internazionale?
"Ormai è chiaro che il Cremlino sta cercando di restituire alla Russia un ruolo di grande potenza mondiale. E in Medio Oriente Putin intravvede un'occasione unica: Mosca era in pratica assente dalla regione da quando Sadat buttò fuori dall'Egitto i consiglieri militare russi, mentre adesso il "vacuum" di Obama le permette di mettere piede in Siria e di porsi come un interlocutore privilegiato".
- Ma non è giusto, come ha detto ieri lo stesso Renzi, coinvolgere tutti nella soluzione della crisi siriana, a cominciare da Mosca che ha un peso specifico importante?
"Se non è nell'interesse nazionale degli Stati Uniti, non vedo perché la Casa Bianca dovrebbe collaborare con la Russia: sapendo anche che da 350 anni Mosca cerca un accesso al Mediterraneo ".
- Mosca promette di contribuire all'offensiva anti-Is.
"Non è ancora chiaro quali siano i loro veri piani: condurranno raid aerei in appoggio al presidente Assad? O si limiteranno ad azioni politiche? O addirittura cercheranno di trovare un modus vivendi con lo Stato Islamico? Finora sappiamo solo che si sono alleati con l'Iran, rafforzatosi grazie a quell'accordo nucleare che - anche se in Europa nessuno ha il coraggio di dirlo - consentirà ai terroristi di Teheran di avere tra poco una bomba atomica".
- Non le sembra di esagerare?
"Niente affatto. E voi europei ve ne accorgerete appunto quando tra poco l'Iran avrà la sua bomba, scatenando anche una corsa nucleare di tutti gli altri, dall'Egitto all'Arabia Saudita".
- Condivide l'opinione di chi dice che in troppi casi, come in Libia, il ruolo occidentale nello spodestare i vecchi regimi autoritari abbia favorito il caos e l'estremismo islamico?
"Occorre un esame caso per caso: in Egitto fu sbagliato liberarsi di Hosni Mubarak, mentre fu giusto l'appoggio militare anti-Gheddafi perché Tripoli stava preparando una nuova campagna terrorista, come quella che portò all'esplosione dell'aereo Pan Am sui cieli della Scozia".
- Obama e Putin parleranno anche dell'Ucraina...
"E Putin cercherà di avere qualche sconto sulle sanzioni. L'unico sistema che vedo per contrastare Mosca è fornire armi agli ucraini e addestrarli militarmente: in modo che, come ai vecchi tempi in Afghanistan, i russi paghino un prezzo molto alto per l'invasione".
(la Repubblica, 28 settembre 2015)
L'artiglieria israeliana contro l'esercito siriano
Durante combattimenti tra esercito siriano e forze dell'Isis al confine tra Siria e Israele nel Golan, l'esercito israeliano risponde con colpi di artiglieria che hanno puntato su due postazioni siriane.
Le Forze di difesa israeliane hanno esploso colpi d'artiglieria contro postazioni dell'Esercito siriano domenica sera, dopo che due granate di mortaio lanciate dal territorio siriano hanno colpito quello israeliano nel Golan, senza causare danni né vittime.
L'artiglieria israeliana ha preso di mira due postazioni dell'Esercito regolare siriano, come confermato da un portavoce delle Forze di difesa israeliane in un comunicato.
Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha confermato che i due colpi di mortaio erano proiettili vaganti esplosi durante i combattimenti tra Esercito siriano e combattenti dell'Isis non lontano dal confine con Israele.
Il ministro ha però ribadito che Tel Aviv ritiene l'Esercito siriano diretto responsabile per qualunque incidente di verifichi al confine.
(Sputnik Italia, 28 settembre 2015)
Si concretizzano le peggiori preoccupazioni di Israele
Washington apre alla Russia, che aiuta apertamente il regime di Assad in Siria, che opera in collaborazione con l'Iran, che a sua volta sostiene Hezbollah.
Esattamente due anni fa, nel settembre 2013, il Segretario di stato Usa John Kerry paragonava Bashar Assad ad Adolf Hitler, dopo che il dittatore siriano aveva utilizzato ancora una volta le armi chimiche contro il suo stesso popolo. "Questo è un momento alla Monaco", dichiarò Kerry all'epoca (facendo riferimento all'accordo di Monaco del settembre 1938 tra Hitler e il premier britannico Neville Chamberlain che di fatto aprì la strada alla seconda guerra mondiale)....
(israele.net, 28 settembre 2015)
Cade il segreto su "Mister R", il potente 007 israeliano
Nethanyahu decide di candidarlo a capo della polizia, e improvvisamente la vita dell'uomo chiave del controspionaggio israeliano diventa pubblica: un padre di famiglia, che la sera fa i compiti a casa con i figli e va a lavorare in auto come tutti.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - "Mr R" svela la sua identità e Israele scopre che l'uomo-chiave del controspionaggio è un padre di sette figli, che conduce una vita apparentemente comune. "Mr R" si chiama Roni Alsheikh, il suo nome è stato per anni coperto dal top secret perché in qualità di numero 2 dello "Shin Beth" ha condotto alcune delle più complesse e pericolose operazioni di anti-terrorismo. Il segreto ora cade perché il premier Benjamin Netanyahu lo ha indicato come nuovo capo della polizia dando inizio ad un processo di esame guidato dal giudice Yaakov Terkel dell'omonima commissione. Ecco dunque chi è l'ex "Mr R": 52 anni di età, sposato con sette figli ed altrettanti nipoti, ebreo osservante, laureato in Scienze Politiche ed nella prestigiosa scuola religiosa "Netiv Meir".
Ha servito nei paracadutisti e fianco di Gal Hirsh - il precedente candidato alla carica di capo della polizia, obbligato al forfait dalle polemiche sulle consulenze militari ad altri Stati - nel 1988 partecipò ad un raid in Libano nel quale vennero uccisi 40 Hezbollah e da quello stesso anno è in forza nella Shin Beth, di cui ha comandato la divisione di Gerusalemme, Giudea e Samaria recitando un ruolo determinante nella sconfitta della Seconda Intifada.
Il curriculum nella sicurezza stride con una vita che la moglie riassume così: "Va a lavorare ogni giorno in auto, torna per stare a cena in famiglia, segue gli studi dei figli a scuola" e le foto mostrano un uomo come tanti altri israeliani, anche con qualche kg in più della media. Il soprannome di "Good Boy" - bravo ragazzo - lo deve proprio a questa apparenza. Anche se ora lo aspetta un compito da far tremare i polsi: riorganizzare un'istituzione segnata da polemiche, dimissioni e corruzione nonché adattarla alla nuova missione della lotta al "terrorismo popolare" che il governo gli ha appena assegnato per fronteggiare il crescente numero di attacchi con sassi, mattoni, petardi e bombe molotov da parte di dimostranti palestinesi, soprattutto a Gerusalemme.
(La Stampa, 28 settembre 2015)
Israele - Raggiunto un accordo con le scuole cristiane
Le scuole cristiane di Israele, frequentate da oltre 33 mila studenti arabi, hanno annunciato la fine di uno sciopero di protesta durato un mese, dopo il raggiungimento di un accordo di finanziamento con il ministero dell'istruzione. Il segretariato delle scuole cristiane in Israele ha detto che il governo fornirà 50 milioni di shekel (13,7 milioni di dollari) per l'anno accademico 2015-2016 e le spese medie annuali versate dai genitori scenderebbero a 750 dollari da mille dollari. Secondo l'accordo, una commissione bipartisan deve essere creata per presentare raccomandazioni entro la fine di marzo 2016 sullo status giuridico delle 47 scuole cristiane di Israele.
(Agenzia Nova, 28 settembre 2015)
La lonza? Da Israele
Lettera alla "Gazzetta di Parma"
Egregio direttore,
approfitto dello spazio che mette a disposizione di noi lettori per segnalare un fatto piuttosto curioso nonché assurdo.
Noi che risiediamo nella famosa terra del Prosciutto di Parma... culla di tradizioni e di genuinità, noi che conosciamo quali vincoli in fatto di alimentazione, di benessere, di salvaguardia ambientale sono tenuti a rispettare i pochi allevamenti suinicoli della zona reduci dalla crisi, noi che crediamo che i nostri prodotti siano i migliori in fatto di qualità e di salubrità, che dobbiamo pensare se acquistando fettine di lonza in un noto supermercato di un paesone della pedemontana, leggiamo sull'etichetta della confezione che la carne proviene niente meno che da Israele? Ogni commento è superfluo.
Paolo Rord
Mamiano (PR)
(Gazzetta di Parma, 26 settembre 2015)
Netafim Italia vuole importare la tecnologia israeliana dell'irrigazione a goccia
Un brevetto che permetterebbe di risparmiare anche il 50% dell'acqua utilizzata e il 30% dei fertilizzanti. Siamo il maggior produttore europeo di riso ma la coltivazione assorbe da sola il 75% del fabbisogno idrico dell'agricoltura.
di Gloria Riva
MILANO - Suonano in continuazione i telefoni della Netafim Italia e l'ufficio commerciale ha un sacco di lavoro da quando la società genovese - ma controllata dalla capogruppo israeliana, un colosso nel settore dell'agricoltura - ha presentato a Expo il sistema di irrigazione a goccia che consente di coltivare terreni scoscesi, i più difficili, e soprattutto di risparmiare fino al 50 per cento di acqua, specialmente quando si tratta di risaie.
«Partito in sordina, oggi Expo si è rivelato un volano di contatti e richieste commerciali. II nostro è un settore di lavoro che spesso resta nell'ombra ed Expo è stata una vetrina eccezionale», racconta Alberto Puggioni, responsabile dell'agromarketing di Netafim che conta 45 dipendenti e dal 2009 al 2014 è passata da 13 a 16 milioni di euro di giro d'affari e punta a chiudere quest'anno ancora in crescita. La sede genovese non si occupa solo di commerciale, ma anche dell'assemblaggio delle valvole e dell'installazione nei campi, nonché di numerosi progetti di ricerca. A Expo si trova all'interno del padiglione Israele e, in contemporanea, porta avanti un progetto al Parco Tecnologico Padano di Lodi, per mostrare come ottenere buoni risultati in agricoltura anche in condizioni di scarsità di risorse naturali. Periodici e numerosi gli incontri del "Fuori Expo" che l'azienda promuove nei campi del Parco Tecnologico.
L'irrigazione a goccia è stata inventata negli anni Sessanta in Israele e in Italia ha cominciato a diffondersi decenni dopo al Sud per la coltivazione di pomodori, mais e frutta. Da circa 10 anni si sta cercando di applicare questa tecnologia alle risaie per risparmiare la metà dell'acqua utilizzata e il 30% dei fertilizzanti. In Italia le sperimentazioni di questo tipo sono cominciate cinque anni fa. «E' un sistema che si sta diffondendo in molti Paesi, dall'India alla Cina, dalla Tailandia al Senegal, ma in Italia solo il 5% del mercato è a irrigazione a goccia e una piccolissima percentuale di risaie è effettivamente coinvolta, probabilmente perché è una tecnica difficile da accettare per gli agricoltori italiani, anche se i costanti problemi climatici stanno convincendo molti a passare al sistema a goccia», dice Puggioni, secondo il quale così facendo sarebbe possibile usare la maggior parte dei 12 milioni di ettari di superficie agraria disponibile, spesso lasciata incolta per difficoltà di accesso e carenza di fonti idriche.
«Expo ci ha permesso di entrare in contatto con molte aziende agricole e di far conoscere le potenzialità di questo sistema che può rispondere alle problematiche dei terreni italiani», continua il manager. L'Italia è il maggior produttore europeo di riso e nei paesi come il nostro il riso consuma tre quarti di tutta l'acqua utilizzata in agricoltura, ed è responsabile del 10% delle emissioni di metano e anidride carbonica in atmosfera dovute all'azione dell'uomo. «Considerando le proiezioni di crescita della popolazione e la diminuzione dell'acqua dolce in conseguenza dei cambiamenti climatici, la possibilità di produrre riso senza sommersione rappresenta una delle sfide principali dell'agricoltura del domani», conclude Puggioni.
Netafim, fondata esattamente 50 anni fa, è titolare del brevetto del sistema a goccia ed è tutt'oggi leader mondiale nel settore delle soluzioni avanzate per l'irrigazione a goccia e la microirrigazione. Possiede 16 impianti di produzione, ha oltre 4.000 dipendenti che operano nei cinque continenti e detiene una quota del 30% del mercato, con 2 milioni di clienti in 110 Paesi del mondo.
(la Repubblica, 28 settembre 2015)
L'eroe del nostro tempo è un antisemita. E tutti lo adorano
"Pecore in erba" da giovedì nelle sale. II regista Alberto Caviglia rovescia la realtà attraverso un falso documentario: non sempre funziona, ma è salutare.
di Natalino Bruzzone
Rovescia il cannocchiale per guardare i I mondo, agita l'inverso di un terribile vizio ideologico metamorfizzandolo in virtù e mescola l'orrenda società moderna dei media con la bava alla bocca, i maestri d'opinione che spesso dovrebbero essere perdonati come i due ladroni del Calvario perché non sanno quello che dicono, senza dimenticare la prevalenza del cretino dei Social. Così un imbecille nato e cresciuto patologicamente antisemita diventa un paladino dei diritti civili nella spietata allegoria di "Pecore in erba", un falso documentario, da giovedì nelle sale, realizzato da Alberto Caviglia come un reportage televisivo mandato in onda mentre si attende la manifestazione pubblica per la sparizione misteriosa del giovane Leonardo Zuliani, interpretato da Davide Giordano. Leo sin dalla più tenera età dimostra un disprezzo feroce, con manifestazioni cutanee allergiche, per gli ebrei tanto da elaborare un fumetto, che lo renderà poi celebre, su un compagno di scuola la cui unica colpa è di appartenere all'etnia del popolo eletto. Alternando biografia, interviste e pareri stranianti di personaggi come Augias, Brass, De Cataldo, De Bortoli, Fazio, Freccero, Mentana, Sgarbi e Mara Venier, Caviglia gioca sull'antisemitofobia quale valore che scarica, alla nazista, ogni colpa dell'universo su chi va in sinagoga. Non mancano neppure i preti a gettare legna sul fuoco. Insomma, il negazionismo e il livore razziale è il cemento di una civiltà, non una vergogna. L'antisemitismo è la norma, non un bubbone infetto da devianza infame, mentre l'appoggio a chi è stato perseguitato per secoli è un peccato mortalissimo. Nessun Paese è immune dal contagio paradossale.
Le imprese di Zuliani, diventate anche un film dal titolo "Paura d'odiare", sono tortuose e snervanti, così come la mancanza di un padre che lo ha abbandonato alla madre per un'esistenza da marinaio, anche se, vedrete come, non si è dimenticato del figlio. Leo porta alle estreme conseguenze il suo desiderio di annientare il nemico, introducendo alla stadio di Roma striscioni apparentemente innocui, tra i quali proprio "Pecore in erba", che poi ricomposti come in un calembour suonano da slogan di battaglia. Commette l'errore però di alzare la scritta "Siete come e peggio degli ebrei" in un partita giocata a Instanbul tanto da diventare un bersaglio del terrorismo islamico (le cui incursioni all'ombra del Colosseo assurgono a farsa).
Castiga i costumi scatenando il riso. Sì, ma la riflessione satirica di Caviglia si allarga a riflessione sulla contemporaneità, non risparmiando rotative, telecamere e blog. Un tritacarne dove finisce una "Lega Nerd", bulli in camicia nera, canottieri marxisti e un sentire comune folle e traumatizzante. Come si costruisce un caso sulla schizofrenia di un singolo che innesca l'epidemia di diritti civili che ormai si preoccupano di difendere chi predica l'avversione razziale. "Pecore in erba" non è privo di qualche lungaggine e cadute in un umorismo un po' così, ma il suo cuore non sdrucciola e la sua idea portante ha solide fondamenta, come nel ritratto della famiglia Zuliani, tutta lasagne e caratteri da cartone animato balordo. Anche così si può provare a sconfiggere la piaga dell'antisemitismo che corre ancora per l'Europa, non nella finzione dello schermo ma nella realtà di atteggiamenti, pregiudizi e falsità. Lo spaesamento di "Pecore in erba" è salutare, una medicina per almeno provare a non lasciarsi andare alla deriva dell'intelligenza e dei sentimenti. Caviglia ricorda come siano fabbricati in fretta idoli che dovrebbero, invece, essere presi a sculacciate da bimbi e a calci nel sedere da grandi. Un'opera da proiettare agli studenti in modo che non crescano altri Zuliani e che un perverso sistema di comunicazione non versi lacrime sulla sua scomparsa. Altrimenti ci può pensare il nonno paralitico ed ex partigiano di Omero Antonutti che non si è mai concesso alle fobie del nipote. Non parla, il vecchio, ma ghigna come quando, nel finale, culla con gli occhi una cassapanca alla Hitchcock.
(Il Secolo XIX, 28 settembre 2015)
Anna Frank, una storia attuale, interessante mostra ad Ariano
Evento promosso dall'Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi in Italia. L'inaugurazione, giovedì 22 ottobre alle ore 11.
ARIANO IRPINO - Dal prossimo 23 ottobre, fino al 22 novembre nell'istituto Don Milani di Piano della Croce, meglio noto come Aurelio Covotta, (ci piace chiamarlo con il suo nome vero perché anche la storia di una scuola non deve essere mai stravolta dalla sera alla mattina), si svolgerà l'interessante mostra: "Anna Frank, una storia attuale, curata dalla Anne Frank House di Amsterdam e inaugurata dai membri dell' Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi in Italia. L'inaugurazione, giovedì 22 ottobre alle ore 11,00.
La mostra illustra il tema della persecuzione degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale attraverso la biografia di Anne Frank. Le fotografie, in gran parte inedite, le immagini e le citazioni delle pagine del diario di Anne fanno emergere le condizioni in cui una famiglia ebrea fu costretta a vivere durante il periodo nazista.
L'intreccio di 2 piani narrativi, la storia di Anne e della sua famiglia da un lato e gli eventi che stanno travolgendo l'Europa in quegli stessi anni dall'altro, riesce a porre efficacemente in rilievo temi quali il fanatismo politico e la ricerca di un capro espiatorio, le epurazioni, l'atteggiamento nei confronti degli ebrei, la Shoah e le violazioni dei diritti umani.
Il taglio biografico e soggettivo che caratterizza l'impostazione della mostra è ben sintetizzato da una frase di Abel Herzberg, avvocato e scrittore olandese deportato a Bergen Belsen che disse: " Non ci sono sei milioni di ebrei sterminati, c'è un ebreo ucciso e questo è successo sei milioni di volte". E' evidente, infatti, quanto la possibilità di seguire i destini di singoli individui, possa favorire la comprensione del contesto storico.
La mostra sa fornire collegamenti non banali o scontati con l'attualità e invita a prendere parte attiva ai problemi del presente a partire dalla conoscenza del passato; non a caso gli ultimi pannelli si focalizzano sull'attività dei Tribunali Internazionali e sulla difesa dei diritti umani.
Ideata e prodotta dalla Fondazione Anne Frank di Amsterdam, la mostra è stata tradotta in oltre 20 lingue ed ha viaggiato in più di 100 Paesi del mondo, ponendosi come centro propulsore di attività quali corsi di formazione per gli insegnanti e progetti didattici per gli studenti.
Si rivolge ad un pubblico di ogni età e intende stimolare una riflessione sul significato di ideali quali la tolleranza, il rispetto reciproco e la democrazia, valori fondamentali per il mantenimento di una società democratica e pluralista.
Il percorso ha un andamento cronologico: la prima parte copre l'intero arco di vita di Anne, dal 1929 al 1945, mentre gli ultimi pannelli si riferiscono al ritorno dell'unico superstite della famiglia Frank, Otto, alla vicenda del Diario di Anne, fino ad un accenno alle più recenti violazioni dei diritti umani nel mondo. La mostra è promossa dall'Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi in Italia.
(Ottopagine-it, 28 settembre 2015)
Quanto la propaganda propalestinese manipola i giovani europei
di Laly Deral
Daniel Borg, studente presso l'Università di Stoccolma, è un idealista. Cullato dalla propaganda pro-palestinese che regna nel suo paese, decide di partecipare ad un programma per volontari organizzato ad Hebron dal movimento Solidarietà internazionale. Convinto di partire per incontrare dei soldati di Tsahal carichi di odio, violenti, corrotti dalla "occupazione", rimane estremamente sorpreso nel constatare che la realtà è molto diversa da quanto gli avevano raccontato. Egli quindi compie una svolta ideologica di 180 gradi ed oggi ha deciso di militare a fianco dei difensori di Israele. Una testimonianza forte che chiarisce molto bene la realtà.
Come molti giovani della sua età in Svezia, Daniel Borg, 28 anni, si definiva, fino all'anno scorso, pro-palestinese. Molto attivo nel partito socialista della cittadina nella quale viveva, nei pressi di Stoccolma, era persuaso che Israele fosse una potenza occupante crudele, una specie di "Golia" che schiaccia sotto i propri stivali un "Davide" palestinese debole e senza risorse. "Pensavo che Israele fosse uno stato illegittimo che pratica il colonialismo" ha spiegato al giornale "Makor Rishon".
All'inizio del 2007 Borg, all'epoca ventenne, incontra il deputato Gustav Fridolin, del partito svedese dei Verdi, ed attualmente ministro dell'Educazione. Fridolin gli racconta di aver fatto atti di volontariato a Hebron nell'ambito del movimento Solidarietà internazionale. L'idea piace al giovane svedese che decide di seguirne l'esempio, e così parte per tre settimane per Ramallah ed Hebron. Sono tre settimane nel corso delle quali la sua visione sul conflitto israelo-palestinese, su Israele e su Tsahal, inizia a cambiare. Tre settimane che descriverà, sette anni dopo, in un sito di informazioni svedese, facendo luce sui metodi impiegati dai pro-palestinesi per compiere un lavaggio del cervello dei giovani europei, descrivendo Israele come il grande Satana.
"Mi ricordo della prima volta che incontrai i soldati di Tsahal; ero a Tel Romeida, a Hebron, ed io avevo il compito di avvertire i membri dell'associazione se i soldati entravano nel quartiere. L'unica cosa che conoscevo dei militari israeliani era che si diceva che erano crudeli. Ma quello che ho visto è stato un bambino di 10 anni che si è avvicinato a loro e che è stato trattato con molta gentilezza. Sono rimasto sorpreso, ma ho pensato che fosse un'eccezione e che gli altri soldati fossero davvero cattivi, così come mi avevano sempre detto nel mio partito e come leggevo nei giornali svedesi. Non potevo immaginare che la realtà fosse del tutto diversa".
Questa prima esperienza a Hebron finisce per segnare il giovane Borg, esattamente come il resto del suo soggiorno in Giudea e Samaria durante il quale non gli capita mai di assistere ad alcun atto, anche minimo, di violenza da parte di Tsahal. Tuttavia continua a definirsi come pro-palestinese ed anti-israeliano. Non sarà che due anni più tardi, quando, su richiesta di sua sorella, ritorna in Israele, che inizia a porsi delle domande.
"Ho iniziato a discutere con degli israeliani, che diventeranno in seguito miei amici. Ho capito che, contrariamente a quanto leggevo sui giornali svedesi e nel sito di Haaretz (quotidiano israeliano di sinistra, la cui versione in inglese è molto popolare in tutto il mondo, ndr), gli israeliani sono degli umanisti. Loro non odiano i palestinesi e sono pronti a fare delle concessioni. Mia sorella ed io siamo ritornati in Israele numerose volte, anche se io continuavo a sostenere la causa dei Palestinesi. In occasione di uno di questi miei viaggi, ho discusso con degli arabi israeliani che mi hanno detto che la loro situazione era buona. Quando ho chiesto loro se l'apartheid e il razzismo imperversassero in Israele, mi hanno riso sotto il naso prima di affermare che amavano vivere lì e che la situazione dei Palestinesi in Libano, in Siria e negli altri paesi era ben peggiore che in Israele. E tuttavia, malgrado tutto ciò, non ho cambiato le mie posizioni. È stato, solo, circa un anno fa, quando ho ascoltato una conferenza di giuristi israeliani che erano venuti a raccontare la loro versione sul conflitto, che ho cambiato parere. Loro hanno parlato dei crimini commessi da Fatah e da Hamas e hanno dimostrato come l'Europa, grazie ai miei soldi di contribuente, versa dei doni ai Palestinesi che servono per finanziare il terrorismo. Sono rimasto choccato. Sono cose delle quali nessuno parla in Svezia, e nessun cittadino ha accesso a queste informazioni. Ho incominciato a pormi delle domande serie ed ho capito che non potevo più definirmi pro-palestinese perché sarebbe stata una falsità. Oggi ho preso coscienza del fatto che i Palestinesi fanno tutto ciò che è in loro potere per nuocere ad Israele, e non per ottenere la pace".
Questo capovolgimento ideologico ha portato Borg a cambiare partito ed a pubblicare la sua testimonianza:
"Prima di raggiungere il gruppo di Solidarietà internazionale a Hebron, ho passato due giorni di preparazione a Ramallah. Ci hanno insegnato come fare per bloccare i soldati, camminare liberamente nei quartieri per preavvertire i nostri contatti palestinesi dell'avvicinarsi di pattuglie di Tsahal, uscire dai nostri nascondigli in modo che poi loro non osino sparare verso di noi, trasformarci in "Scudi umani" nell'eventualità di distruzioni di case e gettare bottiglie incendiarie e pietre. Gli istruttori di Fatah ci hanno spiegato che, in quanto volontari, non saremmo stati implicati in alcuna violenza, ma, allo stesso tempo, facevano pressione su di noi perché operassimo da scudi umani per i Palestinesi che, loro, dovevano compiere violenze. Ci siamo pure, ed a lungo, allenati ad urlare per spaventare i bambini dei coloni. Abbiamo urlato fino a perdere la voce. Se per caso qualcuno, a Ramallah, leggesse queste parole, gli chiedo scusa per tutto il rumore che abbiamo fatto
"
Borg descrive poi come i membri di Fatah incoraggiavano i volontari ad assumersi dei rischi.
"Ci hanno spiegato chiaramente che, se fossimo stati feriti o uccisi da Tsahal, ciò avrebbe causato un danno immenso allo Stato di Israele, i media avrebbero diffuso con molta evidenza l'informazione e si sarebbe anche potuti arrivare alla fine dell'occupazione. Mi è stato detto molto chiaramente che, per il mio coinvolgimento nel partito socialdemocratico, il mio arresto o la mia morte avrebbe fatto pubblicare grandi titoli sui giornali svedesi
"
Dopo aver descritto tutte le lacune dei giovani europei sul conflitto arabo-israeliano, Borg esclama:
"Come avrei potuto sapere tutto ciò? Noi siamo plagiati dalle storie menzognere pro-Palestinesi. Noi siamo ingannati dalla CNN, dal New York Times, e da Le Monde. Non ho mai letto, nel Guardian, che i soldati israeliani sono gentili coi Palestinesi. Vengono sempre descritti come razzisti violenti e crudeli. Anche su Haaretz la storia è unilaterale contro Israele. Si fa vedere la reazione israeliana, ma mai la provocazione che l'ha preceduta".
E Borg conclude:
"Anche se, in questi ultimi anni, numerosi violenti conflitti agitano il Medio Oriente, causando terribili perdite umane, come, ad esempio, in Siria ed in Iraq, questi non provocheranno mai delle manifestazioni di solidarietà. Nessuna protesta, nessun titolone sui giornali, nessuna condanna. È sempre Israele ad essere messo sul banco degli accusati".
Articolo originale postato sul sito Hamodia.
Traduzione a cura di Emanuel Segre Amar
(Progetto Dreyfus, 27 settembre 2015)
Shabbat Shalom, racconti di vita ebraica: Succoth
"Era venuto il tempo di riflettere sul valore della mia esistenza e come affrontare in modo nuovo il futuro, magari con più onestà e amore per il prossimo"
Ho vissuto un periodo difficile della mia vita dove gli affari non andavano bene tanto che non sopportavo l'idea di fallire. Mi ero chiuso in me stesso e alla domanda "come va?" ostentavo sempre "molto bene, grazie". Non era vero, non era vero nulla.
Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno ma non avevo il coraggio. Troppo preso da me stesso, non avevo coltivato rapporti umani, e mi perdevo in pensieri senza senso, impregnati di orgoglio e narcisismo.
Scorrendo la rubrica telefonica, lessi il numero di David. Non ero sicuro di trovarlo a quel recapito, ma provai.
Pronto? Andrea? Ma che sorpresa! Dobbiamo vederci, vieni stasera a cena in succah. Vuoi?
Mi presentai alla sua porta con una bottiglia di vino kasher ed un mazzo di fiori. Dopo un caldo benvenuto, David e sua moglie mi condussero sulla terrazza dove era allestita una capanna (succah) dal tetto di frasche, canne e foglie di palma, ornata all'interno da frutti e disegni variopinti. Incuriosito mi accomodai ed il padrone di casa cominciò a spiegarmi il significato della festa di Succoth o Festa delle Capanne.
Egli mi raccontò che é uso ricordare le abitazioni in cui dimorarono gli ebrei per quaranta anni dopo essere usciti dall'Egitto. La capanna simboleggia la precarietà della vita ma soprattutto la tutela divina. Sia pur fragile e con un tetto di fronde a mostrar le stelle, protesse il popolo ebraico nei lunghissimi anni di permanenza nel deserto. Inoltre, aggiunse, é la Festa della Gioia (zemàn simchaténu) che santifica il lavoro e la fatica umana, la fede e la fiducia in D-o. Ci si rallegra del raccolto, tutti insieme, senza distinzioni sociali o economiche: il ricco e il povero sono uguali sotto la succah, siedono l'uno accanto all'altro, compiendo il precetto (mitzvah) di consumare i pasti per otto giorni, godendo dell'ombra della capanna.
David era felice nel rendermi partecipe delle sue tradizioni e le sue parole mi furono di conforto, tanto che, il mio cuore si riempì di profondità e benevolenza. Compresi che era venuto il tempo di riflettere sul valore della mia esistenza e come affrontare in modo nuovo il futuro, magari con più onestà e amore per il prossimo. Così ripresi a studiare, colmando i vuoti della mia conoscenza.
La manna, di cui parla la Bibbia, quel nutrimento miracoloso caduto dal cielo, io l'ho ricevuta una sera di settembre, di tanto tempo fa nella succah di una famiglia ebrea.
Quella manna si chiama David, il mio fraterno amico.
(Cinque Quotidiano, 27 settembre 2015)
Putin più forte che mai
I cinesi schierano la portaerei Liaoning ed un incrociatore davanti alla costa siriana.
di Franco Iacch
Russia, Iran ed adesso la Cina. Putin ha formato una nuova "triplice alleanza" in Siria con i paesi storicamente fedeli al Cremlino. Secondo quanto comunicato dal governo di Damasco, una nave da guerra cinese sarebbe in rotta verso la Siria: attualmente si troverebbe nel Mediterraneo. Questa informazione è stata però smentita dagli israeliani. Secondo l'agenzia di intelligence DEBKA, i cinesi avrebbero già schierato a ridosso delle coste siriana la portaerei Liaoning ed un incrociatore lanciamissili.
I cinesi non avrebbero ancora una capacità offensiva. Secondo gli analisti israeliani, infatti, il vettore attraccato al porto di Tartus è privo della sua componente aerea. Gli aerei da guerra giungeranno in Siria entro la metà di novembre, in volo attraverso l'Iran o trasportati dai cargo russi.
Se così fosse, ecco spiegata l'esigenza di stabilire una "cellula di coordinamento militare" a Baghdad. Secondo Debka, i cinesi starebbero allestendo una squadriglia di J-15, caccia multiruolo di quarta generazione, elicotteri antisom Z-18F e da allerta precoce Z-18J. Pechino schiererà infine mille soldati.
L'Iran, invece, ha in Siria oltre mille soldati appartenenti al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie per assistere gli Hezbollah a Zabadani. Putin da Vladivostok ha invocato la creazione di una coalizione contro lo Stato islamico: alla chiamata hanno risposto Cina ed Iran.
Fin dal 2011, le forze fedeli ad Assad combattono contro diversi gruppi di opposizione, alcuni dei quali estremisti radicali come il Fronte al-Nusra e lo Stato islamico. Dall'inizio della guerra in Siria, gli Stati Uniti hanno sostenuto l'opposizione siriana moderata, chiedendo le dimissioni di Assad. La Russia, invece, ha riconosciuto Assad come l'unica autorità legittima della Siria.
Mosca non sta solo cercando di sostenere il governo siriano, ma anche di espandere il proprio ruolo all'interno della Siria in modo che possa influenzare la scelta di un nuovo governo nel caso in cui Assad venisse spodestato. Mosca, in pochissime settimane, ha creato un perimetro difensivo avanzato (Tartus, Latakia, Istamo ed Al-Sanobar) da dove poter proiettare la loro potenza nella Regione.
La base navale di Tartus è ultimo avamposto russo nel Medio Oriente dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Sarebbe opportuno considerare un dato: la base di Tartus, sulla costa mediterranea della Siria e collegata al Bassel al-Assad International, aeroporto a sud di Latakia, è ormai protetto da cinque navi da guerra russe, tre cinesi e da almeno due sottomarini. E' inespugnabile.
L'isolamento dell'Occidente nei confronti della Russia, a seguito delle sanzioni imposte dopo la vicenda Ucraina, ha in un certo senso autorizzato Putin ad agire senza alcun tipo di consenso internazionale. Anzi, proprio per i russi, riscoperti patriottici dopo la vicenda Ucraina, Putin è stato il solo ad allinearsi con il regime siriano in nome della lotta al terrorismo e l'estremismo.
Gli Stati Uniti, invece, sarebbero coloro che avrebbero facilitato l'ascesa dello Stato islamico con il fallimento della loro strategia. Mosca, infatti, non fa parte della coalizione internazionale contro l'Isis.
Ci si chiede, adesso, chi potrebbe opporsi alle iniziative della coalizione russo-cinese. La risposta è semplice: nessuno.
(Difesa Online, 27 settembre 2015)
Di Segni: "Senza integrazione, l'Europa rischia la colonizzazione"
Intervista al rabbino capo di Roma: "Il modello di noi ebrei è quello di convivere nella diversità. Non è la religione a dividere i popoli".
Riccardo Di Segni è rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la più importante d'Italia, dal 2001. Con lui abbiamo deciso di intraprendere un percorso di conoscenza del concetto di "accoglienza", così come viene percepito e interpretato nelle diverse religioni.
Abbiamo intervistato Di Segni nel suo ufficio, nell'edificio che ospita il museo ebraico e la sinagoga (dove sono state girate le immagini del servizio), per provare a capire insieme a lui quanto l'esperienza storica del popolo ebraico possa servire oggi d'esempio per favorire l'integrazione tra le popolazioni europee e le masse di migranti che stanno arrivando sul nostro territorio. Il rabbino ha insistito molto su questa necessità, temendo una vera e propria "colonizzazione" da parte di culture estranee alla nostra tradizione, a partire da quella islamica, e ha proposto il modello adottato proprio dalla comunità ebraica della "convivenza nella diversità".
(l'Unità, 27 settembre 2015)
Al Sisi: "Tra Egitto e Israele c'è la pace, ora includiamo altri paesi arabi"
Risolvere la questione palestinese potrebbe "cambiare il volto della regione e portare un enorme miglioramento della situazione. Sono ottimista e io dico che c'è una grande opportunità". Da New York, in attesa dell'apertura domani della conferenza annuale dell'Assemblea delle Nazioni Unite, il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi parla del futuro del Medio Oriente e dei rapporti con Israele, guardando alla situazione palestinese come possibile chiave per cambiare il volto dell'area. In un'intervista rilasciata nelle scorse ore all'Associated Press, Al Sisi ha auspicato che la quarantennale pace siglata tra l'Egitto e Israele possa essere estesa in futuro anche ad altri paesi arabi. Speranza, quest'ultima, condivisa dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha fatto sapere, tramite il suo entourage, di aver apprezzato le parole del presidente egiziano. Netanyahu ha anche rilanciato l'invito al presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas di tornare al tavolo dei negoziati. A riguardo, nelle ultime ore sono uscite delle indiscrezioni legate a un presunto intervento degli Stati Uniti per posticipare l'incontro tra Abbas e Netanyahu.
Secondo le dichiarazioni rilasciate al quotidiano Haaretz da fonti palestinesi, il segretario di Stato John Kerry avrebbe chiesto al leader dell'Anp di aspettare prima di riaprire la strada diplomatica con Gerusalemme, almeno fino alla conclusione dell'Assemblea Generale dell'Onu di New York di questa settimana. Lunedì Abbas ha incontrato a Parigi quattro ambasciatori israeliani, nessuno dei quali attualmente in carica, riporta Haaretz. In quest'occasione ha dichiarato di aver espresso il desiderio di incontrare Netanyahu, che nelle scorse settimane aveva rilanciato la possibilità di riaprire i negoziati. Prima però di sedersi al tavolo con il governo israeliano, il leader palestinese avrebbe chiesto consiglio alla Casa Bianca, da cui sarebbe arrivato il messaggio di sospendere ogni iniziativa fino all'incontro delle Nazioni Unite. Una ricostruzione contestata da ufficiali degli Stati Uniti che parlano di distorsioni da parte palestinese per imputare a Washington la scelta di Abbas di non tornare al tavolo con Gerusalemme.
Ieri il leader palestinese ha incontrato il segretario Kerry, che gli avrebbe chiesto di evitare di lanciare l'annunciata "bomba" durante il suo discorso di mercoledì all'Onu. Secondo gli analisti, Abbas potrebbe voler dichiarare pubblicamente la sospensione degli accordi di Oslo.
(moked, 27 settembre 2015)
Terminato sciopero nelle scuole israeliane
È terminato lo sciopero negli istituti scolastici cristiani in Israele e domani - secondo radio Gerusalemme - torneranno nelle classi i 33 mila allievi (cristiani e no) che dal primo settembre attendevano l'apertura del nuovo anno scolastico.
L'emittente ha aggiunto che un accordo è stato raggiunto fra il ministero dell'istruzione e i responsabili di quegli istituti, che chiedevano l'equiparazione con le scuole gestite dai partiti religiosi ebraici.
Un comunicato stampa del ministero israeliano dell'istruzione precisa che in base all'accordo gli istituti scolastici cristiani riceveranno quest'anno un bilancio di 50 milioni di shekel (circa 12 milioni di franchi). Sarà inoltre annullato un taglio al finanziamento di "ore qualitative" di insegnamento, imposto due anni fa.
Il ministero e i rappresentanti delle scuole cristiane affronteranno le questioni rimaste aperte in una 'commissione congiunta', che dovrà terminare i lavori entro sei mesi. Le due parti hanno inoltre concordato una soluzione relativa al pagamento degli stipendi degli insegnanti nelle settimane di sciopero.
I responsabili degli istituti scolastici cristiani faranno conoscere in giornata le proprie valutazioni in una conferenza stampa. In uno stringato messaggio twitter il loro portavoce Wadie Abunassar ha intanto confermato che "è stato raggiunto un accordo con il ministero dell'istruzione".
(Corriere del Ticino, 27 settembre 2015)
Alla scoperta del Krav Maga: uno dei sistema di autodifesa migliori al mondo
di Roberto Sica
Oggi parliamo del Krav Maga, una nuova disciplina di autodifesa diffusa a partire dalla metà degli anni 90, prima disciplina di nicchia, poi più largamente diffusa, anche grazie a pellicole americane come "Via dall'incubo" ( Enough) di Jennifer Lopez e "The Bourne Identity" di Doug Liman con Matt Damon, e per la stretta analogia con le Mixed Martial Arts (MMA), arti marziali miste.
Il Krav Maga è un sistema di combattimento israeliano nato in ambienti ebraici dell'Europa centro-orientale nella prima metà del XX secolo. La parola Krav Maga, in ebraico moderno, significa letteralmente "combattimento con contatto". A differenza delle arti marziali classiche, che ritualizzano i gesti, il Krav Maga è un sistema di combattimento pragmatico e istintivo, ogni gesto, ogni colpo è diretto verso un punto sensibile.
Il fondatore di questa disciplina, Imi Lichtenfeld, nato a Budapest nel 1910 è stato un ginnasta, pugile e campione di lotta libera e fu incaricato dalle autorità israeliane di sviluppare un sistema di combattimento efficace e di rapido apprendimentoper le truppe del neonato Esercito Israeliano (IDF).
Il Krav Maga risponde infatti ai criteri di tipo militare, quali l'efficacia e la rapidità con cui si arriva alla neutralizzazione dell'avversario prima che questo possa diventare una minaccia.
Lichtenfeld ha diffuso le tecniche apprese e raffinate negli anni decidendo di adattare il Krav Maga a scopi civili per renderlo praticabile anche a donne e ragazzi, spesso vittima di violenze.
Il Krav Maga probabilmente è il miglior sistema di difesa personale al mondo. Ne parliamo con il maestro Ivan Franco della Federazione United Krav Maga world Organization e direttore dell'Istituto Krav Maga Italia che opera sul territorio attraverso varie strutture site a Pomigliano D'Arco, Casalnuovo di Napoli, Sant'Anastasia e Somma Vesuviana.
Ecco quanto evidenziato dal maestro Ivan Franco che ci racconta la sua esperienza in questo settore frutto di aggiornamenti e influenze approfondite in seguito a numerosi viaggi all'estero:
"L'approccio con il Krav Maga nasce nel 2008, da una passione per le "Mixed Martial Arts",da cui provengo, che si è consolidata nel tempo grazie ad un desiderio incondizionato di ricercare un sistema di difesa personale "puro" che mi ha portato a viaggiare per apprendere e perfezionare tecniche di autodifesa con i migliori maestri di fama mondiale. In particolare, i corsi di perfezionamento seguiti in Inghilterra, Israele e Polonia.
A Londra ho conseguito il mio brevetto di istruttore civile con La federazione internazionale Krav Maga Global del maestro Eyal Yanilov, in Israele ho approfondito le dinamiche di difesa per bambini e teenagers con il maestro Zeev Coehn ed infine a Lodz, in Polonia acquisito il brevetto di specializzazione "City extreme" (dinamiche urbane) un particolare brevetto per tecniche di difesa da adottare in ambienti urbani cone pulmann, bar, vicoli e metro ecc. con la federazione United Krav Maga world Organization del maestro Tomasz Adamczyk, esperto specializzato in Krav Maga civile, militare e law enforcement.
Nel 2013, in collaborazione con l'Istruttore Giovanni Belardo, ho fondato l'Istituto Krav Maga Italia, per diffondere questa disciplina sul territorio, che ha riscosso subito consensi ed un enorme successo, riscontrando anche un'ampia partecipazione da parte di numerose donne, che oggi praticano assiduamente questa disciplina come sistema di autodifesa, in una società che mette sempre più a dura prova il gentil sesso, spesso vittima di episodi di violenza, anche tra le mura domestiche."
Tra gli slogan del Krav Maga c'è proprio uno riguardante le donne: "Mai più sesso debole!" e a rafforzare questo concetto è la testimonianza di un'esperienza reale di una "kraver" dell'Istituto Ktrav Maga:
"Domenica sera mi è capitato un episodio sgradevole. Ero a Piazza Bellini a Napoli in compagnia di alcune amiche. Passiamo accanto a dei ragazzi visibilmente ubriachi e uno di questi, mentre ero distratta dall'amico, mi prende il viso con una mano. Istintivamente una persona avrebbe paura, qualcuno invade il tuo spazio fisico e di certo in un modo non amichevole. E invece no. Ciò che faccio istintivamente invece è di liberarmi dalla presa del potenziale aggressore, voltarmi in modo che mi sia visibile di fronte e dirgli in modo deciso che non doveva mettermi le mani addosso. E così mi sono allontanata. Il ragazzo non si aspettava una reazione del genere, si è capito dallo sguardo a metà tra il sorpreso e l'arrabbiato, perchè non aveva avuto la meglio su di me. Il sesso debole, che dovrebbe sottomettersi e avere paura. A me non è capitato perché su di me ha avuto un forte impatto la pratica del Krav Maga, tecniche di combattimento israeliane adibite a sistema di difesa personale che ho acquisito presso l'Istituto Krav Maga Italia. Sapere come poter reagire, cosa poter fare in situazioni di potenziale pericolo, allenarsi costantemente non solo per l'apprendimento delle tecniche ma soprattutto per imparare a restare lucidi anche in situazioni di stress, consente di acquisire una grande sicurezza interiore. Ci si sente più forti, meno vulnerabili, più capaci di agire e di difendersi. Cosa fondamentale affinchè non ci si possa sentire mai più il sesso debole."
L'obiettivo degli istruttori del Krav Maga Italia è infatti quello di trasmettere fiducia agli allievi, sicurezza e coraggio per affrontare situazioni ed imprevisti di ogni genere nelle realtà domestiche e urbane, contribuendo anche ad uno stile di vita sano, come sottolinea il maestro Ivan Franco:
"Abbinando una buona preparazione fisica, vengono insegnate tecniche di autodifesa per consentire alla "potenziale vittima" di difendersi da un attacco a mani nude o a mano armata, eseguendo semplici movimenti istintivi e bio meccanici del corpo. Attualmente svolgiamo corsi presso varie strutture : la Palestra "Accademia oriente" di Pomigliano D'Arco, Imperial fitness di Casalnuovo di Napoli, ASD Scippa di S. Anastasia, e presso lo "Sport Village" di Somma Vesuviana."
Gli istruttori dell'Istituto sono selezionati sulla base della loro esperienza nel settore della difesa personale, Krav Maga e discipline da combattimento, in combinazione con la loro passione e capacità di educare gli allievi attraverso un metodo semplice di apprendimento. Un apprendimento che passa attraverso studi e continui aggiornamenti come conferma il maestro Franco:
"A breve insieme all'Istruttore Giovanni Belardo affronteremo un nuovo viaggio in Polonia per un Training intensivo con il maestro Tomasz Adamczyk che ci consentirà di formare un nuovo team di istruttori composto da cinque allievi della zona vesuviana ( Cesare Cerciello, Giovanni Colavecchia, Francesco Sposito, Francesco Spiezia, Gianpiero Testa). Per noi questi aggiornamenti sono importanti per offrire agli allievi una formazione adeguataed esclusiva e diffondere sempre più questa disciplina ricordando sempre che " la strada non ti da una seconda chance".
(ilmediano.it, 27 settembre 2015)
«Ismail amica degli ebrei milanesi»
Il caso moschee. L'antropologa che ha osato criticare il Comune di Milano.
di Alberto Giannoni
MILANO - «Solidarietà con tutto il cuore». Un messaggio affettuoso diretto a Maryan Ismail. La Comunità ebraica non vuole intervenire nella diatriba che tormenta il Pd di Milano. Nè intromettersi negli affari interni alle associazioni musulmane. Però le parole del presidente, Raffaele Besso, trasmettono un'attenzione particolare per il caso Ismail. «Non entriamo nelle polemiche politiche - ha detto Besso - l'unica cosa che possiamo dire è che Maryan Ismail è un'amica del popolo ebraico e noi non possiamo che stare con lei, a cui esprimiamo solidarietà e vicinanza con tutto il cuore».
La Ismail, dirigente del Pd ed esponente della comunità somala, ha formulato in un'intervista al Giornale tutta una serie di articolate e argomentate critiche al Comune sulle moschee. Non solo per l'esito del bando per l'assegnazione di aree pubbliche da destinare all'edificazione di luoghi di culto. Anche, e soprattutto, per la linea tenuta in città: «La maggioranza dei musulmani, laici e moderati, sono stati esclusi» ha detto l'antropologa, evidenziando la sostanziale egemonia riconosciuta a una parte del mondo musulmano, quella più strutturata ed economicamente più forte. Soprattutto, la Ismail ha chiesto una moschea «di tutti i musulmani», «aperta», e «non politicizzata».
Un monito importante, dettato da una donna con una storia fuori dal comune e dolorosa. Il fratello, Yusuf Mohaed Ismail, ambasciatore somalo all'Onu, a marzo è stato ucciso in un attentato rivendicato dalla cellula locale di Al Qaida. Per la sua posizione e la sua storia, il Giornale l'ha proposta come garante della moschea di Milano.
La posizione della Ismail è stata suffragata anche dall'opinione di uno dei massimi esperti milanesi di Islam, Paolo Branca, anche consulente (evidentemente, in questo caso, poco ascoltato) di Palazzo Marino. Ma il Pd «ufficiale» ha risposto (alla sua dirigente) con plateale insofferenza alternando imbarazzati silenzi e attestati di fiducia per il lavoro della giunta (in mano a un assessore candidato sindaco, Pierfrancesco Majorino). Giovedì poi è arrivata la pasticciata scomunica della segreteria. La Ismail - messa alla porta - però ha resistito. Non si è fatta dimettere ed è rimasta al suo posto, anche perché una bella fetta del partito è sceso in campo al suo fianco.
E ora su di lei piovono solidarietà trasversali e spesso inaspettate. Nella Comunità ebraica la vicenda è stata seguita con attenzione. E il presidente Besso ha definito «ragionevole» il suo discorso, e «corretta» la proposta di affidare la gestione della moschea a un board rappresentativo di tutte le comunità islamiche» (qualcosa di simile avviene anche perle varie anime della comunità ebraica). «É corretto che alla gestione partecipino tutti» ha commentato Besso con rispetto, prudenza ma anche con chiarezza. Gli ebrei milanesi hanno sempre riconosciuto il diritto dei musulmani alla moschea. Ma, nello stesso tempo, hanno sempre auspicato anche regole e garanzie.
(il Giornale, 27 settembre 2015)
«Meno voce ai grandi». L'Onu che sogna Bergoglio è un incubo anarchico
di Carlo Panella
È ben strana e sconcertante l'analisi di papa Francesco delle radici della «terza guerra mondiale» che lui stesso ha evocato, e che ha esposto nel suo viaggio in America. Analisi a volte confusa, spesso platealmente errata, complessivamente, spiace dirlo, gesuiticamente fuorviante. Questa terza guerra mondiale non è combattuta da Stati, non vede dispiegarsi il potere distruttivo di nuove tecnologie, non ha nessuna relazione con il deprecabile commercio delle armi. Invece, papa Francesco ne parla come fosse combattuta tra nazioni, sostiene che «il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità» e continua a ripetere che è alimentata dal mercato mondiale delle armi. Col che evita i veri, terribili problemi di una guerra in realtà combattuta esclusivamente dentro varie nazioni, che vede unicamente l'uso delle più obsolete anni tradizionali, da combattenti che non si ap-provvigiona-no affatto sul mercato delle anni, ma nei meandri di una religione: l'islam.
Non c'è oggi una sola area di crisi bellica - a esclusione della vicenda ucraino-russa - che non abbia le sue radici in un epocale conflitto tutto e solo interno all'islam, dall'Afganistan, al Pakistan, passando per tutto il Medioriente, sino alla Libia. Ma papa Francesco omette, ignora, occulta quanto è sotto gli occhi di tutti e che è peraltro apertamente rivendicato da chi combatte questa «terza guerra mondiale» nel nome di Allah. Una posizione sconcertante, che evita il tema rovente, di una riduzione in schiavitù, di una soggezione della donna, di una riduzione in miseria di milioni di uomini e donne tutta e solo conseguente ad una applicazione fanatica della Sharia islamica, da parte dei seguaci di due scismi musulmani, siano questi gli jihadisti del Califfato, di al Qaeda o di Boko Hamm, o i miliziani sciiti iraniani, iracheni o yemeniti.
Occultato il nodo vero del conflitto in corso, papa Francesco parla d'altro, in modo sconcertante. Finge di credere che la Carta dell'Onu contenga in potenza gli strumenti per chiudere questa terza guerra mondiale. Ma non è assolutamente vero, perché quella Carta, queste Nazioni Unite sono state concepite, organizzate e finalizzate solo a evitare i conflitti «tra gli Stati», non «dentro gli Stati» e non contengono il minimo accenno a strumenti, metodi, istituzioni che possano affrontare e chiudere questa epocale guerra di religione, se non il recente diritto a intervenire per «ragioni umanitarie» che però vale zero a fronte dello spettacolo atroce dei 250.000 morti della guerra civile e di religione in Siria. Spostata su un altro piano, artificiale, la realtà del conflitto bellico in atto - con un classico artificio gesuitico - papa Francesco ha quindi facile agio per un appello - intriso di pericolosa demagogia a nostro rispettoso parere - all'ingresso di tutti i paesi nelle sedi decisionali dell'Onu «progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un'incidenza reale ed equa nelle decisioni. Tale necessità di una maxi ore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche». Se questo auspicio papale fosse accolto, se questa riforma dell'Onu si concretizzasse, avremmo l'Argentina che sta tanto a cuore al papa, quella stessa Argentina che ha fatto default e che si rifiuta tuttora di pagare per intero i sottoscrittori del suo debito pubblico (e persino in Italia sono migliaia di piccoli risparmiatori), la cui presidente, la Kirchner avrebbe lo stesso potere della Lagarde, di Obama o della Merkel. Una iattura planetaria. Per non parlare dei tanti dittatori «alla coreana» o come Mugabe che avrebbero il potere di determinare maggioranze diaboliche, ma perfettamente legittime. Un disastro caotico, che farebbe rimpiangere l'inutile, impotente Onu di oggi, che pure fallisce in tutti i quadranti di crisi. Siria e Libia in primis.
(Libero, 27 settembre 2015)
Ripetiamo quelle che più volte abbiamo detto: il Vaticano ha come primo se non unico interesse la sua sopravvivenza e il mantenimento della sua centralità nella scena politica mondiale. Lagitarsi a destra e a sinistra di questo papa serve ad attirare e mantenere lattenzione del mondo su una figura fittizia che quando non è dannosa è del tutto irrilevante per la soluzione dei problemi internazionali. Per non dire della fede in Dio, che in tutto questo non centra niente. M.C.
Ambasciator non porta pena
Il quotidiano israeliano Haaretz ha dedicato nell'ultimo mese ben quattro articoli sulla designazione di Fiamma Nirenstein come prossimo ambasciatore d'Israele in Italia, a partire dal 10 agosto scorso quando ha dato in anteprima la notizia. Dietro a questo morboso interesse, si cela in realtà l'ennesimo attacco da parte del giornale liberal a Bibi Netanyahu, che ricopre nel suo governo anche il ruolo di ministro degli Esteri. Haaretz ora ha arruolato anche il noto professore e storico Shlomo Avineri. Gli argomenti di critica spaziano da una supposta opposizione alla nomina da parte di alcuni elementi della comunità ebraica romana (supposta in quanto in seguito smentita dagli interessati), al classico argomento antisemita della "doppia lealtà", per giungere infine, citando Avineri, a un evidente sgarro che Netanyahu vorrebbe fare al governo Renzi, inviando un'ambasciatrice identificata con uno dei leader dell'opposizione. Argomentazione ridicola per chiunque sia informato dei fatti, e abbia memoria dell'attività notoriamente bipartisan di Nirenstein. Quanto alla questione della "doppia lealtà", nel corso dei secoli quelli che hanno legato il destino della diaspora ebraica a quello di Israele in modo deprecativo sono sempre stati gli antisemiti. Furono i sindacati italiani, per esempio, che nel 1982, come segno di protesta verso le politiche israeliane in Libano, deposero una bara di fronte al Tempio Maggiore di Roma, preludio all'attentato in cui perse la vita il bimbo Stefano Taché. E' in base a quel pregiudizio che è stato rapito e ucciso Ilan Halimi a Parigi perché ebreo. In base a quello si bruciano le bandiere di Israele nelle piazze europee. Sono loro che costringono le autorità ebraiche romane ad andare in giro con la scorta, non di certo Fiamma Nirenstein.
(Il Foglio, 26 settembre 2015)
I "bimbi" ebrei sono tornati a Selvino. Il commovente ricordo di Sciesopoli
"Anche se andassi per le valli più buie, di nulla avrei paura, perché tu sei al mio fianco". Il coro della scuola di Selvino attacca Gam Gam, la canzone ispirata al Salmo 23 che gli ebrei cantano durante lo Shabbath. Sidney Zoltak, 86 anni, ascolta immobile un paio di strofe. Poi alza un dito e si asciuga una lacrima. Nel 1945 era qui, sull'altopiano, ospite della colonia di Sciesopoli insieme ad altre centinaia di ragazzini ebrei che, come lui, erano scampati alla furia nazista. Settant'anni dopo, alcuni di quei bambini sono tornati per riabbracciarsi e per dire grazie a questo piccolo paese che seppe accoglierli come figli suoi.
Una storia a lungo sconosciuta.
«Qui ho passato il miglior periodo della mia vita - racconta invece Milton Kostik -. Ero sopravvissuto ad Auschwitz, ma nessuno dei miei 37 familiari ce l'aveva fatta. Ero rimasto solo al mondo, così decisi di lasciare la Polonia. I russi però bloccavano il confine: passai con un passaporto greco falso. Arrivai in Italia e mi portarono a Sciesopoli». Sidney lo guarda e lo abbraccia: «Ci siamo conosciuti qui, siamo amici da settant'anni. Ricordare è duro, ma necessario. La storia di Selvino è rimasta a lungo sconosciuta, ora spero che la insegnino nelle scuole. Oggi è stato un giorno incredibile: ho ritrovato lo stesso rispetto che i selvinesi ci riservarono allora». Quando rimette piede nel giardino della colonia estrae lo smartphone e si mette a scattare foto alla facciata, imitato dagli ex compagni. Poi i bambini di allora abbracciano quelli di oggi, venuti a dar loro il bentornato.
Un nuovo giorno.
La storia di Sciesopoli (chiamata così in onore di Antonio Sciesa, patriota anti-austriaco) comincia in era fascista: ci vengono i giovani balilla milanesi a passare l'estate. Dopo la fine della guerra, la colonia viene
requisita dal Comitato nazionale di liberazione. È il posto ideale, tranquillo e isolato: Luigi Gorini, scienziato e partigiano, lo sceglie per dare rifugio agli orfani ebrei che la brigata ebraica dell'esercito britannico va raccogliendo in giro per l'Europa. Un giovane tenente, Moshe Zeiri, ne diviene il direttore. Nella vita civile è un maestro di musica e a Sciesopoli introduce un metodo didattico che prevede non solo lezioni di storia e lingua ebraica, ma soprattutto cori e balli. I bambini, pesantemente traumatizzati dagli orrori dei lager e dei rastrellamenti, ritrovano lentamente il sorriso e la voglia di vivere.
La notte è difficile, perché molti hanno gli incubi e gridano nel sonno. Ma di giorno la luce rispunta in fondo all'anima. Si studia, si impara a fare qualche lavoretto e soprattutto si gioca. I maschi, manco a dirlo, rincorrono il pallone. E sfidano volentieri i coetanei del posto: «Quante partite - ricorda il selvinese Dante Noris, 83 anni - e quante sconfitte per noi. Non che loro fossero più bravi, però applicavano il fuorigioco. Noi non sapevamo cosa fosse. L'arbitro continuava a fischiare e noi non capivamo. Per fortuna poi ci consolavano offrendoci marmellata e cioccolata». Era appena finita la guerra, c'era più cibo nella colonia che fuori: gli ebrei americani inviavano aiuti alimentari e i selvinesi ne approfittavano. Sciesopoli aveva un effetto magnetico per i giovani del paese, attratti non solo dal calcio e dalle merende: «C'era una magnifica piscina, dove le ragazze ebree facevano il bagno e prendevano il sole - dice Alberto Ghilardi, 74 anni -. A un certo punto le nostre mamme non ci lasciarono più salire
».
Più di una colonia.
La colonia fu una parentesi felice tra l'orrore dello sterminio («La mia comunità contava 7mila ebrei. Ne restarono 70» spiega Sidney) e la migrazione verso Israele. A partire dal 1946 molti bambini di Sciesopoli si imbarcarono clandestinamente da Arenzano. Intercettati dagli inglesi, che avevano limitato gli ingressi in Palestina, finirono nei campi profughi di Cipro. Fu lì che Avram e Ayala si innamorarono dopo essersi incontrati a Selvino. Ora vivono a Tel Aviv, da dove hanno inviato il loro saluto affettuoso. Non c'è più invece Jacob Hollander, uno dei più famosi compositori israeliani: si è spento alcuni mesi fa, a 82 anni. Aveva imparato ad amare la musica a Sciesopoli.
Salviamo Sciesopoli.
I ricordi si accumulano nel 70esimo anniversario dell'apertura della colonia ai bambini ebrei: dal 22 settembre 1945 alla fine del 1948 l'edificio ospitò circa 800 ragazzini. Chiuse a metà anni '80, dopo aver accolto per altri quattro decenni minori in difficoltà, provenienti dal Sud o dalle classi operaie. Da allora, i cancelli sono rimasti chiusi, tranne che per i vandali, che hanno rubato e devastato ogni cosa: «Piange il cuore a vedere questo posto ridotto così - sospira Nitza, la figlia di Moshe -. Ricordo quei giorni come se fossero oggi. Gli alberi sono cresciuti e anch'io sono diventata vecchia. Ma che bello pensare ai giochi in giardino, alle passeggiate in montagna». Quando nevicava, i bambini uscivano dalla colonia, si facevano prestare gli sci da una signora che abitava vicino e si buttavano a capofitto giù per il pendio. Una voglia di vivere che nemmeno il nazismo era riuscito a spegnere e che emerge ancora oggi, nonostante i "Bambini di Selvino" abbiano passato da un pezzo gli ottanta. Basta attaccare un ballo tradizionale e li vedi scattare su dalle sedie, prendersi per mano e ballare in cerchio.
Il sindaco, Diego Bertocchi, osserva compiaciuto: con l'aiuto dello storico Marco Cavallarin e all'archivista Bernardino Pasinelli, il Comune ha riaperto l'album della memoria. Altri, dalla Regione in giù, si sono defilati. I politici, sempre pronti ad accorrere a inaugurazioni e convegni, stavolta non si sono visti. Forse arrampicarsi sui tornanti, proprio il sabato mattina, costava troppa fatica. «Vogliamo salvare Sciesopoli dall'abbandono - dice Bertocchi -, abbiamo fatto tanto per riscoprire la memoria e molto altro faremo. Ma qualcuno ci deve aiutare, servono i soldi che noi non abbiamo. Da soli non ce la possiamo fare, Selvino è un piccolo paese». Ma con un cuore grande così: «Fuggii dalla Polonia - dice Sidney -, perché quando tornai nel mio quartiere, dopo esser rimasto nascosto 14 mesi, la gente mi accolse chiedendomi: "Ah, sei ancora vivo?". C'era antisemitismo ovunque. Qui no, qui era tutta un'altra cosa».
(Bergamo post, 27 settembre 2015)
Alla sagra del vino di San Colombano gli espositori israeliani ci saranno
San Colombano fa marcia indietro. In seguito alla contestazione da parte di gruppi filopalestinesi, il comune aveva revocato il permesso ai viticoltori israeliani di esporre il proprio stand. Oggi però la decisione: "Nessuna vittoria dei provocatori: Israele ci sarà!"
Daniele Bellocchio
Nessuna vittoria della provocazione, del solonismo geopolitico e del senso di giustizialismo ebbro di intolleranza.
Era diventato, il Comune di San Colombano al Lambro, un nuovo campo di battaglia di una questione che di campi di battaglia ne è bulimica e pure delle vittime che li popolano. Palestina, Israele e San Colombano al Lambro con la sua sagra dell'uva e migliaia di visitatori. Nessun punto d'incontro in apparenza, se non fosse che negli ultimi giorni, dopo che un gruppo di contestatori filo palestinesi aveva interrotto l'inaugurazione della mostra fotografica "Israele Oggi", allestita nel piccolo borgo collinare, l'amministrazione aveva deciso, per motivi di ordine pubblico e per evitare possibili episodi violenti, di revocare il permesso agli espositori di vino israeliani durante la sagra di domenica.
Clima incendiato, indignazioni e incomprensioni hanno caratterizzato i giorni appena trascorsi nel comune banino, fino a quando questa mattina è arrivata la notizia che ha portato a un epilogo felice della vicenda: lo stand degli espositori israeliani ci sarà.
A comunicare questo cambio di rotta è stato il presidente dell'Associazione Amici di Israele, Eyal Mizrahi, che in un'intervista rilasciata al Giornale.it ha spiegato: ''la decisione iniziale di revocare lo spazio ai viticoltori israeliani era, a suo modo, una resa al terrorismo. Un precedente estremamente grave. Io dopo aver appreso a mezzo stampa la decisione del comune ho voluto incontrare di persona il sindaco e confrontandomi con lui, che è una persona molto pratica, siamo arrivati a una soluzione che ha accontentato tutti. Ovvero di allestire lo spazio dedicato ai vini attraverso un privato''.
Gli espositori israeliani hanno quindi incontrato un cittadino banino che dapprima ha concesso che lo stand venisse allestito nel portico d'ingresso di casa sua, poi però, non essendo solo sua la proprietà, ha fatto richiesta al comune di poter organizzare come privato uno spazio espositivo di vini difronte a casa. E così domenica in via Azzi al civico 77 sarà possibile degustare il vino kasher.
Interrogato sulla possibilità che i contestatori facciano la loro comparsa il giorno della festa, il presidente Mizrahi ha così parlato: ''Noi siamo un'associazione che diffonde e promuove una cultura pacifica e di convivenza tra i due popoli. Spesso abbiamo fatto manifestazioni e dimostrato per una politica di pace in Israele. E inoltre, in più di un'occasione, abbiamo accostato la bandiera israeliana a quella palestinese. Se i professionisti della violenza vorranno provocare, ci faranno solo pubblicità e perderanno tempo. Nessuno starà al loro gioco''.
Il sindaco di San Colombano al Lambro Pasqualino Belloni ha poi così commentato la decisione ''Io non sono contro Israele e non sono sottomesso ai violenti, avevo fatto una scelta di ordine pratico. Ma ora collaborando abbiamo trovato una soluzione comune che vede tutti concordi. L'augurio è che la festa sia caratterizzata da allegria, tradizione e sorrisi così come è sempre stata negli anni''.
(il Giornale, 26 settembre 2015)
*
La coscienza sporca dei boicottatori
di Stefano Magni
"Il banchetto di vini Israeliani alla Festa dell'uva di San Colombano al Lambro ci sarà", annuncia con gaudio il sito dell'Associazione Amici di Israele. Ci è voluta una lettera aperta, un accorato appello di Ariel Shimona Edit, articoli su quotidiani locali e nazionali e tanta passione degli amici italiani dello Stato ebraico per permettere a chi andrà alla sagra di gustarsi anche l'aroma di quel vino orientale. C'era infatti il rischio che, per motivi di ordine pubblico, venisse espulso dalla festa, per decisione della giunta comunale. E da quando una bottiglia e i suoi espositori costituiscono un pericolo per l'ordine pubblico?
Almeno da quando anche una mostra può "provocare" una contestazione con urli, schiamazzi, insulti alla direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo ("Assassina! Assassina!") Avital Kotzer Adari, come è avvenuto alla mostra Israele Oggi, inaugurata una settimana fa a San Colombano. Nella contestazione c'era anche Vittorio Fera, l'attivista italiano arrestato dagli israeliani in Cisgiordania, mentre filmava il fermo di un ragazzino palestinese. E anche su quell'episodio mediorientale grava, per lo meno, il sospetto che si trattasse di una trappola mediatica per Israele, considerato il numero di reporter, cameraman e fotografi presenti sulla scena e pronti a riprendere con immagini ad alta definizione un bambino fermato da un soldato (per non parlare del fatto che la famiglia palestinese coinvolta, quella degli Tamimi, con la sua ben riconoscibile bambina bionda, è presente in tutte le immagini di disordini in Palestina dal 2012 ad oggi).
La notizia di San Colombano non è l'eccezione, ma la regola. Capita, infatti, che il giorno dopo la gazzarra contro Israele Oggi avvenisse il giorno prima della manifestazione a Milano "No Expo, No Israel", partita dalla Stazione Centrale con circa 200 attivisti dei centri sociali e anche qualche palestinese.
E, contemporaneamente, al capo opposto dell'Europa, anche la città di Reykjavik, capitale dell'Islanda, metteva al bando tutti i prodotti israeliani. Anche in quel caso, dopo un primo incidente diplomatico, la città ha deciso di correggere il tiro: saranno comunque messi al bando i prodotti israeliani, ma solo quelli provenienti da aziende che operano in Giudea e Samaria (Cisgiordania), in quanto territori "occupati". Cosa c'entri l'Islanda con la crisi mediorientale non è dato saperlo. O meglio, lo si intuisce: la causa è l'ideologia della sinistra del paese scandinavo, che equipara Israele a una potenza occupante, a uno Stato dell'apartheid, una sorta di Sud Africa ebraico.
Il boicottaggio assume tante forme. Ad esempio, nell'estate appena trascorsa avevamo assistito all'esclusione dal festival reggae Rototom di Benicassim, Spagna, del cantante ebreo Matisyahu. Ebreo, ma non israeliano. Era stato escluso dal festival perché non aveva preso pubblicamente le distanze dalla politica dello Stato ebraico. Anche qui: marcia indietro dopo il fiume in piena di polemiche. Ma intanto il messaggio lanciato è chiarissimo: se sei ebreo ti accettiamo, ma solo se sei contrario a Israele e al suo governo.
In tutti i casi citati, i boicottatori hanno perso la loro battaglia. La prima lezione da trarre, in questo difficile mese di settembre, è che gli ebrei sono ancora rispettati, non sono stati gettati nella "spazzatura della storia" come vorrebbero i loro nemici. Ma si tratta di un rispetto fragile, di una linea difensiva sempre più sottile. Boicottare gli ebrei ricorda ancora a qualcuno che il primo a promuovere un boicottaggio analogo fu Hitler, prima di passare allo sterminio. Quando glielo ricordi, il boicottatore prova vergogna e arretra, magari alza gli occhi al cielo ("i soliti ebrei!"), ma alla fine rinuncia. Ma verrà il giorno in cui, morti tutti i reduci e i veterani della Seconda Guerra Mondiale, anche la memoria e il senso di colpa verranno meno. Quel che manca del tutto, invece (ed è questo il vero problema per gli ebrei del XXI Secolo), è la coscienza che uno Stato ebraico, Israele, esiste, è indipendente, è legittimo, è riconosciuto dall'Onu e dal 1948 fa parte del "concerto delle nazioni". Se questa consapevolezza fosse diffusa, a nessuno verrebbe in mente, neanche per sbaglio, di boicottare prodotti di un paese intero solo perché vengono da quel paese. A nessuno verrebbe in mente di andare a contestare una mostra, o una sagra di vini, solo perché sono esposti prodotti di un paese, solo perché vengono da quel paese. I professionisti dell'antisionismo hanno la risposta pronta: non contestiamo il popolo israeliano, ma il suo "regime" di Netanyahu. Però continuano a colpire i prodotti israeliani in quanto israeliani, ebrei in quanto "probabilmente filo-israeliani". Forse loro stessi non lo realizzano, ma c'è tanto vecchio antisemitismo dietro questo modo di ragionare e di agire.
(L'Opinione, 26 settembre 2015)
Iran: entro gennaio torneranno nelle casse Stato 29 miliardi di dollari ora congelati
TEHERAN - Entro il prossimo gennaio torneranno nella casse statali iraniane almeno 29 miliardi di dollari di capitali attualmente congelati in vari paese. Lo riferisce l'agenzia di stampa locale "Irna" citando la dichiarazione del vicegovernatore della Banca centrale Gholamali Kamyab, riferendo l'esito della conferenza sugli investimenti Ue-Iran a Ginevra. Di questi miliardi 23 appartengono alla Banca centrale mentre i restanti sei sono di proprietà del governo.
(Agenzia Nova, 26 settembre 2015)
Sherif Gaber su Israele, le idee di un ragazzo arabo pagate a caro prezzo
Sherif Gaber è un ragazzo egiziano che cerca di riflettere sul perché dovrebbe odiare Israele. Ammette che anche lui stava per unirsi alla lotta armata contro Israele ma poi si è posto delle domande molto interessanti. Questa sua personalità, la volontà di ragionare con la propria testa e non adeguarsi ai pregiudizi delle società che lo circondano, gli è costato molto caro. Nel 2013 è stato infatti arrestato per le sue idee atee e per aver difeso pubblicamente l'omosessualità. Attualmente è nascosto in Egitto e attende di emigrare negli Stati Uniti....
(Progetto Dreyfus, 25 settembre 2015)
L'ambasciatore israeliano accusa «Il nostro nemico resta Teheran»
«Chi afferma che l'Iran è un elemento stabilizzante del Medio Oriente, non ha capito nulla della regione».
di Elisa Pinna
ROMA - Tra Israele e l'Arabia Saudita esiste «un interesse comune» nel contrastare il pericolo costituito dall'Iran in tutta la regione mediorientale. Non si tratta di «un'alleanza» ma della possibilità di «agire insieme» ed è già «un punto importante». Lo afferma, in un'intervista all'Ansa, l'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon. Per il diplomatico israeliano ci sono pochi dubbi: l'accordo siglatolo scorso luglio a Vienna tra i paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu (Stati Uniti in prima fila), Germania e Iran costituisce una minaccia.
Per diversi motivi, spiega. Innanzitutto perché l'accordo non elimina la possibilità per il regime di Teheran di costruirsi armamenti nucleari: si limita a rallentare il processo ma lascia all'Iran tutte le capacità per ottenere in breve tempo una bomba atomica. In secondo luogo - osserva Gilon - durante il negoziato, si è parlato solo di nucleare, senza affrontare la politica espansionista e destabilizzante degli ayatollah in Siria, Iraq, Yemen, Bahrein, e l'aggressività iraniana nei confronti di Israele, attraverso gli alleati di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano.
«Anche dopo la firma dell'accordo - osserva l'ambasciatore - le massime autorità iraniane continuano a minacciare gli Stati Uniti e Israele. Solo due giorni fa, il capo dell'esercito iraniano ha annunciato che entro 25 anni lo Stato israeliano sarà distrutto». Per di più, con la fine dell'embargo, l'Iran - ha aggiunto Gilon - rientrerà in possesso di fondi congelati e, attraverso anche i nuovi accordi commerciali, disporrà di una enorme quantità di soldi per i suoi fini militari.
«Chi afferma che l'Iran è un elemento stabilizzante del Medio Oriente, non ha capito nulla della regione». L'area è minacciata, ad avviso del diplomatico, da due fattori: l'Isis e l'Iran. «L'Iran - sottolinea - è il più pericoloso, perché è uno stato con una struttura forte, intenzionato a dominare tutta la regione, innescando ancora più tensioni con i sunniti e una possibile corsa di tutti all'atomica». È vero che l'Isis e l'Iran sono nemici: ma in Medio Oriente - avverte l'ambasciatore, rivolto agli occidentali che sperano in un aiuto di Teheran per sconfiggere il Califfato - non vale il detto «il nemico del mio nemico è mio amico».
Il diplomatico ha escluso qualsiasi possibilità di negoziato tra Israele e Iran, fino a quando ci sarà «un regime che ha, tra i punti del suo programma, la distruzione di Israele». Quanto all'Arabia Saudita invece, «abbiamo una convergenza di interessi: vediamo l'Iran con gli stessi occhiali». «Non siamo certamente alleati - precisa - però possiamo muoverci nella stessa direzione». «Il livello al momento è quello dei contatti informali, ma la convergenza di interessi è già un buon punto di partenza».
Quanto al rapporto tra una democrazia come Israele e uno stato ultraconservatore islamico come il Regno saudita, l'ambasciatore non vi trova scandalo. «Siamo pragmatici e poi pensate alla collaborazione tra Stati Uniti e Riad».
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 settembre 2015)
Copenaghen dimostra come è difficile parlare di islam in Europa
A dieci anni delle vignette su Maometto
di Giulio Meotti
ROMA - Il Christiansborg, il grande castello di Copenaghen sede del Parlamento danese, cui le caligini nordiche hanno dato una magnifica patina buia, oggi ospiterà un evento unico nella sua storia. Un convegno per il decimo anniversario dalla pubblicazione, sul quotidiano danese Jyllands-Posten, delle vignette su Maometto. L'idea è nata dopo l'attentato dello scorso febbraio a un bar della capitale, il Krudttonden, dove era in corso un dibattito su "Arte, blasfemia e libertà d'espressione" in ricordo della strage a Charlie Hebdo. Nel caffé c'era il disegnatore Lars Vilks, uno degli autori delle cosiddette "vignette blasfeme", e rimase ucciso un regista, Finn Noergaard. La Free Press Society da allora ha cercato una sede adatta per il convegno. Ma, una dopo l'altra, sale per convegni e conferenze si sono tirate indietro. Troppo pericoloso. "Il motivo per cui la Free Press Society ha scelto il Parlamento è che molti partecipanti convivono con le minacce di morte", ha dichiarato Aia Fog, vicepresidente dell'associazione.
"E' ironico poi che il Parlamento danese abbia accettato di ospitare la conferenza soltanto se fosse avvenuta in un fine settimana. Nei giorni feriali, il rischio era considerato troppo elevato". Due anni fa, il direttore della Free Press Society, Lars Hedegaard, era rimasto miracolosamente illeso dopo aver subìto un agguato da parte di un islamista che lo aveva avvicinato vestito da postino e gli aveva sparato mirando alla testa, ma mancando il bersaglio, di fronte alla sua casa in un quartiere borghese di Copenaghen. Hedegaard ha vissuto in clandestinità per alcune settimane e da allora è protetto dalla polizia. Alla conferenza di oggi parteciperà Vebjoern Selbekk, il direttore del periodico norvegese Magazinet che scelse di ripubblicare le vignette e da allora vive sotto scorta. Doveva esserci anche Flemming Rose, il giornalista del Jyllands-Posten che decise di testare la tenuta della libertà d'espressione in Danimarca ordinando di pubblicare le vignette. Ma Rose all'ultimo momento si è tirato indietro. Dall'Inghilterra è arrivato Douglas Murray, editorialista dello Spectator e vicepresidente della Henry Jackson Society. "Ciò che accadde dieci anni fa con la crisi delle vignette continua ad avere profonde implicazioni sull'Europa", dice al Foglio Murray da Copenaghen.
"La libertà di espressione di tutti oggi è a rischio. Il fatto che questo incontro avvenga all'interno del Parlamento, in quanto sede più facilmente protetta di altre, indica il prezzo che dobbiamo pagare per poter esercitare quella libertà. Avevamo grande libertà di pensiero in Europa. Oggi non è più così sull'islam. Non soltanto il terrorismo ha dettato i termini del dibattito, ma le stesse élite occidentali hanno capitolato. E' come all'epoca della Guerra fredda, quando i dissidenti anticomunisti venivano biasimati in quanto 'anticomunisti prematuri'. Oggi si dice lo stesso di Ayaan Hirsi Ali e di Charlie Hebdo, si dice che sono troppo eccessivi, troppo rudi". Ma ormai Europa e oriente sono un unico terreno di caccia. Il gruppo islamista che in Bangladesh ha ucciso quattro blogger laici dall'inizio dell'anno, due giorni fa ha diffuso una "hit list" in cui compaiono anche nove blogger inglesi, tedeschi e svedesi.
Appena arrivato all'hotel, Murray si è sentito chiedere dalla reception: "Vuole gentilmente scrivere qui il nome che vuole usare e qui invece il suo vero nome?". Una certa segretezza era necessaria. Era arrivato in una capitale europea a parlare di islam.
(Il Foglio, 26 settembre 2015)
Israel, il matematico che smascherò l'antisemitismo di oggi
È morto il grande studioso.
di Fiamma Nirenstein
Paolo, il maggiore dei figli di Giorgio Israel, ieri, in piedi vicino alla bara di suo padre con i due fratelli più piccoli Alberto e Giacomo, ha voluto ricordare il padre ringraziandolo per il dono della frequentazione della montagna, per la costanza del cammino verso la meta, per l'incanto delle vette; per avergli insegnato ad amare la musica; per aver cucinato così bene per tutta la famiglia leggendo libri di cucina. Così era Giorgio, un falò di amore per la vita, e la vicina di terrazzino della casa di Ostia mi sussurra mentre risuonano le parole ebraiche del saluto ai defunti, fra i Salmi e il Gan Eden: «Come farà senza sentire quel gran chiacchierare così intelligente e fitto fitto che proveniva sempre dalla terrazza accanto fra lui e la moglie Ana». E la cultura italiana? Come farà, adesso che Giorgio se n'è andato a 70 anni con quel gigantesco, variegato, straordinario patrimonio non solo di sapienza, ma di valori che facevano un tutt'uno dell'ebraismo e della matematica, dello scienza e del sionismo, della battaglia contro l'eugenetica con quella contro il totalitarismo, il razzismo, il lager, il gulag, ma anche contro la scuola corrotta dall'ideologismo, contro il rifiuto della religione ma anche contro il bigottismo e la rigidità, contro il politically correct di ogni genere, insomma.
Giorgio, nato nel 1945 a Roma era figlio di Saul Israel, un medico umanista e scrittore, che da Salonicco fu costretto a spostarsi a Parigi e poi a Roma. Il rapporto con Parigi è rimasto profondo nella vita di Giorgio, che era perfettamente bilingue, e mentre era professore ordinario di matematiche complementari alla Sapienza di Roma, era anche membro dell'Academie Internationale d'Histoire des Sciences. Alla Sapienza, ed è per la cronista come la descrizione di un grande esperimento di magia, teneva due corsi: teoria dei giochi e modellistica matematica.
Nella sua perfetta passionalità morale Giorgio era un vero ebreo, con i suoi trenta volumi e i suoi 200 articoli scientifici, con la sua esplorazione ipercritica nella storia della scienza nella cultura europea, nel suo scoprirne le complicità con le idee autoritarie anche oggi pur amandola alla follia. Come citare i suoi testi senza ignorarne altri parimenti meritevoli? Proviamo a elencare i contributi alla divulgazione, come Modelli matematici e Pensare in matematica che vuole superare l'errore: «Ah io di matematica non capisco niente», per far capire che è il pilastro irrinunciabile del pensiero occidentale. Il libro è scritto con Ana Gasca. Molto importanti anche La mano invisibile. L'equilibrio economico nella teoria della scienza scritto con Bruna Ingrao; Il mondo come gioco matematico. John von Neumann scienziato del 900, una biografia di nuovo scritto con Gasca. Per chi scrive lo sfondo scientifico si faceva reale solo quando Giorgio lo utilizzava per spiegare le sue dure, dirette, audaci posizioni, per esempio quando, come ha fatto in tanti articoli su Tempi e sul Foglio (ma ha anche scritto per il Giornale, L'Unità, l'Osservatore Romano...) descriveva con entusiasmo il suo rifiuto per la manipolazione legata all'eugenetica, di cui denunciava, nonostante la fine dei regimi razzisti, la sua permanenza nelle nostre vite. Israel è stato fra i pochissimi che ha smascherato sin dal suo primo inizio il travestimento dell'antisemitismo da critica allo Stato d'Israele: il suo disgusto per la discriminazione degli ebrei ha prodotto decine di scritti. Giorgio si riaffaccia nelle librerie in questi giorni, il suopensiero seguita a fiorire: La questione ebraica è uscito da poco riletto e corretto da Giorgio stesso, e adesso esce anche Abolire la scuola media? in cui si guarda ai bassi punteggi ottenuti dagli studenti. Per Giorgio è la svalutazione della conoscenza, la giustificazione continua della mancanza di sforzo nello studio, che hanno prodotto il crollo dell'apprendimento. Giorgio Israel la diceva tutta, la sua vita intensa e ricchissima è stata come il suo cognome: passione, etica, generosità, guerra... e guai a sgarrare.
(il Giornale, 26 settembre 2015)
Addio a Giorgio Israel, settant'anni dalla parte della ragione
Matematico e umanista, alleato nelle battaglie del Foglio.
di Nicoletta Tiliacos
ROMA - E' difficile e insieme semplice, raccontare chi sia stato Giorgio Israel, morto ieri a Roma, dove era nato nel marzo del 1945. Difficile è rendere conto in modo minimamente esauriente della complessità e della profondità dei suoi interessi, testimoniate dalle sue pubblicazioni scientifiche e dai suoi libri (due titoli per tutti: "Scienza e razza nell'Italia fascista", il Mulino, e "La macchina vivente. Contro le visioni meccanicistiche dell'uomo", Bollati Boringhieri). Assai facile è invece constatare come tutti quegli interessi siano stati costantemente rivolti a un centro che a ognuno di essi ha dato senso e forza, e che si può riassumere come il riconoscimento e la difesa di ciò che è umano. Sta in questo nucleo razionale e di libertà il grande valore della lezione di Israel epistemologo, storico della scienza e della matematica, studioso dei processi di apprendimento e delle buone pratiche scolastiche, critico tagliente e temuto di quei nuovi feticci che rispondono al nome di scientismo, tecnoscienza, relativismo, bisogno di spiegare "in termini puramente materiali ogni aspetto della vita", come ha scritto egli stesso.
Accanto a tutto questo, come i lettori del Foglio sanno bene, Israel è stato un campione nella lotta contro i demoni antisemiti oggi riciclati sotto forma di angeli antisionisti, e contro il nuovo eugenismo "a fin di bene" che ai suoi occhi attenti non ha mai smesso di rivelare il vecchio ghigno totalitario. Che si trattasse di difendere il diritto all'esistenza di Israele, di denunciare l'inganno "progressista" che usa la vita umana nascente come materiale da laboratorio, di ridicolizzare i bacchettoni di sinistra che trovavano offensivo invitare il papa teologo Benedetto XVI alla Sapienza, di rivelare quali abissi di imbecillità si nascondano dietro l'invenzione di fantasiosi "disturbi" dell'apprendimento, a maggior gloria della medicalizzazione di ogni aspetto della vita, Israel non si è mai tirato indietro. Non lo ha fatto nemmeno negli ultimi mesi, resi pesantissimi dalla malattia, e nemmeno quando si è trattato di pagare prezzi non indifferenti di ostilità e ostracismo.
Era un figlio orgoglioso della diaspora sefardita da Salonicco, dove era nato e da dove era emigrato in Italia per motivi di studio suo padre Saul, medico, accademico, romanziere, cultore dell'idea di ebraismo laico mutuata dall'antenato Yehuda Nehama, tra i fondatori dell'Alliance Israélite Universelle, il movimento umanistico ebraico moderno. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Giorgio Israel sa che in lui l'attitudine a metter pace tra scienza e umanesimo è stata vocazione e ragione di vita. Lo ringraziamo anche per questo, ci mancherà moltissimo.
(Il Foglio, 26 settembre 2015)
Baghdad - Nasce il coordinamento Russia, Siria e Iran per combattere l'Isis
Creato a Baghdad il centro di coordinamento guidato da Mosca.
di Andrea Riva
Si intensifica il ruolo della Russia nello scacchiere mediorientale. Le forze armate russe, siriane e iraniane hanno infatti stabilito un centro di coordinamento a Baghdad per avviare una copoerazione con le milizie sciiti sostenute da Teheran e impegnate a combattere l'Isis in Iraq.
Molto probabilmente, come pensano gli israeliani, si tratta delle forze sciite di Hezbollah. Secondo quanto afferma l'agenzia di intelligence Debqa, "Putin non si aspetta alcuna cooperazione dagli Stati Uniti nella guerra ai terroristi islamisti".
Secondo Usa Fox News, nella cellula di coordinamento sono presentati alcuni generali russi di basso rango, mentre per i funzionari americani non è chiaro se sia coinvolto o meno anche il governo iracheno. In una conferenza stampa a Mosca, questa settimana il vice ministro degli Esteri iraniano, Amir Abdollahian, aveva escluso che l'Iran lavorasse a una coalizione sciita anti-Isis. Questo lo scenario in Medio Oriente fino ad oggi.
Lunedì prossimo, però, Barack Obama e Vladimir Putin si incontreranno alle Nazioni Unite e il presidente americano cercherà di capire se e come la presenza militare russa in Siria possa essere utile a contrastare Isis e se ci siano chance per una soluzione politica alla crisi iniziata ormai oltre 4 anni e mezzo fa.
La casa Bianca conferma come Obama abbia iniziato ad ammorbidire la sua ostile intransigenza rispetto alle proposte di Mosca di unire le forze contro Isis in Siria. Lo scenario è quindi ancora in divenire. Si riuscirà a creare una vasta coalizione capace di annientare gli jihadisti dell'Isis?
(il Giornale, 25 settembre 2015)
Siria - Putin ordina il primo attacco
Israele: "In azione reparti speciali russi con Hezbollah"
di Franco Iacch
Le forze governative siriane hanno condotto il primo raid aereo nella provincia di Aleppo, nel tentativo di riconquistare una base dell'esercito regolare sottratta dai terroristi. L'attacco è stato condotto dai piloti siriani su caccia russi. E' quanto ha comunicato l'Osservatorio siriano (con sede nel Regno Unito) per i Diritti Umani.
Il raid è stato supportato anche da una forza di terra che ha ingaggiato il nemico nei pressi della base aerea di Kweiris, nella parte orientale della provincia di Aleppo. La forza d'attacco era composta da Su-24 Fencer e Su-25 Frogfoot.
Secondo gli israeliani, però, anche i russi sarebbero entrati in battaglia. Da quanto si apprende dall'agenzia di intelligence Debka, soldati della 810th Marine Brigade sarebbero entrati in azione proprio per riprendere la base aerea di Kweiris. Ed i russi conoscono bene il proprio nemico.
La base è protetta da guerriglieri ceceni guidati da Abu Omar al-Shishani, considerato uno dei comandanti più importanti dell'organizzazione terroristica negli ultimi due anni. Il 27enne proviene dalla enclave cecena di Pankisi in Georgia, come tanti altri che hanno aderito all'Isis dal 2012.
A supporto dei russi, secondo gli israeliani, anche le forze speciali di Hezbollah attive da mesi in Siria. L'offensiva per riconquistare Kweiris è il primo passo per l'attuazione del piano operativo russo per riconquistare la zona di Aleppo. Per portare a termine questa prima fase, i russi devono proteggere l'autostrada 5, che collega Aleppo a Damasco, essenziale per i rifornimenti all'esercito siriano.
Commentano gli analisti di Debka:
"Il fatto che le forze russe abbiano hanno lanciato il loro primo attacco, dimostra che Putin non si aspetta alcuna cooperazione dagli Stati Uniti nella guerra ai terroristi islamisti. L'aspetto più inquietante per gli Stati Uniti ed Israele è che i soldati russi hanno combattuto in sinergia con le forze speciali siriane e Hezbollah. Per la prima volta in 41 anni, dopo la guerra di logoramento contro l'IDF sul Golan, le truppe russe stanno combattendo fianco a fianco alle forze siriane. E 'anche la prima volta che una potenza mondiale come la Russia è disposta ad andare in battaglia con un gruppo terroristico riconosciuto come Hezbollah. Le nostre fonti sottolineano che l'attacco congiunto era completamente in contrasto con il tono ed il contenuto della discussione avuta tra Putin e Netanyahu in occasione dell'ultimo vertice".
Le forze governative hanno intensificato attacchi aerei e terrestri contro lo Stato islamico anche nella zona di Raqqa, capitale del gruppo jihadista in Siria. Anche in questo attacco è stato utilizzato l'arsenale russo.
Commentano dal Ministero della difesa russo. "Abbiamo numerosi esperti sul terreno". Mosca, però, preferisce non commentare la portata della reale presenza militare in Siria.
(Difesa Online, 25 settembre 2015)
Netanyahu vuole un Casinò ad Eilat
Il premier Benyamin Netanyahu ha ripreso in mano di recente il progetto dell'apertura ad Eilat di un Casinò, il primo in assoluto in Israele. Lo ha riferito la televisione commerciale Canale 10.ovi gratuitamente la nuova App per il suo telefono e tabl
L'obiettivo di Netanyahu, è stato spiegato, è di dar vita ad una sorta di 'Las Vegas sul Mar Rosso' che rafforzi i legami di Eilat con il resto del Paese, malgrado la sua distanza geografica.
Al momento attuale, aggiunge Yediot Ahronot, sono all'esame progetti diversi. Uno di essi prefigura l'apertura di vari Casinò nei maggiori alberghi della città. Un altro suggerisce invece la trasformazione in un unico Casinò dell'attuale aeroporto, che presto cesserà le attività con l'inaugurazione di un nuovo aeroporto 30 chilometri più a nord.
Il progetto di questo tipo di struttura è discusso da oltre 20 anni. Da un lato vi è chi ne sottolinea il potenziale economico. Altri, fra cui la polizia e la magistratura, temono un aumento delle attività criminose. Altri ancora, nel mondo rabbinico, mettono in guardia da una degenerazione dei costumi.
(bluewin.ch, 25 settembre 2015)
Il matrimonio blindato di Bar Refaeli: droni per le foto esclusive e paparazzi cacciati
La supermodel si è sposata con l'uomo d'affari Adi Ezra. Una festa "rustica" da 330mila dollari
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - La top model Bar Refaeli e l'uomo d'affari israeliano Adi Ezra si sono sposati ieri sera nell'esclusivo resort "Carmel Forest Spa" alle 21 in punto, davanti a 300 parenti ed amici stretti in una cerimonia protetta dalle più rigide misure di sicurezza. Refaeli, 30 anni, è arrivata a bordo di un elicottero guidato dal padre, Rafi, ed indossava un abito da sposa disegnato da Chloé. Mentre si avvicinava alla "chupà" - il baldacchino nuziale ebraico - la cantante Shlomi Shabbat ha intonato "Bereshit Olam" (La creazione del mondo).
A celebrare il matrimonio è stato il rabbino Dovid Grossman nella cornice di una "festa rustica" - come è stata descritta dal sito "Walla!" - costata almeno 330 mila dollari. Luci viola e lampade-ghiaccioli hanno illuminato la grande tenda dove si è svolta la festa, subito dopo la cerimonia, alla quale Bar è arrivata indossando un secondo vestito, sempre di Chloé. Sul cielo almeno due droni hanno scattato immagini e girato video che ora saranno gli sposi a decidere come gestire. La sicurezza è stata garantita da un servizio di agenti privati che ha bloccato dozzine di reporter, riuscendo a individuare e fermare anche alcuni paparazzi che si erano incamminati nella foresta del Monte Carmelo per tentare di avvicinarsi il più possibile al luogo della cerimonia.
Lo spazio aereo sopra le nozze è rimasto aperto, per decisione del ministro dei Trasporti Yisrael Katz che ha annullato la precedente autorizzazione a chiuderlo da parte delle autorità competenti dell'aviazione civile. La stampa locale ha titolato "La modella più famosa di Israele non è più nubile" pubblicando le poche foto disponibili - degli ospiti in arrivo - e lamentando l'impossibilità di avere accesso al party più esclusivo avvenuto negli ultimi anni.
Si è così conclusa la lunga preparazione al secondo matrimonio di Bar Refaeli, che nel 2003 sposò Arik Weinstein separandosi due anni dopo per poi avere una lunga relazione con l'attore Leonardo diCaprio. L'addio al nubilato di Refaeli, la scorsa settimana, si è svolto alle Maldive.
(La Stampa, 25 settembre 2015)
Laspetto più eccezionale della cosa è che nessun paparazzo sia riuscito finora a contrabbandare una sola immagine della cerimonia. Complimenti agli sposi.
Chiacchiere da Camera
Don Paolo Gentiloni si fa bello su Israele.
di Romana Liuzzo
I pasciuti burocrati europei, divisi su tutto, trovano compattezza al solo nominare Israele. C'è qualche sanzione da prendere? Ecco lo Stato ebraico sul quale ora pende il boicottaggio dei prodotti ottenuti nei Territori. Alla decisione ha aderito anche il nostro curiale ministro degli Esteri, don Paolo Gentiloni, debole coi forti (caso Marò) forte coi deboli. Dagli all'ebreo.
(il Giornale, 25 settembre 2015)
L'intellettuale ebreo e proustiano che Moravia aveva rifiutato di essere
Giacomo Debenedetti in una pagina non rimozionale
di Alfonso Berardinelli
Qualche giorno fa Antonio Debenedetti, ricordandomi che è passato esattamente un quarto di secolo dalla morte di Alberto Moravia, scrittore di cui Antonio non dimentica mai l'importanza della nostra narrativa novecentesca, ha aggiunto un'osservazione. Di solito si dice che gli ebrei a metà, di padre o di madre cattolici, si sentono ebrei una volta e mezzo, perché essendo divisi in due guardano a se stessi anche dall'esterno: cosa che per esempio si notava in Elsa Morante, Franco Fortini, Natalia Ginzburg. Invece Moravia sembra che neppure si accorgesse della propria metà ebraica. Non la vedeva, non voleva vederla.
A pensarci è proprio così. In Moravia non si trova traccia di autocoscienza ebraica. Come si spiega? La prima risposta potrebbe essere che Moravia ha voluto vivere di estroversioni, di energiche e brusche rimozioni. Una qualche forma di autocoscienza ebraica lo avrebbe disturbato. Lo avrebbe fatto sentire vulnerabile e malato, mentre lui respingeva ogni malattia e morbosità. Non avrebbe mai accettato di rigirarsi nella testa un problema per il quale non c'era soluzione, un problema sterile che poteva procurargli solo inutili rovelli, paure, perdite di tempo e perfino qualche autocompiacimento, qualche morbosa autocommiserazione.
Superata la tubercolosi ossea che lo aveva colpito da ragazzo, scampato alle persecuzioni antisemite, nato a nuova vita con la fine di una società opprimente come quella fascista, dopo il 1945 Moravia aveva de- ciso di affrontare il mondo, di vivere nel mondo, di lavorare e di essere socialmente presente. Di essere (nella misura in cui può esserlo uno scrittore) un individuo sano e normale.
Insomma, l'ovvia parola "rimozione" forse può davvero spiegare tutto. Del resto anche il modo di scrivere di Moravia, il suo stile letterario, è "rimozionale". Così duro, diretto, neutro e incolore, privo di sfumature, antipoetico: non sensitivo ma razionale, sempre piuttosto legnoso e un po' meccanico, ma così efficace e adatto a far girare le ruote di una narrazione obiettiva, che non torna e non gira su se stessa ma procede ineluttabile da una serie di precedenti a una serie di conseguenze.
Eppure a me sembra che ci sia stato almeno un momento in cui la rimozione ha ceduto. Si tratta di poco più di una pagina, una delle più belle che Moravia abbia scritto, quella in cui ritrae Giacomo Debenedetti. Fu pubblicata in un volumetto uscito dal Saggiatore nel 1968 a cura di Cesare Garboli, nel quale sono raccolti una serie di ricordi del critico a distanza di un anno dalla sua morte.
Moravia comincia quasi con cautela parlando del fascino, o meglio dello "charme" di Giacomo Debenedetti: "Uno charme o fascino strano e al tempo stesso raffinato e familiare, esitante e sicurissimo, cortese e autoritario, distaccato e patetico". Moravia ha di fronte un eccezionale prototipo di ebreo, intellettuale e scrittore. Avverte uno "strano" magnetismo che non riesce a spiegarsi e non sa, non vuole individuare come ebraico. La rimozione cede al fascino, eppure non smette di agire. Moravia ha davanti a sé l'anima ebraica nella sua versione più sensibile e sofisticata: la riconosce e non se ne accorge: "Questo charme o fascino in seguito è sempre stato un poco, fra me e lui, come un amabile diaframma che in certo modo quasi automatico sostituiva la contemplazione alla comunicazione".
E' il lato voyeuristico del narratore che qui entra in funzione. Moravia guarda Debenedetti, lo contempla. Vede perfettamente il personaggio ma non comunica con lui. Lo sente e lo teme. Lo ama e se ne ritrae come se avvertisse in lui un modo di essere e di vivere che oscuramente gli annuncia minacce. Essere ebrei, esserlo con suprema, perfetta, disarmata eleganza e consapevolezza, è per Moravia una minaccia al proprio "rimozionale", brusco e un po' fobico modo di vivere.
Moravia era, come è noto, uno scrittore inflessibilmente metodico e produttivo. Scriveva tutte le mattine dalle otto all'una. Sedeva alla scrivania vestito con camicia e cravatta e mentre batteva a macchina non evitava neppure di rispondere al telefono. Le sue paure erano efficacemente neutralizzate dalla disciplina borghese del produrre e del non sottrarsi alla vita sociale. Con Debenedetti, ebreo che viceversa non smetteva un attimo di percepire instabilità e minacce, che rapporto poteva avere Moravia? Eppure un rapporto, più contemplativo che comunicativo, c'era: "Mi sono spesso domandato il motivo di questo insolito rapporto. E sono venuto alla conclusione che quello che mi seduceva tanto in lui era la qualità molto moderna e attuale della sua civiltà. Essere civili non è poi tanto difficile, basta comportarsi secondo certe norme, ispirarsi a certi modelli. Ma essere civili con trepidazione, con inquietudine, con angoscia, questo è assai insolito. Era come se, nel momento stesso che mi faceva sentire la civiltà nel tono della sua voce, nell'espressione del suo volto, nel gesto delle sue mani, egli mi avesse anche avvertito della fragilità e incertezza della situazione in cui si trovava e si trova tuttora l'uomo civile ai tempi nostri".
Ho letto molti romanzi e racconti di Moravia e non ricordo nessun personaggio così vivo, delicato, sofisticato e complesso come questo. Un personaggio del resto che Moravia non ha inventato, ha semplicemente descritto dal vero e che gli si è imposto. Mi sono spesso detto che Moravia solo in apparenza è stato un narratore realista. Temeva la realtà, al punto che vedeva più la sua ombra e la propria paura che la realtà in se stessa. La realtà che Moravia racconta è il prodotto del suo stile brusco, spiccio, metodico e rimozionale. Ma per una volta, di fronte a Giacomo Debenedetti, ha visto realmente, in carne e ossa, vibrante e straziante, l'intellettuale ebreo e proustiano che lui aveva rifiutato di essere.
(Il Foglio, 25 settembre 2015)
Israele: Il mondo non si faccia più ingannare dai giochetti di Abu Mazen
Tutti i leader responsabili sono chiamati a fare il possibile per promuovere la calma, ma Abu Mazen fa esattamente l'opposto.
La comunità internazionale dovrebbe porre fine all'eterna "farsa" con cui il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si rifiuta di negoziare con Israele, crea volutamente una crisi, alimenta la crisi con la sua retorica incendiaria e poi supplica il resto del mondo di "accorrere in suo aiuto". Lo ha detto mercoledì sera al Jerusalem Post un'alta fonte governativa israeliana.
Il mondo dovrebbe finalmente chiamare Abu Mazen a rispondere di questo comportamento, ha detto l'alto funzionario governativo commentando le dichiarazioni con cui Abu Mazen, parlando martedì a Parigi a fianco del presidente francese François Hollande, aveva messo in guardia da una "terza intifada" che scaturirebbe dalle violenze a Gerusalemme, esortando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a porre fine alle azioni di Israele nella Città Vecchia e alle attività negli insediamenti, per tornare ai negoziati. "Abbiamo parlato di quello che accade alla moschea di Al-Aqsa - aveva dichiarato Abu Mazen in una conferenza stampa dopo l'incontro con Hollande - E' qualcosa di estremamente pericoloso. Non vogliamo che continui: l'alternativa sarebbe il caos o una intifada che noi non vogliamo". Hollande, dal canto suo, aveva esortato alla calma a Gerusalemme dicendo che lo status quo post-'67 sul Monte del Tempio non deve essere messo in discussione.
Sebbene tutti i leader responsabili siano chiamati a fare il possibile per promuovere la calma, ha osservato l'alto funzionario governativo di Gerusalemme, Abu Mazen sta facendo esattamente l'opposto. "Ha utilizzato espressioni orrende, alimentando un linguaggio che fomenta la violenza - ha detto il funzionario - I governi europei, che sono sempre così pronti a criticare Israele, dovrebbero far pervenire un preciso messaggio ad Abu Mazen, chiedendogli se stia facendo davvero tutto il possibile per calmare le acque o se invece non sta facendo l'esatto contrario". Anche quei leader del mondo arabo e islamico che parlano in continuazione di immaginarie minacce alla moschea al-Aqsa, ha detto la fonte, "non fanno altro che fomentare la violenza. Non esiste nessuna minaccia del genere. Il governo israeliano ha ribadito più e più volte che lo status quo sarà scrupolosamente mantenuto, e coloro che diffondono questa calunnia dovrebbero sapere che stanno solo incoraggiando la violenza".
Il riferimento è, fra l'altro, al messaggio ai pellegrini in partenza per La Mecca riportato sul sito ufficiale di Ali Khamenei, nel quale la Guida Suprema iraniana afferma che "i ripetuti insulti al sacro santuario della moschea di al-Aqsa" da parte di Israele sono "il problema più importante per i musulmani", e che il comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi costituisce "il massimo grado di crudeltà e malvagità".
Da: Jerusalem Post, 24.9.15
(israele.net, 25 settembre 2015)
«La comunità internazionale dovrebbe porre fine all'eterna "farsa" con cui il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ecc.». Il mondo non lo farà, perché le farse sono divertenti e al mondo questa farsa piace. Abu Mazen è uno degli attori, non tra i più divertenti ma fa bene la sua parte. M.C.
Gli ebrei in piazza, l'ultimo fronte del sindaco Marino
Il Campidoglio sposta i venditori di souvenir e scoppia la protesta.
di Giampiero Cazzato
ROMA - Sono tra i pochi che possono vantare di fare il mestiere del nonno del nonno del nonno... E tra i pochissimi che, oggi come oggi, si possano definire romani de Roma. Eppure il Campidoglio li ha messi sullo stesso piano degli operatori dei camion bar che invadono la Città Eterna. Peggio, degli abusivi. In nome del decoro urbano i loro banchetti sono stati sfrattati dai monumenti capitolini. Ma gli urtisti, in stragrande maggioranza appartenenti alla comunità ebraica romana, non ci stanno. Le loro licenze, hanno detto il 9 settembre nel corso di una manifestazione al Campidoglio, sono tra le più antiche di Roma. Il diritto a vendere souvenir a turisti e pellegrini se lo sono guadagnato nell'800 grazie a una bolla papale (ma il mestiere risale al XVI secolo, quando Paolo IV relegò gli ebrei alle professioni più umili).
Delle 115 licenze complessive 43 sono quelle che a luglio hanno dovuto sloggiare dal Colosseo. Destinazione via di San Gregorio. Solo che il flusso turistico è all'osso. Conclusione: decine di famiglie impossibilitate a lavorare. Fabio Gigli, presidente degli urtisti, sulle colonne di Pagine Ebraiche parla di «emergenza sociale». Inevitabile la protesta. E non dei soli ricordari, bensì della comunità ebraica romana che in questi mesi, proprio su richiesta dell'amministrazione capitolina, aveva fatto da mediatrice nella vicenda. E che si è presentata in Capidoglio - il rabbino Riccardo Di Segni e Ruth Dureghello, neopresidente della comunità, in testa - a ricordare al sindaco Ignazio Marino che agli urtisti romani era assicurata una soluzione che tenesse conto delle loro esigenze.
E invece? «Rinvii su rinvii, appuntamenti saltati all'ultimo momento, telefoni muti» racconta Dureghello. «Nemmeno dopo la manifestazione dal Campidoglio si sono fatti sentire con me e col rabbino». Pure sul decantato decoro urbano Dureghello avrebbe molto da ridire. «Mi pare che il decoro sia a corrente alternata. Un giorno c'è, per alcuni. Un giorno sparisce, per altri. Basta guardare il Colosseo». E dal Campidoglio? L'assessore al Commercio (il nome esatto è Roma produttiva), Marta Leonori, assicura che lo strappo sarà ricucito: «C'è la nostra disponibilità a trovare una soluzione. Il mestiere degli urtisti ha una sua storicità ma necessita di un aggiornamento». In soldoni, dalla bancarella sic et simpliciter ad un'attività che possa fornire servizi ai cittadini e ai turisti. Novità anche sui banchetti che dovranno «passare il vaglio della Soprintendenza».
La parola d'ordine dell'assessore è «evoluzione» e vale per gli urtisti come per i camion bar «che potrebbero fare street food ma si limitano a vendere pizza e bibite».
Alla fine della gimcana probabilmente almeno una parte gli urtisti, potranno tornare nelle loro zone. Quando? Non si sa, Per ora il progetto è «in fase embrionale» conclude l'assessore.
(la Repubblica - il venerdì, 25 settembre 2015)
Post antisemiti, si dimette il neosottosegretario greco Kammenos
A poche ore dall'insediamento. "In tanti gestivano il mio account"
A poche ore dall'insediamento, il nuovo governo greco di Alexis Tsipras perde il primo pezzo: il viceministro delle Infrastrutture Dimitris Kammenos, si è dimesso dopo aver postato su Twitter frasi considerate razziste e antisemite. Kammenos, 49 anni, eletto nei Greci indipendenti (il partito nazionalista alleato di governo di Syriza), ha detto che le frasi offensive postate nel 2014-15 sul suo account (ora rimosso) sono sotto inchiesta da parte della polizia postale su sua richiesta.
(ANSA, 24 settembre 2015)
La Russia non vuole e l'Iran non sa combattere lo Stato islamico
di Carlo Panella
Chi si illude che la Russia di Vladimir Putin sia un alleato indispensabile per contrastare e distruggere lo Stato Islamico, farebbe bene a verificare la disposizione sul terreno dell'massiccio intervento militare russo in Siria che smentisce platealmente che questa sia l'intenzione del Cremlino.
Ugualmente, chi si illude che l'Iran disponga di una capacità militare e politica indispensabili a perseguire la sconfitta dello Stato islamico, farebbe bene a prendere atto delle continue e sconcertanti sconfitte militari delle milizie sciite a guida iraniana in Siria ed Iraq, che azzerano questa ipotesi.
In realtà, Russia e Iran -che ovviamente alzano la bandiera della "lotta al terrorismo"- non hanno nessuna intenzione - o non sono in grado - di contrastare lo Stato Islamico e hanno tutt'altri progetti.
Gli analisti dell'autorevole rivista Foreign Policy, a differenza delle cancellerie occidentali, hanno esaminato la dislocazione del corpo di spedizione russo in Siria, hanno verificato che è tutta e solo concentrata nella regione tra Latakia e Tartous, che non riguarda minimamente la cruciale Damasco (nella quale gli elicotteri pesanti russi che hanno dato eccellente prova di sé in Cecenia sarebbero indispensabili nella imminente battaglia per la capitale) e men che meno su altri possibili capisaldi per una controffensiva terra-aria lungo la frontiera che separa miliziani del regime e jihadisti.
Foreign Policy ne trae quindi le conseguenze: la collocazione delle forze russe in Siria non è finalizzata al contrasto dello Stato islamico, men che meno ad avviare l'indispensabile azione di terra contro lo Stato islamico, ma solo a spingere l'Occidente a scendere a patti con un Assad che si appresta a fare una mossa di "arrocco" trasportando il re, cioè sé stesso, ai bordi estremi della scacchiera siriana. Una strategia che passa -con evidenza plastica- per la formazione di una sorta di "Formosa" nella regione alauita: un mini stato pesantemente difeso dai russi via terra, via aria e via mare dall'avanzata dello Stato Islamico, in cui il governo "legittimo di Assad" possa "arroccarsi", soprattutto se perderà Damasco, secondo il modello seguito da Chiang Kai Shek nel 1948 quando fuggì col governo cinese in quella che oggi si chiama Taiwan. Mini Stato alauita che già oggi è in tutto e per tutto un satellite militare e politico della Russia, di fatto una "nuova Crimea", in cui la base navale russa di Latakia fa palesemente "sistema" con quella di Sebastopoli, proiettando in pieno Mediterraneo lo spazio politico-militare della flotta russa che ormai è in tutto per tutto anche una "flotta mediterranea". Il secolare sogno della Russia, già dal tempo degli Zar e poi dell'Urss, di disporre di un asse navale tra Crimea e una consistente testa di ponte sulle rive del Mediterraneo sta quindi per concretizzarsi. Mini Stato alauita -il dato è centrale per Putin- in cui la sovranità politica di Assad e del governo nazionale è poco più che formale, perché la sua agibilità è in tutto e per tutto sotto il controllo militare dei russi.
Assad, insomma, è diventato da orgoglioso leader arabo qual era, una sorta di "marionetta" di Mosca, privo di volontà propria se non quella di sopravvivere ad ogni costo e di difendere dal massacro la minoranza alauita. Marionetta che però permetterà - secondo l'attendibile analisi di Foreign Policy - al suo manovratore Vladimir Putin di sedersi da dominus in qualsiasi tavolo internazionale in cui si discuta del futuro della Siria (se mai vi sarà ancora una Siria come nazione).
Questo progetto mediterraneo e arabo di Putin, che va ben oltre la crisi siriana (si vedano i rapporti con un Egitto in cui Mosca a sostituito Washington a tal punto che Fattah al Sisi ha appena ristabilito le ralazioni diplomatiche con Assad), si è potuto sviluppare grazie a due dinamiche. La prima, ormai evidente (e contestata anche dal Wahington Post e dalla stampa americana democrat), è costituita dal totale vuoto pneumatico di iniziativa politica, di strategia politica di Barack Obama - e dell'Europa - quanto a Siria e Medio Oriente. Vuoto strategico politico a cui sono ovviamente seguiti gli effetti se non nulli, del tutto deficitari, della strategia militare. Natura non facit saltus e il vuoto politico-militare degli Usa è stato riempito dalla strategia di Putin, non a caso subito dopo la firma dell'accordo sul nucleare tra Washington e Teheran. Una coincidenza addirittura, perché quel patto si regge sulla strategia che Barack Obama ha illustrato nel suo discorso del Cairo del 6 giugno 2009 che ipotizzava una stabilizzazione dell'intero quadro mediorientale basato -appunto- sull'appeasement tra Usa e Iran.
Riconosciuto anche formalmente come baricentro della stabilizzazione del Medio oriente, l'Iran ha visto incredibilmente accettata e subita de facto da Obama la sua politica decennale, che invece e all'opposto mira alla destabilizzazione rivoluzionaria in Medio Oriente. In Iraq l'Iran spinge i governi di Baghdad, anche quello di oggi, di Abadi, a una politica settaria verso i sunniti e i curdi a tutto vantaggio settario degli sciiti, una dinamica che è stata il brodo di cultura del successo dello Stato islamico. In Siria, Teheran difende Assad, prima (2011-2012) da una rivoluzione popolare, l'unica araba, poi dagli jihadisti moltiplicatesi come tumore da quella sconfitta con migliaia di Hezbollah libanesi e pasdaran. Una difesa strategica per gli interessi nazionali iraniani (e ben poco per una comune appartenenza sciita, ben poco sentita dagli ayatollah che hanno sempre disprezzato gli alauiti) che intendono così preservare la continuità territoriale della strategica trincea sciita che parte da Teheran, arriva a Baghdad, passa per Damasco e si ancora sulle rive del Mediterraneo in un Libano in cui Hezbollah esercita egemonia politica e militare. In Yemen, infine, l'Iran soffia sul fuoco della rivolta Houti, l'Iran perché mira a costruire la sua sponda, la sua Repubblica Islamica sciita nel Mar Rosso in aperta, dichiarata, funzione anti saudita.
Tutto questo, in Occidente incredibilmente l'elemento è ignorato, per avvicinarsi sul lungo periodo all'obiettivo strategico di fondo di esportazione della rivoluzione khomeinista: la conquista della Mecca, la cui Custodia è, agli occhi degli ayatollah, "usurpata" dalla dinastia degli al Saud.
La seconda dinamica che ha permesso a Putin di avviare in un paio di settimane una mossa d'attacco che l'ha fatto radicare sulle sponde del Mediterraneo è la sconfitta militare di Assad. Il più grande quotidiano arabo sulla scena internazionale (200.000 copie) "al Hayat", di tendenza liberal (ma non per quanto concerne gli interna coporis dell'Arabia Saudita) ne parla ormai apertamente: " L'intervento russo sembra un riconoscimento del fallimento iraniano volto a porre fine al conflitto militarmente e a concludere così un compromesso internazionale per la creazione dello stato alauita". Una sconfitta -e qui arriviamo ad un punto cruciale- che l'esercito di Assad aveva consumato per intero già nel 2013, ma che pareva ribaltata addirittura dall'intervento di migliaia di miliziani di Hezbollah libanese e di Pasdaran iraniani. Ma negli ultimi 6 mesi, la conquista da parte dei jihadisti di Idlib (capitale della regione che confina con quella di Latakia con uno strategico aeroporto), di Palmyra e il radicamento di al Nusra e dell'Isis in ben tre quartieri di Damasco ha di nuovo ribaltato il quadro militare.
Con tutta evidenza Hezbollah (che denuncia ufficialmente ben 900 caduti, un bilancio consistente) e i Pasdaran non sono ormai più in grado di reggere alla pressione congiunta (anche se conflittuale) dello Stato islamico e di al Nusra non solo sotto il profilo militare, ma anche sotto quello politico. Verifichiamo infatti in Europa da due mesi che il flusso dei profughi dalla Siria è radicalmente mutato nella sua composizione. Assieme ai poveri, agli emarginati, alla popolazione comune in fuga, arriva in Europa una massa di appartenenti al ceto medio, medio alto, componenti di quella che era la base sociale del regime di Assad, che è sempre stato amato dai sunniti e dai cristiani abbienti, oltre che dagli alauiti. Quel blocco sociale del regime baathista è stato il baricentro politico della resistenza militare di Assad sino a pochi mesi fa. Ma ora si sgretola, non crede più nel futuro del regime e fugge, spesso col cagnolino.
D'altronde, il fatto stesso che gli jihadisti siano riusciti nei giorni scorsi a colpire con un colpo di mortaio, per un chiaro obiettivo politico, l'ambasciata russa a Damasco (un mortaio ha una gittata massima di 4 chilometri), così come hanno spesso colpito sempre con i mortai il quartiere della alta borghesia e delle ambasciate di Rummaneh, dimostra come il centro della capitale sia ormai sotto assedio. I miliziani di al Nusra e dello Stato islamico infatti controllano il quartiere di Hajar al Aswad, confinante con il campo palestinese di Yarmuk (da un anno sotto loro controllo),il quartiere Harasta e di al Qaddam (controllato da jihadisti filo sauditi).
Ma l'incapacità dell'Iran ad esercitare un contrasto effettivo allo Stato islamico è ormai sempre più evidente in Iraq, dove l'offensiva per la riconquista di Ramadi, capitale dello strategico Anbar sunnita, segna il passo da mesi e dove il governo sciita di Abadi non solo non ha fatto un passo per riconquistare il favore della popolazione sunnita, ma continua a mantenere nei confronti del fondamentale Kurdistan iracheno una fortissima e concorrenziale tensione politica. E non solo a causa della spartizione del petrolio dei campi di Kirkuk.
È dunque ben strano che tanti in Occidente - ahimé anche in Italia - continuino a proporre che l'Iran sia un alleato indispensabile allo stato islamico a fronte non solo dell'intrinseca e indiscutibile natura dittatoriale e autoritaria di quel regime -su cui effettivamente si può esercitare realpolitik- ma soprattutto del fatto che i boots on the ground in Iraq dei miliziani sciiti e iraniani, sotto il comando del generale dei Pasdaran Qassem Suleimaini, in 12 mesi non solo non hanno conseguito vittorie strategiche (la riconquista di Tikrit è stata più che marginale e "di immagine") ma hanno permesso la caduta di Ramadi e il fallimento di 4 mesi di contrattacchi per riconquistarla. Anche perché tra gli insuccessi militari - e quindi anche politici - dell'Iran va ormai annoverato anche lo Yemen, là dove l'offensiva degli Houti sciiti filoiraniani è palesemente fallita e il fronte sunnita - nonostante le aperte deficienze delle forze di terra saudite - avanza di giorno in giorno infliggendo pesanti perdite agli alleati di Teheran. Prova provata che fare perno sull'Iran non è "un crimine, è un errore", per ricordare Talleyrand.
Naturalmente, la permanenza nella Casa Bianca di Barack Obama ancora per 16 mesi non permetterà un cambio di strategia nei confronti dell'Iran, quindi della politica mediorientale della Russia, quindi del contrasto allo Stato Islamico. Siamo sempre all'ammissione della mancanza di un "piano B", aggravata dalla cessione indebita di fiducia agli ayatollah (e di 150 miliardi di dollari di beni iraniani in Occidente scongelati) e soprattutto al diabolico persistere di una analisi del tutto errata dello Stato Islamico. Trattare come "terrorismo" (definito peraltro da Obama "una tattica") il fenomeno del Califfato di abu Bakr al Baghdadi ha le stesse conseguenze nefaste che avrebbe avuto la definizione del nazi-fascismo come fenomeno terrorista e non come progetto complessivo di Stato autoritario, in grado di riscuotere consenso popolare. Impedisce di comprendere la profondità scismatica wahabita della sua ideologia, la sua conseguente presa nelle coscienze di parte del mondo musulmano, la sua stessa capacità di "farsi Stato". Porta alla sterile strategia basata sui droni assassini, edizione cibernetica della tradizione dei bounty killer.
È quindi prevedibile che sino al gennaio 2017 la crisi mediorientale continuerà a svilupparsi lungo le stesse linee direttrici degli ultimi anni, con l'unica e imperscrutabile a oggi variante -fondamentale, comunque- della caduta o meno di Damasco e della conseguente fuga di Assad nel mini stato alauita difeso da Mosca. Si faranno trattative in sede Onu, ci sarà una "Ginevra 3" (persino Angela Merkel ora auspica che si "tratti con Assad"), i morti in Siria sorpasseranno quota 300.000 e lo Stato islamico continuerà a radicarsi ed espandersi.
Ma a partire dalla fine di gennaio 2017 il nuovo presidente americano sarà obbligato a prendere atto del pieno fallimento obamiano e dovrà dotarsi di una strategia. E allora come oggi ve ne sarà una e una sola praticabile: obbligare con pesanti interventi e condizionamenti di tutti i tipi la Turchia (di cui è possibile, comunque auspicabile, che Tayyp Erdogan non sia più il dominus) e l'Arabia Saudita a trovare una intesa circa il nuovo assetto politico della Turchia. Accordo di governo "condominiale" difficile, ma praticabile se si farà leva sul pluridecennale tentativo di Ryad di essere determinante in Libano. Sulla base di questo accordo, il nuovo inquilino della Casa Bianca potrà e dovrà fare quello che fecero Bush padre e figlio: costruire una alleanza islamica (non araba, islamica), che comprenda il Turchia, Arabia Saudita e monarchie del Golfo, Giordania, Egitto, ma soprattutto anche Pakistan, Indonesia e Marocco, che si incarichi boots on the ground di spazzare via dalla Siria lo Stato islamico. Obbiettivo praticabile se implementato con un formidabile intervento economico (nell'ordine di decine di miliardi di dollari forniti a questi paesi) da parte di Usa e Europa e da un loro decisivo apporto militare logistico, aereo e navale, ma non di terra.
Una volta aggredito e sconfitto sul terreno -ma proprio sul terreno- lo Stato islamico in Siria (problema di facile risoluzione con una armata efficiente), la sua componente irachena si vedrà di fatto acefala e sarà possibile passare alla seconda fase (ben distaccata temporalmente dalla prima), in cui proprio la presenza di una forte armata di terra sunnita ai confini tra Siria e Iraq dia alla popolazione sunnita dell'Anbar garanzia di non essere più vessata dal blocco iraniano-sciita. L'Iran, emarginato di fatto da questa coalizione, così come la Russia e il suo mini Stato alauita, si troveranno così a dover subire -per la prima volta da quando Obama è stato eletto- una forte strategia occidentale di raccordo con l'unica componente islamica minimamente affidabile e saranno costretti ad una trattativa seria sull'assetto regionale.
Di fatto, sarà il ritorno a quella strategia di "trincea sunnita" che ispirò l'azione di Condoleeza Rice e che Barack Obama ha meccanicamente e improvvidamente capovolto.
(L'Huffington Post, 24 settembre 2015)
Parla mantovano la riqualificazione della sinagoga di Soragna
La Sinagoga e il Museo Ebraico "Fausto Levi" di Soragna, in provincia di Parma, tornano a splendere grazie agli interventi di riqualificazione progettati dallo Studio Tecnico Terzi di Mantova....
La Sinagoga e il Museo Ebraico "Fausto Levi" di Soragna, in provincia di Parma, tornano a splendere grazie agli interventi di riqualificazione progettati dallo Studio Tecnico Terzi di Mantova. «Stiamo collaborando con la Comunità Ebraica di Parma - spiega Massimo Terzi - per la riqualificazione e il restauro conservativo della Sinagoga e l'annesso Museo Ebraico di Soragna. Una prima parte degli interventi (presentati in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio) ha riguardato specialmente gli interni dell'edificio». Ovvero: intonaci, coloriture delle pareti, serramenti (interni ed esterni) e consolidamento strutturale. «Sono lavori molto delicati - sottolinea il geometra mantovano - soprattutto per le coloriture interne, per le quali sono stati compiuti un'indagine e uno studio di saggi stratigrafici per individuare quelle idonee alla struttura». Il progetto di restauro ha visto la collaborazione dell'architetto mantovano Sara Soffiati. Gli interventi, invece, sono stati realizzati dalla ditta Sgc srl di Parma, direttore dei lavori l'architetto Cristian Prati, funzionario della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio di Parma e Piacenza. Il costo dell'operazione è stato di 40mila euro, finanziati dalla Soprintendenza di Bologna e commissionati dal presidente della Comunità Ebraica di Parma Giorgio Yehuda Giavarini. «E' prevista anche la sistemazione dei locali adiacenti alla Sinagoga di Soragna, che si trovano all'interno dello stesso edificio» aggiunge Terzi. Lo studio tecnico di via Pescheria 22, è stato scelto dalla Comunità Ebraica di Parma, in quanto specialista in questo campo, avendo già collaborato per il restauro artistico e funzionale della Sinagoga di Mantova, in via Govi, e per il ripristino e il consolidamento strutturale di quella di Sabbioneta. Massimo Terzi è collaboratore esterno della Fondazione Franchetti.
(Gazzetta di Mantova, 24 settembre 2015)
Debutta a Expo il Premio Stampa Israele
di Adriana De Santis
Con una serata in terrazza nel padiglione israeliano a Expo, l'Ufficio Nazionale del Turismo Israeliano in Italia ha premiato i vincitori del Premio Stampa Israele 2014.
Cinque le categorie contemplate: online, blog, trade, quotidiani e periodici, tv. È un debutto, una prima edizione che gli organizzatori si augurano diventi una tradizione, «per aiutare a far sì che il pubblico venga a scoprire la nostra terra, non solo la Terra Santa - ha detto Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ente - Israele è bella, sorprendente, veramente incredibile. E con questo premio celebriamo anche il nostro Capodanno, iniziato il 14 settembre».
La serata è stata anche l'occasione per proporre un riassunto della tradizione gastronomica mediorientale stile kosher, una cultura profonda, come ha sottolineato il pasticciere stellato e maitre chocolatier Ernst Knam (vincitore del premio tv per la trasmissione "Discovery" di Real Time), e Chef Ambassador per Expo 2015 insieme con Carlo Cracco e Pietro Leemann.
(L'Agenzia di Viaggi, 24 settembre 2015)
Domenica 27 settembre alle ore 16,30, dieci corde in Sinagoga
CASALE MONFERRATO Un violoncello ha 4 corde, una chitarra 6 ed ecco il titolo di un concerto che accoppia due strumenti che raramente suonano insieme: si chiama appunto "Attraverso 10 corde" e avrà luogo domenica 27 settembre alle ore 16,30 alla Sinagoga di Casale Monferrato (vicolo Salomone Olper).
Una esibizione che è realizzata in collaborazione con il Festival Luoghi Immaginari 2015 e che vede per interpreti Marco Perini al violoncello e Claudio Piastra alla chitarra.
Il programma è vastissimo e spazia per quasi tre secoli di musica. In ordine cronologico comprende Antonio Vivaldi (1678-1741), Joaquín Nin y Castellanos (1879-1949), Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968), Hans Werner Henze (1926 - 2012) e Raffaele Bellafronte (1961 contemporaneo)
Marco Petrini è un Musicista d'eccezione, si è avvicinato al violoncello all'età di sette anni, dimostrando da subito una natura di rara sensibilità e versatilità, doti che lo hanno portato a distinguersi sin dall'infanzia nel mondo musicale italiano.
Diplomato a Brescia, formatosi ai corsi dell'Accademia di Santa Cecilia di Roma è stato tra i fondatori dell'orchestra Arturo Toscanini di Parma di cui è stato primo violoncello solista, ruolo ricoperto anche in numerose altre formazioni nazionali e internazionali. Ha registrato per radio e televisioni italiane ed estere, effettuando inoltre incisioni discografiche. È stato membro per quindici anni del Nuovo Klaviertrio, complesso con il quale ha tenuto centinaia di concerti in prestigiose sale di tutto il mondo. Successivamente allo scioglimento del gruppo, è seguito il suo impegno con il Trio Faurè con il quale svolge tuttora un'importante attività concertistica. È stato titolare della cattedra di violoncello presso l'Istituto Musicale Pareggiato "A. Peri" di Reggio Emilia e presso la Civica Scuola di Musica di Cremona e tiene corsi di perfezionamento presso l'Accademia "Tadini" di Lovere.
Claudio Piastra è Nato a Parma dove ha studiato presso il Conservatorio A. Boito. Dall' esordio, all'età di 14 anni è invitato a tenere concerti in Festivals e Rassegne internazionali in tutta Europa, Stati Uniti, Canada, America del Sud, Medio Oriente e India. Come solista ha collaborato e collabora con orchestre, direttori e solisti prestigiosi tra cui: Grande Orchestra di Stato di San Pietroburgo, Filarmonica di Bruch, Mettensis Simphony Orchestra, I Solisti del Maggio Musicale Fiorentino, Orchestra Sinfonica A. Toscanini e l'Orchestra del Teatro Regio di Parma. Si è esibito in duo col grande chitarrista venezuelano Alirio Diaz. Suona regolarmente in duo con il violinista Ilya Grubert e con il clavicembalista Georges Kiss. Numerose le sue apparizioni televisive, sia in Italia che all'estero, sui canali nazionali o satellitari. Altrettanto frequente è la sua presenza in trasmissioni radiofoniche in diversi paesi anche attraverso i suoi cd, una ventina di titoli. E' titolare di cattedra presso l'Istituto Achille Peri di Reggio Emilia e ha tenuto Corsi e Stage di perfezionamento in varie parti d'Italia e all'estero. E' direttore artistico dal 2011 dell'Accademia Tadini di Lovere.
(Il Monferrato, 24 settembre 2015)
"Il massacro negli armeni" nella sinagoga di Reggio Emilia
Sabato 26 settembre, nella Sinagoga di Reggio Emilia (via dell'Aquila 3) nuovo appuntamento del ciclo "Il grande male" dedicato alla mostra "Armin T.Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915". Alle ore 18.30 conversazione con Laura Gasparini sul 'Massacro degli Armeni nelle memorie di Maria Gigli Cervi Pansa e nei diari dell'ambasciatore reggiano Alberto Pansa'. Introduce Roberto Macellari dei Musei civici di Reggio Emilia, voce recitante Barbara Nicoli.
L'ambasciatore reggiano Alberto Pansa (1844-1928) e la moglie Maria Gigli Cervi (1867-1960) furono testimoni oculari dei disordini e dei primi massacri degli Armeni durante il loro secondo soggiorno a Costantinopoli dal 1895 al 1901. Alberto Pansa partì per preciso ordine del presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi, consapevole della difficile situazione legata all'instabilità politica dell'Impero Ottomano dove Francia, Inghilterra, Germania e Italia avrebbero dovuto avere un ruolo di assistenza e controllo della politica della Grande Porta nell'applicare le riforme di ammodernamento del paese. Ciò prevedeva, tra le numerose innovazioni, il riconoscimento di alcune comunità cristiane, tra cui gli Armeni, e la loro indipendenza, come concordato con il sultano Habdul Amid II nel trattato di Berlino del 1878.
Alberto e Maria Pansa divengono, loro malgrado, testimoni oculari in particolare degli incidenti dell'agosto del 1896. Entrambi raccontano dettagliatamente questi avvenimenti nei loro scritti: Maria Pansa nelle sue 'memorie', redatte poco prima di morire nel 1960; Alberto Pansa nei suoi 'diari', che si pensava fossero andati perduti, ma che sono invece conservati all'archivio del Ministero degli Esteri La Farnesina a Roma.
Lo stile di Maria afferisce, anche se in parte, alla tradizione odeporica delle memorie dei viaggiatori del secolo scorso, mentre i diari di Alberto raccolgono, in uno stile telegrafico tipico del registro giornaliero, fatti, ma anche impressioni e opinioni personali, come, ad esempio, la sua personale convinzione che l'entrata in Guerra dell'Italia fosse solamente una sciagura. Le loro testimonianze personali sono davvero uniche e toccanti così come il loro impegno nel salvare molti degli Armeni di loro conoscenza trasformando il giardino dell'Ambasciata in un campo profughi. Nota è inoltre la protesta ufficiale di Pansa presso il sultano e le sue diverse lettere alle potenze straniere per denunciare i massacri.
Alberto e Maria, con i figli Poli, Carina e Mario, sono oggi sepolti nella cappella di famiglia a Cà del Vento in provincia di Reggio Emilia, loro dimora prediletta.
L'iniziativa è ad ingresso gratuito e senza obbligo di prenotazione.
(Reggio nel Web, 24 settembre 2015)
L'Arca di Sermide nella mostra virtuale "Mantua in Jerusalem"
Presentata a Expo nel padiglione di Israele Presentata a Expo nel padiglione di Israele la mostra virtuale "Mantua in Jerusalem". A illustrarla la direttrice del museo di storia ebraica italiana a Gerusalemme Andreina Contessa, nativa di Asola. Tra i preziosi reperti presenti nel museo c'è la famosa "Arca di Sermide" costruita nel 1553 a Mantova poi custodita per alcuni secoli nella sinagoga di Sermide e portata alla fine degli anni '50 del secolo scorso a Gerusalemme. Tra gli ospiti intervenuti nei giorni scorsi a Milano alla presentazione della raffinata mostra, oltre l'ambasciatore italiano a Tel Aviv Talò, anche la vice presidente della Provincia con delega alla Cultura Francesca Zaltieri e una numerosa delegazione da Sermide, con il sindaco Calzolari. "L'esposizione è arricchita anche da altri importanti reperti donati dalla comunità mantovana - spiega la Zaltieri -. Anche l'Archivio di Stato di Mantova ha offerto un prezioso supporto nell'allestimento e nelle scelte dei pezzi in mostra. Si tratta di una grande testimonianza dell'arte italiana".
(Adnkronos, 24 settembre 2015)
Germania - Migranti ospitati a Dachau: polemica per l'uso dei campi nazisti
Dopo il caso Buchenwald un nuovo motivo d'imbarazzo per Berlino, che pur di riuscire a sistemare i profughi in arrivo utilizza le vecchie strutture del Terzo Reich.
Dopo il caso dei migranti ospitati nel campo di sterminio di Buchenwald, la Germania compie un altro passo falso e scoppia una nuova polemica. perché pur di alloggiare i rifugiati, Berlino continua a utilizzare vecchi lager nazisti: questa volta gli immigrati sono stati inviati nel primo campo di concentramento aperto dal Terzo Reich, quello di Dachau, a pochi chilometri di distanza da Monaco di Baviera.
Gli edifici ora adibiti a centro di accoglienza facevano parte dell'orto botanico del campo, in cui si coltivavano erbe medicinali. L'orto "era uno dei peggiori distaccamenti" di Dachau, ha ricordato all'International Business Times Gabriele Hammermann, dirigente del Luogo di ricordo allestito per commemorare le oltre 41mila vittime del lager che, assieme a quello di Auschwitz, è un simbolo dei campi di sterminio nazisti.
Nell'orto, esposti alle intemperie, lavoravano soprattutto "ebrei e detenuti per motivi religiosi", ha ricordato ancora la Hammermann aggiungendo che per questo "il tasso di decesso era enorme: era un luogo di morte e terrore". Il complesso non fa parte del Memoriale, ha sottolineato la sua responsabile, ma il suo utilizzo per senzatetto e profughi "resta controverso" anche se, a suo dire, non per motivi di opportunità storica: il problema è che è troppo lontano dai centri abitati e ostacola l'integrazione degli stranieri.
Una decina di giorni fa era nata una polemica su Buchenwald, l'ex campo di concentramento nazista a pochi chilometri da Weimar dove da mesi sono ospitati 21 profughi in attesa di conoscere l'esito della loro richiesta di asilo. Il campo di concentramento di Buchenwald era stato uno fra più grandi della Germania nazista.
(TGCOM24, 24 settembre 2015)
Nuova Zelanda: quinta bandiera tra le finaliste, ma è polemica: ''Ricorda il simbolo nazista''
Denis O'Rourke, deputato del Neo Zeland First Party, mentre in Parlamento tenta di dimostrare come la quinta bandiera, la Red Peek, richiami un motivo nazista
Una quinta bandiera si aggiungerà alle quattro tra cui i neozelandesi potranno scegliere il futuro vessillo nazionale: si chiama "Red Peak" e a chiedere il suo inserimento nella rosa delle papabili è stato il volere popolare con una petizione firmata da 52mila persone. Voluta dal popolo, ma non dal partito New Zeland First: il disegno, una "V" rovesciata, potrebbe essere associato ad un simbolo del regime nazista. Così, foto alla mano, il deputato Denis O'Rourke e il leader del partito Ron Mark hanno dimostrato l'equivoco in Parlamento: quattro "Red Peak" potrebbero formare una svastica nazista mentre da solo, il disegno, è identico al motivo che decorava le guardiole dei soldati nazisti. Inaspettata la polemica per il creatore Aaron Dustin che, con quell'intreccio di triangoli, voleva rappresentare solo un paesaggio dalla terra rossa, cielo nero e montagne grigie.
(la Repubblica, 24 settembre 2015)
La sopravvivenza di Israele è la nostra
Lettera a La Stampa
Quando si parla di questione mediorientale e di Palestina non viene quasi mai detto che Israele è l'unico Paese di quell'area che si possa considerare un'autentica democrazia, dove si svolgono cioè libere elezioni e dove i governi e le loro scelte sono sottoposte al giudizio e al voto dell'opinione pubblica, senza condizionamenti o vincoli di sorta e dove i cittadini possono pubblicamente esprimere il loro dissenso. Inoltre il potere giudiziario è indipendente dal potere politico. Negli altri Paesi dell'area, tutti in larga parte nemici storici di Israele, prevalgono invece logiche di casta o regimi autoritari e la democrazia parlamentare non esiste. Infatti se a Tel Aviv puoi cambiare un governo andando a votare, a Tunisi e al Cairo c'è stato bisogno di rivoluzioni di piazza. Non è una differenza di poco conto. Del resto le radici del conflitto arabo-israeliano risalgono al 1947, quando l'Assemblea dell'Onu vota la delibera che, spartendo la Palestina tra arabi ed ebrei, dà luogo alla creazione del nuovo stato d'Israele. Qui si riversano quindi i migliaia di ebrei scampati alle recenti persecuzioni naziste.
Il conflitto infatti riguarda la creazione del movimento sionista e la successiva creazione del moderno Stato di Israele, avvenuta nel 1948, nel territorio considerato dagli arabi appartenente ai palestinesi, e che invece il popolo ebraico considera la sua patria storica.
Il conflitto è iniziato come uno scontro politico su ambizioni territoriali a seguito della decimazione dell'impero ottomano; infatti a partire dal 1880, gruppi di ebrei europei, per vari motivi ma anche a causa delle persecuzioni nell'est europeo, emigrarono in Palestina dove stabilirono alcune colonie e fondarono il movimento Sionista, da cui presero il nome di sionisti. Questo conflitto si è poi tramutato nel corso degli anni da conflitto arabo-israeliano a un più regionale conflitto israelo-palestinese. La convivenza tra i due popoli è difficile. Il Medio Oriente è stato, dal dopoguerra a oggi, una delle zone più instabili del mondo.
Da una inchiesta emerge che molti israeliani vogliono la pace con i palestinesi. Ma la pace la vogliono anche i palestinesi, educati dai loro capi dall'infanzia a odiare gli ebrei? La pace non nasce dall'odio. Non mi piace l'ambiguità attuale e il comportamento di persone che oggi si ritengono pacifisti a senso unico.
Infatti antisionismo e antisemitismo sono di fatto la stessa cosa. Del resto Israele ha il dovere come ogni altra Nazione di proteggere il suo popolo. Israele combatte per la sopravvivenza.
Ma la sopravvivenza di Israele è la nostra, perché Israele è un'isola di Occidente incastonata in un mondo per lo più ostile. Renzi ha detto che la Shoah è parte integrante della nostra identità di italiani ed europei. Ecco perché anche io sono solidale con Israele.
Mario Pulimanti, Roma
Lautore della lettera commette un errore che ormai non è più considerato un errore semplicemente perché lo commettono quasi tutti: lo Stato dIsraele, con le conseguenti guerre per tentare di abbatterlo, non è nato nel 1947 con la Risoluzione di spartizione 181 dellOnu, ma nel 1920 con la delibera a Sanremo delle Potenze alleate vincitrici della Prima guerra mondiale. La delibera Onu del 1947 non ha fatto nascere, ma ha mutilato uno stato ebraico concepito 27 anni prima e ha immaginato e fatto nascere dal nulla uno stato arabo mai esistito, mai progettato, mai neppure pensato, che in seguito sceglierà di chiamarsi Palestina, usando un termine che su quella terra prima di allora era stato usato soprattutto dagli ebrei. M.C.
L'ex direttore della CIA investe in startup israeliana
La società di analisi marittime Windward ha annunciato due nuovi investitori: l'ex direttore della CIA David Petraeus e Dan Senor, co-autore con Saul Singer del libro Startup Nation, che racconta lo sviluppo delle startup in Israele. La società non ha reso noto gli importi di investimento.
Windward, che ha festeggiato il suo quinto compleanno, raccoglie ed analizza dati in base al traffico marittimo di tutto il mondo. I suoi clienti includono agenzie finanziarie, di sicurezza e intelligence.
Windward aveva già annunciato diversi mesi fa, l'assunzione di un altro investitore, l'ex capo di stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi, che ora è consulente d'azienda. Dalla sua fondazione nel 2010 la società ha raccolto circa 17.13 milioni di dollari.
In una intervista a Globes, Dan Senor spiegò di aver investito in Windward perché si tratta di un caso speciale nel panorama delle startup in Israele:
Da oltre un decennio analizzo e scrivo dell'incredibile innovazione israeliana e Windward è eccezionale. La società si è assunta una sfida globale di proporzioni enormi: portare visibilità alle attività delle navi di tutto il mondo con una reale ramificazione di ogni settore che interseca con quello marittimo. La società sta già lavorando con le agenzie di sicurezza e di intelligence di tutto il mondo e sta già iniziando a fornire dati e analisi per le notizie finanziarie e per i settori di gestione degli investimenti.
|
|
(SiliconWadi, 24 settembre 2015)
Putin avverte Netanyahu: I confini della Siria sono quelli della Russia
Putin avverte Netanyahu. La Russia non vuole interferenze nelle sue operazioni contro l'Isis in Siria. Netanyahu dal suo viaggio in Russia riesce a strappare a Putin la promessa di continui contatti fra le parti per evitare "incidenti".
Come ha riportato il portale web in lingua araba Addiyar, il presidente russo Vladimir Putin ha informato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che gli aerei russi sono responsabili per lo spazio aereo siriano, e voleranno sopra tutti i territori siriani con l'eccezione di una sezione del Golan occupato.
Il premier russo ha informato il suo omologo isreliano che gli aerei israeliani non possono entrare nei confini siriani, perche qualsiasi intervento dagli aerei israeliani nello spazio aereo siriano è considerato l'inizio di una battaglia aerea con gli aerei russi.
Putin, avrebbe dato, inoltre, istruzione ai piloti russi di colpire qualsiasi aereo che incrocia il suo cammino nelle loro missioni di combattimento, tranne gli aerei della coalizione, che avranno un coordinamento con loro sui tempi dei bombardamenti.
Il Presidente russo, come riporta Addiyar, ha annunciato che gli aerei russi voleranno 24 su 24 nello spazio aereo siriano, e bombarderanno l'Isis, Daesh in arabo, ininterrottamente.
Netanyahu ha chiesto, quindi, che ci deve essere un coordinamento con Israele nei pressi delle alture del Golan. Putin ha accettato sulla base del fatto che gli aerei russi voleranno sopra le alture del Golan non occupato e gli aerei israeliani potranno volare sulle alture del Golan occupato. Questo è l'unico coordinamento tra le parti per evitare "incidenti".
(L'AntiDiplomatico, 23 settembre 2015 - trad. dall'arabo di Laila Mousa)
Gaffe di una tv americana: nel servizio sullo Yom Kippur c'è la stella di Davide nazista
L'emittente Wgn-Tv travolta dalle critiche per aver usato il simbolo indossato dagli ebrei nei lager.
Imperdonabile leggerezza dell'emittente americana Wgn-Tv. Durante un servizio sulla festività ebraica dello Yom Kippur, nella grafica appare la stella di Davide gialla con la scritta `Jude' su uno sfondo a righe, come quello delle divise indossati dagli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Sul web sono stati moltissimi i messaggi di critica per la gaffe. «Purtroppo non siamo riusciti a riconoscere che l'immagine era un simbolo nazista offensivo» si legge nel comunicato diffuso dal network per scusarsi.
(Corriere della Sera, 23 settembre 2015)
Cacciati gli espositori israeliani: "La loro presenza crea disordini"
Nel comune di San Colombano al Lambro, a causa delle contestazioni di alcuni manifestanti filo palestinesi, il sindaco ha deciso di impedire agli espositori israeliani di partecipare alla sagra dell'uva.
di Daniele Bellocchio
Sarebbe surreale, se non fosse infelicemente vero quanto successo nel comune di San Colombano al Lambro, dove l'amministrazione comunale ha deciso di proibire ai viticoltori israeliani di avere un proprio stand per far degustare i vini della terra d'Israele, durante la tradizionale Festa dell'Uva che questa domenica andrà in scena nel paese collinare tra Lodi, Pavia e Milano.
E la decisione stupisce poiché a inserire la presenza degli espositori israeliani nella rassegna era stata l'amministrazione stessa, che però ha preferito far marcia indietro dopo che un gruppo di contestatori filo palestinesi è intervenuto durante la presentazione della mostra Israele Oggi, inaugurata in paese venerdì sera.
Andando con ordine. L'amministrazione di San Colombano, guidata dal sindaco della lista civica Rinascita Banina Pasqualino Belloni, aveva inserito nel cartellone della Sagra dell'Uva la possibilità di acquistare e degustare vini israeliani. Una scelta dettata dal fatto che in paese, una settimana prima dell'evento, era allestita la mostra "Israele Oggi" e si era quindi manifestata la possibilità per gli organizzatori di introdurre all'interno della festa tradizionale una Nazione ospite che, tra le altre ricchezze, vanta anche quella di una storica tradizione vinicola.
Venerdì sera però l'imprevisto. Durante il taglio del nastro dell'esposizione, alla quale era presente anche Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo, un gruppo di contestatori è intervenuto rivolgendosi agli ospiti israeliani al grido "assassini,assassini!". Poi sono state esposte le bandiere della Palestina e Vittorio Fera, l'attivista dell'International Solidarity Movement arrestato in Cisgiordania mentre filmava il fermo di un ragazzino palestinese, ha chiesto di poter rivolgere delle domande, prima di venire allontanato dallo spazio inaugurale. '' Volevo porgere delle domande, ma una normale manifestazione democratica di dissenso è stata tratta come un'azione violenta'', sono state le dichiarazione del dimostrante rilasciate alla stampa locale in seguito a quanto avvenuto.
Ma quello che sembrava un episodio spiacevolmente consuetudinario quando si tratta di eventi che riguardano lo stato d'Israele, all'indomani però ha creato non pochi timori anche ai politici del borgo. Il consigliere di minoranza Lorenzo Brusati ha presentato infatti una richiesta all'amministrazione e ai carabinieri del paese per annullare la degustazione di vini israeliani. ''Non si tratta di un argomento troppo delicato e politicamente esposto per essere trattato in una sede quale un piccolo comune e la sua festa più partecipata, che può mettere la cittadinanza e i vari visitatori in una situazione di rischio facilmente evitabile?'', scrive il consigliere nella sua lettera e poi oltre ai motivi legati all' ordine pubblico, Brusati adduce nel testo anche al fatto che i vini israeliani sono ''poco attinenti rispetto alla natura delle festa, da sempre volta a celebrare e promuovere i prodotti locali''.
Non sono trascorse molte ore che anche anche il sindaco ha fatto la sua scelta: proibire la vendita dei vini israeliani. Lunedì sera infatti il primo cittadino ha firmato una lettera in cui negava la vendita e il permesso di esporre vini d'Israele e in un'intervista rilasciata al quotidiano locale Il Cittadino ha spiegato: '' io non entro nel merito della questione israelo palestinese, ma nemmeno mi esprimo se sia giusto o meno sospendere l'iniziativa. Io faccio solo una valutazione di tipo organizzativo, e non si può rischiare di accendere una sigaretta vicino a una tanica di benzina''. E poi in conclusione ''la mia è solo una scelta di buon senso, da questa vicenda non esce vincitore nessuno''.
Ma ne siamo proprio sicuri?
(il Giornale, 23 settembre 2015)
... non si può rischiare di accendere una sigaretta vicino a una tanica di benzina''. Dora in poi quindi ai filopalestinesi basterà porterà una tanica di benzina vicino a dove si trovano israeliani e subito le autorità li obbligheranno a sloggiare. Così, per motivi di ordine pubblico si dovrà sottostare ai portatori di disordine pubblico. La morale è semplice ed antica: Cari ebrei, se non volete turbare lordine pubblico infastidito dalla vostra presenza, dovete andarvene via di qui. Meglio se spontaneamente e con le buone. M.C.
Svizzera: inchiesta ufficiale sullo spionaggio israeliano sui colloqui per il nucleare dell'Iran
I servizi segreti israeliani sono sospettati di essere responsabili di una serie di attività di spionaggio altamente sofisticate svolte durante i recenti negoziati del cosiddetto Gruppo dei 5 +1 con l'Iran sul programma nucleare di Teheran che si sono tenuti in una serie di alberghi di lusso in varie parti d'Europa, in particolare in Svizzera.
Sarebbero stati gli investigatori svizzeri a scoprire, per prima cosa, che si sarebbe svolta un'attività di spionaggio nell'hotel President Wilson di Ginevra dove gli agenti israeliani sarebbero riusciti ad intromettersi nei servizi di sorveglianza dell'albergo, telecamere incluse, per controllare l'attività delle delegazioni riunite. Infiltrazioni analoghe sarebbero avvenute anche ai danni di un altro albergo, il Beau Rivage Palace di Losanna, anch'esso utilizzato anche per i colloqui sul nucleare.
Il costo del programma utilizzato, denominato Duqu 2, molto simile al Duqu Troia, sarebbe stato di circa 50 milioni di dollari ed, ovviamente, si ritiene che sia stato sviluppato dagli stessi servizi segreti di Tel Aviv.
(Ultima Edizione, 23 settembre 2015)
La corsa dei paesi europei a sottoscrivere accordi con l'Iran
TEHERAN - L'acuirsi della crisi in Siria, il ruolo sempre più determinante dell'Iran nel quadro dei conflitti in Medio Oriente, le denunce da parte di Israele e senatori repubblicani statunitensi sui rischi dell'accordo quadro sul nucleare firmato il 14 luglio, non fermano la corsa dei paesi europei per accaparrarsi accordi nel futuro mercato iraniano. A favorire le aspettative dei partner europei vi è sicuramente il fallimento dell'iniziativa di boicottaggio dell'accordo da parte dei senatori repubblicani statunitensi che ha permesso al governo di Washington di dare il via alla manovre di adeguamento dell'accordo e quindi ai passi per la graduale cancellazione delle sanzioni economiche.
(Agenzia Nova, 23 settembre 2015)
L'Europa pavida toglie le sanzioni all'Iran e le mette a Israele
Marchiati i prodotti ebraici come negli anni Trenta.
di Giulio Meotti
ROMA - "L'Unione europea rimuove le sanzioni all'Iran e le mette a Israele, l'Iran ottiene sempre più legittimità mentre Israele la sta perdendo, il commercio con l'Iran aumenterà mentre quello con Israele diminuirà". A cogliere il tragico paradosso dell'Unione europea è l'ex ministro degli Esteri di Gerusalemme, Tzipi Livni, in partenza per Berlino dove incontrerà il capo della diplomazia tedesca, Frank-Walter
Nella settimana in cui la Corte di giustizia dell'Unione Europea elimina le sanzioni dalla principale compagnia iraniana di alluminio (Iralco), la stessa Ue si appresta a far entrare in vigore la marchiatura dei prodotti provenienti dalle comunità ebraiche in Cisgiordania.
|
Steinmeier. Così nella settimana in cui la Corte di giustizia dell'Ue con sede in Lussemburgo elimina le sanzioni dalla principale compagnia iraniana di alluminio (Iralco), la stessa Ue si appresta a far entrare in vigore la prima sanzione contro lo stato ebraico. Si tratta della marchiatura dei prodotti provenienti dalle comunità ebraiche in Cisgiordania, che diventa effettiva dal primo di ottobre. E "non sarà che il primo passo" adottato dall'Europa, come ha detto alla Radio militare israeliana una fonte europea. La sanzione ha un peso specifico di 150 milioni di euro all'anno.
I prodotti degli insediamenti sono etichettati non solo perché assurgono a simboli politici, ma anche perché le imprese nei Territori sono una parte importante dell'economia israeliana con aziende come Oppenheimer, Super Class e Shamir Salads, Golan Heights Dairies, Ahava, Hlavin, Beitili e Barkan Brackets. L'iniziativa è stata perorata in una lettera firmata da sedici ministri degli Esteri europei - tra cui quello italiano - e definita come "un passo importante per la piena implementazione della politica dell'Unione europea in relazione alla difesa della soluzione dei due stati". La decisione dei diplomatici, forti della risoluzione approvata lo scorso 11 settembre a larga maggioranza dal Parlamento europeo, è respinta dal premier israeliano Benjamin Netanyahu come "una distorsione della giustizia e della logica che credo faccia male alla pace e non la promuove". "Le radici del conflitto non sono i territori, non sono gli insediamenti", ha detto Netanyahu. "Sappiamo cosa è accaduto in passato quando l'Europa ha etichettato i prodotti ebraici". Era dai tempi della Germania hitleriana che le manifatture e i prodotti agricoli degli ebrei non ricevevano una sorta di marchio d'infamia.
"Se l'Europa etichetta le merci come "prodotti di insediamenti israeliani", diventerà sempre più difficile per le compagnie israeliane raggiungere i punti vendita all'estero. Intanto dal ministero degli Esteri di
L'economia di Israele potrebbe perdere fino a 10,5 miliardi dollari e migliaia di israeliani potrebbero perdere il posto di lavoro se il paese fosse soggetto al boicottaggio. Si parla di 36.500 licenziamenti, a seconda della portata del boicottaggio.
|
Israele arriva un rapporto sul peso che potrebbe avere il boicottaggio. L'economia di Israele potrebbe perdere fino a quaranta miliardi di shekel l'anno (10,5 miliardi dollari) e migliaia di israeliani potrebbero perdere il posto di lavoro se il paese fosse soggetto al boicottaggio. Si parla di 36.500 licenziamenti, a seconda della portata del boicottaggio e del suo tasso di adozione in tutto il mondo. Il rapporto, redatto sotto l'ex ministro Yair Lapid, era stato tenuto segreto fino a ora. L'esportazione dei prodotti agricoli dalla Valle del Giordano, uno dei polmoni agricoli dell'industria israeliana, è già scesa drammaticamente. "Oggi non vendiamo più nulla in Europa", ha detto David Elhayan, a capo del Jordan Valley Regional Council. In Germania la catena di supermercati Kaiser non vende più da tre anni i prodotti israeliani della Cisgiordania. I dirigenti della Edom, un importante produttore di frutta israeliana, hanno detto al giornale economico The Marker: "Gli importatori europei ci dicono che non possono vendere prodotti israeliani. Un acquirente europeo mi ha detto che è stato bloccato in diverse catene in Danimarca e Svezia, e poi in Belgio. Non vi è alcun boicottaggio ufficiale, ma tutti hanno paura di vendere frutta israeliana".
Lo European Council on Foreign Relations, think tank le cui proposte arrivano ogni giorno sul tavolo dei legislatori europei, ha suggerito anche di mettere sotto sanzione alcune banche israeliane. L'appello hitleriano "Kauft nicht bei Juden" (Non comprate dagli ebrei) sembra essersi riaffacciato nella pavida Europa.
(Il Foglio, 23 settembre 2015)
Lultimo libro di Rinaldo Diprose
Pochi giorni dopo la scomparsa di Rinaldo Diprose è andato in stampa il suo ultimo libro: Israele sotto la Chiesa - Storia della teologia della sostituzione. E un libro breve, ma che proprio nella sua concisa essenzialità ha un suo particolare valore, perché con pochi tratti lautore riesce a mettere in evidenza che per la cristianità la teologia della sostituzione non è stata un incidente di percorso in cui è caduta in un momento particolare della sua storia, ma una direzione sbagliata che ha imboccato molto presto nel suo cammino e che ha avuto conseguenze funeste, visibili ancora oggi.
Riportiamo qui la prefazione di Marcello Cicchese.
Da quando è diventato abbastanza comune sentir parlare di "teologia della sostituzione", non si trova quasi più nessuno che la difenda. Sembra che una sorta di vergogna spinga tutti quelli che si sentono coinvolti a presentare una convincente spiegazione per negare che la teologia seguita parli di reale sostituzione di Israele. Poi si scopre che invece è proprio così. E' come con l'antisemitismo: molti sono davvero convinti di non essere antisemiti soltanto perché hanno in mente un certo tipo di antisemitismo in cui non si riconoscono, ma ne hanno uno di tipo diverso, che però in sostanza è la stessa cosa.
Quanto alla teologia della sostituzione, ci sono almeno due forme in cui si può presentare:
a) come espressione della sovranità di Dio;
b) come espressione della grazia di Dio.
Schematizzando un po' le cose, si può dire che la prima forma è cattolica, la seconda evangelica.
Il cattolicesimo medievale, che in altre forme arriva fino ai nostri giorni, esprime in modo chiaro la pretesa della Chiesa Cattolica di rappresentare la signoria di Dio su un mondo in cui è già presente e operante il Regno messianico promesso un tempo a Israele ma ora - secondo questa teologia - affidato alla Chiesa intesa come struttura ecclesiastica presente e riconoscibile nel mondo. Ne sono testimonianza le numerose immagini, dipinte o scolpite, rappresentanti una Chiesa trionfante a cui è obbligata a sottomettersi una Sinagoga umiliata. Secondo la dottrina cattolica, il Regno di Dio su popoli e nazioni è già presente oggi sulla terra, e lo strumento visibile della sua sovranità non è Israele, ma Chiesa Cattolica Romana.
La Riforma protestante ha intaccato seriamente questa pretesa di autorità politica della Chiesa sul mondo secolare, fino al punto da far dire a Lutero che quella del Papa non è autorità di Cristo, ma dell'Anticristo.
I movimenti spirituali che sono venuti dopo la Riforma hanno definitivamente rinunciato, dopo alcuni aggiustamenti, all'idea di rappresentare sulla terra una forma di autorità politica divina sul mondo e si sono dedicati a svolgere in vari modi il compito biblico affidato ai credenti in Cristo: far arrivare agli uomini il messaggio di grazia del perdono dei peccati e aiutarli a diventare fedeli discepoli di Gesù.
Questa lodevole concentrazione sul messaggio di grazia annunciato ai peccatori ha però fatto perdere di vista il fatto che il piano di salvezza di Dio prevede una successione di avvenimenti politici nella storia in cui l'Israele etnico continua ad avere un ruolo centrale. Sottolineare che la legge mosaica non è oggi (ma in realtà non è mai stata) una via per arrivare alla salvezza personale ha portato a far perdere interesse per l'Israele etnico. E se nella forma cattolica l'Israele storico è stato sostituito dalla Chiesa, nella forma evangelica è stato spiritualizzato e attualizzato nella Chiesa. Si parla quindi volentieri di un Israele spirituale (espressione che nella Bibbia non compare mai), costituito dal popolo dei credenti in Gesù, da contrapporre ad un Israele materiale, costituito dal popolo ebraico, oggi presente anche in un suo proprio Stato nazionale.
Per essere precisi, il nome di teologia della sostituzione si adatterebbe bene soltanto alla forma cattolica, perché per la forma evangelica sarebbe più adatto parlare di teologia dell'evaporazione. In questa visione infatti non si ha quella metamorfosi strutturale che trasforma l'Israele etnico nella Chiesa istituzionale politicamente organizzata, ma avviene piuttosto un processo di vaporizzazione che fa uscire l'Israele buono (costituito dai credenti in Gesù) dalla storia politica del mondo e lo fa ricadere nell'insieme dei credenti ebrei e gentili che costituiscono la chiesa. Ciò che non subisce il processo di vaporizzazione rientra nell'ambito della generica umanità e non è oggetto di specifico interesse.
Entrambe le forme di teologia della sostituzione hanno bisogno poi, per essere sostenute e sviluppate, di un tipo di lettura biblica che ne consenta la giustificazione. Nella forma cattolica il metodo seguito è l'allegorizzazione, in quella evangelica è la spiritualizzazione.
Nel primo caso, i racconti dell'Antico Testamento, patrimonio specifico del popolo ebraico, assumono il valore di segni indicanti realtà diverse da quelle letterali. L'Israele etnico ovviamente non interessa più, trattandosi di un passato ormai definitivamente superato, ma dalla sua storia biblica si traggono per via allegorica indicazioni simboliche normative, o comunque utili, per la vita della Chiesa di oggi.
Nel secondo caso, i racconti dell'Antico Testamento non vengono negati nella loro letterale storicità, ma se ne cerca soprattuto, se non esclusivamente, una possibile applicazione spirituale alla vita dei singoli credenti o delle chiese locali. Anche in questo caso, l'Israele etnico nella sua concreta storicità, soprattutto quello del presente, non occupa alcun posto nella riflessione teologica e pastorale. Il rischio reale, davvero grave perché non avvertito, è di trasformare l'Antico Testamento in una raccolta di racconti staccati, utili per l'edificazione personale o comunitaria, ma irrilevanti per quel che riguarda il loro concreto valore storico.
Entrambi i tipi di lettura della Bibbia sono sbagliati, o quanto meno lacunosi, ed è merito di questo libro averlo indicato con precisi argomenti storici e biblici. Trattandosi di un libro che ha anche il pregio di essere breve e scorrevole, si spera che possa trovare la diffusione che merita tra coloro che sono seriamente interessati a comprendere sempre meglio quello che realmente dice la Bibbia.
(Notizie su Israele, 23 settembre 2015)
Israele, il forte legame tra cultura del rischio e boom di start up
di Benedetta Arese Lucini
In trent'anni, Israele, un Paese con 7 milioni di abitanti, sempre in guerra e circondato da nemici, ha visto oltre 250 start up innovative quotarsi sul Nasdaq, un record superato solo da Usa e Cina. Dopo la seconda guerra mondiale, immigrati ebrei scappati dall'Europa nazista e dall'Urss hanno trovato rifugio in Israele: oggi 9 cittadini su 10 sono immigrati di prima o seconda generazione.
A Tel Aviv, una città grande come Firenze, si è sviluppata una cultura di propensione al rischio: quando suona la sirena di allerta missile, ci sono 90 secondi. Se un bunker non si trova, si aspetta sperando di non essere colpiti. Forse anche per questo il posto fisso non è contemplato: dopo tre anni di scuola militare, finita l'università, tanti aprono una start up. Come Alon, che dopo l'esperienza nell'Intelligence, ha sviluppato una società di cyber security che aiuta le aziende a difendersi dagli hacker. O Yoram, che dopo aver fondato altre due startup, ha brevettato una tecnologia che, da una foto, permette di identificare le opere d'arte di tutto il mondo in una app.
Nascono oltre mille nuove startup all'anno, nel 2014 hanno creato cinque miliardi di dollari in valore portato da acquisizioni. Rothschild Boulevard, il centro di Tel Aviv, durante i giorni della conferenza internazionale Digital life design (Did) si trasforma in una fiera dell'innovazione: nuove soluzioni per fare e ascoltare la musica, stampanti 3D e robot che muovevano mani come quelle umane. Nei giorni scorsi sono arrivati in città oltre 3,000 rappresentanti internazionali e decine di venture capitalist alla ricerca del prossimo "unicorno", una start up che raggiunge un miliardo di dollari nel mercato provato. E infatti Israele ha il più alto investimento pro capite del mondo, il doppio di quello americano. Nel 2013 ha ricevuto oltre 11.5 miliardi di investimenti diretti dall'estero.
Oggi la guerra a Tel Aviv non c'è e noi europei ci troviamo davanti a un'immigrazione che non sappiamo gestire. Forse aprendoci alle diversità costruiremo un contesto per un popolo di innovatori.
(il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015)
Russia e Israele istituiranno un comitato per coordinare le attività militari in Siria
GERUSALEMME - Le forze armate di Russia e Israele hanno concordato l'istituzione di un comitato congiunto per coordinare le attività militari in Siria ed evitare "contatti involontari": lo hanno reso noto il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, il generale Gadi Eisenkot, e il suo omologo russo Valery Gerasimov, nel corso di una conferenza congiunta tenuta ieri a Mosca in occasione della visita del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Stando al quotidiano "Haaretz" la commissione, che sarà guidata dai vicecapi di stato maggiore dei due paesi, dovrebbe coordinare sia le attività navali, quelle aeree e quelle elettromagnetiche, per evitare interferenze elettroniche nell'ambito delle operazioni. Ancora non è stato deciso il luogo del primo incontro della commissione, previsto tra due settimane, né la frequenza della sua convocazione.
(Agenzia Nova, 22 settembre 2015)
Siria, così Putin è riuscito a isolare Obama
Accordo di cooperazione russo-israeliano per operare in Siria. Dall'asse con Assad all'intesa con l'Iran: ecco come Putin è riuscito a isolare politicamente Washington.
Alberto Bellotto
Invia armi, stringe alleanze e rassicura gli alleati. È una Russia che gioca il ruolo da protagonista in Siria. Dopo l'incontro di ieri con il premier israeliano Benjamin Netanyahu è chiaro come Vladimir Putin stia prendendo possesso dello spazio geopolitico nello scacchiere mediorientale confinando ai margini Barack Obama.
Prima mossa - Sostegno ad Assad
La Russia ha legami antichi con la Siria ma soprattutto ha l'unico sbocco sul Mediterraneo: il porto di Tartus.
Fin dalla prime battute della guerra nel 2011, Mosca non ha mai fatto mancare il suo sostegno ad Assad. In un'intervista alla Abc la portavoce di Assad, Bouthaina Shaaban, ha detto che la Russia ha svolto un ruolo di consulenza "Sappiamo che i russi non faranno nulla se non insieme al governo e all'esercito siriani". Intanto, come riportato da fonti americane, Mosca sta allargando il proprio contingente nella regione costiera siriana, la stessa che ha dato i natali al gruppo alawaita di cui fa parte Assad. L'invio di altri caccia, il sorvolo dei droni, e il possibile allargamento degli uomini stanziati a Latakia sono il segno più ampio del supporto al regime.
Seconda Mossa - Legami con l'Iran
Mentre Russia e Bulgaria litigavano sulla decisione di Sofia di chiudere lo spazio aereo per i voli diretti da Mosca alla Siria, l'Iran aprì il proprio per permettere il passaggio dei cargo.
In un articolo apparso sul Wall Street Journal emerge che Russia e Iran stanno aumentando il loro coordinamento a supporto del regime in funzione anti-Isis. Non è un caso che il comandante delle guardie rivoluzionarie Quds, il generale Qassem Soleimani, sia stato in visita a Mosca. A giro stretto il ministro degli Esteri russo, Lavrov ha incontrato l'omologo iranaiano Javad Zarif e quello siriano Walid al Moallem. Sempre sul Wsj si legge che le forze cooperano soprattutto intorno a Latakia. Nella giornata di oggi il vice ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian ha di fatto confermato la collaborazione: "Mosca e Teheran intendono usare tutte le possibilità e il potenziale per contribuire a uscire dalla crisi in Siria".
Terza mossa - La nuova alleanza con Israele
Ieri Putin e Netanyahu sono rimasti a colloquio per ben due ore definendo una strategia in tutta la regione. Netanyahu fin da subito ha parlato della paura di Israele del legame tra Assad ed Hezbollah, temendo che alcuni armamenti russi possano finire al gruppo sciita libanese. Su questo Putin ha promesso di restare vigile, rassicurando il nuovo alleato che né Hezbollah né Assad sono in grado di aprire un fronte sulle alture del Golan.
In più i due paesi nell'incontro di ieri hanno raggiunto un accordo per "meccanismo di prevenzione dei conflitti tra i due paesi in Siria" vale a dire che i due si coordineranno prima di eventuali azioni militari in territorio siriano. Non è un caso, infatti, che alla riunione di ieri fossero presenti anche Gadi Eisenkot, capo di stato maggiore dell'esercito israeliano e Herzl HaLevi comandante dell'intelligence militare.
Quarta mossa - L'apertura agli Usa
Non solo armi sul suolo siriano e strette di mani, la Russia di Putin telefona e allaccia relazioni e questo vale anche con gli Usa. Settimana Ash Carter, numero uno del Pentagono e Sergei Shoigu, ministro della Difesa russo hanno avuto una conversazione telefonica definita "costruttiva" sul fatto che i due paesi devono cooperare per risolvere il caos in cui si trova la Siria. Non è ancora chiaro come i due possano operare ma è molto significativo che Mosca abbia deciso di riaprire un canale diplomatico con Washington dopo la crisi in Crimea.
In questo risiko diplomatico gli Stati Uniti annaspano. Incassano il sostegno dell'Australia che ha iniziato i raid contro l'Isis ma viene travolta dallo scandalo interno sugli aiuti ai cosiddetti ribelli moderati. E intanto la Russia tesse una tela diplomatica che confina Obama ai margini della politica internazionale.
(il Giornale, 22 settembre 2015)
Israele difende la scelta di Dayan come ambasciatore in Brasile
Il vice ministro degli Esteri Hotovely: È l'uomo giusto per rappresentarci, rispecchia la politica dell'attuale governo.
ROMA - Non si è fatta attendere la risposta di Israele al veto - non formale per ora - espresso dal presidente brasiliano Dilma Rousseff sulla nomina ad ambasciatore dello Stato ebraico di Dani Dayan. Il vice ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Hotovely, ha difeso la nomina dell'ex direttore degli insediamenti spiegando che Dayan "è l'umo giusto per rappresentarci in Brasile. Il suo impresionante registro pubblico di lavoro ideologico è un suo credito nel momento in cui deve rappresentare la posizione dell'attuale governo, che sostiene il nostro diritto di aprire insediamenti in Giudea, Samaria e Cisgiordania". Per il vice ministro a tentare di bloccare l'arrivo di Dayan sono alcuni politici che ritengono la sua una posizione di "falco" e che quindi sono contrari. "Sono al fianco del primo ministro per questa nomina importante - ha aggiunto Hotovely -, e sono felice che Dayan rappresenti la posizione del governo e della maggior parte della popolazione israeliana". Dayan era stato nominato dal governo del premier Benjamin Netanyahu il 6 settembre e da subito erano insorti diversi movimenti sociali che avevano criticato la scelta e parallelamente accusato l'uomo di aver violato le leggi internazionali in relazione alle comunità palestinesi. A questo proposito, inoltre, avevano chiesto a Rousseff di non accettare le sue credenziali.
Nei giorni scorsi Rousseff attraverso i canali diplomatici aveva informato Israele dela sua contrarietà ad accettare le credenziali di Dayan in quanto in passato aveva vissuto in un insediamento occupato all'interno dei Territori Palestinesi e aveva guidato dal 2007 al 2013 un movimento che la comunità internazionale non riconosce: il Consiglio per gli insediamenti ebraici Yesha in Cisgiordania. A seguito di ciò, il presidente brasiliano ha fatto sapere che affidare a lui l'incarico potrebbe dare un messaggio sbagliato su quella che è la visione de suo paese sulla tematica degli insediamenti israeliani. Le due nazioni, però, hanno bisogno una dell'altra e quindi dovranno quanto prima trovare una via d'uscita per superare l'impasse. Israele punta a effettuare investimenti nello stato latino americano, che rappresenta uno dei partner più vicini e affidabili della Regione. Al Brasile, invece, servono i fondi israeliani per uscire dalla crisi e tornare a crescere, recuperando allo stesso tempo credibilità a livello internazionale.
(il Velino, 22 settembre 2015)
Calcio - Nel campionato israeliano c'è già una dominatrice dopo quattro turni
di Gaetano Mocciaro
Dopo quattro giornate in Israele c'è già una squadra che domina, si tratta del Maccabi Petah Tikva FC che ha vinto tutte le partite e ha già accumulato un vantaggio di 5 lunghezze dalle inseguitrici, tra cui il Maccabi Tel-Aviv di Zahavi che domenica è clamorosamente caduto in casa (1-2) contro l'Hapoel Ra'anana. Zahavi a secco in questa giornata, ma ancora capocannoniere con 3 reti, al pari dello zambiano Kangwa (Hapoel Ra'anana) e del brasiliano Georginho (Sakhnin).
Classifica dopo 4 giornate: Hapoel Petah Tikva 12; Hapoel Be'er Sheva, Hapoel Ra'anana e Maccabi Tel-Aviv 7; Bnei Yehuda e Hapoel Acre 6; Ironi Kiryat e Hapoel Tel-Aviv 5; Bnei Sakhnin, Hapoel Kfae Saba e Hapoel Haifa 4; Beitar Gerusalemme e Maccabi Netanya 3; Maccabi Haifa 2.
(TUTTOmercatoWEB, 22 settembre 2015)
Yom Kippur tra riflessione e pentimento
ROMA - Il 10 del mese di tishri, dieci giorni dopo Rosh Hashanà, il mondo ebraico festeggia Yom Kippur, ovvero il Giorno dell'Espiazione. Yom Kippur è uno dei due giorni solenni comandati dalla Bibbia, il giorno più santo dell'anno, un avvenimento estremamente importante e ricco di pathos poiché vengono messi a nudo i peccati del popolo, chiedendo a Dio perdono e misericordia. La celebrazione viene descritta nella Bibbia in Levitico 23:26-32.
Quest'anno Yom Kippur inizia al tramonto di martedì 22 settembre, alle 18.45 e termina alle 19.45 di mercoledì 23 settembre....
(Evangelici.net, 22 settembre 2015)
L'India tratta con Israele per l'acquisto di nuovi droni
L'India ha deciso di dotarsi al più presto di nuovi droni. Il progetto ha subito una netta accelerazione dopo che la scorsa settimana il Pakistan ha usato per la prima volta un drone di propria produzione in un'azione contro i Talebani A fornirli dovrebbe essere Israele. Si tratta di un affare da 400 milioni di dollari per l'acquisto di dieci velivoli Heron. "Sicuramente - riporta l'agenzia Misna - i contatti in corso da tre anni si sono accentuati da gennaio e la certezza che sia il vicino e rivale Pakistan, sia la Cina posseggono droni in grado di essere utilizzati in azioni belliche ha convinto New Delhi a rompere gli indugi. Il ministero della Difesa, che gia' aveva dato l'assenso all'acquisto, mantiene ora uno stretto riserbo, forse per non innescare una corsa a questi particolari velivoli da parte di potenze rivali in un momento in cui, nonostante l'aumento del bilancio della Difesa (almeno 45 miliardi di dollari nel 2014), l'obsolescenza delle forze armate indiane appare sempre piu' evidente. L'aviazione miliare indiana da tempo utilizza mezzi teleguidati in operazioni di ricognizione ai confini
con i due grandi vicini, in aree dove il rischio di un conflitto, anche limitato, resta alto. Inoltre, sia India sia Pakistan si trovano a fronteggiare militanza di varia origine e terrorismo,contro cui i droni in versione militare possono essere utilizzati con profitto, in operazioni che in gergo militare sono definite "deep strike". L'uso in un conflitto aperto, tuttavia, risulta assai problematico, mentre la contraerea convenzionale o missilistica e' in grado di contrastare efficacemente il loro uso offensivo. Allo stato attuale, solo Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna hanno ufficialmente usato versioni armate di droni in aree di conflitto.
(Corriere quotidiano, 22 settembre 2015
Israele. Sarà lo Stato a pagare i danni alla chiesa incendiata
GERUSALEMME - Israele risarcirà i danni subiti dalla Chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci - a Tabgha sul Mar di Galilea- incendiata lo scorso giugno in un attacco doloso attribuito ad estremisti ebrei. Lo ha deciso il Procuratore generale israeliano secondo quanto annunciato dal portavoce dell'Assemblea dei vescovi cattolici in Terra Santa. «Se siamo contenti di questa giusta decisione che speriamo sia messa in atto nel prossimo futuro, raccomandiamo alle autorità israeliane - ha spiegato il portavoce Wadie Abunassar - di dare giusta soluzione ad altre varie cause, comprese quelle delle scuole cristiane che attendono una risposta nonostante siano passati oltre venti giorni dallo sciopero proclamato contro i tagli nei budget operati dal ministero dell'educazione». Dall'inizio del mese le scuole cristiane di Israele hanno attuato una serrata, (infruttuosi per il momento i colloqui con il governo), per protestare contro la riduzione dei fondi destinati dallo Stato alle istituzioni di ispirazione cristiana che operano da decenni in Terra Santa.
(Avvenire, 22 settembre 2015)
Se queste chiese affermano di operare da decenni in Terra Santa, dovrebbero rivolgersi per le loro rivendicazioni al governo della Terra Santa, non a Israele.
Su Israele l'Europa ignora la lezione della storia
di Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia
Proprio nel fine settimana in cui il numero di visitatori del padiglione israeliano all'Expo ha superato il milione, la bandiera d'Israele che sventola al centro di Milano, accanto a quelle degli altri Paesi ospiti all'Expo, è stata imbrattata di vernice rossa. La cosa stride per molti aspetti, ma non sorprende, poiché riflette la solita ipocrisia nei confronti di Israele.
Stride, perché chi visita il padiglione israeliano, noto anche grazie al campo verticale che lo caratterizza, può rendersi conto proprio del contributo israeliano al tema dell'Expo «nutrire il pianeta», dalle invenzioni tecnologiche, come l'irrigazione goccia a goccia, fino allo sviluppo di varietà particolari di piante, come i pomodorini ciliegino, molto noti anche in Italia. Sebbene la sua popolazione conti soltanto circa 8 milioni di abitanti, Israele è in prima linea mondiale per innovazione e invenzioni a favore dell'umanità, e non soltanto in campo agricolo.
Stride, perché, mentre le bandiere di molte dittature sventolano indisturbate nel centro di Milano, proprio quella d'Israele, l'unica democrazia in questo Medioriente in fiamme, viene imbrattata. Israele è l'unico luogo della regione in cui la comunità cristiana non solo vive in sicurezza, ma anche cresce e prospera. Sarebbe bene che gli stessi elementi marginali che operano contro di noi investissero un po' dei loro sforzi anche nei riguardi dei continui eccidi e repressioni da parte dei fondamentalisti musulmani nei confronti dei loro fratelli in ogni parte del Medioriente. I milioni di migranti che si accalcano alle porte dell'Europa sono anche conseguenza diretta di queste persecuzioni.
Stride, perché sembra che l'Europa non abbia imparato la lezione dalla storia. Nessun leader europeo ha condannato il tweet di qualche giorno fa del leader iraniano Khamenei, con una foto in cui è ritratto lui mentre calpesta una bandiera israeliana e dice che lo Stato ebraico sarà cancellato dalla mappa entro 25 anni e che fino ad allora esso non avrà un solo giorno di pace. Anche l'affermazione dei giorni scorsi, dalle connotazioni antisemitiche, del leader palestinese Abu Mazen, il quale ha detto che «non permetterà agli ebrei di contaminare con i loro piedi il Monte del Tempio», è rimasta assolutamente ignorata. Mi viene da domandare se non esista nessun altro valore nelle relazioni fra Stati all'infuori della volontà di ottenere qualche euro in più di affari con Paesi discutibili, ignorando peraltro proprio il comportamento di questi nei confronti dei loro stessi cittadini?
Al contempo, in Europa vi sono elementi, come quelli che per l'ennesima volta hanno imbrattato la bandiera a Milano, i quali operano per il boicottaggio d'Israele e di tutto ciò che lo riguarda, partendo dalla cultura, passando per l'Expo, e fino ai suoi prodotti. Contrariamente a quanto da loro sostenuto, si tratta di attività finalizzate non a colpire la produzione degli insediamenti, ma a stigmatizzare e delegittimare la stessa esistenza dell'unico Stato ebraico al mondo. Stride particolarmente nel momento in cui l'Ue coopera e promuove la decisione di etichettare i prodotti degli insediamenti, unico caso di etichettatura di prodotti su base politica. Non lo ha fatto in nessun altro territorio oggetto di contenziosi: non a Cipro Nord, né in Crimea, né nel Sahara occidentale. La mia famiglia è già stata marchiata una volta in Europa, ed era con una Stella di Davide gialla.
Per chi ha a cuore l'Europa, non è solo stridente, ma è persino molto triste vedere che l'Europa non trovi l'onestà e le forze necessarie per affrontare i problemi che la minacciano veramente.
(La Stampa, 22 settembre 2015)
LEuropa pagherà. Come ha pagato la Germania che ieri ha seguito lantisemita Adolf Hitler, così pagherà lEuropa che oggi segue gli antisemiti burocrati di Bruxelles. Lo spauracchio dellinvasione dei migranti è solo linizio. M.C.
Islamizzare Yale
La Casa reale saudita si compra una cattedra di sharia nell'ateneo più prestigioso d'America. Yale aveva eliminato il suo centro sull'antisemitismo sotto pressioni arabe. Ora arriva il fondo saudita.
di Giulio Meotti
ROMA - Se fosse vivo, William F. Buckley, capostipite dei conservatori americani, forse deciderebbe di cambiare il titolo al suo capolavoro in "Allah and Man at Yale". "God and Man at Yale" era, infatti, il libro del 1951 in cui Buckley demoliva il relativismo imperante nell'ateneo che sorge dal 1701 a New Haven, in Connecticut, e che si contende il titolo di più importante università d'America assieme a Harvard. E' notizia, appresa direttamente dal portale di Yale, che il regno dell'Arabia Saudita ha donato dieci milioni di dollari all'università americana per crearvi un Centro per gli studi della sharia, la legge islamica. Veicolo del fondo il Dallah al Baraka Group, che finanzia così l'Abdullah S. Kamel Center for the Study of Islamic Law and Civilization. "La straordinaria generosità di Kamel aprirà nuove interessanti opportunità per la Yale Law School e per tutto l'ateneo", ha detto entusiasta il preside di Yale Peter Salovey. Come riporta il quotidiano Christian Science Monitor, il Dallah al Baraka Group di Kamel è stato sotto inchiesta da parte dell'Amministrazione americana per finanziamenti al terrorismo di al Qaida. Duro il commento dell'Huffington Post: "L'uomo che ha dato a Yale dieci milioni di dollari proviene dal paese più totalitario sulla terra, secondo forse solo alla Corea del nord. Le donne vivono sotto uno stato di apartheid. L'ideologia wahabita criminalizza il dissenso prima che possa anche germinare nelle coscienze. La legge non è suprema; la Casa di Saud lo è. Lo scopo della leg- (segue dalla prima pagina)
Le parole del preside di Yale hanno scarso peso specifico. Nei fatti, un regime odioso e oscurantista sta ipotecando anche la libertà accademica americana. I wahabiti, i custodi dell'islam in Arabia Saudita, hanno già finanziato cattedre di islamistica a Harvard, Georgetown, Columbia, Rice University, Arkansas e Berkeley, ovvero nei maggiori centri accademici americani. Stephen Schwartz, direttore del Centro per il pluralismo islamico, ha presentato un'indagine a cura del Middle East Forum su questi finanziamenti sauditi. Cento miliardi di dollari per diffondere in tutto il mondo le virtù del wahabismo è quanto sborsato finora da Riad. E' più del doppio di quanto spese l'Unione sovietica durante la Guerra fredda per le operazioni di propaganda. Tutto legale, ovviamente. Ai sensi del titolo sesto dell'Higher Education Act del 1965, un programma del ministero dell'Istruzione di Washington che garantisce fondi alle università che "istituiscono centri di studio internazionale". Legale, ma non lecito. L'accademica e femminista Phyllis Chessler ha scritto sul New York Post: "La palestinizzazione e la stalinizzazione dell'accademia americana, assieme alla prospettiva di un finanziamento dal mondo arabo, hanno reso questo risultato inevitabile a Yale". Enfatico ma pregnante.
Yale aveva il primo Centro studi dell'antisemitismo. Tre anni fa chiuse per ordine dell'università, complice la pressione dei palestinesi negli Stati Uniti e le laute donazioni dei paesi arabi. Alex Joffe in un articolo dal titolo "Antisemitism and Man at Yale" (che riprende il celebre saggio di Buckley) ha scritto che "Yale ha cercato il sostegno di ricchi benefattori del mondo arabo. In particolare ha corteggiato il principe saudita Alwaleed bin Talal". Yale era già finita nelle polemiche per la decisione dell'edizione universitaria di autocensurarsi sulla questione delle vignette danesi. E anche allora si parlò apertamente di interferenze arabe. La casa editrice del famoso ateneo americano aveva pubblicato un libro sulle "Vignette che hanno scosso il mondo", ma senza le vignette che nel 2006 provocarono sommosse con oltre duecento morti in medio oriente e in Asia. Per paura di "offendere l'islam".
Gli studenti del Jackson Center for Global Affairs di Yale sono stati portati dai loro docenti a incontrare l'allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad quando era in visita a New York all'Onu (in quell'occasione il leader iraniano negò nuovamente la Shoah). Secondo molti osservatori, la pressione a chiudere l'istituto sull'antisemitismo è arrivata dai donatori della Lega araba. Poco prima era stata registrata l'ultima donazione islamica a Yale da parte del Bahrein, per una entità di mezzo milione di dollari. Ci sono diciassette centri di studi mediorientali negli Stati Uniti e quasi tutti ospitano studiosi antioccidentali. E come è noto, questi "centri per la diversità culturale attraverso il dialogo" sono da anni bastioni dell'islam più fondamentalista. Il centro di Georgetown per il dialogo islamico-cristiano ad esempio ha ospitato oratori legati a Hamas e al Qaida. Una celebre inchiesta del settimanale Weekly Standard si è chiesta senza tanti giri di parole: "Yale è stata messa in vendita?". Adesso si scopre che il prezzo per una cattedra antitetica a ogni valore rappresentato e inculcato da Yale costa esattamente dieci milioni di dollari.
(Il Foglio, 22 settembre 2015)
Israele si blinda per Yom Kippur, rafforzata sicurezza
GERUSALEMME - Israele si blinda in vista della festivita' ebraica dello Yom Kippur, seguita dalla ricorrenza islamica dell'Eid al-Adha. Gli appuntamenti arrivano mentre la tensione e' ancora alta dopo gli scontri a Gerusalemme. Dalla mezzanotte di martedi', per 24 ore, verra' imposto un blocco generale ai movimenti verso Israele dalla Cisgiordania e ai valichi con Gaza. Una misura tradizionalmente applicata che restera' in vigore "in accordo con la valutazione della situazione", hanno fatto sapere le autorita' militari, come riferisce la stampa locale. Sono migliaia gli ebrei attesi al Muro del Pianto in occasione dello Yom Kippur, solenne ricorrenza religiosa che celebra il giorno dell'espiazione. Check point e restrizioni alla circolazione delle auto intorno alla Citta' Vecchia entreranno in vigore gia' da stasera. Per i musulmani, invece, la festa comincera' mercoledi' sera e continuera' fino a domenica. In quei giorni, l'accesso alla Spianata delle Moschee sara' concesso sono ai fedeli islamici.
La settimana scorsa, in coincidenza con la festa di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, si sono registrati giorni di altissima tensione sulla Spianata delle Moschee, epicentro di violenti scontri tra soldati israeliani e giovani palestinesi, con lancio di pietre e molotov ai quali i militari hanno risposto con lacrimogeni, granate assordanti e una raffica di arresti. A far scoppiare la scintilla, l'aumento di visite di ebrei nel luogo sacro musulmano, per i palestinesi preludio a un cambiamento nello status quo. A nulla sono valse le assicurazioni di Israele sul mantenimento della situazione attuale, con la gestione affidata alla fondazione islamica Wafq. I fedeli ebrei possono accedere alla Spianata delle Moschee ma non possono pregare, nonostante le ripetute richieste e provocazioni che arrivano dai movimenti ultraortodossi.
(AGI, 21 settembre 2015)
Siria: Putin rassicura Netanyahu, Assad non ha intenzione di aprire un fronte con Israele
Ma Gerusalemme teme il ruolo di Teheran.
GERUSALEMME - La visita in corso a Mosca del premier israeliano Benjamin Netanyahu rafforza il ruolo della Russia rispetto agli sforzi per mantenere la stabilità nel Medio Oriente. Annunciato la scorsa settimana, il viaggio di Netanyahu giunge dopo una serie di silenzi anomali da parte dello Stato di Israele rispetto alla crescita di attività russe in territorio siriano. Secondo quanto emerge dalla prime indiscrezione pubblicate sui quotidiani israeliani e russi, nel colloquio Netanyahu e Putin avrebbero affrontato gli scenari presenti e futuri della "complicata situazione siriana". La situazione sul terreno preoccupa il governo israeliano timoroso che un ulteriore afflusso di armamenti provenienti dalla Russia rafforzerebbe il movimento sciita Hezbollah nella sua lotta contro lo Stato di Israele.
In una nota diffusa dalla presidenza del Consiglio dei ministri israeliano, Putin ha sottolineato che ad oggi l'esercito siriano non è in grado di aprire un ulteriore fronte, soprattutto con Israele, precisando che l'obiettivo principale di Mosca in Siria riguarda anzitutto la difesa del paese. Le dichiarazioni del presidente russo sono state confermate dall'agenzia di stampa "Tass", secondo cui il capo dello stato ha condannato con forza i bombardamenti da parte delle milizie sciite contro Israele, assicurando che nessuno degli armamenti consegnati è stato utilizzato da Hezbollah per compiere tali attacchi, ma solo sistemi missilistici improvvisati. Il leader russo ha sottolineato di comprendere le preoccupazioni della leadership israeliana, assicurando che la "politica di Mosca in Medio Oriente sarà sempre responsabile". Putin ha ricordato che la Russia è consapevole della grande quantità di immigrati provenienti dall'ex Unione sovietica che vivono in Israele. "Ciò ha un significato speciale nelle relazioni israelo-russe", ha detto il responsabile del Cremlino.
Già alla vigilia della sua partenza, Netanyahu aveva rivelato come la sua visita a Mosca fosse legata al deteriorarsi della situazione in Medio Oriente, tesi ripetuta nel colloquio con Putin. "Israele e Russia hanno interessi comuni" nel portare la stabilità nell'area, ha detto il premier israeliano, che ha precisato: "Sono qui a causa della difficile situazione della sicurezza che sta diventando sempre più complicata". Il capo del governo dello Stato di Israele ha subito fatto notare al presidente Putin le attività attuate sia dal governo di Damasco che da Teheran che da anni finanziano e armano un gruppo terrorista islamico radicale con armi moderne mirate contro il paese. "Nel corso degli ultimi anni, migliaia di razzi sono stati utilizzati contro i residenti di Israele", ha detto Netanyahu. Sottolineando che "in queste condizioni" è stato importante giungere in Russia per spiegare le posizioni di Israele e fare il possibile affinché non vi siano incomprensioni fra Mosca e Gerusalemme.
Il primo ministro israeliano ha inoltre fatto notare a Putin il ruolo aggressivo dell'Iran, che sotto la copertura dell'esercito siriano sta cercando di costruire un secondo fronte terrorista contro Israele nelle alture del Golan, precisando che ad oggi la politica di Gerusalemme è tesa a impedire il trasferimento di armi avanzate ad Hezbollah, anzitutto per prevenire l'apertura di un nuovo fronte di guerra. "Il dialogo fra di noi è sempre stato nello spirito di rispetto reciproco anche quando ci siamo trovati su posizioni contrapposte. Sono fiducioso che continuerà in questo modo", ha aggiunto Netanyahu secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano "Haaretz".
Secondo gli analisti del quotidiano israeliano "Jerusalem Post", la visita a Mosca ha un'importanza sostanziale per le future mosse di Israele nel quadro delle sue strategie militari e di sicurezza. Infatti non a caso insieme al premier israeliano sono giunti a Mosca anche il capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, il generale Gadi Eisenkot, e il capo dei servizi segreti militari, Herzl Halevi. La partecipazione dei massimi vertici militari israeliani ai viaggi internazionali del primo ministro - sottolinea il quotidiano - rappresenta un evento assai raro. La preoccupazione con cui il governo osserva i nuovi sviluppi in Siria, a partire dal coinvolgimento delle truppe russe, che paiono pronte ad assumere un impegno militare diretto contro lo Stato islamico, si riflette nella decisione di Netanyahu di convocare sia Eisenkot, sia Halevi a partecipare al viaggio a Mosca, il primo dei due funzionari militari in Russia.
Tuttavia la presenza al fianco di Netanyahu di Eisenkot e Halevi riguarderebbe non solo le preoccupazioni relative al rischio di un rafforzamento di Hezbollah, ma soprattutto al ruolo dell'Iran nel piano strategico ordito da Mosca per riportare ufficialmente la stabilità in Siria. In meno di una settimana due importanti funzionari di Teheran sono volati a Mosca per discutere questioni relativi alla situazione nella regione. Oggi, proprio in concomitanza con il viaggio del premier israeliano, il viceministro degli Esteri iraniano Amir Abdollahian è volato nella capitale russa per discutere con l'omologo russo, Mikhail Bogdanov, le crisi in corso in Siria, Yemen e le recenti violenze avvenute in Israele e Cisgiordania dopo il raid dell'esercito israeliano nella Moschea di al Aqsa.
La visita di Abdollahian giunge dopo quella del generale Yahya Rahim Safavi, consigliere militare della guida suprema iraniana dell'ayatollah Ali Khaemenei. Intervistato dai quotidiani iraniani ha sottolineato che Teheran appoggia la proposta della Russia di formare una coalizione internazionale in Siria contro lo Stato islamico. Secondo i media iraniani, Safavi avrebbe incontrato il consigliere per la sicurezza nazionale del Cremlino, Nikolai Patrushev, che a inizio settembre aveva ricevuto il comandante delle forze al Quds, dei Guardiani della rivoluzione, Qassem Soleimani.
Secondo gli analisti israeliani, il governo starebbe tentando di comprendere come gestire il potenziale allargamento del conflitto siriano cercando un accordo con Mosca, che implicitamente avrebbe lo scopo di dissuadere sia l'esercito di Bashar al Assad, sia Hezbollah che l'Iran dal compiere azioni ostili contro Israele. Fra le opzioni proposte da Mosca vi sarebbe un mega investimento da parte di Mosca nel quadro dello sviluppo del giacimento di gas Leviathan che prevede inoltre la costruzione di un gasdotto in Turchia per l'esportazione del gas verso l'Europa e secondo gli analisti israeliani, Mosca è pienamente consapevole che parte del giacimento è situato all'interno delle acque territoriali del Libano ed è quindi vulnerabile ad azioni di sabotaggio da parte di Iran, Siria o dei miliziani di Hezbollah sia attraverso attacchi con milizie che con missili.
Un investimento multimiliardario russo nell'area, garantirebbe la piena sicurezza che né la Siria né Hezbollah attaccheranno le infrastrutture di Israele. Al momento, data l'escalation in corso e soprattutto i timori che una entrata in gioco della Russia possano limitare le azioni mirate in Siria dell'esercito israeliano, non è ancora chiaro se tale scenario potrà essere realizzabile in futuro. Per gli analisti, tuttavia, il governo Netanyahu è attualmente sotto pressione sia per quanto riguarda la sicurezza dei suoi giacimenti, sia per l'integrità dei suoi confini terrestri e non a caso si è recato a Mosca con i più alti funzionari militari proprio per creare un meccanismo di coordinamento fra i due paesi a livello militare ed evitare incidenti fra esercito israeliano e militari russi.
Come nota il sito legato all'intelligence israeliana "Debka File", vicino alle posizioni dei partiti più conservatori, la situazione sul terreno siriano sta subendo una netta evoluzione rispetto ai primi rapporti raccolti dalle agenzie statunitensi e in parte diffusi dai media occidentali. Infatti lo scorso 19 settembre le forze di sicurezza israeliane avrebbero notato che il personale militare russo operativo nella base nella periferia della città costiera siriana di Latakia, starebbe preparando rampe di lancio molto simili a quelle utilizzate per il sistema anti-aereo S-300 invece che gli SA-22, noti come Pantsir-S1, individuati in un primo momento dall'intelligence statunitense. L'impiego di batterie anti aeree S-300, se confermata, segno di una strategia più ampia da parte di Mosca, soprattutto se si considera che lo Stato islamico non possiede un'aviazione.
La presenza di sistemi anti-aerei è stata segnalata anche dalle indiscrezioni dell'intelligence statunitense pubblicate dai media occidentali, che però si sono maggiormente concentrati sui movimenti di personale militare sul terreno, sostenendo che nei prossimi giorni Mosca potrebbe dispiegare dai 1.000 ai 1.500 fra militari e istruttori, oltre a diversi mezzi blindati, di artiglieria e piazzole per l'atterraggio e il decollo di elicotteri. A ciò si è aggiunto lo scorso 18 settembre l'arrivo di quattro velivoli da guerra multiruolo Sukhoi 30. I caccia sono giunti in Siria poche ore dopo il colloqui fra il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Ashton Carter, e il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu nel quadro di una possibile collaborazione sul piano militare proposta da Mosca per combattere lo Stato islamico.
(Agenzia Nova, 21 settembre 2015)
Studiare in Israele: l'esperienza di Alon e Valentina
Con il mese di settembre saranno migliaia i ragazzi che inizieranno gli studi accademici in Israele. Tra questi studenti ci sono anche italiani della comunità ebraica romana. Ho incontrato a Tel Aviv Alon Guetta e Valentina Calò che frequentano la facoltà di Business administration and finance, all'IDC di Herzliya, per conoscere la loro esperienza di studenti universitari in Israele.
- Perché avete deciso di studiare in Israele?
"Da due anni - spiega Alon - vivo in Israele: il primo ho studiato allo Yeshivat Hakotel e mi è piaciuto molto, e allora ho deciso di rimanere e dopo un anno ho iniziato i miei studi all'IDC".
Diversa l'esperienza di Valentina: "Dopo il liceo avevo voglia di studiare fuori dall'Italia. Per me Israele è un posto meraviglioso e il primo anno mi sono preparata nell'ambito di un programma pre-universitario a Tel Aviv; in seguito ho deciso di frequentare un corso in inglese all'IDC dove studierò per due anni".
- Com'è la vita studentesca in Israele?
""Mi piace molto - spiega Valentina. - Ho un buon rapporto con gli altri amici che ho incontrato già dal primo anno, e inoltre ci sono anche amici italiani con cui sto insieme durante i venerdì e gli Shabbat". "La vita a Tel Aviv è divertente - sottolinea Alon - i tuoi amici diventano qui le persone più vicine, facciamo Shabbat insieme, ci sono molti eventi culturali e viaggiamo insieme anche in Israele".
Lasciare l'Italia per proseguire gli studi in Israele è una scelta personale ma che ha forti ricadute anche nel nucleo familiare. "I miei genitori - spiega Valentina - hanno capito che ero decisa a voler studiare in Israele e mi hanno lasciata libera di scegliere per il mio futuro. Qualche volta per me è difficile perché ho una sorella di sette anni e lei mi manca molto, e mi manca anche mio fratello, anche lui lontano perché studia a Milano. Sulla stessa sintonia le parole di Alon: "So che per una madre non è facile quando un figlio vive lontano, ma alla fine ho pensato che prima di tutto devi fare la cosa che è giusta per te e quindi ho fatto la mia scelta e sono venuto in Israele.
- Perché studiare proprio all'IDC?
""Perché - spiegano insieme Alon e Valentina - essendo una piccola università gli studenti vengono seguiti con cura, e si crea un rapporto personale molto stretto sia con i docenti che con gli altri studenti che rimane anche dopo la laurea.
Inoltre, ci sono tante Aziende collegate direttamente all'IDC che offrono molte opportunità di lavoro. Oltre a questo c'è di positivo il fatto che per ogni 10 studenti è previsto un consigliere che ci aiuta nelle pratiche burocratiche o si occupa ad esempio di risolvere vari problemi domestici, E questo è molto importante perché arriviamo dall'estero e non conosciamo le procedure locali.
- E dopo la laurea?
"Per Valentina non vi sono dubbi: "Mi interessa rimanere in Israele ma ancora non ho deciso se iniziare a studiare direttamente per la seconda laurea o invece lavorare due anni e dopo riprendere gli studi.
Alon è più incerto: "Non lo so ancora, prima prendo la mia laurea e dopo vediamo".
(Shalom, settembre 2015)
Dal 25 al 27 settembre si terrà a Torino l'annuale convegno di Chiamata di Mezzanotte.
TEMI
Norbert Lieth: Gli eventi e Israele dicono Maranatha, Gesù viene presto!
Marcello Cicchese: Impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati. Gli uomini nel tempo della fine
PROGRAMMA
Venerdi 25 settembre ore 18,00 1a conferenza con programma musicale
Sabato 26 settembre ore 17.30 2a confernza con programma musicale
Domenica 27 settembre ore 10,00 Lode e adorazione
SALA CONFERENZE
Pacific Hotel "Il Fortino", Strada del Fortino, 36, 10152 Torino
Costo per chi pernotta in hotel 2 notti B/B € 80.00
L'ingresso e la partecipazione alle conferenze senza pernottamento è libero e gratuito
Locandina
(Chiamata di Mezzanotte, settembre 2015)
|
Colpita l'ambasciata russa in Siria. Mosca si dichiara pronta a reagire
L'attacco al territorio russo a Damasco nel giorno in cui il primo ministro israeliano Netanyahu era a Mosca.
"Per l'ultimo anno e mezzo abbiamo detto che Assad se ne doveva andare, ma le modalità e le tempistiche devono essere decise nel contesto del processo di negoziazione di Ginevra". Questo aveva dichiarato il segretario di stato americano Kerry sabato scorso a Londra, lasciando presagire una visione più conciliante verso la Siria dopo che Russia e Iran hanno ampiamente dimostrato di voler difendere fino alla fine il governo del presidente Assad.
Ma oggi la situazione in Siria sembra volgere verso un nuovo inasprimento della situazione: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha svolto il suo viaggio programmato a Mosca per discutere di come le forze russe e israeliane possono evitare un confronto "accidentale" nei cieli sopra la Siria. Naturalmente la prima preoccupazione di Netanyahu è che le armi sofisticate russe non arrivino nelle mani degli Hezbollah. Reuters riporta come: "Un rapido accumulo di armi russe in Siria comprendono aerei da combattimento e sistemi antiaerei preoccupano Israele, i cui jet hanno a volte bombardato il paese arabo vicino per impedire il transito di armi avanzate di Assad agli alleati guerriglieri libanesi Hezbollah".
Israele è anche preoccupato del fatto che l'hardware militare russo possa finire in Libano e un giorno essere rivolta contro lo Stato ebraico. "La nostra politica è quella di fare di tutto per fermare che le armi vengano inviati a Hezbollah", ha detto Netanyahu.
E, scrive Zero Hedge, Netanyahu è ben consapevole del fatto che Teheran ha ora l'obiettivo dichiarato di fare della Russia un membro de facto del suo asse di potere esistente che include Siria e Libano e, in ultima analisi, comprenderà l'Iraq dato il controllo dell'Iran delle milizie sciite e l'influenza negli ambienti politici di Baghdad.
Un ex consigliere di Netanyahu ha detto che Israele teme che il rafforzamento della Russia nel conflitto in Siria, potrebbe creare un asse efficace tra i suoi nemici di lunga data, Hezbollah e l'Iran, con Mosca.
E a proposito di armi russe, ecco cosa i funzionari Usa hanno confermato sia arrivato in Siria fin d'ora: 28 aerei da combattimento di cui 12 Su-25s, 12 Su-24s & 4 Flankers (Su-27s o Su-30s), fino a 20 elicotteri d'attacco Mi-24 Hind e Mi-15 elicotteri di trasporto anca, e fino a 9 serbatoi.
Nel frattempo, il Pentagono dice che anche la Russia ha iniziato i voli di droni.
In questo quadro di tensioni, l'ambasciata russa a Damasco è stato oggetto di colpi di mortaio oggi. Lo ha riferito il ministero degli Esteri russo lunedì, definendolo un "attacco criminale" sulla missione diplomatica russa.
"Alle 09:00 il 20 settembre, un colpo di mortaio ha colpito il territorio dell'ambasciata russa a Damasco. Condanniamo l'attacco criminale sulla rappresentanza diplomatica russa". Pochi minuti fa poi AFP riportava questa agenzia. "La Russia invita all'azione dopo che colpi di mortaio hanno colpito l'ambasciata a Damasco".
(L'Antidiplomatico, 21 settembre 2015)
SodaStream offre lavoro a mille profughi in Israele
FIRENZE - SodaStream insieme a Talal Al-Krenawi, sindaco della città beduina di Rahat nel sud di Israele, hanno annunciato uno sforzo congiunto (al momento in attesa di approvazione dalle autorità di tel Aviv) per offrire asilo immediato ai rifugiati siriani, oltre a un posto di lavoro presso la vicina sede centrale dell'azienda, in provincia di treviso. Secondo tale impegno comune, SodaStream e Rahat accoglieranno 1000 persone, circa 200 famiglie, offrendo ai nuovi arrivati la concreta opportunità di ricostruirsi una vita in Israele.
Un flusso costante di migranti dalla Siria - terra martoriata dalla Guerra - è oggi lo scenario di una delle crisi umanitarie più gravi dalla Seconda guerra mondiale. Gli sforzi di Daniel Birnbaum, ceo di Sodastream, e Al-Krenawi sono parte di quella che viene considerata come un forte e chiaro invito all'azione rivolto ai principali leader locali e alla comunità economica globale per poter accogliere e fornire assistenza ai richiedenti asilo.
"Come figlio di un sopravvissuto dell'Olocausto, mi rifiuto di stare immobile a guardare questa tragedia umana in atto ai confini siriani - ha ricordato Birnbaum -così come abbiamo sempre fatto il possibile per aiutare i nostri fratelli e sorelle Palestinesi nel versante occidentale, ora è arrivato il tempo per i leader locali di agire verso coloro che hanno bisogno. Non possiamo aspettarci che i nostri politici si facciano carico di tutto l'aiuto richiesto dai rifugiati".
Rahat, al centro dell'iniziativa, è una città di 67.000 residenti e la più grande città beduina al mondo. Attualmente, il 30% dei 1.100 dipendenti della vicina fabbrica SodaStream sono cittadini di Rahat. "Stiamo sperimentando un progressivo stile di vita più urbanizzato a Rahat; in ogni caso, non abbiamo abbandonato le nostre tradizioni tribali - ha commentato Al-Krenawi - la dignità umana e l'ospitalità sono i nostri valori fondamentali e non concederemo indifferenza a chi soffre. In questa prima fase, saremo in grado di ricevere ed accogliere 1000 rifugiati, e successivamente grazie alla collaborazione attuale con SodaStream, ne aiuteremo molti altri. La nostra speranza è che il governo si unisca al nostro sforzo".
(Toscana News 24, 21 settembre 2015)
I rifiuti e la bellezza, una mostra di artisti israeliani in Expo
Feeding, una collettiva curata da Carmit Blumensohn
MILANO - Un piccolo campo di mais sul tetto del padiglione di Israele all'Expo, per esplorare il concetto matematico di campo. Si tratta di The Field, opera di Orly Hummel che fa parte della mostra Feeding, una collettiva di artisti israeliani curata da Carmit Blumensohn che per due settimane sarà aperta al pubblico dell'Esposizione universale. "Ho cercato di parlare di cibo, di rituali e di sostenibilità - ci ha spiegato la curatrice-. A volte queste tre cose procedono insieme, ma altre volte sono molto distanti".
La mostra presenta i video di Sahar Marcus che esplorano, in modi diversi e a volte anche grotteschi, il rapporto tra uomo e natura. Accanto a questi la tavola eccessivamente imbandita di Dina Shenhav, dove però tutto è fatto di spugna, o ancora il video Fresh di Ben Hagari che ha per protagonista un surreale uomo-pianta. Ma forse a colpire di più è il piccolo giardino che Hagar Fletcher ha costruito utilizzando materiali gettati via e spazzatura.
"L'idea di partenza - ci ha detto l'artista - era quella di usare qualcosa che odiamo, qualcosa che è in eccesso: ovunque troviamo borse di plastica e non sappiamo cosa farne. Sono partita dall'idea di prendere qualcosa di veramente brutto e di trasformarlo in qualcosa di diverso. Io ho preso ciò che la gente gettava via e ho cercato di creare qualcosa che fosse, magari non meraviglioso, ma che faccia pensare".
Una riflessione, quella suscitata dalla mostra, che appare del tutto coerente con il progetto complessivo di Israele in Expo. "E' una continuazione del concept del padiglione israeliano - ha concluso la curatrice - è quello che abbiamo cercato di fare assumendo il punto di vista della bellezza".
(askanews, 21 settembre 2015)
L'Unione Europea e le etichette pericolose
L'etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani in Cisgiordania inizierà dal prossimo ottobre. È quanto ha dichiarato nelle scorse ore un alto funzionario dell'Unione europea alla radio dell'esercito israeliano Galei Tsahal. Sarebbe dunque imminente l'entrata in vigore del provvedimento, duramente criticato dal governo di Gerusalemme, che vuole introdurre una differenziazione all'interno del made in Israel, specificando quali prodotti provengono dalle aziende che operano negli insediamenti israeliani presenti nella West Bank. L'iniziativa era stata caldeggiata in una lettera firmata da sedici ministri degli Esteri europei - tra cui quello italiano - e definita come "un passo importante per la piena implementazione della politica dell'Unione Europea in relazione alla difesa della soluzione dei due Stati". Secondo i diplomatici europei - appoggiati dalla risoluzione approvata lo scorso 11 settembre a larga maggioranza dal Parlamento europeo - la proposta delle etichette sarebbe dovuto alla "continua espansione di insediamenti israeliani illegali nei Territori occupati palestinesi (secondo la definizione usata nella lettera) e negli altri territori occupati da Israele dal 1967 che minacciano la prospettiva di un accordo giusto e definitivo". "È semplicemente una distorsione della giustizia e della logica che credo faccia male alla pace; non la promuove", la risposta del Primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo il voto dell'Assemblea di Strasburgo. "Le radici del conflitto non sono i territori, non sono gli insediamenti - aveva ribadito il Premier - Sappiamo cosa è accaduto in passato quando l'Europa ha etichettato i prodotti ebraici". Secondo il ministero degli Esteri israeliano il provvedimento Ue è "discriminatorio e puzza di boicottaggio". "Sotto le sembianze di un procedimento tecnico, si cerca di forzare una soluzione diplomatica, invece di incoraggiare i palestinesi a tornare ai negoziati", la posizione del ministero, espressa dal suo portavoce, "L'Europa tratta Israele con bigotta ipocrisia, mentre evita di sollevare questioni in altri casi simili come per il Nord di Cipro o per il Sahara occidentale".
Le proteste israeliane però non sembrano aver avuto effetto. Il funzionario Ue intervistato da Galei Tsahal nelle scorse ore ha infatti annunciato l'imminenza dell'applicazione del provvedimento sulle etichettature. Anzi, Bruxelles starebbe valutando ulteriori misure punitive se il governo israeliano dovesse annunciare nuovi piani di costruzioni al di là della Linea Verde a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. "Se dovesse accadere - ha minacciato il funzionario alla radio dell'esercito israeliano - continueremo a prendere provvedimenti contro l'espansione degli insediamenti, l'etichettatura dei prodotti sarà solo l'inizio". Tra le critiche mosse all'iniziativa europea, da Israele sottolineano che favorire attraverso l'etichettatura il boicottaggio delle aziende che lavorano all'interno della West Bank danneggerà anche l'economia palestinese. Sono diversi infatti i lavoratori palestinesi che lavorano per le ditte di cui si vorrebbe di fatto scoraggiare l'acquisto dei prodotti. In caso di chiusura di queste attività, quegli stessi lavoratori rimarrebbero senza lavoro in una West Bank che conta un tasso di disoccupazione attorno al 20 per cento (secondo la Banca mondiale un palestinese su sei in Cisgiordania nel 2014 era disoccupato).
(moked, 21 settembre 2015)
Putin: agiremo sempre in modo responsabile in Medio Oriente
La politica della Russia in Medio Oriente sarà sempre responsabile: lo ha assicurato il leader del Cremlino Vladimir Putin ricevendo a Mosca il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
"Molte persone dell'ex Unione sovietica vivono nello stato di Israele, e questo ha un impatto speciale sulle nostre relazioni bilaterali, e le azioni della Russia nella regione saranno sempre responsabili", ha dichiarato.
L'Iran, con l'aiuto della Siria, vuole creare un secondo fronte terroristico sulle alture del Golan, ha detto da parte sua il premier israeliano Benjamin Netanyahu all'inizio del suo incontro con Putin.
"Sono qui per la difficile situazione nel campo della sicurezza, essa sta diventando sempre più complicata", ha spiegato Netanyahu. "Israele e la Russa hanno interessi comuni, assicurare la stabilità nel Medio oriente", ha sottolineato prima di chiarire l'obiettivo del suo viaggio.
Il leader del Cremlino, dal canto suo, si è detto convinto che la Siria non intende aprire un secondo fronte e che per essa è più importante conservare la statalità.
(swissinfo.ch, 21 settembre 2015)
I nostri alleati dell'asse del male (minore)
di Pierluigi Battista
I decapitatori del Califfato sono i nemici dell'umanità, il principale pericolo del mondo, i barbari alle porte? Sì. L'America è assente, lontana, incerta, titubante, impotente, senza un'idea nemmeno vaga di che fare in Siria e in Iraq? SII. L'Europa è, come al solito, sonnacchiosa e inesistente, una nullità politica? SII. Dunque, sommati tutti i sì, prepariamoci al giubilo di una coalition of the willing che in difesa di Assad, un macellaio che in questi anni ha massacrato oltre 200 mila siriani, civili, bambini, non certo i tagliagole dell'Isis, schiererà dittatori e fanatici religiosi, aguzzini e antisemiti. Inchiniamoci realisticamente all'asse del «male minore». Nel suo splendido La Repubblica dell'Immaginazione (Adelphi) la scrittrice iraniana in esilio Azar Nafisi parla di un suo connazionale che per amore dei libri è stato frustato a Teheran, fino allo stremo.
Ecco, gli energumeni della frusta saranno i nostri difensori contro i sanguinari sunniti dell'Isis. Grazie mister Obama. Grazie Frau Merkel. Grazie presidente Renzi, per aver detto che mai e poi mai l'Italia si assumerà la responsabilità dei raid. Facciamo fare ai signori della frusta e della lapidazione.
Affideremo le nostre sorti a Putin, che sa bene come trattare con la mano dura gli oppositori e i dissidenti e mangiarsi impunito la Crimea mentre il mondo assiste paralizzato all'invasione di uno Stato indipendente come l'Ucraina: siamo stati capaci di fare la faccia feroce solo quando Saddam invase il Kuwait nel iggo, con i deboli è più semplice diventare i paladini dell'ordine internazionale.
Affideremo le nostre sorti agli ayatollah di Teheran che, tra un convegno negazionista e una vignetta irridente sulle vittime di Auschwitz, daranno una mano ad Assad mentre potranno continuare a costruire la bomba per distruggere Israele, sia pur a ritmi rallentati.
Affideremo le nostri sorti ad Hamas, quelli che il leader laburista Corbyn ha chiamato our friends e intanto potremmo ammirare su Youtube le esecuzioni in massa, sulla pubblica piazza di Gaza, dei cosiddetti «collaborazionisti».
Ci affideremo a Hezbollah, ancora una volta our friends, che daranno una mano ai pasdaran che daranno una mano ai russi che daranno una mano ad Assad. Stiamo dalla parte loro. Ci tiriamo fuori. Andremo al cinema a vedere Schindler's List per commuoverci sugli ebrei uccisi tanto tempo fa, non su quelli che dovrebbero essere uccisi dai nostri alleati Hamas, Hezbollah e pasdaran. L'asse del male (minore). L'asse dell'ipocrisia.
(Corriere della Sera, 21 settembre 2015)
Sole Luna Film Fest a Treviso: vince l'israeliano "Almost friends"
Menzioni speciali anche per l'italiano "Terra di transito" e "La verdad bajo la terra". Lucia Gotti Venturato: "Entusiasta della risposta cittadina".
TREVISO - Cala il sipario sulla seconda edizione del Sole Luna Treviso Doc Film Festival, la manifestazione che per il secondo anno consecutivo ha portato nel capoluogo veneto documentari provenienti da ogni parte del Mondo, sapendo coinvolgere e appassionare i numerosi spettatori presenti durante tutte le serate della manifestazione. Domenica sera all'isola della pescheria si è svolta la cerimonia di chiusura in cui sono stati eletti i vincitori del festival. Quattro i premi assegnati dalle altrettante giurie votanti. Gli studenti del Liceo Artistico di Treviso, coordinati dal prof. Guido Marchesini, hanno assegnato il premio per il Miglior Cortometraggio al film: "We are become death" che affronta tematiche interessanti ed è sviluppato in modo completo e suggestivo, come scritto nella motivazione ufficiale. La giuria di musicisti ed esperti di musica composta da Giovanni Schievano, Simone Chivilò, Stefano Trevisi, Bob Benozzo, Silvia Gorgi ha assegnato il Premio "Soundrivemotion" per la Miglior Colonna Sonora al film "The silent Chaos", migliore colonna sonora sia per l'originalità della musica, che per l'importanza e la contestualizzazione del sound in generale e in cui il rapporto suono e assenza di esso, viene esplorato come nuova forma di linguaggio, si legge nel verdetto dei giurati. Il premio del pubblico è invece andato all'applauditissimo "A Mother's Dream - Ma na sapna", mentre la giuria composta da Tobia Scarpa, Cristina Cason, Roberto Cortellazzo Wiel, Paola Di Giuseppe, Nicola Tognana; chiamata ad assegnare il Premio Città di Treviso al Miglior Lungometraggio ha proclamato vincitore assoluto del festival il film israeliano "Almost Friends", apologo triste su una educazione al razzismo da parte degli adulti esorcizzato dalla speranza che un mondo diverso sarà possibile se rieducato dal cuore dei bambini, si legge nel verdetto della giuria. Menzioni speciali infine sono state assegnate all'italiano "Terra di transito" e a "La verdad bajo la terra" sul genocidio delle popolazioni indigene del Guatemala.
La serata di chiusura è poi proseguita con la presentazione del documentario realizzato nel corso del workshop "Uno sguardo sulla realtà", diretto da Alessandro Rossetto, intitolato: "Teatro delle voci, studio per un film", realizzato dai partecipanti Leonardo Bortoli, Pierre Girardi, Luca Del Zio, Isacco Maicon Nenzi, Davor Maricovich e Luciano Trinca. Nel corso della serata sono stati presentati anche i video-lavori realizzati nell'ambito del contest Smartdoc Sharing Food, un'iniziativa nata con lo scopo di promuovere la condivisione del cibo attraverso l'utilizzo dei social media. La serata si è poi conclusa con il coinvolgente spettacolo musicale di Ambrogio Sparagna e con le proiezioni sotto le stelle dei film premiati dalle giurie. Gabriella D'Agostino, direttore scientifico del Festival, ha voluto sottolineare la scelta vincente di "legare idealmente il sud e il nord del nostro paese, Palermo e Treviso, crocevia, nel corso della storia, di passaggi di uomini e cose, luoghi di apertura verso l'esterno, condizioni imprescindibili per un senso dell'accoglienza degno dell'umanità di cui tutti siamo parte insostituibile." Mentre la presidente del festival Lucia Gotti Venturato si è detta entusiasta della risposta della città di Treviso. "Un pubblico, tutte le sere numeroso, puntuale e molto interessato ai temi scelti dal comitato scientifico. Ogni giorno circa 500 persone hanno partecipato alle attività svolte: proiezione di documentari, istallazione video, mostre, performance in piazza, forum, convegno e concerti. Un vero successo che speriamo di ripetere anche nelle prossime edizioni".
(Trevisotoday, 21 settembre 2015)
Israele - La polizia sparerà a chi lancia sassi o molotov
Linea dura del governo Netanyahu dopo gli scontri sulla spianata dele moschee
La tensione
In certi casi e condizioni, al tiro di sassi e molotov la polizia israeliana a Gerusalemme risponderà aprendo il fuoco. Dopo giorni di scontri violenti sulla Spianata delle Moschee e il tiro continuo delle ultime settimane di sassi e bombe incendiarie nei sobborghi arabi della città e in Cisgiordania, il governo del premier Netanyahu ha approvato le misure che lo stesso primo ministro aveva già annunciato. «Le pietre e le bottiglie incendiarie - ha spiegato - sono armi letali: possono uccidere e hanno già ucciso. Per cui negli ultimi giorni abbiamo cambiato gli ordini di apertura del fuoco per gli agenti impegnati a Gerusalemme». Una mossa subito contestata dall'ong araba, Adalah, che ha definito «illegali» le misure, denunciate già duramente dalla dirigenza palestinese nei giorni passati. Ma i passi intrapresi dal governo non si fermano qui: Netanyahu ha detto che sarà accelerata la legislazione «per imporre multe ai parenti dei minori che tirano pietre e bombe incendiarie». Così come una legge che stabilisce «un minimo di pena» per gli autori dei lanci: i media riferiscono di 4-5 anni di carcere per i tiri dei sassi e di 10 anni per le bottiglie incendiarie.
Giudici contrari
Il procuratore generale Yehuda Weinstein non sembra però - secondo quanto riporta Ynet - condividere la linea complessiva di Netanyahu: le leggi attuali così come le regole di ingaggio della polizia sono sufficienti. Un braccio di ferro che dovrebbe essere sciolto nei prossimi giorni. Netanyahu ha poi rigettato l'accusa politica - avanzata dal mondo arabo e da Ramallah - che Israele voglia cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee; anzi - ha detto - «è vincolato al suo mantenimento». Sulle tensioni sulla Spianata ha fatto eco da Amman il re Abdallah che ieri ha incontrato una delegazione di deputati arabi della Knesset. «Lo dirò una volta sola e per tutte - ha sottolineato, citato da Haaretz - non c'è partnership né divisione: Al-Aqsa è un luogo musulmano di culto. Cosa vuole Netanyahu con queste azioni - ha continuato secondo la stessa fonte - Provocare una rottura?». Poi ha annunciato che sulla Spianata avrà un incontro in sede di Assemblea generale dell'Onu con il presidente palestinese Abu Mazen e quello egiziano Abdel-Fattah al-Sisi. La delegazione dei parlamentari arabi della Knesset dalla Giordania proseguirà per Istanbul dove, sullo stesso dossier, dovrebbe incontrare il presidente turco Recep Tayyep Erdogan. R. Es.
(Il Messaggero, 21 settembre 2015)
Oltremare - La spesa
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Pensieri da serata pre-kippur ai fornelli: quando taglio il sedano, in questo caso per fare il brodo del bollito misto, il mio cervello entra in risonanza stagionale e si mette a cantare "Avadim Aiynu" come se fosse Pesach; l'uvetta israeliana (grande come i boccini neri delle bocce di metallo di una volta) mi ricorda gli esploratori che per primi videro la Terra d'Israele e il tralcio di vite smisurato che portarono, e che adesso è il simbolo del Ministero del turismo; i finocchi non si trovano in questa stagione, ci casco tutti gli anni e poi sulla tavola prima del digiuno mi mancano come un pezzetto di casa. Sotto le feste ebraiche, anche qui che non si deve fare equilibrismi con i giorni di vacanza, l'approvvigionamento è il perno di tutta la fine dell'estate. Si pianificano queste settimane tenendosi tempi larghi per fare la spesa, cercare prodotti cui durante l'anno non si penserebbe affatto, e ci si scambiano ricette con pressoché chiunque, di solito sconosciuti emeriti in fila alla cassa del supermercato, dopo che ci si è spiati sfacciatamente i contenuti dei rispettivi carrelli. All'entrata, i ragazzini volontari di "Latet" (dare, nel senso del verbo) hanno messo in mano a tutti il foglio con i prodotti da scegliere e poi mettere negli scatoloni dopo le casse, che andranno a famiglie che non hanno abbastanza con cui riempire i carrelli. E mentre si mettono dentro riso, farina o zucchero e una bottiglia di succo d'uva, ci si accorge che nella lista spicca la Nutella. Non proprio un genere di prima necessità. Ma sotto le feste, fa bene pensare che la crema di nocciole del mio conterraneo Ferrero ha attraversato il mare ed è diventata una delle cose che rendono felici i bambini, e anche gli adulti. Aggiungo ovviamente una Nutella allo scatolone e via a casa a scoprire se quest'anno ho preso il taglio di manzo giusto per il bollito, che non ci ho ancora azzeccato una sola volta finora.
(moked, 21 settembre 2015)
Vi meritare di sentirvi offesi
Persone che desiderano solo visitare il luogo più santo per la loro religione vengono bollate come "estremisti fondamentalisti", e chi le aggredisce viene visto come una vittima giustamente indignata.
Se la vista di un ebreo in preghiera vi offende, allora vi meritate di sentirvi offesi. Se il suono di un ebreo che recita una benedizione sull'acqua, o che recita lo Shemà, o che dice semplicemente "Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla" vi offende, allora vi meritate di sentirvi offesi. Se la vista di bambini ebrei vi spinge a urlargli in faccia e sputargli addosso, allora vi meritate di sentirvi offesi. Se gli ebrei profanano i vostri luoghi sacri col solo fatto di avvicinare ad essi i loro piedi, allora vi meritate di pensare che il vostro luogo santo è "profanato".
Viviamo tempi folli. Persone che desiderano semplicemente visitare e pregare nel luogo più santo per la loro religione vengono bollate come "estremisti fondamentalisti di destra", mentre coloro che usano violenza e intimidazione per impedire loro di farlo vengono considerati degli innocenti i cui diritti sono minacciati ogni volta che un ebreo osa citare un passo del Libro dei Salmi....
(israele.net, 21 settembre 2015)
Netanyahu sugli scontri a Gerusalemme. Chi c'è dietro alle violenze
La giustizia israeliana deve accettare la proposta del governo di applicare misure più severe contro chi lancia pietre o molotov. È quanto a dichiarato il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu, durante la riunione di inizio settimana del suo gabinetto di sicurezza. Il riferimento è alla recente escalation di violenza che ha coinvolto in particolare Gerusalemme, con duri scontri tra manifestanti palestinesi e le forze dell'ordine israeliane e diversi episodi di attacchi a civili (nella vigilia di rosh hashanah il lancio di pietre ha causato la morte del sessantaquattrenne Alexander Levlovitz e il ferimento di altre due persone). "Questa è una norma che deve essere applicata a ogni cittadino di Israele, ogni residente e da ogni giudice - ha affermato Netanyahu parlando del pacchetto di nuovi provvedimenti - Una condanna minima obbligatoria sarà prevista per chi lancia pietre".
Nel mondo arabo le immagini degli scontri nella zona identificata, come il Monte del Tempio dagli ebrei e la Spianata delle Moschee per i musulmani, ha sollevato pesanti critiche e accuse nei confronti di Israele. Sulla questione è intervenuto il Premier Netanyahu dichiarando che il suo governo non ha nessun interesse a modificare lo status quo dell'area e che l'escalation delle ultime settimane è da imputare ai Fratelli musulmani, all'Autorità palestinese e ai movimenti islamisti presenti in Israele. "Chiunque si lamenti dello sviluppo delle ultime vicende non dovrebbe rivolgersi a Israele ma a Ramallah, a Gaza, agli istigatori in Galilea e sfortunatamente anche in Turchia".
Secondo Avi Issacharoff, esperto di questioni mediorientali e analista dei siti Walla e Times Of Israel, l'autorità palestinese ha però cercato di contenere la rabbia dei palestinesi. Secondo quanto riporta Issacharoff, lo scorso venerdì vi sono state diverse manifestazioni palestinesi in Cisgiordania per protestare contro le immagini diffuse rispetto a quanto stava accadendo nella moschea Al Aqsa. Alcune di queste dimostrazioni sono state disperse, anche con l'uso della forza (a Jenin e Betlemme). "L'Autorità palestinese - scrive Issacharoff ha usato la forza bruta contro la sua stessa gente, incluso sparare proiettili veri contro manifestanti armati. Questa determinazione avrebbe dovuto riceve una risposta positiva da parte israeliana. Israele ha però venerdì impedito l'ingresso a Gerusalemme al Primo ministro palestinese Rami Hamdallah, al capo dell'intelligence Majd Faraj e al capo della sicurezza Ziad Habrih". "Un semplice esercizio della propria sovranità da parte di Israele - continua l'analista - Ma che effetto ha su Abbas? Di porlo nella molto scomoda posizione di un leader la cui gente viene arrestata a un checkpoint israeliano mentre cerca di raggiungere il Monte del Tempio".
Netanyahu in queste ore ha invece puntato il dito controllo Ramallah e non solo per quanto accade a Gerusalemme. Secondo il Primo ministro tra chi gli istigatori delle proteste, c'è Salah Aruri, membro di primo piano del movimento terroristico di Hamas, che attualmente si trova in Turchia.
Aruri, scrive Barak Ravid su Haaretz riportando le parole di Netanyahu, avrebbe incoraggiato le persone a portare dispositivi esplosivi all'interno della mosche Al-Aqsa. "Portare esplosivo all'iterno della moschea - ha affermato il Premier israeliano - cambia lo statuts quo. Noi non vogliamo che questo accada e non permetteremo che qualcuno faccia precipitare nella violenza il Monte del Tempio".
(moked, 21 settembre 2015)
Docenti a scuola di teorie pro-gender. Ed è bufera
In una scuola del Testaccio, corso per «educare alle differenze», col patrocinio del Comune di Roma. I genitori protestano.
di Giovanni Masini
|
|
|
Sotto questa immagine presente in rete abbiamo trovato scritto:
La ricerca di identità attraverso la relazione di genere
Il divenire donna o uomo non è un processo lineare. La vicenda tra i sessi, dato che è vicenda di culture e di vite, è educativa. Per questo motivo, una pratica pedagogica sessuata, che offra ascolto e centralità alle parole di giovani donne e uomini, è l'unica che possa offrire possibilità di comprensione di quel che accade e cambia.
Di certo si propone alla scuola di aprire una nuova riflessione su questa tessitura del proprio di sé donna e uomo, che è un lavoro quotidiano. L'immagine di sé nel futuro, il confronto con esperienze, vissuti e relazioni del presente, è il lavoro di crescita che dovrebbe avvenire soprattutto nel luogo educativo.
Eppure, spesso la scuola fa esattamente il contrario: ad esempio, nel momento in cui non pone a critica ruoli e ignora stereotipi sessuali, di fatto li pratica. Invece, dovrebbe offrire a ognuno le risorse per comprendersi, perché ogni donna e ogni uomo apprenda ad accettare e condividere intimamente la propria fragilità.
|
ROMA - Nella fucina degli insegnanti progender: a Roma la due giorni per «educare alle differenze». A fianco della cartina d'Italia, sul muro, alcune locandine colorate con diverse famiglie. Un bimbo, due bimbi, due mamme, due papà. Non è la scuola del futuro, a Roma è già realtà. Sabato e domenica alla scuola Cattaneo,in pienoTestaccio, è andata in scena la due giorni di «Educare alla differenze» - appuntamento irrinunciabile per chi vuole introdurre nelle scuole italiane «un altro genere di informazione»: decisamente gay-friendly e, come va di moda ripetere, «libero da pregiudizi». È la fucina degli insegnanti «pro-gender» (o pro-studi di genere che dir si voglia). Ad organizzare tutto sono tre associazioni vicinissime alla galassia Lgbt, con tanto di patrocinio del Comune di Roma.
Docenti e genitori imparano come combattere il bullismo, ma anche come insegnare ai bimbi a liberarsi dagli «stereotipi di genere»: per la fascia d'età 0-6 anni, le insegnanti ricompongono in modo non convenzionale le fiabe ritagliate su fogli di carta: la principessa libera il principe, mentre la nonna va al ballo con il rospo. Biancaneve ingenua e bellissima ça va sans dire - è un modello nefasto e superato. Altrove si utilizzano giochi da tavolo per riscrivere il vocabolario. Sulle carte del Memory, un maschio e una femmina costruiscono una casa: per distinguere le carte i bimbi sono costretti a dire «il muratore» e «la muratrice». C'è la teoria del gender bread, per cui l'identità sessuale non è mai definita ma sempre in divenire, mentre a proporre un «laboratorio sull'identità sessuale degli adolescenti» è il centro Lgbt bolognese «Cassero», noto per aver organizzato una festa in cui uomini travestiti da Gesù mimavano atti sessuali con una grossa croce. Nell'aula a fianco, il tavolo «fuori programma» ospita «De-generiamo», un laboratorio di «quasi-danza» che vuole riflettere su «identità e stereotipi» esplorando «autoerotismo, post-pornografia, dominazione e sottomissione, bondage e burlesque». Il tutto nella cornice di un evento organizzato da associazioni che si propongono come interlocutrici del Miur al tavolo che dovrà discutere le linee guida per attuare la riforma della Buona scuola laddove (comma 16 legge 107/2015) parla di «educare alla parità tra i sessi, prevenire violenza di genere e discriminazione, informare e sensibilizzare studenti, docenti e genitori».
Il ministro - pardon, ministra - Giannini ha annunciato querele contro chi insinui che la riforma contenga riferimenti al gender. Come regolarsi con queste associazioni: ammetterle o no al tavolo del Miur, farle entrare o no in classe? Le associazioni dei genitori già sono sul piede di guerra e promettono battaglia.
(il Giornale, 21 settembre 2015)
L'Islanda erutta una colata di ottuso antisemitismo
La mite, fredda e lontana Islanda continua ancora a far parlare di se' in questi giorni. Come riportato su Facebook giovedì mattina, il Consiglio comunale di Reykjavik ha approvato una mozione che bandisce dal territorio cittadino tutti i prodotti israeliani. Tutti, senza alcuna esclusione: sia quelli realizzati nei Territori Contesi (al di là della "Linea Verde"), sia quelli prodotti a Tel Aviv, o ad Haifa, o a Gerusalemme. L'obiettivo, neanche tanto velato, è quello di fare del remoto stato artico la prima nazione europea "Israel Free". Immediata la condanna e l'indignazione per questo deprecabile atto, che ricorda un passato che si sperava non tornasse più. Giulio Meotti, sulle colonne de Il Foglio, ha suggerito all'establishment islandese - che mette sullo stesso piano Israele, Siria, Iran, Sudan e Corea del Nord - di «apporre anche una stella di Davide sulla merce»....
(Il Borghesino, 20 settembre 2015)
Vandalizzata la bandiera israeliana
Expo, l'ennesimo danneggiamento in via Dante a Milano, dove sventolano tutti gli stemmi dei Paesi partecipanti.
MILANO - Atto vandalico contro la bandiera di Israele a Milano, in via Dante, luogo in cui sono esposte le bandiere dei Paesi partecipanti a Expo. Lo rende noto in un comunicato il Padiglione Israele.
"A seguito dell'ennesimo atto vandalico alla bandiera di Israele esposta insieme a tutte le 145 bandiere dei paesi partecipanti a Expo in via Dante - si legge nella nota - Padiglione Israele condanna con grande dispiacere e indignazione ogni atteggiamento e azione violenta, lontani dallo spirito internazionale dell'esposizione universale".
"Il successo di Padiglione Israele a Expo - continua la nota -, che nelle ultime settimane ha superato il milione di visitatori, è dovuto anche al messaggio di dialogo e condivisione delle tecnologie e innovazioni in campo agricolo e scientifico".
(Corriere del Ticino, 20 settembre 2015)
Riso, da Israele un'idea per dimezzare il consumo idrico
La tecnica dell'irrigazione a goccia.
di Simona Marchetti
NOVARA - Coltivare riso dimezzando il consumo di acqua: un obiettivo che si potrebbe raggiungere utilizzando la tecnica dell'irrigazione a goccia. Non si sommerge più la risaia ma il terreno è attraversato da un reticolo di tubi di gomma che distribuisce l'acqua a ciascuna pianta, a seconda delle necessità. Questa soluzione, sviluppata per la prima volta in Israele, dove l'acqua è un bene prezioso, da centellinare, è stata al centro di un incontro tecnico tenutosi nei giorni scorsi al Parco tecnologico padano di Lodi sul tema «Uso dell'acqua e sostenibilità delle produzioni risicole: una prospettiva globale».
Le ricerche
Accanto agli aspetti tecnici, è stato possibile anche prendere visione di un campo dimostrativo di un ettaro. Oltre al riso, sono state testate anche le colture di sorgo, mais e soia, oltre che pomodoro, melo, fragola, lupino e luppolo. Durante il convegno si è approfondito il tema dell'uso dell'acqua, mettendo anche a confronto le esperienze di coltivazione in condizioni di sommersione, di semina interrata, di irrigazione a goccia. Sul fronte italiano, il ricercatore dell'Ente nazionale risi Marco Romani ha presentato i dati degli studi decennali condotti dal Centro ricerche di Castello d'Agogna, mentre Bas Bouman, direttore della piattaforma di ricerca «Global Rice Science Partnership» ha ribadito come la più importante sfida per la filiera risicola oggi sia aumentare la quantità di riso prodotta per unità di acqua utilizzata.
(La Stampa, 20 settembre 2015)
Israele non chiuderà lo spazio aereo per le nozze di Bar Refaeli
E' arrivato il contrordine: lo spazio aereo sul lussuoso resort sul Monte Carmelo in Galilea dove il 24 settembre si sposerà la top model Bar Refaeli resterà aperto ai voli.
Dopo una valanga di polemiche in questi giorni - e domenica il quotidiano liberal Haaretz ha pubblicato un editoriale polemico alla vicenda - il ministro dei trasporti Yisrael Katz ha annunciato in mattinata alla Radio militare il cambio di decisione.
"I cieli - ha detto - appartengono a tutti i cittadini israeliani e non possiamo fornire un trattamento speciale a questo evento". La contromossa del ministro è arrivata dopo la scelta dell'Aviazione Civile di avvisare venerdi scorso i piloti e le linee aeree che era stato dichiarato spazio chiuso ai voli quello sovrastante il resort dove sono previste le nozze di Rafaeli con l'uomo d'affari Adi Ezra.
Per l'occasione la supermodella - ex di Leonardo di Caprio - aveva affittato cinque droni, due elicotteri e un pallone aerostatico per la sicurezza.
(blitz quotidiano, 20 settembre 2015)
*
Avevano scritto:
Israele chiude i cieli per le nozze di Bar Refaeli: scoppia la polemica
Gli unici ammessi sono cinque droni, affittati probabilmente per fotografare l'evento, due elicotteri (uno dei quali forse porterà la sposa) e un pallone aerostatico ancorato a terra per garantire la sicurezza.
Il matrimonio di Bar Refaeli - la supermodella ex di Leonardo di Caprio - chiude lo spazio aereo di Israele. Per 9 ore (dalle 17 del 24 settembre alle 2 del 25) la fetta di cielo sopra un resort esclusivo della Foresta del Carmelo in Alta Galilea sarà infatti vietata, per decisione delle autorità, ad ogni transito aereo.
Gli unici ammessi - per una scelta che ha suscitato un vespaio di polemiche in Israele - sono cinque droni, affittati probabilmente per fotografare l'evento, due elicotteri (uno dei quali forse porterà la sposa) e un pallone aerostatico ancorato a terra per garantire la sicurezza di quello che in Israele, e non solo, è considerato il matrimonio dell'anno. La bionda Bar, in passato già sotto tiro dei media per alcune dichiarazioni sul servizio militare che non ha fatto - pur essendo obbligatorio sia per gli uomini sia le per donne in Israele - è finita così di nuovo nell'occhio del ciclone.
La presenza in cielo di un nutrito schieramento aviatorio ha spinto infatti la Direzione dell'aviazione civile a chiudere lo spazio aereo della zona e a diffondere una nota ai piloti - come rivelato dal sito di news Mako - nella quale si avvisa del divieto. Chi viola la disposizione è a rischio di ritiro della licenza di volo. La mossa non è andata giù a molti, a cominciare dai piloti e dagli stessi funzionari pubblici che hanno parlato - riferiscono i media - di "disprezzo per lo spazio aereo israeliano" e di "un abuso per un evento privato di una celebrità".
Inoltre, secondo una delle fonti citate dai media, sullo spicchio di cielo che sovrasta l'hotel esclusivo affittato dalla coppia non ci sono rotte aeree, e quindi a maggior ragione la chiusura è "piuttosto bizzarra": avviene spesso che i piloti siano avvisati di stare alla larga in caso di eventi importanti, ma nessuna chiusura è stata finora imposta. Per questo la stessa fonte ha notato che tutto appare come se i cieli siano terra di nessuno.
Fatto sta che il matrimonio della bionda top model con l'uomo d'affari israeliano Adi Ezra è un evento ghiotto per l'opinione pubblica che da mesi segue i preparativi delle nozze che - ha fatto sapere Refaeli - saranno celebrate nella più stretta ortodossia ebraica. Le foto del suo addio al nubilato, celebrato alle Maldive con un gruppo di amiche, hanno fatto il giro del mondo, così come la foto messa su Instagram del suo abito (bianco) da sposa è stata vista e analizzata in ogni dettaglio.
A rivederlo dal vivo, e soprattutto indosso alla sinuosa Bar, saranno i circa 500 invitati alle nozze ai quali è stato imposto, senza eccezioni di sorta, di non portare con sé apparecchiature fotografiche, di ripresa o di registrazione audio. Ce ne sono già abbastanza in cielo.
(Giornale di Sicilia, 19 settembre 2015)
Betlemme, giovane pestato a sangue dalla polizia palestinese
Un giovane viene afferrato, circondato dai poliziotti e picchiato a calci e a bastonate finchè non cade a terra. Poi viene preso e trascinato via. Un video, pubblicato in Rete, documenta quella che è l'incredibile violenza della polizia palestinese contro un giovane a Betlemme.
È successo venerdì, durante una delle tante rivolte che scoppiano nella zona, popolata da famiglie rivali. Fatah contro Hamas. Quest'ultima ha subito utilizzato queste immagini, che hanno suscitato un mare di reazioni indignate, per attaccare le forze di sicurezza palestinesi. La polizia stava cercando di evitare che i giovani di Hamas venissero in contatto con le forze dell'ordine israeliane.
Dopo che il video è stato diffuso, si è cercata una riconciliazione tra la polizia e la famiglia del giovane picchiato, ma questo non è bastato per contenere la rabbia degli altri militanti di Hamas. Un episodio che dimostra quale sia il livello di tensione della regione.
(Il Messaggero, 19 settembre 2015)
Lo Stato islamico minaccia i musulmani: "Non andate nelle terre degli infedeli"
In dieci video e nei manifesti per le strade la propaganda dell'Isis. "Restate nella Casa dell'Islam, non cadrete nelle trappole dei crociati".
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - «Non andate nelle terre degli infedeli, cadrete nelle trappole dei Crociati: lo Stato Islamico si affida ad una campagna di video postati online per tentare di frenare la fuga di masse di musulmani dalle «terre del nostro Califfato» verso l'Europa. Immagini e messaggi si articolano in proclami letti da miliziani jihadssti - in abiti tribali che evocano Siria, Iraq, Arabia Saudita e Yemen - sull'invito a «restare nella Casa dell'Islam», sovrapposti a frasi del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sugli «inganni degli infedeli», il tutto arricchito da fotografie di profughi disperati sui gommoni nel Mediterraneo e interviste ad abitanti di Raqqa sulla «vita tranquilla e sicura» nella capitale dello Stato Islamico.
I campi dell'abbandono
In un caso Isis sfrutta immagini scattate dalla Marina Militare italiane in cui si vedono barconi di migranti avvicinati da una nostra nave. Nel video diffuso dalla «Provincia di Al Khair», una regione saudita, si vede un jihadista spiegare che «è un dovere di tutti i musulmani vivere nella Casa nell'Islam e abbandonare la terra degli Infedeli» contrapponendo i «campi dell'abbandono» dove i rifugiati «vengono rinchiusi» alla «vita con dignità» possibile nelle strade di Raqqa. Un altro miliziano jihadista spiega che «le ong che aiutano i migranti a raggiunge l'Europa sono parte di una campagna di inganni per la cristianizzazione dei musulmani» sottolineando come «chi muore affogando mentre va dai Crociati non diventa un martire come coloro che cadono combattendo per lo Stato Islamico».
Le azioni proibite
Nel video postato dalla Provincia di Hadramout, in Sud Yemen, il jihadista di Isis approfondisce la motivazione religiosa della condanna dei migranti: «Si rendono colpevoli di Haram», un'azione proibita, perché «il dovere dei musulmani è compiere l'hijra muovendosi dalla Casa della Guerra alla Casa dell'Islam» come fanno i volontari stranieri che scelgono di andare a combattere per il Califfo. «Finirete in Paesi dove è impossibile coprirsi con il velo, nelle mani di trafficanti di uomini, non avrete nè dignità nè sicurezza» aggiunge il video, concludendo che «è meglio restare nello Stato Islamico».
Le paure di curdi e iracheni
Il timore del Califfo dunque è che la migrazione di massa verso l'Europa delegittimi il suo progetto panislamico ma a lanciare appelli contro la fuga di massa sono anche gli acerrimi nemici di Isis. E il caso del partito curdo siriano Ypg che nelle regioni sotto il suo controllo mobilita sindaci e miliziani per impedire ai civili di partire. In un appello pubblico chiede di «non consentire cambi demografici favorendo gli arabi». E nel piccolo centro di Efrin i guerriglieri del Ypg impediscono agli abitanti di uscire dal perimetro urbano, temendone la fuga verso l'Europa.
I partiti curdi in Iraq e Turchia appoggiano questa campagna dell'Ypg e il Consiglio nazione curdo ha organizzato nella provincia siriana di Hasakah manifestazioni di piazza contro «l'esodo dei traditori» nei giorni seguenti alla morte dei piccolo Aylan mentre tentava di raggiungere la Grecia. Anche le «Forze di mobilitazione popolare» irachene sono feroci avversarie di Isis, rappresentando a Baghdad una delle milizie sciite più aggressive, e il messaggio è identico sebbene con motivazioni opposte.
In questo caso la campagna è anzitutto sui social network cavalcando il motto «Non me ne vado» per sostenere che «il nostro dovere di iracheni è liberare la nazione dalle grinfie dei terroristi di Isis» mentre fuggendo «si aiuta il piano del nemico». Anche in questo caso vengono postate le immagini di barconi e naufragi nel Mediterraneo: il fine è sostenere tesi patriottiche come «Siamo nati, viviamo e moriremo per il nostro Iraq» avvalorando il tutto con emblemi del governo di Baghdad, guidato dagli sciiti.
(La Stampa, 19 settembre 2015)
Bambino parla alla tv palestinese: "Farò esplodere gli ebrei"
Alcune immagini, tratte da un programma per l'infanzia della televisione di Hamas a Gaza, hanno avuto rilievo oggi in Israele anche perché includono l'impegno di un bambino di "far esplodere gli ebrei".
Intervistato da una giovane presentatrice di al-Aqsa Tv, il bambino (che indossa una sorta di divisa militare) dice che da grande vuol fare l'ingegnere '"così - spiega - farò esplodere gli ebrei". La conduttrice allora lo corregge: semmai, rileva, dovrebbero essere colpiti "i sionisti, l'occupazione".
Un altro bambino, pure con una divisa di tono militare, preannuncia che da grande entrerà nelle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, allo scopo di "liberare Gerusalemme dagli ebrei".
Il dibattito in studio viene concluso con un'esortazione a "continuare la resistenza contro gli ebrei, a lottare contro la occupazione e a liberare la moschea al Aqsa" di Gerusalemme.
Il sito Times of Israel precisa da parte sua che il programma è andato in onda due settimane fa.
(Corriere del Ticino, 19 settembre 2015)
Gaza senza luce scende in piazza
Contestazioni popolari contro la mancanza di energia elettrica. Gli abitanti dell'enclave palestinese puntano il dito contro l'embargo israeliano e la corruzione e l'incapacità della classe dirigente.Qualunque cosa accada a Gaza, qualunque sia il disagio della popolazione, prima di lamentarsi e dire qualcosa contro i governanti di Hamas bisogna sempre dire qualcosa contro gli israeliani. Perché, come si sa, Israele è allorigine di tutti i guai che affliggono i poveri palestinesi. Così dicono a Gaza. Altrove si dice che sono allorigine di tutti i guai del mondo.
di Rosa Schiano
ROMA - Crescono il disagio e le manifestazioni popolari di dissenso all'interno della Striscia di Gaza a causa delle costanti e prolungate interruzioni di energia elettrica: una condizione di sofferenza che ha spinto centinaia di persone a scendere in piazza per tre giorni consecutivi in protesta contro una crisi energetica aggravata dalle divisioni politiche. Contestazioni che evidenziano la crescente insoddisfazione della popolazione verso la propria classe dirigente.
La situazione è degenerata la settimana scorsa, quando due linee elettriche, di cui una a Jabalia (Striscia di Gaza settentrionale) ed un'altra nell'area centrale, sono state sconnesse per problemi tecnici. Inoltre, fonti locali hanno riportato che la principale linea elettrica dalla rete egiziana è stata interrotta per quattro giorni. Guasti che hanno permesso un rifornimento di energia sufficiente a coprire solo il 30% dei bisogni della popolazione, considerando che l'energia proveniente dall'Egitto, dalla rete israeliana e dall'unica stazione elettrica di Gaza non copre i bisogni dell'intero territorio della Striscia. In questa situazione di emergenza, la maggior parte dei palestinesi di Gaza vive con quattro o sei ore di elettricità al giorno poiché non c'è carburante sufficiente affiché la centrale elettrica di Gaza possa operare. Lo scorso venerdi, il presidente dell' associazione dei proprietari della stazione di gas della Striscia di Gaza aveva avvertito di un rallentamento dei rifornimenti di carburante a causa di una carenza di importazione dal valico israeliano di Kerem Shalom.
Nel corso delle manifestazioni di questi giorni, i residenti hanno protestato contro l'assedio imposto da Israele dal 2007, contro l'Autorità Palestinese, accusata di mancanza di serietà nel trattare i problemi dentro la piccola enclave, ma anche contro la compagnia elettrica di Gaza ed il modo di trattare la crisi energetica e sociale da parte di Hamas. Quella dell'impatto del conflitto interno è inoltre una storia che va avanti da tempo. La gente sta protestando contro Hamas a causa della corruzione nel settore energetico e la cattiva gestione dell'emergenza, a causa del deterioramento della situazione socioeconomica perché Hamas non è stato in grado di gestire questioni importanti come la disoccupazione, la povertà, la crisi edilizia. La protesta popolare, iniziata nella città di Rafah, si è poi estesa in tutte le città e villaggi della Striscia.
Non sono mancati disordini e tensioni. Secondo quanto riportato dal Palestinian Center for Human Rights (il Centro Palestinese per i Diritti Umani), la polizia palestinese avrebbe disperso le manifestazioni pacifiche, usato violenza ed arrestato dei partecipanti alle proteste, impedito ai giornalisti di coprire le contestazioni. In un comunicato stampa il PCHR ha riportato che, la sera del 12 settembre, ufficiali della sicurezza palestinese avrebbero impedito a centinaia di residenti indignati di raggiungere l'ufficio della Compagnia di distribuzione dell'energia elettrica di Gaza, nei pressi della piazza al-Shuhada a Rafah, avrebbero inoltre impedito ad un gruppo di giornalisti di coprire la protesta e li avrebbero privati della loro attrezzatura, compreso macchine fotografiche e memorie. Il giorno successivo, diverse proteste popolari sono state organizzate non solo a Rafah ma anche in altre zone della Striscia, come nel campo rifugiati di al-Maghazi, nel campo rifugiati di Nusairat e in Beit Lahia, nella zona settentrionale. Anche in questo caso, la polizia e la sicurezza palestinese avrebbero disperso le proteste. Domenica sera, ha riportato il PCHR, decine di giovani avrebbero lanciato pietre e bottiglie vuote contro un'auto delle brigate al-Qassam, ala armata di Hamas, mentre stava passando nella manifestazione organizzata a Rafah. La protesta è stata dispersa, un manifestante sarebbe stato colpito violentemente ed arrestato insieme ad un altro residente che era intervenuto in sua protezione.
Il portavoce del ministro degli Interni palestinese ha tuttavia negato quanto scritto nel rapporto del centro per i diritti umani, riferendo che "I fatti sul campo sono contrari a quanto affermato nel comunicato del Palestinian Center for Human Rights". Secondo il portavoce, la polizia avrebbe permesso ai movimenti popolari di esprimere pacificamente le loro richieste, avrebbe avuto un comportamento moderato fino al termine delle manifestazioni ed ha aggiunto che alcuni interventi duri siano serviti al fine di impedire il danneggiamento di proprietà pubbliche e private.
Lunedì, durante il terzo giorno di proteste, manifestanti a Rafah avrebbero chiesto le dimissioni del Primo Ministro dell'Autorità Palestinese Rami Hamdallah. Allo stesso tempo, residenti dei campi rifugiati di al Bureij e Nuseirat avrebbero manifestato ed incendiato pneumatici in una contestazione tenuta di fronte all'unica stazione di energia elettrica palestinese. Hamas, come riportato dall'agenzia Ma'an, ha riferito che manifestanti avrebbero bruciato fotografie del presidente palestinese Mahmoud Abbas, prima che la polizia disperdesse la protesta. Ufficiali locali di Fatah successivamentesi si sono dichiarati sorpresi da tale gesto ed hanno accusato membri delle brigate al-Qassam di aver bruciato le foto.
L'autorità per l'energia di Gaza condanna le tasse imposte dall'Autorità Palestinese. L'impossibilità di coprire questi costi ha costretto quest'anno la centrale elettrica a chiudere per oltre un mese. Una crisi che ha portato la maggior parte degli ospedali ad annunciare una chiusura per diverse ore al giorno a causa della mancanza di energia elettrica, come confermato dal direttore dell'ospedale Al Wafa in un comunicato in cui ha denunciato che in queste condizioni non tutte le unità ospedaliere sono in grado di operare.
Da parte sua, riportano media locali, Rami Hamdallah ha rifiutato ogni accusa affermando che il governo nazionale "sta facendo tutto il possibile per la popolazione di Gaza", ribadendo la necessità delle tasse per far fronte al costo del carburante e rivelando che si sta lavorando per creare un gasdotto affinché il governo sia in grado di fornire gas alla centrale elettrica della Striscia di Gaza invece di acquistare combustibile industriale il cui prezzo è superiore a quello del gas.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, espressione della sinistra palestinese, ha invece denunciato che la crisi energetica sia una crisi politica causata dal battibecco tra le parti, segnalando una cattiva gestione della compagnia elettrica. La divisione politica ha impedito l'attenuazione della crisi, così come la mancanza di coordinamento con le autorità egiziane in tema di energia elettrica. Il Fronte ha chiesto quindi la formazione di un comitato nazionale che esamini le responsabilità della crisi energetica e fornisca alternative per risolverla seriamente, invitando ad una corretta riscossione delle tasse, ad una razionalizzazione dei consumi energetici, a rafforzare la fiducia del cittadino attraverso una gestione trasparente della compagnia e non tralasciando la responsabilità morale e legale dell'occupazione militare israeliana. Da parte sua, Hamas ha confermato in una dichiarazione l'iniziativa di formare con altre fazioni un comitato nazionale che esamini la questione dell'elettricità.
Secondo il quotidiano israeliano Yediot Ahronoth, Israele pare stia considerando la proposta del Qatar di collegare la stazione elettrica della Striscia di Gaza con un gasdotto per il trasporto di gas naturale da Israele al fine di attenuare la crisi. Doha si impegnerebbe a finanziarne la costruzione, mentre l'Autorità Palestinese si assumerebbe i costi del trasporto del gas anche attraverso fondi privati, lo stesso progetto a cui ha accennato Rami Hamdallah.
Intanto, negli ultimi due giorni le autorità israeliane hanno riaperto il valico di Kerem Shalom dopo una chiusura di cinque giorni a causa delle festività ebraiche permettendo il trasferimento di maggior quantità di carburante per la centrale elettrica di Gaza, al fine di consentire un ritorno alla distribuzione di energia elettrica per almeno 8 ore quotidiane.
Nel mese di luglio, l' OCHA, Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, aveva pubblicato un rapporto sull'impatto umanitario della crisi energetica a Gaza, confermando che a fronte di una richiesta di energia elettrica stimata intorno ai 470 megawatts (MW), questa verrebbe coperta solo per il 45%. A causa della mancanza di carburante, dal luglio 2013 la centrale elettrica di Gaza ha operato a circa metà o al di sotto della propria capacità. Oltre che dalla stazione elettrica, Gaza dipende dall'acquisto di elettricità da Israele (120 MW) ed Egitto (28 MW), specifica il rapporto. La carenza cronica di elettricità che ha colpito Gaza negli ultimi nove anni ha interrotto i servizi essenziali e indebolito le già fragili condizioni di vita e di sostentamento. Una situazione deteriorata dal giugno 2013, a seguito della interruzione dell'arrivo di carburante egiziano attraverso i tunnel sotterranei dall'Egitto poi distrutti dalle forze militari di Al Sisi.
L'ufficio dell'Onu denuncia che più fattori hanno compromesso negli anni il funzionamento della centrale elettrica, tra questi il costante conflitto tra le Autorità palestinesi di Ramallah e di Gaza sul finanziamento del carburante, la riscossione limitata delle bollette dai consumatori, molti dei quali non in grado di pagarle, la distruzione di serbatoi di carburante a seguito di un attacco israeliano durante l'ultima offensiva militare nel luglio 2014, infine le restrizioni sull'importazione di attrezzature, materiali, carburante nel contesto del blocco israeliano. La crisi ha sferrato al settore sanitario un duro colpo, provocando un mal funzionamento delle apparecchiature mediche, compreso per ecografie e radiografie, monitor cardiaci, apparecchi per la sterilizzazione, incubatrici. Per dare priorità agli interventi chirurgici di emergenza, gli ospedali hanno dovuto posporre altri tipi di operazioni il cui rinvio può comunque avere conseguenze negative sui pazienti affetti. Inoltre, la crisi ambientale resta dietro l'angolo.
Il rapporto ha denunciato che il rifornimento insufficiente di energia elettrica e di carburante per il funzionamento di pompe di acqua e pozzi ha causato una ulteriore riduzione nella disponibilità di acqua corrente in molte abitazioni. Gli impianti per la gestione delle acque reflue hanno ridotto i cicli di trattamento, aumentando il livello di inquinamento di acque di scarico parzialmente trattate e scaricate a mare, mentre resta il rischio di fuoriuscita delle acque nelle strade. L'Ufficio delle UN ha infine ribadito che una serie di soluzioni a lungo o medio termine sono state proposte ma tutte le opzioni restano sospese a causa di motivi politici.
(Nena News Agency 19 settembre 2015)
Il cinico abuso della moschea di Al-Aqsa
Fra i massacri e le devastazioni che infuriano in Medio Oriente, i palestinesi fanno fatica a spacciare l'idea che la moschea sul Monte del Tempio sia davvero in pericolo.
La "questione palestinese" non è mai stata così irrilevante. In tutto il Medio Oriente, centinaia di migliaia di persone sono state uccise, a milioni sono sfollate. Moltitudini di profughi si stanno riversando fuori dal Medio Oriente e dall'Africa verso le coste europee nella speranza di andarsi a stabilire nelle enclave musulmane che sono sorte, non senza problemi, nelle principali città d'Europa.
L'illusione che espedienti come il riconoscimento della bandiera palestinese alle Nazioni Unite o la marchiatura da parte dell'Unione Europea delle merci prodotte da ebrei in Cisgiordania possano portare alla creazione di un nuovo stato fallimentare e violento sulle macerie dello stato d'Israele, è stata spazzata via dalle ondate di profughi che straripano in Europa. Nel frattempo, gli altri stati arabi fasulli e artificiali si stanno sgretolando sotto gli occhi di tutti....
(israele.net, 18 settembre 2015)
L'Oktoberfest del multiculturalismo
Quotidiani in arabo, lezioni di islam e abiti "modesti" nelle scuole. Dietro il modello di accoglienza della Germania c'è la radice di un trauma culturale. Henryk Broder: "I tedeschi sono dogmatici sull'euro e vuoti sull'identità".
di Giulio Meotti
ROMA - "Senza sminuire l'enorme divario culturale tra la Pomerania e il Punjab, in Germania la legge fondamentale è la nostra, non importa quanto sacro sia il Corano". E' stato abbastanza eccezionale il commento sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung di Michael Martens, per il quale la Germania dovrebbe far conoscere ai migranti le "regole costituzionali" del paese che cosi generosamente li sta accogliendo. Martens parla della "più grande sfida dopo la Seconda guerra mondiale" e sostiene che i migranti devono accettare la parità uomo-donna, la libertà religiosa e di espressione, "e chi rifiuta questi punti di vista è meglio che lasci presto il nostro paese". La column di Martens è emblematica del trauma culturale che l'ondata di migranti sta generando in Germania. Intanto a Monaco di Baviera, una delle città che più hanno assorbito il fenomeno migratorio, si apre fra poco l'Oktoberfest. E un appello-provocazione di alcuni islamici rivolto al Consiglio comunale di Monaco ha chiesto la cancellazione dell'evento conosciuto in tutto il mondo, definito "intollerante e anti islamico, che offende tutti i musulmani sulla terra" a causa del "consumo di alcol" e della "pubblica esibizione di nudità".
La risposta della Germania è tutta all'insegna del multiculturalismo. Nel land della Saar, l'anno scolastico inizia con un progetto pilota per l'insegnamento della religione islamica. Le scuole elementari di Saarbrücken e Völklingen offriranno corsi di islam, definiti "una grande opportunità per i bambini musulmani di trovare la loro identità musulmana in una società altamente secolarizzata". Lo stesso ha fatto il Baden-Württemberg, dove il ministro della Cultura Andreas Stoch (Spd) ha parlato di "contributo importante per una convivenza pacifica fra le diverse fedi". D primo a perorare la causa dell'introduzione dell'islam a scuola fu Wolfgang Schäuble quando era ministro dell'Interno.
Una iniziativa governativa di venti milioni di euro ha portato alla creazione anche di quattro centri di teologia islamica nelle università pubbliche tedesche, fra cui Tubinga e Francoforte. La settimana scorsa sono usciti due inserti in arabo per aiutare i migranti arrivati in Germania. L'iniziativa è stata lanciata dai quotidiani Bild e Berliner Schwesterzeitung. "Oggi un inserto in arabo, che potrà semplificare l'arrivo a Berlino per i profughi", si legge sulla Bild. E nelle scuole vicine ai centri di raccolta dei migranti si affaccia un po' di sharia. Una scuola ha inviato una lettera ai genitori delle alunne per avvisarli di non lasciare che le loro figlie indossino "camicette o gonne corte". Si tratta del Wilhelm-Diess-Gymnasium di Pocking, in Baviera. "I cittadini siriani sono prevalentemente musulmani e parlano arabo", si legge nel documento della scuola spedito a casa dei genitori. "I rifugiati sono segnati dalla propria cultura. Visto che la nostra scuola è proprio accanto a dove hanno dimora, vestiti modesti dovrebbero essere indossati come forma di rispetto, al fine di evitare problemi'. Camicette e pantaloncini corti o minigonne potrebbero portare a malintesi"'.
Come decifrare questa risposta tedesca? "Io non so spiegarmelo", dice al Foglio Henryk Broder, editorialista della Welt, ex Spiegel, l'Hitchens tedesco" come è stato definito in America, intellettuale ebreo corrosivo e autore di bestseller. "Sembra che la Germania sia determinata a scomparire dalla storia. Dal 1945, i tedeschi hanno vissuto nel terrore di essere puniti per quello che avevano fatto i loro padri e nonni. Da allora sono isterici con qualsiasi cosa che echeggi identità. Esiste un abisso fra i media e l'opinione pubblica e il sentimento reale della popolazione. La Germania oggi vede la questione profughi come la possibilità di essere moralmente riabilitata. I tedeschi sono estremamente dogmatici sull'euro e sulle regole economiche in Europa, ma sono totalmente assenti e deboli sul dibattito culturale o identitario. E' incredibile". E' come in un fortunato titolo di Henryk Broder, "Hurra, wir kapitulieren!". Evviva, ci arrendiamo!
(Il Foglio, 19 settembre 2015)
Boicottare l'economia israeliana è stupido e controproducente
Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al rialzo le stime di crescita per l'economia israeliana: al 2.5% per l'anno corrente, e al 3.3% nel 2016. In un recente rapporto, gli economisti del FMI hanno evidenziato come l'economia dello stato ebraico sia stata intoccata dalla Grande Recessione, grazie all'apertura agli scambi internazionali e alla consistente presenza del settore tecnologico, che costituisce più del 40% delle esportazioni industriali.
La robusta crescita economica consentirà ulteriori progressi sul fronte dell'occupazione, con il tasso di disoccupazione destinato a permanere sui minimi storici. Secondo gli studiosi del Fondo, si tratta di un autentico miracolo: negli ultimi 25 anni, gli occupati sono cresciuti del 3.5%; all'anno. Non a caso, non solo Israele ha realizzato la migliore performance economica del mondo occidentale dal 2007 ad oggi; ma allo stesso tempo, è l'unico membro OCSE ad aver battuto le previsioni di crescita complessive formulate dal Fondo otto anni fa....
(Il Borghesino, 19 settembre 2015)
Lanciati razzi da Gaza, Israele fa ripartire i raid
Allarme a Sderot e Ashkelon. Bombardata postazione di Hamas nella Striscia.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Con tre raid contro basi di Hamas nel Nord della Striscia di Gaza l'esercito israeliano ha risposto, nella notte, al lancio di due razzi contro città nel Sud del Paese. Poco dopo le 22 di ieri il primo razzo è caduto a Sderot, colpendo un autobus senza causare vittime, e un'ora dopo il secondo è stato intercettato da Iron Dome sopra la città di Ashkelon.
Le cellule islamiche di Gaza aderenti allo Stato Islamico hanno rivendicato gli attacchi a cui Israele ha risposto con tre raid aerei che non hanno causato vittime. «Gaza è fonte di terrore, la responsabilità è di Hamas che la governa» afferma Peter Lerner, portavoce militare israeliano. Proprio ieri l'Egitto ha iniziato a inondare con acqua marina i tunnel scavati da Hamas sotto il confine con Gaza, al fine di trasformarli in fattorie ittiche.
(La Stampa, 19 settembre 2015)
Uno dei pochi casi in cui nel titolo dellarticolo si nominano prima i razzi palestinesi e poi la reazione israeliana.
Israele tra vecchie paure e nuove opportunità
Intervista a Dan Haezrachy, Capo missione dell'Ambasciata d'Israele a Roma. Il diplomatico sottolinea l'importanza del dialogo che si è aperto con i paesi sunniti della regione e la solida cooperazione nel settore della sicurezza con l'Egitto e la Giordania. Commentando inoltre la questione del diritto alla conoscenza e i delicati passaggi della trattativa sul nucleare iraniano.
di Domenico Letizia
Lo stato di Israele è giuridicamente giovane, ma con una tradizione di tremila anni, che vive in un contesto culturale caratterizzato da innumerevoli problematiche, prospettive e preoccupazioni. Un'oasi autoctona del Medioriente, che può vantare di essere democratica e aperta alla sperimentazione di nuove formulazioni riguardanti i diritti umani. Un contesto sociale che ha guardato con convinzione, continuando a farlo, alla prospettiva europea e che un nuovo e rinnovato vigore può apportare al futuro del federalismo europeo, oggi in profonda e tragica crisi. Stato di Diritto e transizione alla democrazia dalla ragion di stato del mondo arabo e musulmano, diritto umano alla Conoscenza, Unione Europea, Isis, nucleare iraniano, Siria e Hezbollah ... ne discutiamo con Dan Haezrachy, vice capo missione diplomatica dell'Ambasciata di Israele a Roma.
- Si è svolta quest'estate al Senato la Seconda Conferenza Internazionale "Universalità dei Diritti Umani per la transizione verso lo Stato di Diritto e l'affermazione del Diritto alla Conoscenza", organizzata dal Partito Radicale assieme a Nessuno Tocchi Caino e Non c'è Pace senza Giustizia, patrocinata dal Ministero degli Affari Esteri italiano. Un lavoro che si tenta di portare avanti con il sostegno e il contributo organizzativo degli ambasciatori interessati alla tematica. Come guarda a tale proposta transnazionale e quale significativo contributo potrebbe fornire alla vertenza l'Ambasciata di Israele in Italia?
Non ho avuto modo di seguire direttamente questo importante evento al Senato. Nonostante tutto, credo che sia un tema di estrema rilevanza, soprattutto per il Medioriente. Israele, come Lei saprà, è praticamente il solo Stato dell'area che può vantare la definizione di "democrazia di diritto". Questo, grazie ad uno Stato che - a dispetto della sua giovane età - si è sempre fondato sullo Stato di Diritto e sul rispetto delle libertà fondamentali dei suoi cittadini. Senza dimenticare il fatto che, a dispetto delle necessità di sicurezza, ad Israele il Diritto alla Conoscenza è molto importante e garantito da un sistema di informazione e da una società estremamente vitale e organizzata. Ovviamente, per quanto ci riguarda, siamo assolutamente interessati a sostenere iniziative simili, soprattutto perché riteniamo con forza che la proliferazione di "Stati di Diritto" sia la migliore soluzione per la creazione della pace regionale.
- Le organizzazioni della galassia radicale promuovono la formulazione in ambito delle Nazioni Unite di un nuovo diritto umano: "il diritto alla conoscenza". La consapevolezza dei cittadini sulle scelte dei governi riguardanti la politica estera e la sicurezza risulta essere una delle problematiche più urgenti della contemporaneità. La conoscenza permette ad uno stato democratico e di diritto di non seguire le logiche, che vanno diffondendosi della "ragion di stato", contribuendo a quel processo definito di "democrazia reale" che ricorda il "socialismo reale" traditore degli ideali socialisti. Cosa pensa della formulazione in ambito Onu di tale nuovo diritto umano?
Come ho affermato in precedenza, guardo con favore alla promozione del diritto di alla conoscenza come diritto umano. Nonostante tutto, però, vorrei sottolineare che, accanto alle opportunità, su questo argomento esistono anche dei rischi. Per un verso, infatti, è assolutamente importante che i cittadini siano consapevoli di quanto accade intorno a loro, comprese le scelte di politica estera e sicurezza dei Governi. In Medioriente, però, questa consapevolezza - non affiancata da un reale Stato di Diritto - troppo spesso è filtrata da organizzazioni radicali che parlano alla pancia della popolazione. Il rischio concreto - che Israele ha vissuto sulla propria pelle diverse volte - è quello di usare la popolazione per affondare importanti successi diplomatici e di sicurezza, ottenuti dopo anni di sofferenze. Le faccio un esempio concreto: proprio in questi giorni Israele ha riaperto la sua ambasciata in Egitto dopo quattro anni di chiusura. Una chiusura obbligata, dettata dalle proteste di frange radicali della popolazione egiziana, allora eterodirette dai Fratelli Musulmani. Il Diritto alla Conoscenza deve assolutamente essere affermato, ma deve anche passare per la capacità e il diritto del singolo di crearsi autonomamente il suo pensiero e deve tenere conto delle particolari situazioni di sicurezza che esistono in varie aree del mondo, assai diverse dal Continente Europeo. Detto questo, sottolineo che ci sono pochi Paesi nel mondo capaci, e al livello di Israele, di garantire il diritto all'informazione e alla critica al Governo, praticamente, in ogni aspetto della vita pubblica.
- L'ex Ministro degli Esteri Emma Bonino ha più volte sostenuto: "l'idea di portare Israele nell'Ue ha quasi vent' anni e spero che non abbia bisogno di altri venti prima che maturi nella coscienza collettiva, che diventi condivisa, e si trasformi quindi da «provocazione» in realtà". E' ancora auspicabile l'entrata di Israele in Unione Europea? Cosa pensano gli israeliani a tal proposito?
L'Europa - o meglio i Paesi Europei - sono per Israele dei partner importanti, sia a livello culturale, che commerciale e turistico. Quindi, rispondendole da diplomatico, le sottolineo l'assoluto interesse di Israele ad approfondire questo rapporto in ogni area possibile. Rispondendo invece da israeliano, le dico che avrebbe dovuto farmi questa domanda qualche anno fa. Allora, sicuramente, le avrei risposto con maggiore entusiasmo. Oggi, francamente, l'attrazione politica dell'Europa tra gli israeliani è diminuita. Un effetto diretto della percezione israeliana di un'Europa troppo sbilanciata in merito al conflitto mediorientale, capace di criticare Israele su questioni che, nei rapporti con altri Stati, non vengono nemmeno sollevate.
- Secondo lei il federalismo europeo ha futuro? Israele potrebbe essere funzionale ad un'accelerazione di tale futuro? Questa domanda dovrebbe forse farla ad un diplomatico europeo. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che Israele intende mantenere con l'Europa - sia a livello multilaterale che bilaterale - un dialogo aperto allo scopo di rafforzare la cooperazione in ogni settore. Quali sono le angosce che attanagliano, oggi, lo stato di Israele e quali prospettive ci si augura guardando al prossimo futuro?
Le angosce sono diverse. Basta aprire i giornali per capire in qualche contesto vive Israele. Il terrorismo palestinese, il dramma della Siria, il jihadismo sciita e sunnita e la presenza dell'Iran e di Hezbollah ai nostri confini. In questo senso, però, riteniamo anche che le crisi aprano nuovi sempre nuove opportunità. Oggi un nuovo dialogo si è aperto con i Paesi sunniti della regione e si è approfondita la cooperazione nel settore della sicurezza con l'Egitto e la Giordania. Due partner che Israele ritiene davvero importanti. Senza contare inoltre che Israele resta un Paese leader nel settore dell'innovazione, con una stabile economia e capace di mantenere saldi i valori democratici.
- Molti osservatori e attivisti per la democrazia e i diritti umani hanno duramente criticato l'accordo sul nucleare tra Usa e Iran. L'intero Piano d'Azione si salda sulla giustificazione di fondo che la Repubblica Islamica userebbe gli impianti nucleari "per scopi pacifici", impegnandosi a non perseguire la produzione e il possesso di armi atomiche; ma le ispezioni dell' Aiea cesseranno quasi del tutto dopo 15 anni e, cosa ancora più grave, l'Iran anche nel primo periodo consentirà tali ispezioni esclusivamente in alcuni siti: per altri, è scritto che l'Aiea potrà "chiedere" delle visite, ma dovrà spiegare in base a quali elementi di sospetto presenti tali richieste e il governo iraniano potrà in ogni caso rifiutare, dopo un meccanismo piuttosto articolato di commissioni esaminatrici. Può esprimere la sua opinione riguardo tale accordo?
E' ben noto quello che Israele pensa sull'accordo nucleare con l'Iran. Per quanto ci riguarda, si tratta di un pessimo accordo che, come unico effetto, avrà quello di legittimare una dittatura fondamentalista e antisemita. Un regime, quello iraniano, che anche in seguito all'accordo del 14 luglio, ha continuato a minacciare direttamente gli stessi Stati Uniti. Per quanto ci concerne, non soltanto non condividiamo il contenuto tecnico dell'accordo (da lei in parte evidenziato), ma anche i suoi effetti collaterali. In particolare, il rilascio di almeno 150 milioni di dollari dalla sospensione delle sanzioni internazionali verso l'Iran. Con questi soldi, gli esperti concordano, Teheran aumenterà il sostegno al terrorismo internazionale e alle milizie jihadiste sciite in tutto il Medioriente. In conclusione, considerando che il mondo ebraico ha da poco festeggiato il nuovo anno (Rosh Hashana), mi permetta di cogliere l'occasione per augurare a tutti un anno pieno di prosperità, shalom (pace) e solidarietà.
(Garantista, 19 settembre 2015)
Caro ministro Giannini, la Buona scuola non sarà pro gender, ma gli fa un assist
Riportiamo questo articolo, anche se non parla di Israele, perché consideriamo antisemitismo e omofilia due facce diverse del medesimo problema: lodio degli uomini contro tutto ciò che Dio ha creato e decretato. NsI
di Francesco Agnol
|
|
|
Stefania Giannini. Ministra dell'istruzione, dell'università e della ricerca
|
Se fino a poco tempo fa della teoria del gender si occupavano solo pochi adepti, oggi il dibattito attraversa il paese. Gli incontri sul tema, dal nord al sud della penisola, registrano una presenza di pubblico stupefacente. Non è raro assistere a convegni con 400-500 persone, che ascoltano e discutono, tre o quattro ore di seguito, e i libri sul tema continuano a essere molto letti.
Il dibattito, ultimamente, si è spostato: non è più sulla bontà e scientificità o meno dell'ideologia di gender, ma sulla sua stessa esistenza. Non c'è nulla di tutto ciò, tuonano alcuni grandi giornali: si tratterebbe solo di allarmismi retrivi. Ma in molti non credono a questa versione dei fatti.
Se la teoria del gender - secondo cui non esistono più due sessi, maschio e femmina, ma tanti generi, a seconda della libera scelta di ognuno - davvero non esiste, perché in tv spopolano personaggi il cui unico merito è avere i capelli lunghi, la gonna e, nel contempo, la barba? Perché Facebook, negli Usa, invita a scegliere non più tra maschio e femmina, ma tra cinquanta generi diversi? Perché i giornali raccontano di persone genderfluid, che si sentono maschio o femmina a giorni alterni? Come mai in alcune cliniche del nord Europa si comincia a "sospendere" ormonalmente la pubertà di ragazzi o ragazze "indecisi", affinché possano scegliere domani a quale sesso appartenere? Perché la Cassazione italiana decide che si può cambiare sesso, anche senza operazioni chirurgiche? Perché su Repubblica si certifica che la famiglia naturale non esiste più, essendo oggi possibili "famiglie" di ogni tipo, formate da due padri o due madri, ma anche da due donne lesbiche che concepiscono un figlio in coparenting con due maschi gay? Perché vi sono senatrici che difendono la pratica dell'utero in affitto, negando così la famiglia fondata sulla complementarietà tra l'uomo e la donna, mentre in alcuni comuni e scuole si vogliono sostituire le parole più antiche del mondo, papà e mamma, con genitore 1 e genitore 2?
Che l'ideologia gender non esista, dunque, appare un ritornello poco credibile. Per questo i genitori si stanno informando con apprensione, in questi giorni di inizio anno, su cosa accade nelle scuole. Davvero la legge sulla Buona scuola ha introdotto il gender nell'educazione dei nostri bambini, chiedono allarmati? Il ministro Giannini, spazientito, ha dichiarato di no, e ha addirittura minacciato di querelare chi sostenga il contrario. Ma temiamo, non volendo credere nella sua malafede, che il ministro non abbia chiaro un concetto: l'articolo della legge sulla buona scuola che prevede "l'educazione alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni" non è un' introduzione del gender diretta e manifesta, ma certamente un assist notevole a essa. In nome di cosa in alcuni asili si è introdotto il giochino in cui i maschietti si mettono la gonna e si truccano? In nome del "rispetto", della volontà di insegnare ai bambini la "parità tra i sessi".
Così facendo, però, si rischia di danneggiare la crescita equilibrata dei bambini, il loro rapporto con la propria identità sessuale. E di questo i genitori si accorgono. In nome di cosa si insegna oggi, dopo la Buona scuola più di ieri, che anche se due uomini non hanno l' "ovino" e neppure l'utero, possono ugualmente prodursi un bambino e divenirne "genitori" (vedi fumetti dell'editrice Stampatello)? Per insegnare ai bambini - si dice - a sfuggire le "discriminazioni" verso i bambini così concepiti. Ma per molti genitori questi insegnamenti non sono altro che il tentativo di inoculare nei figli proprio la teoria del gender. Se poi alcune scuole (certamente non tutte) chiamano a fare i corsi sulla "parità dei sessi" esperti esterni legati all'Arcigay o all'Arcilesbica, Vladimir Luxuria o membri del Circolo Mario Mieli (che professava sì la lotta contro le discriminazioni, ma anche la bontà della pedofilia), allora la paura dei genitori fa novanta. E qualcuno rischia poi di vedere l'indottrinamento, anche quando non c'è.
Ma la legge sulla Buona scuola, questa è la verità, non solo non chiude la porta alla teoria del gender, come dovrebbe anche per rispetto del ruolo educativo della famiglia, ma apre un portone in cui si possono infilare comodamente ideologie che per un popolo che crede ancora ai due sessi e ai bambini concepiti da papà e mamma, sono non educative, ma del tutto diseducative.
(Il Foglio, 19 settembre 2015)
Da New York alla vittoria di Masterchef in Israele. "E ora apro il mio locale a Tel Aviv"
Massimiliano Di Matteo, 40enne di Pescara, ha vinto l'ultima edizione nel Paese dove si è trasferito un anno e mezzo fa. Ma la prima volta che ha lasciato l'Italia risale al 1995. Negli Usa è stato cameriere, il barista, il manager. E in Medio Oriente vuole portare le tradizioni culinarie della cucina regionale italiana.
di Maurizio Di Fazio
Gli piace cucinare, ma non è mai stato un professionista dei fornelli. Nonostante questo, la passione lo ha fatto trionfare all'ultima edizione di Masterchef Israele, seguitissimo anche in Medio Oriente. A consegnargli la vittoria è stata una zuppa di cipolle con bottoni di formaggio e zafferano. Un tocco di Italia che Massimiliano Di Matteo, 40enne di Pescara, ha portato nel suo 'nuovo' Paese.
Vive a Tel Aviv da un anno e mezzo, perché sua moglie è israeliana: si sono conosciuti a New York nel 2001. E il suo addio all'Italia risale a molti anni fa. La prima volta se n'è andato nel 1995, con un diploma da geometra in tasca. Nove mesi a Miami e quattro a Città del Messico, dove ha fatto il cameriere. Nessuna mira professionale allora, solo un "parente negli Stati Uniti" che sarebbe stato un punto d'appoggio e che, racconta, "mi invitò a provare". Così, racconta, "presi la palla al balzo e partii. Ho sempre sognato di viaggiare, e non sono cresciuto in una famiglia ricca, mio padre è venuto a mancare quando avevo 13 anni. I miei coetanei andavano a divertirsi, e io lavoravo già per potermi permettere le spese del viaggio. Non avevo un piano preciso in mente. Volevo solo andarmene".
Appena un anno dopo, nel '96, è costretto a rientrare per il servizio di leva. Ma appena ottenuto il congedo, riparte subito per l'America. Biglietto di sola andata, senza ritorno. "A New York - ricorda - ho gestito per qualche tempo un caffè tutto mio. Poi ho fatto il cameriere, il barista, il manager. Mai il cuoco, anche se coltivo questa passione sin da bambino". Nella città della East Coast rimane per anni. Fino a 18 mesi fa, quando si trasferisce con la moglie in Israele. Poi arriva l'avventura di Masterchef, dove il suo slang a metà strada tra inglese, italiano ed ebraico incuriosisce la giuria. A questo si aggiunge la sua predilezione per la cucina povera abruzzese e le tradizioni gastronomiche dei suoi nonni contadini: dal risotto con castagne, pecorino e vino rosso alle crespelle in brodo, passando per le salsicce di fegato, cervello e midollo con buccia d'arancia e peperoni dolci secchi fritti.
"Ho fatto conoscere la cucina italiana da cartolina, quella della tradizione, quella da tramandare gelosamente - spiega -. Gli israeliani hanno reagito con entusiasmo. In questo Paese mi sento come a casa. Ho tanti amici, si respira uno splendido fermento: c'è voglia di fare, di cambiare". Finita la trasmissione, ora Massimiliano pensa all'apertura di un locale a Tel Aviv, con l'aiuto di alcuni imprenditori israeliani. Perché la cucina, anche a telecamere spente, è passione e lavoro. Il ritorno in Italia? Lontano. "Una volta all'anno ci vado in vacanza. Prima di rientrare in Abruzzo giro sempre un po' il Paese, alla ricerca dei sapori e delle ricette regionali perdute". E Israele è diventata la sua America: "Non mi dispiacerebbe inventarmi un programma tv tutto mio per far conoscere meglio la cucina italiana agli israeliani e quella israeliana, della diaspora, agli italiani".
(il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2015)
Israele-Palestina: un odio che si trasmette fra generazioni
Lettera a Beppe Severgnini
Il confitto tra israeliani e palestinesi pare non aver fine e anzi, sembra paradossalmente di trovarsi di fronte ad una guerra senza spazio e senza tempo. Purtroppo non è così, il nodo è sempre la fatidica striscia di Gaza, ambitissima, lo spazio d'azione stavolta è la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, il tempo è invece da ricercarsi, ab initio, nel 1948, alla nascita dello stato ebraico, all'esito, quindi, della spartizione delle Nazioni Unite che attribuiva alla Palestina, tra l'altro, la Striscia di Gaza. Di lì una costante apocalisse, costellata da migliaia di morti e dal proliferare di un odio tra i popoli che si sta trasmettendo tra le generazioni. Insomma, da una parte un popolo alla perenne ricerca della fantomatica terra promessa, dall'altra un popolo alla legittima ricerca di una propria identità. Da una parte le più o meno latenti strumentalizzazioni di una nazione, gli Usa, che manu militari, la fanno da padrone in politica estera, dall'altra parte i rovinosi fondamentalismi religiosi che contaminano la fede e alimentano l'odio. Mi chiedo cosa porrà mai fine a questi dissidi, l'azione delle organizzazioni internazionali, che sembra non aver mai avuto l'influenza necessaria, o lo sterminio di uno dei due popoli. Speriamo solamente che, prima o poi, si interrompa il genocidio di così tanti esseri umani
Antonino Bolano
Riportiamo questa lettera come esempio di quelle generiche banalità che dicono e scrivono quelli che non sinteressano veramente ai fatti storici, ma con tono moraleggiante traggono veloci conclusioni universali basandosi su quello che ricevono dai media, e poi pretendono addirittura di aver individuato il nocciolo del problema presente ab initio. La quantità di sciocchezze che lautore della lettera ha saputo concentrare in così poche righe è stupefacente. M.C.
Grand Hotel Onu
Perché il mondo sarebbe migliore senza l'Onu. Una mostruosa e vorace burocrazia, l'odio per Israele, il club dei dittatori, gli abusi sessuali. L'industria dell'intervento umanitario. Dopo 70 anni (e mezzo trilione di dollari) cosa hanno ottenuto le Nazioni Unite? Il bilancio triste e fallimentare del più grande jet set delle buone intenzioni. Inchiesta sull'industria della bontà.
di Giulio Meotti
Ci sono quaranta paesi produttori di vino in tutto il mondo. Chi volesse trovarli tutti sulla stessa carta, dai rossi italiani alle cantine di Samarcanda, deve riservare un tavolo alla Delegates Dining Room delle Nazioni Unite. Oggi è uno dei migliori ristoranti di New York. Dopo aver superato il controllo di sicurezza, da lì si potrà godere della vista spettacolare sull'East River e su Queens e gustare una cena per la modica cifra di 34 dollari. Se sei in compagnia di un dipendente dell'Onu puoi anche parcheggiare illegalmente nei dintorni, tanto le multe non le paghi e sfrutti lo status diplomatico. Oriana Fallaci non aveva messo piede in quel ristorante quando definì l'Onu "una banda di mangia-a-ufo, una mafia di imbroglioni che ci menano per il naso". Neppure il segretario generale Kurt Waldheim ci aveva messo piede quando ebbe l'ardire di definire l'Onu "un parco buoi dove relegare ex amici e protetti che non servono più". Ci avevano entrambi visto giusto.
"Immaginate una terra afflitta da inefficienza, burocrazia kafkiana e miasmi di corruzione" ha scritto Stephen Halper sul Wall Street Journal. "L'immaginazione non è necessaria, siete alle Nazioni Unite. Stipendi incredibilmente lucrativi vengono pagati presso la sede di New York, dove il salario medio di un ragioniere è di 84 mila dollari, mentre un ragioniere non dell'Onu ne prende 41 mila. Un analista di computer si aspetta di ricevere 111 mila dollari rispetto ai 56 mila fuori dalle Nazioni Unite. Un assistente del segretario generale riceve 190 mila dollari; il sindaco di New York è pagato 130 mila. I dati però non riflettono appieno la disparità, poiché gli stipendi delle Nazioni Unite sono esentasse".
Quando la Carta dell'Onu fu firmata nel 1945, Winston Churchill si disse più che soddisfatto, ma annotò nei suoi diari che il tutto gli sembrava "la premessa di una babele". Chissà cosa avrebbe scritto o pensato se avesse visto, nel 2015, i festeggiamenti per il settantesimo anniversario del Palazzo di vetro. "Settant'anni e mezzo trilione di dollari dopo: che cosa ha raggiunto l'Onu?" si è appena chiesto il Guardian. "Le Nazioni Unite hanno salvato milioni di vite e potenziato sanità e istruzione in tutto il mondo. Ma sono antidemocratiche e molto costose". Persino troppo generoso il quotidiano inglese.
Due economisti di Harvard, Ilyana Kuziemko e Eric Werker, in un saggio intitolato "Cooperazione e
corruzione alle Nazioni Unite" e pubblicato dal Journal of Political Economy, sostengono che i paesi membri dell'Onu cercano ormai l'elezione per un mandato biennale nel massimo organo di governo del mondo non
I paesi membri dell'Onu cercano ormai l'elezione per un mandato biennale nel massimo organo di governo del mondo non per esercitare influenza sulla sfera internazionale. Lo fanno per la grana.
|
per esercitare influenza sulla sfera internazionale. Lo fanno per la grana. L'assistenza finanziaria degli Stati Uniti ai paesi in via di sviluppo aumenta del 59 per cento quando ottengono un seggio al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Queste stesse nazioni ricevono anche un otto per cento in più di aiuti dalle agenzie della galassia delle Nazioni Unite e in particolar dall'Unicef, l'agenzia per il sostegno all'infanzia. In media il paese in via di sviluppo si aspetta sedici milioni di dollari in più dagli Stati Uniti e l'assistenza aumenta marcatamente in tempi di crisi: a 45 milioni di dollari da Washington e otto milioni di dollari dal Palazzo di vetro.
Per capire cosa siano diventate le Nazioni Unite bisogna dare un'occhiata alla Commissione economica dell'Onu per l'Europa. Questo sconosciuto organismo, che ha sede a Ginevra e si è annidato come un parassita nei meandri della rete burocratica umanitaria, ha pubblicato un rapporto di 44 pagine offrendo una serie di norme sui peperoni rossi e verdi, mettendo in evidenza le caratteristiche del prodotto per i commercianti alimentari "al fine di evitare muffa o scolorimento". Nessuno, neppure gli stessi dipendenti, ha un'idea di cosa sia l'Onu.
Nella sola Ginevra, le Nazioni Unite hanno tenuto diecimila incontri in un anno, offerto 632 seminari di formazione e tradotto 220 mila pagine di documenti per annuari, report e documenti di lavoro dell'organizzazione. Cosa sia l'Onu lo spiega Jean-Pierre Lehmann, professore di Economia politica internazionale a Losanna, in Svizzera: "L'Onu è stata una terribile delusione rispetto agli ideali con cui è stata creata. Oggi serve come una miniera d'oro per un sistema occupazionale gonfio". Quella commissione ginevrina ha 220 dipendenti e un budget di cinquanta milioni di dollari. Nessuno sa a cosa servano. Una delle priorità su cui sta lavorando adesso questa indispensabile agenzia dell'Onu è come permettere alle persone con disabilità visive di guidare le auto elettriche.
L'inconsistenza dell'Onu è impressa in tutti i volti dei suoi segretari generali. L'attuale, Ban Ki-moon, che quando venne eletto dieci anni fa si era definito un "bridge builder", un costruttore di ponti, e un "armonizzatore", è soprannominato "Ban-chusa", Ban il burocrate, tanto per dare una vaga idea del suo eroico carattere. Per altri, è "l'uomo invisibile dell'Onu". Il "successo" più grande di Ban, ironizzano da più parti, è stato la marcia contro il surriscaldamento globale a New York al fianco di Al Gore.
Trygve Halvdan Lie, il primo segretario, era di sinistra e scandinavo. Svedese anche Dag Hammarskjold, "il signor H" come lo chiamavano per evitare la pronuncia. Anche lui di sinistra, inventò l'espressione "economia pianificata". Un aristocratico, figlio di un ministro della Giustizia e membro di una famiglia al servizio dei re di Svezia da cinquecento anni. Alto, sguardo glaciale, senso del dovere luterano, il signor H. era anticolonialista al punto da schierare l'Onu a fianco del satrapo egiziano Nasser durante la crisi di Suez. Sithu U Thant, che gli succedette, quando nel 1967 Nasser gli chiese di togliere i Caschi blu che dieci anni prima "il signor H" aveva messo nel Sinai a tutela del diritto israeliano al transito per lo Stretto di Tiran lo fece, obbligando Israele alla guerra preventiva poi passata alla storia come "dei Sei giorni". Preside di scuola media divenuto giornalista per sostenere l'indipendenza birmana, U Thant era infarcito
Poi arrivò Kurt Waldheim, uno spi- lungone austriaco democristiano con un ricattabilissimo passato durante la Seconda guerra mondia- le. Memorabile la risoluzione sotto il suo mandato sul "sionismo come razzismo".
|
del pregiudizio antioccidentale del vecchio militante anticolonialista e aveva un bisogno quasi buddhista di mantenersi imparziale. Poi arrivò Kurt Waldheim, uno spilungone austriaco democristiano con un ricattabilissimo passato durante la Seconda guerra mondiale. Memorabile la risoluzione sotto il suo mandato sul "sionismo come razzismo". Gli succedette il peruviano Javier Pérez de Cuéllar, aplomb da gentiluomo ma quanto a fatti, pochi. Seguito da Boutros Boutros-Ghali, egiziano, aristocratico, una mummia faraonica, e poi dal ghanese Kofi Annan, studi americani e un matrimonio con una svedese della famiglia Wallenberg. Segretari come papi laici e simboli dell'inutilità delle Nazioni Unite.
L'organizzazione per l'infanzia dell'Onu, l'Unicef, ha fornito una formazione e un percorso di vita migliore per milioni di persone, tra cui l'attuale segretario generale dell'Onu, Ban Kimoon, che da piccolo studiava in una scuola senza tetto, ultimo di otto fratelli, i genitori contadini che raccoglievano il grano. Programmi di sviluppo delle Nazioni Unite sono stati fondamentali nell'aiutare i paesi appena liberati dal dominio coloniale a governare se stessi. Ma i pochi successi dell'organizzazione non riescono a sopperire al suo vero volto: un covo vergognoso di dittature, una burocrazia paralizzante con i suoi istituzionali insabbiamenti, la corruzione e con le politiche antidemocratiche del suo Consiglio di sicurezza.
La spesa annua delle Nazioni Unite oggi è quaranta volte superiore a quella che era nei primi anni Cinquanta, quando nacque con le migliori intenzioni. L'organizzazione comprende oggi diciassette agenzie specializzate, quattordici fondi e un segretariato con diciassette dipartimenti che impiegano 65 mila persone. E' la più grande burocrazia del mondo. Il suo bilancio ordinario è più che raddoppiato negli ultimi vent'anni, fino a cinque miliardi e mezzo di dollari. Ma questa è solo una piccola parte della spesa totale.
Il mantenimento della "pace" costa altri nove miliardi all'anno, con i 120 mila uomini delle forze di pace dispiegati soprattutto in Africa. Alcune missioni sono durate più di un decennio. E poi ci sono i contributi volontari dei singoli governi che vanno a finanziare gran parte delle operazioni di soccorso, il lavoro di sviluppo e le agenzie, come l'Unicef. Sono aumentati di sei volte nel corso degli ultimi venticinque anni, fino a trenta miliardi. Senza considerare la Corte penale dell'Aia. Milleduecento persone impiegate all'uopo nella città olandese, un budget annuale di cento milioni di dollari, la seconda spesa dell'Onu dopo quella per le missioni di peacekeeping, per una manciata di processi, qualche appello e tre casi in preparazione.
I costi del personale rappresentano i due terzi o più delle uscite. Il direttore associato di un ufficio delle Nazioni Unite prende 143 mila dollari all'anno, 65 mila dollari di benefit e il rimborso di una parte dei viaggi per tornare nel paese di origine e per l'istruzione dei figli.
|
Non esattamente un successo. Human Rights Watch ha accusato l'istituzione di essere "un buen ritiro legale", più che una effettiva corte penale.
L'Onu è cresciuta così tanto che a volte lavora contro se stessa. I costi del personale rappresentano i due terzi o più delle uscite. Quanto prende il direttore associato di un ufficio delle Nazioni Unite? Il conto lo ha fatto il New York Daily News: 143 mila dollari all'anno, 65 mila dollari di benefit e il rimborso di una parte dei viaggi per tornare nel paese di origine e per l'istruzione dei figli. Per questo Mark Steyn in una memorabile column sul Chicago Sun Times ha definito l'Onu "un jet set umanitario".
Come ha rivelato una inchiesta dell'ambasciatore Joseph Torsella, il diplomatico americano responsabile per la riforma e il management, nel solo biennio 2010-2011, l'Onu ha speso 575 milioni di dollari in viaggi. Visto che il campus sull'East River dove ha sede il Palazzo di vetro si estende su una superficie di 69 mila metri quadri su cui non cresce un solo albero da frutto o una pianta commestibile, l'Onu ha pensato bene di risolvere il problema del budget per frutta e verdura creando una serie di piccoli orticelli dentro al campus. Pomodori, zucchine, fagiolini, carote e altre verdurine biologiche oggi coltivate nel giardino dell'Onu verranno distribuite tra lo staff o donate a "food banks". Ci sarebbe da ridere a crepapelle se non fosse tremendamente tragico il livello cui sono scese le Nazioni Unite.
"Il concetto stesso di Nazioni Unite era nobile", dice al Foglio Joseph Olmert, professore di Scienze politiche alla South Carolina University e fratello dell'ex primo ministro israeliano. "Il problema è che non funziona. La Lega delle Nazioni è stata un fiasco miserabile e l'Onu non è da meglio. Senza contare il doppio standard su Israele, che avviene a spese delle vere tragedie del nostro tempo". "Considero le Nazioni Unite come una istituzione indegna, perché fu fondata per prevenire il genocidio, mentre è rimasta a guardare senza fare niente di fronte alle guerre e ai genocidi in Ruanda e Darfur" incalza al Foglio il padrino del movimento neoconservatore Norman Podhoretz. "Se non bastasse, l'Onu ha condotto una campagna senza fine per delegittimare Israele, divenendo la principale fonte di antisemitismo nel nostro tempo. Per questa e altre ragioni, il mondo sarebbe un posto migliore se l'Onu non avesse mai visto la luce".
Dello stesso avviso Yossi KIein Halevi, intellettuale americano che da qualche anno vive in Israele, collaboratore di New Republic e del New York Times, che ci spiega: "E' oggi routine all'Onu condannare Israele più di qualsiasi altro paese, inclusa Corea del Nord, Iran, Sudan e Siria. L'Onu è una farsa, e un pericolo per il popolo ebraico". Già, Israele, la grande ossessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Questo organismo sorge in quella Versailles diplomatica che è Ginevra. Nella città lacustre, la presenza del Palais des Nations è massiccia e incombente nella ricchezza della grande storia, il lusso del passato fastoso, il clamore della retorica pubblica e le migliaia di funzionari arrivati dai cinque continenti che costituiscono una folla pittoresca. Trenta sale per le riunioni, ognuna delle quali con materiali e decorazioni provenienti da questo o quel paese membro. La biblioteca custodisce seicento mila volumi. Il bel parco di ventidue ettari fu donato da una famiglia del patriziato ginevrino, i Revilliod de la Rive. Lo fece a una condizione: che vi si continuassero ad allevare quei pavoni che è facile incontrare, quando ci si aggira per il parco alla ricerca dello spirito di Jean-Jacques Rousseau. Bene, in quel Consiglio è entrato a far parte, tanto per citare un simpaticone democratico, Saeed Mortasavi, il pubblico ministero di Teheran che ha perseguitato scrittori e torturato intellettuali, noto come il "macellaio della stampa". In passato è successo che la Libia ottenesse la presidenza di questo Consiglio o che l'Arabia Saudita, Cuba e lo Zimbabwe, questi modelli di condotta umanitaria, decidessero quali violazioni fossero da condannare. Sono loro, le dittature o "stati parzialmente liberi", forti di una maggioranza di 27 membri su 45, ad aver dato mandato alla commissione di Mary McGowan Davis di accusare Israele di "crimini di guerra" lo scorso giugno Ce prima c'era stato il ridicolo Rapporto Goldstone). Come spiega Anne Bayefski, direttrice di
Ogni volta che nel Consiglio le democrazie hanno sollevato il problema della sharia e dei crimini commessi in suo nome (lapidazioni, amputazioni, esecuzioni, mutila- zioni. .. ) gli ambasciatori dei regi- mi islamici sono riusciti sempre a insabbiare tutto.
|
Human Rights Voices, "Israele guida ogni anno la lista dei paesi più bersagliati da singole inchieste all'Onu, seguito da Siria, Sudan, Somalia, Iran ... ". Si capisce allora perché Foreign Policy parla del bisogno di "riportare i diritti umani dentro al Consiglio per i diritti umani". Ogni volta che nel Consiglio le democrazie hanno sollevato il problema della sharia e dei crimini commessi in suo nome (lapidazioni, amputazioni, esecuzioni, mutilazioni. .. ) gli ambasciatori dei regimi islamici sono riusciti sempre a insabbiare tutto. Sempre a Ginevra c'è un'altra commissione, quella sulla Tortura, che un anno fa è riuscita a mettere sotto inchiesta il Vaticano per gli abusi sessuali, paragonati a una forma di tortura appunto. "Le Nazioni Unite sono figlie di Franklin e Eleanor Roosevelt, due naìf che non avevano capito che l'Onu sarebbe diventato strumento di tiranni ed estremisti", dice al Foglio lo studioso di medio oriente Daniel Pipes. Per dirla con lo storico inglese Paul Johnson, "oggi gli amici dei dittatori sono premiati con questi confortevoli posti a New York". Solo nove paesi (oltre a Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna e Cina) contribuiscono per il 75 per cento del budget totale dell'Onu. Ma ormai il Palazzo di vetro è dominato da dittature, oligarchie e satrapie. Non c'è cattivone al mondo che non abbia un posto che conta: Cina, Russia e Yemen hanno la vicepresidenza dell'Assemblea generale; l'Arabia Saudita sta nel comitato per il Disarmo; il Sudan siede nel Legai Committee; Congo e Iran sono membri della commissione sulle Donne; l'Unicef ha come paesi membri Cina, Pakistan e Iran; la commissione per la Prevenzione del crimine ha dentro Bielorussia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi; allo Sviluppo sostenibile ci sono Angola e Libano; al comitato per l'Informazione non potevano mancare Cina, Iran, Kazakistan e Libia.
Il presidente americano Barack Obama ha sempre definito l'Iran "isolato". Ma all'Onu, Teheran è una rock star. Si è occupato di "diritti femminili" al programma per lo Sviluppo (nel 2009 l'Iran ne è stato presidente), è stato vicepresidente dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, è stato all'ufficio Onu per la Droga e il crimine, nella commissione sulla Prevenzione del crimine e la Giustizia penale, nel board esecutivo dell'Unicef e nella commissione per la Scienza, la Tecnologia e lo Sviluppo e nel "Comitato per l'uso pacifico dello spazio". Al Palazzo di vetro i tiranni si distribuiscono anche i premi: il principe saudita Nayef nel 2013 è stato insignito del premio per il suo "lavoro umanitario"; il premio per il "servizio pubblico" è andato al ministero dell'Interno del Libano, nelle mani dei terroristi di Hezbollah; Fidel Castro è stato nominato "eroe mondiale della solidarietà", il presidente boliviano Evo Morales è "l'eroe mondiale della madre terra" e l'ex presidente della Tanzania, Julius Nyerere, è "l'eroe mondiale della giustizia sociale". E ci fermiamo qui, per decenza. Il matematico francese Laurent Lafforgue ha commentato che "è come se un Alto consiglio dei diritti dell'uomo decidesse di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per i diritti umani". In tutta la sua storia, il Consiglio di sicurezza si è mosso solo due volte per fermare aggressioni che
Nata per prevenire i genocidi, l'Onu non vanta un bel curriculum: un milione di Tutsi uccisi dagli Hutu in Ruanda nel 1994 mentre i Caschi blu restavano a guardare; diecimila musulmani bosniaci massacrati a Srebrenica quando dovevano esse- re protetti dalle truppe olandesi sotto egida dell'Onu; 200 mila sudanesi del Darfur sterminati; un milione di iracheni perseguitati da Saddam Hussein.
|
hanno comportato violazioni di confini nazionali, il tipo di aggressioni, cioè, che statutariamente l'Onu è
nata per impedire: in Corea nel 1950 e nel Kuwait fra 1990 e 1991. In entrambi i casi, però, le Nazioni Unite si sono semplicemente rivolte agli Stati Uniti e ai suoi alleati. Nata per prevenire altri genocidi, l'Onu non vanta un bel curriculum: un milione di Tutsi uccisi dagli Hutu in Ruanda nel 1994 mentre i Caschi blu restavano a guardare; diecimila musulmani bosniaci massacrati a Srebrenica quando dovevano essere protetti dalle truppe olandesi sotto egida dell'Onu; 200 mila sudanesi del Darfur sterminati mentre al Palazzo di vetro i burocrati discettavano se fosse o meno un "genocidio"; un milione di iracheni perseguitati da Saddam Hussein che rimpinzava il suo regime con il programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E anche qui ci fermiamo, sempre per decenza. Il brindisi, del luglio 1995, tra Ratko Mladic e Ton Karremans, comandante del contingente Onu preposto alla difesa dell'enclave che sancì la resa della città e la consegna dei suoi abitanti alle forze militari serbo-bosniache, è una delle più nefande immagini che può stare a fianco di quelle che ritraggono i leader francese e britannico sorridenti a Monaco, mentre consegnano la Cecoslovacchia ad Adolf Hitler. Gli scherani di Mladic si presentarono ai civili di Srebrenica con i Caschi blu avuti dal contingente olandese, così che anche fisicamente i massacratori avevano la divisa dei pacificatori. Per questo le vedove di Srebrenica hanno fatto causa alle Nazioni Unite. Il genocidio è il "mai più" della comunità internazionale, ma impone l'obbligo di intervento. E l'Onu non interviene mai. A capo della missione dell'Onu in Ruanda, nel 1994, c'era un generale canadese, Roméo Dallaire. Nelle sue memorie, "Shake Hands with the Devii: The Failure of Humanity in Ruanda", Dallaire racconta che, alcuni mesi prima dell'inizio del genocidio, era riuscito a scoprire i piani di sterminio. Riferì il tutto sia a Kofi Annan, allora sottosegretario generale incaricato di peacekeeping, sia al capo politico della missione Onu in Ruanda, ma la risposta fu allucinante: essere cauti, non divulgare queste informazioni, non disturbare il segretario generale, Boutros Boutros-Ghali, scordarsi ogni tipo di missione preventiva. Più tardi Dallaire chiese rinforzi, ottenendo invece una riduzione del suo contingente. Dopo un tentato suicidio, nel 2000 gli venne diagnosticata la sindrome da stress post traumatico. Non che le altre agenzie stiano meglio. L'American Enterprise Institute ha messo sotto accusa il World Food Program in un meticoloso dossier. Ovviamente una agenzia simile, con uffici in ottanta paesi e responsabile della distribuzione di cibo a cento milioni di persone ogni anno, non può essere immune da problemi. Ma le sue falle sono ormai comiche e strutturali. In Etiopia, uno dei paesi che più beneficia del programma Onu, soltanto il dodici per cento del cibo arriva a destinazione. In Corea del nord, il dittatore Kim Jong-un storna gran parte dei fondi a favore dei corrotti del regime comunista. Il presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, si è scagliato contro la Fao, l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite, definendola un "pozzo di denaro senza fondo" che dovrebbe essere abolita per aumentare la produzione alimentare mondiale. Gli analisti dicono che decenni di abbandono dell'agricoltura da parte di questa agenzia ha lasciato molti paesi con poco cibo per nutrire la loro gente. "C'è stato un fallimento istituzionale molto profondo su come risolvere i problemi alimentari", ha dichiarato Peter Timmer, studioso della Stanford University che studia la sicurezza alimentare. La Fao, con sfavillante sede a Roma (e altre 130 sedi nel mondo), è diventata il bersaglio di pesanti critiche. Una revisione indipendente delle sue politiche ha rivelato che l'agenzia ha perso la fiducia dei donatori, che hanno costantemente ridotto i finanziamenti negli ultimi dieci anni. "La Fao è oggi alla deriva", secondo la relazione del 2007 di un gruppo di esperti esterni. La prestigiosa rivista scientifica inglese Lancet ha pubblicato un rapporto clamoroso contro l'agenzia Onu di
aiuti all'infanzia, Unicef, che sarebbe diventata "uno dei maggiori ostacoli alla sopravvivenza dei bambini
Da dieci anni l'Unicef finanzia pro- getti in difesa dei "diritti del bambi- no", invece che investire sulla sopravvivenza dell'infanzia. Il lin- guaggio dei diritti umani significa poco per un bambino nato morto.
|
nei paesi in via di sviluppo". Da dieci anni l'Unicef finanzia progetti in difesa dei "diritti del bambino", invece che investire sulla sopravvivenza dell'infanzia. Il linguaggio dei diritti umani significa poco per un bambino nato morto, per un neonato che muore di polmonite o per un ragazzino disidratato dalla carestia. L'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, ha svolto un ruolo positivo in molte parti del mondo. Ma negli anni, complice anche la politica delle donazioni esterne, è diventata una sorta di guardiana delle politiche di immigrazione nel mondo. L'Unhcr decide chi è "rifugiato" e chi no, arrogandosi un potere immenso, ideologico, aleatorio. Nel campo profughi di Tug Wajalle, in Somalia, nessuno ha mai saputo con precisione quanti fossero i veri profughi etiopi e quanti, invece, i somali che fingono di essere rifugiati dalla vicina Etiopia per accaparrarsi il cibo passato dall'Alto commissario dell'Onu per i profughi (Unhcr). Barbara Harrell-Bond, fondatrice del Refugee Studies Center dell'Università di Oxford, ha scoperto che l'Unhcr in Uganda e Kenya ha imposto lavoro non retribuito ai rifugiati confinati nei campi e non è riuscita a proteggere le donne dalle mutilazioni genitali e dalla violenza domestica. Nel libro "Rights in Exile", scritto assieme a Guglielmo Verdirame, Harrell-Bond spiega come la gestione dei campi profughi dell'Onu sia un disastro e i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali sono costantemente violati anche a causa della struttura e della burocrazia onusiana. I profughi afghani nei campi Unhcr in Pakistan hanno subito i diktat degli islamisti, in particolare per l'assistenza in forma di istruzione e di opportunità di lavoro offerte dalle N azioni Unite alle donne. Il livello di alfabetizzazione in quei campi è stato del 60 per cento tra i maschi rifugiati e del sei per cento tra le ragazze. "Culture" è la parola magica utilizzata dall'Unhcr come giustificazione per spiegare questo mancato rispetto dei diritti delle donne. Oltre sette milioni di rifugiati nel mondo si ritiene vivano in campi Unhcr per una durata di dieci anni e persino per alcune generazioni. Come ha scritto Merrill Smith, "condannare le persone che fuggono dalla persecuzione a ristagnare per il resto della loro vita è inutile, dispendioso, ipocrita, controproducente, illegale e moralmente inaccettabile". Ma di questo, l'Unhcr non parla. La succursale palestinese dell'Unhcr, Unrwa, è accusata da anni di collusione con il terrorismo antisraeliano. Di giorno insegnante premuroso per le Nazioni Unite, di notte capo militare di Hamas. E' il caso di Issa al Batran, che ha gettato enorme discredito sull'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Il suo codice Unrwa era il "2Z9558". Awad al Qiq aveva alle spalle una lunga carriera come insegnante di Scienze in una scuola dell'Unrwa. Ma era anche il principale fabbricatore di bombe per il jihad islamico. La credibilità dell'Undccp, l'Agenzia antidroga delle Nazioni Unite con sede a Vienna, è minata da anni di scandali. Dal 1997 al 2001 l'agenzia è stata diretta dall'italiano Pino Arlacchi, memorabile, che promosse la brillante idea di finanziare lo sradicamento delle colture di oppio afghano in cambio di incentivi economici. I Talebani ovviamente si presero i soldi e continuarono a produrre oppio. Dei fallimenti dell'Agenzia atomica, l'Aiea, è perfino inutile parlare. L'Unesco, l'Agenzia Onu per la cultura, è accusata di
Il nepotismo è dilagato al vertice dell'Onu. Il figlio dell'ex segretario Kofi Annan, Kojo, era a libro paga della società che avrebbe dovuto controllare il funzionamento del programma iracheno Oil for Food, mentre la figlia dell'attuale segre- tario, Ban Hyun Hee, lavora per l'Unicef.
|
piegare la sua celebre lista dei tesori dell'umanità a fini commerciali. E mentre l'Isis da mesi fa saltare in aria ogni giorno qualche tesoro del passato, da Parigi l'Unesco emette indignati comunicati. Il nepotismo è dilagato al vertice dell'Onu. Il figlio dell'ex segretario Kofi Annan, Kojo, era a libro paga della società che avrebbe dovuto controllare il funzionamento del programma iracheno Oil for Food, mentre la figlia dell'attuale segretario, Ban Hyun Hee, lavora per l'Unicef. Il genero del segretario, Siddarth Chatterjee, da quando il suocero è diventato segretario, è stato prima nominato capo dello staff dell'Onu a Baghdad, uno dei teatri più importanti di impegno delle Nazioni Unite. In seguito ha battuto un centinaio di candidati per la guida di una ricchissima agenzia in Danimarca che gestisce appalti miliardari, l'Unops. Subito dopo l'Unicef ha trasferito la moglie nonché figlia di Ban Ki-moon, in Danimarca. Il nepotismo dilaga anche fra i membri delle commissioni. Richard Falk, l'inviato dell'Onu nei Territori palestinesi, è sposato con Hilal Elver, che è inviata Onu per il diritto al cibo. Storie simili abbondano al Palazzo di vetro. Come rivela un rapporto dell'Heritage Foundation, il numero di alti dirigenti dell'Onu è schizzato alle stelle: erano 143 nel 2006, sono saliti a 193 nel 2014. Un aumento del 35 per cento sotto Ban ki-Moon, che sale al 50 per cento nella sola città di New York. C'è stato anche un italiano, Nicola Baroncini, impiegato al programma per lo sviluppo dell'Onu (Undp), a denunciare il nepotismo interno alla burocrazia onusiana. Baroncini aveva infatti scoperto che il suo posto sarebbe andato alla figlia del responsabile della missione dell'Onu nella Repubblica democratica del Congo, il britannico Alan Doss. E quando c'è nepotismo di solito c'è anche corruzione. Per dirla con l'ex senatore americano Larry Pressler, "all'Onu regna una cultura da Terzo mondo: sei al potere? Ti arricchisci saccheggiando il paese". Quando James Wasserstrom, un alto ufficiale anticorruzione presso le Nazioni Unite in Kosovo, ha denunciato uno schema che ha coinvolto tangenti del valore di cinquecento milioni di dollari a funzionari del Kosovo e a membri anziani della missione delle Nazioni Unite, il suo passaporto è stato confiscato e la sua fotografia affissa agli ingressi degli uffici della missione Onu per negargli l'accesso ai locali. Alla fine la battaglia legale gli ha dato ragione, ma la carriera di Wasserstrom era ormai distrutta. Il presidente Barack Obama ha convertito in legge un disegno di legge, il primo del suo genere, che costringe il Dipartimento di stato degli Stati Uniti a ritirare il 15 per cento dei finanziamenti americani da qualsiasi agenzia delle Nazioni Unite che non protegge gli informatori. Questa è una buona notizia, perché l'Onu è famoso per non proteggere gli informatori. Il progetto per il Government Accountability con sede a Washingtion ha scoperto che l'ufficio Etica delle Nazioni Unite, che si occupa di ricevere i ricorsi per la protezione da informatori delle Nazioni Unite, non è riuscito a proteggere oltre il 98 per cento di coloro che si sono avvicinati a quell'ufficio per aiutare l'Onu tra il 2007 e il 2010. Ban Ki-moon ha sciolto il Procurement Task Force delle N azioni Unite che era stato istituito dal suo predecessore, Kofi Annan, per indagare sulle irregolarità finanziarie all'interno dell'organizzazione. La task force aveva rivelato livelli sbalorditivi di corruzione e furto all'interno dell'organizzazione. Si è scoperto che quasi la metà dei 350 mila dollari destinata a una stazione radio delle Nazioni Unite a Baghdad era stata utilizzata per pagare i prestiti personali e le carte di credito. In Somalia, le agenzie delle Nazioni Unite si voltano dall'altra parte quando i partner locali rubano cibo e altri aiuti. Coloro che osano parlare contro tali irregolarità sono castigati, ignorati, retrocessi, o licenziato. Quando Georges Tadonki, il capo dell'ufficio delle N azioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nello Zimbabwe, ha lanciato l'allarme su un possibile epidemia di colera nel 2008, è stato ammonito, sottoposto a un'indagine, e informato che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato. Il mantenimento della pace è finito in una trappola cinica. Come ha rivelato una inchiesta dell'Office of Internai Oversight Services, nel solo anno 2007 di 1,4 miliardi di dollari, elargiti per le missioni di pace, il
La rete televisiva Cbs ha scoperto che centinaia di milioni di dollari del bilancio Onu sono scomparsi, inghiottiti in un buco nero di sprechi, cattiva amministrazione, corruzione. Impiegati mai esistiti, stipendi fantasma, lavori mai fatti.
|
quaranta per cento (619 milioni) era finito in movimenti di corruzione. Claudia Rosett, della Fondazione per la difesa delle democrazie, ha detto che la corruzione ormai investe tutti i tipi di contratto. La rete televisiva Cbs ha scoperto che centinaia di milioni di dollari del bilancio Onu sono scomparsi, inghiottiti in un buco nero di sprechi, cattiva amministrazione, corruzione. Impiegati mai esistiti, stipendi fantasma, lavori mai fatti. Se in Somalia 369 mila dollari sono stati pagati per servizi di distribuzione di carburante mai previsti, un direttore dell'agenzia che aiuta i rifugiati palestinesi si è tenuto 100 mila dollari dell'agenzia su una banca privata e ha omesso di comunicare un interesse personale in un progetto d'irrigazione. E spesso queste missioni umanitarie finiscono per coprire i crimini di guerra delle parti in campo. Aicha Elbasri, che ha servito come portavoce per la missione delle Nazioni Unione Unite in Darfur (Unamid), ha rivelato che tra l'agosto 2012 e l'aprile 2013 la missione ha volutamente sottostimato e nascosto gli attacchi delle forze sudanesi contro i civili. Paesi potenti forniscono i soldi, gli Stati Uniti il finanziamento di un quarto del budget e i paesi più poveri, soprattutto di Africa, Asia meridionale e America Latina, forniscono le truppe. E i soldati, quasi sempre scarsamente addestrati e selezionati, sono stati responsabili di abusi sessuali in tutto il mondo. La ong Human Rights Watch ha accusato la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica democratica del Congo di essere "un modello di sfruttamento sessuale di donne e ragazze congolesi". Nel 2011, è uscito sui giornali uno dei titoli meno rassicuranti di tutti i tempi: "Accuse di abusi sessuali contro i Caschi blu in declino nella Repubblica democratica del Congo e in Liberia". In declino ... Il rapporto del principe Zeid al Hussein, "A Comprehensive Strategy to Eliminate Future Sexual Exploitation and Abuse in United Nations Peacekeeping Operations", parla di Caschi blu coinvolti in scandali sessuali in Bosnia, Kosovo, Cambogia, Timor Est, Burundi e Africa occidentale. In Africa si parla ormai di "peacekeepers babies", i bambini illegittimi dei "soldati umanitari". Lo scorso giugno l'Onu ha iniziato a proporre test del Dna proprio per cercare i padri dei bambini nati dai rapporti sessuali dei Caschi blu con le donne dei paesi nei quali si trovavano ad operare. I soldati umanitari
I soldati umanitari hanno preteso prestazioni sessuali in cambio di cibo, denaro, vestiti, telefonini e profumi. Un dossier interno segnala che le denunce di abusi sessuali sono state 480 nel periodo compreso fra il 2008 e il 2013.
|
hanno preteso abitualmente prestazioni sessuali in cambio di cibo, denaro, vestiti, telefonini e profumi. Un dossier interno segnala che le denunce di abusi sessuali sono state 480 nel periodo compreso fra il 2008 e il 2013. Un terzo dei casi vede coinvolte donne non ancora diciottenni. Scandali di abusi sessuali e pedofilia di massa hanno colpito le Nazioni Unite a partire dai primi anni Novanta, quando le forze di pace in Cambogia furono accusate di abusi sessuali su ragazzine. Allora l'alto funzionario delle Nazioni Unite in Cambogia, Yasushi Akashi, minimizzò le accuse dicendo: "I ragazzi sono ragazzi". L'Onu ha talmente presente la piaga del sesso dei suoi inviati umanitari da aver distribuito ai Caschi blu un opuscolo dal titolo: "Proteggiti dall'Hiv/ Aids". "E' il sesso occasionale a occupare gran parte del vostro tempo quando non siete di servizio? E' questa la vostra maniera principale per combattere lo stress?", chiede il libretto di trenta pagine. Un vademecum del Casco blu amatore su come evitare rischi di contagio. L'ultima epidemia di Ebola ha rivelato le falle di un'altra celebre agenzia dell'Onu, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il Wall Street Journal ha elencato tutti i fallimenti del sistema. Nel 1980, l'Oms ha sottovalutato la portata dell'epidemia di Aids ed è stata affittata da lotte intestine e scarso coordinamento. Nel 2009 1'organizzazione è stata a dir poco lenta nell'affrontare l'influenza pandemica H1N1. Un'inchiesta interna pubblicata nel 2011 ha accusato l'Oms di aver commesso errori cruciali, tra cui la mancanza di trasparenza, la scarsa comunicazione esterna, i conflitti di gestione, e una definizione "inutilmente complessa" di pandemia. Nel 2010 l'Organizzazione mondiale della sanità si è trovata ad Haiti a dover gestire un'epidemia di colera mortale inavvertitamente introdotta da Caschi blu del Nepal intervenuti dopo il terremoto. Prove schiaccianti hanno dimostrato che i soldati delle Nazioni Unite hanno portato la malattia dal loro paese d'origine. Sono stati 8.774 gli haitiani morti di colera. La malattia si è rivelata molto più veloce della burocrazia dell'Oms e ha contagiato Repubblica Dominicana, Cuba e Messico, uccidendo migliaia di persone. Si arriva così a Ebola, "una catastrofe evitabile" secondo il microbiologo belga e medico che ha coscoperto il virus nel 1976, Peter Piot, il quale ha accusato l'Onu di non aver agito in tempo per bloccare la malattia. Le prime voci a favore di una riforma del Palazzo di vetro risalgono al 1948. L'Onu non si era ancora riunita e gli stati membri discutevano già su come cambiarla. Nelle parole di Charles Lichtenstein, ambasciatore americano negli anni Ottanta, "l'Onu era già un treno fuori controllo". Tanti auguri, Palazzo del fango!
(Il Foglio, 19 settembre 2015)
TTG Italia vince il Premio Stampa dell'Ente del turismo di Israele
di Oriana Davini
Prima edizione di un appuntamento che, nelle intenzioni di Avila Kotzer Adari, direttrice dell'Ente, "speriamo diventi una tradizione", il premio si articola in cinque sezioni: online, blog, trade, carta stampata e televisioni.
"Abbiamo scelto di premiare gli articoli e i servizi che non solo parlano di Israele, ma lo fanno in modo nuovo e originale pur rispettandone la storia e la tradizione millenaria", ha spiegato Kotzer Adari. Sul palco dei premiati, per la sezione televisione, è salito anche Ernst Knam, famoso maitre chocolatier e pasticcere, che proprio a Tel Aviv ha girato una puntata della serie 'Il re del cioccolato'.
(TTG Italia, 18 settembre 2015)
Gli ebrei reagiscono al boicottaggio islandese
Il Congresso Ebraico Europeo sta prendendo in considerazione di adire le vie legali contro la decisione della Municipalità di Reykjavik (Islanda) di boicottare tutti i prodotti israeliani. "E' chiaramente una mossa discriminatoria in contrasto con il diritto e i trattati internazionali - ha detto alla stampa il presidente del Congresso Ebraico Europeo, Moshe Kantor - Ancora una volta vediamo un paese, unico fra tutti, sottoposto a boicottaggio e vorremmo chiedere a coloro che perseguono questo boicottaggio se si tratta di una mera coincidenza il fatto che quest'unico paese sia anche l'unico stato ebraico al mondo. Avevano detto che iniziavano con Israele per poi esaminare altre situazioni, ma nessuno è mai andato al di là di Israele. E' tempo di reagire e far capire a queste persone che odio e discriminazione non possono passare senza conseguenze". L'Islanda, viene fatto notare, ha pieni rapporti diplomatici con paesi come Iran, Siria, Sudan, Corea del Nord. La misura votata a Reykjavik non fa alcuna distinzione tra merci prodotte da una parte o dall'altra della Linea Verde (ex linea armistiziale fra Israele e Giordania dal 1949 al 1967). Uno degli argomenti di Gerusalemme contro l'etichettatura UE delle merci israeliane prodotte in Cisgiordania è, appunto, che essa apre la strada verso il boicottaggio indiscriminato di tutti i prodotti israeliani. Giovedì sera il Ministero degli esteri islandese ha preso le distanze dalla decisione del consiglio comunale di Reykjavik dicendo che essa "non riflette" le linee di politica estera del paese.
(israele.net, 18 settembre 2015)
Nasce il primo paese europeo "Israel free"
Reykjavik approva il boicottaggio totale. Il vento che spira dall'Islanda.
ROMA - Strano paese l'Islanda. Sembra un girone dantesco abitato da rari mufloni. Fatta da sterminati ghiacciai (il Vatnajokull è il pit vasto d'Europa), vulcani e geyser, sorgenti minerali fredde e calde, laghi e cascate, deserti e verdi pianori, un paese dove il termometro non scende mai oltre i cinque gradi sotto zero, l'Islanda si pregia di essere "il popolo pitt pacifico d'Europa". Sull'elenco del telefono, i nomi precedono i cognomi: e i primi sono più importanti, anche legalmente, dei secondi. Una società descritta come "giusta e felice". Il tenore di vita è alto, senza ricchi né poveri, senza disoccupati, ed è accresciuto dal manto protettivo dello stato assistenziale scandinavo. Cosa può spingere quest'isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti "made in Israel"? E' quello che è successo ieri, quando la capitale dell'Islanda, Reykjavik, ha adottato la decisione, proposta dalla consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir, di boicottare tutti i prodotti israeliani. Non soltanto i prodotti dei Territori, ma tutti ciò che proviene dallo stato ebraico.
E' la prima volta che accade in un paese occidentale. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Emanuel Nachson ha commentato: "Non c'è alcuna ragione o giustificazione per questo provvedimento a parte l'odio in se stesso, che si fa sentire sotto forma di appelli al boicottaggio contro Israele, lo stato ebraico. Speriamo che qualcuno in Islanda si svegli e fermi questa cieca unilateralità rivolta contro l'unica democrazia del medio oriente". Standwithus, ong filoisraeliana, ieri ha già lanciato il boicottaggio dei prodotti islandesi mentre il Congresso ebraico europeo valuta azioni legali.
La risoluzione antisraeliana è stata proposta dall'Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell'Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che "il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace". Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell'Interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all'ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo stato ebraico di "olocausto del popolo palestinese". Il ministro degli Esteri, Össur Skarphéinsson, ha detto di valutare la fine dei rapporti diplomatici con Gerusalemme e che se deciderà di non procedere è soltanto perché l'Islanda ne ha anche con Siria, Iran, Sudan e Corea del Nord. Israele come stato canaglia dunque.
Durante la Guerra fredda si disse che dall'Islanda soffiava il "vento della pace" (era l'epoca degli incontri a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov sui missili). Oggi dall'isola nordeuropea spira un freddo vento antisemita. Si potrebbe suggerire ai pallidi e socialdemocratici islandesi di apporre anche una stella di Davide sulla merce. Giulio
(Il Foglio, 18 settembre 2015)
Il Libano non teme la concorrenza israeliana nel comparto del gas
BEIRUT - L'approvazione da parte del governo israeliano dei piani sullo sviluppo dei suoi giacimenti di gas in mare aperto, non avrà necessariamente un impatto negativo sugli interessi libanesi per quanto riguarda l'estrazione la vendita in futuro. Lo ha detto il direttore del centro di ricerca Crystol Energia, Carole Nakhle, intervistata dal quotidiano libanese "The Daily Star". Secondo la Nakhle, le grandi compagnie energetiche sono restie ad investire nel giacimento di competenza israeliana per timori di una reazione ostile dei paesi arabi, in cui tali società hanno grandi investimenti. "Israele ha due scelte quando si tratta di vendere le sue riserve di gas naturale: l'esportazione attraverso gasdotti o la sua trasformazione in gas naturale liquefatto (Gnl)", ha detto la direttrice di Crystol. Al momento l'unico paese in cui Gerusalemme può esportare il suo gas è l'Egitto dove è già attivo un collegamento, ma tale opportunità ha perso di interesse dopo la scoperta da parte di Eni del megagiacimento di Zohr nell'area economica esclusiva egiziana.
Per la Nakhle l'alternativa è l'utilizzo della tecnologia Gnl, che però è molto costosa. Tuttavia a differenza di Israele il Libano non ha ancora compiuto i passi necessari per dare il via alle esplorazioni nella sua zona economica esclusiva. "Abbiamo bisogno di approvare i due decreti che consentono la consegna delle licenza il più presto possibile per incoraggiare le grandi aziende ad investire in Libano", ha sottolineato la Nakhle. Secondo le stime del governo di Beirut la zona economica esclusiva del Libano, situata nelle acque marine territoriali antistanti il paese mediorientale, contiene fra i 15 e i 20 di miliardi di metri cubi di gas, ma ad oggi a causa dell'impasse politico non sono ancora iniziate esplorazioni effettive. In questi mesi il ministro dell'Energia e delle risorse idriche libanese, Arthur Nazarian, ha più volte avvertito che le compagnie petrolifere internazionali potrebbero perdere interesse alle risorse petrolifere e di gas libanesi se il governo non riesce ad accelerare le procedure di autorizzazione. Dall'agosto 2014 la prima gara per l'assegnazione delle licenze è stata rinviata per cinque volte a causa di disaccordi politici.
(Agenzia Nova, 18 settembre 2015)
Putin ha già fatto il primo passo per allargare la sua coalizione
"Siamo d'accordo con gli Stati Uniti: Assad non deve cadere", dice l'inviato russo all'Onu. Il coro europeo.
di Paola Peduzzi
MILANO. "Penso che ci sia una cosa che ora condividiamo con gli Stati Uniti - ha detto Vitaly Churkin, l'inviato all'Onu della Russia, alla Cbs mercoledì - Non vogliono che cada il governo di Bashar el Assad in Siria. Non vogliono che cada. Vogliono combattere lo Stato islamico in modo che non ci siano danni per il governo siriano. Ma non vogliono che il governo siriano si avvantaggi della loro campagna aerea contro lo Stato islamico. E' davvero una situazione complicata". Le parole del ciarliero Churkin - che hanno fatto imbestialire l'inviata americana all'Onu, quella Samantha Power che inorridisce davanti ai regimi, sbraita, dice che favorire un dittatore che gasa il suo popolo "non può funzionare", ma non riesce a convincere Barack Obama a indignarsi allo stesso modo - segnalano qual è il primo obiettivo della Russia: creare una convergenza sulla tenuta di Assad, che sul campo esiste, ma che formalmente è da sempre smentita.
Se non fate cadere Assad, dicono i russi, allora possiamo parlare: gli esperti continuano a escludere un coinvolgimento attivo delle forze armate di Mosca contro lo Stato islamico, ma la grande coalizione contro il terrorismo invocata da Vladimir Putin è un collante sufficiente per avviare un dialogo tra Russia e Stati Uniti che ormai gli americani considerano inevitabile.
Nessuno ha mai creduto davvero che Assad potesse cadere sotto i colpi dell'operazione militare aerea guidata dagli americani: sentendo i generali del Pentagono due giorni fa davanti alla commissione del Senato, è stato di nuovo chiaro che non si è mai lavorato a una strategia alternativa ad Assad, né dal punto di vista dell'intelligence né da quello della formazione delle forze di opposizione. Ora i russi vogliono far sì che quel che è stato sancito sul terreno venga esplicitato, in modo che il loro uomo a Damasco - loro non hanno bisogno di un'alternativa - possa avere la legittimazione che chiede come partner della lotta al terrorismo jihadista dello Stato islamico, esattamente come sono ormai legittimati gli iraniani e le loro forze armate, i pasdaran e Hezbollah.
Che gli americani possano davvero convergere verso una coalizione a guida russa dai chiari connotati antiamericani e anti israeliani sembra piuttosto bizzarro, soprattutto per il fatto che condividere piani strategici e militari con le forze al Quds iraniane sembra ben oltre le premesse dialoganti del deal sul nucleare e invero troppo sciagurato persino per il tentennante Obama - come ha quasi urlato davanti al Congresso americano il premier israeliano Benjamin Netanyahu: "Il nemico del mio nemico è mio nemico!". La settimana prossima il premier israeliano farà una visita d'emergenza a Mosca per discutere con Putin del fatto che l'afflusso di armi sofisticate russe in Siria e le operazioni a braccetto con i pasdaran sono una minaccia per Israele. Ma accordarsi sulla tenuta di Assad non è poi così difficile. Al Congresso americano, i democratici iniziano a chiedere se davvero allontanare il rais siriano sia una soluzione efficace. I francesi, che sono gli europei più interventisti e anche i meno filoassadisti, hanno già cambiato i toni durante l'estate: Assad non se ne deve più andare, ma "è necessario creare le condizioni per una transizione che neutralizzi" il dittatore siriano. Se si pensa che alla parola "transizione" ormai Assad si prende il lusso di dire (alle televisioni russe, naturalmente): ma come potete chiedere la mia testa visto che combatto il terrorismo?, è chiaro che le condizioni non si creeranno più. Alcuni diplomatici sono stati più espliciti. Il ministro degli Esteri tedesco, Ursula von der Leyen, ha detto allo Spiegel che ci sono "interessi mutuali" con la Russia in Siria. Il ministro degli Esteri austriaco aveva detto già la settimana scorsa che l'occidente "deve coinvolgere Assad e i suoi alleati, l'Iran e la Russia, per combattere lo Stato islamico (il presidente austriaco era a Teheran a incontrare il suo collega iraniano Hassan Rohani, in quei giorni, e si era fatto convincere dalle parole suadenti del presidente della Repubblica islamica: ci sediamo a qualsiasi tavolo ci garantisca la stabilizzazione della situazione siriana). Il ministro degli Esteri spagnolo, José García-Margallo y Marfil, ha dichiarato più o meno le stesse intenzioni: i negoziati con Assad "sono cruciali" per garantire un cessate il fuoco in Siria (argomentazione invero poco comprensibile: chi smetterebbe di sparare se si apre il dialogo con il regime di Damasco? Lo Stato islamico? La coalizione a guida americana? Il regime stesso di Damasco?).
Molti governi europei sono convinti che l'intervento russo in Siria possa avere effetti positivi sul contenimento dei flussi migratori. Putin accusa gli americani, sostenendo che la crisi dei rifugiati era prevedibile e che l'accanimento della coalizione con i bombardamenti l'ha accelerata, facendo intendere che un intervento a favore di Assad potrebbe creare la stabilità necessaria per fermare la fuga. Per questo inchinarsi alla regia russa non risulta poi così difficile, in un'Europa che da sempre si divide sul proprio rapporto con Mosca e che è abituata a farsi risolvere i propri problemi di sicurezza da qualcun altro.
(Il Foglio, 18 settembre 2015)
*
Come ha fatto Obama ad arrivare in mutande da Putin?
di Carlo Panella
Barack Obama ha conseguito un incredibile e triste primato: se deciderà di incontrare Vladimir Putin a New York, sarà il primo presidente americano della storia a presentarsi a un vertice con un leader del Cremlino in palese, totale svantaggio militare - e ancor più politico - sul fondamentale quadrante della crisi siriana. La situazione paradossale è la conseguenza della strategia obamiana di appeasement con l'Iran. Infatti Putin ha un alleato siriano, Bashar el Assad, che ha ribadito quale unico "dominus" possibile di un processo di transizione, e ha i "boots on the ground", quantomeno a Latakia.
Obama invece non ha nessun alleato siriano, non ha nessun "partito amerikano" in Siria, ed è nella scabrosa posizione di chi ha due alleati, la Turchia e l'Arabia Saudita che gestiscono con spregiudicatezza i loro "partiti siriani", inclusa al Nusra-al Qaida. La debolezza è talmente irreale che lo stesso Assad si può permettere oggi di irridere sprezzantemente Obama: "Sappiamo che la Turchia sostiene il Fronte al Nusra e lo Stato islamico, fornendo loro armi, denaro e volontari. Ed è risaputo che la Turchia ha rapporti stretti con l'occidente.
Recep Tayyip Erdogan e il suo primo ministro, Ahmet Davutoglu, non possono fare una sola mossa senza coordinarsi innanzitutto con gli Stati Uniti e poi con gli altri paesi occidentali". Inchiodato nella palese contraddizione di primo leader del baricentro della Nato, che non è in grado - per proprie deficienze - di impedire che la Turchia, paese Nato, aiuti al Nusra-al Qaida (sul punto Assad ha ragione), Obama sarà costretto a chiedere a Putin di intercedere sull'Iran perché interceda su Assad perché infine si metta da parte. Cosa che né Putin né l'Iran faranno mai. Soprattutto perché - una volta diventato proconsole di
La fallimentare strategia obamiana in medio oriente ha permesso a Putin di sostituire a tal punto il Cremlino alla Casa Bianca in un paese strategico come l'Egitto, che la settimana scorsa il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha deciso di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Siria.
|
Mosca nella regione di Latakia e Tartous - nessuno sarà in grado di detronizzarlo, anche se perde Damasco. Inoltre, la fallimentare strategia obamiana in medio oriente ha permesso a Putin di sostituire a tal punto il Cremlino alla Casa Bianca in un paese strategico come l'Egitto, che la settimana scorsa il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha deciso di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Siria. E' la legittimazione di Bashar el Assad, un suo rafforzamento nella prossima, convulsa fase, da parte del più grande e prestigioso stato arabo - il sigillo del definitivo distacco del Cairo da quella sintonia con la Casa Bianca iniziata da Anwar al Sadat nel 1972, quando cacciò i consiglieri russi che ora ritornano in massa.
Obama dunque, se mai incontrerà Putin, si troverà come mai nessun presidente americano in una posizione subordinata, impotente, priva di alternative perché non ha forze militari, alleati, né strategia sulla Siria. Una posizione subordinata che è la prima, dirompente conseguenza dell'accordo Stati Uniti-Iran sul nucleare. Una posizione di debolezza estrema conseguente alla logica che spinse Obama nel 2013 a fare dietrofront all'ultimo minuto e a siglare con Assad quel ridicolo, scandaloso, accordo sul disarmo chimico. Quell'accordo ha avuto l'unico effetto di riammettere con piena dignità Assad nella platea internazionale, salvo poi permettergli di continuare liberamente a usare armi chimiche a bassa tecnologia con effetti letali sui civili. Una logica obamiana tanto elementare, quanto cinica - e questo ci può stare - quanto perdente - e questo è un crimine - dettata dall'imperativo di non danneggiare gli interessi geopolitici dell'Iran (il cui baricentro è appunto la continuità del regime di Assad in Siria) per non pregiudicare l'accordo sul nucleare. Il tutto avviene nel nome di una "lotta al terrorismo" che non viene combattuta da nessuno dei due leader.
Putin infatti costruisce la sua base a Latakia e dispiega la sua flotta nel palese intento strategico di difendere un mini-stato alawita, annesso di fatto alla Federazione russa, che coroni il sogno secolare di Mosca sin dal tempo degli zar di disporre una testa di ponte russa nel Mediterraneo. Non è previsto l'impiego dei "boots on the ground", dei suoi paracadutisti e dei fanti di marina nel contrasto del terrorismo sugli altri fronti siriani, neanche nella cruciale e imminente battaglia per Damasco. Obama intanto continuerà la sua guerra aerea con bombardamenti che fanno tanto scena, ma che non hanno mai impedito allo Stato islamico e ad al Nusra di aumentare il territorio da loro controllato. Se si entra dentro lo scenario bellico siriano, la posizione in cui Obama si è messo diventa incredibile. Nel suoi due viaggi a Mosca il generale dei pasdaran Qassem Suleimaini ha raffinato una strategia, che, come rivelano le fonti israeliane del Foglio, prevede la suddivisione dei fronti: ai russi la difesa dell'enclave strategica di Latakia e ai pasdaran e Hezbollah la difesa di Damasco. Difesa contro le milizie dello Stato islamico e contro le
Obama non ha mai mosso un dito, né detto una parola, contro il ruolo militare decisivo dei pasdaran e di Hezbollah in Siria e ora paga il prezzo di questo silenzio, motivato dalla volontà di non irritare l'Iran.
|
concorrenti e avversarie milizie dell'Esercito della Conquista (Jaish al Fatah), di cui fa parte al Nusra-al Qaida, sostenuto da Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
Obama non ha mai mosso un dito, né detto una parola, contro il ruolo militare decisivo dei pasdaran e di Hezbollah in Siria e ora paga il prezzo di questo silenzio (sempre motivato dalla volontà di non irritare l'Iran) non solo con la sua totale irrilevanza politico - militare, ma anche con un quesito diabolico. Durante la battaglia di Damasco i suoi bombardamenti aerei chi colpiranno? In ogni caso saranno decisivi pro o contro Assad: se bombarda lo Stato islamico aiuta il dittatore direttamente; se bombarda l'Esercito della conquista, colpisce i terminali siriani di un paese suo alleato nella Nato e dell'Arabia Saudita, fulcro, assieme all'Egitto, dell'intero mondo arabo. Se non bombarda, ammette la sua irrilevanza. Questo è soltanto l'inizio del dispiegarsi delle conseguenze politiche implicite nell'accordo sul nucleare, che è la realizzazione del discorso di Obama del 6 giugno 2009 al Cairo, in cui offrì una "mano tesa" agli ayatollah per definire una gestione concordata del medio oriente. Inizio disastroso a cui seguirà - e sarà interessante verificarle - l'implementazione nel merito dell'accordo sul nucleare con le ispezioni, la attuazione della diminuzione delle centrifughe, dello stock di uranio raffinato eccetera.
E' la riprova, insomma, del fatto che quell'accordo è sciagurato non tanto - o non solo - in sé: è rovinoso sul piano politico. Perché si basa su un giudizio di affidabilità del regime di Teheran - pur smentito da anni dalla destabilizzazione iraniana di Libano, Iraq, Siria e Yemen - non comprendendo quale è la straordinaria natura del regime di Teheran. Regime nato da una rivoluzione popolare che tiene ancora insieme - di fatto armonicamente - Kerensky, Trotzky e Stalin, per fare una citazione di scuola. Là dove la Cina stupisce l'occidente dimostrando di saper far convivere uno Stato autoritario e a pianificazione socialista con una enorme componente di capitalismo non solo libero, ma selvaggio, l'Iran lo spiazza con un nuovo modello di stato rivoluzionario. Un sistema che si regge sull'equilibrio tra la componente riformista e quella tutta e solo dedita alla "esportazione della Rivoluzione islamica, a iniziare da Baghdad", vecchia parola d'ordine di Khomeini. Un regime che mai si adatterà alla parola d'ordine : "La rivoluzione in un paese solo". Con il non piccolo particolare, che sfugge sia a Obama sia alle cancellerie occidentali (e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni) che il nucleo duro del potere, militare e industriale, è saldamente nelle mani della componente rivoluzionaria che sa fare tattici passi indietro quando pensa che fare avanzare la componente riformista, alla fine, ne rafforzerà le possibilità di "esportare la rivoluzione". Come sta accadendo in Iraq, Siria, Libano e Yemen.
(Il Foglio, 18 settembre 2015)
Sempre più Obama appare essere l'uomo destinato ad accelerare la sparizione degli Stati Uniti dal numero delle potenze che contano nell'area che più conta: quella intorno a Israele. E che siano proprio Russia e Iran a subentrare all'ex grande potenza americana, oggi diretta da uno sprovvido Obama, è in linea con le profezie bibliche. M.C.
Amarcord israeliano firmato Natalie Portman
Natalie Portman ha debuttato come regista nel film di cui è anche protagonista "Una Storia di Amore e di Tenebra".
Ispirato al grande romanzo autobiografico dell'israeliano Amos Oz segue le memorie di Amos che ricorda se stesso bambino a Gerusalemme, la fine del mandato britannico in Palestina, l'istituzione dello Stato d'Israele, la guerra d'indipendenza, e soprattutto la madre, morta di depressione prima dei quarant'anni. Portman veste i panni della madre del narratore.
Il film è già stato presentato al Festival di Cannes in maggio in presenza anche dell'ex presidente israeliano Shimon Peres.
Portman che ha scritto anche la sceneggiatura del film, ha girato in ebraico. Il suo personaggio, Fania è una donna colta e fantasiosa anche se terribilmente tormentata e infelice.
L'attrice, nata a Gerusalemme 34 anni fa, da bambina è emigrata negli Stati Uniti.
L'ambiziosa operazione di Portman sembra riuscire solo in parte perchè alla grande intuizione visiva non corrisponde una adeguata intensità emotiva nonostante la materia umana cosi' ricca.
Il film è in distribuzione in Israele ed è in cartellone al Festival di Toronto.
(euronews, 17 settembre 2015)
Watec: nel 2016 arriva a Venezia la Fiera Mondiale delle tecnologie idriche e ambientali
Venezia è stata scelta quale sede espositiva per l'edizione 2016 di WATEC grazie al suo status di capitale mondiale del dibattito sui temi legati all'"oro blu".
La joint venture per l'evento è stata firmata tra ExpoVenice e gli operatori fieristici israeliani Kenes Exhibition, tra i più' importanti gruppi al mondo nell'organizzazione di eventi fieristici e congressuali. L'accordo prevede l'organizzazione presso il padiglione espositivo di ExpoVenice di due manifestazioni fieristiche di riferimento a livello internazionale: Watec dedicata al settore delle tecnologie idriche ed ambientali e Agritech, rassegna su attrezzature e tecnologie per agricoltura.
Grazie a questa joint venture i principali attori del comparto potranno riunirsi per discutere delle principali urgenze e novità e sviluppare occasioni di business. A Venezia, si daranno dunque appuntamento operatori, ricercatori e studiosi per vedere in anteprima le ultime innovazioni in fatto di sistemi d'irrigazione, gestione dell'acqua e controllo dei flussi, qualità e trattamento dell'acqua, sicurezza idrica, monitoraggio e controllo delle perdite, oltre a tecnologie ambientali legate a fonti alternative, biocarburanti, riciclaggio, edilizia verde.
Soddisfatto per l'accordo, Giuseppe Mattiazzo, Amministratore Delegato di Expo Venice: "Grazie ad un'esperienza acquisita nella gestione delle risorse idriche ed all'impegno dedicato dal suo Governo agli studi e agli investimenti in questo settore, Israele, è leader nelle tecnologie legate all'oro blu, di cui detiene il maggior numero di brevetti a livello mondiale. La scelta di Venezia, icona e città unica per il suo legame con l'acqua, quale sede espositiva dell'edizione 2016 di Watec, non può che essere obbligata. Un accordo che ha visto la CNIII (Camera Nazionale per l'Impresa Italia Israele) partner decisivo per la sottoscrizione. Venezia ormai è al centro del dibattito mondiale su questi temi che rispondono alla crescente richiesta di un utilizzo sensibile delle risorse idriche e ambientali. Una opportunità per facilitare il confronto tra aziende che si occupano di acqua, ambiente, energie alternative in cerca di clienti, partners e investitori per sviluppare il proprio business". "Watec - ha aggiunto Mattiazzo - é l'occasione per rafforzare ulteriormente le collaborazioni in campo economico, culturale e industriale tra Israele , il Veneto e Venezia, promuovendo partnership in ricerca, sviluppo e produzioni ad alta tecnologia".
(Greenews.info, 17 settembre 2015)
Tra i progettisti del memoriale della Shoah di Bologna, anche un giovane di Fondi
di Mirko Macaro
Il memoriale della Shoah di Bologna parla anche fondano: tra gli autori del progetto che nelle scorse settimane ha vinto il concorso internazionale per un monumento in ricordo delle vittime dell'Olocausto da collocare nel capoluogo emiliano, c'è un giovane architetto della Piana.
Si tratta di Onorato Di Manno, classe '84, professionista emergente che con il neonato studio capitolino di cui è cofondatore, formato da un affiatato gruppo di progettisti trentenni, ha sbaragliato un'agguerrita concorrenza proveniente da tutto il mondo. "Io e quattro miei colleghi d'università (Andrea Tanci, Lorenzo Catena, Chiara Cucina e Gianluca Sist) ci siano uniti con il nome 'SET Architects' (www.set-architects.com) con l'obiettivo di utilizzare questo concorso come punto di partenza per fondare il nostro studio di architettura", ha spiegato. "E fortunatamente è andata meglio di quanto previsto, abbiamo vinto. Primi su 284 progetti".
Il progetto per il memoriale è stato bandito a gennaio 2015 dalla Comunità Ebraica bolognese in collaborazione con altre realtà cittadine e non, con l'opera risultata vincitrice che verrà realizzata nel prossimo gennaio nella nuova piazza realizzata tra via Caracci e il ponte di via Matteotti, uno dei punti di accesso per la nuova stazione dell'alta velocità. Due blocchi parallelepipedi di oltre nove metri per nove ognuno, accostati simmetricamente, per un monumento dall'aria spettrale: è la rielaborazione in chiave urbana della struttura modulare dei dormitori dei campi di concentramento. Quelle anguste celle, aumentate a dismisura verso l'infinito, a riproporre come un pugno nello stomaco l'orrore della tragedia degli ebrei. Un simbolo della memoria "vivo", dato che lo stretto passaggio tra i due blocchi sarà fruibile ai
visitatori, portati, anche attraverso il rumore di un percorso di sassi pensato per risuonare all'interno della struttura metallica, ad estraniarsi e a immergersi nel ricordo.
"Per noi questa vittoria è stato un motivo di grande orgoglio - ha commentato Di Manno - sia per aver vinto su un numero così alto di partecipanti, ma soprattutto per essere stati selezionati da una giuria presieduta dall'architetto statunitense Peter Eisenman. Uno dei più grandi del nostro tempo, nonché
autore del memoriale dell'Olocausto di Berlino". Un ambito traguardo che porta inevitabilmente il
promettente professionista pontino a guardare avanti: "Spero che questa vittoria sia il trampolino di lancio per la mia futura carriera". Con un sogno nel cassetto. "Ovviamente uno dei miei sogni è quello di realizzare qualcosa di importante nella mia città natale. A Fondi mi piacerebbe realizzare un museo d'arte, un luogo di aggregazione sociale dedicato alla cultura, che spesso è messa in secondo piano".
(h24notizie.com, 17 settembre 2015)
Sozzi piedi ebrei e puro sangue islamico
"La moschea di Al-Aqsa è nostra e lo è anche la Chiesa del Santo Sepolcro. Non hanno diritto di dissacrarle con i loro sozzi piedi. Non permetteremo loro di farlo e faremo tutto il possibile per difendere Gerusalemme". Queste le parole con cui il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha commentato i tentativi palestinesi, sventati dalla polizia israeliana, di impedire a visitatori e fedeli ebrei di recarsi sul Monte del Tempio di Gerusalemme in occasione della recente festività del Capodanno ebraico. Parlando mercoledì nel suo ufficio a Ramallah durante un incontro con attivisti di Gerusalemme est, Abu Mazen ha elogiato gli uomini e le donne il cui compito è quello di molestare i visitatori ebrei sulla spianata del Monte del Tempio. "Ogni goccia di sangue versato a Gerusalemme - ha concluso Abu Mazen - è sangue puro, se è versato per amore di Allah. Ogni shahid (martire) andrà in cielo e ogni ferito sarà ricompensato, per volontà di Allah".
(israele.net, 17 settembre 2015)
Medici israeliani donano la vista a novanta persone del Kirghizistan
Lo scorso mese un gruppo di medici provenienti da Israele ha ripristinato la vista di 90 persone, tra adulti e bambini, del Kirghizistan. Questo successo è parte integrante dell'ambiziosa iniziativa intrapresa dall'organizzazione Eye From Zion.
Eye of Zion è un gruppo di volontariato istituito per fornire assistenza medica alle popolazioni svantaggiate di tutto il mondo. L'organizzazione invia delegazioni di medici professionisti e attrezzature di ultima generazione nei luoghi in cui è richiesto un intervento immediato. Eye of Zion esegue interventi chirurgici insieme alle squadre mediche locali ed istruisce i colleghi del posto sulle moderne tecnologie mediche.
Molti dei pazienti trattati questo ultimo mese in Kirghizistan erano ciechi da anni. La delegazione israeliana, con l'aiuto del Dott. Yonina Ron del team di Oftalmologia Pediatrica dello Schneider Children's Medical Center of Israel, è giunta in Kirghizistan per eseguire procedure complesse come interventi di chirurgia della cornea, chirurgia plastica, rimozione di tumori e cataratta nei bambini.
Il Prof. Dov Weinberger, capo della Divisione Oculistica presso il Rabin Medical Center di Petah Tikva e Direttore medico di Eye of Zion, ha sottolineato:
Mi emoziono ogni volta che una delegazione israeliana usa la propria conoscenza ed esperienza medica per ripristinare la vista delle persone. Molti pazienti rimangono non vedenti perché i medici nei loro paesi non posseggono il know how e gli strumenti moderni per l'esecuzione di questi interventi.
|
|
(SiliconWadi, 17 settembre 2015)
Batteria Iron Dome ad Ashdod
Misura prudenziale per la tensione con i palestinesi.
Una batteria Iron Dome di difesa da razzi è stata dislocata ad Ashdod, a sud di Tel Aviv. Secondo la radio militare israeliana il provvedimento segue la crescente tensione con i palestinesi. Momenti critici potrebbero essere le preghiere di domani nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme e gli sviluppi legati allo sciopero della fame di un esponente della Jihad islamica, Mohammed Allan, che protesta contro arresti amministrativi nuovamente impostigli ieri da Israele.
(ANSA, 17 settembre 2015)
La sfida di Assad all'Europa: "Il caos migranti è colpa vostra"
Il raiss: basta aiuti ai terroristi. E Mosca propone all'America un'alleanza anti-Isis. Hanno detto: In realtà siamo noi gli unici a combattere l'lsis sul terreno. Continueremo a fornire aiuti militari e sostegno ad Assad. Altri Paesi dovrebbero farlo.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Vladimir Putin estende la presenza delle truppe russe in Siria e chiede ad «altre nazioni» di entrare nella sua coalizione anti-Isis. È un'offerta che il raiss di Damasco, Bashar Assad, indirizza in particolare all'Europa: «Per bloccare l'ondata di rifugiati dovete cessare di aiutare i terroristi» abbandonando l'alleanza guidata dagli Usa per aderire a quella del Cremlino.
Putin cerca alleati
Il presidente russo parla da Dushanbe, l'occasione è il summit sulla sicurezza fra sei repubbliche ex-Urss in Tagikistan dove nell'ultimo mese 20 persone sono state uccise dai jihadisti. «Sosteniamo il governo della Siria nella lotta al terrorismo, daremo ed aumenteremo aiuti militari, senza la Siria sarebbe impossibile espellere i terroristi dalla regione - dice Putin, in diretta tv - mi auguro che altre nazioni seguano il nostro esempio, offrendo sostegno ad Assad». L'intento è dunque di trasformare l'intervento in Siria nella genesi di una coalizione.
Assad, appello all'Ue
Nelle stesse ore il raiss di Damasco incontra nella sua residenza i reporter russi, consegnandogli un messaggio: «Se l'Europa è preoccupata per l'ondata di profughi deve occuparsi delle cause, porre fine al sostegno ai terroristi, iniziare a combatterlo al nostro fianco».
La lettura della guerra è cristallina: «A sostenere i terroristi sono Arabia Saudita, Qatar e soprattutto la Turchia di Erdogan, espressione di un partito con l'ideologia dei Fratelli Musulmani, che si propone di creare un Sultanato dall'Atlantico al Mediterraneo». L'errore di «Francia e Usa» è di «coprire questo progetto» con l'intervento militare che a parole si propone di combattere Isis «ma in realtà aiuta i terroristi».
L'accusa centrale è agli Usa: «Usano il terrorismo come una carta politica, prima con Al Qaeda in Afghanistan contro l'Urss e ora con Al Nusra e Isis contro di noi». Russia e Iran invece «ci aiutano a combattere Isis» assieme all'Iraq «che ha problemi analoghi» e dunque l'Ue può unirsi alla nascente coalizione. Anche perché Assad promette «accordi con ogni forza politica» e «il rispetto di ogni etnia, curdi inclusi». Ovvero, non lascerà il potere «sotto pressione» ma è disposto ad alcune concessioni. Truppe russe a Hama
A dare consistenza all'iniziativa politica di Putin e Assad c'è l'estensione della presenza russa in Siria. Fonti dell'opposizione descrivono ai media libanesi l'arrivo di «15 autobus di soldati» nel Club Equestre di Hama «trasformato in caserma» e di «10 autobus con esperti militari» all'hotel Al-Nawair, divenuto il loro quartier generale. Per il giornale «Al-Watan», filoregime, «hanno consegnato 15 tonnellate di aiuti umanitari» ma l'opposizione ritiene che i russi vogliamo blindare Hama per impedirne la caduta nelle mani dei ribelli in arrivo da Nord.
Missili a Latakia
I militari russi sono arrivati a Hama da Latakia, dove stanno accumulando tank, blindati, artiglieria, radar e fanteria navale. Lavorano alla realizzazione di piste ed hangar per jet ed elicotteri che consentiranno operazioni aeree e terrestri. Jeffrey White, ex analista del Pentagono, prevede l' «imminente arrivo» di missili terra-aria SA-22 per proteggere i cieli. Fonti militari Usa ritengono che Putin stia accelerando i tempi per avere un «contingente credibile sul terreno» quando parlerà dal podio dell'Onu, a fine mese, presentandosi da leader dell'unica coalizione anti- Isis che dispone di contingenti di terra.
Netanyahu al Cremlino
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu la prossima settimana sarà al Cremlino per discutere con Putin «le minacce che ci vengono dall'incremento del flusso di armi sofisticate in Siria che possono finire nelle mani di Hezbollah ed altri gruppi terroristi». Israele chiede garanzie a Mosca che la nascente coalizione non rafforzerà i suoi nemici regionali. Per Putin significa poter dialogare sulla Siria tanto con l'Iran che con Israele. A conferma che l'intervento a Latakia, ancora nelle sue fasi iniziali, sta già cambiando la mappa strategica regionale.
(La Stampa, 17 settembre 2015)
Reykjavik boicotta i prodotti israeliani
Il consiglio comunale di Reykjavik, capitale dell'Islanda, ha votato una mozione di boicottaggio dei prodotti israeliani, avanzata da un rappresentante socialdemocratico. Lo riferiscono i siti israeliani che citano 'Iceland Magazine' secondo cui la decisione del boicottaggio resterà in vigore fintanto che "continua l'occupazione dei Territori Palestinesi".
La mossa del comune definisce la mozione "un atto simbolico" a sostegno dello Stato palestinese e una condanna della "politica israeliana di apartheid".
Il portavoce del ministero degli affari esteri israeliano, Emanuel Nachson, citato da Ynet, dopo aver ricordato che Israele è l'unica democrazia del Medio Oriente ha detto che "un vulcano di odio è esploso nel palazzo del comune di Reykjavik. Non c'è ragione o giustificazione per questa mossa".
(Corriere del Ticino, 16 settembre 2015)
Esercito israeliano: presto lo Stato islamico cercherà di colpire lo Stato di Israele
GERUSALEMME - Lo Stato islamico cercherà presto di colpire Israele. Lo ha dichiarato il comandante del battaglione Sagi dell'esercito israeliano, colonnello Yehuda Hacohen, in un'intervista all'emittente delle forze armate. Secondo il militare il cui battaglione opera sul confine egiziano, il Cairo potrebbe riuscire a sconfiggere lo Stato islamico nel Sinai entro due anni, ma i terroristi cercheranno senza dubbio di colpire Israele in anticipo. Per Hacohen è "solo una questione di tempo" e finora il gruppo Ansar Beit al Maqdis, che da novembre 2014 ha giurato fedeltà al sedicente Califfato non ha compiuto attacchi proprio perché impegnato negli scontri con i militari egiziani.
"La decisione di non lanciare attacchi terroristici contro Israele è razionale, infatti le forze dell'Is si stanno concentrando oggi sulla lotta contro l'Egitto e preferiscono non aprire un altro fronte e ancora di più un fronte con Israele. Sanno che il prezzo che dovrebbero pagare sarebbe pesante", ha detto Hacohen. Tuttavia, l'ufficiale dell'esercito israeliano sostiene che la quiete al confine con l'Egitto non durerà a lungo.
Hacohen ha ricordato che il sogno dell'Is è quello di lanciare un attacco Israele e "tale azione prima o poi arriverà", sottolineando che le sue forze si stanno preparando a reagire ad un'azione che potrebbe giungere in qualsiasi momento. Secondo il comandante "a giudicare dalla ferocia degli attacchi che avvenuti nella provincia del Sinai contro le forze di sicurezza egiziane, una potenziale azione contro Israele avrà l'obiettivo di generare danni ingenti. "Oggi lo Stato islamico attacca le basi egiziane cercando di uccidere il maggior numero di militari e noi ci stiamo preparando ad un'azione simile", ha sottolineato Hacohen, ammettendo inoltre la possibilità che membri delle forze armate o civili vengano presi prigionieri.
Nonostante il successo delle operazioni dei terroristi nel Sinai, Hacohen ha dichiarato che probabilmente le forze di sicurezza egiziane riusciranno a sradicare lo Stato islamico: "Gli egiziani stanno rafforzando la loro presenza nell'area e tali misure miglioreranno l'efficacia della loro offensiva contro le organizzazioni terroristiche. L'Egitto non ha altra scelta che reprimere lo Stato islamico e penso che in un anno o due riuscirà a sconfiggere questa organizzazione.
(Agenzia Nova, 16 settembre 2015)
Champions League: il Chelsea risorge, Maccabi spazzato via
La squadra di Mourinho vince 4-0 a Stamford Bridge.
In piena crisi di gioco e risultati in Premier League, il Chelsea ritrova il sorriso in Champions battendo 4-0 il Maccabi Tel Aviv a Stamford Bridge: Hazard sbaglia subito un rigore, poi vanno a segno Willian (15'), Oscar (altro rigore al 49' pt), Diego Costa (58') e Fabregas (78'). Nell'altra sfida del Girone G finisce 2-2 tra Dinamo Kiev e Porto: per gli ucraini segnano Gusev e Buyalskyy, i portoghesi replicano con una doppietta di Aboubakar.
Pronti, via e per Mourinho arriva un'altra doccia gelata: al 6' Willian si procura un calcio di rigore ma Hazard lo spreca mandando il pallone in tribuna. Ma per i Blues il vantaggio è solo rinviato di pochi minuti. Siamo al 15' quando Willian lascia partire una punizione velenosa dai 25 metri: il pallone rimbalza in piena area e si insacca sotto la traversa sorprendendo Rajkovic. Lo stesso Willian è costretto a lasciare il campo per un problema muscolare: al suo posto Mou getta nella mischia Diego Costa (24'). Ed è proprio il brasiliano, in chiusura di tempo, a guadagnarsi il secondo rigore (fallo di Ben Haim). Sul dischetto stavolta va Oscar che spiazza Rajkovic per il 2-0 Chelsea. Diego Costa è scatenato e al 58' firma il tris con una spettacolare girata al volo di destro su cross di Fabregas: per lui è il primo gol in Champions con i Blues. Il poker lo cala Fabregas al 78' con un tocco a porta vuota dopo una corta respinta di Rajkovic su tiro di Remy.
(Sportmediaset, 16 settembre 2015)
Reggio Emilia - Presentazione del libro "La lettera a Hitler. Storia di Armin Wegner"
Giovedì 17 settembre, alle ore 17.30, nella Sinagoga di Reggio Emilia (via dell'Aquila 3), si terrà la presentazione del libro di Gabriele Nissim 'La Lettera a Hitler. Storia di Armin Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento'.
Introduce Mirco Carrattieri di Istoreco.
Il libro racconta la storia esemplare di uno dei "giusti" del Novecento.
Johanna, una studentessa universitaria in cerca di un'occupazione a Roma, legge un giorno del 1965 sul Messaggero un'inserzione: "Poeta tedesco cerca segretaria tedesca". Poco dopo essere assunta, il sedicente poeta, di nome Armin Wegner, le detta una lunga lettera in difesa degli ebrei che avrebbe scritto e spedito nel 1933 a Hitler, e le chiede di inviarla a centinaia di indirizzi tedeschi fra cui quelli di alcuni giornali. Johanna è convinta di aver di fronte un millantatore, ma dovrà ricredersi quando, tornata in Germania, si mette a indagare sul suo datore di lavoro, ripercorrendo così passo passo la vita coraggiosa di Armin Wegner, scrittore e strenuo difensore dei diritti umani, riconosciuto dagli armeni come "giusto " per essere stato uno dei primi a denunciare il dramma del loro popolo: il genocidio del 1915-16. Quello stesso riconoscimento Armin lo aveva ricevuto nel 1967 anche in Israele, con un albero nel giardino dei giusti di Yad Vashem, proprio per la lettera al Furher e la denuncia delle leggi antisemite che gli costarono l'arresto da parte della Gestapo e l'internamento nel lager di Oranienburg.
In questo coinvolgente racconto biografico, Gabriele Nissim ci restituisce la vicenda umana e politica di un uomo che non ha mai smesso di interrogarsi e interrogare il popolo tedesco sulla Shoah e il senso di colpa collettivo.
Gabriele Nissim (Milano 1950), saggista, ha fondato nel 1982 «l'ottavo giorno», rivista italiana sul tema del dissenso nei paesi dell'est europeo. Per le reti di Canale 5 e della Svizzera italiana ha realizzato documentari sull'opposizione clandestina ai regimi comunisti, sui problemi del postcomunismo e sulla condizione ebraica nei paesi dell'Est. Ha collaborato con il «Mondo», «Il Giornale» e il «Corriere della Sera». Da Mondadori ha pubblicato Ebrei invisibili (con Gabriele Eschenazi, 1995), L'uomo che fermò Hitler (1998), Il tribunale del bene (2003), Una bambina contro Stalin (2007) e La bontà insensata (2011).
L'iniziativa è ad ingresso gratuito e senza obbligo di prenotazione.
(Reggio nel Web, 16 settembre 2015)
Netanyahu il 21 settembre da Putin: teme che le armi russe finiscano agli Hezbollah
Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha confermato che il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarà a Mosca per incontrare il presidente Vladimir Putin il prossimo 21 settembre. L'occasione sarà per discutere di relazioni bilaterali ma anche di Siria, dopo la richiesta formulata da Tel Aviv di un colloquio per affrontare il tema della presenza di addestratori russi in Siria, come pure della fornitura di armi e di equipaggiamenti all'esercito di Bashar al-Assad. Per Netanyahu tali forniture potrebbero finire nelle mani sbagliate ( o comunque comportare un aumento delle spedizioni di armi ai jihadisti da parte dei sostenitori del gruppo terrorista.
La preoccupazione del premier israeliano è in particolare che le armi possano finire agli Hezbollah libanesi, nemici giurati di Israele e nel conflitto siriano alleati di Damasco: già in passato i caccia israeliani hanno colpito convogli di armi che dalla parte della Siria controllata da al-Assad erano diretti in Libano.
Nonostante esista non da oggi a Tartus, sulla costa siriana, una base militare russa fornita di navi, sottomarini, lanciamissili e mezzi vari, il primo vice capo di stato maggiore russo Nikolai Bogdanovsky ha riferito oggi in una conferenza stampa che "Al momento non c'è il piano" di una base militare aerea in Siria, "Ma tutto può succedere".
(Notizie Geopolitiche, 16 settembre 2015)
Torino - Gli ebrei e l'Italia moderna
di Alice Fubini
I diversi flussi migratori che portarono gli ebrei in Italia, la loro condizione una volta sbarcati nella Penisola, la costruzione dei ghetti e le complesse relazioni tra realtà ebraica e mondo esterno. Sono alcuni dei punti al centro dell'analisi del libro di Marina Caffiero, docente di Storia Moderna alla Sapienza, "Storie degli ebrei nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione" (ed. Carrocci, 2014), presentato al Museo Diffuso di Torino. All'incontro, moderato da Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso hanno preso parte, tra gli altri, Gianmaria Ajani, Rettore dell'Università degli Studi di Torino, Giovanni Filoramo, docente di Storia del Cristianesimo dell'Università di Torino e Claudio Vercelli, storico e ricercatore presso l'Istituto Salvemini.
Il volume, ad oggi oggetto di tre ristampe, è da considerare a tutti gli effetti un libro di storia dell'Italia Moderna, che parte analizzando la condizione degli ebrei italiani o giunti in Italia in seguito a fenomeni migratori, ponendo in particolare l'accento sulla nascita, o come dice l'autrice "l'invenzione" dei ghetti, sulle conseguenti relazioni tra ebrei e il mondo esterno e sul ruolo specifico del papato in tale panorama.
L'autrice sembra partire da una storia di minoranze per poi tesserla con quella più generale, uscendo così dalla sterile convinzione che l'analisi legata ad una minoranza, come in questo caso quella ebraica, vada scissa dalla cosiddetta macro-storia dell'intera Penisola e in parte della stessa Europa.
Lo stesso concetto è stato ripreso da Gianmaria Ajani, sostenendo che le espansioni e le contrazioni legate ai fenomeni migratori delle comunità ebraiche presenti sul territorio italiano hanno contribuito a definire la storia stessa della Penisola, proprio perché hanno costituito un "respiro continuo".
Giovanni Filoramo ha poi posto l'accento sul tema delle relazioni che si andavano a creare sia dentro che fuori dai ghetti, fino al punto di parlare di creazioni di veri e propri networks transnazionali, legati ai fenomeni compresenti e coagenti di connessine e di mobilità.
Segue l'intervento di Claudio Vercelli, in cui riconosce al libro della Caffiero "la linearità incontrovertibile propria della narrazione storica, tanto da renderlo un tentativo di dare spessore alla categoria socio-culturale della modernità italiana". Inoltre analizza il contenuto attraverso due dicotomie che finiscono per aprire un sipario sulla realtà attuale. Da una parte i concetti di mobilità e stanzialità che vanno a definire i mutamenti del territorio e dei gruppi medesimi che lo occupano, dall'altra i fenomeni di inclusione ed di esclusione che richiamano il fondamento stesso della cittadinanza. "Il testo - sostiene Vercelli - è propedeutico alla comprensione del nostro presente che ha urgenza di essere ricostruito più del passato".
La storia concepita come un unicum costituisce la base stessa del libro, spiega l'autrice, che ha cercato di far dialogare la storia delle minoranze con quella delle maggioranze per richiamare il concetto, tutt'altro che utopico, di storiografia unica, per garantire alla storia stessa l'appellativo di scienza. "Il discorso pubblico della storia - conclude l'autrice - non è solo trasmettere contenuti nuovi, ma anche dare chiavi per intervenire nel presente". La storia, per definizione passata, ci permette così di definire i chiaroscuri del nostro presente molto più indecifrabile del passato. È sul presente che possiamo agire davvero, è il presente l'unico tempo che ci riguarda e di cui siamo profondamente responsabili.
(moked, 16 settembre 2015)
Gli scritti di Kafka appartengono allo Stato d'Israele
Il tribunale di Tel Aviv ha deciso: le opere di Franz Kafka sono di proprietà dello Stato di Israele. La sentenza appena conclusa ha così respinto la richiesta di restituzione degli scritti kafkiani avanzata da Eva Hoffe, figlia di Esther Hoffe, la segretaria di Max Brod, amico e biografo di Kafka.
Riordiniamo le idee e i fatti: Franz Kafka muore nel 1924 e prima di spirare lascia tutte le sue pagine, molte delle quali inedite, all'amico Max con la chiara indicazione di bruciare tutto il materiale cosa che, fortunatamente per i posteri, il biografo non fece, portando con se tutti gli incartamenti, un tesoro letterario di inestimabile valore, quando fuggì in Palestina nel 1939. Alla morte di quest'ultimo, nel 1968, tutti gli scritti di Kafka, non ancora resi pubblici, passarono a Esther Hoffe che a sua volta li trasmise alla figlia Eva. E' a questo punto che il tribunale israeliano obbliga la donna a depositare tutte le carte alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme.
Eva Hoffe è costretta così a separarsi da un prestigioso tesoro, fatto di incartamenti privati, lettere di Kafka indirizzate a grandi autore europei contemporanei, allo scrittore boemo, come Thomas Mann o Stefan Zweig, taccuini con esercizi di scrittura ebraica e appunti di vita quotidiana. Tra il materiale prezioso c'è anche una pima stesura del racconto 'Preparativi di nozze in campagna' e una bozza de 'Il castello', oltre a brani iniziali dell'opera, incompiuta, 'Riccardo e Samuele'.
L'intera controversia era nata a suo tempo in seguito al testamento, poco chiaro, di Maw Brod in cui si legge che l'intero archivio Kafka "doveva preferibilmente essere messo a disposizione di un istituto culturale ebraico". Detto fatto, tutte le carte sono state requisite dallo Stato israeliano e conservate presso la Biblioteca nazionale. Per contro, Eva Hoffe ha sempre sostenuto di essere l'unica erede del patrimonio di Brod, più volte offerto in vendita dalla donna, al governo di Tel Aviv. Alla fine il tribunale ha emesso la sua inappellabile sentenza: l'eredità di Kafka appartiene a Israele.
(Italy Journal, 16 settembre 2015)
Il parlamento europeo vota per marchiare i prodotti agricoli israeliani di Giudea e Samaria
di Dimitri Buffa
I prodotti agricoli israeliani provenienti dalla Giudea e la Samaria, considerati contesi con i palestinesi e quindi classificati come "colonie", dovranno avere una scritta che ricordi nell'etichetta questa origine. Era dai tempi della Germania hitleriana che le manifatture e i prodotti agricoli degli ebrei non ricevevano una simile sorta di marchio d'infamia. Adesso ci ha pensato il parlamento europeo, con 525 voti a 70, a macchiarsi di questa stupida infamia ideologica, oltretutto perpetrata contro lo stesso parere dei palestinesi.
Che lavorano a migliaia nelle aziende agricole dei cosiddetti coloni in Giudea E Samaria. Ma la spiegazione, come si diceva, è tutta interna ai contorcimenti della sinistra europea: la proposta, portata avanti da Federica Mogherini e ereditata dalla sua collega Catherine Ashton, è infatti un cavallo di battaglia degli attivisti del BDS movement, "boycott, disinvestment and sanctions", gente per lo più della ultra sinistra europea che porta avanti da anni una campagna di boicottaggio verso tutti i prodotti israeliani. E anche verso i professori universitari ebrei.
Cosa che fa urlare il governo di Gerusalemme all'anti semitismo mascherato. Il voto del parlamento europeo risale a giovedì e oggi ne dava notizia entusiasta "il manifesto", giornale sempre pregiudizialmente anti israeliano. Il paradosso di tutto però, come si accennava, è che i tremila lavoratori palestinesi assorbiti nell'agricoltura della Giudea e della Samaria, con questo scherzetto rischiano di rimetterci il posto. Specie se la campagna del Bds, coniugata con le etichette dissuasive della Ue, facessero crollare il mercato dei datteri e degli altri prodotti agricoli israeliani che provengono da Giudea e Samaria.
Ad aprile l'ex ministro degli esteri Avigdor Liebermann, quando fu calendarizzata la cosa al parlamento della Ue, ironizzò dicendo che già che c'erano i funzionari della Ue "potrebbero metterci sopra una stella gialla". Due anni fa quando colei che precedette la Mogherini come miss Pesc, Catherine Ashton, iniziò il lungo cammino di questa scellerata proposta, venne a Bruxelles addirittura una delegazione dell'Anp pregando la stessa Ashton di non coltivarla.
Tre delegati mandati da Abu Mazen in maniera informale che fecero presente in via riservatissima alla Ashton che era meglio lasciare perdere per le possibili ricadute negative sui palestinesi in termini occupazionali. Ma quando c'è di mezzo l'ideologia anti israeliana la Ue ha spesso dimostrato di non volersi mai fermare: così adesso è stata la Mogherini a continuare sul solco aperto da lady Ashton portando a casa questo bel risultato.
(L'Opinione, 16 settembre 2015)
Dal Corriere della Sera del 22 luglio 2015: "«Chi ritiene di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro»: il presidente del Consiglio Matteo Renzi è intervenuto alla Knesset, il Parlamento israeliano, nel corso della sua visita a Gerusalemme. «Possiamo avere opinioni diverse - aggiunge - ma l'Italia sarà sempre in prima linea contro ogni forma di boicottaggio sterile e stupido». Dopo il discorso al Parlamento, il premier Renzi si è spostato nei territori dove, a Betlemme, ha incontrato il presidente dell'Anp, Abu Mazen." Dopo di che, forse ispirato dal leader palestinese, ha deciso comportarsi in modo "sterile e stupido": nel parlamento europeo ha fatto votare l'Italia a favore del boicottaggio di Israele caldeggiato dall'Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri Federica Mogherini, da lui fortemente voluta in quel ruolo. M.C.
Israele - Acqua per conservare energia rinnovabile
La startup israeliana H2 Energy Now ha sviluppato un dispositivo rivoluzionario per conservare energia, compresa l'energia rinnovabile, utilizzando l'acqua.
Il problema alla base dello sviluppo di questa tecnologia è semplice: l'energia rinnovabile oggi, dipende da sole, vento e dalle onde del mare (per l'energia idroelettrica). Pertanto, quando è buio, non c'è vento o il mare è calmo, la produzione di energia è in stallo. Le aziende conservano l'energia rinnovabile prodotta
utilizzando l'elettricità che proviene da fonti fossili! Quindi il processo non è propriamente ecologico al 100%.
Ed è in questo panorama che si inserisce H2 Energy Now. La fondatrice Sonya Davidson spiega:
Ci siamo resi conto che la soluzione è nell'acqua, se solo riuscissimo ad utilizzarla per immagazzinare l'energia.
|
|
La tecnologia è basata su una caratteristica dell'acqua: quando l'acqua riceve energia, idrogeno e ossigeno, che la compongono, si dissociano. Il processo di dissociazione è realizzato grazie a delle onde radioelettriche e l'idrogeno recuperato produce l'elettricità necessaria ad immagazzinare l'energia prodotta dai pannelli solari, dalle turbine eoliche e dai meccanismi di energia idroelettrica.
Nel mese di giugno, la startup è stata invitata a presentare la rivoluzionaria tecnologia in Svizzera, al Forum sulle alte tecnologie organizzato da Eureka, l'organizzazione di ricerca e sviluppo dell'Unione Europea. Molte aziende hanno espresso interesse per H2 Energy Now e sono interessate a commercializzare questa innovazione, anche per il grande pubblico.
(SiliconWadi, 16 settembre 2015)
Le libertà occidentali si difendono a Gerusalemme
Quali sono i veri motivi degli scontri sul Monte del Tempio a Gerusalemme? Certo, la terza intifada interessa a parecchi, ma le ragioni sono più semplici: se cade Gerusalemme cade l'occidente.
Cosa c'è veramente dietro agli scontri sempre più violenti che avvengono ormai quotidianamente sul Monte del Tempio (o come lo chiamano erroneamente i musulmani e certi medi italiani, "la spianata delle moschee") a Gerusalemme? Semplice, c'è uno scontro prettamente religioso dove c'è una religione, l'Islam, che si arroga il Diritto di dichiarare un luogo come "santo" e di loro esclusiva pertinenza a dispetto della santità storica, quella vera, che quel luogo rappresenta per l'ebraismo e il cristianesimo....
(Right Reporters, 16 settembre 2015)
Champions League - Gli Eurorivali: Maccabi Tel Aviv, il mago serbo e tanta inesperienza
di Damiano Bezzi
Sorteggio fortunato ma inizio difficile. In questo momento nessuno vorrebbe giocare il turno infrasettimanale in una situazione così ma forse è l'occasione giusta per ritrovare la testa, gli equilibri e anche la condizione che sembra non sia all'altezza. Il sorteggio ha concesso un girone semplice e sfruttarlo per riprendere il giusto cammino forse è il piano nella testa di tutti nel club.
Il calcio in Israele
Il nostro caro pallone è arrivato veramente dappertutto e la sfera è molto popolare anche in questo angolo di Asia che si appoggia in Europa. La storia del football israeliano è particolare, la nazionale si è qualificata una sola volta al Mondiale, Messico 70', e ha vinto una Coppa d'Asia. Nonostante oggi sia affiliata alla UEFA fino al 1974 la federazione è stata affiliata alla confederazione asiatica, dopo l'espulsione per più di dieci anni il calcio ha vissuto un momento di stallo potendo giocare solo le qualificazioni al mondiale ma senza poter giocare alcuna coppa continentale. Dal 1994 sono entrati nella UEFA e da allora abbiamo iniziato a conoscere anche Tel Aviv e lo stadio Bloomfield.
Il Chelsea si prepara all'esordio in Champions League, la squadra di Mourinho è una delle candidate alla vittoria finale a patto che torni sui livelli della passata stagione. L'allenatore portoghese preferirebbe non accogliere gli avversari per lavorare con la sua squadra e risolvere i problemi; prima della sfida di campionato con l'Arsenal. La partita non è così scontata e un turnover leggero potrebbe essere effettuato da parte del portoghese che potrebbe anche scoprire alcuni dei suoi ultimi acquisti.
I gialli di Tel Aviv
21 campionati nazionali, gli ultimi 3 consecutivi, e 2 Champions League asiatiche. Il Maccabi Tel Aviv è chiaramente il club più titolato d'Israele, mai retrocesso in seconda divisione ma con sole 2 partecipazioni alla Champions League. Il club dopo una lunga storia di manager israeliani, tra cui Avram Grant, negli ultimi 3 anni sta cercando di portare coach internazionali: dopo gli iberici Oscar Garcia, Paulo Sousa e Pako Ayestaran è il turno del mago Slavisa Jokanovic. Ex calciatore dei Blues il serbo dopo la breve esperienza al Watford il mago serbo è atterrato in Israele e subito ha lasciato il segno con la storica qualificazione alla fase a gironi, la 2a nella storia del club. Il manager è un giramondo, dopo i titoli in patria e l'esperienza tailandese sono arrivate tre brevi esperienze in Bulgaria, Spagna e Inghilterra. La squadra è praticamente formata da soli israeliani più 5 stranieri, le regole federali infatti limitano la presenza di stranieri in rosa. Nonostante tutto questo solo il 33% degli abitanti di Tel Aviv tifano questo club che è anche il secondo più popolare del paese.
Grant e i magnifici 90'
Abbiamo già parlato di Grant, che per 8 anni (91-95, 96-00) ha allenato il club israeliano ma anche direttore tecnico e allenatore del Chelsea. Per i Maccabi Fanatics il manager rappresenta uno dei momenti migliori, a 36 anni venne chiamato a guidare la squadre di Tel Aviv mossa che segnò per sempre il calcio israeliano. 2 campionati, una coppa nazionale, 2 coppe di Lega formando un mix di stranieri e giovani israeliani molto interessanti tra cui Avi Nimni la cui numero 8 è stata ritirata dopo il suo addio al calcio. Grant però è anche uno dei pochi ad aver fatto un treble al contrario: nel 2007 diventò caretaker del Chelsea, dove era arrivato essendo un amico di Abramovich, e in quella stagione arrivò secondo in tre competizioni. In League Cup fu il Tottenham a rovinare la festa Blues, poi arrivò il 2o posto in campionato e infine sempre il Manchester United rovinò l'anno del manager israeliano con la vittoria nella finale di Mosca aiutata dalla dea bendata sul calcio di rigore di Terry. Comunque resterà nella storia essendo stato il 1o e per ora l'unico insieme a Di Matteo ad aver raggiunto la finale di Champions League con il club inglese.
Prima a Stamford Bridge
Le due squadre non si sono mai sfidate, il Maccabi ha giocato 3 match in campionato ottenendo 7 punti. La formazione israeliana dovrebbe scendere in campo così: Rajkovic; Shpungin, Haim, Garcia, Tibi, Ziv; Alberman, Mitrovic, Rikan, Zahavi; Basat. Zahavi è senza dubbio la stella della squadra, il centrocampista è talentuosissimo e dopo essere stato protagonista con la nazionale ha confermato di essere in forma: nelle ultime 10 partite ha segnato 7 gol, contribuendo anche al passaggio nei play-off contro il Basilea, i 3 gol israeliani nelle due partite portano tutti la sua firma.
La partita
Giocare bene per riprendere fiducia. Falcao è in dubbio, Courtois fuori ma non ci sono scuse. Il Maccabi giocherà per prendere punti e quindi non ci aspettiamo un atteggiamento molto offensivo (abbiamo disegnato un 5-3-2) ma il talento del capitano Zahavi deve essere tenuto a bada; i Blues potrebbero proporre anche qualche volto nuovo che potrebbe essere utile per una rinascita. Segnare, vincere e convincere senza i dubbi e gli errori dell'ultima settimana e magari cercando di spendere il minimo indispensabile.
(UK Premier, 16 settembre 2015)
P.E.T. Engineering vola in Israele
La trevigiana P.E.T. Engineering ha ridisegnato le bottiglie PET utilizzate dalla società israeliana Prigat per confezionare succhi di frutta.
Dopo essere stata la prima a proporre al mercato locale prodotti senza additivi e conservanti, Prigat ha deciso l'anno scorso di rafforzare il proprio posizionamento attraverso un completo rebranding che esplicitasse il forte legame che unisce i suoi succhi con i colorati e succosi frutti presenti in natura.
P.E.T. Engineering è stata chiamata ad allineare la nuova immagine con il packaging che, con la sua sezione quadrata e la mancanza di elementi visuali distintivi, risultava obsoleto, visivamente appesantito e poco maneggevole durante la fase di versamento.
Ridisegnando la forma della bottiglia, i designer dell'azienda di San Vendemiano (TV) hanno voluto porre l'accento sulla dimensione della naturalità prendendo spunto dalle linee morbide e dalla rotondità della frutta con cui i succhi vengono realizzati.
Nasce così la nuova bottiglia, alta e slanciata, "polposa e ricca al tatto" grazie alle decorazioni dal profilo arrotondato che corrono lungo il corpo e che lasciano, al centro, una superficie diritta che favorisce la presa della bottiglia e offre un ampio spazio etichetta per la comunicazione del brand.
La bottiglia, sviluppata nei formati 0,5 e 1,5 litri, riempita in asettico, implementa la soluzione brevettata Sunbase che evita l'estroflessione del fondo dovuta all'utilizzo di azoto in fase di riempimento e assicura stabilità in linea e sulla tavola del consumatore.
Il nuovo design riduce anche il carbon footprint di ogni bottiglia, grazie al 20% di risparmio di materiale plastico rispetto al precedente formato a sezione quadra.
(Polimerica, 16 settembre 2015)
Notizie archiviate
Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse
liberamente, citando la fonte.
| |